1989 Quattro anni erano passati dal primo viaggio come turista in Perù, e durante questo periodo la voglia di tornarci era cresciuta a ritmo esponenziale. Era ora, quindi, di tornarci. La guida Perù-Bolivia, SUGARCo Se Edizioni, mi costò quattordicimila lire. Non avevo definito alcun itinerario, smarrito dalla quantità di luoghi che mi sarebbero piaciuti visitare e costretto, ovviamente, a fare una scelta limitata al mese di permanenza. La guida, pensavo, mi avrebbe aiutato a chiarire le idee. Iniziai a sfogliarla in maniera metodica. A pagina 144 ebbi l'illuminazione. Riporto testualmente: “Da Juanjui, che è una piccola cittadina coloniale, si può organizzare una spedizione verso le rovine del Gran Pajaten: una giornata in battello e due giorni di marcia nella foresta. Queste rovine sono eccezionali: scoperte recentemente in piena foresta, furono costruite prima della dominazione incaica nelle Ande. Le costruzioni, di forma circolare, sono molto originali e sulle pietre dei muri sono rappresentate spesso figure umane ornate di piume e condor.” Chi ha scritto questo ignorava molte cose e, sicuramente, al Gran Pajaten non c'era mai stato, ma quello che a me importava era la notizia: si poteva arrivare alla città perduta di Gran Pajaten. Per capire meglio si rende necessario fare un salto indietro nel tempo. Correva l'anno 1972. Nel distretto di San Miguel si teneva la “Feria del Pacifico”, importante evento a cui partecipavano molti paesi dell'America Latina. C'erano mostre, convegni, esposizioni artigianali, spettacoli: uno di questi era l'opera rock Judascristo. Scritta dal padre Manuel Duato Gomez-Novella, conosciuto come “Padre Quitapenas”, era interpretata da Elena Cortez, cantante, attrice e ballerina, famosa in TV per lo “Show de Elena”. L'opera mi piaceva molto, c'era buona musica, belle coreografie, belle ragazze e, soprattutto, la bellissima Elena. Susy Fuentes, fiera del Pacifico 1972 Io con Minolta e Mamiya, Elena Cortez nel ruolo di Maria redazione del CORREO, 17 marzo Maddalena, nell’opera rock 1973 Judascristo Ci andavo spesso e gratis: “prensa” (stampa) era la parola magica: mi spacciavo per giornalista e non pagavo il biglietto. Scattai molte foto (per la cronaca: usavo la mitica Kodak TRI-X tirata a 3.200 ASA e sviluppata per quindici minuti in D-76). Elena vide le foto e le piacquero. Divenni quasi il suo fotografo ufficiale. 1 Mi presentò alla redazione del Correo, un quotidiano la cui sede si trovava al N° 1249 dell'avenida Wilson, a due passi da dove abitavo. Il 25 marzo 1973, su Suceso, il supplemento domenicale, venne pubblicata una doppia pagina centrale “a todo color” con una mia intervista, accompagnata da una dozzina di foto, più un trafiletto con un'immagine in bianco e nero di Elena. Visitai un bel po' di edicole per fare incetta di supplementi da mostrare con orgoglio ad amici e parenti. Tra le fotografie pubblicate ce n'era una di mio fratello scambiato per “un indio che suona la quena al tramonto” e una di Susy, la mia amichetta di allora, ritratta tra le rocce de La Chira, splendida spiaggia a sud di Lima. Con l'illusione di entrare al Correo come reporter spesi una cifra spropositata per acquistare una Mamiya C330, una 6x6 biottica con obiettivo intercambiabile. Con giovanile entusiasmo, in attesa della tanto agognata assunzione, frequentavo assiduamente la redazione. Durante una di queste visite assistetti a un inconsueto evento. È necessario fare un ulteriore, piccolo, passo indietro: alcune settimane prima, sul supplemento domenicale, era uscito un articolo in cui si parlava di una spedizione alla città perduta di Gran Pajaten. Si metteva in evidenza l'importanza del sito archeologico, si faceva un po' di storia della scoperta e si parlava delle difficoltà incontrate dalla spedizione per arrivare sul luogo: una lunga camminata tra le Ande, torrenti da guadare, sentiero nella selva da aprire a colpi di machete. Il servizio era corredato da parecchie fotografie. Ritorniamo alla redazione del Correo: quel giorno, seduti sul pavimento assieme a un giornalista, c'erano due partecipanti alla spedizione. Avevano dispiegato una grande mappa e stavano rimarcando una delle tante complicazioni incontrate: i rilievi effettuati da una spedizione anteriore erano sbagliati: la città perduta si trovava a circa quaranta chilometri dal punto precedentemente segnalato. Un aereo aveva dovuto girare in cerchio per ore fino a dare col luogo esatto dov'era finita la loro spedizione! Una città perduta! Un sogno! Quanto mi sarebbe piaciuto visitarla! Attraversare le Ande, guadare torrenti, aprirmi il passo a colpi di machete fino a contemplare i misteriosi edifici che facevano capolino tra la fitta vegetazione! Tutto finì lì. Pochi mesi più tardi facevo le valigie e, assieme ai miei, tornavo in Italia. Il sogno, comunque, era rimasto latente e la guida, quel giorno del '89, l'aveva risvegliato. Decisi: la città perduta di Gran Pajaten sarebbe stata la mia meta! C'erano da risolvere, però, alcuni problemi: come arrivarci? Quanto tempo sarebbe stato necessario? E poi il periodo era assai delicato: Sendero Luminoso e l'MRTA insanguinavano il paese con attentati e continui attacchi. Che situazione avrei trovato sul posto? Cominciai a organizzarmi. Fonte preziosa fu il N° 22 della “Enciclopedia Nacional Basica” dedicata alla regione di San Martin dove, tra fotografie impaginate capovolte e grossolani errori, molto spazio era dedicato alla città perduta. Lessi avidamente, specialmente la parte riguardante la spedizione denominata Rupa Rupa/80 organizzata dalla fondazione Ligabue. Il libro “Antisuyo ultimo sogno Inca”, edito da Erizzo, costò ottantamila lire. Non poco, ma il libro li valeva. C'erano molte fotografie e, soprattutto, un'ampia documentazione circa la spedizione Rupa Rupa/80. In pratica, però, non apportava niente di nuovo a quanto già letto sull'Enciclopedia Basica. Il 4 gennaio, sul Mattino di Padova, venne pubblicato un articoletto il cui titolo diceva: Inflazione record in Perù, millesettecentoventidue per cento nel 1988. Il 20 gennaio acquistai duemila dollari: a milletrecentosettantatrè lire il totale fu di due milioni settecentoquarantasettemila lire. Il 5 maggio andai all'agenzia viaggi per sondare costi e date. Ci ritornai l'8 e il 9 per confermare. Il 12 versai trecentomila lire come anticipo sul biglietto. La partenza venne fissate per il 10 agosto da Malpensa, con la compagnia Canadian Pacific. L'arrivo a Lima era previsto per l'11. Da Lima sarei ripartito il 22 settembre e arrivato a Milano il 24. Il 18 scoprii di essere in lista d'attesa. Il volo era pieno fino a Toronto. Il 25, con mia grande 2 soddisfazione, l'agenzia mi confermò il volo. Sarei partito! Alcuni giorni dopo un articolo sul giornale attirò la mia attenzione: l'8 giugno, alle 21.30, a Padova, nel locale della caffetteria Intimo, si sarebbe tenuta una proiezione di diapositive dal titolo: “Lo sviluppo delle civiltà precolombiane in Perù”. Sarebbe intervenuto l'archeologo Yuri Cavero Palomino. Quale miglior occasione per avere informazioni? La proiezione era dedicata ai lavori in corso nella zona archeologica di Cahuachi. Al termine abbordai l'archeologo e gli esposi il mio progetto. « Vai pure, non ci sono problemi » mi rispose. « La zona è tranquilla. » Tornai a casa tutto contento. Se l'aveva detto uno del mestiere... Il 30 giugno un cliente della ditta in cui lavoravo mi regalò un paio di scarponi della Asolo, color grigio topo, bellissimi, assolutamente adatti ai cammini che immaginavo di dover percorrere. Cominciai ad attrezzarmi: picchetti in plastica, più leggeri, per sostituire quelli in metallo. Un materassino gonfiabile (era ancora ben vivo nella mia memoria quanto fosse scomodo dormire sulla nuda terra), rullini fotografici, un piccolo registratore, spray impermeabilizzante per la tenda (poteva piovere durante la spedizione), regali per gli amici, medicine, ecc. ecc. Mi premunii per tempo di avvisare gli amici Ada e Robero Naranjo del mio arrivo. Il 10 luglio saldai il conto del biglietto aereo: un milione duecentocinquantamila lire. ventiquattromila lire mi costò il bollo sul passaporto. Il 29 luglio telefonai alla Fondazione Ligabue nella speranza di avere informazioni dettagliate, ma mi fu risposto che il signor Ligabue era partito per una spedizione in Asia. Il 7 agosto l'agenzia mi consegnò il biglietto. Lo zaino era pronto, potevo partire. Giovedì 10 agosto Sveglia poco dopo le 5 del mattino. Veloce colazione e in macchina, accompagnato da mio fratello, fino alla stazione di Padova. duecento lire per pesare lo zaino: sono circa 24 chili, speriamo non mi facciano pagare l'eccesso di peso! Faccio il biglietto per Milano: tredicimilaquattrocento lire più quattromilacento per il supplemento rapido. Il treno parte e arriva in orario. Gli autobus per Malpensa partono di fianco alla stazione centrale, il biglietto costa settemila lire, c'è un po' di ressa per caricare i bagagli. Lungo la strada troviamo coda, l'autobus procede a passo d'uomo; nonostante tutto arriviamo in tempo. Al check-in lo zaino pesa 24,9 chili ma non mi fanno alcun problema, le formalità sono minime e veloci, mi accomodo all'interno del Boeing 767. Alle 13,57 l'aereo rulla sulla pista e alle 14.03 si libra sopra la pianura. È previsto un volo di nove ore a una quota di 10.500 metri e alla velocità di 800 k/h. Sorvoleremo Parigi, Glasgow e la Groenlandia. Attraverseremo l'oceano Atlantico, poi passeremo sopra il Labrador e la città di Ottawa. Alle 14.54 viene servita un'aranciata e alle 15.25 arriva il pranzo: tagliatelle, carne, fagiolini, insalata con cetrioli, pomodori, uovo e olive. Non mancano pane, burro, un formaggino Bel Paese e, per finire, una mousse al cioccolato. Un po' di vino e mi sento a posto. Sono le 16.41: si accendono gli schermi e parte la pubblicità per la merce acquistabile presso il 3 duty free shop dell'aereo. Dopo la pubblicità inizia il film: “Chi ha incastrato Roger Rabbit” in versione inglese e francese. Il film finisce alle 19.13. Alle 20.06 le hostess consegnano un modulo da compilare per la dogana canadese. Sotto di noi si estende l'Atlantico: guardando fuori dal finestrino avvisto alcuni iceberg, briciole bianche sulla superficie blu scuro dell'oceano. Sono le ore 20.55, mancano ancora due ore all'arrivo e viene servita la colazione: un panino con formaggio, uno con prosciutto e fettina di pomodoro, una pastina e una tazza di te. Atterriamo a Toronto alle 21.05 (17.05 ora locale). Lunga fila all'immigrazione e per il bagaglio, più di un'ora e mezza! Aspettando la coincidenza per Lima vado su e giù per l'aeroporto, poi, dopo minuziosi controlli della sicurezza, alle 19.16 mi accomodo in sala d'attesa per il volo delle 23.30. Alle 23.35 m'imbarco sul DC 10. Venerdì 11 agosto Ore 00.9, l'aereo rulla sulla pista e alle 00.18 decolla. La durata del volo prevista è di sette ore e quarantacinque minuti, si volerà a una quota di 10.000 metri. All'una servono la cena: petto di pollo con insalata, uova e pomodoro ripieno con gamberetti, pane, burro, macedonia, una pastina e succo d'arancia. Meglio di così... Si accendono gli schermi: pubblicità e, ancora, “Chi ha incastrato Roger Rabbit”. Data l'ora la proiezione ha poco seguito. Non è il solo motivo. Ho già detto che la situazione del Perù è piuttosto tragica. I fanatici di Sendero Luminoso si sono proposti di eliminare il turismo dal paese in modo da chiudere una notevole fonte di entrate. E sembra ci siano riusciti: nell'aereo siamo in dodici e io sono l'unico turista! Sorvolado il Perù all'alba Le cime delle Ande sbucano dalle nuvole Sveglia alle 6.05. Passano le hostess portando una salviettina rinfrescante e la colazione: pane, burro, marmellata, pomodoro, involtino di prosciutto, porzione di qualcosa che assomiglia al riso, macedonia di anguria e melone, te con latte. Il volo prosegue tranquillo. É l'alba. Il cielo violetto s'illumina d'oro quando spunta il sole. Sotto, da una coltre di nubi compatta e candida, spuntano le cime scure delle Ande. L'aereo si abbassa e s'immerge nelle nuvole. Il cielo chiaro dell'alba sparisce. Fuori c'è un nulla grigio, sembra di essere immobili. L'aereo scende e, lentamente, il grigiore si dissolve. S'intravvedono, fugacemente, pezzi di costa sabbiosa e, a tratti, un mare cenere solcato dalle lunghe scie delle onde. Uno scossone segnala l'uscita del carrello. Ora, sotto di noi, sfilano baracche color della terra, rettangoli verde spento dei campi, lunghe strade semideserte. Improvvisamente eccoci sulla pista d'atterraggio: di lato si scorgono elicotteri e aerei militari, lunghi edifici, cisterne di carburante. Le ruote stridono al toccare terra, i motori frenano, l'aereo rallenta la corsa. Siamo atterrati. Il mio orologio segna le 7.30. Difficile descrivere cosa provo: come la volta precedente ho la sensazione di essere tornato a casa. La coda all'immigrazione è lunga, ci sono i passeggeri di altri voli; in compenso la dogana è inesistente. Nell'enorme salone affollato mi aspetta Jeanett. Di Roberto nessuna traccia. Non mi preoccupo più di tanto: la puntualità non è certo il punto forte dei peruviani. Ne approfitto per 4 cambiare 30 dollari. È sparito il “sol de oro”, ora, c'è l'inti (sole, in kechua). Cambio lo stretto necessario perché il cambio ufficiale è sempre più basso rispetto al nero... la cosa curiosa è che il nero è ufficiale, con tanto di quotazione sui giornali e in TV. Il cambio è di 1 dollaro per 3.200 inti), per i 30 dollari mi danno, quindi, 96.000 inti. Devo prendere confidenza con le nuove banconote: su quella da 10 inti, con fondo rosso, giallo e blu è stampata la faccia dello scrittore Ricardo Palma, autore de “Las tradiciones peruanas. Non ho mai letto quei libri ma, prima o poi dovrò assolutamente farlo. La banconota da 50 Inti, di color arancione, è dedicata a Nicolas de Pierola, due volte Presidente del Perù. Il ritratto del Gran Mariscal Ramon Castilla, pure lui Presidente del Perù per due volte, appare invece sulla banconota marroncina da 100 inti. Il viso spigoloso di indio di José Gabriel Condorcanqui Tupac Amaru, eroe della ribellione contro gli spagnoli, è inciso sulla banconota da 500 inti. Il maresciallo Andres Avelino Caceres, organizzatore della resistenza peruviana nelle Ande e terrore delle truppe cilene, guarda pensoso dalla banconota da 1.000 inti. I 5.000 inti celebrano l'ammiraglio Miguel Grau, eroe della guerra del Pacifico. Non è finita qui. L'inflazione galoppante rende necessarie banconote di taglio maggiore. Sui 10.000 inti c'è il volto del poeta Cesar Vallejo, quella da 50.000 mostra il viso del fondatore del'APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) Victor Raul Haya de la Torre. A Francisco Bolognesi, celebre per la frase “Lucharemos hasta quemar el ultimo cartucho” pronunciata davanti al generale cileno che, durante la battaglia di Arica, gli intimava di arrendersi, è dedicata la banconota da 100.000 inti. Ancora Ricardo Palma sulla banconota da 500.000. Infine, su quella color vinaccia da 1.000.000 di inti, il volto triangolare del medico Hipolito Hunanue. Undici banconote in totale, poi le monete da 5 e un inti e quelle dei centesimi! Hostal Renacimiento Lima: la Colmena (a dx) e la Wilson (a sx) Tetti di Lima Lima: la Colmena e la piazza S. Martin Di Roberto ancora nemmeno l'ombra. Comincio a preoccuparmi. All'improvviso mi chiamano dall'altoparlante. È Ada, una delle sorelle di Roberto. Mi precipito al banco del telefono ma la linea è caduta. Ada ha lasciato un numero, ma non riesco a richiamarla. Con Jeanett lascio l'aeroporto. 5 Il taxi mi costa 15.000 inti; il tassista mi porta fino all'Hostal Renacimiento (Parque Hernan Velarde 52-54), da lui stesso consigliato per la qualità e, mi assicura, i prezzi. In effetti l'hostal non è niente male. È un edificio grigio, di due piani, a pianta un po' a mezza luna; lo stile è quello dei primi del '900. Grande portone ad arco, finestroni abbelliti da frontoni al piano terra, finestre con arco a tutto sesto al primo piano e terrazzino centrale con bifora. Giardino piccolo ma curato. Sotto le finestre del piano terra ci sono aiuole con rose e gerani. Un albero di papaya dal tronco sottile e la chioma di grandi foglie verde scuro svetta fino al primo piano. Siamo in una zona molto tranquilla, a due isolati dall'avenida Arequipa, a uno dalla 28 de Julio. Camminando bastano dieci minuti per arrivare alla Plaza de Armas. La camera è luminosa e il letto sembra promettente, ma Jeanett fa cambiare subito le lenzuola. Esco assieme a lei. Il tempo è quello caratteristico di Lima: uggioso. Cielo grigio, nebbiolina, umidità alle stelle, aria satura di gas di scarico. Andiamo al teatro Segura, a trovare suo fratello Pepe, il quale ci consiglia di passare una serata in un locale caratteristico dove si mangia “criollo” e ci sono spettacoli di danze popolari: il “Piqueo Trujillano”. Salutiamo Pepe e andiamo a pranzo alla Confiteria d'Onofrio (Pasaje Olaya 145). Mentre mangiamo ci accorgiamo di essere attentamente osservati da un paio di bambini: col naso schiacciato alla finestra non si perdono un boccone di quanto mettiamo in bocca. Jeanett si impietosisce e allunga loro la bistecca; io faccio altrettanto, giusto in tempo prima che un cameriere li cacci via; siamo in vista della Plaza de Armas, in fondo c'è il palazzo del Governo e a destra la Cattedrale. Il conto è di 29.850 inti. Finito il pranzo andiamo a fare visita al signor Rabino, dopodiché prendo un micro per l'Instituto Geografico Nacional (av. Aramburu 1190-1198). Voglio procurarmi la cartografia della zona del Pajaten, di Lima e di Cusco. Il micro costa 1.400 inti e, purtroppo, arrivo tardi: l'istituto chiude alle 16.30. Lima: al fondo il cerro San Cristobal Lima: plaza San Martin Lima di notte:, l'avenida Tacna L'avenida Wilson o Garcilaso de la Vega Alla sera, con Jeanett, ceno al Kachito's (av. Garcilaso de la Vega 1314). La cena costa 14.800 inti. Stiamo tornando a piedi all'hostal quando incrociamo Lucho, un suo secondo fratello, il quale abita 6 lì vicino e c'invita a casa sua per un “cortado”, una miscela di pisco e coca-cola. Sabato 12 agosto Sveglia alle 8 e sostanziosa colazione con burro, marmellata, uovo, succo di papaya e quattro fette di pane tostato. Pago 30.400 inti. Il conto del pernottamento è di 30 dollari, che fanno la bellezza di 96.000 inti. Caspita, mica poco! Per i prossimi pernottamenti urge meno lusso! Alle 11.05 arrivano Roberto, Ada e il suo compagno Alfredo. Chiacchieriamo un po' e alle 12.35 Roberto mi lascia davanti al teatro La Cabaña dove mi attende Jeanett. Con lei, verso le 13, sono a pranzo dal signor Rabino. Entro, dopo circa sedici anni, nell'edificio dove vivevo. Più grigio, più brutto e sporco. Grafiti dentro l'ascensore, intonaci scrostati. Dalla finestra del diciannovesimo piano scatto alcune panoramiche di Lima. Vista dall'alto la città ha un aspetto assai particolare. I tetti piatti, grigi per la polvere, ospitano pollai, baracche di legno, depositi di spazzatura, file e file multicolori di panni stesi. Ringraziato il signor Rabino per l'ospitalità, assieme a Jeanett faccio un giro per Lima. Non è cambiata molto, in verità. L'aggettivo che più gli si confà, almeno per quanto riguarda la parte chiamata “Lima cuadrada”, è “fatiscente”. La Colmena non è più luminosa come una volta, molti negozi importanti sono spariti, i marciapiedi sono sempre sporchissimi e intasati dagli ambulanti che vendono le merci più disparate. Interno del palazzo delle poste La stazione ferroviaria Desamparados La chiesa di San Marcelo è stata dipinta di rosa, la Plaza San Martin è incorniciata da edifici color cioccolato, la stazione di Desamparados è stata dipinta di verde scuro, la cattedrale è color giallo ocra, il palazzo del governo continua a esibire un triste color grigio ed è circondato da autoblindo e guardie armate. Ocoña è sempre una stradina maleodorante, ma nella parte che costeggia il celebre hotel Bolivar ospita il mercato del cambio nero. Proprio di fronte a una banca decine di “cambistas” propongono a turisti e locali cambi più favorevoli. Sotto gli occhi indifferenti di vigili, poliziotti e guardia civil comprano e rivendono dollari, guadagnando sulle fluttuazioni della moneta. Qui, più che altrove, c'è una certa sicurezza anche se, avvertono le autorità, le banconote false sono sempre in agguato. Seduto sui gradini di una ripida scala di legno interna, lontano da sguardi indiscreti, cambio mille dollari. Il cambista mi consegna banconote di piccolo taglio perché, mi dice, in giro c'è carenza proprio di quelle e i negozianti faticano a dare il resto se si paga con tagli grossi. Accetto per buona la spiegazione e inizio a contare i soldi. Ma è un'operazione disperata, me ne accorgo subito: sono pacchi e pacchi di banconote per un totale di 3.285.000 inti. Ci rinuncio, voglio fidarmi del cambista, il quale continua a passarmi mazzette. Riempio le tasche del giubbotto, i taschini della camicia, i capienti tasconi dei pantaloni. Tasche interne e tasche esterne traboccano di soldi: sembro Paperon de Paperoni. Chiudo ben bene la lampo della giacca a vento ed esco in strada. Breve sosta 7 in un locale della zona per un tè e una gelatina di frutta (7.906 inti) poi, in taxi, accompagno Jeanett alla compagnia Roggero perché domani deve tornare a Trujillo. La corsa in taxi costa 8.000 inti. A casa di Ada c'è una sorpresa: è arrivata anche la sorella Eva col bambino. Eva non è cambiata molto, sempre carina, magrolina, ha i capelli meno biondi (tinti adesso o tinti allora?). É sposata e vive in Venezuela; il bambino ha pochi mesi. Si tratterrà a Lima solo per pochi giorni. Ceno assieme agli amici con riso e braciola. Da sinistra a destra: io, Roberto, Eva col bambino, Ada, Roxana, Alfredo La casa degli amici Domenica 13 agosto Brutto tempo, ma questo a Lima d'inverno è la normalità. Esco poco dopo le otto e cammino fino all'av. Arequipa. Sono circa venti isolati. In Arequipa prendo il bus n° 2 fino all'av. Tacna. Il biglietto costa 350 inti. Passeggio per il centro, scattando foto agli edifici: Plaza de Armas, le poste centrali, dove di domenica si ritrovano i filatelici per scambiare francobolli, il jiron de la Unión, ora chiuso al traffico, e occupato da una grande quantità di ambulanti. Di domenica mattina, però, c'è poca gente. Mi individua subito come italiano un certo Roberto. Tipo magro, faccia un po' da sorcio, sottili baffetti e numerose otturazioni in oro. Fa l'imbianchino e, alla domenica, arrotonda il magro stipendio trafficando con ragazzine di quindici e sedici anni. Penso che potrebbe essere interessante fare un servizio sulla prostituzione minorile: potrei tentare di venderlo a qualche rivista in Italia. Mi dà appuntamento per domani alle 18, di fronte al cinema Bijou. Alle 11.35, in Plaza de Armas ho appuntamento con Jeanett. Andiamo fino alla chiesa di San Francisco e da lì all'avenida Abancay dove prendiamo l'autobus 39 fino a San Borja. La “Peña” Piqueo Trujillano si trova al 1958 dell'av. San Luis. Nel locale si servono piatti tipici della cucina peruviana e ci sono spettacoli di danza e musica. Si esibisce una formosa cantante nera, il lungo vestito d'argento in cui è inguainata mette in grande evidenza le curve. Ripropone canzoni di Lucha Reyes, famosi vals come “Limeña”, “La flor de la canela” e, ovviamente, “José Antonio”. La cantante coinvolge nello spettacolo anche i presenti e tutti si divertono. Segue una serie di danze tipiche della costa, interpretate dalla compagnia “Así es mi Perú”. Bravissimi ballerini. La coppia che interpreta un “tondero” sembra imitare un combattimento di galli, tanto frenetico è il ritmo. Mi propongo di contattare il direttore, signor Tulio Gallia P. per poter fare qualche foto al gruppo degli artisti. Monumento a Pizarro Ordiniamo “cebiche”, pisco e birra. Il conto è di 42.480 inti, più 8 altri 26.508 per le bibite. Un taxi ci porta fino all'av. Abancay dove, alle 21.30 Jeanett parte per Trujillo. Mi avvio a piedi fino all'av. Tacna (sono soltanto otto isolati), qui prendo un taxi che per 5.000 inti mi porta alla casa di Roberto. Rimango fino alle 23 chiacchierare con Ada e Alfredo. Lunedì 14 agosto Sveglia, veloce colazione e subito salgo su un “micro” per l'Instituto Geografico Nacional. Nell'ufficio “servicio y asesoramiento cartografico” sono disponibili mappe in scala 1/100.000. Prendo la 15f Cajamarca, la 24i Chancay, 24j Chosica, 24k Matucana, 24l Oroya, 25i Lima, 25j Lurin, al prezzo di 6.300 inti cada una. Poi il pezzo forte, quello che più mi interessa: la 16w Pataz. La guardo con attenzione. Non è molto recente, è stata stampata solo quattro anni prima, ma da rilievi fotografici effettuati tra il 1962 e il 63. Trovare Pataz è, comunque, abbastanza semplice. In tutta la mappa, che riproduce una superficie di 3.054,44 chilometri quadrati, è uno dei sei paesi di una certa importanza e, quindi, colorato in rosa. Gli altri sono Curgos, Sarin, Chugay, Sartibamba e Pias. Con dito tremante parto da Pataz e seguo il zig zag di un sentierino diretto verso est e che, purtroppo, s'interrompe sul bordo della mappa. Studio, in basso, il diagramma dell'ubicazione: la 16w si trova giusto al centro, alla sua destra c'è la 16i. Chiedo la 16i. L'ufficiale mi guarda sconsolato: non c'è la 16i, la devono ancora stampare, mi dice. Peccato. Chiedo la cartografia relativa alla zona di Machu Picchu. Non c'è nemmeno quella, ma si può avere una cianografia. Piuttosto di niente va bene anche una cianografia. Me la fa: gli do un'occhiata, qualcosa non va: perché la ferrovia s'interrompe poco dopo Machu Picchu? Dovrebbe proseguire fino a Quillabamba! Il mistero è presto risolto: sotto, a sinistra, leggo: “Compilación y dibujo por el Instituto Geografico Militar Lima 1955! È vecchia di trentaquattro anni! Esco col malloppo sotto il braccio; il tutto mi è costato 56.400 inti. Torno in Manuel Gonzales per depositare le mappe, poi, zainetto in spalla, esco, prendo un autobus, scendo in 28 de Julio e mi reco negli uffici della Canadian Pacific per posticipare la partenza al 30 settembre. Assolto l'obbligo, penso di andare alla Molitalia per salutare gli ex colleghi di lavoro. Prima, però devo acquistare un quadernetto su cui scrivere gli appunti. Lungo l'avenida Uruguay ci sono molti ambulanti, uno dei quali vende articoli di cancelleria. Per 300 inti compro quanto mi serve. Me ne sto andando quando mi si avvicina una signora, la quale mi avverte che qualcuno mi ha sporcato la maglietta. Abbasso lo sguardo e, abbastanza schifato, noto come un buontempone si sia divertito a vuotare un tubetto di dentifricio (verde, per la cronaca, al mentolo?) sull'indumento. La signora mi consiglia di levarmi lo zainetto e, nel contempo, mi allunga un paio di salviettine per ripulirmi. Poi mi saluta perché, dice, ha molta fretta. In quell'attimo ho un brutto presentimento: abbasso guardo e ho un tuffo al cuore: lo zainetto è sparito. Dentro ci sono le macchine fotografiche, obiettivi, il registratore, persino il biglietto aereo. Un momento di panico, poi afferro saldamente la signora per un braccio e minaccio di portarla in commissariato. Sorpresa e forse spaventata dalla mia reazione cerca di divincolarsi. Non mollo e comincio a trascinarla verso la strada, dove penso di trovare un poliziotto. La signora si spaventa ancora di più; con voce piagnucolosa mi assicura che lei non c'entra: il ladro, mi dice, è lì davanti... Alzo la testa e scruto tra la folla che va su e giù per il marciapiedi. Eccolo là, il lestofante! Di schiena, nasconde lo zainetto tenendolo sul petto, ma non si accorge che le cinghie azzurre, dondolando a destra e a sinistra, lo tradiscono. Spintono, poco cavallerescamente, di lato la signora e mi precipito verso il ladro. Il disgraziato, probabilmente, ha altri complici nelle vicinanze, quindi non mi faccio scrupolo di distribuire spintoni a quanti incontro sul mio cammino. Sono a pochi metri alle spalle del ladro quando questi mi sente, si gira, suppongo veda la mia espressione tutt’altro che amichevole, sgrana gli occhi, molla lo zaino e se la da a gambe, inseguito dai miei coloriti insulti (in spagnolo, ovviamente). Rinuncio, per il momento, ad andare alla Molitalia; compero un po' di cartoline da spedire ad 9 amici e parenti (6.000 inti) e vado dal signor Rabino per una ripulita. Mi fermo lì per il pranzo. Presso Photos S.A. (jiron Pablo Bermudez 111) faccio sviluppare due rullini. Ho qualche problema con una Minolta e voglio essere certo che le diapositive siano correttamente esposte. I rullini mi vengono consegnati poco dopo: le diapositive sono OK. Una richiesta strana: mi hanno chiesto se le volevo intelaiate. Certo che sì! Quando mai non si intelaiano le dia? Almeno in Italia questa è una domanda che nemmeno si pone. Pago 30.000 inti per i due sviluppi ed esco tranquillizzato. Più tardi, per 5.000 inti, un taxi mi porta fino alla Molitalia. Il portone d'entrata è protetto da reticolati, la garrita della portineria è protetta da un vetro scuro e sul tetto c'è una guardia armata di fucile. Chiedo di entrare per far visita ai miei ex colleghi. Una voce mi ordina di infilare un documento in una fessura. Dopo un po' mi fanno passare. Al laboratorio di chimica ritrovo Guido Cavassa e la signora Helvia. Poi arrivano Mamani e Valdivia. Rimaniamo a ricordare i vecchi tempi fino alle 16, poi prendo un altro taxi e raggiungo il centro. Le due corse mi costano 10.000 inti. Incredibile ma è spuntato il sole. Approfitto per scattare foto alla Plaza de Armas, Plaza Bolivar, alla stazione, alla chiesa di San Francisco e ai militari di guardia al palazzo del Governo. Per le vie di Lima Una via di Lima All'almacen La Piramide S.A Ltda (Arzobispo 2260), in un negozio di ferramenta, per 10.000 inti, compro mezzo metro di rete a maglie sottili; l'idea è quella di avvolgere lo zaino in modo da scoraggiare quanti pensino di tagliarlo per impossessarsi del contenuto, cosa assai frequente lungo certe strade della città. Di fianco alla chiesa di San Francisco si trova la Casa de Pilatos, attuale sede della “Casa de la Cultura”. Vorrei chiedere informazioni sul Gran Pajaten, ma è chiusa. Non mi scoraggio. Attraverso tutto il centro fino alla sede di Foptur (Unión 1066): è l'ufficio dove si possono ottenere informazioni turistiche. Gli uffici di Foptur si trovano nell’edificio dove una volta c'era il rinomato ristorante Tambo de Oro. Purtroppo anche qui trovo chiuso. Per strada, mentre m'intrattengo a parlare con due turisti svizzeri, vengo avvicinato da un ragazzo. Si presenta come Fernando Alayo, sedicente archeologo e collezionista di banconote. Mi chiede se posso procurargli qualche banconota italiana in cambio di vecchie banconote peruviane. Gli rispondo che potrebbe interessarmi una banconota da 500 soles degli anni ‘60-‘70. Rimaniamo d'accordo di trovarci domani alle 18. Alle 18.45, mentre sto tranquillamente passeggiando per la Unión m'imbatto in Roberto, il sorcio. Andiamo a cena all'Haiti Coffee, angolo Plaza de Armas, dietro al monumento equestre di Pizarro. Pisco e cebiche, conto di 24.000 inti; 19.000 li metto io, 5.000, con gesto signorile, li mette lui. Prendiamo un taxi per Breña (5.000 inti), alle 20 abbiamo appuntamento in un Chifa con un certo Pedro Duran, procacciatore di minorenni. Il losco Pedro chiede 300 dollari per fare delle foto a cinque ragazze. Troppi soldi, ci penserò. Me ne vado in un bus, scendo in Abancay, m'incammino verso la Tacna. Passando per la Colmena mi attira l'insegna del Tabarin, locale notturno quasi sotto l'edificio in cui abitavo. Entro con 10 l'intenzione di parlare col direttore. Voglio informarmi se si possono scattare fotografie durante gli spettacoli. Appena entrato mi si avvinghia una gentile donzella; con voce flautata m’invita a sedere a un tavolo e amabilmente conversare. Mi sono appena seduto e devo ancora sistemare la sedia e già un solerte cameriere, rapido come un fulmine, ha riempito due bicchieroni di Coca Cola. Mi alzo incazzato. Mai e poi mai ordinerei una Coca Cola! Per tutta risposta il cameriere mi porta il conto: 40.000 inti! Col cavolo che pago! Pianto un mezzo casino, chiedo ancora di parlare col direttore e finalmente ci riesco. Dico che sono lì solo per chiedere informazioni e che non è quello il modo di trattare i clienti. Il direttore si mostra molto conciliante: strappa il conto e si dichiara favorevole a possibili foto durante gli spettacoli. Per 4.000 inti un taxi mi porta fino a Manuel Gonzales; la radio trasmette musica messicana, l'autista canterino canta con entusiasmo sopra le canzoni di Tatiana e Ana Gabriel, cantanti messicane. Martedì 15 agosto Esco verso le 9, il bus n°2 mi porta in centro e vado subito da Foptur. Per il Gran Pajaten, m'informa una gentile signorina, non ci sono problemi, anzi, recentemente dovrebbero averlo visitato un paio di turisti austriaci e persino un italiano. Dei turisti austriaci, però, non si è più saputo nulla: potrei cercare loro notizie? Si tratta dei signori Wolf Dieter Shubert e Peter Gold. In questi giorni, poi, al Pajaten c'è la spedizione di una università del Colorado che sta studiando le rovine. Mi sento sollevato ma, per sicurezza, vado anche alla Casa della Cultura. Magari serve qualche permesso scritto. Alla Casa della Cultura scuotono la testa. Impossibile visitare il Gran Pajaten, sostengono: si trova in zona rossa, cioè zona controllata dai terroristi e non si rilasciano permessi turistici. Insisto, ma non c'è niente da fare. Mi consigliano, comunque, di parlare con l'architetto Eulogio Tapia, presso il Museo Nacional, ex Ministerio de Pesqueria, ex Banco de la Nación. Mi scrivono l'indirizzo: Javier Prado oeste 2465, piso 6. Salgo su un taxi: il luogo si trova abbastanza lontano. La corsa costa 6.000 inti e il taxi mi scarica in Javier Prado. Trovo il 2465: un anonimo condominio, niente che assomigli a qualche museo o a un ex Ministero della Pesca né, tanto meno, a una ex Banca Nazionale. Scorro più volte le etichette sui campanelli nella speranza di scoprire qualche indicazione, ma niente da fare. Cerco un telefono per chiamare la Casa della Cultura e avere spiegazioni, ma l'unico telefono che trovo è guasto. Riprendo un taxi (altri 6.000 inti). Ormai, però, è quasi mezzogiorno e mi fermo a pranzo dal signor Rabino. Alla Casa della Cultura ci vado subito dopo aver pranzato: l'impiegato guarda il foglio sul quale ha scritto l'indirizzo e sorride: c'è un piccolo errore, dice: non è oeste (ovest), ma este (est)... ossia alcuni chilometri dalla parte opposta! Nuova corsa in taxi, altri 6.000 inti e finalmente arrivo al Museo de la Nación, mostruoso blocco di cemento grigio. Un recente attentato con un'auto bomba ha mandato in frantumi i vetri, al loro posto ci sono fogli di compensato. L'aspetto esterno è alquanto apocalittico, l'interno si potrebbe definire tenebroso. Riesco a raggiungere l'ufficio dell'architetto, al sesto piano. Sono le 14.45. La segretaria, alla quale spiego succintamente le intenzioni di visitare il Gran Pajaten, mi comunica che l'architetto Tapia lavora fino alle 15 e che quindi è tardi... « Come tardi! » protesto « Manca ancora un quarto d'ora! » « È tardi! » ribatte irremovibile la segretaria. « L'architetto non riceve. In ogni caso non è lui che rilascia i permessi, ma un altro. Poi c'è una commissione che si riunisce di venerdì per decidere se concedere o meno il permesso... che viene concesso esclusivamente per motivi di studio. Inoltre il parco dell'Abiseo è chiuso al turismo e, in più, il governo ha dichiarato la regione zona rossa, in quanto controllata dai guerriglieri dell'MRTA. » Ce n'è per mettersi a piangere. Torno mestamente in centro (altri 6.000 inti per il taxi) e scendo in 11 piazza Grau. Cammino per la Unión e mi fermo alla libreria Epoca dove acquisto quattro cartoline (1.200 inti). Proseguo per la Unión, senza una meta precisa, intento a fare piani per i prossimi giorni quando m'imbatto nel Fernando il quale, evidentemente, bazzica nella zona (c'è Foptur, vicino) in attesa di turisti a cui chiedere banconote. In cambio di cinquemila lire mi da una vecchia moneta da cinque soles e mi promette una banconota da 500 soles degli anni 60-70. Mi chiede come mi trovo in Perù. Gli confesso di essere alquanto deluso e gli racconto della mia frustrazione per quanto riguarda la sfumata visita al Gran Pajaten. Con mia grande sorpresa si dice disposto ad aiutarmi. Per parlare meglio ci accomodiamo dentro a un localuccio lì vicino; io prendo un tè, lui un caffè. Appassionato di archeologia vanta amicizie con Kaufman Doig e altri archeologi di fama. Mi racconta la storia del Pesce Grande e di quello Piccolo. L'evento risale agli anni 30-40. Siamo nei paraggi di Santiago de Chuco, qualche decina di chilometri a est di Trujillo. La zona è desertica, montagnosa, con scarsissima acqua. In queste terre, nel IX secolo dopo Cristo, si è sviluppata la civiltà Mochica. Grandi costruttori di piramidi di fango i mochica si distinsero anche per i loro superbi lavori in oro (proprio di quest'anno è la scoperta del favoloso tesoro di Sipán). I mochica, dunque, plasmarono due pesci con l'argilla e li ricoprirono d'oro, poi li custodirono in una specie di labirinto o tempio sotterraneo, su altari circondati d'acqua, considerandoli, presumibilmente, divinità protettrici del prezioso elemento. Negli anni 30-40 un gruppo di tombaroli sta scavando alla ricerca di tesori nascosti. Gli uomini scavano nella speranza di diventare ricchi, senza alcun rispetto né preoccupazione per quanto possono trovare o distruggere. Ed ecco che la loro sete d'oro viene appagata: scoprono un cunicolo, scovano il pesce piccolo e lo fanno a pezzi per impossessarsi dell'oro... ma la loro gioia è di breve durata: scatta la vendetta o, forse, una ben studiata trappola. La terra frana e seppellisce i violatori, tutti, tranne uno, che si salva a malapena. Racconterà questa storia a Fernando molti anni più tardi quando, vecchio e malato, sentirà che la sua ultima ora sta per giungere. « ¿Que pasó con tus compañeros? »indagherà Fernando. « Se los tragó la tierra... » « ¿Viste el pez pequeño? ¿Como era? » « Hermoso... era hermoso » risponderà l'uomo e queste, pare, siano state le sue ultime parole. Ora Fernando assicura di essere riuscito a localizzare il luogo dov'è occultato il Pesce Grande, dodici metri di lunghezza e, si può immaginare, ricoperto di una lucente corazza d'oro. « Appoggiando l'orecchio al terreno » dice con voce sognate, « ho sentito distintamente il rumore dell'acqua che si frange contro il suo corpo... » Gli chiedo cosa farebbe una volta disseppellito. « Lo frantumo e vendo i pezzi! » confessa, poi, davanti alla mia indignazione, fa marcia indietro. « Ma no! Dicevo così per dire: volevo metterti alla prova per vedere se anche tu sei uno di quei gringos che vengono in Perù per depredarlo dei suoi tesori! » La giustificazione non mi convince più di tanto. Ora, prima di continuare il diario, è d'obbligo una precisazione: PER EVITARE ROGNE FUTURE (quando si ha a che fare con avvocati, politici e poliziotti c'è sempre il rischio) DICHIARO CHE QUANTO SEGUE È SOLO FRUTTO DELLA MIA FERVIDA FANTASIA, CHE FATTI, NOMI E PERSONAGGI SONO ASSOLUTAMENTE IMMAGINARI E CHE EVENTUALI COINCIDENZE CON PERSONE REALI (VIVE O DEFUNTE) SONO DA RITENERSI PURAMENTE CASUALI. Finito il racconto, finiti tè e caffè e pagato il conto (2.800 inti) Fernando si dichiara disposto a farmi ottenere il permesso per il Pajaten tramite sue conoscenze: ha un fratello avvocato, il quale fa parte dello staff del gabinetto del Presidente Alan Garcia! Troppo bello per essere vero, penso. 12 Ci rechiamo in un ufficio nella vicina Plaza San Martin. Lì il fratello non c'è. Forse è alla PIP (Policia Investigativa del Perù) ci suggerisce una delle segretarie. Ma non si trova neppure lì. Lo cerchiamo in un ufficio sito ai piani alti di un orrido edificio nei pressi dell'altrettanto orrido Hotel Sheraton: forse, ci avvertono, si trova al Palazzo di Giustizia. Ci siamo proprio di fronte. Basta attraversare il paseo Heroes Navales, con la sua larga aiuola, per salire la scalinata del Palazzo di Giustizia. Le guardie armate non mi fanno caso; seguo Fernando su per uno scalone e arrivo al piano superiore. L'interno del Palazzo non l'immaginavo così. Uno stretto corridoio corre lungo tutto il perimetro del corpo centrale, affiancato su entrambi i lati da numerosi stanzini, ed è intasato di gente. Ci sono guardie armate, tipi in giacca, cravatta e capelli impomatati, ma la maggior parte sono poveracci con l'ansia dipinta sul volto e i vestiti logori. S'indovina gente del campo o della sierra in cerca di un'improbabile giustizia. È triste doverlo ammettere ma qui, se non hai i soldi, non hai neanche la ragione. Fernando chiede del fratello: gli indicano un ufficio in fondo al corridoio. Una guardia ci ferma, Fernando mostra i suoi documenti e lo lasciano passare. Io aspetto. Proprio in quel momento esce, ammanettato, un tizio accusato di aver ucciso a coltellate l'attrice Daphne Basulto, famosa non solo come attrice, ma anche per essere stata la prima donna a lanciarsi col paracadute. Il caso era su tutti i giornali e aveva occupato buona parte dei notiziari. L'avvocato Alayo è il fratello maggiore di Fernando, ma è più giovane di quanto mi aspettassi. Si sta occupando, dice, di un caso in cui è coinvolto un politico del partito (l'APRA), accusato dall'ambasciata degli Stati Uniti di aver rubato diecimila dollari. Non resisto a fare la battuta: « Invece è innocente, vero? Non li ha rubati quei diecimila dollari. » dico con tono sarcastico. « Certo che no! » mi risponde l'avvocato. « Ne ha rubati centomila, ma gli americani non se ne sono ancora accorti. Adesso stiamo cercando di insabbiare tutto!... Un permesso per il Pajaten? Nessun problema. Posso farti avere anche una scorta militare. Appuntamento alle ore 20 alla PIP. » All’uscita saluto Fernando il quale mi chiede se posso “prestargli” 22.000 inti. Sono speranzoso e di buon umore: gli presto i soldi. Alle 20 sono davanti all'orrido edificio della PIP (sono ripetitivo, lo so, ma certi edifici sono davvero autentiche brutture). Anche qui niente vetri alle finestre, ma fogli di cartone e compensato. Sulle scale una truce guardia con kalashnikov e volto coperto da passamontagna. Non aspetto molto. L'avvocato Alayo esce accompagnato dalla sua scorta, il capitano Victor Hayre. Andiamo a cena in un ristorante sull'Alfonso Ugarte. Il capitano Hayre non è molto tranquillo. Pare abbia partecipato alle torture di alcuni senderisti quand'era ad Ayacucho, e questi abbiano giurato di fargli la pelle. Vorrebbe rifugiarsi in Italia. Mi sento preoccupato. Non è che qualche terrorista sceglie proprio questa sera per saldare i conti col capitano e tira una bomba nel ristorante? Tutto, però, fila tranquillo. Domani viaggeremo a Trujillo per parlare direttamente col prefetto. Offro la cena (11.200 inti) e mi reco dal signor Rabino per avvisarlo della mia partenza. Prima di tornare a casa passo da Pepe, ma è già partito per Trujillo. Mercoledì 16 agosto La telefonata del capitano Hayre arriva alle 8.40. Ci troviamo alla compagnia Chinchay-Suyo per il biglietto che costa 15.000 inti. Faccio finta di non sentire quando il capitano mi chiede di pagare anche il suo. La partenza è fissate per le ore 23. Pranzo dal signor Rabino e poi mi reco alle poste centrali per spedire un po' di cartoline. Hanno esaurito i francobolli! Mi tocca accontentarmi dei timbri, peccato! Vuoi mettere ricevere una cartolina col suo bel francobollo appiccicato? È tutta un'altra cosa! Per ventisei affrancature spendo 18.200 inti. Alle 14.50 telefono a Jeanett, l'avviso che in nottata viaggerò e che dovrei arrivare a Trujillo per la mattina successiva, salvo incidenti. La telefonata costa 2.800 inti. 13 Durante il pranzo ho visto in TV un servizio su un promettente mercatino artigianale a Miraflores, isolato 52 dell'Av. Petit Thouars. Salgo in autobus (350 inti) e visito il mercatino. È molto più vasto di quanto immaginassi. Ci sono molti negozi e i prodotti artigianali provengono un po' da tutte le zone del paese. Compero un paio di gilè ricamati con fiori e uccelli dai colori molto vivaci (70.000 inti), alcune sculture in legno, opere degli indios shipiba (90.000 inti) e alcuni amuleti (8.000 inti). Prendo un taxi per la casa di Roberto dove lascio gli acquisti. (soliti 5.000 inti), poi, in bus raggiungo il centro. Scendo in Tacna e mi procuro una mappa di Lima, con i tragitti dei mezzi pubblici (8.000 inti), molto comoda. 8.400 inti mi costano alcuni dolcetti. Ceno in casa del signor Rabino. Dalle finestre del diciannovesimo piano si gode una eccezionale vista della Lima notturna. Nonostante il forte vento apro le finestre per scattare alcune fotografie. Ore 22: prendo un taxi per l'agenzia Chinchay-Suyo, data l'ora sono 6.000 inti. Lima è sotto una fitta “garua”, il taxi è privo di tergicristalli ma arriviamo sani e salvi. L'autobus N° 114 si chiama Hivar Cachi; all'interno, sopra il cristallo anteriore le scritte:”que Dios nos bendiga” e “ayudame Dios mio”. L'autobus sembra abbastanza in buono stato, ma non si può mai dire. Speriamo in bene, per Trujillo sono quasi seicento chilometri. Intanto si parte con mezz'ora di ritardo. Giovedì 17 agosto Viaggio notturno. Alle 2,30 sosta a Pativilca. Alle 6 arriviamo a Chimbote e alle 8 a Trujillo. Non si contano tutte le soste fatte durante il cammino per far salire gente: sono quelli chiamati “intermedios”, pagano meno ma non hanno diritto al sedile. Per 2.000 inti un taxi mi porta a casa di Jeanett. L'avvocato Alayo ha promesso di telefonarmi. Nell'attesa sfoglio alcune riviste. Una, in particolare, è assai interessante: c'è un articolo sulla pietra di Saywite. La pietra, un grande blocco dalla forma semisferica si trova a quarantacinque chilometri da Abancay, subito dopo la prima “abra” (passo) sulla strada che porta a Cusco. Le foto sono impressionanti: sulla superficie di questo masso sono state scolpite duecentotré figure che seguono i contorni naturali del blocco. Sono rappresentati fiumi, montagne, felini, scimmie, anfibi, dei antropomorfi. Il masso è circondato da rovine di altre costruzioni individuate come templi e fontane cerimoniali. Un luogo da visitare in un prossimo viaggio. Alle 11.30 ricevo la telefonata dell'avvocato Alayo: mi comunica che si sta recando a parlare col prefetto, mi ritelefonerà appena saprà qualcosa di certo. Sono al settimo cielo. Tutto sembra andare a gonfie vele. Il Gran Pajaten è sempre più vicino. Chi può osare negare qualcosa a un avvocato del gabinetto del Presidente della Repubblica? Pranzo e attendo la telefonata. Che non arriva. Passano le ore ma il telefono rimane ostinatamente muto. Che sarà mai successo? Alle 19.15 sono stufo. In compagnia di Jeanett prendo un taxi (1.500 inti) e mi reco in centro. Al teatro Municipal c'è il primo concorso di ballo negroide, due ingressi costano 4.000 inti. Cinque finaliste si contendono la vittoria. Ancheggiano e sculettano al ritmo di marineras e festejos. Il teatro è fatiscente, il pubblico scarso ma l'entusiasmo è alle stelle. La “barra” è da stadio: i tifosi ci danno dentro con “campana” e “cajon” con incredibile e assordante entusiasmo. Anche gli attempati cantanti che si esibiscono tra un ballo e l'altro riscuotono la loro salva di applausi. Finito lo spettacolo passiamo per l'agenzia TEPSA, per salutare Pepe che torna a Lima, poi facciamo un giro all'ospedale Belén, dov'è ricoverata, in gravi condizioni, la mamma di Jeanett. Il taxi per il ritorno costa 2.000 inti. Venerdì 18 agosto Al risveglio mi comunicano che l'avvocato Alayo aveva telefonato ieri, alle 19.30, e che richiamerà 14 in mattinata. Attendo impaziente ma, alle 9, l'avvocato si presenta in carne e ossa. Lo accompagna un poliziotto in borghese. Saliamo in macchina diretti alla prefettura. A metà strada l'avvocato fa fermare l'auto davanti a una banca ed entra per ritirare del denaro. Esce poco dopo con aria avvilita. Il cassiere gli ha chiuso lo sportello in faccia per mancanza di liquido, mi spiega, potrei prestargli un po' di soldi? La faccenda mi puzza. Contemporaneamente penso che non mi conviene un secco rifiuto, magari si offende e addio permesso per il Pajaten. Devo inventare una scusa. Fingo di rovistare accuratamente in tutte le tasche e racimolo circa 10.000 inti. « È tutto quello che ho » assicuro. « Siamo partiti talmente in fretta che ho dimenticato a casa il portafogli. » Non so se mi crede o meno, ma intasca gli spiccioli senza fiatare. La prefettura si trova in Plaza de Armas, a lato dell'Hotel de Turistas. Attraversiamo il patio e saliamo le scale fino a un ufficio del primo piano. Il signore che mi riceve è assai cordiale. Mi ascolta, poi alza il telefono e si passare l'architetto Ana Maria Hoyle, direttrice della Direzione del Patrimonio Monumentale Nazionale. È breve, conciso e perentorio: riferisce la mia richiesta e dopo qualche secondo posa la cornetta. Sorride e dice: « Listo, ya está! ( Pronto, è fatto!) » Per le 14.30 del pomeriggio, mi assicura, avrò il permesso. Non solo, ma, se voglio, potrò avere anche “un respaldo militar” una scorta militare. Ringrazio e saluto. Sono le 11.30, si va a pranzare alla “cebicheria Flipper” in Francisco Lazo 437, urbanización Santo Dominguito, locale di proprietà del signor Cesar Leon Gutierrez, fratello del poliziotto Antonio Leon Gutierrez, autista dell'avvocato Alayo. Appare anche il capitano Hayre, accompagnato dalla gentile consorte e dal signor Juan Alcantara. Il convivio è assai amichevole, si mangia “sudado” si bevono fiumi di birra. Non si fa tempo a finirne “un par” che arriva un altro paio di bottiglie ghiacciate. Il pranzo si sta tramutando in una tragedia. Non ne posso più di mangiare e bere. Ma chi paga tutto questo? Calcolando il costo di un dollaro a bottiglia (che non è poco!) il conto dev'essere astronomico. Finalmente alle 5,30 mi riportano a casa in volkswagen. L'avvocato mi accompagna in casa, mi fa notare che sarebbe opportuno “quedar bien con el prefecto”... non potrei dimostrare la mia gratitudine? Non ha tutti i torti. Il permesso per il Pajaten, per me, non ha prezzo. Penso di consegnarli trecento dollari, mi sembra una buona cifra... poi ci ripenso. Ma sono scemo? In mano non ho ancora niente, e ormai è troppo tardi per tornate in prefettura. Meglio aspettare domani: quando avrò il permesso, allora vedremo. Un contentino, però, lo devo dare, se non altro per il pranzo. « Venti dollari » offro, sicuro che lui alzerà la cifra. « Facciamo trenta » mi risponde. Gli consegno tre bigliettoni da dieci e l'avvocato se ne va contento. Non è contenta Jeanett. Mi rimprovera per la mia ingenuità ed è convinta che mi stiano truffando. Per alleviare la tensione andiamo a fare quattro passi in centro ( 540 inti per l'autobus). Jeanett mi suggerisce di cenare al Sachun (Pasaje Alberto Barton 225, Urbanizacion Los Granados), locale tipico con musica e spettacoli folclorici. La corsa in taxi costa 2.500 inti e l'ingresso 7.000; è “viernes femenino” e le donne non pagano. Locale squallidotto, poca gente ai tavoli, musica assordante, niente spettacoli (forse li fanno più tardi). Ordinare è una tragedia: di tutto quanto indicato sul menù non c'è nulla. Disperato, ordino un pisco e Jeanett una birra. Torniamo a casa a piedi, alle due di notte sfidando il vento gelido, entrambi di malumore. Sabato 19 agosto Alle 10.30 del mattino sono davanti alla prefettura. Tutto chiuso. La guardia all'entrata mi informa che il sabato non si lavora. Sarà perché ci sono arrivato a piedi dalla casa di Jeanett o perché sono nervoso, ma mi viene appetito. Con la mia amica mi fermo alla “Heladeria y Cafeteria Selecta” (Francisco Pizarro 870) per mitigare l'amaro con alcuni dolcetti (6.700 inti). L'ufficio di FOPTUR non si trova molto distante, entro per chiedere informazioni su come arrivare 15 al Pajaten. Sembra ci siano due possibilità: la prima è un'auto per Pataz che, probabilmente, arriva solo fino a Chagual. Appartiene al signor Angel Ocampo Oyarce (Guzman Barron 958, Urb. El Bosque). Effettua solo un viaggio settimanale, parte generalmente di domenica alle tre del mattino passando a raccogliere i passeggeri, e arriva verso le 19. Il costo è di 120.000 inti. Non c'è posto disponibile, ma lascio lo stesso il numero di telefono. La seconda possibilità consiste nell'autobus per Tayabamba. Il mezzo parte dalla calle Chira due volte alla settimana, di domenica e di mercoledì. Arriva a Chagual in venti ore e poi prosegue per Tayabamba che raggiunge in altre dieci ore. Il biglietto costa 55.000 inti, prezzo invariato sia per Chagual che per Tayabamba. È permesso un bagaglio di 15 kg. Ogni kg di sovrappeso costa 1.000 inti. Da Chagual a Pataz, mi sembra di capire, ci si deve arrangiare e, secondo quanto ho letto nelle guide, son circa 20 km di mulattiera. Trujillo è conosciuta anche come la capitale dell'eterna primavera, non c'è quindi da stupirsi se splende il sole. L'occasione è buona per scattare qualche fotografia. Assieme a Jeanett visito la pinacoteca “El Carmen” e il museo della Cattedrale con la sua piccola e asettica catacomba (500 inti costa il biglietto d'ingresso). Per 4.800 inti compro un po' di frutta e imparo a distinguere i tipi di banane: quelle bianche si chiamano “platanos de seda”, mentre quelle color salmone sono dette “platanos de la isla”. Domenica 20 agosto Oggi manca la benzina. Alle 9.45 Jeanett mi trascina a un funerale, o meglio alla cerimonia del settimo giorno (sono attrezzato anche per occasioni del genere: nello zaino non ho dimenticato di mettere un vestito scuro, e un paio di cravatte di mio padre). Si celebra la prima settimana della sepoltura di un suo cugino, morto di linfoma all'età di quindici anni. I suoi genitori, invece di curarlo presso un ospedale, l'avevano portato da una setta religiosa. La famiglia ha affittato un pulmino sul quale, dopo la messa, vi saliamo tutti per raggiungere la casa. Nella sala sono stati tolti mobili e quadri. Lungo le pareti sono state sistemate decine di sedie. Ci accomodiamo e ci vengono serviti bicchierini di “anisado”, grandi tazze di caffè, panini con pollo. Girano Incontri lungo l'avenida Perù bottiglie, si beve e si brinda. All'ospedale Belén la mamma di Jeanett è sempre più grave. Si teme che il peggio possa arrivare da un momento all'altro. In previsione di ciò cominciamo a preparare le stanze: via mobili e quadri. Usciamo per fare compere necessarie per la veglia funebre: due bottiglie di “anisado”, 3 chili di zucchero e le lampadine da sostituire a quelle rubate dal lampadario dell'entrata. Sembra incredibile ma, mi assicura Jeanett, qualche ignoto amico, vicino o parente, approfittando che mezzo lampadario dell'entrata non è visibile dalla cucina, ha pensato bene di fregarsi un paio di lampadine! Usciamo nuovamente per andare all'ospedale. Per strada scatto qualche foto. Lungo l'avenida Perù incontro due signori, uno dei quali stringe sotto il braccio un gallo da combattimento. Chiedo se posso scattar loro una foto. Accettano con entusiasmo. Vogliono che scatti anche una foto al gallo per terra: sono alquanto ubriachi e per poco il gallo non scappa via. Nell'assolata Plaza de Armas, di fronte alla cattedrale dipinta di bianco, ci fermiamo da un gelataio col tipico carrettino giallo della Donofrio. Contratto due gelati: da 7.000 scende a 6.000 e infine accetta 5.000 inti. All'ospedale non ci sono novità. Passando dalla sarta, che sta confezionando il vestito da lutto, assistiamo, davanti alle carceri, all'acceso litigio di due donne. 16 Si accapigliano per strada e sberle e urla richiamano un folto gruppo di spettatori. Proseguiamo fino alla casa di Norma, una collega di Jeanett, per ritirare un vestito. Con Norma torniamo all'ospedale. Più tardi un suo amico ci riporta a casa con la macchina. Ceniamo e ritorniamo all'ospedale con l'intenzione di passarci la notte. I medici, però, ci dicono che non è necessario, così ritorniamo a casa. Lunedì 21 agosto In prefettura trovo l'avvocato Alayo e il poliziotto Antonio Leon. Il permesso non è ancora pronto. La notizia non può farmi che dispiacere. È pronta, invece, una lettera nella quale mi si richiede un documento rilasciato dall'ambasciata italiana dove si certifichi chi sono e gli scopi della visita al Pajaten. Dire che sono incazzato è solo un eufemismo. Con Jeanett aspetto in sala d'attesa che compaia il prefetto, guardato a vista (questa è la mia impressione) dall'Antonio Gutierrez. Improvvisamente l'Antonio si agita: fuori c'è movimento. Mi ordina di rimanermene seduto ed esce di fretta. Che sta succedendo? Mi alzo e mi affaccio alla finestra. Giù, nel patio, un signore tarchiato, occhiali scuri e vestito blu sta attraversando frettolosamente il giardino scortato da alcuni poliziotti in borghese. « Quello è il prefetto! » esclama Jeanett. Resto di stucco. Quello? E io con chi ho parlato venerdì? Col Gelato in plaza de Armas vice? Mistero! Scendo straincazzato, incontro l'Antonio e gli dico che ormai ho perso abbastanza tempo e al Gran Pajaten ci rinuncio. L'Antonio non sa che dire... m'informa che il povero avvocato Alayo ha passato il sabato con la diarrea per il troppo pesce mangiato. ECCHISSENEFREGA! Magari si fosse squagliato nel cesso! Sono furioso. In mio aiuto interviene Jeanett. DOPO QUESTA PARENTESI, POSSIAMO TORNARE ALLA REALTÀ E RIPRENDERE IL NOSTRO DIARIO, CON LA CONVINZIONE DI AVER SUSCITATO NEL LETTORE UN ANGOSCIANTE SENSO DI CONFUSIONE E INCERTEZZA. Eravamo rimasti a Lima, dopo un infruttuoso colloquio con la segretaria dell'architetto Tapia. Ci troviamo ora a Trujillo, tranquilla cittadina a circa 560 km a nord della capitale. Sono nella Plaza de Armas con la mia amica Jeanett, il sole splende nel cielo azzurro e fa risaltare i vivaci colori con cui sono dipinti gli edifici che incorniciano la piazza. Pur essendo inverno le aiuole son tutte fiorite. « Conosco di persona la signora Hoyle » dice Jeanett. « Andiamo a parlare con lei. » La Casa della Cultura si trova al N° 572 di Independencia, a due passi della plaza de Armas. La signora Ana Maria Hoyle Montalva (bella signora, in passato è stata eletta Regina di Primavera) ci riceve nel suo ufficio, al primo piano. « Mai ricevuto telefonate dal prefetto! » assicura. Poi m'informa che, già da parecchi anni, ci sono accordi col governo per non concedere autorizzazioni per visitare il parco dell'Abiseo. Non ci sono strutture, c'è il pericolo di furti e di danneggiamenti al sito e, in più, la zona è sotto il controllo dei guerriglieri. In via eccezionale, però, mi darà il permesso, a patto che, al ritorno, le faccia un rapporto verbale. Scherziamo? Ma gliene faccio anche dieci di rapporti! 17 La signora chiama il segretario e fa redigere il permesso. Poi lo legge, approva, timbra, firma, inserisce il foglio in una busta e me la consegna. Ringrazio, saluto ed esco. Appena sulle scale apro la busta ed esamino emozionato il lasciapassare. L'intestazione color marroncino dice: INSTITUTO DEPARTAMENTAL DE CULTURA LA LIBERTAD Sotto c'è la data: 21 agosto 1989 e il numero di protocollo. Il documento è diretto a: “las Autoridades Policiales, Militares, Politicas y Afines de la provincia de Pataz. Il testo è conciso: Por el presente se deja constancia que el Sr. GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO, de nacionalidad Italiano, identificado con Pasaporte N° 319830, tiene autorización de esta Dirección para VISITAR EL MONUMENTO ARQUEOLOGICO PAJATEN, - CON FINES TURISTICOS; más no para realizar trabajos de investigaciónes, tala de vegetación u otros que afecten la conservación del monumento indicado. Agredecemos se le brinde las facilidades necesarias para su visita. Atentamente, Segue timbro e firma. « È fatta! » penso. « Alla faccia dell'avvocato! » Prossima tappa è Foptur. Bastano pochi minuti e mi preparano una credenziale dove mi presentano come turista interessato a conoscere il Gran Pajaten. La lettera è su carta raffinata, color paglia; in alto a sinistra c'è l'elegante logo rosso e marrone di Foptur: un colibrì che si libra sopra i gradoni di una piramide, il tutto racchiuso nel profilo trapezoidale di una finestra in stile inca. Leggo e inorridisco: c'è scritto che posso tagliare alberi e compiere scavi! Esattamente il contrario di quanto riportato sul permesso! Faccio notare l'incongruenza e l'impiegato sembra molto seccato. Dovrò tornare più tardi per avere la credenziale corretta. Attraverso la plaza de Armas, entro nella Bolivar e arrivo all'ospedale Belén. Jeanett mi presenta il dottor Jorge Carruitero Lozano (Bolognesi 660) di Pataz, il quale s'impegna ad aiutarmi per il viaggio e ci da appuntamento verso le 8 di sera. Tipici balconi di Trujillo Tipici balconi di Trujillo La mamma di Jeanett è sempre molto grave e ha bisogno di penicillina, di cui l'ospedale è sfornito. Giriamo mezza Trujillo in cerca dell'antibiotico: prima al magazzino ospedaliero, poi all'Hospital Regional Docente (av. Mansiche). Qui ce ne consegnano soltanto poche unità, perché, ci dicono, la penicillina scarseggia e la devono tenere per i casi d’emergenza. Di ritorno dall'ospedale ci fermiamo in calle Chira per posticipare il posto sull'autobus, ma gli uffici sono chiusi. 18 Passiamo per il Belén per depositare la penicillina. Jeanett la chiude a chiave nel suo stipo: non si fida di consegnarla alle infermiere per paura che gliela rubino. Pranziamo a casa e alle 16,30 prendiamo un autobus per Huanchaco (600 inti per i due biglietti). Poca gente in giro. Solitaria in cima a una collina svetta la chiesa di San Pedro, è dipinta di rosa e illuminata dalla calda luce del sole che sta tramontando sul Pacifico. Il mare è calmo. Il tempo scorre veloce, il sole scompare oltre l'orizzonte. Le sagome scure dei caballitos de totora messi in piedi ad asciugare sul lungomare si stagliano contro il cielo violetto. La foto in stile cartolina è d'obbligo. Lasciamo Huanchaco alle 18.30 (600 inti per l'autobus) e alle 19.25 torniamo al Belén dove troviamo Lucho, fratello Huanchaco, chiesa di san Pedro di Jeanett. Usciti dall'ospedale andiamo in centro. Nove fotocopie del permesso mi costano 1.350 inti. Le fotocopie, però vanno autenticate da un notaio: ogni timbro costa 500 inti e ogni firma 800. Il signor Abel B. Alva Zurcher, suocero di Jeanett, è notaio: le fotocopie me le autentica gratis. È ora di mangiare qualcosa: con 8.700 inti prendiamo un sandwich di tacchino e un tè ciascuno. Alle 20.25 siamo all'appuntamento col dottor Carruitero, appuntamento che, per gli impegni del medico è rimandato a domani per le 12.30-13. Visita all'ospedale, poi dalla sarta per controllare a che punto è il vestito e alle 22.20 ancora all'ospedale. Più tardi, per 2.500 inti, un taxi ci riporta a casa. Martedì 22 agosto Al mattino si va a far spesa al “mercado del pueblo”. Alle 13 abbiamo appuntamento col dottor Carruitero per parlare con suo zio il quale, però, non si presenta. Rimaniamo d'accordo di trovarci alle 20. Lo zio del dottor Carruitero si chiama Manuel Lozano ed è un arzillo vecchietto di Pataz, dove posiede una miniera d'oro. Ci consiglia di rivolgerci alla signora Gloria Bolaños de Vasques, proprietaria di una camionetta con doppia cabina. Parte da Trujillo il giovedì verso le 3 del mattino e arriva a Pataz per le 7 di sera. Carica merci e passeggeri. Il passaggio costa 50.000 inti. Il signor Lozano m'informa anche che una guida chiede 5.000 inti al giorno. L'indirizo della signora è: Urb. La Merced, manzana L, lote 15 e si trova vicino al “colegio Claretiano”. Jeanett conosce bene la zona, perché ha studiato proprio in quella scuola. Ennesima visita alla mamma di Jeanett (2.000 inti per il taxi). Dall'ospedale andiamo al teatro Municipal. Si festeggia il 56° anniversario della compagnia di pompieri con danze e musiche folcloriche. (4.000 inti per due biglietti). Usciti da teatro torniamo ancora all'ospedale, dove la mamma di Jeanett si è aggravata. Vado con Pepe dalla sarta, ma questa non ha ancora terminato il vestito. Torniamo a casa per cenare e poi, ancora una volta, all'ospedale dove, viste le condizioni della signora, decidiamo di passare la notte. Un paziente è morto di recente, così si è liberato un letto. Mi stendo e tento di dormire, accompagnato dal respiro affannoso dell'ammalata. Mercoledì 23 agosto Alle ore 2.30 del mattino un improvviso silenzio mi fa sobbalzare dal letto: la signora Elva Reluz Bernaola de Valdez è morta. Chiamo Jeanett che dorme sul letto accanto. Si svegliano anche le infermiere e si danno da fare per preparare la salma: le rimettono la dentiera, le legano la mandibola, le infilano cotone nell'ano. 19 Al mattino accompagno Jeanett alla chiesa di San Francisco per parlare col prete, poi si torna all'ospedale per la pratica di decesso e infine all'IPSS (Instituto Peruano Seguro Social). Telefono alla signora Gloria (1 rin); è in casa, così, con Jeanett, prendo un taxi (2.000 inti) e mi reco al suo indirizzo. La signora Gloria è una brunetta minuta, abita col marito (un ex poliziotto) e due figli. Ha una sorella a Pataz proprietaria di un negozio. M'informa che il viaggio costa 80.000 inti, mentre il costo di una guida varia dai 15 ai 20.000 inti giornalieri a cui se ne devono aggiungere altrettanti per il mulo. La pensione costa 6.000 inti (tre pasti compresi), mentre il letto 5.000. Si parte il venerdì tra le tre e le quattro del mattino e si arriva a Pataz verso le undici di notte. Prenoto: finalmente qualcosa di concreto! Lasciamo la signora Gloria e prendiamo un “micro” (pulmino) per andare dalla sarta: finalmente il vestito è pronto. Da Foptur è pronta anche la credenziale. Leggo: Por la presente, se extiende el siguiente credencial al Señor GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO, de nacionalidad Italiana, identificado con Pasaporte N° 319830, a fin de que se brinde las facilitades inherentes para su visita turistica a nuestra zona. Por lo que quedamos muy agradecidos por la colaboración brindada. Seguono data, timbro e firma: tutto mi sembra a posto. Al Copy Center (Pizarro 513), lì vicino, faccio un po' di fotocopie (2.250 inti). È il momento della spesa per la veglia funebre: tre polli, uno scatolone di biscotti (galletas de soda), uova, bottiglie di “anisado”, burro. Torniamo a casa in taxi (1.500 inti). Nel pomeriggio cominciano ad arrivare parenti e amici per il “pesame”, le condoglianze. Nella saletta d'entrata si monta l'altare. La parete di fondo viene coperta da un drappo nero con frange dorate, davanti viene collocato un crocefisso d'argento che sfiora il soffitto. Due angeli vengono sistemati ai lati del crocefisso: entrambi sostengono una lampada e hanno le ali stese verso l'alto. La bara viene posta sopra un catafalco di legno scuro, intagliato, ricoperto da un drappo nero. Ai lati della bara, aperta, quattro grossi candelabri sorreggono lampade a forma di fiamma. Tutto attorno ghirlande a forma di croce, rivestite di fiori bianchi, rossi e gialli. In cucina le donne spalmano le gallette col Veglia funebre della signora Elba Reluz burro, preparano caffè, brodo di pollo e “aguadito” da servire a mezzanotte. In sala, intanto, cominciano a girare bicchierini di “anisado”. Verso le 21 è pronta la cena per me e Pepito, un nipote di Jeanett e alle 21.30 si recita il rosario. Giovedì 24 agosto Durante tutta la notte alcuni cugini di Jeanett hanno vegliato la salma nel cortiletto prospiciente alla casa bevendo birra. Alle otto del mattino, quando mi alzo, li trovo decisamente ubriachi: continuano a bere passandosi l'un l'altro la bottiglia e l'unico bicchiere, dopo averlo sommariamente sgocciolato sul pavimento di cemento. Uno sta dormendo seduto a cavalcioni di una sedia, con la testa riversa sulle braccia, che gli fanno da cuscino, appoggiate allo schienale. 20 Rifiuto gentilmente di unirmi alla bevuta. Mi chiedono come si dice “chancho” in italiano. « Maiale » rispondo. Ridono di gusto « Miale! Miale! » ripetono, indicando il parente che russa sonoramente. Alle 11 inizia il funerale. La bara viene portata a spalla dalla casa fino all'avenida España (poche centinaia di metri). Qui viene caricata su di un'auto, e tutti noi la seguiamo in corteo fino alla chiesa di San Francisco. Questa è la chiesa in cui si sposarono i genitori di Jeanett. Segue la cerimonia al cimitero. La salma viene tumulata nel loculo 68 del “pavellon” B, Señor de Luren. È un parallelepipedo intonacato di bianco, segnato da decine di loculi dalla forma quadrata, alcuni adornati con pochi fiori e il nome del sepolto dipinto a mano. Alla tristezza della cerimonia si somma il disagio causato da sciami di moscerini che si accaniscono sui presenti. All'uscita del cimitero si forma una lunga coda per rinnovare le condoglianze ai familiari. A casa si pranza. Nel pomeriggio Jeanett mi accompagna a fare la spesa in previsione della mia partenza. Prima andiamo al “Monterrey” dove mangiamo due dolcetti (1.200 inti). Compero scatolame vario (sardine e frutta sciroppata 34.800 inti), del formaggio (11.000 inti) e delle minestrine in busta (19.465 inti). Al “Tiendas Tia” completo la spesa con biscotti e un vasetto di marmellata di fragole ( 24.810 inti); infine del cioccolato (3.540 inti). La marmellata di fragole è l'unico tipo di marmellata disponibile ed è dolce fino alla nausea. Il taxi per l'andata al “Monterrey” costa 1.500 inti, mentre quello con cui torniamo dal “Tia” 2.500. Verso le 21 Jeanett mi accompagna dalla signora Gloria; porto lo zaino così che lo possano già caricare sulla camionetta. La trovo assieme al marito e ad un'altra signora, anzianotta e bene in carne, maestra in una scuola di Pataz. Il venerdì non si parte, questa è la novità; l'auto ha bisogno di gomme nuove e di una sistemata ai fari. Si partirà sicuramente sabato, alle quattro del mattino. Intanto, mi consiglia il marito, posso Trujillo: Plaza de Armas lasciare lì lo zaino. Sono molto perplesso. Il marito legge il mio disappunto, apre un cassetto della scrivania, tira fuori un revolver e me lo mette sotto il naso. « Guarda qua » mi dice, « questa è per i ladri! Qui è un posto sicuro! E questa » continua agitando la pistola, « la so usare bene, sono stato nella polizia. Puoi lasciare qua le tue cose senza timore! » Augurandomi che l'arma che mi sventola davanti sia scarica (le disgrazie succedono sempre quando uno meno se lo aspetta), accetto a malincuore di separarmi dallo zaino. L'ex poliziotto sembra soddisfatto. Mi assicura che non devo preoccuparmi per il viaggio: la camionetta è in ottimo stato e il guidatore è uno esperto. In quanto a quelli dell'MRTA sono gente tranquilla, non fanatici come i senderisti; li definisce addirittura “caballeros”, gente d'onore. Interviene la maestra: per quanto riguarda la visita alle rovine non dovrebbero esserci problemi 21 visto che un funzionario del parco è suo parente... a proposito: ho il permesso del Ministero dell'Agricoltura? Resto di sasso. Quale Permesso? Quale Ministero? Quel permesso è meglio averlo, mi spiega la signora, perché il parco dipende proprio dal Ministero dell'Agricoltura. Sono furibondo! Mai che le cose siano chiare! Interviene Jeanett: domani mi accompagnerà al Ministero. Venerdì 25 agosto Il Ministerio de Agricultura si trova in centro, a tre isolati dalla Plaza de Armas, in jiron Colon. Come tutti i ministeri apre tardi: alle 10 del mattino. Alle 10.15 sono nell'ufficio dell'ingegner Josè Donaire La Rosa, il quale di permessi per la visita al Gran Pajaten non ha mai sentito parlare. Forse li concedono al “Vivero Forestal”, ma c'è bisogno di una lettera di presentazione. Supplico che me la faccia. Su un foglietto di calendario verga alcune righe, dirette al “SUPERVISOR FORESTAL Y FAUNA”, signor Julio Cesar Nispual? (il cognome risulta indecifrabile) Favor atender al portador, sotto si firma, mentre sull'altro verso del foglietto scrive : Disculpar papel (Mi scuso per il foglio) Manda un incaricato a battere a macchina la richiesta; io e Jeanett aspettiamo pazientemente seduti, mentre il tempo scorre lentamente. Finalmente la richiesta è pronta, nero su bianco, su carta velina, non intestata, forse più adatta a incartare formaggio che a essere presentata a un Ministero: SOLICITA AUTORIZACION O PERMISO PARA VISITA MONUMENTO ARQUEOLOGICO PAJATEN SEÑOR DIRECTOR DE LA UNIDAD AGRARIA IV-LA LIBERTAD S.D. GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO, con Pasaporte N° 319830, domiciliado en Alexander Fleming N° 238-Urb.Daniel Hoyle-Trujillo, nacionalidad Italiana, ante Ud., me presento y digo: Que, en mi condición de Turista y el deseo y querer conocer las Ruinas de PAJATEN, solicito Ud., expedirme un Permiso o Autorización de 15 dias para visitar el Monumento Arqueológico de PAJATEN. Hago de su conocimiento que ya cuento con el permiso de la Casa de la Cultura Trujillo, sin embargo se me ha hecho conocer que es necesario un permiso de su despacho para presentarlo a los Guardabosques y autoridades de la Jurisdición en que se encuentra el monumento. Acompaño Certificación de la Casa de la Cultura. Segue data e una serie di puntini sopra i quali pongo la mia firma. Ora al primo piano, alla “mesa de parte” per il timbro (rosso, rettangolare, sul lato in basso a sinistra dell'originale e di due copie (che pago 240 inti), e poi via di corsa verso il “Vivero Forestal” (prolongación Unión 2526), dove dobbiamo presentarci all'ingegner Hospinal. Il posto è alquanto fuori mano, bisogna prendere un taxi perché gli autobus di linea non arrivano fin lì. Saliamo su un decrepito maggiolino che non sembra avere alcuna fretta di arrivare. Percorriamo una stradina sterrata e polverosa, tra sterpaglie e ciuffi d'alberi. Siamo già in vista del “Vivero” quando un'improvvisa esplosione scuote la volkswagen che sbanda e s'infila in un fosso. Jeanett grida. Un attacco terroristico? No, molto più banalmente è scoppiata una gomma. 22 Scendiamo. Mancano poche centinaia di metri alla meta. Pago l'autista (3.000 inti) e trascino Jeanett fino al cancello del “Vivero”. È proprio un vivaio: c'è una bassa costruzione dipinta di verdino, col tetto piatto e i serramenti in metallo e, attorno, tante giovani piante disposte in file regolari. Il cancello di rete è chiuso ma, all'interno del vivaio due persone sono intente a chiacchierare. Richiamo la loro attenzione e chiedo dell'ingegner Hospinal. L'ingegnere non c'è, mi dicono; d'altronde non è lui che concede permessi bensì il Ministero dell'Agricoltura, più precisamente il signor Juan Julio Castro, ufficio 11, “Dirección de Recursos Naturales”. Faccio presente che vengo proprio dal Ministero dell'Agricoltura. Loro allargano le braccia e mi consigliano di tornarci. Mi guardo intorno. Siamo in aperta campagna, intorno non c'è anima viva e la probabilità che passi un'auto è assai remota. Alle tredici gli uffici chiudono e non riaprono fino a lunedì. Mano nella mano con Jeanett mi avvio mestamente lungo la stradina polverosa. Ad un tratto qualcosa si muove sulla via; avvolta in una nuvola di polvere un'auto s’avanza verso di noi. Arrivano i nostri: è il taxi che poco prima ci ha portati fin lì; l'autista è riuscito a sostituire la gomma e ci viene in soccorso! Saliamo in fretta e scendiamo davanti al Ministero. L'ufficio N° 11 si trova giusto di fronte a quello in cui eravamo stati poco prima! L'ingegnere Juan Julio Castro Marcelo sembra cadere dalle nuvole e scuote la testa: « Ma chi ha detto che io rilascio permessi per il Pajaten? » « L'ingegnere Hospinal » mento. Mi guarda sconcertato: « Ma sei certo? » « Certissimo! » rispondo L'ingegnere Juan Julio è perplesso. Chiama una segretaria e chiede se il suo ufficio rilascia permessi per il Pajaten. La segretaria ci pensa un po' su e poi risponde che le sembra di sì. A questo punto l'ingegnere l'incarica di battere il permesso, consulta una cartella e trova il nome dell'amministratore del parco dell'Abiseo. Pochi minuti e il tanto agognato permesso è pronto. “Año del 450 Aniversario del Nacimiento de Garcilaso Inca de la Vega” MINISTERIO DE AGRICULTURA Unidad Agraria Departamental IV - LA LIBERTAD Trujillo, 25 AGO 1989 OFICIO N° 756 -89-UAD-IV-LIB-DRNDR Señor : ESTEBAN ALAYO BRICEÑO Administrador Parque Nacional Rio Abiseo Anexo Los Alisos-Distrito Pataz. Asunto : Visita Turista GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO Es grato dirigirme a usted, a fin de hacer de su conocimiento que en esta oficina sa ha apersonado el señor GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO, solicitando permiso para ingresar al area del Parque Rio Abiseo, de paso al Monumento Arqueologico de Pajaten. El objeto da la visita es en calidad de Turista por el espacio de 15 dias, motivo por el cual, deberá tener en cuenta la permanencia de acuerdo a lo establecido en los Reglamentos sobre el particular. 23 Aprovecho la oportunidad, para expresar a usted, los sentimientos de mi especial consideración y estima. Atentamente., Timbro e firma. Sono le 12 e 55 minuti. Tutto sembra risolto. Seduti alla “Heladeria Demarco” (jirón F. Pizarro 725) ci ritempriamo dallo stress con due pisco sour, un “budin diplomatico” e una “mousse de guindones” (18.560 inti). Passiamo per il mercato per comperare un po' di frutta (uva e banane per 4.800 inti). In una edicola compero “La Industria” (600 inti): sul giornale sono state pubblicate le foto del funerale. 1.000 inti mi costano due scatole di fiammiferi. Torniamo a casa alle 14. Prendiamo un “micro” per la calle Suarez (540 inti), da dove partono i pulmini per Moche, per visitare le piramidi del Sole e della Luna. Purtroppo il servizio si effettua solo dalle 7 del mattino alle 14 del pomeriggio, così cambiamo programma: dalla calle Zela partono i mezzi per Huanchaco. I due biglietti costano 600 inti. Sono le 15.55, ci vuole circa mezz'ora per arrivare sul posto. Mi attira il cimitero, posto sul cocuzzolo di una collinetta sabbiosa, di fianco alla chiesa mezzo diroccata. Il posto ha tutta l'aria di essere abbandonato: croci sbilenche spuntano dal suolo polveroso, molti loculi sono aperti, le tombe sono sbrecciate e in pessimo stato. Dopo alcune foto scendiamo verso la spiaggia e camminiamo, nella luce calda del tramonto, fino a Huanchaquito. Torniamo a Trujillo verso le 18,30, quando fa buio (600 inti per l'autobus). Dalla fermata del bus a casa prendiamo un taxi (1.500 inti). Alle ore 20 siamo invitati al matrimonio di Silvia, la ragazza che seguiva la mamma di Jeanett. Quando entriamo nella chiesa dei Testimoni di Jeova sta predicando una ragazza con voce stentorea. Dietro di lei tre fratelli ripetono le sue parole, imitati dal resto dei fedeli, con notevole confusione. Seguono vari canti pieni di allegria, finiti i quali un fratello si lancia in un sermone dal tono apocalittico. Inizia, finalmente, la cerimonia: fa il suo ingresso un bambino (di circa 5-6 anni) portando un libro. Cammina in modo curioso: fa un passo, unisce i piedi e quindi fa un altro passo. Attraversa così tutta la navata centrale fino a fermarsi davanti all'altare. Entra lo sposo, accompagnato dalla madrina; entrambi camminano nello stesso particolare modo. È la volta di quattro copie: i maschi con l'abito grigio, le donne vestite di rosa. Ognuno regge una calla. È il turno di una bambina vestita di bianco, avrà 4-5 anni; porta un cestello pieno di fiori bianchi, di carta o forse di tessuto. Dal manico del cestello penzolano due anelli. Una seconda bambina la segue, spargendo coriandoli. Il passaggio tra i banchi viene chiuso con un nastro bianco. La sposa avanza al braccio del padrino, rompe il nastro, passa sotto l'arco di calle, che paggi e damigelle tengono sollevate, raggiunge lo sposo e questi le solleva il velo. Ha luogo la cerimonia. Alla fine i novelli sposi ripassano sotto l'arco di calle e se ne vanno per un giretto in auto: suppongo siano andati in qualche parco per le foto di rito. Inizia per noi una interminabile attesa. Jeanett si beve una pepsi (600 inti). Gli sposi arrivano alle 22.30; viene distribuita una forchetta di plastica avvolta in una salviettina di carta e si serve “arroz con cabrito”, cucinato in capienti pentoloni lì, sul pavimento della sala in cui si svolge il ricevimento. Da bere “chicha” a volontà. Mangio il riso e do la carne a Vicenta, una signora che veniva alla casa di Jeanett per aiutarla nei lavori, la quale apprezza molto. L'ora si fa tarda, domani devo alzarmi prestissimo: il Pajaten mi attende, per questo tento di salutare e andarmene... solo che, quando cerco accomiatarmi dalla madre della sposa, mi trovo con un ennesimo bicchierone di “chicha” in mano. A mezzanotte e mezza, finalmente, io e Jeanett riusciamo a prendere un taxi e farci portare a casa. Presto a Jeanett 40.000 inti affinché possa affrontare alcune spese durante la mia assenza. 24 Sabato 26 agosto Sonnecchio, vestito di tutto punto, disteso sul divano nella saletta d'entrata, in attesa della camionetta della signora Gloria. Alle cinque sento il rumore di una macchina che rallenta e un colpo di clacson. Esco: la camionetta color grigio chiaro è ferma sul ciglio della strada. Salgo e siamo in otto: l'autista, la signora Gloria con i suoi due figli (un maschio e una femmina) seduti davanti; la maestra di Pataz, la signorina Lucy Egoavil Cosar, convinta ad andare a Pataz per insegnare in una scuola, un signore di corporatura decisamente robusta che, mi racconterà, accompagnò Torrealva al Pajaten ed io, spiaccicato sul sedile posteriore. In effetti lo spazio a mia disposizione è ridottissimo, sono costretto a viaggiare seduto di traverso e con le gambe accavallate. Il mio zaino è dentro il cassone, assieme a sacchi di patate, scatoloni di gallette, gabbie piene di polli, i bagagli degli altri passeggeri e merci da vendere lungo il tragitto o da consegnare a Pataz. La camionetta parte. Lasciamo Trujillo, con le sue luci gialle, e c'immergiamo nel buio della campagna. I fari illuminano l'asfalto screpolato e le piantagioni di canne da zucchero che corrono parallele alla strada formando due pareti verdi. Ci lasciamo alle spalle la pianura. La strada serpeggia tra montagne brulle e pietrose, dove crescono solo i cactus. Il cielo comincia a schiarire, l'asfalto lascia posto alla terra battuta, alle buche e alla polvere sottile che penetra dappertutto. Si viaggia con la musica a tutto volume: ragazzino e ragazzina si turnano a fare i DJ; la musica è quella dei Tucus e Los reales de Cajamarca. Alle 7.15 facciamo una sosta a Casmiche. A 1.600 metri di quota (secondo il mio altimetro) è un gruppo di casupole dall'aria vetusta. Ci sono dei ristorantini, ma non sembrano particolarmente invitanti. Lungo i marciapiedi spuntano tubi per l'acqua e l'aria compresa: dato il pessimo stato della strada si può sempre aver bisogno si gonfiare un pneumatico o di un rabbocco per il radiatore. Alle 8.20 sostiamo ad Agallpampa. Sempre secondo il mio altimetro ci troviamo a quota 2.800. Il sole splende e il cielo è blu intenso. Mentre i miei compagni di viaggio fanno colazione, io preferisco andarmene un po' in giro per ammirare il paesaggio e scattare qualche fotografia. Case di mattoni d'argilla cotti al sole, alcune intonacate e dipinte con colori tenui; portici e terrazzini in legno e tetti di tegole. Un'insegna arrugginita dondola da una trave, c'è scritto: SE VENDE GASOLINA 84 (ottani), PETROLEO, ACEITES, LIQUIDOS PARA FRENOS Y PARCHES. SERVICIO PERMANENTE. Questo significa che l'officina è aperta ventiquattr’ore su ventiquattro! La cappa di erba secca e stenta che ricopre i fianchi delle montagne è interrotta da rettangoli irregolari di terra arata e scarsi ciuffi di eucalipti dai tronchi chiari e lisci. I colori predominanti sono i marroni, le ocre e i bruciati. Alle dieci superiamo quota 3.000, cinquanta minuti dopo passiamo per Shorey. Il paesaggio è allucinante: Shorey è un miniera di carbone. I toni marrone e ocra si trasformano in grigio e nero. Tutto è ricoperto da una tetra patina scura. Le montagne presentano squarci enormi, fatti dalle macchine per inseguire i filoni di carbone. Alcuni giocatori sono impegnati in una partita di pallone su un campo che sembra d'asfalto. Sotto il sole brillano i tetti di lamiera degli edifici. Ci fermiamo per un controllo della Guardia Civil. Ristorante "Los Frailones" Percorriamo un altopiano a quota 3.800 metri di altezza e facciamo una sosta presso il ristorante “los Frailones”. Il ristorante è una fatiscente baracca di un solo piano, il tetto è parte in tegole, parte in lamiera e il resto in paglia: pietre e vecchi pneumatici assicurano che il vento non ne porti via qualche pezzo. Sopra la porta è appesa l'onnipresente insegna bianca e rossa della Coca Cola. 25 Davanti è parcheggiato un asino. Alcuni maiali, piccoli e neri, sono stravaccati nella polvere. Una bambina con indosso un elegante vestito di tessuto scozzese gioca seduta per terra. Da una finestra il gestore serve bibite e, all'occorrenza, qualche pasto caldo. A poca distanza del ristorante un giovane con uno zainetto sulla schiena scruta immobile la vallata sottostante e la catena di montagne in lontananza. La maestra di Pataz mi si avvicina e mi mormora all'orecchio: « Quello è un terrorista. Fanno così, controllano il territorio. » Mi sento un po' preoccupato. Risaliamo in macchina e continuiamo il viaggio. Attorno a noi un paesaggio arido e spoglio: a sinistra cime coperte di “ichu”, a destra un'ampia vallata chiusa da una interminabile serie di cime. Il traffico è inesistente; solo nelle vicinanze di Shorey abbiamo incrociato altri automezzi, per lo più camion che trasportavano minerale. Abbiamo da poco lasciato “los Frailones” quando l'autista si gira verso di me e dice: « Stiamo entrando nel territorio controllato dai terroristi. Se ci fermano non dire che sei un turista, dì che sei un prete, così non ti fanno niente. » Sono sconcertato; ricordo bene quanto mi aveva detto il marito della signora Gloria: con i “caballeros” dell'MRTA non ci sarebbero stati problemi. « Come un prete! » rispondo. « E se quelli vogliono che gli celebri una messa? » Concordiamo una versione più plausibile: sarei stato un prete laico in viaggio per aiutare la gente del posto. A pensarci bene, però, i componenti dell'MRTA sono di fede marxista... difficilmente qualcuno di loro mi avrebbe chiesto una messa. Ma è sempre meglio prendere le proprie precauzioni: un eretico poteva sempre militare tra le loro file. Chiedo cosa potrebbe accadermi se ci fermano. Mi risponde l'ex compagno di Torrealva: « Chiedono un “cupo” (una tangente), poi ti portano in qualche villaggio e ti mettono a lavorare per qualche giorno, magari a impastare mattoni di argilla o a fare qualche altro lavoro in aiuto della popolazione... » Beh, penso, mica male come prospettiva. Potrebbe essere un'esperienza positiva! « Il peggio è quando ti rilasciano » continua il signore, « se ti prendono i militari. A me è successo: mi hanno accusato di collaborazionismo, mi han messo in prigione e bastonato di santa ragione. » Annoto mentalmente: se mi prendono i militari negare tutto: dire che si è stati ospiti di vecchi compagni di scuola. Intanto, giù nella valle, si snoda tristemente una lunga fila di persone; quelle in testa portano una bara in spalla. La maestra tira fuori un cartoccio, ne estrae un pollo cotto, lo spezza con le mani e distribuisce, cosce, alucce e parti di petto. Odio il pollo, specialmente quello freddo, mezzo crudo e senza sale ma, per non offendere “l'anfitriona”, inghiotto la mia razione. Siamo ormai vicini alla città di Huamachuco, l'autista si ferma per sistemare il carico e io approfitto per fare una foto di gruppo ai miei compagni di viaggio. Alle 13.44 arriviamo a Huamachuco. All'entrata della città la strada è bloccata: la polizia controlla minuziosamente gli automezzi. Quando ci lasciano passare raggiungiamo il centro e ci fermiamo per un zuppa (2.000 inti). Sono le ore 15. Alle 15.35 ci rimettiamo in viaggio. Strada pessima e paesaggi splendidi: il vento piega i giovani eucalipti e le loro foglie azzurrine sembrano Foto di gruppo vicino a Huamachuco imitare le onde del mare. A Pallar ci arriviamo alle 16.50. Poche case di terra con le pareti affumicate, tetti di lamiera, donne che vendono arance; cani, polli e maialini neri che scorrazzano dappertutto. Ci sediamo sotto un portico sbilenco per uno spuntino, fuori pioviggina e 26 l'autista è preda del “soroche”, il mal di montagna: nausea e mal di testa. Passiamo Chugay (3.371 mslm) alle 18.05, mentre il cielo si tinge di arancione in un bel tramonto. Il buio cala velocemente. La strada peggiora: si trasforma in un sentiero, anzi, in una serie di tracce confuse che non portano da alcuna parte. L'autista si perde, gira a vuoto, tenta di seguire una pista che ha parvenza di strada. Lontano un lumicino rosso attira la sua attenzione; lo raggiunge solo per scoprire che si tratta di un camion in panne. Il “soroche” peggiora e la macchina comincia a fare i capricci. Data l'altitudine il carburatore fatica a bruciare la benzina. La motore s'ingolfa e si spegne. Stiamo affrontando una ripida salita: bisogna scendere e bloccare il mezzo per impedirgli di scivolare indietro. Fuori si gela ed è buio pesto. In cielo splende una eccezionale quantità di stelle. Si vede distintamente la via lattea. Gli occhi si abituano e quel chiarore ci permette di distinguere, sul terreno scuro, il tenue lucore delle pietre. Ne scegliamo un paio sufficientemente grosse da mettere sotto le ruote posteriori. Dopo qualche tentativo la camionetta si rimette in moto e si può ritornare al caldo della cabina. Purtroppo non dura molto: il motore s'ingolfa nuovamente e dobbiamo a scendere e cercar pietre. Questo più volte. Finalmente la camionetta sembra mettere la testa a posto, riusciamo a venir fuori dalla pampa e ritrovare la strada. Più avanti siamo costretti a fermarci davanti a uno stretto e profondo canyon: il ponte che lo attraversa è formato da tronchi contorti; le fessure tra i tronchi sono troppo larghe e le ruote della camionetta rischiano di infilarsi dentro. Bisogna uscire e cercare pietre con cui richiudere le fessure. Lavoriamo alla luce dei fari e, con un po' di impegno, risolviamo il problema. Prudentemente rimaniamo fuori mentre, molto lentamente, la camionetta si avventura sul ponte: i tronchi scricchiolano, le pietre affondano nelle fessure ma tutto tiene. La camionetta passa. La strada si addentra nelle le Ande con infinite curve. Ci fermiamo a Molino Viejo, sono le 20.50. C'è una locanda aperta, la signora Gloria vende un po' di polli e io bevo un tè molto annacquato, ma bello caldo (500 inti). Ripartiamo un'ora dopo, alle 21.50. Non ricordo esattamente dove, in località Molino Nuevo, mi sembra, passiamo davanti alla dimora di un potente “brujo” (stregone). Per un attimo i fari illuminano una serie di strani totem piantati come alberi di un singolare giardino. Domenica 27 agosto Dopo tanta salita la strada inizia a scendere: stiamo arrivando nella valle dove scorre il fiume Marañon. La camionetta affronta una serie di stretti tornanti e, alla fine, ecco il fiume; lo attraversiamo facendo vibrare le assi sconnesse di un ponte di ferro, giriamo a destra ed entriamo a Chagual. Ci fermiamo davanti al posto di controllo della polizia. È tutto buio. La luce intermittente di una pila segnala all'autista di scendere. Attraverso il finestrino riesco a malapena a distinguere la sagoma scura di un basso edifico. Sotto al porticato si muove l'ombra di qualcuno che sembra dormire dentro un sacco a pelo. Alcune ombre si avvicinano alla camionetta, si distingue il fioco bagliore delle armi. Il fascio di luce di una pila illumina l'interno e scruta i passeggeri. I militari riconoscono i viaggiatori; c'è uno scambio di saluti e si riparte. Sono le ore 1.45. Il paesaggio è totalmente cambiato: i fari rivelano strani alberi spogli ed enormi cactus. La strada è ora tutta in salita, dietro di noi lasciamo una densa scia di polvere che le luci posteriori colorano di rosso. Curva dopo curva saliamo sempre più. Improvvisamente l'autista comincia a suonare il clacson. Suona e suona, senza smettere. Più avanti capisco perché: la strada è sbarrata da una catena, il suono serve a svegliare il custode che ha le chiavi del lucchetto. Il costo dei lavori che hanno trasformato la mulattiera in strada carrozzabile è stato sostenuto dai cittadini di Pataz. Ora quanti vi transitano devono pagare un pedaggio, così da poter recuperare le spese. Arriviamo davanti alla catena nello stesso momento in cui il custode, con aria notevolmente assonnata, sta uscendo dalla sua abitazione. Apre il lucchetto, abbassa la catena e saluta l'autista. Alle 2.48 arriviamo a Pataz. Tutto buio: il generatore di corrente è guasto ed è stato portato a Trujillo per essere riparato... sei mesi fa. Intanto 27 ci si arrangia coi lumini a olio e a carburo. La sorella della signora Gloria è la proprietaria di uno dei due negozi di Pataz dove si vende di tutto. Ha anche uno stanzone con una decina di letti per alloggiare eventuali visitatori. M'informa che, per il momento, in paese non ci sono guide: sono state tutte contrattate dalla spedizione dell'università del Colorado. Dovrebbero tornare a giorni. Mi fornisce una candela e mi fa vedere lo stanzone. Porto su lo zaino. I letti sono tutti liberi, quindi posso scegliere. Scarto il primo perché ha la rete sfondata; ne scarto un altro perché il materasso sembra di cemento ricoperto di sassi; infine ne scelgo uno che promette una certa comodità. Mi spoglio, indosso una tuta da ginnastica per la notte e mi ficco sotto le coperte. Poco dopo arriva Lucy: dormirà al fondo, dove una tenda separa il reparto maschile da quello femminile. Molto più tardi arriva anche l'autista, sfatto: è dovuto tornare indietro per cercare la borsa della signora Gloria, caduta chissà dove e chissà quando, che conteneva una ingente somma di denaro. La ricerca, inutile dirlo, si è dimostrata vana. Sveglia alle 7.48. Dopo una sostanziosa colazione lavo il telo con cui avevo avvolto lo zaino: i polli l'avevano ridotto in condizioni indecenti. Elenco provviste: due latte di palmitos, due latte di pesche sciroppate, una latta di sardine, due vasetti di marmellata “Fanny” alla fragola, formaggio, biscotti vari, biscotti al cioccolato, biscotti alla vaniglia, quattro barrette di cioccolato, cinque bustine di minestra, venticinque bustine di tè, zucchero e pane. Il tutto pesa circa sei chili. Pataz si trova a 2.780 metri di altitudine, è prevalentemente un paese di minatori: ci sono, infatti, molte miniere d'oro. Il metallo, però è quasi esaurito, quindi le miniere non sono più sfruttate da grosse compagnie ma da privati. Pataz Pataz Il paese si estende lungo il fianco della montagna, per questo la piazza ha una notevole pendenza. La chiesa è intonacata di bianco, così pure il campanile, diviso dalla chiesa da una scala che porta alla cella campanaria. Chiesa e campanile sono sbarrati. Il prete non c'è: viene due o tre volte all'anno e celebra matrimoni, battesimi, comunioni e cresime. Davanti al campanile sono accatastati sacchi di minerale. A sinistra del campanile una dozzina di gradini superano il dislivello portando a degli edifici a due piani. Uno ospita il negozio della signora Isabel, sorella della signora Gloria. A destra di questo una scala di legno porta allo stanzone dove sono alloggiato. Sotto alla scala un'apertura immette in un cortile dove si trovano i servizi igienici e la lavanderia. Al centro della piazza, quadrata, lastricata di cemento, sorge un monumento dedicato al minatore: un basamento rotondo, rossiccio, sostiene un parallelepipedo verdognolo, di cemento, con pietre incastonate sulla superficie. Sopra si erge il busto di un minatore con tuta e casco. Nella mano sinistra tiene uno scalpello; del braccio destro rimane solo l'anima di ferro e un moncherino che ancora impugna il manico di un martello. Giusto di fronte al monumento si trova l'edificio del Consiglio Comunale: ha un solo piano, tetto in tegole e sopra la porta è appeso lo stemma del Perù. A destra della chiesa passa la via che si può considerare come la principale. Ai suoi lati sono accatastate pile e pile si sacchi di minerale d'oro. Le case sono costruite con mattoni d'argilla impastata con paglia e cotti al sole. L'intonaco è 28 bianco e celeste. Generalmente sono a due piani, con le camere al primo piano che, di solito, è fornito di un terrazzo più o meno lungo, con ringhiera in legno. I tetti sono di tegole o lamiera. Pranzo in camera: minestrina “Maggi” cucinata sul fornellino da campo, pane e formaggio. Verso le 15 approfitto della splendida giornata per visitare paese e dintorni. Sole, vento e “mosquitos”. In un campetto appena fuori dal paese si sta giocando la classica partita di pallone. Il rio Frances Dintorni di Pataz M'incammino per una stradina e procedo per parecchi chilometri. Il paesaggio è molto singolare, gli scorci sono diversi e sorprendenti a ogni curva. Sul fondo di una “quebrada” (valle stretta e profonda) scorre sinuoso il rio Frances, così chiamato perché tempo fa alcuni francesi vi possedevano una miniera. La strada sterrata è fiancheggiata da gradi piante di agave, gli alberi ad alto fusto sono scarsissimi. Ci sono campi appena arati color marrone e campi giallo oro dove l'orzo è stato appena tagliato. Giallo e marrone sono spesso separati dal verdeazzurro delle siepi di agave. Lontano sfumano nel violetto le cime dei monti. Discreto tramonto con la terra che si tinge di rosso e nuvole grigie. Il buio arriva rapidamente. Alle 18 rientro a Pataz. Nel negozio della signora Isabel per 7.500 inti compero un chilo e mezzo di mandarini. La signora mi avverte che ci sono problemi per contrattare una guida: mercoledì 30 agosto è la festa di Santa Rosa di Lima, bisognerà aspettare giovedì. Ore 19.15: di certo Pataz non brilla per la vita notturna. Ceno e mi butto a letto, alquanto arrabbiato per tanti contrattempi. Alle 20 qualcosa cade sul lenzuolo, vicino alla mia testa, e mi distoglie dal dormiveglia. Un pezzetto di intonaco? Una “cucaracha? Accendo la pila e guardo: è una cacca di topo! Punto la luce verso il soffitto: appollaiato su una trave un topo grosso come un gatto mi osserva con attenzione. Agito la pila e il topone scompare in una fessura. Preoccupato controllo che non ci sia roba da mangiare sparsa, chiudo bene lo zaino e me ne torno sotto le coperte col coltello da sopravvivenza a portata di mano. Verso le 22 mi sveglio di soprassalto: lo stanzone risuona di striduli squitti e di rumori di lotta di topi. La luce della pila non mi rivela nulla. Torno sotto le coperte e sono ancora sveglio quando qualcosa passa correndo, attraversa il mio cuscino e mi sfiora i capelli. Mi alzo di scatto ma qualsiasi animale sia stato è già sparito nel buio. Sfodero il coltello e lo pianto sulla sedia, accanto alla candela che lascio accesa per tutta la notte. Lunedì 28 agosto Oh gioia! Poco dopo le 7 del mattino bussano insistentemente alla porta: c'è una guida. Scendo volando: si tratta del signor Manuel Armas Coronel, sceso casualmente in paese per fare acquisti. Non è stato ingaggiato dagli americani perché si trovava in viaggio. Lo contratto io immediatamente. Chiede 15.000 inti al giorno e altrettanti per il mulo. Per nove giorni sarebbero 29 quindi 270.000 inti. Il mangiare è a mio carico. Col signor Armas Coronel faccio la spesa: per la colazione due chili di “cuaquer” (avena, 11.000 inti), due chili di zucchero (5.200 inti) e biscotti (8.000 inti). Per il pranzo: otto lattine di tonno (24.800 inti), otto lattine di latte Nestlè (24.000 inti), biscotti (8.000). Per la cena: quattro buste di minestra di semola e quattro di pasta (20.000 inti). Totale 100.200 inti. Gentilmente la signora Isabel mi fa lo sconto di 200 inti. Niente pane perché non c'è lievito. Alle ore 7.35 tutto sembra sistemato. La partenza è fissata per domani alle 6 del mattino; si prevede di visitare anche “Los Pinchudos” o “Colorado”. Torno in camera contento. Durante la notte la candela si è consumata totalmente. Compero due candele (2.500 inti) e una bustina di Ace, che mi viene regalata, con cui lavare un po' di indumenti. Dopo il bucato faccio il bilancio: in cassa restano 1.691.700 inti. In piazza c'è movimento: tre minatori stanno partendo per la miniera, scendo a fare quattro chiacchiere. Uno di loro, Manuel Olano, è cugino della mia guida. I tre stanno facendo acquisti e caricando i muli. Comprano provviste a attrezzi: avena, sardine in scatola, scalpelli, candelotti di dinamite, picconi, riso, sale, lamiere ondulate, foglie di coca... il negozio della sorella della signora Gloria è davvero ben fornito. La loro miniera si trova alquanto lontano; torneranno a Pataz, cercatori d'oro in partenza Pataz quando avranno riempito duecento sacchi di minerale. Se il minerale risulterà ricco d'oro verrà lavorato in paese, altrimenti verrà spedito in raffineria a Trujillo. Uno dei minatori adocchia i miei scarponi. Voglio venderglieli? Mi pagherebbe in oro. Tira fuori un cartoccetto e mi fa vedere un mucchietto di scaglie verdognole. Quello è oro? Oro puro, mi assicura. Se non fossi all'inizio del viaggio, quasi quasi glieli venderei, ma ora no, ne ho bisogno. Forse al ritorno... A mezzogiorno pranzo con una minestrina Maggi (carne con fideos). La giornata è discreta, decido di fare una passeggiata, tanto per riconoscere il cammino che mi aspetta domani. Acquisto 4 banane (1.000 inti) e decido di avvivare fino a Los Alisos. Sono le 13.24, indosso la giacca a vento, infilo quattro mandarini in tasca e m'incammino per una stradina a destra del Consiglio Comunale e subito incontro alcune raffinerie d'oro. Sotto tettoie di frasche ci sono delle superfici di cemento incavate, lì viene posto il minerale e macinato con dei grossi rulli di pietra. Gli uomini, seduti per terra, spingono i rulli avanti e indietro con i piedi, senza fretta, fumando, chiacchierando o masticando coca. Raccolgo alcuni cristalli di Macine per il minerale d'oro quarzo aurifero come ricordo, saluto i lavoratori e proseguo nel cammino. Dopo una scuola il sentiero si restringe e scende con forte pendenza costeggiando un ruscello che fornisce acqua alle raffinerie. Quanto segue è abbastanza noioso e si può saltare senza tanti problemi. 13.32, ruscello con cascatina; il sentiero è in salita. 13.34, il sentiero si allarga. 30 13.48, il sentiero piega bruscamente a destra e scende leggermente. 13.54, casa sulla destra. Con una curva secca si supera un torrente. 13.58, sul lato sinistro si costeggia un canale. Sentiero in leggera salita. 14.04, si arriva in località Santa Maria, gruppetto di case, molta acqua, si supera un piccolo torrente. A destra scorre un canale artificiale. 14.12, si supera un ponticello e si arriva a Pueblo Nuevo. 14.14, secondo ponticello. 14.16, terzo ponticello che supera un canale artificiale. 14.25, si supera un gruppo di case e una piccola cascata. 14.30, si arriva a un bivio. Si prosegue dritti ( a sinistra si arriverebbe a una casa). Sentiero molto fangoso. Da sinistra arriva il rumore di una cascata. 14.34, ruscello a sinistra. 14.36, guado. 14.38, il ruscello serpeggiante costringe a un nuovo guado; un ponticello permette di superare un secondo corso d'acqua. 14.45, la valle si chiude. Si arriva al greto di un fiume. A sinistra si passa un canale, si segue il greto del fiume che si guada due volte, quindi si risale l'argine. 14.59, tratto di sentiero tutto in salita e si arriva a Poroto (che io credo sia Los Alisos). La prima casa sulla destra è la casa della mia guida. Tempo di percorrenza un'ora e trentacinque minuti. Tutto sommato il sentiero non presenta difficoltà. Segue il fianco del Cerro Alto las Pircas, mentre dalla parte opposta, lungo una profonda vallata, scorre il rio Chigualen che più avanti prende il nome di rio Frances e, più avanti ancora, di Hualanga, prima di buttarsi nel Marañon. Sul fianco della montagna si aprono numerosi buchi: sono le entrate delle miniere. Giù, nella valle, molte zone coltivare e ciuffi di alberi fioriti. Molti tratti del cammino sono coperti di fango nero, pochi i tratti con pietrisco, la maggior parte del percorso si svolge su terra battuta. Passo un po' di tempo a parlare con la guida. Mi indica le cime che ci circondano e mi dice i nomi. Mi fa notare il Peñashuya e, più a destra, la cima aguzza del Colpar, sotto il quale passeremo domani. Alle 15.07 mi metto in cammino per il ritorno. Per strada incrocio due tipi: in spalla reggono pesanti sacchi di iuta, sono venuti a Pataz per vendere picconi, asce e zappe. Non hanno venduto nulla. Chiedo loro se hanno un machete. Non ne hanno. Mi chiedono informazioni su Los Alisos e Tayabamba, dove sperano di fare qualche affare. Arrivo a Pataz alle 16.35. Trovo la signora Gloria e le pago il viaggio: 70.000 inti. Incontro la signorina Lucy, reduce dal suo primo giorno di scuola. Insegna in quarta elementare e ha nove alunni. È nativa di Oxapampa. Ha lasciato il lavoro di infermiera in un ambulatorio di Trujillo per venire a insegnare a Pataz fino a dicembre. È rimasta alquanto delusa. La piazza di Pataz pullula di bambini. Mi intrattengo per far loro un po' di foto. Purtroppo, data l'ora e il tempo uggioso, la luce è scarsa. 31 Un giovane mi si avvicina, cominciamo a parlare e, saputo che sono diretto al Pajaten, mi chiede se voglio conoscere Torrealva, lo scopritore delle rovine. Caspita! Non me lo faccio ripetere due volte. Lo seguo fino a una modestissima casa di fango. All'interno giocano e schiamazzano alcuni bambini. Nella penombra ascolto e registro, con molta emozione, la storia della scoperta del Gran Pajaten. Sono le 18.30. Don Carlos Tomas Torrealva Juarez è un anziano signore, pelle color del cuoio, viso segnato da profonde rughe, occhi scuri, lucidi, vivi. Parla con voce chiara, ferma. « ...Bueno... è molto lungo raccontare, anche in sintesi ma, in parte, si può fare. Il Pajaten lo scoprimmo quando cercavamo terre coltivabili, “vetas” (filoni) e “lavaderos” d'oro (depositi alluvionali) che non fossero proprietà dei capitalisti. L'intenzione era quella di realizzare una comunità simile a quella esistente al tempo degli inca e creare nuove fonti di lavoro per fermare la costante migrazione degli abitanti verso la costa. A quel tempo le miniere erano di proprietà dei capitalisti i quali, pur sapendo che la miniera era l'unica fonte di lavoro qui a Pataz, chiudevano le miniere a loro piacimento e, quando decidevano di riaprirle, davano lavoro solamente per qualche giorno. Così pensammo di non continuare a essere sottomessi ai proprietari delle miniere. Abbiamo la selva a 30 chilometri da qui, la selva è vergine, è del popolo; è dello stato, certamente, e per il fatto di appartenere allo stato è del popolo. Possiamo andare in cerca di terre coltivabili, filoni, “lavaderos”, per poter lavorare. Questo fu il motivo per cui ci inoltrammo nella selva. Fu per sorte che, in uno di questi viaggi, non solamente trovammo terreni adatti all'agricoltura, all'allevamento e alla miniera, ma durante il ritorno c'imbattemmo in vestigia di antichi insediamenti. Ciò mi interessò molto, questi insediamenti potevano appartenere all'antico popolo di Apisuncho. Il sentiero porta alla cordigliera e al Camino Marginal. Decidemmo di seguire questo cammino anche se allungavamo il viaggio. Chiesi ai miei compagni se erano d'accordo di procedere. Tutti furono d'accordo. Se possiamo, possiamo tutti e quattro. Ci salvammo per miracolo (en buena hora). Rimanemmo tre giorni senza mangiare. Ne uscimmo quasi morti, però scoprimmo il cimitero di questa cultura, non la cultura stessa, che si suppone fosse lì vicino. In dicembre organizzammo un altro viaggio, nello stesso anno, il 1963. Nel '64 organizzammo un successivo viaggio con vari rappresentanti del popolo, per ripartire i terreni e occupare le zone da dedicare all'agricoltura. Noi (Torrealva e compagni) ci andammo solamente per le rovine e fu allora che ci rendemmo conto della loro importanza. Viaggiai immediatamente a Lima, per far conoscere al giornalismo nazionale, a tutte le autorità e specialmente al governo. Proprio così. In questo modo si rese noto a tutti che il Pajaten era bello e io ne chiedevo il riconoscimento immediato e la sua salvaguardia. Abbiamo anche organizzato un comitato, posteriormente, per difendere il Pajaten. Finora, però, nessuna istituzione ha voluto riconoscerlo. Il Pajaten, ora, si sta avviando verso la distruzione totale a causa della negligenza o cattiveria delle attuali autorità. Ora spero aumentare le opportunità internazionali. Ojalá (voglia dio) che qualche università di qualche paese straniero s'interessi e ordini la sua salvaguardia. Adesso il governo “està hasta las patillas” (è preso male, ha grosse difficoltà), non ci sono soldi e sicuramente non potrà prendersi cura. Tuttavia i guardaparchi dicono di essere pagati da fondi stranieri, però loro controllano solamente, non se ne prendono cura: Pajaten si sta avviando verso la distruzione totale. » Chiedo quando furono scoperte le rovine. « Fu scoperto nel '63, ma venne fatto conoscere in maniera più ampia al giornalismo e alle stesse autorità nel '64. Nel '63 parlai persino col Presidente Belaunde il quale, però, non prese alcuna decisione. Nel '64 non sopportai più, mi recai ai giornali, alle autorità e allo stesso governo, così, dopo due anni vengono ufficialmente riconosciute le rovine e si organizzò una spedizione scientifica civile. 32 Quando si realizzò il riconoscimento ufficiale tutte le autorità che intervennero componendo la spedizione contarono con molto appoggio dello stato. Raccomandarono soprattutto la salvaguardia. Mi incaricarono di proteggere le rovine e di pulire i sentieri, però quando andai a sollecitare il pagamento, non pagarono la mia gente, venti uomini. Rimasi col conto sospeso e dovetti pagarlo di tasca mia. Chiedo: « La spedizione a cui si riferisce, in che anno fu? » « Nel 1965 ci fu la prima spedizione e nel 1966 la seconda. Io rimasi a occuparmi delle rovine, pulendo i sentieri. Pensavo di ottenere un finanziamento. Viaggiai a Lima per ottenerlo in modo da poter pagare la gente, ma il finanziamento non c'era. Dovetti pagare la gente con i miei soldi, poco a poco. Savoy venne nell'anno 1965, prima della spedizione scientifica. Dopo si fece passare come lo scopritore. Io lo denunciai. [...] Mi recai presso la rivista Gente, gli feci una denuncia e sa cosa successe? La denuncia la facemmo per il furto di tre “cabezas clavas” (teste scolpite in pietra incastrate nelle pareti), lì, nel Pajaten. Nella rivista uscì tutta la denuncia. Il giorno che fu pubblicata a noi dettero due copie, vedemmo che la denuncia andava bene e fummo alle edicole per comprarne una mezza dozzina con i miei compagni di allora. Non ne trovammo nemmeno una! Fummo alla tipografia... nemmeno! Era successo che il signor Savoy aveva comprato l'intera tiratura prodotta dalla rivista Gente e, sicuramente, la bruciò. Quella denuncia deve continuare, ma con questo governo no; quando ci sarà un altro governo o la comunità scientifica internazionale possono investigare su questo, perché tre “cabezas clavas” valgono molti soldi. Si investighi, e il signore deve renderne conto. Se non ha commesso (il furto) perché non ha risposto alla rivista Gente, davanti alle autorità? Perché, alfine, qualcuno è venuto a conoscenza del fatto. Ne abbiamo la certezza. In seguito mandammo a tutte le dipendenze pubbliche e allo stesso giornale copia di questa denuncia, ma nessuno l'ha pubblicata. Io ce l'ho lì. » « Incredibile! » esclamo « ¡Así es! ¡Que barbaridad! » « Com'è stato che... » Torrealva mi interrompe. « Sa come s'interessò questo signore? Fu nel mese di maggio-giugno del 1964. Noi pubblicammo sui giornali che avevamo scoperto Eldorado. Vennero pubblicate alcune fotografie... io non ero fotografo... avevo una macchinetta... uscì qualcosa, non molto in verità, però quello che importava era provare il fatto del ritrovamento di rovine importanti: avevamo bisogno che il Governo riconoscesse e che ci andassero fotografi e giornalisti. Comunque venne pubblicato che avevamo scoperto Eldorado, allora Gene Savoy s'interessa, vede l'articolo in prima pagina: lo pubblicò La Industria di Trujillo, La Prensa di Lima, El Comercio di Lima, Expreso pure lo pubblicò, così si venne a conoscenza che la scoperta era interessante. Allora (Savoy) ci scrisse una lettera facendoci sapere, per mezzo di Karl Roble di Comercial, che voleva conoscere Eldorado, scattare fotografie ed esibirle nella fiera di primavera. Ho la lettera, la custodisco per ogni evenienza. Allora che succede: viene da Trujillo, nasce l'ambizione, se ne va da un colonnello di Trujillo e chiede un'autorizzazione per andare da solo a Eldorado. E noi lo stavamo aspettando qui (a Pataz), secondo la richiesta avuta con la lettera. A quel tempo a Chagual c'era un distaccamento mobile contro i guerriglieri. Noi eravamo stati denunciati come comunisti e guerriglieri che, col pretesto delle rovine, avevamo un esercito di guerriglieri nella selva. “Así, oiga”. Ciò ci causò molto malessere, morirono quattro miei figli per colpa di ciò. Così è, bisogna dirlo davanti a qualsiasi giornalista. Morirono... peggio se fossero stati fucilati... perché minacciarono di fucilarci. Per quelle conseguenze morirono i miei figli... peggio se fossero stati fucilati. Venne, dunque, Savoy portando l'ordine da Trujillo per poter entrare nella selva a Eldorado da solo. Arriva a Chagual, portando la copia del colonnello; a Chagual c'era un comandante il quale, 33 vedendo l'ordine del colonnello di Trujillo è costretto a obbedire. Viene qua Savoy (a Pataz) e qui c'era un tenente. Il tenente era a conoscenza che io dovevo viaggiare al Pajaten e che aspettavo soltanto l'arrivo del tipo (Savoy). Il tenente vede l'ordine del colonnello di Trujillo e quello di Chagual; mancava, quindi, solo il suo. Mi mandò a chiamare... fijate, compadre, era guardador (pensa, compare, era sorvegliante, incaricato di vigilare sulle rovine. Torrealva si rivolge al giovane che mi ha accompagnato da lui) e mi dice: « Lei è Torrealva? » « Sì, sì! » « Il signor Savoy se ne va solo al Pajaten. » « Per quale ragione se ne va solo? » « Porta l'ordine di Trujillo e del comandante di Chagual. » Gli dico: « Lui non può entrare. » Intanto tirai fuori un documento che avevo portato da Lima, della Corporazione del Turismo. « Perché a me hanno detto che lei non ci andava, non ha entrata al Pajaten: ci va solo Savoy col suo gruppo. » « Ecco qui! Legga, tenente » (mostrai il documento al tenente). Questi lesse l'ordine da Lima della Corporazione del Turismo, in cui si diceva che tutte le autorità della zona, da Lima fino a qui, hanno diritto e obbligo di prestare garanzie a me affinché possa entrare e uscire dal Pajaten. Allora il tenente rimase mezzo spaventato e mi disse: « Guardi, io non poso fermare il suo viaggio. Se lei vuole può andare col signor Savoy, altrimenti può andarci per conto suo. Però sarebbe conveniente un accordo. Che dite, ve ne andate (assieme?). » Ci mettemmo d'accordo lì stesso . Io notavo una certa cattiveria (in Savoy). Lungo il tragitto successero molte cose, ci vorrebbe troppo tempo per raccontarle. Arrivammo al Pajaten, senta, senta, il “gringo” ballava di allegria. « Oh, » disse « con esto arriba (evviva) Pataz... arriba Perú... » Pitaz, diceva, per dire Pataz... pronunciava il castigliano così così, dopo altre cose non pronunciava. Ballava lì. Era una buona scoperta per gli scienziati. Ci mettemmo d'accordo ma, disgraziatamente, non facemmo un accordo scritto, soltanto verbale: guardi (rivolto a Savoy), vada negli Stati Uniti e in tutta Europa facendo vedere che questa è una cultura che si può sfruttare a fini turistici. Qui io m'incarico di pulire le rovine, costruire sentieri di accesso affinché possa entrare qualsiasi gruppo di turisti. Specialmente dobbiamo avere pellicola. Ci mettemmo d'accordo in questa maniera, perché lui andasse all'estero mentre io qui, in Perù, avrei fatto tutto il possibile per promuovere il turismo. Qualsiasi guadagno sarebbe stato poi diviso: 50% a lui e 50% per me e i miei compagni e per difendere le rovine. Arriva qui e, disgraziatamente, c'era un “cabildo abierto”(assemblea a cui partecipa liberamente la gente per chiedere conto al sindaco o altre autorità del loro operato). Chiamarono il “gringo”, perché qui nessuno credeva che io avessi scoperto delle rovine importanti. Nessuno dei miei concittadini. Nessuno! Solamente mia moglie e i miei compagni. Così lo chiamarono al “cabildo abierto”. Il sindaco dice: « Signor Savoy, vogliamo sapere se esistono rovine o non esistono rovine. » Fatto con sospetto, perché ci avevano denunciati come comunisti e guerriglieri. « Sì (rispose Savoy), queste sono rovine molto importanti, di grande valore. Con queste Pataz può ottenere notevoli introiti. » Parlò l'interprete di Savoy, perché lui non parlava castigliano. Era un “tacharon” (ciccione) canadese, lui parlò in castigliano. Detto questo uscirono. Dissero solamente questo e uscirono. Se ne tornarono alla svelta a Trujillo. Allora che succede… siccome io avevo dei problemi col sindaco, tante cose, qualcuno disse: « Signor sindaco mi sembra di capire che il signor Torrealva deve andare a Lima. Potrebbe il consiglio aiutarlo in qualcosa? » « No! » Rispose il sindaco. « Non c'è motivo per aiutarlo! » Così mi denunciò a Chagual sostenendo che avevo attaccato il suo “cabildo”. “¡Así es!” . Allora io, facendo l'impossibile, togliendo persino il necessario ai miei figli, viaggiai 34 immediatamente a Chagual, mi presentai davanti al comandante e gli dissi: « Guardi, signor comandante, io viaggio a Lima. » « Ah, è così! » Rispose. « E cosa è successo tra lei e il sindaco? Lei è stato denunciato! » Risposi: « E qual'è il motivo della denuncia? » « Mi racconti com'è successo. » Il comandante mi trattò bene, così io raccontai, così come ho appena raccontato a lei. Alla fine il comandante mi lasciò andare dicendo: « Vai pure “¡Estos alcaldecitos no saben donde estan parados!” Vai! » Lui aveva già indagato presso lo stesso “gringo”, Savoy, e capito che si trattava di rovine importanti. Così, viaggiando a Lima, il 28 di settembre uscì in prima pagina: SAVOY HA SCOPERTO ELDORADO... Da uccidersi di rabbia! Mi recai alla Corporazione del Turismo con nuove foto dicendo al vicepresidente della corporazione: Come potete permettere questo! Quante volte sono venuto a chiedervi di andare a riconoscere il Pajaten e portare buone macchine (fotografiche) e buoni fotografi, in modo da ottenere buone pubblicazioni. Così smentimmo la notizia e denunciammo Gene Savoy, non per le notizie, per [...]. Savoy fu ingrato. Se torna qui non so cosa potrà succedere. Va bene che sia nordamericano, però credo che come scienziato poteva essere un uomo formale, un uomo legale; invece era un bugiardo e buffone. Precisamente Karola Sibe(?), una scienziata tedesca, una studiosa di studi sull'Atlantide... ho qui il libro intitolato “Vestigia atlantidee ed egiziane in Perù”, in cui attacca Gene Savoy, accusandolo di essere un buffone, un bugiardo. Quando uscì il libro sono stato attento per eventuali critiche, però nessuno disse qualcosa. Io ci sono lì, nel libro, abbracciato alla tedesca. » Chiedo di ripetere il nome della scienziata tedesca. Torrealva risponde: « Karola Sibe(?). Stava in Perù con un professore di lingue. » « Adesso quello che più mi addolora, me e mia moglie, un po' meno, forse, i miei figli, piango di rabbia, tanti sacrifici, tanto tempo perso, tanti soldi spesi. Danneggiarono persino gli studi dei miei figli. Adesso passano molte spedizioni per il Pajaten; i guardaparchi godono di un buon stipendio e noi che? Non guadagniamo un centesimo! Nemmeno ci riconoscono. Non ci danno nemmeno un lavoro, ci danno, agli scopritori: nemmeno ai nostri figli. I guardaparchi sono giovani, i miei figli dovrebbero almeno lavorare lì. Questa è l'ingiustizia che più mi duole. » Chiedo: « Chi furono, oltre a lei, gli altri scopritori del Pajaten? » « In totale fummo sei, gli scopritori; all'inizio, però eravamo in quattro, uno è morto: Santos Escobedo è morto. Calisto N... Ilario, Manuel Villalobos Rodriguez, Nicolas Garcia, Eleodoro Torrealva (mio fratello), e io. Chiedo: « Perché il nome Pajaten? » « Il nome di Pajaten fu un errore. La mappa era sbagliata. Nel nostro paese certe cose non sono state ancora ratificate. Credevamo che il fiume che scorreva per di là fosse il Pajaten, come potevamo osservare nella mappa, per cui eravamo convinti che le rovine da noi scoperte fossero lungo il Pajaten. Invece non era così: il Pajaten è più a nord. Il fiume che bagna le rovine non aveva nome, recentemente noi gli demmo il nome di Montecristo. Non so in che pubblicazione recente lo chiamano Montecristo, in altre pubblicazioni lo chiamano col nome di un comandante che, per la prima volta, arrivò in elicottero al Pajaten. » Chiedo « Lo chiamano anche Abiseo, no? » « Anche, ma l'Abiseo è più in là, questo è un affluente dell'Abiseo. [...] Per me, affinché lei, finalmente lo sappia, ho potuto osservare tutti gli studi che sono stati fatti dagli scienziati sul Pajaten e sulla cultura a cui appartiene. Nessuno può trovare un somiglianza con altre culture, semplicemente hanno scoperto che al Pajaten esiste una mescolanza di culture. Per me Pajaten... e qui lei si metterà a ridere, è stato costruito da esseri venuti da un altro pianeta. 35 Per me gli inca furono extraterrestri. Proprio così. Questa è la mia opinione e voglio mantenerla fino alla fine, anche a torto. Ma so che non ho torto, perché dal giorno in cui scoprii il Pajaten ho visto centoventidue navi extraterrestri che sorvolano il cielo. Ne ho visto una bella grande stanotte, tu non l'hai vista (si rivolge al giovane che mi ha accompagnato). Una grande che passò per di qua. Sono navi di altri pianeti. Due notti fa vedemmo una nave... quella che anche tu hai visto scintillare (si rivolge ancora al giovane che mi ha accompagnato e questi conferma)... quella poteva essere russa o americana. Nella seconda notte tornò a verificarsi lo stesso fenomeno, però differente dagli altri. » Chiedo: « Non potrebbe trattarsi di aerei? » « No, no! » risponde. « Cos'hanno di diverso? » « Sono come luci, uguali alle stelle che vediamo... passano... però generalmente passano da ovest a est, da sud a nord e da nord a sud; non passano da est a ovest, non ne ho mai visto. Nessuna delle centoventidue navi che ho avvistato percorre il cielo da est a ovest, tutte passano da ovest a est e da sud a nord. ¡Asì es, que le parece! Speriamo che porti questa notizia all'estero e che qualche scienziato possa ricordarsi degli scopritori e scrivere quello che è giusto, che è certo. Io ho già pronto uno scritto. Così adesso andrò da Aerocondor, visto che sponsorizza turismo e vuole aiutarci, vediamo se sponsorizza un prima tiratura in cui si racconta come fu dall'inizio. Alcuni dicono che l'abbiamo scoperto per caso, non è così, non ci interessa, che parlino pure, però quando uscirà il libro degli autori della scoperta, tutto sarà raccontato correttamente com'è accaduto, senza togliere né aggiungere su quello che successe nella nostra odissea. » Chiedo: « Come si rese conto di aver scoperto qualcosa di importante? » Risponde: « Il cimitero. Il cammino, più che altro; il cimitero, è molto strano: sotto le pietre hanno fatto una “pirca” (muro a secco) però con pietre ben sistemate, non come i soliti muriccioli nei quali si collocano le pietre alla rinfusa, basta che non cadano. Erano ben unite, con notevole simmetria: allora mi resi conto che si trattava di una cosa importante. E quando scoprimmo le torri in altorilievo. Io arrivai per primo a una “cabeza clava”, per pulire il muschio dentro la selva. Pulisco così... una “cabeza clava”! Questo è Eldorado, dissi, è Eldorado! “¡Allí mismo vi a mi Eldorado!” (in quell'istante vidi il mio Eldorado)... avevo molti sogni... Forse lo scriverò nel mio libro. Anche se mi hanno tradito. Sono ventisei anni che lotto per questa scoperta e ancora non mi riconoscono (il merito). Ventisei anni di spese. Io, a questo Governo, l'anno scorso inviai un memoriale con venticinque copie fotostatiche di quasi tutte le gestioni che sono state fatte, chiedendo il riconoscimento delle rovine e il riconoscimento ufficiale degli scopritori. Venticinque copie fotostatiche al Ministero, al Presidente della Repubblica, al Ministero della Presidenza, al Ministero dell'Industria e Turismo, al Ministero dell'Agricoltura, al Ministero della Pubblica Istruzione, al Presidente del Senato, al deputato provinciale e all'Istituto Nazionale della Cultura. Quanto mi è costato tutto ciò! Un sacco di soldi. E nemmeno una risposta! ¡Así es, oiga!¡Una barbaridad! Continuo ad avere pazienza perché ho considerato il Pajaten come simbolo di pace, di giustizia e di superamento universale. Questo è il mio criterio. Prima l'avevo proposto come biblioteca dell'antico Perù, totale in fin dei conti è rimasto il Gran Pajaten. » Dico: « Speriamo le riconoscano al più presto quanto ha fatto. » « Speriamo... che mi diano almeno un lavoro. Amo molto le rovine. Voglio stare al loro lato per poter decifrare i messaggi che tutti stanno esprimendo... Per questo voglio che mi diano lavoro. » Qua finisce il nastro e s'interrompe la registrazione. Sul lato B la conversazione prosegue: io parlo del mio lavoro, della spedizione Rupa Rupa 80, mentre Torrealva mi parla della pietre di Ica e del suo desiderio di conoscere la cultura egiziana. Nella trascrizione ho cercato di mantenere quanto più fedelmente possibile una traduzione letterale anche, a volte, a scapito della scorrevolezza della lettura. Alcune parti sono di difficile interpretazione in quanto rumori di fondo e voci di bambini si sovrappongono alle parole di Torrealva. 36 La vicenda mi sembra, comunque chiara e, leggendo tra le righe, ci si può benissimo rendere conto di come stavano, e stanno tuttora, certe cose in Perù. Fuori si è fatto buio e cade qualche goccia di pioggia. Nei focolari crepitano i fuochi, i lumi a carburo illuminano le abitazioni. Rimetto in tasca il registratore e mi accomiato da don Tomas Torrealva, scopritore della città perduta di Gran Pajaten, sito archeologico di eccezionale importanza. Prima di uscire, però, chiedo un ultimo favore: apro il mio libretto di appunti e Diario con l'autografo di Torrealva Torrealva mi fa il suo autografo. Purtroppo ormai è troppo buio per scattare un foto. Al solito negozio compro due chili di mandarini (10.000 inti), una lattina di caffè in polvere (3.000 inti) e due scatole di fiammiferi (1.000 inti). Ceno con cinque mandarini, una banana e un po' di biscotti. Preparo lo zaino, scrivo il diario e alle 21.17 vado a dormire. Martedì 29 agosto Ore 5.50, sveglia con tempo nuvoloso. Sistemo lo zaino, faccio colazione e alle 6.35 sono pronto. Manca solo la guida. Pochi minuti dopo le 7 il signor Manuel Armas Coronel, avvolto in un poncio viola, attraversa la piazza di Pataz seguito dal mulo. Carica il mio zaino, ben avvolto in un robusto telo, assicurandolo con una fune e, dopo una foto di rito, si parte. Sono le 7.35. Ci mettiamo in cammino e usciamo dal paese salutati da un mattiniero Torrealva. Ripercorro il sentiero di ieri fino a Poroto. Le poche case di fango sono circondate da campi coltivati e gruppi di Pataz, 29 agosto. Io, il signor Manuel Armas Coronel e il mulo eucalipti. Spunta qualche timido raggio di sole. Alle 9.17 la guida si ferma davanti a casa sua e, aiutato dalla moglie, completa il carico con le sue provviste. Si riparte alle 9.43 tormentati da una leggera pioggia. Subito dopo Poroto il sentiero comincia a salire, a volte con stretti zig-zag. Si alternano tratti di terra battuta con altri cosparsi di pietrisco dove è disagevole procedere. All'inizio camminiamo circondati da bassi cespugli. Più saliamo e più, alla nostra sinistra, si allarga la vista della valle del Chigualen con le sue macchie irregolari di campi coltivati, mentre a destra ci accompagnano le pendici sempre più brulle della montagna. Il signor Manuel cammina veloce. Mastica il suo bolo di coca mescolandolo, di tanto in tanto, con nuova calce che estrae da un piccolo contenitore ricavato da una zucca. Quando lo fa, il ticchettio del bastoncino con cui pesca la calce rompe il silenzio che ci accompagna. Alle 9.50 un tratto di sentiero pianeggiante ci concede un po' di respiro. Alle 10.05 scavalchiamo un ponticello e dopo cinque minuti facciamo una sosta per la necessità di sistemare il carico del mulo. Raggiungiamo Los Alisos (gli ontani) alle 10.22. Non entriamo nel paese (in realtà è solo un gruppetto di case sparse tra campi e macchie di arbusti) ma lo lasciamo alla nostra sinistra. A Los 37 Alisos fervono i preparativi per la festa di Santa Rosa di Lima: lo si intuisce dalla musica di una banda che, portata dal vento, ci insegue per un buon tratto della salita. Veniamo raggiunti da un alcuni uomini che conducono una carovana di muli. Sono diretti a Pias. Ci salutano e ci superano con passo veloce. Il sentiero si fa più ripido, a volte è immerso nel fango nero. Alle 10.54 superiamo una piantagione di eucalipti e, subito dopo, un ponticello di tronchi a quota 2.850, secondo il mio altimetro. Il sentiero ha piegato bruscamente e adesso costeggia l'altro versante della valle. Alle 11.18 a circa 3.000 metri di quota ci accoglie un tratto pianeggiante; ma è solo un breve sollievo e il cammino riprende a salire con stretti zig-zag, passando spesso sotto Sosta a Poroto archi di vegetazione. Sono le 11.53 quando, a quota 3.225 incrociamo la lunga carovana che riporta a Pataz gli studiosi dell'università del Colorado. La lunga fila di muli procede lestamente, portando sulla groppa voluminose casse di allumino. Si alternano le guide avvolte nei loro mantelli scuri, in netto contrasto con le tute sgargianti, azzurre e arancioni, degli studenti americani. Sono in parecchi. Ragazzi e ragazze bionde procedono traballando, con le teste basse, lo sguardo fisso al terreno, con tute e scarponi sporchi di fango e l'aria stanca. La mia guida è avanti. Io procedo col mio passo e ogni tanto mi fermo a riprendere fiato e scattare qualche fotografia. Alle 12.06 arrivo in prossimità di una cascata e alle 12.21 mi fermo davanti a un cartello di legno dipinto di rosso. C'è scritto che, a duecento metri, c'è il posto di controllo di Chigualen. Quattro minuti dopo, alle 12.25, eccomi al posto di controllo. È una bassa costruzione quadrata, con la facciata intonacata di bianco, due piccole finestre, un ampio porticato e il tetto di paglia sorretto da travi di legno. Sorge su un basso terrapieno sostenuto da un muretto di pietre a secco. Di fianco, una lunga asta dipinta di bianco dovrebbe reggere la bandiera. A destra, dietro alcuni cespugli c'è una capanna di terra e paglia (i servizi?). La guida mi sta aspettando, e anche i guardaparchi. Sono tre. Posto di controllo di Chigualen Nell'angusto ufficio esaminano i permessi: quello della casa della cultura di Trujillo è a posto, le credenziali di Foptur non servono a niulla, il permesso del Ministero dell'Agricoltura... pare non sia tanto valido! È invece necessario il permesso della “Dirección General de Forestal y Fauna” di Lima, a carico dell'ingegner Ricardo Narvaez Soto. Si accende la discussione. Si mette mano ai regolamenti. La “Forestal” esige una relazione scritta in sei copie, con foto. Faccio sapere che la Casa della Cultura di Trujillo mi ha chiesto una relazione scritta e che presto faccio a farne delle copie. Mi dicono che il parco è vietato al turismo: sono permesse solamente spedizioni a carattere scientifico. Ribadisco che a Trujillo mi hanno assicurato che i permessi in mio possesso sono in regola. La discussione si protrae per un bel po', maledicendo da entrambe le parti il pressapochismo e la disinformazione degli uffici di Lima e Trujillo. Tutto sembra volgere al peggio quando un guardaparchi è colto da un dubbio: la Direzione Generale di Flora e Fauna non dipende 38 forse dal Ministero dell'Agricoltura? Il mio permesso, quindi, non solo sarebbe valido, ma addirittura di grado superiore di uno concesso dalla Dirección General... Mi consigliano di rivolgermi direttamente al direttore del parco, signor Esteban Alayo Briseño, il quale si trova nel suo ufficio a Pias. Chiedo come si può fare per mettersi in comunicazione con lui, non vedo telefoni nell'ufficio, non c'è una radio? Mi guardano come se avessi detto chissà quale sproposito: lì non c'è corrente né radio. A Pias ci si arriva a piedi. Ci vogliono quattro ore, per loro, abituati a camminare tra i monti e a quell'altezza. Per me, dicono, dopo avermi squadrato con occhi critico, saranno necessarie circa otto! Caspita, penso. Otto ore! Ci arriverò a notte fonda, se non scoppio prima! Ad ogni modo afferro al volo quell'ultima speranza. Rinunciare adesso vorrebbe dire aver buttato via quasi due settimane per nulla. Mal che vada, visiterò Pias! Parto alle 13.15, accompagnato da un giovane guardaparchi: Apolinar Torrealva. Viaggio leggero: lascio zaino e macchine fotografiche nell'ufficio, indosso la giacca a vento e porto con me solo la pila, il coltello da sopravvivenza, una scatoletta di tonno e un paio di mandarini. La mia guida se ne va alla festa di Los Alisos, tanto io, prima di domani pomeriggio, non sarò di ritorno. Il viaggio non potrà riprendere che al 31 di agosto e lui avrà così modo di festeggiare Santa Rosa di Lima. Sopra di noi il cielo grigio non promette nulla di buono. Attacchiamo direttamente il ripido fianco della montagna coperta di ichu. Il guardaparchi avanza tranquillo, io boccheggio dopo un centinaio di metri. Apolinar si volta e mi chiede se so cavalcare: a cavallo possiamo andare più veloci. Penso: non so cavalcare, ma vista la pendenza del cammino dubito che il cavallo riesca a galoppare furiosamente; poi, una volta in sella, non baderò allo stile: mi rattrappirò su me stesso, con i piedi nelle staffe e le redini ben tese e, infine, ci sarà sempre il guardaparchi a darmi una mano. « No » rispondo, « però posso imparare. » Apolinar mi dice di aspettare e sparisce dentro la macchia. Riappare pochi minuti dopo in compagnia di una mula bianca. « Monta su! » mi dice. « E la sella? E le redini? E le staffe? » « Non ci sono. » Guardo l'animale, bianco, enorme. Mi chiedo come riuscirò a salirci in groppa senza fare una figura di merda. « Non preoccuparti, è un animale molto mansueto » mi tranquillizza Apolinar. Con la sinistra mi aggrappo la criniera, con la destra artiglio un ciuffo di peli sul dorso, respiro forte, chiudo gli occhi e mi do uno slancio. Mi sembra di volare. Quando riapro gli occhi: miracolo! sono in groppa! Il cammino può riprendere. Ben presto scopro quanto cavalcare a pelo possa essere un'esperienza sgradevole. Quando si pensa a una cavalcatura si suppone che il suo dorso sia bello tondo, magari non soffice come un sofà, ma sufficientemente liscio da poterci appoggiare le chiappe senza eccessive preoccupazioni. Non è così! Ci si dimentica della spina dorsale, quella serie d'ossa formata da vertebre puntute che, correndo dalla testa alla coda, impediscono all'animale di ammosciarsi come fosse di gomma. Si capisce, allora, come, cavalcando senza sella, il posteriore poggi su qualcosa di tutt'altro che morbido. C'è da aggiungere che la mula è sì un animale imponente ma, probabilmente dovuto della dieta a base di ichu al posto del tenero fieno, è anche piuttosto magra. Inoltre, forse a causa della salita, sembra preda di una inestinguibile sete. Ad ogni pozzanghera abbassa repentinamente il muso per dissetarsi e il brusco movimento minaccia di farmi cadere a testa in giù. Aggrappandomi disperatamente alla corta criniera, con un piccolo balzo mi sposto indietro (e a furia di piccoli balzi son dolori). Soddisfatto il bisogno la mula alza la testa e avanza in salita. L'inclinazione mi fa inesorabilmente scivolare all'indietro. Rischio di cadere di schiena, magari sull'abbondante scia di “fertilizzante” che il simpatico animale si lascia dietro. 39 Nuovo piccolo balzo, questa volta in avanti (e nuovi dolori), e sono pronto per evitare di planare davanti al muso della mula assetata. Dopo quindici, eterni, minuti scendo e imploro il guardaparchi di lasciarmi camminare. Ci sale lui e sembra star seduto su un soffice sofà. La pendenza aumenta e il tempo sembra peggiorare. Risalgo in sella (si fa per dire) mentre bordeggiamo un'ampia vallata; non un albero, non un cespuglio, solo erba bassa e ichu. Nuvole sempre più basse coprono le cime, la valle da una sensazione indescrivibile di immensità, sembra un'enorme conca ricoperta di velluto grigioverde. Sul fondo serpeggia il greto sassoso di un fiume. Da dove siamo si distingue perfettamente la sottile traccia retta del sentiero inca che dobbiamo raggiungere. Corre con leggera pendenza da destra a sinistra lungo il fianco della montagna che ci sta di fronte. Il guardaparchi mi dice che quel sentiero porta al Gran Pajaten. Puntiamo dritti verso di esso. Aumenta la pendenza e aumentano i dolori. Mi tolgo la giacca a vento e la trasformo in sella. Va un po' meglio. Rimango, però, in maniche di camicia. Fa freddo e quasi subito inizia a piovere: una pioggerella sottile e ghiacciata, pungente come tanti spilli. Mi rimetto la giacca a vento, impreco, scivolo giù dalla mula e proseguo a piedi. La mia esperienza con la cavalcatura è durata esattamente quarantacinque minuti, ne porterò le dolorose conseguenze per circa due mesi. Finalmente raggiungiamo il cammino inca. Il guardaparchi scende dalla mula e la lascia libera; saprà tornare a casa da sola, mi assicura. Il cammino è bello, largo e comodo. Lo seguiamo fino ad arrivare al passo Lan Lan. Sono le ore 14.30. In cima al passo troviamo gente. Tre donne, una anziana e due ragazze alquanto carine si riparano dal freddo e dalla pioggia contro un basso muro di pietra dalla forma semicircolare. Aspettano, avvolte nei loro poncio, il resto della comitiva per andare alla festa di Los Alisos. Superiamo il passo ed entriamo in un altro mondo: non più erba secca ma una esuberante vegetazione tropicale. Grossi alberi bordeggiano il cammino; dai loro rami penzolano muschi e ciuffi di bromeliacee dalle foglie rosso vivo. Il sole splende alto nel cielo blu. Mi pento di non aver portato la macchina fotografica. Il sentiero scende velocemente. A volte è largo e agevole, spesso si trasforma in una stretta e profonda trincea che arriva fin quasi al ginocchio. Alle 15 facciamo una breve sosta. Riprendiamo la marcia, il sentiero segue il fianco dei monti e si immerge, a tratti, in fitte boscaglie. Alle 16.14 nuova sosta. Ci troviamo in località Alacoto. Si vedono poche case sparse; al fondo, molto in basso, il nastro chiaro della strada che porta a Trujillo. Pataz si trova sulla nostra destra, dietro una serie di cime. Abbiamo percorso una specie di U. Alla nostra sinistra si elevano le falde del cerro San Vicente e del Calvario. Ci mettiamo nuovamente in cammino, ora incontriamo spesso piccole fattorie. Il sentiero sale brevemente, poi torna pianeggiante. Sono le 17.04, facciamo ancora una sosta. Pochi minuti e siamo nuovamente in marcia; dopo un'ampia curva aggiriamo e superiamo un cocuzzolo, arrivando così in vista di Pias. Ci concediamo un'ultima sosta. Mentre divido un mandarino con Apolinar osservo il paesaggio intorno illuminato dalla luce del tramonto, le cime scure al fondo, la laguna lontana e le case di Pias ormai in ombra. Mi auguro, per il ritorno di domani, di trovare una mula che mi riporti indietro, con sella, però! Ultimo tratto di sentiero: scende con notevole pendenza e serrati zig-zag. Alle 17.56, quasi col buio, arriviamo in centro a Pias. Siamo a 2.630 metri di altitudine. Abbiamo impiegato quattro ore e quarantun minuti. A Pias c'è l'elettricità. Incontriamo il signor Alayo Briseño lungo la strada principale, mentre si accendono le luci dei lampioni. Inizialmente il signor Alayo (che mi auguro non sia parente di un certo avvocato) si dimostra alquanto contrariato. Mi ripete che i turisti non possono accedere alle rovine, c'è il pericolo che causino danni. Gli parlo della mia passione per l'archeologia, per il Perù, di quanto ci tengo a poter conoscere il Gran Pajaten. Assicuro che non ho alcuna intenzione di scavare né di tagliare alberi. Insieme malediciamo la Casa della Cultura di Lima, quella di Trujillo, Foptur e il Ministero dell'Agricoltura. Alla fine il signor Alayo cede e mi concede il tanto sospirato permesso. EVVIVA! 40 Mi chiede se sono attrezzato per il percorso: ho gli stivali? Perché bisogna attraversare un buon tratto di palude. Sono sorpreso: quale palude? Nessuno mi ha mai parlato di paludi, non ne ho trovato cenno in nessuno dei libri consultati! Che novità è mai questa? Magari se confesso di non aver gli stivali mi ritira il permesso! Mento: « Certamente! Sono ben attrezzato: tenda, sacco a pelo, fornello a gas e stivali. » Il signor Alayo Briseño sembra soddisfatto. Vengo ospitato nei locali dei guardaparchi. Il signor Alayo mi regala alcuni opuscoli sul Gran Pajaten. Si cena tutti assieme: la tavola è alquanto sbilenca, la stanza ha il pavimento di terra battuta ed è illuminata fiocamente da una lampadina da venticinque watt. Il signor Alayo si dimostra un ospite molto cordiale: parliamo della brutta situazione del Perù, dello spadroneggiare delle compagnie minerarie le quali, per evitare scioperi, incaricano dei mediatori per assumere gente che non crei problemi. Inevitabilmente si discute anche di Italia 90: scopro che, di calcio, ne sanno molto più di me. La cena è pronta, il cuoco è uno dei guardaparchi, cucina su di un forno d'argilla dove scoppietta un allegro fuoco di legna. Si mangia un'ottima zuppa di riso con patate a cui fa seguito un secondo composto da patate e riso bollito. Per finire una bella tazza di cioccolata calda e due tazze di acqua fresca. Alle 20 tutti a letto. La camera si trova al primo piano: uno stanzone col pavimento di legno su cui sono stesi alcuni materassi. Mi procurano un sacco a pelo e mi c'infilo dentro, dopo aver vuotato le tasche da pila, orologio, coltello e portafogli. A una certa ora il signor Alayo cerca di mettersi in contatto via radio con Lima. Mi auguro che non ci riesca, magari da Lima gli ordinano di negarmi il permesso. Vengo esaudito: forti interferenze rendono impossibile il collegamento. Mercoledì 30 agosto Giorno della pastiglia per la profilassi antimalarica. Sveglia alle 5.50. Colazione con patate fritte (dure come mattoni), nuña (fagioli fritti in olio e salati), tazza di cioccolata e un mango. Alle 7.17, accompagnato da Apolinar, parto per tornare a Chigualen. Apolinar riceve l'incarico di andare alla ricerca di un giovane mulo (tre anni, color marrone, costo circa 400 dollari), perduto qualche giorno prima. Faremo, quindi, un sentiero diverso: ci arrampicheremo su per il Calvario. Il sentiero sassoso parte subito in salita. Sono destinato a farmela tutta a piedi: non c'è nessuna cavalcatura disponibile. Alle 8.15 arriviamo in cima ad un cocuzzolo da dove si vedono dei quadrupedi. Sono solo dei cavalli; la ricerca prosegue. Alle 8.43 arriviamo al punto più alto del sentiero: da qui si prosegue in costa (falda) con una pendenza irrilevante. Alle 8.55 ci fermiamo nei pressi di un recinto dove pascola tranquillo un cavallo. Ripartiamo alle 9.06 e alle 9.35 ci rinfreschiamo con le acque di una cascata. Alle 10.15 arriviamo in vista del passo Lan Lan, facciamo un'altra breve sosta; alle 10.54 ci diamo una bella rinfrescata con l'acqua gelida di un torrente sotto il passo. Camminiamo ancora per qualche minuto e ci fermiamo per recuperare le energie e superare il passo. Apro la scatoletta di tonno e la divido con Apolinar. Il cielo si sta rannuvolando e spira un vento freddo. Uno strano verso fa irrigidire il mio compagno: si guarda intorno inquieto e sembra annusare l'aria. « Hai sentito? » mi chiede. « Sarà il verso di qualche uccello » rispondo. Non sembra convinto: secondo lui si tratta dell'anima di qualche defunto o di qualche spirito che dimora nella zona. Con tutte le cime e i “puquios” (sorgenti) che ci sono attorno! Ribadisco la mia perplessità « Forse è un puma » dico per tranquillizzarlo. Non sembra dello steso parere. « In ogni caso » mi risponde, « sono pronto per ogni evenienza. Aqui llevo mi “poderosa” » dice battendo la mano sulla tasca dove custodisce il revolver. 41 Riprendiamo la marcia alle 11.35. Il sentiero è in salita e alle 12.17 arriviamo al passo. Il vento è piuttosto violento, cade qualche goccia di pioggia gelata. Qui ci dividiamo: Apolinar si dirige verso sinistra con la speranza di trovare il mulo, io proseguo per il cammino inca, poi alle 12.34 lo abbandono e scendo a valle lungo le pendici del cerro Obispo. Continuano a cadere sporadiche gocce di pioggia. Acqua ce n'è dovunque: pozze, ruscelli, cascate. Mi disseto a una cascatella: l'acqua ha uno strano sapore metallico, la roccia su cui scorre è striata di rosso e giallo. Cosa avrò bevuto? Arrivo a Chigualen alle 13.54. Ho impiegato sei ore e trentasette minuti, sono un po' stracco ma stracontento. Alle 14.05 un forte acquazzone sferza Rio Chigualen la zona. Per fortuna è di breve durata, presto le nuvole si diradano ed esce persino un po' di sole. Ne approfitto per sciacquarmi i piedi nelle gelide acque del Chigualen che scorre a pochi passi dal posto di controllo e scattare qualche fotografia (ore 16.30). Il posto di controllo è deserto. I guardaparchi sono certamente a Los Alisos; non credo che qui, isolati come sono, abbiano tante possibilità di svago. Con l'autoscatto mi immortalo seduto alla scrivania, un modesto tavolo di legno verniciato di marrone. Sopra ci sono una macchina per scrivere, il libro dei visitatori e, aperto, il mio libretto per gli appunti. Alle mie spalle sono appese due mappe, una del Perù, l'altra della regione di San Martin. Tra le mappe c'è uno stemma del WWF e una lunga penna di condor. A desta s'intravvede una piccola libreria e sulla sinistra, sotto alla finestra, una panca di legno che dovrebbe fungere da letto per questa notte. Cena a base di minestrina. La panca risulta troppo corta. Blocco la porta con una sedia, gonfio il materassino, apro il sacco a pelo e Autoritratto a Chigualen dormo sul pavimento. Sono le 19.10. Giovedì 31 agosto Notte insonne. Alle 5.35 decido di alzarmi. Fuori dal sacco a pelo si gela. Secondo gli accordi la guida dovrebbe essere qui per le 6 (è una pia illusione, ovviamente! Come si può essere puntuali dopo i bagordi della festa in onore di Santa Rosa di Lima?). Colazione con te bollente, biscotti e cioccolato, dopodiché affardello lo zaino. Tempo pessimo: molto nuvoloso con pioggia intermittente. Ore 6.53 tutto è pronto, attendo la guida. L'altimetro segna 3.450, sicuramente la bassa pressione inganna lo strumento. Alle 8,38 finalmente la guida arriva. Il signor Manuel è solo. Il guardaparchi che ci doveva accompagnare è rimasto a Los Alisos. Si sa, ieri è stata festa grande, con ubriacature e risse: qualcuno si è divertito più degli altri e oggi ne paga le conseguenze. La festa è stata così così: nessun morto e nemmeno un ferito, accadimenti, questi, che avrebbero indubbiamente contribuito ad alzare il tono dei festeggiamenti. Il signor Manuel va a recuperare il mulo e torna alle 8.56. Firmo il libro dei visitatori e si parte: 42 sono le ore 9.15. All'inizio seguiamo il fondovalle, guadiamo il Chigualen e proseguiamo quasi in piano. Dense nuvole basse nascondono le cime davanti a noi, sono in continuo movimento e a tratti lasciano filtrare fugaci raggi di sole. Entriamo nell'ampia valle Poblano. La seguiamo fin quasi al fondo (ore 9.51), quando il sentiero piega bruscamente a sinistra e sale, con forte pendenza, fino a raggiungere il passo Poblano, a 4.153 metri di altitudine (il mio altimetro segna 3.850). Sono le 10.25. Mi fermo per la fotografia di rito: il signor Manuel m'inquadra e scatta. Speriamo in bene. Nonostante il tempo pessimo la vista che si gode dal passo è impressionante. Davanti a noi si stende la valle di La Plap, immensa, chiusa tra le cime del cerro Colpar a sinistra e il La Plap a destra. Macchie di sole illuminano i fianchi verdognoli delle montagne e fanno brillare l'acqua delle lagune sul fondovalle. Si nota chiaramente la traccia chiara del cammino che scende con una dolce curva in senso orario. Spunta un po' di sole così posso togliermi la giacca. Procediamo rapidamente su sentiero sassoso, costeggiamo una laguna, ne guadiamo l'emissario e continuiamo su sentiero piano e agevole. Sempre secondo il mio altimetro siamo a quota 3.700. A Abra Poblano, quota 4.153 mt sinistra abbiamo il fianco della montagna coperta di ichu, a destra una zona paludosa, con pozze di ogni forma e dimensione, collegate da un'incredibile ragnatela di sottili canali. Proseguendo, dopo circa un'ora, entriamo nella valle di Chirimachay (freddo in kechua). È una valle dalla forma di mezzaluna molto pronunciata. Gira attorno al cerro Chirimachay e sul fondo vi scorre il fiume omonimo. Il sentiero scende dolcemente e alle 11.57 arriviamo al fondovalle (3.475 metri). Alla nostra sinistra corre un lungo muro a secco, forse un recinto per animali. Tutto attorno è stata bruciata l'erba secca con lo scopo di far crescere quella nuova. Guadiamo il Chirimachay, proseguiamo attraversando diagonalmente la valle e risaliamo il versante opposto. Alle 12.16 passiamo davanti a una cascata e due minuti dopo arriviamo a Cueva Negra. Si tratta di un enorme masso scuro, tondeggiante, simile a una colossale patata in bilico sul lato del sentiero. Sotto, in cavità naturali, sono stati ricavati dei ricoveri. Per terra ci sono giacigli d'erba, resti di legna bruciata, sassi affumicati. È un punto di sosta per le spedizioni che partono al mattino da Pataz, mi spiega la guida. L'altimetro indica 3.500 metri di altitudine. Proseguiamo senza fermarci. Giù nella valle, alla nostra sinistra si Valle di La Plap nota una piccola costruzione di terra, col tetto di paglia e, poco distante, un recinto per il bestiame. Alcuni sentieri si dipartono dalla capanna e zigzagano sul fianco della montagna. Dopo Cueva Negra il cammino scende per pochi minuti, prosegue poi quasi in piano. Alle 12.28 comincia la salita fino a un passo (quota 3.600) che raggiungiamo alle 12.35. Impossibile saperne il nome; siamo, comunque, tra il cerro Cueva Negra e il Suitococha. Qui il sentiero svolta con un angolo molto acuto: entriamo nella valle Manachaque. La vista è straordinaria. Il fondovalle è un'estesa palude: ci sono due grandi lagune, una quantità enorme di pozze e acquitrini collegati da un dedalo di ruscelletti. Dalla laguna maggiore, dalla forma allungata, un contorto ruscello scende verso ovest, insinuandosi in una profonda e lunghissima vallata. Oltre, un orizzonte infinito dove, a perdita d'occhio, si susseguono catene di montagne. Superato il passo il cammino si fa scosceso ma, 43 man mano che si avvicina al fondovalle diventa più dolce. Il tempo è molto variabile: le nuvole corrono veloci nel cielo e ci regalano brevi attimi di sole inframezzati da improvvise piogge. Così alle 13.15, quando ormai abbiamo raggiunto il fondovalle (quota 3.275), ci coglie un improvviso acquazzone. Alle 13.21 guadiamo, sotto la pioggia, un ruscello e tre minuti dopo troviamo riparo dentro la grotta di Manachaque. Cueva Negra Verso Manachaque La Cueva de Manachaque è formata da un cumulo di grandi pietre, ammonticchiate le une sopra le altre. Quella in cima ha l'aspetto di un pinnacolo. Il sospetto che sotto ci sia la mano dell'uomo è forte: improbabile che un cono di roccia, alto circa 6-7 metri, rotoli dal fianco della montagna e si Valle di Manachaque Cueva de Manachaque disponga, bello dritto, in cima ad altri massi. Anche dentro questa caverna, sufficientemente ampia per dare rifugio a quattro-cinque persone, ci sono tracce di passaggi recenti. Un tratto di terreno prospiciente è stato spianato artificialmente. La guida scarica il mulo: è probabile che passeremo qui la notte. Approfitto della sosta per aprire una scatoletta di tonno. Devo affrettarmi a mangiare perché è uscito improvvisamente il sole e la guida ha deciso di proseguire. Ricaricato il mulo, alle 13.52 si riprende il cammino. Attraversiamo diagonalmente la valle, da ovest a est. Al centro guadiamo un largo fiume (poco profondo, per fortuna) e iniziamo la salita lungo il versante opposto. È stato un grave errore indossare le scarpe da ginnastica, me ne sto pentendo amaramente: ormai sono fradice, imbevute d'acqua come due spugne. Mi consolo pensando che stiamo per lasciare la valle paludosa, più saliamo, meno acqua dovremmo incontrare. Invece non è così: da fangoso il sentiero si trasforma in un vero e proprio ruscello che scorre allegro, alimentato da una miriade di rigagnoli e cascatelle che trasudano dal fianco della montagna. Bisogna prestare molta attenzione a dove si mettono i piedi: l'acqua che scorre nasconde pietre sdrucciolevoli e ciuffi d'erba scivolosi. Alle 14.15 superiamo una bella cascata che scende 44 rombando con più salti e contribuisce ad alimentare gli acquitrini della valle. Una rinfrescatina è giusto quello che ci vuole. Più saliamo più acqua incontriamo. È davvero un mistero, va contro ogni logica: questa non è una montagna, è una enorme spugna. Alle 15.05 arriviamo al passo, siamo a quota 3.500. Da qui si può ammirare la causa di tutto quel trasudamento: un grande specchio d'acqua tondeggiante, la Laguna Empedrada. Scendiamo lungo il sentiero fangoso e costeggiamo la laguna. Lungo il bordo il terreno ha conservato le tracce del passaggio della spedizione americana: impronte di scarponi si mescolano alle mezzelune degli zoccoli dei muli. Eccoci nella valle di Chocho. Il sentiero corre quasi al centro della valle, segnata da ruscelli e coperta dal consueto mantello dell'ichu, e compie una vasta e dolce curva in senso orario. Nei pressi di una grande pietra triangolare, il sentiero scende, piega a sinistra per poi, con un'ampia curva piegare nuovamente a destra. Stiamo procedendo sull'antico tracciato inca lastricato e solcato di tanto in tanto da canalette di scolo. La guida mi Un tratto del sentiero consiglia di abbreviare il cammino tagliando per la pampa. Riferimento, sulla nostra destra, un aguzzo sperone roccioso. Alle sue falde, giusto in cima a una collinetta tondeggiante, si notano i resti di alcune costruzioni. Accetto il consiglio, se non altro per dare un'occhiata alle rovine conosciute come Paredones. Il suggerimento si mostra subito pessimo. Non si cammina per una comoda pampa, bensì in un infido acquitrino, dove l'acqua è onnipresente e l'ichu nasconde stretti e profondi fossati che si rivelano solo per il rombo delle acque che vi scorrono tumultuose. M'inoltro nell'erba, scivolo nella melma e m'infogno nel voler attraversare un tratto dal colore verde diverso, che mi lasciava presagire terreno solido, e invece risulta ancor più zuppo d'acqua. Pampacuyes: il sentirero inca La laguna Empedrada A furia di girare riesco, comunque, a raggiungere Paredones (sono le 15.42 e l'altimetro indica un'altitudine di 3.400 metri). Delle costruzioni rimangono soltanto le fondamenta e qualche tratto di parete di pietra. Forse questo era un tambo (posto di sosta e ristoro) o un posto di vedetta. Anche la cima del cocuzzolo è pregna d'acqua. Intanto guida e mulo procedono tranquillamente all'asciutto. Scendo cercando la parte meno scoscesa e arrivo al sentiero giusto in tempo per accodarmi alla guida. Il cammino continua a scendere dolcemente e ci porta a una valle chiamata Pampacuyes, perché, mi spiega il signor Manuel, durante una spedizione precedente, in quella zona era stato costruito un recinto dove custodire i cuy (porcellini d'india) per l'alimentazione. Alle 16.09 troviamo tracce di un 45 accampamento. Il paesaggio sta cambiando: l'ichu comincia a cedere il passo ad altre forme di vegetazione, si notano qualche timido fiore, qualche cactus e qualche basso cespuglio. I fianchi delle montagne in fondo alla valle sono ricoperti da una fitta vegetazione verde scuro. Il sentiero inca sparisce e si Entrata a Puerta del Monte Paredones trasforma una traccia di fango appiccicoso tra cespugli di ichu verdi e alti fino al ginocchio. Improvvisamente, alle 16.23, ci troviamo a camminare sopra una zona coperta da grandi massi di roccia grigia, davanti a noi si erge un muro impenetrabile di piante e arbusti. Alberi contorti e coperti di muschi, cespugli fioriti e liane sembrano formare un groviglio inestricabile. "Albergo" a Puerta del Monte Il guardaparchi, la guida e io Comincio a sperare che il fango sia finito. Seguo la guida dentro un tunnel verde e, ahimè, il fango ricomincia. Alle 16.30 il signor Manuel Armas Coronel chiude il sentiero con un tronco, in modo che il mulo non possa tornare indietro e, dopo poche centinaia di metri, sbuchiamo in una stretta vallata. Siamo arrivati a Puerta del Monte (la porta della selva). L'altimetro segna quota 2.900. Qui passeremo la notte. Ci fermiamo davanti a quello che viene chiamato “l'albergo”: si tratta di una tettoia a due spioventi (solo una parte, però, è coperta da frasche), sostenuta da un serie di pali. La parte bassa della zona coperta poggia su di un muretto di pietre a secco; sotto, su un terrapieno, è stato costruito un rudimentale focolare. Alcune grosse pietre delimitano il perimetro dell'albergo e, all'occasione, servono come sedili. Un poco discosto si trova il buco della latrina. Si spera di non caderci dentro, altrimenti sarebbe la fine. Copiose le tracce lasciate dalla spedizione americana: lattine abbandonate, sacchetti di plastica, due grossi sacchi di immondizia dentro la capanna. Il terreno è incredibilmente soffice, si ha l'impressione di camminare sopra un materasso. Le montagne che ci circondano sono coperte da una lussureggiante vegetazione. Un pallido sole illumina i pennacchi dell'erba della pampa, fiori strani e colibrì in volo. L'aria risuona del frastuono di cascate invisibili. Vicino all'accampamento scorre un torrente spumeggiante: il Montecristo? Si sta facendo buio ed è meglio accelerare i tempi. Recupero lo zaino che la guida ha scaricato: da 46 ora in avanti dovrò caricarmelo sulle spalle. Vado al torrente per lavarmi mani e piedi incrostati di fango nero. Ho appena il tempo di mangiare una lattina di palmitos quando scoppia un violento temporale. Tento di costruire un riparo di fortuna fissando il telo tenda ai pali dell'albergo. Il forte vento e i violenti scrosci di pioggia mi impediscono di fare di meglio. Stendo il materassino gonfiabile, tiro fuori il sacco a pelo e uso il foglio di nylon, che mi doveva servire come fondo per la tenda, per formare un tubo dentro il quale mi infilo. Lo zaino rimane fuori. Il paesaggio attorno, il poco che si riesce a intravvedere attraverso il fitto velo della pioggia, ha assunto una preoccupante colorazione rossiccia. Scatto quattro fotografie. Il mulo è immobile sotto il diluvio, la guida è accucciata sotto la tettoia di foglie, avvolta nel suo poncio e nel telone che si è fatto prestare al posto di controllo. Sono le 18.30. Al calduccio dentro il sacco a pelo guardo i rivoletti d'acqua scorrere come indiavolati sul foglio di nylon a un palmo dal mio naso. Prego che la pioggia smetta e la notte passi presto. Venerdì 1 settembre Sveglia alle 5.45. Località Puerta del Monte. Quota 2.900. Mi trovo nella zona chiamata “ceja de selva”, ciglio della foresta, zona boscosa tropicale che si stende sui versanti delle Ande orientali e centrali, tra i 1.000 e i 3.900 metri sul livello del mare. Non piove più. Mi trovo in mezzo a una palude, circondato da monti coperti da una fitta vegetazione tropicale. Rumori di cascate e canti di uccelli. A est una fascia di cielo sereno sbuca da una coltre di nubi grigiastre. Speriamo in bene. Sotto la tettoia la guida sta cucinando una zuppa di avena, il fumo azzurrino si alza lentamente verso il cielo. Il mio zaino è bagnato fradicio, le scarpe da ginnastica sono in condizioni pietose. Indosso gli scarponi... ho l'impressione che siano un po' stretti. Stendo i pantaloni sopra un pietra, sono talmente zuppi d'acqua che hanno persino cambiato colore. Accendo il fornellino da campo e mi riscaldo mezza busta di minestrina di carne con pastina e verdure. Continuo la colazione con alcuni biscotti spalmati con marmellata di fragole Fanny (mejorada) e una lattina di pesche sciroppate. Disfo il mio ricovero e infilo tutto nello zaino, dietro vi appendo i pantaloni: spero in un po' di sole affinché si asciughino. La guida insiste per portarmi i due porta saccoletto con la tenda. Li mette dentro un sacco che lega in modo da ricavare due spallacci a mo' di zaino. Alle 7.31, zaino in spalla, ci mettiamo in marcia. Fango dappertutto. Il primo tratto di sentiero è tappezzato di rami, questo ci evita di sprofondare nel fango molle. Il sentiero ci porta dritti verso la boscaglia. Ponte sul fiume Montecristo Prima di essere inghiottito dalla selva alzo la testa e guardo il cielo: la tenue fascia di sereno è stata coperta dalle nuvole. Brutto presagio. Camminiamo tra due muraglie verdi (citazione da un bel film di Armando Robles Godoy: “La muralla verde”). L'ambiente è fantastico. Siamo accompagnati dai canti di uccelli nascosti tra le fronde e il gorgoglio di invisibili corsi d'acqua. Alle 8.15 gli alberi si diradano per lasciar posto al corso di uno spumeggiante torrente che superiamo un quarto d'ora più tardi in equilibrio su un ponte di tronchi. Altri tronchi ci permetteranno, più avanti, di scavalcare una miriade di torrentelli e pantani. Quattro minuti dopo arriviamo a El Mirador. É una radura, simile a una cupola, formata dai rami di 47 un grosso albero; qui facciamo una breve sosta. A destra si diparte un sentiero: conduce al Pajaten, mi spiega la guida, ma è piuttosto impegnativo. Noi prenderemo quello a sinistra. Si riparte e alle 9.13 superiamo il Montecristo grazie a un lungo ponte fatto con quattro lunghi tronchi legati assieme. Qui il Montecristo è ancora torrente, le sue acque scendono con forza aprendosi varco tra i massi arrotondati. Siamo a quota 2.400, ci aspetta un tratto di sentiero piano e, finalmente, niente fango. Il signor Manuel procede spedito, io mi fermo spesso per guardarmi attorno e scattare fotografie, così mi perdo. Ad un tratto alzo la testa e non scorgo più la guida: tutto attorno a me c'è un muro verde e compatto, nessuna traccia di sentiero. Teoricamente dovrei procedere di fronte, ma non ne sono sicuro, potrei peggiorare la situazione e finire chissà dove. Rimango fermo e mi metto a gridare. Grido più forte possibile perché so che gli alberi attutiscono molto i suoni. Grido a più riprese e, finalmente, il signor Armas Coronel appare all'improvviso, pochi metri davanti a me. Mi chiede preoccupato cosa succede, spiego la momentanea perdita di contatto e la marcia riprende. Sono le 9.30 quando sbuchiamo in un'ampia radura lungo un'ansa del fiume. Siamo arrivati a La Playa (la spiaggia). Infatti il greto sassoso del fiume sembra proprio una piccola spiaggia. Sulla riva molti resti di capanne. Ripartiamo alle 9.40. Dopo un po' il sentiero si fa ripido, si sbuffa per dodici minuti finché si incrocia un ennesimo corso d'acqua col suo bravo tronco a mo’ di ponte, da lì in poi la pendenza del cammino diminuisce. Alle 10.30, dopo esserci rinfrescati a una cascatella, raggiungiamo una piccola radura. Addossato agli alberi c'è un riparo provvisorio costituito da un tetto di frasche inclinato e sostenuto da due paletti. Vi può trovare rifugio una persona. La località è chiamata Papayas. Si prosegue su cammino difficile, in forte discesa su gradini fatti con tronchi marci e scivolosi. Attraversiamo il rio El Susto (lo spavento) alle 10.44. La furia delle acque ha ormai quasi distrutto il ponte di tronchi e bisogna prestare molta attenzione per evitare un bagno fuori programma. Il cammino si fa sempre più difficoltoso: fango onnipresente, radici che intralciano il passo, grossi tronchi posti di traverso che bisogna scavalcare, tunnel vegetali sotto i quali si procede a carponi. Un passaggio risulta particolarmente impegnativo: il superamento di un enorme albero caduto: sono costretto a togliermi lo zaino e strisciare sotto, col viso quasi a contatto col terreno, fino a passare dall'altra parte, spingendo lo zaino davanti a me. Più avanti mi aspetta un serie di alti gradini di terra: per superarli bisogna fermarsi, riprendere fiato, darsi lo slancio cercando di afferrarsi a qualche radice, pietra o tronco per poter avanzare. Come se non bastasse ci sono anche i rami che s'impigliano nello zaino. Più volte sono costretto a estrarre il coltello da sopravvivenza per liberarmi. Si prosegue così, nella penombra, finché alle 12.37 arriviamo a una sporgenza rocciosa che sbuca tra rami e muschi. Siamo a Vilcabamba. Vicino c'è una radura dove è possibile sistemare la tenda. Il passaggio degli americani ha lasciato i suoi ricordi: un'antenna radio che penzola dagli alberi e un cumulo di lattine vuote dentro un tronco cavo. 48 Monto la tenda. I teli sono bagnati ed è impossibile tenderli in modo che non siano a contatto. Se piove l'acqua entrerà all'interno. La pioggia, infatti, non tarda. Alle 13.50 m'infilo nella tenda sotto la pioggia. L'altimetro segna quota 2.400. Ore 14 pranzo in tenda: soliti biscotti spalmati con la solita marmellata di fragole, un po' di formaggio gommoso, tè e altri biscotti. Alle 14.35 la guida decide: nonostante la pioggia si va alle rovine, tanto, assicura, presto smetterà. Prendo la macchina fotografica e indosso il poncio impermeabile. Si affronta una salita davvero impegnativa. Il sentiero è ridotto a un'esile traccia di fango viscido e con notevole pendenza. Tronchi, rami, radici, liane, tutto sembra voler ostacolare l'accesso. Avanzo spesso a carponi, scivolando e aggrappandomi a qualunque cosa possa impedirmi di ruzzolare indietro. E ancora si sale, strisciando sotto tronchi, arrampicandosi e insinuandosi tra i rami degli alberi caduti. Mi fa ridere Indiana Jones! Alle 15.02 ecco: tra la vegetazione emerge un muro di pietra coperto di muschio. È un muro tondeggiante, costruito con pietre ben squadrate. Poi un secondo muro avvolto dalla vegetazione e un terzo. E, incastrate su questo, sporgono cinque “cabezas clavas”, cinque teste scolpite nella pietra. Sono arrivato al Gran Pajaten! Più avanti, dal terreno, spunta un piccolo obelisco, forse un orologio solare. Attorno, ricoperte da una fitta vegetazione, appaiono basse e tozze torri rotonde. Sono costruite con lastre di pietra scura. Probabilmente costituivano le basi per le capanne che vi venivano edificate sopra. Davanti a una torre c'è ancora la scala che porta in cima. Una serie di personaggi stilizzati, con un fastoso copricapo piumato, ne ornano il perimetro. La torre di fianco mostra condor alternati a disegni geometrici e “cabezas clavas”. Il bordo superiore è percorso da una serie di spirali. Le figure sono state ottenute facendo sporgere dal resto del muro le lastre di pietra. La pietra è scura, ha riflessi metallici, sembra ardesia. Nonostante la leggera pioggia, a tratti il sole riesce a filtrare tra le nuvole e i suoi raggi illuminano, come per una ben studiata regia, ora un gruppo di “cabezas clavas”, ora un condor con le ali spiegate, oppure un gruppo di orchidee che s'incurva, riverente, sopra una fila di misteriosi personaggi. Magie di quel luogo straordinario. La fitta selva impedisce di vedere molto. Sono passati molti anni da quando l'esercito peruviano ha ripulito le rovine. Col tempo la vegetazione e tornata a impossessarsi delle Località Vilcabamba, a trenta minuti di cammino dal Gran Pajaten costruzioni. La spedizione americana si è limitata a ripulire un'esigua parte del complesso e a togliere un po' di muschio da un paio di torri. Così le rovine conservano tutto il fascino di una loro riscoperta. Immagino di provare la stessa esaltante sensazione che devono aver provato, nel passato, quanti si sono imbattuti, più o meno casualmente, in scoperte del genere. Dietro mia richiesta il signor Manuel Armas s'improvvisa fotografo, mi metto in posa davanti a 49 una torre e attendo lo scatto. « Otra, por si a caso... » dico, e la guida, obbediente, scatta una seconda foto. Non si sa mai! Ogni tanto le nuvole si diradano permettendo di scoprire nuovi scorci, svelando montagne lontane e incombenti pareti rocciose. Meno di mille anni fa questo luogo era sicuramente una città importante. La gente camminava tra le torri, parlava una lingua ormai scomparsa, cacciava, lavorava, amava, fronteggiava gli invasori. Quando è iniziato il suo declino? Ci sono prove che questa società ha avuto contatti con la civiltà inca. Sicuramente la città era già in rovina prima dell'arrivo degli spagnoli (altrimenti questi avrebbero demolito le torri per costruire una bella chiesa barocca). Mi chiedo come potranno essere queste rovine tra alcuni anni se verranno trasformate in un'attrazione turistica. Certamente vedere il complesso nella sua totalità dovrebbe essere impressionante. Indubbiamente porterebbe un certo benessere economico nella zona. L'impatto ambientale sarebbe, però, devastante. Quanti alberi abbattuti per costruire decine di chilometri di strade, hotel, posti di ristoro, parcheggi... Ma chi potrebbe investire tanto? E poi, non è triste immaginare questa città costellata di frecce e cartelli che ammoniscono di non salire sulle torri e di non uscire dai percorsi obbligati, di non gettare spazzatura, affollata da torme di turisti in calzoncini corti e Autoritratto al Gran Pajaten zainetti multicolori, intenti a ingurgitare hamburger e patatine e bere Coca Cola? Forse è meglio che il Gran Pajaten resti una “ciudad perdida”, visitabile solo a costo di grandi sacrifici? Mah! Sono le 15.30, è ora di tornare all'accampamento. Ho bisogno di acqua per la minestrina: il signor Manuel mi accompagna a una pozza fangosa dove riempire la borraccia... tanto l'acqua va bollita. Quello, d'altronde, è l'unico posto dove rifornirsi... se non si vuol prendere in considerazione di scendere fino al Montecristo, fiume che passa sì, vicino alle rovine, ma incassato in un profondo canyon da cui arriva, seppur attutito dalla distanza, il fragore della acque turbinose. Gran Pajaten Gran Pajaten: “cabezas clavas” Pian piano cala il buio, tento di registrare il canto degli uccelli. Dagli alberi continua a cadere un incessante quanto rumoroso gocciolio. Alle 18.15 la zuppa è pronta e mi riscalda lo stomaco. Adesso l'altimetro è sceso a 2.350, significa che la pressione si è ulteriormente abbassata e, quindi, continuerà a piovere. I teli della tenda, già fradici, sono venuti a contatto: l'acqua scorre lungo il 50 tessuto e si raccoglie nel fondo. Questo nonostante avessi spruzzato un'intera bomboletta di impermeabilizzante! Il materassino gonfiabile è ormai diventato un'isola su cui cerco di mantenere all'asciutto me e la macchina fotografica. Gran Pajaten Gran Pajaten Sabato 2 settembre Sveglia alle 5,30. Fuori sta piovendo o sono solo le gocce che cadono dagli alberi a produrre questo intenso ticchettio? mi chiedo stiracchiandomi nel sacco a pelo, badando bene a non scendere dal materassino gonfiabile. L'interno della tenda, infatti, è pieno d'acqua. Ce ne saranno almeno tre centimetri. Fuori non piove, ma il poco cielo che si riesce a intravvedere attraverso le chiome degli alberi è molto nuvoloso. Faccio una veloce colazione e poi, prima di sbaraccare, monto la macchina sul cavalletto per un autoritratto, seduto davanti alla tenda. Non penso di avere un bel aspetto. Non mi rado da parecchi giorni e non ho neanche uno specchio per sistemarmi un pochino. Ma va bene lo stesso, anzi! Smonto la tenda e ficco tutto dentro lo zaino, tanto, più bagnato di così! Pinchudos: la falesia Pinchudos Pinchudos Alle 7.30 ci mettiamo in cammino per raggiungere Pinchudos. Non è molto lontano. Alle 7.55 lasciamo il sentiero e ci inerpichiamo su per il fianco di un'altura, attraversando una zona di bosco rado. Il nuovo sentiero è solo un'esile traccia di fango che si snoda tra gli alti fusti degli alberi, ed è reso ancora più scivoloso a causa della recente pioggia 51 Alle 8.10 avvistiamo le prime tracce del cimitero: al riparo di una parete rocciosa incombente ci sono resti di muri edificati con lastre di pietra squadrata, non molto grandi, simili a mattoni irregolari e tenute assieme da una specie di calce biancastra. Proseguiamo verso destra, costeggiando la parete di roccia. Il sentiero, prima dritto, scende ripido per un tratto e poi risale. Alle 8.20 deponiamo gli zaini e seguitiamo ad arrampicarci. Costeggiamo un'altissima falesia, passando per uno stretto sentiero, sempre in salita. È evidente che siamo in una zona funeraria: da un anfratto spuntano delle ossa che han tutta l'aria di essere umane. Avanziamo quasi sfiorano la parete rocciosa alla nostra destra, mentre a sinistra scende vertiginoso un dirupo coperto di vegetazione dalla quale spuntano fiori sconosciuti. Di fronte a noi il sentiero sembra finire nel vuoto, invece svolta improvvisamente a destra ed eccoci a Pinchudos. Sono le 8.25. Al riparo di una impressionante falesia biancastra, perfettamente asciutta nonostante le abbondanti piogge, sorge una serie di tombe dall'aspetto assai singolare. È una fila di piccole costruzioni semicircolari e rettangolari attaccate le une alle altre. Sono state edificate con lastre di ardesia intonacate di ocra e rosso. Lastre sporgenti formano disegni geometrici, greche e zigzag. Le costruzioni, alcune su due piani, presentano varie porte e finestre e all'interno sono visibili ossa e teschi. Le lastre di pietra del tetto e pavimento sono sostenute da travi di legno. Particolarmente interessante è una tomba con alcuni idoli di legno attaccati alle travi che sostengono il soffitto. Rappresentano dei personaggi nudi, col fallo sporgente (da cui il nome “los pinchudos), portano grandi orecchini e un vistoso copricapo. Sul corpo si possono notare tracce di argilla giallastra con cui, in origine, sono state ricoperte. Sono cinque; di un sesto Pinchudos rimane solamente l'anello tagliato a colpi di machete. Davanti alle tombe si apre una vallata impressionante. Le montagne sono coperte da un fitto mantello di vegetazione, Sul fondo si nota il sottile nastro d'argento del Montecristo. Sul cerro Central, mi dice la guida indicandomi una montagna simile a una smisurata piramide verde, si trovano altre importanti rovine, non ancora esplorate. Una nuova città? La continuazione del Gran Pajaten? Le nuvole bianche vanno e vengono coprendo i monti e i loro segreti. Alle 8.52 iniziamo il ritorno, ci riprendiamo gli zaini e alle 9.04 ci ricolleghiamo al sentiero principale. Dopo la lunga serie di gradini di legno arriviamo al ponte scassato sul rio El Susto (ore 9.55). Qua siamo costretti a guadare. Alle 10.07 arriviamo a Papayas, dove troviamo il guardaparchi (non lo stesso della camminata a Pias). Si era rifugiato lì per ripararsi dalla pioggia e passare la notte. Riprendiamo la marcia in tre. Alle 10.23 breve sosta, quindi proseguiamo lungo una interminabile salita, fino ad arrivare a costeggiare un enorme smottamento di terreno lungo il corso del Montecristo. Alle 11.11, in equilibrio sopra un ponte fatto con tre tronchi, superiamo una cascata e proseguiamo per un tratto di sentiero pianeggiante. Arriviamo a La Playa alle 11.33, pochi minuti di sosta e alle 11.40 riprendiamo il cammino per il sentiero che sale e scende. Dopo un bivio Il cerro Central (prendiamo a destra) arriviamo al ponte 52 sul Montecristo (12.04). L'acqua limpida e fresca invita a una sosta e a dissetarsi (al diavolo il micropur e lo steridrolo). Scatto qualche foto mentre alcune farfalle mi svolazzano attorno senza timore; una si posa addirittura sullo scarpone. Si riprende il cammino alle 12.19. Il sentiero, dapprima piano, comincia a salire: sono le 12.30. Alle 13.11 faccio una sosta per riprendere fiato, mentre inizia a cadere una leggera pioggia. Dopo la sosta continua la salita. Alle 13.29 un po' di sollievo: il sentiero è in discesa, arriva il rombo di un torrente invisibile tra la vegetazione. Inizia il sentiero paludoso. Sono le 13,48, mentre nella penombra sto fotografando un fiore la guida si ferma all'improvviso e attira la mia attenzione. Guardo in alto: quasi sopra le nostre teste un orso si sposta tranquillo tra i rami di un grande albero. Si tratta di un orso dagli occhiali. Si muove a suo agio, passando di ramo in ramo e da una chioma all'altra alla ricerca di frutti. Grugnisce, ci guarda con curiosità e continua a mangiare. Il tempo di montare il 135 e di scattare qualche foto e l'animale sparisce tra il fitto fogliame dopo essersi liberato lo stomaco. Si riprende a camminare sempre in salita, seguendo il serpeggiare dei gradini di terra e tronchi e alle 14.05 arriviamo al Mirador. Cinque minuti di sosta e ancora si prosegue per il continuo saliscendi del cammino. Dopo aver superato un ponticello (14.17) superiamo guadando un torrente, affluente di un altro e più grosso corso d'acqua alla nostra sinistra. Alle 15.25 ci lasciamo la selva alle spalle e finalmente rivediamo il cielo. Alle 15.28 superiamo un ponticello, saltiamo un ruscello e alle 15.32 arriviamo a Puerta del Monte. Ci accampiamo per la notte. Monto la tenda fradicia, risciacquo le scarpe da ginnastica tentando di togliere un po' del fango nero di cui sono incrostate e mi preparo la cena: te, biscotti e cioccolata. Guida e guardaparchi si preparano la loro zuppa d'avena al riparo sotto la tettoia dell'albergo. Alle 17.35 sono dentro la tenda sotto alla pioggia. Tutto è bagnato, l'acqua penetra attraverso i teli e si accumula all'interno. Domenica 3 settembre Sveglia in umido. Il tempo sembra molto incerto. Ci sono molte nuvole, ma anche grossi squarci attraverso i quali si può vedere un bel cielo blu. Riempito la zaino, approfitto di qualche sporadico raggio di sole per fotografare i dintorni, mentre guida e guardaparchi sono andati a recuperare le loro cavalcature. Il signor Manuel carica il mio zaino sul mulo e alle 7.58 lasciamo Puerta del Monte (ed è un gran sollievo camminare senza pesi sulle spalle). Il tempo sembra mettersi al bello, splende il sole. Usciamo dall'ultima fascia di vegetazione, superiamo la zona pietrosa, affrontiamo il fango nero e vischioso e attraversiamo Pampacuyes alle 8.47. Ritroviamo il sentiero lastricato, lo percorriamo fino ad arrivare alla base dell'altura di Paredones (ore 9.16). Da qui iniziamo una dolce discesa, e questa volta mi guardo bene dal seguire il consiglio della guida di abbreviare il cammino tagliando per la zona paludosa. Preferisco il cammino più lungo ma asciutto. Il sentiero arriva in prossimità di un torrente che scende a valle e, con uno stretto angolo, ne segue il corso. Alle 9,37 si arriva presso un grande masso, qui il sentiero compie un'altra brusca deviazione e continua a salire verso la laguna Empedrada. Arriviamo alla laguna alle 9.55, alle 10.05 superiamo il passo e scendiamo lungo lo stretto sentiero trasformato in rigagnolo. Comincio ad avere le vesciche ai piedi. Scarponi e calzettoni bagnati non fanno altro che peggiorare la situazione. Pampacuyes, cammino di ritorno 53 Alle 10.46 superiamo la grande cascata e due minuti dopo iniziamo la traversata della valle di Manachaque. Dieci minuti dopo guadiamo e alle 11.04 siamo di fronte alla grotta. Niente soste, proseguiamo in salita lungo il versante della valle fino a raggiungere il passo. Il tempo, nel frattempo, è repentinamente cambiato. Le nuvole hanno coperto il cielo e nelle vicinanze del passo comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Alle 12.04 superiamo il passo, entriamo nella valle di Chirimachay e alle 12.22 passiamo davanti a Cueva Negra. Anche qui niente soste, si continua fino alle 12.26, quando mi fermo per riprendere fiato presso una cascata. Mi disseto e, approfittando di un fugace raggio di sole, m'immortalo con l'autoscatto, seduto su un masso vicino al corso d'acqua. Guida e guardaparchi sono avanti, li vedo camminare a fianco dei loro animali e discutere. Riprendo il cammino, alle 12.48 guado il fiume e inizio la salita mentre il tempo, ancora una volta, si sta mettendo al peggio: preoccupanti nuvoloni grigi, pioggia e persino tuoni mi accompagnano lungo la valle. Un paio di volte sono costretto a fermarmi per mettermi dei cerotti sulle vesciche; la caviglia destra, non so per quale motivo, mi duole e mi fa leggermente zoppicare. Si alza un vento sottile e gelido, per fortuna soffia alle mie spalle. La guida mi sta aspettando: si è seduta su un pietra e mastica le sue foglie di coca. Alle 13.46 entriamo nella valle di La Plap. Alle 14.30 costeggiamo la laguna che precede il bivio col sentiero inca e cominciamo la salita verso il passo Poblano. Una vasta zona circostante è coperta di grandine. Le raffiche di vento hanno ammucchiato i chicchi, piccolissimi, contro le pietre e i ciuffi di ichu. Superiamo il passo alle 14.58, mentre il sole fa capolino e, per un po', ci accompagna nella discesa. Le recenti piogge hanno trasformato il sentiero in un torrente e il fondovalle è impregnato d'acqua. Alle 15.44 passiamo l'abra caratterizzata da due grandi pietre e, scendendo per ripidi zigzag, ci avviamo al posto di controllo. Alle 15,51 si guada quello che all'andata era un fiumiciattolo, e che ora si è notevolmente ingrossato. Il salto che spicco non è sufficiente e ci casco dentro con un piede (ma tanto ero già bagnato). Alle 15.55 mi fermo sulla soglia del posto di controllo. Adesivo del parco Rio Abiseo Uno dei tre biglietti d'ingresso al parco dell'Abiseo Iniziano le formalità per il pagamento del pedaggio. Per gli stranieri dovrebbero essere 13.350 inti al giorno. I guardaparchi si consultano con don Esteban Alayo, presente sul posto. Da regolamento risulta che si deve pagare il 15% del “minimo vital” cioè dello stipendio minimo di un lavoratore. Detto “minimo vital” è di 148.000 inti. Il 15% è, quindi, di 22.200 inti che, moltiplicati per i tre giorni, danno un totale di 66.600 inti. Pago, saluto e, dopo avermi fatto autografare il libretto dal signor Alayo, in compagnia della guida mi dirigo verso Pataz. Sono le ore 16.11. Alle 16.50 si passa il ponticello di tronchi, più avanti si costeggia la piantagione di eucalipti. Il 54 sentiero è tutto in discesa e si procede speditamente. Alle 17.10 passiamo Los Alisos e alle 17.34 arriviamo a Poroto. Ormai sta calando la sera. Il signor Manuel scarica il mulo, si toglie il poncio, lo stende sulle ginocchia, si mette a tritare foglie di coca e iniziano le grane. Data l'ora voglio proseguire fino a Pataz. Il signor Manuel dice che è stanco e che (orrore!) vuole più soldi! Rispondo che avevamo già pattuito un prezzo e che avevo pure accettato di pagare 500 inti in più al giorno, sia per lui che per il mulo. Mi risponde che non sapeva che i prezzi erano aumentati (colpa di quei disgraziati di americani) e che la domenica la paga va raddoppiata. I patti vanno rispettati, ribatto, e minaccio di prendermi lo zaino e di andarmene a Pataz da solo. Lui minaccia di denunciarmi. Gli rispondo che se vuole essere pagato mi può sempre trovare in paese. La discussione si protrae per parecchio tempo, mentre si fa sempre più scuro e le vesciche mi fan sempre più male. Lui pretende di essere pagato subito, al che gli faccio credere di aver lasciato i soldi a Pataz, visto che in mezzo alla selva non ne avrei avuto bisogno. Se vuole essere pagato subito basta che mi accompagni a Pataz. Seppur a malincuore sembra convinto. Mette le foglie di coca in un sacchetto, si rimette il poncio, si fa portare una lampada e dice di partire. Gli faccio notare che non ha caricato il mulo: con lo zaino in spalla c'impiegheremo più tempo. Nuova e nervosa discussione. Alla fine, come dio vuole, riesco a convincerlo: carica il mulo, chiama un figlio e ci mettiamo in cammino per Pataz: sono le ore 18.00. Alle 18.15 è buio; alle 18.30 calano le tenebre. Proseguiamo per un po' sotto la scarsa luce della falce lunare, poi accendo la pila e proseguiamo per quello che si sta trasformando in un calvario. L'ultimo tratto, tutto in ripida salita, è quasi un incubo: le vesciche bruciano come fossero braci. Finalmente, alle 19.36 ci fermiamo nella piazza di Pataz e il signor Manuel scarica il mulo. Chiamo la signora Isabel a testimone degli accordi fatti. La signora conferma: gli accordi si rispettano, non è colpa mia se i prezzi sono aumentati. Comunque, dopo una breve discussione, acconsento di pagare 16.000 inti al giorno per la guida e altrettanti per il mulo, più il doppio per la domenica, il tutto arrotondato a 225.000 inti. Il signor Manuel accetta, la signora Isabel approva, io pago (a scanso di equivoci mi faccio firmare una ricevuta), poi salgo in camera e mi butto a letto. A conti fatti ho camminato undici ore e mezza e mi sento alquanto stanco. Conto di dormire fino all'alba, ma un continuo e furioso abbaiare di cani mi tiene sveglio per buona parte della notte. Maledette bestie luride e pidocchiose! Lunedì 4 settembre Sveglia alle 6.55, di cattivo umore per il concerto dei cani. I piedi hanno il colore del pesce lesso e la pelle raggrinzita come la buccia di un limone andato a male. Urge un'accurata igiene. Dalla signora Isabel compro una spazzola di plastica (5.000 inti) e due ottimi pani al sesamo e uvetta (2.000 inti). Mi faccio prestare mezzo sacchetto di Ace e mi dedico al bucato. Stendo la tenda affinché si asciughi, lavo e striglio calzettoni, fazzoletti, pantaloni, asciugamani e scarponi, insomma l'intero guardaroba. Alle 10,50 il bucato è terminato e steso ad asciugare. Compero sei manghi da una venditrice seduta sulla piazza (1.000 inti). Aveva solo i piccoli manghi gialli e verdi che maturano in questa stagione; per quelli più grossi, rossi e gialli, mi spiega, bisogna attendere dicembre. All'improvviso, alle 11.35, si mette a piovere; mi affretto a raccogliere la roba stesa e ancora umida; subito dopo, però, ritorna a splendere il sole e io torno a stendere la biancheria. Pataz, rifornimento patate e polli 55 Alle 12.30 arriva una camionetta con un carico di polli e di sacchi di patate. In pochi attimi si forma una lunga coda di gente: patate e polli vanno a ruba, mentre un gruppo di bambini s'impossessa della ruota di scorta e si mette a giocare facendola correre lungo la strada polverosa. Invano cerco limoni: sembra siano introvabili. Improvvisamente giunge voce che in piazza, una signora ne sta vendendo. Mi precipito ma arrivo tardi: i limoni sono stati tutti comperati dalla signora Isabel. In quel mentre si rimette a piovere. Corro a raccogliere la mia roba e, questa volta, la stendo in camera. Esco dalla camera e, beffardamente, esce un sole sfolgorante; in cielo è sparita ogni traccia di nuvole. Ridistendo il bucato all'aperto, è ancora umido ma, sotto quel sole, penso, non dovrebbe tardare molto ad asciugarsi. Dalla signora Isabel compero sei limoni, li spremo tutti e mi disseto con un litro e mezzo di squisita e ben zuccherata limonata . Fiducioso nel tempo ormai ristabilito esco per fare un po' di fotografie. Fotografo alcuni bambini e mi avvio per la strada che porta a Los Alisos. Dopo pochi minuti mi trovo a passare davanti all'imboccatura di una miniera e, molto gentilmente, un giovane mi spiega come si svolge il duro lavoro di un cercatore d'oro. La miniera è un rudimentale buco nella montagna. Per terra ci sono dei mucchi di Entrata di una miniera d'oro terriccio passato al setaccio e alcuni sacchi pieni di minerale appoggiati alle pareti di roccia. Altri sacchi sono ammucchiati all'ingresso. Si scava con piccone e badile; con scalpello e martello si praticano dei fori per la dinamite che poi viene fatta esplodere. Vorrei visitarla meglio ma non c'è la lampada. Propongo di tornare a Pataz per prendere la mia pila ma, quando sto per uscire dalla miniera si scatena un mezzo diluvio. Abbandono l'idea di mettermi in cammino e penso con rabbia al mio bucato steso, e probabilmente già asciutto, che con questa pioggia si starà nuovamente inzuppando. L'acquazzone è di breve durata. Torno in paese e ho la lieta sorpresa di scoprire che la signora Isabel ha raccolto i miei panni e li ha stesi al coperto. In piazza mi soffermo a scattare alcune foto a dei bambini e quando mi rimetto sulla strada per la miniera si è fatto tardi: infatti incontro il minatore che, assieme a un suo compagno sta tornando in paese. Mi scuso per il ritardo ma lui mi accompagna ugualmente a visitare la sua miniera. Questa consiste in due gallerie collegate da un pozzo. Penetriamo nella galleria; le pareti sono irregolari, il fondo coperto da pietrisco. Accendo il registratore e registro le sue spiegazioni. Il lavoro inizia alle otto del mattino e prosegue fino alle cinque del pomeriggio. Ci si ferma per mangiare, poi si riprende alle sette di sera e si va avanti fino alle quattro del mattino seguente: è la “dobla” o “doblar”, cioè la doppia. Il lavoro è molto duro, masticare foglie di coca aiuta molto. Mi mostra la vena principale. All'inizio non c'è molto oro ma si spera che, seguendola, l'oro diventi più abbondante. Il minerale si saggia ponendo un campione dentro un corno di toro, si aggiunge dell'acqua e si strofina col dito. L'oro, più pesante, rimane al fondo e a seconda della quantità si capisce Pataz, cercatore d'oro quanto il minerale è ricco. Un buon minerale contiene dalle venti alle trenta once d'oro per tonnellata, quindi è conveniente 56 macinarlo e lavorarlo in paese. Quello più povero viene mandato a una impresa. L'oro estratto si può vendere liberamente, ma si deve pagare una percentuale alla compagnia. Il guadagno minimo è di circa quattrocento milioni di inti (circa 10.000 dollari, ma molto dipende dalle fluttuazioni del cambio), cioè quanto costa una tonnellata di minerale da trasporto. Sforzandosi si può riuscire a guadagnare anche due miliardi. Prima di andarmene gli chiedo di scattarmi una fotografia... da come maneggia la macchina fotografica penso che sia quella la prima volta che ne impugna una. Alla sera compero una latta di sardine (5.000 inti), una di conserva di pomodori (5.000 inti) e un pane con canditi (ottimo, 1.000 inti) e ceno. Martedì 5 settembre Oggi dovrebbe essere il giorno della partenza da Pataz. Tutto sta nel trovare un mezzo di trasporto per Chagual. Poi, da Chagual, dovrò aspettare un autobus o, nella peggiore della ipotesi, un camion per Trujillo sperando nella buona sorte. Sveglia, dunque, alle 6 del mattino, faccio colazione e preparo lo zaino. Pago il conto dell'alloggio (28.000 inti) e alle 8, MIRACOLO! un camion deve scendere a Chagual per trasportare sacchi di minerale. Si parte subito. Il camion, color arancione, ha l'aspetto alquanto vissuto: il pavimento della cabina è ricoperto di utensili. Pataz, rifornimento carburante Carico lo zaino sul cassone a far compagnia ai sacchi di minerale e agli altri passeggeri. Io, per essere gringo e biancuccio, ho l'onore e il privilegio di salire in cabina, accanto al pilota e copilota. Il camion si avvia lentamente, e sale a Campamento per caricare altro minerale. Campamento è una zona mineraria poco sopra Pataz. Il copilota è costretto a scendere più volte per togliere massi dalla strada o per guidare da fuori le manovre dell'autista quando, sui tornanti, si devono affrontare curve molto strette. A Campamento si scende, perché il carico del minerale va per le lunghe. Ne approfitto per andare in giro e scattare foto. Poche case di terra col tetto in lamiera ondulata, abbarbicate sul fianco della montagna. Macchie di eucalipti, buchi e minatori dappertutto; qui si scava con tecnologie e mezzi di poco superiori a quelli medievali. Dietro di noi si ferma un grosso camion crema e azzurro. Sulla parte anteriore del capiente cassone di legno è dipinta la scritta: “Luchador Patacino”. Tre uomini si danno da fare per sostituire un pneumatico. Il carico è fatto e si può ripartire; si deve, Una scuola di Pataz però, ritornare a Pataz, l'autista ha dimenticato di fare carburante. A Pataz non esistono distributori, bisogna fare carburante direttamente dai fusti. Alcuni volontari si rendono utili per tenere sollevato il fusto e fare il pieno. Per l'operazione, ovviamente, ci vuole il suo tempo, così ho modo di passare per la scuola dove insegna la signorina Lucy. 57 La scuola (edificio rigorosamente d'argilla intonacato di calce bianca) consiste in un'unica aula col pavimento di terra battuta. Piccoli tabelloni scoloriti e ghirlande di carta colorata sono appese alle pareti dipinte di celestino. Seduti ai banchi di legno, che certamente farebbero commuovere i lettori del libro Cuore, ci sono una quindicina di bambini. L'aula è immersa in una perenne penombra. Avverto i bambini che sto per scattar loro una foto: rimangono tutti immobili e mi guardano con curiosità. Fuori, sotto lo splendido sole, ritraggo Lucy assieme a tre suoi colleghi e m'intrattengo un po' a parlare con lei. Si dice alquanto pentita di aver lasciato Trujillo per finire qui, per fortuna è solo fino a dicembre. Mi consegna una lettera da recapitare a un signore di Trujillo, il quale lavora al Banco de Credito Mayorista. Ci salutiamo e mi avvio verso il camion. Stanno ancora travasando combustibile. Alle 9.05 si parte. Il mezzo affronta la discesa molto lentamente: la strada è stretta, strapiombante e con curve molto serrate. In cabina si parla di viaggi, dell'Italia e dei mondiali di calcio. Alle 10.26 un forte rumore metallico ci fa sobbalzare; è come se qualcuno colpisse la testata del motore con un martello. Il camion si ferma. La preoccupazione aumenta. Autista e aiutante scendono, aprono il cofano, confabulano, mettono mano agli attrezzi, picchiano, svitano, avvitano. La valle del Marañon Chagual: negozio, ristorante, fermata bus, farmacia... Scendo anch'io. L'altimetro segna quota 1.720. Mi guardo attorno: roccia, polvere, terra arida, solitari alberi senza foglie, ma ricoperti da un'incredibile chioma di fiori viola. Il letto del Marañon, color caffellatte, serpeggia lontano, sul fondovalle. Simile alla frastagliata linea di un fulmine, la sottile linea chiara della strada che porta alla costa si arrampica lungo i fianchi delle montagne sull'altro versante della valle. Chagual è laggiù. Arrivarci a piedi, con lo zaino in spalla e sotto il sole cocente, sarebbe una bella faticata. Intanto autista e aiutante continuano ad armeggiare dentro la bocca spalancata del camion (scena tante volte vista lungo le strade del Perù). I loro sforzi sembrano avere successo: il camion riparte. Lentamente continuiamo a scendere. Ogni tanto, nelle accelerate, si fa udire quel preoccupante rumore di martello. Il camion, eroicamente, resiste e, alle 11.30, raggiunge Chagual. Quota 1.060, caldo umido e sole a picco. Il camion viene scaricato. L'autista si consulta con uno del posto che sembra intendersi di meccanica. L'esito è nefasto, il tizio scuote la testa: il mezzo non può proseguire, ha bisogno di pezzi di ricambio. Chagual è più piccolo di Pataz. Ha l'aria di un paese disastrato, poche case di terra, a un piano, col tetto di lamiera ondulata. Lungo la strada ci sono i forni per cuocere il pane; sono cupole di terra annerite dal fumo. La chiesa è piccolina, dipinta di bianco e con una riga marrone alla base; è stata costruita sopra una serie di gradoni di cemento, forse per impedire al fiume di portarsela via durante qualche piena. Alle 12.30 entro nel locale che funge da ristorante, albergo, posto telefonico, bottega, farmacia e fermata degli autobus. Mi siedo a uno dei tanti tavoli liberi e mi permetto un succulento pranzo: riso con due “papas sancochadas” (patate bollite), due uova fritte e una birra bella fresca (7.500 inti). Chiedo informazioni riguardo all'autobus per Trujillo. Ci sono buone notizie: il mezzo è già partito da Tayabamba e l'arrivo a Chagual è previsto per le 18... però si devono aspettare le 14.30 per la 58 conferma, poiché bisogna telefonare quando l'ufficio riapre. Col cuore contento (non perdo giorni in attesa) vado a fare quattro passi. La strada polverosa taglia in due il paese, mi avvio verso il ponte sul Marañon. Il fiume scorre tranquillo sulla mia sinistra. Prima di arrivare al ponte passo davanti al posto di controllo della Guardia Civil. L'edificio basso è dipinto di verdino e mimetizzato con grossolane macchie verde scuro. Travi di legno reggono il tetto di tegole, sopra le quali una vicina pianta di manghi lascia cadere i suoi abbondanti frutti. La porta è spalancata, forse per far circolare un po' l'aria. Una finestra metallica mostra alcuni vetri rotti. Tra porta e finestra è infisso uno stemma rotondo: sul fondo bianco spicca lo scudo del Perù circondato da bandiere Chagual, posto di controllo della Guardia Civil e, in cima, un serto d'alloro. Sulla parte superiore si legge: 72–COMANDANCIA DE LA GUARDIA CIVIL e sotto: LINEA GC CHAGUAL. Sopra un grosso tronco appoggiato alla parete sono seduti cinque militari. Li guardo in faccia: sembrano rappresentare tutte le razze del mondo. Soltanto uno è in divisa. Mi fermo a chiacchierare con loro; gli argomenti sono i soliti: viaggi, Italia e ovviamente il “mundial”. Anche qui scopro che, su Italia 90, loro ne sanno molto più di me! Reagisco: Paolo Rossi (da loro assai ammirato) ed io, rivelo, abitiamo in paesi vicini. È un successo! Si va tutti a bere in compagnia. Prima, però, chiedo se posso scattar loro una fotografia. Si mettono in posa. Il più giovane mi blocca: si precipita dentro la caserma e ne esce pochi secondi dopo impugnando un kalashnikov e una bomba a mano, di un bel color rosso vivo. Appoggia la bomba sul davanzale, si siede accanto ai compagni e guarda fiero l'obbiettivo. Scatto la foto. Al ristorante, una baracca coperta di frasche, i militari ne approfittano per mangiare, io li accompagno con una Pepsi (orribile! Molto meglio la limonata che, purtroppo, non c'era). Costo della Pepsi 2.000 inti. Mentre mangiano mi confessano di essere alquanto scontenti; il gioco non vale la candela. Per 160 dollari al mese non se la sentono di rischiare la vita contro terroristi, narcotrafficanti e malfattori comuni: meglio, a volte, lasciar perdere e guardare da un'altra parte. Dintorni di Chagual Dintorni di Chagual Ci salutiamo. Torno a informarmi sull'autobus: le notizie son sempre buone. Hanno telefonato e ricevuto la conferma: il mezzo è già in viaggio e arriverà a Chagual verso le 18. Sollevato riprendo la passeggiata. Compero quattro banane (500 inti) e proseguo per la strada coperta da una spessa cappa di impalpabile polvere bianca. Il paesaggio è quanto mai brullo, arido. Prolificano i cactus, simili a enormi candelabri e strani 59 alberi spogli, tozzi e dalla corteccia bianca. Tra cactus e cespugli rinsecchiti numerosi lucertoloni sfrecciano veloci, correndo a infilarsi nelle loro tane appena cerco di avvicinarmi. Il ponte sul Marañon è una struttura in ferro pavimentata con tavole di legno rinforzate con due file parallele di assi, sopra le quali transitano i veicoli. Osservandolo non dà una sensazione di eccessiva solidità, si passa confidando nella propria buona sorte. Lungo le sponde del fiume ci sono ampie zone di verde e molte piantagioni di manghi, il cui bel verde brillante contrasta col marroncino spento delle montagne. Sto tornando in paese quando m'imbatto in alcuni minatori di Pataz i quali mi invitano a casa loro per una limonata. Accetto. Abitano subito dopo la Ponte sul Marañon chiesa e ci si arriva dopo aver guadato un corso d'acqua. La casa è piccola, vecchia e cadente. Sulla porta alcune donne accucciate per terra, giovani e anziane, stanno cucendo. La limonata è alquanto annacquata, ma gradevole. Beviamo a più riprese dall'unica tazza di plastica, passandoci la caraffa e sgocciolando la tazza, dopo aver bevuto, sul pavimento. Mi avvio alla stazione autobus mentre calano le prime ombre della sera. Per 500 inti compero due arance: mi serviranno per il viaggio. Il biglietto costa 60.000 inti, dev'essere tutto aumentato; però non pago nulla per il bagaglio. Sono le 18.00 e l'autobus non arriva. Alle 18.30 nemmeno. Alle 19.00 decido di cenare: riso con purè di patate (son finite le “papas sancochadas”), due uova fritte e un litro di ottima e dissetante limonata (3.500 inti). Per il viaggio compero quattro pacchetti di “galletas de soda” (2.000 inti) Arrivano le 20 e dell'autobus nessuna traccia. Il locale è semibuio, illuminato da un'unica lampada a carburo, appesa alta a una trave del soffitto. Il riscaldamento non esiste: si gela. Alle 21 comincio a preoccuparmi: sarà il caso di prenotare un posto dove dormire? Due fari fendono l'oscurità. Si riaccende la speranza. È una camionetta: il conducente c'informa di aver visto l'autobus fermo, in panne, a parecchia strada dal paese. Mi assale lo sconforto. Non dura molto, alle 21.25 il “Lirio Rojo” (giglio rosso) si ferma davanti alla stazione. L'autobus sembra l'inno al fai da te: è alquanto scassato e le gomme sono rigorosamente lisce. Sul muso campeggia, bella lucida, la scritta VOLVO, ma dubito che la Volvo abbia mai partorito una “cosa” del genere. L'autobus appartiene alla “Empresa de Transporte Huncaspata SRLtda”, collega Trujillo, Chagual, Parcoy, Buldibuyo, Huaylillas, Tayabamba, Huncaspata, ed è probabilmente l'unico mezzo dell'impresa. Il motore è ancora acceso che una massa di passeggeri famelici si precipita all'interno del locale. Uomini, donne, vecchi e bambini occupano i tavoli e ordinano a gran voce la cena. Gran via vai di “mozos” con piatti fumanti e bottiglie di birra. Rumore di stoviglie. Mandibole che si muovono frenetiche, mentre le bocche succhiano zuppe, spolpano ossa e ingoiano uova. I camerieri stanno bene attenti a chi cerca di svignarsela senza pagare il conto. Alle 22.10 sono seduto in fondo all'autobus sull'ultimo sedile, alto circa trenta centimetri e con lo schienale bassissimo. Praticamente posso appoggiare il mento sulle ginocchia e, data la ridottissima distanza col sedile anteriore, è impossibile stendere, anche di poco, le gambe. Il viaggio inizia tra rollii e beccheggi come se stessimo navigando col mare mosso. A volte l'autobus si inclina tanto che, da dove sono, riesco a vedere la strada illuminata dai fari. Mi auguro di non vomitare. La velocità, ovviamente è ridottissima. Accanto a me una giovane ed elegante signora mi confessa che non viaggerà mai più in un autobus: molto meglio un camion, di quelli a trazione integrale. 60 A mezzanotte si fa una sosta, non so esattamente dove. Fuori dal finestrino si vedono delle fioche luci. Ci sono delle case e un posto di ristoro. All'autista è venuto un colpo di fame. La gente grugnisce e protesta per il ritardo ma l'autista, imperterrito, siede al tavolo e ordina. Io approfitto per mangiare un'arancia. Per curiosità metto il naso dentro al “ristorante”. Il locale è piuttosto angusto, le pareti sono di terra battuta, le luci fioche. Fuori non fa troppo freddo. Mercoledì 6 settembre Notte assai scomoda. Sui vetri la condensa è talmente copiosa da scorrere come un ruscello. Improvviso una diga, utilizzando la carta igienica, per impedire che l'acqua dilaghi sul sedile e m'inzuppi i pantaloni. Il cielo comincia a schiarire annunciando brutto tempo, con nuvole basse, scure e pioggia sottile. Alle 6.30 l'autobus slitta sul fango e si mette di traverso. Il violento scossone sveglia i passeggeri che ancora dormivano. Intontito dal sonno, a malapena mi rendo conto di quanto è successo. A piedi verso Chugay Chugay: la stada ptincipale Bisogna scendere, perché il mezzo non ce la fa. C'incamminiamo sotto la leggera pioggia lungo la pista fangosa. Nessuno protesta, i passeggeri sono abituati a queste esperienze o è il sonno? L'altimetro segna quota 3.300. Dovremmo trovarci in mezzo alla famigerata pampa dove, all'andata, abbiamo perso la strada e siamo stati costretti a spingere la camionetta. Alle 6.47 l'autobus ci raccoglie. Alle 7.30, mentre affronta un tratto in discesa, sbanda nuovamente. Si sente il caratteristico rumore dei pneumatici che scivolano sul fango e, dal finestrino, osservo impotente come il mezzo si avvicina sempre più al ciglio della strada e al tornante successivo, alcuni metri più in basso. La gente grida. Stiamo per cappottarci, penso, fissando immobile il precipizio sempre più vicino. Sono interminabili frazioni di secondo, poi un provvidenziale masso, posto giusto sul bordo della carreggiata, ferma la corsa. L'autobus è ammaccato ma noi siamo salvi. Ci affrettiamo a scendere. Mi metto in fila e seguo il resto dei compagni di viaggio silenziosi e rasseganti, avvolti in poncio e coperte per ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Un lungo serpentone si snoda tra le sterpaglie fangose. Si avanza per una mulattiera che scende velocemente, incrociando la strada a più riprese, mentre, dietro di noi, l'autobus barcolla lentamente lungo i pericolosi tornanti. Sotto di noi si stende un'ampia vallata. Tra macchie scure di eucalipti, rettangoli marroni di campi arati e distese gialle dove l'avena è da poco stata Studenti a Chugay mietuta si scorge un gruppo di case. 61 L'autobus ci raccoglie alle 8.05, quando la discesa è quasi completata e stiamo per entrare nella valle. Alle 8.14 entriamo in Chugay. Tempo nuvoloso e poggia intermittente. Chugay consiste in due file di case, una attaccata all'altra, disposte ai lati della strada. Solite casupole di argilla con tetti di tegole molto sporgenti, adatti a riparare dalla pioggia. Piccole finestre quadrate, porte di legno sgimbesce, marciapiedi rialzati per evitare il fango della via. Poche case hanno la facciata dipinta, generalmente con toni chiari; la maggior parte ha muri d'argilla screpolata, riempiti di scritte elettorali (il prossimo anno ci saranno le elezioni). Sorelline a Chugay Chugay: la chiesa Poca gente per strada. Attorno campi e montagne seminascoste dalle nuvole. I passeggeri si riversano in un posto di ristoro, mentre io preferisco fare quattro passi. Fotografo qualche scorcio del paese, le scritte sulle pareti, arrivo alla chiesa intonacata di bianco. Dalla porta della loro case alcune bambine mi guardano incuriosite mentre le fotografo; la maggiore ha in braccio la sorellina di pochi mesi, scalza e infagottata in una consunta coperta rossiccia. Un'altra, giovanissima, è avvolta in un poncio grigio, dal quale fa capolino la testina di un neonato protetta da un pesante berretto di lana. Mi fermano due ragazzini: stanno andando a scuola e mi chiedono se posso far loro una foto. Calzano sandali ricavati dai copertoni. Uno porta i libri sotto braccio, l'altro li tiene dentro una bisaccia a tracolla. Si mettono bene in posa contro una parete sgretolata, seri. Compero due banane (400 inti) e completo la colazione con alcune gallette. Alle 9.06 si risale sull'autobus e si riparte. Alle 10.50 passiamo Pallar, guadiamo un fiume e iniziamo la lunga salita verso Huamachuco. Alcuni sedili più in là una giovane mamma si prende cura del suo pargolo. Lo allatta e il pargolo ricambia felice, facendo tanta popò. Dentro l'autobus l'aria diventa irrespirabile. Siamo ormai alla periferia della città quando dobbiamo fermarci. Un tratto di carreggiata sopra un ponte ha ceduto, formando una grande cavità. L'aiutante dell'autista scende e, pietra dopo pietra, sistema la strada. Arriviamo a Huamachuco alle 13.05. Huamachuco è il capoluogo della provincia Sanchez Carrion. L'autobus sosta, i passeggeri vanno a pranzare. Appuntamento alle 14.00 in Plaza de Armas. Cerco un centro comunitario per telefonare a Jeanett. Impossibile telefonare: la coda è esageratamente lunga. Faccio un giro per il pittoresco mercato. Bancarelle, coperte da teli di plastica colorata per proteggersi da sole, vendono di tutto. Alcune sono specializzate in tessuti e gran quantità di pizzi colorati (blondas) con cui le donne adornano i loro vestiti. Convinco una signora, molto diffidente, a lasciasi fotografare; indossa un tipico vestito della zona: almeno tre pesanti gonne sovrapposte, color fuxia, nero e fuxia, con sopra un camicione bianco, stretto in vita e abbellito sul davanti da una cascata di merletti bianchi, azzurri, gialli e fuxia. Collo bianco, alto e importante, simile a uno scialle, con un largo bordo di tessuto fuxia pieghettato. Orecchini dorati e alto cappello di paglia, con tesa larga, in testa. I sandali neri ai piedi hanno l'aria di essere stati acquistati da poco. Prometto di spedirle la foto presso Jugueria Maranata - Huamachuco. Con un indirizzo così, chissà se le arriverà. Alcune bancarelle vendono prodotti artigianali molto interessanti. Per 20.000 inti compero due 62 belle “alforjas” (bisacce). Il venditore mi sorprende quando mi chiede se posso procurargli una Land Rover. Ma per chi mi avrà preso? Presso un'altra bancarella compero quattro pani, tondi e dolci, e due banane (1.100 inti). Sei pacchetti di biscotti mi costano (3.000 inti). Alle 14,10 l'autobus raggiunge la Plaza de Armas e rimane in attesa. I passeggeri arrivano alla spicciolata, con comodo. Nel cielo il sole splende, fa caldo. Partiamo alle 14.35 per fermarci al posto di controllo della Guardia Civil. Sul muro della caserma c'è scritto: Huamachuco - altitud 3.241, mentre il mio altimetro indica quota 3.175. Alle 16.20 passiamo per il “ristorante” Frailones. Piove. La strada è in pessime condizioni, l'autobus s'impantana e un bel po' di passeggeri è costretta a scendere per alleggerire il mezzo. A Huamachuco alcuni viaggiatori sono scesi e altri sono saliti. Ne ho approfittato per cambiare sedile; adesso sto molto più comodo. Durante la sosta c'è pure stato un notevole ricambio d'aria e ora si respira un po' meglio. Si attraversano paesaggi brulli e spopolati. Il "Lirio Rojo" a Huamachuco L'unica forma vivente visibile è l'onnipresente ichu, sferzato dal vento e dalla pioggia gelata. Sotto la pioggia l'autobus ferma all'improvviso: un passeggero ha avvistato una pernice e se la vuole cucinare per cena. Attraverso i finestrini assisto alla patetica caccia al volatile. L'improvvisato cacciatore si affanna dietro l'uccello, inseguendolo tra rocce e ciuffi d'erba, su per il ripido pendio. La pernice non è scema: conosce perfettamente il territorio e ben presto sparisce. Il cacciatore se ne torna all'autobus, bagnato fradicio, costretto a subire la mordente ironia dei compagni di viaggio, gli stessi che l'avevano sostenuto e incitato durante l'inseguimento. L'autobus può ripartire. Alle 17.43 passiamo la laguna Toro e alle 18.38 entriamo a Shorey. La carreggiata è stretta e due veicoli faticano a transitare appaiati. L'autobus urta leggermente un camion, che avanza in direzione opposta, e gli frantuma uno specchietto retrovisore. Tra i due autisti c'è un vivace scambio di coloriti epiteti. Il diverbio, per fortuna, si esaurisce presto: entrambi hanno fretta e, dopo un po' di manovre i mezzi riescono a passare e proseguire ciascuno per la propria strada. Alle 19.08 ci fermiamo al posto di controllo di Shorey. Il viaggio continua fino alle 19.36, quando una forte puzza di bruciato allarma i passeggeri. L'autobus si ferma, l'autista scende a controllare: nell'oscurità tutto sembra in ordine. Si riparte e tutto procede bene; alle 21.43 nuovo allarme e altra sosta: l'autobus ha bisogno di alcune veloci riparazioni. Noi passeggeri tratteniamo il respiro. In pochi minuti tutto pare sistemato e il viaggio può riprendere. Alle 22.22 passiamo Agallpampa dove tutto è chiuso. In località José Barras l'autista decide che è ora di cena. Scendiamo nel freddo della notte: non piove più, per fortuna. Molti vanno a mangiare, alcuni aspettano fuori. Circolano voci preoccupanti: pare che una frana abbia interrotto la strada per Trujillo e non si possa passare. Alle 24, in ogni caso, ci rimettiamo in cammino. La strada, pare, è libera. Giovedì 7 settembre È ancora buio quando arriviamo a Trujillo: sono le 3.43 del mattino. L'autobus si ferma in calle Chira. La stazione è ancora chiusa. I passeggeri si rifiutano di scendere: temono i ladri. Intendono aspettare che l'agenzia apra in modo da poter depositare i bagagli in un luogo protetto. Finalmente l'agenzia apre, l'autobus viene scaricato e i bagagli frettolosamente portati al sicuro. 63 Sono passate le 5. Fermo un taxi e mi faccio portare all'hotel San Martin, San Martin 749 (6.000 inti per il taxi). Una camera costa 17.000 inti. L'edificio è abbastanza moderno, la camera piccola ma decente, il letto sembra ottimo. Non vedo l'ora di farmi una doccia calda e prolungata... peccato che non ci sia acqua. Forse arriverà più tardi. Esco per fare colazione: due sandwich al tacchino e un tè, al “Salón de Te Buenos Aires” (Pizarro 332) mi costano 6.700 inti. Spendo 3.500 inti per alcuni biglietti della lotteria, sono belli e colorati, li compero per la mia collezione. La signora che me li vende mi assicura che sono quelli vincenti. Al N° 548 di Orbegoso si trova la Libreria Bazar Ideal dove, per 5.000 inti compero un libro su Cajamarca, città che, in compagnia di Jeanett, intendo visitare. Mi dedico, quindi, a cercare il Banco de Credito Mayorista, per consegnare la lettera di Lucy. Chiedo informazioni a un poliziotto il quale mi da indicazioni totalmente sbagliate. A furia di girare e chiedere, finalmente trovo l'indirizzo e consegno la Biglietti di varie lotterie missiva. Al ritorno attraverso un mercatino rionale. Tra le tante bancarelle ce n'è una assai interessante: un signore anziano vende rimedi, pozioni e feticci. Compero alcuni “chumbeques” (portafortuna consistenti in un nastro rosso con legati un ferro di cavallo in miniatura, un frutto maschio di huayruro e una piccola immagine di Gesù bambino). Acquisto anche una bottiglietta piena di scaglie dal color giallo dorato: si tratta di orpimento, un minerale di arsenico, utile nella cura di molti mali, tra i quali alcuni tumori e “aires”. L'uso più interessante, però, e un altro. L'anziano venditore spiega: nella sierra ci sono delle pozze d'acqua dalle quali scaturiscono dei vapori. A volte il sole, attraversando questi vapori, forma degli arcobaleni. Da questi arcobaleni spuntano dei mostri con teste simili a quelle dei gatti. Se nelle vicinanze transita una donna incinta, la malcapitata si gonfia a dismisura, restando incinta di queste visioni. All'ora del parto, invece del bambino, uscirà acqua e grandine. Per evitare questo increscioso inconveniente è utile usare la polvere di orpimento: se ne pone un po' sul palmo della mano e la si soffia in direzione degli arcobaleni. L'efficacia è certa. Orpimento e portafortuna mi costano 100.000 inti. Il vecchietto mi saluta contento. Nell'assolata Plaza de Armas due ragazzine in divisa scolastica mi chiedono un'offerta per la Croce Rossa; do 500 inti e una di loro mi appunta sulla giacca un adesivo rotondo. Ripasso per la Libreria Bazar Ideal e compero otto “documentales del Perù”, prezzo 40.000 inti, 3.000 inti di sconto e pago 37.000. Al mercato coperto vendono di tutto; trovo delle cassette di musica a un ottimo prezzo: per 120.000 inti ne prendo sei di musica folclorica. L'ospedale Belén non è lontano, lo raggiungo ma Jeanet è ancora al lavoro, così me ne torno all'Hotel. L'acqua è arrivata: finalmente posso permettermi una doccia di lusso, calda e prolungata. Rimesso a nuovo torno all'ospedale per Jeanett e andiamo a pranzo al “Restaurant Criollo Grau” (Grau 630). Di rigore un pisco suor, cebiche e crema volteada come dolce. Totale 34.100 inti. Dedico il pomeriggio a visitare Trujillo; porto in lavanderia un po' di biancheria sporca, passo in tipografia per Jeanett e passo da Sara per confermare l'invito alla “parillada” di sabato. Si tratta di celebrare degnamente la festa dell'amicizia tra Perù e Argentina, e, trattandosi di Argentina, il modo classico di festeggiare è quello di una pantagruelica grigliata. A sera accompagno Jeanett al teatro Municipal (6.000 inti per due ingressi). Assistiamo a uno spettacolo di beneficenza a favore di uno studente di medicina. Lo spettacolo s'intitola “Ayudemos a 64 vivir” ed è piuttosto dilettantistico. Comincia con molto ritardo ed è costellato da papere, pause e contrattempi. Bambine e bambini ballerini, cantanti già visti al Sachun e, perla della serata, una giovane e brava cantante, vincitrice della trasmissione televisiva “Trampolin a la fama”. All'uscita ci fermiamo per un tè e una Fanta in un bar vicino (1.500 inti), poi Jeanett va a casa e io torno in albergo. Venerdì 8 settembre Sveglia alle 8.00. Pago l'albergo (17.000 inti) e vado a fare una bella colazione da Demarco (7.500 inti). È un locale di proprietà di un italiano, si mangia bene e servono ottimi dolci. Prendo un taxi per l'agenzia Diaz: è un'agenzia che viaggia a Cajamarca, da tutti raccomandata come la migliore. Si trova un po' lontana dal centro, lungo la Panamericana nord (2.000 inti per il taxi). Purtroppo per domani i posti sono esauriti. Me ne torno a piedi e provo da Etecsa. Il biglietto costa 16.000 inti: compro il mio e prenoto per Jeanett. Faccio una visita a un centro commerciale che si trova lì vicino, per 7.800 inti compero una busta con cinque pupazzetti spaziali; sono i “Guerreros Galacticos”, commovente “producto peruano” dai colori sgargianti e molto carini da collezione. 1.000 inti li spendo in un'edicola per il giornale Kausachum Perú (Evviva Perù), non ci sono notizie particolari, ma mi attira il nome della testata. Passo da Foptur per avere informazioni su Cajamarca. Mi consigliano di alloggiare all'hotel Jusovi. Si trova dietro la Plaza de Guerreros Galacticos Armas e una camera singola costa 10.000 inti. In una piazzetta c'è il cambio libero. Il dollaro continua a salire, adesso vale 4.550 inti. Cambio cento dollari. Spulciando tra libri e riviste nella libreria “Studium S.A.” (Francisco Pizarro 533) scopro una vera chicca: si tratta di una pubblicazione a cura del dottor Ricardo Mariategui Oliva (mio professore di storia e geografia del Perù). Il titolo è: “Nuevo Lienzo autentico del Corpus Cuzqueño” e vi si racconta la riscoperta di un grande dipinto raffigurante la processione del Corpus Domini nel Cusco, opera di un anonimo pittore indigeno del XVII secolo (anonimo perché agli artisti indigeni era proibito firmare le loro opere!). Il tema rappresentato è l'annunciazione di Maria. Con questo, sostiene il professor Mariategui, il numero delle tele del “Corpus” arriva a sedici. Docici si trovano al Museo Arzobispal di Cusco e quattro si trovano in Cile, presso privati. Costo 1.500 inti. Per 20.000 inti compero anche il numero 53 del “Boletin de Lima” con un interessante articolo su Cajamarca e Huaraz. Alle 13 telefono a casa. Poi passo per l'ospedale e con Jeanett vado a pranzo: “sopa de la casa”, “aji de gallina”, “cebada” (3.200 inti) Torno da Etecsa per confermare il viaggio di Jeanett. La partenza è fissata per domani alle 21. Al mercato dell'avenida Perù compero mele e uva (2.750 inti) e in un negozio del centro un paio di calze nere per Jeanett (3.000 inti). Si fa sera. Passo per la lavanderia “Pronto” (Pizarro 121) e ritiro la biancheria pulita (3.500 inti). Alle 20.45 sono invitato alla cena della “promoción” della scuola di Jeanett. Ci si trova al primo piano di una delle più famose pasticcerie di Trujillo. Sono presenti quasi tutte le sue compagne di scuola: quella della cena di classe è una tradizione molto radicata e sentita da tutte. Faccio una considerazione, paragonando quella riunione con quelle a cui ho partecipato in Italia: delle circa 65 venti signore presenti nessuna è venuta in auto; semplicemente non ce l'hanno! M'intrattengo per un'oretta e poi torno all'hotel. Sabato 9 settembre Sveglia alle 7.30 con cielo coperto. È normale, siamo in inverno anche se ci troviamo nella capitale dell'eterna primavera. Forse il sole uscirà nel pomeriggio. Decido di visitare la huaca del Sol e quella della Luna. I “micro”, i pulmini che si recano a Moche, partono dalla calle Suarez 389. Ci arrivo tranquillamente a piedi attraversando il centro e trovo un pulmino bianco, con righe rosse e blu, pronto, in attesa. Dentro, già sedute, alcune signore mi fanno cenno di affrettarmi a salire perché, mi spiegano, la zona è piena di ladri in attesa di derubare l'incauto turista. Non solo, pure loro sono stare vittime di borseggi. Mi raccomandano di fare molta attenzione una volta giunto alle piramidi: il luogo è deserto ed è meta di malfattori che assaltano la gente. Infilato in un tascone dei pantaloni porto il coltello da sopravvivenza, il suo aspetto dovrebbe intimorire eventuali malintenzionati. Alle 8.38, dopo aver sistemato una ruota, il pulmino si avvia, esce da Trujillo e percorre la Panamericana Nord. Dopo alcuni chilometri devia a sinistra, imbocca una stradina polverosa che è tutta un susseguirsi di curve, e s'inoltra nella pianura di Moche. Incontriamo case sparse e qualche modesto agglomerato urbano. Le costruzioni sono di terra, basse, col tetto fatto di stuoie. Molte mostrano bei giardini fioriti, che contrastano vivamente col verde spento e polveroso della vegetazione circostante. Alle 9.02 Moche: huaca del Sol il pulmino si arresta davanti a un grande cartello di cemento dipinto di azzurro. Scritte bianche informano che si è arrivati alle piramidi del Sole e della Luna. Niente biglietto d'ingresso, nessun guardiano: il sito archeologico è totalmente abbandonato. La piramide del Sole sorge subito dietro il cartello. È una struttura a gradini, alta circa trenta metri, costruita con milioni di mattoni d'argilla. Il tempo e la gente, che durante i secoli vi si è arrampicata in cima, l'ha resa simile a una collinetta. La pioggia ha scavato profonde fenditure lungo i suoi fianchi. Seguo la base della piramide per un sentiero a sinistra, passo davanti a un gruppo di casupole fino a una cooperativa agricola. Un canaletto scorre a lato del sentiero, oltre c'è una distesa di campi coltivati. Improvvisamente un gruppo di cinque o sei cani mi circonda abbaiando: tiro fuori il coltello e mollo un fendente a quello che mi è più vicino, non lo prendo, ma la reazione spaventa il branco che si allontana, sempre abbaiando. Torno sui miei passi e scalo la piramide, seguendo uno dei tanti sentieri tracciati da chi mi ha preceduto. Dalla cima ammiro l'altra piramide e lo squallido paesaggio circostante, reso ancor più triste dal cielo grigio e da una leggera foschia. Gli unici segni di vita son dati da due bambine che giocano nei pressi di una fattoria e da un asino grigio che mastica tranquillo le stoppie. Scendo, costeggio una stentata piantagione di mais e, attraversando un tratto piano e sabbioso, arrivo ai piedi della piramide della Luna. La struttura è addossata a una collina appuntita, dalla curiosa forma di piramide, è più piccola di quella del Sole e sulla facciata presenta una dozzina di fori, di varie dimensioni, quasi certamente opera dai tombaroli. Salgo in cima per scattare qualche foto, poche, perché il pessimo tempo mi scoraggia. Scopro che la parte superiore della piramide sembra collassata: invece di essere piana, come mi aspettavo, presenta una profonda e vasta fossa. 66 Moche: huaca de la Luna Moche: huaca de la Luna Scendo e mi avvio verso la fermata dei pulmini. Alle 9.54 ne arriva uno color crema. Salgo e il mezzo arranca lentamente verso Trujillo, caricando gente e “cantinas” (bidoni del latte). Il passaggio costa 500 inti per l'andata e altrettanti per il ritorno. Copertina dell'album "La Pandilla Basura" Pagina dell'album "La Pandilla Basura" Centro di Trujillo: nella strada che passa dietro al mercato coperto, a poca distanza dal centro, si svolge il commercio delle figurine: i ragazzini comprano poche bustine alla volta, e scambiano le doppie con i loro amici per completare la collezione. C'è, però, la possibilità di comperare subito l'intera raccolta: il rivenditore apre le buste, scarta i doppioni (che poi rimette nelle bustine) e vende la collezione completa. Per 20.000 inti compero album e figurine de “La pandilla basura”, letteralmente: la banda spazzatura. Le figurine consistono in disegni, sotto certi aspetti alquanto raccapriccianti, di bambini simili a mostriciattoli, più schifosi che divertenti. Il rivenditore ha una memoria di ferro: si ricorda di me che, quattro anni prima, avevo da lui comperato la collezione “Ciencias”! Entro al mercato e bazzico tra i posti vendita. Compero due statuette di terracotta che vengono poste in cima alle torte degli sposi: le figurine hanno un'espressione tutta particolare. Una terza statuetta raffigura una ragazzina vestita di un lungo abito rosa, tutto volant, molto vaporoso: serve per la festa dei quindici anni (23.000 inti). 80.000 inti li spendo per quattro musicassette e 2.000 per una sacco di robusto tessuto plastico, col quale ho intenzione di avvolgere lo zaino per il suo trasporto in autobus. Per 13.230 inti pranzo al “Restaurant Romano” (Pizarro 747). Cerco disperatamente per tutta Trujillo qualche rullino di Ektachrome! Niente da fare, devo accontentarmi di un paio di Fujichrone (46.000 inti), meglio di niente, comunque. Altre spese: 2.000 inti per due biglietti di varie lotterie e 1.000 per il giornale “El Nacional”. Mi faccio un appunto: da comperare la cassetta de “Las Chicas del Can” con la canzone “ Juana la 67 cubana”; il gruppo canoro sta popolando con quell'indiavolato merengue. Al supermercato “Tienda Tia”: 18.000 inti per la cassetta di musica andina “Machu Picchu”, 1.560 inti per biscotti e 3.540 inti per cioccolata. Copertina dell'audiocassetta di MARISOL, cantante spagnola, all'epoca (anni ‘60-’70) la mia preferita Decorazioni in terracotta per le torte degli sposi e la festa dei quindici anni Alle 13,30 arrivo da Pirani, il negozio di Ruben: è lui che ha invitato Jeanett e me alla festa argentina. Jeanett è in ritardo. Ruben è incazzato. Arriva Sara, la moglie e, finalmente , arriva anche la mia amica. Con l'auto di Ruben si va un po' fuori città, in una grande casa privata, messa a disposizione da un medico. Sotto una spaziosa pergola c'è già parecchia gente, sui tavoli piatti di “manì” (pop corn) e salsa piccante. Musica registrata. Spunta un pallido sole. La gente continua ad arrivare a frotte e un complessino inizia a suonare e cantare motivi in voga. Vengono servite succulente bisteccone, una gran quantità di salsicce e insalata. Noto l'assenza di forchette e coltelli. Questa sembra essere la consuetudine e tutti sono ben attrezzati in fatto di coltelli: dalle tasche e dalle borse esce fuori un sorprendente arsenale di lame. Mancano solo le scimitarre e i kriss malesi! Ruben esibisce un paio di coltellacci dal manico e fodero finemente cesellati. Io faccio un figurone col coltello da sopravvivenza che taglia la bistecca come fosse burro. Verso la fine circola anche una torta di fragole; per 5.000 inti me ne assicuro due porzioni. Pago la mia quota (10.000 inti) e alle 16.30 Ruben riporta indietro Jeanett e me. Lei se ne torna a casa per prepararsi, io vado al mercato e per 20.000 inti compero un'audiocassetta di Marisol, con tutte le mie canzoni preferite che ascoltavo vent'anni prima! Non vedo l'ora di riascoltare “Tengo el corazón contento”, “Anoche no pude dormir”, “Aquel verano” e molte altre. Il negoziante m'informa che da lunedì le cassette costeranno 29.500 inti. Compero anche una penna nuova (2.000 inti). Cambio venti dollari a 4.550, per un totale di 91.000 inti e mi fermo da Demarco per la cena: 3.580 inti per un toast con formaggio, uno con uova e un tè. Camminando arrivo all'agenzia di Etecsa dove mi aspetta Jeanett. L'autobus parte alle 21, in perfetto orario. Alle 23 arriviamo a Chocope, alle 23.15 passiamo Paijan e alle 24 Pacasmayo. Domenica 10 settembre Alle 0.40 una tremenda puzza di bruciato invade l'autobus. La gente grida all'autista di fermare. Scoppia una gomma e l'autobus sbanda. Chi dorme si sveglia di soprassalto, sente il casino, si spaventa e si mette a urlare: « Nos asaltan! Nos asaltan! ( Ci assaltano!)» In questo periodo, infatti, vanno molto di moda gli assalti agli autobus. Banditi e terroristi bloccano le strade e derubano i passeggeri di tutto quanto hanno, vestiti compresi. Va molto peggio nel centro sud, nella zona di Ayacucho, dove i senderisti non si accontentano di rubare, ma uccidono gli eventuali turisti. Il nostro autobus riesce a fermarsi; autista e aiutante scendono per riparare la gomma, ma al buio non è semplice. Presto loro la pila e, dopo un po', si riparte. 68 Alle 2.30 facciamo una sosta a Iatagual, 400 inti per un “biscocho”, panetto tondo e dolce. Si riparte alle 3.00, alle 3.30 sosta a Chilete e un'altra sosta ancora alle 4.55. Alle 6.30, dopo aver assistito a un'alba spettacolare, arriviamo a Cajamarca. Cerchiamo un hotel. Il Jusovi, raccomandatoci da Foptur, è caro: 20.000 inti per una stanza doppia. Approdiamo al Sucre: 15.000 inti, bagno spartano, acqua poca, pulizia non eccessiva. Fuori splende il sole, si prevede una bella giornata. Al ristorante “Salas” (Amalia Alba a Cajamarca Puga 637) facciamo colazione (11.650 inti), quindi iniziamo la visita alla città. Se bella è la cattedrale, stranamente con le torri mozzate, costruita in porfido, splendida si può definire la chiesa di Belén, la cui facciata è sontuosamente Cajamarca: la Plaza de Armas Interno della chiesa di Belén scolpita, tanto da sembrare un ricamo. A sinistra della cattedrale c'è l'edificio bianco e moderno dell'hotel de Turistas, sicuramente comodo e certamente caro. Al centro della Plaza de Armas, circondata da un giardino ben curato, sorge una bella fontana di pietra. Particolare della chiesa di Belén La collina di santa Apollonia La collina di Santa Apolonia è alta cinquecento metri. Affrontiamo la lunga scalinata di pietra a doppia corsia, molto particolare. Alla fine c'è la chiesetta dedicata alla Madonna di Fatima, tutta dipinta di bianco e azzurro. Dietro la chiesa un'enorme croce bianca si staglia contro il cielo blu 69 cobalto. In cima alla collina ora ci sono dei giardini; anticamente vi sorgeva un tempio di cui ora rimane ben poco: una pietra intagliata chiamata sedile dell'inca. Vicino sorge la statua dell'inca Atahalpa, raffigurato in piedi, con le mani dietro la schiena intento a guardare con aria corrucciata e sconsolata la città. Da sopra la collina si gode di un'ottima vista del panorama sottostante, si apprezza l'antica pianta, tipica dell'epoca della conquista: tanti isolati divisi da strade dritte e ortogonali. Dietro la statua c'è una fontanella, alquanto malconcia: rappresenta un “cholito” che sta orinando. Facciamo conoscenza con Elen, una ragazza americana da poco in Perù, che ha come meta finale il Cile. L'ingresso ai giardini costa 100 inti. Cajamarca vista dal “asiento del Inca” Una via di Cajamarca Cajamarca: un mercato Cajamarca: negozio di abbigliamento Cajamarca: negozio di artigianato Cajamarca: giovane venditrice Lungo la scalinata si aprono numerosi negozi d'artigianato; quando scendiamo ne visitiamo alcuni. Vendono oggetti in ceramica e in giunco. Per 5.500 inti compero una statuetta raffigurante una 70 donnina che fila la lana. All'uscita troviamo due bambine le quali insistono per cantarci una canzoncina: accendo il registratore e loro cantano. Mariposita, mariposita ¿quien te ha dicho que soy casada? Soy casada por esta noche, solterita enamorada. Ese marido que tienes [...] [...] hasta las velas Si te casabas conmigo tenias [...] Dale, dale duro que te esperaré con cinco patadas y un puntapié Que bonita señorita, ¿quien será su enamorado? Yo quisiera conocerlo pa matarlo al maldiciado. Que bonito jovencito, ¿quien será su enamorada? Yo quisiera conocerla pa matarla a la maldiciada. Quisiera ser pajarito con patitas de algodon para acostarme en tu pecho y hablar con tu corazon al silencio de la noche la luna que se oculta tus ojos seran (orribles) cuando de ti me acordaba muchacha cajamarquina, hermosa como un clavel te pones muy guapa y vela con tu faldita de Chanel ahy mujer, mujer ahy mujer, mujer desconsiderada toda semana trabajo y me esperas enojada yo tenia una mi tia que de madre me servia tenia calzones viejos, camisas desvanecidas y chalaca [...] tu madre manda en lo tuyo de lo tuyo mando yo. Quando bajé de mi tierra, de poncho y sombrerito pero al llegar a la costa me llamaban serranito por una calle derecha iba buscando posada pero la gente del pueblo todos, todos me negaban. Carolina, Carolina, eres linda Carolina si serán tus ojos con tus labios rojos que a mi me provocan, que a mi me provocan. Alla fine chiedono la “propina”, la mancetta: do 50 inti a ciascuna e vanno via contente, ridendo. In Plaza de Armas compero un sacchettino di “canchita” (pop corn) per 500 inti, sei banane (1.000 inti) e quattro “rines” (gettoni del telefono) locali (400 inti). Cajamarca era una città importante, ci si rende conto mentre, passeggiando, si scoprono le tracce dei passati splendori; a parte le chiese, molte case sfoggiano monumentali portoni di pietra scolpita. Sono le entrate degli antichi palazzi dove dimoravano i ricchi conquistadores. Tra mercati, dove si vende un'infinita varietà di fiori, frutta e ortaggi, e ambulanti che esibiscono prodotti assai singolari mi colpisce un signore piuttosto corpulento, elegantissimo in pantaloni grigi e camicia bianca. Sembra vestito per andare a messa. Ha i capelli neri impomatati. La camicia candida, virilmente sbottonata, lascia intravvedere un paio di catenine d'oro: una con appesa un massiccia croce, l'altra con uno strano ciondolo a forma di ruota. Al polso destro porta un pesante braccialetto d'argento. Accanto ha una cassetta di legno dalla quale estrae, di volta in volta, serpenti e lucertoloni di varie dimensioni. 71 Con le mani grassocce maneggia i rettili con consumata perizia e professionalità: vende rimedi ricavati dal grasso di quegli animali e son rimedi, secondo lui, atti a curare una gran varietà di mali. Mentre lo fotografo si fa avvolgere dalle spire di una “mantona” una specie di pitone, lungo più di due metri e grosso quanto la coscia di un uomo. Magnifico serpentone grigio piombo, con macchie rossicce e linee ondulate color crema. Attorno, un folto gruppo di paesani ascolta con interesse. Proseguendo tra bancarelle coperte da fogli di plastica colorata scopro una serie di negozi di artigianato. Mi interessano delle statuette scolpite in “serpentina”, una pietra grigio chiaro con delicate sfumature rosa e verdognole, molto elegante. Le sculture rappresentano contadini al lavoro, donne coi bambini, animali. Ne compero alcune: due mamme coi bambini in braccio e un contadino con badile e una patata in mano 23.000 inti). Si pranza al Salas (32.900 inti). Finito di pranzare si continua la visita alla città. Il tempo è cambiato, il cielo è coperto da Le bambine canterine preoccupanti nuvoloni color piombo. Non facciamo a tempo ad attraversare la Plaza de Armas che si scatena un improvviso quanto violento acquazzone. La gente scappa cercando riparo; ne seguiamo l'esempio e ci rifugiamo sotto un tetto sporgente. In pochi secondi le strade si trasformano in torrenti (ecco perché i marciapiedi sono così alti) e la piazza sembra un'isola circondata da un mare vorticoso. Per fortuna il temporale dura poco. Il vento spazza via un po' di nuvole e la pioggia cessa. Guadando la strada Jeanett è vittima di un tremendo scivolone, niente di grave, ma preferisce tornare all'albergo e rimanerci. Io continuo con la visita. All'interno di un magazzino c'è un piccolo televisore acceso. Stanno trasmettendo una partita di calcio. Dev'essere una partita importante, ci sono le selezioni per i mondiali di Italia 90. Una dozzina di persone si accalca davanti all'inferriata che protegge il magazzino. Gente povera che mai potrebbe permettersi un televisore. Alla sera si cena Venditore di rimedi al Salas (7.600 inti). Lunedì 11 settembre Ci si sveglia gratificati dal bel tempo. Jeanett paga la camera (17.000 inti) e usciamo sulla Plaza de Armas illuminata dal sole. Il cielo blu sopra la cattedrale è rallegrato da cirri bianchi e sottili, simili a tante candide piume. Qualche veloce foto ai portali di pietra e, alle 9, si parte per un tour a Cumbe Mayo. La località si trova a circa venti chilometri da Cajamarca. La strada è sterrata, molto tortuosa ma ben tenuta: il pulmino la percorre senza problemi, lasciandosi dietro una scia di polvere. Il paesaggio è monotono: montagne coperte di ichu grigioverde, rari alberi, case di fango isolate. Siamo in dieci: autista, guida, una famiglia composta da padre, madre, due gemelle e due zie, Jeanett ed io. Già da notevole distanza si scorgono le singolari formazioni rocciose: spuntano dal terreno come giganteschi tronchi d'albero e vengono chiamate “Frailones” perché la loro forma ricorda una fila di frati in processione. Tra le formazioni di roccia grigia si snoda un'opera eccezionale: un acquedotto 72 risalente all'epoca Chavin. È davvero incredibile come gli artefici siano riusciti a scavare la pietra disponendo di attrezzi molto rudimentali, dando l'inclinazione ottimale, prevedendo tratti a più angoli retti per ridurre la velocità del flusso e scavando addirittura dei tunnel quando bisognava superare una roccia di grandi dimensioni. Cumbe Mayo: los Frailones Cumbe Mayo: los Frailones Cumbe Mayo, l'acquedotto Cumbe Mayo, grafiti Molti e singolari i graffiti: ci sono spirali, croci, cerchi e altri simboli di cui ormai si è perduto il significato. Alla base di un pinnacolo si apre una caverna, simile a una bocca spalancata, vi si accede salendo una rampa artificiale e alcuni gradini. L'interno ha forma circolare, con un diametro di circa tre metri. Il pavimento è stato accuratamente levigato e le pareti sono ricoperte da numerosi grafiti, in gran parte forme irriconoscibili e misteriose, come la funzione della grotta stessa. Il posto è davvero suggestivo. Purtroppo siamo in un tour: il tempo è limitato e l'interesse delle gemelle per l'archeologia lo è ancora di più. Risaliamo sul pulmino e torniamo a Cajamarca. Guida e autista ci rallegrano il ritorno. L'autista canterino racconta barzellette e recita “coplas” (brevi poesie). Me ne ricordo bene una, molto spiritosa: COPLA DEL CHOFERCITO Chofercito quisiera ser para estas hermosas curvas recorrer y de un accidente a este huequito caer. 73 Lascio ai lettori immaginare in quale buchetto il piccolo autista desiderava cadere. Umorismo tipico di Cajamarca, non a caso, per radio, trasmettevano spesso una canzone che diceva così: Que dichosas estan las pulgas que se suben a tu cama a gozar de tu hermosura de la noche a la mañana. Traduzione: Che felici sono le pulci, che s’intrufolano nel tuo letto, per godere della tua bellezza dalla sera alla mattina. Alle 13.15 siamo di ritorno. L'autista propone di ritrovarci alla sera per organizzare una “peña”, cioè una serata in un locale dove mangiare tra musica e canti popolari. Niente da fare: le gemelle preferiscono la discoteca; mamma, papa e zie le accontentano. Il costo del tour è di 14.000 inti a persona. Cajamarca, plaza de Armas "El cuarto del rescate" Pomeriggio intenso, dedicato a varie attività: passeggiata per il pittoresco mercato, acquisti vari (carta igienica, 500 inti, sei banane, 1.000 inti e un bel pesce di terracotta tipo “espanta fantasmas”, cioè con delle parti penzolanti che oscillano al vento producendo un tipico suono, 5.000 inti). Passiamo per l'agenzia Etecsa dove Jeanett compera i biglietti per Trujillo (30.000 inti). La partenza è per mercoledì 13 alle 21. Confermata la partenza inizio una affannosa ricerca per trovare qualche cartolina da spedire a casa e agli amici. Quatto cartoline mi costano 2.000 inti e 2.400 inti li spendo per i francobolli. Proseguiamo verso l'ufficio di Foptur per avere qualche consiglio su cosa visitare. Per strada compro un sacchettino di pop-corn (100 inti) e un vasetto di “manjar blanco” tipico dolce del posto, fatto con latte condensata, zucchero e albumi d'uovo; squisito! (3.000 inti). Siamo a Cajamarca: non può mancare una visita al “Cuarto del rescate”, la stanza dove quel coglione di Pizarro imprigionò Atahualpa. La visita è deludente. La stanza è stata oggetto di un restauro demenziale: il pavimento è una gettata di cemento, mentre il tetto è sostenuto da un'architrave in tondini di ferro su cui poggiano travi di legno squadrate, a sostegno di un rivestimento di perline, stile tavernetta svizzera. Su una parete un cartello bianco, imbullonato a un grossolano profilato metallico, indica fin dove l'inca prigioniero avrebbe riempito d'oro, in cambio della libertà. Il biglietto costa 1.500 inti per i peruviani e 5.000 per gli stranieri. L'importo del biglietto viene corretto a mano. Molto più interessante l'interno della chiesa di Belén: l'altare maggiore è tutto bianco e oro, bianche sono anche le pareti decorate con file di rombi. Molto particolare la decorazione all'interno della cupola. Si sta facendo buio, il tempo di scattare un paio di foto alla piazza e poi a cena all'Arlequin (11.200 inti), cena offerta da Jeanett per 10.200 inti. 74 Martedì 12 settembre Mi sveglio mattiniero, alle 5.15. L'intenzione è quella di riuscire a fare delle fotografie all'alba dal cerro Bellavista. Ho, infatti, ancora ben in mente il bellissimo paesaggio visto dall'autobus all'arrivo. Cammino per circa quattro chilometri lungo la strada in salita che porta a Cumbe Mayo, nel buio più assoluto. Fa freddo e l'unico rumore è l'abbaiare di qualche cane. Sorge il sole ed è fantastico. Alberi e case sembrano materializzarsi sopra un'impalpabile nebbiolina dorata. Lontano le montagne sfumano in sagome dai colori pastello fin quasi a confondersi col cielo. Sotto di me i primi raggi del sole illuminano obliquamente Cajamarca: case e chiese sembrano davvero spruzzate d'oro. Il sole si alza e dopo un'ora decido di scendere. Levataccia e camminata sono valse la pena. Verso le otto arrivo in Plaza de Armas e trovo Jeanett seduta su di una panchina ad aspettarmi. Facciamo un giro per il mercato e comperiamo un po' di frutta: sei banane (1.000 inti) e cinque arance (1.000 inti). Incontriamo alcuni amici di Jeanett: sono Alba a Cajamarca proprietari di una ditta dove si producono formaggi e “manjar blanco”. La ditta si trova lì vicino, ci invitano a visitarla. Rimango piuttosto perplesso: la zona dove si svolge il lavoro è un cortile circondato da una tettoia di lamiera. Sotto la tettoia, appoggiati per terra, ci sono degli enormi pentoloni di rame dentro i quali viene lavorato il latte. In quel momento l'attività è ferma, peccato; igiene a parte, mi sarebbe piaciuto assistere al processo di trasformazione e magari provare anche qualche assaggino: Cajamarca è rinomata anche per i suoi formaggi. Salutati gli amici decidiamo di visitare Otuzco. Il posto si trova a circa sette chilometri da Cajamarca, per arrivarci saliamo su un camion (1.000 inti per i due passaggi). La strada, fino all'aeroporto, è asfaltata e in buone condizioni, poi diventa sterrata e si continua a velocità molto “Ventanillas de Otuzco” “Ventanillas de Otuzco” ridotta. Ho modo di osservare la verde campagna di Cajamarca. Il camion ci lascia proprio davanti alla zona archeologica, sotto un cartello con scritto: VENTANILLAS DE OTUZCO, CUOTA 2.850 s.n.d.m. KM 7.5. L'ingresso costa 500 inti. Su una grande parete rocciosa sono state scavate file e file di finestrelle quadrate, poste su più piani. Dentro queste nicchie venivano deposte le ossa dei morti e poi sigillate con una lastra di pietra. Cielo blu intenso e bel panorama illuminato dal sole. 75 Eucalipti, tante piante di agave e fichi d'india. Indubbiamente è un luogo molto particolare e suggestivo, peccato per quegli orribili paletti di ferro piantati giusto davanti alla parete: non servono a niente e rovinano le foto. Un ragazzino che vuol venderci dei fossili di conchiglia, di cui la collina vicina, pare, ne sia piena, c'informa sulla presenza di un antico tunnel nelle vicinanze. Seguendo le sue indicazioni ci avviamo alla sua ricerca. Aggiriamo la parete delle “ventanillas” sulla destra, risalendo lungo un pendio fino a raggiungere un canaletto artificiale. Un ponticello di pietra ci permette di superare il corso d'acqua e una siepe di fichi d'india. Proseguiamo dritti, passando davanti a una casa ombreggiata da un altissimo eucalipto fino a incrociare una stradina sterrata. Giriamo a sinistra e giunti all'altezza di una casa col tetto in lamiera seguiamo, girando a destra, uno stretto sentiero che ci porta ad un ampio avvallamento. Mi fermo a fotografare una ragazzina con un maialotto al guinzaglio; mi chiede 100 inti di mancia. Un bambino vorrebbe soldi per comperarsi una penna, gli allungo 500 inti e lo faccio contento. Una serie di scritte dipinte su un muro grigio danno il benvenuto ai visitatori del tunnel e informano che, nella vicina casa, si vendono bibite varie. Passata la casa seguiamo il corso di un canale; dove questo si innesta ortogonalmente in un altro corso d'acqua giriamo a sinistra e troviamo il tunnel. Questo non è certo opera di alta ingegneria: sembra piuttosto la tana scavata da un grosso animale. In effetti è solo un buco scavato alla base di un dosso. Entro procedendo a carponi, dentro è buio pesto e io sono senza pila, così torno indietro. Dalle “ventanillas” al tunnel abbiamo impiegato circa quindici minuti. Eucalipti a Otuzco Sulla via del ritorno Jeanett viene colta da un'irresistibile sete. Ci fermiamo alla casa dove le scritte sul muro grigio promettevano ristoro. Jeanett chiede una Fanta: niente Fanta c'informa una ragazza, solo Inca Kola. Jeanett insiste: forse è il caso di guardare meglio. La ragazza nicchia; dalla sua espressione ci capisce che non ha molta voglia di cercare. Jeanett torna a insistere e finalmente una Fanta salta fuori: bottiglia a temperatura ambiente e, dalla polvere depositata sul vetro, si può intuire che è indubbiamente d'annata. Non ci sono tavoli né sedie; ovvio, non siamo in un bar. Si beve in piedi nel cortile. La ragazza che ci ha servito si lamenta: ha appena ricevuto un pugno in bocca dal fratello perché non aveva portato dei soldi. Un dente dondola e le esce un po di sangue. Seduta sotto un portico si lamenta e intanto fila. La Fanta costa 1.500 inti; tiro fuori una banconota da 5.000 e la ragazza entra in crisi: non ha il resto. Dopo un po' di discussione decidiamo di andare fino a Otuzco per farci cambiare i soldi, ci stiamo già avviando quando spunta fuori la cognata: miracolosamente ha trovato il resto. Torniamo alle “ventanillas”. Dall'alto della parete di roccia si gode una bella vista della vallata sottostante. Sul fondo scorre un fiume e, tutto attorno, campi verdi e boschetti di eucalipti. Chiudono l'orizzonte, in netto "El Solterito" contrasto, le cime brulle e arrotondate delle montagne. Raggiungiamo Otuzco e rimaniamo in attesa di un mezzo per Cajamarca. È l'ora della ricreazione e la strada è invasa da bambini che bevono il loro bicchiere di latte, offerto loro in 76 occasione della campagna governativa “un vaso de leche”. Alle 11.35 arriva traballando “El Solterito” uno scassatissimo autobus verde scuro e crema. Si può dire, senza tema di sbagliare, che si tratta di un autobus vissuto o, forse, sarebbe meglio dire sopravvissuto a qualche cataclisma. È ammaccato in più punti, parecchio arrugginito e oscilla pericolosamente come se fosse fatto di materiale molle. Dentro è messo molto peggio di come sembrava da fuori: il pavimento è rappezzato con lastre di metallo sconnesse, i sedili consistono in due panconi sistemati di lato, manca totalmente il cruscotto e dal volante esce un groviglio di fili simile ad un selvaggio intreccio di liane. L'autobus pare sia stato contrattato dai familiari di una defunta, i quali, dopo la veglia e la sepoltura restituiscono gli arredi all'agenzia funeraria. Vengono così caricati crocefissi, baldacchini, ceri e drappi funebri. Durante il tragitto salgono contadini coi loro prodotti e, in breve, agli arredi funebri fanno compagnia a taniche di latte, sacchi di erbe odorose, patate e ortaggi vari. Una ragazzina, salita di fresco, dopo un po' si mette a strillare con tono supplichevole: - ¡Mi Oso!¡Mi Oso! ¡Señor pare! ¡Mi Oso! L'autista ferma, apre la portiera e sale Oso (Orso), cagnone dal folto pelo nero e arruffato che scodinzola felice di poter viaggiare Cimitero di Huambocancha assieme alla padroncina. Il passaggio in autobus costa 1.000 inti. In centro a Cajamarca, da una venditrice vicino all'hotel, compero un paio di cassette di musica locale (15.000 inti). Dopo aver pranzato (6.000 inti) tentiamo di raggiungere Huambocancha a piedi. Secondo Foptur lì si possono trovare bei tessuti. Si cammina su strada sterrata, in mezzo al verde, spesso in compagnia dell'aroma e dell'ombra degli eucalipti. Dopo cinque chilometri, passata Huambocancha Baja, Jeanett non ce la fa più. Saliamo sul cassone di una camionetta arancione e in pochi minuti arriviamo a destinazione (800 inti). Purtroppo a Huambocancha Alta non si fabbricano più tessuti: il filato è troppo caro e non conviene. In compenso scopro, lungo il ciglio della strada, un curioso cimitero. Le lapidi hanno la forma della facciata di una chiesa, coi due campanili laterali, sono coloratissime e con disegni assai singolari di angeli e raffigurazioni sacre. Spuntano dall'erba in apparente disordine, miste a croci di 77 legno sbilenche, somigliano a sorprendenti fiori. Per il ritorno prendiamo un camion, lo stesso incontrato all'andata carico di scolari. Il camion si ferma quasi subito perché e rimasto senza carburante. Siamo fortunati: l'autista di una camionetta presta una tanica di gasolio, così, senza altri problemi, raggiungiamo Cajamarca. In centro cerchiamo refrigerio mangiando una gelatina di frutta. Pessima idea: la gelatina è stravecchia e fa letteralmente schifo. Cambiamo locale, Jeanett si concede un gelato e io tre biscotti con “manjar blanco” (2.500 inti). Continuo con gli acquisti di musicassette: tre per 35.000 inti e un'altra di coplas al “rojo vivo” (traduco: sull'erotico) per 14.000 inti. 2.000 inti li spendo per del formaggio e 1.000 per quattro pani. Si va a cena (6.500 inti) e si conclude la giornata. Mercoledì 13 settembre Sveglia alle 9.20. Ci siamo appena vestiti quando qualcuno bussa alla porta. È uno zio di Jeanett. Ci aspetta in strada con la sua camionetta arancione e ci porta a fare colazione al ristorante “El Zarco”. A quest'ora c'è parecchia gente, il cameriere tarda ad arrivare. Lo zio batte un paio di volte le mani con grande energia. I colpi risuonano come spari e un “mozo” si materializza all'istante. Arrivano tè e sandwich di pollo per tutti. Offre lo zio. Purtroppo per impegni suoi, dovuti a problemi col motore di un trattore, non si può trattenere molto con noi e nemmeno portarci a vedere i suoi famosi “caballos de paso” e i galli da combattimento. Lasciamo la stanza d'albergo e portiamo i bagagli a casa sua. Andremo a riprenderli alle 20 e ci Tipica musica di Cajamarca accompagnerà all'agenzia Etecsa. Ringraziamo, salutiamo e andiamo in giro per la città. Al mercato compro sei banane (1.000 inti) e un po' di fragole (1.500 inti). Adocchio una bella bisaccia, il prezzo è di 50.000 inti. Inizio una lunga contrattazione e, alla fine, Artigianato di Cajamarca me la lasciano per 35.000. Una borsa tessuta mi costa 12.000 inti. Nei negozi di artigianato vicino al mercato si vendono oggetti in terracotta e sculture in pietra. Per 60.000 inti compero tre sculture molto belle: rappresentano un contadino con una bisaccia in spalla, una grassa signora che sta filando la lana e un giovane cervo con le lunghe orecchie. «Belle, ma mi sembrano un po' care. » faccio notare alla negoziante. « Certo! » mi risponde. « Lei sta scegliendo le migliori! » Do per buona la scusa e la signora mi avvolge ben bene gli acquisti con carta di giornale. Altro negozio e altri acquisti. Per 8.000 inti prendo due piccole sculture dallo stile molto essenziale e moderno. Son alte dieci centimetri; una in pietra grigioverde raffigura una mamma col bambino dietro la schiena e una scodella in mano, l'altra, in pietra marroncina, rappresenta una donna col 78 vestito lungo e le mani in tasca. Sto ammirando un coccodrillo scolpito in pietra bianca ma sono molto indeciso sull'acquisto; lo passo alla commessa perché lo riponga, ma ci scivola dalle mani e si frantuma sul bancone: 5.000 inti per i cocci, bene involti, affinché non si rovinino! All'uscita del negozio è seduta un vecchietta: vende salvadanai di terracotta dalla forma di simpatici maialini. Per 1.000 inti ne prendo uno. Si pranza da “El Zardo” con un'ottima “tortilla de platano”, “arroz”, “wantan frito, due succhi d'arancia e pisco sour (15.600 inti). Il tempo è cambiato, ce ne rendiamo conto all'uscita dal ristorante: piove e forti raffiche di vento sollevano mulinelli di polvere. In città manca l'elettricità: non c'è petrolio per la centrale elettrica. Proviamo a visitare il museo municipale, ma dentro le sale semibuie c'è ben poco da vedere. L'ingresso al museo è a offerta libera (1.000 inti). Decidiamo di recarci a Baños del Inca. La località si trova a circa sei chilometri dal centro. È il luogo dove Atahualpa si stava riposando dalle fatiche della guerra quando arrivò Pizarro. Ci si arriva percorrendo una strada dritta e asfaltata con una gran distesa di baraccopoli da un lato e la città universitaria dall'altro. Poi è la volta di grandi distese di prati verdi e alti eucalipti. Molte mucche al pascolo. Breve giro per la cittadina che, a mio parere, non offre molto se non ci si va apposta per le terme. In un cantuccio c'è una sorgente d'acqua termale. Il getto esce sibilando dalla bocca di un leone di pietra, a circa 70 gradi, avvolto in vapori. Accanto, un cartello vieta l'uso dell'acqua per lavare la macchina. Passiamo davanti all'entrata della “Laguna Seca” vecchia casa nobiliare, ora trasformata in hotel. Torniamo a Cajamarca schiacciati in un pulmino superaffollato (800 inti per l'andata e 800 per il ritorno). Altro giro per mercato e negozi in cerca di artigianato: 55.000 inti per tre statuette di pietra, 17.000 per una bisaccia e 3.500 per una confezione di “manjar blanco” da regalare a Norma. Ceniamo (9.800 inti) e alle 20 siamo a casa dello zio di Jeanett, il quale, in camionetta, ci porta fino all'agenzia. Cajamarca è ancora al buio. Alle 20.30 arriviamo all'agenzia: ci sorprende vederla quasi deserta. Alla romantica luce di una solitaria candela, preoccupato, chiedo notizie all'impiegato. L'autobus, spiega, non c'è perché ha problemi meccanici e non si sa se e quando potrà arrivare. È in attesa di una telefonata del meccanico. Lui non può usare il telefono per chiedere informazioni in quanto l'apparecchio è bloccato col lucchetto e la chiave è in possesso del suo collega il quale è uscito per cenare. Bisogna aspettare e sperare. Jeanett, intanto, non si sente molto bene. Due ragazze sono andate a informarsi se, presso la compagnia Diaz, ci sono posti liberi. Tornano con aria sconsolata: bisogna rassegnarsi e aspettare. In quel mentre passa strombazzando l'autobus di Tepsa seguito, poco più tardi, da quello di Diaz. Alle 21.15 il miracolo: arriva l'autobus in perfetta forma. Partiamo alle 22.00. A bordo c'è poca gente, ma appena usciamo dall'agenzia l'autobus si ferma per far salire altri passeggeri. Le soste si ripetono finché il mezzo è ben stipato. Giovedì 14 settembre Alle1.58 sosta a Iatagual per la cena. Si riprende il viaggio sotto una splendida luna piena e alle 6.16 arriviamo a Trujillo. Jeanett se ne torna a casa in taxi, mentre io m'incammino verso la casa di Norma col proposito di fermarmi fino a sera, quando ho intenzione di viaggiare a Lima. A casa di Norma, purtroppo, non c'è acqua e io vorrei tanto potermi lavare. Così, dopo averle consegnato il “manjar blanco” come regalo da Cajamarca, vado all'hotel San Martin e affitto una stanza (17.000 inti) e mi faccio una fantastica doccia bollente. Colazione al Buenos Aires: toast con tacchino e tè (4.600 inti). Qui, verso le nove, mi raggiunge Jeanett e, assieme andiamo al “Seguro Social” per dei documenti. In una bancarella assaggiamo due fichi ripieni di “manjar blanco”, dolcissimi (1.000 inti). Alla libreria Bazar Ideal (Orbegoso 548) compro due mappe di Trujillo, una è per mio fratello che ne fa collezione (7.000 inti). All'agenzia 79 Chinchay-Suyo il biglietto per Lima costa 18.000 inti. Jeanett mi accompagna alla sede del Lyons Club per avere informazioni sul Festival di Primavera. Il festival è forse la manifestazione più importante e certamente la più sentita e amata dai trujillani. Dura molti giorni con manifestazioni di vario genere, come esibizioni di “caballos de paso”, sfilate di moda, feste organizzate da varie società. Si eleggono numerose reginette di bellezza, nonché la Regina della Primavera. I festeggiamenti si concludono con una grande e pomposa sfilata di carri allegorici. I carri, alternati ad acrobatiche twirling-girls venute appositamente dagli Stati Uniti, percorrono l'intero anello dell'avenida España (in pratica l'ovale delimitato dalle antiche mura, di cui ormai rimane ben poco, erette nel XVII secolo a difesa degli attacchi dei pirati). Purtroppo il programma non è ancora pronto e la data ancora incerta. Al mercato per mezzo chilo di fragole (1.750 inti). Finalmente riesco a trovare la cassetta de “Las Chicas del Can” con la canzone “Juana la cubana”, assieme compero anche “20 grandes exitos de la nueva ola peruana”. Sono canzoni degli anni '60; tra queste ci sono le versioni peruviane di “Datemi un martello”, “Guarda come dondolo”, “Sapore di sale”, “Città vuota” e “Si è spento il sole”. In tutto sono 55.000 inti. Dal venditore di figurine acquisto l'album “Nuestra Vida”, una serie di figurine a scopo Merengue con "Las Chicas del Can" e anni '60 con la educativo sull'anatomia, sessualità, malattie "Nueva Ola" più frequenti, prevenzione e pronto soccorso. Per puro scrupolo controllo: manca la N° 14: nessun problema, il venditore apre bustine su bustine finché la trova. La collezione costa 20.000 inti. Album didattico “Nuestra Vida” In un'edicola prendo “El Popular” (600 inti) Verso le 15 entro nel negozio di abbigliamento “Multi Moda” (Gamarra 657) per parlare con Humberto Flores Cornejo, il direttore. Humberto, persona molto simpatica e cordiale, è fratello di Sara, una ex compagna di scuola di Jeanett. Con lui parlo della mia recente esperienza al Gran Pajaten. Mi mostra una mappa disegnata a mano, dove Pataz e Gran Pajaten sono unite da una linea retta. Mi aspettavo molto di più. Poi mi fa leggere un dattiloscritto in cui si riconosce l'importanza turistica della zona e se ne suggerisce lo sfruttamento. Mentre Jeanett torna a casa io mi dirigo all'hotel per preparare lo zaino. Ceno al ristorante dell'hotel: uova alla russa, succo d'arancia e gelatina di frutta (8.120 inti). 80 Alle 20.15 arriva Jeanett e prendiamo un taxi per l'agenzia Chinchay Suyo (2.500 inti). A prima vista il “Leon de oro” da poco affidamento: è un mezzo dall'aria antiquata e cadente. In più aleggia nell'aria la preoccupazione di possibili assalti durante il tragitto. A detta di Jeanett il mezzo è sicuro. Speriamo bene. Saluto la mia amica, la quale mi da una lettera da consegnare a suo fratello Pepe a Lima, e salgo in autobus. A ingannare la lunga attesa, prima della partenza, ci pensa un simpatico giovanotto il quale, col proposito di vendere caramelle fatte in casa, intrattiene gli inquieti viaggiatori con barzellette e aneddoti divertenti, facendo sfoggio di una notevole oratoria. Ironizza sul fatto che qualche passeggero lo abbia scambiato per un bandito in avanscoperta, illustra i vantaggi della dialettica per far colpo sulle ragazze (bisogna avere coraggio e buttarsi, “aunque tengas cara de Atahualpa”, cioè anche se si è brutti), da consigli su come fare bella figura quando si è invitati a una festa dei quindici anni. Il Perù sta attraversando un gran brutto momento. Tra terroristi, scioperi e assalti anche viaggiare in autobus di questi tempi presenta i suoi rischi: sui giornali i titoli in prima pagina contribuiscono ad aumentare la preoccupazione. Ecco alcuni esempi: su ULTIMA HORA: RONDERAZOS SACAN MUGRE A TERRUCOS, traducibile come “le ronde fanno un culo così ai terroristi”. Su EXPRESO: HOY INICIAN HUELAGAS DE 250 MIL TRABAJADORES. Su EL NACIONAL: ABATEN 10 TERRUCOS EN CAÑETE. Su EL POPULAR: DEJAN CALATITOS A 80 PASAJEROS. Per chi viaggia questa è una notizia preoccupante: bande di malfattori fermano gli autobus e lasciano gli sventurati Alcune prime pagine di quotidiani dell'epoca passeggeri nudi come vermi. Alle 22.20, finalmente, si parte. Venerdì 15 settembre Ore 0.26 arriviamo a Chimbote. Ore 2.30 sosta a Huarmey. Ore 6.04 sosta per controllo e pagamento pedaggio. Ore 6.16 arrivo a Chancay. Ore 6.42 arrivo ad Ancon e sosta per controllo bagagli da parte della “Guardia Civil”. Alle 7.53 si arriva a Lima. Tempo uggioso, cielo grigio e tanta umidità. Il sole di Cajamarca è ormai un ricordo. 15.000 inti per il taxi fino alla casa di Roberto. Sorpresa: nella “mia” stanza sono stati spostati i mobili, mancano 200 dollari e tutti gli inti. Ci rimango male. Alfredo m'illumina su quanto successo durante al mia assenza: un giorno scoprirono Robertito Manuel (il figlio di Ada) nella mia stanza, intento a giocare con pacchi di banconote, lire, dollari e inti. Vedendo una banconota da 100.000 lire, supposero che fossero soldi miei. Riposero la maggior parte del denaro ma lui, Alberto, prese in prestito 200 dollari per risolvere un urgente problema economico in Uruguay. « E gli inti? » chiedo. Perdo un bel po' di tempo a fare i conti, alla fine risultano mancati 759.356 inti. Alfredo si stupisce: tanti così? Giura che restituirà tutto. Esco e prendo un bus per il centro (450 inti). Prima tappa al Banco de Credito, per parlare con l'amico Augusto Frisancho Perea. La sede del Banco de Credito si trova in Carabaya, a poca distanza dalla Plaza de Armas. 81 Al N°560 della Carabaya c'è il negozio di filatelia “El Sol” di Juan G. Bustamante. Bustamante è il più autorevole filatelico del Perù, editore anche di un catalogo delle emissioni peruviane. Compero alcune serie di francobolli, tra le quali quella emessa nel 1931 per la prima esposizione filatelica di Lima con dei valori dalla forma triangolare. Totale 95.000 inti. Esco contento ed entro nel severo edificio del Banco de Credito. Purtroppo mi comunicano che il signor Frisancho è stato trasferito alla sede di La Molina. Grazie all'interessamento di due impiegati riesco a mettermi in contatto telefonico e salutarlo. Nel Jirón de la Unión è ancora attivo il panificio del signor Elio Tubino (Unión 800 angolo con Boza). Qui si possono comperare delle ottime baguette, specialmente se si attende che escano belle calde dal forno. Compero una baguette e del formaggio (7.000 inti). Pranzo seduto su una panchina dei giardini giapponesi (450 inti per l'ingresso). Nel pomeriggio passo da Foptur per ottenete Serie emessa in occasione della prima esposizione notizie sulla mia prossima meta: Iquitos, la filatelica di Lima perla dell'Amazzonia. In Ocoñita cambio 500 dollari. Mi rendo conto che ogni giorno che passa l'inflazione avanza e il dollaro cresce. Adesso il cambio è a 4.700, così intasco 2.350.000 inti. Vado subito nell'ufficio di Aeroperu dove acquisto il biglietto per Iquitos (702.200 inti), partenza lunedì 18. Huamanqaqa è un negozio molto elegante, ha sede in Belén 1041 (Jiron de la Unión) e vi si trovano oggetti molto belli; ovviamente anche i prezzi sono in proporzione. Compero due “retablos” (altari da viaggio), uno raffigura Adamo ed Eva nel paradiso terreste, mentre l'altro riproduce un negozio di maschere (160.000 inti). Spesso, ferme a un angolo della strada, ci sono bancarelle che vendono spremute di arancia. Sono dei cassoni di legno montati su ruote ed esibiscono una piramide di arance verdi e arancione. I frutti vengono tagliati a metà e spremuti mediante un apposito marchingegno. I bicchieri, di solito un paio, vengono sommariamente sciacquati in un secchio d'acqua che, si suppone, debba servire per tutto l'arco della giornata. Un bicchierone di succo costa 1.000 inti e, nonostante l'igiene possa destare qualche preoccupazione, è davvero ottimo e dissetante. Il Jiron de la Unión, è sempre intasato da passanti e da ambulanti. Accendo il registratore e passeggio lentamente lungo la via. Quando mi avvicino a qualche ambulante questi alza la voce, nella speranza che compri qualcosa. Mi si avvicina un giovane: mi classifica subito come italiano (sarà l'abbigliamento?) e attacca discorso. Mi chiede di che parte d'Italia sono. « Del nord » rispondo. Si dichiara ammirato perché in Italia c'è molto calcio. Poi mi dice che due suoi amici sono andati a Cusco, dove suo fratello ha un “hostal”. Mi chiede se già conosco Cusco e da quanto tempo mi trovo in Perù. Rispondo che conosco Cusco, che sono in Perù da un mese e che domani me ne torno in Italia; mento perché so già dove vuole parare. Infatti arriva la proposta: non mi interesserebbe un po' di “marijuanita” o di “coquita”? Magari solo un grammo da portarmi in Italia... Saluto, mi sgancio e continuo a registrare voci e rumori. Un venditore sta armeggiando con lunghi pezzi di corteccia. Vi pratica delle incisioni e raccoglie il liquido rosso sangue che cola in boccette di vetro. Mi avvicino incuriosito. L'uomo sta decantando le proprietà curative del “sangre de grado” (o, secondo alcuni, sangre de drago). Si tratta di un albero della selva, dalla cui corteccia si estrae una linfa dotata di straordinarie proprietà curative. Per le infezioni interne quanto esterne, gastriti, problemi di fegato, di bronchi e di reni, mal di 82 testa, problemi circolatori, mal di denti, tonsilliti e laringiti il sangue di grado è rimedio naturale infallibile. Poche gocce al giorno sono sufficienti. Mi incoraggia a provare, senza timore, mi assicura. Il gusto è amaro, aspro, leggermente analgesico; la lingua mi pizzica un po' ma sopravvivo. Attenzione alle contraffazioni, avverte il venditore: per riconoscerne l'autenticità basta strofinarne un po' sulla pelle, se è vero “sangre de grado” si formerà una schiuma chiara. Una boccetta costa dai tre ai seimila inti, dipende dalla quantità. Per 6.000 inti ne compro una boccetta e mi faccio regalare un pezzetto di corteccia. Alla sera ceno a casa di Roberto, in compagnia di Ada e Alfredo: zuppa, fagioli e frittata. Solo più tardi mi rendo conto di aver dimenticato di consegnare a Pepe la lettera di Jeanett. Mi riprometto di farlo domani. Per gli spostamenti in autobus ho speso 1.800 inti. Sabato 16 settembre Sveglia alle 8.20 e colazione a casa di Roberto. Tempo particolarmente brutto, con cielo grigio e nuvole basse. Prendo l'autobus n° 59 per Miraflores (450 inti). Scendo in centro, nei pressi dell'Ovalo e cammino lungo l'avenida Mariscal Benavides. Le nuvole sono talmente basse da inghiottire la cima degli edifici più alti. Arrivo fino al “Malecon Cisneros”, oltre c'è uno strapiombo di un centinaio di metri e l'oceano. Scatto qualche foto all'oceano, oggi insolitamente tranquillo, ai palazzi che sfumano nella nebbia, al ponte. Nonostante il tempo non sia dei migliori, venditori e artisti espongono merci e opere: i primi teche piene di farfalle imbalsamate, tra le quali spiccano le “Morpho Menelaus” di un vivido blu elettrico, i secondi tele dai brillanti colori con paesaggi andini, greggi di lama e Machu Picchu in tutte le salse. C'è anche un collezionista di monete, è molto interessato "Malecon Cisneros" alle cinquecento lire bimetalliche: per una mi da quattro vecchie monete da un sol, quelle grandi, di ottone, con la figura del lama. Ritorno in centro a Miraflores. Noto, esposte in un bancarella, delle grosse ciambelle farcite di crema e cioccolata, dopo averle fotografate ne provo una alla crema: ottima (2.400 inti). Lungo la Benavides, nel tratto che questa costeggia il parco Kennedy, gli artisti sono soliti esporre i loro quadri. Ce ne sono di tutti i generi: astratti, figurativi, in stile cubista peruviano. Tutti coloratissimi e di tutte le dimensioni. Sono attratto da una grande tela: raffigura un personaggio, in primo piano, intento a fabbricare un cappello di paglia sullo sfondo di una moltitudine con in testa lo stesso tipo di copricapo. Lo stile è molto realista, pochi colori ma immagine molto suggestiva. Il prezzo è di 800.000 inti. Ci farò un pensierino. Miraflores, per il fatto di essere un quartiere elegante e molto frequentato da turisti, ha negozi all'altezza. Moda, dischi, artigianato, pasticcerie e ristoranti: si trova di tutto. Non mancano ben fornite librerie: da Epoca (José Pardo 399) compero due piantine di Lima, un libretto sulle linee di Nazca e quattro “documentales del Perú” per 70.000 inti. Da Miraflores mi sposto in autobus (450 inti) lungo la Arequipa, fino alla casa di Pepe per consegnarli la lettera di Jeanett. Un altro autobus (altri 450 inti) mi porta fino alla Tacna. Cammino lungo la Colmena e raggiungo la Camaná: qui, all'angolo, si ritrovano i collezionisti di monete. Sono molto richieste le cinquecento lire bimetalliche. Ne scambio quattro per una banconota da 100 e una da 200 soles. Quella verde da 100 soles raffigura Hipolito Unanue, mentre quella violetta da 200 raffigura Ramon Castilla. Visto che l'amico Fernando risulta desaparecido rimango d'accordo 83 col numismatico per vederci domani: in cambio di altre bimetalliche mi procurerà i 500 soles. Attraverso Plaza San Martin ed entro nella Unión, meta il panificio Tubino. A metà strada quattro giovani sono impegnati a fare propaganda di una setta religiosa. Un ragazzo in jeans e maglione, armato di megafono, invita la gente alla sede della “Divina Revelación Alfa y Omega”. Accanto a lui tre adepti sostengono altrettanti tabelloni con scritte e disegni piuttosto singolari. Il manifesto centrale, sostenuto ben in alto da una ragazza, mostra un Gesù in tunica bianca e mantello rosso, in piedi sopra un mondo circondato da un'intera flotta di dischi volanti irti di antenne (o forse raggi). Un altro, enorme, disco volante levita sopra la testa del Cristo, attorniato da un'aura luminosa come fosse una sua emanazione. Sullo sfondo il cosmo nero squassato da terribili saette. In alto la scritta “YO SOY EL ALFA Y OMEGA”. Sotto, la scritta “DIVINA REVELACION ALFA Y OMEGA” attraversa il globo terracqueo. Il secondo manifesto mostra un coloratissimo sistema solare sormontato da tre dischi volanti, la cui somiglianza con tre pasticcini è davvero notevole e sicuramente involontaria. Il manifesto illustra i temi trattati: “Dios y el universo expansivo pensante”, “la escritura telepatica o ciencia celeste”, “el Padre Solar Alfa y Omega” e, per finire, “los Ovnis: su ciencia solar, leyes y misión”. Seguono indirizzo (Francisco Lazo 1939, Lince), giorni (sabato e domenica) e orario (dalle 16 Seguaci della "Divina Revelación Alfa y Omega" alle 20). Sotto è specificato: ingresso libero. Il terzo manifesto, sotto l'intestazione REVELACION ALFA Y OMEGA, mostra nell'ordine: un disco volante che emette raggi luminosi rossi e blu, il sole e un secondo disco, a pois, da cui partono raggi rossi e blu diretti verso la terra. Sopra e sotto le immagini il foglio è riempito da un fitto testo in minuscoli caratteri maiuscoli. Altri due adepti circolano tra la gente distribuendo libretti e dattiloscritti. Tutti sfoggiano, sul petto, una spilla rettangolare, una specie di bandiera divisa in tre bande orizzontali, color rosso, giallo e azzurro con al centro un simbolo dorato. Incuriosito mi avvicino e chiedo spiegazioni. Gentilissimo, il ragazzo col megafono mi invita ad assistere alla riunione indetta per domani alle 16, per l'occasione verranno esposte le tavole lasciate dal Maestro. Su un foglietto mi scrive indirizzo completo e telefono. Da Tubino 1.700 inti per una baguette. L'intenzione è quella di andare al Parque las Leyendas e mangiarla lì, assieme al formaggio avanzato ieri. Mi dirigo quindi verso Riva Agüero, dove fervono i lavori per l'ampliamento della carreggiata. In attesa del bus (N° 11 bianco e azzurro) compero la rivista Tele Guia (3.000 inti); mi serve per mettermi al corrente dei programmi televisivi in quanto vorrei registrarne qualcuno. L'attesa si fa lunga, così entro in un “chifa” (ristorante cinese) per un tè (800 inti). L'autobus N° 11 percorre tutta l'avenida La Marina e passa giusto davanti al Parque las Leyendas. Purtroppo il mezzo è strapieno e non riesco a vedere la mia fermata. Quando scendo (450 inti) mi accorgo si trovarmi ben oltre l'entrata e sono costretto a tornare indietro. Dopo un bel po' di strada e aver girato attorno ad una huaca (tempio), arrivo ad una entrata laterale del parco. La chiusura è alle 16.30 del pomeriggio, quindi è tardi per una visita. Decido di sedermi ai piedi di una palma e pranzare. Rifaccio il percorso a ritroso, raggiungo l'avenida La Marina e salgo sul primo bus N° 11 che passa. Errore! Il bus va dalla parte opposta. Quando me ne rendo conto scendo (450 inti) e ritorno all'avenida La Marina. Salgo su un pulmino per Plaza 2 de Mayo ma, appena mi accorgo che passa 84 davanti all'entrata principale del parco, scendo subito (450 inti). Il motivo è che lungo l'entrata principale si trovano numerosi negozi d'artigianato. Visitandoli con un po' di pazienza si possono trovare oggetti molto particolari. Data l'ora gran parte dei negozi è chiusa. Mi riprometto di fare un'ulteriore visita al mio ritorno da Iquitos. Un pulmino mi porta fino a Plaza 2 de Mayo (450 inti), qui, in una fiaschetteria compero due bottiglie di “pisco” (60.000 inti). Pian piano raggiungo Plaza San Martin, compero due banane (400 inti) e, sempre camminando mi dirigo verso la 28 de Julio dove salgo sul 58 che mi porta a casa (450 inti). Mi accoglie Roberto, il quale mi parla dei suoi problemi economici: gli servono 350 dollari da consegnare a suo cognato, pilota della Faucett, perché a Miami comperi delle lame nuove per le seghe, assai care in Perù. Me li renderà quanto prima. Per un amico questo e altro: gli consegno 400 dollari; lui promette di darmi immediatamente i 50 di resto, ma se ne dimentica subito. Cena e a letto. Domenica 17 settembre Esco nel consueto grigiore di Lima. 450 inti per l'autobus fino alla 28 de Julio. Camminando raggiungo il centro dove, alle 10.30 ho l'appuntamento col numismatico. In attesa passeggio per la Unión e assaporo un delizioso “churro” (1.000 inti). Il numismatico arriva e ha con sé la tanto agognata banconota. Bella banconotona color marroncino, con l'effigie della Libertà assisa al centro di un medaglione rotondo e, sotto, la scritta QUINIENTOS SOLES DE ORO. Bisogna dire che, all'epoca in cui vivevo in Perù, 500 soles erano una bella cifra, corrispondevano a 45.000 lire e rappresentavano la mia paga mensile quando lavoravo a Molitalia. Ora, quella banconota, mi costa otto monete da 500 lire. Son proprio contento dell'affare. Scambio altre 2.620 lire per una manciata di monete varie, più alcune banconote da 5 e 50 soles “de yapa”, cioè in regalo. In Carabaya trovo un centro ENTEL (telefono pubblico); volevo mettermi in contatto con gli amici Victor Medina e Scott, ma non ci sono guide telefoniche. Una questione di sicurezza, mi spiegano, così i terroristi non possono sapere dove vivono possibili bersagli. Compero dieci gettoni telefonici da una venditrice ambulante (1.000 inti), possono sempre servire, altrimenti li terrò come ricordo. Di domenica Lima è una città stranamente deserta. In centro c'è pochissimo traffico e poca gente per strada. È il momento migliore per fotografare gli edifici; peccato che il tempo orribile renda ancora più tetri certi colori. C'è poca gente persino nel Jiron de la Unión, dove, di solito, si fatica a passare. I negozi sono chiusi e ci son persino pochi ambulanti a intralciare i passanti. Arrivo fino al bel edificio delle poste centrali dove, in un androne laterale, i collezionisti di francobolli fanno i loro scambi. Ridiscendo per la Unión col registratore acceso. Mi fermo presso un venditore di zampoñas (flauti). Per una grande chiede 22.000 inti. Prezzo all'ingrosso; nei negozi, l'avrei pagata 80.000, mi assicura, visto che è lui che le distribuisce. Contratto per un po' finché me la cede per 20.000. Più avanti scopro una novità: un ambulante ha fatto le cose in grande: ha organizzato il gioco del “cuy”, il porcellino d'india. Ha disposto una ventina di scatoloni formando un cerchio di circa due metri di diametro. Sopra ogni scatolone, su cui ha intagliato due porticine ad arco numerate in modo 85 casuale, ha posto un prodotto: tre rotoli di carta igienica, un pacco di pasta, una bottiglia d'olio, un pacchetto di sigarette, una sacchetto di detersivo ecc. Protagonista principale è un porcellino d'india (dev'essere femmina perché l'imbonitore la chiama Charito). Il pubblico viene invitato a scegliere una porticina a cui è abbinato un numero. Al termine delle puntate il porcellino viene coperto con uno scatolone e fatto girare vorticosamente per alcuni secondi. Il povero animale, un volta sollevato lo scatolone, disorientato e spaventato dalle urla degli scommettitori, cerca rifugio infilandosi in una porticina facendo così vincere colui il quale ha puntato il numero corrispondente. Cinque numeri costano mille inti. Uno vince, gli altri perdono. Torno a casa (450 inti per l'autobus) in tempo per pranzare con un ottimo “aji de gallina” preparato da Ada. In TV stanno trasmettendo la partita Uruguay-Bolivia che, con grande gioia di Alfredo finisce 2 a 0. Torno a uscire alle 15.30. A piedi mi dirigo a Lince, alla sede della Divina Revelación. Per la cronaca sono 21 isolati lungo la Javier Prado fino a Orrantia. Da qui si scende lungo l'Arequipa (isolato 27) e si procede fino all'isolato 15, poi si gira nuovamente a destra e si arriva all'Emilio Althaus. Al N°627, al primo piano, c'è la sede. Nella sala, assai modesta e spoglia, c'è parecchia gente, un po' di tutte le età ma con prevalenza di giovani. Lungo tre pareti sono disposti una ventina di cavalletti, ognuno dei quali regge una “tavola”. Davanti ad ogni tavola, seduto su una sedia, c'è un fratello intento alla lettura. Dietro, in piedi, altri fratelli si sforzano di decifrare i minuscoli caratteri. La storia di quei documenti è la seguente: il Maestro era passato per Lince e, conoscitore della verità assoluta, aveva lasciato quattromila tavole contenenti circa diecimila leggi, di cui solo alcune, per ora, stampate e raccolte in volume. Le tavole sono dei fogli di La lotteria del "cuy" cartoncino (bristol?) di dimensioni circa 70 x 100 con disegni naif-psichedelici dai tenui colori pastello. I soggetti raffigurati sono Cristi, dischi volanti, extraterrestri con look che spaziano dagli anni '50 fino a copiare sfacciatamente quelli di “Incontri Ravvicinati”. Poi ci sono amebe variopinte, spirali cangianti e altri effetti speciali. Sotto ai disegni c'è un fitto testo in caratteri a stampatello molto minuscolo. Tutto è scritto a mano (con biro?) su righe tracciate a matita per andar dritto. Vorrei scattare delle foto ma c'è poca luce e, oltretutto, dopo un po' le tavole vengono ritirate. Mentre in sala cominciano i festeggiamenti io sbircio alcuni libri, senza decidermi di comperarne qualcuno. Intanto un bambino suona il flauto e canta. Quando finisce la gente applaude, io me ne vado. Fuori scatto alcune foto agli edifici. Si tratta di case costruite durante gli anni '20 in stile liberty. Sono abbastanza ben conservate, anche se sono molto opinabili gli accostamenti di colori con cui sono state dipinte. Affissi su molte pareti i manifesti della Divina Revelación annunciano a caratteri cubitali che: HAY UN SOLO DIOS Y UNA SOLA VERDAD. LOS PLANOS ORIGINALES SE ENCUENTRAN EN LINCE. Segue il consiglio di ascoltare radio Victoria alle 10 P.M. Raggiungo la Arequipa e salgo su un autobus diretto al centro (450 inti). Dopo essermi deliziato con un “churro” (1.000 inti) entro nella “Libreria Iternacional del Perú S.A. (jiron Puno 460). È una piccola libreria dove si ha la possibilità di trovare pubblicazioni assai interessanti. Per 10.000 inti compero il libro “Medicina Indigena y Popular”. Altri 2.000 mi costa l'opuscolo “Aprenda quechua en 10 dias”, cosa questa, a mio parere, assolutamente impossibile; provare per credere: Munaychan ususiyki – tua figlia è molto bella Sonqo suwa – ladro di cuori Iman sutiyki – come ti chiami? 86 Jaiq'a watayoq kanki – quanti anni hai? Hampiyki uma nanaypaq kanchu – hai medicine per il mal di testa? Yarquashiawan – ho fame Soq'oita q'owai – dammi da bere Karuchu kai llaqtaq – quanto dista il vicino paese? Yanaparuwankimanchu – puoi aiutarmi? Maypin tiyan tayta kura – dove vive il prete? (utile nel caso vi trovaste tra le Ande in difficoltà col vostro quechua imparato in dieci giorni). Ultima tappa: in una edicola compero “El Comercio” (2.000 inti), “Telecolor” (3.000 inti) e altri giornali per 2.500 inti. Torno a casa prima delle 19 (450 inti per l'autobus). Lunedì 18 settembre Sveglia alle 8.15 e autobus per il centro (450 inti). Solito squisito “churro” (1.000 inti) e colazione al Jerry's Bar: tè e torta di mele (8.850 inti). Passata Plaza San Martin, seguendo per la Colmena si arriva all'avenida Abancay, dove c'è il Ministerio de Educación. Ho intenzione di contattare il signor Jorge Leon Pimentel, il quale, nel 1965 partecipò a una spedizione al Pajaten. Chiedo informazioni in portineria. Sembra che il signor Pimentel abbia il suo ufficio al quarto piano. Salgo in ascensore e scopro che, con mio grande disappunto, per ignoti motivi l'ascensore non ferma al quarto piano. Per fortuna ci sono le scale. Raggiungo il quarto piano, ma del signor Pimentel nessuno ha mai sentito parlare. Torno al piano terra e chiedo delucidazioni. In portineria un nonnetto consulta l'elenco dei dipendenti: dal primo al diciassettesimo piano, però, del signor Pimentel non c'è traccia alcuna. Forse provando al diciottesimo o al ventesimo piano, dove ci sono altri elenchi... Rinuncio, lascio il Ministero e vado alla Editorial Navarrete: è la casa editrice degli album di figurine. Si trova a poca distanza dal Ministero. Vorrei sapere se è possibile acquistare l'album “Reinos de la Naturaleza”. Non è possibile, purtroppo, mi informa il ragazzo con cui parlo; dovrò procurarmelo in qualche altro modo, magari tramite la mia amica di Trujillo. Parlando, vengo a sapere che il ragazzo ha studiato al collegio Raimondi. L'avenida Abancay è molto ampia e trafficata. Passa per l'Università di San Marcos, il Parque Universitaro e il Palazzo del Congresso. Prosegue per il ponte sul Rimac e arriva alla Plaza de Acho. I marciapiedi sono invasi dai venditori ambulanti. Cerco invano uno scudetto del Perù da cucire sullo zaino; trovo, invece, alcune bancarelle che trattano fumetti messicani. M'incuriosiscono e ne compero alcuni della serie “Super Terror”: storie trucide di mostri, alieni, streghe e morti viventi. I titoli sono tutto un programma: Templo satanico, Paté de ojos, El mal infinito, Orgia de muertos, Venganza de ultratumba e via di questo passo. Il formato è piuttosto ridotto e i disegni, alquanto ingenui, sono color seppia. Due, invece, sono a colori, uno s'intitola Orquideas Rojas ed è una specie di telenovela, l'altro illustra una interessante leggenda azteca sull'origine del mondo. Per tredici fumetti spendo 6.000 inti. Altri quattro della stessa serie (Super Terror) li compero in Fumetti messicani una bancarella vicina; per questi spendo 2.400 inti. Tra tanti ambulanti c'è anche una vecchietta che vende amuleti e portafortuna, mi piacciono due “doble cara”. Sono amuleti in pietra chiara, traslucida, simile all'alabastro. 87 Raffigurano un personaggio femminile bifronte, col corpo segnato da una serie di righe rosse. Sono, a detta della venditrice, alquanto rari, per questo costano 15.000 inti. Dall'Abancay scendo verso la Tacna per prendere il bus che mi riporterà a casa. Passando per il jirón Puno mi fermo al N° 215 da Pana Radio. Non è stato facile ma, finalmente, ho trovato un negozio dove si vendono cassette VHS. Ne compero una e mi costa 39.000 inti. Il problema, ora, è scovare qualcuno in possesso di un videoregistratore. Immagino non sarà impresa facile, ma proverò a chiedere agli amici. Esco e penso che, se trovo qualcuno in grado di registrarmi dei programmi TV, forse è meglio comprarne due di cassette. Così ritorno sui miei passi e spendo altri 39.000 inti. Da Tubino per una baguette (2.000 inti) e, poco più avanti, nel tristemente famoso jirón Uruguay compero “una mano de platanos” (cinque banane) per 800 inti, due pacchetti di fiammiferi marca INTI e LA LLAMA (5.000 inti) e un quadernetto su cui continuare a scrivere i miei appunti, dato che il primo è ormai esaurito (300 inti). Dalla Tacna prendo il bus che mi porta a casa (450 inti). Alfredo ha un amico che possiede un videoregistratore e s'impegna a farmi registrare alcuni programmi; specifico: qualche telegiornale, qualche programma di intrattenimento, attualità, folclore, pubblicità compresa. Consegno fiducioso le due cassette per oltre quattro ore di trasmissioni. Ad Ada chiedo di prendere nota di eventuali telefonate; spero ancora che il desaparecido Fernando si faccia vivo. Preparo i bagagli. Meglio viaggiare più leggero possibile. Lascio lo zaino grande e Fiammiferi "made in Perù" porto solamente quello piccolo: ci metto la macchina fotografica di scorta, un asciugamano, la borsetta con sapone, pettine, dentifricio e spazzolino, calzini e medicinali. Porto con me anche tutti i soldi, meglio essere prudenti. Alle 15.00 esco e prendo un bus fino alla fine della Salaverry. Scendo dove c'è il monumento a Jorge Chavez (450 inti). In Guzman Blanco mi fermo a bere un succo d'arancia (1.000 inti), poi proseguo fino all'Alfonso Ugarte dove aspetto il bus N°11 per l'aeroporto. Sorpresa: la linea 11 è in sciopero. Chiedo lumi a un vigile il quale mi consiglia di prendere la 35. Il primo bus mi passa sotto il naso, ma mi consolo: era strapieno. Solo qualche secondo dopo ne passa un altro, semivuoto. Sulla fiancata, bene in evidenza, la scritta “Aeropuerto”. Lo prendo al volo. All'inizio sembra percorrere la giusta via, ma poi devia sulla sinistra e ho la netta sensazione che, proseguendo per di là, all'aeroporto non ci arriverò proprio. Ho la certezza di essere fuori strada quando, guardando fuori dal finestrino, vedo, lontana, la brutta sagoma verde del Ministero dell'Educazione. Decido di rimanere nel bus fino al capolinea e da lì, una volta sceso, riprendere un nuovo mezzo per il percorso inverso. Al capolinea scendo (450 inti). Siamo oltre La Victoria, forse a San Luis. Se torno in autobus ci impiegherò ore per l'aeroporto, meglio prendere un taxi. San Luis è una zona piuttosto periferica: di taxi nemmeno l'ombra. Aspetto la partenza di un altro 35 e ci salgo. Dopo alcune decine di metri di percorso il bus è già bello pieno. Cedo il posto a un'anziana signora e, durante il percorso continuo a sbirciare fuori dal finestrino per vedere dove mi trovo. Quando arrivo ad una zona più trafficata abbandono il bus (450 inti) e salgo su un taxi. Dopo aver contrattato sul prezzo mi accordo con l'autista per 26.000 inti. Ironia: percorriamo la Javier Prado, incrociamo la Salaverry e passiamo a due isolati dalla casa di Roberto. Arriviamo all'aeroporto alle 17.15. Alle 17.20 faccio il check-in dopodiché attendo l'ora della partenza gironzolando per l'aeroporto. 1.000 inti per “La Republica”. In un negozio di artigianato fa bella mostra un tappeto azzurro ricamato con fiori e uccelli. Bellissimo. Si tratta di un prodotto della 88 zona di Ayacucho e costa 295.000 inti; caro, ma da farci un pensierino. Finalmente chiamano i passeggeri per il volo 520 delle ore 18.50 con destinazione Iquitos. Sono comodamente seduto al mio posto quando fanno scendere alcuni passeggeri affinché riconoscano i loro bagagli: misure anti contrabbando, antidroga o antiterrorismo? Alle 18.50 l'aereo viene trainato sulla pista. Il comandante del Boeing 725 di Aeroperù da il benvenuto ai passeggeri e annuncia che il volo durerà un'ora e trentacinque minuti. Alle 18,55 rulliamo e sette minuti dopo decolliamo. Mentre l'aereo sale osservo dai finestrini lo spettacolo delle luci che si riflettono sulle nuvole. Lo spettacolo è di breve durata: superiamo la spessa cappa di nubi e navighiamo sotto il cielo nero. Alle 19.13 servono la cena: un pane rotondo con formaggio, un toast al prosciutto, un pasticcino e caffè. All'inizio subiamo qualche leggero scossone, ma tutto cessa rapidamente. Mentre il volo prosegue in assoluta tranquillità ripenso ai due precedenti viaggi a Iquitos. Il primo fu giusto vent'anni fa, nel '69. Per la fine di giugno e inizio di luglio la scuola che frequentavo, il collegio Antonio Raimondi, organizzò, per le due quinte maschili, la gita scolastica di metà anno. La meta prescelta fu Iquitos, capoluogo della regione amazzonica, raggiungibile in aereo, oppure via fiume, con circa una settimana di navigazione. Rimasi notevolmente sorpreso: all'epoca, in Italia, le gite scolastiche si facevano a Trieste oppure a San Marino, come a dire dietro l'angolo di casa. Qui si parlava di circa millecinquecento chilometri tra Ande e selva da sorvolare! Assieme a mio fratello, che frequentava la mia stessa classe, ebbi dai miei il permesso di partecipare alla gita. Ci andai elegantemente vestito: camicia bianca, pantaloni marrone con piega impeccabile, scarpette da Mio fratello e io. Pucallpa, giugno 69 passeggio e sobria giacca grigia. Mancava solo la cravatta. A Pucallpa facemmo scalo. Lì ebbi il primo approccio con la soffocante umidità della selva. Assieme ai compagni di scuola passai il tempo passeggiando su e giù per la pista, mentre un addetto, armato di un grande imbuto e accovacciato su di un'ala dell'aereo, faceva il pieno di carburante. Assieme a mio fratello fui uno dei pochi a togliermi la giacca. Arrivati in città ci alloggiarono in un hotel vicino al centro: un edificio basso, col tetto in lamiera e molti gechi su soffitto e pareti della camerata, in paziente attesa di insettini da mangiare. Ricordo quanto rimasi sconcertato quando, uscendo dall'hotel, numerosi miei compagni salirono sui taxi per andare al bordello. I giorni seguenti, con abbigliamento più consono al clima, visitammo, accompagnati da guide e professori, il quartiere di Belén, chiamato anche la Venezia dell'Amazzonia, ma solo per il fatto che sorge in mezzo all'acqua. In effetti Belén è una baraccopoli, indubbiamente molto pittoresca, costituita da capanne fatte di legno e fibra di palma intrecciata. Vi regna anche una grande povertà. Le abitazioni sorgono su palafitte, le quali vengono sommerse nel periodo in cui il fiume è in piena e l'unico mezzo di trasporto è la canoa o la barca, per chi se la può permettere. Un giorno ci portarono nella selva. Fu un'esperienza bellissima. Si camminava dentro un tunnel verde, spesso avvolti nella penombra, a tratti accecati dal sole quando attraversavamo una radura. La guida ci mostrò una pianta, una specie di canna il cui fusto conteneva un liquido che si poteva bere. La pianta si chiamava “sachacaña, il succo aveva un sapore acidulo ma gradevole. Facemmo anche un'escursione in battello lungo un tortuoso corso d'acqua, visitammo un allevamento di “paiches”, 89 pesci dalla carne assai pregiata, che possono raggiungere anche i quattro metri di lunghezza. Visitammo pure la base militare sul Nanay. Qualche problema con i pasti: non mi piaceva l'insalata di “chonta” e nemmeno “l'arroz con leche”; ma il menù era quello e non si poteva cambiare. A Iquitos, però, vivevano due compaesani: Dino Tessarolo, direttore del pastificio Guiulfo S.A.(productos Loretta) e un tale Angelo Bigolin (omonimo, ma non parente), operaio nello stesso pastificio. Ci invitarono, mio fratello ed io, a pranzo e a cena in un ottimo ristorante dove, suscitando grande invidia nei nostri compagni, potemmo deliziarci con enormi piatti di patatine fritte. Il tempo libero lo si passava flirtando lungo il “malecon” (il lungofiume) Tarapacá con le studentesse di un'altra scuola di Lima e gironzolando per la città. Ricordo che passai davanti al Mao Mao, famoso locale notturno, e una domenica pomeriggio approfittai per andare al cinema Bolognesi. Davano “La muchacha con la motocicleta”; il film era vietato ai minori di 21, ma i controlli erano inesistenti. Il film mi piacque. La sala era gremita, l'atmosfera torrida (in tutti i sensi), non c'erano poltrone ma file di panche. Mi sedetti nella penultima fila. Nel mese di maggio del '73 uscì il libro di Mario Vargas LLosa “Pantaleon y las visitadoras”. Vituperato e proibito dal governo militare di Velasco era introvabile nelle librerie. Riuscii a procurarmene fortunosamente una copia, tramite l'interessamento di un edicolante, la cui edicola si trovava all'angolo tra la Wilson e Colmena, praticamente sotto casa mia, e che mi consegnò il libro di soppiatto, guardandosi attorno con fare da cospiratore. Vi ritrovai il Mao Mao e il cinema Bolognesi e mi parve molto divertente che, magari proprio accanto a dove mi ero seduto, fosse successo l'imbarazzante episodio descritto nel libro quando, all'accendersi le luci per un'improvvisa rottura della pellicola, si scoprì, stesa su una panca dell'ultima fila, la “brasilera” Olga Arellano intenta a Con Virginio Bergamin tra gli Yagua incandescenti effusioni con un militare. Consiglio di vedere il film, uscito in DVD, in cui il mio l'ex compagno di scuola Gianfranco Brero interpreta un convincente generale “Tigre” Collazos. C'è poi la signorina Angie Cepeda; vederla nel film, son certo, farà contenti tutti i maschietti. Misteriosamente, però, “la brasilera” del libro è diventala “la colombiana” nel film... Si tratta forse di opportunismo politico? Nella selva piove spesso. Più volte al giorno le nuvole scaricano il loro fardello di pioggia. È straordinario osservare come le gocce, grosse come chicchi d'uva, cadono per terra ed evaporano all'istante, lasciando il suolo asciutto. Il fenomeno dura il tempo necessario perché il suolo si raffreddi, dopodiché, in pochi istanti il terreno s'inzuppa e le strade si trasformano in torrenti turbolenti che trasportano immondizia di ogni genere. L'acquazzone dura pochi minuti e poi torna a splendere nuovamente il sole. La prima volta che cadde la pioggia eravamo tutti nella camerata dell'hotel. Ci fu un improvviso fragore sul tetto di lamiera. Tutti i miei compagni corsero fuori, chiamandomi a gran voce affinché uscissi anch'io. Non volevano credermi quando dissi loro che in Italia piove spesso, addirittura per più giorni di seguito durante l'autunno. Mentre cantavano e ballavano sotto gli scrosci mi resi conto che quei ragazzi di sedici anni non avevano mai visto la pioggia prima di allora! Nel settembre del '71 si presentò l'opportunità per un nuovo viaggio a Iquitos. Si trovava in Perù il 90 signor Bergamin, collega di mio padre il quale, dopo aver visitato i clienti di Lima, doveva recarsi a Iquitos al pastificio dei signori Guiulfo dove, come direttore, lavorava il compaesano Dino Tessarolo, fratello di Ruggero. Un pomeriggio, quando il signor Bergamin era ospite nel nostro appartamento, presi la palla al balzo e chiesi se potevo accompagnarlo. Con mia grande sorpresa non ci furono opposizioni né da parte sua né, tanto meno, da parte dei miei genitori. Feci il biglietto e l'accompagnai. Iquitos, "malecón Tarapacá", da sinistra a destra: il signor Gutierrez, Virginio Bergamin, Dino Tessarolo, io Iquitos, pastificio Guiulfo. Da sinistra: il signor Gutierrez, il signor Guiulfo, Virginio Bergamin, Dino Tessarolo, "el ingeniero" io Alloggiammo in un hotel di lusso, con tanto di aria condizionata, talmente rumorosa, però, da non lasciar dormire alla notte. Visitai il pastificio: dentro faceva addirittura più caldo di fuori e c'era un forte odore di pasta irrancidita. Un ingegnere ci raccomandò di fare molta attenzione quando si apriva una porta esterna, controllando che non ci fossero serpenti rannicchiati sotto. I Guiulfo ci portarono a fare un giro in lancia a motore per il rio delle Amazzoni e a visitare una comunità yagua. Gli uomini del villaggio vestivano lunghi gonnellini, fatti con fibre di palma e in testa portavano un copricapo intrecciato dello lo stesso materiale. Il capo, in segno di autorità, inalberava un cappello con la tesa rotonda e la calotta adorna di penne bianche e blu. Con una mano impugnava una lunga cerbottana, mentre con l'altra sosteneva un fascio di collanine di semi da vendere ai turisti. Le donne indossavano un gonnellino rosso e andavano in giro con le tette al vento. Quegli yagua di giorno facevano i nativi a uso e consumo delle agenzie turistiche, di sera frequentavano i locali della città. Erano comunque personaggi tipici e pittoreschi, così scattai qualche foto a loro e a me con loro. Da poco avevo comperato una Minolta SRT 101 col 58 mm f 1.12 e un 135 mm, indubbiamente più sofisticata della vecchia Bencini Comet di papà. Rivisitai Belén, ma era periodo di magra. Il ritiro delle acque aveva lasciato stagni maleodoranti, palafitte scheletriche e le case costruite sugli zatteroni bizzarramente inclinate lungo gli argini. 91 92 Tornai a casa con un inaspettato regalo per mia mamma: quattro splendide orchidee rosa che la signora Guiulfo, visto il mio interesse per quei fiori del suo giardino, recise con la stessa noncuranza con cui da noi si colgono le margherite del prato. L'anno dopo, in occasione delle feste di Natale, proposi ai miei di passare qualche giorno a Iquitos. Insistetti molto e li avevo praticamente convinti. Saremmo partiti il 24 e rimasti qualche giorno a visitare la selva, contando con l'appoggio dei concittadini. Mia mamma era entusiasta, mio padre un po' meno. Bastava decidersi e acquistare i biglietti. All'ultimo momento un impegno di lavoro fece desistere mio padre. Mi sentii molto deluso, ma fu una fortuna: il 24 dicembre il volo 508 della LANSA (Lineas Aereas Nacionales S.A. compagnia appartenente all'industriale Luis Banchero Rossi) partì regolarmente dall'aeroporto di Lima, diretto a Iquitos con scalo a Pucallpa ma non arrivò mai a destinazione. Sopra la foresta amazzonica incontrò un violento temporale. Il Loockeed Elettra, colpito da un fulmine si frantumò e sparì, inghiottito dalla selva. Le ricerche dei superstiti dettero esito negativo e vennero interrotte dopo una settimana. D'altronde come riuscire a rintracciare qualcosa in piena selva dove crescono alberi che arrivano anche a settanta metri d'altezza? Alcuni giorni dopo, però, una notizia straordinaria apparve su tutti i giornali: una ragazza di diciassette anni, Juliane Köpcke era sopravvissuta al disastro. Sola e ferita aveva camminato per una decina di giorni in Juliane Köpcke (foto da internet) mezzo alla selva fino a raggiungere un villaggio ed essere portata in salvo. Preziosi erano stati i consigli di suo padre, biologo: costeggiare un corso d'acqua fino al fiume principale e seguire questo dove, prima o poi, lungo le sue sponde si sarebbe trovato qualche insediamento. Quando si fu ristabilita, Juliane riuscì a guidare un gruppo di soccorritori fino ai resti dell'aereo; allora si scopri che c'erano stati altri sopravvissuti, morti, nel frattempo, a causa delle ferite e della fame. Nell'incidente aereo perì anche il mio dentista: viaggiava per raggiungere la moglie partita il giorno prima. Quello caduto era l'ultimo aereo della sfigatissima LANSA. Tempo prima ne era precipitato uno in rotta verso Cusco, carico di studenti: nessun sopravvissuto. Gli altri aerei erano stati cannibalizzati per recuperare pezzi di ricambio. Chiusa la parentesi dei ricordi. Il pilota annuncia che stiamo per atterrare, i passeggeri tirano fuori i pettini e si pettinano con cura. Alle 20.30 atterriamo a Iquitos. Dal fresco della cabina si passa al caldo umido della notte amazzonica. La prima sensazione che si prova è che i vestiti si incollano addosso. La dogana è Juliane Köpcke sul luogo del disastro (foto da inesistente; si passa direttamente alla grande sala internet) d'attesa le cui pareti sono affrescate con scenette caratteristiche del Perù: uno scontro tra carrozze nella Lima del '700, uno scorcio della selva con animali e un indio yagua con la lunga cerbottana, una vista di Arequipa, le universalmente famose rovine di Machu Picchu. All'uscita vengo letteralmente assalito da una turba di rappresentati delle agenzie turistiche. Sono 93 subissato da offerte: tour nella selva, visite agli indios, coccodrilli, corsi di sopravvivenza, trekking, giaguari, anaconde, pitoni, uccelli, insetti, piante medicinali... Non so davvero come cavarmela. Uno in particolare mi rimane particolarmente appiccicato e mi convince ad accettare (quasi) gratis un passaggio fino in città (sono circa quattordici chilometri dall'aeroporto). Sensibile di pagare solo 5.000 inti al posto di 15.000, accetto. Senza impegno, precisa il rappresentante, tanto paga il gringo! In auto con noi, infatti, sale un americano. È in viaggio di studio e si ospita in un hotel da 26 dollari al giorno. Io scelgo il più economico Hotel Loreto (jirón Prospero 309): camera 404, doppia, con bagno (anche se quasi sempre senz'acqua) e aria condizionata (non funzionante). Il tutto per 10.000 inti al giorno (poco più di due dollari), prezzo di favore perché la doppia costerebbe 15.000. Non ho pace: Roger Aliaga, tour operator, insiste affinché lo accompagni all'agenzia per illustrarmi i servizi da questa proposti. Lo seguo sbuffando. L'agenzia Amazon River (Putumayo 184) si trova vicino alla Plaza de Armas, a due isolati dall'hotel Loreto, proprio di fianco della “casa de hierro” (di cui, magari, racconterò la storia più avanti). Mi viene proposto un giro della durata di tre-quattro giorni al Tamshiyacu Lodge: costo 140 dollari. Mi mostrano un album con le foto della zona. Il tour comprende una visita a una comunità yagua... la stessa da me visitata nel '71. Stesse foto del gruppo di nativi; manchiamo solo l'amico Bergamin ed io in posa dietro di loro. Quando dico che le foto sono vecchie di quasi ven'anni, che quelli sono falsi yagua vestiti così per i turisti e che un tour così non m'interessa il titolare dell'agenzia ci rimane male. Mi chiede cosa avrei intenzione di fare. Gli spiego che mi piacerebbe risalire il Napo verso Copal Urco e avere la possibilità di visitare una comunità huitoto. Mi promette di presentarmi un suo amico il quale organizza giri turistici lungo il Napo. Ci mettiamo d'accordo per trovarci domani alle 9 all'hotel. Esco nella calda notte tropicale (romantico, no?) e faccio un breve giro per la Plaza de Armas. Ci son stati notevoli cambiamenti dal '69. I frondosi alberi di “mamey” sono stati sostituiti da palme; è stata costruita una fontana rivestita di piastrelle, con due delfini in atto di saltare (niente acqua) e tutto attorno sono stati piantati cespugli fioriti. La chiesa col suo campanile aguzzo è sempre dipinta con un pallido color crema. Attorno alla piazza il traffico di moto, motorini e mototaxi è sostenuto. Torno all'hotel dove, prima di andare a letto, vorrei farmi un doccia, l'acqua, però, non c'è. Alle 23.25 vengo svegliato da uno straziante gorgoglio: è arrivata l'acqua. Martedì 19 settembre Sveglia alle 6.30. Bella giornata di sole, ma al mattino il caldo è facilmente sopportabile. Mi dirigo subito verso il “malecón Tarapacá” per vedere il rio delle Amazzoni. Il rio dele Amazzoni all'alba Il rio delle Amazzoni all'alba La nebbia mattutina avvolge il paesaggio e impedisce di vedere la sponda opposta, ma posso ugualmente rendermi conto che siamo in periodo di magra. Uno smisurato pantano senza colori si stende dove ricordavo il fiume, le cui acque s'intravvedono molto lontano, un baluginio dovuto al riflesso del sole tra i vapori del suolo. Per le strade c'è poco traffico. Fotografo gli edifici rivestiti di “azulejos”, le piastrelle di ceramica importate dal Portogallo all'epoca d'oro del caucciù. Adesso 94 quegli edifici, appartenuti alle ricche compagnie di commercianti, sono quasi tutti in rovina, ma le piastrelle testimoniano ancora un passato di opulenza e sfarzo. Tutto cominciò negli Stati Uniti quando un certo Charles Goodyear scoprì un procedimento per vulcanizzare il caucciù. La domanda della resina salì, la selva del Perù si riempì di avventurieri i quali non esitavano a massacrare donne, vecchi e bambini per schiavizzare gli adulti da impiegare nell'estrazione della gomma. Per arraffare più in fretta si arrivò addirittura ad abbattere gli alberi. In pochi decenni si accumularono fortune enormi. Gli avventurieri, diventati straricchi, importavano dall'Europa ogni genere di lusso. Attraverso il Rio della Amazzoni arrivavano tessuti, liquori, mobili, le famose piastrelle e, addirittura, un intero edificio: questa è la storia della “casa de hierro”, una casa interamente costruita in ferro, progettata da Gustave Eifel (sì, proprio quello della torre). Il milionario Anselmo del Aguila la vide, la comprò, la fece smontare bullone per bullone e ricostruire tale e quale in centro a Iquitos. Ultimata la casa si scoprì che era impossibile viverci: di giorno: sotto il sole, si trasformava in un forno! Adesso sembra La celebre "Casa di Ferro" abbandonata. Si trova in Plaza de Armas, all'angolo tra Prospero e Putumayo, un edificio quadrato, elegante, dipinto di grigio, coi tetti sovrapposti arrugginiti. La fortuna durò poco. Nonostante il governo avesse proibito l'esportazione di semi, un inglese riuscì a rubarne 70.000. Con questi si dette il via alle piantagioni in Malesia, Indonesia e Tailandia. Ancor prima della prima guerra mondiale la potenza economica di Iquitos era svanita Adesso le piastrelle fanno ancora bella mostra su molti edifici che si affacciano lungo le vie principali. Sono colorate, ricordano molto lo stile arabo, alcune sono addirittura in rilievo. Nel 1982 uscì Fitzcarraldo, bel film del visionario Werner Herzog. Guardandolo si può avere un'idea di come era Iquitos all'epoca della corsa al caucciù. Una curiosità: alla fine, poco prima dei titoli di coda, accanto alla splendida Claudia Cardinale, si può notare un paffuto signore di bianco vestito, cravattino giallo e basettoni, mentre agita la mano per salutare: è Dino Tessarolo, gallierano, direttore del molino Guiulfo, comparsa nel film. Nei pressi dell'ex Hotel Palace, ex casa Vela, forse il più bel edificio della città, i primi ad aprire sono i negozi di artigianato. Ne visito alcuni per informarmi dei prezzi: una tela shipiba, bianca con disegni geometrici neri, costa 150.000 inti, una shinosute (cintura fatta con minute perline bianche) ben 250 dollari!!! Un ventaglio 35.000 inti. I negozi sono zeppi di coloratissime sculture in legno di balsa: un piraña costa 8.500 inti, un pappagallo grande Antica casa commerciale "Morey e figli" 21.000, una farfalla grande 8.000, quella piccola 6.000, un piraña grande 10.000, mentre i delfini variano da 10 a 12.000 inti. Le statuette antropomorfe che a Lima avevo acquistato per 15.000 inti, qui costano solamente 5.000. Alle 8.30 faccio colazione allo Snack DG (jirón Prospero) con toast al formaggio e un succo d'ananas (4.500 inti). Alle 9.00, in hotel, aspetto Roger. Lui non si fa vedere, io mi stanco ed esco. 95 Mi dirigo al “muelle flotante” (molo galleggiante) alla ricerca di qualcuno che mi porti lungo il Napo. Scendo lungo l'argine per una scala di legno traballante, quasi di fronte all'edificio dell'ex Palace. Passo vicino a una serie di grossi tronchi che sostengono varie case di legno, dalle quali colano i rivoletti maleodoranti degli scarichi. Arrivo al letto del fiume; sopra il fango serpeggiano innumerevoli passerelle fatte di tronchi e tavole. Non è necessario cercare: vengo subito individuato come turista, potenziale cliente, e avvicinato da un giovane il quale mi offre i suoi servizi. Lo seguo fino alla sua casa galleggiante, passando agilmente su tavole, tronchi, barche e canoe altrui. Intanto mi parla del suo “yate cubierto” e dei giri che lui e il suo socio organizzano. Arrivati a casa mi mostra quello che ha definito come yacht: un barchino coperto, capace di ospitare al massimo tre o quattro persone. Gli spiego le mie intenzioni. Assieme al socio inizia a fare un po' di conti: solo con il carburante e l'olio si arriva a un milione di inti... poi c'è il mangiare, il trasporto... L'interrompo: il prezzo è troppo alto. Ne convengono e mi consigliano di trovare qualche altra persona con cui dividere la spesa. Ci lasciamo così. Torno in città e incontro il socio di Roger il quale insiste per portarmi all'agenzia Adventures Tours (sargento Lores 269). L'agenzia si trova quasi all'angolo del mio hotel. Parlo col signor Teodoro Valles Wing detto Lolo. Ascolta il mio progetto e scuote la testa. Le tribù huitoto, mi spiega, si trovano quasi ai confini con la Colombia e gli adulti vengono utilizzati dai narcotrafficanti colombiani come portatori per la droga, pagandoli con scarpe, pantaloni e camicie. Così gli huitoto hanno smesso di andate in giro nudi e dipinti per indossare gli stessi indumenti degli abitanti delle città. Nei dintorni di Iquitos, continua, ormai non esistono più comunità di nativi che vivono allo stato selvaggio, sono tutti civilizzati. Ai turisti vengono fatti visitare villaggi dove gli indios lavorano come comparse. Sono molto rari coloro che vivono come prima dei contatti coi bianchi e, in questi casi si tratta di vecchi ancora legati alle loro origini, i quali si rifiutano anche di parlare lo spagnolo. Per visitare qualche comunità che ancora conserva lo stato originale, o quasi, bisognerebbe internarsi molto nella selva: almeno quindici-venti giorni di cammino. Dovrei avere, quindi, più di un mese a disposizione. Un po' deluso rivedo i miei progetti, mentre il signor Teodoro detto Lolo mi illustra cosa si può fare in quattro giorni. Mi propone un trekking, parte a piedi e parte in barca, nei pressi del lago Sunimiraño, con escursioni nella selva anche di notte. Si pernotta nell'accampamento, in pratica un tetto di foglie fornito di zanzariera, senza le comodità dei lodge, veri e propri alberghi nella selva. Si mangia quello che ci si porta dietro (fornito dall'agenzia), integrandolo con ciò che la guida riesce a pescare e cacciare. Si potranno vedere molti uccelli, qualche coccodrillo, qualche scimmia ma niente di più. Intorno a Iquitos è stato cacciato tutto il cacciabile; per riuscire a vedere qualche animale di grossa taglia sarebbe necessario inoltrarsi nella selva almeno per dieci-quindici giorni. Il costo dell'escursione è di quaranta dollari al giorno, cioè centosessanta dollari in totale. Si partirebbe domani alle 9.00 del mattino. Decido di pensarci su; fa un po' di tristezza ma questa proposta è la meno peggio. Intanto esco a far quattro passi. M'informo presso altre agenzie ma tutte propongono soggiorni in lodge e altre comodità. Insomma, sono nella selva amazzonica, mica nel boschetto dietro casa! Un po' di avventura, perdinci! Percorro pochi metri e vengo accalappiato da un certo Pedro, dell'agenzia Queen Adventures S.r.l. Mi trascina alla sua agenzia e mi racconta di essere amico di Walter Bonatti. Mi offre tutto quello che voglio per 50 dollari al giorno... Troppo? Per 45? Ancora troppo? Per 40! Quasi implora. Non so come cavarmela. Ci voglio pensare, gli dico, ed esco. Giro l'angolo e vengo beccato dal preoccupato Roger Aliaga, giunto in ritardo all'appuntamento all'hotel. È incazzato perché il suo collega mi ha già presentato a Lolo, soffiandogli probabilmente la percentuale. Gli faccio sapere che ho intenzione di accettare l'offerta di Lolo e lui insiste perché mi iscriva subito (forse la percentuale non è ancora svanita?). Ritorno assieme a lui all'Amazon Adventures e facciamo il contratto. Per prudenza non voglio si sappia che porto i sodi con me, preferisco tornare in hotel, accompagnato dall'appiccicoso Roger, salire nella mia stanza e tornare 96 all'agenzia per effettuare il pagamento. 160 dollari, al cambio di 4.900 sono 784.000 inti. Sul contratto è specificato che il prezzo non comprende eventuali spese di bar... mi chiedo se nell'accampamento in mezzo alla selva ci sarà anche un reparto alcolici. Confermata la partenza per domani alle 9.00. Al tour si dovrebbero aggregare altre quatto persone. Un grande manifesto appeso a una parete dell'agenzia mostra l'itinerario proposto. Partenza da Iquitos in barca e discesa lungo il rio delle Amazzoni, si lascia la barca per attraversare un tratto di selva fino a raggiungere il Napo, vicino alla sua confluenza col Mazan. Altro spostamento in barca fino a Israel, camminata in mezzo alla selva fino a un emissario del lago Sunimiraño e nuovo tragitto in barca fino al lago e all'accampamento. Da qui si partirà per le varie escursioni. L'ufficio di Foptur si affaccia sulla Plaza de Il “Dorado inn” Armas. Mi riceve una signorina gentile e carina I alla quale chiedo informazioni sulla musica tipica della selva. Mi consiglia di contattare il signor Eliseo Reategui, titolare della “Chupeteria Shambo”, in Grau, tra 9 de Diciembre e 2 de Mayo. Pare sia un esperto di “sitaracuy”, “chimaychi” e “pandilla”. Alle 12.30 pranzo al “Dorado inn”, locale popolare con una parete dipinta a grandi fasce verticali color crema e rosso, sedie in legno e tavoli coperti da tovaglie a quadroni bianchi e rossi. Il menù costa 3.000 inti e consiste in zuppa di gallina, un pezzetto di maiale fritto con riso e fagioli, succo di frutta e due pani. Il prezzo è buono, il mangiare meno. Compro sei banane (2.000 inti) e mi fermo in plaza 28 de Julio per mangiarne tre, comodamente seduto all'ombra di un frondoso albero fiorito. Il sole splende alto nel cielo blu e il caldo è notevole. Torno all'hotel dove lascio le banane restanti e alle 14.00 tento di telefonare a Jeanett. Il telefono a “discado directo” non vuol saperne di funzionare, così sono costretto a chiamare tramite il centralino (10.310 inti). Passeggio fino al jirón Tavara dove ha sede il Museo Municipal. Visita consigliata a chi ha voglia di deprimersi. L'ambiente è immerso in una inquietante semioscurità: gran parte dei neon, infatti, non funziona. I diorami che rappresentano le comunità dei nativi sono in uno stato pietoso, mancano di pezzi e alcune statue di legno sono cadute. Gli animali impagliati si trovano in condizioni disastrose, quasi tutti in pessimo stato e ricoperti da uno strato di polvere scura. Al fondo, sopra un tavolo, sono accatastati decine di uccelli imbalsamati, o meglio, pezzi di uccelli con l'impagliatura che fuoriesce da teste mozzate, ali troncate, zampe di tutte le Motokar dimensioni e corpi sventrati. Un vero sfacelo. I colori predominanti sono il grigio scuro, il marrone scuro e il nero. Alla signora che, seduta con aria sconsolata su una sedia sgangherata, attende il pubblico, chiedo cosa mai sia successo. Mi risponde che il comune non s'interessa del museo da molto tempo e che senza contributi non si può andare avanti. L'ingresso è a offerta libera: lascio 200 inti. Proseguo la visita alla città. Alle 16.10 mi concedo una sosta allo snack D.G. per due bicchieri di 97 camu-camu, frutto tropicale dal gusto molto delicato (2.000 inti). Proseguo per il jirón Prospero fino a Belén, scatto qualche fotografia, quindi torno indietro, per fermarmi all'angolo della strada dove un vecchietto sta vendendo gelati. Assaporo un “barquillo de aguaje” (1.500 inti). L'aguaje o mirithy è il frutto di una palma molto comune nella zona, con le sue fibre gli yagua si confezionano i gonnellini, usano i tronchi per costruire le capanne e utilizzano le foglie per la copertura. Il frutto ha le dimensioni di una prugna con la buccia squamosa. Il gusto è acidulo e la polpa granulosa. Il sapore del gelato, però, è assai gradevole. Salgo su un “motokar” fino alla comunità di San Juan dove c'è una fiera artigianale (5.000 inti). Rapido giro per informarmi sui prezzi: pappagallo grande, in legno di balsa 18.000 inti, pappagallo piccolo 15.000, collana di semi 5.000, collana con denti 15.000. Ritorno in autobus ed è un bel risparmio, i soliti 450 inti. Iquitos, interno della chiesa Si è fatto buio. Compro un chilo di mele (10.000 inti) e riesco a trovare un venditore di arance quando ormai tutti gli ambulanti stanno sbaraccando: dodici arance costano 4.500 inti ai quali devo aggiungerne altri 500 per il sacchetto di nylon. Torno all'hotel, pago la stanza, mangio le tre banane ed esco per una passeggiata notturna. Col fresco della sera è Iquitos: la chiesa aumentato il traffico: moto, motorini e motokar sfrecciano rombando senza sosta. Visito la chiesa: l'interno è molto diverso dal barocco di Lima e Cusco. L'altare di legno scuro sembra quasi riprodurre la facciata della chiesa, con l'aggiunta di due pinnacoli laterali. Le pareti, color crema, sono interrotte da colonne quadrate dipinte di verde che sostengono la volta a botte dell'unica navata. La volta è divisa in riquadri, quelli centrali sono dipinti. Altri dipinti si trovano dietro all'altare La chiesa è illuminata da una serie di finestre a forma di quadrifoglio e da numerose porte ad arco a sesto acuto. A lato della chiesa c'è la famosa gelateria “El Pinguino” (terzo isolato del jirón Arica). Un cartello declama che i gelati sono assolutamente genuini e naturali. Scelgo un gelato alla lucuma (1.500 inti): davvero eccellente! Ore 19,53: cena al Todo Tuyo. Il locale si affaccia sulla Plaza de Armas e si trova sull'angolo opposto alla “casa de hierro”. Ha l'aria di un locale nuovo, quasi elegante, secondo gli standard del luogo: pavimento di mattonelle bianche e nere, soffitto di perline con ventilatori in asse coi lampadari, tavoli in formica bianca e sedie di alluminio con sedili e schienale in finta pelle rossa. Le pareti sono dipinte di bianco e vi sono banchi per gelati, torte, panini e polli arrosto. Una porzione di torta di mele costa 3.500 inti e un succo d'arancia 4.000. La temperatura è costante: 30 gradi. Allo snack DG per un succo d'ananas (1.000 inti). Da evitare 98 in futuro perché troppo denso, quasi un frappé: molto meglio un “refresco”. In uno degli ultimi negozi aperti riesco a comperare quattro “panes de yema” (800 inti). Non c'è carta per avvolgerli e il sacchetto costa; mi faccio dare i pani e li porto via in mano. Alle 21.15 preceduta dal solito prolungato gorgoglio, arriva l'acqua. Farsi una doccia non è facile: l'acqua è poca e manca il diffusore, è come docciarsi sotto un rubinetto. Mercoledì 20 settembre Sveglia alle 7.15. Tempo incerto, il cielo è coperto di nubi e la temperatura è più fresca e sopportabile. Mangio i due pani rimastimi e, zainetto in spalla, esco per fare colazione. Per strada soffia un gradevole venticello, speriamo solo che non piova. Al Todo Tuyo comincio con un “pay de manzana” e un tè al limone. La torta di mele è davvero squisita, così me ne faccio portare un'altra porzione accompagnata, questa volta, da un succo d'arancia. Totale 12.500 inti Il vento è cresciuto d'intensità e ha spazzato via un po' di nuvole. Alle 8.30 sono in agenzia, pronto per partire. Pochi minuti dopo arrivano anche gli altri quattro turisti: Jhon, svizzero, alto, biondiccio e simpatico, parla uno stentato spagnolo, Markus, svizzero, magro, bruno, riccioluto e taciturno, Dina, svizzera, alta, bionda, capelli lisci e moglie di Ivan, peruviano residente in Svizzera. Manca solo la guida, ma si sa, in Perù il ritardo è un fatto normale. Nell'attesa i quattro vanno al bar all'angolo a bere qualcosa, mentre io mi trattengo in agenzia dove lascio alcuni oggetti che non mi servono: due rotoli di pellicola (con le foto scattate in precedenza), una penna, giornali vari, una confezione di pastiglie, il biglietto aereo per Lima, foglietti pubblicitari, un fazzoletto pulito (così è specificato nella ricevuta), un'audiocassetta, shampoo, pettine, lamette da barba. Per quattro giorni posso benissimo vivere alla selvaggia. Esaurita la fase burocratica raggiungo gli svizzeri al bar i quali, molto gentilmente, mi offrono un succo d'arancia. Arriva il signor Helio Navarro Acho, la nostra guida. Piccoletto, magro, pelle color dell'argilla e occhi furbi leggermente a mandorla è un tipico abitante della selva. Indossa jeans, maglietta grigia striminzita, cappello di paglia e calza stivali di gomma, in contrasto coi variopinti svizzeri in tenuta da spiaggia. Io sfoggio pantaloni lunghi verdi e camicia in jeans con maniche lunghe; sembra un controsenso ma mi eviterà tanti dispiaceri coi numerosi insetti che popolano la zona. Sopra indosso la seconda versione, riveduta e corretta, del giubbotto cucitomi da mia madre, pieno di tasconi, comodissimo per sistemare macchine fotografiche, obiettivi e accessori. Scendiamo al fiume e c'imbarchiamo su un tipico barcone a motore, di quelli col tetto di foglie, indispensabile quando c'è il sole e ottimo per proteggerci in caso di pioggia. Alle 9.48 si parte. Rotta verso nord-ovest, seguiamo la corrente del Rio delle Amazzoni. L'acqua è color terra, con onde mosse dal vento. Cielo cupo, paesaggio monotono. Le piccole canoe che incrociamo navigano accostate alla riva alta, fangosa, coperta d'erba e vegetazione solo nella parte superiore. Ci lasciamo indietro sporadiche abitazioni costruite in legno sopra zattere di tronchi. Tutto fila liscio finché il motore, dopo alcuni preoccupanti colpi di tosse, alle 11.25 si ferma. Rimaniamo in balia della corrente. Il motorista sembra non perdere la calma, forse c'è abituato; armeggia un po' con gli attrezzi e, dopo cinque minuti, il motore riparte. La “Piraña”, la barca azzurra dell'Amazon Adventure Tour accosta a una sponda fangosa e sbarchiamo. Carichi di zaini e provviste (a me tocca una tanica con quindici litri d'acqua) c'incamminiamo per una scomodissima pista d'argilla. La pioggia rende l'argilla molle e plasmabile, la gente vi cammina sopra lasciandovi impronte profonde; quando il sole la secca, l'argilla diventa dura come il cemento, così si cammina sopra una superficie irregolare, piena di avvallamenti e gibbosità che mettono a dura prova piedi e gambe. Alle 12.04 facciamo una sosta al “bar bodega La Brisa”, una baracca che funge da negozio. Chi beve, chi fuma, chi fa acquisti. Intorno le poche capanne di Mazan. Ripartiamo alle 12.13 e alle 12.36 arriviamo al Napo. Carichiamo un'imbarcazione a motore e ci accingiamo ad attraversare il 99 fiume. Troppo carico, rischiamo di colare a picco e non dev'essere una bella esperienza. Torniamo a riva. Markus e io aspettiamo che la barca, attraversato il fiume, ritorni a prenderci. Alle 13.36 la barca arriva e alle 13.57 guadagno l'altra sponda: siamo arrivati a Israel. A causa dell'acqua bassa non si può continuare la navigazione, saremo quindi costretti a camminare per un tratto di selva fino a raggiungere una laguna. Distribuiamo il carico di vettovaglie e, alle 14.13, ci rimettiamo in cammino. Camminiamo circondati dalla lussureggiante vegetazione, immersi in una penombra verde. Il sentiero è largo e fangoso, superiamo i corsi d'acqua in equilibrio su tronchi buttati di traverso. Uno, in particolare, lungo una quindicina di metri, ci permette di scavalcare un fiumiciattolo di acqua scura; aiutano a mantenere l'equilibrio alcune aste piantate sul fondo, a cui aggrapparsi in caso di necessità. Attraversiamo nello stesso momento in cui un serpente nerastro, lungo ben oltre un metro, fende le acque proprio sotto di noi e, raggiunta la sponda, sparisce tra il fogliame. È il primo animale che vediamo, annoto l'ora, sono le 14.30. Alle 14.40 raggiungiamo la laguna a cui dovevamo arrivare in barca. Ormeggiate a un tronco ci attendono due piccole canoe piuttosto malridotte. Quella su cui salgo in compagnia della guida e di Jhon ha il fondo rappezzato con pezzi di lamiera. L'altra non sembra in condizioni migliori: è senza pagaie e l'equipaggio è costretto a remare con una tavola. Entriamo così nel lago Sunimiraño (parola composta da suni, nome di un uccello, e dal verbo “mirar”, guardare, quindi traducibile come “luogo dove si vedono i suni”). Attraversiamo il lago trainando, prima e spingendo poi, la seconda canoa. Intanto osservo la vegetazione sulla riva. Tronchi e foglie, per un'altezza di circa un metro, sono coperti di fango, segno del livello raggiunto dall'acqua nel periodo di piena. A tratti la vegetazione emerge dall'acqua come una invalicabile parete, alcune esili palme, talmente fitte da impedire il passaggio a qualsiasi persona, hanno il tronco avvolto da spine lunghe una spanna. Ogni approdo lì è assolutamente impossibile. L'acqua mantiene il suo bel color ocra: me la immagino come un brodo di fango, foglie marce, escrementi di pesci, coccodrilli e uccelli. Alla guida viene sete: immerge il cappello, gli da una risciacquatina e beve a lunghe sorsate. Certo ha dei buoni anticorpi. Alle 15.40 arriviamo all'accampamento. Sorge su una radura in riva al lago ed è costituito da tre capanne. Una capanna, la più piccola, serve da abitazione per Cesar, il custode, e sua moglie. La capanna più grande è adibita a sala pranzo e riposo. Vi sono delle amache appese alle travi del soffitto, un tavolo e alcune panche al centro e in un angolo un basamento d'argilla che serve da focolare. La terza rappresenta la zona notte: si dorme stesi su materassini di gommapiuma e protetti dalle zanzariere. Tutte le costruzioni sorgono su basse palafitte, per evitare ospiti indesiderati, e vi si accede salendo lungo un tronco intagliato a gradini. I servizi consistono in un profondo buco sul terreno, l'intimità è assicurata da pareti di frasche. Per lavarsi il lago offre acqua tiepida in abbondanza. Dopo lo sbarco ci viene offerto un caffè e mezza papaya. Verso le 17 si mangia: riso, fagioli, un uovo fritto, tonno con cipolla e una porzione di pesce comperato a Mazan, una mela (una delle mie), pane e marmellata di fragole. Alle Accampamento su lago Sunimiraño 18.15 si finisce e ci si sgranchisce le gambe nella radura. Il buio è già sceso, attorno a noi la massa scura della selva si staglia contro il cielo, iniziano i canti melodiosi di uccelli sconosciuti. Improvvisamente Helio, la guida, si avvicina a un tronco caduto, infila la mano in un buco e tira fuori un rospo enorme. La bestia, grossa più di un pollo, strilla emettendo un verso simile al suono di una trombetta e annaffia il suolo con copiosi escrementi. 10 Più tardi è l'ora della pesca, Helio tira su le reti gettate davanti all'accampamento e vi trova impigliati un piraña e un paio di gamberi: la cena è assicurata. Finita la cena, con pesce, pane e marmellata ci prepariamo a uscire per la notturna caccia al coccodrillo. Alle 21 saliamo tutti su una lunga canoa, il cui bordo affiora pericolosamente solo di pochi centimetri dal pelo dell'acqua, e ci inoltriamo nel lago, calmo come uno specchio. Navighiamo accompagnati dalla luce delle stelle e dai volteggi di grosse lucciole. L'impercettibile sciacquio della pagaia della guida (bisogna far piano altrimenti i coccodrilli ci scambiano per appetibili prede), è rotto di tanto in tanto dal tonfo di un pesce che, saltando, cade all'interno della canoa. Se ne individua l'argenteo bagliore che si dibatte sul fondo dell'imbarcazione, lo si afferra e lo si ributta in acqua, sperando non sia un piraña che si porta via un pezzo di mano. Attorno a noi un fantastico concerto di grilli e rane. La guida individua alcuni nidi, mimetizzati tra le alghe di un basso fondale. Come faccia vedere al buio non so. Con grande precauzione fruga fino ad afferrare un coccodrillino lungo una quarantina di centimetri, ma già dotato di robuste mandibole, denti aguzzi e sano appetito. Gli svizzeri, a turno se lo passano di mano in mano. Bisogna afferrarlo per il collo e per la coda, dietro le zampe posteriori, per evitare morsi e graffi. D'improvviso la notte viene squarciata da uno strillo terrificante: alla signorina Dina è sfuggito il coccodrillo che ora scorrazza per la canoa pronto a mordere chiappe e calcagni. Nell'imbarcazione è panico: tutti ci agitiamo nel tentativo di riacchiappare il mostriciattolo e la canoa s'inclina pericolosamente minacciando di farci finire tutti in acqua. Solo la guida non perde la calma, riesce ad afferrare il rettile e riportare la tranquillità. Di coccodrilli grossi, neanche l'ombra. La guida cerca di attirarne qualcuno imitandone il verso (una specie di muggito), ma niente da fare. Alle 22.50 torniamo all'accampamento, mentre lontano si ode il cupo rumore delle cannonate sparate durante un'esercitazione della marina militare. La guida scuote il capo e prevede pioggia: sostiene che piove sempre dopo un'esercitazione della marina. Sotto la tettoia di foglie mi aspetta il mio giaciglio. Alla luce della pila scopro che l'efficacia della zanzariera è nulla contro una nutrita serie di piccoli animaletti, alati e non, che si agitano disturbati dalla luce. Mi sa che dovrò dormire in compagnia. Giovedì 21 settembre Durante la notte piove. Sveglia alle 5.45 accompagnato dal canto degli uccelli. Il tempo non promette niente di buono, infatti, alle 6.15 piove. Alle 8.50 finiamo di fare colazione e smette anche di piovere. Ci prepariamo alla camminata nella selva: meta un accampamento all'interno dove passeremo la notte. Alle 9.30 esce un po' di sole e siamo ancora all'accampamento. La moglie di Cesar, in equilibrio su un tronco, lava il pesce sul lago, noi ci facciamo le foto di rito col coccodrillino in mano. Poi Helio lo lascia libero e l'animaletto sparisce in acqua. Alle 10.04 finalmente salpiamo in canoa. Ci addentriamo lungo canali tortuosi, invasi dalla vegetazione. L'acqua è bassa e a volte il fondo della canoa sfrega contro tronchi sommersi. Sul fondo si scorgono numerosi pesciolini. La guida pagaia seduta sulla prua, accanto ha un fucile Risciacquando il pesce caricato a pallettoni. Alle 11.16 attracchiamo all'imbarcadero dove, per aiutare la signorina Dina a sbarcare, scivolo malamente sull'argilla più viscida di una buccia di banana. Ormeggiata la canoa ci addentriamo 10 nella selva. In dieci minuti arriviamo al nuovo accampamento. Accampamento è una parola grossa per definire due tettoie di foglie, molto spartane. Sorgono al centro di una zona disboscata dove gli alberi sono stati tagliati a circa un metro da terra. I tronchi sono stati lasciati dove sono caduti e sommariamente bruciati per eliminare rami e fogliame. Il tempo di sistemare lo scarso bagaglio (le vettovaglie) e alle 11.36 iniziamo l'escursione nella selva. Alberi, alberi e alberi. Siamo circondati da un'infinita varietà di piante; non ce ne sono due uguali cresciute vicine. Pochissimi fiori, qualche fungo, farfalle, formiche e insetti vari. La guida si sofferma a parlarci di alcune particolari specie vegetali. Scopriamo il “luzcaspi” (dallo spagnolo luz, luce e la parola indigena caspi, bastone) un alberello dal tronco bianco che di notte diventa luminescente. Paujilhuasca Chambirahuayo C'è la “chambira”, una palma le cui foglie servono per intrecciare borse e amache; il “chambirahuayo”, frutto di questa palma, ha le stesse dimensioni di un uovo. Ha la scorza verde, tolta la quale si trova un guscio rotondo, duro, simile a una noce liscia. Dentro c'è del liquido zuccherino avvolto da una polpa bianca, tenera e commestibile. Ci fermiamo proprio sotto a uno di questi alberi. La guida si costruisce una specie di lungo rampino utilizzando rami e liane, si arrampica agilmente su un albero vicino, aggancia le fronde della palma e le scuote con energia. Una pioggia di frutti corona i suoi sforzi. Il mio coltello da sopravvivenza si dimostra ottimo per aprire i chambirahuayo. Dopo aver mangiato la polpa e bevuto il succo ne raccolgo alcuni con l'intenzione di portarli a casa. L'esplorazione prosegue, la guida ci mostra una radice usata dai nativi per pescare. Si chiama barbasco, viene schiacciata per estrarne la linfa e questa, versata in acqua, tramortisce i pesci che si trovano nelle vicinanze. Sembra sia efficace solo per le creature a sangue freddo, mentre non ha alcun effetto sull'uomo. Una liana assai interessante e utile è senza dubbio la “paujilhuasca” (il paujil è un uccello e huasca significa corda o liana). È chiamata così perché il suo frutto è simile al cuore del paujil. L'interno dai larghi anelli concentrici crema e rossicci contiene abbondante succo dal delicato sapore zuccherino. La guida, con un paio di colpi di machete, ne taglia un pezzo lungo circa un metro, lo scuote e ci fa bere: c'è liquido a sufficienza per dissetarci tutti e cinque. Chiedo se conosce il palmito. Nessun Bevendo dalla paujilhuasca problema. Ci porta sotto una palma altra circa quattro metri, dal tronco grigio chiaro e liscio. Si chiama “chonta” e il palmito è il cuore della palma, cioè le foglie giovani, non ancora formate che si trovano al centro della chioma. Voglio assaggiarlo? Perché no? Visto che il palmito in latta mi piace molto, son curioso di provare che 10 sapore ha quello naturale. Detto fatto: con quattro colpi di machete Helio butta giù la palma. Ci rimango malissimo. Pensavo si arrampicasse fino in cima e tagliasse un pezzetto, non certo che abbattesse l'intero albero! Helio continua l'opera: apre la parte superiore della palma e ne estrae una specie di tubo marrone, lungo più di un metro. Comincia a togliere strati, come se avesse in mano un rotolo di fogli, fino ad arrivare al cuore vero e proprio, bianco a molle, del diametro di un grosso asparago. Lo spezzetta e ce lo dà da mangiare... meglio quello in latta, ha più sapore. Si continua con la lezione sulla flora: la corteccia del “ninacaspi”, ci spiega la guida, colora la pelle e viene usata dai nativi per i loro tatuaggi. Ci raccomanda di prestare attenzione quando passiamo troppo vicino alle piante: ci sono formiche che vanno su e giù e alcune sono molto pericolose: a dimostrazione ne cattura una grossa quanto un fagiolo; è una “isula”. Il formicone si agita e dall'addome esce un pungiglione lungo un centimetro dal quale sprizza una goccia di liquido trasparente: è un veleno che, se inoculato, provoca dolori fortissimi. Ma c'è anche di peggio: la “tangarana” è una formica che si sposta in gruppi di milioni di individui divorando tutto quanto incontra nel suo cammino, animali e uomini compresi. Alle 13.27 iniziamo il cammino di ritorno e alle 14.15 arriviamo all'accampamento per il pranzo. Giornata splendida, brilla il sole. Si pranza con riso, fagioli, tagliatelle con uovo, patate fritte. Da bere, aranciata. Alle 16.55 comincia a calare il buio, siamo pronti per la camminata notturna. Portiamo le pile, ma solo per precauzione, la guida, infatti, sembra vederci perfettamente anche nella più completa oscurità. La camminata notturna è davvero un'esperienza straordinaria. Attorno a me vedo solo nero, i miei compagni, davanti, sono ombre indistinte. Le chiome degli alberi si chiudono sopra di noi come un velo e solo raramente lasciano filtrare la luce di qualche stella. Di quando in quando, però, emerge dal buio la spettrale luce di un “luzcaspi”. Incredibile, la guida solleva delle foglie e ci mostra la fantasmagorica luminosità di certe muffe. Accampamento nella selva Ci sediamo per una breve pausa vicino al tronco di un albero. La luce di una pila illumina un serpentello nero e giallo, non più grosso di un dito e lungo una quarantina di centimetri, che striscia tra foglie e radici. Specie velenosa: la guida si affretta a ucciderlo, e sono necessari numerosi colpi di machete perché il rettile sembra dotato di una Vicino al lago Sunimiraño straordinaria vitalità. Riprendiamo la marcia quando la guida si ferma all'improvviso: ha avvertito la presenza di un uccello davanti a noi. Stento a crederlo. Uno svizzero commenta a voce alta, gli fa eco un frullo d'ali che si perde lontano. L'uccello c'era davvero. La guida decide di seguirlo per cacciarlo. Non so come ci riesca. Abbandoniamo quello che forse era il nostro collaudato sentiero e seguiamo Helio Navarro Acho nell'avventura. Camminiamo nell’oscurità a pile spente. Ad un tratto Helio ci fa fermare: la preda è proprio davanti a noi, ci 10 assicura parlando a bassa voce. Silenziosamente facciamo capannello attorno a lui. Alla luce di una pila tenuta bassa, prende una cartuccia, toglie la borra, estrae gran parte dei pallettoni (sono grossi come piselli, adatti per i coccodrilli, non certo per gli uccelli) e, con la cartuccia modificata, carica il fucile. Ci guida le mani che impugnano le pile in una certa direzione (io continuo a vedere solo buio) e ci dice di accenderle a un suo ordine. Punta l'arma. Luce! Cinque torce si accendono contemporaneamente. E sorprendono una specie di polletto accovacciato su un ramo. Risuona uno sparo e il polletto si disintegra. Ci son piume e frammenti d'uccello dappertutto. Riusciamo a raccattare una coscetta con attaccato un pezzo d'ala. Jhon, con voce lamentosa, protesta: « Helio, stasera ti avevamo chiesto di vedere alcuni animali, ne abbiamo visti due e sono entrambi morti! » Alle 20.05 intraprendiamo la via del ritorno e alle 9.05 arriviamo all'accampamento. Per cena c'è pane, un uovo fritto e una tazza di tè. Alle 23 siamo tutti sotto le zanzariere, cullati dai canti di invisibili uccelli. Venerdì 22 settembre Mi sveglio alle 5.45. Il sole è già spuntato. Accendo il registratore per il canto degli uccelli al mattino. Lontano scorgo due scimmiette che saltellano sui rami. Faccio a tempo a scattare un paio di foto prima che spariscano. Alcuni pappagalli fanno colazione coi frutti di un albero. Cammino in mezzo alla selva e raggiungo l'ansa di un fiume, quando torno indietro perdo il cammino. Mi guardo attorno e vedo solo alberi e cespugli. Torno lentamente sui miei passi fino a ritrovare quello che sembra un sentiero, ma è solo un'illusione: mi sono proprio perso, eppure sono certo di non essere molto lontano dall'accampamento che, secondo i miei calcoli, dovrebbe trovarsi sulla mia destra. Non sono però certo al cento per cento, quindi, muovendomi, non vorrei peggiorare la situazione. Sto pensando a quale strategia adottare quando, a pochi metri da me, scorgo la guida. Avevo intuito la giusta direzione; raggiungo Helio e assieme torniamo all'accampamento. Intanto anche gli svizzeri si sono alzati. Facciamo colazione con soltanto una tazza di tè. Ci aspetta una nuova attraversata della selva e Helio è impegnato a Inferno verde o paradiso? Navigazione nella selva cucinare gli spaghetti. Come condimento ci sarà la coscetta dell'uccello cacciato ieri notte. Cotti gli spaghetti, vengono infilati in un sacchettino di nylon. Saranno il nostro pranzo. La cosa è preoccupante. Visto che porto sempre lo zainetto, avrò l'incarico di trasportarli fino ad allora. Alle 7.16 siamo pronti e c'incamminiamo. Pochi minuti dopo, in una radura, un tucano svolazza ignaro e tranquillo sopra le nostre teste; Helio spara (ma sarà commestibile?) e lo manca, con 10 grande sollievo degli svizzeri. Continuiamo per un esile sentiero fangoso, superando i numerosi corsi d'acqua su malsicuri ponticelli quando la guida s'irrigidisce: dice di aver sentito un animale. Poco prima assicura di aver visto un cervo. Non vedo niente ma c'è da credergli. Sono le 10.15 quando arriviamo alla “cocha” (lago) Urcomiraño (in pratica “dove si vedono gli urco”; “l'urco” è un rapace a mezza via tra un falco e una civetta). Ci aspetta una canoa in pessimo stato, oltretutto è piccola e tutti non ci stiamo. Bisognerà fare due viaggi. Col primo parto io assieme a Markus.. Mi siedo sul fondo che fa acqua, così mi bagno i pantaloni. Pagaia Helio, ovviamente. Alle 10.23 sbarchiamo su una spiaggetta. Dobbiamo essere nelle vicinanze di qualche villaggio perché tra la vegetazione spuntano i tetti di alcune capanne e, nell'acqua, Le canoe affittate vicino a dei tronchi, due bambini stanno facendo il bagno. In attesa del resto della compagnia mi butto di pancia sperando che il sole mi asciughi. Una volta riuniti proseguiamo fino alle 11.20 quando facciamo sosta all'ombra di una grande “maloca” (capanna). La costruzione poggia su una palafitta di grossi tronchi ed è molto spaziosa. L'ambiente è unico, la struttura è fatta di tronchi, il pavimento di legno di palma. Non ci sono pareti. Il tetto è a due spioventi molto inclinati, ricoperto di foglie di palma intrecciate. Alle 12.00 si pranza. Tiro fuori il sacchetto con gli spaghetti. A prima vista l'aspetto non è dei migliori. All'interno del sacchetto si è formata una preoccupante condensa che impedisce di valutare il contenuto. All'apertura, gli spaghetti, agitati da circa quattro ore di cammino alla temperatura prossima ai quaranta gradi, sono diventati grossi come asparagi e sembrano affogare in una specie di budino pallido e colloso. Per un'equa distribuzione del rancio vengono usati altri sacchetti di plastica, evidentemente non era previsto l'uso di piatti. Al primo boccone provo l'intenso desiderio di vomitare. Per fortuna nello zainetto scovo l'ultima lattina di tonno: la svuoto sulla pasta colloidale e con pazienza e molto autocontrollo riesco a mandarla giù. Alle 12.13 riprendiamo il cammino, attraversiamo delle disordinate piantagioni di banane e arriviamo alla vicina comunità yagua. Dentro una “maloca” un anziano in gonnellino e copricapo di paglia rossiccia è intento a intrecciare un cesto utilizzando sottili fibre di palma. Una giovale donna se ne sta mollemente appoggiata a un tronco che sostiene il tetto e una mezza dozzina di bambine ci osserva in silenzio. Seduti sull'uscio di un'altra “maloca” alcuni giovani non sembrano particolarmente felici di vederci. La guida da loro vaghe informazioni su di noi, afferma che siamo Tramonto nella selva tutti peruviani e, cosa più importante, che non abbiamo un soldo in tasca. Per 5 inti contratta un ananas. Trovo la sottile fetta che mi tocca davvero deliziosa. La guida contratta un paio di canoe per raggiungere l'imbarcadero dove, al mattino, abbiamo lasciato l'imbarcazione grande. Parla con un personaggio che si qualifica come il maestro della comunità. L'uomo esibisce una impressionante dentatura dorata, abbagliante sotto i raggi del sole, e rotea un fischietto di metallo dono, dice, di una precedente comitiva di turisti. Le contrattazioni arrivano a buon fine. Avremo due imbarcazioni a disposizione. Sono le 12.57 10 quando lasciamo il villaggio. Su lago ci aspettano due canoe, alla pagaia due giovani donne. Una indossa un vestitino bianco, leggero, lungo, semplice, con fiori gialli stampati, la seconda un vestito di tessuto un po' più grezzo, color arancione. Salgo con quest'ultima. La giovane pagaia con energia e tutto fila liscio finché, distolta l'attenzione dal bel panorama, mi accorgo che la canoa sta per affondare. Infatti si è pericolosamente riempita d'acqua fin quasi al bordo. Preoccupato, anche perché siamo in mezzo al lago e ben lontani dalla riva, avverto la signora. Per nulla preoccupata, la giovane smette di remare, inclina l'imbarcazione spostando il peso del corpo, afferra un mezzo guscio di una noce di cocco e, usandolo a mo' di sassola, con incredibile velocità svuota lo scafo. Per tutto il resto della traversata mi dimentico del paesaggio e passo il tempo a buttar fuori acqua, anche perché, ad aggravare la situazione, ci pensa un improvviso acquazzone. Alle 14.34 attracchiamo a una insenatura. Da qui ci aspetta circa un'ora di cammino: è l'ultimo tratto di selva che ci separa dalla nostra canoa. Alle 16.43 c'imbarchiamo. Traversata tranquilla mentre il sole, pian piano scende all'orizzonte. Sul lago incrociamo alcuni pescatori. Pescano con sistemi molto rudimentali: un ramoscello con uno spago e un chiodo ricurvo come amo. L'attrezzatura è sufficiente, vista l'abbondanza di pesce. Mi stupisce come, da notevole distanza, riescono a comunicare con la nostra guida. Anche Helio parla a voce talmente bassa che io, seduto dietro, faccio fatica a percepire. Pronunciano le parole in modo molto singolare: forte la prima sillaba e in maniera quasi inintelligibile il resto. Mi rendo conto che, vivendo nella selva, hanno sviluppato i sensi in maniera assai diversa da noi “civilizzati”. Mentre il sole tinge il cielo di arancione arriviamo alla base. Sono le 17.30. Bel tramonto infuocato, mi attira la sagoma di un albero che si staglia contro le nuvole dorate evidenziando i lunghi nidi degli oropendoli. Si cena con zuppa fatta con i resti dell'uccello cacciato la notte precedente, patate, riso, fagioli, insalata di patate, cipolle e “nabo” ((rapa). Per finire, pesce. Finita la cena Helio ci racconta qualche episodio della sua vita. A otto anni, seguendo una scimmia che doveva servire da pranzo per lui e la famiglia, si perse nella selva. Venne catturato dagli indios campa i quali lo tennero prigioniero per molto tempo. Per evitare che scappasse lo tenevano legato giorno e notte. Per mangiare veniva imboccato da Cala la sera Cheese... come non farsi la foto col una donna, anch'essa rapita. Pur simplatico coccodrillino? desiderosa di tornare dai suoi, questa non osava liberare il ragazzo, nonostante le sue suppliche, né, tanto meno, affrontare la selva da sola. Col tempo Helio riuscì a conquistare la fiducia della tribù; venne liberato ma, pur partecipando alla vita comune, pensava sempre a come fuggire. Il problema era che ignorava esattamente dove si trovava e quale era la via per tornare a casa. Si mise d'accordo con la donna: bisognava solo attendere il momento propizio. L'occasione si presentò durante un attacco a una “chacra” (fattoria) per procurarsi delle donne. Mentre i guerrieri della tribù attaccavano, Helio e la donna fuggirono. Tornato a casa, quando ebbe l'età richiesta, si offrì volontario per entrare nell'esercito. Era l'unico modo per imparare a leggere, a scrivere e a rendersi conto di com'era il mondo oltre la selva. Venne mandato nella zona di Uchiza e Tocache, regno incontrastato dei narcotrafficanti. 10 Di giorno la guarnigione militare viveva asserragliata nelle baracche della caserma; di notte i soldati uscivano a scavarsi delle buche dentro le quali dormire, mentre i narcotrafficanti bersagliavano il campo con bombe e raffiche di mitra. Questa sarà l'ultima notte nella selva. Domani pomeriggio saremo a Iquitos. Prima di ritirarmi a meditare sotto la mia zanzariera decido di lavare la camicia. La indosso da quattro giorni, è impregnata di polvere e sudore e l'odore non è certo di violetta: una risciacquatina non può farle che bene. In equilibrio sullo stesso tronco su cui giorni prima la moglie di Cesar lavava il pesce, mi dedico a insaponare e strizzare il pesante tessuto di jeans, sperando che piraña e coccodrilli non si trovino nei paraggi. Al termine dell'operazione sono un po' preoccupato: riuscirà ad asciugare per domani mattina? La notte nella selva è alquanto umida. Nessun problema, basta stenderla sopra il fuoco, mi suggerisce Helio: il calore delle braci sarà sufficiente. Stendo la camicia sopra una cordicella tesa sopra il focolare. Helio me la sistema per benino e mi assicura che per domani sarà a posto. Non sarà un po' troppo bassa? obietto. Assolutamente no, mi spiega la guida. Col tempo le braci si estingueranno e il loro calore diminuirà. Mi fido e vado a letto tranquillo. Sabato 23 settembre Sveglia alle 5.30. Sopra il focolare la mia camicia è ancora umida, orribilmente strinata, impregnata di fumo e puzzolente come non mai. Impossibile indossarla. La sigillo per bene dentro un sacchetto di plastica, vado in riva al lago per scattare qualche foto e registrare il canto dell'oropendolo. Alle 6.00 tornano Helio e Cesar da un'abbondante pesca. Tra i molti pesci hanno catturato alcuni piraña e un coccodrillo di oltre mezzo metro. Cesar prepara il pesce, Cesar pulisce il pescato Coccodrillo alla griglia sua moglie frigge la yuca, Helio squama, pulisce e cuoce il coccodrillo sulla griglia. Ci sono tutti gli ingredienti per una abbondante colazione. La carne di piraña e quella di coccodrillo sono bianchissime, tenere ma insapori; forse dipende la cuoco, dalla mancanza di sale e olio. Quella di piraña, inoltre, ha una quantità incredibile di spine. La yuca fritta è davvero ottima quando è calda: il gusto assomiglia molto a quello delle patate fritte; quando è fredda, però, diventa dura e gommosa. Si continua la colazione con riso, frittatine e caffè. Il cielo è un po' velato. Si prevede di essere a Iquitos per le 14.30. Lasciamo l'accampamento alle 9.10, c'imbarchiamo e attraversiamo per l'ultima volta il Sunimiraño. Alle 9.45 approdiamo e attraversiamo la selva fino a raggiungere il Napo. La tranquillità della camminata viene interrotta dalle strida acute di alcune scimmie: tra il folto delle chiome sembra stia svolgendosi una lotta. Scruto in alto, ma non riesco a vedere niente. Il “tanamurì” è un frutto dalle dimensioni di una ciliegia, con la buccia rugosa color arancione carico. La polpa è morbida e dolcissima. Ne troviamo alcuni per terra, tra le foglie, caduti da un albero vicino, peccato siano pochi perché sono veramente deliziosi. 10 Alle 10.20 arriviamo al Napo. Il motore della lancia fa le bizze, ma poi si ravvede e ci porta sull'altra sponda, alle 11.21 ormeggiamo a Mazan. Dopo una breve sosta, alle 11.40 ci mettiamo in cammino per raggiungere il Rio delle Amazzoni, dove arriviamo alle 12.21. Altra breve sosta prima di imbarcarci per Iquitos. L'agenzia offre una Pepsi e un panino. Alle 12.42 si avvia il motore e risaliamo la corrente, mentre dietro di noi si gonfiano preoccupanti nuvoloni scuri carichi di pioggia. La vicinanza di Iquitos si annuncia con l'aumento di abitazioni, carcasse di imbarcazioni e cumuli di spazzatura lungo la riva. Gruppi di pescatori stanno tirando su le reti e il nostro motorista si ferma per comperare del pesce. Arriviamo in città alle 15.33, prima tappa all'agenzia per ritirare le mie cose e firmare il librone egli ospiti. Giretto per la città prima del buio e in gelateria per un gelatone di “unguramui” (5.000 inti). Alle 17.20 chiedo una stanza all'hotel Loreto. Mi danno la 406 dove scopro la serratura rotta e il bagno allagato. Protesto e mi danno la 405; è a posto ma manca l'acqua. Si suppone che, come al solito, arriverà più tardi. Devo lavarmi e, soprattutto, lavare la camicia: puzza tanto che sono costretto tenerla appesa fuori, legata alla ringhiera del terrazzino. Sono in trepida attesa per l'arrivo dell'acqua quando arriva Jhon. Lui, con gli amici se ne andrà domani mattina, ha dato una mancia a Helio e mi propone, come segno di ringraziamento, di invitarlo a pranzo per domani. Accetto volentieri. Alle 19,41 ecco l'acqua. Mi butto subito sotto la doccia, m'insapono e l'acqua se ne va, riesco a malapena a risciacquarmi con le ultime gocce. Alle 20.45 esco a pranzare al Todo Tuyo: due sandwich col formaggio, torta di mele e succo d'ananas (12.000 inti). Alle 21.30 ritorno all'hotel. Niente acqua. Per non rischiare di dimenticarmi la camicia mi faccio un appunto bello grande sul diario: LA CAMICIA È FUORI DALLA FINESTRA. Domenica 24 settembre Sveglia alle 8.00 con tempo incerto. Ancora niente acqua. La camicia, nonostante una notte all'aperto, puzza in maniera indecente. Dal terrazzo scatto un paio di panoramiche. Sulle case svetta l'agile sagoma del campanile e, poco distante, incombe il tozzo scheletro di un edificio a più piani, un sinistro parallelepipedo di cemento, sigillato e lasciato incompiuto. Il terreno argilloso stava cedendo sotto l'enorme peso della costruzione. Ancora una volta, anche se la Iquitos di notte certezza di rimanere inascoltati è assoluta, si potrebbe fare la morale sull'inutilità di certe opere dettate dall'arroganza, dalla mania di grandezza e dalla voglia di speculazione. La natura, a modo suo, si vendica. Ore 8.30, colazione con un sandwich al formaggio e uno all'uovo, torta di limone e un succo d'arancia. (12.000 inti). Esce il sole e ne approfitto per scattare qualche fotografia in città e all'interno della chiesa. Mentre sto tranquillamente passeggiando vengo avvicinato da un anziano signore, il quale mi propone un tour avventuroso fin quasi ai confini col Brasile per visitare una particolare tribù di nativi: tempo un mese, costo duemila dollari. Gli spiego che oggi è il mio ultimo giorno in città. Peccato, a parte il costo per me proibitivo, quella proposta mi sembrava interessante. 10 Passo per l'agenzia per salutare Helio e invitarlo a pranzo, ma è occupato con dei turisti così tornerò più tardi. In un bar provo un “refresco de cocona” (1.000 inti) quindi ripasso per l'agenzia. Helio è libero e non ha ancora fatto colazione. Gli offro la colazione nel vicino bar e, siccome l'avevo trovato ottimo, mi faccio portare un altro succo di cocona (6.000 inti). Azulejo Azulejo Helio accetta l'invito a pranzo e mi chiede cosa ho intenzione di fare in mattinata. Penso di visitare Belén; anche se siamo in periodo di magra è sempre un quartiere interessante. Insiste per accompagnarmi perché, dice, può essere un posto pericoloso. Insiste tanto finché, seppur a malincuore, acconsento. La prima cosa che mi colpisce di Belén è l'enorme quantità di banane ammonticchiate un po' su tutti i moli: banane gialle, verdi, grandi oppure minuscole. I grappoli enormi, appoggiati per terra, con i lunghi manico curvi in aria sembrano uno stormo di strani cigni. Non ci sono solo banane: si Lo stesso nel '69. Con l'amico Jorge Barrantes e io vedono cataste di grossi tuberi, mucchi di ananas, ceste di pesci. Belén è anche un grande mercato. E poi le barche, di ogni forma e dimensione, dalle semplici canoe ai barconi a più piani, e le case, tutte rigorosamente in legno, quasi tutte col tetto di foglie intrecciate; case su palafitte, su zatteroni galleggianti o adagiate sbilenche lungo le rive, dove le ha sorprese il ritiro delle acque. Monumento ai caduti della guerra del Pacifico 10 Case strane, ibridi stupefacenti tra abitazione e imbarcazione. E tronchi, sottili, contorti, colossali; servono come scale, passerelle, sostengono le costruzioni, spuntano dall'acqua, fanno le veci di briccole e ponti. Sull'acqua marrone galleggia di tutto. Con quell'acqua la gente prepara da mangiare, si lava, lava, risciacqua, fa il bucato, vi fa il bagno, nuota. Belén Belén Come a Venezia gli unici mezzi di trasporto sono la barca e i piedi. I colori predominanti, il grigio, il verde e il marrone, sono rotti dalle macchie sgargianti dalle vaschette di plastica e dei panni stesi ad asciugare. Su una selva di aste sottili garriscono le bandiere rosse e bianche del Perù. Povertà e patriottismo si mescolano. Tutto questo è Belén. Per 3.000 inti affittiamo una canoa e Helio mi scarrozza tra le case galleggianti. Al ritorno compro un ananas. Con un affilato coltello il venditore me lo sbuccia, lasciandoci un pezzo di manico a mo' di comoda impugnatura. Ottimo e succoso (1.500 inti). Torno all'hotel perché devo lasciare libera la stanza prima di mezzogiorno (10.000 inti). Alle 11.50 esco con Helio alla ricerca di un ristorante. Lascio a lui la scelta. Il Manguare non è certo un ristorante di prima categoria e non si spreca certo con il lusso, anzi, ha un po' l'aria equivoca di posto malfamato. Il mangiare, però, sembra sia eccellente. Ordiniamo una Pilsen e due “paiches con platanos fritos” (pesce con contorno di banane fritte). Arrivano due piatti col paiche sommerso dalle fette di banana fritta, e due generosi pezzi di “camote”, una specie di patata dalla pasta arancione, dolce e molto saporita. Ottimo pranzo: trovo il connubio pesce-banana fritta davvero eccezionale. Il conto è di 25.000 inti. Fuori, intanto, il tempo sta cambiando: nel cielo si sono addensati minacciosi nuvoloni scuri. Alle 12.42 piove. È ora di sganciarmi da Helio. Voglio andarmene in giro un po' per conto mio. L'impresa, però, è tutt'altro che semplice: Helio risulta molto appiccicoso e insiste nel volermi accompagnare dappertutto. Mi viene il sospetto che voglia la mancia. Con la scusa che devo assolutamente andare all'aeroporto, lo saluto, salgo sul primo autobus che passa e scendo a San Juan. All'entrata c'è una bancarella dove una ragazza vende spremute e frutti di “mamey”. Belén Il “mamey” o “pumarosa” è un frutto simile a una mela un po' allungata, la buccia è color rosa carico, quasi fuxia, la polpa bianca ha un sapore gradevole. Per curiosità ne provo uno (500 inti). San Juan è una comunità a pochi chilometri dal centro, una specie di fiera con molti negozi di artigianato locale. Si possono trovare oggetti molto interessanti e, a mio parere, meno paccottiglia 11 per turisti come in centro a Iquitos. Acquisto due maschere in legno di balsa e fibra di palma (50.000 inti) e un buon numero di collane. Ce ne sono di davvero belle: sono fatte con frutti e semi della selva; alcune con denti di chissà quali animali: ne compro un paio con appesi piccoli crani di scimmia. Totale 47.000 inti. Compro pure quattro tartarughine in terracotta da regalare agli amici (8.000 inti) e per 10.000 inti settecentocinquanta grammi di “huairuro”. Sono frutti color rosso acceso con macchie nere, non sono commestibili ma vengono usati come ornamento e portafortuna. Il tempo non migliora, rimane sempre minaccioso. Alle 15.35 m'incammino per l'aeroporto dove arrivo alle 16.05. Scopro che non esiste uno spazio per il deposito bagagli. Per il mio volo è ancora presto, così mi faccio dare un passaggio (gratis) fino a Santo Tomas. Dentro il cassone della camionetta si viaggia accovacciati e sballottati a causa del pessimo stato della strada sterrata. Siamo in più passeggeri e tra questi un ubriaco con la sbornia triste: si qualifica come ex poliziotto e minaccia di farmi arrestare. Non gli faccio caso e scendo a Santo Tomas: è una piccola comunità, le poche capanne si affacciano lungo la via principale e la gente si dedica per lo più all'artigianato. Sta scendendo il buio, faccio un rapido giro e acquisto due “motelos” (tartarughe) di terracotta. Alle 18 m'incammino verso Iquitos, mi sono appena ricordato di aver lasciato la borsetta con i frutti della Artigianato della selva “chambira” nella mia camera. Alle 18.22 arrivo all'hotel: nessuno sa nulla della mia frutta; disgraziati! Di certo se la son mangiata. Esco e prendo un mototaxi e alle 18.54 scendo all'aeroporto (8.000 inti). Al check-in la coda è lunghissima, nell'attesa registro un po' di rumori e la musica di un trio. Alle 19.40 finalmente arriva il mio turno: mi vogliono dare un biglietto per un volo diretto a Lima con Faucett, ma sembra che l'aereo stia ritornando a Lima a causa del cattivo tempo. Attimi di suspence. Alle 19.53 mi confermano il volo 527 con Aeroperu Iquitos-Pucallpa-Lima. Fuori, intanto, è scoppiato un furioso temporale: tuoni, lampi e violenti scrosci di pioggia. Alle 20.08 una voce annuncia che il volo Aeroperu per Lima è annullato: bisognerà presentarsi domani alle 7 del mattino per volare (forse) con Faucett. Faccio fare il trasferimento del biglietto alla nuova compagnia e me ne torno in città col primo bus (450 inti). Provo a chiedere una camera all'hostal Libertad: 20.000 inti sono troppi, così me ne torno al Loreto dove spendo la metà (10.000 inti). In hotel non c'è elettricità, speriamo arrivi presto. Aeroporto di Iquitos Lascio i bagagli ed esco per tentare di telefonare ad Ada per avvertirla del mio ritardo, dovuto alla cancellazione del volo. Percorro tutto il jiron Prospero, imbocco il sargento Lores quando ha luogo un “apagon general”: in tutta la città viene a mancare la corrente. Niente panico, la gente vi è abituata: si accendono candele e lampade a carburo. Riesco a raggiungere un centro telefonico dove compero due “rines” (gettoni del telefono) per 3.000 inti. Mi risponde Robertito Manuel... Solo allora mi rendo conto quanto sia difficile spiegare a un bambino di quattro 11 anni l'urgenza di parlare con un adulto prima che mi finiscano i gettoni, senza provare un fortissimo desiderio di strozzarlo. Finalmente Robertito si decide, faccio appena in tempo a parlare con Alfredo e mi finiscono i gettoni. Cena al Todo Tuyo: un toast al formaggio, un porzione di crostata di mele e una Fanta mi costano 10.500 inti. Alle 22.10 torno all'hotel. Non sono riuscito a lavare la camicia, così, per la seconda notte la lego alla ringhiera della terrazza. Lunedì 25 settembre Sveglia alle 5.30. L'acqua c'è ma mi manca il tempo per lavare la camicia il cui fetore non è affatto diminuito. Mi rassegno a viaggiare a Lima in canottiera. Alle 6.30, in plaza 28 de Julio, salgo sull'autobus e alle 7.02 arrivo all'aeroporto (450 inti). Fuori piove, dentro c'è un gran casino. Non si sa se e quando ci saranno voli. Alle 9.15 mi rilasso prendendo un tè al ristorante dell'aeroporto (2.350 inti). Caro! Intanto avvisano che l'aereo di Faucett non atterrerà a causa del maltempo e se ne sta già tornando a Lima. Alle 11.03 chiamano per il check-in solo i passeggeri che dovevano partire ieri; nella lista ci sono anch'io. Alle 11.16, (oh gioia!) completo il check-in per il volo delle 13.00. Devo pagare le tasse aeroportuali (derechos CORPAC), sono 5 dollari, oppure 26.000 inti. Pago in inti dopodiché vado nell'ufficio Foptur e mi faccio dare alcuni depliant turistici. Alle 12.40 sono sulla terrazza dell'aeroporto quando atterra un quadrimotore della Millon Air. Sarà questo il mio aereo? No, quindici minuti dopo avvertono che il mio aereo deve ancora partire da Lima. Grande malumore tra i passeggeri. Esco e mi siedo su una panchina con vista sulla pista di atterraggio. Seduto accanto a me un giovane in camicia bianca e pantaloni scuri attacca discorso: traffica in droga, casomai avessi bisogno di un po' di coca... Poi chiede se ho modo di procurargli un revolver, meglio se Smith & Wesson, perché a Iquitos sono carissimi, sui 10.000 dollari, m'informa... Ma per chi mi ha preso? penso. Alle 13.52, annunciano un volo extra per Lima, previsto per le ore 15.00. Intanto è uscito il sole. Pranzo al ristorante dell'aeroporto: insalata di frutta (papaya e melone) e un tè (13.400 inti). Sono le 15.04 quando entro in sala d'attesa; un minuto dopo atterra l'aereo. Alle 15.25 sono seduto, cintura allacciata e pronto per il volo. L'aereo rulla sulla pista, una hostess dà il benvenuto a bordo del jet 737 al comando del capitano Alzamora, spiega come utilizzare le varie risorse in caso di emergenza e, dopo qualche secondo, annuncia che siamo costretti a tornare per una non ben specificata manutenzione. Una sonora esclamazione di disappunto accoglie le ultime parole. L'aereo fa dietro front mentre tra i passeggeri circolano le ipotesi più azzardate. Niente di grave, sembra, infatti dopo pochi minuti l'aereo decolla e si libra sopra la fitta selva amazzonica. Alle 14.15 viene servita una porzione di un dolce simile al panettone e un bicchiere di “chicha”. Se si esclude qualche leggero sobbalzo il volo è assai tranquillo; alle 17.13 si atterra a Lima. Pisco: iglesia Matriz Affronto l'uggioso clima della capitale in canottiera; esco dall'aeroporto, salgo sul bus della linea 11 e scendo in plaza Bolognesi (450 inti). A piedi vado all'agenzia Ormeño (av. Carlos Zavala 177). Domani ho intenzione di viaggiare a Pisco. Voglio conoscere il famoso “candelabro” e le isole 11 Ballestas. La partenza è per le 7.30 e il biglietto costa 7.650 inti. Il bus N°2 mi porta lungo l'Arequipa (450 inti); quando scendo proseguo a piedi fino alla casa di Ada e Roberto. Sono le ore 20.30. Bevo un tè, mi faccio la doccia, preparo lo zaino per domani, telefono a Jeanett e alle 22.10 vado a letto. Martedì 26 settembre Sveglia alle 5.55. Colazione con pane, uova e tè. Alfredo mi porta in auto fino all'agenzia Ormeño. Partenza alle 7.50, tempo uggioso. Usciamo da Lima e imbocchiamo la Panamericana Sud. Alle Pisco: chiesa della Compañia de Jesus Pisco: il municipio 9.30 ci fermiamo a Pucusana per il controllo della Guardia Civil. Altra sosta a Bujama per il pagamento del pedaggio. Alle 10.11 arriviamo a Cañete, un'ora dopo passiamo Chincha. Ci fermiamo per fare carburante mentre esce il sole. Alle 11.49 l'autobus, giunto all'alteza di San Clemente, lascia la Panamericana, svolta a destra e alle 11.55 arriva a Pisco. Faccio subito i biglietto per il ritorno a Lima per domani (7.650 inti). Pisco è una cittadina tranquilla, si trova a circa 230 chilometri da Lima e a 4 chilometri dall'oceano. A pochi chilometri in direzione sud si c’è la riserva nazionale di Paracas dove si trovano le necropoli preincaiche. In queste necropoli sono state rinvenute tombe contenenti mummie con ricchi corredi di oggetti d'oro, ceramiche policrome e tessuti di eccezionale qualità. Più o meno a metà strada è stato eretto un monumento a ricordo dello sbarco del generalissimo José de San Martin. Una squadra composta da otto navi al comando di Lord Tomas Cochrane era partita da Valparaiso con 4.500 uomini. Lo sbarco avvenne l'8 settembre 1820, segnando l'inizio della campagna militare contro la Spagna per l'indipendenza del Perù. Il monumento, Pisco: l'hostal Callao celebrato anche in un francobollo messo in occasione del 150° anniversario dell'indipendenza, rappresenta una nave stilizzata, con l'albero rosso e due appuntite vele bianche. Di fronte a Pisco ci sono le isole Ballestas, visitabili in barca. All'agenzia “Turismo Ballestas” (jirón Comercio 166) mi metto in lista per una visita. Il costo è di 20.000 inti, partenza domani mattina alle 7.00. 11 L'hostal Callao ha due piani, si trova in jirón Callao 163 e l'insegna esibisce due stelle. Come la stragrande maggioranza degli edifici del Perù è dipinta solamente la facciata, con un discutibile accostamento di rosa confetto e marrone scuro, mentre le pareti laterali mostrano i nudi mattoni. Una camera, con bagno in comune, costa 6.000 inti. La stanza è piccola e il letto è del tipo “bisogna accontentarsi”. Cimitero a San Clemente Sotto uno splendido sole inizio la visita alla cittadina. Poco traffico e poca gente per le strade. Sulla plaza de Armas si affaccia la “iglesia Matriz”, in stile barocco sorprendentemente semplice e lineare, è dipinta di bianco e, a differenza delle altre cattedrali, è piuttosto Cimitero a San Clemente bassa. A sinistra sorge il palazzo del municipio, assai caratteristico perché in stile moresco, con la facciata dipinta a strisce bianche e azzurre. Dietro sorge la chiesa della Compagnia di Gesù, in stile barocco, dipinta di giallo ocra e bianco, molto bella, purtroppo chiusa. Al centro della plaza de Armas, ampia e ben curata, tra aiuole e alberi fioriti il generalissimo José de San Martin, in sella a un rampante destriero, sembra indicare alle sue truppe, con la mano tesa, la via da prendere. San Clemente San Clemente A parte la plaza de Armas, Pisco non offre molto: lungo le vie dritte e disposte a scacchiera la case sono quasi tutte a un piano e dipinte con tenui colori pastello. Compro quattro banane (1.000 inti) e cinque biglietti della lotteria (5.000 inti). Alle 14.04 salgo su un bus per San Clemente (500 inti). Il mezzo parte dieci minuti dopo, quando ha fatto il pieno di passeggeri, e ci mette quasi venti minuti per percorrere i sei chilometri che separano Pisco dal paesetto sulla Panamericana. San Clemente è un agglomerato di case fatte con mattoni di argilla cotta al sole, tutte a un piano, pochissime intonacate. Le costruzioni di terra si confondono col terreno su cui sono costruite, 11 collinette brulle senza la minima traccia di alberi o erba. Sono costruzioni povere ed essenziali, per la maggior parte senza tetto (nella zona non piove mai), o con una tettoia di paglia intrecciata per riparare dal sole. La polvere è ovunque. Unica nota di colore sono i panni stesi ad asciugare. Lontano, in aperta campagna si potrebbe dire, una sottile linea candida e frastagliata attira la mia attenzione. Mi avvicino: è un cimitero. Le croci dipinte di bianco, che il sole fa risplendere di un bagliore abbacinante, spuntano sbilenche dal terreno sabbioso, color ocra, frammiste ai resti di barattoli ammaccati e schiacciati che ancora contengono fiori ormai secchi, dello stesso colore della ruggine. Sulle croci, dipinto a mano col colore nero, il nome del defunto. É uno strano luogo: si potrebbe pensare sia stato abbandonato da chissà quanto tempo se non fosse per alcune tombe dipinte di fresco, con un bianco accecante e un azzurro intenso. Scatto un bel po' di fotografie: quel cimitero è davvero suggestivo. Alle 16.20 ritorno a Pisco (500 inti per il bus). Nove minuti dopo salgo su un pulmino diretto a San Andrés (350 inti). San Andrés si trova a quattro chilometri, in riva all'oceano e il pulmino ci impiega circa un quarto d'ora per arrivarci. Siamo prossimi al tramonto, la luce si è fatta dorata, San Andrés Ristorantino a San Andrés Penisola di Paracas: il molo di San Andrés Il candelabro di Paracas sulle acque calme dondolano barche e pescherecci. L'aria è satura dell'odore di pesce, il cielo è pieno di uccelli. Molti i ristoranti, ce n'è persino uno che si chiama Topo Gigio! Tutti, ovviamente, offrono piatti a base di pesce. Lascio il paese alle 17.30 (350 inti). A Pisco compro otto banane (2.400 inti), biscotti e cioccolata (12.800 inti). Alle 18.40, allo Snack Bar, concludo la giornata con una crostata di mele e un tè (4.500 inti). Mercoledì 27 settembre Sveglia alle 5.30. Colazione con banane e biscotti. Per strada compero alcuni giornali (6.900 inti) e alle 6.50 salgo sul pulmino dell'agenzia per la visita alle Ballestas. Sul pontile ci son già parecchi 11 turisti, molti italiani. Riesco a sistemarmi in ottima posizione sulla prua del barcone e alle 7.46 si parte. L'oceano è molto tranquillo, pacifico, oserei dire. Costeggiamo la penisola di Paracas, con le sue rocce color ocra a picco sul mare. Gruppi di pellicani ci osservano passare con indifferenza, appollaiati su spuntoni di roccia marrone spruzzati del bianco dei loro escrementi; le Ballestas sono famose anche per questo: per molti decenni sono state importanti miniere di guano. Alle 8.30 siamo in vista del “candelabro”. Adagiato sul fianco di un'altura il candelabro è un geoglifo alto circa 150 metri, largo 50 e profondo 50 centimetri (le effettive misure sono alquanto incerte: alcune pubblicazioni parlano di un'altezza di circa 200 metri per 60 di larghezza e una profondità che varia da 1 fino a oltre 3 metri). Sembra rappresentare un cactus con tre braccia, ma la sua funzione è ancora sconosciuta. Viene messo in relazione con la costellazione della Croce del Sud. Pian piano la forma del candelabro si svela nella sua totalità. Dapprima è solo una linea chiara confusa con la sabbia dorata della collina, poi, man mano che la barca avanza in mare aperto, si distinguono il lungo fusto centrale e i due bracci paralleli uniti alla base da un triangolo. Lungo i bracci spuntano curiose ramificazioni, mentre la cima del fusto termina con un pennacchio molto simile a una corona. Il geoglifo è davvero intrigante e ancora di più lo è il mistero della sua reale funzione. Isole Ballestas Isole Ballestas Isole Ballestas Isole Ballestas Mentre attorno a noi pellicani e cormorani si tuffano per afferrare i pesci, a prua, ancora lontane e avvolte in una leggera foschia appaiono le Ballestas. Sono ancora sagome grigie, affiorano dal blu del mare e si distinguono appena contro l'azzurro del cielo, ma già si possono osservare i contorni frastagliati. La barca si avvicina e i dettagli si fanno più evidenti. Le isole sono spuntoni di pietra tormentati, intagliati dalle onde che hanno scavato profonde caverne e fantastici archi di pietra. Gruppi di uccelli affollano le rocce grigie e marrone: sono gabbiani, pulcinelle, sule, rondini di mare, pinguini, albatri e cormorani o “guanay”, grandi produttori di guano, appunto. Ci sono circa sessanta specie di uccelli, un vero paradiso per gli ornitologi. Per millenni questi uccelli hanno 11 depositato i loro escrementi sulle rocce; strato su strato gli escrementi hanno raggiunto a volte il metro d'altezza e costituito un'importante risorsa economica. “El guano de las islas” era esportato in tutta Europa, usato come fertilizzante. La sua importanza decadde con l'avvento dei fertilizzanti chimici. Inutile ricordare che il lavoro degli estrattori si realizzava in condizioni terribili: l'odore era nauseante e le condizioni igieniche inesistenti. In cielo gli uccelli, soli o a grandi stormi, scrutano il mare in cerca di pesce, quando avvistano la preda chiudono le ali e le piombano addosso come proiettili, sollevando alti spruzzi. Ecco i primi leoni marini: se ne stanno stesi sugli scogli e ci guardano passare con curiosità. Alcuni si tuffano e vengono a osservarci da vicino, nuotando nell'acqua di un incredibile colore verde smeraldo. Il paesaggio è davvero straordinario; le isole più grandi sono circondate da scogli appuntiti, simili a denti di squalo, il loro colore rossiccio contrasta col blu del mare e, sotto il sole, risplende lo strato bianco di escrementi. La barca prosegue col suo giro. Un alto pontile affollato di uccelli si protende sul mare, sicuramente serviva per imbarcare il guano sulle navi. Il barcaiolo dirige la barca verso una spiaggia sassosa letteralmente ricoperta di leoni marini, dove un maschio enorme è attorniato da varie femmine. I loro versi sovrastano il rumore del motore. I turisti si divertono a imitare quei muggiti... sembrano più animali loro che i leoni marini. Scatto foto su foto finché, dannazione! esaurisco i rullini. Alle 11.47 il tour è finito e attracchiamo al molo. Pochi minuti Isole Ballestas dopo il pulmino dell'agenzia mi riporta a Pisco. C'è tempo per un succo di ananas alla “dulceria Tic Toc” (1.700 inti) poi, alle 13.30 parte l'autobus di Ormeño per Lima. Ore 14.13 arrivo a Chincha, ore 14.57 si passa Cañete (1.500 inti per un panino col pollo). Alle 15.45 sosta a Bujama per il pedaggio. Arrivo a Chilca alle 16.07 e alle 16.19 sosta per il controllo della Guardia Civil a Pucusana. Arrivo a Lima alle 17.24. In Ocoñita per cambiare un po' di soldi. La moneta americana è ulteriormente aumentata, adesso il cambio è a 5.620 inti. Per 700 dollari mi danno, quindi, 3.934.000 inti. La lira viene cambiata a 3.40, per cui mi danno altri 340.000 inti. É tempo degli ultimi acquisti: da Arvid Johari, ormai una delle poche gioiellerie rimaste nel jirón de la Unión (Unión 849-851) compero un braccialetto d'oro (incarico di una mia cugina) per 4.270.000 inti (tasse al 15%) comprese). Devo telefonare ad Ada e Roberto; compero 5 gettoni (500 inti) per avvisarli del mio ritorno. In Tacna salgo su un bus fino all'alloggio di Jeanett (450 inti), la quale mi accompagna fino alla casa degli amici. Dopo cena usciamo per recarci a un piano bar dove Alfredo suona la chitarra e canta. Si beve e si brinda con pisco sour. Alfredo canta assieme a un paio di amici e non se la cava poi tanto male. Per finire intonano “Canzone per te” di Sergio Endrigo. Torniamo a casa alle tre. Prima di andare a letto parlo con Roberto il quale mi assicura che mi restituirà i dollari avuti in prestito. Giovedì 28 settembre Sveglia alle 6.00. Alfredo è sparito. Telefono e una segretaria mi comunica che il signor Alfredo è in riunione. Proverò più tardi, ma già ho un netto presentimento di come andrà a finire. Salgo in autobus (450 inti) e scendo in centro. Il dollaro è leggermente aumentato, adesso il cambio è a 5.680. Nel giro di un mese è quasi raddoppiato! La lira, in compenso è stabile. Cambio 500 dollari per 2.840.000 inti e 100.000 lire per 340.000 inti. Inizio la colazione con un “churro” (1.000 inti) e poi nuovamente in gioielleria da Johari per un 11 bracciale per mia cognata (1.962.000 inti) e un anello (495.000 inti). Sempre in Unión, a N° 779, si trova Disco Centro “su cadena musical”, per 34.500 inti compero “El Minero” una cassetta di Savia Andina, gruppo musicale boliviano assai noto. La musica l'avevo ascoltata per radio; non mi ricordavo il titolo, ma ero riuscito a registrarne un brano. Ho dovuto farlo ascoltare un paio di volte ai commessi, finché uno è riuscito a risalire al titolo. Uscito dal Disco Centro proseguo la colazione con un altro “churro” (1.000 inti), poi salgo su un autobus (450 inti) e torno a casa dove Roberto, finalmente, mi restituisce i 400 dollari. Telefono all'amico Cavassa, in Molitalia, per salutarlo e ad Alfredo, sollecitando, se non gli inti, almeno i 200 dollari: giura che me li restituirà quanto prima. Alle 16 torno in centro (450 inti per l'autobus) e cambio i 400 dollari per 2.272.000 inti. Giro per negozi, da Huamanqaqa un tessuto simile a quello visto in aeroporto costa 350.000 inti. Compero da un venditore ambulante una carta geografica del Perù (8.000 inti). Casa Wako si trova in Unión 839 ed è, assieme a Johari e Old Cusco, una delle poche gioiellerie superstiti della via. A differenza di Johari, specializzato solo in gioielli, in casa Wako si possono trovare anche oggetti di antiquariato e artigianato, come i tipici lavori in filigrana d'argento che raffigurano pavoni, pesci e galli da combattimento. Per 550.000 inti compero un anello per una mia zia. In autobus alla casa di Jeanett (450 inti), telefono a Frisancho e ci mettiamo d'accordo per trovarci domani all'aeroporto. Esco con Jeanett e, camminando, raggiungiamo la plaza de Armas. Piazza, Palazzo del Governo e Cattedrale sono tutti illuminati, ne approfitto per scattare le ultime foto. In plaza San Martin, all'angolo dell'Hotel Bolivar, ceniamo con vari panini ripieni con pollo. Pago 1.000 inti, il resto lo offre la mia amica. Da Tacna prendiamo un autobus fino a Orrantia e poi un altro per Salaverry, arrivando così a casa di Ada e Roberto (450 inti). Rimango alzato fino alle 24.45 per preparare zaino e bagagli. Venerdì 29 settembre Ultimo giorno in Perù. Sveglia alle 7.30. Finisco si sistemare lo zaino. Alfredo rinnova il giuramento: nel pomeriggio mi restituirà i dollari. Gli faccio notare che alle 21.30 parte il mio aereo e che devo presentarmi all'aeroporto almeno tre ore prima. Esco e vado a Miraflores (450 inti per l'utobus). Mi rimangono ancora parecchi inti da spendere, ma non ci sono problemi, l'artigianato interessante è tanto e vario; l'unica difficoltà può essere quella di far entrare tutto nei bagagli. Nonostante molti negozi siano ancora chiusi mi aggiro con curiosità tra tappeti multicolori, zucche lavorate, retablos giganteschi, sculture di terracotta, vetrinette piene di farfalle e cascate di collane di semi. Compero un bellissimo “mate burilado” cioè una zucca incisa usando una punta arroventata. L'abile artigiano vi ha raffigurato, con pazienza certosina, un incredibile numero di animali arrampicati o acquattati tra i rami di tre frondosi alberi. Vi si possono riconoscere serpenti, bradipi, scimmie, pappagalli, gufi, farfalle, felini... la popolazione dell'intera selva. Il costo è di 35.000 inti, contrattando un po' si scende a 30.000. In centro a Miraflores, al N° 580 dell'avenida Larco, si trova la libreria “La Familia S.A.” Tra i purtroppo pochi libri d'arte sul Perù, trovo uno splendido volume “Arte textil del Peru”. Il costo è notevole (190.000 inti), ma ne vale la pena. Le bellissime illustrazioni mostrano l'incredibile raffinatezza, creatività, gusto e "Mate burilado" 11 fantasia a cui erano arrivare le varie culture succedutesi in Perù dal 900 avanti Cristo fino all'epoca coloniale. Si passa dai quasi monocromi tessuti chavin alle complicatissime creature fantastiche che popolano le tele paracas, dai mantelli di piume nazca alle severe forme geometriche dei mantelli inca, i cui ripetuti motivi di quadrati, scale e rombi hanno, in più occasioni, suggerito una ancora indecifrabile forma di scrittura. Non posso lasciarmi sfuggire un libro così. Pesa, è voluminoso ma il posto dove ficcarlo lo troverò. Esco col mio acquisto e mi dirigo verso la piazza dove, attorno ai giardini, gli artisti espongono le loro opere. Voglio vedere se riesco a trovare il quadro visto settimane prima, quello con la scena del venditore di cappelli. Purtroppo il pittore è assente. Ritenterò nel primo pomeriggio, ora sono quasi le 11, torno a casa per lasciare un po' di acquisti (450 inti per il bus). Ada mi comunica che Alfredo ha telefonato un paio di volte. Esco in cerca di una cabina da cui richiamare l'Alfredo: non posso farlo da casa perché, non avendo pagato le ultime bollette, è stato sospeso il servizio e le telefonate si possono solo ricevere. Trovo la cabina, chiamo, ma Alfredo non c'è. Torno a Miraflores. Al mercato artigianale i negozi son tutti aperti. Compero una gonna ricamata per mia cognata (75.000 inti) e, spulciando dentro un polveroso scatolone, ho la sorpresa di scoprire degli oggetti davvero interessanti: si tratta di “tupu” e “illa”. I tupu sono fermagli usati per fissare il poncio. Sono dei lunghi spilloni con la parte superiore assai elaborata: vi sono riprodotti animali, pannocchie, fiori, pavoni, soli. Alcuni sono impreziositi da pietre dure incastonate e da piccoli oggetti appesi a sottili catenelle come pesci snodabili, suppellettili da cucina, piatti, vassoi, colombe; questi ultimi vengono regalati dai padrini agli sposi, in segno di buon auspicio. Di solito i tupu si ottengono fondendo Un “tupu” vecchie monete. La “illa” è un talismano, una piccola scultura generalmente di alabastro; raffigura un animale, una pecora, un montone o una mucca. La “illa mayor” è una figura molto più complessa: rappresenta la casa o la fattoria del proprietario circondata da animali domestici. Questi amuleti servono a dare prosperità e per difendere il bestiame dalle malattie, dalla siccità, dai fulmini, dai ladri di bestiame e dalle volpi. Vengono usati anche per il “pago a la tierra”, cioè in segno di ringraziamento alla terra per ottenere fortuna e raccolti abbondanti; in questo caso la illa si La “illa mayor” prepara con altri elementi come caramelle, riso, zucchero, ecc. Per la cerimonia viene chiamato uno sciamano. A seconda delle necessità l'amuleto viene sotterrato vicino 11 a una sorgete (dove si abbevera il bestiame), nelle fattorie o sotto l'uscio di casa. La illa mayor che compero è molto bella, è in pietra chiara e misura circa dodici centimetri per sette. Mostra quattro case disposte a quadrato con un pozzo al centro. Sui lati minori sono disposte due file di animali, tra di essi si distinguono una coppia di tori o buoi, con la coda arricciata sul dorso, due cavalli o muli con la sella, un caprone con le corna, tre pecore accanto a un agnellino e altre due coppie di animali difficilmente identificabili, forse lama. Su un lato maggiore, dietro ad una casa, sono rappresentati due personaggi seduti, mentre sull'altro lato un animale accucciato, forse un cane, e quello che sembra il tronco di un albero. Tra la illa e vari tupu spendo158.000 inti. Alle 12.30, mentre un timido sole fa capolino tra il monotono grigiore del cielo, mi reco al centro telefonico in plaza San Martin per telefonare a casa. Purtroppo non ci sono cabine disponibili. Vado a casa di Jeanett la quale mi accompagna da Annie, moglie di suo fratello Julio; da qui riesco a telefonare a casa e avvisare i miei del mio prossimo ritorno. Telefono ancora una volta ad Alfredo, stavolta mi risponde: si dice profondamente dispiaciuto e pieno di vergogna per non potermi restituire i soldi, vorrebbe persino sprofondare sotto terra, mi assicura, cospargersi il capo di cenere, fare un'orribile e prolungata penitenza... Niente da fare anche per le videocassette su cui doveva registrarmi i programmi TV: le ha rivendute! Julio è avvocato, Annie mi suggerisce di fare una denuncia per furto contro Alfredo: può passare guai molto seri. Lascio perdere, so come funziona la giustizia, sarebbe solo tempo (e denaro) perso. E poi Ada è mia amica, sono stato suo ospite e non mi sembra proprio il caso di rovinare un'amicizia per soldi. Sono comunque arrabbiato, ma ormai è tardi per recriminare. Mi consolo mangiando un dolcissimo “alfajor” e tornando a Miraflores. Il pittore adesso c'è. Cominciano le contrattazioni per il quadro. Alla fine me lo vende per 350.000 inti, più la mia giacca a vento e un paio di scarpe da ginnastica. Sembra soddisfatto tanto da regalarmi una scatola con dentro una tarantola imbalsamata. Arrotolo bene la tela e me ne vado soddisfatto anch'io. All'angolo dell'avenida Larco 291-299 con Esperanza c'è la Libreria Minerva, per 9.000 inti compero il “documental” su Cusco. In taxi fino al centro di Lima (8.000 inti). Compero un ciondolo d'oro che riproduce il sole in stile inca (1.000.000 di inti). La libreria Studium S.A. si trova in plaza Francia 1164, qui acquisto due libretti sulla storia del Perù: Perú colonial e Perú prehispanico (5.000 inti cada uno). Compro pure il libro “Así es la selva”. Costa 68.000 Il bel dipinto acquistato a Miraflores. Purtroppo non è noto inti ed è un corposo volume cartonato, edito il nome dell'autore dal Centro de Estudios Teologicos de la Amazonia. Belle fotografie, molte notizie utili e curiose su flora e fauna e, alla fine, un breve vocabolario delle diverse etnie. Per esempio, volete sapere come si dice dieci in lingua guarani? Si dice mocoipó, facile, vero? Però provateci in conibo: si dice nunmuebuetzaquenqui! E non è facile nemmeno in aguaruna, visto che si dice uwijá mai amwá. In un negozio della Colmena due “quenas” (flauti) da regalare agli amici mi costano 70.000 inti e una maschera riproducente quelle funerarie della cultura Chimu 7.000. Ormai si sta facendo tardi. Alle 17.45 un taxi mi lascia sulla porta di casa (8.000 inti). Il tempo di 12 sistemare gli ultimi acquisti e alle 18.00 telefona Jeanett per salutarmi. Con mio grande disappunto in casa è rimasto solo Robertito Manuel. Ada, Roberto, Roxana, Alfredo... tutti si sono eclissati. Paura? Vergogna? Impegni improvvisi? Certo ci rimango molto male per non potermi accomiatare dagli amici. Alle 18.20 esco in strada alla ricerca di un taxi. Carico i bagagli, saluto per l'ultima volta Robertito e via, col groppo in gola. Alle 19.40 arrivo all'aeroporto, il taxi mi costa 40.000 inti. Consegno i bagagli e pago le tasse aeroportuali (86.000 inti, l'equivalente di 15 dollari). Trovo ad aspettarmi gli amici dell'ex Foto Cine Club Peruano: Augusto Frisancho, Miguel Picco ed Eduardo Regal. Mi invitano a cena al ristorante dell'aeroporto: “chorizo” con patate fritte e insalata. Parliamo dei vecchi tempi, di fotografia; ricordiamo emozionati la figura di Victor Chambi, figlio del famoso Martin Chambi. Victor, persona squisita e sempre disponibile, è stato presidente del Foto Club, e grande amico. Alle 21 prima chiamata per i passeggeri di Canadian Pacific. Mi congedo e passo il controllo a raggi X. Il bagaglio a mano risulta essere troppo ingombrante e pesante (tra libri e statue di pietra va ben oltre il consentito). Ci appiccicano sopra una bella etichetta rossa con l'immagine di un bicchiere e la scritta “FRAGILE” e lo sistemano in un apposito spazio. Speriamo di non trovare cocci. I controlli si spostano sul tubo dove custodisco mappe e dipinto: si verifica che non esporti opere di valore, ma tutto è in regola. Girando per i duty-free compero due bottiglie di “pisco” (48.000 inti). Ore 21.20, seduto sul sedile 34/a (finestrino) del trimotore DC-10 mi preparo a salutare il Perù. Alle 21.34 l'aereo si muove e alle 21.50 già si allontana sotto di me la vasta ragnatela luminosa di Lima. Alle 23.15 si cena: due toast, il primo con insalatina, tacchino, fettina d'arancia e uva, il secondo con prosciutto, insalata, asparago e fettina di peperone. Segue una pastina al cioccolato e marmellata di fichi e, da bere, un succo d'arancia. Finita la cena, assai leggera in verità, parte il film “Tre uomini in fuga”; già visto, ma si ride. Sabato 30 settembre Ore 3.30. Sorvoliamo Miami. Lo spettacolo è fantastico: l'enorme distesa di luci filtra tra le nuvole illuminandole dal basso con effetti fantasmagorici. Sembra di assistere a innumerevoli tramonti tropicali. Davvero una vista indimenticabile, peccato non avere una cinepresa. Alle 4.00 viene servita la colazione (?): salsiccia con omelette e funghi, pane, burro, marmellata, insalata di frutta (papaya, ananas, uva e mezza fragola), tè con latte. É la volta della burocrazia: bisogna compilare un modulo in cui si dichiara l'eventuale possesso di armi o specie vegetali. Aeroporto di Toronto Aeroporto di Toronto Alle 5.45 atterriamo a Toronto. In attesa di sapere da quale porta parte la mia coincidenza (c'è tempo: l'aereo per Malpensa parte alle 17.30) giro un po' per l'aeroporto, salgo su un ascensore a 12 caso e mi ritrovo sulla terrazza di un parcheggio. Ne approfitto per dare un'occhiata attorno. Dall'alto lo sguardo abbarca l'intero aeroporto. Il sole è sorto da poco e illumina con luce radente gli aerei parcheggiati e i lontani grattacieli. Aeroporto di Toronto Toronto all'alba Ora locale 8.40: passo il tempo gironzolando per i negozi del duty-free. Per 18 dollari compero due mappe della città di Toronto. Alle 10.40 con 4.40 dollari acquisto un po' di biscotti in un distributore automatico e dieci minuti dopo passo i controlli e mi accomodo in sala d'attesa. Mi viene sete: i distributori automatici sembrano forniti solo di Coca Cola e Pepsi. Mi fan schifo tutte e due, ma la sete è tanta e la carne è debole: spendo un dollaro per una lattina di Coca... riesco a berne metà e butto via il resto. Un dollaro e sessata mi costa il sacchettino di pop-corn da sgranocchiare tanto per ingannare l'ancora lunga attesa. Scrivo un po' nel diario e alle 14.40 raggiungo la sala M. Un'ora dopo salgo sul Boeig 767 (sedile 26/G). Si decolla alle 17.58. Tempo previsto per l'arrivo ad Amsterdam: sei ore. Alle 18,38 servono un dissetante succo d'arancia e alle 19.30 la cena: pollo con mais, fagiolini e riso, insalata di carote, cetrioli e sedano, cremino con ananas, due piccoli toast con formaggio, pane, burro, vasetto di latte, un vasetto con una salsina per condire l'insalata, acqua e tè. Alle 23.08, mentre sugli schermi scorre un film noioso di cui ho rimosso titolo e trama, portano un succo d'arancia a cui segue una brioche, una pastina, macedonia e caffè. Il film termina alle 23.35 Domenica 31 ottobre Alle 0.32 (ora locale 5.30) atterriamo ad Amsterdam. S'imbarcano i passeggeri per Malpensa e alle 6.22 decolliamo. La durata del volo prevista è di un'ora e sedici minuti. Alle 7.40 arriva la colazione. Sorvoliamo le Alpi innevate e illuminate dal sole. Siamo già in Italia. Alle 8.30 atterriamo a Malpensa. Il 1989 è stato un anno di grandi eventi e cambiamenti. Il 9 novembre, dopo quasi trent'anni, viene abbattuto il muro di Berlino, simbolo dell'imbecillità umana e di tutti quei politici e militari idioti, convinti di risolvere i problemi Sorvolando le Alpi costruendo muri. Mikhail Gorbaciov è proclamato uomo del decennio dal Time, che gli dedica una copertina. Il Nobel per la pace viene dato a Tenzin Gyatso, il 14° Dalai Lama. Salman Rushdie pubblica “I versetti satanici”; il libro fa incazzare l'ayatollah Khomeini il quale decreta la morte dello scrittore. Ironia della sorte, sarà Khomeini a 12 morire poco dopo: da ciò ognuno tragga gli insegnamenti che crede. In gennaio muore Hiroito, l'imperatore del Giappone, uno dei tre grandi scemi al potere che, con Hitler e Mussolini, scatenò la seconda guerra mondiale. In Romania, nel mese di dicembre, scoppia la rivoluzione: stanchi della tirannia i romeni giustiziano Ceausescu e la moglie. Altra rivoluzione in Cina: nella piazza Tien An Men gli studenti osano chiedere libertà, il governo risponde inviando i carri armati e massacrando qualche migliaio di persone. Nell'aldilà Mao avrà approvato o si sarà rivoltato nella tomba? La morale? la libertà è un diritto inalienabile, basta non pretenderla. La petroliera Exxon Valdez perde 250.000 barili di greggio e causa una strage ambientale in Alaska. Non è la prima e non sarà l'ultima. Abbiamo bisogno del petrolio, quindi, ogni tanto, qualche disastro lo possiamo pure tollerare. L'importante è che accada sempre lontano da noi, sulle coste degli altri. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” si becca quattro Oscar; esce “Indiana Jones e l'ultima crociata”. La signorina Eleonora Benfatto è eletta Miss Italia, seconda si classifica Anna Falchi; a Hong Kong la biondissima polacca Aneta Beata Kreglicka è incoronata Miss Mondo. A dicembre la rivista Max inaugura la stagione dei calendari sexy: le fotografie sono del grande Helmut Newton. La canzone “Ti lascerò”, cantata dalla coppia Fausto Leali e Anna Oxa, vince la trentanovesima edizione del festival di Sanremo. 12