1989
Quattro anni erano passati dal primo viaggio come turista in Perù, e durante questo periodo la
voglia di tornarci era cresciuta a ritmo esponenziale. Era ora, quindi, di tornarci.
La guida Perù-Bolivia, SUGARCo Se Edizioni, mi costò quattordicimila lire. Non avevo definito
alcun itinerario, smarrito dalla quantità di luoghi che mi sarebbero piaciuti visitare e costretto,
ovviamente, a fare una scelta limitata al mese di permanenza. La guida, pensavo, mi avrebbe aiutato
a chiarire le idee. Iniziai a sfogliarla in maniera metodica. A pagina 144 ebbi l'illuminazione.
Riporto testualmente: “Da Juanjui, che è una piccola cittadina coloniale, si può organizzare una
spedizione verso le rovine del Gran Pajaten: una giornata in battello e due giorni di marcia nella
foresta. Queste rovine sono eccezionali: scoperte recentemente in piena foresta, furono costruite
prima della dominazione incaica nelle Ande. Le costruzioni, di forma circolare, sono molto originali
e sulle pietre dei muri sono rappresentate spesso figure umane ornate di piume e condor.”
Chi ha scritto questo ignorava molte cose e, sicuramente, al Gran Pajaten non c'era mai stato, ma
quello che a me importava era la notizia: si poteva arrivare alla città perduta di Gran Pajaten.
Per capire meglio si rende necessario fare un salto indietro nel tempo.
Correva l'anno 1972. Nel distretto di San Miguel si teneva la “Feria del Pacifico”, importante
evento a cui partecipavano molti paesi dell'America Latina. C'erano mostre, convegni, esposizioni
artigianali, spettacoli: uno di questi era l'opera rock Judascristo. Scritta dal padre Manuel Duato
Gomez-Novella, conosciuto come “Padre Quitapenas”, era interpretata da Elena Cortez, cantante,
attrice e ballerina, famosa in TV per lo “Show de Elena”. L'opera mi piaceva molto, c'era buona
musica, belle coreografie, belle ragazze e, soprattutto, la bellissima Elena.
Susy Fuentes, fiera del Pacifico 1972
Io con Minolta e Mamiya, Elena Cortez nel ruolo di Maria
redazione del CORREO, 17 marzo Maddalena,
nell’opera
rock
1973
Judascristo
Ci andavo spesso e gratis: “prensa” (stampa) era la parola magica: mi spacciavo per giornalista e
non pagavo il biglietto. Scattai molte foto (per la cronaca: usavo la mitica Kodak TRI-X tirata a
3.200 ASA e sviluppata per quindici minuti in D-76). Elena vide le foto e le piacquero. Divenni
quasi il suo fotografo ufficiale.
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Mi presentò alla redazione del Correo, un quotidiano la cui sede si trovava al N° 1249 dell'avenida
Wilson, a due passi da dove abitavo. Il 25 marzo 1973, su Suceso, il supplemento domenicale,
venne pubblicata una doppia pagina centrale “a todo color” con una mia intervista, accompagnata
da una dozzina di foto, più un trafiletto con un'immagine in bianco e nero di Elena. Visitai un bel
po' di edicole per fare incetta di supplementi da mostrare con orgoglio ad amici e parenti. Tra le
fotografie pubblicate ce n'era una di mio fratello scambiato per “un indio che suona la quena al
tramonto” e una di Susy, la mia amichetta di allora, ritratta tra le rocce de La Chira, splendida
spiaggia a sud di Lima.
Con l'illusione di entrare al Correo come reporter spesi una cifra spropositata per acquistare una
Mamiya C330, una 6x6 biottica con obiettivo intercambiabile. Con giovanile entusiasmo, in attesa
della tanto agognata assunzione, frequentavo assiduamente la redazione. Durante una di queste
visite assistetti a un inconsueto evento.
È necessario fare un ulteriore, piccolo, passo indietro: alcune settimane prima, sul supplemento
domenicale, era uscito un articolo in cui si parlava di una spedizione alla città perduta di Gran
Pajaten. Si metteva in evidenza l'importanza del sito archeologico, si faceva un po' di storia della
scoperta e si parlava delle difficoltà incontrate dalla spedizione per arrivare sul luogo: una lunga
camminata tra le Ande, torrenti da guadare, sentiero nella selva da aprire a colpi di machete. Il
servizio era corredato da parecchie fotografie.
Ritorniamo alla redazione del Correo: quel giorno, seduti sul pavimento assieme a un giornalista,
c'erano due partecipanti alla spedizione. Avevano dispiegato una grande mappa e stavano
rimarcando una delle tante complicazioni incontrate: i rilievi effettuati da una spedizione anteriore
erano sbagliati: la città perduta si trovava a circa quaranta chilometri dal punto precedentemente
segnalato. Un aereo aveva dovuto girare in cerchio per ore fino a dare col luogo esatto dov'era finita
la loro spedizione!
Una città perduta! Un sogno! Quanto mi sarebbe piaciuto visitarla! Attraversare le Ande, guadare
torrenti, aprirmi il passo a colpi di machete fino a contemplare i misteriosi edifici che facevano
capolino tra la fitta vegetazione!
Tutto finì lì. Pochi mesi più tardi facevo le valigie e, assieme ai miei, tornavo in Italia. Il sogno,
comunque, era rimasto latente e la guida, quel giorno del '89, l'aveva risvegliato. Decisi: la città
perduta di Gran Pajaten sarebbe stata la mia meta!
C'erano da risolvere, però, alcuni problemi: come arrivarci? Quanto tempo sarebbe stato
necessario? E poi il periodo era assai delicato: Sendero Luminoso e l'MRTA insanguinavano il
paese con attentati e continui attacchi. Che situazione avrei trovato sul posto?
Cominciai a organizzarmi.
Fonte preziosa fu il N° 22 della “Enciclopedia Nacional Basica” dedicata alla regione di San
Martin dove, tra fotografie impaginate capovolte e grossolani errori, molto spazio era dedicato alla
città perduta. Lessi avidamente, specialmente la parte riguardante la spedizione denominata Rupa
Rupa/80 organizzata dalla fondazione Ligabue. Il libro “Antisuyo ultimo sogno Inca”, edito da
Erizzo, costò ottantamila lire. Non poco, ma il libro li valeva. C'erano molte fotografie e,
soprattutto, un'ampia documentazione circa la spedizione Rupa Rupa/80. In pratica, però, non
apportava niente di nuovo a quanto già letto sull'Enciclopedia Basica.
Il 4 gennaio, sul Mattino di Padova, venne pubblicato un articoletto il cui titolo diceva: Inflazione
record in Perù, millesettecentoventidue per cento nel 1988.
Il 20 gennaio acquistai duemila dollari: a milletrecentosettantatrè lire il totale fu di due milioni
settecentoquarantasettemila lire.
Il 5 maggio andai all'agenzia viaggi per sondare costi e date. Ci ritornai l'8 e il 9 per confermare. Il
12 versai trecentomila lire come anticipo sul biglietto. La partenza venne fissate per il 10 agosto da
Malpensa, con la compagnia Canadian Pacific. L'arrivo a Lima era previsto per l'11. Da Lima sarei
ripartito il 22 settembre e arrivato a Milano il 24.
Il 18 scoprii di essere in lista d'attesa. Il volo era pieno fino a Toronto. Il 25, con mia grande
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soddisfazione, l'agenzia mi confermò il volo. Sarei partito!
Alcuni giorni dopo un articolo sul giornale attirò la mia attenzione: l'8 giugno, alle 21.30, a
Padova, nel locale della caffetteria Intimo, si sarebbe tenuta una proiezione di diapositive dal titolo:
“Lo sviluppo delle civiltà precolombiane in Perù”. Sarebbe intervenuto l'archeologo Yuri Cavero
Palomino. Quale miglior occasione per avere informazioni? La proiezione era dedicata ai lavori in
corso nella zona archeologica di Cahuachi. Al termine abbordai l'archeologo e gli esposi il mio
progetto. « Vai pure, non ci sono problemi » mi rispose. « La zona è tranquilla. »
Tornai a casa tutto contento. Se l'aveva detto uno del mestiere...
Il 30 giugno un cliente della ditta in cui lavoravo mi regalò un paio di scarponi della Asolo, color
grigio topo, bellissimi, assolutamente adatti ai cammini che immaginavo di dover percorrere.
Cominciai ad attrezzarmi: picchetti in plastica, più leggeri, per sostituire quelli in metallo. Un
materassino gonfiabile (era
ancora ben vivo nella mia
memoria
quanto
fosse
scomodo dormire sulla nuda
terra), rullini fotografici, un
piccolo registratore, spray
impermeabilizzante per la
tenda (poteva piovere durante
la spedizione), regali per gli
amici, medicine, ecc. ecc. Mi
premunii per tempo di avvisare
gli amici Ada e Robero
Naranjo del mio arrivo.
Il 10 luglio saldai il conto del
biglietto aereo: un milione
duecentocinquantamila
lire.
ventiquattromila lire mi costò
il bollo sul passaporto.
Il 29 luglio telefonai alla Fondazione Ligabue nella speranza di avere informazioni dettagliate, ma
mi fu risposto che il signor Ligabue era partito per una spedizione in Asia.
Il 7 agosto l'agenzia mi consegnò il biglietto. Lo zaino era pronto, potevo partire.
Giovedì 10 agosto
Sveglia poco dopo le 5 del mattino. Veloce colazione e in macchina, accompagnato da mio
fratello, fino alla stazione di Padova. duecento lire per pesare lo zaino: sono circa 24 chili, speriamo
non mi facciano pagare l'eccesso di peso! Faccio il biglietto per Milano: tredicimilaquattrocento lire
più quattromilacento per il supplemento rapido. Il treno parte e arriva in orario. Gli autobus per
Malpensa partono di fianco alla stazione centrale, il biglietto costa settemila lire, c'è un po' di ressa
per caricare i bagagli. Lungo la strada troviamo coda, l'autobus procede a passo d'uomo; nonostante
tutto arriviamo in tempo. Al check-in lo zaino pesa 24,9 chili ma non mi fanno alcun problema, le
formalità sono minime e veloci, mi accomodo all'interno del Boeing 767.
Alle 13,57 l'aereo rulla sulla pista e alle 14.03 si libra sopra la pianura. È previsto un volo di nove
ore a una quota di 10.500 metri e alla velocità di 800 k/h. Sorvoleremo Parigi, Glasgow e la
Groenlandia. Attraverseremo l'oceano Atlantico, poi passeremo sopra il Labrador e la città di
Ottawa. Alle 14.54 viene servita un'aranciata e alle 15.25 arriva il pranzo: tagliatelle, carne,
fagiolini, insalata con cetrioli, pomodori, uovo e olive. Non mancano pane, burro, un formaggino
Bel Paese e, per finire, una mousse al cioccolato. Un po' di vino e mi sento a posto.
Sono le 16.41: si accendono gli schermi e parte la pubblicità per la merce acquistabile presso il
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duty free shop dell'aereo. Dopo la pubblicità inizia il film: “Chi ha incastrato Roger Rabbit” in
versione inglese e francese. Il film finisce alle 19.13. Alle 20.06 le hostess consegnano un modulo
da compilare per la dogana canadese. Sotto di noi si estende l'Atlantico: guardando fuori dal
finestrino avvisto alcuni iceberg, briciole bianche sulla superficie blu scuro dell'oceano.
Sono le ore 20.55, mancano ancora due ore all'arrivo e viene servita la colazione: un panino con
formaggio, uno con prosciutto e fettina di pomodoro, una pastina e una tazza di te.
Atterriamo a Toronto alle 21.05 (17.05 ora locale). Lunga fila all'immigrazione e per il bagaglio,
più di un'ora e mezza! Aspettando la coincidenza per Lima vado su e giù per l'aeroporto, poi, dopo
minuziosi controlli della sicurezza, alle 19.16 mi accomodo in sala d'attesa per il volo delle 23.30.
Alle 23.35 m'imbarco sul DC 10.
Venerdì 11 agosto
Ore 00.9, l'aereo rulla sulla pista e alle 00.18 decolla. La durata del volo prevista è di sette ore e
quarantacinque minuti, si volerà a una quota di 10.000 metri. All'una servono la cena: petto di pollo
con insalata, uova e pomodoro ripieno con gamberetti, pane, burro, macedonia, una pastina e succo
d'arancia. Meglio di così... Si accendono gli schermi: pubblicità e, ancora, “Chi ha incastrato Roger
Rabbit”. Data l'ora la proiezione ha poco seguito. Non è il solo motivo. Ho già detto che la
situazione del Perù è piuttosto tragica. I fanatici di Sendero Luminoso si sono proposti di eliminare
il turismo dal paese in modo da chiudere una notevole fonte di entrate. E sembra ci siano riusciti:
nell'aereo siamo in dodici e io sono l'unico turista!
Sorvolado il Perù all'alba
Le cime delle Ande sbucano dalle nuvole
Sveglia alle 6.05. Passano le hostess portando una salviettina rinfrescante e la colazione: pane,
burro, marmellata, pomodoro, involtino di prosciutto, porzione di qualcosa che assomiglia al riso,
macedonia di anguria e melone, te con latte. Il volo prosegue tranquillo. É l'alba. Il cielo violetto
s'illumina d'oro quando spunta il sole. Sotto, da una coltre di nubi compatta e candida, spuntano le
cime scure delle Ande. L'aereo si abbassa e s'immerge nelle nuvole. Il cielo chiaro dell'alba
sparisce. Fuori c'è un nulla grigio, sembra di essere immobili. L'aereo scende e, lentamente, il
grigiore si dissolve. S'intravvedono, fugacemente, pezzi di costa sabbiosa e, a tratti, un mare cenere
solcato dalle lunghe scie delle onde. Uno scossone segnala l'uscita del carrello. Ora, sotto di noi,
sfilano baracche color della terra, rettangoli verde spento dei campi, lunghe strade semideserte.
Improvvisamente eccoci sulla pista d'atterraggio: di lato si scorgono elicotteri e aerei militari, lunghi
edifici, cisterne di carburante. Le ruote stridono al toccare terra, i motori frenano, l'aereo rallenta la
corsa. Siamo atterrati. Il mio orologio segna le 7.30. Difficile descrivere cosa provo: come la volta
precedente ho la sensazione di essere tornato a casa.
La coda all'immigrazione è lunga, ci sono i passeggeri di altri voli; in compenso la dogana è
inesistente. Nell'enorme salone affollato mi aspetta Jeanett. Di Roberto nessuna traccia. Non mi
preoccupo più di tanto: la puntualità non è certo il punto forte dei peruviani. Ne approfitto per
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cambiare 30 dollari. È sparito il “sol de oro”, ora, c'è l'inti (sole, in kechua). Cambio lo stretto
necessario perché il cambio ufficiale è sempre più basso rispetto al nero... la cosa curiosa è che il
nero è ufficiale, con tanto di quotazione sui giornali e in TV. Il cambio è di 1 dollaro per 3.200 inti),
per i 30 dollari mi danno, quindi, 96.000 inti. Devo prendere confidenza con le nuove banconote: su
quella da 10 inti, con fondo rosso, giallo e blu è stampata la faccia dello scrittore Ricardo Palma,
autore de “Las tradiciones peruanas. Non ho mai letto quei libri ma, prima o poi dovrò
assolutamente farlo. La banconota da 50 Inti, di color arancione, è dedicata a Nicolas de Pierola,
due volte Presidente del Perù. Il ritratto del Gran Mariscal Ramon Castilla, pure lui Presidente del
Perù per due volte, appare invece sulla banconota marroncina da 100 inti. Il viso spigoloso di indio
di José Gabriel Condorcanqui Tupac Amaru, eroe della ribellione contro gli spagnoli, è inciso sulla
banconota da 500 inti. Il maresciallo Andres Avelino Caceres, organizzatore della resistenza
peruviana nelle Ande e terrore delle truppe cilene, guarda pensoso dalla banconota da 1.000 inti. I
5.000 inti celebrano l'ammiraglio Miguel Grau, eroe della guerra del Pacifico. Non è finita qui.
L'inflazione galoppante rende necessarie banconote di taglio maggiore. Sui 10.000 inti c'è il volto
del poeta Cesar Vallejo, quella da 50.000 mostra il viso del fondatore del'APRA (Alianza Popular
Revolucionaria Americana) Victor Raul Haya de la Torre. A Francisco Bolognesi, celebre per la
frase “Lucharemos hasta quemar el ultimo cartucho” pronunciata davanti al generale cileno che,
durante la battaglia di Arica, gli intimava di arrendersi, è dedicata la banconota da 100.000 inti.
Ancora Ricardo Palma sulla banconota da 500.000. Infine, su quella color vinaccia da 1.000.000 di
inti, il volto triangolare del medico Hipolito Hunanue. Undici banconote in totale, poi le monete da
5 e un inti e quelle dei centesimi!
Hostal Renacimiento
Lima: la Colmena (a dx) e la Wilson (a sx)
Tetti di Lima
Lima: la Colmena e la piazza S. Martin
Di Roberto ancora nemmeno l'ombra. Comincio a preoccuparmi. All'improvviso mi chiamano
dall'altoparlante. È Ada, una delle sorelle di Roberto. Mi precipito al banco del telefono ma la linea
è caduta. Ada ha lasciato un numero, ma non riesco a richiamarla. Con Jeanett lascio l'aeroporto.
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Il taxi mi costa 15.000 inti; il tassista mi porta fino all'Hostal Renacimiento (Parque Hernan
Velarde 52-54), da lui stesso consigliato per la qualità e, mi assicura, i prezzi. In effetti l'hostal non è
niente male. È un edificio grigio, di due piani, a pianta un po' a mezza luna; lo stile è quello dei
primi del '900. Grande portone ad arco, finestroni abbelliti da frontoni al piano terra, finestre con
arco a tutto sesto al primo piano e terrazzino centrale con bifora. Giardino piccolo ma curato. Sotto
le finestre del piano terra ci sono aiuole con rose e gerani. Un albero di papaya dal tronco sottile e la
chioma di grandi foglie verde scuro svetta fino al primo piano. Siamo in una zona molto tranquilla,
a due isolati dall'avenida Arequipa, a uno dalla 28 de Julio. Camminando bastano dieci minuti per
arrivare alla Plaza de Armas. La camera è luminosa e il letto sembra promettente, ma Jeanett fa
cambiare subito le lenzuola. Esco assieme a lei. Il tempo è quello caratteristico di Lima: uggioso.
Cielo grigio, nebbiolina, umidità alle stelle, aria satura di gas di scarico. Andiamo al teatro Segura, a
trovare suo fratello Pepe, il quale ci consiglia di passare una serata in un locale caratteristico dove si
mangia “criollo” e ci sono spettacoli di danze popolari: il “Piqueo Trujillano”. Salutiamo Pepe e
andiamo a pranzo alla Confiteria d'Onofrio (Pasaje Olaya 145). Mentre mangiamo ci accorgiamo di
essere attentamente osservati da un paio di bambini: col naso schiacciato alla finestra non si
perdono un boccone di quanto mettiamo in bocca. Jeanett si impietosisce e allunga loro la bistecca;
io faccio altrettanto, giusto in tempo prima che un cameriere li cacci via; siamo in vista della Plaza
de Armas, in fondo c'è il palazzo del Governo e a destra la Cattedrale. Il conto è di 29.850 inti.
Finito il pranzo andiamo a fare visita al signor Rabino, dopodiché prendo un micro per l'Instituto
Geografico Nacional (av. Aramburu 1190-1198). Voglio procurarmi la cartografia della zona del
Pajaten, di Lima e di Cusco. Il micro costa 1.400 inti e, purtroppo, arrivo tardi: l'istituto chiude alle
16.30.
Lima: al fondo il cerro San Cristobal
Lima: plaza San Martin
Lima di notte:, l'avenida Tacna
L'avenida Wilson o Garcilaso de la Vega
Alla sera, con Jeanett, ceno al Kachito's (av. Garcilaso de la Vega 1314). La cena costa 14.800 inti.
Stiamo tornando a piedi all'hostal quando incrociamo Lucho, un suo secondo fratello, il quale abita
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lì vicino e c'invita a casa sua per un “cortado”, una miscela di pisco e coca-cola.
Sabato 12 agosto
Sveglia alle 8 e sostanziosa colazione con burro, marmellata, uovo, succo di papaya e quattro fette
di pane tostato. Pago 30.400 inti. Il conto del pernottamento è di 30 dollari, che fanno la bellezza di
96.000 inti. Caspita, mica poco! Per i prossimi pernottamenti urge meno lusso!
Alle 11.05 arrivano Roberto, Ada e il suo compagno Alfredo. Chiacchieriamo un po' e alle 12.35
Roberto mi lascia davanti al teatro La Cabaña dove mi attende Jeanett. Con lei, verso le 13, sono a
pranzo dal signor Rabino.
Entro, dopo circa sedici anni, nell'edificio dove vivevo. Più grigio, più brutto e sporco. Grafiti
dentro l'ascensore, intonaci scrostati. Dalla finestra del diciannovesimo piano scatto alcune
panoramiche di Lima. Vista dall'alto la città ha un aspetto assai particolare. I tetti piatti, grigi per la
polvere, ospitano pollai, baracche di legno, depositi di spazzatura, file e file multicolori di panni
stesi.
Ringraziato il signor Rabino per l'ospitalità, assieme a Jeanett faccio un giro per Lima. Non è
cambiata molto, in verità. L'aggettivo che più gli si confà, almeno per quanto riguarda la parte
chiamata “Lima cuadrada”, è “fatiscente”. La Colmena non è più luminosa come una volta, molti
negozi importanti sono spariti, i marciapiedi sono sempre sporchissimi e intasati dagli ambulanti
che vendono le merci più disparate.
Interno del palazzo delle poste
La stazione ferroviaria Desamparados
La chiesa di San Marcelo è stata dipinta di rosa, la Plaza San Martin è incorniciata da edifici color
cioccolato, la stazione di Desamparados è stata dipinta di verde scuro, la cattedrale è color giallo
ocra, il palazzo del governo continua a esibire un triste color grigio ed è circondato da autoblindo e
guardie armate.
Ocoña è sempre una stradina maleodorante, ma nella parte che costeggia il celebre hotel Bolivar
ospita il mercato del cambio nero. Proprio di fronte a una banca decine di “cambistas” propongono
a turisti e locali cambi più favorevoli. Sotto gli occhi indifferenti di vigili, poliziotti e guardia civil
comprano e rivendono dollari, guadagnando sulle fluttuazioni della moneta. Qui, più che altrove, c'è
una certa sicurezza anche se, avvertono le autorità, le banconote false sono sempre in agguato.
Seduto sui gradini di una ripida scala di legno interna, lontano da sguardi indiscreti, cambio mille
dollari. Il cambista mi consegna banconote di piccolo taglio perché, mi dice, in giro c'è carenza
proprio di quelle e i negozianti faticano a dare il resto se si paga con tagli grossi. Accetto per buona
la spiegazione e inizio a contare i soldi. Ma è un'operazione disperata, me ne accorgo subito: sono
pacchi e pacchi di banconote per un totale di 3.285.000 inti. Ci rinuncio, voglio fidarmi del
cambista, il quale continua a passarmi mazzette. Riempio le tasche del giubbotto, i taschini della
camicia, i capienti tasconi dei pantaloni. Tasche interne e tasche esterne traboccano di soldi: sembro
Paperon de Paperoni. Chiudo ben bene la lampo della giacca a vento ed esco in strada. Breve sosta
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in un locale della zona per un tè e una gelatina di frutta (7.906 inti) poi, in taxi, accompagno Jeanett
alla compagnia Roggero perché domani deve tornare a Trujillo. La corsa in taxi costa 8.000 inti. A
casa di Ada c'è una sorpresa: è arrivata anche la sorella Eva col bambino. Eva non è cambiata
molto, sempre carina, magrolina, ha i capelli meno biondi (tinti adesso o tinti allora?). É sposata e
vive in Venezuela; il bambino ha pochi mesi. Si tratterrà a Lima solo per pochi giorni. Ceno assieme
agli amici con riso e braciola.
Da sinistra a destra: io, Roberto, Eva col bambino, Ada,
Roxana, Alfredo
La casa degli amici
Domenica 13 agosto
Brutto tempo, ma questo a Lima d'inverno è la normalità. Esco poco dopo le otto e cammino fino
all'av. Arequipa. Sono circa venti isolati. In Arequipa prendo il bus n° 2 fino all'av. Tacna. Il
biglietto costa 350 inti. Passeggio per il centro, scattando foto agli edifici: Plaza de Armas, le poste
centrali, dove di domenica si ritrovano i filatelici per scambiare francobolli, il jiron de la Unión, ora
chiuso al traffico, e occupato da una grande quantità di ambulanti. Di domenica mattina, però, c'è
poca gente. Mi individua subito come italiano un certo Roberto. Tipo magro, faccia un po' da
sorcio, sottili baffetti e numerose otturazioni in oro. Fa l'imbianchino e, alla domenica, arrotonda il
magro stipendio trafficando con ragazzine di quindici e sedici anni. Penso che potrebbe essere
interessante fare un servizio sulla prostituzione minorile: potrei tentare di venderlo a qualche rivista
in Italia. Mi dà appuntamento per domani alle 18, di fronte al cinema Bijou.
Alle 11.35, in Plaza de Armas ho appuntamento con Jeanett.
Andiamo fino alla chiesa di San Francisco e da lì all'avenida
Abancay dove prendiamo l'autobus 39 fino a San Borja. La
“Peña” Piqueo Trujillano si trova al 1958 dell'av. San Luis. Nel
locale si servono piatti tipici della cucina peruviana e ci sono
spettacoli di danza e musica. Si esibisce una formosa cantante
nera, il lungo vestito d'argento in cui è inguainata mette in grande
evidenza le curve. Ripropone canzoni di Lucha Reyes, famosi
vals come “Limeña”, “La flor de la canela” e, ovviamente, “José
Antonio”. La cantante coinvolge nello spettacolo anche i presenti
e tutti si divertono.
Segue una serie di danze tipiche della costa, interpretate dalla
compagnia “Así es mi Perú”. Bravissimi ballerini. La coppia che
interpreta un “tondero” sembra imitare un combattimento di galli,
tanto frenetico è il ritmo. Mi propongo di contattare il direttore,
signor Tulio Gallia P. per poter fare qualche foto al gruppo degli
artisti.
Monumento a Pizarro
Ordiniamo “cebiche”, pisco e birra. Il conto è di 42.480 inti, più
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altri 26.508 per le bibite.
Un taxi ci porta fino all'av. Abancay dove, alle 21.30 Jeanett parte per Trujillo. Mi avvio a piedi
fino all'av. Tacna (sono soltanto otto isolati), qui prendo un taxi che per 5.000 inti mi porta alla casa
di Roberto. Rimango fino alle 23 chiacchierare con Ada e Alfredo.
Lunedì 14 agosto
Sveglia, veloce colazione e subito salgo su un “micro” per l'Instituto Geografico Nacional.
Nell'ufficio “servicio y asesoramiento cartografico” sono disponibili mappe in scala 1/100.000.
Prendo la 15f Cajamarca, la 24i Chancay, 24j Chosica, 24k Matucana, 24l Oroya, 25i Lima, 25j
Lurin, al prezzo di 6.300 inti cada una. Poi il pezzo forte, quello che più mi interessa: la 16w Pataz.
La guardo con attenzione. Non è molto recente, è stata stampata solo quattro anni prima, ma da
rilievi fotografici effettuati tra il 1962 e il 63. Trovare Pataz è, comunque, abbastanza semplice. In
tutta la mappa, che riproduce una superficie di 3.054,44 chilometri quadrati, è uno dei sei paesi di
una certa importanza e, quindi, colorato in rosa. Gli altri sono Curgos, Sarin, Chugay, Sartibamba e
Pias. Con dito tremante parto da Pataz e seguo il zig zag di un sentierino diretto verso est e che,
purtroppo, s'interrompe sul bordo della mappa. Studio, in basso, il diagramma dell'ubicazione: la
16w si trova giusto al centro, alla sua destra c'è la 16i. Chiedo la 16i. L'ufficiale mi guarda
sconsolato: non c'è la 16i, la devono ancora stampare, mi dice. Peccato. Chiedo la cartografia
relativa alla zona di Machu Picchu. Non c'è nemmeno quella, ma si può avere una cianografia.
Piuttosto di niente va bene anche una cianografia. Me la fa: gli do un'occhiata, qualcosa non va:
perché la ferrovia s'interrompe poco dopo Machu Picchu? Dovrebbe proseguire fino a Quillabamba!
Il mistero è presto risolto: sotto, a sinistra, leggo: “Compilación y dibujo por el Instituto Geografico
Militar Lima 1955! È vecchia di trentaquattro anni!
Esco col malloppo sotto il braccio; il tutto mi è costato 56.400 inti. Torno in Manuel Gonzales per
depositare le mappe, poi, zainetto in spalla, esco, prendo un autobus, scendo in 28 de Julio e mi reco
negli uffici della Canadian Pacific per posticipare la partenza al 30 settembre. Assolto l'obbligo,
penso di andare alla Molitalia per salutare gli ex colleghi di lavoro. Prima, però devo acquistare un
quadernetto su cui scrivere gli appunti. Lungo l'avenida Uruguay ci sono molti ambulanti, uno dei
quali vende articoli di cancelleria. Per 300 inti compro quanto mi serve.
Me ne sto andando quando mi si avvicina una signora, la quale mi avverte che qualcuno mi ha
sporcato la maglietta. Abbasso lo sguardo e, abbastanza schifato, noto come un buontempone si sia
divertito a vuotare un tubetto di dentifricio (verde, per la cronaca, al mentolo?) sull'indumento. La
signora mi consiglia di levarmi lo zainetto e, nel contempo, mi allunga un paio di salviettine per
ripulirmi. Poi mi saluta perché, dice, ha molta fretta. In quell'attimo ho un brutto presentimento:
abbasso guardo e ho un tuffo al cuore: lo zainetto è sparito. Dentro ci sono le macchine
fotografiche, obiettivi, il registratore, persino il biglietto aereo. Un momento di panico, poi afferro
saldamente la signora per un braccio e minaccio di portarla in commissariato. Sorpresa e forse
spaventata dalla mia reazione cerca di divincolarsi. Non mollo e comincio a trascinarla verso la
strada, dove penso di trovare un poliziotto. La signora si spaventa ancora di più; con voce
piagnucolosa mi assicura che lei non c'entra: il ladro, mi dice, è lì davanti... Alzo la testa e scruto tra
la folla che va su e giù per il marciapiedi. Eccolo là, il lestofante! Di schiena, nasconde lo zainetto
tenendolo sul petto, ma non si accorge che le cinghie azzurre, dondolando a destra e a sinistra, lo
tradiscono. Spintono, poco cavallerescamente, di lato la signora e mi precipito verso il ladro. Il
disgraziato, probabilmente, ha altri complici nelle vicinanze, quindi non mi faccio scrupolo di
distribuire spintoni a quanti incontro sul mio cammino. Sono a pochi metri alle spalle del ladro
quando questi mi sente, si gira, suppongo veda la mia espressione tutt’altro che amichevole, sgrana
gli occhi, molla lo zaino e se la da a gambe, inseguito dai miei coloriti insulti (in spagnolo,
ovviamente).
Rinuncio, per il momento, ad andare alla Molitalia; compero un po' di cartoline da spedire ad
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amici e parenti (6.000 inti) e vado dal signor Rabino per una ripulita. Mi fermo lì per il pranzo.
Presso Photos S.A. (jiron Pablo Bermudez 111) faccio sviluppare due rullini. Ho qualche problema
con una Minolta e voglio essere certo che le diapositive siano correttamente esposte. I rullini mi
vengono consegnati poco dopo: le diapositive sono OK. Una richiesta strana: mi hanno chiesto se le
volevo intelaiate. Certo che sì! Quando mai non si intelaiano le dia? Almeno in Italia questa è una
domanda che nemmeno si pone. Pago 30.000 inti per i due sviluppi ed esco tranquillizzato.
Più tardi, per 5.000 inti, un taxi mi porta fino alla Molitalia. Il portone d'entrata è protetto da
reticolati, la garrita della portineria è protetta da un vetro scuro e sul tetto c'è una guardia armata di
fucile. Chiedo di entrare per far visita ai miei ex colleghi. Una voce mi ordina di infilare un
documento in una fessura. Dopo un po' mi fanno passare. Al laboratorio di chimica ritrovo Guido
Cavassa e la signora Helvia. Poi arrivano Mamani e Valdivia. Rimaniamo a ricordare i vecchi tempi
fino alle 16, poi prendo un altro taxi e raggiungo il centro. Le due corse mi costano 10.000 inti.
Incredibile ma è spuntato il sole. Approfitto per scattare foto alla Plaza de Armas, Plaza Bolivar,
alla stazione, alla chiesa di San Francisco e ai militari di guardia al palazzo del Governo.
Per le vie di Lima
Una via di Lima
All'almacen La Piramide S.A Ltda (Arzobispo 2260), in un negozio di ferramenta, per 10.000 inti,
compro mezzo metro di rete a maglie sottili; l'idea è quella di avvolgere lo zaino in modo da
scoraggiare quanti pensino di tagliarlo per impossessarsi del contenuto, cosa assai frequente lungo
certe strade della città.
Di fianco alla chiesa di San Francisco si trova la Casa de Pilatos, attuale sede della “Casa de la
Cultura”. Vorrei chiedere informazioni sul Gran Pajaten, ma è chiusa. Non mi scoraggio. Attraverso
tutto il centro fino alla sede di Foptur (Unión 1066): è l'ufficio dove si possono ottenere
informazioni turistiche. Gli uffici di Foptur si trovano nell’edificio dove una volta c'era il rinomato
ristorante Tambo de Oro. Purtroppo anche qui trovo chiuso. Per strada, mentre m'intrattengo a
parlare con due turisti svizzeri, vengo avvicinato da un ragazzo. Si presenta come Fernando Alayo,
sedicente archeologo e collezionista di banconote. Mi chiede se posso procurargli qualche
banconota italiana in cambio di vecchie banconote peruviane. Gli rispondo che potrebbe
interessarmi una banconota da 500 soles degli anni ‘60-‘70. Rimaniamo d'accordo di trovarci
domani alle 18.
Alle 18.45, mentre sto tranquillamente passeggiando per la Unión m'imbatto in Roberto, il sorcio.
Andiamo a cena all'Haiti Coffee, angolo Plaza de Armas, dietro al monumento equestre di Pizarro.
Pisco e cebiche, conto di 24.000 inti; 19.000 li metto io, 5.000, con gesto signorile, li mette lui.
Prendiamo un taxi per Breña (5.000 inti), alle 20 abbiamo appuntamento in un Chifa con un certo
Pedro Duran, procacciatore di minorenni. Il losco Pedro chiede 300 dollari per fare delle foto a
cinque ragazze. Troppi soldi, ci penserò.
Me ne vado in un bus, scendo in Abancay, m'incammino verso la Tacna. Passando per la Colmena
mi attira l'insegna del Tabarin, locale notturno quasi sotto l'edificio in cui abitavo. Entro con
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l'intenzione di parlare col direttore. Voglio informarmi se si possono scattare fotografie durante gli
spettacoli. Appena entrato mi si avvinghia una gentile donzella; con voce flautata m’invita a sedere
a un tavolo e amabilmente conversare. Mi sono appena seduto e devo ancora sistemare la sedia e già
un solerte cameriere, rapido come un fulmine, ha riempito due bicchieroni di Coca Cola. Mi alzo
incazzato. Mai e poi mai ordinerei una Coca Cola! Per tutta risposta il cameriere mi porta il conto:
40.000 inti! Col cavolo che pago! Pianto un mezzo casino, chiedo ancora di parlare col direttore e
finalmente ci riesco. Dico che sono lì solo per chiedere informazioni e che non è quello il modo di
trattare i clienti. Il direttore si mostra molto conciliante: strappa il conto e si dichiara favorevole a
possibili foto durante gli spettacoli.
Per 4.000 inti un taxi mi porta fino a Manuel Gonzales; la radio trasmette musica messicana,
l'autista canterino canta con entusiasmo sopra le canzoni di Tatiana e Ana Gabriel, cantanti
messicane.
Martedì 15 agosto
Esco verso le 9, il bus n°2 mi porta in centro e vado subito da Foptur. Per il Gran Pajaten,
m'informa una gentile signorina, non ci sono problemi, anzi, recentemente dovrebbero averlo
visitato un paio di turisti austriaci e persino un italiano. Dei turisti austriaci, però, non si è più
saputo nulla: potrei cercare loro notizie? Si tratta dei signori Wolf Dieter Shubert e Peter Gold. In
questi giorni, poi, al Pajaten c'è la spedizione di una università del Colorado che sta studiando le
rovine.
Mi sento sollevato ma, per sicurezza, vado anche alla Casa della Cultura. Magari serve qualche
permesso scritto.
Alla Casa della Cultura scuotono la testa. Impossibile visitare il Gran Pajaten, sostengono: si trova
in zona rossa, cioè zona controllata dai terroristi e non si rilasciano permessi turistici. Insisto, ma
non c'è niente da fare. Mi consigliano, comunque, di parlare con l'architetto Eulogio Tapia, presso il
Museo Nacional, ex Ministerio de Pesqueria, ex Banco de la Nación. Mi scrivono l'indirizzo: Javier
Prado oeste 2465, piso 6.
Salgo su un taxi: il luogo si trova abbastanza lontano. La corsa costa 6.000 inti e il taxi mi scarica
in Javier Prado. Trovo il 2465: un anonimo condominio, niente che assomigli a qualche museo o a
un ex Ministero della Pesca né, tanto meno, a una ex Banca Nazionale. Scorro più volte le etichette
sui campanelli nella speranza di scoprire qualche indicazione, ma niente da fare. Cerco un telefono
per chiamare la Casa della Cultura e avere spiegazioni, ma l'unico telefono che trovo è guasto.
Riprendo un taxi (altri 6.000 inti). Ormai, però, è quasi mezzogiorno e mi fermo a pranzo dal signor
Rabino. Alla Casa della Cultura ci vado subito dopo aver pranzato: l'impiegato guarda il foglio sul
quale ha scritto l'indirizzo e sorride: c'è un piccolo errore, dice: non è oeste (ovest), ma este (est)...
ossia alcuni chilometri dalla parte opposta!
Nuova corsa in taxi, altri 6.000 inti e finalmente arrivo al Museo de la Nación, mostruoso blocco
di cemento grigio. Un recente attentato con un'auto bomba ha mandato in frantumi i vetri, al loro
posto ci sono fogli di compensato. L'aspetto esterno è alquanto apocalittico, l'interno si potrebbe
definire tenebroso. Riesco a raggiungere l'ufficio dell'architetto, al sesto piano. Sono le 14.45. La
segretaria, alla quale spiego succintamente le intenzioni di visitare il Gran Pajaten, mi comunica che
l'architetto Tapia lavora fino alle 15 e che quindi è tardi...
« Come tardi! » protesto « Manca ancora un quarto d'ora! »
« È tardi! » ribatte irremovibile la segretaria. « L'architetto non riceve. In ogni caso non è lui che
rilascia i permessi, ma un altro. Poi c'è una commissione che si riunisce di venerdì per decidere se
concedere o meno il permesso... che viene concesso esclusivamente per motivi di studio. Inoltre il
parco dell'Abiseo è chiuso al turismo e, in più, il governo ha dichiarato la regione zona rossa, in
quanto controllata dai guerriglieri dell'MRTA. »
Ce n'è per mettersi a piangere. Torno mestamente in centro (altri 6.000 inti per il taxi) e scendo in
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piazza Grau. Cammino per la Unión e mi fermo alla libreria Epoca dove acquisto quattro cartoline
(1.200 inti). Proseguo per la Unión, senza una meta precisa, intento a fare piani per i prossimi giorni
quando m'imbatto nel Fernando il quale, evidentemente, bazzica nella zona (c'è Foptur, vicino) in
attesa di turisti a cui chiedere banconote. In cambio di cinquemila lire mi da una vecchia moneta da
cinque soles e mi promette una banconota da 500 soles degli anni 60-70.
Mi chiede come mi trovo in Perù. Gli confesso di essere alquanto deluso e gli racconto della mia
frustrazione per quanto riguarda la sfumata visita al Gran Pajaten.
Con mia grande sorpresa si dice disposto ad aiutarmi. Per parlare meglio ci accomodiamo dentro a
un localuccio lì vicino; io prendo un tè, lui un caffè. Appassionato di archeologia vanta amicizie con
Kaufman Doig e altri archeologi di fama. Mi racconta la storia del Pesce Grande e di quello
Piccolo.
L'evento risale agli anni 30-40. Siamo nei paraggi di Santiago de Chuco, qualche decina di
chilometri a est di Trujillo. La zona è desertica, montagnosa, con scarsissima acqua. In queste terre,
nel IX secolo dopo Cristo, si è sviluppata la civiltà Mochica. Grandi costruttori di piramidi di fango
i mochica si distinsero anche per i loro superbi lavori in oro (proprio di quest'anno è la scoperta del
favoloso tesoro di Sipán). I mochica, dunque, plasmarono due pesci con l'argilla e li ricoprirono
d'oro, poi li custodirono in una specie di labirinto o tempio sotterraneo, su altari circondati d'acqua,
considerandoli, presumibilmente, divinità protettrici del prezioso elemento.
Negli anni 30-40 un gruppo di tombaroli sta scavando alla ricerca di tesori nascosti. Gli uomini
scavano nella speranza di diventare ricchi, senza alcun rispetto né preoccupazione per quanto
possono trovare o distruggere. Ed ecco che la loro sete d'oro viene appagata: scoprono un cunicolo,
scovano il pesce piccolo e lo fanno a pezzi per impossessarsi dell'oro... ma la loro gioia è di breve
durata: scatta la vendetta o, forse, una ben studiata trappola. La terra frana e seppellisce i violatori,
tutti, tranne uno, che si salva a malapena. Racconterà questa storia a Fernando molti anni più tardi
quando, vecchio e malato, sentirà che la sua ultima ora sta per giungere.
« ¿Que pasó con tus compañeros? »indagherà Fernando.
« Se los tragó la tierra... »
« ¿Viste el pez pequeño? ¿Como era? »
« Hermoso... era hermoso » risponderà l'uomo e queste, pare, siano state le sue ultime parole.
Ora Fernando assicura di essere riuscito a localizzare il luogo dov'è occultato il Pesce Grande,
dodici metri di lunghezza e, si può immaginare, ricoperto di una lucente corazza d'oro.
« Appoggiando l'orecchio al terreno » dice con voce sognate, « ho sentito distintamente il rumore
dell'acqua che si frange contro il suo corpo... »
Gli chiedo cosa farebbe una volta disseppellito.
« Lo frantumo e vendo i pezzi! » confessa, poi, davanti alla mia indignazione, fa marcia indietro.
« Ma no! Dicevo così per dire: volevo metterti alla prova per vedere se anche tu sei uno di quei
gringos che vengono in Perù per depredarlo dei suoi tesori! »
La giustificazione non mi convince più di tanto.
Ora, prima di continuare il diario, è d'obbligo una precisazione:
PER EVITARE ROGNE FUTURE
(quando si ha a che fare con avvocati, politici e poliziotti c'è sempre il rischio)
DICHIARO CHE QUANTO SEGUE È SOLO FRUTTO DELLA MIA FERVIDA
FANTASIA, CHE FATTI, NOMI E PERSONAGGI SONO ASSOLUTAMENTE
IMMAGINARI E CHE EVENTUALI COINCIDENZE CON PERSONE REALI (VIVE O
DEFUNTE) SONO DA RITENERSI PURAMENTE CASUALI.
Finito il racconto, finiti tè e caffè e pagato il conto (2.800 inti) Fernando si dichiara disposto a
farmi ottenere il permesso per il Pajaten tramite sue conoscenze: ha un fratello avvocato, il quale fa
parte dello staff del gabinetto del Presidente Alan Garcia! Troppo bello per essere vero, penso.
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Ci rechiamo in un ufficio nella vicina Plaza San Martin. Lì il fratello non c'è. Forse è alla PIP
(Policia Investigativa del Perù) ci suggerisce una delle segretarie. Ma non si trova neppure lì. Lo
cerchiamo in un ufficio sito ai piani alti di un orrido edificio nei pressi dell'altrettanto orrido Hotel
Sheraton: forse, ci avvertono, si trova al Palazzo di Giustizia. Ci siamo proprio di fronte. Basta
attraversare il paseo Heroes Navales, con la sua larga aiuola, per salire la scalinata del Palazzo di
Giustizia. Le guardie armate non mi fanno caso; seguo Fernando su per uno scalone e arrivo al
piano superiore. L'interno del Palazzo non l'immaginavo così. Uno stretto corridoio corre lungo
tutto il perimetro del corpo centrale, affiancato su entrambi i lati da numerosi stanzini, ed è intasato
di gente. Ci sono guardie armate, tipi in giacca, cravatta e capelli impomatati, ma la maggior parte
sono poveracci con l'ansia dipinta sul volto e i vestiti logori. S'indovina gente del campo o della
sierra in cerca di un'improbabile giustizia. È triste doverlo ammettere ma qui, se non hai i soldi, non
hai neanche la ragione.
Fernando chiede del fratello: gli indicano un ufficio in fondo al corridoio. Una guardia ci ferma,
Fernando mostra i suoi documenti e lo lasciano passare. Io aspetto. Proprio in quel momento esce,
ammanettato, un tizio accusato di aver ucciso a coltellate l'attrice Daphne Basulto, famosa non solo
come attrice, ma anche per essere stata la prima donna a lanciarsi col paracadute. Il caso era su tutti
i giornali e aveva occupato buona parte dei notiziari.
L'avvocato Alayo è il fratello maggiore di Fernando, ma è più giovane di quanto mi aspettassi. Si
sta occupando, dice, di un caso in cui è coinvolto un politico del partito (l'APRA), accusato
dall'ambasciata degli Stati Uniti di aver rubato diecimila dollari.
Non resisto a fare la battuta: « Invece è innocente, vero? Non li ha rubati quei diecimila dollari. »
dico con tono sarcastico.
« Certo che no! » mi risponde l'avvocato. « Ne ha rubati centomila, ma gli americani non se ne
sono ancora accorti. Adesso stiamo cercando di insabbiare tutto!... Un permesso per il Pajaten?
Nessun problema. Posso farti avere anche una scorta militare. Appuntamento alle ore 20 alla PIP. »
All’uscita saluto Fernando il quale mi chiede se posso “prestargli” 22.000 inti. Sono speranzoso e
di buon umore: gli presto i soldi.
Alle 20 sono davanti all'orrido edificio della PIP (sono ripetitivo, lo so, ma certi edifici sono
davvero autentiche brutture). Anche qui niente vetri alle finestre, ma fogli di cartone e compensato.
Sulle scale una truce guardia con kalashnikov e volto coperto da passamontagna. Non aspetto
molto. L'avvocato Alayo esce accompagnato dalla sua scorta, il capitano Victor Hayre. Andiamo a
cena in un ristorante sull'Alfonso Ugarte. Il capitano Hayre non è molto tranquillo. Pare abbia
partecipato alle torture di alcuni senderisti quand'era ad Ayacucho, e questi abbiano giurato di fargli
la pelle. Vorrebbe rifugiarsi in Italia. Mi sento preoccupato. Non è che qualche terrorista sceglie
proprio questa sera per saldare i conti col capitano e tira una bomba nel ristorante?
Tutto, però, fila tranquillo. Domani viaggeremo a Trujillo per parlare direttamente col prefetto.
Offro la cena (11.200 inti) e mi reco dal signor Rabino per avvisarlo della mia partenza. Prima di
tornare a casa passo da Pepe, ma è già partito per Trujillo.
Mercoledì 16 agosto
La telefonata del capitano Hayre arriva alle 8.40. Ci troviamo alla compagnia Chinchay-Suyo per il
biglietto che costa 15.000 inti. Faccio finta di non sentire quando il capitano mi chiede di pagare
anche il suo. La partenza è fissate per le ore 23.
Pranzo dal signor Rabino e poi mi reco alle poste centrali per spedire un po' di cartoline. Hanno
esaurito i francobolli! Mi tocca accontentarmi dei timbri, peccato! Vuoi mettere ricevere una
cartolina col suo bel francobollo appiccicato? È tutta un'altra cosa! Per ventisei affrancature spendo
18.200 inti.
Alle 14.50 telefono a Jeanett, l'avviso che in nottata viaggerò e che dovrei arrivare a Trujillo per la
mattina successiva, salvo incidenti. La telefonata costa 2.800 inti.
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Durante il pranzo ho visto in TV un servizio su un promettente mercatino artigianale a Miraflores,
isolato 52 dell'Av. Petit Thouars. Salgo in autobus (350 inti) e visito il mercatino. È molto più vasto
di quanto immaginassi. Ci sono molti negozi e i prodotti artigianali provengono un po' da tutte le
zone del paese. Compero un paio di gilè ricamati con fiori e uccelli dai colori molto vivaci (70.000
inti), alcune sculture in legno, opere degli indios shipiba (90.000 inti) e alcuni amuleti (8.000 inti).
Prendo un taxi per la casa di Roberto dove lascio gli acquisti. (soliti 5.000 inti), poi, in bus
raggiungo il centro. Scendo in Tacna e mi procuro una mappa di Lima, con i tragitti dei mezzi
pubblici (8.000 inti), molto comoda. 8.400 inti mi costano alcuni dolcetti.
Ceno in casa del signor Rabino. Dalle finestre del diciannovesimo piano si gode una eccezionale
vista della Lima notturna. Nonostante il forte vento apro le finestre per scattare alcune fotografie.
Ore 22: prendo un taxi per l'agenzia Chinchay-Suyo, data l'ora sono 6.000 inti. Lima è sotto una
fitta “garua”, il taxi è privo di tergicristalli ma arriviamo sani e salvi.
L'autobus N° 114 si chiama Hivar Cachi; all'interno, sopra il cristallo anteriore le scritte:”que Dios
nos bendiga” e “ayudame Dios mio”. L'autobus sembra abbastanza in buono stato, ma non si può
mai dire. Speriamo in bene, per Trujillo sono quasi seicento chilometri. Intanto si parte con
mezz'ora di ritardo.
Giovedì 17 agosto
Viaggio notturno. Alle 2,30 sosta a Pativilca. Alle 6 arriviamo a Chimbote e alle 8 a Trujillo. Non
si contano tutte le soste fatte durante il cammino per far salire gente: sono quelli chiamati
“intermedios”, pagano meno ma non hanno diritto al sedile.
Per 2.000 inti un taxi mi porta a casa di Jeanett.
L'avvocato Alayo ha promesso di telefonarmi. Nell'attesa sfoglio alcune riviste. Una, in
particolare, è assai interessante: c'è un articolo sulla pietra di Saywite. La pietra, un grande blocco
dalla forma semisferica si trova a quarantacinque chilometri da Abancay, subito dopo la prima
“abra” (passo) sulla strada che porta a Cusco. Le foto sono impressionanti: sulla superficie di questo
masso sono state scolpite duecentotré figure che seguono i contorni naturali del blocco. Sono
rappresentati fiumi, montagne, felini, scimmie, anfibi, dei antropomorfi. Il masso è circondato da
rovine di altre costruzioni individuate come templi e fontane cerimoniali. Un luogo da visitare in un
prossimo viaggio.
Alle 11.30 ricevo la telefonata dell'avvocato Alayo: mi comunica che si sta recando a parlare col
prefetto, mi ritelefonerà appena saprà qualcosa di certo. Sono al settimo cielo. Tutto sembra andare
a gonfie vele. Il Gran Pajaten è sempre più vicino. Chi può osare negare qualcosa a un avvocato del
gabinetto del Presidente della Repubblica?
Pranzo e attendo la telefonata. Che non arriva. Passano le ore ma il telefono rimane ostinatamente
muto. Che sarà mai successo?
Alle 19.15 sono stufo. In compagnia di Jeanett prendo un taxi (1.500 inti) e mi reco in centro. Al
teatro Municipal c'è il primo concorso di ballo negroide, due ingressi costano 4.000 inti. Cinque
finaliste si contendono la vittoria. Ancheggiano e sculettano al ritmo di marineras e festejos. Il
teatro è fatiscente, il pubblico scarso ma l'entusiasmo è alle stelle. La “barra” è da stadio: i tifosi ci
danno dentro con “campana” e “cajon” con incredibile e assordante entusiasmo. Anche gli attempati
cantanti che si esibiscono tra un ballo e l'altro riscuotono la loro salva di applausi.
Finito lo spettacolo passiamo per l'agenzia TEPSA, per salutare Pepe che torna a Lima, poi
facciamo un giro all'ospedale Belén, dov'è ricoverata, in gravi condizioni, la mamma di Jeanett.
Il taxi per il ritorno costa 2.000 inti.
Venerdì 18 agosto
Al risveglio mi comunicano che l'avvocato Alayo aveva telefonato ieri, alle 19.30, e che richiamerà
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in mattinata. Attendo impaziente ma, alle 9, l'avvocato si presenta in carne e ossa. Lo accompagna
un poliziotto in borghese. Saliamo in macchina diretti alla prefettura. A metà strada l'avvocato fa
fermare l'auto davanti a una banca ed entra per ritirare del denaro. Esce poco dopo con aria avvilita.
Il cassiere gli ha chiuso lo sportello in faccia per mancanza di liquido, mi spiega, potrei prestargli
un po' di soldi?
La faccenda mi puzza. Contemporaneamente penso che non mi conviene un secco rifiuto, magari
si offende e addio permesso per il Pajaten. Devo inventare una scusa. Fingo di rovistare
accuratamente in tutte le tasche e racimolo circa 10.000 inti. « È tutto quello che ho » assicuro. «
Siamo partiti talmente in fretta che ho dimenticato a casa il portafogli. »
Non so se mi crede o meno, ma intasca gli spiccioli senza fiatare.
La prefettura si trova in Plaza de Armas, a lato dell'Hotel de Turistas. Attraversiamo il patio e
saliamo le scale fino a un ufficio del primo piano. Il signore che mi riceve è assai cordiale. Mi
ascolta, poi alza il telefono e si passare l'architetto Ana Maria Hoyle, direttrice della Direzione del
Patrimonio Monumentale Nazionale. È breve, conciso e perentorio: riferisce la mia richiesta e dopo
qualche secondo posa la cornetta. Sorride e dice: « Listo, ya está! ( Pronto, è fatto!) »
Per le 14.30 del pomeriggio, mi assicura, avrò il permesso. Non solo, ma, se voglio, potrò avere
anche “un respaldo militar” una scorta militare.
Ringrazio e saluto. Sono le 11.30, si va a pranzare alla “cebicheria Flipper” in Francisco Lazo 437,
urbanización Santo Dominguito, locale di proprietà del signor Cesar Leon Gutierrez, fratello del
poliziotto Antonio Leon Gutierrez, autista dell'avvocato Alayo. Appare anche il capitano Hayre,
accompagnato dalla gentile consorte e dal signor Juan Alcantara. Il convivio è assai amichevole, si
mangia “sudado” si bevono fiumi di birra. Non si fa tempo a finirne “un par” che arriva un altro
paio di bottiglie ghiacciate. Il pranzo si sta tramutando in una tragedia. Non ne posso più di
mangiare e bere. Ma chi paga tutto questo? Calcolando il costo di un dollaro a bottiglia (che non è
poco!) il conto dev'essere astronomico. Finalmente alle 5,30 mi riportano a casa in volkswagen.
L'avvocato mi accompagna in casa, mi fa notare che sarebbe opportuno “quedar bien con el
prefecto”... non potrei dimostrare la mia gratitudine? Non ha tutti i torti. Il permesso per il Pajaten,
per me, non ha prezzo. Penso di consegnarli trecento dollari, mi sembra una buona cifra... poi ci
ripenso. Ma sono scemo? In mano non ho ancora niente, e ormai è troppo tardi per tornate in
prefettura. Meglio aspettare domani: quando avrò il permesso, allora vedremo. Un contentino, però,
lo devo dare, se non altro per il pranzo.
« Venti dollari » offro, sicuro che lui alzerà la cifra.
« Facciamo trenta » mi risponde.
Gli consegno tre bigliettoni da dieci e l'avvocato se ne va contento. Non è contenta Jeanett. Mi
rimprovera per la mia ingenuità ed è convinta che mi stiano truffando.
Per alleviare la tensione andiamo a fare quattro passi in centro ( 540 inti per l'autobus). Jeanett mi
suggerisce di cenare al Sachun (Pasaje Alberto Barton 225, Urbanizacion Los Granados), locale
tipico con musica e spettacoli folclorici. La corsa in taxi costa 2.500 inti e l'ingresso 7.000; è
“viernes femenino” e le donne non pagano. Locale squallidotto, poca gente ai tavoli, musica
assordante, niente spettacoli (forse li fanno più tardi). Ordinare è una tragedia: di tutto quanto
indicato sul menù non c'è nulla. Disperato, ordino un pisco e Jeanett una birra. Torniamo a casa a
piedi, alle due di notte sfidando il vento gelido, entrambi di malumore.
Sabato 19 agosto
Alle 10.30 del mattino sono davanti alla prefettura. Tutto chiuso. La guardia all'entrata mi informa
che il sabato non si lavora. Sarà perché ci sono arrivato a piedi dalla casa di Jeanett o perché sono
nervoso, ma mi viene appetito. Con la mia amica mi fermo alla “Heladeria y Cafeteria Selecta”
(Francisco Pizarro 870) per mitigare l'amaro con alcuni dolcetti (6.700 inti).
L'ufficio di FOPTUR non si trova molto distante, entro per chiedere informazioni su come arrivare
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al Pajaten. Sembra ci siano due possibilità: la prima è un'auto per Pataz che, probabilmente, arriva
solo fino a Chagual. Appartiene al signor Angel Ocampo Oyarce (Guzman Barron 958, Urb. El
Bosque). Effettua solo un viaggio settimanale, parte generalmente di domenica alle tre del mattino
passando a raccogliere i passeggeri, e arriva verso le 19. Il costo è di 120.000 inti. Non c'è posto
disponibile, ma lascio lo stesso il numero di telefono.
La seconda possibilità consiste nell'autobus per Tayabamba. Il mezzo parte dalla calle Chira due
volte alla settimana, di domenica e di mercoledì. Arriva a Chagual in venti ore e poi prosegue per
Tayabamba che raggiunge in altre dieci ore. Il biglietto costa 55.000 inti, prezzo invariato sia per
Chagual che per Tayabamba. È permesso un bagaglio di 15 kg. Ogni kg di sovrappeso costa 1.000
inti. Da Chagual a Pataz, mi sembra di capire, ci si deve arrangiare e, secondo quanto ho letto nelle
guide, son circa 20 km di mulattiera.
Trujillo è conosciuta anche come la capitale dell'eterna primavera, non c'è quindi da stupirsi se
splende il sole. L'occasione è buona per scattare qualche fotografia. Assieme a Jeanett visito la
pinacoteca “El Carmen” e il museo della Cattedrale con la sua piccola e asettica catacomba (500 inti
costa il biglietto d'ingresso). Per 4.800 inti compro un po' di frutta e imparo a distinguere i tipi di
banane: quelle bianche si chiamano “platanos de seda”, mentre quelle color salmone sono dette
“platanos de la isla”.
Domenica 20 agosto
Oggi manca la benzina.
Alle 9.45 Jeanett mi trascina a un funerale, o meglio alla cerimonia del settimo giorno (sono
attrezzato anche per occasioni del genere: nello zaino non ho dimenticato di mettere un vestito
scuro, e un paio di cravatte di mio padre). Si
celebra la prima settimana della sepoltura di un
suo cugino, morto di linfoma all'età di quindici
anni. I suoi genitori, invece di curarlo presso un
ospedale, l'avevano portato da una setta
religiosa. La famiglia ha affittato un pulmino
sul quale, dopo la messa, vi saliamo tutti per
raggiungere la casa. Nella sala sono stati tolti
mobili e quadri. Lungo le pareti sono state
sistemate decine di sedie. Ci accomodiamo e ci
vengono serviti bicchierini di “anisado”, grandi
tazze di caffè, panini con pollo. Girano
Incontri lungo l'avenida Perù
bottiglie, si beve e si brinda.
All'ospedale Belén la mamma di Jeanett è
sempre più grave. Si teme che il peggio possa arrivare da un momento all'altro. In previsione di ciò
cominciamo a preparare le stanze: via mobili e quadri. Usciamo per fare compere necessarie per la
veglia funebre: due bottiglie di “anisado”, 3 chili di zucchero e le lampadine da sostituire a quelle
rubate dal lampadario dell'entrata. Sembra incredibile ma, mi assicura Jeanett, qualche ignoto
amico, vicino o parente, approfittando che mezzo lampadario dell'entrata non è visibile dalla cucina,
ha pensato bene di fregarsi un paio di lampadine! Usciamo nuovamente per andare all'ospedale. Per
strada scatto qualche foto. Lungo l'avenida Perù incontro due signori, uno dei quali stringe sotto il
braccio un gallo da combattimento. Chiedo se posso scattar loro una foto. Accettano con
entusiasmo. Vogliono che scatti anche una foto al gallo per terra: sono alquanto ubriachi e per poco
il gallo non scappa via. Nell'assolata Plaza de Armas, di fronte alla cattedrale dipinta di bianco, ci
fermiamo da un gelataio col tipico carrettino giallo della Donofrio. Contratto due gelati: da 7.000
scende a 6.000 e infine accetta 5.000 inti. All'ospedale non ci sono novità. Passando dalla sarta, che
sta confezionando il vestito da lutto, assistiamo, davanti alle carceri, all'acceso litigio di due donne.
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Si accapigliano per strada e sberle e urla richiamano un folto gruppo di spettatori. Proseguiamo fino
alla casa di Norma, una collega di Jeanett, per ritirare un vestito. Con Norma torniamo all'ospedale.
Più tardi un suo amico ci riporta a casa con la macchina. Ceniamo e ritorniamo all'ospedale con
l'intenzione di passarci la notte. I medici, però, ci dicono che non è necessario, così ritorniamo a
casa.
Lunedì 21 agosto
In prefettura trovo l'avvocato Alayo e il poliziotto Antonio
Leon. Il permesso non è ancora pronto. La notizia non può
farmi che dispiacere. È pronta, invece, una lettera nella quale
mi si richiede un documento rilasciato dall'ambasciata italiana
dove si certifichi chi sono e gli scopi della visita al Pajaten.
Dire che sono incazzato è solo un eufemismo. Con Jeanett
aspetto in sala d'attesa che compaia il prefetto, guardato a vista
(questa è la mia impressione) dall'Antonio Gutierrez.
Improvvisamente l'Antonio si agita: fuori c'è movimento. Mi
ordina di rimanermene seduto ed esce di fretta. Che sta
succedendo? Mi alzo e mi affaccio alla finestra. Giù, nel patio,
un signore tarchiato, occhiali scuri e vestito blu sta
attraversando frettolosamente il giardino scortato da alcuni
poliziotti in borghese.
« Quello è il prefetto! » esclama Jeanett.
Resto di stucco. Quello? E io con chi ho parlato venerdì? Col
Gelato in plaza de Armas
vice? Mistero!
Scendo straincazzato, incontro l'Antonio e gli dico che ormai ho perso abbastanza tempo e al Gran
Pajaten ci rinuncio. L'Antonio non sa che dire... m'informa che il povero avvocato Alayo ha passato
il sabato con la diarrea per il troppo pesce mangiato. ECCHISSENEFREGA! Magari si fosse
squagliato nel cesso!
Sono furioso. In mio aiuto interviene Jeanett.
DOPO QUESTA PARENTESI, POSSIAMO TORNARE ALLA REALTÀ E RIPRENDERE
IL NOSTRO DIARIO, CON LA CONVINZIONE DI AVER SUSCITATO NEL LETTORE
UN ANGOSCIANTE SENSO DI CONFUSIONE E INCERTEZZA.
Eravamo rimasti a Lima, dopo un infruttuoso colloquio con la segretaria dell'architetto Tapia. Ci
troviamo ora a Trujillo, tranquilla cittadina a circa 560 km a nord della capitale. Sono nella Plaza de
Armas con la mia amica Jeanett, il sole splende nel cielo azzurro e fa risaltare i vivaci colori con cui
sono dipinti gli edifici che incorniciano la piazza. Pur essendo inverno le aiuole son tutte fiorite.
« Conosco di persona la signora Hoyle » dice Jeanett. « Andiamo a parlare con lei. »
La Casa della Cultura si trova al N° 572 di Independencia, a due passi della plaza de Armas. La
signora Ana Maria Hoyle Montalva (bella signora, in passato è stata eletta Regina di Primavera) ci
riceve nel suo ufficio, al primo piano.
« Mai ricevuto telefonate dal prefetto! » assicura. Poi m'informa che, già da parecchi anni, ci sono
accordi col governo per non concedere autorizzazioni per visitare il parco dell'Abiseo. Non ci sono
strutture, c'è il pericolo di furti e di danneggiamenti al sito e, in più, la zona è sotto il controllo dei
guerriglieri.
In via eccezionale, però, mi darà il permesso, a patto che, al ritorno, le faccia un rapporto verbale.
Scherziamo? Ma gliene faccio anche dieci di rapporti!
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La signora chiama il segretario e fa redigere il permesso. Poi lo legge, approva, timbra, firma,
inserisce il foglio in una busta e me la consegna.
Ringrazio, saluto ed esco. Appena sulle scale apro la busta ed esamino emozionato il lasciapassare.
L'intestazione color marroncino dice:
INSTITUTO DEPARTAMENTAL DE CULTURA
LA LIBERTAD
Sotto c'è la data: 21 agosto 1989 e il numero di protocollo. Il documento è diretto a: “las
Autoridades Policiales, Militares, Politicas y Afines de la provincia de Pataz.
Il testo è conciso: Por el presente se deja constancia que el Sr. GIANCARLO BIGOLIN
BRIOTTO, de nacionalidad Italiano, identificado con Pasaporte N° 319830, tiene autorización
de esta Dirección para VISITAR EL MONUMENTO ARQUEOLOGICO PAJATEN, - CON
FINES TURISTICOS; más no para realizar trabajos de investigaciónes, tala de vegetación u
otros que afecten la conservación del monumento indicado.
Agredecemos se le brinde las facilidades necesarias para su visita.
Atentamente,
Segue timbro e firma.
« È fatta! » penso. « Alla faccia dell'avvocato! »
Prossima tappa è Foptur. Bastano pochi minuti e mi preparano una credenziale dove mi presentano
come turista interessato a conoscere il Gran Pajaten. La lettera è su carta raffinata, color paglia; in
alto a sinistra c'è l'elegante logo rosso e marrone di Foptur: un colibrì che si libra sopra i gradoni di
una piramide, il tutto racchiuso nel profilo trapezoidale di una finestra in stile inca.
Leggo e inorridisco: c'è scritto che posso tagliare alberi e compiere scavi! Esattamente il contrario
di quanto riportato sul permesso! Faccio notare l'incongruenza e l'impiegato sembra molto seccato.
Dovrò tornare più tardi per avere la credenziale corretta.
Attraverso la plaza de Armas, entro nella Bolivar e arrivo all'ospedale Belén. Jeanett mi presenta il
dottor Jorge Carruitero Lozano (Bolognesi 660) di Pataz, il quale s'impegna ad aiutarmi per il
viaggio e ci da appuntamento verso le 8 di sera.
Tipici balconi di Trujillo
Tipici balconi di Trujillo
La mamma di Jeanett è sempre molto grave e ha bisogno di penicillina, di cui l'ospedale è sfornito.
Giriamo mezza Trujillo in cerca dell'antibiotico: prima al magazzino ospedaliero, poi all'Hospital
Regional Docente (av. Mansiche). Qui ce ne consegnano soltanto poche unità, perché, ci dicono, la
penicillina scarseggia e la devono tenere per i casi d’emergenza. Di ritorno dall'ospedale ci
fermiamo in calle Chira per posticipare il posto sull'autobus, ma gli uffici sono chiusi.
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Passiamo per il Belén per depositare la penicillina. Jeanett la chiude a chiave nel suo stipo: non si
fida di consegnarla alle infermiere per paura che gliela rubino. Pranziamo a casa e alle 16,30
prendiamo un autobus per Huanchaco (600 inti
per i due biglietti). Poca gente in giro. Solitaria in
cima a una collina svetta la chiesa di San Pedro, è
dipinta di rosa e illuminata dalla calda luce del
sole che sta tramontando sul Pacifico. Il mare è
calmo. Il tempo scorre veloce, il sole scompare
oltre l'orizzonte. Le sagome scure dei caballitos de
totora messi in piedi ad asciugare sul lungomare si
stagliano contro il cielo violetto. La foto in stile
cartolina è d'obbligo. Lasciamo Huanchaco alle
18.30 (600 inti per l'autobus) e alle 19.25
torniamo al Belén dove troviamo Lucho, fratello
Huanchaco, chiesa di san Pedro
di Jeanett.
Usciti dall'ospedale andiamo in centro. Nove fotocopie del permesso mi costano 1.350 inti. Le
fotocopie, però vanno autenticate da un notaio: ogni timbro costa 500 inti e ogni firma 800. Il signor
Abel B. Alva Zurcher, suocero di Jeanett, è notaio: le fotocopie me le autentica gratis.
È ora di mangiare qualcosa: con 8.700 inti prendiamo un sandwich di tacchino e un tè ciascuno.
Alle 20.25 siamo all'appuntamento col dottor Carruitero, appuntamento che, per gli impegni del
medico è rimandato a domani per le 12.30-13.
Visita all'ospedale, poi dalla sarta per controllare a che punto è il vestito e alle 22.20 ancora
all'ospedale.
Più tardi, per 2.500 inti, un taxi ci riporta a casa.
Martedì 22 agosto
Al mattino si va a far spesa al “mercado del pueblo”. Alle 13 abbiamo appuntamento col dottor
Carruitero per parlare con suo zio il quale, però, non si presenta. Rimaniamo d'accordo di trovarci
alle 20. Lo zio del dottor Carruitero si chiama Manuel Lozano ed è un arzillo vecchietto di Pataz,
dove posiede una miniera d'oro. Ci consiglia di rivolgerci alla signora Gloria Bolaños de Vasques,
proprietaria di una camionetta con doppia cabina. Parte da Trujillo il giovedì verso le 3 del mattino
e arriva a Pataz per le 7 di sera. Carica merci e passeggeri. Il passaggio costa 50.000 inti. Il signor
Lozano m'informa anche che una guida chiede 5.000 inti al giorno. L'indirizo della signora è: Urb.
La Merced, manzana L, lote 15 e si trova vicino al “colegio Claretiano”. Jeanett conosce bene la
zona, perché ha studiato proprio in quella scuola.
Ennesima visita alla mamma di Jeanett (2.000 inti per il taxi). Dall'ospedale andiamo al teatro
Municipal. Si festeggia il 56° anniversario della compagnia di pompieri con danze e musiche
folcloriche. (4.000 inti per due biglietti). Usciti da teatro torniamo ancora all'ospedale, dove la
mamma di Jeanett si è aggravata. Vado con Pepe dalla sarta, ma questa non ha ancora terminato il
vestito. Torniamo a casa per cenare e poi, ancora una volta, all'ospedale dove, viste le condizioni
della signora, decidiamo di passare la notte. Un paziente è morto di recente, così si è liberato un
letto. Mi stendo e tento di dormire, accompagnato dal respiro affannoso dell'ammalata.
Mercoledì 23 agosto
Alle ore 2.30 del mattino un improvviso silenzio mi fa sobbalzare dal letto: la signora Elva Reluz
Bernaola de Valdez è morta. Chiamo Jeanett che dorme sul letto accanto. Si svegliano anche le
infermiere e si danno da fare per preparare la salma: le rimettono la dentiera, le legano la
mandibola, le infilano cotone nell'ano.
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Al mattino accompagno Jeanett alla chiesa di San Francisco per parlare col prete, poi si torna
all'ospedale per la pratica di decesso e infine all'IPSS (Instituto Peruano Seguro Social).
Telefono alla signora Gloria (1 rin); è in casa, così, con Jeanett, prendo un taxi (2.000 inti) e mi
reco al suo indirizzo. La signora Gloria è una brunetta minuta, abita col marito (un ex poliziotto) e
due figli. Ha una sorella a Pataz proprietaria di un negozio.
M'informa che il viaggio costa 80.000 inti, mentre il costo di una guida varia dai 15 ai 20.000 inti
giornalieri a cui se ne devono aggiungere altrettanti per il mulo. La pensione costa 6.000 inti (tre
pasti compresi), mentre il letto 5.000. Si parte il venerdì tra le tre e le quattro del mattino e si arriva
a Pataz verso le undici di notte. Prenoto: finalmente qualcosa di concreto!
Lasciamo la signora Gloria e prendiamo un “micro” (pulmino) per andare dalla sarta: finalmente
il vestito è pronto. Da Foptur è pronta anche la credenziale. Leggo:
Por la presente, se extiende el siguiente credencial al Señor GIANCARLO BIGOLIN
BRIOTTO, de nacionalidad Italiana, identificado con Pasaporte N° 319830, a fin de que se
brinde las facilitades inherentes para su visita turistica a nuestra zona.
Por lo que quedamos muy agradecidos por la colaboración brindada.
Seguono data, timbro e firma: tutto mi sembra a posto.
Al Copy Center (Pizarro 513), lì vicino, faccio un po' di fotocopie (2.250 inti). È il momento della
spesa per la veglia funebre: tre polli, uno scatolone di biscotti (galletas de soda), uova, bottiglie di
“anisado”, burro. Torniamo a casa in taxi (1.500 inti).
Nel pomeriggio cominciano ad arrivare parenti e amici per il “pesame”, le condoglianze. Nella
saletta d'entrata si monta l'altare. La parete di fondo viene coperta da un drappo nero con frange
dorate, davanti viene collocato un
crocefisso d'argento che sfiora il soffitto.
Due angeli vengono sistemati ai lati del
crocefisso: entrambi sostengono una
lampada e hanno le ali stese verso l'alto. La
bara viene posta sopra un catafalco di legno
scuro, intagliato, ricoperto da un drappo
nero. Ai lati della bara, aperta, quattro
grossi candelabri sorreggono lampade a
forma di fiamma. Tutto attorno ghirlande a
forma di croce, rivestite di fiori bianchi,
rossi e gialli.
In cucina le donne spalmano le gallette col
Veglia funebre della signora Elba Reluz
burro, preparano caffè, brodo di pollo e
“aguadito” da servire a mezzanotte. In sala, intanto, cominciano a girare bicchierini di “anisado”.
Verso le 21 è pronta la cena per me e Pepito, un nipote di Jeanett e alle 21.30 si recita il rosario.
Giovedì 24 agosto
Durante tutta la notte alcuni cugini di Jeanett hanno vegliato la salma nel cortiletto prospiciente
alla casa bevendo birra. Alle otto del mattino, quando mi alzo, li trovo decisamente ubriachi:
continuano a bere passandosi l'un l'altro la bottiglia e l'unico bicchiere, dopo averlo sommariamente
sgocciolato sul pavimento di cemento. Uno sta dormendo seduto a cavalcioni di una sedia, con la
testa riversa sulle braccia, che gli fanno da cuscino, appoggiate allo schienale.
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Rifiuto gentilmente di unirmi alla bevuta.
Mi chiedono come si dice “chancho” in
italiano.
« Maiale » rispondo.
Ridono di gusto « Miale! Miale! » ripetono,
indicando il parente che russa sonoramente.
Alle 11 inizia il funerale. La bara viene
portata a spalla dalla casa fino all'avenida
España (poche centinaia di metri). Qui viene
caricata su di un'auto, e tutti noi la seguiamo
in corteo fino alla chiesa di San Francisco.
Questa è la chiesa in cui si sposarono i
genitori di Jeanett. Segue la cerimonia al
cimitero. La salma viene tumulata nel loculo
68 del “pavellon” B, Señor de Luren. È un
parallelepipedo intonacato di bianco, segnato
da decine di loculi dalla forma quadrata, alcuni adornati con pochi fiori e il nome del sepolto dipinto
a mano.
Alla tristezza della cerimonia si somma il disagio causato da sciami di moscerini che si
accaniscono sui presenti.
All'uscita del cimitero si forma una lunga coda per rinnovare le condoglianze ai familiari.
A casa si pranza. Nel pomeriggio Jeanett mi accompagna a fare la spesa in previsione della mia
partenza. Prima andiamo al “Monterrey” dove mangiamo due dolcetti (1.200 inti). Compero
scatolame vario (sardine e frutta sciroppata 34.800 inti), del formaggio (11.000 inti) e delle
minestrine in busta (19.465 inti). Al “Tiendas Tia” completo la spesa con biscotti e un vasetto di
marmellata di fragole ( 24.810 inti); infine del cioccolato (3.540 inti). La marmellata di fragole è
l'unico tipo di marmellata disponibile ed è dolce fino alla nausea.
Il taxi per l'andata al “Monterrey” costa 1.500
inti, mentre quello con cui torniamo dal “Tia”
2.500.
Verso le 21 Jeanett mi accompagna dalla signora
Gloria; porto lo zaino così che lo possano già
caricare sulla camionetta. La trovo assieme al
marito e ad un'altra signora, anzianotta e bene in
carne, maestra in una scuola di Pataz. Il venerdì
non si parte, questa è la novità; l'auto ha bisogno
di gomme nuove e di una sistemata ai fari. Si
partirà sicuramente sabato, alle quattro del
mattino. Intanto, mi consiglia il marito, posso
Trujillo: Plaza de Armas
lasciare lì lo zaino. Sono molto perplesso. Il
marito legge il mio disappunto, apre un cassetto della scrivania, tira fuori un revolver e me lo mette
sotto il naso.
« Guarda qua » mi dice, « questa è per i ladri! Qui è un posto sicuro! E questa » continua agitando
la pistola, « la so usare bene, sono stato nella polizia. Puoi lasciare qua le tue cose senza timore! »
Augurandomi che l'arma che mi sventola davanti sia scarica (le disgrazie succedono sempre quando
uno meno se lo aspetta), accetto a malincuore di separarmi dallo zaino.
L'ex poliziotto sembra soddisfatto. Mi assicura che non devo preoccuparmi per il viaggio: la
camionetta è in ottimo stato e il guidatore è uno esperto. In quanto a quelli dell'MRTA sono gente
tranquilla, non fanatici come i senderisti; li definisce addirittura “caballeros”, gente d'onore.
Interviene la maestra: per quanto riguarda la visita alle rovine non dovrebbero esserci problemi
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visto che un funzionario del parco è suo parente... a proposito: ho il permesso del Ministero
dell'Agricoltura?
Resto di sasso. Quale Permesso? Quale Ministero? Quel permesso è meglio averlo, mi spiega la
signora, perché il parco dipende proprio dal Ministero dell'Agricoltura.
Sono furibondo! Mai che le cose siano chiare!
Interviene Jeanett: domani mi accompagnerà al Ministero.
Venerdì 25 agosto
Il Ministerio de Agricultura si trova in centro, a tre isolati dalla Plaza de Armas, in jiron Colon.
Come tutti i ministeri apre tardi: alle 10 del mattino. Alle 10.15 sono nell'ufficio dell'ingegner Josè
Donaire La Rosa, il quale di permessi per la visita al Gran Pajaten non ha mai sentito parlare. Forse
li concedono al “Vivero Forestal”, ma c'è bisogno di una lettera di presentazione. Supplico che me
la faccia. Su un foglietto di calendario verga alcune righe, dirette al “SUPERVISOR FORESTAL Y
FAUNA”, signor Julio Cesar Nispual? (il cognome risulta indecifrabile)
Favor atender al portador, sotto si firma, mentre sull'altro verso del foglietto scrive : Disculpar
papel (Mi scuso per il foglio)
Manda un incaricato a battere a macchina la richiesta; io e Jeanett aspettiamo pazientemente
seduti, mentre il tempo scorre lentamente.
Finalmente la richiesta è pronta, nero su bianco, su carta velina, non intestata, forse più adatta a
incartare formaggio che a essere presentata a un Ministero:
SOLICITA AUTORIZACION O PERMISO PARA
VISITA MONUMENTO ARQUEOLOGICO PAJATEN
SEÑOR DIRECTOR DE LA UNIDAD AGRARIA IV-LA LIBERTAD
S.D.
GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO, con Pasaporte N° 319830, domiciliado en Alexander
Fleming N° 238-Urb.Daniel Hoyle-Trujillo, nacionalidad Italiana, ante Ud., me presento y
digo:
Que, en mi condición de Turista y el deseo y querer conocer las Ruinas de PAJATEN, solicito
Ud., expedirme un Permiso o Autorización de 15 dias para visitar el Monumento Arqueológico
de PAJATEN. Hago de su conocimiento que ya cuento con el permiso de la Casa de la Cultura
Trujillo, sin embargo se me ha hecho conocer que es necesario un permiso de su despacho
para presentarlo a los Guardabosques y autoridades de la Jurisdición en que se encuentra el
monumento.
Acompaño Certificación de la Casa de la Cultura.
Segue data e una serie di puntini sopra i quali pongo la mia firma. Ora al primo piano, alla “mesa
de parte” per il timbro (rosso, rettangolare, sul lato in basso a sinistra dell'originale e di due copie
(che pago 240 inti), e poi via di corsa verso il “Vivero Forestal” (prolongación Unión 2526), dove
dobbiamo presentarci all'ingegner Hospinal.
Il posto è alquanto fuori mano, bisogna prendere un taxi perché gli autobus di linea non arrivano
fin lì. Saliamo su un decrepito maggiolino che non sembra avere alcuna fretta di arrivare.
Percorriamo una stradina sterrata e polverosa, tra sterpaglie e ciuffi d'alberi. Siamo già in vista del
“Vivero” quando un'improvvisa esplosione scuote la volkswagen che sbanda e s'infila in un fosso.
Jeanett grida. Un attacco terroristico? No, molto più banalmente è scoppiata una gomma.
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Scendiamo. Mancano poche centinaia di metri alla meta. Pago l'autista (3.000 inti) e trascino
Jeanett fino al cancello del “Vivero”.
È proprio un vivaio: c'è una bassa costruzione dipinta di verdino, col tetto piatto e i serramenti in
metallo e, attorno, tante giovani piante disposte in file regolari. Il cancello di rete è chiuso ma,
all'interno del vivaio due persone sono intente a chiacchierare. Richiamo la loro attenzione e chiedo
dell'ingegner Hospinal.
L'ingegnere non c'è, mi dicono; d'altronde non è lui che concede permessi bensì il Ministero
dell'Agricoltura, più precisamente il signor Juan Julio Castro, ufficio 11, “Dirección de Recursos
Naturales”.
Faccio presente che vengo proprio dal Ministero dell'Agricoltura. Loro allargano le braccia e mi
consigliano di tornarci.
Mi guardo intorno. Siamo in aperta campagna, intorno non c'è anima viva e la probabilità che
passi un'auto è assai remota. Alle tredici gli uffici chiudono e non riaprono fino a lunedì. Mano nella
mano con Jeanett mi avvio mestamente lungo la stradina polverosa.
Ad un tratto qualcosa si muove sulla via; avvolta in una nuvola di polvere un'auto s’avanza verso
di noi. Arrivano i nostri: è il taxi che poco prima ci ha portati fin lì; l'autista è riuscito a sostituire la
gomma e ci viene in soccorso!
Saliamo in fretta e scendiamo davanti al Ministero. L'ufficio N° 11 si trova giusto di fronte a
quello in cui eravamo stati poco prima! L'ingegnere Juan Julio Castro Marcelo sembra cadere dalle
nuvole e scuote la testa: « Ma chi ha detto che io rilascio permessi per il Pajaten? »
« L'ingegnere Hospinal » mento.
Mi guarda sconcertato: « Ma sei certo? »
« Certissimo! » rispondo
L'ingegnere Juan Julio è perplesso. Chiama una segretaria e chiede se il suo ufficio rilascia
permessi per il Pajaten. La segretaria ci pensa un po' su e poi risponde che le sembra di sì. A questo
punto l'ingegnere l'incarica di battere il permesso, consulta una cartella e trova il nome
dell'amministratore del parco dell'Abiseo. Pochi minuti e il tanto agognato permesso è pronto.
“Año del 450 Aniversario del Nacimiento de Garcilaso Inca de la Vega”
MINISTERIO DE AGRICULTURA
Unidad Agraria Departamental IV
- LA LIBERTAD Trujillo, 25 AGO 1989
OFICIO N° 756 -89-UAD-IV-LIB-DRNDR
Señor
: ESTEBAN ALAYO BRICEÑO
Administrador Parque Nacional Rio Abiseo
Anexo Los Alisos-Distrito Pataz.
Asunto
: Visita Turista GIANCARLO BIGOLIN BRIOTTO
Es grato dirigirme a usted, a fin de hacer de su
conocimiento que en esta oficina sa ha apersonado el señor GIANCARLO BIGOLIN
BRIOTTO, solicitando permiso para ingresar al area del Parque Rio Abiseo, de paso al
Monumento Arqueologico de Pajaten.
El objeto da la visita es en calidad de Turista por el
espacio de 15 dias, motivo por el cual, deberá tener en cuenta la permanencia de acuerdo a lo
establecido en los Reglamentos sobre el particular.
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Aprovecho la oportunidad, para expresar a usted, los
sentimientos de mi especial consideración y estima.
Atentamente.,
Timbro e firma. Sono le 12 e 55 minuti. Tutto sembra risolto.
Seduti alla “Heladeria Demarco” (jirón F. Pizarro 725) ci ritempriamo dallo stress con due pisco
sour, un “budin diplomatico” e una “mousse de guindones” (18.560 inti). Passiamo per il mercato
per comperare un po' di frutta (uva e banane per 4.800 inti). In una edicola compero “La Industria”
(600 inti): sul giornale sono state pubblicate le foto del funerale. 1.000 inti mi costano due scatole di
fiammiferi.
Torniamo a casa alle 14. Prendiamo un “micro” per la calle Suarez (540 inti), da dove partono i
pulmini per Moche, per visitare le piramidi del Sole e della Luna. Purtroppo il servizio si effettua
solo dalle 7 del mattino alle 14 del pomeriggio, così cambiamo programma: dalla calle Zela partono
i mezzi per Huanchaco. I due biglietti costano 600 inti. Sono le 15.55, ci vuole circa mezz'ora per
arrivare sul posto. Mi attira il cimitero, posto sul cocuzzolo di una collinetta sabbiosa, di fianco alla
chiesa mezzo diroccata. Il posto ha tutta l'aria di essere abbandonato: croci sbilenche spuntano dal
suolo polveroso, molti loculi sono aperti, le tombe sono sbrecciate e in pessimo stato. Dopo alcune
foto scendiamo verso la spiaggia e camminiamo, nella luce calda del tramonto, fino a
Huanchaquito. Torniamo a Trujillo verso le 18,30, quando fa buio (600 inti per l'autobus). Dalla
fermata del bus a casa prendiamo un taxi (1.500 inti). Alle ore 20 siamo invitati al matrimonio di
Silvia, la ragazza che seguiva la mamma di Jeanett. Quando entriamo nella chiesa dei Testimoni di
Jeova sta predicando una ragazza con voce stentorea. Dietro di lei tre fratelli ripetono le sue parole,
imitati dal resto dei fedeli, con notevole confusione. Seguono vari canti pieni di allegria, finiti i
quali un fratello si lancia in un sermone dal tono apocalittico.
Inizia, finalmente, la cerimonia: fa il suo ingresso un bambino (di circa 5-6 anni) portando un
libro. Cammina in modo curioso: fa un passo, unisce i piedi e quindi fa un altro passo. Attraversa
così tutta la navata centrale fino a fermarsi davanti all'altare. Entra lo sposo, accompagnato dalla
madrina; entrambi camminano nello stesso particolare modo. È la volta di quattro copie: i maschi
con l'abito grigio, le donne vestite di rosa. Ognuno regge una calla. È il turno di una bambina vestita
di bianco, avrà 4-5 anni; porta un cestello pieno di fiori bianchi, di carta o forse di tessuto. Dal
manico del cestello penzolano due anelli. Una seconda bambina la segue, spargendo coriandoli. Il
passaggio tra i banchi viene chiuso con un nastro bianco. La sposa avanza al braccio del padrino,
rompe il nastro, passa sotto l'arco di calle, che paggi e damigelle tengono sollevate, raggiunge lo
sposo e questi le solleva il velo.
Ha luogo la cerimonia. Alla fine i novelli sposi ripassano sotto l'arco di calle e se ne vanno per un
giretto in auto: suppongo siano andati in qualche parco per le foto di rito.
Inizia per noi una interminabile attesa. Jeanett si beve una pepsi (600 inti).
Gli sposi arrivano alle 22.30; viene distribuita una forchetta di plastica avvolta in una salviettina di
carta e si serve “arroz con cabrito”, cucinato in capienti pentoloni lì, sul pavimento della sala in cui
si svolge il ricevimento. Da bere “chicha” a volontà. Mangio il riso e do la carne a Vicenta, una
signora che veniva alla casa di Jeanett per aiutarla nei lavori, la quale apprezza molto.
L'ora si fa tarda, domani devo alzarmi prestissimo: il Pajaten mi attende, per questo tento di
salutare e andarmene... solo che, quando cerco accomiatarmi dalla madre della sposa, mi trovo con
un ennesimo bicchierone di “chicha” in mano.
A mezzanotte e mezza, finalmente, io e Jeanett riusciamo a prendere un taxi e farci portare a casa.
Presto a Jeanett 40.000 inti affinché possa affrontare alcune spese durante la mia assenza.
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Sabato 26 agosto
Sonnecchio, vestito di tutto punto, disteso sul divano nella saletta d'entrata, in attesa della
camionetta della signora Gloria. Alle cinque sento il rumore di una macchina che rallenta e un colpo
di clacson. Esco: la camionetta color grigio chiaro è ferma sul ciglio della strada. Salgo e siamo in
otto: l'autista, la signora Gloria con i suoi due figli (un maschio e una femmina) seduti davanti; la
maestra di Pataz, la signorina Lucy Egoavil Cosar, convinta ad andare a Pataz per insegnare in una
scuola, un signore di corporatura decisamente robusta che, mi racconterà, accompagnò Torrealva al
Pajaten ed io, spiaccicato sul sedile posteriore. In effetti lo spazio a mia disposizione è ridottissimo,
sono costretto a viaggiare seduto di traverso e con le gambe accavallate. Il mio zaino è dentro il
cassone, assieme a sacchi di patate, scatoloni di gallette, gabbie piene di polli, i bagagli degli altri
passeggeri e merci da vendere lungo il tragitto o da consegnare a Pataz.
La camionetta parte. Lasciamo Trujillo, con le sue luci gialle, e c'immergiamo nel buio della
campagna. I fari illuminano l'asfalto screpolato e le piantagioni di canne da zucchero che corrono
parallele alla strada formando due pareti verdi. Ci lasciamo alle spalle la pianura. La strada
serpeggia tra montagne brulle e pietrose, dove crescono solo i cactus. Il cielo comincia a schiarire,
l'asfalto lascia posto alla terra battuta, alle buche e alla polvere sottile che penetra dappertutto. Si
viaggia con la musica a tutto volume: ragazzino e ragazzina si turnano a fare i DJ; la musica è
quella dei Tucus e Los reales de Cajamarca.
Alle 7.15 facciamo una sosta a Casmiche. A 1.600 metri di quota (secondo il mio altimetro) è un
gruppo di casupole dall'aria vetusta. Ci sono dei ristorantini, ma non sembrano particolarmente
invitanti. Lungo i marciapiedi spuntano tubi per l'acqua e l'aria compresa: dato il pessimo stato della
strada si può sempre aver bisogno si gonfiare un pneumatico o di un rabbocco per il radiatore.
Alle 8.20 sostiamo ad Agallpampa. Sempre secondo il mio altimetro ci troviamo a quota 2.800. Il
sole splende e il cielo è blu intenso. Mentre i miei compagni di viaggio fanno colazione, io
preferisco andarmene un po' in giro per ammirare il paesaggio e scattare qualche fotografia. Case di
mattoni d'argilla cotti al sole, alcune intonacate e dipinte con colori tenui; portici e terrazzini in
legno e tetti di tegole. Un'insegna arrugginita dondola da una trave, c'è scritto: SE VENDE
GASOLINA 84 (ottani), PETROLEO, ACEITES, LIQUIDOS PARA FRENOS Y PARCHES.
SERVICIO PERMANENTE. Questo significa che l'officina è aperta ventiquattr’ore su ventiquattro!
La cappa di erba secca e stenta che ricopre i fianchi delle montagne è interrotta da rettangoli
irregolari di terra arata e scarsi ciuffi di eucalipti dai tronchi chiari e lisci. I colori predominanti
sono i marroni, le ocre e i bruciati.
Alle dieci superiamo quota 3.000, cinquanta
minuti dopo passiamo per Shorey. Il paesaggio è
allucinante: Shorey è un miniera di carbone. I
toni marrone e ocra si trasformano in grigio e
nero. Tutto è ricoperto da una tetra patina scura.
Le montagne presentano squarci enormi, fatti
dalle macchine per inseguire i filoni di carbone.
Alcuni giocatori sono impegnati in una partita di
pallone su un campo che sembra d'asfalto. Sotto
il sole brillano i tetti di lamiera degli edifici. Ci
fermiamo per un controllo della Guardia Civil.
Ristorante "Los Frailones"
Percorriamo un altopiano a quota 3.800 metri di
altezza e facciamo una sosta presso il ristorante
“los Frailones”. Il ristorante è una fatiscente baracca di un solo piano, il tetto è parte in tegole, parte
in lamiera e il resto in paglia: pietre e vecchi pneumatici assicurano che il vento non ne porti via
qualche pezzo. Sopra la porta è appesa l'onnipresente insegna bianca e rossa della Coca Cola.
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Davanti è parcheggiato un asino. Alcuni maiali, piccoli e neri, sono stravaccati nella polvere. Una
bambina con indosso un elegante vestito di tessuto scozzese gioca seduta per terra. Da una finestra
il gestore serve bibite e, all'occorrenza, qualche pasto caldo.
A poca distanza del ristorante un giovane con uno zainetto sulla schiena scruta immobile la vallata
sottostante e la catena di montagne in lontananza. La maestra di Pataz mi si avvicina e mi mormora
all'orecchio: « Quello è un terrorista. Fanno così, controllano il territorio. »
Mi sento un po' preoccupato. Risaliamo in macchina e continuiamo il viaggio. Attorno a noi un
paesaggio arido e spoglio: a sinistra cime coperte di “ichu”, a destra un'ampia vallata chiusa da una
interminabile serie di cime. Il traffico è inesistente; solo nelle vicinanze di Shorey abbiamo
incrociato altri automezzi, per lo più camion che trasportavano minerale.
Abbiamo da poco lasciato “los Frailones” quando l'autista si gira verso di me e dice: « Stiamo
entrando nel territorio controllato dai terroristi. Se ci fermano non dire che sei un turista, dì che sei
un prete, così non ti fanno niente. »
Sono sconcertato; ricordo bene quanto mi aveva detto il marito della signora Gloria: con i
“caballeros” dell'MRTA non ci sarebbero stati problemi.
« Come un prete! » rispondo. « E se quelli vogliono che gli celebri una messa? »
Concordiamo una versione più plausibile: sarei stato un prete laico in viaggio per aiutare la gente
del posto. A pensarci bene, però, i componenti dell'MRTA sono di fede marxista... difficilmente
qualcuno di loro mi avrebbe chiesto una messa. Ma è sempre meglio prendere le proprie
precauzioni: un eretico poteva sempre militare tra le loro file.
Chiedo cosa potrebbe accadermi se ci fermano. Mi risponde l'ex compagno di Torrealva: «
Chiedono un “cupo” (una tangente), poi ti portano in qualche villaggio e ti mettono a lavorare per
qualche giorno, magari a impastare mattoni di argilla o a fare qualche altro lavoro in aiuto della
popolazione... »
Beh, penso, mica male come prospettiva. Potrebbe essere un'esperienza positiva!
« Il peggio è quando ti rilasciano » continua il signore, « se ti prendono i militari. A me è successo:
mi hanno accusato di collaborazionismo, mi han messo in prigione e bastonato di santa ragione. »
Annoto mentalmente: se mi prendono i militari negare tutto: dire che si è stati ospiti di vecchi
compagni di scuola.
Intanto, giù nella valle, si snoda tristemente una lunga fila di persone; quelle in testa portano una
bara in spalla. La maestra tira fuori un cartoccio, ne estrae un pollo cotto, lo spezza con le mani e
distribuisce, cosce, alucce e parti di petto. Odio il pollo, specialmente quello freddo, mezzo crudo e
senza sale ma, per non offendere “l'anfitriona”, inghiotto la mia razione.
Siamo ormai vicini alla città di
Huamachuco, l'autista si ferma per sistemare
il carico e io approfitto per fare una foto di
gruppo ai miei compagni di viaggio. Alle
13.44 arriviamo a Huamachuco. All'entrata
della città la strada è bloccata: la polizia
controlla minuziosamente gli automezzi.
Quando ci lasciano passare raggiungiamo il
centro e ci fermiamo per un zuppa (2.000
inti). Sono le ore 15. Alle 15.35 ci
rimettiamo in viaggio. Strada pessima e
paesaggi splendidi: il vento piega i giovani
eucalipti e le loro foglie azzurrine sembrano
Foto di gruppo vicino a Huamachuco
imitare le onde del mare. A Pallar ci
arriviamo alle 16.50. Poche case di terra con
le pareti affumicate, tetti di lamiera, donne che vendono arance; cani, polli e maialini neri che
scorrazzano dappertutto. Ci sediamo sotto un portico sbilenco per uno spuntino, fuori pioviggina e
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l'autista è preda del “soroche”, il mal di montagna: nausea e mal di testa.
Passiamo Chugay (3.371 mslm) alle 18.05, mentre il cielo si tinge di arancione in un bel tramonto.
Il buio cala velocemente. La strada peggiora: si trasforma in un sentiero, anzi, in una serie di tracce
confuse che non portano da alcuna parte. L'autista si perde, gira a vuoto, tenta di seguire una pista
che ha parvenza di strada. Lontano un lumicino rosso attira la sua attenzione; lo raggiunge solo per
scoprire che si tratta di un camion in panne. Il “soroche” peggiora e la macchina comincia a fare i
capricci. Data l'altitudine il carburatore fatica a bruciare la benzina. La motore s'ingolfa e si spegne.
Stiamo affrontando una ripida salita: bisogna scendere e bloccare il mezzo per impedirgli di
scivolare indietro. Fuori si gela ed è buio pesto. In cielo splende una eccezionale quantità di stelle.
Si vede distintamente la via lattea. Gli occhi si abituano e quel chiarore ci permette di distinguere,
sul terreno scuro, il tenue lucore delle pietre. Ne scegliamo un paio sufficientemente grosse da
mettere sotto le ruote posteriori. Dopo qualche tentativo la camionetta si rimette in moto e si può
ritornare al caldo della cabina. Purtroppo non dura molto: il motore s'ingolfa nuovamente e
dobbiamo a scendere e cercar pietre. Questo più volte. Finalmente la camionetta sembra mettere la
testa a posto, riusciamo a venir fuori dalla pampa e ritrovare la strada.
Più avanti siamo costretti a fermarci davanti a uno stretto e profondo canyon: il ponte che lo
attraversa è formato da tronchi contorti; le fessure tra i tronchi sono troppo larghe e le ruote della
camionetta rischiano di infilarsi dentro. Bisogna uscire e cercare pietre con cui richiudere le fessure.
Lavoriamo alla luce dei fari e, con un po' di impegno, risolviamo il problema. Prudentemente
rimaniamo fuori mentre, molto lentamente, la camionetta si avventura sul ponte: i tronchi
scricchiolano, le pietre affondano nelle fessure ma tutto tiene. La camionetta passa.
La strada si addentra nelle le Ande con infinite curve. Ci fermiamo a Molino Viejo, sono le 20.50.
C'è una locanda aperta, la signora Gloria vende un po' di polli e io bevo un tè molto annacquato, ma
bello caldo (500 inti). Ripartiamo un'ora dopo, alle 21.50.
Non ricordo esattamente dove, in località Molino Nuevo, mi sembra, passiamo davanti alla dimora
di un potente “brujo” (stregone). Per un attimo i fari illuminano una serie di strani totem piantati
come alberi di un singolare giardino.
Domenica 27 agosto
Dopo tanta salita la strada inizia a scendere: stiamo arrivando nella valle dove scorre il fiume
Marañon. La camionetta affronta una serie di stretti tornanti e, alla fine, ecco il fiume; lo
attraversiamo facendo vibrare le assi sconnesse di un ponte di ferro, giriamo a destra ed entriamo a
Chagual.
Ci fermiamo davanti al posto di controllo della polizia. È tutto buio. La luce intermittente di una
pila segnala all'autista di scendere. Attraverso il finestrino riesco a malapena a distinguere la
sagoma scura di un basso edifico. Sotto al porticato si muove l'ombra di qualcuno che sembra
dormire dentro un sacco a pelo. Alcune ombre si avvicinano alla camionetta, si distingue il fioco
bagliore delle armi. Il fascio di luce di una pila illumina l'interno e scruta i passeggeri. I militari
riconoscono i viaggiatori; c'è uno scambio di saluti e si riparte. Sono le ore 1.45. Il paesaggio è
totalmente cambiato: i fari rivelano strani alberi spogli ed enormi cactus. La strada è ora tutta in
salita, dietro di noi lasciamo una densa scia di polvere che le luci posteriori colorano di rosso. Curva
dopo curva saliamo sempre più. Improvvisamente l'autista comincia a suonare il clacson. Suona e
suona, senza smettere. Più avanti capisco perché: la strada è sbarrata da una catena, il suono serve a
svegliare il custode che ha le chiavi del lucchetto. Il costo dei lavori che hanno trasformato la
mulattiera in strada carrozzabile è stato sostenuto dai cittadini di Pataz. Ora quanti vi transitano
devono pagare un pedaggio, così da poter recuperare le spese. Arriviamo davanti alla catena nello
stesso momento in cui il custode, con aria notevolmente assonnata, sta uscendo dalla sua abitazione.
Apre il lucchetto, abbassa la catena e saluta l'autista. Alle 2.48 arriviamo a Pataz. Tutto buio: il
generatore di corrente è guasto ed è stato portato a Trujillo per essere riparato... sei mesi fa. Intanto
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ci si arrangia coi lumini a olio e a carburo. La sorella della signora Gloria è la proprietaria di uno
dei due negozi di Pataz dove si vende di tutto. Ha anche uno stanzone con una decina di letti per
alloggiare eventuali visitatori. M'informa che, per il momento, in paese non ci sono guide: sono
state tutte contrattate dalla spedizione dell'università del Colorado. Dovrebbero tornare a giorni. Mi
fornisce una candela e mi fa vedere lo stanzone. Porto su lo zaino. I letti sono tutti liberi, quindi
posso scegliere. Scarto il primo perché ha la rete sfondata; ne scarto un altro perché il materasso
sembra di cemento ricoperto di sassi; infine ne scelgo uno che promette una certa comodità. Mi
spoglio, indosso una tuta da ginnastica per la notte e mi ficco sotto le coperte. Poco dopo arriva
Lucy: dormirà al fondo, dove una tenda separa il reparto maschile da quello femminile.
Molto più tardi arriva anche l'autista, sfatto: è dovuto tornare indietro per cercare la borsa della
signora Gloria, caduta chissà dove e chissà quando, che conteneva una ingente somma di denaro. La
ricerca, inutile dirlo, si è dimostrata vana.
Sveglia alle 7.48. Dopo una sostanziosa colazione lavo il telo con cui avevo avvolto lo zaino: i
polli l'avevano ridotto in condizioni indecenti.
Elenco provviste: due latte di palmitos, due latte di pesche sciroppate, una latta di sardine, due
vasetti di marmellata “Fanny” alla fragola, formaggio, biscotti vari, biscotti al cioccolato, biscotti
alla vaniglia, quattro barrette di cioccolato, cinque bustine di minestra, venticinque bustine di tè,
zucchero e pane. Il tutto pesa circa sei chili.
Pataz si trova a 2.780 metri di altitudine, è prevalentemente un paese di minatori: ci sono, infatti,
molte miniere d'oro. Il metallo, però è quasi esaurito, quindi le miniere non sono più sfruttate da
grosse compagnie ma da privati.
Pataz
Pataz
Il paese si estende lungo il fianco della montagna, per questo la piazza ha una notevole pendenza.
La chiesa è intonacata di bianco, così pure il campanile, diviso dalla chiesa da una scala che porta
alla cella campanaria. Chiesa e campanile sono sbarrati. Il prete non c'è: viene due o tre volte
all'anno e celebra matrimoni, battesimi, comunioni e cresime. Davanti al campanile sono accatastati
sacchi di minerale. A sinistra del campanile una dozzina di gradini superano il dislivello portando a
degli edifici a due piani. Uno ospita il negozio della signora Isabel, sorella della signora Gloria. A
destra di questo una scala di legno porta allo stanzone dove sono alloggiato. Sotto alla scala
un'apertura immette in un cortile dove si trovano i servizi igienici e la lavanderia.
Al centro della piazza, quadrata, lastricata di cemento, sorge un monumento dedicato al minatore:
un basamento rotondo, rossiccio, sostiene un parallelepipedo verdognolo, di cemento, con pietre
incastonate sulla superficie. Sopra si erge il busto di un minatore con tuta e casco. Nella mano
sinistra tiene uno scalpello; del braccio destro rimane solo l'anima di ferro e un moncherino che
ancora impugna il manico di un martello. Giusto di fronte al monumento si trova l'edificio del
Consiglio Comunale: ha un solo piano, tetto in tegole e sopra la porta è appeso lo stemma del Perù.
A destra della chiesa passa la via che si può considerare come la principale. Ai suoi lati sono
accatastate pile e pile si sacchi di minerale d'oro.
Le case sono costruite con mattoni d'argilla impastata con paglia e cotti al sole. L'intonaco è
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bianco e celeste. Generalmente sono a due piani, con le camere al primo piano che, di solito, è
fornito di un terrazzo più o meno lungo, con ringhiera in legno. I tetti sono di tegole o lamiera.
Pranzo in camera: minestrina “Maggi” cucinata sul fornellino da campo, pane e formaggio.
Verso le 15 approfitto della splendida giornata per visitare paese e dintorni. Sole, vento e
“mosquitos”. In un campetto appena fuori dal paese si sta giocando la classica partita di pallone.
Il rio Frances
Dintorni di Pataz
M'incammino per una stradina e procedo per parecchi chilometri.
Il paesaggio è molto singolare, gli scorci sono diversi e sorprendenti a ogni curva. Sul fondo di una
“quebrada” (valle stretta e profonda) scorre sinuoso il rio Frances, così chiamato perché tempo fa
alcuni francesi vi possedevano una miniera. La strada sterrata è fiancheggiata da gradi piante di
agave, gli alberi ad alto fusto sono scarsissimi. Ci sono campi appena arati color marrone e campi
giallo oro dove l'orzo è stato appena tagliato. Giallo e marrone sono spesso separati dal verdeazzurro delle siepi di agave. Lontano sfumano nel violetto le cime dei monti.
Discreto tramonto con la terra che si tinge di rosso e nuvole grigie. Il buio arriva rapidamente. Alle
18 rientro a Pataz. Nel negozio della signora Isabel per 7.500 inti compero un chilo e mezzo di
mandarini. La signora mi avverte che ci sono problemi per contrattare una guida: mercoledì 30
agosto è la festa di Santa Rosa di Lima, bisognerà aspettare giovedì.
Ore 19.15: di certo Pataz non brilla per la vita notturna. Ceno e mi butto a letto, alquanto
arrabbiato per tanti contrattempi.
Alle 20 qualcosa cade sul lenzuolo, vicino alla mia testa, e mi distoglie dal dormiveglia. Un
pezzetto di intonaco? Una “cucaracha? Accendo la pila e guardo: è una cacca di topo! Punto la luce
verso il soffitto: appollaiato su una trave un topo grosso come un gatto mi osserva con attenzione.
Agito la pila e il topone scompare in una fessura. Preoccupato controllo che non ci sia roba da
mangiare sparsa, chiudo bene lo zaino e me ne torno sotto le coperte col coltello da sopravvivenza a
portata di mano.
Verso le 22 mi sveglio di soprassalto: lo stanzone risuona di striduli squitti e di rumori di lotta di
topi. La luce della pila non mi rivela nulla. Torno sotto le coperte e sono ancora sveglio quando
qualcosa passa correndo, attraversa il mio cuscino e mi sfiora i capelli. Mi alzo di scatto ma
qualsiasi animale sia stato è già sparito nel buio. Sfodero il coltello e lo pianto sulla sedia, accanto
alla candela che lascio accesa per tutta la notte.
Lunedì 28 agosto
Oh gioia! Poco dopo le 7 del mattino bussano insistentemente alla porta: c'è una guida. Scendo
volando: si tratta del signor Manuel Armas Coronel, sceso casualmente in paese per fare acquisti.
Non è stato ingaggiato dagli americani perché si trovava in viaggio. Lo contratto io
immediatamente. Chiede 15.000 inti al giorno e altrettanti per il mulo. Per nove giorni sarebbero
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quindi 270.000 inti.
Il mangiare è a mio carico. Col signor Armas Coronel faccio la spesa: per la colazione due chili di
“cuaquer” (avena, 11.000 inti), due chili di zucchero (5.200 inti) e biscotti (8.000 inti).
Per il pranzo: otto lattine di tonno (24.800 inti), otto lattine di latte Nestlè (24.000 inti), biscotti
(8.000). Per la cena: quattro buste di minestra di semola e quattro di pasta (20.000 inti). Totale
100.200 inti. Gentilmente la signora Isabel mi fa lo sconto di 200 inti.
Niente pane perché non c'è lievito.
Alle ore 7.35 tutto sembra sistemato. La partenza è fissata per domani alle 6 del mattino; si
prevede di visitare anche “Los Pinchudos” o “Colorado”.
Torno in camera contento.
Durante la notte la candela si è consumata totalmente. Compero due candele (2.500 inti) e una
bustina di Ace, che mi viene regalata, con cui lavare un po' di indumenti. Dopo il bucato faccio il
bilancio: in cassa restano 1.691.700 inti.
In piazza c'è movimento: tre minatori stanno
partendo per la miniera, scendo a fare quattro
chiacchiere. Uno di loro, Manuel Olano, è cugino
della mia guida. I tre stanno facendo acquisti e
caricando i muli. Comprano provviste a attrezzi:
avena, sardine in scatola, scalpelli, candelotti di
dinamite, picconi, riso, sale, lamiere ondulate,
foglie di coca... il negozio della sorella della
signora Gloria è davvero ben fornito. La loro
miniera si trova alquanto lontano; torneranno a
Pataz, cercatori d'oro in partenza
Pataz quando avranno riempito duecento sacchi di
minerale. Se il minerale risulterà ricco d'oro verrà
lavorato in paese, altrimenti verrà spedito in raffineria a Trujillo.
Uno dei minatori adocchia i miei scarponi. Voglio venderglieli? Mi pagherebbe in oro. Tira fuori
un cartoccetto e mi fa vedere un mucchietto di scaglie verdognole. Quello è oro? Oro puro, mi
assicura. Se non fossi all'inizio del viaggio, quasi quasi glieli venderei, ma ora no, ne ho bisogno.
Forse al ritorno... A mezzogiorno pranzo con una minestrina Maggi (carne con fideos). La giornata
è discreta, decido di fare una passeggiata, tanto per riconoscere il cammino che mi aspetta domani.
Acquisto 4 banane (1.000 inti) e decido di
avvivare fino a Los Alisos.
Sono le 13.24, indosso la giacca a vento,
infilo quattro mandarini in tasca e
m'incammino per una stradina a destra del
Consiglio Comunale e subito incontro alcune
raffinerie d'oro. Sotto tettoie di frasche ci
sono delle superfici di cemento incavate, lì
viene posto il minerale e macinato con dei
grossi rulli di pietra. Gli uomini, seduti per
terra, spingono i rulli avanti e indietro con i
piedi, senza fretta, fumando, chiacchierando o
masticando coca. Raccolgo alcuni cristalli di
Macine per il minerale d'oro
quarzo aurifero come ricordo, saluto i
lavoratori e proseguo nel cammino. Dopo una scuola il sentiero si restringe e scende con forte
pendenza costeggiando un ruscello che fornisce acqua alle raffinerie.
Quanto segue è abbastanza noioso e si può saltare senza tanti problemi.
13.32, ruscello con cascatina; il sentiero è in salita.
13.34, il sentiero si allarga.
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13.48, il sentiero piega bruscamente a destra e scende leggermente.
13.54, casa sulla destra. Con una curva secca si supera un torrente.
13.58, sul lato sinistro si costeggia un canale. Sentiero in leggera salita.
14.04, si arriva in località Santa Maria, gruppetto di case, molta acqua, si supera un piccolo
torrente. A destra scorre un canale artificiale.
14.12, si supera un ponticello e si arriva a Pueblo Nuevo.
14.14, secondo ponticello.
14.16, terzo ponticello che supera un canale artificiale.
14.25, si supera un gruppo di case e una piccola cascata.
14.30, si arriva a un bivio. Si prosegue dritti ( a sinistra si arriverebbe a una casa). Sentiero molto
fangoso. Da sinistra arriva il rumore di una cascata.
14.34, ruscello a sinistra.
14.36, guado.
14.38, il ruscello serpeggiante costringe a un nuovo guado; un ponticello permette di superare un
secondo corso d'acqua.
14.45, la valle si chiude. Si arriva al greto di un fiume. A sinistra si passa un canale, si segue il
greto del fiume che si guada due volte, quindi si risale l'argine.
14.59, tratto di sentiero tutto in salita e si arriva a Poroto (che io credo sia Los Alisos). La
prima casa sulla destra è la casa della mia guida.
Tempo di percorrenza un'ora e trentacinque minuti. Tutto sommato il sentiero non presenta
difficoltà. Segue il fianco del Cerro Alto las Pircas, mentre dalla parte opposta, lungo una profonda
vallata, scorre il rio Chigualen che più avanti prende il nome di rio Frances e, più avanti ancora, di
Hualanga, prima di buttarsi nel Marañon. Sul fianco della montagna si aprono numerosi buchi: sono
le entrate delle miniere. Giù, nella valle, molte zone coltivare e ciuffi di alberi fioriti. Molti tratti del
cammino sono coperti di fango nero, pochi i tratti con pietrisco, la maggior parte del percorso si
svolge su terra battuta.
Passo un po' di tempo a parlare con la guida. Mi indica le cime che ci circondano e mi dice i nomi.
Mi fa notare il Peñashuya e, più a destra, la cima aguzza del Colpar, sotto il quale passeremo
domani.
Alle 15.07 mi metto in cammino
per il ritorno. Per strada incrocio
due tipi: in spalla reggono pesanti
sacchi di iuta, sono venuti a Pataz
per vendere picconi, asce e zappe.
Non hanno venduto nulla. Chiedo
loro se hanno un machete. Non ne
hanno. Mi chiedono informazioni
su Los Alisos e Tayabamba, dove
sperano di fare qualche affare.
Arrivo a Pataz alle 16.35. Trovo la
signora Gloria e le pago il viaggio:
70.000 inti. Incontro la signorina
Lucy, reduce dal suo primo giorno
di scuola. Insegna in quarta
elementare e ha nove alunni. È
nativa di Oxapampa. Ha lasciato il
lavoro di infermiera in un ambulatorio di Trujillo per venire a insegnare a Pataz fino a dicembre. È
rimasta alquanto delusa.
La piazza di Pataz pullula di bambini. Mi intrattengo per far loro un po' di foto. Purtroppo, data
l'ora e il tempo uggioso, la luce è scarsa.
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Un giovane mi si avvicina, cominciamo a parlare e, saputo che sono diretto al Pajaten, mi chiede
se voglio conoscere Torrealva, lo scopritore delle rovine. Caspita! Non me lo faccio ripetere due
volte. Lo seguo fino a una modestissima casa di fango. All'interno giocano e schiamazzano alcuni
bambini. Nella penombra ascolto e registro, con molta emozione, la storia della scoperta del Gran
Pajaten.
Sono le 18.30. Don Carlos Tomas Torrealva Juarez è un anziano signore, pelle color del cuoio,
viso segnato da profonde rughe, occhi scuri, lucidi, vivi. Parla con voce chiara, ferma.
« ...Bueno... è molto lungo raccontare, anche in sintesi ma, in parte, si può fare. Il Pajaten lo
scoprimmo quando cercavamo terre coltivabili, “vetas” (filoni) e “lavaderos” d'oro (depositi
alluvionali) che non fossero proprietà dei capitalisti. L'intenzione era quella di realizzare una
comunità simile a quella esistente al tempo degli inca e creare nuove fonti di lavoro per fermare la
costante migrazione degli abitanti verso la costa. A quel tempo le miniere erano di proprietà dei
capitalisti i quali, pur sapendo che la miniera era l'unica fonte di lavoro qui a Pataz, chiudevano le
miniere a loro piacimento e, quando decidevano di riaprirle, davano lavoro solamente per qualche
giorno.
Così pensammo di non continuare a essere sottomessi ai proprietari delle miniere. Abbiamo la
selva a 30 chilometri da qui, la selva è vergine, è del popolo; è dello stato, certamente, e per il fatto
di appartenere allo stato è del popolo. Possiamo andare in cerca di terre coltivabili, filoni,
“lavaderos”, per poter lavorare. Questo fu il motivo per cui ci inoltrammo nella selva.
Fu per sorte che, in uno di questi viaggi, non solamente trovammo terreni adatti all'agricoltura,
all'allevamento e alla miniera, ma durante il ritorno c'imbattemmo in vestigia di antichi
insediamenti.
Ciò mi interessò molto, questi insediamenti potevano appartenere all'antico popolo di Apisuncho.
Il sentiero porta alla cordigliera e al Camino Marginal. Decidemmo di seguire questo cammino
anche se allungavamo il viaggio. Chiesi ai miei compagni se erano d'accordo di procedere. Tutti
furono d'accordo. Se possiamo, possiamo tutti e quattro. Ci salvammo per miracolo (en buena hora).
Rimanemmo tre giorni senza mangiare. Ne uscimmo quasi morti, però scoprimmo il cimitero di
questa cultura, non la cultura stessa, che si suppone fosse lì vicino.
In dicembre organizzammo un altro viaggio, nello stesso anno, il 1963.
Nel '64 organizzammo un successivo viaggio con vari rappresentanti del popolo, per ripartire i
terreni e occupare le zone da dedicare all'agricoltura. Noi (Torrealva e compagni) ci andammo
solamente per le rovine e fu allora che ci rendemmo conto della loro importanza.
Viaggiai immediatamente a Lima, per far conoscere al giornalismo nazionale, a tutte le autorità e
specialmente al governo. Proprio così. In questo modo si rese noto a tutti che il Pajaten era bello e
io ne chiedevo il riconoscimento immediato e la sua salvaguardia. Abbiamo anche organizzato un
comitato, posteriormente, per difendere il Pajaten. Finora, però, nessuna istituzione ha voluto
riconoscerlo. Il Pajaten, ora, si sta avviando verso la distruzione totale a causa della negligenza o
cattiveria delle attuali autorità.
Ora spero aumentare le opportunità internazionali. Ojalá (voglia dio) che qualche università di
qualche paese straniero s'interessi e ordini la sua salvaguardia. Adesso il governo “està hasta las
patillas” (è preso male, ha grosse difficoltà), non ci sono soldi e sicuramente non potrà prendersi
cura. Tuttavia i guardaparchi dicono di essere pagati da fondi stranieri, però loro controllano
solamente, non se ne prendono cura: Pajaten si sta avviando verso la distruzione totale. »
Chiedo quando furono scoperte le rovine.
« Fu scoperto nel '63, ma venne fatto conoscere in maniera più ampia al giornalismo e alle stesse
autorità nel '64.
Nel '63 parlai persino col Presidente Belaunde il quale, però, non prese alcuna decisione.
Nel '64 non sopportai più, mi recai ai giornali, alle autorità e allo stesso governo, così, dopo due
anni vengono ufficialmente riconosciute le rovine e si organizzò una spedizione scientifica civile.
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Quando si realizzò il riconoscimento ufficiale tutte le autorità che intervennero componendo la
spedizione contarono con molto appoggio dello stato.
Raccomandarono soprattutto la salvaguardia. Mi incaricarono di proteggere le rovine e di pulire i
sentieri, però quando andai a sollecitare il pagamento, non pagarono la mia gente, venti uomini.
Rimasi col conto sospeso e dovetti pagarlo di tasca mia.
Chiedo: « La spedizione a cui si riferisce, in che anno fu? »
« Nel 1965 ci fu la prima spedizione e nel 1966 la seconda. Io rimasi a occuparmi delle rovine,
pulendo i sentieri. Pensavo di ottenere un finanziamento. Viaggiai a Lima per ottenerlo in modo da
poter pagare la gente, ma il finanziamento non c'era. Dovetti pagare la gente con i miei soldi, poco a
poco.
Savoy venne nell'anno 1965, prima della spedizione scientifica. Dopo si fece passare come lo
scopritore. Io lo denunciai. [...] Mi recai presso la rivista Gente, gli feci una denuncia e sa cosa
successe? La denuncia la facemmo per il furto di tre “cabezas clavas” (teste scolpite in pietra
incastrate nelle pareti), lì, nel Pajaten.
Nella rivista uscì tutta la denuncia. Il giorno che fu pubblicata a noi dettero due copie, vedemmo
che la denuncia andava bene e fummo alle edicole per comprarne una mezza dozzina con i miei
compagni di allora. Non ne trovammo nemmeno una! Fummo alla tipografia... nemmeno! Era
successo che il signor Savoy aveva comprato l'intera tiratura prodotta dalla rivista Gente e,
sicuramente, la bruciò.
Quella denuncia deve continuare, ma con questo governo no; quando ci sarà un altro governo o la
comunità scientifica internazionale possono investigare su questo, perché tre “cabezas clavas”
valgono molti soldi. Si investighi, e il signore deve renderne conto. Se non ha commesso (il furto)
perché non ha risposto alla rivista Gente, davanti alle autorità? Perché, alfine, qualcuno è venuto a
conoscenza del fatto. Ne abbiamo la certezza. In seguito mandammo a tutte le dipendenze pubbliche
e allo stesso giornale copia di questa denuncia, ma nessuno l'ha pubblicata. Io ce l'ho lì. »
« Incredibile! » esclamo
« ¡Así es! ¡Que barbaridad! »
« Com'è stato che... » Torrealva mi interrompe.
« Sa come s'interessò questo signore? Fu nel mese di maggio-giugno del 1964. Noi pubblicammo
sui giornali che avevamo scoperto Eldorado. Vennero pubblicate alcune fotografie... io non ero
fotografo... avevo una macchinetta... uscì qualcosa, non molto in verità, però quello che importava
era provare il fatto del ritrovamento di rovine importanti: avevamo bisogno che il Governo
riconoscesse e che ci andassero fotografi e giornalisti. Comunque venne pubblicato che avevamo
scoperto Eldorado, allora Gene Savoy s'interessa, vede l'articolo in prima pagina: lo pubblicò La
Industria di Trujillo, La Prensa di Lima, El Comercio di Lima, Expreso pure lo pubblicò, così si
venne a conoscenza che la scoperta era interessante. Allora (Savoy) ci scrisse una lettera facendoci
sapere, per mezzo di Karl Roble di Comercial, che voleva conoscere Eldorado, scattare fotografie
ed esibirle nella fiera di primavera.
Ho la lettera, la custodisco per ogni evenienza.
Allora che succede: viene da Trujillo, nasce l'ambizione, se ne va da un colonnello di Trujillo e
chiede un'autorizzazione per andare da solo a Eldorado. E noi lo stavamo aspettando qui (a Pataz),
secondo la richiesta avuta con la lettera. A quel tempo a Chagual c'era un distaccamento mobile
contro i guerriglieri. Noi eravamo stati denunciati come comunisti e guerriglieri che, col pretesto
delle rovine, avevamo un esercito di guerriglieri nella selva. “Así, oiga”. Ciò ci causò molto
malessere, morirono quattro miei figli per colpa di ciò. Così è, bisogna dirlo davanti a qualsiasi
giornalista.
Morirono... peggio se fossero stati fucilati... perché minacciarono di fucilarci. Per quelle
conseguenze morirono i miei figli... peggio se fossero stati fucilati.
Venne, dunque, Savoy portando l'ordine da Trujillo per poter entrare nella selva a Eldorado da
solo. Arriva a Chagual, portando la copia del colonnello; a Chagual c'era un comandante il quale,
33
vedendo l'ordine del colonnello di Trujillo è costretto a obbedire.
Viene qua Savoy (a Pataz) e qui c'era un tenente. Il tenente era a conoscenza che io dovevo
viaggiare al Pajaten e che aspettavo soltanto l'arrivo del tipo (Savoy).
Il tenente vede l'ordine del colonnello di Trujillo e quello di Chagual; mancava, quindi, solo il suo.
Mi mandò a chiamare... fijate, compadre, era guardador (pensa, compare, era sorvegliante,
incaricato di vigilare sulle rovine. Torrealva si rivolge al giovane che mi ha accompagnato da lui) e
mi dice: « Lei è Torrealva? »
« Sì, sì! »
« Il signor Savoy se ne va solo al Pajaten. »
« Per quale ragione se ne va solo? »
« Porta l'ordine di Trujillo e del comandante di Chagual. »
Gli dico: « Lui non può entrare. » Intanto tirai fuori un documento che avevo portato da Lima, della
Corporazione del Turismo.
« Perché a me hanno detto che lei non ci andava, non ha entrata al Pajaten: ci va solo Savoy col
suo gruppo. »
« Ecco qui! Legga, tenente » (mostrai il documento al tenente). Questi lesse l'ordine da Lima della
Corporazione del Turismo, in cui si diceva che tutte le autorità della zona, da Lima fino a qui, hanno
diritto e obbligo di prestare garanzie a me affinché possa entrare e uscire dal Pajaten.
Allora il tenente rimase mezzo spaventato e mi disse: « Guardi, io non poso fermare il suo viaggio.
Se lei vuole può andare col signor Savoy, altrimenti può andarci per conto suo. Però sarebbe
conveniente un accordo. Che dite, ve ne andate (assieme?). »
Ci mettemmo d'accordo lì stesso . Io notavo una certa cattiveria (in Savoy).
Lungo il tragitto successero molte cose, ci vorrebbe troppo tempo per raccontarle.
Arrivammo al Pajaten, senta, senta, il “gringo” ballava di allegria. « Oh, » disse « con esto arriba
(evviva) Pataz... arriba Perú... » Pitaz, diceva, per dire Pataz... pronunciava il castigliano così così,
dopo altre cose non pronunciava. Ballava lì. Era una buona scoperta per gli scienziati.
Ci mettemmo d'accordo ma, disgraziatamente, non facemmo un accordo scritto, soltanto verbale:
guardi (rivolto a Savoy), vada negli Stati Uniti e in tutta Europa facendo vedere che questa è una
cultura che si può sfruttare a fini turistici. Qui io m'incarico di pulire le rovine, costruire sentieri di
accesso affinché possa entrare qualsiasi gruppo di turisti. Specialmente dobbiamo avere pellicola.
Ci mettemmo d'accordo in questa maniera, perché lui andasse all'estero mentre io qui, in Perù,
avrei fatto tutto il possibile per promuovere il turismo. Qualsiasi guadagno sarebbe stato poi diviso:
50% a lui e 50% per me e i miei compagni e per difendere le rovine.
Arriva qui e, disgraziatamente, c'era un “cabildo abierto”(assemblea a cui partecipa liberamente la
gente per chiedere conto al sindaco o altre autorità del loro operato).
Chiamarono il “gringo”, perché qui nessuno credeva che io avessi scoperto delle rovine
importanti. Nessuno dei miei concittadini. Nessuno! Solamente mia moglie e i miei compagni.
Così lo chiamarono al “cabildo abierto”.
Il sindaco dice: « Signor Savoy, vogliamo sapere se esistono rovine o non esistono rovine. » Fatto
con sospetto, perché ci avevano denunciati come comunisti e guerriglieri.
« Sì (rispose Savoy), queste sono rovine molto importanti, di grande valore. Con queste Pataz può
ottenere notevoli introiti. » Parlò l'interprete di Savoy, perché lui non parlava castigliano. Era un
“tacharon” (ciccione) canadese, lui parlò in castigliano.
Detto questo uscirono. Dissero solamente questo e uscirono. Se ne tornarono alla svelta a Trujillo.
Allora che succede… siccome io avevo dei problemi col sindaco, tante cose, qualcuno disse: «
Signor sindaco mi sembra di capire che il signor Torrealva deve andare a Lima. Potrebbe il
consiglio aiutarlo in qualcosa? »
« No! » Rispose il sindaco. « Non c'è motivo per aiutarlo! »
Così mi denunciò a Chagual sostenendo che avevo attaccato il suo “cabildo”. “¡Así es!” .
Allora io, facendo l'impossibile, togliendo persino il necessario ai miei figli, viaggiai
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immediatamente a Chagual, mi presentai davanti al comandante e gli dissi: « Guardi, signor
comandante, io viaggio a Lima. »
« Ah, è così! » Rispose. « E cosa è successo tra lei e il sindaco? Lei è stato denunciato! »
Risposi: « E qual'è il motivo della denuncia? »
« Mi racconti com'è successo. » Il comandante mi trattò bene, così io raccontai, così come ho
appena raccontato a lei. Alla fine il comandante mi lasciò andare dicendo: « Vai pure “¡Estos
alcaldecitos no saben donde estan parados!” Vai! »
Lui aveva già indagato presso lo stesso “gringo”, Savoy, e capito che si trattava di rovine
importanti. Così, viaggiando a Lima, il 28 di settembre uscì in prima pagina: SAVOY HA
SCOPERTO ELDORADO... Da uccidersi di rabbia!
Mi recai alla Corporazione del Turismo con nuove foto dicendo al vicepresidente della
corporazione: Come potete permettere questo! Quante volte sono venuto a chiedervi di andare a
riconoscere il Pajaten e portare buone macchine (fotografiche) e buoni fotografi, in modo da
ottenere buone pubblicazioni.
Così smentimmo la notizia e denunciammo Gene Savoy, non per le notizie, per [...].
Savoy fu ingrato. Se torna qui non so cosa potrà succedere. Va bene che sia nordamericano, però
credo che come scienziato poteva essere un uomo formale, un uomo legale; invece era un bugiardo
e buffone. Precisamente Karola Sibe(?), una scienziata tedesca, una studiosa di studi sull'Atlantide...
ho qui il libro intitolato “Vestigia atlantidee ed egiziane in Perù”, in cui attacca Gene Savoy,
accusandolo di essere un buffone, un bugiardo.
Quando uscì il libro sono stato attento per eventuali critiche, però nessuno disse qualcosa. Io ci
sono lì, nel libro, abbracciato alla tedesca. »
Chiedo di ripetere il nome della scienziata tedesca. Torrealva risponde: « Karola Sibe(?). Stava in
Perù con un professore di lingue. »
« Adesso quello che più mi addolora, me e mia moglie, un po' meno, forse, i miei figli, piango di
rabbia, tanti sacrifici, tanto tempo perso, tanti soldi spesi. Danneggiarono persino gli studi dei miei
figli.
Adesso passano molte spedizioni per il Pajaten; i guardaparchi godono di un buon stipendio e noi
che? Non guadagniamo un centesimo! Nemmeno ci riconoscono. Non ci danno nemmeno un
lavoro, ci danno, agli scopritori: nemmeno ai nostri figli.
I guardaparchi sono giovani, i miei figli dovrebbero almeno lavorare lì. Questa è l'ingiustizia che
più mi duole. »
Chiedo: « Chi furono, oltre a lei, gli altri scopritori del Pajaten? »
« In totale fummo sei, gli scopritori; all'inizio, però eravamo in quattro, uno è morto: Santos
Escobedo è morto. Calisto N... Ilario, Manuel Villalobos Rodriguez, Nicolas Garcia, Eleodoro
Torrealva (mio fratello), e io.
Chiedo: « Perché il nome Pajaten? »
« Il nome di Pajaten fu un errore. La mappa era sbagliata. Nel nostro paese certe cose non sono
state ancora ratificate. Credevamo che il fiume che scorreva per di là fosse il Pajaten, come
potevamo osservare nella mappa, per cui eravamo convinti che le rovine da noi scoperte fossero
lungo il Pajaten. Invece non era così: il Pajaten è più a nord. Il fiume che bagna le rovine non aveva
nome, recentemente noi gli demmo il nome di Montecristo. Non so in che pubblicazione recente lo
chiamano Montecristo, in altre pubblicazioni lo chiamano col nome di un comandante che, per la
prima volta, arrivò in elicottero al Pajaten. »
Chiedo « Lo chiamano anche Abiseo, no? »
« Anche, ma l'Abiseo è più in là, questo è un affluente dell'Abiseo. [...] Per me, affinché lei,
finalmente lo sappia, ho potuto osservare tutti gli studi che sono stati fatti dagli scienziati sul
Pajaten e sulla cultura a cui appartiene. Nessuno può trovare un somiglianza con altre culture,
semplicemente hanno scoperto che al Pajaten esiste una mescolanza di culture.
Per me Pajaten... e qui lei si metterà a ridere, è stato costruito da esseri venuti da un altro pianeta.
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Per me gli inca furono extraterrestri. Proprio così. Questa è la mia opinione e voglio mantenerla fino
alla fine, anche a torto. Ma so che non ho torto, perché dal giorno in cui scoprii il Pajaten ho visto
centoventidue navi extraterrestri che sorvolano il cielo. Ne ho visto una bella grande stanotte, tu non
l'hai vista (si rivolge al giovane che mi ha accompagnato). Una grande che passò per di qua. Sono
navi di altri pianeti. Due notti fa vedemmo una nave... quella che anche tu hai visto scintillare (si
rivolge ancora al giovane che mi ha accompagnato e questi conferma)... quella poteva essere russa o
americana. Nella seconda notte tornò a verificarsi lo stesso fenomeno, però differente dagli altri. »
Chiedo: « Non potrebbe trattarsi di aerei? »
« No, no! » risponde.
« Cos'hanno di diverso? »
« Sono come luci, uguali alle stelle che vediamo... passano... però generalmente passano da ovest a
est, da sud a nord e da nord a sud; non passano da est a ovest, non ne ho mai visto. Nessuna delle
centoventidue navi che ho avvistato percorre il cielo da est a ovest, tutte passano da ovest a est e da
sud a nord.
¡Asì es, que le parece! Speriamo che porti questa notizia all'estero e che qualche scienziato possa
ricordarsi degli scopritori e scrivere quello che è giusto, che è certo. Io ho già pronto uno scritto.
Così adesso andrò da Aerocondor, visto che sponsorizza turismo e vuole aiutarci, vediamo se
sponsorizza un prima tiratura in cui si racconta come fu dall'inizio. Alcuni dicono che l'abbiamo
scoperto per caso, non è così, non ci interessa, che parlino pure, però quando uscirà il libro degli
autori della scoperta, tutto sarà raccontato correttamente com'è accaduto, senza togliere né
aggiungere su quello che successe nella nostra odissea. »
Chiedo: « Come si rese conto di aver scoperto qualcosa di importante? »
Risponde: « Il cimitero. Il cammino, più che altro; il cimitero, è molto strano: sotto le pietre hanno
fatto una “pirca” (muro a secco) però con pietre ben sistemate, non come i soliti muriccioli nei quali
si collocano le pietre alla rinfusa, basta che non cadano. Erano ben unite, con notevole simmetria:
allora mi resi conto che si trattava di una cosa importante. E quando scoprimmo le torri in
altorilievo. Io arrivai per primo a una “cabeza clava”, per pulire il muschio dentro la selva. Pulisco
così... una “cabeza clava”! Questo è Eldorado, dissi, è Eldorado! “¡Allí mismo vi a mi Eldorado!”
(in quell'istante vidi il mio Eldorado)... avevo molti sogni...
Forse lo scriverò nel mio libro. Anche se mi hanno tradito. Sono ventisei anni che lotto per questa
scoperta e ancora non mi riconoscono (il merito). Ventisei anni di spese. Io, a questo Governo,
l'anno scorso inviai un memoriale con venticinque copie fotostatiche di quasi tutte le gestioni che
sono state fatte, chiedendo il riconoscimento delle rovine e il riconoscimento ufficiale degli
scopritori. Venticinque copie fotostatiche al Ministero, al Presidente della Repubblica, al Ministero
della Presidenza, al Ministero dell'Industria e Turismo, al Ministero dell'Agricoltura, al Ministero
della Pubblica Istruzione, al Presidente del Senato, al deputato provinciale e all'Istituto Nazionale
della Cultura. Quanto mi è costato tutto ciò! Un sacco di soldi. E nemmeno una risposta! ¡Así es,
oiga!¡Una barbaridad!
Continuo ad avere pazienza perché ho considerato il Pajaten come simbolo di pace, di giustizia e
di superamento universale. Questo è il mio criterio. Prima l'avevo proposto come biblioteca
dell'antico Perù, totale in fin dei conti è rimasto il Gran Pajaten. »
Dico: « Speriamo le riconoscano al più presto quanto ha fatto. »
« Speriamo... che mi diano almeno un lavoro. Amo molto le rovine. Voglio stare al loro lato per
poter decifrare i messaggi che tutti stanno esprimendo... Per questo voglio che mi diano lavoro. »
Qua finisce il nastro e s'interrompe la registrazione. Sul lato B la conversazione prosegue: io parlo
del mio lavoro, della spedizione Rupa Rupa 80, mentre Torrealva mi parla della pietre di Ica e del
suo desiderio di conoscere la cultura egiziana. Nella trascrizione ho cercato di mantenere quanto più
fedelmente possibile una traduzione letterale anche, a volte, a scapito della scorrevolezza della
lettura. Alcune parti sono di difficile interpretazione in quanto rumori di fondo e voci di bambini si
sovrappongono alle parole di Torrealva.
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La vicenda mi sembra, comunque chiara e,
leggendo tra le righe, ci si può benissimo
rendere conto di come stavano, e stanno
tuttora, certe cose in Perù.
Fuori si è fatto buio e cade qualche goccia
di pioggia. Nei focolari crepitano i fuochi, i
lumi a carburo illuminano le abitazioni.
Rimetto in tasca il registratore e mi
accomiato da don Tomas Torrealva,
scopritore della città perduta di Gran Pajaten,
sito archeologico di eccezionale importanza.
Prima di uscire, però, chiedo un ultimo
favore: apro il mio libretto di appunti e
Diario con l'autografo di Torrealva
Torrealva mi fa il suo autografo. Purtroppo
ormai è troppo buio per scattare un foto.
Al solito negozio compro due chili di mandarini (10.000 inti), una lattina di caffè in polvere (3.000
inti) e due scatole di fiammiferi (1.000 inti).
Ceno con cinque mandarini, una banana e un po' di biscotti. Preparo lo zaino, scrivo il diario e alle
21.17 vado a dormire.
Martedì 29 agosto
Ore 5.50, sveglia con tempo nuvoloso.
Sistemo lo zaino, faccio colazione e alle
6.35 sono pronto. Manca solo la guida.
Pochi minuti dopo le 7 il signor Manuel
Armas Coronel, avvolto in un poncio
viola, attraversa la piazza di Pataz seguito
dal mulo. Carica il mio zaino, ben avvolto
in un robusto telo, assicurandolo con una
fune e, dopo una foto di rito, si parte. Sono
le 7.35. Ci mettiamo in cammino e
usciamo dal paese salutati da un mattiniero
Torrealva. Ripercorro il sentiero di ieri
fino a Poroto. Le poche case di fango sono
circondate da campi coltivati e gruppi di Pataz, 29 agosto. Io, il signor Manuel Armas Coronel e il mulo
eucalipti. Spunta qualche timido raggio di
sole. Alle 9.17 la guida si ferma davanti a casa sua e, aiutato dalla moglie, completa il carico con le
sue provviste. Si riparte alle 9.43 tormentati da una leggera pioggia.
Subito dopo Poroto il sentiero comincia a salire, a volte con stretti zig-zag. Si alternano tratti di
terra battuta con altri cosparsi di pietrisco dove è disagevole procedere. All'inizio camminiamo
circondati da bassi cespugli. Più saliamo e più, alla nostra sinistra, si allarga la vista della valle del
Chigualen con le sue macchie irregolari di campi coltivati, mentre a destra ci accompagnano le
pendici sempre più brulle della montagna. Il signor Manuel cammina veloce. Mastica il suo bolo di
coca mescolandolo, di tanto in tanto, con nuova calce che estrae da un piccolo contenitore ricavato
da una zucca. Quando lo fa, il ticchettio del bastoncino con cui pesca la calce rompe il silenzio che
ci accompagna.
Alle 9.50 un tratto di sentiero pianeggiante ci concede un po' di respiro. Alle 10.05 scavalchiamo
un ponticello e dopo cinque minuti facciamo una sosta per la necessità di sistemare il carico del
mulo. Raggiungiamo Los Alisos (gli ontani) alle 10.22. Non entriamo nel paese (in realtà è solo un
gruppetto di case sparse tra campi e macchie di arbusti) ma lo lasciamo alla nostra sinistra. A Los
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Alisos fervono i preparativi per la festa di Santa Rosa di Lima: lo si intuisce dalla musica di una
banda che, portata dal vento, ci insegue per un buon tratto della salita.
Veniamo raggiunti da un alcuni uomini che
conducono una carovana di muli. Sono diretti a
Pias. Ci salutano e ci superano con passo veloce.
Il sentiero si fa più ripido, a volte è immerso nel
fango nero. Alle 10.54 superiamo una piantagione
di eucalipti e, subito dopo, un ponticello di tronchi
a quota 2.850, secondo il mio altimetro. Il sentiero
ha piegato bruscamente e adesso costeggia l'altro
versante della valle. Alle 11.18 a circa 3.000 metri
di quota ci accoglie un tratto pianeggiante; ma è
solo un breve sollievo e il cammino riprende a
salire con stretti zig-zag, passando spesso sotto
Sosta a Poroto
archi di vegetazione.
Sono le 11.53 quando, a quota 3.225 incrociamo la lunga carovana che riporta a Pataz gli studiosi
dell'università del Colorado. La lunga fila di muli procede lestamente, portando sulla groppa
voluminose casse di allumino. Si alternano le guide avvolte nei loro mantelli scuri, in netto
contrasto con le tute sgargianti, azzurre e arancioni, degli studenti americani. Sono in parecchi.
Ragazzi e ragazze bionde procedono traballando, con le teste basse, lo sguardo fisso al terreno, con
tute e scarponi sporchi di fango e l'aria stanca.
La mia guida è avanti. Io procedo col mio passo e ogni tanto mi fermo a riprendere fiato e scattare
qualche fotografia. Alle 12.06 arrivo in prossimità di una cascata e alle 12.21 mi fermo davanti a un
cartello di legno dipinto di rosso. C'è scritto che, a duecento metri, c'è il posto di controllo di
Chigualen.
Quattro minuti dopo, alle 12.25, eccomi
al posto di controllo. È una bassa
costruzione quadrata, con la facciata
intonacata di bianco, due piccole finestre,
un ampio porticato e il tetto di paglia
sorretto da travi di legno. Sorge su un
basso terrapieno sostenuto da un muretto
di pietre a secco. Di fianco, una lunga asta
dipinta di bianco dovrebbe reggere la
bandiera. A destra, dietro alcuni cespugli
c'è una capanna di terra e paglia (i
servizi?). La guida mi sta aspettando, e
anche i guardaparchi. Sono tre.
Posto di controllo di Chigualen
Nell'angusto ufficio esaminano i permessi:
quello della casa della cultura di Trujillo è
a posto, le credenziali di Foptur non servono a niulla, il permesso del Ministero dell'Agricoltura...
pare non sia tanto valido! È invece necessario il permesso della “Dirección General de Forestal y
Fauna” di Lima, a carico dell'ingegner Ricardo Narvaez Soto. Si accende la discussione. Si mette
mano ai regolamenti. La “Forestal” esige una relazione scritta in sei copie, con foto. Faccio sapere
che la Casa della Cultura di Trujillo mi ha chiesto una relazione scritta e che presto faccio a farne
delle copie. Mi dicono che il parco è vietato al turismo: sono permesse solamente spedizioni a
carattere scientifico. Ribadisco che a Trujillo mi hanno assicurato che i permessi in mio possesso
sono in regola. La discussione si protrae per un bel po', maledicendo da entrambe le parti il
pressapochismo e la disinformazione degli uffici di Lima e Trujillo. Tutto sembra volgere al peggio
quando un guardaparchi è colto da un dubbio: la Direzione Generale di Flora e Fauna non dipende
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forse dal Ministero dell'Agricoltura? Il mio permesso, quindi, non solo sarebbe valido, ma
addirittura di grado superiore di uno concesso dalla Dirección General...
Mi consigliano di rivolgermi direttamente al direttore del parco, signor Esteban Alayo Briseño, il
quale si trova nel suo ufficio a Pias.
Chiedo come si può fare per mettersi in comunicazione con lui, non vedo telefoni nell'ufficio, non
c'è una radio? Mi guardano come se avessi detto chissà quale sproposito: lì non c'è corrente né
radio. A Pias ci si arriva a piedi. Ci vogliono quattro ore, per loro, abituati a camminare tra i monti e
a quell'altezza. Per me, dicono, dopo avermi squadrato con occhi critico, saranno necessarie circa
otto! Caspita, penso. Otto ore! Ci arriverò a notte fonda, se non scoppio prima!
Ad ogni modo afferro al volo quell'ultima speranza. Rinunciare adesso vorrebbe dire aver buttato
via quasi due settimane per nulla. Mal che vada, visiterò Pias!
Parto alle 13.15, accompagnato da un giovane guardaparchi: Apolinar Torrealva. Viaggio leggero:
lascio zaino e macchine fotografiche nell'ufficio, indosso la giacca a vento e porto con me solo la
pila, il coltello da sopravvivenza, una scatoletta di tonno e un paio di mandarini.
La mia guida se ne va alla festa di Los Alisos, tanto io, prima di domani pomeriggio, non sarò di
ritorno. Il viaggio non potrà riprendere che al 31 di agosto e lui avrà così modo di festeggiare Santa
Rosa di Lima.
Sopra di noi il cielo grigio non promette nulla di buono. Attacchiamo direttamente il ripido fianco
della montagna coperta di ichu. Il guardaparchi avanza tranquillo, io boccheggio dopo un centinaio
di metri. Apolinar si volta e mi chiede se so cavalcare: a cavallo possiamo andare più veloci. Penso:
non so cavalcare, ma vista la pendenza del cammino dubito che il cavallo riesca a galoppare
furiosamente; poi, una volta in sella, non baderò allo stile: mi rattrappirò su me stesso, con i piedi
nelle staffe e le redini ben tese e, infine, ci sarà sempre il guardaparchi a darmi una mano.
« No » rispondo, « però posso imparare. »
Apolinar mi dice di aspettare e sparisce dentro la macchia. Riappare pochi minuti dopo in
compagnia di una mula bianca.
« Monta su! » mi dice.
« E la sella? E le redini? E le staffe? »
« Non ci sono. »
Guardo l'animale, bianco, enorme. Mi chiedo come riuscirò a salirci in groppa senza fare una
figura di merda.
« Non preoccuparti, è un animale molto mansueto » mi tranquillizza Apolinar.
Con la sinistra mi aggrappo la criniera, con la destra artiglio un ciuffo di peli sul dorso, respiro
forte, chiudo gli occhi e mi do uno slancio. Mi sembra di volare. Quando riapro gli occhi: miracolo!
sono in groppa! Il cammino può riprendere.
Ben presto scopro quanto cavalcare a pelo possa essere un'esperienza sgradevole.
Quando si pensa a una cavalcatura si suppone che il suo dorso sia bello tondo, magari non soffice
come un sofà, ma sufficientemente liscio da poterci appoggiare le chiappe senza eccessive
preoccupazioni. Non è così! Ci si dimentica della spina dorsale, quella serie d'ossa formata da
vertebre puntute che, correndo dalla testa alla coda, impediscono all'animale di ammosciarsi come
fosse di gomma. Si capisce, allora, come, cavalcando senza sella, il posteriore poggi su qualcosa di
tutt'altro che morbido.
C'è da aggiungere che la mula è sì un animale imponente ma, probabilmente dovuto della dieta a
base di ichu al posto del tenero fieno, è anche piuttosto magra. Inoltre, forse a causa della salita,
sembra preda di una inestinguibile sete. Ad ogni pozzanghera abbassa repentinamente il muso per
dissetarsi e il brusco movimento minaccia di farmi cadere a testa in giù.
Aggrappandomi disperatamente alla corta criniera, con un piccolo balzo mi sposto indietro (e a
furia di piccoli balzi son dolori). Soddisfatto il bisogno la mula alza la testa e avanza in salita.
L'inclinazione mi fa inesorabilmente scivolare all'indietro. Rischio di cadere di schiena, magari
sull'abbondante scia di “fertilizzante” che il simpatico animale si lascia dietro.
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Nuovo piccolo balzo, questa volta in avanti (e nuovi dolori), e sono pronto per evitare di planare
davanti al muso della mula assetata. Dopo quindici, eterni, minuti scendo e imploro il guardaparchi
di lasciarmi camminare. Ci sale lui e sembra star seduto su un soffice sofà.
La pendenza aumenta e il tempo sembra peggiorare. Risalgo in sella (si fa per dire) mentre
bordeggiamo un'ampia vallata; non un albero, non un cespuglio, solo erba bassa e ichu. Nuvole
sempre più basse coprono le cime, la valle da una sensazione indescrivibile di immensità, sembra
un'enorme conca ricoperta di velluto grigioverde. Sul fondo serpeggia il greto sassoso di un fiume.
Da dove siamo si distingue perfettamente la sottile traccia retta del sentiero inca che dobbiamo
raggiungere. Corre con leggera pendenza da destra a sinistra lungo il fianco della montagna che ci
sta di fronte. Il guardaparchi mi dice che quel sentiero porta al Gran Pajaten. Puntiamo dritti verso
di esso. Aumenta la pendenza e aumentano i dolori. Mi tolgo la giacca a vento e la trasformo in
sella. Va un po' meglio. Rimango, però, in maniche di camicia. Fa freddo e quasi subito inizia a
piovere: una pioggerella sottile e ghiacciata, pungente come tanti spilli. Mi rimetto la giacca a
vento, impreco, scivolo giù dalla mula e proseguo a piedi. La mia esperienza con la cavalcatura è
durata esattamente quarantacinque minuti, ne porterò le dolorose conseguenze per circa due mesi.
Finalmente raggiungiamo il cammino inca. Il guardaparchi scende dalla mula e la lascia libera;
saprà tornare a casa da sola, mi assicura. Il cammino è bello, largo e comodo. Lo seguiamo fino ad
arrivare al passo Lan Lan. Sono le ore 14.30.
In cima al passo troviamo gente. Tre donne, una anziana e due ragazze alquanto carine si riparano
dal freddo e dalla pioggia contro un basso muro di pietra dalla forma semicircolare. Aspettano,
avvolte nei loro poncio, il resto della comitiva per andare alla festa di Los Alisos.
Superiamo il passo ed entriamo in un altro mondo: non più erba secca ma una esuberante
vegetazione tropicale. Grossi alberi bordeggiano il cammino; dai loro rami penzolano muschi e
ciuffi di bromeliacee dalle foglie rosso vivo. Il sole splende alto nel cielo blu. Mi pento di non aver
portato la macchina fotografica.
Il sentiero scende velocemente. A volte è largo e agevole, spesso si trasforma in una stretta e
profonda trincea che arriva fin quasi al ginocchio. Alle 15 facciamo una breve sosta. Riprendiamo la
marcia, il sentiero segue il fianco dei monti e si immerge, a tratti, in fitte boscaglie.
Alle 16.14 nuova sosta. Ci troviamo in località Alacoto. Si vedono poche case sparse; al fondo,
molto in basso, il nastro chiaro della strada che porta a Trujillo. Pataz si trova sulla nostra destra,
dietro una serie di cime. Abbiamo percorso una specie di U. Alla nostra sinistra si elevano le falde
del cerro San Vicente e del Calvario.
Ci mettiamo nuovamente in cammino, ora incontriamo spesso piccole fattorie. Il sentiero sale
brevemente, poi torna pianeggiante.
Sono le 17.04, facciamo ancora una sosta. Pochi minuti e siamo nuovamente in marcia; dopo
un'ampia curva aggiriamo e superiamo un cocuzzolo, arrivando così in vista di Pias. Ci concediamo
un'ultima sosta. Mentre divido un mandarino con Apolinar osservo il paesaggio intorno illuminato
dalla luce del tramonto, le cime scure al fondo, la laguna lontana e le case di Pias ormai in ombra.
Mi auguro, per il ritorno di domani, di trovare una mula che mi riporti indietro, con sella, però!
Ultimo tratto di sentiero: scende con notevole pendenza e serrati zig-zag. Alle 17.56, quasi col
buio, arriviamo in centro a Pias. Siamo a 2.630 metri di altitudine. Abbiamo impiegato quattro ore e
quarantun minuti.
A Pias c'è l'elettricità. Incontriamo il signor Alayo Briseño lungo la strada principale, mentre si
accendono le luci dei lampioni.
Inizialmente il signor Alayo (che mi auguro non sia parente di un certo avvocato) si dimostra
alquanto contrariato. Mi ripete che i turisti non possono accedere alle rovine, c'è il pericolo che
causino danni. Gli parlo della mia passione per l'archeologia, per il Perù, di quanto ci tengo a poter
conoscere il Gran Pajaten. Assicuro che non ho alcuna intenzione di scavare né di tagliare alberi.
Insieme malediciamo la Casa della Cultura di Lima, quella di Trujillo, Foptur e il Ministero
dell'Agricoltura. Alla fine il signor Alayo cede e mi concede il tanto sospirato permesso. EVVIVA!
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Mi chiede se sono attrezzato per il percorso: ho gli stivali? Perché bisogna attraversare un buon
tratto di palude. Sono sorpreso: quale palude? Nessuno mi ha mai parlato di paludi, non ne ho
trovato cenno in nessuno dei libri consultati! Che novità è mai questa? Magari se confesso di non
aver gli stivali mi ritira il permesso! Mento: « Certamente! Sono ben attrezzato: tenda, sacco a pelo,
fornello a gas e stivali. »
Il signor Alayo Briseño sembra soddisfatto.
Vengo ospitato nei locali dei guardaparchi. Il signor Alayo mi regala alcuni opuscoli sul Gran
Pajaten. Si cena tutti assieme: la tavola è alquanto sbilenca, la stanza ha il pavimento di terra battuta
ed è illuminata fiocamente da una lampadina da venticinque watt.
Il signor Alayo si dimostra un ospite molto cordiale: parliamo della brutta situazione del Perù,
dello spadroneggiare delle compagnie minerarie le quali, per evitare scioperi, incaricano dei
mediatori per assumere gente che non crei problemi. Inevitabilmente si discute anche di Italia 90:
scopro che, di calcio, ne sanno molto più di me.
La cena è pronta, il cuoco è uno dei guardaparchi, cucina su di un forno d'argilla dove scoppietta
un allegro fuoco di legna. Si mangia un'ottima zuppa di riso con patate a cui fa seguito un secondo
composto da patate e riso bollito. Per finire una bella tazza di cioccolata calda e due tazze di acqua
fresca.
Alle 20 tutti a letto. La camera si trova al primo piano: uno stanzone col pavimento di legno su cui
sono stesi alcuni materassi. Mi procurano un sacco a pelo e mi c'infilo dentro, dopo aver vuotato le
tasche da pila, orologio, coltello e portafogli.
A una certa ora il signor Alayo cerca di mettersi in contatto via radio con Lima. Mi auguro che non
ci riesca, magari da Lima gli ordinano di negarmi il permesso. Vengo esaudito: forti interferenze
rendono impossibile il collegamento.
Mercoledì 30 agosto
Giorno della pastiglia per la profilassi antimalarica.
Sveglia alle 5.50. Colazione con patate fritte (dure come mattoni), nuña (fagioli fritti in olio e
salati), tazza di cioccolata e un mango.
Alle 7.17, accompagnato da Apolinar, parto per tornare a Chigualen. Apolinar riceve l'incarico di
andare alla ricerca di un giovane mulo (tre anni, color marrone, costo circa 400 dollari), perduto
qualche giorno prima. Faremo, quindi, un sentiero diverso: ci arrampicheremo su per il Calvario. Il
sentiero sassoso parte subito in salita. Sono destinato a farmela tutta a piedi: non c'è nessuna
cavalcatura disponibile. Alle 8.15 arriviamo in cima ad un cocuzzolo da dove si vedono dei
quadrupedi. Sono solo dei cavalli; la ricerca prosegue. Alle 8.43 arriviamo al punto più alto del
sentiero: da qui si prosegue in costa (falda) con una pendenza irrilevante. Alle 8.55 ci fermiamo nei
pressi di un recinto dove pascola tranquillo un cavallo. Ripartiamo alle 9.06 e alle 9.35 ci
rinfreschiamo con le acque di una cascata. Alle 10.15 arriviamo in vista del passo Lan Lan,
facciamo un'altra breve sosta; alle 10.54 ci diamo una bella rinfrescata con l'acqua gelida di un
torrente sotto il passo. Camminiamo ancora per qualche minuto e ci fermiamo per recuperare le
energie e superare il passo. Apro la scatoletta di tonno e la divido con Apolinar. Il cielo si sta
rannuvolando e spira un vento freddo. Uno strano verso fa irrigidire il mio compagno: si guarda
intorno inquieto e sembra annusare l'aria.
« Hai sentito? » mi chiede.
« Sarà il verso di qualche uccello » rispondo.
Non sembra convinto: secondo lui si tratta dell'anima di qualche defunto o di qualche spirito che
dimora nella zona. Con tutte le cime e i “puquios” (sorgenti) che ci sono attorno!
Ribadisco la mia perplessità « Forse è un puma » dico per tranquillizzarlo.
Non sembra dello steso parere. « In ogni caso » mi risponde, « sono pronto per ogni evenienza.
Aqui llevo mi “poderosa” » dice battendo la mano sulla tasca dove custodisce il revolver.
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Riprendiamo la marcia alle 11.35. Il sentiero è in salita e alle 12.17 arriviamo al passo. Il vento è
piuttosto violento, cade qualche goccia di pioggia gelata. Qui ci dividiamo: Apolinar si dirige verso
sinistra con la speranza di trovare il mulo, io
proseguo per il cammino inca, poi alle 12.34 lo
abbandono e scendo a valle lungo le pendici del
cerro Obispo. Continuano a cadere sporadiche
gocce di pioggia. Acqua ce n'è dovunque: pozze,
ruscelli, cascate. Mi disseto a una cascatella:
l'acqua ha uno strano sapore metallico, la roccia su
cui scorre è striata di rosso e giallo. Cosa avrò
bevuto?
Arrivo a Chigualen alle 13.54. Ho impiegato sei
ore e trentasette minuti, sono un po' stracco ma
stracontento. Alle 14.05 un forte acquazzone sferza
Rio Chigualen
la zona. Per fortuna è di breve durata, presto le
nuvole si diradano ed esce persino un po' di sole. Ne approfitto per sciacquarmi i piedi nelle gelide
acque del Chigualen che scorre a pochi passi dal posto di controllo e scattare qualche fotografia (ore
16.30).
Il posto di controllo è deserto. I guardaparchi sono certamente a Los Alisos; non credo che qui,
isolati come sono, abbiano tante possibilità di svago.
Con l'autoscatto mi immortalo seduto alla scrivania, un modesto tavolo di legno verniciato di
marrone. Sopra ci sono una macchina per
scrivere, il libro dei visitatori e, aperto, il mio
libretto per gli appunti. Alle mie spalle sono
appese due mappe, una del Perù, l'altra della
regione di San Martin. Tra le mappe c'è uno
stemma del WWF e una lunga penna di condor.
A desta s'intravvede una piccola libreria e sulla
sinistra, sotto alla finestra, una panca di legno
che dovrebbe fungere da letto per questa notte.
Cena a base di minestrina. La panca risulta
troppo corta. Blocco la porta con una sedia,
gonfio il materassino, apro il sacco a pelo e
Autoritratto a Chigualen
dormo sul pavimento. Sono le 19.10.
Giovedì 31 agosto
Notte insonne. Alle 5.35 decido di alzarmi. Fuori dal sacco a pelo si gela. Secondo gli accordi la
guida dovrebbe essere qui per le 6 (è una pia illusione, ovviamente! Come si può essere puntuali
dopo i bagordi della festa in onore di Santa Rosa di Lima?).
Colazione con te bollente, biscotti e cioccolato, dopodiché affardello lo zaino.
Tempo pessimo: molto nuvoloso con pioggia intermittente.
Ore 6.53 tutto è pronto, attendo la guida. L'altimetro segna 3.450, sicuramente la bassa pressione
inganna lo strumento.
Alle 8,38 finalmente la guida arriva. Il signor Manuel è solo. Il guardaparchi che ci doveva
accompagnare è rimasto a Los Alisos. Si sa, ieri è stata festa grande, con ubriacature e risse:
qualcuno si è divertito più degli altri e oggi ne paga le conseguenze. La festa è stata così così:
nessun morto e nemmeno un ferito, accadimenti, questi, che avrebbero indubbiamente contribuito
ad alzare il tono dei festeggiamenti.
Il signor Manuel va a recuperare il mulo e torna alle 8.56. Firmo il libro dei visitatori e si parte:
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sono le ore 9.15.
All'inizio seguiamo il fondovalle, guadiamo il Chigualen e proseguiamo quasi in piano. Dense
nuvole basse nascondono le cime davanti a noi, sono in continuo movimento e a tratti lasciano
filtrare fugaci raggi di sole. Entriamo nell'ampia valle Poblano. La
seguiamo fin quasi al fondo (ore 9.51), quando il sentiero piega
bruscamente a sinistra e sale, con forte pendenza, fino a raggiungere
il passo Poblano, a 4.153 metri di altitudine (il mio altimetro segna
3.850). Sono le 10.25. Mi fermo per la fotografia di rito: il signor
Manuel m'inquadra e scatta. Speriamo in bene.
Nonostante il tempo pessimo la vista che si gode dal passo è
impressionante. Davanti a noi si stende la valle di La Plap, immensa,
chiusa tra le cime del cerro Colpar a sinistra e il La Plap a destra.
Macchie di sole illuminano i fianchi verdognoli delle montagne e
fanno brillare l'acqua delle lagune sul fondovalle. Si nota
chiaramente la traccia chiara del cammino che scende con una dolce
curva in senso orario. Spunta un po' di sole così posso togliermi la
giacca. Procediamo rapidamente su sentiero sassoso, costeggiamo
una laguna, ne guadiamo l'emissario e continuiamo su sentiero piano
e agevole. Sempre secondo il mio altimetro siamo a quota 3.700. A Abra Poblano, quota 4.153 mt
sinistra abbiamo il fianco della montagna coperta di ichu, a destra
una zona paludosa, con pozze di ogni forma e dimensione, collegate da un'incredibile ragnatela di
sottili canali. Proseguendo, dopo circa un'ora, entriamo nella valle di Chirimachay (freddo in
kechua). È una valle dalla forma di mezzaluna molto pronunciata. Gira attorno al cerro Chirimachay
e sul fondo vi scorre il fiume omonimo. Il sentiero scende dolcemente e alle 11.57 arriviamo al
fondovalle (3.475 metri). Alla nostra sinistra corre un lungo muro a secco, forse un recinto per
animali. Tutto attorno è stata bruciata l'erba secca con lo scopo di far crescere quella nuova.
Guadiamo il Chirimachay, proseguiamo attraversando diagonalmente la valle e risaliamo il versante
opposto.
Alle 12.16 passiamo davanti a una cascata e due
minuti dopo arriviamo a Cueva Negra. Si tratta di
un enorme masso scuro, tondeggiante, simile a
una colossale patata in bilico sul lato del sentiero.
Sotto, in cavità naturali, sono stati ricavati dei
ricoveri. Per terra ci sono giacigli d'erba, resti di
legna bruciata, sassi affumicati. È un punto di
sosta per le spedizioni che partono al mattino da
Pataz, mi spiega la guida. L'altimetro indica
3.500 metri di altitudine. Proseguiamo senza
fermarci. Giù nella valle, alla nostra sinistra si
Valle di La Plap
nota una piccola costruzione di terra, col tetto di
paglia e, poco distante, un recinto per il bestiame. Alcuni sentieri si dipartono dalla capanna e
zigzagano sul fianco della montagna.
Dopo Cueva Negra il cammino scende per pochi minuti, prosegue poi quasi in piano. Alle 12.28
comincia la salita fino a un passo (quota 3.600) che raggiungiamo alle 12.35. Impossibile saperne il
nome; siamo, comunque, tra il cerro Cueva Negra e il Suitococha. Qui il sentiero svolta con un
angolo molto acuto: entriamo nella valle Manachaque. La vista è straordinaria. Il fondovalle è
un'estesa palude: ci sono due grandi lagune, una quantità enorme di pozze e acquitrini collegati da
un dedalo di ruscelletti. Dalla laguna maggiore, dalla forma allungata, un contorto ruscello scende
verso ovest, insinuandosi in una profonda e lunghissima vallata. Oltre, un orizzonte infinito dove, a
perdita d'occhio, si susseguono catene di montagne. Superato il passo il cammino si fa scosceso ma,
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man mano che si avvicina al fondovalle diventa più dolce. Il tempo è molto variabile: le nuvole
corrono veloci nel cielo e ci regalano brevi attimi di sole inframezzati da improvvise piogge. Così
alle 13.15, quando ormai abbiamo raggiunto il fondovalle (quota 3.275), ci coglie un improvviso
acquazzone. Alle 13.21 guadiamo, sotto la pioggia, un ruscello e tre minuti dopo troviamo riparo
dentro la grotta di Manachaque.
Cueva Negra
Verso Manachaque
La Cueva de Manachaque è formata da un cumulo di grandi pietre, ammonticchiate le une sopra le
altre. Quella in cima ha l'aspetto di un pinnacolo. Il sospetto che sotto ci sia la mano dell'uomo è
forte: improbabile che un cono di roccia, alto circa 6-7 metri, rotoli dal fianco della montagna e si
Valle di Manachaque
Cueva de Manachaque
disponga, bello dritto, in cima ad altri massi. Anche dentro questa caverna, sufficientemente ampia
per dare rifugio a quattro-cinque persone, ci sono tracce di passaggi recenti. Un tratto di terreno
prospiciente è stato spianato artificialmente. La guida scarica il mulo: è probabile che passeremo
qui la notte.
Approfitto della sosta per aprire una scatoletta di tonno. Devo affrettarmi a mangiare perché è
uscito improvvisamente il sole e la guida ha deciso di proseguire. Ricaricato il mulo, alle 13.52 si
riprende il cammino. Attraversiamo diagonalmente la valle, da ovest a est. Al centro guadiamo un
largo fiume (poco profondo, per fortuna) e iniziamo la salita lungo il versante opposto.
È stato un grave errore indossare le scarpe da ginnastica, me ne sto pentendo amaramente: ormai
sono fradice, imbevute d'acqua come due spugne. Mi consolo pensando che stiamo per lasciare la
valle paludosa, più saliamo, meno acqua dovremmo incontrare.
Invece non è così: da fangoso il sentiero si trasforma in un vero e proprio ruscello che scorre
allegro, alimentato da una miriade di rigagnoli e cascatelle che trasudano dal fianco della montagna.
Bisogna prestare molta attenzione a dove si mettono i piedi: l'acqua che scorre nasconde pietre
sdrucciolevoli e ciuffi d'erba scivolosi. Alle 14.15 superiamo una bella cascata che scende
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rombando con più salti e contribuisce ad alimentare gli acquitrini della valle. Una rinfrescatina è
giusto quello che ci vuole.
Più saliamo più acqua incontriamo. È davvero un mistero, va
contro ogni logica: questa non è una montagna, è una enorme
spugna. Alle 15.05 arriviamo al passo, siamo a quota 3.500. Da
qui si può ammirare la causa di tutto quel trasudamento: un grande
specchio d'acqua tondeggiante, la Laguna Empedrada. Scendiamo
lungo il sentiero fangoso e costeggiamo la laguna. Lungo il bordo
il terreno ha conservato le tracce del passaggio della spedizione
americana: impronte di scarponi si mescolano alle mezzelune
degli zoccoli dei muli.
Eccoci nella valle di Chocho. Il sentiero corre quasi al centro
della valle, segnata da ruscelli e coperta dal consueto mantello
dell'ichu, e compie una vasta e dolce curva in senso orario.
Nei pressi di una grande pietra triangolare, il sentiero scende,
piega a sinistra per poi, con un'ampia curva piegare nuovamente a
destra. Stiamo procedendo sull'antico tracciato inca lastricato e
solcato di tanto in tanto da canalette di scolo. La guida mi
Un tratto del sentiero
consiglia di abbreviare il cammino tagliando per la pampa.
Riferimento, sulla nostra destra, un aguzzo sperone roccioso. Alle sue falde, giusto in cima a una
collinetta tondeggiante, si notano i resti di alcune costruzioni. Accetto il consiglio, se non altro per
dare un'occhiata alle rovine conosciute come Paredones. Il suggerimento si mostra subito pessimo.
Non si cammina per una comoda pampa, bensì in un infido acquitrino, dove l'acqua è onnipresente
e l'ichu nasconde stretti e profondi fossati che si rivelano solo per il rombo delle acque che vi
scorrono tumultuose. M'inoltro nell'erba, scivolo nella melma e m'infogno nel voler attraversare un
tratto dal colore verde diverso, che mi lasciava presagire terreno solido, e invece risulta ancor più
zuppo d'acqua.
Pampacuyes: il sentirero inca
La laguna Empedrada
A furia di girare riesco, comunque, a raggiungere Paredones (sono le 15.42 e l'altimetro indica
un'altitudine di 3.400 metri). Delle costruzioni rimangono soltanto le fondamenta e qualche tratto di
parete di pietra. Forse questo era un tambo (posto di sosta e ristoro) o un posto di vedetta. Anche la
cima del cocuzzolo è pregna d'acqua.
Intanto guida e mulo procedono tranquillamente all'asciutto. Scendo cercando la parte meno
scoscesa e arrivo al sentiero giusto in tempo per accodarmi alla guida.
Il cammino continua a scendere dolcemente e ci porta a una valle chiamata Pampacuyes, perché,
mi spiega il signor Manuel, durante una spedizione precedente, in quella zona era stato costruito un
recinto dove custodire i cuy (porcellini d'india) per l'alimentazione. Alle 16.09 troviamo tracce di un
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accampamento.
Il paesaggio sta cambiando: l'ichu comincia a cedere il passo ad altre forme di vegetazione, si
notano qualche timido fiore, qualche cactus e qualche basso cespuglio. I fianchi delle montagne in
fondo alla valle sono ricoperti da una fitta vegetazione verde scuro. Il sentiero inca sparisce e si
Entrata a Puerta del Monte
Paredones
trasforma una traccia di fango appiccicoso tra cespugli di ichu verdi e alti fino al ginocchio.
Improvvisamente, alle 16.23, ci troviamo a camminare sopra una zona coperta da grandi massi di
roccia grigia, davanti a noi si erge un muro impenetrabile di piante e arbusti. Alberi contorti e
coperti di muschi, cespugli fioriti e liane sembrano formare un groviglio inestricabile.
"Albergo" a Puerta del Monte
Il guardaparchi, la guida e io
Comincio a sperare che il fango sia finito. Seguo la guida dentro un tunnel verde e, ahimè, il fango
ricomincia. Alle 16.30 il signor Manuel Armas Coronel chiude il sentiero con un tronco, in modo
che il mulo non possa tornare indietro e, dopo poche centinaia di metri, sbuchiamo in una stretta
vallata. Siamo arrivati a Puerta del Monte (la porta della selva). L'altimetro segna quota 2.900. Qui
passeremo la notte.
Ci fermiamo davanti a quello che viene chiamato “l'albergo”: si tratta di una tettoia a due spioventi
(solo una parte, però, è coperta da frasche), sostenuta da un serie di pali. La parte bassa della zona
coperta poggia su di un muretto di pietre a secco; sotto, su un terrapieno, è stato costruito un
rudimentale focolare. Alcune grosse pietre delimitano il perimetro dell'albergo e, all'occasione,
servono come sedili. Un poco discosto si trova il buco della latrina. Si spera di non caderci dentro,
altrimenti sarebbe la fine. Copiose le tracce lasciate dalla spedizione americana: lattine
abbandonate, sacchetti di plastica, due grossi sacchi di immondizia dentro la capanna.
Il terreno è incredibilmente soffice, si ha l'impressione di camminare sopra un materasso. Le
montagne che ci circondano sono coperte da una lussureggiante vegetazione. Un pallido sole
illumina i pennacchi dell'erba della pampa, fiori strani e colibrì in volo. L'aria risuona del frastuono
di cascate invisibili. Vicino all'accampamento scorre un torrente spumeggiante: il Montecristo?
Si sta facendo buio ed è meglio accelerare i tempi. Recupero lo zaino che la guida ha scaricato: da
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ora in avanti dovrò caricarmelo sulle spalle. Vado al torrente per lavarmi mani e piedi incrostati di
fango nero.
Ho appena il tempo di mangiare una lattina di palmitos quando scoppia un violento temporale.
Tento di costruire un riparo di fortuna fissando il telo tenda ai pali dell'albergo. Il forte vento e i
violenti scrosci di pioggia mi impediscono di fare di meglio. Stendo il materassino gonfiabile, tiro
fuori il sacco a pelo e uso il foglio di nylon, che mi doveva servire come fondo per la tenda, per
formare un tubo dentro il quale mi infilo. Lo zaino rimane fuori. Il paesaggio attorno, il poco che si
riesce a intravvedere attraverso il fitto velo della pioggia, ha assunto una preoccupante colorazione
rossiccia. Scatto quattro fotografie. Il mulo è immobile sotto il diluvio, la guida è accucciata sotto la
tettoia di foglie, avvolta nel suo poncio e nel telone che si è fatto prestare al posto di controllo.
Sono le 18.30. Al calduccio dentro il sacco a pelo guardo i rivoletti d'acqua scorrere come
indiavolati sul foglio di nylon a un palmo dal mio naso. Prego che la pioggia smetta e la notte passi
presto.
Venerdì 1 settembre
Sveglia alle 5.45. Località Puerta del Monte. Quota 2.900. Mi trovo nella zona chiamata “ceja de
selva”, ciglio della foresta, zona boscosa tropicale che si stende sui versanti delle Ande orientali e
centrali, tra i 1.000 e i 3.900 metri sul livello del mare. Non piove più. Mi trovo in mezzo a una
palude, circondato da monti coperti da una fitta vegetazione tropicale. Rumori di cascate e canti di
uccelli. A est una fascia di cielo sereno sbuca da una coltre di nubi grigiastre. Speriamo in bene.
Sotto la tettoia la guida sta cucinando una zuppa di avena, il fumo azzurrino si alza lentamente
verso il cielo. Il mio zaino è bagnato fradicio, le scarpe da ginnastica sono in condizioni pietose.
Indosso gli scarponi... ho l'impressione che siano un po' stretti. Stendo i pantaloni sopra un pietra,
sono talmente zuppi d'acqua che hanno persino cambiato colore. Accendo il fornellino da campo e
mi riscaldo mezza busta di minestrina di carne con pastina e verdure. Continuo la colazione con
alcuni biscotti spalmati con marmellata di fragole Fanny (mejorada) e una lattina di pesche
sciroppate.
Disfo il mio ricovero e infilo tutto nello
zaino, dietro vi appendo i pantaloni: spero
in un po' di sole affinché si asciughino.
La guida insiste per portarmi i due porta
saccoletto con la tenda. Li mette dentro un
sacco che lega in modo da ricavare due
spallacci a mo' di zaino.
Alle 7.31, zaino in spalla, ci mettiamo in
marcia. Fango dappertutto. Il primo tratto
di sentiero è tappezzato di rami, questo ci
evita di sprofondare nel fango molle. Il
sentiero ci porta dritti verso la boscaglia.
Ponte sul fiume Montecristo
Prima di essere inghiottito dalla selva alzo
la testa e guardo il cielo: la tenue fascia di
sereno è stata coperta dalle nuvole. Brutto presagio.
Camminiamo tra due muraglie verdi (citazione da un bel film di Armando Robles Godoy: “La
muralla verde”). L'ambiente è fantastico. Siamo accompagnati dai canti di uccelli nascosti tra le
fronde e il gorgoglio di invisibili corsi d'acqua.
Alle 8.15 gli alberi si diradano per lasciar posto al corso di uno spumeggiante torrente che
superiamo un quarto d'ora più tardi in equilibrio su un ponte di tronchi. Altri tronchi ci
permetteranno, più avanti, di scavalcare una miriade di torrentelli e pantani.
Quattro minuti dopo arriviamo a El Mirador. É una radura, simile a una cupola, formata dai rami di
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un grosso albero; qui facciamo una breve sosta. A destra si diparte un sentiero: conduce al Pajaten,
mi spiega la guida, ma è piuttosto impegnativo. Noi prenderemo quello a sinistra.
Si riparte e alle 9.13 superiamo il Montecristo grazie a un lungo ponte fatto con quattro lunghi
tronchi legati assieme. Qui il Montecristo è ancora torrente, le sue acque scendono con forza
aprendosi varco tra i massi arrotondati. Siamo a quota 2.400, ci aspetta un tratto di sentiero piano e,
finalmente, niente fango. Il signor Manuel procede spedito, io mi fermo spesso per guardarmi
attorno e scattare fotografie, così mi perdo. Ad un tratto alzo la testa e non scorgo più la guida: tutto
attorno a me c'è un muro verde e compatto, nessuna traccia di sentiero. Teoricamente dovrei
procedere di fronte, ma non ne sono sicuro, potrei peggiorare la situazione e finire chissà dove.
Rimango fermo e mi metto a gridare. Grido più forte possibile perché so che gli alberi attutiscono
molto i suoni. Grido a più riprese e, finalmente, il signor Armas Coronel appare all'improvviso,
pochi metri davanti a me. Mi chiede preoccupato cosa succede, spiego la momentanea perdita di
contatto e la marcia riprende.
Sono le 9.30 quando sbuchiamo in un'ampia radura lungo un'ansa del fiume. Siamo arrivati a La
Playa (la spiaggia). Infatti il greto sassoso del fiume sembra proprio una piccola spiaggia. Sulla riva
molti resti di capanne. Ripartiamo alle 9.40. Dopo un po' il sentiero si fa ripido, si sbuffa per dodici
minuti finché si incrocia un ennesimo corso d'acqua col suo bravo tronco a mo’ di ponte, da lì in poi
la pendenza del cammino diminuisce. Alle 10.30, dopo esserci rinfrescati a una cascatella,
raggiungiamo una piccola radura. Addossato agli alberi c'è un riparo provvisorio costituito da un
tetto di frasche inclinato e sostenuto da due paletti. Vi può trovare rifugio una persona. La località è
chiamata Papayas. Si prosegue su cammino difficile, in forte discesa su gradini fatti con tronchi
marci e scivolosi. Attraversiamo il rio El Susto (lo spavento) alle 10.44. La furia delle acque ha
ormai quasi distrutto il ponte di tronchi e bisogna prestare molta attenzione per evitare un bagno
fuori programma.
Il cammino si fa sempre più difficoltoso: fango onnipresente, radici che intralciano il passo, grossi
tronchi posti di traverso che bisogna scavalcare, tunnel vegetali sotto i quali si procede a carponi.
Un passaggio risulta particolarmente impegnativo: il superamento di un enorme albero caduto: sono
costretto a togliermi lo zaino e strisciare sotto, col viso quasi a contatto col terreno, fino a passare
dall'altra parte, spingendo lo zaino davanti a me. Più avanti mi aspetta un serie di alti gradini di
terra: per superarli bisogna fermarsi, riprendere fiato, darsi lo slancio cercando di afferrarsi a
qualche radice, pietra o tronco per poter avanzare.
Come se non bastasse ci sono anche i rami che s'impigliano nello zaino. Più volte sono costretto a
estrarre il coltello da sopravvivenza per liberarmi. Si prosegue così, nella penombra, finché alle
12.37 arriviamo a una sporgenza rocciosa che sbuca tra rami e muschi. Siamo a Vilcabamba. Vicino
c'è una radura dove è possibile sistemare la tenda. Il passaggio degli americani ha lasciato i suoi
ricordi: un'antenna radio che penzola dagli alberi e un cumulo di lattine vuote dentro un tronco
cavo.
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Monto la tenda. I teli sono bagnati ed è impossibile tenderli in modo che non siano a contatto. Se
piove l'acqua entrerà all'interno. La pioggia, infatti, non tarda. Alle 13.50 m'infilo nella tenda sotto
la pioggia. L'altimetro segna quota 2.400. Ore 14 pranzo in
tenda: soliti biscotti spalmati con la solita marmellata di
fragole, un po' di formaggio gommoso, tè e altri biscotti.
Alle 14.35 la guida decide: nonostante la pioggia si va alle
rovine, tanto, assicura, presto smetterà.
Prendo la macchina fotografica e indosso il poncio
impermeabile.
Si affronta una salita davvero impegnativa. Il sentiero è
ridotto a un'esile traccia di fango viscido e con notevole
pendenza. Tronchi, rami, radici, liane, tutto sembra voler
ostacolare l'accesso. Avanzo spesso a carponi, scivolando e
aggrappandomi a qualunque cosa possa impedirmi di
ruzzolare indietro. E ancora si sale, strisciando sotto tronchi,
arrampicandosi e insinuandosi tra i rami degli alberi caduti.
Mi fa ridere Indiana Jones!
Alle 15.02 ecco: tra la vegetazione emerge un muro di
pietra coperto di muschio. È un muro tondeggiante,
costruito con pietre ben squadrate. Poi un secondo muro
avvolto dalla vegetazione e un terzo. E, incastrate su questo,
sporgono cinque “cabezas clavas”, cinque teste scolpite
nella pietra. Sono arrivato al Gran Pajaten! Più avanti, dal terreno, spunta un piccolo obelisco, forse
un orologio solare. Attorno, ricoperte da una fitta vegetazione, appaiono basse e tozze torri rotonde.
Sono costruite con lastre di pietra scura. Probabilmente costituivano le basi per le capanne che vi
venivano edificate sopra. Davanti a una torre c'è ancora la scala che porta in cima. Una serie di
personaggi stilizzati, con un fastoso copricapo piumato, ne ornano il perimetro. La torre di fianco
mostra condor alternati a disegni geometrici e “cabezas clavas”. Il bordo superiore è percorso da
una serie di spirali. Le figure sono state ottenute facendo sporgere dal resto del muro le lastre di
pietra. La pietra è scura, ha riflessi metallici,
sembra ardesia.
Nonostante la leggera pioggia, a tratti il
sole riesce a filtrare tra le nuvole e i suoi
raggi illuminano, come per una ben studiata
regia, ora un gruppo di “cabezas clavas”, ora
un condor con le ali spiegate, oppure un
gruppo di orchidee che s'incurva, riverente,
sopra una fila di misteriosi personaggi.
Magie di quel luogo straordinario.
La fitta selva impedisce di vedere molto.
Sono passati molti anni da quando l'esercito
peruviano ha ripulito le rovine. Col tempo la
vegetazione e tornata a impossessarsi delle Località Vilcabamba, a trenta minuti di cammino dal Gran
Pajaten
costruzioni.
La spedizione americana si è limitata a
ripulire un'esigua parte del complesso e a togliere un po' di muschio da un paio di torri. Così le
rovine conservano tutto il fascino di una loro riscoperta. Immagino di provare la stessa esaltante
sensazione che devono aver provato, nel passato, quanti si sono imbattuti, più o meno casualmente,
in scoperte del genere.
Dietro mia richiesta il signor Manuel Armas s'improvvisa fotografo, mi metto in posa davanti a
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una torre e attendo lo scatto.
« Otra, por si a caso... » dico, e la guida, obbediente, scatta una seconda foto. Non si sa mai!
Ogni tanto le nuvole si diradano permettendo di scoprire nuovi scorci, svelando montagne lontane
e incombenti pareti rocciose.
Meno di mille anni fa questo luogo era sicuramente una città importante. La gente camminava tra
le torri, parlava una lingua ormai scomparsa, cacciava, lavorava, amava, fronteggiava gli invasori.
Quando è iniziato il suo declino? Ci sono prove che questa società ha avuto contatti con la civiltà
inca. Sicuramente la città era già in rovina prima dell'arrivo degli spagnoli (altrimenti questi
avrebbero demolito le torri per costruire una bella chiesa barocca).
Mi chiedo come potranno essere queste rovine tra alcuni anni se verranno trasformate in
un'attrazione turistica.
Certamente vedere il complesso nella sua
totalità dovrebbe essere impressionante.
Indubbiamente porterebbe un certo benessere
economico nella zona. L'impatto ambientale
sarebbe, però, devastante. Quanti alberi
abbattuti per costruire decine di chilometri di
strade, hotel, posti di ristoro, parcheggi... Ma
chi potrebbe investire tanto? E poi, non è
triste immaginare questa città costellata di
frecce e cartelli che ammoniscono di non
salire sulle torri e di non uscire dai percorsi
obbligati, di non gettare spazzatura, affollata
da torme di turisti in calzoncini corti e
Autoritratto al Gran Pajaten
zainetti multicolori, intenti a ingurgitare
hamburger e patatine e bere Coca Cola? Forse è meglio che il Gran Pajaten resti una “ciudad
perdida”, visitabile solo a costo di grandi sacrifici? Mah!
Sono le 15.30, è ora di tornare all'accampamento.
Ho bisogno di acqua per la minestrina: il signor Manuel mi accompagna a una pozza fangosa dove
riempire la borraccia... tanto l'acqua va bollita. Quello, d'altronde, è l'unico posto dove rifornirsi...
se non si vuol prendere in considerazione di scendere fino al Montecristo, fiume che passa sì, vicino
alle rovine, ma incassato in un profondo canyon da cui arriva, seppur attutito dalla distanza, il
fragore della acque turbinose.
Gran Pajaten
Gran Pajaten: “cabezas clavas”
Pian piano cala il buio, tento di registrare il canto degli uccelli. Dagli alberi continua a cadere un
incessante quanto rumoroso gocciolio. Alle 18.15 la zuppa è pronta e mi riscalda lo stomaco.
Adesso l'altimetro è sceso a 2.350, significa che la pressione si è ulteriormente abbassata e, quindi,
continuerà a piovere. I teli della tenda, già fradici, sono venuti a contatto: l'acqua scorre lungo il
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tessuto e si raccoglie nel fondo. Questo nonostante avessi spruzzato un'intera bomboletta di
impermeabilizzante! Il materassino gonfiabile è ormai diventato un'isola su cui cerco di mantenere
all'asciutto me e la macchina fotografica.
Gran Pajaten
Gran Pajaten
Sabato 2 settembre
Sveglia alle 5,30. Fuori sta piovendo o sono solo le gocce che cadono dagli alberi a produrre
questo intenso ticchettio? mi chiedo stiracchiandomi nel sacco a pelo, badando bene a non scendere
dal materassino gonfiabile. L'interno della tenda, infatti, è pieno d'acqua. Ce ne saranno almeno tre
centimetri. Fuori non piove, ma il poco cielo che si riesce a intravvedere attraverso le chiome degli
alberi è molto nuvoloso. Faccio una veloce colazione e poi, prima di sbaraccare, monto la macchina
sul cavalletto per un autoritratto, seduto davanti alla tenda. Non penso di avere un bel aspetto. Non
mi rado da parecchi giorni e non ho neanche uno specchio per sistemarmi un pochino. Ma va bene
lo stesso, anzi! Smonto la tenda e ficco tutto dentro lo zaino, tanto, più bagnato di così!
Pinchudos: la falesia
Pinchudos
Pinchudos
Alle 7.30 ci mettiamo in cammino per raggiungere Pinchudos. Non è molto lontano. Alle 7.55
lasciamo il sentiero e ci inerpichiamo su per il fianco di un'altura, attraversando una zona di bosco
rado. Il nuovo sentiero è solo un'esile traccia di fango che si snoda tra gli alti fusti degli alberi, ed è
reso ancora più scivoloso a causa della recente pioggia
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Alle 8.10 avvistiamo le prime tracce del cimitero: al riparo di una parete rocciosa incombente ci
sono resti di muri edificati con lastre di pietra squadrata, non molto grandi, simili a mattoni
irregolari e tenute assieme da una specie di calce biancastra. Proseguiamo verso destra,
costeggiando la parete di roccia. Il sentiero, prima dritto, scende ripido per un tratto e poi risale.
Alle 8.20 deponiamo gli zaini e seguitiamo ad arrampicarci. Costeggiamo un'altissima falesia,
passando per uno stretto sentiero, sempre in salita. È evidente che siamo in una zona funeraria: da
un anfratto spuntano delle ossa che han tutta l'aria di essere umane. Avanziamo quasi sfiorano la
parete rocciosa alla nostra destra, mentre a sinistra scende vertiginoso un dirupo coperto di
vegetazione dalla quale spuntano fiori sconosciuti.
Di fronte a noi il sentiero sembra finire nel vuoto, invece svolta
improvvisamente a destra ed eccoci a Pinchudos. Sono le 8.25.
Al riparo di una impressionante falesia biancastra, perfettamente
asciutta nonostante le abbondanti piogge, sorge una serie di
tombe dall'aspetto assai singolare. È una fila di piccole
costruzioni semicircolari e rettangolari attaccate le une alle altre.
Sono state edificate con lastre di ardesia intonacate di ocra e
rosso. Lastre sporgenti formano disegni geometrici, greche e zigzag. Le costruzioni, alcune su due piani, presentano varie porte e
finestre e all'interno sono visibili ossa e teschi. Le lastre di pietra
del tetto e pavimento sono sostenute da travi di legno.
Particolarmente interessante è una tomba con alcuni idoli di
legno attaccati alle travi che sostengono il soffitto.
Rappresentano dei personaggi nudi, col fallo sporgente (da cui il
nome “los pinchudos), portano grandi orecchini e un vistoso
copricapo. Sul corpo si possono notare tracce di argilla giallastra
con cui, in origine, sono state ricoperte. Sono cinque; di un sesto
Pinchudos
rimane solamente l'anello tagliato a colpi di machete. Davanti
alle tombe si apre una vallata impressionante. Le montagne sono coperte da un fitto mantello di
vegetazione, Sul fondo si nota il sottile nastro d'argento del Montecristo. Sul cerro Central, mi dice
la guida indicandomi una montagna simile a una smisurata piramide verde, si trovano altre
importanti rovine, non ancora esplorate. Una nuova città? La continuazione del Gran Pajaten?
Le nuvole bianche vanno e vengono coprendo i monti e i loro segreti.
Alle 8.52 iniziamo il ritorno, ci riprendiamo gli zaini e alle 9.04 ci ricolleghiamo al sentiero
principale. Dopo la lunga serie di gradini di legno arriviamo al ponte scassato sul rio El Susto (ore
9.55). Qua siamo costretti a guadare. Alle 10.07 arriviamo a Papayas, dove troviamo il guardaparchi
(non lo stesso della camminata a Pias). Si era rifugiato lì per ripararsi dalla pioggia e passare la
notte. Riprendiamo la marcia in tre.
Alle 10.23 breve sosta, quindi
proseguiamo lungo una interminabile
salita, fino ad arrivare a costeggiare un
enorme smottamento di terreno lungo il
corso del Montecristo. Alle 11.11, in
equilibrio sopra un ponte fatto con tre
tronchi, superiamo una cascata e
proseguiamo per un tratto di sentiero
pianeggiante. Arriviamo a La Playa alle
11.33, pochi minuti di sosta e alle 11.40
riprendiamo il cammino per il sentiero
che sale e scende. Dopo un bivio
Il cerro Central
(prendiamo a destra) arriviamo al ponte
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sul Montecristo (12.04). L'acqua limpida e fresca invita a una sosta e a dissetarsi (al diavolo il
micropur e lo steridrolo).
Scatto qualche foto mentre alcune farfalle mi svolazzano attorno senza timore; una si posa
addirittura sullo scarpone.
Si riprende il cammino alle 12.19. Il sentiero, dapprima piano, comincia a salire: sono le 12.30.
Alle 13.11 faccio una sosta per riprendere fiato, mentre inizia a cadere una leggera pioggia.
Dopo la sosta continua la salita. Alle 13.29 un po' di sollievo: il sentiero è in discesa, arriva il
rombo di un torrente invisibile tra la vegetazione. Inizia il sentiero paludoso.
Sono le 13,48, mentre nella penombra sto fotografando un fiore la guida si ferma all'improvviso e
attira la mia attenzione. Guardo in alto: quasi sopra le nostre teste un orso si sposta tranquillo tra i
rami di un grande albero. Si tratta di un orso dagli occhiali. Si muove a suo agio, passando di ramo
in ramo e da una chioma all'altra alla ricerca di frutti. Grugnisce, ci guarda con curiosità e continua
a mangiare. Il tempo di montare il 135 e di scattare qualche foto e l'animale sparisce tra il fitto
fogliame dopo essersi liberato lo stomaco.
Si riprende a camminare sempre in salita, seguendo il serpeggiare dei gradini di terra e tronchi e
alle 14.05 arriviamo al Mirador. Cinque minuti di sosta e ancora si prosegue per il continuo
saliscendi del cammino. Dopo aver superato un ponticello (14.17) superiamo guadando un torrente,
affluente di un altro e più grosso corso d'acqua alla nostra sinistra.
Alle 15.25 ci lasciamo la selva alle spalle e finalmente rivediamo il cielo. Alle 15.28 superiamo un
ponticello, saltiamo un ruscello e alle 15.32 arriviamo a Puerta del Monte. Ci accampiamo per la
notte. Monto la tenda fradicia, risciacquo le scarpe da ginnastica tentando di togliere un po' del
fango nero di cui sono incrostate e mi preparo la cena: te, biscotti e cioccolata.
Guida e guardaparchi si preparano la loro zuppa d'avena al riparo sotto la tettoia dell'albergo.
Alle 17.35 sono dentro la tenda sotto alla pioggia. Tutto è bagnato, l'acqua penetra attraverso i teli
e si accumula all'interno.
Domenica 3 settembre
Sveglia in umido. Il tempo sembra molto incerto. Ci sono molte nuvole, ma anche grossi squarci
attraverso i quali si può vedere un bel cielo blu. Riempito la zaino, approfitto di qualche sporadico
raggio di sole per fotografare i dintorni, mentre guida e guardaparchi sono andati a recuperare le
loro cavalcature. Il signor Manuel carica il mio zaino sul mulo e alle 7.58 lasciamo Puerta del
Monte (ed è un gran sollievo camminare senza pesi sulle spalle).
Il tempo sembra mettersi al bello, splende il sole. Usciamo dall'ultima fascia di vegetazione,
superiamo la zona pietrosa, affrontiamo il fango nero e vischioso e attraversiamo Pampacuyes alle
8.47. Ritroviamo il sentiero lastricato, lo percorriamo fino ad arrivare alla base dell'altura di
Paredones (ore 9.16). Da qui iniziamo una dolce discesa, e questa volta mi guardo bene dal seguire
il consiglio della guida di abbreviare il cammino tagliando per la zona paludosa. Preferisco il
cammino più lungo ma asciutto.
Il sentiero arriva in prossimità di un torrente che
scende a valle e, con uno stretto angolo, ne segue
il corso. Alle 9,37 si arriva presso un grande
masso, qui il sentiero compie un'altra brusca
deviazione e continua a salire verso la laguna
Empedrada. Arriviamo alla laguna alle 9.55, alle
10.05 superiamo il passo e scendiamo lungo lo
stretto sentiero trasformato in rigagnolo.
Comincio ad avere le vesciche ai piedi. Scarponi e
calzettoni bagnati non fanno altro che peggiorare
la situazione.
Pampacuyes, cammino di ritorno
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Alle 10.46 superiamo la grande cascata e due minuti dopo iniziamo la traversata della valle di
Manachaque. Dieci minuti dopo guadiamo e alle 11.04 siamo di fronte alla grotta. Niente soste,
proseguiamo in salita lungo il versante della valle fino a raggiungere il passo.
Il tempo, nel frattempo, è repentinamente cambiato. Le nuvole hanno coperto il cielo e nelle
vicinanze del passo comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Alle 12.04 superiamo il passo,
entriamo nella valle di Chirimachay e alle 12.22 passiamo davanti a Cueva Negra. Anche qui niente
soste, si continua fino alle 12.26, quando mi fermo per riprendere fiato presso una cascata. Mi
disseto e, approfittando di un fugace raggio di sole, m'immortalo con l'autoscatto, seduto su un
masso vicino al corso d'acqua. Guida e guardaparchi sono avanti, li vedo camminare a fianco dei
loro animali e discutere.
Riprendo il cammino, alle 12.48 guado il fiume e inizio la salita mentre il tempo, ancora una volta,
si sta mettendo al peggio: preoccupanti nuvoloni grigi, pioggia e persino tuoni mi accompagnano
lungo la valle. Un paio di volte sono costretto a fermarmi per mettermi dei cerotti sulle vesciche; la
caviglia destra, non so per quale motivo, mi duole e mi fa leggermente zoppicare.
Si alza un vento sottile e gelido, per fortuna soffia alle mie spalle.
La guida mi sta aspettando: si è seduta su un pietra e mastica le sue foglie di coca.
Alle 13.46 entriamo nella valle di La Plap. Alle 14.30 costeggiamo la laguna che precede il bivio
col sentiero inca e cominciamo la salita verso il passo Poblano. Una vasta zona circostante è coperta
di grandine. Le raffiche di vento hanno ammucchiato i chicchi, piccolissimi, contro le pietre e i
ciuffi di ichu.
Superiamo il passo alle 14.58, mentre il sole fa capolino e, per un po', ci accompagna nella
discesa. Le recenti piogge hanno trasformato il sentiero in un torrente e il fondovalle è impregnato
d'acqua. Alle 15.44 passiamo l'abra caratterizzata da due grandi pietre e, scendendo per ripidi zigzag, ci avviamo al posto di controllo. Alle 15,51 si guada quello che all'andata era un fiumiciattolo,
e che ora si è notevolmente ingrossato. Il salto che spicco non è sufficiente e ci casco dentro con un
piede (ma tanto ero già bagnato).
Alle 15.55 mi fermo sulla soglia del posto di controllo.
Adesivo del parco Rio Abiseo
Uno dei tre biglietti d'ingresso al parco dell'Abiseo
Iniziano le formalità per il pagamento del pedaggio. Per gli stranieri dovrebbero essere 13.350 inti
al giorno. I guardaparchi si consultano con don Esteban Alayo, presente sul posto. Da regolamento
risulta che si deve pagare il 15% del “minimo vital” cioè dello stipendio minimo di un lavoratore.
Detto “minimo vital” è di 148.000 inti. Il 15% è, quindi, di 22.200 inti che, moltiplicati per i tre
giorni, danno un totale di 66.600 inti. Pago, saluto e, dopo avermi fatto autografare il libretto dal
signor Alayo, in compagnia della guida mi dirigo verso Pataz. Sono le ore 16.11.
Alle 16.50 si passa il ponticello di tronchi, più avanti si costeggia la piantagione di eucalipti. Il
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sentiero è tutto in discesa e si procede speditamente. Alle 17.10 passiamo Los Alisos e alle 17.34
arriviamo a Poroto. Ormai sta calando la sera. Il signor Manuel scarica il mulo, si toglie il poncio,
lo stende sulle ginocchia, si mette a tritare foglie di coca e iniziano le grane.
Data l'ora voglio proseguire fino a Pataz. Il signor Manuel dice che è stanco e che (orrore!) vuole
più soldi!
Rispondo che avevamo già pattuito un prezzo e che avevo pure accettato di pagare 500 inti in più
al giorno, sia per lui che per il mulo. Mi risponde che non sapeva che i prezzi erano aumentati
(colpa di quei disgraziati di americani) e che la domenica la paga va raddoppiata.
I patti vanno rispettati, ribatto, e minaccio di prendermi lo zaino e di andarmene a Pataz da solo.
Lui minaccia di denunciarmi. Gli rispondo che se vuole essere pagato mi può sempre trovare in
paese. La discussione si protrae per parecchio tempo, mentre si fa sempre più scuro e le vesciche mi
fan sempre più male. Lui pretende di essere pagato subito, al che gli faccio credere di aver lasciato i
soldi a Pataz, visto che in mezzo alla selva non ne avrei avuto bisogno. Se vuole essere pagato
subito basta che mi accompagni a Pataz. Seppur a malincuore sembra convinto. Mette le foglie di
coca in un sacchetto, si rimette il poncio, si fa portare una lampada e dice di partire. Gli faccio
notare che non ha caricato il mulo: con lo zaino in spalla c'impiegheremo più tempo. Nuova e
nervosa discussione. Alla fine, come dio vuole, riesco a convincerlo: carica il mulo, chiama un
figlio e ci mettiamo in cammino per Pataz: sono le ore 18.00.
Alle 18.15 è buio; alle 18.30 calano le tenebre. Proseguiamo per un po' sotto la scarsa luce della
falce lunare, poi accendo la pila e proseguiamo per quello che si sta trasformando in un calvario.
L'ultimo tratto, tutto in ripida salita, è quasi un incubo: le vesciche bruciano come fossero braci.
Finalmente, alle 19.36 ci fermiamo nella piazza di Pataz e il signor Manuel scarica il mulo.
Chiamo la signora Isabel a testimone degli accordi fatti. La signora conferma: gli accordi si
rispettano, non è colpa mia se i prezzi sono aumentati. Comunque, dopo una breve discussione,
acconsento di pagare 16.000 inti al giorno per la guida e altrettanti per il mulo, più il doppio per la
domenica, il tutto arrotondato a 225.000 inti. Il signor Manuel accetta, la signora Isabel approva, io
pago (a scanso di equivoci mi faccio firmare una ricevuta), poi salgo in camera e mi butto a letto. A
conti fatti ho camminato undici ore e mezza e mi sento alquanto stanco.
Conto di dormire fino all'alba, ma un continuo e furioso abbaiare di cani mi tiene sveglio per
buona parte della notte. Maledette bestie luride e pidocchiose!
Lunedì 4 settembre
Sveglia alle 6.55, di cattivo umore per il concerto dei cani. I piedi hanno il colore del pesce lesso e
la pelle raggrinzita come la buccia di un limone andato a male. Urge un'accurata igiene.
Dalla signora Isabel compro una spazzola di plastica (5.000 inti) e due ottimi pani al sesamo e
uvetta (2.000 inti). Mi faccio prestare mezzo sacchetto di Ace e mi dedico al bucato. Stendo la tenda
affinché si asciughi, lavo e striglio calzettoni,
fazzoletti, pantaloni, asciugamani e scarponi,
insomma l'intero guardaroba. Alle 10,50 il
bucato è terminato e steso ad asciugare.
Compero sei manghi da una venditrice seduta
sulla piazza (1.000 inti). Aveva solo i piccoli
manghi gialli e verdi che maturano in questa
stagione; per quelli più grossi, rossi e gialli, mi
spiega, bisogna attendere dicembre.
All'improvviso, alle 11.35, si mette a piovere;
mi affretto a raccogliere la roba stesa e ancora
umida; subito dopo, però, ritorna a splendere il
sole e io torno a stendere la biancheria.
Pataz, rifornimento patate e polli
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Alle 12.30 arriva una camionetta con un carico di polli e di sacchi di patate. In pochi attimi si
forma una lunga coda di gente: patate e polli vanno a ruba, mentre un gruppo di bambini
s'impossessa della ruota di scorta e si mette a giocare facendola correre lungo la strada polverosa.
Invano cerco limoni: sembra siano introvabili. Improvvisamente giunge voce che in piazza, una
signora ne sta vendendo. Mi precipito ma arrivo tardi: i limoni sono stati tutti comperati dalla
signora Isabel. In quel mentre si rimette a piovere. Corro a raccogliere la mia roba e, questa volta, la
stendo in camera. Esco dalla camera e, beffardamente, esce un sole sfolgorante; in cielo è sparita
ogni traccia di nuvole. Ridistendo il bucato all'aperto, è ancora umido ma, sotto quel sole, penso,
non dovrebbe tardare molto ad asciugarsi.
Dalla signora Isabel compero sei limoni, li
spremo tutti e mi disseto con un litro e mezzo di
squisita e ben zuccherata limonata .
Fiducioso nel tempo ormai ristabilito esco per
fare un po' di fotografie. Fotografo alcuni
bambini e mi avvio per la strada che porta a Los
Alisos. Dopo pochi minuti mi trovo a passare
davanti all'imboccatura di una miniera e, molto
gentilmente, un giovane mi spiega come si
svolge il duro lavoro di un cercatore d'oro.
La miniera è un rudimentale buco nella
montagna. Per terra ci sono dei mucchi di
Entrata di una miniera d'oro
terriccio passato al setaccio e alcuni sacchi pieni
di minerale appoggiati alle pareti di roccia. Altri
sacchi sono ammucchiati all'ingresso. Si scava con piccone e badile; con scalpello e martello si
praticano dei fori per la dinamite che poi viene fatta esplodere. Vorrei visitarla meglio ma non c'è la
lampada. Propongo di tornare a Pataz per prendere la mia pila ma, quando sto per uscire dalla
miniera si scatena un mezzo diluvio. Abbandono l'idea di mettermi in cammino e penso con rabbia
al mio bucato steso, e probabilmente già asciutto, che con questa pioggia si starà nuovamente
inzuppando. L'acquazzone è di breve durata. Torno in paese e ho la lieta sorpresa di scoprire che la
signora Isabel ha raccolto i miei panni e li ha stesi al coperto.
In piazza mi soffermo a scattare alcune foto a dei bambini e
quando mi rimetto sulla strada per la miniera si è fatto tardi:
infatti incontro il minatore che, assieme a un suo compagno sta
tornando in paese. Mi scuso per il ritardo ma lui mi
accompagna ugualmente a visitare la sua miniera. Questa
consiste in due gallerie collegate da un pozzo. Penetriamo nella
galleria; le pareti sono irregolari, il fondo coperto da pietrisco.
Accendo il registratore e registro le sue spiegazioni. Il lavoro
inizia alle otto del mattino e prosegue fino alle cinque del
pomeriggio. Ci si ferma per mangiare, poi si riprende alle sette
di sera e si va avanti fino alle quattro del mattino seguente: è la
“dobla” o “doblar”, cioè la doppia. Il lavoro è molto duro,
masticare foglie di coca aiuta molto. Mi mostra la vena
principale. All'inizio non c'è molto oro ma si spera che,
seguendola, l'oro diventi più abbondante.
Il minerale si saggia ponendo un campione dentro un corno di
toro, si aggiunge dell'acqua e si strofina col dito. L'oro, più
pesante, rimane al fondo e a seconda della quantità si capisce
Pataz, cercatore d'oro
quanto il minerale è ricco. Un buon minerale contiene dalle
venti alle trenta once d'oro per tonnellata, quindi è conveniente
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macinarlo e lavorarlo in paese. Quello più povero viene mandato a una impresa. L'oro estratto si
può vendere liberamente, ma si deve pagare una percentuale alla compagnia. Il guadagno minimo è
di circa quattrocento milioni di inti (circa 10.000 dollari, ma molto dipende dalle fluttuazioni del
cambio), cioè quanto costa una tonnellata di minerale da trasporto. Sforzandosi si può riuscire a
guadagnare anche due miliardi.
Prima di andarmene gli chiedo di scattarmi una fotografia... da come maneggia la macchina
fotografica penso che sia quella la prima volta che ne impugna una.
Alla sera compero una latta di sardine (5.000 inti), una di conserva di pomodori (5.000 inti) e un
pane con canditi (ottimo, 1.000 inti) e ceno.
Martedì 5 settembre
Oggi dovrebbe essere il giorno della
partenza da Pataz. Tutto sta nel trovare un
mezzo di trasporto per Chagual. Poi, da
Chagual, dovrò aspettare un autobus o, nella
peggiore della ipotesi, un camion per Trujillo
sperando nella buona sorte. Sveglia, dunque,
alle 6 del mattino, faccio colazione e preparo
lo zaino. Pago il conto dell'alloggio (28.000
inti) e alle 8, MIRACOLO! un camion deve
scendere a Chagual per trasportare sacchi di
minerale. Si parte subito. Il camion, color
arancione, ha l'aspetto alquanto vissuto: il
pavimento della cabina è ricoperto di utensili.
Pataz, rifornimento carburante
Carico lo zaino sul cassone a far compagnia
ai sacchi di minerale e agli altri passeggeri. Io, per essere gringo e biancuccio, ho l'onore e il
privilegio di salire in cabina, accanto al pilota e copilota. Il camion si avvia lentamente, e sale a
Campamento per caricare altro minerale. Campamento è una zona mineraria poco sopra Pataz. Il
copilota è costretto a scendere più volte per togliere massi dalla strada o per guidare da fuori le
manovre dell'autista quando, sui tornanti, si devono affrontare curve molto strette.
A Campamento si scende, perché il carico
del minerale va per le lunghe. Ne approfitto
per andare in giro e scattare foto. Poche case
di terra col tetto in lamiera ondulata,
abbarbicate sul fianco della montagna.
Macchie di eucalipti, buchi e minatori
dappertutto; qui si scava con tecnologie e
mezzi di poco superiori a quelli medievali.
Dietro di noi si ferma un grosso camion
crema e azzurro. Sulla parte anteriore del
capiente cassone di legno è dipinta la scritta:
“Luchador Patacino”. Tre uomini si danno
da fare per sostituire un pneumatico.
Il carico è fatto e si può ripartire; si deve,
Una scuola di Pataz
però, ritornare a Pataz, l'autista ha
dimenticato di fare carburante. A Pataz non esistono distributori, bisogna fare carburante
direttamente dai fusti. Alcuni volontari si rendono utili per tenere sollevato il fusto e fare il pieno.
Per l'operazione, ovviamente, ci vuole il suo tempo, così ho modo di passare per la scuola dove
insegna la signorina Lucy.
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La scuola (edificio rigorosamente d'argilla intonacato di calce bianca) consiste in un'unica aula col
pavimento di terra battuta. Piccoli tabelloni scoloriti e ghirlande di carta colorata sono appese alle
pareti dipinte di celestino. Seduti ai banchi di legno, che certamente farebbero commuovere i lettori
del libro Cuore, ci sono una quindicina di bambini. L'aula è immersa in una perenne penombra.
Avverto i bambini che sto per scattar loro una foto: rimangono tutti immobili e mi guardano con
curiosità. Fuori, sotto lo splendido sole, ritraggo Lucy assieme a tre suoi colleghi e m'intrattengo un
po' a parlare con lei. Si dice alquanto pentita di aver lasciato Trujillo per finire qui, per fortuna è
solo fino a dicembre. Mi consegna una lettera da recapitare a un signore di Trujillo, il quale lavora
al Banco de Credito Mayorista. Ci salutiamo e mi avvio verso il camion. Stanno ancora travasando
combustibile.
Alle 9.05 si parte. Il mezzo affronta la discesa molto lentamente: la strada è stretta, strapiombante
e con curve molto serrate. In cabina si parla di viaggi, dell'Italia e dei mondiali di calcio.
Alle 10.26 un forte rumore metallico ci fa sobbalzare; è come se qualcuno colpisse la testata del
motore con un martello. Il camion si ferma. La preoccupazione aumenta. Autista e aiutante
scendono, aprono il cofano, confabulano, mettono mano agli attrezzi, picchiano, svitano, avvitano.
La valle del Marañon
Chagual: negozio, ristorante, fermata bus, farmacia...
Scendo anch'io. L'altimetro segna quota 1.720. Mi guardo attorno: roccia, polvere, terra arida,
solitari alberi senza foglie, ma ricoperti da un'incredibile chioma di fiori viola. Il letto del Marañon,
color caffellatte, serpeggia lontano, sul fondovalle. Simile alla frastagliata linea di un fulmine, la
sottile linea chiara della strada che porta alla costa si arrampica lungo i fianchi delle montagne
sull'altro versante della valle. Chagual è laggiù. Arrivarci a piedi, con lo zaino in spalla e sotto il
sole cocente, sarebbe una bella faticata. Intanto autista e aiutante continuano ad armeggiare dentro
la bocca spalancata del camion (scena tante volte vista lungo le strade del Perù). I loro sforzi
sembrano avere successo: il camion riparte. Lentamente continuiamo a scendere. Ogni tanto, nelle
accelerate, si fa udire quel preoccupante rumore di martello. Il camion, eroicamente, resiste e, alle
11.30, raggiunge Chagual. Quota 1.060, caldo umido e sole a picco.
Il camion viene scaricato. L'autista si consulta con uno del posto che sembra intendersi di
meccanica. L'esito è nefasto, il tizio scuote la testa: il mezzo non può proseguire, ha bisogno di
pezzi di ricambio.
Chagual è più piccolo di Pataz. Ha l'aria di un paese disastrato, poche case di terra, a un piano, col
tetto di lamiera ondulata. Lungo la strada ci sono i forni per cuocere il pane; sono cupole di terra
annerite dal fumo. La chiesa è piccolina, dipinta di bianco e con una riga marrone alla base; è stata
costruita sopra una serie di gradoni di cemento, forse per impedire al fiume di portarsela via durante
qualche piena. Alle 12.30 entro nel locale che funge da ristorante, albergo, posto telefonico, bottega,
farmacia e fermata degli autobus. Mi siedo a uno dei tanti tavoli liberi e mi permetto un succulento
pranzo: riso con due “papas sancochadas” (patate bollite), due uova fritte e una birra bella fresca
(7.500 inti).
Chiedo informazioni riguardo all'autobus per Trujillo. Ci sono buone notizie: il mezzo è già partito
da Tayabamba e l'arrivo a Chagual è previsto per le 18... però si devono aspettare le 14.30 per la
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conferma, poiché bisogna telefonare quando l'ufficio riapre.
Col cuore contento (non perdo giorni in attesa) vado a fare quattro passi.
La strada polverosa taglia in due il paese, mi avvio verso il ponte sul Marañon. Il fiume scorre
tranquillo sulla mia sinistra.
Prima di arrivare al ponte passo davanti
al posto di controllo della Guardia Civil.
L'edificio basso è dipinto di verdino e
mimetizzato con grossolane macchie
verde scuro. Travi di legno reggono il
tetto di tegole, sopra le quali una vicina
pianta di manghi lascia cadere i suoi
abbondanti frutti. La porta è spalancata,
forse per far circolare un po' l'aria. Una
finestra metallica mostra alcuni vetri
rotti. Tra porta e finestra è infisso uno
stemma rotondo: sul fondo bianco spicca
lo scudo del Perù circondato da bandiere
Chagual, posto di controllo della Guardia Civil
e, in cima, un serto d'alloro. Sulla parte
superiore si legge: 72–COMANDANCIA DE LA GUARDIA CIVIL e sotto: LINEA GC
CHAGUAL. Sopra un grosso tronco appoggiato alla parete sono seduti cinque militari. Li guardo in
faccia: sembrano rappresentare tutte le razze del mondo. Soltanto uno è in divisa. Mi fermo a
chiacchierare con loro; gli argomenti sono i soliti: viaggi, Italia e ovviamente il “mundial”. Anche
qui scopro che, su Italia 90, loro ne sanno molto più di me! Reagisco: Paolo Rossi (da loro assai
ammirato) ed io, rivelo, abitiamo in paesi vicini. È un successo! Si va tutti a bere in compagnia.
Prima, però, chiedo se posso scattar loro una fotografia. Si mettono in posa. Il più giovane mi
blocca: si precipita dentro la caserma e ne esce pochi secondi dopo impugnando un kalashnikov e
una bomba a mano, di un bel color rosso vivo. Appoggia la bomba sul davanzale, si siede accanto ai
compagni e guarda fiero l'obbiettivo. Scatto la foto. Al ristorante, una baracca coperta di frasche, i
militari ne approfittano per mangiare, io li accompagno con una Pepsi (orribile! Molto meglio la
limonata che, purtroppo, non c'era). Costo della Pepsi 2.000 inti. Mentre mangiano mi confessano di
essere alquanto scontenti; il gioco non vale la candela. Per 160 dollari al mese non se la sentono di
rischiare la vita contro terroristi, narcotrafficanti e malfattori comuni: meglio, a volte, lasciar
perdere e guardare da un'altra parte.
Dintorni di Chagual
Dintorni di Chagual
Ci salutiamo. Torno a informarmi sull'autobus: le notizie son sempre buone. Hanno telefonato e
ricevuto la conferma: il mezzo è già in viaggio e arriverà a Chagual verso le 18.
Sollevato riprendo la passeggiata. Compero quattro banane (500 inti) e proseguo per la strada
coperta da una spessa cappa di impalpabile polvere bianca.
Il paesaggio è quanto mai brullo, arido. Prolificano i cactus, simili a enormi candelabri e strani
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alberi spogli, tozzi e dalla corteccia bianca.
Tra cactus e cespugli rinsecchiti numerosi lucertoloni sfrecciano veloci, correndo a infilarsi nelle
loro tane appena cerco di avvicinarmi.
Il ponte sul Marañon è una struttura in ferro
pavimentata con tavole di legno rinforzate
con due file parallele di assi, sopra le quali
transitano i veicoli. Osservandolo non dà una
sensazione di eccessiva solidità, si passa
confidando nella propria buona sorte. Lungo
le sponde del fiume ci sono ampie zone di
verde e molte piantagioni di manghi, il cui
bel verde brillante contrasta col marroncino
spento delle montagne. Sto tornando in
paese quando m'imbatto in alcuni minatori di
Pataz i quali mi invitano a casa loro per una
limonata. Accetto. Abitano subito dopo la
Ponte sul Marañon
chiesa e ci si arriva dopo aver guadato un
corso d'acqua. La casa è piccola, vecchia e cadente. Sulla porta alcune donne accucciate per terra,
giovani e anziane, stanno cucendo. La limonata è alquanto annacquata, ma gradevole. Beviamo a
più riprese dall'unica tazza di plastica, passandoci la caraffa e sgocciolando la tazza, dopo aver
bevuto, sul pavimento.
Mi avvio alla stazione autobus mentre calano le prime ombre della sera. Per 500 inti compero due
arance: mi serviranno per il viaggio. Il biglietto costa 60.000 inti, dev'essere tutto aumentato; però
non pago nulla per il bagaglio.
Sono le 18.00 e l'autobus non arriva. Alle 18.30 nemmeno. Alle 19.00 decido di cenare: riso con
purè di patate (son finite le “papas sancochadas”), due uova fritte e un litro di ottima e dissetante
limonata (3.500 inti). Per il viaggio compero quattro pacchetti di “galletas de soda” (2.000 inti)
Arrivano le 20 e dell'autobus nessuna traccia. Il locale è semibuio, illuminato da un'unica lampada
a carburo, appesa alta a una trave del soffitto. Il riscaldamento non esiste: si gela. Alle 21 comincio
a preoccuparmi: sarà il caso di prenotare un posto dove dormire? Due fari fendono l'oscurità. Si
riaccende la speranza. È una camionetta: il conducente c'informa di aver visto l'autobus fermo, in
panne, a parecchia strada dal paese. Mi assale lo sconforto. Non dura molto, alle 21.25 il “Lirio
Rojo” (giglio rosso) si ferma davanti alla stazione. L'autobus sembra l'inno al fai da te: è alquanto
scassato e le gomme sono rigorosamente lisce. Sul muso campeggia, bella lucida, la scritta VOLVO,
ma dubito che la Volvo abbia mai partorito una “cosa” del genere. L'autobus appartiene alla
“Empresa de Transporte Huncaspata SRLtda”, collega Trujillo, Chagual, Parcoy, Buldibuyo,
Huaylillas, Tayabamba, Huncaspata, ed è probabilmente l'unico mezzo dell'impresa.
Il motore è ancora acceso che una massa di passeggeri famelici si precipita all'interno del locale.
Uomini, donne, vecchi e bambini occupano i tavoli e ordinano a gran voce la cena. Gran via vai di
“mozos” con piatti fumanti e bottiglie di birra. Rumore di stoviglie. Mandibole che si muovono
frenetiche, mentre le bocche succhiano zuppe, spolpano ossa e ingoiano uova. I camerieri stanno
bene attenti a chi cerca di svignarsela senza pagare il conto.
Alle 22.10 sono seduto in fondo all'autobus sull'ultimo sedile, alto circa trenta centimetri e con lo
schienale bassissimo. Praticamente posso appoggiare il mento sulle ginocchia e, data la ridottissima
distanza col sedile anteriore, è impossibile stendere, anche di poco, le gambe.
Il viaggio inizia tra rollii e beccheggi come se stessimo navigando col mare mosso. A volte
l'autobus si inclina tanto che, da dove sono, riesco a vedere la strada illuminata dai fari. Mi auguro
di non vomitare. La velocità, ovviamente è ridottissima. Accanto a me una giovane ed elegante
signora mi confessa che non viaggerà mai più in un autobus: molto meglio un camion, di quelli a
trazione integrale.
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A mezzanotte si fa una sosta, non so esattamente dove. Fuori dal finestrino si vedono delle fioche
luci. Ci sono delle case e un posto di ristoro. All'autista è venuto un colpo di fame. La gente
grugnisce e protesta per il ritardo ma l'autista, imperterrito, siede al tavolo e ordina. Io approfitto per
mangiare un'arancia.
Per curiosità metto il naso dentro al “ristorante”. Il locale è piuttosto angusto, le pareti sono di
terra battuta, le luci fioche. Fuori non fa troppo freddo.
Mercoledì 6 settembre
Notte assai scomoda. Sui vetri la condensa è talmente copiosa da scorrere come un ruscello.
Improvviso una diga, utilizzando la carta igienica, per impedire che l'acqua dilaghi sul sedile e
m'inzuppi i pantaloni. Il cielo comincia a schiarire annunciando brutto tempo, con nuvole basse,
scure e pioggia sottile. Alle 6.30 l'autobus slitta sul fango e si mette di traverso. Il violento scossone
sveglia i passeggeri che ancora dormivano. Intontito dal sonno, a malapena mi rendo conto di
quanto è successo.
A piedi verso Chugay
Chugay: la stada ptincipale
Bisogna scendere, perché il mezzo non ce la fa. C'incamminiamo sotto la leggera pioggia lungo la
pista fangosa. Nessuno protesta, i passeggeri sono abituati a queste esperienze o è il sonno?
L'altimetro segna quota 3.300. Dovremmo trovarci in mezzo alla famigerata pampa dove,
all'andata, abbiamo perso la strada e siamo stati costretti a spingere la camionetta.
Alle 6.47 l'autobus ci raccoglie. Alle 7.30, mentre affronta un tratto in discesa, sbanda nuovamente.
Si sente il caratteristico rumore dei pneumatici che scivolano sul
fango e, dal finestrino, osservo impotente come il mezzo si
avvicina sempre più al ciglio della strada e al tornante successivo,
alcuni metri più in basso. La gente grida. Stiamo per cappottarci,
penso, fissando immobile il precipizio sempre più vicino. Sono
interminabili frazioni di secondo, poi un provvidenziale masso,
posto giusto sul bordo della carreggiata, ferma la corsa. L'autobus è
ammaccato ma noi siamo salvi. Ci affrettiamo a scendere. Mi metto
in fila e seguo il resto dei compagni di viaggio silenziosi e
rasseganti, avvolti in poncio e coperte per ripararsi dal freddo e
dalla pioggia. Un lungo serpentone si snoda tra le sterpaglie
fangose. Si avanza per una mulattiera che scende velocemente,
incrociando la strada a più riprese, mentre, dietro di noi, l'autobus
barcolla lentamente lungo i pericolosi tornanti. Sotto di noi si
stende un'ampia vallata. Tra macchie scure di eucalipti, rettangoli
marroni di campi arati e distese gialle dove l'avena è da poco stata
Studenti a Chugay
mietuta si scorge un gruppo di case.
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L'autobus ci raccoglie alle 8.05, quando la discesa è quasi completata e stiamo per entrare nella
valle. Alle 8.14 entriamo in Chugay. Tempo nuvoloso e poggia intermittente. Chugay consiste in
due file di case, una attaccata all'altra, disposte ai lati della strada. Solite casupole di argilla con tetti
di tegole molto sporgenti, adatti a riparare dalla pioggia. Piccole finestre quadrate, porte di legno
sgimbesce, marciapiedi rialzati per evitare il fango della via. Poche case hanno la facciata dipinta,
generalmente con toni chiari; la maggior parte ha muri d'argilla screpolata, riempiti di scritte
elettorali (il prossimo anno ci saranno le elezioni).
Sorelline a Chugay
Chugay: la chiesa
Poca gente per strada. Attorno campi e montagne seminascoste dalle nuvole. I passeggeri si
riversano in un posto di ristoro, mentre io preferisco fare quattro passi. Fotografo qualche scorcio
del paese, le scritte sulle pareti, arrivo alla chiesa intonacata di bianco. Dalla porta della loro case
alcune bambine mi guardano incuriosite mentre le fotografo; la maggiore ha in braccio la sorellina
di pochi mesi, scalza e infagottata in una consunta coperta rossiccia. Un'altra, giovanissima, è
avvolta in un poncio grigio, dal quale fa capolino la testina di un neonato protetta da un pesante
berretto di lana. Mi fermano due ragazzini: stanno andando a scuola e mi chiedono se posso far loro
una foto. Calzano sandali ricavati dai copertoni. Uno porta i libri sotto braccio, l'altro li tiene dentro
una bisaccia a tracolla. Si mettono bene in posa contro una parete sgretolata, seri.
Compero due banane (400 inti) e completo la colazione con alcune gallette.
Alle 9.06 si risale sull'autobus e si riparte. Alle 10.50 passiamo Pallar, guadiamo un fiume e
iniziamo la lunga salita verso Huamachuco. Alcuni sedili più in là una giovane mamma si prende
cura del suo pargolo. Lo allatta e il pargolo ricambia felice, facendo tanta popò. Dentro l'autobus
l'aria diventa irrespirabile. Siamo ormai alla periferia della città quando dobbiamo fermarci.
Un tratto di carreggiata sopra un ponte ha ceduto, formando una grande cavità. L'aiutante
dell'autista scende e, pietra dopo pietra, sistema la strada. Arriviamo a Huamachuco alle 13.05.
Huamachuco è il capoluogo della provincia Sanchez Carrion. L'autobus sosta, i passeggeri vanno a
pranzare. Appuntamento alle 14.00 in Plaza de Armas. Cerco un centro comunitario per telefonare a
Jeanett. Impossibile telefonare: la coda è esageratamente lunga. Faccio un giro per il pittoresco
mercato. Bancarelle, coperte da teli di plastica colorata per proteggersi da sole, vendono di tutto.
Alcune sono specializzate in tessuti e gran quantità di pizzi colorati (blondas) con cui le donne
adornano i loro vestiti. Convinco una signora, molto diffidente, a lasciasi fotografare; indossa un
tipico vestito della zona: almeno tre pesanti gonne sovrapposte, color fuxia, nero e fuxia, con sopra
un camicione bianco, stretto in vita e abbellito sul davanti da una cascata di merletti bianchi,
azzurri, gialli e fuxia. Collo bianco, alto e importante, simile a uno scialle, con un largo bordo di
tessuto fuxia pieghettato. Orecchini dorati e alto cappello di paglia, con tesa larga, in testa. I sandali
neri ai piedi hanno l'aria di essere stati acquistati da poco. Prometto di spedirle la foto presso
Jugueria Maranata - Huamachuco. Con un indirizzo così, chissà se le arriverà.
Alcune bancarelle vendono prodotti artigianali molto interessanti. Per 20.000 inti compero due
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belle “alforjas” (bisacce). Il venditore mi sorprende quando mi chiede se posso procurargli una
Land Rover. Ma per chi mi avrà preso?
Presso un'altra bancarella compero quattro pani, tondi e dolci, e due banane (1.100 inti). Sei
pacchetti di biscotti mi costano (3.000 inti).
Alle 14,10 l'autobus raggiunge la Plaza de Armas e rimane in attesa. I passeggeri arrivano alla
spicciolata, con comodo. Nel cielo il sole splende, fa caldo. Partiamo alle 14.35 per fermarci al
posto di controllo della Guardia Civil. Sul muro della caserma c'è scritto: Huamachuco - altitud
3.241, mentre il mio altimetro indica quota
3.175.
Alle 16.20 passiamo per il “ristorante”
Frailones. Piove. La strada è in pessime
condizioni, l'autobus s'impantana e un bel po'
di passeggeri è costretta a scendere per
alleggerire il mezzo. A Huamachuco alcuni
viaggiatori sono scesi e altri sono saliti. Ne ho
approfittato per cambiare sedile; adesso sto
molto più comodo. Durante la sosta c'è pure
stato un notevole ricambio d'aria e ora si
respira un po' meglio.
Si attraversano paesaggi brulli e spopolati.
Il "Lirio Rojo" a Huamachuco
L'unica forma vivente visibile è l'onnipresente
ichu, sferzato dal vento e dalla pioggia gelata. Sotto la pioggia l'autobus ferma all'improvviso: un
passeggero ha avvistato una pernice e se la vuole cucinare per cena. Attraverso i finestrini assisto
alla patetica caccia al volatile. L'improvvisato cacciatore si affanna dietro l'uccello, inseguendolo tra
rocce e ciuffi d'erba, su per il ripido pendio. La pernice non è scema: conosce perfettamente il
territorio e ben presto sparisce. Il cacciatore se ne torna all'autobus, bagnato fradicio, costretto a
subire la mordente ironia dei compagni di viaggio, gli stessi che l'avevano sostenuto e incitato
durante l'inseguimento. L'autobus può ripartire.
Alle 17.43 passiamo la laguna Toro e alle 18.38 entriamo a Shorey. La carreggiata è stretta e due
veicoli faticano a transitare appaiati. L'autobus urta leggermente un camion, che avanza in direzione
opposta, e gli frantuma uno specchietto retrovisore. Tra i due autisti c'è un vivace scambio di
coloriti epiteti. Il diverbio, per fortuna, si esaurisce presto: entrambi hanno fretta e, dopo un po' di
manovre i mezzi riescono a passare e proseguire ciascuno per la propria strada. Alle 19.08 ci
fermiamo al posto di controllo di Shorey.
Il viaggio continua fino alle 19.36, quando una forte puzza di bruciato allarma i passeggeri.
L'autobus si ferma, l'autista scende a controllare: nell'oscurità tutto sembra in ordine. Si riparte e
tutto procede bene; alle 21.43 nuovo allarme e altra sosta: l'autobus ha bisogno di alcune veloci
riparazioni. Noi passeggeri tratteniamo il respiro. In pochi minuti tutto pare sistemato e il viaggio
può riprendere. Alle 22.22 passiamo Agallpampa dove tutto è chiuso. In località José Barras l'autista
decide che è ora di cena. Scendiamo nel freddo della notte: non piove più, per fortuna. Molti vanno
a mangiare, alcuni aspettano fuori. Circolano voci preoccupanti: pare che una frana abbia interrotto
la strada per Trujillo e non si possa passare.
Alle 24, in ogni caso, ci rimettiamo in cammino. La strada, pare, è libera.
Giovedì 7 settembre
È ancora buio quando arriviamo a Trujillo: sono le 3.43 del mattino. L'autobus si ferma in calle
Chira. La stazione è ancora chiusa. I passeggeri si rifiutano di scendere: temono i ladri. Intendono
aspettare che l'agenzia apra in modo da poter depositare i bagagli in un luogo protetto.
Finalmente l'agenzia apre, l'autobus viene scaricato e i bagagli frettolosamente portati al sicuro.
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Sono passate le 5. Fermo un taxi e mi faccio portare all'hotel San Martin, San Martin 749 (6.000 inti
per il taxi). Una camera costa 17.000 inti. L'edificio è abbastanza moderno, la camera piccola ma
decente, il letto sembra ottimo. Non vedo l'ora di farmi una doccia calda e prolungata... peccato che
non ci sia acqua. Forse arriverà più tardi.
Esco per fare colazione: due sandwich al tacchino e un tè, al “Salón de Te Buenos Aires” (Pizarro
332) mi costano 6.700 inti.
Spendo 3.500 inti per alcuni biglietti della
lotteria, sono belli e colorati, li compero per
la mia collezione. La signora che me li
vende mi assicura che sono quelli vincenti.
Al N° 548 di Orbegoso si trova la Libreria
Bazar Ideal dove, per 5.000 inti compero un
libro su Cajamarca, città che, in compagnia
di Jeanett, intendo visitare.
Mi dedico, quindi, a cercare il Banco de
Credito Mayorista, per consegnare la lettera
di Lucy. Chiedo informazioni a un poliziotto
il quale mi da indicazioni totalmente
sbagliate. A furia di girare e chiedere,
finalmente trovo l'indirizzo e consegno la
Biglietti di varie lotterie
missiva. Al ritorno attraverso un mercatino
rionale. Tra le tante bancarelle ce n'è una
assai interessante: un signore anziano vende rimedi, pozioni e feticci. Compero alcuni
“chumbeques” (portafortuna consistenti in un nastro rosso con legati un ferro di cavallo in
miniatura, un frutto maschio di huayruro e una piccola immagine di Gesù bambino). Acquisto anche
una bottiglietta piena di scaglie dal color giallo dorato: si tratta di orpimento, un minerale di
arsenico, utile nella cura di molti mali, tra i quali alcuni tumori e “aires”.
L'uso più interessante, però, e un altro. L'anziano venditore spiega: nella sierra ci sono delle pozze
d'acqua dalle quali scaturiscono dei vapori. A volte il sole, attraversando questi vapori, forma degli
arcobaleni. Da questi arcobaleni spuntano dei mostri con teste simili a quelle dei gatti. Se nelle
vicinanze transita una donna incinta, la malcapitata si gonfia a dismisura, restando incinta di queste
visioni. All'ora del parto, invece del bambino, uscirà acqua e grandine. Per evitare questo
increscioso inconveniente è utile usare la polvere di orpimento: se ne pone un po' sul palmo della
mano e la si soffia in direzione degli arcobaleni. L'efficacia è certa.
Orpimento e portafortuna mi costano 100.000 inti. Il vecchietto mi saluta contento.
Nell'assolata Plaza de Armas due ragazzine in divisa scolastica mi chiedono un'offerta per la
Croce Rossa; do 500 inti e una di loro mi appunta sulla giacca un adesivo rotondo. Ripasso per la
Libreria Bazar Ideal e compero otto “documentales del Perù”, prezzo 40.000 inti, 3.000 inti di
sconto e pago 37.000. Al mercato coperto vendono di tutto; trovo delle cassette di musica a un
ottimo prezzo: per 120.000 inti ne prendo sei di musica folclorica.
L'ospedale Belén non è lontano, lo raggiungo ma Jeanet è ancora al lavoro, così me ne torno
all'Hotel. L'acqua è arrivata: finalmente posso permettermi una doccia di lusso, calda e prolungata.
Rimesso a nuovo torno all'ospedale per Jeanett e andiamo a pranzo al “Restaurant Criollo Grau”
(Grau 630). Di rigore un pisco suor, cebiche e crema volteada come dolce. Totale 34.100 inti.
Dedico il pomeriggio a visitare Trujillo; porto in lavanderia un po' di biancheria sporca, passo in
tipografia per Jeanett e passo da Sara per confermare l'invito alla “parillada” di sabato. Si tratta di
celebrare degnamente la festa dell'amicizia tra Perù e Argentina, e, trattandosi di Argentina, il modo
classico di festeggiare è quello di una pantagruelica grigliata.
A sera accompagno Jeanett al teatro Municipal (6.000 inti per due ingressi). Assistiamo a uno
spettacolo di beneficenza a favore di uno studente di medicina. Lo spettacolo s'intitola “Ayudemos a
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vivir” ed è piuttosto dilettantistico. Comincia con molto ritardo ed è costellato da papere, pause e
contrattempi. Bambine e bambini ballerini, cantanti già visti al Sachun e, perla della serata, una
giovane e brava cantante, vincitrice della trasmissione televisiva “Trampolin a la fama”.
All'uscita ci fermiamo per un tè e una Fanta in un bar vicino (1.500 inti), poi Jeanett va a casa e io
torno in albergo.
Venerdì 8 settembre
Sveglia alle 8.00. Pago l'albergo (17.000 inti) e vado a fare una bella colazione da Demarco (7.500
inti). È un locale di proprietà di un italiano, si mangia bene e servono ottimi dolci. Prendo un taxi
per l'agenzia Diaz: è un'agenzia che viaggia a Cajamarca, da tutti raccomandata come la migliore. Si
trova un po' lontana dal centro, lungo la Panamericana nord (2.000 inti per il taxi). Purtroppo per
domani i posti sono esauriti. Me ne torno a piedi e provo da Etecsa. Il biglietto costa 16.000 inti:
compro il mio e prenoto per Jeanett.
Faccio una visita a un centro commerciale
che si trova lì vicino, per 7.800 inti
compero una busta con cinque pupazzetti
spaziali; sono i “Guerreros Galacticos”,
commovente “producto peruano” dai colori
sgargianti e molto carini da collezione.
1.000 inti li spendo in un'edicola per il
giornale Kausachum Perú (Evviva Perù),
non ci sono notizie particolari, ma mi attira
il nome della testata.
Passo da Foptur per avere informazioni su
Cajamarca. Mi consigliano di alloggiare
all'hotel Jusovi. Si trova dietro la Plaza de
Guerreros Galacticos
Armas e una camera singola costa 10.000
inti.
In una piazzetta c'è il cambio libero. Il dollaro continua a salire, adesso vale 4.550 inti. Cambio
cento dollari. Spulciando tra libri e riviste nella libreria “Studium S.A.” (Francisco Pizarro 533)
scopro una vera chicca: si tratta di una pubblicazione a cura del dottor Ricardo Mariategui Oliva
(mio professore di storia e geografia del Perù). Il titolo è: “Nuevo Lienzo autentico del Corpus
Cuzqueño” e vi si racconta la riscoperta di un grande dipinto raffigurante la processione del Corpus
Domini nel Cusco, opera di un anonimo pittore indigeno del XVII secolo (anonimo perché agli
artisti indigeni era proibito firmare le loro opere!). Il tema rappresentato è l'annunciazione di Maria.
Con questo, sostiene il professor Mariategui, il numero delle tele del “Corpus” arriva a sedici.
Docici si trovano al Museo Arzobispal di Cusco e quattro si trovano in Cile, presso privati. Costo
1.500 inti. Per 20.000 inti compero anche il numero 53 del “Boletin de Lima” con un interessante
articolo su Cajamarca e Huaraz.
Alle 13 telefono a casa. Poi passo per l'ospedale e con Jeanett vado a pranzo: “sopa de la casa”,
“aji de gallina”, “cebada” (3.200 inti)
Torno da Etecsa per confermare il viaggio di Jeanett. La partenza è fissata per domani alle 21. Al
mercato dell'avenida Perù compero mele e uva (2.750 inti) e in un negozio del centro un paio di
calze nere per Jeanett (3.000 inti). Si fa sera. Passo per la lavanderia “Pronto” (Pizarro 121) e ritiro
la biancheria pulita (3.500 inti).
Alle 20.45 sono invitato alla cena della “promoción” della scuola di Jeanett. Ci si trova al primo
piano di una delle più famose pasticcerie di Trujillo. Sono presenti quasi tutte le sue compagne di
scuola: quella della cena di classe è una tradizione molto radicata e sentita da tutte. Faccio una
considerazione, paragonando quella riunione con quelle a cui ho partecipato in Italia: delle circa
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venti signore presenti nessuna è venuta in auto; semplicemente non ce l'hanno! M'intrattengo per
un'oretta e poi torno all'hotel.
Sabato 9 settembre
Sveglia alle 7.30 con cielo coperto. È normale, siamo in inverno anche se ci troviamo nella
capitale dell'eterna primavera. Forse il sole uscirà nel pomeriggio. Decido di visitare la huaca del
Sol e quella della Luna. I “micro”, i pulmini che si recano a Moche, partono dalla calle Suarez 389.
Ci arrivo tranquillamente a piedi attraversando il centro e trovo un pulmino bianco, con righe rosse
e blu, pronto, in attesa. Dentro, già sedute, alcune signore mi fanno cenno di affrettarmi a salire
perché, mi spiegano, la zona è piena di ladri in attesa di derubare l'incauto turista. Non solo, pure
loro sono stare vittime di borseggi. Mi raccomandano di fare molta attenzione una volta giunto alle
piramidi: il luogo è deserto ed è meta di malfattori che assaltano la gente. Infilato in un tascone dei
pantaloni porto il coltello da sopravvivenza, il suo aspetto dovrebbe intimorire eventuali
malintenzionati.
Alle 8.38, dopo aver sistemato una ruota, il
pulmino si avvia, esce da Trujillo e percorre la
Panamericana Nord. Dopo alcuni chilometri devia
a sinistra, imbocca una stradina polverosa che è
tutta un susseguirsi di curve, e s'inoltra nella
pianura di Moche. Incontriamo case sparse e
qualche modesto agglomerato urbano. Le
costruzioni sono di terra, basse, col tetto fatto di
stuoie. Molte mostrano bei giardini fioriti, che
contrastano vivamente col verde spento e
polveroso della vegetazione circostante. Alle 9.02
Moche: huaca del Sol
il pulmino si arresta davanti a un grande cartello
di cemento dipinto di azzurro. Scritte bianche
informano che si è arrivati alle piramidi del Sole e della Luna. Niente biglietto d'ingresso, nessun
guardiano: il sito archeologico è totalmente abbandonato.
La piramide del Sole sorge subito dietro il cartello. È una struttura a gradini, alta circa trenta metri,
costruita con milioni di mattoni d'argilla. Il tempo e la gente, che durante i secoli vi si è arrampicata
in cima, l'ha resa simile a una collinetta. La pioggia ha scavato profonde fenditure lungo i suoi
fianchi. Seguo la base della piramide per un sentiero a sinistra, passo davanti a un gruppo di
casupole fino a una cooperativa agricola. Un canaletto scorre a lato del sentiero, oltre c'è una distesa
di campi coltivati. Improvvisamente un gruppo di cinque o sei cani mi circonda abbaiando: tiro
fuori il coltello e mollo un fendente a quello che mi è più vicino, non lo prendo, ma la reazione
spaventa il branco che si allontana, sempre abbaiando. Torno sui miei passi e scalo la piramide,
seguendo uno dei tanti sentieri tracciati da chi mi ha preceduto. Dalla cima ammiro l'altra piramide
e lo squallido paesaggio circostante, reso ancor più triste dal cielo grigio e da una leggera foschia.
Gli unici segni di vita son dati da due bambine che giocano nei pressi di una fattoria e da un asino
grigio che mastica tranquillo le stoppie.
Scendo, costeggio una stentata piantagione di mais e, attraversando un tratto piano e sabbioso,
arrivo ai piedi della piramide della Luna. La struttura è addossata a una collina appuntita, dalla
curiosa forma di piramide, è più piccola di quella del Sole e sulla facciata presenta una dozzina di
fori, di varie dimensioni, quasi certamente opera dai tombaroli.
Salgo in cima per scattare qualche foto, poche, perché il pessimo tempo mi scoraggia. Scopro che
la parte superiore della piramide sembra collassata: invece di essere piana, come mi aspettavo,
presenta una profonda e vasta fossa.
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Moche: huaca de la Luna
Moche: huaca de la Luna
Scendo e mi avvio verso la fermata dei pulmini. Alle 9.54 ne arriva uno color crema. Salgo e il
mezzo arranca lentamente verso Trujillo, caricando gente e “cantinas” (bidoni del latte). Il
passaggio costa 500 inti per l'andata e altrettanti per il ritorno.
Copertina dell'album "La Pandilla Basura"
Pagina dell'album "La Pandilla Basura"
Centro di Trujillo: nella strada che passa dietro al mercato coperto, a poca distanza dal centro, si
svolge il commercio delle figurine: i ragazzini comprano poche bustine alla volta, e scambiano le
doppie con i loro amici per completare la collezione. C'è, però, la possibilità di comperare subito
l'intera raccolta: il rivenditore apre le buste, scarta i doppioni (che poi rimette nelle bustine) e vende
la collezione completa. Per 20.000 inti compero album e figurine de “La pandilla basura”,
letteralmente: la banda spazzatura. Le figurine consistono in disegni, sotto certi aspetti alquanto
raccapriccianti, di bambini simili a mostriciattoli, più schifosi che divertenti. Il rivenditore ha una
memoria di ferro: si ricorda di me che, quattro anni prima, avevo da lui comperato la collezione
“Ciencias”!
Entro al mercato e bazzico tra i posti vendita. Compero due statuette di terracotta che vengono
poste in cima alle torte degli sposi: le figurine hanno un'espressione tutta particolare. Una terza
statuetta raffigura una ragazzina vestita di un lungo abito rosa, tutto volant, molto vaporoso: serve
per la festa dei quindici anni (23.000 inti).
80.000 inti li spendo per quattro musicassette e 2.000 per una sacco di robusto tessuto plastico, col
quale ho intenzione di avvolgere lo zaino per il suo trasporto in autobus.
Per 13.230 inti pranzo al “Restaurant Romano” (Pizarro 747).
Cerco disperatamente per tutta Trujillo qualche rullino di Ektachrome! Niente da fare, devo
accontentarmi di un paio di Fujichrone (46.000 inti), meglio di niente, comunque. Altre spese: 2.000
inti per due biglietti di varie lotterie e 1.000 per il giornale “El Nacional”.
Mi faccio un appunto: da comperare la cassetta de “Las Chicas del Can” con la canzone “ Juana la
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cubana”; il gruppo canoro sta popolando con quell'indiavolato merengue.
Al supermercato “Tienda Tia”: 18.000 inti per la cassetta di musica andina “Machu Picchu”, 1.560
inti per biscotti e 3.540 inti per cioccolata.
Copertina dell'audiocassetta di MARISOL, cantante
spagnola, all'epoca (anni ‘60-’70) la mia preferita
Decorazioni in terracotta per le torte degli sposi e la
festa dei quindici anni
Alle 13,30 arrivo da Pirani, il negozio di Ruben: è lui che ha invitato Jeanett e me alla festa
argentina. Jeanett è in ritardo. Ruben è incazzato. Arriva Sara, la moglie e, finalmente , arriva anche
la mia amica. Con l'auto di Ruben si va un po' fuori città, in una grande casa privata, messa a
disposizione da un medico. Sotto una spaziosa pergola c'è già parecchia gente, sui tavoli piatti di
“manì” (pop corn) e salsa piccante. Musica registrata. Spunta un pallido sole. La gente continua ad
arrivare a frotte e un complessino inizia a suonare e cantare motivi in voga. Vengono servite
succulente bisteccone, una gran quantità di salsicce e insalata. Noto l'assenza di forchette e coltelli.
Questa sembra essere la consuetudine e tutti sono ben attrezzati in fatto di coltelli: dalle tasche e
dalle borse esce fuori un sorprendente arsenale di lame. Mancano solo le scimitarre e i kriss malesi!
Ruben esibisce un paio di coltellacci dal manico e fodero finemente cesellati. Io faccio un figurone
col coltello da sopravvivenza che taglia la bistecca come fosse burro. Verso la fine circola anche una
torta di fragole; per 5.000 inti me ne assicuro due porzioni. Pago la mia quota (10.000 inti) e alle
16.30 Ruben riporta indietro Jeanett e me.
Lei se ne torna a casa per prepararsi, io vado al mercato e per 20.000 inti compero
un'audiocassetta di Marisol, con tutte le mie canzoni preferite che ascoltavo vent'anni prima! Non
vedo l'ora di riascoltare “Tengo el corazón contento”, “Anoche no pude dormir”, “Aquel verano” e
molte altre. Il negoziante m'informa che da lunedì le cassette costeranno 29.500 inti.
Compero anche una penna nuova (2.000 inti). Cambio venti dollari a 4.550, per un totale di 91.000
inti e mi fermo da Demarco per la cena: 3.580 inti per un toast con formaggio, uno con uova e un tè.
Camminando arrivo all'agenzia di Etecsa dove mi aspetta Jeanett. L'autobus parte alle 21, in
perfetto orario. Alle 23 arriviamo a Chocope, alle 23.15 passiamo Paijan e alle 24 Pacasmayo.
Domenica 10 settembre
Alle 0.40 una tremenda puzza di bruciato invade l'autobus. La gente grida all'autista di fermare.
Scoppia una gomma e l'autobus sbanda. Chi dorme si sveglia di soprassalto, sente il casino, si
spaventa e si mette a urlare: « Nos asaltan! Nos asaltan! ( Ci assaltano!)»
In questo periodo, infatti, vanno molto di moda gli assalti agli autobus. Banditi e terroristi
bloccano le strade e derubano i passeggeri di tutto quanto hanno, vestiti compresi. Va molto peggio
nel centro sud, nella zona di Ayacucho, dove i senderisti non si accontentano di rubare, ma uccidono
gli eventuali turisti.
Il nostro autobus riesce a fermarsi; autista e aiutante scendono per riparare la gomma, ma al buio
non è semplice. Presto loro la pila e, dopo un po', si riparte.
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Alle 2.30 facciamo una sosta a Iatagual,
400 inti per un “biscocho”, panetto tondo e
dolce. Si riparte alle 3.00, alle 3.30 sosta a
Chilete e un'altra sosta ancora alle 4.55.
Alle 6.30, dopo aver assistito a un'alba
spettacolare, arriviamo a Cajamarca.
Cerchiamo
un
hotel.
Il
Jusovi,
raccomandatoci da Foptur, è caro: 20.000
inti per una stanza doppia. Approdiamo al
Sucre: 15.000 inti, bagno spartano, acqua
poca, pulizia non eccessiva.
Fuori splende il sole, si prevede una bella
giornata. Al ristorante “Salas” (Amalia
Alba a Cajamarca
Puga 637) facciamo colazione (11.650
inti), quindi iniziamo la visita alla città. Se bella è la cattedrale, stranamente con le torri mozzate,
costruita in porfido, splendida si può definire la chiesa di Belén, la cui facciata è sontuosamente
Cajamarca: la Plaza de Armas
Interno della chiesa di Belén
scolpita, tanto da sembrare un ricamo. A sinistra della cattedrale c'è l'edificio bianco e moderno
dell'hotel de Turistas, sicuramente comodo e certamente caro. Al centro della Plaza de Armas,
circondata da un giardino ben curato, sorge una bella fontana di pietra.
Particolare della chiesa di Belén
La collina di santa Apollonia
La collina di Santa Apolonia è alta cinquecento metri. Affrontiamo la lunga scalinata di pietra a
doppia corsia, molto particolare. Alla fine c'è la chiesetta dedicata alla Madonna di Fatima, tutta
dipinta di bianco e azzurro. Dietro la chiesa un'enorme croce bianca si staglia contro il cielo blu
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cobalto. In cima alla collina ora ci sono dei giardini; anticamente vi sorgeva un tempio di cui ora
rimane ben poco: una pietra intagliata chiamata sedile dell'inca. Vicino sorge la statua dell'inca
Atahalpa, raffigurato in piedi, con le mani dietro la schiena intento a guardare con aria corrucciata e
sconsolata la città. Da sopra la collina si gode di un'ottima vista del panorama sottostante, si
apprezza l'antica pianta, tipica dell'epoca della conquista: tanti isolati divisi da strade dritte e
ortogonali. Dietro la statua c'è una fontanella, alquanto malconcia: rappresenta un “cholito” che sta
orinando. Facciamo conoscenza con Elen, una ragazza americana da poco in Perù, che ha come
meta finale il Cile. L'ingresso ai giardini costa 100 inti.
Cajamarca vista dal “asiento del Inca”
Una via di Cajamarca
Cajamarca: un mercato
Cajamarca: negozio di abbigliamento
Cajamarca: negozio di artigianato
Cajamarca: giovane venditrice
Lungo la scalinata si aprono numerosi negozi d'artigianato; quando scendiamo ne visitiamo alcuni.
Vendono oggetti in ceramica e in giunco. Per 5.500 inti compero una statuetta raffigurante una
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donnina che fila la lana. All'uscita troviamo due bambine le quali insistono per cantarci una
canzoncina: accendo il registratore e loro cantano.
Mariposita, mariposita ¿quien te ha dicho que soy casada?
Soy casada por esta noche, solterita enamorada.
Ese marido que tienes [...]
[...] hasta las velas
Si te casabas conmigo tenias [...]
Dale, dale duro que te esperaré
con cinco patadas y un puntapié
Que bonita señorita, ¿quien será su enamorado?
Yo quisiera conocerlo pa matarlo al maldiciado.
Que bonito jovencito, ¿quien será su enamorada?
Yo quisiera conocerla pa matarla a la maldiciada.
Quisiera ser pajarito con patitas de algodon
para acostarme en tu pecho y hablar con tu corazon
al silencio de la noche la luna que se oculta
tus ojos seran (orribles) cuando de ti me acordaba
muchacha cajamarquina, hermosa como un clavel
te pones muy guapa y vela con tu faldita de Chanel
ahy mujer, mujer
ahy mujer, mujer desconsiderada
toda semana trabajo y me esperas enojada
yo tenia una mi tia que de madre me servia
tenia calzones viejos, camisas desvanecidas
y chalaca [...]
tu madre manda en lo tuyo
de lo tuyo mando yo.
Quando bajé de mi tierra, de poncho y sombrerito
pero al llegar a la costa me llamaban serranito
por una calle derecha iba buscando posada
pero la gente del pueblo todos, todos me negaban.
Carolina, Carolina, eres linda Carolina
si serán tus ojos con tus labios rojos que a mi me provocan,
que a mi me provocan.
Alla fine chiedono la “propina”, la mancetta: do 50 inti a ciascuna e vanno via contente, ridendo.
In Plaza de Armas compero un sacchettino di “canchita” (pop corn) per 500 inti, sei banane (1.000
inti) e quattro “rines” (gettoni del telefono) locali (400 inti).
Cajamarca era una città importante, ci si rende conto mentre, passeggiando, si scoprono le tracce
dei passati splendori; a parte le chiese, molte case sfoggiano monumentali portoni di pietra scolpita.
Sono le entrate degli antichi palazzi dove dimoravano i ricchi conquistadores.
Tra mercati, dove si vende un'infinita varietà di fiori, frutta e ortaggi, e ambulanti che esibiscono
prodotti assai singolari mi colpisce un signore piuttosto corpulento, elegantissimo in pantaloni grigi
e camicia bianca. Sembra vestito per andare a messa. Ha i capelli neri impomatati. La camicia
candida, virilmente sbottonata, lascia intravvedere un paio di catenine d'oro: una con appesa un
massiccia croce, l'altra con uno strano ciondolo a forma di ruota. Al polso destro porta un pesante
braccialetto d'argento. Accanto ha una cassetta di legno dalla quale estrae, di volta in volta, serpenti
e lucertoloni di varie dimensioni.
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Con le mani grassocce maneggia i rettili con consumata perizia e
professionalità: vende rimedi ricavati dal grasso di quegli animali e
son rimedi, secondo lui, atti a curare una gran varietà di mali.
Mentre lo fotografo si fa avvolgere dalle spire di una “mantona”
una specie di pitone, lungo più di due metri e grosso quanto la
coscia di un uomo. Magnifico serpentone grigio piombo, con
macchie rossicce e linee ondulate color crema. Attorno, un folto
gruppo di paesani ascolta con interesse.
Proseguendo tra bancarelle coperte da fogli di plastica colorata
scopro una serie di negozi di artigianato. Mi interessano delle
statuette scolpite in “serpentina”, una pietra grigio chiaro con
delicate sfumature rosa e verdognole, molto elegante. Le sculture
rappresentano contadini al lavoro, donne coi bambini, animali. Ne
compero alcune: due mamme coi bambini in braccio e un contadino
con badile e una patata in mano 23.000 inti).
Si pranza al Salas (32.900 inti). Finito di pranzare si continua la
visita alla città. Il tempo è cambiato, il cielo è coperto da
Le bambine canterine
preoccupanti nuvoloni color piombo. Non facciamo a tempo ad
attraversare la Plaza de Armas che si scatena un improvviso quanto violento acquazzone. La gente
scappa cercando riparo; ne seguiamo l'esempio e ci rifugiamo sotto un tetto sporgente. In pochi
secondi le strade si trasformano in torrenti (ecco perché i marciapiedi sono così alti) e la piazza
sembra un'isola circondata da un mare vorticoso.
Per fortuna il temporale dura poco. Il vento spazza via un po' di nuvole e la pioggia cessa.
Guadando la strada Jeanett è vittima di un
tremendo scivolone, niente di grave, ma preferisce
tornare all'albergo e rimanerci. Io continuo con la
visita.
All'interno di un magazzino c'è un piccolo
televisore acceso. Stanno trasmettendo una partita
di calcio. Dev'essere una partita importante, ci sono
le selezioni per i mondiali di Italia 90. Una dozzina
di persone si accalca davanti all'inferriata che
protegge il magazzino. Gente povera che mai
potrebbe permettersi un televisore. Alla sera si cena
Venditore di rimedi
al Salas (7.600 inti).
Lunedì 11 settembre
Ci si sveglia gratificati dal bel tempo. Jeanett paga la camera (17.000 inti) e usciamo sulla Plaza de
Armas illuminata dal sole. Il cielo blu sopra la cattedrale è rallegrato da cirri bianchi e sottili, simili
a tante candide piume.
Qualche veloce foto ai portali di pietra e, alle 9, si parte per un tour a Cumbe Mayo. La località si
trova a circa venti chilometri da Cajamarca.
La strada è sterrata, molto tortuosa ma ben tenuta: il pulmino la percorre senza problemi,
lasciandosi dietro una scia di polvere. Il paesaggio è monotono: montagne coperte di ichu
grigioverde, rari alberi, case di fango isolate. Siamo in dieci: autista, guida, una famiglia composta
da padre, madre, due gemelle e due zie, Jeanett ed io.
Già da notevole distanza si scorgono le singolari formazioni rocciose: spuntano dal terreno come
giganteschi tronchi d'albero e vengono chiamate “Frailones” perché la loro forma ricorda una fila di
frati in processione. Tra le formazioni di roccia grigia si snoda un'opera eccezionale: un acquedotto
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risalente all'epoca Chavin.
È davvero incredibile come gli artefici siano riusciti a scavare la pietra disponendo di attrezzi
molto rudimentali, dando l'inclinazione ottimale, prevedendo tratti a più angoli retti per ridurre la
velocità del flusso e scavando addirittura dei tunnel quando bisognava superare una roccia di grandi
dimensioni.
Cumbe Mayo: los Frailones
Cumbe Mayo: los Frailones
Cumbe Mayo, l'acquedotto
Cumbe Mayo, grafiti
Molti e singolari i graffiti: ci sono spirali, croci, cerchi e altri simboli di cui ormai si è perduto il
significato. Alla base di un pinnacolo si apre una caverna, simile a una bocca spalancata, vi si
accede salendo una rampa artificiale e alcuni gradini. L'interno ha forma circolare, con un diametro
di circa tre metri. Il pavimento è stato accuratamente levigato e le pareti sono ricoperte da numerosi
grafiti, in gran parte forme irriconoscibili e misteriose, come la funzione della grotta stessa.
Il posto è davvero suggestivo. Purtroppo siamo in un tour: il tempo è limitato e l'interesse delle
gemelle per l'archeologia lo è ancora di più. Risaliamo sul pulmino e torniamo a Cajamarca.
Guida e autista ci rallegrano il ritorno. L'autista canterino racconta barzellette e recita “coplas”
(brevi poesie). Me ne ricordo bene una, molto spiritosa:
COPLA DEL CHOFERCITO
Chofercito quisiera ser
para estas hermosas curvas recorrer
y de un accidente
a este huequito caer.
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Lascio ai lettori immaginare in quale buchetto il piccolo autista desiderava cadere. Umorismo
tipico di Cajamarca, non a caso, per radio, trasmettevano spesso una canzone che diceva così:
Que dichosas estan las pulgas
que se suben a tu cama
a gozar de tu hermosura
de la noche a la mañana.
Traduzione: Che felici sono le pulci, che s’intrufolano nel tuo letto, per godere della tua bellezza
dalla sera alla mattina.
Alle 13.15 siamo di ritorno. L'autista propone di ritrovarci alla sera per organizzare una “peña”,
cioè una serata in un locale dove mangiare tra musica e canti popolari. Niente da fare: le gemelle
preferiscono la discoteca; mamma, papa e zie le accontentano. Il costo del tour è di 14.000 inti a
persona.
Cajamarca, plaza de Armas
"El cuarto del rescate"
Pomeriggio intenso, dedicato a varie attività: passeggiata per il pittoresco mercato, acquisti vari
(carta igienica, 500 inti, sei banane, 1.000 inti e un bel pesce di terracotta tipo “espanta fantasmas”,
cioè con delle parti penzolanti che oscillano al vento producendo un tipico suono, 5.000 inti).
Passiamo per l'agenzia Etecsa dove Jeanett compera i biglietti per Trujillo (30.000 inti). La partenza
è per mercoledì 13 alle 21. Confermata la partenza inizio una affannosa ricerca per trovare qualche
cartolina da spedire a casa e agli amici. Quatto cartoline mi costano 2.000 inti e 2.400 inti li spendo
per i francobolli. Proseguiamo verso l'ufficio di Foptur per avere qualche consiglio su cosa visitare.
Per strada compro un sacchettino di pop-corn (100 inti) e un vasetto di “manjar blanco” tipico dolce
del posto, fatto con latte condensata, zucchero e albumi d'uovo; squisito! (3.000 inti).
Siamo a Cajamarca: non può mancare una visita al “Cuarto del rescate”, la stanza dove quel
coglione di Pizarro imprigionò Atahualpa. La visita è deludente. La stanza è stata oggetto di un
restauro demenziale: il pavimento è una gettata di cemento, mentre il tetto è sostenuto da
un'architrave in tondini di ferro su cui poggiano travi di legno squadrate, a sostegno di un
rivestimento di perline, stile tavernetta svizzera. Su una parete un cartello bianco, imbullonato a un
grossolano profilato metallico, indica fin dove l'inca prigioniero avrebbe riempito d'oro, in cambio
della libertà. Il biglietto costa 1.500 inti per i peruviani e 5.000 per gli stranieri. L'importo del
biglietto viene corretto a mano.
Molto più interessante l'interno della chiesa di Belén: l'altare maggiore è tutto bianco e oro,
bianche sono anche le pareti decorate con file di rombi. Molto particolare la decorazione all'interno
della cupola.
Si sta facendo buio, il tempo di scattare un paio di foto alla piazza e poi a cena all'Arlequin (11.200
inti), cena offerta da Jeanett per 10.200 inti.
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Martedì 12 settembre
Mi sveglio mattiniero, alle 5.15. L'intenzione è quella di riuscire a fare delle fotografie all'alba dal
cerro Bellavista. Ho, infatti, ancora ben in mente il bellissimo paesaggio visto dall'autobus
all'arrivo. Cammino per circa quattro chilometri lungo la strada in salita che porta a Cumbe Mayo,
nel buio più assoluto. Fa freddo e l'unico rumore è l'abbaiare di qualche cane.
Sorge il sole ed è fantastico. Alberi e case sembrano materializzarsi sopra un'impalpabile
nebbiolina dorata. Lontano le montagne sfumano in sagome dai colori pastello fin quasi a
confondersi col cielo.
Sotto di me i primi raggi del sole
illuminano obliquamente Cajamarca: case
e chiese sembrano davvero spruzzate
d'oro. Il sole si alza e dopo un'ora decido
di scendere. Levataccia e camminata sono
valse la pena.
Verso le otto arrivo in Plaza de Armas e
trovo Jeanett seduta su di una panchina ad
aspettarmi. Facciamo un giro per il
mercato e comperiamo un po' di frutta: sei
banane (1.000 inti) e cinque arance (1.000
inti).
Incontriamo alcuni amici di Jeanett: sono
Alba a Cajamarca
proprietari di una ditta dove si producono
formaggi e “manjar blanco”. La ditta si trova lì vicino, ci invitano a visitarla. Rimango piuttosto
perplesso: la zona dove si svolge il lavoro è un cortile circondato da una tettoia di lamiera. Sotto la
tettoia, appoggiati per terra, ci sono degli enormi pentoloni di rame dentro i quali viene lavorato il
latte. In quel momento l'attività è ferma, peccato; igiene a parte, mi sarebbe piaciuto assistere al
processo di trasformazione e magari provare anche qualche assaggino: Cajamarca è rinomata anche
per i suoi formaggi.
Salutati gli amici decidiamo di visitare Otuzco. Il posto si trova a circa sette chilometri da
Cajamarca, per arrivarci saliamo su un camion (1.000 inti per i due passaggi). La strada, fino
all'aeroporto, è asfaltata e in buone condizioni, poi diventa sterrata e si continua a velocità molto
“Ventanillas de Otuzco”
“Ventanillas de Otuzco”
ridotta. Ho modo di osservare la verde campagna di Cajamarca. Il camion ci lascia proprio davanti
alla zona archeologica, sotto un cartello con scritto: VENTANILLAS DE OTUZCO, CUOTA 2.850
s.n.d.m. KM 7.5. L'ingresso costa 500 inti.
Su una grande parete rocciosa sono state scavate file e file di finestrelle quadrate, poste su più
piani. Dentro queste nicchie venivano deposte le ossa dei morti e poi sigillate con una lastra di
pietra. Cielo blu intenso e bel panorama illuminato dal sole.
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Eucalipti, tante piante di agave e fichi d'india. Indubbiamente è un luogo molto particolare e
suggestivo, peccato per quegli orribili paletti di ferro piantati giusto davanti alla parete: non servono
a niente e rovinano le foto. Un ragazzino che vuol venderci dei fossili di conchiglia, di cui la collina
vicina, pare, ne sia piena, c'informa sulla presenza di un antico tunnel nelle vicinanze. Seguendo le
sue indicazioni ci avviamo alla sua ricerca. Aggiriamo la parete delle “ventanillas” sulla destra,
risalendo lungo un pendio fino a raggiungere un canaletto artificiale. Un ponticello di pietra ci
permette di superare il corso d'acqua e una siepe di fichi d'india.
Proseguiamo dritti, passando davanti a una casa ombreggiata
da un altissimo eucalipto fino a incrociare una stradina sterrata.
Giriamo a sinistra e giunti all'altezza di una casa col tetto in
lamiera seguiamo, girando a destra, uno stretto sentiero che ci
porta ad un ampio avvallamento. Mi fermo a fotografare una
ragazzina con un maialotto al guinzaglio; mi chiede 100 inti di
mancia. Un bambino vorrebbe soldi per comperarsi una penna,
gli allungo 500 inti e lo faccio contento.
Una serie di scritte dipinte su un muro grigio danno il
benvenuto ai visitatori del tunnel e informano che, nella vicina
casa, si vendono bibite varie. Passata la casa seguiamo il corso
di un canale; dove questo si innesta ortogonalmente in un altro
corso d'acqua giriamo a sinistra e troviamo il tunnel. Questo non
è certo opera di alta ingegneria: sembra piuttosto la tana scavata
da un grosso animale. In effetti è solo un buco scavato alla base
di un dosso. Entro procedendo a carponi, dentro è buio pesto e io
sono senza pila, così torno indietro. Dalle “ventanillas” al tunnel
abbiamo impiegato circa quindici minuti.
Eucalipti a Otuzco
Sulla via del ritorno Jeanett viene colta da un'irresistibile sete.
Ci fermiamo alla casa dove le scritte sul muro grigio promettevano ristoro. Jeanett chiede una
Fanta: niente Fanta c'informa una ragazza, solo Inca Kola. Jeanett insiste: forse è il caso di guardare
meglio. La ragazza nicchia; dalla sua espressione ci capisce che non ha molta voglia di cercare.
Jeanett torna a insistere e finalmente una Fanta salta fuori: bottiglia a temperatura ambiente e, dalla
polvere depositata sul vetro, si può intuire che è indubbiamente d'annata.
Non ci sono tavoli né sedie; ovvio, non siamo in un bar. Si beve in piedi nel cortile. La ragazza che
ci ha servito si lamenta: ha appena ricevuto un pugno in bocca dal fratello perché non aveva portato
dei soldi. Un dente dondola e le esce un po di sangue. Seduta sotto un portico si lamenta e intanto
fila.
La Fanta costa 1.500 inti; tiro fuori una
banconota da 5.000 e la ragazza entra in crisi:
non ha il resto. Dopo un po' di discussione
decidiamo di andare fino a Otuzco per farci
cambiare i soldi, ci stiamo già avviando quando
spunta fuori la cognata: miracolosamente ha
trovato il resto.
Torniamo alle “ventanillas”. Dall'alto della
parete di roccia si gode una bella vista della
vallata sottostante. Sul fondo scorre un fiume e,
tutto attorno, campi verdi e boschetti di
eucalipti. Chiudono l'orizzonte, in netto
"El Solterito"
contrasto, le cime brulle e arrotondate delle
montagne. Raggiungiamo Otuzco e rimaniamo in attesa di un mezzo per Cajamarca. È l'ora della
ricreazione e la strada è invasa da bambini che bevono il loro bicchiere di latte, offerto loro in
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occasione della campagna governativa “un vaso de leche”.
Alle 11.35 arriva traballando “El Solterito” uno scassatissimo autobus verde scuro e crema. Si può
dire, senza tema di sbagliare, che si tratta di un autobus vissuto o, forse, sarebbe meglio dire
sopravvissuto a qualche cataclisma. È ammaccato in più punti, parecchio arrugginito e oscilla
pericolosamente come se fosse fatto di materiale molle. Dentro è
messo molto peggio di come sembrava da fuori: il pavimento è
rappezzato con lastre di metallo sconnesse, i sedili consistono in
due panconi sistemati di lato, manca totalmente il cruscotto e dal
volante esce un groviglio di fili simile ad un selvaggio intreccio di
liane. L'autobus pare sia stato contrattato dai familiari di una
defunta, i quali, dopo la veglia e la sepoltura restituiscono gli
arredi all'agenzia funeraria. Vengono così caricati crocefissi,
baldacchini, ceri e drappi funebri. Durante il tragitto salgono
contadini coi loro prodotti e, in breve, agli arredi funebri fanno
compagnia a taniche di latte, sacchi di erbe odorose, patate e
ortaggi vari. Una ragazzina, salita di fresco, dopo un po' si mette a
strillare con tono supplichevole: - ¡Mi Oso!¡Mi Oso! ¡Señor pare!
¡Mi Oso! L'autista ferma, apre la portiera e sale Oso (Orso), cagnone dal
folto pelo nero e arruffato che scodinzola felice di poter viaggiare
Cimitero di Huambocancha
assieme alla padroncina.
Il passaggio in autobus costa 1.000 inti.
In centro a Cajamarca, da una venditrice vicino all'hotel, compero un paio di cassette di musica
locale (15.000 inti). Dopo aver pranzato (6.000 inti) tentiamo di raggiungere Huambocancha a
piedi. Secondo Foptur lì si possono trovare bei tessuti. Si cammina su strada sterrata, in mezzo al
verde, spesso in compagnia dell'aroma e dell'ombra degli eucalipti.
Dopo cinque chilometri, passata Huambocancha Baja, Jeanett non ce la fa più. Saliamo sul
cassone di una camionetta arancione e in pochi minuti arriviamo a destinazione (800 inti).
Purtroppo a Huambocancha Alta non si fabbricano più tessuti: il filato è troppo caro e non conviene.
In compenso scopro, lungo il ciglio della strada, un curioso cimitero. Le lapidi hanno la forma
della facciata di una chiesa, coi due campanili laterali, sono coloratissime e con disegni assai
singolari di angeli e raffigurazioni sacre. Spuntano dall'erba in apparente disordine, miste a croci di
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legno sbilenche, somigliano a sorprendenti fiori.
Per il ritorno prendiamo un camion, lo stesso incontrato all'andata carico di scolari. Il camion si
ferma quasi subito perché e rimasto senza carburante. Siamo fortunati: l'autista di una camionetta
presta una tanica di gasolio, così, senza altri problemi, raggiungiamo Cajamarca.
In centro cerchiamo refrigerio mangiando una gelatina di frutta. Pessima idea: la gelatina è
stravecchia e fa letteralmente schifo. Cambiamo locale, Jeanett si concede un gelato e io tre biscotti
con “manjar blanco” (2.500 inti).
Continuo con gli acquisti di musicassette: tre per 35.000 inti e un'altra di coplas al “rojo vivo”
(traduco: sull'erotico) per 14.000 inti. 2.000 inti li spendo per del formaggio e 1.000 per quattro
pani. Si va a cena (6.500 inti) e si conclude la giornata.
Mercoledì 13 settembre
Sveglia alle 9.20. Ci siamo appena vestiti quando qualcuno bussa alla porta. È uno zio di Jeanett.
Ci aspetta in strada con la sua camionetta arancione e ci porta a fare colazione al ristorante “El
Zarco”. A quest'ora c'è parecchia gente, il cameriere tarda ad arrivare. Lo zio batte un paio di volte
le mani con grande energia. I colpi risuonano come spari e un “mozo” si materializza all'istante.
Arrivano tè e sandwich di pollo per tutti. Offre lo zio. Purtroppo per impegni suoi, dovuti a
problemi col motore di un trattore, non si può trattenere molto con noi e nemmeno portarci a vedere
i suoi famosi “caballos de paso” e i galli da combattimento.
Lasciamo la stanza d'albergo e portiamo i bagagli a casa sua. Andremo a riprenderli alle 20 e ci
Tipica musica di Cajamarca
accompagnerà all'agenzia Etecsa. Ringraziamo,
salutiamo e andiamo in giro per la città. Al mercato
compro sei banane (1.000 inti) e un po' di fragole
(1.500 inti). Adocchio una bella bisaccia, il prezzo è di
50.000 inti. Inizio una lunga contrattazione e, alla fine,
Artigianato di Cajamarca
me la lasciano per 35.000. Una borsa tessuta mi costa
12.000 inti.
Nei negozi di artigianato vicino al mercato si vendono oggetti in terracotta e sculture in pietra. Per
60.000 inti compero tre sculture molto belle: rappresentano un contadino con una bisaccia in spalla,
una grassa signora che sta filando la lana e un giovane cervo con le lunghe orecchie.
«Belle, ma mi sembrano un po' care. » faccio notare alla negoziante.
« Certo! » mi risponde. « Lei sta scegliendo le migliori! »
Do per buona la scusa e la signora mi avvolge ben bene gli acquisti con carta di giornale.
Altro negozio e altri acquisti. Per 8.000 inti prendo due piccole sculture dallo stile molto essenziale
e moderno. Son alte dieci centimetri; una in pietra grigioverde raffigura una mamma col bambino
dietro la schiena e una scodella in mano, l'altra, in pietra marroncina, rappresenta una donna col
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vestito lungo e le mani in tasca. Sto ammirando un coccodrillo scolpito in pietra bianca ma sono
molto indeciso sull'acquisto; lo passo alla commessa perché lo riponga, ma ci scivola dalle mani e si
frantuma sul bancone: 5.000 inti per i cocci, bene involti, affinché non si rovinino!
All'uscita del negozio è seduta un vecchietta: vende salvadanai di terracotta dalla forma di
simpatici maialini. Per 1.000 inti ne prendo uno.
Si pranza da “El Zardo” con un'ottima “tortilla de platano”, “arroz”, “wantan frito, due succhi
d'arancia e pisco sour (15.600 inti).
Il tempo è cambiato, ce ne rendiamo conto all'uscita dal ristorante: piove e forti raffiche di vento
sollevano mulinelli di polvere. In città manca l'elettricità: non c'è petrolio per la centrale elettrica.
Proviamo a visitare il museo municipale, ma dentro le sale semibuie c'è ben poco da vedere.
L'ingresso al museo è a offerta libera (1.000 inti).
Decidiamo di recarci a Baños del Inca. La località si trova a circa sei chilometri dal centro. È il
luogo dove Atahualpa si stava riposando dalle fatiche della guerra quando arrivò Pizarro. Ci si
arriva percorrendo una strada dritta e asfaltata con una gran distesa di baraccopoli da un lato e la
città universitaria dall'altro. Poi è la volta di grandi distese di prati verdi e alti eucalipti. Molte
mucche al pascolo. Breve giro per la cittadina che, a mio parere, non offre molto se non ci si va
apposta per le terme. In un cantuccio c'è una sorgente d'acqua termale. Il getto esce sibilando dalla
bocca di un leone di pietra, a circa 70 gradi, avvolto in vapori. Accanto, un cartello vieta l'uso
dell'acqua per lavare la macchina. Passiamo davanti all'entrata della “Laguna Seca” vecchia casa
nobiliare, ora trasformata in hotel. Torniamo a Cajamarca schiacciati in un pulmino superaffollato
(800 inti per l'andata e 800 per il ritorno).
Altro giro per mercato e negozi in cerca di artigianato: 55.000 inti per tre statuette di pietra, 17.000
per una bisaccia e 3.500 per una confezione di “manjar blanco” da regalare a Norma.
Ceniamo (9.800 inti) e alle 20 siamo a casa dello zio di Jeanett, il quale, in camionetta, ci porta
fino all'agenzia. Cajamarca è ancora al buio. Alle 20.30 arriviamo all'agenzia: ci sorprende vederla
quasi deserta. Alla romantica luce di una solitaria candela, preoccupato, chiedo notizie
all'impiegato. L'autobus, spiega, non c'è perché ha problemi meccanici e non si sa se e quando potrà
arrivare. È in attesa di una telefonata del meccanico. Lui non può usare il telefono per chiedere
informazioni in quanto l'apparecchio è bloccato col lucchetto e la chiave è in possesso del suo
collega il quale è uscito per cenare. Bisogna aspettare e sperare. Jeanett, intanto, non si sente molto
bene.
Due ragazze sono andate a informarsi se, presso la compagnia Diaz, ci sono posti liberi. Tornano
con aria sconsolata: bisogna rassegnarsi e aspettare. In quel mentre passa strombazzando l'autobus
di Tepsa seguito, poco più tardi, da quello di Diaz.
Alle 21.15 il miracolo: arriva l'autobus in perfetta forma. Partiamo alle 22.00. A bordo c'è poca
gente, ma appena usciamo dall'agenzia l'autobus si ferma per far salire altri passeggeri. Le soste si
ripetono finché il mezzo è ben stipato.
Giovedì 14 settembre
Alle1.58 sosta a Iatagual per la cena. Si riprende il viaggio sotto una splendida luna piena e alle
6.16 arriviamo a Trujillo. Jeanett se ne torna a casa in taxi, mentre io m'incammino verso la casa di
Norma col proposito di fermarmi fino a sera, quando ho intenzione di viaggiare a Lima. A casa di
Norma, purtroppo, non c'è acqua e io vorrei tanto potermi lavare. Così, dopo averle consegnato il
“manjar blanco” come regalo da Cajamarca, vado all'hotel San Martin e affitto una stanza (17.000
inti) e mi faccio una fantastica doccia bollente.
Colazione al Buenos Aires: toast con tacchino e tè (4.600 inti). Qui, verso le nove, mi raggiunge
Jeanett e, assieme andiamo al “Seguro Social” per dei documenti. In una bancarella assaggiamo due
fichi ripieni di “manjar blanco”, dolcissimi (1.000 inti). Alla libreria Bazar Ideal (Orbegoso 548)
compro due mappe di Trujillo, una è per mio fratello che ne fa collezione (7.000 inti). All'agenzia
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Chinchay-Suyo il biglietto per Lima costa 18.000 inti.
Jeanett mi accompagna alla sede del Lyons Club per avere informazioni sul Festival di Primavera.
Il festival è forse la manifestazione più importante e certamente la più sentita e amata dai trujillani.
Dura molti giorni con manifestazioni di vario genere, come esibizioni di “caballos de paso”, sfilate
di moda, feste organizzate da varie società. Si eleggono numerose reginette di bellezza, nonché la
Regina della Primavera. I festeggiamenti si concludono con una grande e pomposa sfilata di carri
allegorici. I carri, alternati ad acrobatiche twirling-girls venute appositamente dagli Stati Uniti,
percorrono l'intero anello dell'avenida España (in pratica l'ovale delimitato dalle antiche mura, di
cui ormai rimane ben poco, erette nel XVII secolo a difesa degli attacchi dei pirati).
Purtroppo il programma non è ancora pronto e la data ancora incerta.
Al mercato per mezzo chilo di fragole (1.750
inti).
Finalmente riesco a trovare la cassetta de “Las
Chicas del Can” con la canzone “Juana la
cubana”, assieme compero anche “20 grandes
exitos de la nueva ola peruana”. Sono canzoni
degli anni '60; tra queste ci sono le versioni
peruviane di “Datemi un martello”, “Guarda
come dondolo”, “Sapore di sale”, “Città vuota”
e “Si è spento il sole”. In tutto sono 55.000
inti.
Dal venditore di figurine acquisto l'album
“Nuestra Vida”, una serie di figurine a scopo
Merengue con "Las Chicas del Can" e anni '60 con la
educativo sull'anatomia, sessualità, malattie
"Nueva Ola"
più frequenti, prevenzione e pronto soccorso.
Per puro scrupolo controllo: manca la N° 14: nessun problema, il venditore apre bustine su bustine
finché la trova. La collezione costa 20.000 inti.
Album didattico “Nuestra Vida”
In un'edicola prendo “El Popular” (600 inti)
Verso le 15 entro nel negozio di abbigliamento “Multi Moda” (Gamarra 657) per parlare con
Humberto Flores Cornejo, il direttore. Humberto, persona molto simpatica e cordiale, è fratello di
Sara, una ex compagna di scuola di Jeanett. Con lui parlo della mia recente esperienza al Gran
Pajaten. Mi mostra una mappa disegnata a mano, dove Pataz e Gran Pajaten sono unite da una linea
retta. Mi aspettavo molto di più. Poi mi fa leggere un dattiloscritto in cui si riconosce l'importanza
turistica della zona e se ne suggerisce lo sfruttamento.
Mentre Jeanett torna a casa io mi dirigo all'hotel per preparare lo zaino. Ceno al ristorante
dell'hotel: uova alla russa, succo d'arancia e gelatina di frutta (8.120 inti).
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Alle 20.15 arriva Jeanett e prendiamo un taxi per l'agenzia Chinchay Suyo (2.500 inti). A prima
vista il “Leon de oro” da poco affidamento: è un mezzo dall'aria antiquata e cadente. In più aleggia
nell'aria la preoccupazione di possibili assalti durante il tragitto. A detta di Jeanett il mezzo è sicuro.
Speriamo bene.
Saluto la mia amica, la quale mi da una lettera da consegnare a suo fratello Pepe a Lima, e salgo in
autobus.
A ingannare la lunga attesa, prima della partenza, ci pensa un simpatico giovanotto il quale, col
proposito di vendere caramelle fatte in casa, intrattiene gli inquieti viaggiatori con barzellette e
aneddoti divertenti, facendo sfoggio di una notevole oratoria. Ironizza sul fatto che qualche
passeggero lo abbia scambiato per un bandito in avanscoperta, illustra i vantaggi della dialettica per
far colpo sulle ragazze (bisogna avere coraggio e buttarsi, “aunque tengas cara de Atahualpa”, cioè
anche se si è brutti), da consigli su come fare bella figura quando si è invitati a una festa dei
quindici anni.
Il Perù sta attraversando un gran brutto momento. Tra terroristi, scioperi e assalti anche viaggiare
in autobus di questi tempi presenta i suoi rischi: sui giornali i titoli in prima pagina contribuiscono
ad aumentare la preoccupazione. Ecco
alcuni esempi: su ULTIMA HORA:
RONDERAZOS SACAN MUGRE A
TERRUCOS, traducibile come “le ronde
fanno un culo così ai terroristi”. Su
EXPRESO: HOY INICIAN HUELAGAS
DE 250 MIL TRABAJADORES. Su EL
NACIONAL: ABATEN 10 TERRUCOS
EN CAÑETE. Su EL POPULAR: DEJAN
CALATITOS A 80 PASAJEROS.
Per chi viaggia questa è una notizia
preoccupante: bande di malfattori fermano
gli autobus e lasciano gli sventurati
Alcune prime pagine di quotidiani dell'epoca
passeggeri nudi come vermi.
Alle 22.20, finalmente, si parte.
Venerdì 15 settembre
Ore 0.26 arriviamo a Chimbote. Ore 2.30 sosta a Huarmey. Ore 6.04 sosta per controllo e
pagamento pedaggio. Ore 6.16 arrivo a Chancay. Ore 6.42 arrivo ad Ancon e sosta per controllo
bagagli da parte della “Guardia Civil”. Alle 7.53 si arriva a Lima. Tempo uggioso, cielo grigio e
tanta umidità. Il sole di Cajamarca è ormai un ricordo.
15.000 inti per il taxi fino alla casa di Roberto. Sorpresa: nella “mia” stanza sono stati spostati i
mobili, mancano 200 dollari e tutti gli inti. Ci rimango male. Alfredo m'illumina su quanto successo
durante al mia assenza: un giorno scoprirono Robertito Manuel (il figlio di Ada) nella mia stanza,
intento a giocare con pacchi di banconote, lire, dollari e inti. Vedendo una banconota da 100.000
lire, supposero che fossero soldi miei. Riposero la maggior parte del denaro ma lui, Alberto, prese in
prestito 200 dollari per risolvere un urgente problema economico in Uruguay. « E gli inti? » chiedo.
Perdo un bel po' di tempo a fare i conti, alla fine risultano mancati 759.356 inti. Alfredo si stupisce:
tanti così? Giura che restituirà tutto.
Esco e prendo un bus per il centro (450 inti). Prima tappa al Banco de Credito, per parlare con
l'amico Augusto Frisancho Perea. La sede del Banco de Credito si trova in Carabaya, a poca
distanza dalla Plaza de Armas.
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Al N°560 della Carabaya c'è il negozio di filatelia “El Sol” di Juan G. Bustamante. Bustamante è il
più autorevole filatelico del Perù, editore anche di un catalogo delle emissioni peruviane. Compero
alcune serie di francobolli, tra le quali quella emessa nel 1931 per la prima esposizione filatelica di
Lima con dei valori dalla forma triangolare.
Totale 95.000 inti. Esco contento ed entro nel
severo edificio del Banco de Credito.
Purtroppo mi comunicano che il signor
Frisancho è stato trasferito alla sede di La
Molina. Grazie all'interessamento di due
impiegati riesco a mettermi in contatto
telefonico e salutarlo.
Nel Jirón de la Unión è ancora attivo il
panificio del signor Elio Tubino (Unión 800 angolo con Boza). Qui si possono comperare
delle ottime baguette, specialmente se si
attende che escano belle calde dal forno.
Compero una baguette e del formaggio (7.000
inti). Pranzo seduto su una panchina dei
giardini giapponesi (450 inti per l'ingresso).
Nel pomeriggio passo da Foptur per ottenete
Serie emessa in occasione della prima esposizione
notizie
sulla mia prossima meta: Iquitos, la
filatelica di Lima
perla dell'Amazzonia. In Ocoñita cambio 500
dollari. Mi rendo conto che ogni giorno che passa l'inflazione avanza e il dollaro cresce. Adesso il
cambio è a 4.700, così intasco 2.350.000 inti. Vado subito nell'ufficio di Aeroperu dove acquisto il
biglietto per Iquitos (702.200 inti), partenza lunedì 18.
Huamanqaqa è un negozio molto elegante, ha sede in Belén 1041 (Jiron de la Unión) e vi si
trovano oggetti molto belli; ovviamente anche i prezzi sono in proporzione. Compero due “retablos”
(altari da viaggio), uno raffigura Adamo ed Eva nel paradiso terreste, mentre l'altro riproduce un
negozio di maschere (160.000 inti).
Spesso, ferme a un angolo della strada, ci sono bancarelle che vendono spremute di arancia. Sono
dei cassoni di legno montati su ruote ed esibiscono una piramide di arance verdi e arancione. I frutti
vengono tagliati a metà e spremuti mediante un apposito marchingegno. I bicchieri, di solito un
paio, vengono sommariamente sciacquati in un secchio d'acqua che, si suppone, debba servire per
tutto l'arco della giornata. Un bicchierone di succo costa 1.000 inti e, nonostante l'igiene possa
destare qualche preoccupazione, è davvero ottimo e dissetante.
Il Jiron de la Unión, è sempre intasato da passanti e da ambulanti. Accendo il registratore e
passeggio lentamente lungo la via. Quando mi avvicino a qualche ambulante questi alza la voce,
nella speranza che compri qualcosa. Mi si avvicina un giovane: mi classifica subito come italiano
(sarà l'abbigliamento?) e attacca discorso. Mi chiede di che parte d'Italia sono. « Del nord »
rispondo. Si dichiara ammirato perché in Italia c'è molto calcio. Poi mi dice che due suoi amici sono
andati a Cusco, dove suo fratello ha un “hostal”. Mi chiede se già conosco Cusco e da quanto tempo
mi trovo in Perù. Rispondo che conosco Cusco, che sono in Perù da un mese e che domani me ne
torno in Italia; mento perché so già dove vuole parare. Infatti arriva la proposta: non mi
interesserebbe un po' di “marijuanita” o di “coquita”? Magari solo un grammo da portarmi in
Italia... Saluto, mi sgancio e continuo a registrare voci e rumori.
Un venditore sta armeggiando con lunghi pezzi di corteccia. Vi pratica delle incisioni e raccoglie il
liquido rosso sangue che cola in boccette di vetro. Mi avvicino incuriosito. L'uomo sta decantando
le proprietà curative del “sangre de grado” (o, secondo alcuni, sangre de drago). Si tratta di un
albero della selva, dalla cui corteccia si estrae una linfa dotata di straordinarie proprietà curative.
Per le infezioni interne quanto esterne, gastriti, problemi di fegato, di bronchi e di reni, mal di
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testa, problemi circolatori, mal di denti, tonsilliti e laringiti il sangue di grado è rimedio naturale
infallibile. Poche gocce al giorno sono sufficienti. Mi incoraggia a provare, senza timore, mi
assicura. Il gusto è amaro, aspro, leggermente analgesico; la lingua mi pizzica un po' ma
sopravvivo. Attenzione alle contraffazioni, avverte il venditore: per riconoscerne l'autenticità basta
strofinarne un po' sulla pelle, se è vero “sangre de grado” si formerà una schiuma chiara. Una
boccetta costa dai tre ai seimila inti, dipende dalla quantità. Per 6.000 inti ne compro una boccetta e
mi faccio regalare un pezzetto di corteccia.
Alla sera ceno a casa di Roberto, in compagnia di Ada e Alfredo: zuppa, fagioli e frittata.
Solo più tardi mi rendo conto di aver dimenticato di consegnare a Pepe la lettera di Jeanett. Mi
riprometto di farlo domani.
Per gli spostamenti in autobus ho speso 1.800 inti.
Sabato 16 settembre
Sveglia alle 8.20 e colazione a casa di Roberto. Tempo particolarmente brutto, con cielo grigio e
nuvole basse. Prendo l'autobus n° 59 per Miraflores (450 inti). Scendo in centro, nei pressi
dell'Ovalo e cammino lungo l'avenida Mariscal Benavides. Le nuvole sono talmente basse da
inghiottire la cima degli edifici più alti. Arrivo fino al “Malecon Cisneros”, oltre c'è uno strapiombo
di un centinaio di metri e l'oceano. Scatto
qualche foto all'oceano, oggi insolitamente
tranquillo, ai palazzi che sfumano nella
nebbia, al ponte.
Nonostante il tempo non sia dei migliori,
venditori e artisti espongono merci e opere: i
primi teche piene di farfalle imbalsamate, tra
le quali spiccano le “Morpho Menelaus” di un
vivido blu elettrico, i secondi tele dai brillanti
colori con paesaggi andini, greggi di lama e
Machu Picchu in tutte le salse. C'è anche un
collezionista di monete, è molto interessato
"Malecon Cisneros"
alle cinquecento lire bimetalliche: per una mi
da quattro vecchie monete da un sol, quelle
grandi, di ottone, con la figura del lama. Ritorno in centro a Miraflores. Noto, esposte in un
bancarella, delle grosse ciambelle farcite di crema e cioccolata, dopo averle fotografate ne provo
una alla crema: ottima (2.400 inti). Lungo la Benavides, nel tratto che questa costeggia il parco
Kennedy, gli artisti sono soliti esporre i loro quadri. Ce ne sono di tutti i generi: astratti, figurativi,
in stile cubista peruviano. Tutti coloratissimi e di tutte le dimensioni. Sono attratto da una grande
tela: raffigura un personaggio, in primo piano, intento a fabbricare un cappello di paglia sullo
sfondo di una moltitudine con in testa lo stesso tipo di copricapo. Lo stile è molto realista, pochi
colori ma immagine molto suggestiva. Il prezzo è di 800.000 inti. Ci farò un pensierino.
Miraflores, per il fatto di essere un quartiere elegante e molto frequentato da turisti, ha negozi
all'altezza. Moda, dischi, artigianato, pasticcerie e ristoranti: si trova di tutto. Non mancano ben
fornite librerie: da Epoca (José Pardo 399) compero due piantine di Lima, un libretto sulle linee di
Nazca e quattro “documentales del Perú” per 70.000 inti.
Da Miraflores mi sposto in autobus (450 inti) lungo la Arequipa, fino alla casa di Pepe per
consegnarli la lettera di Jeanett. Un altro autobus (altri 450 inti) mi porta fino alla Tacna. Cammino
lungo la Colmena e raggiungo la Camaná: qui, all'angolo, si ritrovano i collezionisti di monete.
Sono molto richieste le cinquecento lire bimetalliche. Ne scambio quattro per una banconota da 100
e una da 200 soles. Quella verde da 100 soles raffigura Hipolito Unanue, mentre quella violetta da
200 raffigura Ramon Castilla. Visto che l'amico Fernando risulta desaparecido rimango d'accordo
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col numismatico per vederci domani: in cambio di altre bimetalliche mi procurerà i 500 soles.
Attraverso Plaza San Martin ed entro nella Unión, meta il panificio Tubino. A metà strada quattro
giovani sono impegnati a fare propaganda di una setta religiosa. Un ragazzo in jeans e maglione,
armato di megafono, invita la gente alla sede della “Divina Revelación Alfa y Omega”. Accanto a
lui tre adepti sostengono altrettanti tabelloni con scritte e disegni piuttosto singolari. Il manifesto
centrale, sostenuto ben in alto da una ragazza, mostra un Gesù in tunica bianca e mantello rosso, in
piedi sopra un mondo circondato da un'intera flotta di dischi volanti irti di antenne (o forse raggi).
Un altro, enorme, disco volante levita sopra la testa del Cristo, attorniato da un'aura luminosa come
fosse una sua emanazione. Sullo sfondo il cosmo nero squassato da terribili saette. In alto la scritta
“YO SOY EL ALFA Y OMEGA”. Sotto, la scritta “DIVINA REVELACION ALFA Y OMEGA”
attraversa il globo terracqueo.
Il secondo manifesto mostra un
coloratissimo sistema solare sormontato
da tre dischi volanti, la cui somiglianza
con tre pasticcini è davvero notevole e
sicuramente involontaria. Il manifesto
illustra i temi trattati: “Dios y el
universo expansivo pensante”, “la
escritura telepatica o ciencia celeste”,
“el Padre Solar Alfa y Omega” e, per
finire, “los Ovnis: su ciencia solar,
leyes y misión”. Seguono indirizzo
(Francisco Lazo 1939, Lince), giorni
(sabato e domenica) e orario (dalle 16
Seguaci della "Divina Revelación Alfa y Omega"
alle 20). Sotto è specificato: ingresso
libero. Il terzo manifesto, sotto l'intestazione REVELACION ALFA Y OMEGA, mostra nell'ordine:
un disco volante che emette raggi luminosi rossi e blu, il sole e un secondo disco, a pois, da cui
partono raggi rossi e blu diretti verso la terra. Sopra e sotto le immagini il foglio è riempito da un
fitto testo in minuscoli caratteri maiuscoli.
Altri due adepti circolano tra la gente distribuendo libretti e dattiloscritti. Tutti sfoggiano, sul petto,
una spilla rettangolare, una specie di bandiera divisa in tre bande orizzontali, color rosso, giallo e
azzurro con al centro un simbolo dorato.
Incuriosito mi avvicino e chiedo spiegazioni. Gentilissimo, il ragazzo col megafono mi invita ad
assistere alla riunione indetta per domani alle 16, per l'occasione verranno esposte le tavole lasciate
dal Maestro. Su un foglietto mi scrive indirizzo completo e telefono.
Da Tubino 1.700 inti per una baguette. L'intenzione è quella di andare al Parque las Leyendas e
mangiarla lì, assieme al formaggio avanzato ieri. Mi dirigo quindi verso Riva Agüero, dove fervono
i lavori per l'ampliamento della carreggiata. In attesa del bus (N° 11 bianco e azzurro) compero la
rivista Tele Guia (3.000 inti); mi serve per mettermi al corrente dei programmi televisivi in quanto
vorrei registrarne qualcuno. L'attesa si fa lunga, così entro in un “chifa” (ristorante cinese) per un tè
(800 inti).
L'autobus N° 11 percorre tutta l'avenida La Marina e passa giusto davanti al Parque las Leyendas.
Purtroppo il mezzo è strapieno e non riesco a vedere la mia fermata. Quando scendo (450 inti) mi
accorgo si trovarmi ben oltre l'entrata e sono costretto a tornare indietro. Dopo un bel po' di strada e
aver girato attorno ad una huaca (tempio), arrivo ad una entrata laterale del parco. La chiusura è alle
16.30 del pomeriggio, quindi è tardi per una visita. Decido di sedermi ai piedi di una palma e
pranzare.
Rifaccio il percorso a ritroso, raggiungo l'avenida La Marina e salgo sul primo bus N° 11 che
passa. Errore! Il bus va dalla parte opposta. Quando me ne rendo conto scendo (450 inti) e ritorno
all'avenida La Marina. Salgo su un pulmino per Plaza 2 de Mayo ma, appena mi accorgo che passa
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davanti all'entrata principale del parco, scendo subito (450 inti). Il motivo è che lungo l'entrata
principale si trovano numerosi negozi d'artigianato. Visitandoli con un po' di pazienza si possono
trovare oggetti molto particolari. Data l'ora gran parte dei negozi è chiusa. Mi riprometto di fare
un'ulteriore visita al mio ritorno da Iquitos.
Un pulmino mi porta fino a Plaza 2 de Mayo (450 inti), qui, in una fiaschetteria compero due
bottiglie di “pisco” (60.000 inti). Pian piano raggiungo Plaza San Martin, compero due banane (400
inti) e, sempre camminando mi dirigo verso la 28 de Julio dove salgo sul 58 che mi porta a casa
(450 inti).
Mi accoglie Roberto, il quale mi parla dei suoi problemi economici: gli servono 350 dollari da
consegnare a suo cognato, pilota della Faucett, perché a Miami comperi delle lame nuove per le
seghe, assai care in Perù. Me li renderà quanto prima. Per un amico questo e altro: gli consegno 400
dollari; lui promette di darmi immediatamente i 50 di resto, ma se ne dimentica subito.
Cena e a letto.
Domenica 17 settembre
Esco nel consueto grigiore di Lima. 450 inti per l'autobus fino alla 28 de Julio. Camminando
raggiungo il centro dove, alle 10.30 ho l'appuntamento col numismatico. In attesa passeggio per la
Unión e assaporo un delizioso “churro” (1.000 inti).
Il numismatico arriva e ha con sé la
tanto agognata banconota. Bella
banconotona color marroncino, con
l'effigie della Libertà assisa al centro
di un medaglione rotondo e, sotto, la
scritta QUINIENTOS SOLES DE
ORO. Bisogna dire che, all'epoca in
cui vivevo in Perù, 500 soles erano
una bella cifra, corrispondevano a
45.000 lire e rappresentavano la mia
paga mensile quando lavoravo a
Molitalia. Ora, quella banconota, mi costa otto monete da 500 lire. Son proprio contento dell'affare.
Scambio altre 2.620 lire per una manciata di monete varie, più alcune banconote da 5 e 50 soles “de
yapa”, cioè in regalo.
In Carabaya trovo un centro ENTEL (telefono pubblico); volevo mettermi in contatto con gli amici
Victor Medina e Scott, ma non ci sono guide telefoniche. Una questione di sicurezza, mi spiegano,
così i terroristi non possono sapere dove vivono possibili bersagli.
Compero dieci gettoni telefonici da una venditrice ambulante (1.000 inti), possono sempre servire,
altrimenti li terrò come ricordo.
Di domenica Lima è una città stranamente deserta. In centro c'è pochissimo traffico e poca gente
per strada. È il momento migliore per fotografare gli edifici; peccato che il tempo orribile renda
ancora più tetri certi colori. C'è poca gente persino nel Jiron de la Unión, dove, di solito, si fatica a
passare. I negozi sono chiusi e ci son persino pochi ambulanti a intralciare i passanti. Arrivo fino al
bel edificio delle poste centrali dove, in un androne laterale, i collezionisti di francobolli fanno i
loro scambi. Ridiscendo per la Unión col registratore acceso. Mi fermo presso un venditore di
zampoñas (flauti). Per una grande chiede 22.000 inti. Prezzo all'ingrosso; nei negozi, l'avrei pagata
80.000, mi assicura, visto che è lui che le distribuisce. Contratto per un po' finché me la cede per
20.000.
Più avanti scopro una novità: un ambulante ha fatto le cose in grande: ha organizzato il gioco del
“cuy”, il porcellino d'india. Ha disposto una ventina di scatoloni formando un cerchio di circa due
metri di diametro. Sopra ogni scatolone, su cui ha intagliato due porticine ad arco numerate in modo
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casuale, ha posto un prodotto: tre rotoli di carta igienica, un pacco di pasta, una bottiglia d'olio, un
pacchetto di sigarette, una sacchetto di detersivo ecc. Protagonista principale è un porcellino d'india
(dev'essere femmina perché l'imbonitore la chiama Charito). Il pubblico viene invitato a scegliere
una porticina a cui è abbinato un numero. Al termine delle puntate il porcellino viene coperto con
uno scatolone e fatto girare vorticosamente per alcuni secondi. Il povero animale, un volta sollevato
lo scatolone, disorientato e spaventato dalle urla degli scommettitori, cerca rifugio infilandosi in
una porticina facendo così vincere colui il quale ha puntato il numero corrispondente. Cinque
numeri costano mille inti. Uno vince, gli altri perdono. Torno a casa (450 inti per l'autobus) in
tempo per pranzare con un ottimo “aji de gallina” preparato da
Ada. In TV stanno trasmettendo la partita Uruguay-Bolivia che,
con grande gioia di Alfredo finisce 2 a 0.
Torno a uscire alle 15.30. A piedi mi dirigo a Lince, alla sede
della Divina Revelación. Per la cronaca sono 21 isolati lungo la
Javier Prado fino a Orrantia. Da qui si scende lungo l'Arequipa
(isolato 27) e si procede fino all'isolato 15, poi si gira nuovamente
a destra e si arriva all'Emilio Althaus. Al N°627, al primo piano,
c'è la sede. Nella sala, assai modesta e spoglia, c'è parecchia
gente, un po' di tutte le età ma con prevalenza di giovani. Lungo
tre pareti sono disposti una ventina di cavalletti, ognuno dei quali
regge una “tavola”. Davanti ad ogni tavola, seduto su una sedia,
c'è un fratello intento alla lettura. Dietro, in piedi, altri fratelli si
sforzano di decifrare i minuscoli caratteri. La storia di quei
documenti è la seguente: il Maestro era passato per Lince e,
conoscitore della verità assoluta, aveva lasciato quattromila tavole
contenenti circa diecimila leggi, di cui solo alcune, per ora,
stampate e raccolte in volume. Le tavole sono dei fogli di
La lotteria del "cuy"
cartoncino (bristol?) di dimensioni circa 70 x 100 con disegni
naif-psichedelici dai tenui colori pastello. I soggetti raffigurati sono Cristi, dischi volanti,
extraterrestri con look che spaziano dagli anni '50 fino a copiare sfacciatamente quelli di “Incontri
Ravvicinati”. Poi ci sono amebe variopinte, spirali cangianti e altri effetti speciali. Sotto ai disegni
c'è un fitto testo in caratteri a stampatello molto minuscolo. Tutto è scritto a mano (con biro?) su
righe tracciate a matita per andar dritto.
Vorrei scattare delle foto ma c'è poca luce e, oltretutto, dopo un po' le tavole vengono ritirate.
Mentre in sala cominciano i festeggiamenti io sbircio alcuni libri, senza decidermi di comperarne
qualcuno. Intanto un bambino suona il flauto e canta. Quando finisce la gente applaude, io me ne
vado.
Fuori scatto alcune foto agli edifici. Si tratta di case costruite durante gli anni '20 in stile liberty.
Sono abbastanza ben conservate, anche se sono molto opinabili gli accostamenti di colori con cui
sono state dipinte. Affissi su molte pareti i manifesti della Divina Revelación annunciano a caratteri
cubitali che: HAY UN SOLO DIOS Y UNA SOLA VERDAD. LOS PLANOS ORIGINALES SE
ENCUENTRAN EN LINCE. Segue il consiglio di ascoltare radio Victoria alle 10 P.M.
Raggiungo la Arequipa e salgo su un autobus diretto al centro (450 inti). Dopo essermi deliziato
con un “churro” (1.000 inti) entro nella “Libreria Iternacional del Perú S.A. (jiron Puno 460). È una
piccola libreria dove si ha la possibilità di trovare pubblicazioni assai interessanti.
Per 10.000 inti compero il libro “Medicina Indigena y Popular”. Altri 2.000 mi costa l'opuscolo
“Aprenda quechua en 10 dias”, cosa questa, a mio parere, assolutamente impossibile; provare per
credere:
Munaychan ususiyki – tua figlia è molto bella
Sonqo suwa – ladro di cuori
Iman sutiyki – come ti chiami?
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Jaiq'a watayoq kanki – quanti anni hai?
Hampiyki uma nanaypaq kanchu – hai medicine per il mal di testa?
Yarquashiawan – ho fame
Soq'oita q'owai – dammi da bere
Karuchu kai llaqtaq – quanto dista il vicino paese?
Yanaparuwankimanchu – puoi aiutarmi?
Maypin tiyan tayta kura – dove vive il prete? (utile nel caso vi trovaste tra le Ande in
difficoltà col vostro quechua imparato in dieci giorni).
Ultima tappa: in una edicola compero “El Comercio” (2.000 inti), “Telecolor” (3.000 inti) e altri
giornali per 2.500 inti.
Torno a casa prima delle 19 (450 inti per l'autobus).
Lunedì 18 settembre
Sveglia alle 8.15 e autobus per il centro (450 inti). Solito squisito “churro” (1.000 inti) e colazione
al Jerry's Bar: tè e torta di mele (8.850 inti). Passata Plaza San Martin, seguendo per la Colmena si
arriva all'avenida Abancay, dove c'è il Ministerio de Educación. Ho intenzione di contattare il signor
Jorge Leon Pimentel, il quale, nel 1965 partecipò a una spedizione al Pajaten. Chiedo informazioni
in portineria. Sembra che il signor Pimentel abbia il suo ufficio al quarto piano. Salgo in ascensore e
scopro che, con mio grande disappunto, per ignoti motivi l'ascensore non ferma al quarto piano. Per
fortuna ci sono le scale. Raggiungo il quarto piano, ma del signor Pimentel nessuno ha mai sentito
parlare. Torno al piano terra e chiedo delucidazioni. In portineria un nonnetto consulta l'elenco dei
dipendenti: dal primo al diciassettesimo piano, però, del signor Pimentel non c'è traccia alcuna.
Forse provando al diciottesimo o al ventesimo piano, dove ci sono altri elenchi... Rinuncio, lascio il
Ministero e vado alla Editorial Navarrete: è la casa editrice degli album di figurine. Si trova a poca
distanza dal Ministero. Vorrei sapere se è possibile acquistare l'album “Reinos de la Naturaleza”.
Non è possibile, purtroppo, mi informa il ragazzo con cui parlo; dovrò procurarmelo in qualche
altro modo, magari tramite la mia amica di Trujillo. Parlando, vengo a sapere che il ragazzo ha
studiato al collegio Raimondi.
L'avenida Abancay è molto ampia e trafficata. Passa per l'Università di San Marcos, il Parque
Universitaro e il Palazzo del Congresso. Prosegue per il ponte sul Rimac e arriva alla Plaza de
Acho. I marciapiedi sono invasi dai venditori ambulanti. Cerco invano uno scudetto del Perù da
cucire sullo zaino; trovo, invece, alcune bancarelle che trattano fumetti messicani.
M'incuriosiscono e ne compero alcuni della
serie “Super Terror”: storie trucide di mostri,
alieni, streghe e morti viventi. I titoli sono
tutto un programma: Templo satanico, Paté
de ojos, El mal infinito, Orgia de muertos,
Venganza de ultratumba e via di questo
passo. Il formato è piuttosto ridotto e i
disegni, alquanto ingenui, sono color seppia.
Due, invece, sono a colori, uno s'intitola
Orquideas Rojas ed è una specie di
telenovela, l'altro illustra una interessante
leggenda azteca sull'origine del mondo. Per
tredici fumetti spendo 6.000 inti. Altri quattro
della stessa serie (Super Terror) li compero in
Fumetti messicani
una bancarella vicina; per questi spendo
2.400 inti. Tra tanti ambulanti c'è anche una vecchietta che vende amuleti e portafortuna, mi
piacciono due “doble cara”. Sono amuleti in pietra chiara, traslucida, simile all'alabastro.
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Raffigurano un personaggio femminile bifronte, col corpo segnato da una serie di righe rosse. Sono,
a detta della venditrice, alquanto rari, per questo costano 15.000 inti.
Dall'Abancay scendo verso la Tacna per prendere il bus che mi riporterà a casa. Passando per il
jirón Puno mi fermo al N° 215 da Pana Radio. Non è stato facile ma, finalmente, ho trovato un
negozio dove si vendono cassette VHS. Ne compero una e mi costa 39.000 inti. Il problema, ora, è
scovare qualcuno in possesso di un videoregistratore. Immagino non sarà impresa facile, ma
proverò a chiedere agli amici. Esco e penso che, se trovo qualcuno in grado di registrarmi dei
programmi TV, forse è meglio comprarne due di cassette. Così ritorno sui miei passi e spendo altri
39.000 inti.
Da Tubino per una baguette (2.000 inti) e, poco più avanti, nel tristemente famoso jirón Uruguay
compero “una mano de platanos” (cinque banane) per 800 inti, due pacchetti di fiammiferi marca
INTI e LA LLAMA (5.000 inti) e un quadernetto su cui continuare a scrivere i miei appunti, dato
che il primo è ormai esaurito (300 inti).
Dalla Tacna prendo il bus che mi porta a casa
(450 inti). Alfredo ha un amico che possiede
un videoregistratore e s'impegna a farmi
registrare alcuni programmi; specifico:
qualche telegiornale, qualche programma di
intrattenimento, attualità, folclore, pubblicità
compresa. Consegno fiducioso le due cassette
per oltre quattro ore di trasmissioni. Ad Ada
chiedo di prendere nota di eventuali
telefonate; spero ancora che il desaparecido
Fernando si faccia vivo.
Preparo i bagagli. Meglio viaggiare più
leggero possibile. Lascio lo zaino grande e
Fiammiferi "made in Perù"
porto solamente quello piccolo: ci metto la
macchina fotografica di scorta, un
asciugamano, la borsetta con sapone, pettine, dentifricio e spazzolino, calzini e medicinali. Porto
con me anche tutti i soldi, meglio essere prudenti. Alle 15.00 esco e prendo un bus fino alla fine
della Salaverry. Scendo dove c'è il monumento a Jorge Chavez (450 inti). In Guzman Blanco mi
fermo a bere un succo d'arancia (1.000 inti), poi proseguo fino all'Alfonso Ugarte dove aspetto il
bus N°11 per l'aeroporto. Sorpresa: la linea 11 è in sciopero. Chiedo lumi a un vigile il quale mi
consiglia di prendere la 35. Il primo bus mi passa sotto il naso, ma mi consolo: era strapieno. Solo
qualche secondo dopo ne passa un altro, semivuoto. Sulla fiancata, bene in evidenza, la scritta
“Aeropuerto”. Lo prendo al volo. All'inizio sembra percorrere la giusta via, ma poi devia sulla
sinistra e ho la netta sensazione che, proseguendo per di là, all'aeroporto non ci arriverò proprio. Ho
la certezza di essere fuori strada quando, guardando fuori dal finestrino, vedo, lontana, la brutta
sagoma verde del Ministero dell'Educazione. Decido di rimanere nel bus fino al capolinea e da lì,
una volta sceso, riprendere un nuovo mezzo per il percorso inverso. Al capolinea scendo (450 inti).
Siamo oltre La Victoria, forse a San Luis. Se torno in autobus ci impiegherò ore per l'aeroporto,
meglio prendere un taxi. San Luis è una zona piuttosto periferica: di taxi nemmeno l'ombra. Aspetto
la partenza di un altro 35 e ci salgo. Dopo alcune decine di metri di percorso il bus è già bello pieno.
Cedo il posto a un'anziana signora e, durante il percorso continuo a sbirciare fuori dal finestrino per
vedere dove mi trovo. Quando arrivo ad una zona più trafficata abbandono il bus (450 inti) e salgo
su un taxi. Dopo aver contrattato sul prezzo mi accordo con l'autista per 26.000 inti. Ironia:
percorriamo la Javier Prado, incrociamo la Salaverry e passiamo a due isolati dalla casa di Roberto.
Arriviamo all'aeroporto alle 17.15. Alle 17.20 faccio il check-in dopodiché attendo l'ora della
partenza gironzolando per l'aeroporto. 1.000 inti per “La Republica”. In un negozio di artigianato fa
bella mostra un tappeto azzurro ricamato con fiori e uccelli. Bellissimo. Si tratta di un prodotto della
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zona di Ayacucho e costa 295.000 inti; caro, ma da farci un pensierino.
Finalmente chiamano i passeggeri per il volo 520 delle ore 18.50 con destinazione Iquitos. Sono
comodamente seduto al mio posto quando fanno scendere alcuni passeggeri affinché riconoscano i
loro bagagli: misure anti contrabbando, antidroga o antiterrorismo?
Alle 18.50 l'aereo viene trainato sulla pista. Il comandante del Boeing 725 di Aeroperù da il
benvenuto ai passeggeri e annuncia che il volo durerà un'ora e trentacinque minuti.
Alle 18,55 rulliamo e sette minuti dopo decolliamo. Mentre l'aereo sale osservo dai finestrini lo
spettacolo delle luci che si riflettono sulle nuvole. Lo spettacolo è di breve durata: superiamo la
spessa cappa di nubi e navighiamo sotto il cielo nero.
Alle 19.13 servono la cena: un pane rotondo con
formaggio, un toast al prosciutto, un pasticcino e caffè.
All'inizio subiamo qualche leggero scossone, ma tutto
cessa rapidamente. Mentre il volo prosegue in assoluta
tranquillità ripenso ai due precedenti viaggi a Iquitos.
Il primo fu giusto vent'anni fa, nel '69. Per la fine di
giugno e inizio di luglio la scuola che frequentavo, il
collegio Antonio Raimondi, organizzò, per le due quinte
maschili, la gita scolastica di metà anno. La meta
prescelta fu Iquitos, capoluogo della regione
amazzonica, raggiungibile in aereo, oppure via fiume,
con circa una settimana di navigazione.
Rimasi notevolmente sorpreso: all'epoca, in Italia, le
gite scolastiche si facevano a Trieste oppure a San
Marino, come a dire dietro l'angolo di casa. Qui si
parlava di circa millecinquecento chilometri tra Ande e
selva da sorvolare!
Assieme a mio fratello, che frequentava la mia stessa
classe, ebbi dai miei il permesso di partecipare alla gita.
Ci andai elegantemente vestito: camicia bianca,
pantaloni marrone con piega impeccabile, scarpette da
Mio fratello e io. Pucallpa, giugno 69
passeggio e sobria giacca grigia. Mancava solo la
cravatta. A Pucallpa facemmo scalo. Lì ebbi il primo approccio con la soffocante umidità della
selva. Assieme ai compagni di scuola passai il tempo passeggiando su e giù per la pista, mentre un
addetto, armato di un grande imbuto e accovacciato su di un'ala dell'aereo, faceva il pieno di
carburante. Assieme a mio fratello fui uno dei pochi a togliermi la giacca. Arrivati in città ci
alloggiarono in un hotel vicino al centro: un edificio basso, col tetto in lamiera e molti gechi su
soffitto e pareti della camerata, in paziente attesa di insettini da mangiare. Ricordo quanto rimasi
sconcertato quando, uscendo dall'hotel, numerosi miei compagni salirono sui taxi per andare al
bordello.
I giorni seguenti, con abbigliamento più consono al clima, visitammo, accompagnati da guide e
professori, il quartiere di Belén, chiamato anche la Venezia dell'Amazzonia, ma solo per il fatto che
sorge in mezzo all'acqua. In effetti Belén è una baraccopoli, indubbiamente molto pittoresca,
costituita da capanne fatte di legno e fibra di palma intrecciata. Vi regna anche una grande povertà.
Le abitazioni sorgono su palafitte, le quali vengono sommerse nel periodo in cui il fiume è in piena
e l'unico mezzo di trasporto è la canoa o la barca, per chi se la può permettere. Un giorno ci
portarono nella selva. Fu un'esperienza bellissima. Si camminava dentro un tunnel verde, spesso
avvolti nella penombra, a tratti accecati dal sole quando attraversavamo una radura. La guida ci
mostrò una pianta, una specie di canna il cui fusto conteneva un liquido che si poteva bere. La
pianta si chiamava “sachacaña, il succo aveva un sapore acidulo ma gradevole. Facemmo anche
un'escursione in battello lungo un tortuoso corso d'acqua, visitammo un allevamento di “paiches”,
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pesci dalla carne assai pregiata, che possono raggiungere anche i quattro metri di lunghezza.
Visitammo pure la base militare sul Nanay.
Qualche problema con i pasti: non mi piaceva l'insalata di “chonta” e nemmeno “l'arroz con
leche”; ma il menù era quello e non si poteva cambiare. A Iquitos, però, vivevano due compaesani:
Dino Tessarolo, direttore del pastificio Guiulfo S.A.(productos Loretta) e un tale Angelo Bigolin
(omonimo, ma non parente), operaio nello stesso pastificio. Ci invitarono, mio fratello ed io, a
pranzo e a cena in un ottimo ristorante dove, suscitando grande invidia nei nostri compagni,
potemmo deliziarci con enormi piatti di patatine fritte.
Il tempo libero lo si passava flirtando lungo il “malecon” (il lungofiume) Tarapacá con le
studentesse di un'altra scuola di Lima e gironzolando per la città. Ricordo che passai davanti al Mao
Mao, famoso locale notturno, e una domenica pomeriggio approfittai per andare al cinema
Bolognesi. Davano “La muchacha con la motocicleta”; il film era vietato ai minori di 21, ma i
controlli erano inesistenti. Il film mi piacque. La sala era gremita, l'atmosfera torrida (in tutti i
sensi), non c'erano poltrone ma file di panche. Mi sedetti nella penultima fila.
Nel mese di maggio del '73 uscì il libro di Mario Vargas LLosa “Pantaleon y las visitadoras”.
Vituperato e proibito dal governo militare
di Velasco era introvabile nelle librerie.
Riuscii a procurarmene fortunosamente
una copia, tramite l'interessamento di un
edicolante, la cui edicola si trovava
all'angolo tra la Wilson e Colmena,
praticamente sotto casa mia, e che mi
consegnò il libro di soppiatto,
guardandosi attorno con fare da
cospiratore. Vi ritrovai il Mao Mao e il
cinema Bolognesi e mi parve molto
divertente che, magari proprio accanto a
dove mi ero seduto, fosse successo
l'imbarazzante episodio descritto nel libro
quando, all'accendersi le luci per
un'improvvisa rottura della pellicola, si
scoprì, stesa su una panca dell'ultima fila,
la “brasilera” Olga Arellano intenta a
Con Virginio Bergamin tra gli Yagua
incandescenti effusioni con un militare.
Consiglio di vedere il film, uscito in DVD, in cui il mio l'ex compagno di scuola Gianfranco Brero
interpreta un convincente generale “Tigre” Collazos. C'è poi la signorina Angie Cepeda; vederla nel
film, son certo, farà contenti tutti i maschietti. Misteriosamente, però, “la brasilera” del libro è
diventala “la colombiana” nel film... Si tratta forse di opportunismo politico?
Nella selva piove spesso. Più volte al giorno le nuvole scaricano il loro fardello di pioggia. È
straordinario osservare come le gocce, grosse come chicchi d'uva, cadono per terra ed evaporano
all'istante, lasciando il suolo asciutto. Il fenomeno dura il tempo necessario perché il suolo si
raffreddi, dopodiché, in pochi istanti il terreno s'inzuppa e le strade si trasformano in torrenti
turbolenti che trasportano immondizia di ogni genere. L'acquazzone dura pochi minuti e poi torna a
splendere nuovamente il sole. La prima volta che cadde la pioggia eravamo tutti nella camerata
dell'hotel. Ci fu un improvviso fragore sul tetto di lamiera. Tutti i miei compagni corsero fuori,
chiamandomi a gran voce affinché uscissi anch'io. Non volevano credermi quando dissi loro che in
Italia piove spesso, addirittura per più giorni di seguito durante l'autunno. Mentre cantavano e
ballavano sotto gli scrosci mi resi conto che quei ragazzi di sedici anni non avevano mai visto la
pioggia prima di allora!
Nel settembre del '71 si presentò l'opportunità per un nuovo viaggio a Iquitos. Si trovava in Perù il
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signor Bergamin, collega di mio padre il quale, dopo aver visitato i clienti di Lima, doveva recarsi a
Iquitos al pastificio dei signori Guiulfo dove, come direttore, lavorava il compaesano Dino
Tessarolo, fratello di Ruggero. Un pomeriggio, quando il signor Bergamin era ospite nel nostro
appartamento, presi la palla al balzo e chiesi se potevo accompagnarlo. Con mia grande sorpresa
non ci furono opposizioni né da parte sua né, tanto meno, da parte dei miei genitori. Feci il biglietto
e l'accompagnai.
Iquitos, "malecón Tarapacá", da sinistra a destra: il
signor Gutierrez, Virginio Bergamin, Dino Tessarolo,
io
Iquitos, pastificio Guiulfo. Da sinistra: il signor
Gutierrez, il signor Guiulfo, Virginio Bergamin, Dino
Tessarolo, "el ingeniero" io
Alloggiammo in un hotel di lusso, con tanto di aria condizionata, talmente rumorosa, però, da non
lasciar dormire alla notte. Visitai il pastificio: dentro faceva addirittura più caldo di fuori e c'era un
forte odore di pasta irrancidita. Un ingegnere ci raccomandò di fare molta attenzione quando si
apriva una porta esterna, controllando che non ci fossero serpenti rannicchiati sotto. I Guiulfo ci
portarono a fare un giro in lancia a motore per il rio delle Amazzoni e a visitare una comunità
yagua. Gli uomini del villaggio vestivano lunghi gonnellini, fatti con fibre di palma e in testa
portavano un copricapo intrecciato dello lo stesso materiale. Il capo, in segno di autorità, inalberava
un cappello con la tesa rotonda e la calotta adorna di penne bianche e blu. Con una mano
impugnava una lunga cerbottana, mentre con l'altra sosteneva un fascio di collanine di semi da
vendere ai turisti. Le donne indossavano un gonnellino rosso e andavano in giro con le tette al
vento. Quegli yagua di giorno facevano i nativi a uso e consumo delle agenzie turistiche, di sera
frequentavano i locali della città. Erano comunque personaggi tipici e pittoreschi, così scattai
qualche foto a loro e a me con loro.
Da poco avevo comperato una Minolta SRT 101 col 58 mm f 1.12 e un 135 mm, indubbiamente
più sofisticata della vecchia Bencini Comet di papà. Rivisitai Belén, ma era periodo di magra. Il
ritiro delle acque aveva lasciato stagni maleodoranti, palafitte scheletriche e le case costruite sugli
zatteroni bizzarramente inclinate lungo gli argini.
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Tornai a casa con un inaspettato regalo per mia mamma: quattro splendide orchidee rosa che la
signora Guiulfo, visto il mio interesse per quei fiori del suo giardino, recise con la stessa
noncuranza con cui da noi si colgono le margherite del prato.
L'anno dopo, in occasione delle feste di Natale, proposi ai miei di passare qualche giorno a Iquitos.
Insistetti molto e li avevo praticamente convinti. Saremmo partiti il 24 e rimasti qualche giorno a
visitare la selva, contando con l'appoggio dei concittadini. Mia mamma era entusiasta, mio padre un
po' meno. Bastava decidersi e acquistare i biglietti. All'ultimo momento un impegno di lavoro fece
desistere mio padre. Mi sentii molto deluso, ma fu una fortuna: il 24 dicembre il volo 508 della
LANSA (Lineas Aereas Nacionales S.A. compagnia appartenente all'industriale Luis Banchero
Rossi) partì regolarmente dall'aeroporto di Lima, diretto a Iquitos con scalo a Pucallpa ma non
arrivò mai a destinazione.
Sopra la foresta amazzonica incontrò un violento
temporale. Il Loockeed Elettra, colpito da un fulmine si
frantumò e sparì, inghiottito dalla selva. Le ricerche dei
superstiti dettero esito negativo e vennero interrotte
dopo una settimana. D'altronde come riuscire a
rintracciare qualcosa in piena selva dove crescono alberi
che arrivano anche a settanta metri d'altezza?
Alcuni giorni dopo, però, una notizia straordinaria
apparve su tutti i giornali: una ragazza di diciassette
anni, Juliane Köpcke era sopravvissuta al disastro. Sola
e ferita aveva camminato per una decina di giorni in
Juliane Köpcke (foto da internet)
mezzo alla selva fino a raggiungere un villaggio ed
essere portata in salvo.
Preziosi erano stati i consigli di suo padre, biologo: costeggiare un corso d'acqua fino al fiume
principale e seguire questo dove, prima o poi, lungo le
sue sponde si sarebbe trovato qualche insediamento.
Quando si fu ristabilita, Juliane riuscì a guidare un
gruppo di soccorritori fino ai resti dell'aereo; allora si
scopri che c'erano stati altri sopravvissuti, morti, nel
frattempo, a causa delle ferite e della fame.
Nell'incidente aereo perì anche il mio dentista:
viaggiava per raggiungere la moglie partita il giorno
prima. Quello caduto era l'ultimo aereo della
sfigatissima LANSA. Tempo prima ne era precipitato
uno in rotta verso Cusco, carico di studenti: nessun
sopravvissuto. Gli altri aerei erano stati cannibalizzati
per recuperare pezzi di ricambio.
Chiusa la parentesi dei ricordi. Il pilota annuncia che
stiamo per atterrare, i passeggeri tirano fuori i pettini e
si pettinano con cura. Alle 20.30 atterriamo a Iquitos.
Dal fresco della cabina si passa al caldo umido della
notte amazzonica. La prima sensazione che si prova è
che i vestiti si incollano addosso. La dogana è Juliane Köpcke sul luogo del disastro (foto da
inesistente; si passa direttamente alla grande sala internet)
d'attesa le cui pareti sono affrescate con scenette
caratteristiche del Perù: uno scontro tra carrozze nella Lima del '700, uno scorcio della selva con
animali e un indio yagua con la lunga cerbottana, una vista di Arequipa, le universalmente famose
rovine di Machu Picchu.
All'uscita vengo letteralmente assalito da una turba di rappresentati delle agenzie turistiche. Sono
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subissato da offerte: tour nella selva, visite agli indios, coccodrilli, corsi di sopravvivenza, trekking,
giaguari, anaconde, pitoni, uccelli, insetti, piante medicinali... Non so davvero come cavarmela.
Uno in particolare mi rimane particolarmente appiccicato e mi convince ad accettare (quasi) gratis
un passaggio fino in città (sono circa quattordici chilometri dall'aeroporto). Sensibile di pagare solo
5.000 inti al posto di 15.000, accetto. Senza impegno, precisa il rappresentante, tanto paga il gringo!
In auto con noi, infatti, sale un americano. È in viaggio di studio e si ospita in un hotel da 26 dollari
al giorno. Io scelgo il più economico Hotel Loreto (jirón Prospero 309): camera 404, doppia, con
bagno (anche se quasi sempre senz'acqua) e aria condizionata (non funzionante). Il tutto per 10.000
inti al giorno (poco più di due dollari), prezzo di favore perché la doppia costerebbe 15.000.
Non ho pace: Roger Aliaga, tour operator, insiste affinché lo accompagni all'agenzia per illustrarmi
i servizi da questa proposti. Lo seguo sbuffando. L'agenzia Amazon River (Putumayo 184) si trova
vicino alla Plaza de Armas, a due isolati dall'hotel Loreto, proprio di fianco della “casa de hierro”
(di cui, magari, racconterò la storia più avanti). Mi viene proposto un giro della durata di tre-quattro
giorni al Tamshiyacu Lodge: costo 140 dollari. Mi mostrano un album con le foto della zona. Il tour
comprende una visita a una comunità yagua... la stessa da me visitata nel '71. Stesse foto del gruppo
di nativi; manchiamo solo l'amico Bergamin ed io in posa dietro di loro.
Quando dico che le foto sono vecchie di quasi ven'anni, che quelli sono falsi yagua vestiti così per
i turisti e che un tour così non m'interessa il titolare dell'agenzia ci rimane male. Mi chiede cosa
avrei intenzione di fare. Gli spiego che mi piacerebbe risalire il Napo verso Copal Urco e avere la
possibilità di visitare una comunità huitoto. Mi promette di presentarmi un suo amico il quale
organizza giri turistici lungo il Napo. Ci mettiamo d'accordo per trovarci domani alle 9 all'hotel.
Esco nella calda notte tropicale (romantico, no?) e faccio un breve giro per la Plaza de Armas. Ci
son stati notevoli cambiamenti dal '69. I frondosi alberi di “mamey” sono stati sostituiti da palme; è
stata costruita una fontana rivestita di piastrelle, con due delfini in atto di saltare (niente acqua) e
tutto attorno sono stati piantati cespugli fioriti.
La chiesa col suo campanile aguzzo è sempre dipinta con un pallido color crema. Attorno alla
piazza il traffico di moto, motorini e mototaxi è sostenuto. Torno all'hotel dove, prima di andare a
letto, vorrei farmi un doccia, l'acqua, però, non c'è. Alle 23.25 vengo svegliato da uno straziante
gorgoglio: è arrivata l'acqua.
Martedì 19 settembre
Sveglia alle 6.30. Bella giornata di sole, ma al mattino il caldo è facilmente sopportabile. Mi dirigo
subito verso il “malecón Tarapacá” per vedere il rio delle Amazzoni.
Il rio dele Amazzoni all'alba
Il rio delle Amazzoni all'alba
La nebbia mattutina avvolge il paesaggio e impedisce di vedere la sponda opposta, ma posso
ugualmente rendermi conto che siamo in periodo di magra. Uno smisurato pantano senza colori si
stende dove ricordavo il fiume, le cui acque s'intravvedono molto lontano, un baluginio dovuto al
riflesso del sole tra i vapori del suolo. Per le strade c'è poco traffico. Fotografo gli edifici rivestiti di
“azulejos”, le piastrelle di ceramica importate dal Portogallo all'epoca d'oro del caucciù. Adesso
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quegli edifici, appartenuti alle ricche compagnie di commercianti, sono quasi tutti in rovina, ma le
piastrelle testimoniano ancora un passato di opulenza e sfarzo.
Tutto cominciò negli Stati Uniti quando un certo Charles Goodyear scoprì un procedimento per
vulcanizzare il caucciù. La domanda della resina salì, la selva del Perù si riempì di avventurieri i
quali non esitavano a massacrare donne, vecchi e bambini per schiavizzare gli adulti da impiegare
nell'estrazione della gomma. Per arraffare più in fretta si arrivò addirittura ad abbattere gli alberi. In
pochi decenni si accumularono fortune enormi. Gli avventurieri, diventati straricchi, importavano
dall'Europa ogni genere di lusso.
Attraverso il Rio della Amazzoni
arrivavano tessuti, liquori, mobili, le
famose piastrelle e, addirittura, un intero
edificio: questa è la storia della “casa de
hierro”, una casa interamente costruita in
ferro, progettata da Gustave Eifel (sì,
proprio quello della torre). Il milionario
Anselmo del Aguila la vide, la comprò, la
fece smontare bullone per bullone e
ricostruire tale e quale in centro a Iquitos.
Ultimata la casa si scoprì che era
impossibile viverci: di giorno: sotto il sole,
si trasformava in un forno! Adesso sembra
La celebre "Casa di Ferro"
abbandonata. Si trova in Plaza de Armas,
all'angolo tra Prospero e Putumayo, un edificio quadrato, elegante, dipinto di grigio, coi tetti
sovrapposti arrugginiti.
La fortuna durò poco. Nonostante il governo avesse proibito l'esportazione di semi, un inglese
riuscì a rubarne 70.000. Con questi si dette il via alle piantagioni in Malesia, Indonesia e Tailandia.
Ancor prima della prima guerra mondiale la potenza economica di Iquitos era svanita
Adesso le piastrelle fanno ancora bella mostra su molti edifici che si affacciano lungo le vie
principali. Sono colorate, ricordano molto lo stile arabo, alcune sono addirittura in rilievo.
Nel 1982 uscì Fitzcarraldo, bel film del visionario Werner Herzog. Guardandolo si può avere
un'idea di come era Iquitos all'epoca della corsa al caucciù. Una curiosità: alla fine, poco prima dei
titoli di coda, accanto alla splendida Claudia Cardinale, si può notare un paffuto signore di bianco
vestito, cravattino giallo e basettoni, mentre agita la mano per salutare: è Dino Tessarolo, gallierano,
direttore del molino Guiulfo, comparsa nel film.
Nei pressi dell'ex Hotel Palace, ex casa
Vela, forse il più bel edificio della città, i
primi ad aprire sono i negozi di artigianato.
Ne visito alcuni per informarmi dei prezzi:
una tela shipiba, bianca con disegni
geometrici neri, costa 150.000 inti, una
shinosute (cintura fatta con minute perline
bianche) ben 250 dollari!!! Un ventaglio
35.000 inti. I negozi sono zeppi di
coloratissime sculture in legno di balsa: un
piraña costa 8.500 inti, un pappagallo grande
Antica casa commerciale "Morey e figli"
21.000, una farfalla grande 8.000, quella
piccola 6.000, un piraña grande 10.000, mentre i delfini variano da 10 a 12.000 inti. Le statuette
antropomorfe che a Lima avevo acquistato per 15.000 inti, qui costano solamente 5.000.
Alle 8.30 faccio colazione allo Snack DG (jirón Prospero) con toast al formaggio e un succo
d'ananas (4.500 inti). Alle 9.00, in hotel, aspetto Roger. Lui non si fa vedere, io mi stanco ed esco.
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Mi dirigo al “muelle flotante” (molo galleggiante) alla ricerca di qualcuno che mi porti lungo il
Napo. Scendo lungo l'argine per una scala di legno traballante, quasi di fronte all'edificio dell'ex
Palace. Passo vicino a una serie di grossi tronchi che sostengono varie case di legno, dalle quali
colano i rivoletti maleodoranti degli scarichi. Arrivo al letto del fiume; sopra il fango serpeggiano
innumerevoli passerelle fatte di tronchi e tavole. Non è necessario cercare: vengo subito individuato
come turista, potenziale cliente, e avvicinato da un giovane il quale mi offre i suoi servizi. Lo seguo
fino alla sua casa galleggiante, passando agilmente su tavole, tronchi, barche e canoe altrui. Intanto
mi parla del suo “yate cubierto” e dei giri che lui e il suo socio organizzano. Arrivati a casa mi
mostra quello che ha definito come yacht: un barchino coperto, capace di ospitare al massimo tre o
quattro persone. Gli spiego le mie intenzioni. Assieme al socio inizia a fare un po' di conti: solo con
il carburante e l'olio si arriva a un milione di inti... poi c'è il mangiare, il trasporto... L'interrompo: il
prezzo è troppo alto. Ne convengono e mi consigliano di trovare qualche altra persona con cui
dividere la spesa. Ci lasciamo così. Torno in città e incontro il socio di Roger il quale insiste per
portarmi all'agenzia Adventures Tours (sargento Lores 269). L'agenzia si trova quasi all'angolo del
mio hotel. Parlo col signor Teodoro Valles Wing detto Lolo. Ascolta il mio progetto e scuote la testa.
Le tribù huitoto, mi spiega, si trovano quasi ai confini con la Colombia e gli adulti vengono
utilizzati dai narcotrafficanti colombiani come portatori per la droga, pagandoli con scarpe,
pantaloni e camicie. Così gli huitoto hanno smesso di andate in giro nudi e dipinti per indossare gli
stessi indumenti degli abitanti delle città.
Nei dintorni di Iquitos, continua, ormai non esistono più comunità di nativi che vivono allo stato
selvaggio, sono tutti civilizzati. Ai turisti vengono fatti visitare villaggi dove gli indios lavorano
come comparse. Sono molto rari coloro che vivono come prima dei contatti coi bianchi e, in questi
casi si tratta di vecchi ancora legati alle loro origini, i quali si rifiutano anche di parlare lo spagnolo.
Per visitare qualche comunità che ancora conserva lo stato originale, o quasi, bisognerebbe
internarsi molto nella selva: almeno quindici-venti giorni di cammino. Dovrei avere, quindi, più di
un mese a disposizione.
Un po' deluso rivedo i miei progetti, mentre il signor Teodoro detto Lolo mi illustra cosa si può
fare in quattro giorni. Mi propone un trekking, parte a piedi e parte in barca, nei pressi del lago
Sunimiraño, con escursioni nella selva anche di notte. Si pernotta nell'accampamento, in pratica un
tetto di foglie fornito di zanzariera, senza le comodità dei lodge, veri e propri alberghi nella selva. Si
mangia quello che ci si porta dietro (fornito dall'agenzia), integrandolo con ciò che la guida riesce a
pescare e cacciare. Si potranno vedere molti uccelli, qualche coccodrillo, qualche scimmia ma
niente di più. Intorno a Iquitos è stato cacciato tutto il cacciabile; per riuscire a vedere qualche
animale di grossa taglia sarebbe necessario inoltrarsi nella selva almeno per dieci-quindici giorni. Il
costo dell'escursione è di quaranta dollari al giorno, cioè centosessanta dollari in totale. Si
partirebbe domani alle 9.00 del mattino.
Decido di pensarci su; fa un po' di tristezza ma questa proposta è la meno peggio. Intanto esco a
far quattro passi. M'informo presso altre agenzie ma tutte propongono soggiorni in lodge e altre
comodità. Insomma, sono nella selva amazzonica, mica nel boschetto dietro casa! Un po' di
avventura, perdinci!
Percorro pochi metri e vengo accalappiato da un certo Pedro, dell'agenzia Queen Adventures S.r.l.
Mi trascina alla sua agenzia e mi racconta di essere amico di Walter Bonatti. Mi offre tutto quello
che voglio per 50 dollari al giorno... Troppo? Per 45? Ancora troppo? Per 40! Quasi implora. Non
so come cavarmela. Ci voglio pensare, gli dico, ed esco.
Giro l'angolo e vengo beccato dal preoccupato Roger Aliaga, giunto in ritardo all'appuntamento
all'hotel. È incazzato perché il suo collega mi ha già presentato a Lolo, soffiandogli probabilmente
la percentuale. Gli faccio sapere che ho intenzione di accettare l'offerta di Lolo e lui insiste perché
mi iscriva subito (forse la percentuale non è ancora svanita?). Ritorno assieme a lui all'Amazon
Adventures e facciamo il contratto. Per prudenza non voglio si sappia che porto i sodi con me,
preferisco tornare in hotel, accompagnato dall'appiccicoso Roger, salire nella mia stanza e tornare
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all'agenzia per effettuare il pagamento. 160 dollari, al cambio di 4.900 sono 784.000 inti. Sul
contratto è specificato che il prezzo non comprende eventuali spese di bar... mi chiedo se
nell'accampamento in mezzo alla selva ci sarà anche un reparto alcolici. Confermata la partenza per
domani alle 9.00. Al tour si dovrebbero aggregare altre quatto persone.
Un grande manifesto appeso a una parete
dell'agenzia mostra l'itinerario proposto.
Partenza da Iquitos in barca e discesa lungo il
rio delle Amazzoni, si lascia la barca per
attraversare un tratto di selva fino a raggiungere
il Napo, vicino alla sua confluenza col Mazan.
Altro spostamento in barca fino a Israel,
camminata in mezzo alla selva fino a un
emissario del lago Sunimiraño e nuovo tragitto
in barca fino al lago e all'accampamento. Da
qui si partirà per le varie escursioni.
L'ufficio di Foptur si affaccia sulla Plaza de
Il “Dorado inn”
Armas. Mi riceve una signorina gentile e carina
I
alla quale chiedo informazioni sulla musica
tipica della selva. Mi consiglia di contattare il signor Eliseo Reategui, titolare della “Chupeteria
Shambo”, in Grau, tra 9 de Diciembre e 2 de Mayo. Pare sia un esperto di “sitaracuy”, “chimaychi”
e “pandilla”.
Alle 12.30 pranzo al “Dorado inn”, locale popolare con una parete dipinta a grandi fasce verticali
color crema e rosso, sedie in legno e tavoli coperti da tovaglie a quadroni bianchi e rossi. Il menù
costa 3.000 inti e consiste in zuppa di gallina, un pezzetto di maiale fritto con riso e fagioli, succo di
frutta e due pani. Il prezzo è buono, il mangiare meno. Compro sei banane (2.000 inti) e mi fermo in
plaza 28 de Julio per mangiarne tre, comodamente seduto
all'ombra di un frondoso albero fiorito. Il sole splende alto nel
cielo blu e il caldo è notevole.
Torno all'hotel dove lascio le banane restanti e alle 14.00
tento di telefonare a Jeanett. Il telefono a “discado directo” non
vuol saperne di funzionare, così sono costretto a chiamare
tramite il centralino (10.310 inti).
Passeggio fino al jirón Tavara dove ha sede il Museo
Municipal. Visita consigliata a chi ha voglia di deprimersi.
L'ambiente è immerso in una inquietante semioscurità: gran
parte dei neon, infatti, non funziona. I diorami che
rappresentano le comunità dei nativi sono in uno stato pietoso,
mancano di pezzi e alcune statue di legno sono cadute. Gli
animali impagliati si trovano in condizioni disastrose, quasi
tutti in pessimo stato e ricoperti da uno strato di polvere scura.
Al fondo, sopra un tavolo, sono accatastati decine di uccelli
imbalsamati, o meglio, pezzi di uccelli con l'impagliatura che
fuoriesce da teste mozzate, ali troncate, zampe di tutte le
Motokar
dimensioni e corpi sventrati. Un vero sfacelo. I colori
predominanti sono il grigio scuro, il marrone scuro e il nero.
Alla signora che, seduta con aria sconsolata su una sedia sgangherata, attende il pubblico, chiedo
cosa mai sia successo.
Mi risponde che il comune non s'interessa del museo da molto tempo e che senza contributi non si
può andare avanti. L'ingresso è a offerta libera: lascio 200 inti.
Proseguo la visita alla città. Alle 16.10 mi concedo una sosta allo snack D.G. per due bicchieri di
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camu-camu, frutto tropicale dal gusto molto delicato (2.000 inti). Proseguo per il jirón Prospero fino
a Belén, scatto qualche fotografia, quindi torno indietro, per fermarmi all'angolo della strada dove
un vecchietto sta vendendo gelati. Assaporo un “barquillo de aguaje” (1.500 inti). L'aguaje o
mirithy è il frutto di una palma molto comune nella zona, con le sue fibre gli yagua si confezionano
i gonnellini, usano i tronchi per costruire le capanne e utilizzano le foglie per la copertura. Il frutto
ha le dimensioni di una prugna con la buccia squamosa. Il gusto è acidulo e la polpa granulosa. Il
sapore del gelato, però, è assai gradevole.
Salgo su un “motokar” fino alla comunità di San Juan dove c'è una fiera artigianale (5.000 inti).
Rapido giro per informarmi sui prezzi: pappagallo grande, in legno di balsa 18.000 inti, pappagallo
piccolo 15.000, collana di semi 5.000, collana con denti 15.000. Ritorno in autobus ed è un bel
risparmio, i soliti 450 inti.
Iquitos, interno della chiesa
Si è fatto buio. Compro un chilo di mele (10.000 inti) e
riesco a trovare un venditore di arance quando ormai tutti
gli ambulanti stanno sbaraccando: dodici arance costano
4.500 inti ai quali devo aggiungerne altri 500 per il
sacchetto di nylon.
Torno all'hotel, pago la stanza, mangio le tre banane ed
esco per una passeggiata notturna. Col fresco della sera è
Iquitos: la chiesa
aumentato il traffico: moto, motorini e motokar
sfrecciano rombando senza sosta.
Visito la chiesa: l'interno è molto diverso dal barocco di Lima e Cusco. L'altare di legno scuro
sembra quasi riprodurre la facciata della chiesa, con l'aggiunta di due pinnacoli laterali. Le pareti,
color crema, sono interrotte da colonne quadrate dipinte di verde che sostengono la volta a botte
dell'unica navata. La volta è divisa in riquadri, quelli centrali sono dipinti. Altri dipinti si trovano
dietro all'altare La chiesa è illuminata da una serie di finestre a forma di quadrifoglio e da numerose
porte ad arco a sesto acuto.
A lato della chiesa c'è la famosa gelateria “El Pinguino” (terzo isolato del jirón Arica). Un cartello
declama che i gelati sono assolutamente genuini e naturali. Scelgo un gelato alla lucuma (1.500
inti): davvero eccellente!
Ore 19,53: cena al Todo Tuyo. Il locale si affaccia sulla Plaza de Armas e si trova sull'angolo
opposto alla “casa de hierro”. Ha l'aria di un locale nuovo, quasi elegante, secondo gli standard del
luogo: pavimento di mattonelle bianche e nere, soffitto di perline con ventilatori in asse coi
lampadari, tavoli in formica bianca e sedie di alluminio con sedili e schienale in finta pelle rossa. Le
pareti sono dipinte di bianco e vi sono banchi per gelati, torte, panini e polli arrosto. Una porzione
di torta di mele costa 3.500 inti e un succo d'arancia 4.000.
La temperatura è costante: 30 gradi. Allo snack DG per un succo d'ananas (1.000 inti). Da evitare
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in futuro perché troppo denso, quasi un frappé: molto meglio un “refresco”.
In uno degli ultimi negozi aperti riesco a comperare quattro “panes de yema” (800 inti). Non c'è
carta per avvolgerli e il sacchetto costa; mi faccio dare i pani e li porto via in mano.
Alle 21.15 preceduta dal solito prolungato gorgoglio, arriva l'acqua. Farsi una doccia non è facile:
l'acqua è poca e manca il diffusore, è come docciarsi sotto un rubinetto.
Mercoledì 20 settembre
Sveglia alle 7.15. Tempo incerto, il cielo è coperto di nubi e la temperatura è più fresca e
sopportabile. Mangio i due pani rimastimi e, zainetto in spalla, esco per fare colazione. Per strada
soffia un gradevole venticello, speriamo solo che non piova. Al Todo Tuyo comincio con un “pay de
manzana” e un tè al limone. La torta di mele è davvero squisita, così me ne faccio portare un'altra
porzione accompagnata, questa volta, da un succo d'arancia. Totale 12.500 inti
Il vento è cresciuto d'intensità e ha spazzato via un po' di nuvole. Alle 8.30 sono in agenzia, pronto
per partire. Pochi minuti dopo arrivano anche gli altri quattro turisti: Jhon, svizzero, alto, biondiccio
e simpatico, parla uno stentato spagnolo, Markus, svizzero, magro, bruno, riccioluto e taciturno,
Dina, svizzera, alta, bionda, capelli lisci e moglie di Ivan, peruviano residente in Svizzera. Manca
solo la guida, ma si sa, in Perù il ritardo è un fatto normale.
Nell'attesa i quattro vanno al bar all'angolo a bere qualcosa, mentre io mi trattengo in agenzia dove
lascio alcuni oggetti che non mi servono: due rotoli di pellicola (con le foto scattate in precedenza),
una penna, giornali vari, una confezione di pastiglie, il biglietto aereo per Lima, foglietti
pubblicitari, un fazzoletto pulito (così è specificato nella ricevuta), un'audiocassetta, shampoo,
pettine, lamette da barba. Per quattro giorni posso benissimo vivere alla selvaggia.
Esaurita la fase burocratica raggiungo gli svizzeri al bar i quali, molto gentilmente, mi offrono un
succo d'arancia.
Arriva il signor Helio Navarro Acho, la nostra guida. Piccoletto, magro, pelle color dell'argilla e
occhi furbi leggermente a mandorla è un tipico abitante della selva. Indossa jeans, maglietta grigia
striminzita, cappello di paglia e calza stivali di gomma, in contrasto coi variopinti svizzeri in tenuta
da spiaggia. Io sfoggio pantaloni lunghi verdi e camicia in jeans con maniche lunghe; sembra un
controsenso ma mi eviterà tanti dispiaceri coi numerosi insetti che popolano la zona. Sopra indosso
la seconda versione, riveduta e corretta, del giubbotto cucitomi da mia madre, pieno di tasconi,
comodissimo per sistemare macchine fotografiche, obiettivi e accessori.
Scendiamo al fiume e c'imbarchiamo su un tipico barcone a motore, di quelli col tetto di foglie,
indispensabile quando c'è il sole e ottimo per proteggerci in caso di pioggia.
Alle 9.48 si parte. Rotta verso nord-ovest, seguiamo la corrente del Rio delle Amazzoni. L'acqua è
color terra, con onde mosse dal vento. Cielo cupo, paesaggio monotono. Le piccole canoe che
incrociamo navigano accostate alla riva alta, fangosa, coperta d'erba e vegetazione solo nella parte
superiore. Ci lasciamo indietro sporadiche abitazioni costruite in legno sopra zattere di tronchi.
Tutto fila liscio finché il motore, dopo alcuni preoccupanti colpi di tosse, alle 11.25 si ferma.
Rimaniamo in balia della corrente. Il motorista sembra non perdere la calma, forse c'è abituato;
armeggia un po' con gli attrezzi e, dopo cinque minuti, il motore riparte.
La “Piraña”, la barca azzurra dell'Amazon Adventure Tour accosta a una sponda fangosa e
sbarchiamo. Carichi di zaini e provviste (a me tocca una tanica con quindici litri d'acqua)
c'incamminiamo per una scomodissima pista d'argilla. La pioggia rende l'argilla molle e plasmabile,
la gente vi cammina sopra lasciandovi impronte profonde; quando il sole la secca, l'argilla diventa
dura come il cemento, così si cammina sopra una superficie irregolare, piena di avvallamenti e
gibbosità che mettono a dura prova piedi e gambe.
Alle 12.04 facciamo una sosta al “bar bodega La Brisa”, una baracca che funge da negozio. Chi
beve, chi fuma, chi fa acquisti. Intorno le poche capanne di Mazan. Ripartiamo alle 12.13 e alle
12.36 arriviamo al Napo. Carichiamo un'imbarcazione a motore e ci accingiamo ad attraversare il
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fiume. Troppo carico, rischiamo di colare a picco e non dev'essere una bella esperienza. Torniamo a
riva. Markus e io aspettiamo che la barca, attraversato il fiume, ritorni a prenderci. Alle 13.36 la
barca arriva e alle 13.57 guadagno l'altra sponda: siamo arrivati a Israel.
A causa dell'acqua bassa non si può continuare la navigazione, saremo quindi costretti a
camminare per un tratto di selva fino a raggiungere una laguna. Distribuiamo il carico di vettovaglie
e, alle 14.13, ci rimettiamo in cammino. Camminiamo circondati dalla lussureggiante vegetazione,
immersi in una penombra verde. Il sentiero è largo e fangoso, superiamo i corsi d'acqua in equilibrio
su tronchi buttati di traverso. Uno, in particolare, lungo una quindicina di metri, ci permette di
scavalcare un fiumiciattolo di acqua scura; aiutano a mantenere l'equilibrio alcune aste piantate sul
fondo, a cui aggrapparsi in caso di necessità. Attraversiamo nello stesso momento in cui un serpente
nerastro, lungo ben oltre un metro, fende le acque proprio sotto di noi e, raggiunta la sponda,
sparisce tra il fogliame. È il primo animale che vediamo, annoto l'ora, sono le 14.30.
Alle 14.40 raggiungiamo la laguna a cui dovevamo arrivare in barca. Ormeggiate a un tronco ci
attendono due piccole canoe piuttosto malridotte. Quella su cui salgo in compagnia della guida e di
Jhon ha il fondo rappezzato con pezzi di lamiera. L'altra non sembra in condizioni migliori: è senza
pagaie e l'equipaggio è costretto a remare con una tavola. Entriamo così nel lago Sunimiraño (parola
composta da suni, nome di un uccello, e dal verbo “mirar”, guardare, quindi traducibile come
“luogo dove si vedono i suni”). Attraversiamo il lago trainando, prima e spingendo poi, la seconda
canoa. Intanto osservo la vegetazione sulla riva. Tronchi e foglie, per un'altezza di circa un metro,
sono coperti di fango, segno del livello raggiunto dall'acqua nel periodo di piena. A tratti la
vegetazione emerge dall'acqua come una invalicabile parete, alcune esili palme, talmente fitte da
impedire il passaggio a qualsiasi persona, hanno il tronco avvolto da spine lunghe una spanna. Ogni
approdo lì è assolutamente impossibile. L'acqua mantiene il suo bel color ocra: me la immagino
come un brodo di fango, foglie marce, escrementi di pesci, coccodrilli e uccelli. Alla guida viene
sete: immerge il cappello, gli da una risciacquatina e beve a lunghe sorsate. Certo ha dei buoni
anticorpi.
Alle 15.40 arriviamo all'accampamento. Sorge su una radura in riva al lago ed è costituito da tre
capanne. Una capanna, la più piccola, serve da abitazione per Cesar, il custode, e sua moglie. La
capanna più grande è adibita a sala pranzo e riposo. Vi sono delle amache appese alle travi del
soffitto, un tavolo e alcune panche al centro e in un angolo un basamento d'argilla che serve da
focolare. La terza rappresenta la zona notte: si dorme stesi su materassini di gommapiuma e protetti
dalle zanzariere.
Tutte le costruzioni sorgono su basse
palafitte, per evitare ospiti indesiderati, e vi si
accede salendo lungo un tronco intagliato a
gradini. I servizi consistono in un profondo
buco sul terreno, l'intimità è assicurata da
pareti di frasche. Per lavarsi il lago offre
acqua tiepida in abbondanza. Dopo lo sbarco
ci viene offerto un caffè e mezza papaya.
Verso le 17 si mangia: riso, fagioli, un uovo
fritto, tonno con cipolla e una porzione di
pesce comperato a Mazan, una mela (una
delle mie), pane e marmellata di fragole. Alle
Accampamento su lago Sunimiraño
18.15 si finisce e ci si sgranchisce le gambe
nella radura. Il buio è già sceso, attorno a noi la massa scura della selva si staglia contro il cielo,
iniziano i canti melodiosi di uccelli sconosciuti. Improvvisamente Helio, la guida, si avvicina a un
tronco caduto, infila la mano in un buco e tira fuori un rospo enorme. La bestia, grossa più di un
pollo, strilla emettendo un verso simile al suono di una trombetta e annaffia il suolo con copiosi
escrementi.
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Più tardi è l'ora della pesca, Helio tira su le reti gettate davanti all'accampamento e vi trova
impigliati un piraña e un paio di gamberi: la cena è assicurata. Finita la cena, con pesce, pane e
marmellata ci prepariamo a uscire per la notturna caccia al coccodrillo. Alle 21 saliamo tutti su una
lunga canoa, il cui bordo affiora pericolosamente solo di pochi centimetri dal pelo dell'acqua, e ci
inoltriamo nel lago, calmo come uno specchio.
Navighiamo accompagnati dalla luce delle stelle e dai volteggi di grosse lucciole. L'impercettibile
sciacquio della pagaia della guida (bisogna far piano altrimenti i coccodrilli ci scambiano per
appetibili prede), è rotto di tanto in tanto dal tonfo di un pesce che, saltando, cade all'interno della
canoa. Se ne individua l'argenteo bagliore che si dibatte sul fondo dell'imbarcazione, lo si afferra e
lo si ributta in acqua, sperando non sia un piraña che si porta via un pezzo di mano. Attorno a noi un
fantastico concerto di grilli e rane.
La guida individua alcuni nidi, mimetizzati tra le alghe di un basso fondale. Come faccia vedere al
buio non so. Con grande precauzione fruga fino ad afferrare un coccodrillino lungo una quarantina
di centimetri, ma già dotato di robuste mandibole, denti aguzzi e sano appetito. Gli svizzeri, a turno
se lo passano di mano in mano. Bisogna afferrarlo per il collo e per la coda, dietro le zampe
posteriori, per evitare morsi e graffi. D'improvviso la notte viene squarciata da uno strillo
terrificante: alla signorina Dina è sfuggito il coccodrillo che ora scorrazza per la canoa pronto a
mordere chiappe e calcagni. Nell'imbarcazione è panico: tutti ci agitiamo nel tentativo di
riacchiappare il mostriciattolo e la canoa s'inclina pericolosamente minacciando di farci finire tutti
in acqua. Solo la guida non perde la calma, riesce ad afferrare il rettile e riportare la tranquillità.
Di coccodrilli grossi, neanche l'ombra. La guida cerca di attirarne qualcuno imitandone il verso
(una specie di muggito), ma niente da fare.
Alle 22.50 torniamo all'accampamento, mentre lontano si ode il cupo rumore delle cannonate
sparate durante un'esercitazione della marina militare.
La guida scuote il capo e prevede pioggia: sostiene che piove sempre dopo un'esercitazione della
marina.
Sotto la tettoia di foglie mi aspetta il mio giaciglio. Alla luce della pila scopro che l'efficacia della
zanzariera è nulla contro una nutrita serie di piccoli animaletti, alati e non, che si agitano disturbati
dalla luce. Mi sa che dovrò dormire in compagnia.
Giovedì 21 settembre
Durante la notte piove. Sveglia alle 5.45 accompagnato dal
canto degli uccelli. Il tempo non promette niente di buono,
infatti, alle 6.15 piove. Alle 8.50 finiamo di fare colazione e
smette anche di piovere. Ci prepariamo alla camminata nella
selva: meta un accampamento all'interno dove passeremo la
notte. Alle 9.30 esce un po' di sole e siamo ancora
all'accampamento.
La moglie di Cesar, in equilibrio su un tronco, lava il pesce
sul lago, noi ci facciamo le foto di rito col coccodrillino in
mano. Poi Helio lo lascia libero e l'animaletto sparisce in
acqua. Alle 10.04 finalmente salpiamo in canoa. Ci
addentriamo lungo canali tortuosi, invasi dalla vegetazione.
L'acqua è bassa e a volte il fondo della canoa sfrega contro
tronchi sommersi. Sul fondo si scorgono numerosi pesciolini.
La guida pagaia seduta sulla prua, accanto ha un fucile
Risciacquando il pesce
caricato a pallettoni. Alle 11.16 attracchiamo all'imbarcadero
dove, per aiutare la signorina Dina a sbarcare, scivolo
malamente sull'argilla più viscida di una buccia di banana. Ormeggiata la canoa ci addentriamo
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nella selva. In dieci minuti arriviamo al nuovo accampamento. Accampamento è una parola grossa
per definire due tettoie di foglie, molto spartane. Sorgono al centro di una zona disboscata dove gli
alberi sono stati tagliati a circa un metro da terra. I tronchi sono stati lasciati dove sono caduti e
sommariamente bruciati per eliminare rami e fogliame. Il tempo di sistemare lo scarso bagaglio (le
vettovaglie) e alle 11.36 iniziamo l'escursione nella selva. Alberi, alberi e alberi. Siamo circondati
da un'infinita varietà di piante; non ce ne sono due uguali cresciute vicine.
Pochissimi fiori, qualche fungo, farfalle, formiche e insetti vari.
La guida si sofferma a parlarci di alcune particolari specie vegetali. Scopriamo il “luzcaspi” (dallo
spagnolo luz, luce e la parola indigena caspi, bastone) un alberello dal tronco bianco che di notte
diventa luminescente.
Paujilhuasca
Chambirahuayo
C'è la “chambira”, una palma le cui foglie servono per intrecciare borse e amache; il
“chambirahuayo”, frutto di questa palma, ha le stesse dimensioni di un uovo. Ha la scorza verde,
tolta la quale si trova un guscio rotondo, duro, simile a una noce liscia. Dentro c'è del liquido
zuccherino avvolto da una polpa bianca, tenera e commestibile. Ci fermiamo proprio sotto a uno di
questi alberi. La guida si costruisce una specie di lungo rampino utilizzando rami e liane, si
arrampica agilmente su un albero vicino, aggancia le fronde della palma e le scuote con energia.
Una pioggia di frutti corona i suoi sforzi. Il mio coltello da sopravvivenza si dimostra ottimo per
aprire i chambirahuayo. Dopo aver mangiato la polpa e bevuto il succo ne raccolgo alcuni con
l'intenzione di portarli a casa.
L'esplorazione prosegue, la guida ci mostra una radice usata dai nativi per pescare. Si chiama
barbasco, viene schiacciata per estrarne la linfa e questa, versata in acqua, tramortisce i pesci che si
trovano nelle vicinanze. Sembra sia efficace solo per le creature a sangue freddo, mentre non ha
alcun effetto sull'uomo.
Una liana assai interessante e utile è senza
dubbio la “paujilhuasca” (il paujil è un uccello e
huasca significa corda o liana). È chiamata così
perché il suo frutto è simile al cuore del paujil.
L'interno dai larghi anelli concentrici crema e
rossicci contiene abbondante succo dal delicato
sapore zuccherino. La guida, con un paio di
colpi di machete, ne taglia un pezzo lungo circa
un metro, lo scuote e ci fa bere: c'è liquido a
sufficienza per dissetarci tutti e cinque.
Chiedo se conosce il palmito. Nessun
Bevendo dalla paujilhuasca
problema. Ci porta sotto una palma altra circa
quattro metri, dal tronco grigio chiaro e liscio. Si chiama “chonta” e il palmito è il cuore della
palma, cioè le foglie giovani, non ancora formate che si trovano al centro della chioma. Voglio
assaggiarlo? Perché no? Visto che il palmito in latta mi piace molto, son curioso di provare che
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sapore ha quello naturale. Detto fatto: con quattro colpi di machete Helio butta giù la palma. Ci
rimango malissimo. Pensavo si arrampicasse fino in cima e tagliasse un pezzetto, non certo che
abbattesse l'intero albero! Helio continua l'opera: apre la parte superiore della palma e ne estrae una
specie di tubo marrone, lungo più di un metro. Comincia a togliere strati, come se avesse in mano
un rotolo di fogli, fino ad arrivare al cuore vero e proprio, bianco a molle, del diametro di un grosso
asparago. Lo spezzetta e ce lo dà da mangiare... meglio quello in latta, ha più sapore.
Si continua con la lezione sulla flora: la corteccia del “ninacaspi”, ci spiega la guida, colora la
pelle e viene usata dai nativi per i loro tatuaggi. Ci raccomanda di prestare attenzione quando
passiamo troppo vicino alle piante: ci sono formiche che vanno su e giù e alcune sono molto
pericolose: a dimostrazione ne cattura una grossa quanto un fagiolo; è una “isula”. Il formicone si
agita e dall'addome esce un pungiglione lungo un centimetro dal quale sprizza una goccia di liquido
trasparente: è un veleno che, se inoculato, provoca dolori fortissimi. Ma c'è anche di peggio: la
“tangarana” è una formica che si sposta in gruppi di milioni di individui divorando tutto quanto
incontra nel suo cammino, animali e uomini compresi.
Alle 13.27 iniziamo il cammino di ritorno e alle 14.15 arriviamo all'accampamento per il pranzo.
Giornata splendida, brilla il sole. Si pranza con riso, fagioli, tagliatelle con uovo, patate fritte. Da
bere, aranciata. Alle 16.55 comincia a calare il buio, siamo pronti per la camminata notturna.
Portiamo le pile, ma solo per precauzione, la guida, infatti, sembra vederci perfettamente anche
nella più completa oscurità. La camminata notturna è davvero un'esperienza straordinaria. Attorno a
me vedo solo nero, i miei compagni, davanti, sono ombre indistinte. Le chiome degli alberi si
chiudono sopra di noi come un velo e solo raramente lasciano filtrare la luce di qualche stella. Di
quando in quando, però, emerge dal buio la spettrale luce di un “luzcaspi”. Incredibile, la guida
solleva delle foglie e ci mostra la fantasmagorica luminosità di certe muffe.
Accampamento nella selva
Ci sediamo per una breve pausa vicino al tronco di un
albero. La luce di una pila illumina un serpentello nero e
giallo, non più grosso di un dito e lungo una quarantina di
centimetri, che striscia tra foglie e radici. Specie velenosa:
la guida si affretta a ucciderlo, e sono necessari numerosi
colpi di machete perché il rettile sembra dotato di una
Vicino al lago Sunimiraño
straordinaria vitalità.
Riprendiamo la marcia quando la guida si ferma
all'improvviso: ha avvertito la presenza di un uccello davanti a noi. Stento a crederlo. Uno svizzero
commenta a voce alta, gli fa eco un frullo d'ali che si perde lontano. L'uccello c'era davvero. La
guida decide di seguirlo per cacciarlo. Non so come ci riesca. Abbandoniamo quello che forse era il
nostro collaudato sentiero e seguiamo Helio Navarro Acho nell'avventura. Camminiamo
nell’oscurità a pile spente. Ad un tratto Helio ci fa fermare: la preda è proprio davanti a noi, ci
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assicura parlando a bassa voce.
Silenziosamente facciamo capannello attorno a lui. Alla luce di una pila tenuta bassa, prende una
cartuccia, toglie la borra, estrae gran parte dei pallettoni (sono grossi come piselli, adatti per i
coccodrilli, non certo per gli uccelli) e, con la cartuccia modificata, carica il fucile. Ci guida le mani
che impugnano le pile in una certa direzione (io continuo a vedere solo buio) e ci dice di accenderle
a un suo ordine.
Punta l'arma. Luce! Cinque torce si accendono contemporaneamente. E sorprendono una specie di
polletto accovacciato su un ramo. Risuona uno sparo e il polletto si disintegra. Ci son piume e
frammenti d'uccello dappertutto.
Riusciamo a raccattare una coscetta con attaccato un pezzo d'ala.
Jhon, con voce lamentosa, protesta: « Helio, stasera ti avevamo chiesto di vedere alcuni animali,
ne abbiamo visti due e sono entrambi morti! »
Alle 20.05 intraprendiamo la via del ritorno e alle 9.05 arriviamo all'accampamento. Per cena c'è
pane, un uovo fritto e una tazza di tè.
Alle 23 siamo tutti sotto le zanzariere, cullati dai canti di invisibili uccelli.
Venerdì 22 settembre
Mi sveglio alle 5.45. Il sole è già spuntato. Accendo il registratore per il canto degli uccelli al
mattino. Lontano scorgo due scimmiette che saltellano sui rami. Faccio a tempo a scattare un paio
di foto prima che spariscano. Alcuni pappagalli fanno colazione coi frutti di un albero. Cammino in
mezzo alla selva e raggiungo l'ansa di un fiume, quando torno indietro perdo il cammino. Mi guardo
attorno e vedo solo alberi e cespugli. Torno lentamente sui miei passi fino a ritrovare quello che
sembra un sentiero, ma è solo un'illusione: mi sono proprio perso, eppure sono certo di non essere
molto lontano dall'accampamento che, secondo i miei calcoli, dovrebbe trovarsi sulla mia destra.
Non sono però certo al
cento per cento, quindi,
muovendomi, non vorrei
peggiorare la situazione.
Sto pensando a quale
strategia adottare quando,
a pochi metri da me,
scorgo la guida.
Avevo intuito la giusta
direzione;
raggiungo
Helio e assieme torniamo
all'accampamento. Intanto
anche gli svizzeri si sono
alzati. Facciamo colazione
con soltanto una tazza di
tè. Ci aspetta una nuova
attraversata della selva e
Helio è impegnato a
Inferno verde o paradiso?
Navigazione nella selva
cucinare gli spaghetti.
Come condimento ci sarà
la coscetta dell'uccello cacciato ieri notte. Cotti gli spaghetti, vengono infilati in un sacchettino di
nylon. Saranno il nostro pranzo. La cosa è preoccupante. Visto che porto sempre lo zainetto, avrò
l'incarico di trasportarli fino ad allora.
Alle 7.16 siamo pronti e c'incamminiamo. Pochi minuti dopo, in una radura, un tucano svolazza
ignaro e tranquillo sopra le nostre teste; Helio spara (ma sarà commestibile?) e lo manca, con
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grande sollievo degli svizzeri. Continuiamo per un esile sentiero fangoso, superando i numerosi
corsi d'acqua su malsicuri ponticelli quando la guida s'irrigidisce: dice di aver sentito un animale.
Poco prima assicura di aver visto un cervo. Non vedo niente ma c'è da credergli.
Sono le 10.15 quando arriviamo alla “cocha”
(lago) Urcomiraño (in pratica “dove si vedono
gli urco”; “l'urco” è un rapace a mezza via tra
un falco e una civetta). Ci aspetta una canoa in
pessimo stato, oltretutto è piccola e tutti non ci
stiamo. Bisognerà fare due viaggi. Col primo
parto io assieme a Markus.. Mi siedo sul fondo
che fa acqua, così mi bagno i pantaloni. Pagaia
Helio, ovviamente. Alle 10.23 sbarchiamo su
una spiaggetta. Dobbiamo essere nelle vicinanze
di qualche villaggio perché tra la vegetazione
spuntano i tetti di alcune capanne e, nell'acqua,
Le canoe affittate
vicino a dei tronchi, due bambini stanno facendo
il bagno. In attesa del resto della compagnia mi
butto di pancia sperando che il sole mi asciughi. Una volta riuniti proseguiamo fino alle 11.20
quando facciamo sosta all'ombra di una grande “maloca” (capanna). La costruzione poggia su una
palafitta di grossi tronchi ed è molto spaziosa. L'ambiente è unico, la struttura è fatta di tronchi, il
pavimento di legno di palma. Non ci sono pareti. Il tetto è a due spioventi molto inclinati, ricoperto
di foglie di palma intrecciate. Alle 12.00 si pranza. Tiro fuori il sacchetto con gli spaghetti. A prima
vista l'aspetto non è dei migliori. All'interno del sacchetto si è formata una preoccupante condensa
che impedisce di valutare il contenuto. All'apertura, gli spaghetti, agitati da circa quattro ore di
cammino alla temperatura prossima ai quaranta gradi, sono diventati grossi come asparagi e
sembrano affogare in una specie di budino pallido e colloso. Per un'equa distribuzione del rancio
vengono usati altri sacchetti di plastica, evidentemente non era previsto l'uso di piatti. Al primo
boccone provo l'intenso desiderio di vomitare. Per fortuna nello zainetto scovo l'ultima lattina di
tonno: la svuoto sulla pasta colloidale e con pazienza e molto autocontrollo riesco a mandarla giù.
Alle 12.13 riprendiamo il cammino, attraversiamo delle disordinate piantagioni di banane e
arriviamo alla vicina comunità yagua. Dentro
una “maloca” un anziano in gonnellino e
copricapo di paglia rossiccia è intento a
intrecciare un cesto utilizzando sottili fibre di
palma. Una giovale donna
se ne sta
mollemente appoggiata a un tronco che
sostiene il tetto e una mezza dozzina di
bambine ci osserva in silenzio.
Seduti sull'uscio di un'altra “maloca” alcuni
giovani non sembrano particolarmente felici
di vederci. La guida da loro vaghe
informazioni su di noi, afferma che siamo
Tramonto nella selva
tutti peruviani e, cosa più importante, che
non abbiamo un soldo in tasca. Per 5 inti
contratta un ananas. Trovo la sottile fetta che mi tocca davvero deliziosa.
La guida contratta un paio di canoe per raggiungere l'imbarcadero dove, al mattino, abbiamo
lasciato l'imbarcazione grande. Parla con un personaggio che si qualifica come il maestro della
comunità. L'uomo esibisce una impressionante dentatura dorata, abbagliante sotto i raggi del sole, e
rotea un fischietto di metallo dono, dice, di una precedente comitiva di turisti.
Le contrattazioni arrivano a buon fine. Avremo due imbarcazioni a disposizione. Sono le 12.57
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quando lasciamo il villaggio. Su lago ci aspettano due canoe, alla pagaia due giovani donne. Una
indossa un vestitino bianco, leggero, lungo, semplice, con fiori gialli stampati, la seconda un vestito
di tessuto un po' più grezzo, color arancione. Salgo con quest'ultima. La giovane pagaia con energia
e tutto fila liscio finché, distolta l'attenzione dal bel panorama, mi accorgo che la canoa sta per
affondare. Infatti si è pericolosamente riempita d'acqua fin quasi al bordo. Preoccupato, anche
perché siamo in mezzo al lago e ben lontani dalla riva, avverto la signora. Per nulla preoccupata, la
giovane smette di remare, inclina l'imbarcazione spostando il peso del corpo, afferra un mezzo
guscio di una noce di cocco e, usandolo a mo' di sassola, con incredibile velocità svuota lo scafo.
Per tutto il resto della traversata mi dimentico del paesaggio e passo il tempo a buttar fuori acqua,
anche perché, ad aggravare la situazione, ci pensa un improvviso acquazzone.
Alle 14.34 attracchiamo a una insenatura. Da qui ci aspetta circa un'ora di cammino: è l'ultimo
tratto di selva che ci separa dalla nostra canoa. Alle 16.43 c'imbarchiamo. Traversata tranquilla
mentre il sole, pian piano scende all'orizzonte. Sul lago incrociamo alcuni pescatori. Pescano con
sistemi molto rudimentali: un ramoscello con uno spago e un chiodo ricurvo come amo.
L'attrezzatura è sufficiente, vista l'abbondanza di pesce. Mi stupisce come, da notevole distanza,
riescono a comunicare con la nostra guida. Anche Helio parla a voce talmente bassa che io, seduto
dietro, faccio fatica a percepire. Pronunciano le parole in modo molto singolare: forte la prima
sillaba e in maniera quasi inintelligibile il resto. Mi rendo conto che, vivendo nella selva, hanno
sviluppato i sensi in maniera assai diversa da noi “civilizzati”.
Mentre il sole tinge il cielo di arancione arriviamo alla base. Sono le 17.30. Bel tramonto
infuocato, mi attira la sagoma di un albero che si staglia contro le nuvole dorate evidenziando i
lunghi nidi degli oropendoli.
Si cena con zuppa fatta con i resti
dell'uccello cacciato la notte
precedente, patate, riso, fagioli,
insalata di patate, cipolle e “nabo”
((rapa). Per finire, pesce.
Finita la cena Helio ci racconta
qualche episodio della sua vita. A
otto anni, seguendo una scimmia
che doveva servire da pranzo per
lui e la famiglia, si perse nella
selva. Venne catturato dagli indios
campa i quali lo tennero
prigioniero per molto tempo. Per
evitare che scappasse lo tenevano
legato giorno e notte. Per
mangiare veniva imboccato da
Cala la sera
Cheese... come non farsi la foto col una donna, anch'essa rapita. Pur
simplatico coccodrillino?
desiderosa di tornare dai suoi,
questa non osava liberare il
ragazzo, nonostante le sue suppliche, né, tanto meno, affrontare la selva da sola. Col tempo Helio
riuscì a conquistare la fiducia della tribù; venne liberato ma, pur partecipando alla vita comune,
pensava sempre a come fuggire. Il problema era che ignorava esattamente dove si trovava e quale
era la via per tornare a casa. Si mise d'accordo con la donna: bisognava solo attendere il momento
propizio. L'occasione si presentò durante un attacco a una “chacra” (fattoria) per procurarsi delle
donne. Mentre i guerrieri della tribù attaccavano, Helio e la donna fuggirono.
Tornato a casa, quando ebbe l'età richiesta, si offrì volontario per entrare nell'esercito. Era l'unico
modo per imparare a leggere, a scrivere e a rendersi conto di com'era il mondo oltre la selva. Venne
mandato nella zona di Uchiza e Tocache, regno incontrastato dei narcotrafficanti.
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Di giorno la guarnigione militare viveva asserragliata nelle baracche della caserma; di notte i
soldati uscivano a scavarsi delle buche dentro le quali dormire, mentre i narcotrafficanti
bersagliavano il campo con bombe e raffiche di mitra.
Questa sarà l'ultima notte nella selva. Domani pomeriggio saremo a Iquitos. Prima di ritirarmi a
meditare sotto la mia zanzariera decido di lavare la camicia. La indosso da quattro giorni, è
impregnata di polvere e sudore e l'odore non è certo di violetta: una risciacquatina non può farle che
bene. In equilibrio sullo stesso tronco su cui giorni prima la moglie di Cesar lavava il pesce, mi
dedico a insaponare e strizzare il pesante tessuto di jeans, sperando che piraña e coccodrilli non si
trovino nei paraggi.
Al termine dell'operazione sono un po' preoccupato: riuscirà ad asciugare per domani mattina? La
notte nella selva è alquanto umida. Nessun problema, basta stenderla sopra il fuoco, mi suggerisce
Helio: il calore delle braci sarà sufficiente. Stendo la camicia sopra una cordicella tesa sopra il
focolare. Helio me la sistema per benino e mi assicura che per domani sarà a posto. Non sarà un po'
troppo bassa? obietto. Assolutamente no, mi spiega la guida. Col tempo le braci si estingueranno e il
loro calore diminuirà. Mi fido e vado a letto tranquillo.
Sabato 23 settembre
Sveglia alle 5.30. Sopra il
focolare la mia camicia è
ancora umida, orribilmente
strinata, impregnata di fumo e
puzzolente come non mai.
Impossibile indossarla. La
sigillo per bene dentro un
sacchetto di plastica, vado in
riva al lago per scattare
qualche foto e registrare il
canto dell'oropendolo.
Alle 6.00 tornano Helio e
Cesar da un'abbondante pesca.
Tra i molti pesci hanno
catturato alcuni piraña e un
coccodrillo di oltre mezzo
metro. Cesar prepara il pesce,
Cesar pulisce il pescato
Coccodrillo alla griglia
sua moglie frigge la yuca,
Helio squama, pulisce e cuoce
il coccodrillo sulla griglia. Ci sono tutti gli ingredienti per una abbondante colazione. La carne di
piraña e quella di coccodrillo sono bianchissime, tenere ma insapori; forse dipende la cuoco, dalla
mancanza di sale e olio. Quella di piraña, inoltre, ha una quantità incredibile di spine. La yuca fritta
è davvero ottima quando è calda: il gusto assomiglia molto a quello delle patate fritte; quando è
fredda, però, diventa dura e gommosa. Si continua la colazione con riso, frittatine e caffè. Il cielo è
un po' velato. Si prevede di essere a Iquitos per le 14.30.
Lasciamo l'accampamento alle 9.10, c'imbarchiamo e attraversiamo per l'ultima volta il
Sunimiraño. Alle 9.45 approdiamo e attraversiamo la selva fino a raggiungere il Napo. La
tranquillità della camminata viene interrotta dalle strida acute di alcune scimmie: tra il folto delle
chiome sembra stia svolgendosi una lotta. Scruto in alto, ma non riesco a vedere niente.
Il “tanamurì” è un frutto dalle dimensioni di una ciliegia, con la buccia rugosa color arancione
carico. La polpa è morbida e dolcissima. Ne troviamo alcuni per terra, tra le foglie, caduti da un
albero vicino, peccato siano pochi perché sono veramente deliziosi.
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Alle 10.20 arriviamo al Napo. Il motore della lancia fa le bizze, ma poi si ravvede e ci porta
sull'altra sponda, alle 11.21 ormeggiamo a Mazan. Dopo una breve sosta, alle 11.40 ci mettiamo in
cammino per raggiungere il Rio delle Amazzoni, dove arriviamo alle 12.21. Altra breve sosta prima
di imbarcarci per Iquitos. L'agenzia offre una Pepsi e un panino. Alle 12.42 si avvia il motore e
risaliamo la corrente, mentre dietro di noi si gonfiano preoccupanti nuvoloni scuri carichi di
pioggia. La vicinanza di Iquitos si annuncia con l'aumento di abitazioni, carcasse di imbarcazioni e
cumuli di spazzatura lungo la riva. Gruppi di pescatori stanno tirando su le reti e il nostro motorista
si ferma per comperare del pesce. Arriviamo in città alle 15.33, prima tappa all'agenzia per ritirare
le mie cose e firmare il librone egli ospiti.
Giretto per la città prima del buio e in gelateria per un gelatone di “unguramui” (5.000 inti). Alle
17.20 chiedo una stanza all'hotel Loreto. Mi danno la 406 dove scopro la serratura rotta e il bagno
allagato. Protesto e mi danno la 405; è a posto ma manca l'acqua. Si suppone che, come al solito,
arriverà più tardi. Devo lavarmi e, soprattutto, lavare la camicia: puzza tanto che sono costretto
tenerla appesa fuori, legata alla ringhiera del terrazzino. Sono in trepida attesa per l'arrivo dell'acqua
quando arriva Jhon. Lui, con gli amici se ne andrà domani mattina, ha dato una mancia a Helio e mi
propone, come segno di ringraziamento, di invitarlo a pranzo per domani. Accetto volentieri.
Alle 19,41 ecco l'acqua. Mi butto subito sotto la doccia, m'insapono e l'acqua se ne va, riesco a
malapena a risciacquarmi con le ultime gocce.
Alle 20.45 esco a pranzare al Todo Tuyo: due sandwich col formaggio, torta di mele e succo
d'ananas (12.000 inti).
Alle 21.30 ritorno all'hotel. Niente acqua. Per non rischiare di dimenticarmi la camicia mi faccio
un appunto bello grande sul diario: LA CAMICIA È FUORI DALLA FINESTRA.
Domenica 24 settembre
Sveglia alle 8.00 con tempo incerto.
Ancora niente acqua. La camicia,
nonostante una notte all'aperto, puzza in
maniera indecente. Dal terrazzo scatto un
paio di panoramiche. Sulle case svetta
l'agile sagoma del campanile e, poco
distante, incombe il tozzo scheletro di un
edificio a più piani, un sinistro
parallelepipedo di cemento, sigillato e
lasciato incompiuto. Il terreno argilloso
stava cedendo sotto l'enorme peso della
costruzione. Ancora una volta, anche se la
Iquitos di notte
certezza di rimanere inascoltati è assoluta,
si potrebbe fare la morale sull'inutilità di
certe opere dettate dall'arroganza, dalla mania di grandezza e dalla voglia di speculazione. La
natura, a modo suo, si vendica.
Ore 8.30, colazione con un sandwich al formaggio e uno all'uovo, torta di limone e un succo
d'arancia. (12.000 inti).
Esce il sole e ne approfitto per scattare qualche fotografia in città e all'interno della chiesa. Mentre
sto tranquillamente passeggiando vengo avvicinato da un anziano signore, il quale mi propone un
tour avventuroso fin quasi ai confini col Brasile per visitare una particolare tribù di nativi: tempo un
mese, costo duemila dollari. Gli spiego che oggi è il mio ultimo giorno in città. Peccato, a parte il
costo per me proibitivo, quella proposta mi sembrava interessante.
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Passo per l'agenzia per salutare Helio e invitarlo a pranzo, ma è occupato con dei turisti così
tornerò più tardi. In un bar provo un “refresco de cocona” (1.000 inti) quindi ripasso per l'agenzia.
Helio è libero e non ha ancora fatto colazione. Gli offro la colazione nel vicino bar e, siccome
l'avevo trovato ottimo, mi faccio portare un altro succo di cocona (6.000 inti).
Azulejo
Azulejo
Helio accetta l'invito a pranzo e mi chiede cosa ho intenzione di fare in mattinata. Penso di visitare
Belén; anche se siamo in periodo di magra è sempre un quartiere interessante. Insiste per
accompagnarmi perché, dice, può essere un posto pericoloso. Insiste tanto finché, seppur a
malincuore, acconsento.
La prima cosa che mi colpisce di Belén è l'enorme quantità di banane ammonticchiate un po' su
tutti i moli: banane gialle, verdi, grandi oppure minuscole. I grappoli enormi, appoggiati per terra,
con i lunghi manico curvi in aria sembrano uno stormo di strani cigni. Non ci sono solo banane: si
Lo stesso nel '69. Con l'amico Jorge Barrantes e
io
vedono cataste di grossi tuberi, mucchi di
ananas, ceste di pesci. Belén è anche un grande
mercato.
E poi le barche, di ogni forma e dimensione,
dalle semplici canoe ai barconi a più piani, e le
case, tutte rigorosamente in legno, quasi tutte col
tetto di foglie intrecciate; case su palafitte, su
zatteroni galleggianti o adagiate sbilenche lungo
le rive, dove le ha sorprese il ritiro delle acque.
Monumento ai caduti della guerra del Pacifico
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Case strane, ibridi stupefacenti tra abitazione e imbarcazione. E tronchi, sottili, contorti, colossali;
servono come scale, passerelle, sostengono le costruzioni, spuntano dall'acqua, fanno le veci di
briccole e ponti. Sull'acqua marrone galleggia di tutto. Con quell'acqua la gente prepara da
mangiare, si lava, lava, risciacqua, fa il bucato, vi fa il bagno, nuota.
Belén
Belén
Come a Venezia gli unici mezzi di trasporto sono la barca e i piedi. I colori predominanti, il grigio,
il verde e il marrone, sono rotti dalle macchie sgargianti dalle vaschette di plastica e dei panni stesi
ad asciugare. Su una selva di aste sottili garriscono le bandiere rosse e bianche del Perù. Povertà e
patriottismo si mescolano. Tutto questo è Belén.
Per 3.000 inti affittiamo una canoa e Helio mi scarrozza tra le case galleggianti. Al ritorno compro
un ananas. Con un affilato coltello il venditore me lo sbuccia, lasciandoci un pezzo di manico a mo'
di comoda impugnatura. Ottimo e succoso (1.500 inti).
Torno all'hotel perché devo lasciare libera la stanza prima di mezzogiorno (10.000 inti). Alle 11.50
esco con Helio alla ricerca di un ristorante. Lascio a lui la scelta. Il Manguare non è certo un
ristorante di prima categoria e non si spreca certo con il lusso, anzi, ha un po' l'aria equivoca di
posto malfamato. Il mangiare, però, sembra sia eccellente. Ordiniamo una Pilsen e due “paiches con
platanos fritos” (pesce con contorno di banane fritte). Arrivano due piatti col paiche sommerso dalle
fette di banana fritta, e due generosi pezzi di “camote”, una specie di patata dalla pasta arancione,
dolce e molto saporita. Ottimo pranzo: trovo il connubio pesce-banana fritta davvero eccezionale. Il
conto è di 25.000 inti.
Fuori, intanto, il tempo sta cambiando: nel
cielo si sono addensati minacciosi nuvoloni
scuri. Alle 12.42 piove. È ora di sganciarmi
da Helio. Voglio andarmene in giro un po' per
conto mio. L'impresa, però, è tutt'altro che
semplice: Helio risulta molto appiccicoso e
insiste
nel
volermi
accompagnare
dappertutto. Mi viene il sospetto che voglia la
mancia. Con la scusa che devo assolutamente
andare all'aeroporto, lo saluto, salgo sul
primo autobus che passa e scendo a San Juan.
All'entrata c'è una bancarella dove una
ragazza vende spremute e frutti di “mamey”.
Belén
Il “mamey” o “pumarosa” è un frutto simile a
una mela un po' allungata, la buccia è color
rosa carico, quasi fuxia, la polpa bianca ha un sapore gradevole. Per curiosità ne provo uno (500
inti).
San Juan è una comunità a pochi chilometri dal centro, una specie di fiera con molti negozi di
artigianato locale. Si possono trovare oggetti molto interessanti e, a mio parere, meno paccottiglia
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per turisti come in centro a Iquitos. Acquisto due maschere in legno di balsa e fibra di palma
(50.000 inti) e un buon numero di collane. Ce ne sono di davvero belle: sono fatte con frutti e semi
della selva; alcune con denti di chissà quali animali: ne compro un paio con appesi piccoli crani di
scimmia. Totale 47.000 inti. Compro pure quattro tartarughine in terracotta da regalare agli amici
(8.000 inti) e per 10.000 inti settecentocinquanta grammi di “huairuro”. Sono frutti color rosso
acceso con macchie nere, non sono commestibili ma vengono usati come ornamento e portafortuna.
Il tempo non migliora, rimane sempre minaccioso. Alle
15.35 m'incammino per l'aeroporto dove arrivo alle 16.05.
Scopro che non esiste uno spazio per il deposito bagagli.
Per il mio volo è ancora presto, così mi faccio dare un
passaggio (gratis) fino a Santo Tomas. Dentro il cassone
della camionetta si viaggia accovacciati e sballottati a
causa del pessimo stato della strada sterrata. Siamo in più
passeggeri e tra questi un ubriaco con la sbornia triste: si
qualifica come ex poliziotto e minaccia di farmi arrestare.
Non gli faccio caso e scendo a Santo Tomas: è una
piccola comunità, le poche capanne si affacciano lungo la
via principale e la gente si dedica per lo più
all'artigianato. Sta scendendo il buio, faccio un rapido
giro e acquisto due “motelos” (tartarughe) di terracotta.
Alle 18 m'incammino verso Iquitos, mi sono appena
ricordato di aver lasciato la borsetta con i frutti della
Artigianato della selva
“chambira” nella mia camera. Alle 18.22 arrivo all'hotel:
nessuno sa nulla della mia frutta; disgraziati! Di certo se
la son mangiata.
Esco e prendo un mototaxi e alle 18.54 scendo all'aeroporto (8.000 inti). Al check-in la coda è
lunghissima, nell'attesa registro un po' di rumori e la musica di un trio.
Alle 19.40 finalmente arriva il mio turno: mi vogliono dare un biglietto per un volo diretto a Lima
con Faucett, ma sembra che l'aereo stia ritornando a Lima a causa del cattivo tempo. Attimi di
suspence. Alle 19.53 mi confermano il volo 527 con Aeroperu Iquitos-Pucallpa-Lima.
Fuori, intanto, è scoppiato un furioso
temporale: tuoni, lampi e violenti scrosci di
pioggia. Alle 20.08 una voce annuncia che
il volo Aeroperu per Lima è annullato:
bisognerà presentarsi domani alle 7 del
mattino per volare (forse) con Faucett.
Faccio fare il trasferimento del biglietto alla
nuova compagnia e me ne torno in città col
primo bus (450 inti). Provo a chiedere una
camera all'hostal Libertad: 20.000 inti sono
troppi, così me ne torno al Loreto dove
spendo la metà (10.000 inti). In hotel non
c'è elettricità, speriamo arrivi presto.
Aeroporto di Iquitos
Lascio i bagagli ed esco per tentare di
telefonare ad Ada per avvertirla del mio
ritardo, dovuto alla cancellazione del volo. Percorro tutto il jiron Prospero, imbocco il sargento
Lores quando ha luogo un “apagon general”: in tutta la città viene a mancare la corrente. Niente
panico, la gente vi è abituata: si accendono candele e lampade a carburo. Riesco a raggiungere un
centro telefonico dove compero due “rines” (gettoni del telefono) per 3.000 inti. Mi risponde
Robertito Manuel... Solo allora mi rendo conto quanto sia difficile spiegare a un bambino di quattro
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anni l'urgenza di parlare con un adulto prima che mi finiscano i gettoni, senza provare un fortissimo
desiderio di strozzarlo. Finalmente Robertito si decide, faccio appena in tempo a parlare con
Alfredo e mi finiscono i gettoni.
Cena al Todo Tuyo: un toast al formaggio, un porzione di crostata di mele e una Fanta mi costano
10.500 inti.
Alle 22.10 torno all'hotel. Non sono riuscito a lavare la camicia, così, per la seconda notte la lego
alla ringhiera della terrazza.
Lunedì 25 settembre
Sveglia alle 5.30. L'acqua c'è ma mi manca il tempo per lavare la camicia il cui fetore non è affatto
diminuito. Mi rassegno a viaggiare a Lima in canottiera. Alle 6.30, in plaza 28 de Julio, salgo
sull'autobus e alle 7.02 arrivo all'aeroporto (450 inti).
Fuori piove, dentro c'è un gran casino. Non si sa se e quando ci saranno voli. Alle 9.15 mi rilasso
prendendo un tè al ristorante dell'aeroporto (2.350 inti). Caro!
Intanto avvisano che l'aereo di Faucett non atterrerà a causa del maltempo e se ne sta già tornando
a Lima.
Alle 11.03 chiamano per il check-in solo i passeggeri che dovevano partire ieri; nella lista ci sono
anch'io. Alle 11.16, (oh gioia!) completo il check-in per il volo delle 13.00. Devo pagare le tasse
aeroportuali (derechos CORPAC), sono 5 dollari, oppure 26.000 inti. Pago in inti dopodiché vado
nell'ufficio Foptur e mi faccio dare alcuni depliant turistici.
Alle 12.40 sono sulla terrazza dell'aeroporto quando atterra un quadrimotore della Millon Air. Sarà
questo il mio aereo? No, quindici minuti dopo avvertono che il mio aereo deve ancora partire da
Lima. Grande malumore tra i passeggeri. Esco e mi siedo su una panchina con vista sulla pista di
atterraggio. Seduto accanto a me un giovane in camicia bianca e pantaloni scuri attacca discorso:
traffica in droga, casomai avessi bisogno di un po' di coca... Poi chiede se ho modo di procurargli un
revolver, meglio se Smith & Wesson, perché a Iquitos sono carissimi, sui 10.000 dollari,
m'informa... Ma per chi mi ha preso? penso.
Alle 13.52, annunciano un volo extra per Lima, previsto per le ore 15.00. Intanto è uscito il sole.
Pranzo al ristorante dell'aeroporto: insalata di frutta (papaya e melone) e un tè (13.400 inti).
Sono le 15.04 quando entro in sala d'attesa; un minuto dopo atterra l'aereo. Alle 15.25 sono seduto,
cintura allacciata e pronto per il volo. L'aereo rulla sulla pista, una hostess dà il benvenuto a bordo
del jet 737 al comando del capitano Alzamora, spiega come utilizzare le varie risorse in caso di
emergenza e, dopo qualche secondo, annuncia che siamo costretti a tornare per una non ben
specificata
manutenzione.
Una
sonora
esclamazione di disappunto accoglie le ultime
parole. L'aereo fa dietro front mentre tra i
passeggeri circolano le ipotesi più azzardate.
Niente di grave, sembra, infatti dopo pochi minuti
l'aereo decolla e si libra sopra la fitta selva
amazzonica.
Alle 14.15 viene servita una porzione di un dolce
simile al panettone e un bicchiere di “chicha”. Se
si esclude qualche leggero sobbalzo il volo è assai
tranquillo; alle 17.13 si atterra a Lima.
Pisco: iglesia Matriz
Affronto l'uggioso clima della capitale in
canottiera; esco dall'aeroporto, salgo sul bus della
linea 11 e scendo in plaza Bolognesi (450 inti). A piedi vado all'agenzia Ormeño (av. Carlos Zavala
177). Domani ho intenzione di viaggiare a Pisco. Voglio conoscere il famoso “candelabro” e le isole
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Ballestas. La partenza è per le 7.30 e il biglietto costa 7.650 inti.
Il bus N°2 mi porta lungo l'Arequipa (450 inti); quando scendo proseguo a piedi fino alla casa di
Ada e Roberto. Sono le ore 20.30. Bevo un tè, mi faccio la doccia, preparo lo zaino per domani,
telefono a Jeanett e alle 22.10 vado a letto.
Martedì 26 settembre
Sveglia alle 5.55. Colazione con pane, uova e tè. Alfredo mi porta in auto fino all'agenzia Ormeño.
Partenza alle 7.50, tempo uggioso. Usciamo da Lima e imbocchiamo la Panamericana Sud. Alle
Pisco: chiesa della Compañia de Jesus
Pisco: il municipio
9.30 ci fermiamo a Pucusana per il controllo della Guardia Civil. Altra sosta a Bujama per il
pagamento del pedaggio. Alle 10.11 arriviamo a Cañete, un'ora dopo passiamo Chincha. Ci
fermiamo per fare carburante mentre esce il sole. Alle 11.49 l'autobus, giunto all'alteza di San
Clemente, lascia la Panamericana, svolta a destra e alle 11.55 arriva a Pisco. Faccio subito i
biglietto per il ritorno a Lima per domani (7.650 inti).
Pisco è una cittadina tranquilla, si trova a circa 230 chilometri da Lima e a 4 chilometri
dall'oceano.
A pochi chilometri in direzione sud si c’è la riserva nazionale di
Paracas dove si trovano le necropoli preincaiche. In queste
necropoli sono state rinvenute tombe contenenti mummie con
ricchi corredi di oggetti d'oro, ceramiche policrome e tessuti di
eccezionale qualità.
Più o meno a metà strada è stato eretto
un monumento a ricordo dello sbarco
del generalissimo José de San Martin.
Una squadra composta da otto navi al
comando di Lord Tomas Cochrane era
partita da Valparaiso con 4.500 uomini.
Lo sbarco avvenne l'8 settembre 1820,
segnando l'inizio della campagna
militare contro la Spagna per
l'indipendenza del Perù. Il monumento,
Pisco: l'hostal Callao
celebrato anche in un francobollo
messo in occasione del 150°
anniversario
dell'indipendenza,
rappresenta una nave stilizzata, con l'albero rosso e due appuntite vele bianche.
Di fronte a Pisco ci sono le isole Ballestas, visitabili in barca. All'agenzia “Turismo Ballestas”
(jirón Comercio 166) mi metto in lista per una visita. Il costo è di 20.000 inti, partenza domani
mattina alle 7.00.
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L'hostal Callao ha due piani, si trova in jirón Callao 163 e l'insegna esibisce due stelle. Come la
stragrande maggioranza degli edifici del Perù è dipinta solamente la facciata, con un discutibile
accostamento di rosa confetto e marrone scuro, mentre le pareti laterali mostrano i nudi mattoni.
Una camera, con bagno in comune, costa 6.000 inti. La stanza è piccola e il letto è del tipo “bisogna
accontentarsi”.
Cimitero a San Clemente
Sotto uno splendido sole inizio la visita alla cittadina.
Poco traffico e poca gente per le strade. Sulla plaza de
Armas si affaccia la “iglesia Matriz”, in stile barocco
sorprendentemente semplice e lineare, è dipinta di
bianco e, a differenza delle altre cattedrali, è piuttosto
Cimitero a San Clemente
bassa. A sinistra sorge il palazzo del municipio, assai
caratteristico perché in stile moresco, con la facciata
dipinta a strisce bianche e azzurre. Dietro sorge la chiesa della Compagnia di Gesù, in stile barocco,
dipinta di giallo ocra e bianco, molto bella, purtroppo chiusa.
Al centro della plaza de Armas, ampia e ben curata, tra aiuole e alberi fioriti il generalissimo José
de San Martin, in sella a un rampante destriero, sembra indicare alle sue truppe, con la mano tesa, la
via da prendere.
San Clemente
San Clemente
A parte la plaza de Armas, Pisco non offre molto: lungo le vie dritte e disposte a scacchiera la case
sono quasi tutte a un piano e dipinte con tenui colori pastello.
Compro quattro banane (1.000 inti) e cinque biglietti della lotteria (5.000 inti).
Alle 14.04 salgo su un bus per San Clemente (500 inti). Il mezzo parte dieci minuti dopo, quando
ha fatto il pieno di passeggeri, e ci mette quasi venti minuti per percorrere i sei chilometri che
separano Pisco dal paesetto sulla Panamericana.
San Clemente è un agglomerato di case fatte con mattoni di argilla cotta al sole, tutte a un piano,
pochissime intonacate. Le costruzioni di terra si confondono col terreno su cui sono costruite,
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collinette brulle senza la minima traccia di alberi o erba. Sono costruzioni povere ed essenziali, per
la maggior parte senza tetto (nella zona non piove mai), o con una tettoia di paglia intrecciata per
riparare dal sole. La polvere è ovunque. Unica nota di colore sono i panni stesi ad asciugare.
Lontano, in aperta campagna si potrebbe dire, una sottile linea candida e frastagliata attira la mia
attenzione. Mi avvicino: è un cimitero. Le croci dipinte di bianco, che il sole fa risplendere di un
bagliore abbacinante, spuntano sbilenche dal terreno sabbioso, color ocra, frammiste ai resti di
barattoli ammaccati e schiacciati che ancora contengono fiori ormai secchi, dello stesso colore della
ruggine. Sulle croci, dipinto a mano col colore nero, il nome del defunto. É uno strano luogo: si
potrebbe pensare sia stato abbandonato da chissà quanto tempo se non fosse per alcune tombe
dipinte di fresco, con un bianco accecante e un azzurro intenso. Scatto un bel po' di fotografie: quel
cimitero è davvero suggestivo.
Alle 16.20 ritorno a Pisco (500 inti per il bus). Nove minuti dopo salgo su un pulmino diretto a San
Andrés (350 inti). San Andrés si trova a quattro chilometri, in riva all'oceano e il pulmino ci
impiega circa un quarto d'ora per arrivarci. Siamo prossimi al tramonto, la luce si è fatta dorata,
San Andrés
Ristorantino a San Andrés
Penisola di Paracas: il molo di San Andrés
Il candelabro di Paracas
sulle acque calme dondolano barche e pescherecci. L'aria è satura dell'odore di pesce, il cielo è
pieno di uccelli. Molti i ristoranti, ce n'è persino uno che si chiama Topo Gigio! Tutti, ovviamente,
offrono piatti a base di pesce.
Lascio il paese alle 17.30 (350 inti). A Pisco compro otto banane (2.400 inti), biscotti e cioccolata
(12.800 inti). Alle 18.40, allo Snack Bar, concludo la giornata con una crostata di mele e un tè
(4.500 inti).
Mercoledì 27 settembre
Sveglia alle 5.30. Colazione con banane e biscotti. Per strada compero alcuni giornali (6.900 inti) e
alle 6.50 salgo sul pulmino dell'agenzia per la visita alle Ballestas. Sul pontile ci son già parecchi
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turisti, molti italiani. Riesco a sistemarmi in ottima posizione sulla prua del barcone e alle 7.46 si
parte. L'oceano è molto tranquillo, pacifico, oserei dire. Costeggiamo la penisola di Paracas, con le
sue rocce color ocra a picco sul mare. Gruppi di pellicani ci osservano passare con indifferenza,
appollaiati su spuntoni di roccia marrone spruzzati del bianco dei loro escrementi; le Ballestas sono
famose anche per questo: per molti decenni sono state importanti miniere di guano. Alle 8.30 siamo
in vista del “candelabro”. Adagiato sul fianco di un'altura il candelabro è un geoglifo alto circa 150
metri, largo 50 e profondo 50 centimetri (le effettive misure sono alquanto incerte: alcune
pubblicazioni parlano di un'altezza di circa 200 metri per 60 di larghezza e una profondità che varia
da 1 fino a oltre 3 metri). Sembra rappresentare un cactus con tre braccia, ma la sua funzione è
ancora sconosciuta. Viene messo in relazione con la costellazione della Croce del Sud.
Pian piano la forma del candelabro si svela nella sua totalità. Dapprima è solo una linea chiara
confusa con la sabbia dorata della collina, poi, man mano che la barca avanza in mare aperto, si
distinguono il lungo fusto centrale e i due bracci paralleli uniti alla base da un triangolo. Lungo i
bracci spuntano curiose ramificazioni, mentre la cima del fusto termina con un pennacchio molto
simile a una corona. Il geoglifo è davvero intrigante e ancora di più lo è il mistero della sua reale
funzione.
Isole Ballestas
Isole Ballestas
Isole Ballestas
Isole Ballestas
Mentre attorno a noi pellicani e cormorani si tuffano per afferrare i pesci, a prua, ancora lontane e
avvolte in una leggera foschia appaiono le Ballestas. Sono ancora sagome grigie, affiorano dal blu
del mare e si distinguono appena contro l'azzurro del cielo, ma già si possono osservare i contorni
frastagliati.
La barca si avvicina e i dettagli si fanno più evidenti. Le isole sono spuntoni di pietra tormentati,
intagliati dalle onde che hanno scavato profonde caverne e fantastici archi di pietra. Gruppi di
uccelli affollano le rocce grigie e marrone: sono gabbiani, pulcinelle, sule, rondini di mare,
pinguini, albatri e cormorani o “guanay”, grandi produttori di guano, appunto. Ci sono circa
sessanta specie di uccelli, un vero paradiso per gli ornitologi. Per millenni questi uccelli hanno
11
depositato i loro escrementi sulle rocce; strato su strato gli escrementi hanno raggiunto a volte il
metro d'altezza e costituito un'importante risorsa economica. “El guano de las islas” era esportato in
tutta Europa, usato come fertilizzante. La sua importanza decadde con l'avvento dei fertilizzanti
chimici. Inutile ricordare che il lavoro degli estrattori si realizzava in condizioni terribili: l'odore era
nauseante e le condizioni igieniche inesistenti.
In cielo gli uccelli, soli o a grandi stormi, scrutano il mare in cerca di pesce, quando avvistano la
preda chiudono le ali e le piombano addosso come proiettili,
sollevando alti spruzzi.
Ecco i primi leoni marini: se ne stanno stesi sugli scogli e ci
guardano passare con curiosità. Alcuni si tuffano e vengono a
osservarci da vicino, nuotando nell'acqua di un incredibile
colore verde smeraldo. Il paesaggio è davvero straordinario; le
isole più grandi sono circondate da scogli appuntiti, simili a
denti di squalo, il loro colore rossiccio contrasta col blu del
mare e, sotto il sole, risplende lo strato bianco di escrementi.
La barca prosegue col suo giro. Un alto pontile affollato di
uccelli si protende sul mare, sicuramente serviva per imbarcare
il guano sulle navi. Il barcaiolo dirige la barca verso una
spiaggia sassosa letteralmente ricoperta di leoni marini, dove
un maschio enorme è attorniato da varie femmine. I loro versi
sovrastano il rumore del motore. I turisti si divertono a imitare
quei muggiti... sembrano più animali loro che i leoni marini.
Scatto foto su foto finché, dannazione! esaurisco i rullini.
Alle 11.47 il tour è finito e attracchiamo al molo. Pochi minuti
Isole Ballestas
dopo il pulmino dell'agenzia mi riporta a Pisco. C'è tempo per
un succo di ananas alla “dulceria Tic Toc” (1.700 inti) poi, alle 13.30 parte l'autobus di Ormeño per
Lima.
Ore 14.13 arrivo a Chincha, ore 14.57 si passa Cañete (1.500 inti per un panino col pollo). Alle
15.45 sosta a Bujama per il pedaggio. Arrivo a Chilca alle 16.07 e alle 16.19 sosta per il controllo
della Guardia Civil a Pucusana. Arrivo a Lima alle 17.24.
In Ocoñita per cambiare un po' di soldi. La moneta americana è ulteriormente aumentata, adesso il
cambio è a 5.620 inti. Per 700 dollari mi danno, quindi, 3.934.000 inti. La lira viene cambiata a
3.40, per cui mi danno altri 340.000 inti. É tempo degli ultimi acquisti: da Arvid Johari, ormai una
delle poche gioiellerie rimaste nel jirón de la Unión (Unión 849-851) compero un braccialetto d'oro
(incarico di una mia cugina) per 4.270.000 inti (tasse al 15%) comprese).
Devo telefonare ad Ada e Roberto; compero 5 gettoni (500 inti) per avvisarli del mio ritorno. In
Tacna salgo su un bus fino all'alloggio di Jeanett (450 inti), la quale mi accompagna fino alla casa
degli amici. Dopo cena usciamo per recarci a un piano bar dove Alfredo suona la chitarra e canta.
Si beve e si brinda con pisco sour. Alfredo canta assieme a un paio di amici e non se la cava poi
tanto male. Per finire intonano “Canzone per te” di Sergio Endrigo. Torniamo a casa alle tre. Prima
di andare a letto parlo con Roberto il quale mi assicura che mi restituirà i dollari avuti in prestito.
Giovedì 28 settembre
Sveglia alle 6.00. Alfredo è sparito. Telefono e una segretaria mi comunica che il signor Alfredo è in
riunione. Proverò più tardi, ma già ho un netto presentimento di come andrà a finire.
Salgo in autobus (450 inti) e scendo in centro. Il dollaro è leggermente aumentato, adesso il
cambio è a 5.680. Nel giro di un mese è quasi raddoppiato! La lira, in compenso è stabile. Cambio
500 dollari per 2.840.000 inti e 100.000 lire per 340.000 inti.
Inizio la colazione con un “churro” (1.000 inti) e poi nuovamente in gioielleria da Johari per un
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bracciale per mia cognata (1.962.000 inti) e un anello (495.000 inti). Sempre in Unión, a N° 779, si
trova Disco Centro “su cadena musical”, per 34.500 inti compero “El Minero” una cassetta di Savia
Andina, gruppo musicale boliviano assai noto. La musica l'avevo ascoltata per radio; non mi
ricordavo il titolo, ma ero riuscito a registrarne un brano. Ho dovuto farlo ascoltare un paio di volte
ai commessi, finché uno è riuscito a risalire al titolo.
Uscito dal Disco Centro proseguo la colazione con un altro “churro” (1.000 inti), poi salgo su un
autobus (450 inti) e torno a casa dove Roberto, finalmente, mi restituisce i 400 dollari.
Telefono all'amico Cavassa, in Molitalia, per salutarlo e ad Alfredo, sollecitando, se non gli inti,
almeno i 200 dollari: giura che me li restituirà quanto prima.
Alle 16 torno in centro (450 inti per l'autobus) e cambio i 400 dollari per 2.272.000 inti. Giro per
negozi, da Huamanqaqa un tessuto simile a quello visto in aeroporto costa 350.000 inti. Compero da
un venditore ambulante una carta geografica del Perù (8.000 inti).
Casa Wako si trova in Unión 839 ed è, assieme a Johari e Old Cusco, una delle poche gioiellerie
superstiti della via. A differenza di Johari, specializzato solo in gioielli, in casa Wako si possono
trovare anche oggetti di antiquariato e artigianato, come i tipici lavori in filigrana d'argento che
raffigurano pavoni, pesci e galli da combattimento. Per 550.000 inti compero un anello per una mia
zia.
In autobus alla casa di Jeanett (450 inti), telefono a Frisancho e ci mettiamo d'accordo per trovarci
domani all'aeroporto. Esco con Jeanett e, camminando, raggiungiamo la plaza de Armas. Piazza,
Palazzo del Governo e Cattedrale sono tutti illuminati, ne approfitto per scattare le ultime foto. In
plaza San Martin, all'angolo dell'Hotel Bolivar, ceniamo con vari panini ripieni con pollo. Pago
1.000 inti, il resto lo offre la mia amica. Da Tacna prendiamo un autobus fino a Orrantia e poi un
altro per Salaverry, arrivando così a casa di Ada e Roberto (450 inti). Rimango alzato fino alle 24.45
per preparare zaino e bagagli.
Venerdì 29 settembre
Ultimo giorno in Perù. Sveglia alle 7.30. Finisco si sistemare lo zaino. Alfredo rinnova il
giuramento: nel pomeriggio mi restituirà i dollari. Gli faccio notare che alle 21.30 parte il mio aereo
e che devo presentarmi all'aeroporto almeno tre ore prima.
Esco e vado a Miraflores (450 inti per l'utobus). Mi rimangono ancora parecchi inti da spendere,
ma non ci sono problemi, l'artigianato interessante è tanto e vario; l'unica difficoltà può essere
quella di far entrare tutto nei bagagli. Nonostante molti negozi siano ancora chiusi mi aggiro con
curiosità tra tappeti multicolori, zucche lavorate, retablos giganteschi, sculture di terracotta,
vetrinette piene di farfalle e cascate di collane di semi.
Compero un bellissimo “mate burilado” cioè una
zucca incisa usando una punta arroventata. L'abile
artigiano vi ha raffigurato, con pazienza certosina, un
incredibile numero di animali arrampicati o acquattati
tra i rami di tre frondosi alberi. Vi si possono
riconoscere serpenti, bradipi, scimmie, pappagalli,
gufi, farfalle, felini... la popolazione dell'intera selva.
Il costo è di 35.000 inti, contrattando un po' si scende
a 30.000.
In centro a Miraflores, al N° 580 dell'avenida Larco,
si trova la libreria “La Familia S.A.” Tra i purtroppo
pochi libri d'arte sul Perù, trovo uno splendido volume
“Arte textil del Peru”. Il costo è notevole (190.000
inti), ma ne vale la pena. Le bellissime illustrazioni
mostrano l'incredibile raffinatezza, creatività, gusto e
"Mate burilado"
11
fantasia a cui erano arrivare le varie culture succedutesi in Perù dal 900 avanti Cristo fino all'epoca
coloniale. Si passa dai quasi monocromi tessuti chavin alle complicatissime creature fantastiche che
popolano le tele paracas, dai mantelli di piume nazca alle severe forme geometriche dei mantelli
inca, i cui ripetuti motivi di quadrati, scale e rombi hanno, in più occasioni, suggerito una ancora
indecifrabile forma di scrittura.
Non posso lasciarmi sfuggire un libro così. Pesa, è voluminoso ma il posto dove ficcarlo lo
troverò. Esco col mio acquisto e mi dirigo verso la piazza dove, attorno ai giardini, gli artisti
espongono le loro opere. Voglio vedere se riesco a trovare il quadro visto settimane prima, quello
con la scena del venditore di cappelli. Purtroppo il pittore è assente. Ritenterò nel primo
pomeriggio, ora sono quasi le 11, torno a casa per lasciare un po' di acquisti (450 inti per il bus).
Ada mi comunica che Alfredo ha telefonato un paio di volte. Esco in cerca di una cabina da cui
richiamare l'Alfredo: non posso farlo da casa perché, non avendo pagato le ultime bollette, è stato
sospeso il servizio e le telefonate si possono solo ricevere. Trovo la cabina, chiamo, ma Alfredo non
c'è.
Torno a Miraflores. Al mercato artigianale i negozi son tutti aperti. Compero una gonna ricamata
per mia cognata (75.000 inti) e, spulciando dentro un polveroso scatolone, ho la sorpresa di scoprire
degli oggetti davvero interessanti: si tratta di “tupu” e “illa”.
I tupu sono fermagli usati per
fissare il poncio. Sono dei lunghi
spilloni con la parte superiore assai
elaborata: vi sono riprodotti animali,
pannocchie, fiori, pavoni, soli.
Alcuni sono impreziositi da pietre
dure incastonate e da piccoli oggetti
appesi a sottili catenelle come pesci
snodabili, suppellettili da cucina,
piatti, vassoi, colombe; questi ultimi
vengono regalati dai padrini agli
sposi, in segno di buon auspicio. Di
solito i tupu si ottengono fondendo
Un “tupu”
vecchie monete. La “illa” è un
talismano, una piccola scultura
generalmente di alabastro; raffigura
un animale, una pecora, un montone
o una mucca. La “illa mayor” è una
figura molto più complessa:
rappresenta la casa o la fattoria del
proprietario circondata da animali
domestici. Questi amuleti servono a
dare prosperità e per difendere il
bestiame dalle malattie, dalla
siccità, dai fulmini, dai ladri di
bestiame e dalle volpi. Vengono
usati anche per il “pago a la tierra”,
cioè in segno di ringraziamento alla
terra per ottenere fortuna e raccolti
abbondanti; in questo caso la illa si
La “illa mayor”
prepara con altri elementi come
caramelle, riso, zucchero, ecc. Per la
cerimonia viene chiamato uno sciamano. A seconda delle necessità l'amuleto viene sotterrato vicino
11
a una sorgete (dove si abbevera il bestiame), nelle fattorie o sotto l'uscio di casa.
La illa mayor che compero è molto bella, è in pietra chiara e misura circa dodici centimetri per
sette. Mostra quattro case disposte a quadrato con un pozzo al centro. Sui lati minori sono disposte
due file di animali, tra di essi si distinguono una coppia di tori o buoi, con la coda arricciata sul
dorso, due cavalli o muli con la sella, un caprone con le corna, tre pecore accanto a un agnellino e
altre due coppie di animali difficilmente identificabili, forse lama. Su un lato maggiore, dietro ad
una casa, sono rappresentati due personaggi seduti, mentre sull'altro lato un animale accucciato,
forse un cane, e quello che sembra il tronco di un albero.
Tra la illa e vari tupu spendo158.000 inti.
Alle 12.30, mentre un timido sole fa capolino tra il monotono grigiore del cielo, mi reco al centro
telefonico in plaza San Martin per telefonare a casa. Purtroppo non ci sono cabine disponibili. Vado
a casa di Jeanett la quale mi accompagna da Annie, moglie di suo fratello Julio; da qui riesco a
telefonare a casa e avvisare i miei del mio prossimo ritorno. Telefono ancora una volta ad Alfredo,
stavolta mi risponde: si dice profondamente dispiaciuto e pieno di vergogna per non potermi
restituire i soldi, vorrebbe persino sprofondare sotto terra, mi assicura, cospargersi il capo di cenere,
fare un'orribile e prolungata penitenza... Niente da fare anche per le videocassette su cui doveva
registrarmi i programmi TV: le ha rivendute!
Julio è avvocato, Annie mi suggerisce di fare una denuncia per furto contro Alfredo: può passare
guai molto seri. Lascio perdere, so come funziona la giustizia, sarebbe solo tempo (e denaro) perso.
E poi Ada è mia amica, sono stato suo ospite e non mi sembra proprio il caso di rovinare
un'amicizia per soldi. Sono comunque arrabbiato, ma ormai è tardi per recriminare. Mi consolo
mangiando un dolcissimo “alfajor” e tornando a Miraflores.
Il pittore adesso c'è. Cominciano le
contrattazioni per il quadro. Alla fine me lo
vende per 350.000 inti, più la mia giacca a
vento e un paio di scarpe da ginnastica.
Sembra soddisfatto tanto da regalarmi una
scatola
con
dentro
una
tarantola
imbalsamata. Arrotolo bene la tela e me ne
vado soddisfatto anch'io.
All'angolo dell'avenida Larco 291-299 con
Esperanza c'è la Libreria Minerva, per 9.000
inti compero il “documental” su Cusco. In
taxi fino al centro di Lima (8.000 inti).
Compero un ciondolo d'oro che riproduce il
sole in stile inca (1.000.000 di inti).
La libreria Studium S.A. si trova in plaza
Francia 1164, qui acquisto due libretti sulla
storia del Perù: Perú colonial e Perú
prehispanico (5.000 inti cada uno). Compro
pure il libro “Así es la selva”. Costa 68.000
Il bel dipinto acquistato a Miraflores. Purtroppo non è noto
inti ed è un corposo volume cartonato, edito
il nome dell'autore
dal Centro de Estudios Teologicos de la
Amazonia. Belle fotografie, molte notizie utili e curiose su flora e fauna e, alla fine, un breve
vocabolario delle diverse etnie. Per esempio, volete sapere come si dice dieci in lingua guarani? Si
dice mocoipó, facile, vero? Però provateci in conibo: si dice nunmuebuetzaquenqui! E non è facile
nemmeno in aguaruna, visto che si dice uwijá mai amwá.
In un negozio della Colmena due “quenas” (flauti) da regalare agli amici mi costano 70.000 inti e
una maschera riproducente quelle funerarie della cultura Chimu 7.000.
Ormai si sta facendo tardi. Alle 17.45 un taxi mi lascia sulla porta di casa (8.000 inti). Il tempo di
12
sistemare gli ultimi acquisti e alle 18.00 telefona Jeanett per salutarmi.
Con mio grande disappunto in casa è rimasto solo Robertito Manuel. Ada, Roberto, Roxana,
Alfredo... tutti si sono eclissati. Paura? Vergogna? Impegni improvvisi? Certo ci rimango molto
male per non potermi accomiatare dagli amici.
Alle 18.20 esco in strada alla ricerca di un taxi. Carico i bagagli, saluto per l'ultima volta Robertito
e via, col groppo in gola. Alle 19.40 arrivo all'aeroporto, il taxi mi costa 40.000 inti. Consegno i
bagagli e pago le tasse aeroportuali (86.000 inti, l'equivalente di 15 dollari). Trovo ad aspettarmi gli
amici dell'ex Foto Cine Club Peruano: Augusto Frisancho, Miguel Picco ed Eduardo Regal. Mi
invitano a cena al ristorante dell'aeroporto: “chorizo” con patate fritte e insalata. Parliamo dei
vecchi tempi, di fotografia; ricordiamo emozionati la figura di Victor Chambi, figlio del famoso
Martin Chambi. Victor, persona squisita e sempre disponibile, è stato presidente del Foto Club, e
grande amico.
Alle 21 prima chiamata per i passeggeri di Canadian Pacific. Mi congedo e passo il controllo a
raggi X. Il bagaglio a mano risulta essere troppo ingombrante e pesante (tra libri e statue di pietra va
ben oltre il consentito). Ci appiccicano sopra una bella etichetta rossa con l'immagine di un
bicchiere e la scritta “FRAGILE” e lo sistemano in un apposito spazio. Speriamo di non trovare
cocci. I controlli si spostano sul tubo dove custodisco mappe e dipinto: si verifica che non esporti
opere di valore, ma tutto è in regola. Girando per i duty-free compero due bottiglie di “pisco”
(48.000 inti).
Ore 21.20, seduto sul sedile 34/a (finestrino) del trimotore DC-10 mi preparo a salutare il Perù.
Alle 21.34 l'aereo si muove e alle 21.50 già si allontana sotto di me la vasta ragnatela luminosa di
Lima. Alle 23.15 si cena: due toast, il primo con insalatina, tacchino, fettina d'arancia e uva, il
secondo con prosciutto, insalata, asparago e fettina di peperone. Segue una pastina al cioccolato e
marmellata di fichi e, da bere, un succo d'arancia.
Finita la cena, assai leggera in verità, parte il film “Tre uomini in fuga”; già visto, ma si ride.
Sabato 30 settembre
Ore 3.30. Sorvoliamo Miami. Lo spettacolo è fantastico: l'enorme distesa di luci filtra tra le nuvole
illuminandole dal basso con effetti fantasmagorici. Sembra di assistere a innumerevoli tramonti
tropicali. Davvero una vista indimenticabile, peccato non avere una cinepresa.
Alle 4.00 viene servita la colazione (?): salsiccia con omelette e funghi, pane, burro, marmellata,
insalata di frutta (papaya, ananas, uva e mezza fragola), tè con latte.
É la volta della burocrazia: bisogna compilare un modulo in cui si dichiara l'eventuale possesso di
armi o specie vegetali.
Aeroporto di Toronto
Aeroporto di Toronto
Alle 5.45 atterriamo a Toronto. In attesa di sapere da quale porta parte la mia coincidenza (c'è
tempo: l'aereo per Malpensa parte alle 17.30) giro un po' per l'aeroporto, salgo su un ascensore a
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caso e mi ritrovo sulla terrazza di un parcheggio. Ne approfitto per dare un'occhiata attorno.
Dall'alto lo sguardo abbarca l'intero aeroporto. Il sole è sorto da poco e illumina con luce radente gli
aerei parcheggiati e i lontani grattacieli.
Aeroporto di Toronto
Toronto all'alba
Ora locale 8.40: passo il tempo gironzolando per i negozi del duty-free. Per 18 dollari compero due
mappe della città di Toronto. Alle 10.40 con 4.40 dollari acquisto un po' di biscotti in un distributore
automatico e dieci minuti dopo passo i controlli e mi accomodo in sala d'attesa. Mi viene sete: i
distributori automatici sembrano forniti solo di Coca Cola e Pepsi. Mi fan schifo tutte e due, ma la
sete è tanta e la carne è debole: spendo un dollaro per una lattina di Coca... riesco a berne metà e
butto via il resto. Un dollaro e sessata mi costa il sacchettino di pop-corn da sgranocchiare tanto per
ingannare l'ancora lunga attesa. Scrivo un po' nel diario e alle 14.40 raggiungo la sala M. Un'ora
dopo salgo sul Boeig 767 (sedile 26/G). Si decolla alle 17.58. Tempo previsto per l'arrivo ad
Amsterdam: sei ore.
Alle 18,38 servono un dissetante succo d'arancia e alle 19.30 la cena: pollo con mais, fagiolini e
riso, insalata di carote, cetrioli e sedano, cremino con ananas, due piccoli toast con formaggio, pane,
burro, vasetto di latte, un vasetto con una salsina per condire l'insalata, acqua e tè.
Alle 23.08, mentre sugli schermi scorre un film noioso di cui ho rimosso titolo e trama, portano un
succo d'arancia a cui segue una brioche, una pastina, macedonia e caffè. Il film termina alle 23.35
Domenica 31 ottobre
Alle 0.32 (ora locale 5.30) atterriamo ad
Amsterdam. S'imbarcano i passeggeri per Malpensa
e alle 6.22 decolliamo. La durata del volo prevista è
di un'ora e sedici minuti. Alle 7.40 arriva la
colazione. Sorvoliamo le Alpi innevate e illuminate
dal sole. Siamo già in Italia. Alle 8.30 atterriamo a
Malpensa.
Il 1989 è stato un anno di grandi eventi e
cambiamenti. Il 9 novembre, dopo quasi trent'anni,
viene abbattuto il muro di Berlino, simbolo
dell'imbecillità umana e di tutti quei politici e
militari idioti, convinti di risolvere i problemi
Sorvolando le Alpi
costruendo muri. Mikhail Gorbaciov è proclamato
uomo del decennio dal Time, che gli dedica una copertina. Il Nobel per la pace viene dato a Tenzin
Gyatso, il 14° Dalai Lama. Salman Rushdie pubblica “I versetti satanici”; il libro fa incazzare
l'ayatollah Khomeini il quale decreta la morte dello scrittore. Ironia della sorte, sarà Khomeini a
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morire poco dopo: da ciò ognuno tragga gli insegnamenti che crede. In gennaio muore Hiroito,
l'imperatore del Giappone, uno dei tre grandi scemi al potere che, con Hitler e Mussolini, scatenò la
seconda guerra mondiale. In Romania, nel mese di dicembre, scoppia la rivoluzione: stanchi della
tirannia i romeni giustiziano Ceausescu e la moglie. Altra rivoluzione in Cina: nella piazza Tien An
Men gli studenti osano chiedere libertà, il governo risponde inviando i carri armati e massacrando
qualche migliaio di persone. Nell'aldilà Mao avrà approvato o si sarà rivoltato nella tomba? La
morale? la libertà è un diritto inalienabile, basta non pretenderla. La petroliera Exxon Valdez perde
250.000 barili di greggio e causa una strage ambientale in Alaska. Non è la prima e non sarà
l'ultima. Abbiamo bisogno del petrolio, quindi, ogni tanto, qualche disastro lo possiamo pure
tollerare. L'importante è che accada sempre lontano da noi, sulle coste degli altri.
“Chi ha incastrato Roger Rabbit” si becca quattro Oscar; esce “Indiana Jones e l'ultima crociata”.
La signorina Eleonora Benfatto è eletta Miss Italia, seconda si classifica Anna Falchi; a Hong Kong
la biondissima polacca Aneta Beata Kreglicka è incoronata Miss Mondo. A dicembre la rivista Max
inaugura la stagione dei calendari sexy: le fotografie sono del grande Helmut Newton. La canzone
“Ti lascerò”, cantata dalla coppia Fausto Leali e Anna Oxa, vince la trentanovesima edizione del
festival di Sanremo.
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