Titolo originate dell'opera: Crescendo Copyright © 2010 by Becca Fitzpatrick I Edizione 2011 ©2011- EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento) A Jenn Martin e Rebecca Sutton, per i superpoteri della vostra amicizia. Grazie anche a T.J. Fritsche, per avermi suggerito il nome del personaggio di Ecanus. Coldwater, Maine Quindici mesi prima Le dita artigliate dello stramonio graffiavano il vetro della finestra alle sue spalle e Harrison Grey, incapace di proseguire nella lettura con quel fracasso, piegò l'angolo della pagina che aveva davanti. Per tutta la sera un impetuoso vento primaverile si era abbattuto sulla fattoria ululando e fischiando, facendo sbattere le persiane contro il rivestimento di legno delle pareti esterne con un bang! bang! bang! continuo. Nonostante il calendario indicasse che era marzo, Harrison non era cosi sprovveduto da pensare che la pri-mavera fosse già alle porte. Con un temporale del genere in arrivo, non si sarebbe sorpreso, la mattina dopo, di trovare la campagna ricoperta di un candore glaciale. Per sovrastare le urla laceranti del vento, Harrison premette il telecomando e alzò il volume di Ombra mai fu di Bononcini Quindi gettò un altro ciocco nel fuoco, chiedendosi per I'ennesima volta se avrebbe mai comprato la fattoria se avesse saputo quanto combustibile occorreva per riscaldare una stanza così piccola, figurarsi tutte e nove. II trillo del telefono lacerò l'aria. Harrison sollevo il ricevitore a metà del secondo squillo, aspettandosi di sentire la voce della migliore arnica della figlia, che aveva la pessima abitudine di chiamare la sera tardi per informarsi dei compiti per il giorno dopo. Il suo orecchio percepì un respiro debole e rapido, poi una voce ruppe il silenzio. - Dobbiamo vederci. Tra quanto puoi essere qui? La voce lo attraversò come un fantasma del passato, raggelandolo. Era tanto tempo che non la sentiva, e se si era rifatta viva non poteva esserci che una ragione: qualcosa era andato storto. Tremendamente storto. Si rese conto che la mano che stringeva il ricevitore era madida di sudore. - Un'ora - rispose secco. Lentamente, mise giù la cornetta. Chiuse gli occhi e la mente e, seppure riluttante, riandò al passato. C'era stato un tempo, quindici anni prima, in cui ogni volta che suonava il telefono gli si gelava il sangue e i secondi di attesa prima che la voce all'altro capo parlasse gli si scandivano in testa come il battito di un tamburo. Poi, con il tempo, a mano a mano che gli anni si susseguivano placidi, si era convinto di essersi lasciato alle spalle i segreti del proprio passato, di essere un uomo normale, che conduceva una vita normale, con una bellissima famiglia normale. Un uomo che non aveva niente da temere. Chino sul lavello della cucina, Harrison riempì d'acqua un bicchiere e lo bevve tutto d'un fiato. Fuori era buio pesto e la finestra di fronte gli rimandò un'immagine cerea. Harrison annuì, come a dire a se stesso che sarebbe andato tutto bene. Gli occhi, però, tradivano un'altra verità. Si slacciò la cravatta per allentare la tensione che aveva dentro e che sembrava tendergli la pelle, riempì ancora il bicchiere e bevve. L'acqua si fece strada a fatica, minacciando di tornare su. Posò il bicchiere nel lavello e afferrò le chiavi dell'auto dal ripiano esitando un momento, quasi volesse cambiare idea. Harrison accostò l'auto al marciapiede e spense i fari. Seduto al buio, il respiro condensato in nuvole di vapore, abbracciò con lo sguardo le fatiscenti case a schiera in mattoni della squallida zona di Portland in cui si trovava. Erano anni, quindici per l'esattezza, che non ci metteva piede e avendo fatto affidamento solo sulla propria memoria arrugginita non era sicuro di essere nel posto giusto. Aprì il vano portaoggetti e tirò fuori un pezzo di carta ingiallito. 1565 Monroe. Fece per uscire dall'auto, ma il silenzio delle strade lo rese inquieto. Allungò la mano sotto il sedile, tirò fuori una Smith & Wesson carica e la infilò nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena. Non sparava dai tempi del college, né l'aveva mai fatto fuori del poligono di tiro. Si augurò di poter ancora dire lo stesso di lì a un'ora: nella confusione che aveva in testa, quello fu l'unico pensiero a farsi largo con chiarezza. La strada deserta rimandava l'eco dei suoi passi sul selciato, ma lui decise di ignorarne il ritmo, concentrandosi invece sulle ombre gettate dalla luna d'argento. Stringendosi addosso il cappotto, superò case buie e chiuse in un silenzio innaturale, entro angusti fazzoletti di terra delimitati da catene. Per due volte gli sembrò di essere seguito. Si voltò, ma non vide nessuno. Al 1565 di Monroe varcò il cancello e girò intorno alla casa. Arrivato sul retro, bussò una volta. Vide un'ombra muoversi dietro le rendine di pizzo. La porta si aprì di uno spiraglio. - Sono io - disse Harrison a bassa voce. La porta si scostò giusto lo spazio necessario a farlo passare. - Ti hanno seguito? - No. - Lei è in pericolo. Harrison sentì I battiti del cuore accelerare. - Che tipo di pericolo? - Quando compirà sedici anni, lui verrà a prenderla. Devi portarla lontano, in un posto in cui non possa mai trovarla. Harrison scosse la testa. - Non capisco... Fu messo a tacere da un'occhiata minacciosa. - Quando abbiamo stipulato il nostro accordo, ti ho detto che avrebbero potuto esserci cose che non avresti capito. Sedici anni è un'età maledetta nel... mio mondo. Non c'è altro da sapere – concluse bruscamente. I due uomini restarono a guardarsi, fino a che Harrison fece un cauto cenno d'assenso. - Devi far perdere le tracce - gli disse l'uomo. - Ovunque andiate, dovrete rifarvi una vita. Nessuno dovrà sapere che venite dal Maine. Nessuno. Lui non smetterà mai di cercarla. Capisci? - Capisco -. Sua moglie però avrebbe capito? E Nora? Ora che la vista si era abituata al buio, Harrison notò con incredulità che, curiosamente, l'uomo che aveva davanti sembrava non essere invecchiato di un giorno dall'ultima volta che si erano visti. A dire il vero, non era invecchiato di un giorno dai tempi del college, dove inizialmente avevano condiviso la stanza per poi diventare veri amici. «Un gioco di ombre?» si chiese Harrison. Era l'unica spiegazione possibile. Notò tuttavia che qualcosa di diverso c'era: una piccola cicatrice alla base del collo. Harrison guardò lo sfregio con maggior attenzione e trasalì. Era una bruciatura lucida e in rilievo, poco più grande di un quarto di dollaro, a forma di pugno chiuso. Con sconcerto e orrore, si rese conto che il suo amico era stato marchiato. Come un capo di bestiame. L'amico intercettò lo sguardo di Harrison e i suoi occhi divennero duri, diffidenti. - C'è gente che vuole distruggermi. Privarmi della forza morale e disumanizzarmi. Insieme a un amico fidato ho formato una società, che accoglie sempre più iniziati -. Si interruppe, come se fosse indeciso se dire di più, quindi concluse frettolosamente: - La società è organizzata in modo da dare protezione ai suoi membri, e io vi ho giurato fedeltà. Tu mi conosci bene, sai che farei di tutto per proteggere i miei interessi-. Si fermò e aggiunse, quasi distrattamente: - E il mio futuro. - Ti hanno marchiato - disse Harrison, sperando che l'amico non percepisse il moto di repulsione che provava. L'altro si limitò a guardarlo. Alla fine Harrison, con un cenno del capo, comunicò che aveva capito, nonostante non accettasse la cosa. Meno sapeva, meglio era: il suo amico gliel'aveva spiegato mille volte. - Ce qualcos'altro che posso fare? - Tienila al sicuro. Harrison si aggiustò gli occhiali sul naso e, goffamente, disse: Forse ti interesserà sapere che è cresciuta sana e forte. L'abbiamo chiamata Nor... - Non voglio che mi ricordi il suo nome - lo interruppe l'altro aspramente. - Ho fatto tutto ciò che era in mio potere per togliermela dalla mente. Non voglio sapere niente di lei. Voglio dimenticarla, non devo niente a quella bastarda Gli voltò le spalle e Harrison capì che la conversazione era finita. Tuttavia indugiò un istante, decine di domande sulla punta della lingua. Sapeva però che insistere non era una buona idea. Dominò il bisogno di trovare un senso in quel mondo oscuro che sua figlia non aveva fatto nulla per meritarsi, e uscì. Non aveva percorso neanche metà isolato quando un colpo d'arma da fuoco echeggiò nella notte. Istintivamente, Harrison si abbassò e si girò di scatto. Il suo amico. Sentì un secondo sparo e, senza pensarci, si mise a correre a perdifiato in direzione della casa. Si infilò nel cancello e tagliò dal cortile laterale. Stava per svoltare l'ultimo angolo della casa, quando sentì qualcuno discutere e si bloccò. Nonostante il freddo, stava sudando. Il cortile posteriore era avvolto nelle tenebre e lui si mosse lentamente lungo il muro di cinta, camminando con cautela per non rivelare la sua presenza, fino a che riuscì a scorgere la porta di servizio. - E' la tua ultima possibilità - disse una voce calma e suadente. - Vai al diavolo - rispose stizzito il suo amico. Terzo sparo. L'amico di Harrison urlò di dolore mentre chi aveva sparato chiedeva: - Lei dov'è? Il cuore gli martellava in petto, ma Harrison sapeva di dover agire. Cinque secondi ancora e sarebbe stato troppo tardi. Estrasse la pistola da dietro la schiena. Tenendola con due mani per controllarla meglio, si mosse verso il vano della porta, avvicinandosi da dietro all'uomo bruno che teneva l'amico sotto tiro. Harrison lo vide, dietro le spalle dello sconosciuto, e quando i loro sguardi si incrociarono gli lesse negli occhi una grande agitazione. «Vattene!» Harrison sentì l'ordine dell'amico forte e chiaro, e per un attimo credette che fosse stato gridato, però quando vide che lo sconosciuto non si voltava di scatto capì, raggelato e confuso, che la voce dell'amico gli era risuonata nella mente. «No» rispose Harrison con il pensiero, scuotendo il capo silenziosamente: il suo senso di lealtà vinse persino l'incomprensibile. Era l'uomo con cui aveva trascorso quattro dei migliori anni della propria vita. L'uomo che gli aveva fatto conoscere sua moglie. Non l'avrebbe lasciato lì, in balìa di un killer. Harrison premette il grilletto. Sentì lo sparo assordante e aspettò che lo sconosciuto si accasciasse al suolo. Fece fuoco un'altra volta. E un'altra volta ancora. Il giovane uomo bruno si voltò lentamente. Per la prima volta nella sua vita, Harrison si ritrovò ad avere davvero paura. Paura del giovane con la pistola in pugno che aveva davanti. Paura della morte. Paura di ciò che ne sarebbe stato della sua famiglia. Sentì gli spari devastarlo con un bruciore lancinante; aveva la sensazione di frantumarsi in mille pezzi. Cadde in ginocchio. Vide il volto della moglie, e poi quello della figlia, sempre più sfocati. Aprì la bocca, i loro nomi a fior di labbra, per poter dire loro tutto il suo amore prima che fosse troppo tardi. L'uomo lo stava trascinando lungo il vicolo, sul retro della casa. Mentre si dibatteva senza successo cercando di rimettersi in piedi, Harrison sentì che stava perdendo conoscenza. Non poteva abbandonare sua figlia, non ci sarebbe stato più nessuno a proteggerla. Quell'uomo dai capelli bruni l'avrebbe trovata e, se il suo amico aveva ragione, l'avrebbe uccisa. - Chi sei tu? - chiese Harrison; a ogni parola, sentiva una fiammata divorargli il petto. Si aggrappò alla speranza che ci fosse ancora tempo. Forse avrebbe potuto avvisare Nora dall'altro mondo, un mondo che calava su di lui come una pioggia di migliaia di piume dipinte di nero. Il giovane guardò Harrison per un momento, quindi un debole sorriso gli squarciò l'espressione di ghiaccio. - Sbagli. È decisamente troppo tardi. Harrison gli rivolse uno sguardo tagliente, sorpreso che il killer avesse indovinato i suoi pensieri, e non potè fare a meno di chiedersi quante volte si fosse trovato nella stessa situazione, a indovinare gli ultimi pensieri di un uomo in punto di morte. Sicuramente non poche. Quasi a dimostrare quanto fosse esperto, il giovane puntò l'arma senza un minimo di esitazione. Harrison si trovò a guardare nella canna della pistola. L'ultima immagine che vide fu il bagliore del colpo esploso. 1 Spiaggia di Delphic, Maine Oggi Patch era dietro di me, le mani sui miei fianchi, il corpo rilassato. Era alto più di un metro e ottanta, e aveva un fisico asciutto e atletico che neanche i jeans a vita bassa e la maglietta riuscivano a nascondere. Capelli e occhi erano più scuri della notte e il suo sorriso sexy prometteva guai: io però avevo deciso che non tutti i guai venivano per nuocere. Sopra di noi i fuochi d'artificio illuminavano il cielo notturno, e lucevano piovere una cascata di colori sull'Atlantico. La folla era tutta un coro di «Ooh!» e «Aah!». Era fine giugno e il Maine festeggiava l'inizio della stagione estiva, pronto a tuffarsi in due mesi di sole, mare e turisti con le tasche gonfie di soldi. Io festeggiavo due mesi di sole, mare e tempo a volontà per stare sola con Patch. Mi ero iscritta a un corso estivo di chimica ed ero fermamente intenzionata a lasciare che Patch monopolizzasse tutto il resto del tempo. I vigili del fuoco sparavano i fuochi d'artificio da un molo a neanche duecento metri dalla spiaggia e ogni volta il rimbombo vibrava nella sabbia sotto di noi. Le onde si rifrangevano sulla spiaggia ai piedi della collina e la musica del parco divertimenti risuonava ad alto volume. L'aria era carica di odore di zucchero filato, pop-corn e carne sfrigolante, e il mio stomaco mi fece notare che non toccavo cibo dall'ora di pranzo. - Sì, ma non è sul menu. Sorrisi.-Ehi, stai flirtando con me? Mi diede un bacio sui capelli. - Non ancora. Vado a prenderti il cheeseburger, tu goditi gli ultimi fuochi. Lo afferrai per uno dei passanti dei jeans. - Grazie, vado io. Non posso sobbarcarmi questo senso di colpa. Mi guardò con aria interrogativa. - Quand'è stata l'ultima volta che la ragazza del chiosco degli hamburger ti ha fatto pagare? - Non ricordo. Un bel po' di tempo fa, comunque. - Mai. Non ti ha mai fatto pagare. Resta qui. Se ti vede avrò i rimorsi per il resto della serata. Patch aprì il portafogli e ne estrasse una banconota da venti dollari. -Lasciale una buona mancia. Adesso ero io ad avere un'aria interrogativa. - Stai cercando di compensare tutte le volte in cui hai mangiato a sbafo? - L'ultima volta che ho pagato, mi ha rincorso e mi ha infilato i soldi in tasca. Sto cercando di evitare un altro palpeggiamento. Sembrava una storia inventata, ma conoscendo Patch invece probabilmente era vera. Ci misi un po' a scovare l'inizio della coda che si snodava intorno al chiosco: partiva accanto all'ingresso delle giostre coperte. A giudicare dalla lunghezza, ci sarebbero voluti almeno quindici minuti d'attesa per ordinare. Un solo chiosco di hamburger per un'intera spiaggia: molto poco consono allo spirito americano. Dopo qualche minuto di attesa smaniosa, iniziai a guardarmi intorno. Fu allora che vidi Marcie Millar, due posti indietro a me. Marcie e io eravamo a scuola insieme fin dai tempi dell'asilo e in quegli undici anni avevo avuto a che fare con lei più di quanto avessi desiderato. Per colpa sua, tutta la scuola aveva avuto ripetutamente il piacere di vedere la mia biancheria intima. Alle medie, il modus operandi di Marcie consisteva nel rubarmi il reggiseno dall'armadietto della palestra e appenderlo alla bacheca della segreteria; a volte, però, si abbandonava alla creatività utilizzandolo come centrotavola in mensa, dopo aver riempito le mie coppe A di budino alla vaniglia sormontato da ciliegie al maraschino. Molto sofisticato, lo so. Portava gonne di due taglie in meno della sua e dieci centimetri più corte del dovuto. Aveva i capelli biondo tiziano e la forma di un ghiacciolo: se la giravi di liana) spariva. Se avessimo annotato le vittorie e le sconfitte di ciascuna di noi, ero quasi certa che Marcie avrebbe totalizzato il doppio del mio punteggio. - Ehi - dissi. Avevo incrociato involontariamente il suo sguardo, così, non potendone fare a meno, limitai il saluto all'essenziale. Ehi - rispose lei, in un tono appena civile. Vedere Marcie alla spiaggia di Delphic quella sera era come giocare a Trova l'errore. Suo padre era il proprietario della con- cessionaria della Toyota di Coldwater, la sua famiglia viveva in un quartiere esclusivo, in collina, e i Millar si vantavano di essere gli unici cittadini di Coldwater ammessi al prestigioso Harraseeket Yacht Club. Con ogni probabilità, in quel preciso istante, i genitori di Marcie erano a Freeport, a ordinare salmone su una barca a vela. Delphic, al contrario, era una spiaggia da poveracci. La sola idea di uno yacht club era ridicola. L'unico ristorante era un chiosco Imbiancato che vendeva hamburger e dava la possibilità di scegliere tra ketchup o senape. Nei giorni più fortunati, il menu includeva anche le patatine fritte. Per svagarsi c'erano chiassose sale giochi e l'autoscontro, e tutti sapevano che, di sera, il parcheggio era più fornito di una farmacia. Non certo il genere di ambiente con il quale il signore e la signora Millar avrebbero voluto che la loro Marcie si mischiasse. Che dite, ce la facciamo entro sera? — gridò Marcie alla gente in coda. C'è gente qui dietro che sta morendo di fame! C'è una sola persona al banco - le feci notare. - E allora? Dovrebbero assumere più gente. È la legge della domanda e dell'offerta -. Visti i risultati scolastici che si ritrovava, Marcie era l'ultima persona a poter blaterare di economia. Dieci minuti dopo ero arrivata talmente vicino al chiosco da riuscire a leggere la parola SENAPE scritta con il pennarello nero sul grande dosatore giallo. Dietro di me, Marcie non faceva che spostare il peso del corpo da un piede all'altro e sospirare. - Non ce la faccio più! - protestava. Il tizio davanti a me pagò, prese il cibo che aveva ordinato e andò via. - Un cheeseburger e una Coca - chiesi. Mentre la ragazza del chiosco, china sulla piastra di cottura, preparava la mia ordinazione, mi voltai verso Marcie. Con chi sei? Non che mi importasse granché saperlo, soprattutto dal momento che non avevamo nessun amico in comune, ma la mia buona educazione aveva avuto la meglio. E poi erano settimane che Marcie non si comportava in modo apertamente scortese con me. Inoltre, gli ultimi quindici minuti erano trascorsi in modo abbastanza pacifico. Forse era l'inizio di una tregua, una specie di pietra sopra il passato. Lei sbadigliò, come se parlare con me fosse più noioso che stare in coda a fissare la nuca di quelli davanti. - Senza offesa, ma non sono in vena di chiacchiere. Mi sembra di essere in fila da cinque ore, ad aspettare di essere servita da un'incompetente che, a quanto pare, non sa cuocere due hamburger alla volta. La ragazza dietro il bancone, a testa bassa, era intenta a staccare la carta oleata dagli hamburger crudi, ma ero sicura che avesse sentito. Probabilmente lo odiava, il suo lavoro. Probabilmente, quando era girata di spalle, sputava di nascosto sugli hamburger. Non mi sarei sorpresa se, a fine turno, se ne fosse tornata in macchina a piangere. - A tuo padre non dà fastidio che frequenti la spiaggia di Delphic?- le domandai lanciandole uno sguardo di fuoco. - Potresti infangare la specchiata reputazione della famiglia Millar, soprattutto adesso che tuo padre è stato ammesso allo Harraseeket Yacht Club. Marcie mi gelò con lo sguardo. - Mi sorprende che a tuo padre non dia fastidio che tu stia qui. Ah già, è vero. E' morto. La prima reazione fu di shock. La seconda di indignazione di fronte a tanta crudeltà. Avevo la gola chiusa da una rabbia sorda. - Che c'è? - chiese con un'alzata di spalle. - E' morto. E' un fatto. O vuoi che neghi l'evidenza? - Si può sapere cosa ti ho fatto? - Sei nata. La sua totale mancanza di sensibilità mi sconvolse, al punto c he non riuscii a replicare. Afferrai il cheeseburger e la Coca dal bancone e al loro posto lasciai i venti dollari. Avrei tanto voluto correre da Patch, ma era una questione tra me e Marcie. Se fossi andata da lui, gli sarebbe bastata un'occhiata per capire che qualcosa non andava, e non volevo metterlo in mezzo. La cosa migliore era stare un momento da sola per riprendermi, così feci in modo di trovare una panchina ben visibile dal chiosco degli hamburger e mi sedetti con eleganza. Non volevo dare a Marcie il piacere di rovinarmi la serata. Ci mancava soltanto che me ne andassi a capo chino e la lasciassi con la soddisfazione di avermi gettata in un buco nero di autocommiserazione. Diedi un morso al panino, ma mi lasciò un sapore amaro in bocca. Riuscivo solo a pensare alla carne morta. Alla mucca morta. A mio padre morto. Gettai il cheeseburger nella spazzatura e mi incamminai, il pianto in gola. Le braccia strette intorno al corpo, corsi verso i bagni pubblici ai margini del parcheggio, sperando di riuscire a infilarmi in uno dei box prima che le lacrime cominciassero a scendere. Fuori dalla toilette delle donne c'era una coda incessante, che procedeva lenta, ma io infilai la porta e mi piazzai davanti a uno degli specchi, velati da una patina di sporco. Nonostante la debole luce, vidi che avevo gli occhi rossi e lucidi. Bagnai un asciugamano di carta e lo premetti sugli occhi. Perché Marcie faceva cosi? Che cosa le avevo fatto per meritarmi un simile trattamento? Feci una serie di respiri profondi, raddrizzai le spalle e costruii un muro nella mia mente, dietro cui piazzai Marcie. Che m'importava di quello che diceva? Non mi era neanche simpatica. La sua opinione non aveva alcun valore. Era maleducata, egoista e tirava sempre colpi bassi. Non conosceva me, tantomeno mio padre: piangere anche solo per una delle parole che le uscivano di bocca era uno spreco. «Fregatene» dissi a me stessa. Aspettai che il rossore agli occhi si attenuasse e uscii dalla toilette. Vagai tra la folla in cerca di Patch, fino a che lo trovai a una bancarella del tiro a segno. Mi dava le spalle e accanto a lui c'era Rixon, che probabilmente stava puntando dei soldi sul fatto che Patch non riuscisse a far cadere neanche un birillo. Rixon era un angelo caduto, era legato a Patch da una lunga storia e il loro legame era talmente profondo da potersi definire fraterno. Patch non lasciava entrare molte persone nella propria vita e quelle di cui si fidava erano ancora meno, ma se c'era uno che conosceva tutti i suoi segreti, quello era Rixon. Fino a due mesi prima, anche Patch era un angelo caduto. Poi mi aveva salvato la vita, aveva riacquistato le ali ed era diventato il mio angelo custode. Avrebbe dovuto giocare nella squadra dei buoni adesso, ma sospettavo che per lui il rapporto con Rixon e il mondo degli angeli caduti contasse di più. E anche se non volevo ammetterlo, sentivo che la decisione degli arcangeli di farlo diventare il mio custode l'aveva fatto soffrire. Dopotutto non era quello che voleva. Lui voleva diventare umano. Lo squillo del cellulare mi riscosse dai miei pensieri. Dalla suoneria capii che era Vee, la mia migliore amica, ma lasciai partire la segreteria. Mi resi conto che era la seconda volta, quel giorno, che evitavo una sua chiamata, e mi sentii un po'' in colpa. Mi giustificai pensando che l'avrei vista il giorno dopo, prima di ogni altra cosa. Patch, invece, non l'avrei rivisto fino alla sera dopo, e Intendevo godermi ogni minuto che ci rimaneva da passare insieme. Lanciò la palla verso un'asse su cui erano allineati sei birilli. Mentre si piegava la maglietta gli si sollevò leggermente, scoprendo una striscia di pelle della schiena, e io provai una leggera fitta di eccitazione. Sapevo per esperienza che ogni centimetro del suo corpo era sodo, scolpito. Anche la schiena era liscia, perfetta: le cicatrici che aveva quando era un angelo caduto erano state rimpiazzate da ali, che né io né nessun altro essere umano potevamo vedere. Cinque dollari che non ce la fai a colpirle di nuovo - dissi, «puntando alle sue spalle. Patch si voltò e mi sorrise. - Non sono i soldi che voglio da te, angelo. - Ehi ragazzi, vediamo di riportare la conversazione a un livello adatto a un pubblico di minori - scherzò Rixon. I tre birilli rimasti in un colpo solo - sfidai Patch. Di che tipo di premio stiamo parlando? E che cavolo! - disse Rixon. - Non potete aspettare di essere soli? Patch mi rivolse un sorriso complice, quindi, la palla stretta al petto, spostò indietro il peso del corpo, abbassò la spalla destra, fece ruotare il braccio e lanciò la palla più forte che potè. Con un rumore secco, i tre birilli rimasti caddero dall'asse, sparpagliandosi qua e là. Adesso sì che sei nei guai, ragazzina - mi gridò Rixon al di sopra della confusione provocata da un gruppo di spettatori che applaudivano e fischiavano. Patch si appoggiò di spalle al chiosco e inarcò le sopracciglia. Il gesto era eloquente: Sgancia. - Hai avuto un colpo di fortuna - dissi. - Devo ancora averlo, il mio colpo di fortuna. - Scegli un premio - urlò a Patch il vecchio che gestiva il chiosco mentre si chinava a raccogliere i birilli. - L'orso viola -. Dopodiché ritirò un orribile orsacchiotto tutto arruffato e me lo porse. - Per me? - dissi, la mano premuta sul cuore. - Tu vai matta per gli scarti. Al supermercato prendi sempre le lattine ammaccate; ci ho fatto caso -. Infilò le dita nella cintura dei miei jeans e mi tirò a sé. - Andiamo via di qui. -Che intenzioni hai?-. Avevo le farfalle nello stomaco, perché sapevo esattamente che cosa aveva in mente. - Andiamo da te. Scossi la testa. - Non se ne parla, mia madre è in casa. Potremmo andare da te - suggerii. Stavamo insieme da due mesi e non sapevo ancora dove abitasse. E non è che non ci avessi provato. Due settimane mi sembrava il limite massimo per essere invitati a casa del proprio ragazzo, soprattutto se lui viveva da solo. Due mesi era davvero un tempo esagerato. Cercavo di essere paziente, ma la curiosità aveva il sopravvento. Non sapevo nulla della vita privata, più intima, di Patch: di che colore erano le pareti di casa sua, se aveva un apriscatole elettrico o manuale, che marca di sapone utilizzava, se usava lenzuola di cotone o di seta. - Fammi indovinare - dissi. - Vivi in una zona segreta nascosta nel ventre della città. - Angelo. - Hai il lavello pieno di piatti da lavare? Il pavimento disseminato di biancheria sporca? È comunque più tranquillo di casa mia. - Vero, ma la risposta resta no. - Rixon è mai venuto a casa tua? - Rixon deve sapere dove vivo. Ah, e io no? Strinse le labbra. - Sapere certe cose può avere oscure implicazioni. Se vedessi dove vivi poi dovresti uccidermi? Mi prese tra le braccia e mi diede un bacio sulla fronte. - Più o meno. A che ora hai il coprifuoco? - Alle dieci. Domani iniziano i corsi estivi -. E poi, per mia madre metterci i bastoni tra le ruote era diventato una specie di secondo lavoro. Se fossi uscita con Vee, di sicuro mi avrebbe la- sciata tornare alle dieci e mezza. Non potevo biasimarla se non si fidava di Patch visto che anch'io, in fondo, fino a un certo punto avevo dubitato di lui. Però sarebbe stato d'aiuto se avesse allentato In vigilanza, di tanto in tanto. Tipo quella sera. Tanto più che non sarebbe potuto succedermi niente, con il mio angelo custode vicino. Patch guardò l'orologio. - È ora di andare. Alle 22.04 Patch fece inversione a U davanti alla fattoria, parcheggiò accanto alla cassetta della posta e spense il motore e i fari. Restammo immersi nel buio della campagna, immobili. Dopo qualche minuto disse: - Com'è che sei così silenziosa, angelo? - Sono silenziosa? - dissi riscuotendomi di scatto. - Ero solo assorta nei miei pensieri. La bocca di Patch si piegò in un accenno di sorriso. - Bugiarda. Che cosa c'è? Sei bravo -. Il sorriso si allargò appena. - Molto bravo. Ho Incontrato Marcie Millar al chiosco degli hamburger ammisi, le speranze di tenere per me quel dispiacere ormai svanite: evidentemente, covava ancora sotto la cenere. D'altra parte, con chi altri potevo parlarne se non con Patch? Due mesi prima, il nostro rapporto era tutto un baciarsi in auto, fuori dall'auto e sul tavolo della cucina e anche mani frenetiche, capelli arruffati e lucidalabbra sbavato. Adesso invece era molto di più: mi sentivo emotivamente legata a lui. La sua amicizia aveva più valore di cento conoscenze superficiali. Mio padre, morendo, aveva lasciato un vuoto incolmabile dentro di me, che minacciava di risucchiarmi. Il vuoto era sempre lì, ma il dolore, si era ridotto a meno della metà. Non aveva senso restare ferma nel passato, quando avevo tutto ciò che volevo nel presente. E di questo dovevo ringraziare Patch. - E' stata così premurosa da ricordarmi che mio padre è morto. - Vuoi che ci parli io? - E chi sei tu, il Padrino? - Com'è cominciata questa guerra tra voi due? - E' proprio questo il punto: non lo so. Il massimo che poteva succedere era litigarsi l'ultima confezione di latte al cioccolato della mensa, ma poi un giorno, alle medie, arrivò a scuola con la vernice a spruzzo e mi scrisse troia sull'armadietto. E non l'ha neanche fatto di nascosto: tutta la scuola la stava guardando. - E ha dato di matto così, senza nessun motivo? - Esatto! -. Nessun motivo di cui io fossi a conoscenza, almeno. Mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. - Chi sta vincendo? - Marcie, ma non di molto. Il suo sorriso si allargò. - Distruggila, tigre! - E poi scusa: troia? Alle medie? Non avevo neanche mai baciato nessuno! Marcie avrebbe dovuto scriverselo sul suo, di armadietto. - Sembra quasi che tu ne sia ossessionata, angelo -. Fece scorrere un dito sotto la spallina della mia canottiera, e il contatto con la sua mano mi provocò una scossa elettrica sulla pelle. - Scommetto che riesco a togliertela dalla mente. C'erano alcune luci accese al piano di sopra, ma dal momento che non vidi spuntare la faccia di mia madre da dietro alcuna finestra, pensai che avessimo ancora un po'' di tempo. Mi sganciai la cintura di sicurezza, mi piegai verso Patch e, nel buio, trovai la sua bocca. Lo baciai lentamente; la sua pelle sapeva di sale, di mare. Quella mattina si era sbarbato, ma i peli già ricresciuti mi pizzicavano il mento. Mi sfiorò la gola con le labbra, e il contatto con la punta della lingua mi fece balzare il cuore in petto. Le labbra continuarono a scendere, sfiorando la spalla nuda. Abbassò con delicatezza la spallina della canottiera e proseguì lungo il braccio. In quell'istante desideravo solo stare vicino a lui, il più possibile. Non avrei mai voluto che se ne andasse. Avevo bisogno che restasse nella mia vita in quel momento, il giorno dopo e quello dopo ancora. Avevo bisogno di lui come non avevo mai avuto bisogno di nessuno. Passai dall'altra parte e mi sedetti a cavalcioni sulle sue ginocchia. Feci scivolare le mani sul suo petto, lo afferrai per la nuca e lo tirai verso di me. Lui mi circondò la vita con le braccia, agganciandomi a sé, e io mi raggomitolai contro di lui. Persa nella magia del momento, gli infilai le mani sotto la camicia: adoravo sentire il calore del suo corpo sulle mani. Nell'istante In cui le dita sfiorarono la sua schiena, nel punto in cui una volta c'erano le cicatrici lasciate dalle ali strappate, una luce mi esplose In fondo alla mente. La completa oscurità lacerata da un'esplosione di luce accecante; era come osservare un fenomeno cosmico da una distanza di milioni di chilometri. Sentii che la mia mente veniva risucchiata in quella di Patch, nelle migliaia di ricordi annidati dentro, finché, all'improvviso, lui mi prese la mano e la fece scivolare più giù, lontano dal punto in cui le ali si fondevano con la schiena, e tutto tornò bruscamente alla normalità. - Bel tentativo - mormorò, la bocca sulla mia. Gli mordicchiai il labbro inferiore. - Se potessi vedere il mio passato toccandomi la schiena, anche tu faresti fatica a resistere. - lo faccio già fatica a non tenerti sempre le mani addosso, anche senza quell'extra. Risi, ma il mio viso tornò subito serio. Anche facendo un grande sforzo di concentrazione, non riuscivo a ricordare com'era stata la mia vita prima di Patch. La sera, a letto, mi tornavano in mente con assoluta chiarezza il timbro basso della sua risata, la piega del suo sorriso, che si alzava un po'' di più sul lato destro, la sensazione delle sue mani calde, lisce e piacevoli sulla mia pelle. I ricordi dei sedici anni precedenti, invece, riemergevano solo con grande sforzo, forse perché venivano totalmente oscurati da Patch. O magari invece perché non c'era proprio niente di bello da ricordare. - Non lasciarmi mai - gli dissi, tirandolo a me per il colletto della camicia. - Sei mia, angelo - mormorò, e le parole mi accarezzarono il mento. Inarcai il collo: un invito a baciarmi ovunque. Sono tuo, per sempre. - Dimostrami che dici sul serio - dissi con solennità. Lui mi studiò un istante, quindi si portò le mani dietro al collo e sganciò la catenina d'argento che portava dal giorno in cui l'avevo conosciuto. Non avevo idea di chi gliel'avesse data o di che significato avesse, ma sentivo che per lui era importante. Era l'unico gioiello che indossava e lo teneva sempre sotto il colletto della camicia, a contatto con la pelle. Non l'avevo mai visto senza. Sentii le sue mani sfiorarmi la nuca: mi stava agganciando la collana. Il metallo mi scivolò sulla pelle, ancora caldo di lui. - Me l'hanno data quando ero un arcangelo - disse. - Perché mi aiutasse a distinguere la verità dalla menzogna. La toccai con delicatezza, intimidita dalla sua importanza. - Funziona ancora? - Non per me -. Intrecciò le sue dita alle mie e mi girò la mano per baciarmi le nocche. - Adesso appartiene a te. Mi tolsi un piccolo anello di rame che portavo al dito medio della mano sinistra. Glielo porsi. All'interno era inciso un cuoricino. Patch lo esaminò in silenzio, rigirandoselo tra le dita. - Me lo ha regalato mio padre, una settimana prima di essere ucciso. Lui alzò gli occhi di scatto. - Non posso accettarlo. - E' la cosa più cara che ho al mondo. Voglio che la tenga tu -. Gli chiusi le dita sul palmo della mano dove c'era l'anello. - Nora - disse con voce esitante. - Non posso accettarlo. - Promettimi che lo terrai. Promettimi che niente si metterà mai tra noi due -. Lo guardai negli occhi, impedendogli di distogliere lo sguardo. - Non voglio vivere senza di te. Voglio che non finisca mai. Gli occhi di Patch erano neri come il carbone, più scuri di un milione di segreti accatastati uno sull'altro. Abbassò lo sguardo sull'anello e lo girò lentamente. - Giura che non smetterai mai di amarmi - sussurrai. Annuì impercettibilmente. Lo tirai a me afferrandolo per il colletto e lo baciai appassio-natamente per suggellare quella promessa. Intrecciai le mie dita alle sue, e il bordo sottile dell'anello ci segava i palmi. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a stabilire un legame più stretto con lui. Sentii l'anello conficcarsi con forza nella mia mano, fino a tagliare la pelle. Era una promessa di sangue. Quando sentii che il petto avrebbe potuto scoppiarmi per la mancanza d'aria, mi staccai e appoggiai la mia fronte alla sua. Avevo gli occhi chiusi, il respiro affannoso. - Ti amo - mormorai. - Più di quanto dovrei, credo. Restai in attesa della sua risposta, ma lui si limitò a stringermi più forte, come se volesse proteggermi, e si voltò verso il bosco dall'altra parte della strada. - Che succede? - chiesi. - Ho sentito qualcosa. - Ero io che dicevo che ti amo - dissi sorridendo, mentre seguivo il profilo delle sue labbra con un dito. Mi aspettavo che ricambiasse il sorriso, invece restò con gli occhi fissi sugli alberi, che ondeggiavano al vento gettando mutevoli ombre intorno. - Che cosa c'è là fuori? - chiesi seguendo il suo sguardo. - Un coyote? - Qualcosa di strano. Mi si gelò il sangue e tornai al mio posto. - Così mi fai spaventare. Cos'è, un orso? -. Erano anni che non si vedevano orsi da quelle parti, ma la fattoria si trovava ai margini della città ed era risaputo che gli orsi dopo il letargo, quando avevano più fame, potevano spingersi fino alle città in cerca di cibo. - Accendi i fari e suona il clacson - dissi. Puntai gli occhi sul bosco, attenta a qualsiasi movimento. I battiti del cuore accelerarono un po'' al ricordo di quella volta in cui, insieme ai mici genitori, avevo visto dalla finestra di casa un orso che si era messo a scuotere la nostra auto perché aveva sentito odore di cibo. Dietro di me, le luci della veranda si accesero e si spensero. Non ebbi bisogno di voltarmi per sapere che sulla soglia di casa c'era mia madre che batteva il piede, corrucciata. - Che cos'è? - provai a chiedergli di nuovo. - Sta arrivando mia madre, dimmi se c'è un pericolo! Lui mise in moto. — Vai dentro. Devo fare una cosa. - Vai dentro? Stai scherzando? Che succede? - Nora! - gridò mia madre. Stava scendendo i gradini e dal tono sembrava molto seccata. Si fermò a un metro e mezzo dalla jeep e mi fece segno di abbassare il finestrino. - Patch? - insistetti. - Ti chiamo dopo. Mia madre spalancò la portiera dell'auto. - Patch - fu il suo saluto secco. - Blythe - replicò lui con aria assente. Poi, rivolta a me: - Hai quattro minuti di ritardo. Ieri avevo quattro minuti di anticipo. Non è così che funziona. Vai subito in casa. Non volevo lasciare Patch senza aver avuto una risposta, ma non avevo altra scelta, quindi gli dissi: - Chiamami. Lui annuì, ma dalla strana luce che aveva negli occhi capii che i suoi pensieri erano altrove. Non appena scesi dall'auto, ripartì a tutta velocità. Ovunque stesse andando, aveva fretta. Quando ti do un orario, voglio che lo rispetti - disse mia madre. Quattro minuti di ritardo - ribattei con un tono di voce che suggeriva che, forse, la sua reazione era un po'' eccessiva. Il suo sguardo era carico di rimprovero. - L'anno scorso tuo padre è stato ucciso. Due mesi fa per un pelo non è toccato anche a te. Credo di avere il diritto di essere iperprotettiva -. Rientrò in in casa con aria sostenuta, le braccia strette al petto. Okay, ero una figlia insensibile. Aveva ragione lei. Osservai attentamente la fila di alberi dall'altra parte della strada: non sembrava esserci nulla di strano. Restai in attesa, torse un brivido mi avrebbe avvertito che c'era qualcosa che non andava, nonostante non riuscissi a vederlo, invece non accadde nulla. Si sentiva solo il fruscio della tiepida brezza estiva e il frinire delle cicale. Il bosco, illuminato dal bagliore argenteo della luna, sembrava tranquillo. Patch non aveva visto niente nel bosco. Si era voltato perché avevo detto due pesanti, stupidissime parole che mi erano schizzate Inori di bocca prima che riuscissi a fermarle. Ma che cosa avevo in testa? No. Che cosa aveva in testa Patch, in quel momento? Se n'era andato per evitare di rispondermi? Forse non c'era neanche bisogno DI chiederlo. Forse era proprio quella la ragione che l'aveva spinto a lasciarmi lì, a guardarlo andare via. 2 Da undici secondi, distesa a faccia in giù con il cuscino sulla testa, cercavo di far tacere Chuck Delaney che leggeva il bollettino del traffico di Portland, trasmesso forte e chiaro dalla radiosveglia. Cercavo anche di far tacere la parte logica del mio cervello, che mi gridava di vestirmi, altrimenti, giurava, sarebbero stati guai. Alla fine ebbe la meglio la zona del cervello interessata alla risposta del piacere, che si aggrappò al mio sogno, anzi, al soggetto del sogno: capelli neri ondulati e sorriso eccezionale. In quel momento era in sella alla moto, seduto al contrario, io sedevo di fronte a lui e le nostre ginocchia si toccavano. Afferrai la sua camicia e lo tirai a me per baciarlo. Nel sogno, Patch provava delle sensazioni mentre lo baciavo. Non solo a livello emotivo, ma anche fisico: era più uomo che angelo. Gli angeli non possono provare sensazioni fisiche - lo sapevo - ma, nel sogno, volevo che Patch sentisse la morbidezza del contatto delle mie labbra sulle sue. Volevo che sentisse le mie dita farsi strada fra i suoi capelli, l'eccitante e innegabile campo magnetico che attirava ogni molecola del suo corpo verso il mio. Avevo bisogno che provasse quello che provavo io. Patch fece scivolare le dita sotto la catenina d'argento che avevo al collo e quel contatto mi provocò un brivido di piacere. — Ti amo — mormorò. Appoggiata ai suoi addominali, mi protesi verso di lui, ma mi fermai a un soffio dal baciarlo. «Io di più» dissi, sfiorandogli le labbra con le mie. Le parole, però non erano state pronunciate: mi erano rimaste bloccate in gola. Patch restò lì in attesa della mia risposta, il sorriso esitante. «Ti amo» riprovai a dire, ma di nuovo le parole rimasero intrappolate. Patch a quel punto sembrava ansioso. - Ti amo, Nora - ripeté. Annuii freneticamente, lui però aveva già distolto lo sguardo. Scese dalla moto e se ne andò senza voltarsi indietro. «Ti amo!» gli gridai dietro. «Ti amo! Ti amo!» Ma era come se avessi le sabbie mobili in gola: più cercavo di tirar fuori le parole, più venivano trascinate giù. Patch stava per sparire tra la folla. Era scesa di colpo la sera e riuscivo a stento a distinguere la sua maglietta nera dalle centinaia di magliette scure della massa di gente in cui si era infilato. Mi misi A correre e lo raggiunsi, ma quando lo afferrai per un braccio e si voltò vidi che non era lui. Si trattava di una ragazza. Era troppo buio per distinguere i suoi lineamenti, ma si capiva che era molto bella. - Io amo Patch - mi disse con un bel sorriso incorniciato da labbra rosso fuoco. - E non ho paura di dirlo. - Ma io l'ho detto! - ribattei. - Ieri sera gliel'ho detto! La spinsi da parte per passare, scrutando la folla fino a che mi sembrò di vedere il cappellino da baseball blu che Patch portava sempre. Mi aprii un varco a spintoni fino a che lo raggiunsi, quindi stesi il braccio e lo presi per mano. Si voltò, ma si era trasformato di nuovo nella bellissima ragazza di prima. - E' troppo tardi - disse. - Sono io ad amare Patch adesso. La linea adesso va ad Angie per le previsioni del tempo - blaterò allegramente Chuck Delaney. Alla parola «tempo» spalancai gli occhi. Rimasi un momento immobile, cercando di scacciare quello che era solo un brutto sogno e raccapezzarmi. Le previsioni del tempo venivano trasmesse venti minuti prima dell'ora esatta, e non era possibile che le stessi ascoltando, a meno che... I corsi estivi! Non mi ero svegliata! Mi liberai delle lenzuola con un calcio e scappai nel guardaroba. Mi infilai i jeans che avevo abbandonato lì per terra la sera prima, mi buttai addosso una maglietta bianca e, sopra, un cardigan color lavanda. Telefonai a Patch, ma dopo tre squilli attaccò la segreteria. - Chiamami! - dissi. Per un istante, mi domandai se per caso mi stesse evitando, dopo la pesante confessione della sera prima. Avevo deciso di fingere che quella faccenda non fosse mai successa, finché non venisse dimenticata e le cose fossero tornate alla normalità, ma dopo il sogno di quella mattina iniziavo a dubitare che avrei lasciato perdere tanto facilmente. Forse anche Patch non riusciva a non pensarci. Comunque, non c'era molto da fare in quel momento. Avrei giurato, però, che mi avesse promesso un passaggio... Visto che non avevo tempo di pettinarmi, sistemai i capelli con una fascia, afferrai lo zaino dal piano di lavoro della cucina e corsi fuori. Indugiai nel vialetto, e alla vista dello spiazzo di due metri e mezzo per tre dove di solito era parcheggiata la mia Fiat Spider del 1979 lanciai un urlo di rabbia. Mia madre aveva venduto la Spider per pagare una bolletta della luce scaduta da tre mesi e per rifornire il frigorifero di cibo sufficiente per arrivare alla fine del mese. Per ridurre le spese, aveva persino licenziato Dorothea, la nostra donna di servizio nonché mio genitore surrogato. Rivolsi un pensiero pieno di odio al fato, mi buttai lo zaino in spalla e mi misi in marcia. Molti troverebbero pittoresca la fattoria del Maine in cui viviamo mia madre e io, ma la verità è che non c'è niente di pittoresco nel farsi una scarpinata di un chilometro per arrivare alla casa più vicina. E, a meno che "pittoresco" non sia sinonimo di "succhiasoldi del diciottesimo secolo pieno di spifferi costruito al centro di una condizione atmosferica che attira tutta la nebbia da qui alla costa", io mi permetto di dissentire. All'angolo tra la Hawthorne e la Beech vidi sfrecciare le prime auto dei pendolari. Con una mano alzai il pollice e con l'altra scartili una gomma da masticare per rinfrescare l'alito in sostituzione del dentifricio. Una Toyota 4Runner rossa frenò sull'orlo del marciapiede e il finestrino del lato passeggero si abbassò con un ronzio. Al volante sedeva Marcie Millar. - Problemi con l'auto? - chiese. Non avere affatto un'auto, quello era il problema. Ma questo con lei non l'avrei mai ammesso. Vedendo che non rispondevo, riformulò la domanda, spazientita: Hai bisogno di un passaggio? Incredibile. Tra tutte le auto che percorrevano quel tratto di strada, era andata a fermarsi proprio la sua. Volevo fare il viaggio con lei ? No. Ero ancora scossa per quello che aveva detto su mio padre? Sì. Avevo intenzione di perdonarla? Assolutamente no. Le avrei fatto volentieri cenno di proseguire senza di me, peccato ci fosse un piccolissimo problema: correva voce che l'unica cosa che al professor Loucks piacesse più della tavola periodica degli elementi fossero le note di punizione che infliggeva ai ritardatari. Grazie - dissi con riluttanza. - Sto andando a scuola, E com'è che non hai chiesto un passaggio alla tua amica grassa? Mi bloccai a mezz'aria, la mano sulla maniglia della portiera. Vee e io ormai avevamo rinunciato da un pezzo a cercare di far capire alle persone dalla mente limitata che "grasso" e "formoso" non sono la stessa cosa, ma questo non voleva dire che fossimo disposte a tollerare una tale ignoranza. E comunque l'avrei chiamata volentieri per chiederle un passaggio, ma Vee era stata invitata a seguire un corso di formazione per i redattori promettenti dell'e-zine della scuola ed era già lì. Richiusi la portiera con un colpo secco. - Ripensandoci, vado a piedi. Marcie esibì un'espressione confusa. - Ti sei offesa perché ho detto che è grassa? Ma è la verità. Che ti prende? Sembra che ogni cosa che dico debba essere censurata. Prima tuo padre, ora questo. Non c'è più libertà di parola? Pensai per un istante che sarebbe stato bello e utile avere ancora la Spider. Non solo non sarei rimasta a piedi, a mendicare un passaggio, ma avrei potuto togliermi la soddisfazione di investire Marcie. Dopo le lezioni c'era sempre un gran caos nel parcheggio. Un incidente può capitare. Dal momento che non potevo far rimbalzare Marcie sul parafango anteriore della mia auto, usai l'idea di riserva. - Se mio padre fosse un concessionario Toyota, la mia coscienza ambientalista mi spingerebbe a scegliere almeno un'auto ibrida. - Be'', tuo padre non è un concessionario Toyota. - Già. Mio padre è morto. - L'hai detto tu, non io - replicò con un'alzata di spalle. - D'ora in poi è meglio se stiamo il più lontano possibile. - Bene - disse, osservandosi le unghie curatissime. - Perfetto. - Una persona cerca di essere gentile, e guarda cosa ottiene in cambio - disse sottovoce. - Gentile? Hai detto che Vee è grassa. - Ti ho anche offerto un passaggio Ripartì sgommando mentre io venivo investita dal polverone sollevato dagli pneumatici. Quella mattina non mi ero svegliata cercando un'altra ragione per odiare Marcie Millar, però era andata a finire proprio così. La Coldwater High era stata costruita alla fine del diciannovesimo secolo e aveva uno stile eclettico, tra il gotico e il vittoriano, che la faceva somigliare più a una cattedrale che a una scuola. Aveva strette finestre ad arco con vetrate piombate. Era costruita in pietra policroma, con una predominanza di grigio. In estate l'edera si arrampicava sui muri esterni donando alla scuola un fa- scino New England. In inverno quella stessa edera si trasformava in lunghe dita scheletriche che sembravano strangolare l'edificio. Mentre cercavo di raggiungere l'aula di chimica a passo svelto, il cellulare mi squillò in tasca. - Mamma? - risposi senza rallentare l'andatura. - Posso richiam... Non indovinerai mai chi ho incontrato ieri sera! Lynn Parnell. Ti ricordi di lei, no? La madre di Scott. Gettai un'occhiata all'orologio del telefono. Per fortuna ero riuscita ad avere un passaggio fino a scuola da una sconosciuta, che andava in palestra a fare kickboxing, ma dovevo comunque sbrigarmi: tra meno di due minuti sarebbe suonata l'ultima campanella. - Mamma? Sta per iniziare la lezione, posso chiamarti a pranzo? - Tu e Scott eravate così amici. Riaffiorò un vago ricordo. - Quando avevamo cinque anni - dissi. - Non si faceva sempre la pipì addosso? - Ieri sera ho bevuto qualcosa con Lynn. Ha appena concluso le pratiche per il divorzio e lei e Scott si ritrasferiscono a Coldwater. - Fantastico. Ti chiamo... - Li ho invitati a cena questa sera. Passando davanti all'ufficio della preside, vidi la lancetta dei minuti i dell'orologio appeso sopra la porta spostarsi di una tacca. Dalla posizione in cui ero, sembrava ferma tra le 7.59 e le 8.00 in punto. Gli lanciai un'occhiata minacciosa, come a dire "Non azzardarti a suonare in anticipo". - Stasera non va bene, mamma. Patch e io... Non dire stupidaggini! - mi interruppe. - Scott è uno dei tuoi più vecchi amici. Lo conosci da molto più tempo di Patch. - Scott mi costringeva a mangiare gli insetti-palla -. I ricordi stavano tornando a galla. - E tu allora, che lo costringevi a giocare con le Barbie? - E' una cosa completamente diversa! - Stasera, alle sette in punto - disse lei in un tono che non ammetteva repliche. Mi infilai nell'aula di chimica con qualche secondo di vantaggio e mi sedetti su uno sgabello di metallo dietro un tavolo da laboratorio di granito nero, in prima fila. I tavoli erano da due, così incrociai le dita nella speranza di capitare con qualcuno che fosse portato per le scienze un po'' più di me, il che - considerato il mio standard - non avrebbe dovuto essere difficile. Io avevo la tendenza a essere più romantica che realista, e nelle mie scelte mi facevo guidare dalla fede cieca piuttosto che dalla fredda logica, il che creava già un divario incolmabile tra la scienza e me. Marcie Millar in tacchi alti, jeans e top di seta fece il suo ingresso in classe. Il top, di Banana Republic, era nella mia lista dei desideri; contavo di prenderlo prima dell'inizio del nuovo anno scolastico, quando fosse stato in saldo e finalmente avessi potuto permettermelo. Stavo per cancellarlo mentalmente dalla lista, quando Marcie si accomodò sullo sgabello accanto al mio. - Che hai fatto ai capelli? - disse. - Hai finito il balsamo? La pazienza?-. Sollevò un angolo della bocca in una specie di sorriso. - O è stata la corsetta di sei chilometri che hai fatto per riuscire ad arrivare in tempo? - Non eravamo d'accordo di stare il più lontano possibile l'una dall'altra?-. Guardai prima il suo sgabello e poi il mio, come a dire che sessanta centimetri non erano abbastanza. - Ho bisogno di te per una cosa. Buttai fuori l'aria per ritrovare la calma. Avrei dovuto immagi narlo. - Senti Marcie, - iniziai - sappiamo tutte e due che questa materia sarà durissima. Scienze è la materia in cui vado peggio e l'unico motivo per cui mi sono iscritta al corso estivo è che mi hanno detto che chimica è più facile questo trimestre. Non ti conviene avermi come compagna di banco: sarà diffìcile prendere il massimo dei voti. - Ti sembra che mi sia seduta accanto a te per migliorare la mia media ? - disse con uno scatto impaziente del polso. E' per un'altra cosa che ho bisogno di te. La settimana scorsa ho trovato un lavoro. Marcie? Un lavoro? Fece un sorrisetto compiaciuto, come se mi avesse letto nel pensiero. - Archivio i dati in segreteria. Uno dei venditori di mio padre è sposato con la segretaria. E' sempre utile avere degli agganci. Ma tanto tu che ne sai di queste cose? Sapevo che il padre di Marcie era una persona influente. Faceva donazioni talmente consistenti al comitato raccolta fondi, da avere voce in capitolo sulla scelta di ogni allenatore della scuola. Ogni tanto capita che si apra un fascicolo e io non posso fare a meno di vedere quello che c'è scritto. Certo, come no. - Per esempio, so che non hai ancora superato la morte di tuo padre; che sei in terapia dallo psicologo della scuola. In realtà so lutto di tutti. A eccezione di Patch. La scorsa settimana ho notato che il suo fascicolo è vuoto. Voglio sapere perché. Voglio sapere che cosa nasconde. - Che te ne importa? - Ieri sera era fermo nel vialetto di casa mia e fissava la finestra della mia camera. La guardai sorpresa. - Patch era nel vialetto di casa tua? - A meno che tu non conosca un altro strafico che guidi una Jeep Commander e vesta di nero da capo a piedi... Aggrottai la fronte. - Ha detto qualcosa? Quando ha visto che lo stavo osservando dalla finestra, se n'è andato. Dovrei chiedere un'ingiunzione restrittiva? È un comportamento normale da parte sua? So che è un po'' fuori di testa, ma quanto esattamente? La ignorai: ero troppo impegnata a rimuginare su quelle informazioni. Patch? A casa di Marcie? Doveva esserci andato dopo aver lasciato a casa me. Dopo che io gli avevo detto «Ti amo» e lui se l'era filata. - Ok, non c'è problema - disse Marcie raddrizzandosi. - Ci sono altri modi per ottenere informazioni. Posso chiedere in amministrazione. Scommetto che saranno contentissimi di sapere che c'è un fascicolo completamente vuoto. Non avrei detto niente, ma se l'alternativa è andarci di mezzo io... Non ero preoccupata per il fatto che Marcie potesse andare in amministrazione: a quello poteva pensare Patch. Ero preoccupata per quello che era successo la sera prima. Patch se n'era andato all'improvviso, dicendo che aveva una cosa da fare, ma facevo fatica a credere che stesse succedendo qualcosa nel vialetto di casa di Marcie. Era molto più logico pensare che fosse andato via per quello che avevo detto. - O alla polizia - continuò Marcie tamburellando con un dito sulle labbra. - Ho l'impressione che non avere un fascicolo scolastico sia illegale. Come ha fatto a essere ammesso a scuola? Sembri agitata, Nora. Ci ho preso, vero?-. Sorrise, sorpresa e soddisfatta. - E' così, eh? C'è sotto qualcosa. Le rivolsi uno sguardo distaccato. - Per essere una che sostiene che la propria vita è superiore a quella di qualsiasi altro studente di questa scuola, ne passi di tempo a ficcare il naso nelle nostre banali, inutili vite, eh? - Non dovrei farlo, se la smetteste di starmi tutti tra i piedi! -. Il sorriso era svanito. - Tra i piedi? Questa scuola non è tua! - Non parlarmi in questo modo - scattò, come se non credesse a quello che aveva sentito. - Anzi, non parlarmi affatto. Alzai le mani. - Per me non è certo un problema. - E già che ci sei, sloggia. Guardai il mio sgabello, incredula. - C'ero prima io. - Per me non è certo un problema - replicò, alzando le mani per farmi il verso. - lo non mi sposto. - Io non mi siedo accanto a te. Bene. - Spostati. No. Fummo messe a tacere dal suono lacerante della campanella; quando smise di suonare, ci rendemmo conto che nella stanza era calato il silenzio. Ci guardammo intorno, ed ebbi la sgradevole sorpresa di vedere che non c'erano più posti liberi. Il professor Loucks era fermo nel corridoio tra i banchi, alla mia destra, con un foglio di carta in mano. - Ho qui uno schema dei posti a sedere - annunciò. - A ogni rettangolo corrisponde un banco. Scrivete il vostro nome nel rettangolo corrispondente e passatelo al vicino -. Sbatté il foglio sul mio banco. - Spero che il vostro compagno vi piaccia, visto che dovrete stare insieme per otto settimane. A mezzogiorno, finite le lezioni, Vee mi diede uno strappo da Enzo: era il nostro posto preferito, dove andavamo sempre a prendere un caffè freddo o un cappuccino, a seconda della stagione. Mentre attraversavamo il parcheggio, e il sole mi scaldava il viso, la vidi: una Volkswagen Cabriolet bianca con il cartello VENDESI $ 1000 TRATTABILI fissato al finestrino con del nastro adesivo. - Stai sbavando - disse Vee sollevandomi il mento con un dito. - Non avresti mille dollari da prestarmi; - Non ho neanche cinque dollari da prestarti. Il mio salvadanaio è ufficialmente anoressico. Sospirando, rivolsi uno sguardo bramoso all'auto. - Devo trovare dei soldi. Devo trovare un lavoro Chiusi gli occhi e mi immaginai alla guida della Cabriolet, la capote abbassata, il vento tra i capelli. Se l'avessi avuta, non avrei mai più dovuto scroccare passaggi; sarei stata libera di andare dove volevo, quando volevo. - Sì, ma se trovi un lavoro significa che poi devi lavorare davvero. Insomma, sei sicura di voler sprecare tutta l'estate lavorando per quattro soldi? Potrebbe essere stancante! Scavai nello zaino, tirai fuori un pezzo di carta e annotai il numero di telefono che c'era sul cartello. Magari avrei potuto convincere il proprietario ad abbassare il prezzo di un paio di centinaia di dollari. Nel frattempo mi ripromisi di dare un'occhiata alle offerte di lavoro part-time quel pomeriggio stesso. Un lavoro avrebbe sottratto tempo a Patch, ma mi avrebbe anche permesso di avere un mezzo di trasporto privato. Per quanto amassi Patch, lui sembrava sempre... occupato, quindi non potevo fare affidamento sui suoi passaggi in auto. Vee e io prendemmo due insalate di noci speziate e due caffè freddi e ci sedemmo a un tavolo. Nelle settimane precedenti il locale aveva subito una ristrutturazione radicale che l'aveva catapultato nel ventunesimo secolo, e adesso Coldwater aveva il suo primo Internet Café. Considerato che il computer di casa aveva sei anni, ero parecchio eccitata dalla novità. - Non so tu, ma io sono pronta per le vacanze - annunciò Vee tirandosi gli occhiali sopra la testa. - Altre otto settimane di spagnolo: sono più giorni di quanti riesca a concepire. Abbiamo bisogno di svago, di fare qualcosa che ci distragga da questo infinito periodo di istruzione di qualità che ci aspetta. Dobbiamo andare a fare shopping. Portland, arriviamo! Da Macy's ci sono i saldi. Ho bisogno di scarpe, vestiti e di un nuovo profumo. - Hai appena comprato duecento dollari in vestiti! A tua madre verrà un colpo quando riceverà l'estratto conto della carta di credito. Sì, ma urge trovare un ragazzo. E per farlo, devo essere presentabile. E anche avere un buon profumo non guasterebbe. Mi portai alla bocca un cubetto di pera. - Hai in mente qualcuno in particolare? - In realtà, sì. - Giurami che non si tratta di Scott Parnell. - Scott chi? Sorrisi. - Be'’, meno male. Non so niente di questo Scott Parnell, ma si dà il caso che il tizio su cui ho messo gli occhi sia un gran fico. Un fico da paura. Un fico più fico di Patch Esitò e aggiunse: - Be'', forse no. Nessuno è così fico. Comunque, dicevo davvero: il resto della giornata non promette niente di buono. Se non andiamo a Portland sarà una giornata sprecata. Aprii la bocca per parlare, ma Vee mi precedette. - Ecco - disse. - Conosco quello sguardo. Stai per dirmi che hai già degli Impegni. - Torniamo a Scott Parnell. Viveva qui quando avevamo cinque anni. Sembrava che Vee frugasse nella sua memoria a lungo termine, ma senza risultato, così le offrii un piccolo aiuto: - Si faceva sempre la pipì addosso. Si illuminò in volto. - Scotty Pannolino? - Si trasferisce di nuovo a Coldwater. Mia madre stasera l'ha Invitato a cena. - So dove vuole andare a parare - disse Vee annuendo con aria saggia. - E' quello che si chiama "incontro fortuito". E' quando le vite di due persone che potrebbero diventare una coppia si incrociano. Ti ricordi quando Desi è entrata per caso nella toilette degli uomini e ha sorpreso Ernesto all'orinatoio? Mi bloccai con la forchetta a metà strada tra il piatto e la bocca. - Che cosa? - A Corazón, la soap spagnola. Non ricordi? Non importa. Tua madre vuole far incrociare la tua vita e quella di Scotty Pannolino. Subito. - No. Sa che sto con Patch. - Il fatto che lo sappia non significa che ne sia felice. Tua madre ce la metterà tutta per cambiare l'equazione Nora più Patch uguale amore in Nora più Scotty Pannolino uguale amore. E se invece Scotty Pannolino fosse diventato Scotty Belfaccino? Hai pensato a questa possibilità? No, e non avevo nessuna intenzione di farlo. Avevo Patch e stavo bene così. - Possiamo parlare di una cosa leggermente più urgente? - chiesi, ansiosa di cambiare argomento prima che a Vee venisse qualche altra idea delirante. - Tipo che la mia nuova compagna di banco è Marcie Millar? - Quella mignotta. - A quanto pare lavora in segreteria e ha guardato nel fascicolo di Patch. - E' ancora vuoto? - Sembra di sì, perché vuole che le dica tutto quello che so di lui -. Compreso perché la sera prima era nel vialetto di casa sua e guardava la sua finestra. Una volta avevo sentito dire che Marcie appoggiava una racchetta da tennis alla finestra della sua camera quando era disponibile a offrire certi "servizi", ma non volevo neanche pensare a questa possibilità. Dopotutto il novanta per cento dei pettegolezzi non è inventato di sana pianta? Vee si avvicinò. - E tu che cosa sai? Calò un silenzio carico d'imbarazzo. Non credevo che tra migliori amiche dovessero esserci segreti. Però un conto sono i segreti... un altro le verità difficili, inquietanti. Inimmaginabili. Avere un ragazzo che era passato dalla condizione di angelo caduto a quella di angelo custode rientrava in pieno in quella categoria. - Tu mi stai nascondendo qualcosa - disse Vee. - Assolutamente no. - Assolutamente sì. Silenzio. - Ho detto a Patch che lo amo. Vee si portò la mano alla bocca, non capii se per soffocare un'esclamazione di meraviglia o una risata, il che non fece che aumentare la mia insicurezza. Era davvero così divertente? Avevo fatto una cosa ancora più stupida di quanto pensassi? - E lui che cosa ha detto? Mi limitai a guardarla. - E' andata così male? Mi schiarii la voce. - Dimmi di questo ragazzo che hai puntato, E' un sogno impossibile o ci hai parlato? Vee capì l'antifona. - Parlato? Ieri a pranzo abbiamo preso un hot dog da Skippy. Era una specie di appuntamento al buio, ed è andata meglio di quanto pensassi. Molto meglio. E comunque, se ti degnassi di rispondere alle mie telefonate invece di stare a pomiciare di continuo con il tuo ragazzo, lo sapresti già. - Vee, sono la tua unica amica, e non sono stata io a farti da gancio. - Lo so. E' stato il tuo ragazzo. Mi andò di traverso un cubetto di gorgonzola. - Patch ti ha organizzato un appuntamento al buio? - Sì, e allora? - chiese Vee un po'' sulla difensiva. Sorrisi. - Credevo che non ti fidassi di lui. - Infatti non mi fido. - Ma? - Ho provato a chiamarti per chiederti informazioni sul tizio con cui sarei uscita ma, come ho già detto, ormai non rispondi più alle mie chiamate. Colpita e affondata. Mi sento la peggiore amica che sia ma' esistita -. Le sorrisi con aria complice. - Ora raccontami il resto. Vee abbandonò il tono ostile e ricambiò il sorriso. - Si chiama Rixon, ed è irlandese. La sua cadenza mi fa impazzire. È così sexy! E' un po'' magrolino rispetto a me, che sono più prosperosa, ma mi sono ripromessa di perdere nove chili quest'estate, quindi ad agosto dovremmo essere già più equilibrati. - Rixon? Incredibile! Io adoro Rixon! -. Di solito non mi fidavo degli angeli caduti, ma Rixon faceva eccezione. Anche lui, come Patch, aveva deciso di collocare i propri confini morali nella zona grigia compresa tra il bianco e il nero. Non era perfetto, ma non era neanche male. Ridacchiai puntandole contro la forchetta. - Non posso credere che tu sia uscita con lui. Il miglior amico di Patch! E tu odi Patch! Mi guardò come un gatto quando drizza il pelo. - E questo che significa? Guarda me e te: siamo totalmente diverse. - Ma è fantastico! Quest'estate possiamo fare un sacco di cose tutti e quattro insieme. - Neanche per sogno. Io non ci esco con quello svalvolato del tuo fidanzato. Non importa quello che mi hai detto, io credo ancora che sia coinvolto nella misteriosa morte di Jules. La conversazione piombò nel silenzio, come oscurata da una nube plumbea. C'erano soltanto tre persone in palestra la notte in cui era morto Jules, e io ero una di quelle. Non avevo mai raccontato a Vee tutto quello che era successo, solo quello che serviva a farla smettere di fare domande; e per il suo bene, avevo deciso di lasciare le cose come stavano. Per tutto il resto della giornata, Vee mi scarrozzò a ritirare moduli di richiesta di lavoro da ogni più squallido fast food in città, così arrivai a casa che erano quasi le sei e mezza. Lasciai le chiavi sulla credenza e controllai la segreteria telefonica. C'era un messaggio di mamma: era in gastronomia a prendere pane all'aglio, lasagne e una bottiglia di vino economico, giurando sulla propria testa che sarebbe arrivata a casa prima dei Parnell. Cancellai il messaggio e andai di sopra, in camera mia. Quella mattina non avevo fatto la doccia e a quel punto della giornata avevo i capelli più crespi che mai, quindi contavo almeno di riuscire a cambiarmi e indossare degli abiti puliti. Avevo solo ricordi sgradevoli di Scott Parnell, ma l'ospitalità era sacra. Avevo appena Iniziato a sbottonarmi il cardigan, quando sentii bussare alla porla d'ingresso. Mi ritrovai davanti Patch, le mani in tasca. Normalmente l'avrei accolto gettandomi tra le sue braccia; quel giorno invece mi frenai. La sera prima gli avevo detto che l'amavo e lui non solo era scappato ma, a quanto pareva, era andato dritto a casa di Marcie. Mi sentivo ferita nell'orgoglio, arrabbiata e insicura. Speravo che la mia freddezza gli facesse capire che qualcosa non andava e avrebbe continuato a non andare finché lui non si fosse deciso a darmi una spiegazione, o chiedermi scusa. - Ehi - dissi con studiata noncuranza. - Ieri sera ti sei dimenticato di chiamare. Dove sei andato a finire? - Ho fatto un giro. Hai intenzione di invitarmi a entrare? No, non ne avevo intenzione. - Mi fa piacere che casa di Marcie fosse proprio sulla traiettoria del tuo giro. Un lampo di sorpresa gli attraversò lo sguardo, a conferma di ciò a cui non volevo credere: Marcie aveva detto la verità. Vuoi dirmi che cosa sta succedendo? — continuai in tono leggermente più ostile. - Vuoi dirmi che cosa ci facevi ieri sera sotto casa sua? Sembri gelosa, angelo -. Mi parve di cogliere un che di canzonatorio nella sua voce; a differenza delle altre volte, non era né affettuoso né spiritoso. borse non sarei gelosa se tu non me ne dessi motivo. Che ci facevi a casa sua? - Avevo degli affari da sistemare. Sollevai di scatto le sopracciglia. - Non sapevo che tu e Marcie foste in affari. - E così, ma è solo questo: affari. - Ti spiacerebbe essere un po'' più preciso? -. Le mie parole suonavano molto accusatorie. - Mi stai accusando di qualcosa? - Dovrei? - No - rispose a labbra strette. Strano, di solito riusciva a mascherare perfettamente le emozioni. - Se era una cosa così innocente, perché ti è tanto difficile spiegarmi che cosa ci facevi lì? - Non è che mi sia difficile spiegartelo - disse misurando con attenzione ogni singola parola. - Non ho intenzione di spiegartelo perché quello che facevo a casa di Marcie non ha niente a che fare con noi. Come poteva pensare che una cosa del genere non avesse niente a che fare con noi? Marcie non perdeva occasione di attaccarmi e sminuirmi. Negli ultimi undici anni mi aveva presa in giro, aveva messo in giro voci tremende sul mio conto e mi aveva umiliato in pubblico. Come poteva pensare che non mi riguardasse? Come poteva pensare che avrei accettato la cosa senza fare domande? E soprattutto, non vedeva che ero terrorizzata dall'eventualità che Marcie potesse usarlo per ferirmi? Se lei avesse creduto che Patch provava un minimo interesse per me, avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per prenderselo. Non riuscivo a tollerare il pensiero di perdere Patch, ma perderlo per lei mi avrebbe ucciso. Sopraffatta da quella paura improvvisa, dissi: - Toma quando sarai disposto a spiegarmi che cosa facevi a casa sua. Patch entrò a forza, aprendosi un varco con impazienza, e poi si richiuse la porta alle spalle. - Non sono venuto per litigare. Volevo solo che sapessi che oggi pomeriggio Marcie è finita nei guai. Ancora Marcie? Non credeva di aver già girato abbastanza il coltello nella piaga? Cercai di mantenere la calma per lasciarlo finire di parlare, anche se avrei voluto urlargli contro. - Ah sì? - commentai con freddezza. - Si è trovata in mezzo mentre un gruppo di angeli caduti cercava di costringere un Nephilim a giurare fedeltà nel bagno degli uomini, alla Bo's Arcade. Il Nephilim però non aveva ancora sedici anni, quindi non potevano obbligarlo, si divertivano solo a provarci. L'hanno ridotto piuttosto male, gli hanno persino rotto qualche costola. E poi è entrata Marcie. Aveva bevuto e si è infilata nella toilette sbagliata. L'angelo caduto che stava di guardia l'ha ferita con un coltello. E' in ospedale adesso, ma la dimetteranno presto. Irrita superficiale. Sentii accelerare i battiti del cuore: il fatto che Marcie fosse stata accoltellata mi aveva turbata, però non avevo nessuna intenzione di darlo a vedere a Patch. Incrociai le braccia, rigida. - Cavoli, e come sta il Nephilim?-. Patch me l'aveva spiegato, e io mi ricor- davo vagamente, che gli angeli caduti non possono costringere i Nephilim a giurare fedeltà se questi non hanno compiuto sedici unni. Allo stesso modo, Patch non poteva uccidermi per diventare umano prima che io avessi compiuto sedici anni. Era un'età magica e oscura, cruciale direi, per il mondo degli angeli e dei Nephilim. Patch mi guardò con una sfumatura di disgusto serrando la mascella. - Marcie sarà anche stata ubriaca, ma c'è la possibilità che ricordi quello che ha visto. Ovviamente sai che angeli caduti e Nephilim cercano di non attirare l'attenzione e una come Marcie, che parla sempre troppo, rappresenterebbe una minaccia: l'ultima cosa che vorrebbero è che lei annunciasse al mondo intero quello che ha visto. Nel nostro mondo fila tutto molto più liscio quando gli umani ignorano ciò che accade. Conosco gli angeli caduti che erano presenti. Faranno qualsiasi cosa per fare star zitta Marcie. Ebbi paura per lei, ma solo per un attimo. Da quando in qua a Patch interessava quel che le succedeva, brutto o bello che fosse? Da quando in qua si preoccupava più per lei che per me? - Vorrei tanto dispiacermi - dissi - ma vedo che lo stai già facendo tu per entrambi -. Girai di scatto il pomello della porta e la spalancai. — Forse dovresti andare a vedere come sta Marcie, controllare se la ferita superficiale si sta rimarginando bene. Patch mi staccò la mano dal pomello e richiuse la porta con il piede. - Sta succedendo qualcosa di molto più grande di te, me e Marcie -. Esitò, come se volesse aggiungere qualcos'altro, ma all'ultimo momento non lo fece. - Te, me e Marcie? E da quando noi tre facciamo parte della stessa frase? Da quando lei è importante per te? - sbottai. Lui si portò una mano alla nuca; sembrava volesse scegliere con cura le parole. - Dimmi qualcosa! - gridai. - Sputa il rospo! E' già abbastanza penoso non avere idea di cosa provi, figuriamoci non sapere che cosa pensi! Patch si guardò intorno come se si domandasse se non stessi parlando con qualcun altro. - Sputa il rospo? - disse. Dal tono sembrava incredulo, forse persino seccato. - Che cosa credi stia cercando di fare? Se ti calmassi, ci riuscirei. Reagisci in modo isterico a qualunque spiegazione. Lo guardai torva. - Ho tutto il diritto di essere arrabbiata: non vuoi dirmi che cosa facevi a casa di Marcie ieri sera. Patch alzò le mani come a dire "Ci risiamo!". - Due mesi fa - continuai, cercando di metterci un po' di arroganza per nascondere il tremolio della voce - Vee, mia madre... tutti! mi avevano avvertito che eri il tipo che considera le ragazze solo una conquista. Mi avevano avvertito che sarei stata l'ennesima tacca sul calcio del fucile, l'ennesima stupida da sedurre solo per sfizio. Mi avevano detto che non appena mi fossi innamorata di te, mi avresti lasciata -. Deglutii a fatica e aggiunsi: - Ho bisogno di sapere se avevano ragione. Pur non volendo, il ricordo della notte precedente riaffiorò con assoluta chiarezza; rievocai quella scena umiliante in ogni più vivido dettaglio. Gli avevo detto che l'amavo, e lui aveva lasciato la questione in sospeso. Il suo silenzio poteva essere interpretato in centinaia di modi, nessuno dei quali positivo. Patch scosse la testa, incredulo. - Vuoi che ti dica che hanno torto? Perché ho l'impressione che tu non sia intenzionata a credermi, qualsiasi cosa dica - concluse lanciandomi un'occhiataccia. Vuoi impegnarti in questo rapporto quanto lo voglio io? -. Non potevo non chiederglielo. Non dopo aver visto andare tutto all'aria dalla sera alla mattina. All'improvviso, mi ero resa conto ili non avere idea di cosa Patch provasse per me. Credevo di essere tutto per lui, ma se invece avessi visto solo ciò che volevo vedere? Se avessi ingigantito i suoi sentimenti? Sostenni il suo sguardo: non gli avrei reso la cosa facile, non gli avrei dato la possibilità di eludere la domanda. Dovevo sapere. - Tu mi ami? «Non posso rispondere a questa domanda» mi disse nella mente. Era un dono posseduto da tutti gli angeli, ma non capivo perché avesse scelto di usarlo proprio in quel momento. - Torno domani. Dormi bene - aggiunse bruscamente, dirigendosi alla porta. Quando ci baciamo, fingi? Si bloccò e scosse di nuovo la testa per dichiarare la propria Incredulità. - Se fingo? - Quando ti tocco, senti qualcosa? Mi desideri? Provi qualcosa di simile a quello che provo io? Patch mi guardò in silenzio. - Nora... Voglio una risposta sincera. - Dal punto di vista emotivo, sì - disse dopo un momento di pausa. Fisicamente però no, giusto? Come possiamo avere una relazione se non ho idea di quanto conti per te? Le mie sensazioni sono a un livello completamente diverso dalle tue? Perché a me sembra di sì, e non mi piace affatto. Non voglio che mi baci perché devi. Non voglio che tu finga che per te sia importante quando invece è tutta una commedia. - Una commedia? Ma ti rendi conto di quello che dici? -. Piegò indietro la testa e fece una risata cupa, quindi mi lanciò un'altra occhiata di traverso. - Hai finito con le accuse? - Lo trovi divertente? - dissi, in preda a un nuovo attacco di rabbia. - Al contrario -. Prima che riuscissi a dire altro, si voltò verso la porta. - Chiamami, quando riacquisti l'uso della ragione. - E questo che significa? - Significa che sei pazza. Dici cose assurde. - Io sono pazza? Mi sollevò il mento e mi stampò sulla bocca un bacio ruvido e frettoloso. - E io devo essere pazzo a sopportarlo. Mi liberai dalla stretta e mi strofinai il mento, risentita. - Hai rinunciato a diventare umano per me, ed è questo il risultato? Un fidanzato che bazzica casa di Marcie e non vuole dirmi il motivo. Che abbandona il campo al primo accenno di burrasca. Sai che ti dico? Sei uno stronzo! «Uno stronzo?» mi disse nella mente, la voce fredda e tagliente. «Sto cercando di seguire le regole. Non dovrei innamorarmi di te. Sappiamo entrambi che Marcie non c'entra niente, è quello che provo per te, il problema. Devo tenermi a freno, cammino sul filo del rasoio. Tutti i miei guai sono iniziati proprio perché mi sono innamorato. Non posso stare con te nel modo in cui vorrei.» - Perché hai rinunciato a diventare umano per me, se sapevi che non avresti potuto stare con me? - chiesi. Avevo la voce un po' tremolante, le mani sudate. - Che cosa ti aspettavi da questa relazione? Per quale motivo stiamo... - la voce mi cedette e, senza volerlo, deglutii - ...insieme? Che cosa mi aspettavo dalla relazione con Patch? A un certo momento dovevo essermi chiesta in che direzione stesse andando e che cosa sarebbe successo. Dovevo averlo fatto, per forza. Probabilmente, però, quello che vedevo all'orizzonte mi aveva spaventata al punto da far finta che l'inevitabile fosse ancora lontano. Avevo finto che la relazione con Patch potesse funzionare perché, nel profondo, pensavo che ogni istante passato con Patch fosse comunque meglio di niente. «Angelo.» Quando sentii nella mente Patch che mi chiamava, alzai lo sguardo. «Starti vicino, in qualsiasi modo, è meglio di niente. Non ti perderò.» Si interruppe, e per la prima volta da quando lo conoscevo vidi un'ombra di preoccupazione attraversargli lo sguardo. - Ma sono già caduto una volta. Se dessi agli arcangeli motivo di credere che sono anche solo minimamente innamorato di te, mi spedirebbero all'inferno. Per sempre.» Quella notizia mi colpì come un pugno allo stomaco. - Che cosa? «Io sono un angelo custode, perlomeno questo è quanto mi è stato detto, ma gli arcangeli non si fidano di me. Non ho alcun privilegio, nessuna privacy. Ieri sera, due di loro mi hanno bloccato per parlarmi, e me ne sono andato con la sensazione che non aspettino altro che commetta un passo falso. Qualsiasi cosa faccia, decideranno di prendere provvedimenti severi. Stanno solo cercando una buona scusa per liberarsi di me. Sono in prova, e se commetto uno sbaglio non farò una bella fine.» Lo fissai, convinta che stesse esagerando, che la situazione non potesse essere tanto brutta, ma mi bastò guardarlo per capire che non era mai stato così serio. - E quindi come facciamo? - gli domandai. Per tutta risposta, Patch sospirò. La verità era che sarebbe comunque andata a finire male. Per quanta marcia indietro potessimo fare, per quanto potessimo andarci piano o guardare da un'altra parte, un giorno neanche troppo lont ano le nostre vite avrebbero dovuto dividersi. Che cosa sarebbe successo dopo il diploma, quando fossi partita per il college? E quando fossi andata all'altro capo del Paese per inseguire il lavoro che sognavo? E che cosa sarebbe successo quando fosse arrivato il momento di sposarmi o avere dei figli? Innamorarmi di Patch e veder crescere questo amore ogni giorno di più non avrebbe portato a niente di buono. Volevo davvero proseguire per quella strada, pur sapendo che ci avrebbe portato a un sicuro disastro? Per un attimo, pensai di aver trovato la risposta: avrei rinunciato ai miei sogni. Facile. Chiusi gli occhi e li lasciai andare, come fossero palloncini legati a lunghi nastri sottili. Non ne avevo bisogno. Non potevo neanche avere la certezza che si sarebbero avverati. E se anche fossero diventati realtà, non volevo passare il resto della vita da sola, a tormentarmi sapendo che tutto quello che avevo fatto non aveva alcun senso senza Patch accanto. E poi mi resi conto, con orrore, che nessuno dei due poteva cambiare il corso delle cose. La mia vita avrebbe continuato a marciare dritta verso il futuro, e io non avevo il potere di fermarla. Patch sarebbe rimasto per sempre un angelo; avrebbe continuato a percorrere la strada intrapresa dopo la sua caduta. - Non c'è niente che possiamo fare? - chiesi. - Sto cercando di farmi venire qualche idea. In altre parole, non aveva niente in mano. Eravamo in trappola: da una parte gli arcangeli, che facevano pressione, dall'altra due futuri che prendevano direzioni diametralmente opposte. - Voglio che ci lasciamo - mormorai. Sapevo di non essere onesta: stavo solo proteggendo me stessa. Ma avevo altra scelta? Non potevo dare a Patch la possibilità di convincermi a cambiare idea: dovevo fare ciò che era meglio per entrambi. Non potevo starmene lì senza fare niente, mentre l'unica cosa che avevo mi scivolava via dalle mani, giorno dopo giorno. Non potevo fargli vedere quanto ci tenessi, perché in quel modo avrei solo reso le cose più difficili. E soprattutto non volevo che, a causa mia, Patch perdesse tutto ciò per cui aveva lottato. Se gli arcangeli cercavano una scusa per cacciarlo dalla Terra, io stavo solo facilitando loro il compito. Patch mi fissò come se non capisse se dicessi sul serio. - E' questo che vuoi? Lasciarmi? Hai avuto modo di spiegare il tuo punto di vista, a cui peraltro non credo, e ora che tocca a me dovrei semplicemente accettare la tua decisione e farmi da parte? Mi strinsi le braccia attorno al corpo e mi scostai. - Non puoi obbligarmi a stare con te, se non voglio. Possiamo parlarne? Se vuoi parlare, dimmi che cosa facevi a casa di Marcie ieri sera -. Patch, però, aveva ragione: Marcie non c'entrava. Ero spaventata e turbata da ciò che il fato e le circostanze potevano avere in serbo per noi. Quando alzai lo sguardo vidi che Patch si passava le mani sul viso, poi scoppiò in una risata breve e amara. Se ieri sera io fossi andata da Rixon, non ti staresti chiedendo il perché? - gli chiesi con rabbia. No - sussurrò. - Io mi fido di te. Temendo di non riuscire a rimanere ferma nei miei propositi non avessi agito subito, lo colpii al petto, facendolo indietreggiare. - Vattene - dissi, la voce resa aspra dalle lacrime. - Ci sono altre cose che voglio fare nella vita, cose che non hanno niente a che vedere con te. Mi aspetta il college, e un lavoro. Non getterò tutto al vento per una storia senza futuro. Patch sussultò. - E' davvero questo che vuoi? -Quando bacio il mio ragazzo, voglio che lui lo senta! Mi pentii immediatamente di averlo detto. Non volevo ferirlo, solo farla finita il prima possibile, così da potermi abbandonare alla disperazione. Avevo esagerato, però: lo vidi da come si era irrigidito. Restammo a guardarci negli occhi, il respiro affannoso. E poi Patch uscì, con decisione, sbattendo la porta. Non appena si fu richiusa, ci crollai sopra. Sentivo le lacrime bruciarmi in fondo agli occhi, ma non ne lasciai uscire neanche una. Ero troppo frustrata e arrabbiata per riuscire a provare anche qualcos'altro, e tuttavia sospettavo - e l'idea non fece che aumentare il groppo in gola - che di lì a cinque minuti, quando tutte le emozioni si fossero esaurite e io mi fossi resa conto della reale portata di ciò che avevo fatto, avrei sentito il mio cuore andare in pezzi. 3 Mi sedetti sul letto, lo sguardo fisso nel nulla. La rabbia stava svanendo, ma avrei quasi preferito restarne preda per sempre. Il vuoto che lasciò faceva più male del dolore acuto, cocente che avevo provato quando Patch era andato via. Cercai di trovare un senso in quello che era appena successo, ma non riuscivo a mettere in fila i pensieri. Le parole che ci eravamo urlati mi risuonavano nelle orecchie, ma in modo confuso, come se stessi rievocando un brutto sogno anziché una vera conversazione. Avevo davvero rotto con lui? Volevo davvero che fosse una cosa definitiva? Non c'era modo di aggirare il destino o, più nell'immediato, le minacce degli arcangeli? Quasi a mo' di risposta, mi si attorcigliò lo stomaco e mi venne da vomitare. Corsi in bagno e mi piegai sul gabinetto, un forte ronzio nelle orecchie e il respiro corto. Che cosa avevo fatto? Niente di irrimediabile, sicuramente niente di irrimediabile. Il giorno dopo ci saremmo rivisti e tutto sarebbe tornato come prima. Si era trattato solo di una lite. Una stupida lite. Non era finita. Ci saremmo resi conto di quanto eravamo stati meschini e ci saremmo scusati. Ci saremmo lasciati tutto alle spalle, avremmo fatto pace. Mi tirai su a fatica e aprii il rubinetto del lavandino, quindi bagnai un asciugamano e me lo premetti sul viso. La testa mi girava vorticosamente, così chiusi gli occhi per fermare le immagini «Ma come facciamo con gli arcangeli?» mi chiesi. Come faremo ad avere un rapporto normale con i loro occhi costantemente puntati addosso? Mi raggelai. Magari mi stavano osservando anche in quel momento. Magari stavano osservando Patch, per cercare di capire se aveva oltrepassato il limite. Stavano cercando una scusa qualsiasi per spedirlo all'inferno, lontano da me, per sempre. Sentii riaccendersi la rabbia. Perché non ci lasciavano in pace? Perché erano così determinati a distruggere Patch? Lui mi aveva detto di essere il primo angelo caduto a riacquistare le ali e diventare un custode. Per questo gli arcangeli erano in collera? Avevano la sensazione che Patch li avesse ingannati? O che avesse usato una scorciatoia? Volevano metterlo a posto? Oppure, più semplicemente, non si fidavano di lui? Chiusi gli occhi e sentii una lacrima scendere lungo il naso. «Ritiro tutto quello che ho detto» pensai. Volevo disperatamente chiamare Patch, ma non sapevo se in quel modo l'avrei messo in pericolo. Gli arcangeli potevano ascoltare di nascosto le conversazioni telefoniche? Come avremmo potuto parlare con sincerità sapendo che stavano a origliare? E poi non potevo mettere da parte l'orgoglio così in fretta. Possibile che lui non si rendesse conto di avere torto tanto quanto me? Quella lite era scoppiata proprio perché si era rifiutato di dirmi che cosa ci facesse a casa di Marcie, la sera prima. Non ero gelosa, e lui conosceva i miei trascorsi con Marcie, quindi doveva sapere che su quel punto avrei dovuto sapere la verità. C'era anche un'altra cosa che mi faceva impazzire. Patch aveva detto che Marcie era stata aggredita alla Bo's Arcade, nel bagno degli uomini: che cosa ci faceva Marcie da Bo's? Che io sapessi, nessuno della Coldwater High lo frequentava. Prima di conoscere Patch, in realtà, non l'avevo neanche mai sentito nominare, quel posto. Patch si era appostato sotto la finestra della camera di Marcie e il giorno dopo lei era andata da Bo's: solo una coincidenza? Patch sosteneva che tra loro c'erano soltanto questioni di affari, ma che cosa significava? E poi Marcie era, tra le altre cose, attraente e persuasiva. Non solo non accettava un no come risposta, ma non tollerava di ricevere risposte diverse da quelle che voleva sentire. E se quella volta ciò che voleva fosse stato... Patch? Un colpo secco alla porta d'ingresso mi riscosse dalle fantasticherie. Raggomitolata sui cuscini del letto, chiusi gli occhi e chiamai mia madre al telefono. - Sono arrivati i Parnell. - Cavolo! Sono al semaforo della Walnut. Arrivo tra due minuti, Intanto falli entrare. - Scott me lo ricordo appena e sua madre per niente. Li faccio entrare, ma non aspettarti che mi metta a fare conversazione. Me ne torno in camera mia e resto lì finché non arrivi -. Cercai di furie capire, dal tono della voce, che qualcosa non andava, ma non è che potessi confidare tanto in lei. Odiava Patch, per cui non mi avrebbe certo compatita. E io non avrei potuto sopportare di sentirla felice e sollevata. Non in quel momento. - Nora. - E va bene! Gli parlerò -. Chiusi di scatto il telefono e lo lanciai dall'altra parte della stanza. Mi avviai alla porta con calma, e aprii. Il tizio in attesa sullo zerbino era alto e ben piantato, lo si intuiva da quanto era attillata la maglietta, che reclamizzava, a caratteri cubitali, PALESTRA PLATINUM, PORTLAND. Al lobo dell'orecchio destro gli pendeva un cerchietto d'argento e i Levi's erano pericolosamente bassi sui fianchi. Indossava un cappellino da baseball rosa a stampa hawaiana, che sembrava appena uscito da un negozio dell'usato e di cui soltanto lui vedeva il lato divertente, e un paio di occhiali da sole tipo quelli di Hulk Hogan. Eppure, aveva un certo fascino fanciullesco. Gli angoli delle labbra si sollevarono. - Tu devi essere Nora. - E tu devi essere Scott. Entrò, si tolse gli occhiali ed esaminò l'ingresso che conduceva alla cucina e al soggiorno. - Dov'è tua madre? - Sta arrivando con la cena. - La cena per noi? Che si mangia? Non mi piaceva il modo in cui diceva «noi». Non c'era nessun "noi". C'erano la famiglia Grey e la famiglia Parnell. Due entità distinte cui capitava, per una sera, di condividere la tavola. Visto che non rispondevo, continuò: - Coldwater è un po' troppo piccola per le mie abitudini. Incrociai le braccia al petto. - E' anche un po'' più fredda di Portland. Lui mi guardò da capo a piedi, quindi accennò un sorriso. - Me ne sono accorto -. Si diresse in cucina, schivandomi, e apri il frigorifero. - Hai una birra? - Che cosa? No. Dalla porta d'ingresso, rimasta aperta, arrivarono delle voci. Mia madre oltrepassò la soglia con due sacchetti di carta pieni di spesa, seguita da una donna rotondetta con un brutto taglio di capelli da folletto e un pesante make-up rosa. - Nora, questa è Lynn Parnell - disse mia madre. - Lynn, questa è Nora. - Santo cielo! - esclamò la signora Parnell stringendosi le mani al petto. - Ti somiglia tantissimo, Blythe! E guarda che gambe! Più lunghe di quelle delle spogliarelliste di Las Vegas. - So che non è il momento più opportuno, - intervenni - ma non mi sento bene, quindi credo che andrò a stendermi un po'... All'occhiataccia di mia madre, mi interruppi. Le risposi con uno sguardo che esprimeva tutto il senso di ingiustizia che provavo. - Scott è diventato proprio grande, vero Nora? - Molto perspicace. La mamma appoggiò i sacchetti e si rivolse a Scott. - Nora e lo, stamattina, ricordavamo con un po'' di nostalgia tutte le cose che facevate da piccoli. Nora mi ha raccontato che cercavi di farle mangiare gli insetti-palla. Prima che Scott potesse difendersi, spiegai: - Li friggeva vivi cON la lente d'ingrandimento e cercava di farmeli mangiare. Mi NI sedeva addosso e mi turava il naso finché ero costretta ad aprire la bocca. A quel punto ce li infilava dentro. La mamma e la signora Parnell si scambiarono un'occhiata. Scott è sempre stato molto persuasivo - disse prontamente quest'ultima. - Può convincerti a fare cose che non ti saresti mai sognato. Ha un'abilità straordinaria. Mi ha convinta a comprargli una Ford Mustang del 1966 in perfette condizioni. Naturalmente ha azzeccato il momento giusto, quando ero in preda ai sensi di di colpa per il divorzio. Quindi, be', probabilmente avrà fatto i migliori insetti-palla fritti della zona. Mi guardarono tutti, quasi volessero averne conferma. lo invece non riuscivo a credere che stessimo davvero parlandone come se si trattasse di un argomento "normale". - Allora - attaccò Scott grattandosi il petto. Quando lo faceva, gli si fletteva il bicipite, cosa di cui doveva essere ben consapevole. Cosa c'è per cena? - Lasagne, pane all'aglio e insalata con cubetti di gelatina Jell-O - rispose la mamma con un sorriso. - L'insalata l'ha preparata Nora. Mi suonava nuovo, quindi mi lascia sfuggire: - Davvero? - Hai comprato tu la gelatina - mi ricordò. - Non credo che conti. - L'insalata l'ha fatta Nora - garantì mia madre a Scott. - Credo sia tutto pronto. Vogliamo mangiare? Una volta seduti, ci prendemmo per mano e la mamma benedisse il cibo. Parlami delle case che ci sono in zona - disse la signora Parnell tagliando le lasagne e facendo scivolare la prima porzione nel piatto di Scott. - Quanto mi verrebbe a costare un appartamento con due camere da letto e due bagni? — Dipende da quanto lo vuoi ristrutturato - rispose mamma. In questa zona della città la maggior parte dei palazzi è stata costruita prima del 1900, e si vede. Quando ci siamo sposati, Harrison e io abbiamo visto parecchi appartamenti di due camere poco costosi, ma c'era sempre qualcosa che non andava: pareti piene di crepe, scarafaggi, oppure i parchi non erano raggiungibili a piedi. Dal momento che ero incinta, abbiamo deciso che avevamo bisogno di più spazio. Questa casa era in vendita da diciotto mesi e abbia mo concluso un affare che ci era sembrato troppo bello per essere vero —. Si guardò intorno e aggiunse: - Harrison e io avevamo in mente di ristrutturarla da cima a fondo, un po'' alla volta, ma poi... be'... lo sapete... -. Chinò il capo. Scott si schiarì la voce. - Mi dispiace per tuo padre, Nora. Mi ricordo ancora quando mio padre mi ha chiamato per avvisarmi, quella sera. Stavo lavorando in un negozio di alimentari a pochi isolati da lì. Spero lo prendano, chiunque sia stato. Cercai di ringraziarlo, ma le parole mi si frantumarono in gola. Non volevo parlare di mio padre, era già abbastanza difficile dover sopportare la ferita aperta della recente rottura con Patch. Dove si trovava in quel momento? Era divorato dal rimorso? Si rendeva conto di quanto volessi rimangiarmi tutto quello che avevo detto? Di colpo, mi venne in mente che magari mi aveva mandato un sms, e desiderai aver portato il cellulare in cucina. Ma quanto avrebbe potuto essere esplicito? Gli arcangeli potevano leggere i suoi sms? Quanto erano in grado di vedere? Erano ovunque? All'improvviso mi sentii molto vulnerabile. - Dunque, Nora - disse la signora Parnell. - Com'è la Coldwater High High? A Portland Scott praticava la lotta libera. La sua squadra ha vinto gli ultimi tre campionati. Com'è la squadra della scuola, e valida? Io ero convinta che la squadra di Scott avesse incontralo quella di Coldwater, ma poi lui mi ha detto che è in serie C. Riemersi lentamente dalla nebbia dei miei pensieri. Avevamo una squadra di lotta libera? - Non so niente di lotta libera - risposi in tono inespressivo ma la squadra di basket una volta ha vinto il campionato statale. Le andò il vino di traverso. - Una volta? -. Spostò lo sguardo da me a mia madre, come a chiedere una spiegazione. - C'è una fotografia della squadra di fronte alla segreteria - insistei. - Sembra scattata almeno sessant'anni fa. La signora Parnell sgranò gli occhi. - Sessant'anni fa? Si tamponò le labbra con il tovagliolo. - Cos'è che non funziona? L'allenatore? Il direttore sportivo? - Non ha importanza - intervenne Scott. - Vorrà dire che salterò un anno. Sua madre mise giù la forchetta in modo rumoroso. — Ma tu adori la lotta libera. Scott trangugiò un boccone di lasagne e alzò una spalla con Indifferenza. - Sei all'ultimo anno. - E allora? - disse Scott con la bocca piena. Lei piantò i gomiti sul tavolo e si piegò in avanti. - Allora non riuscirai a entrare al college con i voti che ti ritrovi, signorino. La tua unica speranza, a questo punto, è che ti prendano in un college pubblico. - Ho altro in mente. Lei sollevò di scatto le sopracciglia. - Oh! Tipo ripetere l'esperienza dell'anno scorso? Non appena ebbe pronunciato quella frase, un lampo di paura le attraversò lo sguardo. Scott masticò a lungo, quindi inghiottì, ma con evidente fatica. - Mi passi l'insalata, Blythe? La mamma porse la ciotola alla signora Parnell, che la posò davanti a Scott con un po'' troppa cautela. - Che cosa è successo l'anno scorso? - chiese mia madre rompendo un silenzio carico di tensione. La signora Parnell agitò la mano con aria noncurante. - Oh, sai com'è. Scott si è cacciato nei guai, normale amministrazione. Niente che qualsiasi madre di un adolescente non si sia trovata ad affrontare -. Rise, ma in modo un po' troppo stridulo. - Mamma... - disse Scott con un tono che somigliava molto a un avvertimento. - Sai come sono i ragazzi - blaterò la signora Parnell, gesticolando con la forchetta. - Non pensano. Vivono alla giornata, sono sconsiderati. Beata te che hai una figlia femmina, Blythe. Mmm, quel pane all'aglio mi sta facendo venire l'acquolina in bocca... me ne passeresti una fetta? - Non avrei dovuto dire niente - mormorò mia madre passandole il pane. - Non so dirvi quanto ci faccia piacere che siate tornati a Coldwater. La signora Parnell annuì energicamente. - Anche noi siamo contenti di essere tornati, e tutti interi. Avevo smesso di mangiare per osservare Scott e sua madre: cercavo di capire che cosa stesse succedendo. I ragazzi sono tutti uguali, certo, ma l'insistenza della signora Parnell sul fatto che i guai del figlio rientrassero nella categoria della normale amministrazione non mi convinceva. E il fatto che Scott controllasse ogni singola parola che usciva dalla bocca della madre non faceva che confermare il mio dubbio. Pensando che ci fosse dell'altro, oltre quello che dicevano, mi misi una mano sul cuore e dissi: - Scott, non sarai mica andato in giro di notte a rubare segnali stradali da appendere in camera? La signora Parnell scoppiò in una risata, questa volta sincera. Sembrava quasi sollevata. Tombola. In qualunque guaio si fosse ficcato, non si trattava di una cosa innocente come rubare segnali stradali. Non avevo cinquanta dollari, ma se li avessi avuti li avrei scommessi tutti sul sospetto che i guai di Scott non erano affatto banali. - Bene - disse mia madre stiracchiando un sorriso - sono sicura che qualsiasi cosa sia successa, ormai è passata. Coldwater è il posto giusto per ricominciare. Ti sei già iscritto alle lezioni, Scott? Alcuni corsi si riempiono in fretta, soprattutto quelli avanzati. - Avanzati? - ripetè Scott con una smorfia divertita. — Senza offesa, ma non punto così in alto —. Stese la mano e le toccò la spalla in modo un po' troppo brusco per essere affettuoso. - Come mia madre ha tanto gentilmente fatto notare, se andrò al college non sarà certo per i miei voti. Per evitare che qualcuno cambiasse argomento, dissi: - Dai, Scott, mi stai facendo morire di curiosità. Che cosa c'è di così torbido nel tuo passato? Non può essere tanto orribile da non poterne parlare con dei vecchi amici. Nora... - intervenne mia madre. - Ti hanno beccato a guidare ubriaco? Hai rubato una macchina? Sentii, sotto il tavolo, il piede di mia madre sul mio. Mi rivolse un'occhiata perforante che diceva "Che ti prende?". Scott scivolò indietro con la sedia e si alzò. - Bagno? - chiese a mia madre allentandosi il colletto. - Indigestione. - In cima alle scale - rispose lei contrita. Si stava scusando per il mio comportamento, ma era stata lei a organizzare quella ridicola cena! Chiunque avesse avuto un briciolo di intuito si sarebbe reso conto subito che lo scopo dell'incontro non era una cena fra vecchi amici di famiglia. Vee aveva ragione: era un incontro combinato. Be', avevo una notizia da dare a mia madre: io e Scott? Mai. Dopo che lui si fu allontanato, la signora Parnell ci rivolse un bel sorriso, quasi volesse cancellare gli ultimi cinque minuti e ricominciare da capo. - Allora, dimmi. Nora ha un ragazzo?-chiese con un tono un po'' troppo allegro. No - dissi, mentre mia madre invece rispondeva: - Diciamo di sì. - Mettetevi d'accordo - fece la signora Parnell masticando li- lasagne e spostando lo sguardo da me alla mamma. - Si chiama Patch - rispose lei. - Che strano nome. Com'è venuto in mente ai suoi genitori? - E' un soprannome - spiegò la mamma. - Siccome gli capita di fare spesso a botte, se ne va in giro rattoppato: da lì hanno iniziato a chiamarlo Patch, benda. Mi pentii subito di averglielo raccontato. La signora Parnell scosse la testa. - Sembra uno di quei nomi che usano i membri delle bande: Slasher, Slayer, Maimer, Mauler, Reaper. Patch. Alzai gli occhi al cielo. - Patch non fa parte di una banda. - Questo è quello che pensi tu — replicò lei. - Le bande sono formate da criminali che si muovono nel centro delle città, giusto? Sono come gli scarafaggi, escono solo di notte -. Ammutolì ed ebbi l'impressione che i suoi occhi si posassero rapidamente sulla sedia vuota di Scott. - I tempi cambiano. Un paio di settimane fa ho visto un episodio di Law & Order che parlava di una nuova razza di bande di periferia formate da ragazzi ricchi. Le chiamavano società segrete, o società di sangue, o con un altro assurdo nome del genere, ma in sostanza è la stessa cosa. Pensavo si trattasse delle solite fesserie hollywoodiane, ma il padre di Scott ha detto che se ne vedono sempre di più, e se non lo sa lui che è un poliziotto... - Suo marito è un poliziotto? - chiesi. - Ex marito, gli venisse un accidente. «Basta così.» La voce di Scott arrivò dalla penombra dell'ingresso, facendomi sobbalzare. Ero sul punto di chiedermi se invece di andare in bagno non fosse rimasto a origliare fuori dalla sala da pranzo, quando si fece strada nella mia mente il fatto che non sembrava avesse parlato ad alta voce. In realtà... Ero quasi sicura che avesse parlato alla mia mente. No. Non alla mia. A quella di sua madre. E io, non so come, l'avevo intercettato La signora Parnell alzò le mani. - Ho solo detto «gli venisse un accidente» e non ho intenzione di rimangiarmelo: è esattamente quello che penso. Ti ho detto di smetterla La voce di Scott era bassa, innaturale. Mia madre si voltò di scatto: sembrava essersi accorta solo in quel momento che Scott era entrato nella stanza. Io mi sentivo stordita e incredula. Potevo averlo davvero sentito parlare con la niente di sua madre. Insomma, Scott era umano... giusto? Ti sembra il modo di parlare a tua madre? - disse la signora Parnell puntandogli il dito contro. In realtà, sembrava l'avesse detto più a nostro uso e consumo che con l'intenzione di rimproverare suI serio Scott. bui restò un momento a fissarla con freddezza, quindi indietreggiò fino all'ingresso e uscì sbattendo la porta. La signora Parnell si asciugò le labbra, lasciando una traccia di rossetto rosa sul tovagliolo. - Il lato sgradevole del divorzio- sospirò preoccupata. - Scott non era così irascibile, prima. Certo, può illusi che crescendo stia diventando come suo padre. Ma questo è un argomento spiacevole e inadatto a una cena. Nora, Patch pratica la lotta libera? Scommetto che Scott potrebbe insegnargli diverse cose. Patch gioca a biliardo - risposi senza entusiasmo. Non avevo alcuna voglia di parlare di lui. Non lì, non in quel momento. Non dopo che la discussione nata dal suo soprannome mi aveva lasciato con la sensazione di avere una grossa pietra in gola. Desideravo solo aver portato il telefono a tavola. Non ero più tanto arrabbiata, quindi pensai che anche Patch potesse essersi calmato. Magari mi aveva perdonata e mi aveva mandato un sms oppure mi aveva chiamata. Era proprio un casino, ma doveva esserci un modo per uscirne. La situazione non poteva essere così brutta: avremmo escogitato una soluzione. Esattamente quello che pensavo io. - Vorrei solo sapere qualcosa di più sul suo conto prima che tu ci passi del tempo insieme - proseguì. - Quando torno, vedo che cosa riesco a scoprire. Be', adesso sì che gli eventi prendevano una piega inaspettata. - Hai intenzione di chiedere informazioni su di lui? - Lynn e io siamo buone amiche. E lei è molto stressata. Può aver bisogno di qualcuno con cui confidarsi -. Si avvicinò al co mò, si fece cadere sul palmo un po' della mia crema per le mani e le strofinò una contro l'altra. - Se accennerà a Scott... sarò tutta orecchi. - Se può servire ad avvalorare la tua tesi sul fatto che abbia in mente qualcosa, penso si sia comportato in modo davvero strano stasera a cena. - I suoi genitori hanno appena divorziato - disse mia madre, attenta a mantenere un tono neutro. - Sono sicura che è molto scombussolato. È dura perdere un genitore. E lo dici a me? - L'asta termina mercoledì pomeriggio, quindi dovrei essere a casa per cena. Vee resta qui domani notte, vero? - Sì — risposi, ricordandomi solo in quel momento che dovevo ancora parlargliene, ma tanto ero sicura che non ci sarebbero stati problemi. - A proposito, sto pensando di cercarmi un lavoro - ag giunsi. Meglio lanciare la palla subito, anche perché, con un po' di fortuna, speravo di trovare un lavoro prima del suo ritorno. Lei mi guardò sorpresa. - Cos'è questa novità? - Ho bisogno di una macchina. - Credevo che Vee non avesse problemi ad accompagnarti. - Mi sento un parassita —. Non potevo neanche correre a comprare gli assorbenti, in caso di emergenza, senza chiamare Vee. E, cosa ancora peggiore, ero stata a tanto così dal dover accettare un passaggio da Marcie Millar, quella mattina. Non volevo chiedere a mia madre cose non necessarie, soprattutto considerate le ristrettezze economiche in cui ci trovavamo, ma nemmeno volevo un bis di quella mattina. Smaniavo per avere un'automobile da quando mia madre aveva venduto la Fiat e vedere quella Volkswagen mi aveva spinto ad agire. Pagarla di tasca mia mi sembrava un buon compromesso. -Non credi che un lavoro interferirebbe con la scuola? - chiese la mamma. Il tono lasciava intendere quanto poco fosse entusiasta dell'idea. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso, comunque. - Seguo solo una materia. - Sì, ma è chimica. - Senza offesa, credo di poter fare due cose insieme. A quel punto si sedette sul letto. - C'è qualcosa che non va? Sei molto irritabile stasera. Ci pensai un attimo prima di rispondere e arrivai a un passo dal confessare la verità. - No, va tutto bene. - Sembri tesa. - E' stata una lunga giornata. Ah, e non ti ho detto che Marcie Millar la mia compagna di banco, a chimica. Dalla sua espressione vidi che capiva perfettamente quanto la cosa mi ferisse. Dopotutto, negli ultimi undici anni, era da lei che mi ero rifugiata ogni volta che Marcie mi aveva strapazzata. Ed era lei che aveva raccolto i pezzi, li aveva rimessi insieme e mi aveva rispedita a scuola più forte e più furba, armata di nuovi trucchi da mettere in atto. - Devo sorbirmela per otto settimane. - Sai che ti dico? Se resisti tutte e otto le settimane senza ucciderla, possiamo riparlare della tua nuova macchina. - Le condizioni sono tutte a tuo vantaggio. Mi diede un bacio in fronte. - Al mio ritorno mi aspetto un rapporto completo dei prossimi due giorni. Niente party scatenati mentre non ci sono. - Non posso promettertelo. - Cinque minuti dopo, la mamma guidava la Taurus sul vialetto d'ingresso. Richiusi la tenda, mi raggomitolai sul divano e mi MISI a fissare il cellulare. - Nessuna telefonata. - Mi portai la mano alla collana di Patch, ancora allacciata intorno al collo, e la strinsi più forte di quanto volessi. Non riuscivo a smettere di pensare che potesse essere l'unica cosa che mi rimaneva di lui. 4 Il sogno era in tre colori: nero, bianco e grigio chiaro. Era una notte fredda. Io ero a piedi nudi, sulla strada sterrata e ricoperta di buche che il fango e la pioggia riempivano in fretta. Qua e là spuntavano una roccia o delle erbacce scheletriche. La campagna era divorata dall'oscurità, tranne che in un punto luminoso: qualche centinaio di metri oltre la strada si vedeva una taverna in legno e pietra. Le finestre erano illuminate dalla luce fioca delle candele, e io stavo per dirigermi là in cerca di riparo quando sentii, in lontananza, un tintinnio di campanelle. Il suono si fece più forte e mi allontanai con prudenza dalla strada. Vidi una carrozza tirata da cavalli procedere rumorosamente nell'oscurità e fermarsi nel punto in cui, fino a qualche momento prima, ero stata io. Non appena le ruote si bloccarono, il cocchiere scese a precipizio, schizzandosi gli stivali di fango fino al polpaccio. Tirò con forza la portiera e si fece da parte. Ne uscì una figura scura. Un uomo. Dalle spalle gli pendeva Utili cappa, agitata dal vento, ma il cappuccio calato sugli occhi gli copriva il viso. - Aspetta qui - disse al cocchiere. Milord, piove molto forte... L'uomo con la cappa fece un cenno in direzione della taverna. - Ho degli affari da sbrigare. Non ci metterò molto. Tieni pronti i cavalli. Gli occhi del cocchiere si mossero in direzione della taverna - Ma milord... quel posto è frequentato da ladri e vagabondi E tira una brutta aria stanotte. Lo sento nelle ossa -. Si sfregò le braccia energicamente, come a contenere un brivido. - Milord farebbe bene a tornare di corsa a casa, dalla signora e dai suoi bambini. - Non fare parola di questo a mia moglie -. L'uomo con la cappa aprì e chiuse le mani inguantate mentre fissava la taverna. - Ha già abbastanza cose di cui preoccuparsi - mormorò Rivolsi l'attenzione alla taverna e al sinistro tremolio delle candele dietro le piccole finestre inclinate. Anche il tetto era storto e pendeva leggermente a destra, come se gli attrezzi utilizzati per costruirlo fossero stati tutt'altro che precisi. La parte esterna era soffocata dalle erbacce e di quando in quando arrivavano urla scalmanate o il rumore di vetri frantumati. Il cocchiere si strofinò il naso con la manica del soprabito — Anche mio figlio è morto di peste non più tardi di due anni fa. È terribile quello che voi e la signora state soffrendo. Nel profondo silenzio che seguì, i cavalli scalpitarono im pazienti. Avevano i mantelli fumanti e dalle narici uscivano piccoli sbuffi di gelo. L'immagine era così autentica da spaventarmi. Non avevo mai sognato niente di così realistico. L'uomo con la cappa si era avviato lungo il vialetto di ciottoli che conduceva alla taverna. I margini del sogno svanirono dietro di lui, e dopo un attimo di esitazione gli andai diretto, preoccupata di poter sparire anch'io, se non gli fossi rimasta vicino. Mi intrufolai nella taverna alle sue spalle. Al centro della parete di fondo c'era un gigantesco Ionio con la canna fumaria in mattoni. Su entrambi i lari, con grOSSI chiodi, erano appese scodelle di legno, tazze di rame e utensili vari. In un angolo erano state fatte rotolare tre botti e, davanti a queste, dormiva, raggomitolato, un cane rognoso. Sgabelli rovesciati, piatti e tazze sporchi sparsi in assoluto disordine ingombravano il pavimento, se di pavimento si poteva parlare. Era in terra battuta, cosparsa di quella che sembrava segatura, e non appena la calpestai il fango che mi si era attaccato sotto i talloni assorbì la terra polverosa. Mentre pensavo a quanto avrei desiderato fare una doccia bollente, la mia attenzione fu catturata dalla decina di avventori seduti ai vari tavoli. La maggior parte di loro aveva i capelli lunghi fino alle spalle e bizzarre barbe a punta. I pantaloni erano larghi e cascanti, infilati dentro alti stivali, le maniche a sbuffo. Indossavano cappelli a tesa larga, che mi ricordarono quelli dei Padri Pellegrini. Stavo decisamente sognando un'epoca lontana nel tempo e il fatto che i dettagli fossero così vividi significava che avrei dovuto avere almeno una vaga idea di quale epoca si trattasse. Tuttavia ero perplessa. Probabilmente era l'Inghilterra, ma il periodo poteva essere compreso tra il quindicesimo e il diciottesimo secolo. Avevo avuto il massimo dei voti a storia quell'anno, ma storia dell'abbigliamento non faceva parte del programma. Niente di quello che avevo davanti ne faceva parte. Sto cercando una persona - disse l'uomo con la cappa all'oste, piazzato dietro un tavolo che gli arrivava alla cintola e che immaginai servisse da bancone del bar. - Mi è stato detto che l'avrei incontrato qui stanotte, ma temo di non conoscerne il nome. L’oste un uomo basso e calvo a parte qualche ispido capello che gli stava ritto in testa, lo squadrò. - Qualcosa da bere?- gli chiese aprendo le labbra e scoprendo radici nere e appuntite al posto dei denti. A quella vista trattenni la nausea che mi colpì allo stomaco e arretrai di un passo. L 'uomo con la cappa non mostrò la stessa repulsione; si limitò a scuotere la testa. - Devo trovare quell'uomo il più presto possibile. Mi hanno detto che voi siete in grado di aiutarmi. Il sorriso cariato dell'oste si spense. - Sì, posso aiutarvi a trovarlo, milord. Ma fidatevi di me, che sono vecchio, e bevete un bicchiere o due, prima. Qualcosa che vi scaldi il sangue in una notte così fredda - disse allungando un bicchierino all'uomo. Dietro il cappuccio, l'altro scosse nuovamente la testa. - Temo di essere un po' di fretta. Ditemi dove posso trovarlo disse spingendo alcune monete deformate dall'altra parte del tavolo. L'oste le intascò e accennò con il capo in direzione della porta di servizio. - Se ne sta laggiù, nella foresta. Ma... milord? Fate attenzione. Dicono che la foresta sia infestata dai fantasmi. Dicono che chi va nella foresta, non torna indietro mai più. L'uomo con la cappa si chinò sul tavolo che li separava e abbassò la voce. - Desidero farvi una domanda personale. Il mese ebraico di Cheshvan vi dice niente? - Non sono ebreo - rispose l'oste in tono indifferente, ma intuii dai suoi occhi che non era la prima volta che gli facevano quella domanda. - L'uomo che devo incontrare mi ha detto di farmi trovare qui la prima notte di Cheshvan. Ha detto che ha bisogno che gli renda un servigio della durata di due settimane. L'oste si accarezzò il mento. - Due settimane è molto tempo. - Troppo tempo. Non sarei dovuto venire, ma avevo paura di ciò che quell'uomo avrebbe potuto fare, se non avessi ubbidito. Ha menzionato per nome tutti i membri della mia famiglia. Li conosceva. Ho una bellissima moglie e quattro figli. Non voglio che faccia loro del male. L'oste abbassò la voce, come a voler condividere una diceria scandalosa. - L'uomo che dovete incontrare è... -. Ammutolì e si guardò intorno con fare sospettoso. - E' straordinariamente potente - disse l'uomo con la cappa. Ho conosciuto la sua forza ed è un uomo possente. Sono venuto per ragionare con lui. Non può aspettarsi che abbandoni i miei doveri e la mia famiglia per un periodo di tempo così lungo. Sarà ragionevole. - Nessuno lo ha mai definito ragionevole - osservò l'oste. - Mio figlio minore ha contratto la peste - spiegò l'uomo con la cappa, con un tremito di disperazione nella voce. - I dottori non pensano che vivrà a lungo. La mia famiglia ha bisogno di me. Mio figlio ha bisogno di me. - Bevete qualcosa - disse piano l'oste. Diede una leggera spinta al bicchiere che gli aveva offerto poco prima. L'uomo con la cappa si allontanò bruscamente dal tavolo e si avviò verso la porta di servizio. Lo seguii. Fuori, sguazzai a piedi nudi nel fango ghiacciato, sempre dietro di lui. La pioggia continuava a cadere a dirotto e dovevo Iure attenzione a non scivolare. Mi asciugai gli occhi e vidi la cappa dell'uomo sparire dietro una fila di alberi al limitare della foresta. Incespicai, esitando davanti alla fila di alberi. Mi tirai indietro i capelli bagnati e scrutai nel buio profondo. Ci fu un movimento fulmineo e poi, improvvisamente, l'uomo si mise a correre verso di me. Inciampò e cadde. La cappa si Impigliò nei rami e lui lottò freneticamente per slacciarla dal collo, quindi cacciò un urlo di terrore. Agitava le braccia in modo scomposto, si contorceva e si muoveva a scatti convulsi. Mi feci largo per raggiungerlo, tra fronde che mi graffiavano le braccia e pietre che mi si conficcavano nei piedi nudi. Caddi in ginocchio accanto a lui. Aveva ancora il cappuccio tirato su, ma riuscivo a vedere la bocca, leggermente aperta, paralizzata in un grido. -Si giri di fianco! - gli ordinai, tirando con forza per cercare di liberare il tessuto impigliato sotto di lui. Lui però non riusciva a sentirmi. Per la prima volta, il sogno assunse un taglio familiare. Proprio come in tutti gli altri incubi in cui ero rimasta intrappolata, più mi dibattevo, più quello che cercavo di raggiungere mi sfuggiva. Lo afferrai per le spalle e iniziai a scuoterlo. - Si giri! Posso portarla via da qui, ma deve collaborare. - Sono Barnabas Underwood - farfugliò. - Sai come si arriva alla taverna? Brava - disse, dando dei colpetti all'aria come se li stesse dando a una guancia immaginaria. Mi irrigidii. Non poteva vedermi. Aveva le allucinazioni, credeva di vedere qualcun'altra. Doveva essere così. Come poteva vedermi se non riusciva a sentirmi? - Corri, e di' all'oste di mandare aiuto - proseguì. - Digli che non c'è nessun uomo. Digli che si tratta di un angelo del demonio, venuto a possedere il mio corpo e gettare via la mia anima. Digli di mandare un prete, acqua benedetta e rose. All'accenno degli angeli del demonio mi si rizzarono i peli sulle braccia. Girò di scatto la testa in direzione della foresta, stirando il collo. - L'angelo! - sussurrò in preda al panico. - L'angelo sta arrivando! Storse la bocca, sembrava stesse lottando per riprendere il controllo del corpo. Si inarcò all' indietro violentemente e cosi gli cadde il cappuccio. Stavo ancora stringendo convulsamente la cappa, ma sentii che le mani allentavano la presa. Restai a fissare l'uomo a bocca aperta, in preda allo stupore. Non era Barnabas Underwood. Era Hank Millar. Il padre di Marcie. Mi svegliai sbattendo le palpebre. Dalla finestra della stanza, aperta di uno spiraglio, entravano raggi di luce e una brezza pigra alitava il primo respiro del mattini » sulla mia pelle. Il cuore batteva ancora all'impazzata per via dell'in- cubo, ma feci un bel respiro profondo e mi tranquillizzai pensando che non era reale. A dire la verità, ora che avevo i piedi ben piantati nel mio mondo, ero più disturbata dal fatto di aver sognato il padre di Marcie che da tutto il resto, così spinsi da parte il sogno, impaziente di dimenticarlo. Estrassi il cellulare da sotto il cuscino e controllai i messaggi. Patch non aveva chiamato. Presi il cuscino e mi ci raggomitolai contro, cercando di ignorare la sensazione di vuoto che avevo dentro. Quante ore erano passate da quando Patch se n'era andato via? Dodici. Quante ne sarebbero passate prima che lo rivedessi di nuovo? Non lo sapevo. Era questo a preoccuparmi davvero. Più tempo passava, più sentivo che la parete di ghiaccio che c'era tra noi si sarebbe ispessita. «Un giorno alla volta» dissi a me stessa, cercando di mandare giù la matassa che avevo in gola. La strana distanza tra noi non poteva continuare per sempre. Non avrei risolto niente restando tutto il giorno nascosta a letto. Avrei rivisto Patch. Magari avrebbe fatto un salto da me dopo la scuola. Oppure avrei potuto chiamarlo io. Continuai con quelle idee ridicole, rifiutandomi di pensare agli arcangeli, o all'inferno. A quanto avessi paura che Patch e io dovessimo affrontare un problema che nessuno dei due era abbastanza forte da risolvere. Mi buttai giù dal letto e trovai un post-it attaccato allo specchio del bagno. La buona notizia è che ho convinto Lynn a non mandare Scott a prenderti, stamattina. La brutta notizia è che Lynn insiste sul giro in città. A questo punto non credo che dire di no sia la soluzione migliore. Ti dispiace portarlo un po' in giro dopo le lezioni? Un giro breve. Molto breve. Ti lascio il suo numero sul bancone della cucina. Ciao, mamma. P.S. Ti chiamo stasera dall'albergo. Gemetti e appoggiai la fronte al ripiano. Non volevo passare neanche dieci minuti con Scott, figuriamoci un paio d'ore. Quaranta minuti dopo mi ero fatta la doccia, mi ero vestita i e avevo mangiato una ciotola di fiocchi d'avena alla fragola Bussarono alla porta, aprii e mi trovai davanti una Vee tutta sorridente. - Pronta per un'altra divertente giornata di scuola estiva? - chiese. Afferrai lo zaino, che era appeso nell'armadio dei cappotti. — Non vedo l'ora che sia finita. - Ehi, chi ti ha pisciato nei Cheerios? - Scott Parnell -. «Patch.» - Vedo che i problemi di incontinenza non si sono risolti con l'età. - Devo fargli fare un giro della città dopo le lezioni. - Un tête à tête con un ragazzo. E qual è il problema? - Avresti dovuto essere qui ieri sera. La cena è stata assurda. La madre di Scott ha iniziato a parlarci dei guai che ha avuto in passato, ma lui l'ha interrotta, anzi, sembrava quasi che la stesse minacciando. Poi ha detto che doveva andare in bagno e invece è rimasto a origliare in corridoio -. «E ha parlato nella mente di sua madre. Forse.» - A quanto pare sta cercando di tenere segreta la sua vita. A quanto pare dovremo fare in modo di cambiare le cose. Ero due passi avanti a Vee, mentre uscivamo di casa, e mi fermai all'improvviso. Avevo appena avuto un'ispirazione. - Ho un'idea geniale — dissi voltandomi. - Perché non lo fai fare tu il giro della città a Scott? No, davvero Vee. Lo adorerai. Ha un modo di fare sconsiderato, contro le regole, da cattivo ragazzo. Ha persino chiesto una birra... scandaloso, no? Credo faccia proprio per te. - Niente da fare. Ho un appuntamento con Rixon, per pranzo. Fu un colpo a tradimento. Anche Patch e io avevamo in programma di pranzare insieme, ma pensavo che non se ne sarebbe fatto nulla. Ma che avevo combinato? Dovevo chiamarlo. Dovevo riuscire a parlarci. Non potevo permettere che le cose finissero in quel modo, era assurdo. C'era una vocina, però, che non riuscivo a ignorare, che mi chiedeva perché non avesse chiamato lui per primo. Doveva farsi perdonare tanto quanto me. - Ti do otto dollari e trentadue centesimi se porti in giro Scott, prendere o lasciare - dissi. - E’ una proposta allettante, ma no, grazie. E poi c'è un'altra cosa. Non credo che Patch farà i salti di gioia all'idea che voi due passiate del tempo insieme da soli. Non fraintendermi, non potrebbe fregarmene di meno di quel che pensa Patch, e se vuoi mandarlo fuori di testa, fa' pure. Però mi sembrava giusto sollevare la questione. Ero già a metà della scalinata della veranda, quando, al sentire il nome di Patch, misi un piede in fallo. Pensai di dire a Vee che avevo rotto con lui, ma non ero pronta a dirlo ad alta voce. Sentii Il cellulare, su cui avevo salvato la foto di Patch, bruciarmi in tasca. Una parte di me voleva scagliare il telefono dall'altra parte della umili, in mezzo al bosco. Un'altra parte non poteva perderlo così velocemente. Inoltre, se l'avessi detto a Vee lei avrebbe sicuramente mantenuto che allora eravamo liberi di uscire con altre persone, e non era quella la giusta conclusione. Io non mi stavo guardando intorno, e neanche Patch. Speravo. Era solo un momento di difficoltà, In nostra prima vera lite. Trascinati dalla situazione, avevamo entrambi detto cose che non pensavamo davvero. - Se fossi in te mi chiamerei fuori - disse Vee piantando i tacchi da dieci centimetri sui gradini. - Io faccio sempre così, quando sono nei pasticci. Chiama Scott e digli che il gatto ha vomitato Interiora di topo e dopo la scuola devi portarlo dal veterinario. - È venuto qui ieri sera, sa che non ho un gatto. - Appunto. Quindi, a meno che non abbia spaghetti scotti al posto del cervello, capirà che non sei interessata. Presi in considerazione l'idea. Se riuscivo a non portare Scott in giro per la città, potevo prendere in prestito la Neon di Vee e seguirlo. Per quanto cercassi di razionalizzare quello che avevo sentito la sera prima, non potevo ignorare il fastidioso sospetto che Scott avesse davvero parlato nella mente di sua madre. Un anno prima avrei considerato l'idea assolutamente ridicola, ma adesso le cose erano diverse. Patch mi aveva parlato nella mente diverse volte. E lo stesso aveva fatto Chauncey (alias Jules), un Nephilim del mio passato. Dal momento che gli angeli caduti non invecchiano, e io conoscevo Scott da quando aveva cinque anni, avevo già scartato quella possibilità. Avrebbe potuto essere un Nephilim, però. Ma se era un Nephilim, che cosa ci faceva a Coldwater? Che senso aveva vivere la vita di un normale studente? Sapeva di essere un Nephilim? E Lynn, lo sapeva? Scott aveva già giurato fedeltà a un angelo caduto? E se non l'aveva ancora fatto, avevo la responsabilità di avvertirlo delle implicazioni? Non andavamo molto d'accordo, ma non per questo si meritava di cedere il proprio corpo ogni anno per due settimane. Certo, magari non era affatto un Nephilim. Magari mi stavo lasciando trascinare dall'immaginazione e non l'avevo mai sentito parlare nella mente di sua madre. Dopo chimica andai spedita all'armadietto, lasciai il libro e presi zaino e cellulare, quindi raggiunsi le porte laterali, da cui si aveva una visione completa del parcheggio degli studenti. Scoli era seduto sul cofano della sua Mustang azzurro metallizzato. Indossava ancora il cappellino hawaiano, e mi resi conto che se avesse continuato a portarlo non avrei mai imparato a riconoscerlo senza. Un esempio per tutti: non sapevo neanche di che colore avesse i capelli. Tirai fuori dalla tasca il post-it che mi aveva lasciato mia madre e composi il numero. -Scommetto che sei tu, Nora Grey - rispose. - Spero tu non stia per darmi buca. -Brutte notizie. Il mio gatto sta male, il veterinario mi ha infilato tra gli appuntamenti, alle dodici e trenta. Dobbiamo rimandare il giro, mi spiace -. Non credevo mi sarei sentita così in colpa. Dopotutto, era solo una piccola bugia. E in tutta onestà, non credevo affatto che Scott volesse fare un giro per Coldwater. Almeno, questo è quello che mi dicevo per alleggerirmi la coscienza. -Va bene - disse Scott, e riattaccò. Non avevo neanche chiuso il telefono, che mi trovai dietro Vee. Rapida e indolore: brava! -Ti spiacerebbe prestarmi la Neon questo pomeriggio? - chiesi. intanto Scott scivolò giù dalla Mustang e fece una telefonata. -Motivo? -Voglio pedinare Scott. perché? Stamattina mi hai fatto capire chiaramente che lo consideri un opportunista. -Ha qualcosa di strano. -Sì, gli occhiali. Ti dice niente Hulk Hogan? Comunque, niente da fare. Ho quell'appuntamento con Rixon. - Sì, ma Rixon potrebbe darti un passaggio e io potrei prendere la Neon - insistetti, gettando uno sguardo oltre la finestra per controllare che Scott non fosse ancora salito in macchina. Non volevo che partisse prima di essere riuscita a convincere Vee a darmi le chiavi della Neon. - Certo che potrebbe, ma poi penserebbe che non so cavarmela da sola. Oggi i ragazzi vogliono donne forti, indipendenti. -Se mi lasci la Neon, ti faccio il pieno. La sua espressione si addolcì, giusto un po'. - Il pieno? - Sì -. Certo, un pieno da otto dollari e trentadue centesimi. Vee si morse il labbro. - Okay - mormorò. - Forse però dovrei venire a farti compagnia, assicurarmi che non ti succeda niente di brutto. - E Rixon? - Non è che siccome ho rimediato un fidanzato fico lascio nei guai la mia migliore amica. E poi ho la sensazione che avrai bisogno del mio aiuto. - Non succederà niente di brutto. Lo seguo e basta, non se ne accorgerà nemmeno - dissi, ma le fui grata per essersi offerta. Gli ultimi mesi mi avevano cambiata. Non ero più ingenua e scriteriata, e portare Vee con me mi faceva molto piacere. Soprattutto se Scott era un Nephilim: l'unico altro Nephilim che avessi mai conosciuto aveva tentato di uccidermi. Vee chiamò Rixon per annullare l'appuntamento, quindi aspettammo che Scott si sistemasse dietro al volante e uscisse a marcia indietro dal parcheggio, prima di lasciare l'edificio. Una volta FUORI dal parcheggio, svoltò a sinistra e Vee e io corremmo a prendere la sua Dodge Neon viola del 1995. - Guida tu - disse Vee lanciandomi le chiavi. Qualche minuto dopo raggiungemmo la Mustang, ero solo tre macchine dietro di lui. Scott imboccò l'autostrada e si diresse a est, verso la costa. Lo seguii. Mezz'ora più tardi, Scott prese l'uscita per il molo ed entrò in un parcheggio all'inizio della lunga fila di negozi che arrivava fino all'oceano. Rallentai, per dargli il tempo di chiudere le portiere e allontanarsi, quindi parcheggiai due file dietro di lui. - Sembra che Scotty Pannolino voglia darsi allo shopping commentò Vee. - A proposito di shopping, non ti dispiace se do un'occhiata in giro mentre tu giochi al piccolo investigatore? Rixon ha detto che gli piacciono le ragazze che usano le sciarpe, e il mio guardaroba ne è assolutamente sprovvisto. - Vai. Restando mezzo isolato dietro di lui, lo vidi entrare in un negozio di abbigliamento alla moda e uscirne meno di quindici minuti dopo con un pacchetto in mano. Entrò in un altro negozio e ne uscì dopo dieci minuti. Niente di insolito, niente che facesse pensare che lui potesse essere un Nephilim. Dopo il terzo negozio, l'attenzione di Scott fu attirata da un gruppo di universitarie che pranzavano in un ristorante, dall'altra parte della strada. Erano sedute a un tavolino riparato da un ombrellone, sulla terrazza, e indossavano pantaloncini corti e la parte superiore del bikini. Scott tirò fuori il cellulare e le fotografò di nascosto. Mi voltai a fare una smorfia verso la vetrina della caffetteria accanto a cui ero ferma e fu allora che lo vidi. Era seduto dentro, indossava pantaloni color cachi, camicia azzurra button-down e un blazer di lino chiaro. I capelli, biondi e ondulati, erano più lunghi e raccolti in una coda di cavallo bassa. Stava leggendo un giornale. Mio padre. Piegò il giornale e si diresse verso il retro del locale. Corsi lungo il marciapiede per raggiungere l'ingresso ed entrai. Mio padre era scomparso tra la folla. Mi precipitai sul retro, guardandomi in giro freneticamente. Il corridoio piastrellato in bianco e nero finiva con la toilette degli uomini a sinistra e quella delle donne a destra. Non c'erano altre uscite, quindi doveva essere nel bagno degli uomini. - Che stai facendo? - mi domandò Scott alle spalle. Mi voltai di scatto. - Come... che cosa ci fai tu qui? ~ Stavo per chiederti la stessa cosa. So che mi hai seguito. Non essere così sorpresa: si chiama specchietto retrovisore. C'è una ragione specifica per cui mi perseguiti? Ero troppo in confusione per preoccuparmi di quello che mi stava dicendo. - Entra nel bagno degli uomini e dimmi se c'è una persona con la camicia azzurra. Scott mi batté un dito in fronte. - Droghe? Disturbo comportamentale? Sembri una matta. - Fallo e basta. Scott spalancò la porta con un calcio. Sentii oscillare le porte dei box e qualche minuto dopo uscì. - Nada. - Ho visto un uomo con la camicia azzurra venire da questi parte. E non c'è un'altra uscita -. Mi voltai verso la porta dall'altra parte del corridoio, l'unica oltre la prima. Entrai nella toilette delle donne e spinsi leggermente tutti i box, uno dopo l'altro, il cuore in gola. Erano tutti e tre vuoti. Mi resi conto che stavo trattenendo il respiro, e buttai fuori l'aria. Avevo dentro un groviglio di emozioni, soprattutto delusione e paura. Credevo di aver visto mio padre, vivo. Ma si era rivelato solo un crudele scherzo dell'immaginazione. Mio padre se n'era andato. Non sarebbe tornato mai più, e io dovevo trovare il modo di accettarlo. Mi accovacciai con le spalle al muro, il corpo scosso dai singhiozzi. 5 Scott era fermo all'ingresso, le braccia incrociate. - Allora è così che sono i bagni delle donne. Devo ammetterlo, molto più puliti. Tenevo la testa bassa e mi asciugai il naso con il dorso della mano. Ti dispiace? Non me ne vado finché non mi dici perché mi hai seguito. No di essere un tipo affascinante, ma inizia a sembrarmi un'insana ossessione. Mi tirai su e mi spruzzai dell'acqua fredda in faccia. Evitando di Incrociare lo sguardo di Scott nello specchio, afferrai un asciugamano di carta e me lo passai sul viso. E devi anche dirmi chi stavi cercando nel bagno degli uomini continuò Scott. Ho creduto di aver visto mio padre - risposi, facendo appello a tutta la rabbia che avevo in corpo per mascherare il dolore lancinante che provavo. - Ecco. Soddisfatto? -. Appallottolai |'asciugamano e lo gettai nella spazzatura. Stavo per uscire, quando Scott lasciò andare la porta, che si chiuse, e ci si mise davanti bloccando il passaggio. Quando troveranno il responsabile e lo rinchiuderanno a vita, ti sentirai meglio. Grazie. E' il peggior consiglio che abbia mai ricevuto ribattei duramente, pensando che l'unica cosa che mi avrebbe fatto star meglio sarebbe stata riavere indietro mio padre. - Fidati. Mio padre è un poliziotto, vive per dire ai familiari sopravvissuti di aver trovato l'assassino. Troveranno il tizio che ha distrutto la tua famiglia e gliela faranno pagare. Una vita per una vita. Così avrai pace. Usciamo da qui, se entra qualcuno mi prende per un pervertito -. Aspettò un attimo e poi aggiunse - Avresti dovuto ridere. - Non sono in vena. Intrecciò le dita sulla testa e fece spallucce; sembrava a disagio, come se odiasse i momenti di imbarazzo e non sapesse come uscirne. - Senti, stasera vado a giocare a biliardo in una bettola di Springvale. Ti va? - Passo -. Non ero in vena nemmeno di giocare a biliardo. Mi si sarebbe solo riempita la testa di ricordi indesiderati di Patch. Mi venne in mente la primissima sera, quando gli diedi la caccia per finire un compito di biologia e lo trovai che giocava a biliardo nel seminterrato di Bo's. O quando mi aveva insegnato a giocare a biliardo, il modo in cui stava dietro di me, talmente vicino da darmi la scossa. Ma soprattutto, mi venne in mente che quando avevo avuto bisogno di lui era sempre comparso. Avevo bisogno di lui, in quel momento. Dov'era? Stava pensando a me? Ero nella veranda, e rovistavo nella borsa in cerca delle chiavi. Le scarpe, zuppe di pioggia, cigolavano sulle assi di legno e i jeans bagnati mi avevano fatto venire un eritema da sfregamento all'interno coscia. Dopo il pedinamento di Scott, Vee mi aveva trascinata in diverse boutique per avere il mio parere su alcune sciarpe, e mentre riflettevamo se era meglio prenderne una viola o una più classica, dipinta a mano in toni neutri, dal mare era arrivato un temporale improvviso. Il tempo di correre al parcheggio e infilarci di corsa dentro la Neon ed eravamo bagnate fradice. Avevamo tenuto il riscaldamento sparato al massimo per tutto il tragitto, ma mi battevano i denti, mi sembrava di essere rivestita di ghiaccio ed ero ancora scossa dall'episodio di mio padre. Don una spalla spinsi la porta, gonfiata dall'umidità, quindi cercai a tentoni l'interruttore della luce. Andai in bagno, al piano di sopra, mi sfilai i vestiti e li appesi all'asta della doccia per farli asciugare. Fuori dalla finestra, i fulmini squarciavano il cielo e il fragore dei tuoni rimbombava sul tetto. Mi era già capitato diverse volte di essere a casa da sola durante un temporale, ma questo non significava che ci avessi preso l'abitudine e il temporale di quel pomeriggio non faceva eccezione. Vee avrebbe dovuto essere lì con me, avrebbe dovuto passare la notte da me, ma aveva deciso di vedere Rixon, dal momento che aveva disdetto l'appuntamento per il pranzo. Avrei voluto tornare indie- tro nel tempo per dirle che sarei andata da sola a pedinare Scott se lei fosse venuta a tenermi compagnia alla fattoria, quella sera. Le lampadine del bagno tremolarono, due volte. Fu l'unica avvisaglia, poi si spensero del tutto lasciandomi nella penombra. La pioggia si abbatteva sui vetri e colava giù a rivoli. Restai un momento immobile, per vedere se tornava la luce. La pioggia di- venne grandine, che iniziò a colpire i vetri della finestra così forte da farmi temere che si sarebbero rotti. Chiamai Vee. - E' andata via la luce. - Sì, anche qui. I lampioni mi hanno appena abbandonata. Lavativi. - Hai voglia di tornare indietro a tenermi compagnia? - Dunque, vediamo... non particolarmente. - Avevi promesso che avresti dormito qui. - Ho anche promesso a Rixon che ci saremmo visti al Taco Bell. Non gli darò buca due volte nello stesso giorno. Dammi qualche era, poi sono tutta tua. Ti chiamo dopo, sicuramente prima di mezzanotte. Riattaccai e mi spremetti le meningi, cercando di ricordare dove avessi visto i fiammiferi l'ultima volta. Non era così buio da aver bisogno delle candele, ma preferivo illuminare la casa il il più possibile, soprattutto dal momento che ero sola. La luce riusciva in qualche modo a tenere a bada i mostri della mia fantasia. Sul tavolo da pranzo c'erano alcune candele, ricordai; mi avvolsi in un asciugamano e mi avviai giù per le scale. Anche nei pensili c'erano delle candele. Ma i fiammiferi, dov'erano? Vidi un'ombra muoversi nei campi dietro la casa e mi voltai di scatto verso le finestre della cucina. La pioggia scrosciante schizzava sui vetri, deformando il mondo esterno, così dovetti avvicinarmi per vedere meglio. Qualunque cosa fosse, se n'era andata. «Un coyote» dissi a me stessa, attraversata da un'improvvisa scarica di adrenalina. «È solo un coyote.» Il telefono della cucina squillò e corsi ad afferrarlo, un po' perché mi aveva spaventata e un po' perché volevo sentire una voce umana. Pregai che fosse Vee, che chiamava per dire che aveva cambiato idea. - Pronto? Aspettai. - Pronto? Fruscio di scariche elettriche. - Vee? Mamma?-. Con la coda dell'occhio, vidi strisciare un'al tra ombra tra i campi. Feci un bel respiro per ritrovare la calma e ricordai a me stessa che non potevo assolutamente essere in vero pericolo. Patch non era più il mio ragazzo, ma restava pur sempre il mio angelo custode. Se ci fosse stato un pericolo, lui sarebbe stato lì. Eppure, nonostante lo pensassi, mi chiedevo se potessi davvero contare ancora su Patch. Probabilmente mi odiava, pensai. Probabilmente non voleva più avere niente a che fare con me. Probabilmente era furioso, ecco perché non aveva fatto nessuno sforzo per mettersi in contatto con me. Quella catena di pensieri ebbe il solo risultato di farmi arrabbiare di nuovo. Eccomi qua, preoccupata per lui, quando, ovunque fosse, lui non sembrava preoccupato per me. Aveva detto che non avrebbe accettato senza battere ciglio la mia decisione di lasciarlo, invece era proprio quello che aveva fatto. Niente sms, niente chiamate. Niente di niente. E non è che non ne avesse motivo. Avrebbe potuto bussare alla mia porta in quel preciso istante per dirmi che cosa ci faceva a casa di Marcie due sere prima. Avrebbe potuto dirmi perché se n'era andato quando gli avevo detto di amarlo. Si, ero arrabbiata. Quella volta, però, avrei fatto qualcosa. Sbattei giù il telefono di casa e cercai il numero di Scott sul cellulare. Avrei accettato la sua offerta, abbandonando ogni precauzione. Pur sapendo che le ragioni di quella decisione erano completamente sbagliate, volevo uscire con Scott. Fanculo Patch. Se pensava che sarei rimasta a casa a piangere, si sbagliava. Ci eravamo lasciati, ero libera di uscire con altri ragazzi. E già che c'ero, avrei messo alla prova la sua capacità di proteggermi. Forse Scott era un Nephilim, forse era persino pericoloso. Forse era esattamente il tipo di ragazzo da cui avrei dovuto stare alla larga. Sorrisi al pensiero che qualunque cosa facessi, qualunque cosa potesse fare Scott, Patch doveva proteggermi. Sei già sulla strada per Springvale? - chiesi a Scott dopo aver composto il suo numero. Allora stare con me non è poi così male, eh? Se devi farla tanto lunga non vengo. Sentii che sorrideva. - Tranquilla, Grey, ti sto solo prendendo in giro. Avevo promesso a mia madre di tenere Scott a distanza, ma non erO preoccupata. Se mi avesse molestato, Patch sarebbe dovuto intervenire. - Be'? - dissi. - Vieni a prendermi o no? - Passo dopo le sette. Springvale è una cittadina di mare, in cui quasi tutto è con centrato lungo la strada principale, Main Street: l'ufficio postale, i ristorantini di fish and chips, i negozi di attrezzatura per la pesca e la Sala Biliardo Z. Dava sulla strada e aveva una vetrina attraverso la quale si vedevano la sala e il bar. L'esterno era decorato da rifiuti ed erbacce. Due uomini con le teste rasate e il pizzetto fumavano sul marciapiede antistante le porte; spensero le sigarette con le scarpe e sparirono dentro. Scott parcheggiò in un posto ad angolo vicino all'entrata. - Devo arrivare a un paio di isolati da qui per trovare un bancomat - disse spegnendo il motore. Studiai l'insegna appesa sulla vetrina della facciata. SALA BILIARDO Z. Qualcosa mi si risvegliò nella memoria. - Perché il nome di questo posto mi suona familiare? - chiesi. - Un paio di settimane fa un tizio è morto dissanguato su uno dei tavoli. C'è stata una rissa. Era su tutti i giornali. Oh. - Vengo con te - mi offrii subito. Si lanciò fuori dall'auto e io feci altrettanto. - Naa - gridò per superare il rumore della pioggia. - Ti inzuppi e basta. Aspettami dentro, ci metto dieci minuti-. Senza darmi la possibilità di unirmi a lui, si piegò per ripararsi dall'acqua, si ficcò le mani in tasca e si allontanò a passo svelto lungo il marciapiede. Con il viso bagnato, mi infilai sotto il cornicione dell'edificio e valutai le alternative. Potevo entrare da sola, oppure potevo aspettare Scott lì davanti. Dopo neanche cinque secondi di at tesa, ero già sulle spine. Lungo il marciapiede non passava molta gente, ma non era nemmeno deserto. Quelli che erano fuori alle intemperie indossavano camicie di flanella e scarponi da lavoro; sembravano più grossi, forti e cattivi degli uomini che gironzolavano intorno a Main Street, a Coldwater. Alcuni, passando, mi fecero gli occhi dolci. Guardai lungo il marciapiede, nella direzione presa da Scott, e lo vidi svoltare l'angolo e sparire nel vicolo laterale. Al principio mi dissi che avrebbe avuto parecchia difficoltà a trovare un bancomat nel vicolo di fianco a una sala biliardo. Poi, però, cominciai a pensare che forse mi aveva mentito. Forse non stava affatto cercando un bancomat. E allora che cosa stava facendo in un vicolo, sotto la pioggia? Volevo seguirlo, ma non vedevo come avrei potuto farlo senza essere vista. L'ultima cosa di cui avevo bi- sogno era che mi beccasse di nuovo a seguirlo: non avrebbe certo favorito un clima di fiducia. Pensando che magari potevo cercare di scoprire cosa stesse facendo da una delle finestre del locale, tirai la porta d'ingresso. Dentro, l'aria era fredda, fumosa e puzzava di sudore maschile. Il soffitto era basso, le pareti di cemento. Unico ornamento, qualche poster di muscle car, un calendario di Sports Illustrated e uno specchio della Budweiser. La parete che mi separava da Scott non aveva finestre. Percorsi il corridoio centrale, addentrandomi a fatica nella sala semibuia e cercando di respirare piano per assumere meno sostanze cancerogene. Arrivata in fondo alla sala, studiai l'uscita sul vicolo posteriore. Non era comoda come una finestra, ma dovevo farmela andar bene. Se Scott mi avesse sorpresa a guardarlo, avrei potuto dire con aria candida che ero uscita a prendere una boccata d'aria. Dopo essermi assicurata che nessuno stesse osservando, aprii la porta e misi fuori la testa. Due mani mi afferrarono per il colletto del giubbetto di jeans, mi trascinarono fuori e mi spinsero contro il muro. Che cosa ci fai qui? - chiese Patch. Dietro di lui, la pioggia scrosciava, rovesciandosi giù dalla tettoia di metallo. - Gioco a biliardo - balbettai, il cuore ancora paralizzato dalla sorpresa di essere stata tirata su di peso. - Giochi a biliardo - ripetè con l'aria di chi non se l'era bevuta i neanche un po'. - Sono con un amico. Scott Parnell. La sua espressione si indurì. - C'è qualche problema? - replicai. - Abbiamo rotto, ricordi? Posso uscire con altri ragazzi, se voglio -. Ero arrabbiata perché ero lì con Scott invece che con Patch. Ed ero arrabbiata con Patch perché non mi aveva presa tra le braccia e non mi aveva detto che voleva lasciarsi alle spalle tutto quello che ci era successo nelle ultime ventiquattro ore. Che tutto quello che ci aveva divisi era stato cancellato e che, da quel momento in poi, ci saremmo stati solo lui e io. Patch abbassò lo sguardo e si massaggiò con due dita la base del naso. Era evidente che stava facendo appello a tutta la sua pazienza. - Scott è un Nephilim. Un purosangue di prima generazione, proprio com'era Chauncey. Restai di sasso. Allora era vero. - Grazie dell'informazione, ma lo sospettavo già. Fece un gesto disgustato. - Piantala con questi atti di coraggio. È un Nephilim. -Non tutti i Nephilim sono come Chauncey Langeais - replicai stizzita. - Non tutti sono malvagi. Se gliene dessi la possibilità, vedresti che in realtà Scott è piuttosto... -Scott non è un vecchio Nephilim qualunque - mi interruppe lui. - Appartiene a una società di sangue il cui potere è in continuo aumento. La società vuole liberare i Nephilim dal vincolo di servitù che hanno nei confronti degli angeli caduti durante Cheshvan Non fanno che reclutare nuovi membri allo scopo di combattere gli angeli caduti: tra le due bande rivali è quasi guerra. Se la società diventerà abbastanza potente, gli angeli caduti dovranno tirarsi indietro... e iniziare a dipendere dagli umani, renderli loro vassalli. Mi morsi un labbro e alzai lo sguardo su di lui. Ero agitata. Senza volerlo, mi tornò in mente il sogno della notte precedente. Cheshvan. Nephilim. Angeli caduti. Non mancava nulla. - Perchè gli angeli caduti non possiedono gli umani? - chiesi. Perchè scelgono proprio i Nephilim? - I corpi umani non sono forti né resistenti quanto quelli dei Nephilim - rispose Patch. - Essere posseduti per due intere settimane li ucciderebbe. A ogni Cheshvan morirebbero decine migliaia di umani Dopo un attimo di pausa, proseguì: - E poi è molto più difficile possedere un umano. Gli angeli caduti non possono obbligarli a giurare fedeltà, devono convincerli a cedere il loro il corpo. E questo richiede tempo e capacità di persuasione. Inoltre i corpi umani sono soggetti a un deterioramento più veloce. Non molti angeli caduti vogliono darsi la pena di possedere un corpo umano che dopo una settimana potrebbe essere già morto. Fui scossa da un presentimento, che mi fece venire i brividi, ma dissi: - E' una storia molto triste, ma è difficile attribuirne la colpa a Scott o agli altri Nephilim. Nemmeno io vorrei che un angelo caduto assumesse il controllo del mio corpo per due setti- mane all'anno. Più che un problema dei Nephilim, mi sembra un problema degli angeli caduti. Contrasse un muscolo della mascella. - Questo non è un posto per te. Vai a casa. - Sono appena arrivata. Bo's non è niente in confronto a questo. Grazie del consiglio, ma non ho proprio voglia di starmene a casa tutta la sera a compiangermi. Patch incrociò le braccia e mi studiò. - Ti stai mettendo in pericolo per vendicarti di me? - disse. - In caso tu l'abbia dimenticato, non sono stato io a voler chiudere. - Non illuderti, non ha niente a che fare con te. Patch infilò la mano in tasca e tirò fuori le chiavi dell'auto. - Vieni, ti porto a casa -. Dal tono si capiva che ero un grosso fastidio per lui e che, potendo scegliere, ne avrebbe volentieri fatto a meno - Non voglio un passaggio. Non ho bisogno del tuo aiuto. Rise, ma non era affatto divertito. - Tu salirai sulla jeep, dovessi trascinarti dentro, perché non rimarrai qui. E' troppo pericoloso. - Non puoi comandarmi a bacchetta. Lui si limitò a guardarmi. - E già che ci siamo, smetterai anche di frequentare Scott. Mi sentivo ribollire di rabbia. Come osava insinuare che fossi debole e indifesa? Come osava cercare di controllarmi dicendomi dove potevo e non potevo andare, chi potevo vedere? Come osava comportarsi come se non fossi stata niente per lui? Gli lanciai un'occhiata di sfida. - Non farmi più favori. Non te l'ho mai chiesto. E non voglio più che tu sia il mio angelo custode. Patch mi stava addosso, e una goccia di pioggia cadde dai suoi capelli e atterrò, gelida come il ghiaccio, sul mio collo. La sentii scivolare sulla pelle e sparire sotto il colletto della camicia. Lui la seguì con lo sguardo, e io fremetti. Volevo chiedergli scusa per tutto quello che avevo detto. Volevo dirgli che non mi importava di Marcie, né di quello che pensavano gli arcangeli. Che mi importava solo di noi. La dura, fredda verità, però, era che niente di quanto potessi dire o fare avrebbe fatto riallineare le stelle. Non potevo pensare a noi. Non se volevo che Patch fosse al sicuro, che non venisse cacciato all'inferno. Più litigavamo, più era facile venire risucchiata dall'odio e convincermi che lui non contava nulla per me e che avrei potuto andare avanti senza di lui. - Ritira quello che hai detto - disse Patch, la voce bassa. Non ebbi il coraggio di guardarlo e nemmeno di rimangiarmi tutto. Alzai il mento e puntai lo sguardo sulla pioggia al di sopra della sua spalla. Maledetto orgoglio, il mio e il suo. - Ritira quello che hai detto, Nora - ripetè Patch con più La mia vita non può andare per il verso giusto, se ci sei tu — dissi, odiandomi per aver lasciato che il mento mi tremasse. - Sarà più facile per tutti se... Voglio dare un taglio netto. Ci ho pensato bene . Non era vero. Non ci avevo pensato bene per niente. Non avrei voluto dire quelle cose, ma una piccola, orribile e spregevole parte di me voleva che lui soffrisse quanto soffrivo io. - Voglio che tu stia fuori dalla mia vita. Per sempre. Dopo un attimo di pesante silenzio Patch mi passò un braccio dietro la schiena e mi infilò qualcosa nella tasca posteriore dei jeans. Non sapevo se me l'ero immaginato, ma mi sembrò che la sua mano indugiasse un istante in più del necessario. Denaro - spiegò. - Ne avrai bisogno. Tirai fuori le banconote. - Non voglio i tuoi soldi -. Visto che non allungava la mano per prenderli, glieli gettai addosso mentre gli passavo accanto in fretta, ma lui mi afferrò la mano e la tenne stretta al petto. - Prendili Il tono della sua voce lasciava intendere che non avevo capito niente. Non capivo lui né il suo mondo; ero un'estranea, e non sarei mai stata niente di diverso. - Metà dei tizi che ci sono là dentro ha un'arma di qualche tipo. Se succede qualcosa, butta i soldi sul tavolo e scappa. Saranno troppo impegnati a raccoglierli per seguirti. Ripensai a Marcie. Stava forse insinuando che qualcuno avrebbe potuto cercare di accoltellarmi? Mi venne quasi da ridere. Davvero pensava di spaventarmi ? Che lo volessi o no come angelo custode era irrilevante: la verità era che qualsiasi cosa dicessi o facessi, il suo dovere era quello di proteggermi. Doveva farlo. Il fatto che fosse lì in quel momento ne era la prova. Mi lasciò la mano e tirò la maniglia della porta con un gesto rigido. La porta si chiuse dietro di lui, traballando sui cardini. 6 Trovai Scott piegato sulla stecca a un tavolo delle prime file. Quando mi avvicinai stava studiando la disposizione delle palle da biliardo. - Hai trovato il bancomat? - chiesi, gettando il giubbetto di jeans umido su una sedia pieghevole appoggiata al muro. - Sì, prima, però, ho preso trenta litri d'acqua -. Si tolse il cappellino e lo strizzò per dare maggiore enfasi alle sue parole. Forse l'aveva trovato, il bancomat, ma solo dopo aver fatto qualsiasi cosa avesse da fare nel vicolo. E per quanto desiderassi sapere di che si trattasse, con ogni probabilità non l'avrei scoperto tanto presto. Avevo perso l'occasione quando Patch mi aveva trattenuta per dirmi che ero del tutto impreparata per un posto come quello e che avrei dovuto tornare a casa. Appoggiai le mani sul bordo del tavolo e mi piegai con fare disinvolto, sperando di dare l'impressione di essere nel mio elemento naturale, ma la verità era che avevo il cuore a mille. Non solo ero appena uscita da uno scontro con Patch, ma nelle immediate vicinanze non c'era neanche una faccia vagamente amichevole E per quanto provassi, non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto che qualcuno fosse morto dissanguato su uno di quei tavoli. Chissà se era proprio quel tavolo. Mi sollevai e mi pulii le mani. - Stiamo giusto per cominciare una partita - disse Scott - Cinquanta dollari e sei dentro. Prendi una stecca. Non ero in vena di giocare e avrei preferito stare a guardare, ma da una rapida occhiata alla sala mi accorsi che Patch era seduto a un tavolo di poker in fondo. Anche se non era esattamente di fronte a me, sapevo che mi stava guardando. Guardava tutte le persone nella stanza. Non andava mai da nessuna parte senza aver prima valutato con attenzione e nei minimi dettagli ciò che aveva intorno. Allora mi stampai in volto il sorriso più abbagliante che riuscita tirare fuori. - Con piacere -. Non volevo che Patch sapesse quanto fossi turbata, quanto stessi soffrendo. Non volevo pensasse che non mi stavo divertendo con un altro. Ma prima che riuscissi a raggiungere la rastrelliera, un uomo basso con un paio di occhiali dalla montatura di metallo e un gilè di lana si avvicinò a Scott. Tutto in lui appariva fuori posto: era azzimato, con i pantaloni stirati e i mocassini lustri. Con una voce talmente bassa da essere appena udibile gli chiese: - Quanto? - Cinquanta - rispose Scott un po' seccato. - Come sempre. - Il gioco parte da un minimo di cento. - Da quando? - Riformulo. Per te, parte da un minimo di cento. Scott divenne paonazzo, prese il suo drink dal bordo del tavolo e lo buttò giù in un sorso. Quindi recuperò il portafogli e infilò un rotolo di banconote nella tasca della camicia dell'uomo. - Questi sono cinquanta. L'altra metà a fine partita. Ora togli il tuo fiato puzzolente dalla mia faccia, sennò non riesco a concentrarmi. L'uomo tamburellò con una matita sul labbro inferiore. - Prima devi saldare il conto con Dew. Sta perdendo la pazienza. È stato generoso con te, ma tu non hai ricambiato il favore. - Digli che a fine serata avrò il denaro. - Questa musica non è più di moda da una settimana. Scott fece un passo avanti. - Non sono l'unico qui a dovere dei soldi a Dew. - Però sei l'unico da cui si aspetta di non essere pagato-L'uomo basso sfilò le banconote che Scott gli aveva messo in tasca e le fece volteggiare fino a che toccarono terra. - Come ho detto, Dew sta diventando irrequieto - concluse l'uomo con un'eloquente alzata di sopracciglio, e se ne andò. - Quanto devi a Dew? - chiesi a Scott. Mi guardò di traverso. -Okay, prossima domanda. - Come si svolge la partita?-. Parlai a bassa voce, osservando gli altri giocatori sparsi intorno ai vari tavoli da biliardo. Due su tre fumavano. Tre su tre avevano le braccia tatuate da coltelli, pistole e armi varie. In un'altra occasione mi sarei spaventata, o mi sarei sentita perlomeno a disagio, ma Patch era ancora nell'angolo e finché fosse rimasto lì sapevo di essere al sicuro. Scott sbuffò. - Questi qua sono dei dilettanti, potrei batterli anche con le mani legate. La vera partita è là dentro-. Fece correre lo sguardo lungo un corridoio che partiva dalla sala principale. Era stretto, semibuio, e conduceva a una stanza che invece brillava di una luce aranciata. Sul vano della porta era appesa una tenda di perline e proprio davanti all'ingresso si vedeva un tavolo da biliardo riccamente intagliato. - E' là che si gioca forte? - chiesi. - Là potrei fare con una partita quello che farei qui con quindici Con la coda dell'occhio, vidi che Patch guardava rapidamente nella mia direzione. Finsi di non essermene accorta, infilai la mano nella tasca posteriore dei jeans e mi avvicinai a Scott. - Hai bisogno di cento dollari per la partita, giusto? Eccone... cinquanta dissi contando velocemente i pezzi - due da venti e uno da dieci - che mi aveva dato Patch. Non ero un'appassionata di scommesse, ma volevo dimostrare a Patch che sapevo come muovermi, in quella sala giochi. Potevo integrarmi. O almeno non essere comandata a bacchetta. E se nel farlo davo l'impressione di flirtare con Scott, tanto meglio. «Fottiti» gli augurai mentalmente, anche se sapevo che Patch non poteva sentirmi. Scott guardò prima me e poi i soldi che avevo in mano. - È uno scherzo? Se vinci, facciamo a metà. Scott considerò il denaro con una cupidigia che mi prese alla sprovvista. Aveva bisogno di quei soldi. Non era lì per puro divertimento: il gioco d'azzardo per lui era un vizio. Li arraffò e si diresse a grandi passi verso l'uomo basso con il gilè, che, muovendo furiosamente la matita, annotava con scrupolo il numerO di giocatori e le quote versate. Gettai un'occhiata furtiva a Patch per vedere come reagiva alla mia mossa, ma aveva gli occhi incollati al tavolo da poker, l'espressione indecifrabile. L'uomo con il gilè contò rapidamente il denaro di Scott, impilando con destrezza tutte le banconote nello stesso verso. Quando ebbe finito, rivolse a Scott un sorriso a denti stretti. Sembrava fossimo della partita. Scoli tornò indietro, strofinando con il gesso la punta della stecca. - Sai cosa si dice che porti fortuna? Devi baciare la mia stecca. E me la mise davanti al naso. Indietreggiai. - Non ho nessuna intenzione di baciare la tua stecca. Scott si mise a scherzare agitando le braccia ed emettendo il verso del pollo. Diedi un'occhiata in fondo alla sala, con la speranza che Patch non stesse guardando quella scena umiliante, quando vidi Marcie Millar gironzolare dietro di lui, piegarsi e circondargli il collo con le braccia. Mi si fermò il cuore Scott continuava a parlare, dandomi dei colpetti in fronte con la stecca, ma le sue parole mi scivolarono addosso. Cercai di riprendere fiato e mi concentrai sull'immagine confusa della parete di cemento di fronte a me, per tenere a bada lo shock e la sensazione di tradimento. Dunque era questo che intendeva quando affermava che erano solo affari quelli tra lui e Marcie? Perchè a me non sembrava affatto così. E poi che ci faceva lei qui ? Non era appena stata accoltellata? Si sentiva al sicuro per il solo fatto di essere con Patch? Per un attimo, mi chiesi se lui non si stesse comportando in quel modo per farmi ingelosire. In tal caso, però, avrebbe dovuto sapere che quella sera sarei andata allo Z, e non poteva, a meno che non mi avesse spiato. E se nelle ultime venti quattro ore l'avessi avuto intorno più di quanto credessi? Mi piantai le unghie nei palmi delle mani, cercando di con centrarmi su quel dolore e non sull'umiliazione e la sensazione di soffocamento che provavo. Restai così, inebetita, trattenendo le lacrime che minacciavano di uscire, quando la mia attenzione fu attirata dall'imbocco del corridoio. Appoggiato allo stipite c'era un tizio con una maglietta rossa senza maniche. Aveva qualcosa di strano alla base del collo, un quadrato di pelle che sembrava deformato. Prima che riuscissi a guardare con maggior attenzione, fui paralizzata da una sensazione di déjà vu: c'era qualcosa in lui di sorprendentemente familiare, anche se ero certa che non ci fossimo mai visti prima. Ebbi il forte impulso di scappare via di corsa, ma allo stesso tempo ero sopraffatta dal bisogno di inquadrarlo. Prese la palla bianca dal tavolo più vicino a lui e iniziò a gettarla in aria pigramente. - Dai - disse Scott agitandomi la stecca davanti. Gli altri ragazzi disposti intorno al tavolo risero. - Dai, Nora - ripetè Scott. Solo un bacetto portafortuna. Fece scivolare la stecca sotto l'orlo della mia camicetta e lo sollevò. La colpii per spostarla. - Piantala! Intercettai il movimento del tizio con la maglietta rossa. Fu così fulmineo che mi ci volle lo spazio di un paio di battiti del cuore per capire che cosa stava per succedere. Piegò il braccio e lanciò la palla dall'altra parte della sala. Un istante dopo, lo specchio appeso sul muro di fronte si fracassò e una pioggia di schegge investì il pavimento. La sala piombò nel silenzio, si sentiva solo il suono della musica rock diffusa dalle casse. Tu - disse il tizio con la maglietta rossa indicando con la punta di una pistola l'uomo con il gilè di lana. - Dammi i soldi -. Muovendo l'arma di scatto, gli fece segno di avvicinarsi. — Tieni in vista le mani. Scott, che era accanto a me, avanzò tra la folla. - Non se ne parla amico. Quei soldi sono nostri. Nella sala si levarono delle grida di consenso. Tenendo sempre la pistola puntata contro l'uomo basso, il tizio con la maglietta rossa girò gli occhi in direzione di Scott e sorrise scoprendo i denti. - Non più. Se tocchi quei soldi, ti ammazzo C'era rabbia fredda nella voce di Scott. Sembrava dicesse sul serio. Restai immobile, quasi senza respirare, terrorizzata da ciò che poteva accadere, perché ne- anche una piccola parte di me dubitava che la pistola fosse carica. Il tizio armato sorrise ancora. — Tutto qui? Non ti lasceremo andar via con i nostri soldi - riprese Scott. - Fa' il bravo, metti giù la pistola. Nella sala echeggiò un altro mormorio di consenso. Nonostante la temperatura nella stanza si stesse alzando, il tizio con la maglietta rossa si grattò pigramente il collo con il tamburo della pistola. Non sembrava affatto preoccupato. - No -. Spostò l'arma in direzione di Scott e ordinò: - Sali sul tavolo. - Sparisci. - Sali sul tavolo! Il tizio teneva la pistola con due mani e mirava al petto. Lenta- mente, Scott alzò le mani all'altezza delle spalle e saltò all' indietro sul tavolo da biliardo. - Non te ne andrai vivo da qui. Siamo trenta contro uno. Con tre falcate, il tizio lo raggiunse. Gli si parò davanti per un attimo, il dito sul grilletto. Una goccia di sudore gli scivolò da una tempia. Non riuscivo a capire perché Scott non gii strappasse la pistola di mano. Non sapeva che non poteva morire? Non sapeva di essere un Nephilim? Patch aveva detto che apparteneva a una società di sangue, quindi come poteva non saperlo? - Stai facendo un grosso errore - disse Scott. La voce era sempre fredda, ma tradiva il primo accenno di panico. Mi chiesi come mai nessuno muovesse un dito per aiutarlo. Come Scott stesso aveva fatto notare, la gente lì dentro era in netta superiorità numerica. Il tizio con la maglietta rossa, però, aveva qualcosa di malvagio e spaventosamente potente, qualcosa di... soprannaturale. Chissà se anche loro erano terrorizzati da lui quanto lo ero io. Mi chiesi anche se la sensazione, ormai familiare, di disgusto e di disagio che provavo indicasse che si trattava di un angelo caduto. O di un Nephilim. Tra tutte le facce che affollavano la sala, mi trovai a incrociare lo sguardo di Marcie. Era oltre la folla, con un'espressione che avrei solo potuto definire di smarrimento estatico. In quell'istante seppi che non aveva idea di cosa stesse per accadere. Non sapeva che Scott era un Nephilim, che aveva più forza in una mano di quanta ne avesse un umano in tutto il corpo. Non aveva visto come Chauncey, il primo Nephilim che avessi mai conosciuto, aveva stritolato il mio cellulare nel palmo della mano. Non era LÌ la notte in cui mi aveva dato la caccia nei corridoi della scuola. E il tizio con la maglietta rossa? Che fosse un Nephilim o un angelo caduto, sembrava altrettanto forte. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma di certo non una semplice scazzottata. Avrebbe dovuto imparare la lezione ricevuta da Bo's e rimanere a casa. E lo stesso avrei dovuto fare io. Il tizio con la maglietta rossa diede una spinta con la pistola a a Scott, che volò all' indietro sul tavolo. Colto di sorpresa, o forse spinto dalla paura, Scott cercò di prendere la stecca, ma l'altro fu più veloce e riuscì ad afferrarla. Poi saltò sul tavolo, la puntò contro il viso di Scott e la infilzò nel tavolo, a due centimetri dall'orecchio di Scott, con una violenza tale da sfondare il feltro e farla uscire dall'altra parte di trenta centimetri. Soffocai un urlo. Il pomo di Adamo di Scott fece su e giù. - Sei pazzo, amico - disse. All'improvviso volò uno sgabello, che colpì il tizio con la maglietta rossa sul fianco. Lui perse l'equilibrio e per riacquistarlo fu costretto a saltare giù dal tavolo. - Prendetelo! - urlò qualcuno tra la folla. Si udì una specie di grido di guerra e qualcun altro si armò di sgabello. Mi accucciai per terra e, in mezzo a quella foresta di gambe, cercai di individuare l'uscita più vicina. Poco più in là, vidi una gamba con una fondina alla caviglia e una pistola dentro. Il proprietario la sfilò e, un attimo dopo, si sentirono risuonare gli spari. Invece che silenzio, generò ancora più caos: imprecazioni, urla e rumore di pugni sulla carne. Balzai in piedi e corsi, stando china, verso l'uscita posteriore. Ero appena scivolata fuori, quando qualcuno mi afferrò per la cintura dei jeans e mi rimise dritta. Patch. - Prendi la jeep - ordinò mettendomi in mano le chiavi dell'auto. Pausa d'impazienza. - Che cosa stai aspettando? Avevo le lacrime agli occhi, ma le ricacciai indietro con rabbia. - Smettila di comportarti come se io fossi un'enorme seccatura! Non ho mai chiesto il tuo aiuto! - Ti avevo detto di non venire stasera. Non saresti una seccatura se solo mi ascoltassi. Questo non è il tuo mondo: è il mio. Vuoi così tanto dimostrare di essere capace di cavartela, che finirai per farti ammazzare. Mi offesi, e aprii la bocca per dirglielo. - Il tizio con la maglietta rossa è un Nephilim - disse lui, prima che potessi fiatare. - Quel marchio sul collo significa che è affiliato alla società di sangue di cui ti parlavo prima. Ha giurato fedeltà alla causa e l'hanno marchiato col fuoco. - Marchiato col fuoco? - Alla base del collo. La deformità era un marchio? Spostai lo sguardo alla finestrella incassata nella porta. Dentro, c'erano corpi accalcati sui tavoli da biliardo e volavano pugni dappertutto. Non vidi il tizio con la miaglietta rossa, ma in quell'istante capii perché l'avevo riconosciuto era un Nephilim. Mi ricordava Chauncey, molto più di quanto non mi fosse accaduto con Scott. Mi chiesi se questo non volesse dire che il primo era malvagio come Chauncey, mentre Scott no Un rumore fortissimo sembrò spaccarmi i timpani, e Patch mi scaraventò a terra. Volarono schegge di vetro dappertutto: avevano sparato contro la finestrella della porta sul retro. - Vai via di qua - ordinò Patch spingendomi verso la strada Mi voltai. - Tu dove vai? - Marcie è ancora dentro. Mi faccio dare un passaggio da lei. Mi sentii come se mi si fossero chiusi i polmoni, l'aria non entrava e non usciva. - E io? Tu sei il mio angelo custode! Patch mi perforò con lo sguardo. - Non più, angelo . PRIMA che riuscissi a ribattere, scivolò dentro e sparì nella confusione Una volta in strada, salii sulla jeep, portai avanti il sedile e uscii dal parcheggio a tavoletta. Non era più il mio angelo custode? Ma stava scherzando? E solo perché gli avevo detto che era quello che volevo? O voleva solo spaventarmi ? Farmi pentire di ciò che avevo detto? Be', se non era più il mio angelo custode era solo perchè stavo cercando di fare la cosa giusta! Stavo cercando di rendere le cose più facili a entrambi. Stavo cercando di proteggerlo dagli arcangeli. Gli avevo detto esattamente perché l'avevo fatto, e lui me lo rinfacciava come se quel casino fosse in un certo senso colpa Come se fosse quello che volevo! Era più colpa sua che mia. Ebbi l'Impulso di tornare indietro a dirgli che non ero indifesa. Non ero una pedina nel suo grosso mondo cattivo. E non ero cieca. Ci vedevo abbastanza bene da capire che tra lui e Marcie stava succedendo qualcosa; ormai ne ero quasi sicura. Basta. Sarei stata meglio senza di lui. Era un essere spregevole. Uno stronzo. Uno stronzo Inaffidabile. Non avevo bisogno di lui, non più. Rallentai e mi fermai davanti a casa. Mi tremavano ancora le gambe e avevo il respiro un po' affannoso. Ero ben consapevole del silenzio che mi circondava. La jeep era sempre stata un luogo in cui rifugiarsi; quella sera la sentivo estranea e isolata, decisamente troppo grande per una persona sola. Appoggiai la testa sul volante e piansi. Non pensai a Patch che accompagnava a casa Marcie con la sua auto, lasciai solo che l'aria calda delle bocchette di ventilazione mi accarezzasse il viso e respirai l'odore di Patch. Restai così, curva e singhiozzante, finché l'ago della spia della benzina non scese sotto la metà. Mi asciugai gli occhi ed emisi un lungo sospiro carico d'ansia. Stavo per spegnere il motore quando vidi Patch nella veranda, appoggiato a una trave. Per un attimo pensai che fosse venuto per accertarsi che stessi bene, e mi spuntarono le lacrime per il sollievo. Poi pensai che ero tornata con la sua jeep. Probabilmente era lì per riprendersela. Visto il modo in cui mi aveva trattata quella sera, non credevo potesse esserci altra ragione. Percorse il vialetto e aprì la portiera dal lato del guidatore. - Stai bene? Annuii Avrei voluto rispondere di sì, ma la voce era nascosta nei pressi dello stomaco. Avevo ancora impresso nella mente il Nephilim dagli occhi di ghiaccio e non riuscivo a smettete di chiedermi che cosa fosse successo dopo essere andata via da li Scott era riuscito a scappare? E Marcie? Lei c'era riuscita di certo. Patch sembrava intenzionato a occuparsene di persona. - Perché il Nephilim con la maglietta rossa voleva il denaro? - chiesi, spostandomi sul sedile del passeggero. Stava ancora piovigginando, e pur sapendo che Patch non poteva sentire la fredda umidità della pioggia, mi sembrò ingiusto lasciarlo lì sotto Dopo un attimo, si mise al volante e chiuse il mondo fuori dalla jeep. Due sere prima quel gesto sarebbe sembrato intimo. In quel momento, invece, era solo carico di tensione e imbarazzo. - Slava raccogliendo fondi per la società di sangue dei Nephilim. Vorrei sapere di più su quello che hanno in mente. Se hanno bisogno di soldi, sarà per pagare delle risorse, oppure per comprare qualche angelo caduto. Ma come, chi e perché, non lo so -. Scosse la te sta. - Ho bisogno di qualcuno che sia dentro. Per la prima volta, essere un angelo rappresenta uno svantaggio. Non mi lasceranno avvicinare a meno di un chilometro. Per un istante pensai che stesse per chiedere il mio aiuto, ma io non ero una vera Nephilim. Nelle mie vene scorreva una quantità infinitesimale di sangue Nephilim, che risaliva a quattrocento anni prima ed era dono del mio antenato Nephilim, Chauncey Langeais, Per il resto, ero umana a tutti gli effetti, quindi non sarei riuscita a entrare più di quanto potesse riuscirci Patch. - Hai detto che Scott e l'altro Nephilim fanno parte della stessa società di sangue, ma non sembrava si conoscessero dissi. Sei sicuro che Scott sia coinvolto? -Lo è. - Allora come mai non si conoscevano? - La cosa più verosimile che mi viene in mente in questo momento è che chiunque diriga la società stia tenendo separati i vari membri, li stia tenendo all'oscuro. Se non solidarizzano, le possibilità che rovescino il potere sono minori. E, cosa ancora più importante, se non conoscono l'entità della loro potenza, i Nephilim non possono far trapelare tale informazione al nemico. Gli angeli caduti non possono ottenere informazioni di cui non sono a conoscenza neanche i membri della società. Assorbii mentalmente quelle notizie, ma non sapevo da che parte stare. Una parte di me aborriva l'idea che gli angeli caduti possedessero i corpi dei Nephilim a ogni Cheshvan. Una parte me, meno nobile, era contenta che se la prendessero con loro anziché con gli umani. Con me. Con qualcuno a cui volessi bene. li Marcie? - dissi, cercando di mantenere un tono di voce neutro. - Le piace il poker - rispose Patch, evasivo. Ingranò la retromarcia. Devo andare. Sei tranquilla stanotte? Tua madre è partita? Mi voltai in modo da trovarmelo di fronte. - Marcie ti stava abbracciando. Marcie ignora completamente il concetto di spazio privato. - Ah, sei esperto di Marcie adesso? Si rabbuiò. Sapevo che non avrei dovuto andare a parare lì, ma mi importava. Volevo proprio andare a parare lì. - Che sta succedendo tra voi due? Quello che ho visto non sembrava una questione d'affari. - Ero nel bel mezzo di una partita quando è spuntata dietro di me. Non è la prima volta che una ragazza fa una cosa del genere e probabilmente non sarà neanche l'ultima. Avresti potuto respingerla. Un minuto prima avevo le sue braccia intorno al collo e un minuto dopo il Nephilim aveva lanciato la palla. Non stavo certo pensandO a Marcie. Sono corso fuori a controllare che non ce ne fossero altri. - Sei tornato indietro per lei. - Non l'avrei mai lasciata là dentro. Restai seduta un momento, un nodo allo stomaco talmente stretto da farmi male. Che cosa avrei dovuto pensare? Era tornato a prendere Marcie per pura cortesia? Per senso del dovere? O per qualcosa di totalmente diverso, molto più preoccupante? -La notte scorsa ho sognato suo padre -. Non sapevo neanche perché glielo stessi dicendo. Forse per comunicare a Patch che il dolore che provavo era talmente intenso da essersi insinuato nei miei sogni. Una volta avevo letto che i sogni servono a riconciliarci con quello che accade nella nostra vita; se era vero, il mio sogno mi stava dicendo che non ero ancora riuscita ad accettare quello che stava succedendo tra Patch e Marcie, qualsiasi cosa fosse. Non se sognavo angeli caduti e Cheshvan. Non se sognavo il padre di Marcie. - Hai sognato suo padre? -. La voce di Patch era calma coME al solito, ma qualcosa nell'occhiata attenta che mi rivolse mi fece pensare che era rimasto sorpreso dalla notizia. Forse persino sconcertato. -Credo che fosse in Inghilterra. Moltissimo tempo fa. Stavano inseguendo il padre di Marcie in una foresta, ma lui restava impigliato tra gli alberi e non riusciva a scappare. Continuava a dire che un angelo caduto stava cercando di possederlo. Patch ci rifletté per un momento. Ancora una volta, il suo silenzio mi fece capire che avevo detto qualcosa che gli interessava, solo non riuscivo a capire cosa. Diede un'occhiata all'orologio. - Vuoi che ti accompagni dentro? Alzai lo sguardo verso le finestre buie, vuote. L'imbrunire e il piovischio, in fatale combinazione, riempivano l'aria di una sgradevole sensazione di malinconia. Non avrei saputo dire cosa fosse peggio, se entrare da sola o restare seduta lì insieme a Patch, con la paura che potesse andarsene. Da Marcie Millar. - Esito perché non voglio bagnarmi. Tu invece, a quanto pare, devi aiutare da qualche altra parte-. Aprii la portiera e misi giù una gamba. - Ah, il nostro rapporto è finito. Non mi devi nessun favore. I nostri occhi si incontrarono. L'avevo detto per ferirlo, ma ero io ad avere un nodo in gola. Prima di dire qualcosa di più tagliente, corsi fino alla veranda tenendo le braccia sulla testa per ripararmi dalla pioggia. Dentro, mi appoggiai contro la porta e restai ad ascoltare l'auto di Patch che si allontanava. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e li chiusi. Desideravo che Patch tornasse, lo volevo lì con Volevo che mi attirasse a sé e che mi baciasse, sciogliendo la sensazione di freddo, di vuoto che mi gelava dentro. Ma il rumore di pneumatici sulla strada bagnata non tornò più. Senza alcun preavviso, riaffiorò il ricordo della nostra ultima sera insieme, prima che tutto sprofondasse nel buio della memoria. Cercai di fermarlo, ma il guaio era che volevo ricordare. Avevo bisogno di un modo per tenermi vicino Patch. Abbassai la guardia e mi concessi di sentire la sua bocca sulla mia. Leggera, all'inizio, poi più decisa. Sentii il suo corpo, caldo e forte, contro il mio. Le mani sulla nuca, mentre mi allacciavano la catenina d'argento. aveva promesso di essere mio per sempre... Girai la serratura, interrompendo il ricordo con un click. «Fot- titi Patch.» Avrei continuato a dirlo finché fosse stato necessario. In cucina, le luci risposero allo scatto dell'interruttore; fui sollevata nel constatare che la luce era tornata. La lucina rossa del telefono lampeggiava. Schiacciai il pulsante per ascoltare i messaggi. - Nora,- disse la voce di mia madre - a Boston piove a dirotto, quindi hanno deciso di rimandare l'asta. Sto tornando, dovrei arrivare per le undici. Se vuoi, puoi dire a Vee di andare a casa. Ti voglio bene, ci vediamo presto. Controllai l'orologio: mancava qualche minuto alle dieci. Avevo solo un'altra ora tutta per me. 7 La mattina dopo mi trascinai fuori dal letto, e dopo una pun- tatina in bagno, che servì anche ad applicare il correttore a vaporizzare un ravvivaricci sui capelli, raggiunsi con calma la cucina; mia madre era già lì, seduta a tavola. Aveva una tazza di tisana tra le mani e i capelli arruffati e schiacciati dal cuscino, che è un modo gentile per dire che sembrava un porcospino. Mi guardò da sopra la tazza e sorrise. - Buongiorno. Mi sedetti di fronte a lei e rovesciai dei fiocchi di frumento integrale in una ciotola. Mia madre aveva preparato le fragole e un piccolo bricco di latte, e aggiunsi entrambi ai cereali. CercaVO DI di fare attenzione a quello che mangiavo, ma sembrava sempre molto più facile quando c'era lei a casa a garantire che i pasti non si limitassero a tutto quello che riuscivo ad acchiappare in dieci secondi. - Dormito bene? - chiese. Annuii con la bocca piena. - Ho dimenticato di chiedertelo ieri sera - continuò. Hai poi portato Scott a fare il giro della città? - Ho disdetto-. Probabilmente era meglio lasciar perdere. Non sapevo come avrebbe reagito se avesse scoperto che L'avevo seguito fino al molo e poi avevo passato la serata con lui in uno schifo di sala da biliardo a Springvale. La mamma arricciò il naso. - E' di fumo l'odore che sento? Oh, cavolo. - Stamattina ho acceso delle candele in camera mia - dissi, pentendomi di non aver fatto la doccia. Ero sicura di avere ancora tracce dello Z sugli abiti, le lenzuola, i capelli. Lei aggrottò la fronte. - E' fumo di sigaretta -. Spinse indietro la sedia e si alzò con la chiara intenzione di andare a indagare. Ormai non aveva senso tergiversare. Mi grattai nervosamente il sopracciglio. - E' che ieri sera sono andata in una sala biliardo. - Con Patch?-. Qualche tempo prima avevamo stabilito una regola secondo la quale non avevo, per nessun motivo, il permesso di uscire con Patch quando mia madre era via. - Lui c'era, sì. - E? - Non ci sono andata con Patch, ma con Scott -. Dalla sua espressione intuii che era ancora peggio. - Ma prima che tu vada bestia, - aggiunsi di corsa - voglio solo dire che sto Ietteralmente morendo di curiosità. Non riesco proprio a ignorare il fatto che i Parnell stiano facendo tutto il possibile per tenere nascosto il passato di Scott. Perché ogni volta che la signora Parnell apre bocca Scott le sta addosso con due occhi da falco? Che cosa avrà fatto di così terribile? Mi aspettavo che scattasse in piedi e strillasse che il minuto dopo aver rimesso piede in casa quel pomeriggio, dopo le lezioni, sarei stata in punizione fino al 4 luglio, invece disse: - Sì, l'ho notato anch'io. - Sbaglio, o sembra spaventata da lui? - continuai, sollevata fatto che sembrava più interessata a discutere di Scott che la mia punizione per aver trascorso la serata in una non meglio specificata sala da biliardo. - Che genere di madre sarebbe spaventata dal proprio figlio? - mormorò, quasi parlasse tra sé e sé. - Credo che conosca il suo segreto. Sa quello che ha fatto. - E lui sa che lei lo sa - commentai. Forse il segreto di Scott consisteva semplicemente nel fatto che fosse un Nephilim, ma non ne ero convinta. Visto il modo in cui aveva reagito la sera prima, quando era stato aggredito dal Nephilim con la maglietta rossa, iniziavo a sospettare che non sapesse chi era, né di cosa fosse capace. Forse si era accorto di possedere una forza straordinaria o di essere in grado di parlare nella mente degli altri, ma probabilmente non sapeva spiegarselo. Ma se Scott e sua madre invece non stavano cercando di tenere segreta la sua discendenza dai Nephilim, che cosa stavano cercando di occultare? Che cosa aveva fatto di così terribile da dover essere tenuto nascosto? Trenta minuti dopo, entrai nell'aula di chimica e trovai Marcie già seduta al banco. Parlava al cellulare, ignorando totalmente il cartello appeso sopra la lavagna che recitava: E' ASSOLUTAMENTE VIETATO L'USO DEI TELEFONI CELLULARI. Appena mi vide si voltò di spalle e si coprì la bocca con la mano, evidentemente per non farsi sentire. Come se me ne importasse Arrivata al banco, l'unico brano della conversazione che afferrai fu un seducente: - Ti amo anch'io. Infilò il cellulare nella tasca anteriore dello zaino e mi sorrise. - Il mio ragazzo. Lui non va al liceo. Fui colta immediatamente dal dubbio e mi chiesi se non ci fosse per caso Patch, all'altro capo del telefono; lui però aveva giurato che quello che era successo tra lui e Marcie la sera prima non aveva alcuna importanza. Potevo farmi prendere da un raptus di gelosia, oppure potevo credergli. Annuii comprensiva. - Dev'essere dura uscire con uno che ha abbandonato gli studi. -Ah. Ah. Ah. Per tua informazione, dopo le lezioni manderò un sms a tutti quelli che voglio invitare alla festa estiva che organizzo ogni anno. E' martedì, e tu sei nella lista disse con tono casuale. - Perdersi la mia festa è il modo migliore per sabotare la propria vita sociale... Non che tu debba preoccuparti di sabotare qualcosa che non hai. - Festa estiva che organizzi ogni anno? Non ne ho mai sentito parlare. Lei prese un portacipria, che aveva lasciato un segno circolare nella tasca posteriore dei jeans, e si picchiettò il naso. Perché non sei mai stata invitata prima. Un momento. Perché Marcie voleva invitarmi? Anche se il mio q.i. era il doppio del suo, doveva aver notato che c'era un certo gelo tra di noi. E poi non avevamo nessuna amicizia in comune. Né interessi, oltretutto. -Wow, Marcie. E' proprio gentile da parte tua invitarmi. Un po' inaspettato, ma gentile. Vedrò di esserci Ma anche no. Marcie si piegò verso di me. - Ti ho vista ieri sera. Sentii i battiti accelerare un po', ma riuscii a mantenere un tono pacato. Persino vago. - Sì, anch'io ti ho vista. - E' stato... come dire... pazzesco —. Lasciò il commento in sospeso, come se volesse che io sviluppassi il concetto al posto suo. - Credo di sì. - Credi? Hai visto la stecca? Non ho mai visto nessuno fare una cosa del genere. Ha sfondato il tavolo da biliardo. Non sono fatti di ardesia quei cosi? - Ero dietro la folla. Non sono riuscita a vedere molto, mi spiace-. Non lo facevo apposta a essere poco disponibile, è che non volevo fare quella conversazione. Per quello mi stava invitando alla festa? Per infondere un senso di fiducia e amicizia al nostro rapporto in modo che le dicessi quello che sapevo sulla notte precedente? - Non hai visto niente? - ripeté Marcie, la fronte increspata dal dubbio. - No. Hai studiato per l'esame di oggi? Io ho memorizzato quasi tutta la tavola periodica, ma continuo a inciampare sulle ultime righe. Patch ti ci ha mai portato a giocare a biliardo? Avevi mai visto una cosa simile? Aprii il libro di scatto, ignorandola. Ho sentito che tu e Patch avete rotto - continuò, cercando di prenderla da un altro verso. Feci un bel respiro, ma era troppo tardi: mi sentivo già il viso bollente. Chi è stato a rompere? - mi chiese. - Ha importanza? Marcie si accigliò. - Sai una cosa? Se non parli, puoi scordarti la mia festa. Non sarei venuta comunque. Lei alzò gli occhi al cielo. - Sei arrabbiata perché ero con Patch allo Z ieri sera? Guarda che lui non mi interessa per niente. Ci divertiamo e basta, non è niente di serio. Sì, infatti era proprio quello che sembrava - risposi cinica. Non essere gelosa, Nora. Patch e io siamo solo grandi, grandi amici. Ma in caso ti interessi, mia madre conosce un'ottima terapeuta di coppia. Dimmelo, se vuoi che ti metta in contatto con lei. Ripensandoci, credo sia un po' troppo costosa. Insomma, so Che tua madre non ha un lavoro eccellente, quindi... Voglio chiederti una cosa, Marcie -. La voce era fredda, MA le mani mi tremavano. - Che cosa faresti se domani, svegliandoti, scoprissi che tuo padre è stato ucciso? Credi che il lavoro part-time di tua madre al negozio di abbigliamento basterebbe a pagare le bollette? La prossima volta, prima di tirare fuori la mia situazione familiare, cerca di metterti un istante nei miei panni. Un piccolo, brevissimo istante. Sostenne il mio sguardo per un po', ma aveva un'espressione così impassibile da farmi dubitare di essere riuscita a farla riflettere. L'unica persona con cui Marcie riusciva a identificarsi era se stessa. Dopo le lezioni, trovai Vee al parcheggio. Era distesa sul cofano della Neon, le maniche arrotolate fino alle spalle, e prendeva il sole. Dobbiamo parlare - disse appena mi vide. Si sedette e si abbassÒ gli occhiali da sole sul naso quel tanto che bastava per scoprire gli occhi. Tu e Patch vi siete mollati, vero? Mi arrampicai sul cofano accanto a lei. - Chi te lo ha detto? Rixon. E, per la cronaca, ci sono rimasta male. Sono la tua migliore amica, non dovrei venire a sapere queste cose da un amico di un amico. O da un amico dell'ex fidanzato - aggiunse dopo averci riflettuto. Mi posò una mano sulla spalla e me la strinse. - E come va? Non troppo bene. Ma era una di quelle cose che cercavo di seppellire in fondo al cuore e che, se ne avessi parlato, non sarei riuscita a tenere sepolta. Mi appoggiai al parabrezza e sollevai il quaderno per ripararmi dal sole. - Sai qual è la parte peggiore? Che ho avuto ragione fin dall'inizio e ora devi sorbirti i miei «Te l'avevo detto»? - Molto divertente. - Non è un segreto che Patch porti guai. E' il tipico cattivo ragazzo da redimere, solo che i cattivi ragazzi, di solito, non vogliono essere redenti. A loro piace essere cattivi. A loro piace avere il potere di incutere paura, di gettare il panico tra le madri. - Osservazione molto... penetrante. - Grazie, cara, quando vuoi. E la cosa più importante... - Vee. Agitò le braccia. - Fammi finire. Il meglio viene adesso. Credo sia arrivato il momento di riconsiderare le tue priorità in fatto di ragazzi. La cosa da fare è trovarti un boy scout, uno che ti faccia apprezzare l'importanza di avere accanto un bravo ragazzo. Uno come Rixon, per esempio. La gelai con un'occhiata che voleva dire "Scherzi, spero". Quello sguardo mi offende - disse Vee. - Si dà il caso che Rixon sia un ragazzo proprio per bene. Ci fissammo negli occhi per tre secondi buoni. Okay, forse boy scout è un tantino esagerato, — ammise Vee - ma il punto è che ti farebbe bene stare con un bravo ragazzo, uno che non abbia un guardaroba esclusivamente nero. A proposito, che cos'è questa fissazione? Pensa di appartenere a un commando? Ieri sera ho visto Marcie e Patch - sospirai. Ecco, l'avevo detto Vee mi guardò a bocca aperta, assimilando l'informazione. - Che cosa? - disse alla fine. Annuii. - Li ho visti. Lei gli teneva le braccia intorno al collo, erano in una sala da biliardo a Springvale. Li hai seguiti? Avrei voluto dirle "Per chi mi hai preso?", invece risposi in tono piatto: - Scott mi ha invitato a giocare a biliardo. Ci sono andata e li abbiamo incontrati lì -. Avrei voluto raccontare a Vee lutto quello che era successo dopo ma, come per Marcie, c'erano cose che non potevo spiegarle. Come facevo a raccontarle del Nephilim con la maglietta rossa e di come aveva conficcato una stecca nel tavolo? Vee sembrava sul punto di urlare. - Be', per tornare a quello che dicevo prima, una volta vista la luce non si torna più indietro. Magari Rixon ha un amico. Uno diverso da Patch, che sia... - si interruppe, a disagio. Non ho bisogno di un fidanzato. Ho bisogno di un lavoro Vee fece una smorfia. - Oddio, dobbiamo parlare di nuovo del lavoro? È un argomento che non mi affascina minimamente. Ho bisogno di un'automobile e, per averne una, ho bisogno di soldi. Quindi di un lavoro —. Avevo in testa un elenco di motivi per i quali comprare la Volkswagen Cabriolet: era piccola, quindi facile da parcheggiare, e consumava poco: un punto molto importante, considerato che non mi sarebbe rimasto molto denaro per la benzina, una volta sganciati più di mille dollari per comprare la macchina. E nonostante mi rendessi conto che era ridicolo affezionarsi a un oggetto inanimato e pratico come un'auto, iniziavo a vederla come una metafora di cambiamento nella mia vita. Sarei stata libera di andare ovunque volessi, ogni volta che lo volessi, Libera di ricominciare da zero. Libera da Patch, da tutti i ricordi che ci legavano e che non avevo ancora capito come chiudere fuori dalla mia vita. - Mia madre è amica di uno dei responsabili di Enzo, e so che stannO cercando dei barman - suggerì Vee. Non ho idea di cosa faccia un barman, - Fa il caffè. Lo versa. Lo porta ai piccoli clienti impazienti. Quanto sarà difficile? - concluse Vee con un'alzata di spalle. Quarantacinque minuti dopo, rimandati i compiti, Vee e io camminavamo sulla passerella della spiaggia guardando distrattamente i negozi. Dal momento che nessuna delle due aveva un lavoro, e quindi del denaro, stavamo solo dando una ripassata alle nostre abilità di scrutatrici professioniste di vetrine. Alla fine della passeggiata, ci caddero gli occhi su una pasticceria. Riuscivo quasi a sentire il rumore dell'acquolina in bocca di Vee, la faccia premuta contro il vetro, lo sguardo rapito in adorazione della vetrinetta delle ciambelle. - Credo sia passata un'ora abbondante dall'ultima volta che ho mangiato - disse. - Ciambelle con la glassa, arriviamo! Offro io -. Era già quattro passi avanti a me e stava aprendo la porta. - Pensavo stessi cercando di perdere peso per la prova costume. Pensavo fossi prosperosa e volessi che con Rixon foste più equilibrati. - Certo che sai proprio come mettermi di cattivo umore. Co- munque, che male può fare una piccola ciambellina? Non avevo mai visto Vee mangiare soltanto una ciambellina, ma tenni la bocca chiusa. Ordinammo mezza dozzina di ciambelle glassate e ci eravamo appena sedute a un tavolo vicino alla vetrina, quando vidi Scott sul marciapiede. Aveva la fronte schiacciata contro il vetro e sorrideva. A me. Feci un salto indietro per lo spavento. Lui mi chiamò con un dito, facendomi segno di uscire. Torno subito - dissi a Vee. Lei seguì il mio sguardo. - Quello non è Scotty Belfaccino? Smettila di chiamarlo così. Che fine ha fatto Scotty Pannolino? - E' cresciuto. Perché vuole parlarti? -. Sembrò avere una ri- velazione. - No, eh? Non ti metterai con lui per ripicca. Scott significa guai, l'hai detto tu stessa. Dobbiamo trovare un bravo boy scout, ricordi? Mi misi la borsa in spalla. - Non è una ripicca. Che vuoi che faccia? Che me ne stia qui seduta a ignorarlo? Alzò le mani di scatto. - Almeno sbrigati, o la tua ciambella andrà a finire nell'elenco delle specie in via d'estinzione. Fuori, svoltai l'angolo e tornai indietro fino al punto in cui avevo visto Scott. Era appoggiato pigramente allo schienale di una panchina sul marciapiede, i pollici agganciati alle tasche. - Sei sopravvissuta a ieri sera? - chiese. Sono ancora qui, no? Sorrise. - Qualche emozione in più rispetto a quelle a cui M I abituata? Non gli ricordai che era lui quello sdraiato sul tavolo da biliardo con una stecca infilata a due centimetri dall'orecchio. Mi spiace di averti mollata lì - riprese. - Sembra comunque tu abbia trovato un passaggio a casa. - Non preoccuparti - replicai stizzita. Non mi presi neanche il disturbo di mascherare il fastidio che provavo. - Però ho imparato la lezione: non uscirò mai più con te. - Mi farò perdonare. Hai tempo per un boccone veloce?-. Puntò il pollice verso un ristorante turistico in fondo alla passerella, Alfeo. Ci avevo mangiato anni prima insieme a mio padre e ricordavo quanto fosse caro. L'unica cosa sotto i cinque dollari sarebbe stata l'acqua, o forse anche la Coca, se ero fortunata. Considerati i prezzi esorbitanti e la compagnia - dopotutto il mio ultimo ricordo di Scott era il gesto con cui cercava di sollevarmi la camicetta con una stecca da biliardo - non desideravo altro che tornare a finire la mia ciambella. Non posso, sono qui con Vee - risposi. - Che cosa è successo allo Z ieri sera? Dopo che sono andata via, intendo. - Ho riavuto indietro i miei soldi - Dal modo in cui lo disse pensai che non fosse stato tanto facile. - I nostri soldi - lo corressi. - La tua metà è a casa. Te la porto stasera. Sì, certo. Avevo la sensazione che si fosse già fatto fuori tutti i soldi, e forse anche qualcuno di più. E il tizio con la maglietta rossa? - chiesi. Se n'è andato. - Sembrava davvero forte. Tu non hai avuto la stessa impressione? Aveva qualcosa di... diverso. Lo stavo mettendo alla prova per cercare di capire quanto sapesse, ma il suo unico commento fu un distratto: - Mah... sì. Senti, mia madre non fa che dirmi di uscire e farmi dei nuovi amici. Senza offesa, Grey, ma tu non sei tra questi. Prima o poi dovrò prendere Un'ultra strada. No, non piangere, ti prego. Per consolarti, ricorda tutti i momenti felici che abbiamo vissuto insieme. Mi hai trascinata qui fuori per rompere la nostra amicizia? Come mai sono così fortunata? Scott rise. - Ho pensato di cominciare con il tuo ragazzo. Ce l'ha un nome? Inizio a pensare che sia il tuo amico immaginario. Insomma, non vi ho mai visti insieme. Abbiamo rotto. Qualcosa di simile a un sorriso contorto si impadronì pian piano del suo viso. - Già, proprio quello che avevo sentito, ma volevo vedere se me l'avresti confessato. Hai sentito di me e Patch? - Sì, me l'ha detto una tipa da urlo di nome Marcie. L'ho incontrata per caso al distributore di benzina, e lei non ha perso tempo: si è avvicinata e si è presentata. A proposito, ha detto che sei una sfigata. Marcie ti ha detto di me e Patch? Lo vuoi un consiglio? Un consiglio sincero, da ragazzo a ragazza? Dimentica Patch. Vai avanti. Trova qualcuno che abbia i tuoi stessi interessi: studiare, giocare a scacchi, collezionare e classificare insetti morti... E valuta seriamente la possibilità di tingerti i capelli. Scusami? Scott tossì coprendosi la bocca con la mano, ma mi accorsi che cercava di nascondere un sorriso. - Ammettiamolo: le rosse sono una palla. Gli lanciai uno sguardo di fuoco. - Io non ho i capelli rossi Adesso rideva proprio. - Avrebbe potuto andarti peggio. Avresti potuto averli arancioni. Arancione strega cattiva. - Sei sempre così stronzo con tutti?Ecco perché non hai amici. Non vado molto per il sottile, ecco tutto. Mi spinsi gli occhiali in cima alla testa, per guardarlo negli occhi. - Per la cronaca, io non gioco a scacchi e non colleziono insetti. - Però studi. So che è così. Conosco il tipo. La caratteristica del tuo personaggio può essere riassunta in una parola: maniacale. Sei un tipico caso da disturbo ossessivo-compulsivo. Spalancai la bocca. -Okay, magari studio un po', ma non sono noiosa. Non molto—. Almeno,così speravo. Ovviamente tu non mi conosci affatto. - Ceeerto. Bene Ero totalmente sulle difensive quando sbottai: - Dimmi una cosa che ti interessa e che credi che io non farei mai. Smettila di ridere, non sto scherzando. Dimmela. Scott si grattò un orecchio. - Sei mai stata a una battaglia fra band? Musica alta, d'improvvisazione. Folla chiassosa, indisciplinata. Sesso sfrenato nei bagni. Dieci volte più adrenalina che allo Z. - No - risposi un po' esitante. - Vengo a prenderti domenica sera. Porta un documento falso -. Sollevò le sopracciglia e mi omaggiò di un sorriso tutto egocentrismo e scherno. - Non c'è problema - dissi, cercando di sembrare annoiata. Tecnicamente, se fossi uscita con Scott mi sarei rimangiata quello che avevo detto, ma non avevo nessuna intenzione di starmene lì a farmi dare della pallosa. E tantomeno della rossa. - Che cosa - Che cosa mi devo mettere? - Il meno possibile, ma nei limiti della legalità. Per poco non soffocai. - Non sapevo ti interessassero le band - dissi non appena ripresi fiato. - A Portland suonavo il basso in una band, i Geezer. Spero di essere preso da una band di qui, l'idea è quella di scovarne una domenica sera. - Sembra divertente - mentii. - Ci sto -. Tanto potevo sempre tirarmi indietro all'ultimo momento. Sarebbe bastato un sms. In quel momento, però, la mia unica preoccupazione era non permettere a Scott di darmi della schiappa ossessivocompulsiva. Ci salutammo e tornai da Vee, che mi aspettava al tavolo con la mia ciambella mangiata a metà. . - Non dire che non ti avevo avvertita - disse, intercettando il mio sguardo che si posava sulla ciambella. - Che voleva Scott? Mi ha invitato a una battaglia fra band. - Accidenti! Per l'ultima volta, non è una ripicca. Come ti pare. Nora Grey? Vee e io alzammo gli occhi e ci trovammo davanti una com- messa della pasticceria. La sua uniforme era composta da una polo color lavanda e una targhetta dello stesso colore su cui c'era scritto MADELINE. - Scusa, sei tu Nora Grey? mi chiese per la seconda volta. Sì - risposi, cercando di capire come mai conoscesse il mio nome. Stringeva al petto una busta gialla, che mi porse dicendo: - Questa è per te. Che cos'è? - domandai mentre la prendevo. Lei si strinse nelle spalle. - E' appena venuto un tizio che mi ha chiesto di consegnartela. Che tizio? - chiese Vee voltandosi da tutte le parti. Se n'è già andato. Ha detto che era importante che Nora ricevesse la busta. Ho pensato che fosse il tuo ragazzo. Una volta un tizio ha fatto consegnare dei fiori qui e ci ha detto di darli alla sua fidanzata. Era seduta a quel tavolo là -. Indicò l'angolo in fondo e sorrise. - Me lo ricordo ancora. Feci scorrere il dito sotto la linguetta e sbirciai dentro. C'erano un foglio di carta e un anello grande. Nient'altro. Alzai lo sguardo verso Madeline, che aveva la guancia spolverata di farina. - E' sicura che sia per me? Il tizio ti ha indicato e ha detto: «Dia questa a Nora Grey Sei tu Nora Grey, no? Feci per infilare la mano nella busta, ma Vee me la coprì con la sua. -Ci scusi - disse a Madeline - ma vorremmo un po' di privacy - Di chi credi che sia? - chiesi a Vee non appena Madeline si fu allontanata tanto da non poter sentire. -Non lo so, ma quando te l'ha consegnata mi è venula la pelle d'oca. Nell'udire le parole di Vee, sentii anch'io delle dita gelate SCI- Volarmi lungo la schiena. - Credi sia stato Scott? Non lo so. Che cosa c'è dentro?-. Avvicinò la sua sedia alla mia per poter vedere meglio. Tirai fuori l'anello, e lo esaminammo in silenzio. Mi bastò uno sguardo per capire che mi sarebbe stato largo persino al pollice: decisamente un anello da uomo. Era di ferro e, dove di solito è incastonata una pietra, c'era una figura in rilievo a forma di mano. La mano era stretta in un pugno minaccioso. La parte superiore dell'anello era annerita, come se fosse stata tenuta a lungo sul fuoco. - Ma che... - iniziò Vee. Si interruppe quando tirai fuori il foglio di carta. Il messaggio, scritto con il pennarello nero, diceva: Questo anello appartiene alla Mano Nera. Lui ha ucciso tuo padre. 8 Fu Vee ad alzarsi per prima dalla sedia. La rincorsi fino all'ingresso e poi fuori, nel sole accecante. Riparandoci gli occhi, guardammo da entrambi i lati della passerella, quindi balzammo giù, sulla sabbia, di nuovo guardandoci attorno. La spiaggia era piena di gente, ovunque, ma non vidi nessun volto familiare. Avevo il cuore a mille quando chiesi a Vee: - Secondo te era uno scherzo? - Io non sto ridendo. - Sarà stato Scott? - Può darsi. Era qui, dopotutto. - O Marcie? Lei era l'unica altra persona che avrebbe potuto essere tanto indelicata da fare una cosa del genere. Vee mi lanciò un'occhiata penetrante. - Quindi sarebbe solo uno scherzo? Probabile. Marcie però era davvero così crudele? E si sarebbe presa la briga di organizzare una cosa simile? Ci voleva molto più impegno che a farsi sfuggire un commento maligno. Il biglietto, l'anello, persino la consegna... Tutte cose che richiedevano una certa pianificazione e Marcie sembrava il tipo da scocciarsi dopo cinque minuti. - Dobbiamo andare a fondo in questa faccenda - dichiarò Vee. Tornò indietro, rientrò nella past icceria e cercò Madeline. - Abbiamo bisogno di parlarle. Che aspetto aveva quel tizio? Era basso? Alto? Capelli castani? Biondi? - Indossava un cappello e gli occhiali da sole - rispose lei, gettando occhiate furtive ai colleghi, che iniziavano ad accorgersi di Vee. — Perché? Che cosa c'era nella busta? - Deve impegnarsi un po' di più - insistette Vee. - Che cosa indossava esattamente? C'era il logo di qualche squadra sul cappello? Aveva la barba o i baffi? - Non ricordo - balbettò Madeline. - Un cappello nero. O forse marrone. Credo indossasse i jeans. - Crede? - Dai - dissi alla mia amica, tirandola per un braccio. - Non si ricorda Quindi spostai lo sguardo su Madeline. - Grazie per l'aiuto. - Aiuto? - ribatté Vee. - Non è stata affatto d'aiuto. Non può accettare buste da individui strani e non ricordarsi che aspetto hanno! - Credeva fosse il mio ragazzo. Madeline annuì energicamente. - E vero! Mi spiace tantissimo! Pensavo fosse un regalo! C'era qualcosa di brutto nella busta? Volete che chiami la polizia? - Vogliamo solo che si ricordi che aspetto aveva lo psicopatico - disse Vee. - Jeans neri! - esclamò Madeline di colpo. - Ricordo che indossava dei jeans neri. Almeno, ne sono quasi sicura. - Quasi sicura? - ripetè Vee. La trascinai fuori, oltre la passerella. Quando si fu calmata mi disse: - Tesoro, mi dispiace tantissimo per quello che è successo. Avrei dovuto guardare nella busta prima di te. Ci sono persone veramente stupide. E chiunque ti abbia mandato quella busta è la più stupida di tutte. Guarda, le scaglierei volentieri una stella Ninja, se potessi. Sapevo che stava cercando di alleggerire la tensione, ma i miei pensieri erano cinque passi avanti. Non pensavo più alla morte di mio padre. Eravamo arrivate in corrispondenza di un passaggio stretto tra due negozi, così la tirai da una parte e ci infilammo tra le due costruzioni. - Senti, devo parlarti. Ieri ho creduto di vedere mio padre. Qui, al molo. Vee mi fissò senza dire nulla. - Era lui, Vee. Era lui. - Tesoro... - iniziò scettica. - Credo sia ancora vivo Il funerale di mio padre si era svolto a bara chiusa. Forse c'era stato un errore, un equivoco, e non era stato lui a morire quella notte. Forse soffriva di amnesia, ecco perché non era tornato a casa. O forse c'era qualcosa che glielo impediva. O qualcuno... - Non so come dirtelo - mormorò Vee guardando su, giù, ovunque tranne che verso di me. — Ma tuo padre non tornerà. - Allora come ti spieghi quello che ho visto? - ribattei sulla difensiva, ferita dal fatto che fosse proprio lei a non credermi. Sentivo le lacrime bruciarmi gli occhi, e le asciugai velocemente. - Era qualcun altro. Qualcuno che gli somiglia. - Tu non c'eri. L'ho visto! -. Non avevo intenzione di reagire così, ma non mi sarei rassegnata all'evidenza dei fatti. Non dopo tutto quello che avevo passato. Due mesi prima mi ero gettata dalle travi del soffitto della palestra della scuola. Sapevo di essere morta. Non potevo negare ciò che ricordavo di quella notte. Eppure... Eppure ero ancora viva. C'era la possibilità che anche mio padre fosse vivo. Il giorno prima l'avevo visto. L'avevo visto. Forse stava cercando di comunicare con me, di mandarmi un messaggio. Voleva che sapessi che era ancora vivo. Non voleva che perdessi le speranze di ritrovarlo. Vee scosse la testa. - Non fare così. - Non perderò la speranza. Non finché non conoscerò la verità. Devo scoprire cos'è successo quella notte. - No, non lo farai - disse Vee risoluta. - Lascia che tuo padre riposi in pace. Riesumare tutto non farà cambiare il passato, ti farà solo rivivere tutto daccapo. Lasciarlo in pace? E io? Come potevo trovare pace finché avessi ignorato la verità? Vee non capiva. Non era lei quella a cui avevano strappato via il padre in modo violento e inspiegabile. La sua famiglia non era andata in pezzi. Lei aveva ancora tutto. A me era rimasta solo la speranza. Passai la domenica pomeriggio da Enzo, in compagnia della tavola periodica degli elementi, totalmente concentrata sui compiti, cercando di scacciare tutti i pensieri su mio padre o sulla busta che avevo ricevuto e che mi informava che la Mano Nera era responsabile della sua morte. Doveva essere uno scherzo. La busta, l'anello, il biglietto erano opera di qualcuno che aveva ideato uno scherzo crudele. Scott, forse, o Marcie. In tutta onestà, però, non credevo si trattasse di nessuno dei due. Scott mi era sembrato sincero quando aveva fatto le condoglianze a mia madre e a me. E la crudeltà di Marcie era quasi sempre immatura e impulsiva. Dal momento che avevo davanti un computer già collegato a Internet, feci una ricerca sulla Mano Nera. Volevo dimostrare a me stessa che il biglietto non aveva alcuna fondatezza. Probabilmente qualcuno aveva trovato l'anello in un negozio dell'usato, inventato il nome Mano Nera, mi aveva seguito lungo la passerella e aveva chiesto a Madeline di consegnarmi la busta. Con il senno di poi, non aveva alcuna importanza che Madeline non si ricordasse l'aspetto del tizio, perché era probabile che non fosse la persona che aveva architettato lo scherzo. Quella persona verosimilmente aveva fermato un ragazzo che passava da quelle parti e gli aveva dato qualche dollaro per consegnare la busta. Io avrei fatto così. Se fossi stata una persona malata, perversa e che si divertiva a ferire gli altri. Sul monitor comparve una pagina di link relativi alla Mano Nera. Il primo riguardava una società segreta che si diceva avesse assassinato l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria nel 1914, catapultando il mondo nella prima guerra mondiale. Il link successivo parlava di una band rock. La Mano Nera era anche il nome di un gruppo di vampiri in un gioco di ruolo. Infine, all'inizio del 1900 una banda italiana soprannominata Mano Nera prese d'assalto la città di New York. Non c'era un solo link che menzionasse il Maine. Non un'immagine che mostrasse un anello di ferro su cui fosse impresso un pugno. « Vedi?» dissi a me stessa. «Era uno scherzo.» Mi resi conto che mi ero allontanata dall'unico argomento a cui avrei dovuto pensare, così inchiodai lo sguardo sui compiti che avevo sparpagliati davanti. Dovevo imparare le formule chimiche e calcolare la massa atomica. Si avvicinava il primo laboratorio di chimica e con Marcie come compagna di banco bisognava prepa- rarsi al peggio e mettere in conto di studiare qualche ora in più, dal momento che lei sarebbe stata solo un peso morto. Digitai dei numeri sulla calcolatrice e poi trascrissi attentamente la cifra sul quaderno, ripetendola a mente per contrastare qualsiasi pensiero sulla Mano Nera. Alle cinque chiamai mia madre, che era nel New Hampshire. Telefonatina giornaliera - dissi. - Come va il lavoro? Al solito. Tu? lo sono da Enzo, sto cercando di studiare, ma il frappé di mango continua a chiamarmi. - Mi stai facendo venire fame. - Abbastanza da tornare a casa? Lei fece uno dei suoi sospiri della serie "se solo dipendesse da me". - Vorrei tanto, ma non posso. Per il brunch di sabato prepareremo le cialde e il frappé. Alle sei chiamò Vee e mi convinse a raggiungerla in palestra per fare spinning. Alle sette e mezza mi lasciò a casa. Avevo appena finito di fare la doccia ed ero davanti al frigo a cercare gli avanzi della cena della sera prima, quando bussarono alla porta. Guardai dallo spioncino. Dall'altro lato della porta, Scott Parnell faceva il simbolo della pace. - La battaglia delle band! - dissi a voce alta dandomi una sberla sulla fronte. Mi ero completamente dimenticata di disdire. Mi guardai i pantaloni del pigiama e gemetti. Dopo un tentativo fallito di gonfiarmi i capelli bagnati, girai la chiave e aprii la porta. Scott osservò attentamente i pantaloni del pigiama. - Ti sei dimenticata. - Stai scherzando? È tutto il giorno che aspetto questo momento, sono solo un po' in ritardo -. Indicai le scale alle mie spalle. - Vado a vestirmi. Tu intanto... perché non scaldi qualcosa? Guarda nel Tupperware blu che c'è in frigo. Salii gli scalini due alla volta, chiusi la porta della mia camera e chiamai Vee. - Ho bisogno che tu venga qui subito - dissi. - Sto per andare alla battaglia delle band con Scott. - E hai chiamato per farmi crepare d'invidia? Appoggiai l'orecchio alla porta. Sembrava che Scott stesse aprendo e chiudendo gli armadietti della cucina. Probabilmente stava cercando farmaci vendibili solo con la ricetta medica o birre. Sarebbe rimasto deluso in entrambi i casi, a meno che non avesse la speranza irrealistica di sballarsi con le mie pastiglie di ferro. - Non sto cercando di farti crepare d'invidia, è che non voglio andare da sola. - Allora digli che non puoi andare. Il fatto è che... vorrei andarci -. Non sapevo da dove fosse sbucato quel desiderio improvviso. È che non volevo passare la serata da sola. Avevo passato la giornata sui libri, fatto spinning e l'ultima cosa che volevo era restare a casa a spuntare l'elenco delle faccende domestiche fatte durante il fine settimana. Era tutto il giorno che facevo la brava. Anzi, tutta la vita. Meritavo di divertirmi un po'. Scott non era il meglio, ma nemmeno il peggio del peggio. - Vieni o no? - Devo ammettere che sembra più allettante che starmene in camera a coniugare verbi spagnoli. Chiamo Rixon e vedo se vuole venire anche lui. Riattaccai e feci un rapido inventario del mio guardaroba. Decisi per un top chiaro di seta, minigonna, collant opachi e ballerine. Spruzzai una fragranza leggera e fruttata nell'aria e poi ci passai in mezzo. Una vocina dentro di me continuava a chiedersi perché mi stessi mettendo in ghingheri per Scott, uno che nella vita non sarebbe andato da nessuna parte, che non aveva niente da spartire con me e con cui non si riusciva ad avere una conversazione senza che volassero insulti. E come se non bastasse, Patch mi aveva detto di stare alla larga da lui. E allora capii: probabilmente ero attratta da Scott per una qualche ragione psicologica che aveva a che fare con la sfida e la vendetta. Quindi era colpa di Patch. A quel punto avevo due scelte: restare lì e lasciare che Patch dettasse legge sulla mia vita, oppure liberarmi della me stessa brava bambina e andare a divertirmi. E anche se non ero disposta ad ammetterlo, speravo che Patch scoprisse che ero stata alla battaglia delle band insieme a Scott e che il pensiero di me con un altro lo mandasse fuori di testa. Deciso. Mi misi a testa in giù, mi asciugai i capelli quel tanto che bastava per dare forma ai ricci e tornai velocemente in cucina. - Pronta - dissi a Scott. Mi fece la seconda radiografia total body della serata, ma stavolta mi provocò un certo imbarazzo. - Stai molto bene, Grey - disse. - Anche tu -. Sorrisi in modo cameratesco, ma ero nervosa. Ed era una cosa ridicola considerando che si trattava di Scott; eravamo amici, anzi... conoscenti. - La consumazione costa dieci dollari. Restai un attimo lì, senza capire. - Ah, certo. Possiamo fermarci al primo bancomat che troviamo? -. Sul conto avevo cinquanta dollari, il regalo del mio compleanno. Li avevo già destinati alla Cabriolet, ma prelevarne dieci non avrebbe certo cambiato le cose. Al ritmo con cui mettevo da parte i soldi, non sarei riuscita a comprare l'auto prima del mio venticinquesimo compleanno. Scott gettò sul bancone una patente del Maine con la mia foto dell'annuario sopra. - Pronta, Marlene? «Marlene?» - Non scherzavo sul documento falso. Non starai pensando di tirarti indietro, no? -. Sorrise come se sapesse esattamente a quanto mi fosse schizzata la pressione al solo pensiero di usare un documento falso e avesse scommesso tutto quello che aveva che mi sarei tirata indietro in meno di cinque secondi, «Quattro, tre, due...» Afferrai la patente. — Pronta. Scott attraversò il centro di Coldwater e arrivò dall'altra parte della città, quindi prese una serie di strade secondarie tortuose, superò i binari e fermò la Mustang davanti a un magazzino di mattoni alto quattro piani soffocato dalle erbacce. Fuori c'era una lunga coda di gente in attesa. A quanto pareva, le finestre erano state coperte dall'interno con fogli neri, ma attraverso le fessure del nastro adesivo vidi una lama di luce stroboscopica. Sopra la porta brillava un'insegna blu al neon: LA SACCA DEL DIAVOLO. Ero già stata in quella parte della città in quarta elementare, quando i miei genitori avevano accompagnato me e Vee in una casa dei fantasmi allestita per Halloween. Non ero mai stata alla Sacca del Diavolo, ma mi bastò guardarlo per essere certa che mia madre avrebbe preterito che le cose restassero così. Mi tornò in mente la descrizione del posto fatta da Scott: musica alta, folla chiassosa, indisciplinata, sesso sfrenato nei bagni Accidenti. - Ti faccio scendere qui - disse Scott accostando al marciapiede. - Trova dei posti buoni, vicini al palco, e siediti. Scesi dall'auto e andai a mettermi in coda. In tutta sincerità, prima di allora non ero mai stata in un club che richiedesse di pagare una consumazione. Non ero mai stata in un club. Punto La mia vita notturna era fatta di cinema e gelato con Vee Squillò il cellulare; era Vee. - Sento della musica, ma vedo solo binari e carri merci abbandonati. - Sei a un paio di isolati, allora. Sei con la Neon o a piedi? - Con la Neon. - Ti vengo incontro. Uscii dalla fila, che continuava ad allungarsi. Alla fine dell'isolato svoltai l'angolo e mi diressi verso i binari che Scott aveva attraversato per arrivare fin lì. Il marciapiede, in stato di abbandono da anni, era spaccato e irregolare e visto che c'erano pochissimi lampioni dovevo fare attenzione a dove mettevo i piedi per evitare di inciampare. I magazzini lungo la strada erano bui, le finestre occhi vuoti. A mano a mano che proseguivo, lasciavano il posto a villette a schiera in mattoni, abbandonate e imbrattate di graffiti. Probabilmente, più di un secolo prima, quello doveva essere il centro di Coldwater, ma non era più così. La luna gettava una luce innaturale, traslucida, sul cimitero di edifici. Mi strinsi le braccia attorno al corpo e accelerai il passo. Due isolati più avanti, dal buio carico di smog si materializzò una figura. - Vee? — gridai La figura procedeva verso di me, la testa bassa, le mani in tasca. Non era Vee, ma un uomo alto e snello, le spalle larghe e un'andatura vagamente familiare. Non mi sentivo molto tranquilla a incrociare un uomo da sola su quel tratto di marciapiede, così infilai la mano in tasca e afferrai il cellulare Stavo per chiamare Vee per chiederle dove si trovasse di preciso, quando l'uomo passò sotto un cono di luce: indossava il giubbotto di pelle di mio padre. Mi bloccai. Sembrava non essersi accorto di me Salì una rampa di scale alla sua destra e sparì dentro una delle case abbandonate Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. - Papà7 Mi misi a camminare a passo svelto, quasi come un automa, e attraversai la strada senza preoccuparmi del traffico: sapevo che non ce n'era. Quando raggiunsi la casa in cui l'avevo visto entrare, provai a girare la maniglia della doppia porta d'ingresso. Chiusa. La scossi, le porte sbatacchiarono ma non cedettero. Misi le mani a coppa intorno agli occhi e sbirciai da una delle finestre che stavano di fianco alla porta. Le luci erano spente, ma vidi chiaramente dei mobili ricoperti da lenzuola chiare. Sentivo i battiti del cuore in tutto il corpo. Mio padre era vivo? E aveva vissuto lì tutto quel tempo? - Papà! - gridai da dietro il vetro. - Sono io! Nora! Le sue scarpe scomparvero in un corridoio in cima alle scale interne della casa. - Papà! - gridai, battendo sul vetro. Sono qui fuori! Indietreggiai e alzai la testa verso le finestre del secondo piano, per vedere se riuscivo a scorgere la sua ombra. Un pensiero salì a galla nella mente e lo seguii immediatamente. «L'ingresso posteriore.» Corsi giù per le scale e mi infilai nello stretto passaggio tra la casa e quella accanto. Certo. La porta di servizio. Se fosse stata aperta, sarei potuta entrare, da mio padre... Un bacio gelato mi sfiorò la nuca. Il brivido mi corse giù per la schiena paralizzandomi. Restai immobile alla fine del passaggio, gli occhi incollati al giardino sul retro 1 cespugli ondeggiavano docili nella brezza. Il cancello aperto cigolò sui cardini. Molto lentamente, arretrai: non mi fidavo di quella quiete, non credevo affatto di essere sola. Mi ero già sentita così, ed era sempre stato un presagio di pericolo. «Nora, non siamo soli. C'è qualcun altro. Vai via!» - Papà? - sussurrai, la mente affollata di pensieri «Vai a cercare Vee. Devi andartene! Verrò a cercarti io, corri! » Non mi importava quello che diceva: non avevo intenzione di andarmene. Non finché non avessi scoperto che cosa stesse succedendo. Non finché non lo avessi visto. Come poteva credere che me ne sarei andata? Lui era lì. Un fremito di sollievo e di eccitazione nervosa mi ribolliva dentro, eclissando qualsiasi paura potessi avere. - Papà, dove sei? Niente. - Papà? - riprovai. - Non me ne andrò. Allora arrivò una risposta. «La porta di servizio è aperta.» Mi toccai la testa, perché era lì che riecheggiavano le parole. La sua voce era un po' diversa stavolta, ma non capivo quale fosse la differenza. Leggermente più fredda, forse? Più acuta? - Papà? - sussurrai con voce fievole. «Sono dentro.» La voce era più forte adesso, un vero e proprio suono. E stavolta non era solo nella mia testa, ma anche nelle mie orecchie. Mi voltai in direzione della casa, certa che avesse parlato da dietro la finestra. Scesi dal vialetto lastricato e, esitando, appoggiai il palmo della mano sul vetro della finestra. Volevo disperatamente che fosse lui ma, allo stesso tempo, la pelle d'oca che mi percorse all'improvviso tutto il corpo mi avvisava che poteva trattarsi di un inganno. Una trappola. - Papà? - chiamai con voce tremante. - Ho paura. Dall'altra parte del vetro una mano si rifletté sulla mia, cinque dita si allinearono alle mie. All'anulare della mano sinistra, la fede d'oro di mio padre. Il cuore pompava così forte che mi vennero le vertigini. Era lui. Mio padre era a pochi centimetri da me. Vivo. «Entra, non ti farò del male. Vieni, Nora.» L'urgenza delle sue parole mi spaventò. Nel tentativo di trovare il modo di aprirla mi misi a graffiare la finestra: avevo un bisogno disperato di gettarmi tra le braccia di mio padre e impedirgli che mi lasciasse di nuovo. Avevo il viso rigato di lacrime. Pensai di correre alla porta di servizio, ma non riuscivo a lasciarlo neanche per qualche secondo. Non potevo perderlo ancora. Appoggiai di nuovo la mano al vetro, premendo più forte di prima. - Papà, sono qui! La finestra si coprì di ghiaccio, e minuscole fibre di gelo si diramarono sul vetro con un crepitio secco. All'improvvisa sensazione di freddo che mi attanagliò, cercai di ritirare di scatto la mano, ma la pelle era attaccata al vetro. Congelata. Gridando, cercai di liberarmi. La mano di mio padre sciolse il vetro dove era posata e si chiuse sulla mia, afferrandomi in modo che non potessi scappare. Mi tirò violentemente verso di sé, i vestiti mi si impigliarono nei mattoni e il braccio svanì dentro la finestra. Il mio riflesso mi rimandò uno sguardo pieno d'orrore, la bocca aperta in un grido di terrore. L'unico pensiero che mi martellava in testa era che non poteva trattarsi di mio padre. - Aiuto! - gridai. - Vee, mi senti? Aiuto! Cercai di divincolarmi. Un dolore lacerante mi attraversò l'avambraccio prigioniero e l'immagine di un coltello mi scoppiò nella mente con una tale intensità che pensai che la testa mi si fosse aperta a metà. Sentii un fuoco lambirmi la fronte: una lama me la stava aprendo in due. - Basta! - urlai. - Mi fai male! Sentii la sua presenza attraversarmi la mente, il suo sguardo eclissare il mio. C'era sangue dappertutto. Nero e viscoso e... mio. Sentii la bile salirmi in gola. - Patch! - urlai nella notte, con puro terrore e assoluta disperazione. La mano si dissolse e io caddi indietro. Istintivamente mi strinsi il braccio contro la camicetta per fermare il sangue, ma, con mio grande stupore, vidi che non ce n'era. Nessun taglio. Inspirando a fondo, fissai la finestra. Intatta. Rifletteva l'albero dietro di me, che ondeggiava nella brezza notturna. Scattai in piedi e, incespicando, tornai sul marciapiede. Mi misi a correre in direzione della Sacca del Diavolo, voltandomi di continuo. Mi aspettavo di veder sbucare mio padre - o il suo sosia - da una delle villette a schiera con un coltello in mano, invece il marciapiede alle mie spalle restò deserto. Tornai a guardare davanti a me per attraversare la strada e vidi qualcuno, mezzo secondo prima di piombargli addosso. - Ah, sei qua - disse Vee afferrandomi per rimettermi in piedi, mentre io trattenevo un urlo. - Mi sa che ci siamo incrociate senza vederci. Sono arrivata al locale e poi sono tornata indietro a cercarti. Tu stai bene? Sembri sul punto di vomitare. Non volevo restare ferma lì, all'angolo della strada. Riflettendo su quello che era appena successo, non potei fare a meno di ricordare quella volta che avevo investito Chauncey con la Neon. Poco dopo, l'auto era tornata normale, senza alcun segno dell'incidente. Stavolta, però, era qualcosa di più intimo. Stavolta si trattava di mio padre. Sentii bruciarmi gli occhi e mi tremò il mento: - Io... pensavo di aver visto di nuovo mio padre. Vee mi prese tra le braccia. — Tesoro. - Lo so. Non era vero. Non era vero - ripetei, cercando di tranquillizzarmi. Battei le palpebre diverse volte, lo sguardo annebbiato dalle lacrime. «Sembrava, però. Sembrava così vero...» - Ti va di parlarne? E cosa c'era da dire? Mi stavano perseguitando. Qualcuno si era insinuato nella mia testa, si stava divertendo con me. Un angelo caduto? Un Nephilim? Il fantasma di mio padre? Oppure era la mia mente a tradirmi? Non era la prima volta che credevo di vedere mio padre. Ero convinta che stesse cercando di comunicare con me, invece forse si trattava solo di un meccanismo di autodifesa. Forse la mia mente mi faceva vedere quello che mi rifiutavo di aver perso per sempre. Stava riempiendo il vuoto, perché era più semplice che lasciarlo andare. Qualunque cosa fosse successa, non era reale. Non era mio padre. Lui non mi avrebbe mai fatto del male. Lui mi voleva bene. - Torniamo alla Sacca del Diavolo - dissi con un sospiro tremante. Volevo allontanarmi da quella casa il prima possibile. Non facevo che ripetermi che l'uomo che avevo visto lì non poteva essere mio padre. Sentivo rimbombare lo strepito e lo stridio delle batterie e delle chitarre che si scaldavano per lo show e, a mano a mano che il frastuono aumentava, il panico, seppure lentamente, scioglieva la sua morsa e mi rendevo conto che il battito del cuore rallentava. L'idea di perdermi nella turba di gente stipata dentro il magazzino mi sembrava in qualche modo rassicurante. Nonostante quello che era accaduto, non volevo andare a casa e non volevo stare da sola: volevo infilarmi in mezzo alla folla, sentirne la forza. Vee mi bloccò afferrandomi per il polso. - E' chi credo che sia? Un po' più avanti, Marcie Millar stava salendo su un'auto. Era infilata in un lembo di stoffa nera talmente corto da mettere in mostra le calze di pizzo nero e il reggicalze. Stivali neri alti fin sopra il ginocchio e un cappello di morbido feltro nero completavano la mise. Non fu quella, però, a catturare la mia attenzione, quanto piuttosto l'auto: una Jeep Commander nera. Ingranò la marcia, svoltò l'angolo e sparì. 9 Oh, cavoli - sussurrò Vee. - L'ho visto sul serio? Sul serio ho visto Marcie salire sulla jeep di Patch? Aprii la bocca per dire qualcosa, ma era come se qualcuno mi avesse cacciato dei chiodi in gola. - È stata solo una mia impressione - disse Vee - o dal vestito le spuntava il tanga rosso? - Quello non era un vestito - replicai, appoggiandomi a un muro in cerca di sostegno. - Cercavo di essere buona, ma forse hai ragione tu. Quello non era un vestito. Era un top a fascia tirato giù fino a quel culo secco che si ritrova. L'unica cosa che gli impediva di tornare su di scatto era la forza di gravità. - Mi sa che sto per vomitare - confessai, mentre la sensazione di avere dei chiodi in gola si estendeva allo stomaco. Vee mi costrinse a sedermi sul marciapiede spingendomi giù per le spalle. - Respira profondamente. - Esce con Marcie -. Era una cosa orribile, non potevo crederci. - E' che Marcie la dà a tutti - sentenziò Vee. - E' questa l'unica ragione. E' una troia, una carogna. - Mi aveva detto che tra loro non c'era niente. - L'onestà non è mai stata una qualità di Patch, Restai a fissare stordita la strada da cui era sparita la jeep. Provavo l'impulso inspiegabile di lanciarmi su di loro e fare qualcosa di cui speravo di pentirmi, dopo. Tipo strangolare Marcie con il suo stupido tanga rosso. - Non è colpa tua - disse Vee. - E' lui lo stronzo che si è approfittato di te. - Ho bisogno di andare a casa - mormorai. Ero inebetita. In quel momento una volante delia polizia si fermò accanto all'entrata del club e un poliziotto alto e magro, in camicia e pantaloni neri, scese dall'auto. La strada era piuttosto buia, ma lo riconobbi immediatamente: il detective Basso. Ero capitata nelle sue indagini già una volta, e non avevo alcun desiderio di ripetere l'esperienza, soprattutto perché avevo la certezza quasi assoluta di non essere tra le persone che preferiva. Il detective Basso si fece largo a spallate e arrivò all'inizio della coda, mostrò il distintivo al buttafuori ed entrò senza neanche rallentare. - Wow - disse Vee. - Era un poliziotto, quello? - Sì, ed è troppo vecchio per te, quindi non pensarci neanche. Voglio andare a casa. Dove hai parcheggiato? - Non mi sembra possa avere più di trent'anni. Da quando in qua uno di trent'anni è troppo vecchio? - E' il detective Basso, quello che mi ha interrogata dopo l'incidente con Jules a scuola -. Adoravo il modo in cui continuavo a definirlo incidente invece di chiamarlo con il suo vero nome: tentato omicidio. - Basso. Mi piace. Breve e sexy, proprio come il mio nome. Ti ha perquisita? La guardai di traverso, ma lei stava ancora fissando la porta dietro cui era appena sparito. - No. Mi ha interrogata. - Non mi dispiacerebbe farmi ammanettare da lui. Però non dirlo a Rixon. - Andiamo. Se c'è la polizia vuol dire che sta per succedere qualcosa di brutto. - Brutto è il mio secondo nome - dichiarò prendendomi sottobraccio e tirandomi verso l'ingresso del magazzino. -Vee... - Ci saranno duecento persone là dentro, ed è buio. Non ti riconoscerà in mezzo a tutta quella gente, ammesso che si ricordi ancora di te. Probabilmente ti ha dimenticata. E poi non può arrestarti, non stai facendo niente di illegale. Be'', a parte la questione del documento falso, ma quello lo fanno tutti. E poi se avesse avuto intenzione di fare una retata si sarebbe portato dei rinforzi - Come fai a sapere che ho un documento falso? Mi guardò come a dire "Non sono mica stupida come sembro" - Sei qui, no? - Tu come pensi di entrare? - Con lo stesso sistema. - Hai un documento falso? -. Non riuscivo a crederci. - E da quando? Vee mi strizzò l'occhio. - Rixon non è bravo solo a baciare. Dai, andiamo. Da brava amica quale sei, non vorrai dirmi che sono scappata di casa disobbedendo alla punizione per niente? Anche perché ho già chiamato Rixon, e sta arrivando. Gemetti. Ma non era colpa di Vee. Ero io quella che aveva pensato che andare lì sarebbe stata una buona idea. Cinque minuti, non di più. La fila si muoveva velocemente, riversandosi all'interno dell'edificio e io, pur sapendo di fare una stupidaggine, pagai la consumazione e seguii Vee nel magazzino buio, afoso e assordante. In un certo senso era bello essere avvolti dall'oscurità e dal rumore; la musica era troppo alta per pensare, quindi anche volendo non sarei riuscita a concentrarmi su Patch e su cosa stessero facendo in quel momento lui e Marcie. In fondo alla sala c'era un bar tutto nero, con sgabelli e lampadari di metallo; Vee e io scivolammo sugli ultimi due sgabelli liberi. - Documenti? - chiese il tizio dietro il bancone. Vee scosse la testa. - Per me solo una Coca-Cola Light, per favore. - Io prendo una Coca-Cola alla ciliegia - aggiunsi. Vee mi diede una gomitata e si piegò verso di me. - Hai visto? Ci ha chiesto i documenti. Fichissimo! Scommetto che voleva sapere i nostri nomi, ma era troppo timido per chiederceli. Il barman riempì due bicchieri e li fece scivolare lungo il bancone. Si fermarono proprio davanti a noi. - Forte questo trucchetto! - gli gridò Vee per sovrastare la musica. Lui le mostrò il dito medio e servì il cliente successivo - Comunque era troppo basso per me - disse lei - Hai visto Scott? - chiesi. Seduta dritta sullo sgabello, cercavo di vedere al di sopra della folla. Ormai avrebbe dovuto essere arrivato, ma non riuscivo a vederlo. Forse non aveva voluto lasciare l'auto in un parcheggio a pagamento ed era andato a cercarne uno libero. Però a meno che non avesse parcheggiato a due chilometri, il che sembrava molto improbabile, avrebbe già dovuto essere lì. - Oh-oh. Indovina chi è appena entrata? -. Vee aveva gli occhi fissi in un punto alle mie spalle e si rabbuiò fino ad assumere un'espressione corrucciata. - Marcie Millar, ecco chi. - Credevo fosse andata via! -. Fui assalita dalla rabbia. - Patch è con lei? - Negativo. Tirai su le spalle e mi sedetti ancora più dritta. - Sono calma. Posso farcela. Magari non ci vede nemmeno e anche se ci vede non verrà a parlare con noi -. E nonostante non credessi a una sola parola di quello che dicevo, aggiunsi: Probabilmente è salita sulla sua jeep per qualche astruso motivo. - Ed è sempre per qualche astruso motivo che indossa il suo cappellino? Battei le mani aperte sul bancone e mi voltai di scatto. Eccola lì: Marcie si faceva avanti a gomitate tra la folla, con la coda di capelli biondo tiziano che le scappava fuori dal cappellino da baseball di Patch. Se quella non era una prova del fatto che stavano insieme, non sapevo proprio che cos'altro potesse essere. - La uccido - dissi a Vee voltandomi di nuovo verso il bancone. Afferrai la mia Coca, le guance in fiamme. - Ottima idea. E puoi farlo subito, sta venendo dritta da questa parte Un attimo dopo, Marcie fece scendere il tizio seduto accanto a me dallo sgabello e ci si appollaiò. Si tolse il cappellino di Patch, scosse i capelli e poi si premette il cappellino sul viso, inspirando a fondo - Non ha un profumo fantastico? - Ehi, Nora, - disse Vee - Patch non aveva i pidocchi la settimana scorsa? - Che cos'è? - chiese Marcie in tono enfatico. - Erba appena tagliata? Una spezia esotica? O forse... menta? Sbattei giù il bicchiere con troppa forza e un po'' di Coca si rovesciò sul bancone. - E' molto ecologico da parte tua - disse Vee a Marcie - riciclare i rifiuti di Nora. - Meglio rifiuti fichi che rifiuti grassi - ribatté Marcie. - Ricicla anche questo - sibilò Vee. Afferrò la mia Coca alla ciliegia e la tirò addosso a Marcie. Qualcuno però la urtò da dietro, e così, invece di atterrare solo su Marcie, schizzò dappertutto, sporcando tutte e tre. - Guarda che hai combinato! - strillò Marcie. Saltò giù dallo sgabello così bruscamente da farlo rovesciare, quindi scosse con forza il vestito per cercare di far scorrere via la Coca. - Questo vestito è un Bebe! Lo sai quanto costa? Duecento dollari! - Ora non vale più nulla - replicò Vee. - E non so di cosa ti stia lamentando, scommetto che l'hai rubato. - Già, e allora? - Con te non ci si sbaglia: quello che si vede fuori corrisponde a quello che c'è dentro. E io vedo volgarità. Non c'è niente di più volgare che rubare. - E io vedo grasso. Non c'è niente di più grasso che un doppio mento. Gli occhi di Vee erano due fessure. - Sei morta. Mi hai sentito? Morta. Marcie mi puntò gli occhi addosso. - A proposito Nora, pensavo volessi saperlo. Patch mi ha detto che ha rotto con te perché non eri abbastanza troia. Vee le tirò una borsettata su un orecchio. - Ma che ti prende? - urlò Marcie stringendosi convulsamente la testa. Vee la colpì sull'altro orecchio. Marcie indietreggiò barcollando, stordita ma furiosa. - Tu, brutta... - iniziò. - Basta! - gridai cercando di dividerle. Avevamo attirato l'attenzione e iniziava ad avvicinarsi gente, richiamata dalla prospettiva di una zuffa. Non m'importava di quello che sarebbe successo a Marcie, ma con Vee era tutto un altro paio di maniche. Se si fosse messa a fare a botte, il detective Basso l'avrebbe trascinata alla stazione di polizia. Considerando che era anche evasa da casa, probabilmente i suoi genitori non avrebbero gradito. - Calmiamoci tutti. Vee, vai a prendere la macchina, ci vediamo fuori. - Mi ha chiamata grassa. Merita di morire, l'hai detto anche tu -. Vee aveva il respiro affannoso. - E come pensi di uccidermi? - ridacchiò Marcie. - Sedendoti sopra di me? A quel punto scoppiò il finimondo. Vee afferrò il suo bicchiere di Coca dal banco e alzò il braccio con l'intenzione di lanciarlo. Marcie si voltò per scappare ma inciampò sullo sgabello che aveva fatto cadere poco prima e volò all' indietro. Io mi girai verso Vee per cercare di scongiurare il pericolo di un'escalation di violenza, quando qualcuno mi colpì il ginocchio da dietro. Finii a terra e un secondo dopo Marcie era a cavalcioni su di me. - Questo è per avermi rubato Tod Bérot in quinta elementare - disse dandomi un pugno in faccia. Urlai e mi portai la mano all'occhio. - Tod Bérot?-gridai. - Ma di che cavolo stai parlando? Eravamo in quinta elementare! - E questo per aver pubblicato quella mia foto con un enorme brufolo sul mento sulla prima pagina dell'e-zine l'anno scorso! - Non sono stata io! Okay, forse avevo avuto voce in capitolo sulla scelta delle foto, ma non era stata solo una mia decisione. E comunque Marcie me lo rinfacciava solo allora? Un anno non era un po'' troppo per continuare a serbare rancore? Marcie urlò: - E questo è per quella troia di... - Tu sei pazza! -. Riuscii a bloccare il colpo, afferrai la gamba dello sgabello più vicino e glielo rovesciai addosso. Marcie lo spinse via e prima che riuscissi a rimettermi in piedi arraffò il drink a uno che passava di là rovesciandomelo addosso. - Occhio per occhio - disse. - Tu umili me, io umilio te. Mi passai una mano sul viso per togliermi la Coca-Cola dagli occhi. Sentivo i lividi allargarsi sotto la pelle e tatuarmi di blu e di viola. Avevo i capelli inzuppati, il top - il più bello che avessi - strappato, mi sentivo stremata, demoralizzata e... rifiutata. Patch era passato a Marcie Millar. E Marcie ci aveva tenuto a chiarirlo. Il modo in cui mi sentivo non giustifica come agii, ma fece sicuramente da catalizzatore. Non avevo la minima idea di come fare a picchiare qualcuno, ma chiusi la mani a pugno e colpii Marcie alla mascella. Lei rimase un momento immobile, poi si allontanò di scatto, tenendosi la mascella con due mani, la bocca aperta per la sorpresa. Incoraggiata dalla mia piccola vittoria, mi scagliai contro di lei, ma non arrivai lontano perché qualcuno mi afferrò e mi tirò su. - Vai subito fuori di qui - mi disse Patch in un orecchio, trascinandomi verso la porta. - La uccido! - urlai, cercando di liberarmi dalla sua stretta. Intorno a noi si era riunita una piccola folla che scandiva: - Sangue! Sangue! Sangue! Patch li scansò e mi fece passare in mezzo. Dietro di lui, Marcie si alzò in piedi e mi mostrò il dito medio. Sorrise compiaciuta, le sopracciglia alzate. Il messaggio era chiaro: "fatti sotto". Patch mi consegnò a Vee, quindi tornò indietro e strinse una mano intorno al braccio di Marcie. Prima che riuscissi a vedere dove la portava, Vee mi spinse verso l'uscita più vicina, che dava sul vicolo. - Per quanto lo spettacolo di te che ti azzuffavi con Marcie fosse divertente, non mi sembrava valesse il prezzo di una notte in prigione - mi disse. - La odio! - ribattei, con la voce ancora isterica. - Quando Patch ti ha rimesso in piedi ho visto il detective Basso che avanzava facendosi largo tra la folla. Ho capito che era il momento di intervenire. - Ho visto Patch che raggiungeva Marcie. Dove sono andati? - Che importanza ha? Spero che li prendano e li portino tutti e due in centrale. Percorremmo il vicolo di corsa per raggiungere l'auto di Vee, mentre la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi. Le luci rosse e blu di un'autopattuglia tagliarono l'imbocco del vicolo, così ci appiattimmo contro la parete del magazzino. - E' stato proprio eccitante! - disse Vee non appena fummo dentro la Neon. - Certo, come no? - risposi a denti stretti. Vee mi leccò il braccio. - Hai un buon sapore. Mi stai facendo venire sete con tutto questo profumo di Coca-Cola. - E' tutta colpa tua! - protestai. - Sei tu che hai buttato la mia Coca addosso a Marcie! Se non fosse stato per te non avrei dovuto fare a botte. - A botte? Ma se sei stata lì a prenderle. Avresti dovuto farti insegnare qualche mossa da Patch, prima di rompere con lui. Sentii suonare il cellulare e lo tirai fuori dalla borsa. - Che c'è? - risposi bruscamente. Nessuna risposta. Allora mi resi conto d'essere così agitata da aver confuso il trillo del messaggio con quello di una vera chiamata. Era arrivato un sms da un numero sconosciuto: resta a casa stanotte. - E' inquietante - osservò Vee, che si era piegata verso di me per leggerlo. - A chi hai dato il tuo numero? - Avranno sbagliato. Sarà stato per qualcun altro -. Naturalmente stavo pensando alla villetta a schiera, a mio padre e alla visione di lui che mi tagliava il braccio. Gettai il cellulare nella borsa che giaceva aperta ai miei piedi e mi presi la testa fra le mani. L'occhio mi faceva male da morire. Ero impaurita, sola, confusa e sul punto di scoppiare in un pianto irrefrenabile. - Forse è di Patch - disse Vee. - Il suo numero non è mai stato visualizzato come sconosciuto. E' uno scherzo -. Bisognava solo crederci. - Possiamo andare? Ho bisogno di un analgesico. - Credo che dovremmo chiamare il detective Basso. La polizia adora questo tipo di messaggi intimidatori mandati dai molestatori. - Tu vuoi chiamarlo solo per poter flirtare con lui. Vee mise in marcia la Neon. - Cercavo solo di rendermi utile. - Forse avresti dovuto pensarci dieci minuti fa, quando hai rovesciato la mia Coca addosso a Marcie. - Almeno io ho avuto il fegato di farlo. Mi voltai verso di lei, in modo che si sentisse addosso tutto il peso del mio sguardo. - Mi stai accusando di non aver tenuto testa a Marcie? - Ti ha rubato il ragazzo, no? Lo sai che lui mi dà i brividi, ma se Marcie mi avesse rubato il ragazzo gliel'avrei fatta pagare cara. Puntai un dito in direzione della strada. - Guida! - Sai una cosa? Hai davvero bisogno di un nuovo ragazzo. Un bravo ragazzo vecchio stile che ti faccia rilassare con un po'' di sano petting. Perché tutti pensavano che avessi bisogno di un nuovo ragazzo? Io non avevo bisogno di un nuovo ragazzo. Non volevo più sentire parlare di ragazzi per il resto della mia vita. L'unica cosa che erano capaci di fare era spezzarti il cuore. 10 Un'ora dopo mi ero preparata uno spuntino a base di formaggio cremoso e cracker dolci, avevo rimesso in ordine la cucina e guardato un po'' di Tv. In un angolo recondito della mente, però, era ancora annidato l'sms che mi intimava di restare a casa. Era stato facile definirlo un errore o uno scherzo quando ero al sicuro nell'auto di Vee, ma poi, una volta sola, non mi sentivo per niente tranquilla. Pensai di mettere su Chopin per rompere il silenzio, ma non volevo rischiare di non sentire i rumori. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che qualcuno mi arrivasse di soppiatto alle spalle. «Tirati su!» ordinai a me stessa. «Nessuno ti sorprenderà alle spalle.» Dopo un po'', quando non ci fu più niente di decente da guardare in Tv, me ne andai di sopra. La mia camera era pulita, così mi misi a riorganizzare il guardaroba per colore per cercare di tenermi occupata e non avere la tentazione di addormentarmi. Se mi fossi appisolata sarei stata vulnerabile, e volevo ritardare quel momento il più possibile. Spolverai il piano dello scrittoio, quindi sistemai i libri in ordine alfabetico. Cercai di tranquillizzarmi pensando che non sarebbe successo niente di brutto. Probabilmente l'indomani mattina, al mio risveglio, mi sarei resa conto di quanto fosse stata ridicola la mia paranoia. E poi, di nuovo, pensai che forse il messaggio era stato mandato da qualcuno che voleva tagliarmi la gola nel sonno. In una notte da brividi come quella, niente sembrava inverosimile. Più tardi, mi svegliai nel buio. Le tende dall'altra parte della stanza ondeggiavano al soffio del ventilatore elettrico. La temperatura era eccessivamente alta e avevo la canottiera e i boxer appiccicati addosso, ma ero così presa a immaginare i peggiori scenari che l'idea di aprire un po'' la finestra non mi sfiorò nemmeno. Gettai uno sguardo di lato e misi a fuoco le cifre sull'orologio: mancavano una manciata di minuti alle tre. La tempia destra mi martellava furiosamente e avevo l'occhio gonfio e chiuso. Accendendo tutte le luci della casa, scalza, mi mossi cauta fino al congelatore e mi preparai una borsa del ghiaccio riempiendo di cubetti uno di quei sacchetti per surgelare gli alimenti. Affrontai lo specchio del bagno e gemetti: un livido viola e rosso mi attraversava il viso, dal sopracciglio alla guancia. - Come hai potuto lasciare che accadesse? - chiesi alla mia immagine riflessa. — Come hai potuto permettere a Marcie di picchiarti? Presi gli ultimi due analgesici rimasti, li mandai giù e mi infilai a letto. Il ghiaccio mi bruciava la pelle intorno all'occhio e allo stesso tempo mi faceva rabbrividire. Mentre aspettavo che l'analgesico facesse effetto, lottai con l'immagine di Marcie che saliva sulla jeep di Patch. Nella mia mente quella scena veniva proiettata, poi il nastro si riavvolgeva e veniva proiettata ancora. Mi girai e rigirai, arrivai a mettermi il cuscino sulla testa per non vederla più, ma quell'immagine continuava a danzarmi davanti, tormentadomi. Dopo un'ora circa, con il cervello consumato a furia di pensare a tutti i modi più creativi di uccidere sia Marcie sia Patch, scivolai nel sonno. Mi svegliai al suono di una serratura che scattava. Aprii gli occhi, ma avevo la vista annebbiata: ci vedevo in bianco e nero, a bassa definizione, come quando avevo sognato di essere in Inghilterra centinaia di anni prima. Battei le palpebre per cercare di riacquistare una visione normale, ma il mondo rimase color fumo e ghiaccio. Di sotto, la porta d'ingresso si aprì senza sforzo, con un leggero cigolio. Mia madre non sarebbe tornata prima di sabato mattina, quindi doveva essere qualcun altro. Un estraneo. Mi guardai intorno in cerca di qualcosa da usare come arma. Sul comodino erano disposti alcuni portafotografie e una lampada da quattro soldi. Sentii dei passi muoversi lievi sul pavimento di legno duro dell'ingresso. Qualche secondo dopo, erano sulle scale. L'intruso non si preoccupava di non farsi sentire. Sapeva esattamente dove andare. Rotolai giù dal letto silenziosamente e raccolsi da terra i collant che mi ero tolta. Li tirai stringendoli tra le mani e mi appiattii contro la parete dietro la porta, madida di sudore. C'era un silenzio così profondo che riuscito a sentire il rumore del mio respiro. Appena varcò la soglia gli avvolsi le calze intorno al collo, tirando con tutta la mia forza. Lottammo per un momento, finché fui trascinata in avanti di scatto e mi ritrovai faccia a faccia con Patch. Lui mi guardò attraverso le calze che mi aveva sottratto. - Vuoi spiegarmi? - Che ci fai qui? - domandai, il respiro affannoso. Poi feci due più due. - Sei stato tu a mandarmi quel messaggio? Quello dove mi dicevi di restare a casa? Da quando hai un numero segreto? - Ho dovuto prendere un numero nuovo. Un numero che fosse più sicuro. Non volevo saperlo. Che razza di persona ha bisogno di tanta segretezza? Da chi temeva potessero essere intercettate le sue telefonate? Dagli arcangeli? - Non ti è venuto in mente di bussare? - domandai. Sentivo ancora martellarmi il cuore. - Credevo fosse qualcun altro. - Aspettavi qualcun altro? - In realtà, sì! -. Uno psicopatico che manda messaggini anonimi dicendomi di rendermi reperibile. - Sono le tre passate - disse Patch. - Chiunque stessi aspettando non dev'essere così eccitante visto che ti sei addormentata -. Sorrise. - E stai ancora dormendo -. Non appena pronunciò quest'ultima frase, assunse un'espressione soddisfatta, forse persino rassicurata. Come se qualcosa su cui si stava arrovellando si fosse risolto. Lo guardai sorpresa. Stavo ancora dormendo? Ma che stava dicendo? Aspetta. Certo. Ora si spiegava perché non c'erano colori e io vedevo tutto in bianco e nero. Patch non era davvero nella mia stanza: era nel mio sogno. Ma lo stavo sognando oppure lui sapeva di essere lì? Stavamo facendo lo stesso sogno? - Per tua informazione, mi sono addormentata mentre aspettavo... Scott -. Non avevo idea del perché l'avessi detto, forse la mia bocca si era intromessa tra me e il cervello. - Scott - ripetè. - Non cominciare. Ho visto Marcie salire sulla tua jeep. - Aveva bisogno di uno strappo. Mi misi le mani sui fianchi. - Che tipo di strappo? - Non quello che immagini - disse lentamente. - Oh, certo! Di che colore era il suo tanga? Era un test, e speravo davvero che non lo sapesse. Lui non rispose, ma i suoi occhi mi dissero che invece lo sapeva. Marciai fino al letto, afferrai un cuscino e glielo lanciai addosso. Lui lo schivò, e quello finì contro il muro. - Mi hai mentito - dissi. - Mi hai detto che tra te e Marcie non c'era niente, ma due persone tra cui non c'è niente non si scambiano i vestiti e non salgono sulla macchina dell'altro la sera tardi con addosso quella che non si farebbe fatica a definire biancheria intima! All'improvviso mi resi conto di quello che io indossavo, anzi, che non indossavo. Me ne stavo davanti a Patch in boxer e canottiera. Be'', ormai era un po'' tardi per rimediare, no? - Si scambiano i vestiti? - Lei indossava il tuo cappellino! - Aveva i capelli fuori posto. Restai a bocca aperta. - E' così che ti ha detto? E tu le hai creduto? - Non è cattiva come la fai apparire tu. Non poteva aver detto sul serio. Mi indicai l'occhio. - Non è così cattiva? Lo vedi questo? Me l'ha fatto lei! E tu che cavolo ci fai qui? - urlai. Sentivo la rabbia ribollire a livelli mai raggiunti prima. Patch si appoggiò allo scrittoio e incrociò le braccia. - Sono venuto a vedere come stai. - Ho un occhio nero, grazie per averlo chiesto. - Vuoi che ti prenda del ghiaccio? - Voglio che tu esca dal mio sogno! -. Afferrai un altro cuscino dal letto e glielo tirai addosso di nuovo, questa volta con violenza. E questa volta lo presi. - La Sacca del Diavolo, l'occhio nero. E' una questione di territorio -. Mi rilanciò il cuscino, come a voler dare forza alle sue parole. - Stai difendendo Marcie? All'improvviso, prestando ascolto soltanto al desiderio, lo afferrai per la camicia e lo attirai a me. Era così bello averlo di nuovo vicino. Mi era mancato moltissimo, ma fino a quel momento non avevo capito quanto. - Non farmene pentire - dissi. Ero senza fiato. - Non ti ho mai fatto pentire -. Mi baciò e io risposi con tale avidità da temere di provocarmi dei lividi alle labbra. Affondai le dita nei suoi capelli stringendolo a me, la mia bocca sulla sua, caotica e sfrenata e affamata. Le emozioni confuse, contorte che mi avevano investita da che ci eravamo lasciati mi abbandonarono lentamente, soffocate dal bisogno folle e irrefrenabile di stare con lui. - Le sue mani si insinuarono sotto la mia canottiera, scivolarono esperte sui fianchi per tenermi stretta a lui. Incastrata tra la parete e il suo corpo, armeggiai con i bottoni della camicia e, nel farlo, le mie dita sfiorarono i suoi muscoli, forti e massicci. Gli tirai giù la camicia dalle spalle, sbattendo la porta in faccia al mio cervello, che mi avvertiva che stavo facendo un errore enorme. Non volevo più stare a sentirlo, avevo paura di quello che avrei trovato dall'altra parte. Sapevo che ne sarebbe venuto solo dell'altro dolore, ma non ero in grado di resistergli. Riuscivo solo a pensare che se Patch era davvero nel mio sogno, quella notte sarebbe stata il nostro segreto. Gli arcangeli non potevano vederci: lì, tutte le loro regole andavano in fumo. Potevamo fare qualunque cosa volessimo, non l'avrebbero mai scoperto. Nessuno l'avrebbe mai saputo. Patch mi venne incontro: si sfilò le maniche della camicia e la gettò per terra. Gli feci scivolare le mani sulla schiena perfettamente scolpita e il desiderio si impadronì di me. Sapevo che lui non poteva provare le mie stesse sensazioni fisiche, ma mi dissi che era l'amore a guidarlo. Il suo amore per me. Non permisi a me stessa di pensare alla sua incapacità di sentire il contatto con le mie mani, o a quanto quell'incontro significasse davvero per lui. Lo volevo e basta. Subito. Mi sollevò, e io gli circondai i fianchi con le gambe. Vidi il suo sguardo andare prima al comò e poi al letto e il cuore fece una capriola. Il pensiero razionale mi aveva abbandonata. Sapevo solo che avrei fatto qualsiasi cosa per far durare quel piacere dissennato. Stava accadendo tutto troppo in fretta, ma la certezza irrazionale di dove stavamo andando fu un balsamo per la rabbia fredda, distruttiva che avevo covato per tutta la settimana precedente. Fu questo l'ultimo pensiero che registrai prima di sfiorare con le dita il punto in cui le sue ali si fondevano con la schiena. E in un attimo, prima che riuscissi a fermarmi, venni risucchiata nella sua memoria. L'odore di cuoio e il contatto con la superficie liscia e morbida sotto le cosce mi rivelarono che ero nella jeep di Patch prima ancora che gli occhi si adattassero completamente all'oscurità. Io ero sul sedile posteriore, Patch al volante e Marcie sul sedile del passeggero. Indossava l'abito attillato e gli stivali alti con cui l'avevo vista solo tre ore prima. Si trattava di quella stessa sera, dunque; la memoria di Patch mi aveva spedita indietro di qualche ora. - Mi ha rovinato il vestito disse Marcie tirando la stoffa appiccicata alle cosce con la punta delle dita. - Sto morendo di freddo, e puzzo pure di Coca-Cola alla ciliegia. - Vuoi la mia giacca? - chiese Patch senza staccare gli occhi dalla strada. - Dov'è? - Sul sedile dietro. Marcie si sganciò la cintura di sicurezza, puntò un ginocchio sulla console e afferrò la giacca dal sedile accanto al mio. Non appena si fu seduta di nuovo, si sfilò il vestito dalla testa e lo lasciò cadere a terra. A parte la biancheria intima, era completamente nuda. Mi scappò un suono strozzato. Lei infilò le braccia nelle maniche della giacca di Patch e tirò su la lampo. - Prendi la prossima a sinistra - gli ordinò. - Conosco la strada per arrivare a casa tua - disse Patch voltando a destra. - Non voglio andare a casa. Tra due isolati gira a sinistra. Ma superati i due isolati, Patch tirò dritto. - Non sei affatto divertente - protestò Marcie con un broncio annoiato. - Non sei neanche un po'' curioso di sapere dove volevo portarti ? - È tardi. - Mi stai respingendo? - chiese lei, maliziosa. - Ti sto facendo scendere, poi me ne torno a casa. - Perché non posso venire? - Magari un'altra volta - disse Patch. «Oh, davvero?» avrei voluto gridargli. «E' molto più di quanto ho ottenuto io!» - E' troppo vago - ribatté lei con un sorrisetto furbo. Appoggiò i piedi sul cruscotto, scoprendo diversi centimetri di gamba. Patch non disse nulla. Domani sera, allora - insisté Marcie. Si interruppe e poi continuò con voce vellutata. -Tanto non devi andare da nessun'al- tra parte. So che Nora ha rotto con te. Le mani di Patch strinsero più forte il volante. - Ho sentito che sta con Scott Parnell adesso. Sai, quello nuovo. E' carino, ma non ci ha guadagnato nello scambio. - Non ho voglia di parlare di Nora. - Ottimo. Neanch'io. Io voglio parlare di noi. - Ma non avevi un ragazzo? - Ecco, la parola chiave è "avevi". Patch svoltò a destra ed entrò nel vialetto di casa di Marcie. Si fermò, ma non spense il motore. - Buonanotte, Marcie. Lei rimase un momento seduta dov'era, quindi si mise a ridere — Non mi accompagni alla porta? - Sei una ragazza forte e in grado di arrivarci da sola. - Se mio padre ci sta guardando, non ne sarà contento - disse allungando una mano per raddrizzargli il colletto, dove indugiò un po'' più del necessario. - Non sta guardando. - Come fai a saperlo? - Fidati. - Marcie abbassò ancora la voce, sensuale e tranquilla. - Sai, ammiro davvero la tua forza di volontà. Mi tieni sulla corda, e questo mi piace. Ma c'è una cosa che vorrei chiarire: non sto cercando una relazione. Non mi piacciono le cose ingarbugliate, complicate. Non voglio sentimenti feriti, segnali confusi né gelosia. Voglio solo divertirmi. Pensaci. - Per la prima volta, Patch si girò a guardarla. - Lo terrò a mente - disse alla fine. Marcie, che vedevo di profilo, sorrise. Si protese verso di lui e gli diede un bacio lento, sensuale Lui fece per tirarsi indietro, ma poi si fermò. Avrebbe potuto staccarsi in qualsiasi momento, ma non lo fece. - Domani sera - mormorò Marcie. - Da te. - Il vestito - le disse lui, indicando il mucchietto di stoffa umida che giaceva per terra. - Lavalo e restituiscimelo domani sera -. Scese dalla jeep ed entrò in casa di corsa. Le braccia mi ricaddero inermi, sciogliendo l'abbraccio in cui tenevo Patch. Quel che avevo visto mi aveva lasciata talmente inebetita da non riuscire a proferire parola; era come se mi avesse buttato addosso una secchiata di acqua gelata. Avevo le labbra gonfie per la furia dei suoi baci e il cuore in fiamme. Patch era nel mio sogno. Eravamo insieme nel mio sogno, in un certo senso era reale. L'idea era surreale in modo inquietante, rasentava l'impossibilità, ma doveva essere vera. Se non fosse stato lì, se non si fosse introdotto nel mio sogno di nascosto, in silenzio, non avrei potuto toccargli la schiena ed essere catapultata nella sua memoria. Invece era successo. Il ricordo era vivo, fondato e fin troppo reale. Patch si accorse dalla mia reazione che non avevo visto niente di piacevole. Mi circondò le spalle con le braccia e rivolse lo sguardo al soffitto. - Che cosa hai visto? - chiese piano. Tra noi, solo il battito del mio cuore. - Hai baciato Marcie - dissi mordendomi forte le labbra per cercare di trattenere le lacrime che sgorgavano fuori. Si passò le mani sul viso e poi si massaggiò la base del naso. - Dimmi che è un inganno della mente, un trucco. Dimmi che lei ha una specie di potere su di te, che non puoi scegliere quando sei con lei. - E' complicato. - No — dissi scuotendo la testa. - Non dirmi che è complicato. Non c'è niente di complicato ormai, non dopo tutto quello che abbiamo passato. Che cosa speri di ottenere da una relazione con lei? Il suo sguardo si posò su di me. - Non certo amore. Mi sentii improvvisamente svuotata. Tutti i pezzi si ricomposero, e capii. Stare con Marcie era banale soddisfazione. Autocompiacimento. Per lui eravamo conquiste. Era un giocatore e ogni ragazza rappresentava una nuova sfida, una relazione a breve termine che gli permettesse di ampliare i propri orizzonti. Aveva successo nell'arte della seduzione. Non gli interessava il proseguimento di una storia, soltanto l'inizio. E io, come tutte le altre, avevo fatto l'enorme errore di innamorarmi di lui. Non appena era successo, lui mi aveva lasciata. Be'', non avrebbe certo dovuto preoccuparsi che gli capitasse la stessa cosa con Marcie: lei amava solo se stessa. - Mi fai schifo - dissi, la voce tremante Patch si sedette a terra, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. - Non ero venuto per farti soffrire - E allora perché? Per divertirti alle spalle degli arcangeli? Per ferirmi più di quanto non abbia già fatto? -. Non aspettai una risposta. Mi portai le mani al collo e mi strappai la catenina che mi aveva regalato qualche giorno prima. La tirai così forte che il dolore avrebbe dovuto farmi urlare, ma stavo già soffrendo talmente tanto che nemmeno lo sentii. Avrei dovuto restituirgli la catenina il giorno in cui l'avevo lasciato, ma mi resi conto troppo tardi che fino a quel momento non avevo perso la speranza. Credevo ancora in noi. Mi ero aggrappata all'idea che ci fosse un modo per fare un accordo con le stelle, grazie al quale avrei potuto riavere indietro Patch. Fatica sprecata. Gli gettai addosso la catenina. - E rivoglio il mio anello. - I suoi occhi scuri indugiarono un momento, poi si chinò, raccolse la camicia e disse: - No. - Che cosa significa, no? Restituiscimelo! - Me l'hai regalato - disse piano ma senza nessuna dolcezza. - Be'', ho cambiato idea! -. Ero rossa in volto, tutto il corpo ribolliva di rabbia. Voleva tenersi l'anello perché sapeva quanto contasse per me. Voleva tenerselo perché nonostante si fosse innalzato a rango di angelo custode, la sua anima era nera come quando l'avevo conosciuto. E il più grande errore che avessi fatto era stato quello di illudermi che non fosse così. - Te l'ho regalato quando ero così stupida da credere di amarti! Stesi la mano. - Ridammelo. Subito -. Non potevo sopportare l'idea di lasciare a Patch l'anello di mio padre. Lui non lo meritava, non meritava di tenere con sé l'unica testimonianza tangibile di vero amore che avessi. Ignorando la mia richiesta, Patch uscì. Riaprii gli occhi. Accesi la luce: ero tornata a vedere a colori. Mi misi a sedere, accesa da una scarica di adrenalina. Mi toccai il collo per cercare la catenina di Patch, ma non c'era. Passai la mano tra le lenzuola, pensando che magari si fosse sganciata mentre dormivo. Niente. Il sogno era reale. Patch aveva trovato un sistema per venirmi a trovare mentre dormivo. 11 Il lunedì, dopo le lezioni, Vee mi lasciò in biblioteca. Prima di entrare feci la telefonata quotidiana a mia madre, la quale, come al solito, mi disse che il lavoro la impegnava molto e io le dissi che per me era lo stesso con la scuola. Una volta dentro, presi l'ascensore per raggiungere la sala multimediale al terzo piano; controllai la posta elettronica, andai su Facebook e diedi un'occhiata al blog di Perez Hilton. Poi, tanto per torturarmi ancora, cercai informazioni sulla Mano Nera. Comparvero i link già visti. Non che mi aspettassi niente di diverso. Alla fine, non avendo altre scuse per rimandare, aprii il libro di chimica e mi rassegnai a studiare. Era tardi quando decisi di fare una pausa e andare a cercare un distributore automatico. Dalle finestre esposte a ovest si vedeva il sole basso all'orizzonte e la notte incombente, pronta a calare su tutto. Sentii il bisogno di muovermi un po'', così decisi di non prendere l'ascensore ma di fare le scale. Ero stata seduta così a lungo che le gambe mi formicolavano. Nell'atrio, infilai qualche moneta nel distributore e presi una confezione di pretzel e una lattina di succo di mirtillo da portarmi al terzo piano. Di ritorno nella sala multimediale, trovai Vee seduta sul mio tavolo, le scarpe di vernice gialla con il tacco appoggiate alla sedia. Con un'aria di compiacimento misto a fastidio, sventolava una piccola busta nera tenendola tra due dita. - Questa è per te - disse gettando la busta sul tavolo. - E anche questo Mi porse un sacchetto di carta con i lembi arrotolati. - Ho pensato che potessi avere fame. A giudicare dall'espressione di sdegno di Vee, pensai che nella busta non potesse esserci niente di buono, così indirizzai tutta la mia attenzione su quel che c'era nel sacchetto. - Pasticcini! Vee sorrise. - La fornaia mi ha detto che sono biologici. Non ho idea di come si facciano dei pasticcini biologici e non so come possano costare tanto di più, ma eccoli qua. - Sei la mia eroina. - Quanto pensi di rimanere ancora? - Mezz'ora al massimo. Appoggiò le chiavi della Neon accanto al mio zaino. - Rixon e io andiamo a mangiare qualcosa, quindi dovrai tornare a casa da sola stasera. Ho parcheggiato nel garage sotterraneo, fila B. Ho solo un quarto di serbatoio pieno, quindi non fare pazzie. Presi le chiavi cercando di ignorare la fastidiosa fitta al cuore che riconobbi immediatamente: gelosia. Ero gelosa della nuova relazione di Vee con Rixon, gelosa della loro cena, gelosa del fatto che lei adesso fosse più vicina a Patch di quanto lo fossi io, perché anche se Vee non ne aveva mai fatto parola, ero sicura che quando era con Rixon le capitava di incontrare Patch. Magari a volte, la sera, guardavano un film insieme. Tutti e tre seduti sul divano di Rixon, mentre io me ne stavo tutta sola alla fattoria. Avrei voluto chiedere a Vee di Patch, avrei disperatamente voluto farlo, ma non potevo. Avevo rotto con lui. Avevo voluto la bicicletta? Era ora di iniziare a pedalare. D'altra parte, però, che male avrebbe fatto una sola domandina? - Ehi, Vee? Si voltò. - Sì? Aprii la bocca e fu allora che mi ricordai del mio orgoglio. Vee era la mia migliore amica, ma anche una gran chiacchierona. Se le avessi chiesto di Patch, avrei rischiato che lui lo venisse a sapere e che scoprisse quanto mi era difficile dimenticarlo. Feci un bel sorriso. - Grazie per i dolcetti. - Per te questo e altro, tesoro. Dopo che Vee se fu andata, staccai il pirottino di carta a uno dei pasticcini e mi misi a mangiare in solitudine, con il tranquillo ronzio della sala come sottofondo. Feci i compiti ancora per mezz'ora, mangiai altri due dolcetti e solo dopo trovai il coraggio di dare un'occhiata alla busta nera che era rimasta al margine del mio campo visivo. Non avrei certo potuto ignorarla per tutta la sera. Strappai la busta e tirai fuori un biglietto nero con, al centro, un cuoricino in rilievo su cui era scritta la parola «Scusa». Il biglietto aveva un profumo agrodolce; me lo portai al naso e inspirai a fondo, cercando di capire di che strana essenza inebriante si trattasse. Un profumo di frutta bruciata e spezie mi arrivò fino in fondo alla gola, irritandola. Aprii il biglietto. Sono stato uno stronzo ieri sera. Mi perdoni? Senza neanche pensarci, lo spinsi lontano. Patch. Non sapevo che farmene delle sue scuse, ma non mi piaceva l'agitazione che mi aveva trasmesso. Sì, era stato uno stronzo. E se pensava che un biglietto da quattro soldi potesse mettere a posto le cose, allora non si rendeva conto di quello che aveva fatto. Aveva baciato Marcie. L'aveva baciata! Non solo, aveva invaso i miei sogni. Non avevo idea di come ci fosse riuscito, ma quella mattina, al mio risveglio, sapevo che era successo. Era un po' più che inquietante. Se poteva invadere l'intimità dei miei sogni, chissà che altro poteva fare. - Dieci minuti alla chiusura — sussurrò dalla porta una bibliotecaria. Mandai in stampa la mia relazione di tre paragrafi sugli aminoacidi, raccolsi i libri e li infilai nello zaino. Presi il biglietto di Patch, esitai un momento, poi lo feci a pezzi e lo buttai nel cestino. Se voleva chiedermi scusa, avrebbe dovuto farlo di persona, non tramite Vee e neanche dentro i miei sogni. Mentre andavo a prendere i fogli nella stampante, persi l'equilibrio e dovetti appoggiarmi al tavolo più vicino per non cadere. Avevo il lato destro del corpo più pesante del sinistro, e barcollai. Feci un altro passo, e la gamba destra si piegò, come fosse stata di carta. Mi chinai, aggrappandomi al tavolo con tutt'e due le mani, e abbassai la testa per far affluire di nuovo il sangue al cervello. Fui invasa da una sensazione di calore, di sonnolenza. Raddrizzai le gambe fino a raggiungere una posizione eretta, sebbene malferma, ma le pareti avevano qualcosa di strano. Si erano allungate e ristrette in modo anomalo, come se le stessi guardando in uno di quegli specchi delle case degli orrori. Sbattei le palpebre diverse volte, nel tentativo di mettere a fuoco. Le ossa diventarono pesanti come piombo rifiutandosi di muoversi, le palpebre mi si chiusero. Presa dal panico, ordinai loro di aprirsi, ma il corpo ebbe il sopravvento. Sentii delle dita calde richiudersi sulla mia mente, minacciando di trascinarla nel sonno. «Il profumo» pensai confusamente. «Nel biglietto di Patch.» Mi ritrovai carponi. Tutto intorno guizzavano strani rettangoli, che mi giravano vorticosamente davanti. Porte. La stanza era piena di porte aperte. Ma più velocemente strisciavo verso di loro, più quelle arretravano. Da lontano mi arrivò un cupo ticchettio. Mi allontanai da quel suono: ero ancora abbastanza lucida da ricordare che l'orologio si trovava in fondo, sulla parete opposta a quella della porta d'uscita. Qualche istante dopo, mi resi conto che braccia e gambe non si muovevano più, che la sensazione di procedere strisciando era solo nella mia mente. La moquette ruvida accolse la mia guancia. Cercai disperatamente di rialzarmi, poi chiusi gli occhi e la luce si riavvolse come una spirale e sparì. Mi svegliai che era buio. Sentivo dell'aria fredda pizzicarmi la pelle e il quieto ronzio delle macchine tutto intorno. Cercai di rialzarmi puntellandomi sulle mani, ma vedevo solo dei puntini viola e neri danzarmi davanti agli occhi. Deglutii per disfarmi di quella spessa patina di cotone che sentivo in bocca e mi girai sulla schiena. Fu allora che ricordai di essere ancora in biblioteca. Almeno, ero convinta di essere lì, perché non ricordavo di essermene andata. Ma che ci facevo per terra? Cercai di capire come ci ero finita. Il biglietto di Patch. Ne avevo inalato il profumo penetrante, amaro, e subito dopo ero crollata a terra. Ero stata drogata? Patch mi aveva drogata? Restai lì, supina. Sentivo il cuore martellarmi in petto e sbattei le palpebre così rapidamente che i battiti si sovrapposero l'uno all'altro. Provai a rialzarmi una seconda volta, ma era come se qualcuno mi tenesse uno stivale d'acciaio piantato sul petto. Con un altro sforzo, più deciso, mi misi a sedere. Aggrappandomi al tavolo mi tirai su, in piedi. Il cervello reagì alle vertigini, ma gli occhi individuarono il segnale verde, sfocato, dell'uscita sopra la porta della sala. Barcollando, la raggiunsi. Girai la maniglia. La porta si aprì un poco, poi si bloccò. Stavo per tirare più forte, quando qualcosa dall'altra parte della vetrata catturò la mia attenzione. «Assurdo» pensai accigliata. Qualcuno aveva legato una corda alla maniglia esterna della porta e annodato l'altro capo alla maniglia della porta accanto. Mi misi a battere sul vetro. - Ehi! - gridai, ancora intontita. - Qualcuno mi sente? Riprovai ad aprire la porta, tirando con tutte le mie forze, che non erano poi tante visto che i muscoli sembrarono sciogliersi come burro al sole non appena cercai di sforzarli. La corda era legata talmente tesa che non riuscivo a scostare la porta per più di dieci di centimetri: troppo pochi per passare. - C'è qualcuno? - gridai attraverso lo spiraglio. - Sono chiusa dentro! Al terzo piano! La biblioteca rispose con il silenzio. Gli occhi si erano completamente abituati all'oscurità ormai, tanto che riuscii a scorgere l'orologio appeso al muro. Le undici? Possibile? Avevo davvero dormito più di due ore? Tirai fuori il cellulare, ma non prendeva. Cercai di collegarmi a Internet, ma venni informata che non c'erano reti disponibili. Mi guardai intorno freneticamente, passando in rassegna ogni oggetto, in cerca di qualcosa da usare per uscire di là. Computer, sedie girevoli, schedari... Non mi sembrava ci fosse niente di utile. Mi inginocchiai accanto alla bocchetta di ventilazione del pavimento e gridai: - Qualcuno mi sente? Sono chiusa nella sala multimediale al terzo piano! -. Aspettai, pregando di ricevere una risposta. La mia unica speranza era che ci fosse ancora qualche bibliotecario in giro, rimasto magari a sbrigare le ultime faccende prima di andarsene. Ma mancava un'ora a mezzanotte, e sapevo che era una possibilità remotissima. Dalla sala principale della biblioteca, sentii arrivare il rumore degli ingranaggi dell'ascensore che saliva dal piano terra, e voltai di scatto la testa in quella direzione. Una volta, quando avevo quattro o cinque anni, mio padre mi aveva portato al parco per insegnarmi ad andare in bicicletta senza le rotelle. A fine pomeriggio, ero riuscita a fare tutto il giro del parco senza bisogno d'aiuto. Mio padre mi aveva abbracciato e mi aveva detto che era ora di tornare a casa, da mia madre, così le avrei fatto vedere quanto ero brava. L'avevo pregato di lasciarmi fare ancora due giri, e alla fine ci eravamo accordati per uno. A metà giro, avevo perso l'equilibrio ed ero caduta. Mentre rimettevo in piedi la bicicletta, avevo visto un grosso cane marrone, non lontano da me, che mi fissava. In quel momento, mentre ci guardavamo, avevo udito una voce sussurrare: «Non muoverti». Avevo inspirato profondamente e trattenuto il fiato, anche se le gambe avrebbero voluto correre da papà il più velocemente possibile. Il cane aveva drizzato le orecchie e si era lanciato verso di me a grandi falcate, aggressivo. Tremavo di paura, ma ero rimasta immobile. Più si avvicinava più avrei voluto correre, ma sapevo che se mi fossi mossa nel cane sarebbe scattato l'istinto predatore. A metà strada, la bestia aveva perso interesse per la statua che ero diventata e aveva preso un'altra direzione. Avevo chiesto a mio padre se anche lui avesse sentito la voce che mi diceva di rimanere immobile, e lui mi aveva risposto che era stato l'istinto. Se lo avessi ascoltato, nove volte su dieci avrei fatto la mossa giusta. L'istinto mi stava parlando. «Esci da lì.» Afferrai un monitor dal tavolo più vicino e lo scagliai contro la vetrata, che andò in frantumi. Agguantai una graffatrice dal tavolo di servizio, che stava proprio accanto alla porta, e la usai per far saltare via i pezzi di vetro rimasti, quindi presi una sedia, ci salii sopra, puntai il piede sul telaio della vetrata e saltai nel corridoio. L'ascensore sibilò e vibrò più forte mentre superava il secondo piano. Percorsi il corridoio di volata, muovendo le braccia energicamente, perché sapevo di dover raggiungere le scale prima che l'ascensore arrivasse abbastanza in alto da permettere a chi era dentro di vedermi. Infilai la porta che dava sulle scale, sprecando diversi secondi preziosi a richiuderla silenziosamente. Nel frattempo, al di là della porta, l'ascensore arrivò al piano, si aprì e ne uscì qualcuno. Tenendomi alla ringhiera per andare più veloce, cercai di mantenere il passo più leggero possibile. Ero a metà della seconda rampa, quando sentii la porta delle scale aprirsi sopra di me. Mi bloccai, per evitare di rivelare la mia posizione. «Nora?» La mano mi scivolò dalla ringhiera, lira la voce di mio padre. «Nora? Sei lì?» Deglutii. Avrei voluto chiamarlo, poi mi ricordai della villetta. «Non nasconderti. Puoi fidarti di me. Lascia che ti aiuti. Esci, in modo che possa vederti.» Aveva un tono strano, imperioso. La prima volta che avevo sentito la voce di mio padre, alla villetta, era dolce e gentile. Quella voce mi aveva detto che non eravamo soli e che dovevo andar via. Quando parlò di nuovo, però era cambiata: energica e ingannevole. Forse mio padre aveva cercato di mettersi in contatto con me e poi era stato allontanato, mentre la seconda, strana voce era di qualcuno che fingeva di essere lui. Forse di qualcuno che stava spacciandosi per mio padre per attirarmi in una trappola. Il rumore di passi pesanti che scendevano di corsa le scale mi fecero riscuotere dalle mie congetture. Mi stava inseguendo. Mi precipitai giù facendo un gran baccano, senza più preoccuparmi di non far rumore. «Più veloce!» gridai a me stessa. «Più veloce!» Il mio inseguitore stava guadagnando terreno, era a poco più di una rampa di distanza. Non appena misi piede al pianterreno infilai la porta delle scale, attraversai l'atrio e mi precipitai fuori, nella notte. L'aria era calda e tutto era tranquillo. Stavo per correre giù dalla gradinata di cemento che portava in strada, ma all'ultimo momento ci ripensai. Scavalcai la ringhiera a sinistra dell'uscita e saltai su un praticello che si trovava circa tre metri più in basso. Sopra di me, si aprirono le porte della biblioteca. Mi appiattii contro il muro, i piedi in mezzo alla sterpaglia. Appena sentii le scarpe risuonare lentamente sui gradini, scesi di corsa sotto l'edificio. La biblioteca non aveva un parcheggio, ma condivideva un garage sotterraneo con il palazzo di giustizia. Mi precipitai giù per la rampa d'accesso al garage, passai sotto la sbarra e mi guardai intorno in cerca della Neon. Dove aveva detto di averla parcheggiata Vee? «Fila B...» Mi spostai di una corsia e vidi spuntare la coda della Neon. Ficcai la chiave nella portiera, mi sedetti al volante e misi in moto. Avevo appena imboccato la rampa d'uscita che all'improvviso, da un angolo, sbucò un Suv scuro. Veniva dritto verso di me, a tutto gas. Io ingranai la seconda e schiacciai l'acceleratore, uscendo un attimo prima che il Suv mi tagliasse la strada con l'intenzione di bloccarmi nel garage. Ero troppo sfinita per pensare chiaramente a dove stessi andando. Guidai a tavoletta per altri due isolati, superai uno stop senza fermarmi, quindi girai sulla Walnut. Il Suv accelerò dietro di me, ce l'avevo alle calcagna. Il limite di velocità salì a settanta e la strada diventò a due corsie. Raggiunsi gli ottanta chilometri all'ora, continuando a spostare lo sguardo dalla strada allo specchietto retrovisore. Senza mettere la freccia, sterzai bruscamente e mi infilai in una strada laterale. Il Suv mi seguì, facendo il pelo al marciapiede. Svoltai altre due volte a destra facendo il giro dell'isolato e tornai sulla Walnut. Mi inserii subito prima di una coupé bianca, che restò tra me e il Suv. Il semaforo diventò giallo e io accelerai in prossimità dell'incrocio proprio mentre scattava il rosso. Con gli occhi incollati allo specchietto, vidi fermarsi l'auto bianca e dietro di lei, con grande stridio di freni, il Suv. Feci una serie di respiri; sentivo il sangue pulsarmi nelle braccia e le mani erano serrate intorno al volante. Percorsi la Walnut in salita, ma una volta raggiunto il versante posteriore della collina feci inversione a U e svoltai a sinistra. Superai le rotaie sobbalzando e mi inoltrai in un quartiere buio, degradato, con case di mattoni a un piano. Sapevo esattamente dov'ero: al Mattatoio. Il quartiere si era guadagnato quel soprannome una decina di anni prima, quando tre ragazzi si erano sparati l'un l'altro in un parco giochi. Una casa un po' riparata rispetto alla strada attirò la mia attenzione, e rallentai. Niente luci. Sul retro, un garage aperto, vuoto, isolato. Percorsi in retromarcia il vialetto d'ingresso e mi infilai nel garage. Dopo aver controllato e ricontrollato che le portiere fossero chiuse, spensi i fari. Aspettai, temendo di vedere spuntare da un momento all'altro il Suv in fondo alla strada. Rovistai nella borsa e tirai fuori il cellulare. - Ehi - rispose Vee. - Chi altri ha toccato il biglietto di Patch? - domandai con voce tremante. - Eh? - E' stato Patch a darti il biglietto? O Rixon? Chi altri l'ha toccato? - Ma perché me lo chiedi ? - Credo di essere stata drogata. Silenzio. - Credi che il biglietto fosse drogato? - ripetè Vee dubbiosa. - La carta era impregnata di profumo - spiegai con impazienza. - Dimmi chi te l'ha dato. Dimmi esattamente come l'hai avuto. - Mentre venivo in biblioteca a portarti i dolcetti, Rixon mi ha chiamata per sapere dove fossi - raccontò. - Ci siamo visti in biblioteca, e con lui, nel furgone, c'era Patch, che mi ha dato il biglietto chiedendomi di consegnartelo. Ti ho portato il biglietto, i dolci e le chiavi della Neon e poi sono tornata da Rixon. - Nessun altro ha toccato il biglietto? - No, nessuno. - Meno di mezz'ora dopo aver annusato il biglietto, sono crollata sul pavimento della biblioteca e mi sono svegliata due ore dopo. Vee non rispose subito. Praticamente potevo sentirla riflettere, nel tentativo di assimilare le informazioni. Alla fine disse: - Sei sicura che non sia stata la stanchezza? Sei rimasta un sacco di tempo in biblioteca, io non potrei mai fare i compiti così a lungo senza aver bisogno, dopo, di schiacciare un pisolino. - Quando mi sono svegliata - spiegai - c'era qualcun altro in biblioteca. Credo fosse la stessa persona che mi ha drogata. Mi ha inseguita per tutta la biblioteca, e anche dopo, quando sono uscita, per tutta la Walnut. Altra pausa di riflessione. - Nonostante Patch non mi piaccia per niente, devo ammettere che non ce lo vedo a drogarti. Va bene che è uno svalvolato, ma ci sono dei limiti. - E allora chi? - chiesi con voce un po' stridula. - Non lo so. Dove sei adesso? - Al Mattatoio. - Cosa? Vai via da lì subito, prima che ti rapinino. Vieni da me, dormi qui, così cerchiamo anche di capire cos'è successo Le parole di Vee, però, erano una magra consolazione, perché sembrava perplessa esattamente quanto me. Restai nascosta nel garage per un'altra ventina di minuti prima di trovare il coraggio di affrontare di nuovo la strada. Avevo i nervi a pezzi, la mente annebbiata. Decisi di non prendere la Walnut, pensando che magari il Suv la stesse ancora percorrendo avanti e indietro per ripescarmi. Restai sulle strade secondarie e, ignorando i limiti di velocità, guidai con il diavolo in corpo verso casa di Vee. Ero quasi arrivata quando vidi nello specchietto retrovisore delle luci blu e rosse. Accostai e appoggiai la testa sul volante. Sapevo di aver superato il limite di velocità, ed ero arrabbiata con me stessa per averlo fatto, ma proprio quella sera dovevano fermarmi? Un attimo dopo, sentii bussare al finestrino e azionai il pulsante per abbassarlo. - Bene, bene - disse il detective Basso. - E' un po' che non ci si vede. «Qualsiasi altro poliziotto» pensai. «Ma non questo.» Mi mostrò il blocchetto delle multe. - Patente e libretto, conosci la prassi. Sapevo che non c'era modo di evitarmi la multa, non con il detective Basso, quindi non vidi motivo di fìngermi pentita. - Non sapevo che il lavoro dei detective consistesse anche nel dare le multe. Lui mi rivolse un sorrisetto affilato. - Dov'è l'incendio? - Può multarmi così me ne vado a casa? - C'è alcol nell'auto? - Dia pure un'occhiata - dissi. Mi aprì la portiera. - Scendi. - Perché? - Scendi -. Indicò la linea di mezzeria e disse: - Camminaci sopra. - Crede che sia ubriaca? - Io credo che tu sia pazza, ma visto che sei qui devo almeno verificare che sia sobria. Scesi di scatto dall'auto e sbattei la portiera. - Fino a dove? - Fino a quando ti dico di smettere. Mi concentrai a mettere i piedi esattamente sulla linea, ma ogni volta che abbassavo lo sguardo le immagini si deformavano. La coordinazione risentiva ancora degli effetti della droga, e più mi concentravo per tenere i piedi sulla linea più ondeggiavo. - Non può semplicemente farmi la multa, darmi una tirata d'orecchie e spedirmi a casa?-. Avevo un tono spavaldo, ma dentro mi sentivo morire. Se non fossi riuscita a camminare sulla linea, il detective avrebbe potuto sbattermi in galera. Ero già abbastanza scossa, non credevo di riuscire a sopportare anche una notte dietro le sbarre. E se l'uomo della biblioteca mi avesse seguito di nuovo? - Un sacco di altri poliziotti di paese ti avrebbero già mandata a casa senza problemi. Alcuni si sarebbero anche fatti corrompere. Non io. - Il fatto che mi abbiano drogata conta? - Drogata - ridacchiò. - Il mio ex fidanzato mi ha mandato un biglietto impregnato di profumo. L'ho aperto e subito dopo ho perso i sensi. Visto che non mi interrompeva, continuai. - Ho dormito per più di due ore. Quando mi sono svegliata, la biblioteca aveva chiuso. Ero intrappolata nella sala multimediale, qualcuno aveva legato la maniglia... La voce mi morì in gola e chiusi la bocca di colpo. Lui mi fece segno di andare avanti. - Continua, non lasciarmi con il fiato sospeso. Avevo capito troppo tardi di essermi autodenunciata. Avevo ammesso di trovarmi in biblioteca quella sera, nella sala multimediale. L'indomani mattina, quando la biblioteca, alla riapertura, avrebbe denunciato la rottura della vetrata alla polizia, da chi sarebbe andato subito il detective Basso? - Eri nella sala multimediale - mi incoraggiò. - Poi cos'è successo? Ormai era troppo tardi per fare marcia indietro: dovevo finire e sperare per il meglio. Forse le mie parole avrebbero convinto il detective che non era colpa mia, che quello che avevo fatto aveva una giustificazione. - Qualcuno ha legato una corda alla porta perché non riuscissi ad aprirla. Per uscire ho dovuto sfondare il vetro. Lui gettò indietro la testa e scoppiò in una risata. - C'è un nome per quelle come te, Nora Grey. Visionari. Sei come la mosca che nessuno riesce a scacciare -. Tornò verso l'auto, tirò fuori la radio dalla portiera rimasta aperta e trasmise un messaggio: - Ho bisogno che qualcuno vada subito in biblioteca a ispezionare la sala multimediale. Poi fatemi sapere che cosa avete trovato. Si appoggiò all'auto e diede un'occhiata all'orologio. - Quanti minuti credi ci vogliano per avere una risposta? Ho la tua confessione, Nora. Potrei arrestarti per violazione di proprietà e atti di vandalismo. - Violazione di proprietà vorrebbe dire che non sono stata chiusa dentro la biblioteca contro la mia volontà -. Ero nervosa, e si sentiva. - Se eri drogata e rinchiusa nella sala multimediale, come mai ti ho trovata a sfrecciare sulla Hickory a novanta chilometri l'ora? - Sono riuscita a fuggire dalla stanza mentre lui arrivava con l'ascensore a prendermi. - Lui? L'hai visto? Descrivimelo. - Non l'ho visto, ma era un uomo. Quando mi ha inseguito giù per le scale ho sentito i suoi passi, ed erano pesanti, troppo pesanti per essere di una donna. - Stai balbettando. Vuol dire che stai mentendo. - Non sto mentendo. Ero chiusa nella sala multimediale e qualcuno stava venendo su con l'ascensore, a prendermi. - Certo. - Chi altri avrebbe potuto esserci nell'edificio a quell'ora? - dissi bruscamente. - Un custode? - Non era vestito come un custode. Quando mi sono voltata, sulle scale, ho visto un paio di pantaloni scuri e scarpe da tennis scure. - Quindi in tribunale hai intenzione di dire al giudice che sei un'esperta di abbigliamento per custodi? - Il tizio mi ha rincorso fuori dalla biblioteca, ha preso l'auto e mi ha inseguito. Un custode non l'avrebbe fatto. La radio gracchiò e il detective Basso si infilò in auto a prendere il ricevitore. - Ho finito il giro in biblioteca - disse una voce maschile. - Niente. Il detective Basso mi rivolse uno sguardo distante, sospettoso. - Niente? Sicuro? - Ripeto: niente. «Niente?» Non provai sollievo, ma panico. Avevo fracassato la vetrata della sala multimediale. L'avevo fatto davvero. Non me l'ero immaginato. «Calma!» ordinai a me stessa. Era già successo, non era la prima volta. In passato, si era sempre trattato di un inganno della mente. Era qualcuno che, di nascosto, cercava di manipolare i miei pensieri. Stava accadendo di nuovo? Ma... perché? Dovevo rifletterci. Scossi la testa, come se quel gesto potesse far saltare fuori una risposta. Che cosa ridicola! Il detective Basso strappò il primo foglio del blocchetto delle multe e me lo schiaffò in mano. Gli occhi volarono al totale, in fondo alla pagina. - Duecen- toventinove dollari?! - Hai superato il limite di quaranta chilometri e per giunta con un'auto non tua. Paga la multa, o ci vedremo in tribunale. - Ma... io non ho tutti questi soldi. - Trovati un lavoro. Magari ti aiuterebbe anche a stare fuori dai guai. - Per favore, non mi faccia questo - dissi con il tono più supplichevole che riuscii a trovare. Il detective Basso mi studiò. - Due mesi fa un ragazzo senza documenti, senza famiglia e senza passato è stato trovato morto nella palestra del liceo. - La morte di Jules è stata dichiarata suicidio - replicai, ma sentii il sudore pizzicarmi la nuca. Che c'entrava con la multa? - La notte stessa della sua scomparsa, la psicologa del liceo ha dato fuoco a casa tua, dopodiché è sparita nel nulla. C'è un legame tra questi due singolari incidenti. Gli occhi castano scuro mi trafissero. - Tu. - Che cosa vuol dire? - Dimmi che cosa è successo veramente quella notte e ti tolgo la multa. - Io non lo so - mentii, visto che non avevo alternative. Dire la verità sarebbe stato peggio che dover pagare la multa. Non potevo parlare al detective Basso di angeli caduti e Nephilim. Non mi avrebbe mai creduto se gli avessi raccontato che Dabria era un angelo della morte. O che Jules era il discendente di un angelo caduto. - Il mio numero - disse il detective Basso allungandomi il suo biglietto da visita prima di risalire in auto. - Se cambi idea, sai come metterti in contatto con me. Non appena ripartì rombando, diedi un'occhiata al biglietto: Detective Ecanus Basso 207-555-3333. La multa che avevo in mano era pesante come un macigno, e bruciava. Come avrei fatto a trovare duecento dollari? Non potevo chiederli a mia madre, che riusciva a malapena a fare la spesa. Patch li aveva, ma gli avevo detto che sarei riuscita a cavarmela da sola. Gli avevo detto di uscire dalla mia vita. Che idea avrei dato di me se fossi corsa da lui alla prima difficoltà? Sarebbe stato come ammettere che aveva sempre avuto ragione. Sarebbe stato come ammettere che avevo bisogno di lui. 11 Il martedì, dopo le lezioni, stavo per uscire dall'edificio per incontrare Vee, che aveva saltato la scuola per uscire con Rixon ma aveva promesso di passare a prendermi a mezzogiorno per scarrozzarmi a casa, quando trillò il cellulare. Vidi l'sms proprio nell'istante in cui Vee gridava il mio nome dall'altra parte della strada. - Ehi, tesoro! Sono qui! La raggiunsi dove aveva parcheggiato, di fianco al marciapiede, e mi appoggiai al finestrino aperto. - Allora? Ne è valsa la pena? - Saltare le lezioni? Certo che sì! Rixon e io abbiamo passato la mattinata a casa sua, a giocare con la Xbox. Halo 2 -. Si allungò e sbloccò lo sportello del passeggero. - Molto romantico - dissi salendo. - Non parlarne male se non l'hai provata. Ai ragazzi la violenza scatena la fantasia. - La fantasia? C'è qualcosa che dovrei sapere? Vee mi sparò un sorriso da cento watt. - Ci siamo baciati. Ed è stato bellissimo. All'inizio lento e delicato, poi Rixon ci ha preso gusto e... - Okay! - tagliai corto. Ero anch'io così sdolcinata quando stavo con Patch e Vee era single? Sperai proprio di no. Dove andiamo? Vee filava nel traffico. - Sono stanca di studiare. La mia vita ha bisogno di un'iniezione di emozioni, e di certo non le troverò restando con il naso sui libri. - Che cosa avevi in mente? - Old Orchard Beach. Ho voglia di sole e di mare. Alla mia abbronzatura serve una seconda mano. Old Orchard Beach era un'idea fantastica. C'era un lungo molo che si stendeva fino al mare, un parco divertimenti e, di sera, facevano i fuochi d'artificio e si ballava sulla spiaggia. Peccato che avrebbe dovuto aspettare. Agitai il mio cellulare. - Abbiamo già dei programmi per stasera. Vee si piegò per leggere l'sms e fece una smorfia. - Promemoria per la festa di Marcie? Ma sul serio? Non sapevo che fosse la tua nuova migliore amica. - Pare che perdere la sua festa sia il modo migliore per sabotare la mia vita sociale. - Che gran mignotta! Perdere la sua festa è il modo migliore per rendere la mia vita perfetta! - Forse dovresti rivedere la tua opinione, perché io ci vado, e tu verrai con me. Vee appoggiò la schiena al sedile, le braccia rigide sul volante. - Comunque, perché l'ha fatto? Come mai ti ha invitata? - Perché siamo compagne di banco a chimica. - Mi sembra che tu le stia perdonando quell'occhio nero troppo presto. - Ma dovrò farmi vedere alla festa, anche solo per un'oretta! In fondo sono la sua compagna di banco. - Mi stai dicendo che il motivo per cui stasera mi trascinerai alla festa di Marcie è che siedi accanto a lei tutte le mattine? -. Vee mi guardò con l'aria di chi non se la beveva minimamente. Sapevo che era una scusa stupida, ma mai stupida quanto la verità. Dovevo verificare se Patch si fosse messo con Marcie. Quando gli avevo toccato la schiena, due notti prima, entrando nella sua memoria, mi era sembrato che lui volesse tenere le distanze; fino al momento del bacio, era stato persino brusco. Non avevo ancora capito quali fossero i suoi veri sentimenti. Se invece ora stava con lei, per me sarebbe stato tutto molto più facile. Sapere che avevano una relazione mi avrebbe portato a odiarlo. Ed era proprio quello che volevo: odiarlo. Per il suo bene e per il mio. - Guarda che si sente puzza di bugia da un chilometro di distanza - riprese Vee. - Il fatto che stai in banco con Marcie non c'entra niente. E' per Patch: vuoi scoprire che cosa c'è tra loro. - E va bene! È una cosa così sbagliata? - Accidenti, - disse scuotendo la testa - certo che sei proprio una masochista. - Pensavo che potremmo dare un'occhiata in camera sua, magari troviamo delle prove. - Tipo dei preservativi usati? All'improvviso mi tornò su la colazione. Non ci avevo pensato. Andavano a letto insieme? No. Non potevo crederci. Patch non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere, non con Marcie. - Idea! - disse Vee. - Potremmo rubarle il diario! - Quello che si porta dietro dal primo anno di liceo? - Quello che, giura lei, farebbe impallidire il National Enquirer - ribatté Vee con aria stranamente giuliva. - Qualunque cosa ci sia tra lei e Patch, la troveremo nel diario. - Mah... non lo so. - Dai! Lo leggiamo e lo rimettiamo a posto. Non se ne accorgerà nessuno. - E come? Glielo lanciamo sulla veranda e scappiamo? Quella ci ammazza se scopre che l'abbiamo preso. - Certo. Glielo possiamo lanciare sulla veranda, oppure possiamo prenderlo durante la festa, andare a leggerlo da qualche parte e rimetterlo a posto prima di andare via. - È che non mi sembra giusto. - Non racconteremo a nessuno quello che avremo letto. Sarà il nostro segreto. Nessuno soffrirà. Non ero per niente entusiasta dell'idea di rubare il diario di Marcie, ma Vee non avrebbe lasciato perdere. La cosa più importante era convincerla a venire con me alla festa. Non sapevo se avrei avuto il coraggio di andare da sola, soprattutto dal momento che non ci avrei trovato neanche un amico. Quindi dissi: - Allora vieni a prendermi tu, stasera? - Contaci. Ehi, possiamo incendiarle la camera prima di andare via? - No. Non deve sapere che siamo andate a ficcare il naso in camera sua. - Già, ma io non ho uno stile... come dire... raffinato. La guardai di traverso, sollevando le sopracciglia. - Ma stai scherzando? Erano passate da poco le nove quando Vee e io risalimmo la collina che portava al quartiere dove abitava Marcie. C'è un modo semplicissimo per disegnare la mappa socioeconomica di Coldwater: si prende una biglia e la si appoggia sulla strada. Se la biglia rotola verso il basso, appartieni alla classe alta. Se non rotola affatto, sei della classe media. Se invece perdi la biglia nella nebbia prima di scoprire se rotola o no, be'... allora vivi nel mio quartiere: in capo al mondo. Vee accelerò in salita. La zona in cui viveva Marcie era antica, con le strade fiancheggiate da alberi centenari che nascondevano la luna. Le case avevano giardini progettati da paesaggisti e vialetti semicircolari. L'architettura era georgiana coloniale: case bianche con rifiniture nere. Vee aveva il finestrino abbassato e, in lontananza, si sentiva il ritmo continuo della musica hip hop a tutto volume. - Mi ripeti l'indirizzo? - chiese Vee guardando attentamente dal parabrezza. - Queste case sono troppo lontane dalla strada per riuscire a vedere il numero civico. - 1220 Brenchley Street. All'incrocio, Vee svoltò sulla Brenchley. La musica era più forte, quindi immaginai che avessimo preso la direzione giusta. Le auto erano parcheggiate una attaccata all'altra, su entrambi i lati della strada. Superata un'antica rimessa per carrozze elegantemente riconvertita in abitazione, il volume della musica crebbe tanto da far tremare la macchina. Il giardino era pieno di gente che si riversava in casa. La casa di Marcie. Mi bastò un'occhiata per chiedermi perché mai rubasse nei negozi. Per il piacere di farlo? Per sottrarsi all'immagine di perfezione sapientemente costruita dai genitori? Non mi soffermai a lungo sulla cosa, perché mi si rimescolò subito lo stomaco. Parcheggiata sul vialetto, c'era la Jeep Commander nera di Patch. Evidentemente era stato tra i primi ad arrivare, anzi, probabilmente era già dentro con Marcie da prima che iniziasse la festa. A fare cosa, non volevo saperlo. Feci un bel respiro e dissi a me stessa che potevo farcela. E poi non erano proprio queste le prove che ero venuta a cercare? - Che cosa stai pensando? - chiese Vee, gli occhi incollati alla jeep mentre ci passavamo accanto. - Che vorrei vomitare. - Sarebbe carino se lo facessi nell'atrio di Marcie. Però, davvero, sei sicura che non sia un problema il fatto che ci sia Patch? Sollevai leggermente il mento per darmi un contegno. - Marcie mi ha invitata, ho lo stesso diritto di Patch di stare qui. Non lascerò che sia lui a impormi dove andare e cosa fare -. Curioso, perché era esattamente quello che stavo facendo. Il portone di casa era aperto e dava su una sala di marmo scuro piena di corpi che si dimenavano alla Jay-Z. L'atrio si apriva in un grande salone con il soffitto alto e un arredamento scuro in stile vittoriano. Tutti i mobili, compreso il tavolino, erano stati usati come sedili. Vee restò sulla soglia, esitante. - Ho bisogno di un momento per prepararmi mentalmente - gridò per sovrastare musica. - Insomma, questo posto sarà infestato da Marcie. Ritratti di Marcie, mobili di Marcie, odori di Marcie. A proposito di ritratti, dovremmo cercare di trovare qualche vecchia foto di famiglia. Vorrei vedere com'era suo padre dieci anni fa. Quando vedo in Tv gli spot della sua concessionaria, non riesco a decidere se è la chirurgia plastica a farlo sembrare così giovane o se sia solo opera di quintali di trucco. La afferrai per il gomito e la tirai verso di me. - Non azzardarti a mollarmi adesso. Vee sbirciò dentro, accigliata. - Va bene, ma ti avverto: se vedo un solo paio di mutande me ne vado all'istante. Lo stesso dicasi per i preservativi usati. Aprii la bocca, ma la richiusi all'istante. La possibilità di vedere entrambe le cose era piuttosto alta e accettare ufficialmente le sue condizioni sarebbe stato estremamente controproducente. Fu Marcie, che spuntò sinuosa dall'ombra con una coppa da punch in mano, a salvarmi da ulteriori discussioni. Ci rivolse uno sguardo critico e poi mi disse: - Io ho invitato te, non lei. - Anch'io sono felice di vederti - disse Vee. Marcie squadrò Vee dalla testa ai piedi. - Ma tu non facevi una stupida dieta dei colori? Mi sa che hai smesso prima ancora di cominciare Quindi spostò la sua attenzione su di me. - Complimenti per quell'occhio nero. - Tu hai sentito qualcosa, Nora? - chiese Vee. - Mi è sembrato di sentire qualcosa. - Sì, credo proprio che tu abbia ragione. - Che cos'era? Una scoreggia di cane, forse? Annuii. - Credo di sì. Gli occhi di Marcie si ridussero una fessura. - Ah. Ah. Ah. Ecco, l'ho sentito di nuovo esclamò Vee. - Oddio, sembra che questo cane soffra proprio di una brutta flatulenza: forse dovremmo dargli qualcosa contro il bruciore di stomaco, poveretto. Marcie spinse la coppa da punch verso di noi. - Donazione. Non si entra senza. - Che cosa? - dicemmo Vee e io all'unisono. - Do-na-zio-ne. Non pensavate mica che vi avessi invitate senza motivo, vero? Volete che ve lo dica chiaro e tondo? Ho bisogno dei vostri soldi. Vee e io guardammo la coppa, che era strapiena di banconote. - A che ti servono? - chiesi. - Per le nuove uniformi delle cheerleader. La squadra vuole quelle che lasciano scoperto l'ombelico, ma la scuola è troppo spilorcia per pagarne di nuove, quindi sto facendo una raccolta fondi. - Interessante - disse Vee. - Il termine ragazza pompon avrà tutto un altro significato, d'ora in poi. - Adesso basta! - esclamò Marcie, rossa in viso. - Volete en- trare? Servono venti dollari. Un altro commento, e l'ingresso sale a quaranta. Vee mi diede una gomitata. - Non mi sono imbarcata io in questa cosa. Paga tu. - Dieci a testa? - proposi. - Non se ne parla nemmeno. E' stata un'idea tua, quindi paghi tu. Mi voltai verso Marcie e le rivolsi un bel sorriso. - Venti dollari sono tanti. - Già, ma pensa che meraviglia sarò con quell'uniforme addosso - disse. - Devo fare cinquecento flessioni ogni sera per ridurre il girovita da sessantatré a sessanta centimetri prima dell'inizio dell'anno scolastico. Non posso permettermi di avere neanche un centimetro di grasso se voglio mostrare l'ombelico. Non ebbi il coraggio di sottoporre la mia mente al supplizio dell'immagine di Marcie in quella tenuta, e dissi invece: Che ne dici di quindici? Marcie aveva tutta l'aria di stare per sbatterci la porta in faccia. - Okay, calmati, paghiamo - disse Vee infilandosi la mano nella tasca posteriore dei pantaloni. Tirò fuori un rotolo di soldi e lo schiaffò nella coppa da punch, ma siccome era buio non riuscii a vedere quanti fossero. - Sei in debito con me - mi disse. — - Avresti dovuto farmi contare i soldi, prima - disse Marcie scavando nella coppa per cercare di recuperare la donazione di Vee. — - E' solo che non credevo sapessi contare fino a venti - cinguettò Vee. - Ti faccio le mie scuse. Marcie socchiuse di nuovo gli occhi, poi girò i tacchi e riportò dentro la coppa. — Quanto le hai dato? - chiesi a Vee. — Niente. Ci ho messo un preservativo. La guardai stupita. - E da quando vai in giro con i preservativi in tasca? — L'ho trovato sul prato mentre venivamo e l'ho raccolto. Chissà, magari Marcie ne farà buon uso e io avrò contribuito a tenere i suoi geni fuori dal pool genetico. Entrammo e ci mettemmo in un angolo. Su una chaise longue di velluto nel salone c'erano diverse coppie aggrovigliate come un mucchio di graffette. Il centro della stanza era pieno di gente che ballava. Oltre una porta ad arco, un disimpegno conduceva alla cucina, dove un po' di persone bevevano e ridevano. Nessuno faceva caso a me o a Vee, e cercai di tirarmi su il morale pensando che arrivare in camera di Marcie senza che nessuno se ne accorgesse non sarebbe stato diffìcile come pensavo. Il guaio era che iniziavo a pensare di non essere andata lì per ficcare il naso in camera di Marcie in cerca delle prove che dimostrassero che stava con Patch: ero quasi certa di esserci andata perché sapevo che Patch sarebbe stato lì. E io volevo vederlo. Sembrava che stessi per averne l'occasione. Patch - polo nera e jeans neri - comparve davanti alla porta della cucina. Non ero abituata a studiarlo da lontano; gli occhi erano del colore della notte e i capelli, che scendevano morbidi fin sotto le orecchie, sembravano non vedere un paio di di forbici da almeno un mese e mezzo. Aveva un corpo che attirava immediatamente il sesso opposto, ma il suo atteggiamento diceva "Non sono disponibile per nessuna conversazione". Gli mancava il cappellino, il che probabilmente significava che era ancora in mano di Marcie. «Chi se ne importa» dissi a me stessa: non erano più affari miei. Patch poteva dare il suo cappellino a chi voleva e il fatto che a me non l'avesse mai prestato non mi scalfiva minimamente. Stava parlando con Jenn Martin, una ragazza che aveva frequentato il corso di matematica con me al primo anno, ma lui sembrava distratto. I suoi occhi correvano per la stanza, attenti, quasi non esistesse neanche un'anima degna della sua fiducia, in quella stanza. Aveva un'aria rilassata ma attenta, come se si aspettasse che da un momento all'altro potesse succedere qualcosa. Prima che i suoi occhi si posassero su di me, distolsi lo sguardo. Non volevo che mi sorprendesse a fissarlo con rimpianto e desiderio. Dall'altro lato della stanza Anthony Amowitz sorrise e mi salutò con un cenno della mano. D'istinto, ricambiai il sorriso. Avevamo fatto educazione fisica insieme l'anno prima e, nonostante avessi scambiato con lui non più di dieci parole, mi faceva piacere che qualcuno fosse entusiasta di vedere me e Vee a quella festa. - Perché Anthony Amowitz ti sta facendo quel sorrisetto da ruffiano? - chiese Vee. Alzai gli occhi al cielo. - Dici che è ruffiano solo perché è qui, a casa di Marcie. - Sì, e allora? - Sta solo cercando di essere carino - replicai rifilandole una gomitata. - Sorridigli anche tu. - Carino? E' solo arrapato! Anthony alzò il bicchiere di plastica rosso come per brindare a me e gridò qualcosa, ma era impossibile riuscire a capirsi con la musica così alta. - Cosa? - gli gridai di rimando. - Stai benissimo! - ripetè, un sorriso ebete dipinto in faccia. - Accidenti - brontolò Vee. - Non solo ruffiano, pure sbronzo. - Vabbe', è un po' sbronzo, e allora? - Sbronzo e desideroso di spingerti in una delle stanze da letto di sopra. «Puah!» Cinque minuti dopo stavamo ancora tenendo la nostra posizione, un passo oltre la porta d'ingresso. Mi era arrivata mezza lattina di birra sulle scarpe, ma per fortuna niente vomito. Stavo per suggerire a Vee di allontanarci dalla porta aperta - verso cui sembravano correre tutti un secondo prima di liberarsi del contenuto dello stomaco - quando Brenna Dubois si avvicinò e mi porse un bicchiere di plastica rosso. - Questo è per te, con gli omaggi del ragazzo di fronte. - Te l'avevo detto - mi sussurrò Vee. Gettai un'occhiata furtiva a Anthony, che mi fece l'occhiolino. - Grazie, no - dissi a Brenna. Non avevo molta esperienza in materia di feste, ma sapevo di non dover accettare bevande di dubbia provenienza. Per quanto ne sapevo, poteva esserci dell'ecstasy liquida dentro. - Di' a Anthony che bevo solo da lattine chiuse -. Wow, sembravo persino più tonta di quanto mi sentissi. - Anthony? - ribatté lei, confusa. - Sì, Anthony Ruffianowitz - intervenne Vee. - Il tizio che ti sta facendo giocare alla cameriera. - Pensavi che me l'avesse dato Anthony, il bicchiere? -. Brenna scosse la testa. - Prova a guardare dall'altro lato della stanza -. Si voltò verso dove fino a qualche minuto prima c'era Patch. - Era lì, credo sia andato via. Fico, maglietta nera... ti dice niente? - Accidenti - ripeté Vee, stavolta però sottovoce. - Grazie - dissi a Brenna. Non avevo altra scelta se non quella di accettare. Quando lei sparì tra la folla, appoggiai il bicchiere, che a giudicare dall'odore conteneva una Coca-Cola alla ciliegia o qualcosa di simile, sul tavolino dell'ingresso. Patch stava cercando di mandarmi un messaggio? Voleva ricordarmi la brutta figura che avevo fatto alla Sacca del Diavolo quando Marcie mi aveva tirato addosso proprio quella bibita? Vee mi mise in mano qualcosa. - Che cos'è? - chiesi. - Un walkie-talkie, l'ho rubato a mio fratello. Io mi siedo sulle scale e faccio la guardia. Se viene qualcuno ti avviso. - Vuoi che mi infili in camera di Marcie adesso? - Voglio che le rubi il diario. - Ecco, a proposito... forse ci ho ripensato. - Stai scherzando? - esclamò Vee. - Non puoi tirarti indietro adesso. Pensa a quello che può esserci nel diario. E' la tua grande occasione per scoprire che cosa sta succedendo tra Marcie e Patch: non puoi lasciartela sfuggire. - Ma è sbagliato. - Non ti sembrerà sbagliato se lo rubi così velocemente da fregare il senso di colpa: non farà neanche in tempo a insinuarsi dentro di te. Le lanciai uno sguardo penetrante. - Anche l'autoconvincimento può essere utile - aggiunse. - Continua a dire a te stessa che non è sbagliato e finirai per crederci. - Non prenderò il diario. Voglio solo... dare un'occhiatina. E rubare il cappellino di Patch. - Ti pago l'intero budget annuale dell'e-zine se mi porti il diario entro trenta minuti -. Ormai sembrava disperata. - È per questo che vuoi il diario? Per pubblicarlo sull'e-zine? - Pensaci. Potrei fare carriera. - No - dissi. - Cattiva Vee, vergognati. Sospirò. - Be', valeva la pena provarci. Guardai il walkie-talkie che avevo in mano. - Perché non puoi mandarmi un sms? - Le spie non mandano sms. - Come lo sai? - Come sai tu che lo fanno? Non ritenendo valesse la pena litigare per quello, mi infilai il walkie-talkie nella cintura nei jeans. - Sei sicura che la camera da letto di Marcie sia al primo piano? - Uno dei suoi ex è seduto dietro di me a spagnolo. Mi ha detto che tutte le sere alle dieci in punto Marcie si spoglia con le luci accese. A volte, quando lui e i suoi amici non sanno cosa fare, vanno a godersi lo spettacolo. Ha detto che Marcie se la prende molto comoda, tanto che lui alla fine, a furia di guardare in su, ha sempre il torcicollo. Mi ha anche raccontato che una volta... Mi premetti le mani sulle orecchie. - Basta! - Ehi, se il mio cervello dev'essere infestato da questo tipo di dettagli, credo che debba esserlo anche il tuo. L'unica ragione per cui ho raccolto tutte queste informazioni vomitevoli è quella di aiutarti. Gettai un'occhiata alla scala. Mi sembrava che il mio stomaco pesasse il doppio rispetto a soli tre minuti prima. Non avevo ancora fatto niente, ed ero già sopraffatta dal senso di colpa. Quand'è che ero diventata così ignobile da pensare di intrufolarmi in camera di Marcie? Quand'è che avevo permesso a Patch di abbindolarmi in quel modo? - Credo che andrò di sopra - dissi in modo poco convincente. - Mi copri le spalle? - Affermativo. Salii le scale. C'era un bagno con il pavimento a mattonelle e le modanature sul soffitto. Presi il corridoio a sinistra e superai quella che sembrava una stanza per gli ospiti e una stanza adibita a palestra con un tapis roulant e un'ellittica. Tornai indietro e presi il corridoio di destra. La prima porta era socchiusa, così sbirciai dentro. Il colore dominante della stanza era il rosa: muri rosa, tende rosa, piumone rosa con cuscini rosa. Il guardaroba era esploso sul letto, sul pavimento e su tutti i mobili disponibili. Alle pareti erano appese diverse gigantografie di Marcie in posa seducente con la divisa da cheerleader dei Razorbills. Mi venne un attacco di nausea, poi vidi che sul comò c'era il cappellino di Patch. Chiusi la porta, lo arrotolai e me lo ficcai nella tasca posteriore dei jeans. Sotto il cappellino c'era la chiave di un'auto con sopra il marchio Jeep. Patch aveva dato a Marcie la chiave di scorta della jeep. Rubai anche quella e la misi nell'altra tasca. Già che c'ero, pensai di vedere se trovavo altri oggetti che appartenevano a Patch. Aprii e richiusi alcuni cassetti del comò; guardai sotto il letto, nella cassapanca e sul ripiano più alto del guardaroba. Alla fine feci scivolare la mano tra la rete e il materasso. Eccolo. Il piccolo diario blu di Marcie, che si diceva contenesse più schifezze di un giornale scandalistico. Averlo tra le mani mi fece venire una voglia matta di aprirlo. Che cosa aveva scritto di Patch? Quali segreti nascondevano quelle pagine? Il walkie-talkie gracchiò. - Oh cavoli - disse la voce di Vee. Lo tirai fuori dalla cintura e premetti il pulsante per parlare. - Che succede? - Cane. Un grosso cane. Ha appena fatto irruzione nel salone o comunque tu voglia chiamare questo gigantesco open space. Mi sta fissando. Sta fissando proprio me. - Che genere di cane è? - Non ne so molto sulle razze dei cani, ma credo sia un dobermann: muso lungo e ringhioso. Somiglia un po' a Marcie, se può aiutarti. Oh, oh. Ha appena drizzato le orecchie. Viene verso di me. Credo sia uno di quei cani sensitivi. Sa che non sono seduta qui a farmi i fatti miei. - Stai calma. - Sciò, cane! Ho detto sciò! Il walkie-talkie trasmise l'inconfondibile ringhio di un grosso cane. - Ehm, Nora? Abbiamo un problema - disse Vee un attimo dopo. - Il cane non va via? - Peggio. Sta venendo su. In quello stesso istante sentii abbaiare dietro la porta. Non la smetteva, anzi, oltre ad abbaiare furiosamente il cane prese a ringhiare. - Vee! - sibilai nel walkie-talkie. - Liberami dal cane! Lei disse qualcosa, ma non riuscii a sentirla con quel baccano. Mi tappai un orecchio con la mano. - Cosa? - Sta arrivando Marcie! Esci subito di lì! Cercai di rimettere il diario sotto il materasso, ma mi scappò di mano e una manciata di biglietti e fotografìe cadde per terra. In preda al panico, li raccolsi e li infilai in mezzo alle pagine. Quindi mi ficcai il diario - che era piuttosto piccolo considerando la quantità di segreti che si diceva contenesse - e il walkie-talkie nella cintura dei pantaloni e spensi la luce. A rimettere a posto il diario ci avrei pensato dopo, intanto dovevo andarmene. Immediatamente. Tirai su la finestra, aspettandomi di dover aprire la zanzariera, che invece non c'era. Probabilmente Marcie la lasciava aperta per risparmiarsi la seccatura di doverlo fare tutte le volte che usciva di nascosto, il che mi fece ben sperare: se lei aveva già utilizzato quel sistema, avrei potuto farlo anch'io. Insomma, era improbabile che cadessi e mi ammazzassi, anche se Marcie, essendo una cheerleader, era molto più elastica e coordinata. Mi affacciai e guardai giù. Il portone d'ingresso era proprio sotto, nascosto da un portico sostenuto da quattro pilastri. Misi fuori una gamba e appoggiai il piede. Quando fui sicura di non scivolare sul tetto spiovente del portico, misi fuori anche l'altra gamba. Cercando di non perdere l'equilibrio, richiusi la finestra. Non feci in tempo ad abbassarmi che la finestra si illuminò e il cane, abbaiando furiosamente, ci si avventò sopra con le zampe producendo un tremendo rumore di unghie sul vetro. Mi piegai in due e mi avvicinai il più possibile al muro, pregando che Marcie non aprisse la finestra per guardare giù. - Che c'è? - disse la voce di Marcie, attutita dal vetro. - Che ti prende, Boomer? Sentii il sudore scivolarmi giù per la schiena. Marcie stava per guardare giù, mi avrebbe vista. Chiusi gli occhi e cercai di dimenticare che quella casa era piena di gente con cui sarei dovuta andare a scuola per i successivi due anni. Come avrei spiegato il fatto di essere andata a curiosare in camera di Marcie? Come avrei spiegato il fatto di aver preso il suo diario? Era un pensiero troppo umiliante da sopportare. - Zitto, Boomer! - gridò Marcie. - Qualcuno mi tiene il cane mentre apro la finestra? E' talmente stupido che ho paura salti giù. Tu, in corridoio! Sì, tu. Afferra il cane per il collare e non lasciarlo andare. Fallo e basta! Sperando che l'abbaiare del cane coprisse il rumore, mi girai per sdraiarmi sulla schiena e deglutii il groppo di paura che avevo in gola. Avevo una certa paranoia per l'altezza, e il pensiero di tutta quell'aria tra me e il terreno mi faceva sudare freddo. Piantai i tacchi sul tetto per spingermi il più lontano possibile dal davanzale e, contorcendomi un po', tirai fuori il walkie-talkie dai pantaloni. - Vee? - sussurrai. - Dove sei? - disse cercando di sovrastare la musica di sottofondo. - Riesci a sbarazzarti del cane entro oggi? - Come? - Usa la fantasia. - Tipo avvelenarlo? Mi asciugai il sudore dalla fronte con il dorso della mano. - Pensavo più a chiuderlo in un ripostiglio. - Vuoi dire toccarlo? - Vee! - Okay, okay, mi farò venire in mente qualcosa. Trenta secondi dopo sentii arrivare la voce di Vee dalla finestra della camera di Marcie. - Ehi, Marcie? - gridò, più forte dell'abbaiare del cane. - Non per intromettermi, ma all'ingresso c'è la polizia, vuoi che li inviti a entrare? - Cosa? - gridò Marcie direttamente sopra la mia testa. - Non vedo nessuna macchina della polizia. - Probabilmente avranno dovuto parcheggiare a due isolati di distanza. Comunque, come dicevo prima, ho notato che alcuni ospiti hanno in mano delle sostanze illegali. - E allora? - sbottò lei. - È una festa. - L'alcol è illegale sotto i ventun anni. - Fantastico! - gridò Marcie. - E adesso che faccio? -. Tacque un momento, quindi ripartì a tutto volume. - Sarai stata tu a chiamarli! - Io? Per perdere tutto quel cibo gratis? Non credo proprio! Un attimo dopo, l'abbaiare frenetico di Boomer si perse tra le stanze della casa e le luci della camera si spensero. Restai ancora immobile, in ascolto. Quando fui sicura che la stanza di Marcie fosse vuota, mi girai a pancia sotto e strisciai fino alla finestra. Il cane non c'era più, Marcie non c'era più, e io dovevo solo... Premetti i palmi contro la finestra per farla salire, ma quella non si mosse. Provai a far leva più in basso con tutta la forza che potevo, ma niente. «Okay» pensai. «Niente drammi.» Marcie doveva aver bloccato la finestra. Dovevo solo restare lì alt re cinque ore, il tempo che finisse la festa, e poi avrei chiamalo Vee e le avrei detto di portarmi una scala. Sentii dei passi sul vialetto di sotto e allungai il collo per vedere se per caso fosse Vee, venuta in mio soccorso. Invece, con sommo orrore, quella che scorsi fu la schiena dì Patch, che andava verso la jeep. Digitò un numero sul cellulare e lo portò all'orecchio. Due secondi dopo, il telefono mi squillò in tasca. Prima che avessi il tempo di scagliare l'apparecchio in mezzo ai cespugli che delimitavano la proprietà, Patch si fermò. Si guardò alle spalle e gli occhi si spostarono verso l'alto, fermandosi su di me. Pensai che sarebbe stato meglio se Boomer mi avesse sbranata viva. - Che fai, la guardona? —. Non avevo bisogno di vederlo per sapere che stava sorridendo. - Smettila di ridere - dissi, le guance rosse per l'umiliazione. - Fammi scendere. - Salta. - Cosa? - Ti prendo. - Ma sei pazzo? Vai dentro e aprimi la finestra. Oppure prendi una scala. - Non ho bisogno della scala. Buttati, non ti lascerò cadere. - Sì, come no. Pensi che ci creda? - Vuoi che ti aiuti o no? - E tu lo chiami aiuto, questo? - sibilai furiosa. Lui si fece girare il portachiavi intorno al dito e si voltò per andarsene. - Sei proprio uno stronzo! Torna qui ! - Stronzo? - ripetè. - Sei tu quella che si mette a spiare dalle finestre. - Non stavo spiando. Stavo... stavo... -. «Fatti venire in mente qualcosa!» Patch spostò lo sguardo sulla finestra sopra di me e il suo sguardo si illuminò. Gettò la testa indietro e scoppiò in una risata forte e secca. - Stavi frugando in camera di Marcie. - Ma va - dissi alzando gli occhi al cielo, come se avessi appena sentito la peggiore delle assurdità. - Che cosa stavi cercando? - Niente -. Tirai fuori il cappellino di Patch dalla tasca di dietro dei pantaloni e glielo lanciai. - A proposito, rieccoti il tuo stupido cappellino! - Sei andata a riprendere il mio cappellino? - Una gran perdita di tempo, ovviamente. Se lo mise in testa. - Hai intenzione di saltare o no? Guardai inquieta oltre il bordo del portico: il salto per arrivare a terra sembrava di circa sei metri. Dribblando la domanda, chiesi a mia volta: - Perché mi avevi chiamata? - Non ti ho più vista, dentro. Volevo accertarmi che stessi bene. Sembrava sincero, ma lui era un bugiardo raffinato. - E la CocaCola alla ciliegia? - Un'offerta di pace. Hai intenzione di saltare o no? Non vedendo alternative, mi avvicinai cauta al bordo del portico. Avevo lo stomaco attorcigliato. - Se mi fai cadere... lo avvisai. Patch alzò le braccia. Chiusi gli occhi e mi lasciai scivolare giù dal cornicione. Sentii il corpo fendere l'aria e poi mi ritrovai tra le braccia di Patch, ancorata a lui. Per un attimo non mi mossi, il cuore martellante per l'adrenalina del salto e per la vicinanza a lui. Era caldo e familiare. Forte e sicuro. Volevo aggrapparmi alla sua maglietta, nascondere il viso nella curva del suo collo e non staccarmi mai più. Patch mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. - Vuoi tornare alla festa? - mormorò. Feci segno di no con la testa. - Ti riporto a casa Indicò la jeep con il mento, perché non aveva ancora sciolto l'abbraccio in cui mi avvolgeva. - Sono venuta qui con Vee - dissi. - Dovrei tornare con lei. - Vee però non si ferma al takeaway cinese mentre ti riaccompagna a casa. Takeaway cinese. Voleva dire che Patch sarebbe entrato in casa a mangiare. Mia madre non c'era, saremmo stati soli... Abbassai ulteriormente la guardia. Probabilmente eravamo al sicuro. Probabilmente gli arcangeli non erano nei paraggi. Patch non sembrava preoccupato, quindi non avrei dovuto esserlo neanch'io. E poi era solo una cena. Avevo avuto una giornata lunga e pesante a scuola e, dopo un'ora di palestra, morivo di fame. Il takeaway con Patch sembrava un'ottima idea. Che male avrebbe potuto fare una cenetta tranquilla? La gente cena insieme continuamente senza per questo spingersi oltre. - Una cena e basta - dissi, per convincere più me stessa che Patch. Lui mi fece il saluto dei boy scout, ma il suo sorriso non prometteva niente di buono. Era un sorriso da cattivo ragazzo. Il sorriso malizioso, affascinante di uno che solo due sere prima aveva baciato Marcie... e ora mi stava proponendo di cenare con lui, quasi certamente con la speranza che la cena si sarebbe trasformata in qualcosa di totalmente diverso. Il tumulto che avevo dentro si dissolse e fui catapultata di nuovo nel presente. Le congetture si spensero, lasciando il posto a un'inquietudine forte, improvvisa, che non aveva niente a che vedere con Patch né con quello che era successo domenica sera. Avevo la pelle d'oca. Studiai le ombre che circondavano il prato. - Mmm? - mormorò Patch che, accorgendosi della mia preoccupazione, mi stava stringendo a sé con fare protettivo. E poi lo sentii di nuovo. Un cambiamento nell'aria. Una nebbia invisibile, inspiegabilmente calda, bassa, opprimente, che mi zigzagava attorno come centinaia di serpenti furtivi. La sensazione era così dirompente che faticai a credere che Patch non se ne fosse accorto. - Che cosa c'è, angelo? - sussurrò. - Siamo al sicuro? - Ha importanza? Feci correre lo sguardo sul giardino. Non sapevo perché, ma continuavo a pensare: «Gli arcangeli. Sono qui». Insomma... gli arcangeli - dissi a voce talmente bassa che a stento riuscii a sentirla io. - Ci stanno osservando? - Sì. Cercai di divincolarmi, ma Patch non mi lasciò andare. - Non mi importa quello che vedono, sono stanco di questa farsa -. Non teneva più il viso affondato nell'incavo del mio collo e mi accorsi che aveva uno sguardo tormentato, di sfida. Provai di nuovo a staccarmi, stavolta ci misi più forza. - Lasciami. - Non mi vuoi? - disse con un sorriso sornione. - Non è questo il punto. Non voglio essere responsabile di quello che potrebbe accaderti. Lasciami -. Come poteva essere così tranquillo? Stavano cercando una scusa per liberarsi di lui, non poteva tenermi tra le braccia rischiando che lo vedessero. Mi accarezzò le braccia, ma non appena cercai di liberarmi lui mi afferrò le mani. La sua voce irruppe nella mia mente. «Potrei trasgredire. Potrei andare via in questo istante e potremmo smettere di rispettare le regole degli arcangeli.» Il modo deciso, spontaneo in cui lo disse mi fece capire che non era la prima volta che ci pensava. Era un piano su cui aveva fantasticato altre volte. Il cuore iniziò a battermi furiosamente. Andare via? Smettere di rispettare le regole? - Ma che stai dicendo? «Sarei costretto a spostarmi continuamente, sempre di nascosto, nella speranza che gli arcangeli non riescano a trovarmi.» - E se ci riuscissero? «Verrei processato e condannato. Ma nel frattempo avremmo qualche settimana per noi.» Lo guardai, straziata. - E poi ? «Mi spedirebbero all'inferno.» Si fermò, poi aggiunse, pacato ma convinto: «Non ho paura dell'inferno, me lo merito. Ho mentito, tradito, ingannato; ho ferito persone innocenti. Ho fatto più errori di quanti riesca a ricordarne. A conti fatti, ne sto pagando le conseguenze da quasi tutta la mia esistenza, l'inferno non può essere molto diverso». La bocca di Patch si piegò in un sorrisetto sprezzante. «Sono sicuro, però, che gli arcangeli abbiano diversi assi nella manica.» Il suo sorriso svanì e mi guardò con sincerità. «Stare insieme a te non mi è mai sembrato sbagliato. E' l'unica cosa giusta che abbia mai fatto. Tu sei l'unica cosa giusta che abbia mai fatto. Non mi importa degli arcangeli. Dimmi cosa vuoi che faccia. Dimmelo e lo farò. Farò qualsiasi cosa tu mi chieda. Possiamo andarcene subito.» Ci misi un po' ad assorbire le sue parole. Guardai la jeep e il muro di ghiaccio che ci separava svanì. Quel muro era lì solo per colpa degli arcangeli; se non fosse stato per loro, Patch e io non avremmo mai litigato: erano loro il problema. Volevo lasciarmeli alle spalle, loro e tutto il resto, e scappare via con Patch. Volevo essere sconsiderata, pensare soltanto al presente. Insieme, ci saremmo dimenticati delle conseguenze, avremmo riso delle regole, dei limiti e soprattutto del futuro. Ci saremmo stati solo Patch e io, nient'altro avrebbe avuto importanza. Niente tranne la promessa di quel che sarebbe successo quando quelle settimane fossero finite. Avevo due alternative, ma la risposta era evidente. L'unico modo di proteggere Patch era quello di lasciarlo andare. Non avere niente a che fare con lui. Non mi resi conto che stavo piangendo fino a che Patch non mi passò le dita sotto gli occhi. - Sssh - mormorò. - Andrà tutto bene. Io ti voglio. Non posso continuare così, a vivere a metà. - Ma ti manderanno all'inferno - balbettai, incapace di fermare il tremito del labbro inferiore. - Me ne sono fatto una ragione da tempo, ormai. Ero decisa a non far vedere a Patch quanto fosse dura per me, e soffocai il pianto che avevo in gola. Avevo gli occhi umidi e gonfi e mi faceva male il petto. Era tutta colpa mia. Se non fosse stato per me, lui non sarebbe mai diventato un angelo custode. Se non fosse stato per me, gli arcangeli non sarebbero mai stati così decisi a distruggerlo. L'avevo messo io in quella situazione. - Devi farmi un favore - dissi con un filo di voce, che non sembrava nemmeno la mia. - Di' a Vee che sono andata a casa a piedi. Ho bisogno di stare sola. - Angelo? Patch mi prese la mano, ma io la ritrassi. Sentii i miei piedi muoversi, un passo dopo l'altro. Mi portavano sempre più lontano da Patch, come se la mente, intorpidita, avesse affidato il comando al corpo. - 13 Il pomeriggio seguente Vee mi lasciò davanti a Enzo. Indossavo un vestito giallo scollato, malizioso e professionale allo stesso tempo, ma soprattutto molto più ottimista di quanto mi sentissi io. Mi fermai davanti alla vetrina per ravviarmi i ricci, che si erano appiattiti dopo averci dormito sopra tutta la notte, ma il gesto risultò legnoso. Feci un sorriso forzato, quello su cui mi ero allenata per tutto il giorno, ma anche quello risultò rigido e nervoso. Nel riflesso della vetrina quel sorriso sembrava falso ma, considerando che la nottata precedente l'avevo passata a piangere, era il meglio che potessi a fare. La sera prima, dopo essere tornata a casa dalla festa di Marcie, mi ero buttata sul letto ma non avevo dormito. Avevo passato la notte tormentata da pensieri autodistruttivi. Più rimanevo sveglia, più i pensieri partivano per la tangente. Volevo fare un gesto eclatante e stavo così male che non mi importava quanto drastico potesse essere. Mi ronzò nella testa un pensiero, il tipo di pensiero che non avrei mai preso in considerazione prima. Se avessi messo fine alla mia vita gli arcangeli se ne sarebbero accorti. Volevo che provassero rimorso. Volevo che mettessero in discussione le loro leggi arcaiche, che fossero ritenuti responsabili di avermi rovinato la vita prima e avermene privata poi. Quei pensieri mi turbinarono in testa per tutta la notte. Fu un susseguirsi di emozioni: dallo strazio per la perdita al rifiuto alla collera. A un certo punto, mi pentii di non essere scappata con Patch. Un po' di felicità, per quanto breve, sembrava meglio della lunga, lenta agonia dello svegliarsi giorno dopo giorno sapendo che Patch non sarebbe mai stato mio. Allo spuntar del sole, però, ero arrivata a una decisione. Dovevo andare avanti, altrimenti sarei caduta in una depressione paralizzante. Mi costrinsi a compiere i gesti quotidiani - la doccia, vestirmi - e andai a scuola decisa a non permettere a nessuno di leggermi dentro. Ero avvolta da una sensazione di intorpidimento, ma mi rifiutavo di autocompatirmi. Non avrei permesso agli arcangeli di vincere. Mi sarei rimessa in piedi, avrei trovato un lavoro, pagato la multa, finito la scuola estiva con il massimo dei voti e mi sarei tenuta così occupata da pensare a Patch soltanto di notte, quando fossi rimasta sola con i miei pensieri e quindi non avessi potuto farne a meno. All'ingresso del locale di Enzo si aprivano due balconate semicircolari, a destra e a sinistra, con un'ampia scalinata che scendeva alla sala principale e al bancone. Le balconate mi ricordavano due passerelle curve che dominavano una platea. I tavoli delle balconate erano pieni, mentre nella sala c'era solo qualche ritardatario che beveva caffè e leggeva i giornali del mattino. Feci un bel respiro per farmi coraggio, scesi le scale e mi avvicinai al bancone. - Mi scusi, ho sentito che state cercando dei barman - dissi alla donna alla cassa. Mi accorsi di avere una voce monotona, ma non avevo l'energia per rimediare. Lei, una rossa di mezz'età che, secondo la targhetta appuntata sul petto, rispondeva al nome di Roberta, alzò lo sguardo. - Vorrei compilare la domanda di assunzione -. Riuscii a tirar fuori un mezzo sorriso, anche se temevo di non essere credibile neanche un po'. Roberta si asciugò le mani lentigginose sul grembiule e uscì da dietro la cassa. - Barman? Non serve più. La fissai trattenendo il fiato, mentre ogni speranza svaniva. Il mio piano era tutto: non avevo neanche preso in considerazione la possibilità che anche uno solo dei punti per attuarlo mi fosse strappato via. Avevo bisogno di un piano. Avevo bisogno di quel lavoro. Avevo bisogno di una vita strettamente regolata, in cui ogni minuto fosse pianificato e ogni emozione incasellata. - Ma sto ancora cercando un bravo addetto alla sala ristorante per il turno serale, dalle sei alle dieci - riprese Roberta. La guardai stupita, le labbra quasi tremanti per la sorpresa. - Oh - dissi. - Va... bene. - La sera abbassiamo le luci, arrivano i barman, suoniamo un po' di jazz e cerchiamo di rendere l'ambiente più sofisticato. Prima, dopo le cinque qui era un mortorio, ma ora speriamo di attirare molta gente. Sono tempi duri - spiegò. - Il tuo compito sarebbe quello di accogliere i clienti, prendere le ordinazioni e portarle in cucina. Poi, quando i piatti sono pronti, servire ai tavoli. Cercai di annuire con entusiasmo, in modo che capisse quanto ci tenevo ad avere quel lavoro. Sorrisi, allungando talmente le labbra da sentirle tirare. - Sembra... perfetto - riuscii a dire con voce roca. - Hai qualche esperienza? No. Ma Vee e io andavamo da Enzo almeno tre volte a settimana. - Conosco il menu a memoria - risposi, iniziando a sentire che si parlava di cose concrete, reali. Un lavoro. Dipendeva tutto da questo. Stavo per costruirmi una nuova vita. - È questo che mi piace sentire - disse Roberta. - Quando puoi cominciare? - Stasera?-. Non riuscivo a crederci: mi stava davvero offrendo il lavoro. A me, che non ero neanche riuscita a fare un sorriso sincero. Lei però non ne aveva tenuto conto e mi stava dando una possibilità. Feci per stringerle la mano, e mi accorsi troppo tardi che la mia tremava. Lei ignorò il mio gesto e mi osservò con la testa piegata da una parte, in un modo che non fece altro che farmi sentire più esposta e impacciata. - Va tutto bene? Inspirai in silenzio e trattenni l'aria. - Sì, sto bene. Lei annuì con energia. - Vieni alle sei meno un quarto, così ti do un'uniforme prima dell'inizio del turno. - Grazie mille... - dissi, la voce ancora in preda all'emozione, ma lei era già tornata dietro la cassa. Mentre uscivo nel sole accecante, iniziai a fare dei calcoli. Se mi avessero pagato il minimo sindacale, lavorando tutte le sere per le successive due settimane sarei riuscita a pagare la multa per eccesso di velocità. E lavorando tutte le sere per i successivi due mesi, sarebbero state sessanta sere in cui, occupata com'ero, non avrei avuto né tempo né modo di pensare a Patch. Sessanta sere fino ad arrivare alla fine delle vacanze estive, e poi avrei potuto buttarmi di nuovo anima e corpo nella scuola. Avevo già deciso di riempirmi l'orario di corsi: potevo gestire compiti di ogni sorta, ma il crepacuore era una cosa totalmente diversa. - Be'? - chiese Vee accostando con la Neon. - Com'è andata? Salii in auto. - Ho avuto il lavoro. - Bene. Eri così nervosa prima, quasi sull'orlo dell'isteria, ma ora non c'è più ragione di preoccuparsi. Sei ufficialmente un membro operoso della società. Sono orgogliosa di te, tesoro. Quando cominci? Guardai l'orologio sul cruscotto. - Tra quattro ore. - Allora stasera faccio un salto e chiedo un tavolo nella tua zona. - Mi raccomando la mancia - dissi con un pietoso tentativo di fare dell'umorismo. - Sono il tuo autista. É molto meglio di una mancia. Sei ore e mezza dopo, Enzo era pieno come un uovo. La mia uniforme era costituita da camicia bianca, pantaloni grigi di tweed con gilè abbinato e cappello da monello. Quest'ultimo non riusciva a trattenere tutti i capelli, che si rifiutavano di starsene nascosti lì sotto, tanto che sentivo di avere dei ricci ribelli appiccicati al viso per il sudore. Nonostante fossi distrutta, era un sollievo essere così occupata: non c'era tempo di pensare a Patch, neanche per sbaglio. - Ragazza nuova! - mi gridò uno dei cuochi, Fernando, agitando una spatola da dietro un muretto che separava i forni dal resto della cucina. - Il tuo ordine è pronto! Afferrai i tre piatti con i panini, me li misi con attenzione in fila sul braccio e uscii a marcia indietro dalle porte della cucina. Mentre attraversavo la sala principale, intercettai lo sguardo di una delle hostess di sala. Mi indicò con il mento un tavolo sulla balconata che era appena stato occupato, e io le risposi con un cenno del capo "Ci vado subito". - Ecco i vostri panini: costoletta, salame e tacchino arrosto - dissi mettendo i piatti davanti a tre uomini d'affari in giacca e cravatta. - Buon appetito. Salii le scale a passo svelto e tirai fuori dalla tasca posteriore il blocchetto delle ordinazioni. A metà della passerella, mi bloccai. Dritto davanti a me, seduta al tavolo a cui ero diretta, c'era Marcie Millar. Riconobbi anche Addyson Hales, Oakley Williams e Ethan Tyler, tutti miei compagni di scuola. Pensai di fare dietrofront e dire alla hostess di dare il mio tavolo a qualcun altro - a chiunque altro - quando Marcie alzò gli occhi e seppi di essere in trappola. Le si dipinse in faccia un sorriso granitico. Mi mancò il respiro. Possibile sapesse che avevo preso il suo diario? Non mi ero resa conto di averlo finché non ero andata a letto, la sera prima, dopo essere tornata a casa. L'avrei restituito immediatamente, in un altro momento, ma allora era stato l'ultimo dei miei pensieri. Il diario sembrava una cosa insignificante in confronto al turbinio delle mie emozioni, che mi aveva messo completamente sottosopra. In quel momento infatti giaceva ancora a terra, in camera mia, accanto ai vestiti che indossavo la sera prima, senza che nemmeno l'avessi aperto. - Ma che bel completino! - disse Marcie al di sopra della musica jazz. - Ethan, non indossavi un gilè come questo al ballo dell'anno scorso? Mi sa che Nora ti ha saccheggiato l'armadio. Risero tutti. Io restai impassibile, con la penna sul blocchetto. - Posso portarvi qualcosa da bere? La specialità della serata è il frappé di cocco con lime Chissà se la mia voce tradiva il senso di colpa che provavo. Deglutii, sperando che quando avessi aperto bocca di nuovo l'agitazione sarebbe sparita. - L'ultima volta che sono stata qui era il compleanno di mia madre - disse Marcie. - La cameriera le ha cantato Tanti auguri a te. Mi ci volle qualche secondo per afferrare il concetto. — Oh, no. Insomma... no. Io non sono una cameriera: sono un'addetta alla sala ristorante. - Non m'importa cosa sei. Voglio che mi canti Tanti auguri a te. Rimasi paralizzata, mentre cercavo disperatamente di farmi venire in mente qualcosa che mi tirasse fuori dai pasticci. Era incredibile che Marcie mi stesse chiedendo di umiliarmi in quel modo. Un momento. Non era affatto incredibile: durante gli ultimi undici anni avevo tenuto, in segreto, il punteggio tra me e lei, ed ero certa che anche lei lo avesse fatto. Viveva per il piacere di superarmi in quella gara e, per di più, sapeva di essere in netto vantaggio. Nonostante ciò, continuava a voler accumulare punti, il che faceva di lei una giocatrice non soltanto prepotente, ma anche sleale. - Fammi vedere un documento - le dissi tendendo la mano. Marcie alzò una spalla. - Non ce l'ho. Sapevamo entrambe che non poteva non avere la patente con sé, e sapevamo entrambe che non era il suo compleanno. - C'è molta gente stasera - dissi con un falso tono di scuse. - Il mio responsabile non sarebbe contento se perdessi del tempo destinato ad altri clienti. - Il tuo responsabile sarebbe contento se tu rendessi felici i clienti. - E già che ci sei - intervenne Ethan - tira fuori una di quelle torte al cioccolato che state dando in omaggio. - Possiamo darne solo una fetta a testa, non di più - dissi - Possiamo darne solo una fetta a testa, non di più - mi fece il verso Addyson, e tutto il tavolo scoppiò a ridere Marcie infilò la mano in borsa e tirò fuori una mini videocamera. Appena la lucina rossa si mise a lampeggiare, mi puntò addosso l'obiettivo. - Non vedo l'ora di mandare questo video a tutta la scuola, tanto ho accesso agli indirizzi email di tutti. Chi l'avrebbe mai detto che fare l'assistente in segreteria sarebbe stato così utile? Sapeva del diario. Per forza. E questa era la sua vendetta. Cinquanta punti a me per averle rubato il diario, il doppio a lei per aver mandato a tutta la scuola un video in cui cantavo Tanti auguri a Marcie. Indicai un punto alle mie spalle, verso la cucina, e lentamente iniziai a indietreggiare. - Senti, mi si stanno accumulando le ordinazioni... - Ethan, vai a dire a quella bella hostess di farci parlare con il responsabile. La nostra addetta alla sala è scontrosa disse Marcie. Non potevo crederci. Lavoravo da meno di tre ore e Marcie stava già per farmi licenziare. Come avrei fatto a pagare la multa? E addio Cabriolet. Ma il motivo più importante per cui avevo bisogno del lavoro era che mi avrebbe evitato di affrontare la dura verità: Patch era fuori dalla mia vita. Per sempre. - Tempo scaduto - concluse Marcie. - Ethan, vai a cercare il responsabile. - Aspetta - dissi. - Lo farò. Marcie fece un gridolino e batté le mani. - Per fortuna ho caricato la batteria. Istintivamente mi calcai il cappello sugli occhi, per cercare di coprirmi la faccia. Poi aprii la bocca: - Tanti auguri a te... - Più forte! - gridarono tutti in coro. - Tanti auguri a te - cantai a un volume più elevato, troppo imbarazzata per capire se il mio tono di voce fosse pericolosamente piatto - Tanti auguri a Marcie, tanti auguri a te Nessuno disse una parola. Marcie rimise la videocamera in borsa. - Mah... noiosetto. - Mmm... normale - disse Ethan. Un po' del sangue che mi arrossava il viso defluì, e mi scappò un breve sorriso trionfante. Cinquecento punti. Il mio assolo si era meritato almeno questo, Marcie non era riuscita a farmi a pezzi. Adesso, ero ufficialmente in testa. Prendete qualcosa da bere? - chiesi, stranamente allegra. Dopo aver preso nota delle ordinazioni stavo per fare dietrofront in cucina, quando Marcie mi chiamò: - Ah, Nora? Mi fermai di botto e feci un respiro profondo, chiedendomi a quale supplizio avesse ancora intenzione di sottopormi. Oh. Capito. Avrebbe rivelato tutto. Subito, davanti agli altri. Avrebbe detto a tutto il mondo che le avevo rubato il diario, così che tutti potessero sapere quanto ero meschina. - Potresti servirci in fretta? - disse. - Dobbiamo andare a una festa. - Servirvi in fretta? - ripetei come una stupida. Quindi non sapeva del diario? - Abbiamo appuntamento con Patch alla spiaggia di Delphic e non voglio arrivare in ritardo -. Si coprì subito la bocca con la mano. - Oh, quanto mi dispiace, non ci ho pensato. Non avrei dovuto parlare di Patch, dev'essere dura vederlo con un'altra. Il sorriso a cui mi ero aggrappata svanì. Sentii un forte calore salirmi la nuca e il cuore battere così velocemente da farmi sentire la testa vuota. La stanza si inclinò da una parte e, al centro di tutto, c'era il sorriso spietato di Marcie. Tutto era tornato come prima, quindi: Patch stava di nuovo con Marcie. Dopo che me n'ero andata via, la sera prima, si era rassegnato al trattamento che il destino ci aveva riservato. Se non poteva avere me, si sarebbe accontentato di lei. Come mai a loro era permesso avere una relazione? Dov'erano gli arcangeli quando si trattava di tenere d'occhio Patch e Marcie? E quel bacio? Gli arcangeli avrebbero lasciato correre perché sapevano che quella storia non era importante per nessuno, né per lui né per lei? Avrei voluto urlare di fronte a quell'ingiustizia. Marcie poteva stare con Patch perché non lo amava, mentre io non potevo, visto che l'amavo e loro lo sapevano. Perché era così sbagliato essere innamorati? Gli angeli e gli umani erano davvero tanto diversi? - Non c'è problema, ormai non ci penso più - dissi con una punta di fredda cortesia. - Buon per te - replicò Marcie, mordicchiando una cannuccia con aria maliziosa e con l'espressione di chi non credeva a una sola parola. Arrivata in cucina, consegnai l'ordinazione del tavolo di Marcie ai cuochi, lasciando in bianco la parte Informazioni speciali per la cucina. Marcie aveva fretta di vedere Patch al Delphic? Peccato. Presi le ordinazioni già pronte e portai fuori il vassoio. Con mia grande sorpresa vidi Scott all'ingresso, che parlava con le hostess di sala. Era vestito in modo casual, in jeans e maglietta, e le due hostess in abito nero avevano tutta l'aria di flirtare con lui. Incrociò il mio sguardo e mi fece un cenno di saluto. Servii l'ordinazione del tavolo quindici e poi salii le scale. - Ciao - dissi a Scott togliendomi il cappello per farmi vento. - Vee mi ha detto che ti avrei trovata qui. - Hai chiamato Vee? - Sì, visto che non rispondevi ai miei messaggi. Mi asciugai la fronte con il braccio e mi rimisi in ordine i capelli, che ormai si erano sciolti. - Il cellulare è nel retro, non sono riuscita a controllarlo dopo l'inizio del turno. Che volevi? - A che ora stacchi? - Alle dieci, perché? - C'è una festa alla spiaggia di Delphic. Sto cercando una vittima da trascinarci. - Ogni volta che usciamo insieme succede qualcosa di brutto - dissi. Visto che non gli si accendeva alcuna luce negli occhi, aggiunsi: - La rissa alla sala da biliardo, poi la Sacca del Diavolo. Tutt'e due le volte ho dovuto scroccare un passaggio a casa. - La terza volta è quella buona -. Sorrise, e mi resi conto per la prima volta che aveva un bellissimo sorriso fanciullesco, che lo addolciva. Mi chiesi se non ci fosse un lato della sua personalità che non avevo ancora visto. Era probabile che si trattasse della stessa festa a cui doveva andare Marcie; la stessa a cui doveva partecipare Patch. E la stessa spiaggia in cui ero andata con lui solo una decina di giorni prima, quando avevo dichiarato troppo presto di vivere una vita perfetta. Non avrei mai potuto immaginare che la situazione si sarebbe capovolta così velocemente. Feci un rapido inventario dei miei sentimenti, ma avevo bisogno di più di qualche secondo per capire che cosa provassi. Volevo vedere Patch - lo volevo sempre - ma non era quello il punto. Bisognava capire se ero pronta a farlo. Avrei sopportato la vista di lui con Marcie, specialmente dopo tutto quello che mi aveva detto la sera prima? - Devo pensarci - dissi a Scott. - Hai bisogno che passi a prenderti alle dieci? - No. Se vengo può darmi un passaggio Vee -. Indicai la cucina. - Senti, devo tornare al lavoro. - Spero di vederti -. E mi sparò un ultimo sorriso prima di andarsene. Alla chiusura, trovai Vee nel parcheggio con il motore al minimo. - Grazie per essere venuta a prendermi - le dissi, sedendomi accanto a lei. Mi facevano male le gambe dopo tutte quelle ore passate in piedi e nelle orecchie mi risuonavano ancora le chiacchiere e le risate tipiche dei ristoranti strapieni, per non parlare di tutte le volte che i cuochi e i camerieri mi avevano gridato contro. Avevo sbagliato con almeno due ordinazioni e più di una volta ero entrata in cucina dalla porta sbagliata, rischiando di investire una cameriera con le mani piene di piatti. La buona notizia era che avevo trenta dollari di mance in tasca. Una volta pagata la multa, tutte le mance sarebbero finite nel fondo Cabriolet. Non vedevo l'ora di non dover più dipendere dai passaggi in macchina di Vee. Ma soprattutto non vedevo l'ora di togliermi dalla testa Patch. Vee sorrise. - Il servizio non è gratuito. Ogni passaggio è una cambiale che ti verrà presentata al momento opportuno. - Guarda che non sto scherzando, Vee. Sei la migliore amica del mondo. La migliorissima. - Ehi, forse sarebbe il caso di celebrare questo momento magico andando a prendere un gelato da Skippy. Mi ci vorrebbe proprio un bel gelato. Veramente mi ci vorrebbe anche del glutammato di sodio, niente mi fa più felice di una vagonata di frittura appena fatta, strapiena di buon vecchio glutammato. - Facciamo un'altra volta? Mi hanno invitata alla spiaggia di Delphic e sei la benvenuta anche tu, se ti va -. Non ero sicura di aver preso la decisione migliore. Perché mai dovevo sottopormi alla tortura di vedere di nuovo Patch? Sapevo che era perché volevo averlo vicino, anche se quel tipo di vicinanza non mi bastava. Una persona più forte, più coraggiosa, avrebbe tagliato tutti i ponti e sarebbe andata avanti. Una persona più forte non avrebbe battuto i pugni contro la porta del destino. Patch era fuori dalla mia vita, per sempre. Sapevo di doverlo accettare, ma tra il dire e il fare c'era una bella differenza. - Chi va? - chiese Vee. - Scott e altri della scuola -. Non era il caso di nominare Marcie e rischiare un veto immediato. Avevo la sensazione di poter contare sul sostegno di Vee quella sera. - No, grazie. Credo che guarderò un film con Rixon. Ma posso chiedergli se ha qualche amico da presentarti. Potremmo fare un'uscita a quattro: mangiare pop-corn, raccontare barzellette, divertirci. - Passo -. Non volevo nessun altro. Volevo Patch. Quando Vee arrivò nel parcheggio della spiaggia di Delphic il cielo era nero come il catrame. Fari molto potenti, che mi ricordavano quelli del campo da football della scuola, illuminavano le strutture di legno bianco che ospitavano la giostra, la sala giochi e il minigolf, avvolgendo il luogo in un alone di luce. Non c'era elettricità sulla spiaggia né nei campi intorno, quindi quello era l'unico posto illuminato della costa per miglia e miglia. A quell'ora di notte non mi aspettavo di trovare gente che comprasse hamburger o giocasse a carambola, così feci segno a Vee di accostare accanto alla passerella di legno che portava fino all'acqua. Mi lanciai fuori dall'auto e la salutai. Lei mi fece un cenno con la mano mentre, il cellulare incollato all'orecchio, si metteva d'accordo con Rixon. L'aria era ancora calda e carica di ogni tipo di suono, dalla musica lontana del parco divertimenti del Delphic Seaport sulla scogliera alle onde che si infrangevano sulla sabbia. Mi aprii un varco tra le piante acquatiche che correvano parallele alla riva quasi come una barriera, scesi lungo il pendio e camminai sulla sottile striscia di sabbia asciutta che non veniva toccata dall'alta marea. Superai piccoli gruppi di gente che giocava ancora nell'acqua a saltare le onde e a lanciare dei pezzi di legno nell'oscurità dell'oceano, anche se i bagnini se n'erano andati da un pezzo. Tenni gli occhi bene aperti per cercare di individuare Patch, Scott, Marcie o qualunque altra faccia conosciuta. Più avanti, nel buio, danzavano le fiamme di un falò. Tirai fuori il cellulare e chiamai Scott. - Ciao. - Ce l'ho fatta - dissi. - Dove sei? - Dopo il falò. Tu? - lo subito prima. - Ti vengo incontro. Due minuti dopo, Scott si lasciava cadere sulla sabbia accanto a me. - Hai intenzione di startene in disparte tutta la sera? - mi chiese. C'era odore di alcol nel suo alito. - Non sono una grande fan del novanta per cento della gente che c'è a questa festa. Lui annuì e mi porse un thermos d'acciaio. - Non ho i microbi, parola di scout. Serviti pure. Mi piegai sul termos quanto bastava per sentire l'odore e mi ritrassi immediatamente, con la gola che bruciava. - Che cos'è? - dissi con voce soffocata. - Olio per il motore? - E' una mia ricetta segreta. Se te la svelassi, dopo dovrei ucciderti. - Non ce n'è bisogno, sono quasi sicura che bere questa roba avrebbe lo stesso effetto. Scott si sdraiò appoggiando i gomiti alla sabbia. Si era cambiato: indossava una maglietta dei Metallica con le maniche strappate, un paio di calzoncini color cachi e infradito. Io ero ancora in uniforme da lavoro con il cappello e gilè. Per fortuna, mi ero infilata un top prima di andare al lavoro, ma non avevo niente da mettere al posto dei pantaloni di tweed. - Allora, Grey, che ci fai qui? Devo proprio dirtelo: pensavo mi avresti dato buca per fare i compiti. Mi sdraiai accanto a lui e gli lanciai uno sguardo obliquo. - Queste stronzate iniziano a stufarmi. Sono un tipo preciso, e allora? Lui sorrise. - Non ho niente contro la precisione, è grazie a lei che supererò il terzo anno. Soprattutto il corso d'inglese. Accidenti. - Se era una domanda, la risposta è no: non farò i compiti d'inglese al posto tuo. - Questo è quello che pensi tu. Non ho ancora messo in azione il Fascino di Scott. Scoppiai in una risata e il suo sorriso si allargò. - Che c'è? Non mi credi? - disse. - Non credo che tu e la parola "fascino" possiate convivere nella stessa frase. - Nessuna ragazza può resistere al Fascino. Credimi, ci vanno pazze. Ecco i punti salienti: sono ubriaco ventiquattr'ore al giorno, sette giorni a settimana, non riesco a tenermi un lavoro, non ho ancora superato il primo corso di matematica e passo le giornate svenuto o a giocare con i videogame. Gettai indietro la testa e risi di cuore. Iniziavo a pensare che la versione di Scott ubriaco mi piacesse più di quella di Scott sobrio. Chi avrebbe mai immaginato che potesse essere così autocritico? - Smettila di sbavare - disse lui sollevandomi il mento con fare scherzoso - o mi monto la testa. Gli sorrisi, rilassata. - Guidi una Mustang, però, e questo ti regala almeno dieci punti. - Fico. Dieci punti. Me ne servono soltanto altri duecento e poi sono fuori dalla zona rossa. - Perché non smetti di bere? - Smettere? Stai scherzando? La mia vita mi fa schifo quando ne sono consapevole solo per metà, se smettessi di bere e mi rendessi conto di com'è veramente potrei buttarmi giù da un ponte. Restammo un momento in silenzio. - Quando sono sbronzo riesco quasi a dimenticare chi sono aggiunse, il sorriso ormai spento. - So eli esserci ancora, ma non del tutto è una bella sensazione Rovesciò il thermos, gli occhi fissi sul mare scuro davanti a sé. - Già. Be', neanche la mia vita è una meraviglia. - Tuo padre? - chiese, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. - Non è stata colpa tua. - Il che forse è ancora peggio. - In che senso? - Se fosse stata colpa mia, mi sarei sentita responsabile per un sacco di tempo ma poi, forse, alla fine, l'avrei superata. Invece continuo a farmi sempre la stessa domanda: perché a mio padre? - È comprensibile - disse Scott. Iniziò a cadere una pioggia lenta, la tipica pioggia estiva, con grossi goccioloni caldi che schizzavano ovunque. - Ma che diavolo... - sentii dire a Marcie. La voce arrivava da un punto vicino al falò. Guardai attentamente le figure che si tiravano su a fatica. Patch non c'era. - Tutti da me! - gridò Scott saltando in piedi e gesticolando in modo enfatico. Barcollò rischiando di perdere l'equilibrio. - Settantadue Deacon Road, appartamento trentadue. La porta è aperta. Il frigo è pieno zeppo di birra. Ah, ho già detto che mia madre è a giocare a carte tutta la sera? Raccolsero tutti le scarpe e gli altri vestiti sparpagliati per terra e, gridando di gioia, corsero verso il parcheggio sollevando nuvole di sabbia. Scott mi toccò la coscia con la ciabatta. - Vuoi un passaggio? Guarda, lascio persino guidare te. - Grazie, ma sono esausta -. Patch, l'unica ragione per la quale ero lì, non c'era. All'improvviso quella serata mi sembrò non solo una delusione, ma proprio uno spreco. Avrei dovuto essere sollevata per non aver dovuto vedere Patch e Marcie insieme, invece mi sentivo soprattutto delusa, sola e piena di risentimento. E sfinita. L'unica cosa che volevo fare era andarmene a letto e mettere la parola fine a quella giornata, il prima possibile. - Gli amici non fanno guidare gli amici ubriachi - insistette Scott - Stai appellandoti alla mia coscienza? Mi dondolò il mazzo di chiavi davanti agli occhi. - Come puoi rifiutare l'occasione di una vita? Guidare una Mustang! Mi alzai in piedi e scossi la sabbia dai pantaloni. - Che ne dici di vendermi la Mustang per trenta dollari? Ti pago in contanti. Lui rise e mi posò un braccio sulle spalle. - Ubriaco sì, ma non così ubriaco, Grey. 14 Tornata a Coldwater, presi la Beech in direzione della Deacon. La pioggia continuava a cadere, leggera e cupa. La strada era stretta e tortuosa, con fitte file di sempreverdi appena al di là della carreggiata. Dopo una curva, Scott mi indicò un edifìcio in stile coloniale, suddiviso in appartamenti rivestiti di legno grigio e dotati di minuscoli balconi. Nel piccolo prato antistante vidi un campo da tennis in stato di abbandono. Tutto il posto sembrava aver bisogno di una mano di vernice. Infilai la Mustang in un parcheggio. - Grazie del passaggio - disse Scott facendo penzolare un braccio dietro lo schienale del mio sedile. Aveva gli occhi vitrei, il sorriso sghembo. - Ce la fai a entrare? - chiesi. - Non voglio entrare - farfugliò. - La moquette puzza di piscio di cane e il soffitto del bagno è pieno di muffa. Voglio stare qui fuori, con te. «Perché sei ubriaco.» - Devo andare a casa. E' tardi, e oggi non ho ancora telefonato a mia madre: se non mi faccio viva subito va fuori di testa -. Mi piegai dalla sua parte e gli aprii la portiera. Mentre gli passavo davanti, mi prese una ciocca di capelli e se la attorcigliò attorno al dito. - Bello. Srotolai il ricciolo. - Lascia perdere. Sci ubriaco. Lui sorrise. - Solo un po'. - Domani non ti ricorderai niente. - Credevo si fosse creato un legame prima, alla spiaggia. - Infatti. Ed è qui che quel legame si ferma. Dico davvero, sto per buttarti fuori. Entra in casa. - E la mia auto? - La parcheggio davanti a casa mia e domani pomeriggio te la restituisco. Scott emise un sospiro di soddisfazione e si appoggiò al sedile. - Voglio andare a casa e rilassarmi con un assolo di Jimi Hendrix. Puoi dire a tutti che la festa è finita? Alzai gli occhi al cielo. - Hai invitato sessanta persone. Non ho intenzione di entrare e dire che non se ne fa più niente. Scott si sporse fuori dall'auto e vomitò. «Puah.» Lo tirai dentro afferrandolo per la maglietta e schiacciai l'acceleratore quel tanto che bastava per spostare l'auto un po' più avanti, quindi tirai il freno a mano e scesi. Feci il giro, afferrai Scott per le braccia e lo trascinai fuori dalla Mustang, facendo attenzione a non mettere i piedi sul contenuto del suo stomaco. Lui mi mise un braccio intorno alla spalla mentre io cercavo di non crollare sotto il suo peso. - Qual è l'appartamento? - chiesi. - Trentadue. In alto a destra. Il piano di sopra. Certo. La mia solita fortuna. Ansimando trascinai Scott per le due rampe di scale ed entrai barcollando nell'appartamento, brulicante di corpi che si dimenavano al ritmo di una musica rap talmente alta che ebbi la sensazione che a causa delle vibrazioni mi si staccassero pezzi di cervello. - La camera da letto è in fondo - mi mormorò Scott all'orecchio. Lo spinsi per tutto il corridoio facendomi largo tra la folla, poi aprii la porta e buttai Scott sul materasso di sotto del letto a castello. In un angolo della stanza conino una piccola scrivania, un cesto per la biancheria sporca, un sostegno per la chitarra e dei pesi. I muri erano ingialliti e le uniche decorazioni erano un poster di II Padrino Parte III e un gagliardetto dei New England Patriots. - La mia stanza - mormorò Scott quando si accorse che mi stavo guardando intorno, poi batté con la mano sul materasso accanto a lui. - Prego, mettiti comoda. - Buonanotte, Scott. Stavo per chiudere la porta, quando mi disse: - Puoi portarmi qualcosa da bere? Un bicchiere d'acqua. Ho bisogno di levarmi dalla bocca questo saporaccio. Ero in ansia, volevo andarmene da quel posto, ma non potevo fare a meno di provare un irritante moto di compassione per Scott. Se me ne fossi andata subito, probabilmente l'indomani mattina si sarebbe risvegliato in mezzo al suo vomito. Avrei potuto dargli una ripulita e un antiemetico. La minuscola cucina a ferro di cavallo dell'appartamento dava sul soggiorno trasformato in pista da ballo. Dopo essere passata a forza in mezzo alla folla che bloccava l'accesso alla cucina, mi misi ad aprire e chiudere sportelli in cerca di un bicchiere. Alla fine ne trovai una pila nel pensile sopra il lavandino e aprii il rubinetto. Mentre mi giravo per tornare da Scott con l'acqua, il cuore mi balzò in gola. A pochi passi da me, appoggiato al mobiletto di fronte al frigo, c'era Patch. Se ne stava in disparte, il cappellino calato sugli occhi, segno che non era interessato a fare conversazione. Sembrava impaziente e guardava l'orologio. Non avendo modo di evitarlo, se non quello di scavalcare il bancone della cucina e saltare direttamente in soggiorno, e ritenendo di dover essere civile - eravamo grandi abbastanza da riuscire a gestire la questione in modo maturo, no? - mi inumidii le labbra, all'improvviso secche come carta vetrata, e andai verso di lui. - Ti diverti? I tratti del suo viso si addolcirono in un sorriso. - C'è qualcos'altro che preferirei fare in questo momento. Se era un'allusione, l'avrei ignorata. Mi sedetti sul bancone, le gambe penzoloni. - Resti tutta la notte.? - Preferirei che mi sparassi adesso. Allargai le braccia. - Niente pistola, mi spiace. - È l'unica cosa che ti trattiene dal farlo? - disse con un sorriso da cattivo ragazzo da manuale. - Anche se ti sparassi non ti ucciderei - gli feci notare. - E uno degli svantaggi dell'essere immortale. Lui annuì e, sotto l'ombra del cappellino, apparve un sorriso feroce. - Quindi se potessi lo faresti? Esitai un momento, quindi risposi: - Io non ti odio, Patch. Non ancora. - L'odio non è forte abbastanza? C'è un sentimento più profondo? Feci un mezzo sorriso. Sentivamo entrambi che da quella conversazione non sarebbe venuto fuori niente di buono, soprattutto visto il posto in cui ci trovavamo. Patch ci tirò fuori dall'impaccio. Indicò la folla di gente e disse: - E tu? Resti molto? Saltai giù dal bancone. - No, porto dell'acqua a Scott, e del collutorio se lo trovo, e poi me ne vado. Mi afferrò per un gomito. - A me spareresti, però aiuti Scott a superare la sbronza? - Scott non mi ha spezzato il cuore. Seguirono due lunghi istanti di silenzio, poi Patch mormorò: - Andiamo -. Dal suo sguardo capii esattamente che cosa volesse dire. Voleva che scappassi con lui. Per sfidare gli arcangeli, fingendo che non sarebbero riusciti a trovarlo. Non potevo pensare a quello che gli avrebbero fatto senza sentirmi intrappolata in una morsa di ghiaccio, congelata dalla paura e raggelata dall'orrore. Patch non mi aveva mai detto come sarebbe stato l'inferno, ma io Io immaginavo. E il fatto che non volesse dirmelo contribuiva a farne un quadro molto vivido e tetro. Mantenni lo sguardo fisso sulla sala. -Ho promesso a Scott che gli avrei portato un bicchiere d'acqua. - Passi un sacco di tempo con un tizio che definirei come minimo oscuro. E considerando i miei standard meritarsi quel titolo non è facile. - Solo un principe oscuro può riconoscerne un altro. - Sono felice di vedere che hai conservato il tuo senso dell'umorismo, io però non sto scherzando. Stai attenta. Annuii. - Apprezzo la tua preoccupazione, ma so quello che faccio Schivai Patch e mi infilai in mezzo ai corpi che ballavano. Stare accanto a lui era un supplizio, sentire quel muro di ghiaccio, spesso e impenetrabile... sapere che volevamo entrambi una cosa che non potevamo avere, anche se era lì, a portata di mano. Mi trovavo quasi a metà strada, quando qualcuno mi afferrò da dietro per la spallina del top. Mi voltai, convinta di vedere Patch, pronto a spiegarmi di nuovo le sue ragioni o magari a baciarmi, gettando al vento tutte le precauzioni. Invece era Scott, che mi sorrideva languido. Mi scostò i capelli dal viso, si piegò verso di me e mi sigillò la bocca con la sua. Sapeva di collutorio alla menta e dentifricio. Feci per tirarmi indietro, ma poi pensai che non me ne importava nulla che Patch ci guardasse. Non stavo facendo niente che lui non avesse già fatto. Come lui, avevo lo stesso diritto di stare con altri. Lui stava usando Marcie per riempire il vuoto che aveva nel cuore, quello era il mio turno di fare altrettanto, con Scott. Feci scivolare le mani sul petto di Scott e le allacciai dietro la nuca. Lui fece lo stesso e mi attirò forte a sé, seguendo con le dita la mia colonna vertebrale. Quindi era questo che si provava a baciare qualcun altro. Patch era lento ed esperto e non aveva fretta, mentre Scott era avido, anche se in modo giocoso, e un po' molle. Era completamente diverso, nuovo... non male, nell'insieme. - Camera mia - mi sussurrò all'orecchio. Intrecciò le dita alle mie e mi spinse verso il corridoio. Rivolsi lo sguardo al punto in cui avevo lasciato Patch e i nostri occhi si incontrarono. Era rigido, la mano dietro la nuca come se si fosse immobilizzato nel bel mezzo di una riflessione quando aveva visto me e Scott. «E' questo che si prova» gli dissi mentalmente. Non stavo affatto meglio, però. Mi sentivo triste e meschina e insoddisfatta. Non ero il tipo da fare simili giochini per consolarmi o tirarmi su di morale. C'era, però, ancora una certa dose di dolore dentro di me, e fu a causa sua che mi lasciai guidare lungo il corridoio. Scott spinse la porta della sua camera con il piede, quindi spense la luce. Restammo avvolti da morbide ombre. Lo sguardo corse al materasso del letto di sotto, poi alla finestra. Era aperta di uno spiraglio e, in un attimo di puro panico, immaginai davvero di uscire da lì e di sparire nella notte. Probabilmente era un indizio del fatto che stavo per commettere un enorme sbaglio. Sarei andata fino in fondo solo per puntiglio? Era così che volevo dimostrare a Patch quanto fossi furiosa e ferita? Che immagine avrei dato di me? Scott mi prese per le spalle e mi baciò intensamente. Valutai le scelte possibili. Avrei potuto dire a Scott che mi sentivo male. Avrei potuto dirgli che avevo cambiato idea. Avrei semplicemente potuto dirgli di no... Scott si tolse la maglietta e la gettò da una parte. - Oh... - iniziai. Mi guardai intorno in cerca di una via di fuga e mi accorsi che la porta doveva essere stata aperta perché un'ombra aveva oscurato la luce proveniente dal corridoio. L'ombra entrò e chiuse la porta. Io restai a bocca aperta. Patch prese la maglietta di Scott e gliela tirò in faccia. - Ma che... - domandò Scott, infilandosela. - Hai la patta aperta - lo informò Patch Scott si tirò su la lampo. - Ma che stai facendo? Non puoi entrare qui. Sono occupato e questa è la mia camera! - Sei pazzo? - dissi a Patch, rossa in volto. Patch mi perforò con lo sguardo. - Tu non vuoi stare qui. E non con lui. - Non hai il diritto di dire una cosa del genere! - A lui ci penso io - intervenne Scott passandomi accanto. Prima che riuscisse a raggiungerlo, Patch lo colpì con un pugno. Si sentì uno scricchiolio raccapricciante. - Ma che fai? - urlai a Patch. - Gli hai rotto la mascella? - Mmm! - gemette Scott tenendosi il mento tra le mani. - Non gli ho rotto la mascella, ma se ti mette una sola mano addosso sarà la prima di una lunga serie di cose che gli romperò - disse Patch. - Fuori! - gli ordinai puntando il dito contro la porta. - Io ti uccido - ringhiò Scott aprendo e chiudendo la bocca per assicurarsi che le ossa funzionassero ancora. Invece di approfittare per andarsene, Patch lo raggiunse con tre falcate e lo scaraventò con la faccia contro il muro. Scott cercò di riprendersi, ma Patch lo gettò di nuovo contro il muro. - Toccala - gli disse all'orecchio con voce bassa e minacciosa - e te ne pentirai per il resto dei tuoi giorni. Prima di andarsene, Patch mi lanciò un'occhiata. - Non ti merita Esitò e aggiunse: - E nemmeno io. Aprii la bocca, ma non seppi che cosa rispondere. Non ero lì perché volevo esserci. Ero lì per sbatterlo in faccia a Patch. Lo sapevo io e lo sapeva anche lui. Scott rotolò da una parte e si sedette contro il muro. - Gliel'avrei fatta vedere se non fossi sbronzo - brontolò massaggiandosi la faccia. - Chi diavolo si crede di essere? Non lo conosco nemmeno. Tu lo conosci? Scott ovviamente non si ricordava di averlo visto allo Z, ma c'era un sacco di gente quella sera, non potevo pretendere che lo riconoscesse. - Mi dispiace - dissi indicando la porta da cui era appena uscito Patch. - Stai bene? Lui sorrise lentamente. - Mai stato meglio -. Sulla mascella, però, stava affiorando un grosso livido. - Ha perso il controllo. - È il miglior modo per vincere - biascicò usando il dorso della mano per asciugarsi la striscia di sangue che gli usciva dalle labbra. - Io dovrei andare - dissi. - Ti porto la Mustang domani pomeriggio, dopo la scuola -. Mi chiesi come avrei fatto a uscire di lì e passare davanti a Patch mantenendo un minimo livello di dignità. L'alternativa era andare da lui e ammettere che aveva ragione: avevo seguito Scott solo per ferirlo. Scott mi afferrò il bordo della maglietta con un dito, trattenendomi. - Non andare, Nora. Non ancora. Gli sganciai il dito. - Scott... - Dimmelo se sto correndo troppo - sussurrò, alzandosi e togliendosi la maglietta per la seconda volta. La pelle pallida brillò nel buio. Era evidente che aveva passato molto tempo in palestra, si capiva dai muscoli che si flettevano sulle braccia. - Stai correndo troppo. - Non sei convincente Mi scostò i capelli e affondò la faccia nell'incavo del collo. - Non mi interessa avere un rapporto di questo tipo con te - dissi cercando di allontanarlo. Ero stanca e iniziavo ad avere mal di testa. Mi vergognavo di me stessa, volevo andare a casa e dormire finché non avessi dimenticato quella serata. - Come fai a saperlo se non hai ancora provato? Girai l'interruttore e la stanza fu inondata dalla luce. Scott si coprì gli occhi e indietreggiò. Io me ne vado... - iniziai, ma mi interruppi perché gli occhi mi caddero su un segno che aveva sulla parte superiore del petto, tra il capezzolo e la clavicola. La pelle era deformata e lucida. Da qualche parte, nelle profondità del mio cervello, capii che si trattava del marchio che gli avevano fatto quando aveva giurato fedeltà alla società di sangue dei Nephilim, ma era un pensiero tenue, fioco in confronto a quello che aveva catturato davvero la mia attenzione. Il marchio era a forma di pugno chiuso. Era identico, persino nelle dimensioni, alla decorazione dell'anello che avevo trovato nella busta. Con la mano ancora sugli occhi, Scott gemette e si appoggiò alla colonna del letto per mantenere l'equilibrio. - Cos'è quel segno? - chiesi, la bocca completamente asciutta. Scott sembrò trasalire, quindi si portò la mano al petto per coprirselo. - Ho fatto dei giochi pericolosi con alcuni amici, una sera. Non è niente di grave, solo una cicatrice. Aveva la sfacciataggine di mentire? - Sei stato tu a darmi la busta Visto che non rispondeva, aggiunsi in tono spietato: - La passerella. La pasticceria. La busta con l'anello di ferro -. La stanza sembrava isolata dal mondo, distante dalla musica palpitante del soggiorno. Nel giro di un secondo ero passata dal sentirmi al sicuro al sentirmi intrappolata con Scott. Lui socchiuse gli occhi e mi guardò di traverso. Sembrava che la luce gli desse ancora fastidio. - Di che cosa stai parlando? -. Sembrava cauto, ostile e insieme frastornato. - Credi che sia divertente? So che sei stato tu a darmi l'anello. - L'anello? - L'anello con cui è stato fatto il segno sul tuo petto! Lui scosse la testa una volta, forte, come a volersi scrollare di dosso lo stupore. Poi con il braccio mi spinse contro il muro. - Come fai a sapere dell'anello? - Mi fai male - dissi, la voce carica di veleno, anche se in realtà tremavo di paura. Avevo capito che Scott non fingeva. A meno che non fosse un attore migliore di quanto immaginassi, non sapeva niente della busta. Però dell'anello sì. - Che aspetto aveva? -. Mi afferrò poi la maglietta e mi scosse. - Il tizio che ti ha dato l'anello... che aspetto aveva? - Toglimi le mani di dosso - gli ordinai dandogli una spinta. Ma Scott pesava molto più di me, e restò ben piantato a terra, il corpo contro il mio. Mi trovavo letteralmente con le spalle al muro. - Non l'ho visto. Me l'ha fatta consegnare. - Lui sa dove sono? Sa che sono a Coldwater? - Lui? - ripetei. - Chi è lui? Che sta succedendo? - Perché ti ha dato l'anello? -Non lo so! Non so niente di lui! Perché non me lo spieghi tu? Il panico di cui sembrava essere preda lo faceva tremare. - Tu che cosa sai? Gli tenni gli occhi piantati addosso, ma avevo la gola talmente chiusa che persino respirare risultava doloroso. L'anello era in una busta con un biglietto che diceva che la Mano Nera aveva ucciso mio padre. E che l'anello apparteneva a lui -. Mi inumidii le labbra. — Sei tu la Mano Nera? L'espressione di Scott mostrava ancora una forte diffidenza; gli occhi dardeggiavano avanti e indietro mentre valutava se credermi o no. - Dimentica questa conversazione, per il tuo bene. Cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma lui non mollava. - Vattene - disse. - E stammi lontana -. Stavolta lasciò andare la presa e mi spinse verso la porta. Mi fermai e mi asciugai i palmi sudati sui pantaloni. - Non finché non mi dirai tutto quello che sai sulla Mano Nera. Pensavo che Scott avrebbe reagito con un attacco di rabbia ancora più violento, invece si limitò a fulminarmi come se fossi un cane randagio accovacciato senza permesso nel prato di casa sua. Raccolse la maglietta e feci per rimettersela addosso, invece poi piegò la bocca in un sorriso minaccioso. Gettò la maglietta sul letto. Si slacciò la cintura dei pantaloni, si abbassò la zip e si tolse i calzoncini, restando solo con i boxer. Voleva sfruttare il mio shock, voleva mettermi in imbarazzo e costringermi ad andarmene. Ci era quasi riuscito, ma non del tutto. E io non gli avrei permesso di liberarsi di me tanto facilmente. - Hai il marchio dell'anello della Mano Nera - dissi. - E vuoi farmi credere di non saperne niente? Lui non rispose. - Appena esco di qui chiamo la polizia. Se non vuoi parlare con me, magari preferisci parlare con loro. Forse hanno già visto quel marchio. Persino io capisco che non significa niente di buono. La mia voce era calma, ma avevo le ascelle bagnate. Che cosa stupida e rischiosa da dire. E se Scott non mi avesse permesso di andarmene? Quello che sapevo sulla Mano Nera l'aveva turbato. E se avesse pensato che sapevo troppo? Poteva uccidermi e poi gettarmi in un cassonetto? Mia madre non sapeva dove fossi e tutti quelli che mi avevano vista entrare nell'appartamento di Scott erano ubriachi fradici. Chissà se ora di domani qualcuno si sarebbe ricordato di me? Ero così occupata ad andare nel panico che non avevo notato che Scott si era seduto sul letto, aveva il viso nascosto tra le mani e le spalle avevano cominciato a tremargli. Mi resi conto che stava piangendo in silenzio. All'inizio pensai si trattasse di una finta, di una specie di trappola, invece i singhiozzi che gli squassavano il petto erano veri. Era ubriaco, sconvolto e non sapevo quanto questo potesse renderlo instabile. Restai immobile, per paura che il minimo movimento potesse farlo scattare. - A Portland ho fatto dei debiti di gioco, molti - cominciò a raccontare con voce disperata e stanca. - Il direttore della sala da biliardo mi stava con il fiato sul collo, non faceva che chiedermi i soldi e io dovevo sempre guardarmi le spalle, ogni volta che uscivo di casa. Vivevo nella paura, sapendo che un giorno mi avrebbe trovato e allora sarei stato fortunato se ne fossi uscito soltanto con le ginocchia rotte. Una sera, mentre tornavo a casa dal lavoro, qualcuno mi ha preso alla sprovvista, mi ha trascinato in un magazzino e mi ha legato a un tavolo pieghevole. Era troppo buio per riuscire a vederlo, ma immaginai che l'avesse mandato il direttore. Gli dissi che gli avrei dato tutto il denaro che voleva se mi avesse lasciato andare, ma lui rise: non era il denaro che voleva. Anzi, aveva già saldato tutti i mici debiti. Prima che riuscissi a capire se stesse scherzando, mi spiegò di essere la Mano Nera e che l'ultima cosa di cui aveva bisogno era altro denaro. Aveva uno Zippo. Lo accese e tenne la fiamma contro l'anello che portava alla mano sinistra. Ero terrorizzato. Gli dissi che avrei fatto qualsiasi cosa, bastava che mi tirasse giù da quel tavolo. Lui mi aprì la camicia e mi piantò l'anello sul petto. Io urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, il dolore era insopportabile. Poi mi piegò un dito fino a spezzarlo e aggiunse che se non avessi chiuso la bocca me le avrebbe spezzate tutte e dieci, una dopo l'altra. Disse di avermi marchiato con il suo simbolo -. La voce di Scott si era ridotta a un suono stridulo. - Me la sono fatta addosso. Lì, su quel tavolo. Mi aveva fatto una paura folle. Farei qualunque cosa per non rivederlo mai più: ecco perché siamo tornati a Coldwater. Avevo smesso di andare a scuola, passavo tutto il giorno rintanato in palestra a farmi i muscoli per prepararmi a un suo eventuale ritorno. Così, se mi avesse trovato, sarei stato pronto -. Si interruppe e si asciugò il naso con il dorso della mano. Non sapevo se potevo credergli. Patch mi aveva detto chiaramente che non si fidava di lui, però stava tremando. Era terreo e sudato, mentre si passava nervosamente le mani tra i capelli, sospirando. Poteva essersi inventato una storia del genere? Tutti i dettagli coincidevano con quello che già sapevo di lui. Aveva il vizio del gioco d'azzardo; quando viveva a Portland, di sera lavorava in un negozio di alimentari; era tornato a Coldwater per sfuggire al suo passato; aveva il marchio sul petto, quindi qualcuno doveva averglielo fatto. Poteva sedere a due passi da me e mentirmi su quello che aveva passato? - Che aspetto aveva? - chiesi. - La Mano Nera. Scosse la testa. - Era buio. Un tizio alto, ricordo solo questo. Cercai di trovare qualche punto in comune tra Scott e mio padre: dopotutto entrambi erano legati alla Mano Nera. Scott aveva accumulato dei debiti; in cambio del loro pagamento la Mano Nera l'aveva marchiato. Era accaduta la stessa cosa a mio padre? Il suo omicidio non era stato accidentale? La Mano Nera aveva pagato un debito di mio padre e poi l'aveva ucciso, magari perché rifiutava quel marchio? No. Impossibile. Mio padre non scommetteva, e non aveva debiti. Era un contabile, conosceva il valore del denaro. Non aveva niente in comune con Scott. Doveva esserci un'altra spiegazione. - La Mano Nera ha detto qualcos'altro? - chiesi. - Cerco di non ricordare nulla di quella notte -. Infilò la mano sotto il materasso e tirò fuori un portacenere di plastica e un pacchetto di sigarette. Se ne accese una, soffiò lentamente il fumo e chiuse gli occhi. La mia mente continuava a rimbalzare sulle stesse tre domande. Era stato davvero la Mano Nera a uccidere mio padre? Chi era? Dove potevo trovarlo? Ma c'era anche un'altra domanda: la Mano Nera era il capo della società dei Nephilim? Visto che era lui a marchiare i Nephilim, probabilmente era così. Solo un capo, o qualcuno che gode di molta autorità, potrebbe reclutare dei membri da far combattere contro gli angeli caduti. - Ti ha detto perché ti ha fatto quel marchio? - chiesi. Chiaramente serviva a contrassegnare i membri della società di sangue, ma forse c'era di più. Qualcosa che solo i Nephilim affiliati conoscevano. Scott scosse la testa e diede un nitro tiro. -Non ti ha dato nessuna spiegazione? -No. - E' tornato a cercarti dopo quella volta? - No -. Il suo sguardo allucinato lasciava intendere che era terrorizzato dalla sola idea. Ripensai allo Z. Al Nephilim con la maglietta rossa. Aveva lo stesso marchio di Scott? Ero quasi certa di sì. Del resto era logico che tutti i membri avessero lo stesso marchio. Questo significava che ce n'erano altri come Scott e il Nephilim dello Z. Affiliati ovunque, reclutati con la forza e tenuti all'oscuro. Che cosa stava aspettando questo Mano Nera? Perché non riuniva i suoi membri ? Per evitare che gli angeli caduti scoprissero suoi piani? Mio padre era morto per questo? Per qualcosa che aveva a che fare con la società di sangue? - Hai mai visto il marchio della Mano Nera su qualcun altro?-. Immaginavo che spingersi troppo avanti fosse pericoloso, ma avevo bisogno di capire quanto sapesse Scott. Lui non rispose. Era accasciato sul letto a occhi chiusi e dalla bocca aperta usciva un forte odore di alcol e fumo. Lo scossi con delicatezza. - Scott? Che cosa sai della società? -. Gli diedi un paio di schiaffetti e insistetti: - Scott, svegliati. La Mano Nera ti ha detto che sei un Nephilim? Ti ha spiegato cosa significa ? Ma lui era caduto nel sonno profondo degli ubriachi. Spensi la sigaretta, gli coprii le spalle con il lenzuolo e uscii. 15 Quando il telefono squillò ero net mondo dei sogni. Misi fuori un braccio, cercai a tentoni sul comodino e trovai il cellulare. - Pronto?-dissi, asciugandomi un po' di saliva all'angolo della bocca. - Hai già visto le previsioni del tempo? - chiese Vee. - Cosa? - biascicai. Cercai di aprire gli occhi, ma erano ancora affacciati sul sogno. - Che ora è? - Cielo azzurro, temperature altissime, zero vento. Dopo la scuola ce ne andiamo a Orchard Beach. Sto già caricando in macchina le tavole da surf -. Si mise a cantare a squarciagola la prima strofa di Summer Nights di Grease. Disorientata, allontanai il telefono dall'orecchio. Mi strofinai gli occhi e misi a fuoco i numeri sulla sveglia. La prima cifra non poteva essere un sei... - Costume a fascia rosa shocking o bikini color oro? Il problema del bikini è che forse dovrei abbronzarmi un po' prima di metterlo, altrimenti sembrerò ancora più pallida. Magari stavolta mi metto quello rosa, prendo un po' di colore e... - Perché il mio orologio segna le sei e venticinque? - chiesi, cercando di uscire dalle nebbie del sonno quel tanto che bastava. - È una domanda trabocchetto? -Vee! - Mmm. Molto arrabbiata? Sbattei giù il telefono e mi rannicchiai ancora di più sotto le coperte. Di sotto, in cucina, iniziò a suonare il telefono di casa e così mi misi il cuscino sulla testa. Rispose la segreteria telefonica, ma non era facile liberarsi di Vee. Richiamò. E richiamò ancora e ancora. Composi il suo numero con il cellulare. - Allora? - Oro o rosa? Non te lo chiederei se non fosse importante. Il fatto è che... verrà anche Rixon e mi vedrà in costume per la prima volta. - Torna indietro. Il programma prevede che andiamo al mare tutti e tre? Non ho nessuna intenzione di arrivare fino a Old Or- chard Beach per fare da terzo incomodo! - E io non ho nessuna intenzione di lasciarti a casa tutto il pomeriggio con quell'espressione acida. - Io non ho un'espressione acida. - Sì invece. Anche in questo momento. - Questa è la mia espressione scocciata. Mi hai svegliata alle sei del mattino! Il cielo era azzurro fino all'orizzonte. Avevamo i finestrini abbassati, il vento caldo ci scompigliava i capelli e l'aria era carica dell'inebriante profumo dell'acqua salata. Vee uscì dall'autostrada e prese la Old Orchard Street, gli occhi puntati alla ricerca di un parcheggio. La strada, in entrambi i sensi, era piena di auto che si muovevano lente per potersi infilare nel primo buco libero. - E' tutto pieno — si lamentò Vee. — Dove dovrei lasciarla, la macchina? -. Svoltò in una stradina laterale e si fermò davanti a una libreria. - Ottimo. Qui è pieno di posti. - Il cartello dice che è riservato ai dipendenti. - E come fanno a sapere che non siamo dipendenti? La Neon si mimetizza perfettamente con tutte queste auto anonime. - Il cartello dice che le auto dei trasgressori vengono rimosse. - Lo scrivono solo per spaventare la gente come me e te. E' solo una minaccia, non preoccuparti Parcheggiò e tirò il freno a mano. Scaricammo un ombrellone e una sacca piena di bottiglie d'acqua, merendine, crema solare e asciugamani, quindi percorremmo a piedi Old Orchard Street, che finiva direttamente sulla sabbia. La spiaggia era punteggiata di ombrelloni di tutti i colori e le onde spumose si infrangevano contro le esili travi del molo. Riconobbi un gruppo di ragazzi della scuola che finita l'estate avrebbero frequentato l'ultimo anno e che giocavano a frisbee poco più avanti. - In altri tempi ti avrei proposto di andare a dare un'occhiatina a quei ragazzi laggiù - disse Vee - ma Rixon è così fico che non ne ho nemmeno la tentazione. - Quando dovrebbe arrivare Rixon? - Ehi. Più che allegra mi sembri cinica. Riparandomi gli occhi con la mano, diedi un'occhiata alla costa in cerca di un posto in cui sistemarci. - Te l'ho già detto: odio fare da terzo incomodo -. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era sedermi sotto il sole cocente tutto il pomeriggio a guardare Vee e Rixon che pomiciavano. - Per tua informazione, Rixon ha delle commissioni da fare, ma ha promesso di arrivare per le tre. - Che genere di commissioni? - E chi lo sa? Probabilmente Patch lo ha incastrato chiedendogli di fargli un favore. Patch ha sempre bisogno che Rixon gli sbrighi questo o quello, quando potrebbe benissimo pensarci da solo, o perlomeno pagarlo, invece di approfittarsi di lui. Credi che dovrei mettere la crema solare? Se dopo tutta questa strada non riesco neanche ad abbronzarmi, mi arrabbio davvero. - Rixon non mi sembra tipo da lasciare che gli altri si approfittino di lui. - Non gli altri: Patch. Lo adora. E' una cosa così ingiusta, mi dà il voltastomaco. Patch non è il tipo di persona che mi piacerebbe che il mio ragazzo prendesse a modello. - Si conoscono da una vita. - Sì, ho sentito. Bla bla bla. Probabilmente Patch è un trafficante di droga. No, anzi, di armi, e fa fare a Rixon la parte del mulo sacrificale, che contrabbanda armi gratis rischiando la pelle. Alzai gli occhi al cielo, nascosta dalle lenti dei falsi Ray-Ban. - Rixon si lamenta del loro rapporto? - No - rispose Vee stizzita. - Allora non ti impicciare. La mia amica però non era disposta a lasciar perdere. - Se Patch non è un trafficante d'armi, come fa a procurarsi tutto quel denaro? - Lo sai. - Dimmelo -. Incrociò le braccia al petto. - Dimmi chiaramente come fa a guadagnare tutti quei soldi. - Nello stesso modo di Rixon. - Ecco. Proprio come pensavo: ti vergogni a dirlo ad alta voce. Le lanciai uno sguardo penetrante. - Ma per favore. E' la cosa più stupida che abbia mai sentito. - Davvero? - Vee si diresse verso una signora che, poco lontano, stava costruendo un castello di sabbia insieme a due bambini. - Mi scusi, signora, mi spiace interrompere la sua bellissima attività con i bambini, ma la mia amica vorrebbe dirle come fa il suo ex ragazzo a guadagnarsi da vivere. La afferrai per un braccio e la trascinai via. - Lo vedi? - protestò Vee. - Ti vergogni. Non riesci a dirlo ad alta voce senza che ti si rivolti lo stomaco. - Poker. Biliardo. Ecco, l'ho detto e non sono morta. Soddisfatta? Non capisco quale sia il problema: Rixon si guadagna da vivere nello stesso identico modo. Vee scosse la testa. - Sei proprio fuori strada. Sai che genere di vestiti si compra Patch con il ricavato delle scommesse? -Jeans e magliette? Lei si mise una mano sul fianco. - Sai quanto costano quei jeans? - No - risposi, confusa. - Ti basti sapere che nemmeno li t rovi, a Coldwater. Probabil mente se li fa arrivare da New York. Quattrocento dollari al paio. -Balle. - Mi venga un colpo se non è vero. La scorsa settimana indossava la maglietta di un concerto dei Rolling Stones con l'autografo di Mick Jagger e Rixon mi ha detto che è originale. Non sono certo le fiches a pagare la MasterCard di Patch. Prima che vi mollaste, gli avevi mai chiesto da dove arrivasse davvero tutto quel denaro? O come aveva avuto quella bella jeep fiammante? - L'ha vinta a poker - spiegai. - Se ha vinto una jeep, avrà vinto anche abbastanza soldi per comprarsi un paio di jeans, no? E solo bravo a poker, punto e basta. - Patch ti ha detto di aver vinto la jeep. Rixon sa una storia diversa. Mi scostai i capelli dalle spalle, fingendo che di quella conversazione non mi importasse assolutamente niente. - Ah, sì? E quale sarebbe? -Non lo so, Rixon non ha voluto dirmelo. Ha solo detto: «Patch vuol far credere di aver vinto la jeep, ma per averla si è dovuto sporcare le mani». - Forse hai sentito male. - Già, forse. O forse Patch è un maledetto pazzo che gestisce affari illegali. Le passai un tubetto di crema solare, forse in maniera un po' troppo brusca. – Mettimela sulla schiena, senza tralasciare neanche un pezzetto di pelle. - Io credo che passerò direttamente all'olio abbronzante - disse Vee mentre mi spalmava la crema – Meglio scottarsi un po' che passare la giornata in spiaggia e tornare a casa bianca com'ero prima. Mi voltai indietro torcendo il collo, ma senza riuscire a capire se Vee stesse facendo un buon lavoro. - Anche sorto le bretelline. - Credi che mi arresterebbero se mi togliessi il pezzo di sopra? Odio i segni dell'abbronzatura. - Stesi il telo sotto l'ombrellone e mi sdraiai, facendo attenzione a non lasciare nemmeno i piedi al sole. Vee piazzò il suo telo un po' più in là e si unse le gambe di olio. Immediatamente, rievocai le immagini del cancro alla pelle che avevo visto nello studio del mio medico. - A proposito di Patch, - disse Vee - ci sono novità? Sta ancora insieme a Marcie? - Pare di sì - risposi fredda. Aveva sollevato la questione solo per potermi pungolare ancora. - Be', sai come la penso. Sì, lo sapevo, ma stavo per sentirlo di nuovo, che lo volessi o meno. - Sono degni l'uno dell'altra - continuò infatti lei, spruzzandosi sui capelli la lozione schiarente che riempì l'aria di aroma di limone. - Certo, non dico che durerà. Patch si stuferà di lei e passerà a un'altra. Proprio come ha fatto... - Possiamo cambiare argomento? - la interruppi. Chiusi gli occhi e mi massaggiai la nuca. - Sei sicura di non volerne parlare? Perché mi sembra che tu abbia un sacco di cose per la testa. Sospirai. Non si riusciva a nasconderle nulla. Per quanto potesse essere detestabile, Vee era la mia migliore amica e si meritava la verità, quando potevo dirla. - Mi ha baciata. L'altra sera, dopo che siamo andate alla Sacca del Diavolo. - Lui cosa? Mi coprii gli occhi con le mani. - In camera mia Non potevo certo spiegarle che mi aveva baciata dentro il mio sogno. Il punto era che mi aveva baciata, dove era irrilevante. Oltretutto, non volevo neanche pensare a cosa significasse il fatto che lui potesse infilarsi nei miei sogni. - Lo hai fatto entrare? - Non esattamente, ma è entrato comunque. - Okay - disse Vee. Sembrava in cerca di un modo per replicare alla mia idiozia. - Adesso facciamo una bella cosa. Facciamo un giuramento di sangue. Non guardarmi in quel modo: non sto scherzando. Se facciamo un giuramento di sangue, dovrai mantenerlo oppure ti accadrà qualcosa di veramente brutto, tipo topi che ti rosicchiano i piedi mentre dormi e quando ti svegli ti ritrovi con i moncherini insanguinati. Hai un coltellino tascabile? Ora ne troviamo uno, ci facciamo un taglio sul palmo della mano e poi li premiamo l'uno contro l'altro. E tu giurerai di non rimanere mai più sola con Patch. In questo modo, riuscirai a resistere alle tentazioni.. Mi chiesi se avessi dovuto dirle che non sempre potevo scegliere se stare da sola con Patch. Lui si spostava come il fumo, e se voleva stare da solo con me trovava il modo di farlo. E, nonostante odiassi ammetterlo, non sempre mi dispiaceva. - Ho bisogno di qualcosa di più efficace di un giuramento di sangue - dissi. - Tesoro, questa è roba seria, e spero che tu ci creda perché io ci credo molto. Vado a cercare un coltellino - disse, e fece per alzarsi. La fermai. - Ho il diario di Marcie. - Che... cosa? - farfugliò. - L'ho preso, ma non l'ho letto. - E me lo dici solo adesso? Che cosa ti ha impedito di aprirlo finora? Lascia perdere Rixon, andiamo subito a casa a leggerlo! Sai che Marcie avrà scritto di Patch! - Certo. - E allora che aspetti? Hai paura di quello che potresti trovare? Se vuoi, posso leggerlo prima io, filtrare le cose brutte e poi fornirti le risposte, semplicemente - Se lo leggessi potrei non parlare più con Patch. - Sarebbe un'ottima cosa! La guardai di traverso. - Non so se è quello che voglio. - Oh, tesoro. Non farti questo, è una tortura vederti così! Leggi quello stupido diario e chiudi la cosa. Ci sono altri ragazzi là fuori. Sappilo: non ci sarà mai penuria di ragazzi. - Lo so - dissi, ma era una squallida bugia. Non c'era mai stato nessun ragazzo prima di Patch, come potevo convincermi che ce ne sarebbe stato uno dopo? - Non leggerò il diario, lo restituirò. Sono anni che Marcie e io portiamo avanti questa stupida lotta: è ora di finirla. Vee restò a bocca aperta per un momento, poi disse: - Non puoi finirla dopo aver letto il diario? Perlomeno una sbirciatina? Ti chiedo solo cinque minuti, non di più. - Ho deciso di seguire la strada della correttezza. Vee sospirò. - Non riuscirò a farti cambiare idea, vero? -No. Un'ombra si allungò sulle nostre teste. - Vi spiace se mi unisco a voi, belle signore? Alzammo lo sguardo e ci trovammo davanti Rixon in calzoncini da mare e canottiera, un asciugamano sulle spalle. Aveva un fisico dinoccolato, dall'aspetto sorprendentemente forte e muscoloso, naso aquilino e capelli nerissimi e spettinati che gli ricadevano sulla fronte. Il paio di ali nere tatuato sulla spalla sinistra e un'ombra di barba lo facevano sembrare un malavitoso. Affascinante, allegro e con l'aria di chi sta sempre per combinarne una. - Ce l'hai fatta! - disse Vee, e un sorriso le illuminò il volto. Rixon si lasciò cadere sulla sabbia davanti a noi, un gomito puntato e la guancia appoggiata alla mano. - Che cosa mi sono perso? - Vee vuole farmi fare un giuramento di sangue - risposi Lui alzò un sopracciglio. - Sembra una cosa seria - Crede che servirà a tenere Patch fuori dalla mia vita. Rixon gettò indietro la testa e rise. - Ah, allora buona fortuna! - Ehi, tu - disse Vee. - I giuramenti di sangue sono roba seria. Rixon appoggiò la mano sulla coscia di Vee con un gesto molto intimo e le sorrise affettuosamente. Io provai un'istantanea fitta di invidia. Solo qualche settimana prima, Patch mi avrebbe toccato allo stesso modo e la cosa ironica era che, probabilmente, ogni volta che era stata costretta a uscire con noi due Vee si era sentita allo stesso modo. Questa consapevolezza avrebbe dovuto tenere a freno la mia invidia, ma il dolore era ancora troppo vivo. Come risposta al gesto di Rixon, Vee si piegò verso di lui e lo baciò. Distolsi lo sguardo, ma neanche questo servì ad attenuare i miei sentimenti, che sembravano chiudermi la gola. Rixon si schiarì la voce. - E se andassi a prendere qualche Coca? - chiese. Evidentemente, aveva avuto la sensibilità di notare che ero a disagio. - Vado io - disse Vee, alzandosi e scuotendosi la sabbia di dosso. - Credo che Nora voglia parlare con te Resterei, ma non sono una fan dell'argomento di conversazione. - Eh? - balbettai, perché non ero del tutto sicura di aver capito l'allusione di Vee. Rixon mi sorrise. - Patch - spiegò Vee con l'intenzione di mettere le cose in chiaro, e invece ottenendo solo di rendere l'atmosfera più pesante di quanto non fosse già. Lanciata la palla, se ne andò. Rixon si accarezzò il mento. - Vuoi parlare di Patch? - Veramente no, ma sai com'è fatta Vee: riesce a peggiorare anche la situazione più imbarazzante del mondo. Rixon rise. - Per fortuna non mi imbarazzo facilmente. - Vorrei poter dire la stessa cosa di me, soprattutto in questo momento -Come vanno le cose?- chiese, cercando di rompere il ghiaccio - Con Patch o in generale? - Tutt'e due. - Ho avuto periodi migliori Appena mi resi conto, però, che Rixon avrebbe potuto riferire a Patch la nostra conversazione, mi affrettai ad aggiungere: - Mi sto riprendendo. Posso farti una domanda personale? Riguarda Patch, ma se non hai voglia di rispondermi non c'è problema - Spara. - E' ancora il mio angelo custode? Un po' di tempo la, dopo una litigata, gli ho detto che non volevo più che lo fosse, ma non so come stanno le cose adesso. Non è più il mio angelo custode semplicemente perché l'ho detto io? - E' ancora assegnato a te. - E come mai non lo vedo più in giro? A Rixon brillarono gli occhi. - L'hai lasciato, no? Per lui e difficile. Di solito, ai ragazzi non piace trovarsi intorno le ex. li poi gli arcangeli gli stanno con il fiato sul collo; sta facendo l'impossibile per tenere un comportamento "professionale". - Quindi mi protegge ancora? - Certo. Solo che lo fa tenendosi in disparte. - Chi lo ha assegnato a me? Rixon alzò le spalle. - Gli arcangeli. - C'è un modo per far loro sapere che vorrei essere assegnata a qualcun altro? Non sta andando molto bene, soprattutto dopo la rottura -. Andando molto bene? Era una cosa lacerante. Tutti quegli alti e bassi, vederlo senza poterlo avere... era più che lacerante, era devastante. Lui si passò il pollice sulle labbra. Posso dirti quello che so.ma è molto probabile che le informazioni siano datate. È un po' che sono fuori dal giro. Ironia della sorte, tieniti forte, è che devi fare un giuramento di sangue -Stai scherzando? - Devi farti un taglio nel palmo della mano e far cadere qualche goccia di sangue nella polvere. Non sulla moquette o sul cemento, proprio sulla terra. Poi pronunci il giuramento, dichiarando al paradiso che non hai paura di versare il tuo sangue: polvere eri e polvere ritornerai. Pronunciando il giuramento, rinunci al diritto di avere un angelo custode e dichiari di accettare il tuo destino, senza l'aiuto del cielo. Guarda che non ti sto dicendo di farlo. C'è un ottimo motivo per cui ti hanno dato un custode: qualcuno lassù pensa che tu sia in pericolo e, a istinto, direi che si tratta di qualcosa di più di una semplice paranoia. Non era certo una notizia: sentivo anch'io aleggiare una presenza oscura sul mio mondo, qualcuno che minacciava di offuscarlo. Il fantasma che stava dietro l'illusione della ricomparsa di mio padre, in particolare. Mi venne in mente una cosa. - E se la persona che mi perseguita fosse il mio angelo custode? Rixon scoppiò a ridere. - Patch? -. Sembrava non riuscisse nemmeno a prendere in considerazione una simile eventualità e non c'era da sorprendersi. Rixon ne aveva fatte di cotte e di crude con Patch, e anche se Patch fosse stato colpevole sarebbe rimasto dalla sua parte. Cieca fedeltà, sopra ogni cosa. - Se stesse cercando di farmi del male, qualcuno lo saprebbe? - chiesi. - Gli arcangeli? Gli angeli della morte? Dabria sapeva quando le persone erano vicine alla morte. Un altro angelo della morte potrebbe fermare Patch prima che sia troppo tardi? - Se dubiti di lui ti sbagli di grosso -. Il suo tono era gelido. - Lo conosco meglio di te, prende il suo lavoro di custode molto seriamente. Ma se Patch avesse voluto uccidermi avrebbe architettato l'omicidio perfetto, no? Era il mio angelo custode, aveva il compito di proteggermi. Nessuno avrebbe sospettato di lui... Aveva già avuto la possibilità di uccidermi, però. E non l'aveva sfruttata: aveva sacrificato quello che voleva più di ogni altra cosa, un corpo umano, per salvarmi la vita. Non l'avrebbe fatto se avesse voluto uccidermi. O no? Cacciai dalla mente tutti quei sospetti. Rixon aveva ragione: dubitare di lui, a quel punto, era ridicolo. - E' felice con Marcie? -. Mi zittii di colpo. Non avevo intenzione di fargli quella domanda, mi era scappata involontariamente. Arrossii. Rixon mi guardò, prendendosi del tempo per riflettere prima di rispondere. - Patch per me è la cosa più simile a una famiglia, gli voglio bene come a un fratello, ma non va bene per te. Lo so io, lo sa lui e, in fondo, penso che lo sappia anche tu. Forse non vuoi sentirlo, ma lui e Marcie sono simili. Sono fatti della stessa pasta. Patch dovrebbe avere il diritto di divertirsi un po', e con Marcie può farlo, perché lei non lo ama. Niente di quello che Marcie prova per lui metterà in allarme gli arcangeli. Restammo seduti in silenzio, mentre io cercavo disperatamente di ricacciare indietro le mie emozioni. Avevo messo in allarme gli arcangeli, quindi. Erano stati i miei sentimenti per Patch a esporci, non qualcosa che lui aveva detto o fatto. Stando alla spiegazione di Rixon, Patch non mi aveva mai amata, non mi aveva mai ricambiata. Mi rifiutavo di accettarlo: volevo che Patch mi avesse voluto bene tanto quanto io ne volevo a lui, non volevo pensare di essere stata solo un passatempo per lui. C'era ancora una domanda che volevo fare a Rixon, disperatamente. Se Patch e io fossimo stati ancora in buoni rapporti l'avrei fatta a lui, ma ormai non era possibile. Comunque, Rixon era esperto tanto quanto Patch: sapeva cose che gli altri ignoravano, soprattutto riguardo gli angeli caduti e i Nephilim, e quello che non sapeva riusciva a scoprirlo. In quel preciso istante, la mia unica speranza di trovare la Mano Nera era riposta in Rixon. Mi inumidii le labbra e decisi di togliermi il pensiero. - Hai mai sentito parlare della Mano Nera? Rixon ebbe un sussulto. Mi studiò un momento in silenzio, poi sul suo viso si dipinse un'espressione divertita. - È uno scherzo? Non sentivo quel nome da tantissimo tempo. Credevo che a Patch non piacesse essere chiamato in quel modo. Te l'ha detto lui? Sentii il cuore stringersi in una morsa di gelo. Ero stata sul punto di raccontare a Rixon della busta con l'anello e del biglietto, ma a quel punto avevo scoperto qualcosa più importante. - Mano Nera è il soprannome di Patch? - Non lo usa più da anni. Non gli è mai piaciuto e non l'ha più usato da quando ho iniziato a chiamarlo Patch -. Si grattò una guancia. - Erano gli anni in cui lavoravamo come mercenari per il re di Francia, nel diciottesimo secolo. Agenti segreti. Lavoro piacevole, paga buona. Sembrava mi avessero dato uno schiaffo. Vedevo tutto fuori asse, sbilanciato. Le parole di Rixon mi sfilavano davanti confuse, come se stesse parlando una lingua straniera e io non riuscissi a capirlo. Venni immediatamente bombardata dai dubbi. Non Patch. Non poteva aver ucciso lui mio padre. Chiunque, ma non lui. Lentamente, i dubbi iniziarono a dissolversi, lasciando il posto a nuovi pensieri. Mi ritrovai ad analizzare i singoli eventi, cercando delle prove. La sera in cui avevo dato il mio anello a Patch: non appena avevo detto che me l'aveva regalato mio padre, lui aveva affermato di non poterlo tenere, sembrava irremovibile. E poi il nome Mano Nera: era calzante, anche troppo. Costringendomi a tacere per qualche altro secondo ancora, e tenendo faticosamente a freno le emozioni, scelsi le parole con cura. - Sai qual è la cosa che mi dispiace di più? - dissi nel tono più disinvolto che riuscii a trovare, E' una sciocchezza, e probabilmente riderai - Per rendere la storia ancora più convincente, tirai fuori una risatina frivola che non sapevo neanche di possedere. - Ho lasciato a casa sua la mia felpa preferita. Viene da Oxford, la scuola dei miei sogni - spiegai. - Me l'aveva portata mio padre dall'Inghilterra, ecco perché ha molto valore per me. - Sei stata a casa di Patch? - sembrava sinceramente sorpreso. - Solo una volta. Mia madre era in casa, così siamo andati a guardare un film a casa sua e ho lasciato la felpa sul divano -. Sapevo di camminare su un terreno minato: più dettagli rivelavo, più possibilità avevo di dire cose che non coincidevano con la realtà e, quindi, di tradirmi. Se fossi rimasta troppo sul vago, d'altra parte, avrei rischiato di insospettire Rixon. - Sono colpito. Di solito preferisce mantenere segreto il suo indirizzo di casa. E questo perché? Che cosa aveva da nascondere? Perché Rixon era l'unica persona ammessa nelle sue stanze private? Che cos'è che poteva condividere con Rixon e nessun altro? Non mi aveva mai portata da lui perché sapeva che avrei visto qualcosa che mi avrebbe svelato la verità, cioè che la responsabilità della morte di mio padre era solo sua? - Riprendere quella felpa sarebbe molto importante per me - continuai. Mi sentivo lontana, come se stessi osservando me stessa conversare con Rixon da un paio di metri di distanza. Una me stessa più forte, più intelligente e controllata, stava parlando in quell'istante. E quella persona non ero io. Io ero la ragazza che si sbriciolava come la sabbia che aveva sotto i piedi. - Vacci domattina. Patch esce molto presto, ma se arrivi per le sei e mezza lo trovi. - Non voglio incontrarlo. - Vuoi che te la prenda io alla prima occasione? Probabilmente domani sera, o questo fine settimana al massimo. - Vorrei riaverla il prima possibile, mia madre continua a chiedermi dov'è. Patch mi aveva dato la chiave, e a meno che non abbia cambiato la serratura dovrei riuscire a entrare. Il guaio è che quando ci sono andata era buio e non ricordo come ci si arriva. Non ci ho fatto attenzione, perché non è che avessi in mente di doverci tornare da sola. - Swathmore. Vicino alla zona industriale. Memorizzai l'informazione. Se abitava vicino alla zona industriale, era molto probabile che l'appartamento si trovasse in una delle palazzine ai margini della città vecchia. Non c'erano molte altre possibilità, a meno che non fosse andato a vivere in una delle fabbriche abbandonate o delle baracche lungo il fiume, ma mi sembrava improbabile. Sorrisi, sperando di apparire rilassata. - Sapevo che era da qualche parte vicino al fiume. Ultimo piano, giusto? - dissi, sparando a caso. Avevo la sensazione che Patch non avrebbe gradito di avere gente che gli camminava sopra la testa. - Sì - disse Rixon. - Appartamento trentaquattro. - Sai se Patch è a casa stasera? Non vorrei trovarmelo davanti, soprattutto con Marcie. Voglio solo prendere la mia felpa e andarmene. Rixon tossì discretamente. — Mmm, no... dovresti andare tranquilla -. Si grattò la guancia e mi rivolse uno sguardo nervoso, quasi impietosito. - Vee e io stasera abbiamo appuntamento con Patch e Marcie per andare a vedere un film insieme. Restai di sasso. Mi sentii scoppiare il petto e poi, proprio quando mi sembrava di non riuscire più a mantenere il controllo delle emozioni, ripresi a parlare normalmente. - Vee lo sa? Si grattò la guancia e mi rivolse uno sguardo nervoso, quasi impietosito. - Vee e io stasera abbiamo appuntamento con Patch e Marcie per andare a vedere un film insieme. Restai di sasso. Mi sentii scoppiare il petto e poi, proprio quando mi sembrava di non riuscire più a mantenere il controllo delle emozioni, ripresi a parlare normalmente. - Vee lo sa? - Non ho ancora deciso come dirglielo. - Dirmi cosa? Ci voltammo di scatto, mentre Vee si lasciava cadere a terra con una scatola di cartone piena di lattine di Coca-Cola. — Oh... una sorpresa - disse Rixon. - Ho organizzato una cosa per stasera. Vee sorrise. - Dammi almeno un indizio! Un indizio, per fa- vooore!! Rixon e io ci scambiammo una rapida occhiata, poi mi voltai dall'altra parte. Non volevo essere coinvolta e poi avevo già smesso di ascoltare. La mia mente, come un robot, stava elaborando le informazioni ricevute: stasera, Patch e Marcie, appuntamento, casa di Patch vuota. Dovevo riuscire a entrare. 16 Tre ore dopo, Vee aveva le gambe arrostite, i piedi coperti di vesciche e la faccia rossa e gonfia. Rixon se n'era andato da un'ora e lei e io ci stavamo trascinando ombrellone e sacca da mare su per la traversa di Old Orchard Street - Mi sento strana - disse Vee. - Come se stessi per svenire. Forse avrei dovuto andarci più piano con quell'olio abbronzante. Anch'io ero stordita e fastidiosamente accaldata, ma la mia condizione non aveva niente a che fare con il clima. Avevo un mal di testa lancinante e continuavo a deglutire per cercare di mandare via il saporaccio che avevo in bocca, ma più lo facevo, più la nausea aumentava. Il nome Mano Nera mi rimbalzava in testa come se volesse attirare tutta l'attenzione su di sé e, ogni volta che cercavo di ignorarlo, mi piantava le unghie nell'emicrania. Non potevo pensarci in quel momento, non davanti a Vee, perché sapevo che quando l'avessi fatto sarei crollata. Dovevo riuscire a destreggiarmi con il dolore ancora un po', schivandolo ogni volta che stava per investirmi. Mi aggrappai a una disperazione sorda, rimandando l'inevitabile più che potevo. «Patch. La Mano Nera. Non può essere.» Vee si bloccò di colpo. - Cos'è quello? Eravamo nel parcheggio sul retro della libreria, a pochi metri dalla Neon, a fissare il grosso pezzo di metallo agganciato alla ruota posteriore sinistra. - Credo sia una ganascia - dissi. - Questo lo vedo. Che cosa ci fa attaccata alla mia macchina? - Evidentemente il cartello diceva la verità. - Non fare tanto la saputella. Che facciamo adesso? - Chiamiamo Rixon? - suggerii. - Non sarà contento di dover fare tutta la strada per tornare indietro. Che ne dici di tua madre? E' tornata? - Non ancora. I tuoi genitori? Vee si sedette sul marciapiede e si nascose il viso tra le mani. - Oddio, costerà una fortuna far togliere le ganasce. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Mia madre mi chiuderà in convento Mi sedetti accanto a lei e insieme valutammo il da farsi. - Non abbiamo altri amici? - chiese Vee. - Qualcuno a cui possiamo chiedere di venirci a prendere senza troppi sensi di colpa? Per esempio, non mi sentirei in colpa a far venire fin qui Marcie, ma sono quasi sicura che lei non lo farebbe. Non per noi, soprattutto. Tu sei amica di Scott: credi che verrebbe? Aspetta un secondo... ma quella non è la jeep di Patch? Seguii il suo sguardo, fino in fondo alla via, nel punto in cui incrociava Imperiai Street. Parcheggiata sul lato opposto di Imperiai Street c'era una Jeep Commander nero fiammante. I finestrini scuri riflettevano la luce del sole. Sentii i battiti del cuore accelerare. Non potevo incontrare Patch. Non lì, non ancora. Non quando l'unica cosa che impediva alle lacrime di straripare era una diga costruita con cura, ma le cui fondamenta si incrinavano ogni secondo di più. - Dev'essere qui, da qualche parte - disse Vee. - Mandagli un messaggio e digli che siamo rimaste a piedi. Anche se non mi piace, accetterò un passaggio a casa. Piuttosto che mandare un messaggio a Patch lo mando a Marcie -. Speravo che Vee non notasse la punta di angoscia e disgusto nella mia voce. «La Mano Nera... la Mano Nera... non Patch... ti prego, non Patch... un errore, una spiegazione...» La testa iniziò a bruciarmi, come se il mio corpo mi stesse avvertendo che era ora di smettere di tormentarmi, per il mio bene. - Chi altro possiamo chiamare? - disse Vee. Sapevamo benissimo chi altro potevamo chiamare. Nessuno. Eravamo due sfigate senza amici. Nessuno ci doveva dei favori. L'unica persona che avrebbe mollato tutto per venire in mio aiuto era seduta accanto a me. E viceversa. Rivolsi ancora la mia attenzione alla jeep. Mi alzai di scatto e dissi: - Prendiamo la jeep -. Non so che tipo di messaggio volessi mandare a Patch. Occhio per occhio? Tu mi hai ferito, io ti ferisco? O se hai davvero qualcosa a che fare con la morte di mio padre, questo è solo l'inizio... - Ma Patch non andrà fuori di testa quando vedrà che gli hai rubato la macchina? - chiese Vee. - Non me ne importa niente. Non ho intenzione di starmene seduta qui tutta la sera. - Questa cosa non andrà a finire bene, me lo sento. Patch non mi piace quando è normale, figuriamoci quando è arrabbiato. - Che ne è stato del tuo spirito d'avventura? -. Ero in preda a un desiderio furioso: volevo soltanto prendere la jeep e mandare un messaggio a Patch. Vedevo la jeep che andava a sbattere contro un albero, non così forte da far aprire gli airbag, ma quel tanto che bastava a lasciare una bella ammaccatura. Un ricordino da parte mia. Un avvertimento. - Il mio spirito d'avventura si ferma un passo prima di una missione suicida - disse Vee. - Quando capirà che sei stata tu, ci sarà poco da divertirsi. La parte razionale della mia mente avrebbe potuto ordinarmi di fare un passo indietro, ma purtroppo ogni logica mi aveva abbandonata. Se aveva fatto del male alla mia famiglia, se aveva distrutto la mia famiglia, se mi aveva mentito... - Sai anche rubare le macchine? chiese Vee. - Me l'ha insegnato Patch. Non sembrò convinta. - Vuoi dire che l'hai visto fare a Patch e ora vuoi provarci? Mi avviai a grandi passi verso Imperiai Street, con Vee dietro. Mi accertai che non arrivassero macchine e attraversai la strada in direzione della jeep. Provai ad aprire la portiera. Chiusa. - In casa non c'è nessuno - disse Vee dopo aver sbirciato da uno dei finestrini. - Credo che dovremmo andarcene. Dai, Nora, allontanati dalla jeep. - Abbiamo bisogno di una macchina, siamo a piedi. - Abbiamo sempre due gambe, la destra e la sinistra; le mie hanno voglia di fare un po' di esercizio, anzi sono proprio in vena di una bella passeggiata... Ma sei pazza? - urlò. Avevo l'ombrellone puntato contro il finestrino del conducente. — Che c'è? - dissi. - Dobbiamo pur entrare. -Metti giù l'ombrellone! Se spacchi il vetro della macchina attirerai l'attenzione di tutti. Che ti prende?-. Mi guardava stralunata. Un'immagine mi attraversò la mente. Vidi Patch davanti a mio padre, la pistola in mano. Il rumore di uno sparo squarciò il silenzio. Mi piegai, puntando le mani sulle ginocchia; sentivo le lacrime bruciarmi in fondo agli occhi. Il terreno iniziò a oscillare, ero in un vortice nauseante e il sudore mi imperlava le tempie. Mi sentii soffocare, sembrava che improvvisamente tutto l'ossigeno fosse sparito dall'aria e più cercavo d'inspirare, più mi si chiudevano i polmoni. Vee mi stava urlando qualcosa, ma la voce arrivava da lontano, come un suono che si propaga sott'acqua. All'improvviso il terreno si fermò. Feci tre respiri brevi. Vee mi stava ordinando di sedermi, gridava qualcosa a proposito di un colpo di calore, ma io mi liberai dalla sua stretta. - Sto bene - dissi, e alzai la mano quando vidi che Vee si stava avvicinando di nuovo. - Sto bene. Per farle vedere che era vero, mi chinai a raccogliere la sacca, che doveva essermi caduta, e fu allora che vidi il luccichio dorato della chiave dì scorta della jeep, quella che avevo rubato dalla camera da letto di Marcie la sera della festa. - Ho uria chiave della jeep - dissi, e quelle parole sorpresero me per prima. Vee corrugò la fronte. - Patch non ti ha mai chiesto di restituirgliela? - Non me l'ha mai data. L'ho trovata nella stanza di Marcie martedì sera. - Cavolo! Infilai la chiave nella serratura, salii in auto e portai avanti il sedile, quindi misi in moto e afferrai il volante con tutt'e due le mani. Nonostante il caldo, erano fredde e nervose. - Non stai pensando di fare altri danni, vero? Ce ne andiamo a casa e basta - chiese Vee prendendo posto accanto a me. - No, perché ti pulsa la vena della tempia e l'ultima volta che l'ho vista così è stato un minuto prima che prendessi a pugni Marcie alla Sacca del Diavolo. Mi inumidii le labbra, che erano ruvide e gommose allo stesso tempo. - Ha dato a Marcie la chiave di scorta della jeep: si meriterebbe che gliela parcheggiassi in fondo all'oceano. - Forse aveva una buona ragione - obiettò Vee nervosa. Feci una risatina acuta. - Non farò nulla prima di averti portato a casa -. E partii sgommando. - Giuri che aggiungerai questa postilla quando cercherai di spiegare a Patch perché hai rubato la sua macchina? - Non la sto rubando. Siamo rimaste a piedi: tecnicamente la stiamo prendendo in prestito. - Tecnicamente sei pazza -. Vee era disorientata dalla mia rabbia, si vedeva da come mi guardava: mi sembrava di leggerle negli occhi la parola "irrazionale". Forse ero irrazionale. Forse mi ero spinta troppo oltre. «Due persone possono avere lo stesso soprannome» pensai, cercando di convincermi. Era possibile. «È possibile, è possibile, è possibile.» Speravo che a furia di dirlo ci avrei creduto, ma nel mio cuore il posto riservato alla fiducia era vuoto. - Andiamocene da qui - disse Vee in un tono prudente e spaventato, che non aveva mai usato con me. - Appena arriviamo a casa mia ci prendiamo una limonata, poi possiamo guardare un po' di Tv, magari fare un pisolino. Devi lavorare stasera? Stavo per dirle che Roberta non mi aveva messa di turno quella sera, quando inchiodai. - Che cos'è quello? Vee seguì il mio sguardo. Si piegò e tirò fuori dal cruscotto un triangolino di stoffa rosa, quindi fece dondolare il pezzo di sopra di un bikini davanti a noi. Ci guardammo e pensammo la stessa cosa. Marcie. Non c'erano dubbi, in quel preciso momento era lì con Patch. Sulla spiaggia. Sdraiata sulla sabbia. A fare chissà che. Fui investita da una violenta ondata d'odio. Lo odiavo. E odiavo me stessa per avergli permesso di aggiungere il mio nome all'elenco delle ragazze che aveva sedotto e tradito. Desiderai impetuosamente vendetta: non sarei stata una delle tante. Non poteva farmi sparire. Se era davvero la Mano Nera, lo avrei scoperto. E se aveva avuto anche solo qualcosa a che fare con la morte di mio padre, gliel'avrei fatta pagare. - Può tranquillamente trovarsi un passaggio a casa - dissi, con il mento tremante. Ripartii a tutto gas, lasciando la strisciata nera degli pneumatici sull'asfalto. Qualche ora dopo, ero in piedi davanti al frigorifero aperto e cercavo di trovare qualcosa che potesse essere chiamato cena. Visto che non saltava fuori nulla, passai alla stretta dispensa accanto al frigo e feci la stessa cosa. Alla fine, decisi di preparare un piatto di farfalle con salsa di pomodoro e salsiccia. Quando suonò il timer del fornello, scolai la pasta e la versai in una fondina, quindi misi il sugo nel microonde. Avevamo finito il parmigiano, quindi decisi che del cheddar grattugiato andava bene lo stesso. Presi il sugo caldo dal microonde e lo versai sulla pasta insieme al formaggio, quindi mi voltai per andare a sedermi a tavola e mi trovai di fronte Patch. Per poco non mi cadde il piatto dalle mani. - Come sei entrato? - chiesi. - Dovresti tenere la porta chiusa, soprattutto quando sei in casa da sola. - Sembrava rilassato, ma gli occhi - color del marmo, neri e penetranti - lo tradivano. Non c'era dubbio che sapesse che gli avevo rubato io la jeep. Anche perché era parcheggiata nel vialetto. In una casa circondata da campi e boschi non mancavano certo i posti in cui poter nascondere un'auto, solo che io, disgustata e sconvolta com'ero, non ci avevo pensato. Di colpo, tutto aveva acquistato significato: le sue parole melliflue, gli occhi scuri e lucenti, la sconfinata esperienza in fatto di bugie, seduzione, donne. Mi ero innamorata del diavolo. - Hai preso la jeep - disse, calmo ma non divertito. -Vee ha parcheggiato in divieto di sosta e hanno messo le ganasce alla macchina. Dovevamo tornare a casa, quando ho visto la jeep parcheggiata lì vicino -. Avevo le mani sudate, ma non mi azzardavo ad asciugarmele. Non davanti a Patch. Sembrava diverso, quella sera. Più severo, duro. La luce fioca della cucina delineava il profilo dei suoi zigomi e i capelli corvini, arruffati a causa della giornata di mare, gli ricadevano sulla fronte, fin quasi alle ciglia, spudoratamente lunghe. La bocca, che avevo sempre ritenuto sensuale, era piegata in una smorfia cinica, niente a che vedere con un sorriso. -Non potevi avvertirmi? - chiese. - Non avevo il cellulare. -E Vee? - Non ha il tuo numero. E io non ricordavo il tuo numero nuovo: non c'era modo di mettersi in contatto con te. - Tu non hai le chiavi della jeep. Come hai fatto a entrare? Feci di tutto per non guardarlo in modo da tradirmi. - La chiave di scorta. Vidi che cercava di capire fin dove volessi arrivare. Sapevamo entrambi che non mi aveva mai dato una chiave di scorta. Lo fissai attentamente per vedere se afferrava che stavo parlando della chiave di Marcie, ma non vidi accendersi nessuna luce nel suo sguardo. Era impenetrabile, controllato, indecifrabile. - Quale chiave di scorta? Quella frase mi fece infuriare, perché mi aspettavo che alla fine avrebbe capito a quale chiave mi riferivo. Quante chiavi di scorta aveva? Quante ragazze avevano la chiave della sua jeep in borsa? - Quella della tua ragazza - risposi. - O non ti è ancora chiaro? - Vediamo se ho capito. Hai rubato la jeep per vendicarti del fatto che ho dato a Marcie una chiave di scorta? - Ho rubato la jeep perché Vee e io ne avevamo bisogno - risposi con freddezza. - Una volta c'eri sempre quando avevo bisogno di te. Credevo fosse ancora così, ma evidentemente mi sbagliavo. Patch non distolse lo sguardo. - Vuoi dirmi qual è il vero problema?-. Visto che non rispondevo, prese una delle sedie intorno al tavolo della cucina, si sedette, incrociò le braccia e stese le gambe. - Ho tutto il tempo. La Mano Nera. Ecco il vero problema. Ma avevo paura di affrontare Patch, paura di ciò che avrei potuto scoprire e di come lui avrebbe potuto reagire. Ero sicura che non immaginava minimamente quante cose sapessi. Se lo avessi accusato di essere la Mano Nera sarebbe stata una strada senza ritorno: avrei dovuto affrontare la realtà, e mi avrebbe squassato fino in fondo all'anima. Patch sollevò un sopracciglio, - Tattica del silenzio? - Il problema è la verità - dissi. - Una cosa che non mi hai mai detto -. Se aveva ucciso mio padre, come aveva potuto guardarmi negli occhi tutto quel tempo, dirmi quanto era dispiaciuto e non dirmi la verità? Come aveva potuto baciarmi, accarezzarmi, prendermi tra le braccia e fare finta di niente? - Una cosa che non ti ho mai detto? Non ti ho mai mentito, dal primo giorno che ti ho incontrata. Quello che avevo da dirti non sempre ti è piaciuto, ma io sono sempre stato onesto. - Mi hai fatto credere di amarmi. Una bugia! - Mi spiace ti sia sembrata una bugia -. Non era dispiaciuto. Aveva un'ombra di gelida furia negli occhi, detestava il fatto che lo stessi sfidando. Voleva che fossi come tutte le altre ragazze, che sparissi dal suo passato senza fare tante storie. - Se avessi davvero provato qualcosa per me, non ti saresti messo con Marcie a tempo di record. - Non ti sei messa anche tu con Scott a tempo di record? Hai preferito un mezzo uomo a me. - Mezzo uomo? Scott è una persona. - È un Nephilim Fece un gesto brusco in direzione della porta d'ingresso. - La jeep vale molto di più. - Forse lui pensa la stessa cosa degli angeli. Alzò le spalle con pigrizia e arroganza. - Ne dubito. Se non fosse per noi, la sua razza neanche esisterebbe. - Frankenstein non amava il suo creatore. - E allora? - La razza dei Nephilim sta già cercando di vendicarsi degli angeli. Forse questo è solo l'inizio. Patch si tolse il cappellino da baseball e si passò la mano tra i capelli. Dal suo sguardo capii che la situazione era molto più pericolosa di quanto pensassi. Quanto ci avrebbe messo la razza dei Nephilim a sopraffare gli angeli caduti? Sicuramente non ce l'avrebbe fatta per il prossimo Cheshvan. Patch non poteva pensare che in meno di cinque mesi frotte di angeli caduti avrebbero assalito, e magari ucciso, decine di migliaia di umani. Il modo in cui si comportava, però, e lo sguardo che aveva negli occhi mi dicevano che era esattamente quello che si aspettava. - Che cosa hai intenzione di fare? - gli chiesi, inorridita. Lui prese il bicchiere d'acqua che avevo messo in tavola per me e ne bevve un sorso. - Mi hanno ordinato di starne fuori. - Gli arcangeli? - La razza Nephilim è malvagia. Non avrebbe mai dovuto abitare la Terra. Esiste a causa dell'orgoglio degli angeli caduti e gli arcangeli non vogliono avere niente a che fare con loro, quindi non interverranno in questioni che coinvolgono i Nephilim. - E tutti gli umani che moriranno? - Gli arcangeli hanno un piano. Talvolta perché accadano le cose belle devono prima accadere cose brutte. - Piano? Che piano? Guardare morire delle persone innocenti? - I Nephilim stanno per cadere nella trappola tesa da loro stessi. Se per annientare la razza Nephilim devono morire delle persone, gli arcangeli correranno il rischio. Mi si drizzarono i capelli in testa. - E tu sei d'accordo con loro? - Io sono un angelo custode adesso. Devo fedeltà agli arcangeli -. Gli occhi gli si accesero di una fiammata di odio, che per un attimo credetti fosse diretto a me, come se mi desse la colpa di ciò che era diventato. Allora provai un moto di collera. Aveva dimenticato quello che era successo quella notte? Avevo sacrificato la mia vita per lui e lui l'aveva rifiutata. Se voleva prendersela con qualcuno, quel qualcuno non ero certo io! - Quanto sono forti i Nephilim? - chiesi. - Abbastanza -. La sua voce era priva di preoccupazione in modo inquietante. - Potrebbero respingere l'attacco degli angeli caduti già dal prossimo Cheshvan, vero? Lui annuì. Mi strinsi le braccia attorno al corpo, come a proteggermi da un brivido che però era più psicologico che fisico. - Devi fare qualcosa. Chiuse gli occhi. - Se gli angeli caduti non possono possedere i Nephilim, passeranno agli umani - dissi, cercando di sfondare quell'atteggiamento non interventista per raggiungere la sua coscienza. - L'hai detto tu. Decine di migliaia di umani. Magari Vee. Mia madre. Io stessa. Ancora silenzio. - Non te ne importa niente? Diede un'occhiata all'orologio e si alzò. - Mi spiace dover scappare lasciando le cose a metà, ma sono in ritardo -. La chiave di scorta della jeep era in una ciotola sulla credenza, l'afferrò e se la mise in tasca. - Grazie per la chiave. Aggiungerò il prestito della jeep al tuo conto. Mi piazzai davanti la porta. - Il mio conto? - Ti ho riportata a casa da quella sala biliardo, ti ho fatta scendere dal tetto di Marcie e ora ti ho lasciato usare la mia auto. I favori si pagano. Non mi sembrava che stesse scherzando, anzi, mi sembrava assolutamente serio. - Potresti pagarmi dopo ogni singolo favore, ma ho pensato che fosse più semplice tenere un conto -. Le labbra si sollevarono in un sorrisetto ironico. Un sorrisetto da stronzo di prima categoria. Gli lanciai un'occhiataccia. - Ti diverti proprio, vero? - Uno di questi giorni verrò a farmi pagare tutti i favori che mi devi, e allora sì che sarà divertente. - Non sei stato tu a prestarmi la jeep - dichiarai. - L'ho rubata. E non si è trattato di un favore: me la sono presa e basta. Guardò di nuovo l'orologio. - Temo che dovremo finire questa conversazione un'altra volta. Devo proprio andare. - Certo! - esclamai. - Al cinema con Marcie. Vai pure a divertirti mentre il mio mondo è in bilico Dissi a me stessa che volevo che se ne andasse. Se la meritava proprio, Marcie. Non m'importava nulla. Fui tentata di tirargli addosso qualcosa, di sbattere la porta alle sue spalle. Ma non l'avrei lasciato andar via senza avergli prima fatto la domanda che logorava tutti i miei pensieri. Piantai i denti nella guancia per evitare che la voce si affievolisse. - Tu sai chi ha ucciso mio padre? -. Quella voce fredda e controllata non era la mia. Era la voce di una persona piena di odio, devastazione, accusa fino alla punta dei capelli. Patch, che mi dava le spalle, si fermò. - Che cosa è successo quella sera? -. Non cercai neanche di nascondere la disperazione che provavo. Dopo un attimo di silenzio, lui disse: - Sembra che tu creda che io possa saperlo. - So che sei la Mano Nera Chiusi gli occhi, in preda a un capogiro che mi fece venire un attacco di nausea. Lui si voltò a guardarmi. - Chi te l'ha detto? - Allora è vero? Mi resi conto che le mie mani, strette a pugno lungo i fianchi, stavano tremando. - Tu sei la Mano Nera -. Lo guardai in faccia, pregando che in qualche modo confutasse quell'accusa. La pendola dell'ingresso batté cupamente le ore, - Vattene - dissi. Non avrei pianto davanti a lui. Mi rifiutai di farlo, non gli avrei dato quella soddisfazione. Lui restò immobile, il viso attraversato da un'ombra gelida, quasi satanica. I rintocchi della pendola echeggiarono nel silenzio. Uno, due, tre. - Te la farò pagare - dissi, di nuovo con quell'irriconoscibile voce aliena. Quattro, cinque. - Troverò un modo. Meriti di andare all'inferno. Mi dispiacerebbe solo se gli arcangeli riuscissero a mandartici prima che lo faccia io. Un lampo nero, intenso, gli attraversò lo sguardo. - Meriti il peggio - gli dissi. - Ogni volta che mi baciavi e mi tenevi stretta, sapendo quello che avevi fatto a mio padre... -. La voce mi si strozzò in gola e mi voltai. Ero crollata nel momento meno opportuno. Sei. - Vattene - dissi. Alzai lo sguardo carico di rabbia: volevo che se ne andasse con l'immagine dei miei occhi pieni di odio e disgusto, ma ero sola. Mi guardai intorno, non c'era più. Uno strano silenzio si installò tra le ombre, e mi resi conto che la pendola aveva smesso di battere. Le lancette erano ferme sul sei e sul dodici, bloccate nel momento esatto in cui Patch se n'era andato. 17 Mi tolsi la tenuta da mare per indossare un paio di jeans scuri, una maglietta e la giacca a vento nera Razorbills che avevo vinto l'anno prima alla festa di Natale dell'e-zine. Anche se il pensiero mi rivoltava lo stomaco, dovevo esaminare l'appartamento di Patch, e dovevo farlo quella sera, prima che fosse troppo tardi. Era stato stupido dire a Patch che sapevo che lui era la Mano Nera. Mi era scappato in un momento di imprudenza dovuta all'ostilità che provavo. Avevo perso il vantaggio dell'effetto sorpresa. Dubitavo che Patch mi considerasse una minaccia, anzi, probabilmente la mia promessa di mandarlo all'inferno gli era sembrata una battuta di umorismo nero. Stando alle mie informazioni, aveva fatto di tutto per tenere nascosto il suo coinvolgimento nell'omicidio di mio padre. E da quello che sapevo sugli onniscienti e onniveggenti arcangeli, non doveva essere stato facile. Quindi, anche se io non potevo mandarlo all'inferno, potevano provvedere gli arcangeli. Se avessi trovato il modo di contattarli, il segreto custodito da Patch con tanta cura alla fine sarebbe venuto alla luce. Gli arcangeli stavano cercando una scusa per liberarsi di lui? Bene, l'avrebbero avuta. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, ma cercai di ricacciarle subito indietro. Una volta non avrei mai potuto credere che Patch potesse aver ucciso mio padre. La sola idea mi sarebbe sembrata ridicola, assurda, offensiva. Questo però non faceva che dimostrare quanto fosse stato bravo a ingannarmi. Tutto portava a pensare che l'appartamento di Swathmore fosse il posto in cui nascondeva i suoi segreti, il suo unico punto debole. A eccezione di Rixon, nessuno era autorizzato a entrarci. Quel giorno, quando avevo detto a Rixon di esserci stata, era rimasto sinceramente sorpreso. «Di solito preferisce mantenere segreto il suo indirizzo di casa» aveva detto. Era riuscito a tenerlo segreto anche agli arcangeli? Sembrava altamente improbabile, ai limiti dell'impossibile, ma Patch aveva dimostrato di essere bravissimo ad aggirare gli ostacoli che trovava sul suo cammino e se c'era qualcuno abbastanza intraprendente o furbo da fargliela sotto al naso, quello era lui. Nel chiedermi che cosa avrei potuto trovare nel suo appartamento, rabbrividii. Avvertivo una sensazione di inquietudine, quasi un presagio del fatto che non avrei dovuto andarci. Però sentivo di doverlo a mio padre: dovevo consegnare alla giustizia chi l'aveva assassinato. Recuperai una torcia elettrica finita sotto il letto e la infilai nella tasca della giacca. Mentre mi rialzavo, mi cadde l'occhio sul diario di Marcie, appoggiato sopra una fila di libri sullo scaffale. Riflettei un momento, sentendomi pungere la coscienza. Alla fine, con un sospiro, misi in tasca anche diario, chiusi la porta di casa e mi incamminai. Arrivai a piedi fino alla Beech, quindi presi un autobus per Her- ring Street. Feci un altro pezzo di strada a piedi fino alla Keate e salii su un altro autobus. Arrivata sulla Clementine, presi la strada panoramica che si snodava su per la collina e che portava al quartiere in cui viveva Marcie, sicuramente più elegante di Coldwater. La sera profumava di erba appena tagliata e di ortensie; non c'era traffico. Le auto venivano accuratamente messe al sicuro nei garage, così le strade sembravano più ampie e pulite. Le finestre delle case coloniali riflettevano lo splendore dei colori del tramonto. Immaginai le famiglie riunite per cena dietro le persiane. Di colpo venni assalita da un'ondata di rimpianto inconsolabile e mi morsi il labbro. La mia famiglia non si sarebbe mai più seduta intorno a un tavolo. Cenavo da sola o a casa di Vee tre volte la settimana; le altre quattro sere, quando mia madre era a casa, mangiavamo sul divano davanti alla Tv. Per colpa di Patch. Girai sulla Brenchley e iniziai a fare il conto alla rovescia delle case che mi separavano da quella di Marcie. Parcheggiata nel vialetto c'era la sua Toyota 4Runner rossa, ma io sapevo che non era in casa. Sicuramente Patch era passato a prenderla con la jeep per andare al cinema. Stavo attraversando il giardino con l'intenzione di lasciarle il diario nella veranda, quando la porta d'ingresso si aprì. Marcie, la borsa a tracolla e le chiavi in mano, si bloccò appena mi vide. - Che ci fai qui? Aprii la bocca, ma prima che riuscissi ad articolare parola passarono tre secondi buoni. - Non... non credevo che fossi a casa. Lei socchiuse gli occhi. - Be', invece ci sono. - Pensavo che tu... e Patch... - farfugliai. Avevo il diario in mano, in bella vista. Se ne sarebbe accorta da un momento all'altro. - Ha disdetto - mi rispose bruscamente, come a intendere che non erano affari miei. Io però non la stavo ascoltando. Da un momento all'altro avrebbe visto il diario. Mai come in quel momento, desiderai di poter tornare indietro nel tempo. Avrei dovuto rifletterci bene, prima di andare lì. Avrei dovuto immaginare che esisteva la possibilità che Marcie fosse a casa. Mi guardai nervosamente alle spalle, fissando la strada come se potesse venire, chissà come, in mio soccorso. Marcie emise un sibilo, il suono dell'aria che le passava tra i denti. - Che ci fai con il mio diario? Mi voltai di scatto, il viso in fiamme. Lei scese di corsa dalla veranda, mi strappò il diario dalle mani e d'istinto lo strinse al petto. - Tu... l'hai preso? Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. - L'ho preso la sera della tua festa -. Scossi la testa e aggiunsi: - E' stata una cosa stupida, mi dispiace... - L'hai letto? - domandò. -No. - Bugiarda - disse sprezzante. - L'hai letto eccome, chi non l'avrebbe fatto? Ti odio! La tua vita è così noiosa da dover ficcare il naso nella mia? Hai letto tutto o solo le parti su di te? Stavo per negare categoricamente di averlo aperto, ma alle parole di Marcie dovetti fermare e riavvolgere i pensieri. Su di me? Che cosa hai scritto di me? Lei lanciò il diario nella veranda e poi raddrizzò le spalle. — Che m'importa?-. Incrociò le braccia al petto e mi rivolse uno sguardo furibondo. - Adesso conosci la verità. Come ci si sente a sapere che la propria madre si scopa i mariti delle altre? Feci una risata incredula e piena di collera. - Scusa? - Credi davvero che tua madre sia fuori città tutte quelle notti? Imitai la postura di Marcie. - Certo che sì -. Che cosa stava insinuando? - Allora come ti spieghi che una volta la settimana la sua auto è parcheggiata in fondo alla strada? - L'hai scambiata per qualcun'altra - dissi. Ormai ribollivo letteralmente di rabbia. Finalmente avevo capito dove voleva andare a parare. Come si permetteva di accusare mia madre? E con suo padre, per giunta. Se anche fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della Terra, mia madre non ci sarebbe mai andata, neanche morta. Odiavo Marcie e mia madre lo sapeva. Non andava a letto con suo padre. Non mi avrebbe mai fatto una cosa simile, né l'avrebbe fatta a mio padre. Mai. - Taurus beige, targa X4I24? -. La voce di Marcie era gelida. - E allora? Conosci il suo numero di targa - dissi dopo un momento, cercando di ignorare la fitta al petto. - Non prova nulla. - Svegliati, Nora. I nostri genitori si conoscevano dal liceo. Tua madre e mio padre. Stavano insieme. - E' una bugia. Mia madre non mi ha mai raccontato niente di tuo padre. - Perché non vuole che tu lo sappia -. Iniziarono a luccicarle gli occhi mentre aggiungeva: - Perché sta ancora con lui: è il suo piccolo sporco segreto. Scossi la testa con forza, come una bambola rotta. - Magari mia madre conosceva tuo padre al liceo, ma è stato tanto tempo fa, prima che incontrasse mio papà. L'hai presa per qualcun'altra. Quella che hai visto parcheggiata in fondo alla strada è la macchina di un'altra. Quando non è a casa, lei è fuori città, a lavorare. - Io li ho visti insieme, Nora. Era tua madre, quindi lascia perdere le scuse, non provarci nemmeno. Quel giorno sono venuta a scuola e ho scritto un messaggio per lei sul tuo armadietto. Non capisci? - sibilò disgustata. - Erano a letto insieme. L'hanno sempre fatto, per tutti questi anni. Questo significa che mio padre potrebbe essere anche il tuo. Che tu potresti essere mia... sorella. Le parole di Marcie si abbatterono fra noi come una mannaia. Mi strinsi le braccia intorno al corpo e mi voltai, con l'impressione di essere sul punto di vomitare. Mi sentivo la gola stretta, le lacrime bruciare in fondo agli occhi. Senza dire una parola, percorsi rigida il vialetto, temendo che Marcie potesse urlarmi dietro qualcosa, qualcosa di peggio. Ma non c'era niente di peggio da dire. Non andai a casa di Patch. Dovevo aver percorso tutta la Clementine in senso inverso, superato la fermata dell'autobus, il parco e la piscina pubblica, perché mi ritrovai seduta su una panchina dei giardini di fronte alla biblioteca, illuminata dal cono di luce di un lampione. La serata era calda, ma avevo le ginocchia raccolte contro il petto e tremavo in modo convulso, la testa piena di un groviglio di ipotesi ossessionanti. Fissavo l'oscurità che mi avvolgeva. In lontananza, i fari delle auto si avvicinavano e passavano oltre; le risate di una sitcom, dall'altra parte della strada, uscivano da una finestra aperta; folate di aria fredda mi facevano venire la pelle d'oca sulle braccia; il forte odore di erba, muschiata e umida, mi soffocava. Sdraiata sulla panchina, gli occhi chiusi contro il cielo spolverato di stelle, intrecciai sulla pancia le mani tremanti, le dita come rametti congelati. Mi chiesi perché mai la vita a volte dovesse fare tanto schifo, perché dovessero essere le persone che amavo di più a deludermi nel modo più crudele. A chi avrei dovuto rivolgere tutto il mio odio? Marcie, suo padre, mia madre? Nel profondo, mi aggrappavo alla speranza che Marcie avesse torto. Speravo di poterglielo rinfacciare, un giorno, ma la sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco mi diceva che avrei ricevuto una gran delusione. Non riuscivo a inquadrare bene il ricordo, ma risaliva all'anno precedente o giù di lì. Forse subito prima della morte di mio padre... no. Dopo. Era una bella giornata primaverile. C'era stato il funerale, il periodo di lutto era finito ed ero tornata a scuola. Vee mi aveva convinta a saltare le lezioni e io, in quei giorni, non riuscivo a opporre molta resistenza. Mi lasciavo trasportare dalla corrente. Tiravo avanti. Convinte che mia madre fosse al lavoro, ci incamminammo verso casa mia, pensando che ci avremmo impiegato l'equivalente della settima e ultima ora di lezione ad arrivare. E c'eravamo quasi, quando Vee mi trascinò via dalla strada. «C'è una macchina nel vialetto di casa tua» disse. «Di chi può essere? Sembra una Land Cruiser.» «Non è certo di tua madre.» «Credi che sia di un detective?» Era improbabile che un poliziotto guidasse un Suv da sessantamila dollari, ma ero talmente abituata al fatto che casa mia fosse sempre piena di poliziotti che fu la prima cosa che mi venne in mente. «Avviciniamoci.» Eravamo a un passo dal vialetto, quando la porta d'ingresso si aprì e si udirono delle voci. Quella di mia madre... e una più profonda. La voce di un uomo. Vee mi tirò da una parte, in modo che non potessimo essere viste. Vedemmo Hank Millar salire sulla Land Cruiser e andarsene. «Oh cavolo» disse Vee. «Avrei pensato male di chiunque altro, ma tua madre è la persona più corretta che io conosca. Scommetto che stava cercando di venderle un'auto.» «Ed è venuto fin qui per questo?» «Certo! I venditori di auto non guardano in faccia niente e nessuno.» «Ma lei ha già un'auto.» «Una Ford. La peggior nemica della Toyota. Il padre di Marcie non sarà contento finché tutta la città non andrà in giro sulle sue Toyota.» E se invece non fosse stato lì per venderle una macchina? E se avessero avuto una storia? Dove potevo andare a quel punto? A casa? No, lì non mi sentivo più a casa. Non la sentivo più come un luogo caldo e sicuro, ma come una grossa scatola piena di bugie. I miei genitori avevano spacciato il loro matrimonio come una vera storia d'amore, unione e famiglia. Ma se Marcie aveva detto la verità - e la mia paura più grande era che fosse proprio così - la mia famiglia era un bluff. Una grossa bugia della quale non avevo mai intuito niente. Possibile che non ci fossero mai stati segnali d'allarme? Non avrei dovuto immaginare qualcosa? Così da poter dire, almeno adesso, di averlo sempre sospettato in fondo, ma mai ammesso per paura della dolorosa verità? Ecco, era la mia punizione per aver sempre avuto fiducia negli altri. Era la mia punizione per aver sempre cercato il bene nelle persone. Odiavo Patch, ma invidiavo la sua freddezza. Lui vedeva sempre il lato peggiore negli altri: per quanto cadessero in basso, lui non rimaneva mai sorpreso. Era duro ed esperto, e la gente lo rispettava per questo. Lo rispettavano, mentre a me mentivano. Mi tirai su di scatto e composi il numero di cellulare di mia madre. Non sapevo che cosa avrei detto: mi sarei lasciata guidare dalla rabbia e dal risentimento. Mentre il telefono squillava, grosse lacrime calde mi rotolarono sulle guance. Le asciugai con un gesto brusco. Mi tremava il mento e avevo tutti i muscoli del corpo tesi. Mi vennero in mente una serie di parole rabbiose, piene di astio, e mi immaginai di urlargliele contro, interrompendola ogni volta che avesse cercato di difendersi con altre bugie. E se si fosse messa a piangere, poi... non mi sarei sentita in colpa. Si meritava di pagare fino all'ultima scelta fatta. Partì la segreteria, e per un pelo non scagliai via il telefono. Composi il numero di Vee. - Ohi, tesoro. E' importante? Sono con Rixon... - Me ne vado di casa - dissi, senza preoccuparmi che la mia voce fosse rauca per il pianto. - Posso stare da te per un po'? Finché non decido dove andare. Vee respirò forte nella cornetta. - Che cosa hai detto? - Mia madre torna sabato, e per allora voglio essere fuori di casa. Posso venire a stare da te per il resto della settimana? - Mmm, posso chiederti... -No. - Okay, va bene - disse Vee cercando di nascondere lo shock. - Certo che puoi, non c'è problema. Mi dirai che succede quando ti sentirai di farlo. Sentii sgorgare nuove lacrime. In quel momento, Vee era l'unica persona su cui potessi contare. Magari a volte era riprovevole, irritante e pigra, ma non mi mentiva mai. Arrivai alla fattoria verso le nove e mi infilai un pigiama di cotone. Non faceva freddo, ma l'aria umida sembrava penetrarmi nelle ossa, e dopo essermi preparata una tazza di latte caldo mi buttai a letto. Era troppo presto per dormire, ma non sarei riuscita ad addormentarmi comunque, con tutti quei pensieri che si frantumavano nella mia testa. Fissavo il soffitto, cercando di cancellare gli ultimi sedici anni e ricominciare daccapo. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a immaginare Hank Millar come mio padre. Saltai giù dal letto, percorsi il corridoio a grandi passi, entrai in camera di mia madre e aprii la cassapanca, in cerca dell'annuario del liceo. Non sapevo neanche se ce l'avesse, ma, nel caso, era lì che l'avrebbe tenuto. Se lei e Hank Millar andavano a scuola insieme ci sarebbero state le foto e se fossero stati innamorati lui avrebbe firmato l'annuario in un modo inequivocabile... speciale. Cinque minuti dopo, avevo rivoltato la cassapanca da cima a fondo ma non era saltato fuori nessun annuario. Scesi allora in cucina e passai in rassegna tutti gli armadietti. L'idea iniziale era trovare qualcosa da mangiare, ma mi era già passato l'appetito. Non riuscivo a mandar giù niente. Come potevo, schiacciata dall'enorme bugia che si era rivelata essere la mia famiglia? Mi ritrovai a fissare la porta d'ingresso, ma dove sarei potuta andare? Mi sentivo persa in casa, ansiosa di andarmene, ma senza un posto dove scappare. Restai qualche minuto in corridoio, impalata, poi tornai di sopra e mi rimisi a letto. Coperta fino al mento, chiusi gli occhi e guardai scorrermi nella mente una sequenza di immagini. Immagini di Marcie, di Hank Millar, che conoscevo di vista e il cui viso ricordavo a malapena, dei miei genitori. Le immagini passavano sempre più veloci, fino a confondersi l'una nell'altra, in uno strano, pazzo collage. All'improvviso, le immagini sembrarono riavvolgersi, come se tornassero indietro nel tempo. I colori si asciugarono, finché rimase solo un bianco e nero sfocato. Fu allora che seppi di essere scivolata nell'altro regno. Stavo sognando. Ero nel cortile davanti a casa. Un vento violento trascinava le foglie morte sul vialetto e contro le mie caviglie. Nel cielo turbinava una bizzarra nube a forma di imbuto che, però, non sembrava avere fretta di gettarsi giù, quasi stesse aspettando il momento opportuno per attaccare. Patch era seduto sulla staccionata della veranda a testa bassa, le mani strette tra le ginocchia. - Esci dal mio sogno - urlai per sovrastare il rumore del vento. Lui scosse il capo. - Prima devo spiegarti che cosa sta succedendo. Mi strinsi nella giacca del pigiama. - Non voglio sentire quello che hai da dirmi. - Qui gli arcangeli non possono sentirci. Feci una risata ostile. - Non ti è bastato manipolarmi nella vita reale? Ora devi farlo anche... qui? Alzò la testa. - Manipolarti? Sto cercando di dirti che cosa sta succedendo. - Ti stai intrufolando nei miei sogni - gli dissi in tono di sfida. - Lo hai fatto dopo la serata alla Sacca del Diavolo e lo stai facendo adesso. All'improvviso tra di noi si abbatté una raffica di vento, che mi costrinse a indietreggiare. I rami dell'albero scricchiolarono e gemettero. Mi scostai i capelli dal viso. Patch disse: - Quando siamo tornati dallo Z, nella jeep, mi hai detto di aver sognato il padre di Marcie. La notte in cui hai fatto quel sogno, io stavo pensando a lui: rievocavo proprio il ricordo che hai sognato, desideravo con tutto me stesso che esistesse un modo per raccontarti la verità. Non sapevo che stavo comunicando con te. - Hai indotto tu quel sogno? - Non era un sogno, era un ricordo. Riflettei su quella risposta. Se il sogno era vero, Hank Millar era vissuto in Inghilterra centinaia di anni prima. «Di' all'oste di mandare aiuto» aveva detto Hank. «Digli che non c'è nessun uomo. Digli che si tratta di un angelo del demonio, venuto a possedere il mio corpo e gettare via la mia anima.» Hank Millar era un... Nephilim? - Non so come ho fatto a sovrapporre il mio ricordo al tuo sogno - disse Patch - ma da allora ho cercato di comunicare con te nello stesso modo. Ci sono riuscito la notte in cui ti ho baciata, ma ora è come se ci fosse un muro. Per fortuna, adesso sono qui. Credo sia tu... sei tu che non mi lasci entrare. - Perché non ti voglio dentro la mia testa! Scese dalla staccionata e venne verso di me. - Ho bisogno che tu mi faccia entrare. Mi voltai dall'altra parte. - Sono stato riassegnato a Marcie - disse. Ci vollero cinque secondi perché tutti i pezzi formassero un disegno logico. La sensazione di disgusto e il groviglio allo stomaco che non mi avevano più abbandonata dopo il mio ultimo incontro con Marcie raggiunsero un livello estremo. - Sei l'angelo custode di Marcie? - Non è stata una gita di piacere. - Sono stati gli arcangeli? Quando sono stato nominato tuo custode, mi hanno detto chiaro e tondo che avrei sempre dovuto agire nel tuo interesse. Essere legato sentimentalmente a le non significava agire nel tuo interesse. Io lo sapevo, ma non gradivo il fatto che gli arcangeli mi dicessero che cosa fare della mia vita privata. La sera in cui mi hai dato l'anello, ci stavano osservando. Nella jeep. La notte prima che ci lasciassimo. La ricordavo molto bene. - Appena mi sono accorto che ci stavano osservando, sono andato via di corsa, ma il danno ormai era fatto. Mi hanno detto che avrei dovuto farmi da parte non appena avessero trovato un sostituto per te, ma nel frattempo mi hanno assegnato a Marcie. Sono andato a casa sua, quella notte, per obbligarmi ad affrontare ciò che avevo fatto. - Perché Marcie? - chiesi con amarezza. - Per punirmi? Si passò una mano sulle labbra. - Il padre di Marcie è un Ne- philim di prima generazione, un purosangue. Ora che Marcie ha sedici anni, rischia di essere sacrificata. Due mesi fa, quando ho cercato di sacrificare te per diventare umano, finendo invece per salvarti la vita, non c'erano molti angeli caduti che credevano di poter cambiare la propria situazione. Adesso sono un custode, lo sanno tutti. Sanno anche che è accaduto perché ti ho salvata dalla morte. Quindi, all'improvviso, moltissimi di loro sono convinti di poter ingannare il fato, salvando un essere umano e riottenendo le ali -. Sospirò e aggiunse: - Oppure uccidendo il proprio vassallo Nephilim in modo da non avere più il corpo di un angelo caduto, ma quello di un umano. Ripassai tutto ciò che sapevo sugli angeli caduti e i Nephilim. Il Libro di Enoch raccontava di un angelo caduto diventato umano dopo aver ucciso il proprio vassallo Nephilim, attraverso il sacrificio di una delle sue discendenti. Infatti, due mesi prima, Patch aveva cercato di fare la stessa cosa: sacrificare me per uccidere Chauncey. Ora, se l'angelo caduto che aveva costretto Hank Millar a giurare fedeltà avesse voluto diventare umano, avrebbe dovuto... Sacrificare Marcie. - Vuoi dire che il tuo lavoro è assicurarti che l'angelo caduto che ha costretto Hank Millar a giurargli fedeltà non sacrifichi Marcie per ottenere un corpo umano? Come se pensasse di conoscermi talmente bene da poter anticipare la mia domanda successiva, disse: - Marcie non lo sa. Ne è completamente all'oscuro. Non volevo parlare di quello. E comunque non volevo che Patch stesse lì. Aveva ucciso mio padre, mi aveva strappato, per sempre, una persona che amavo. Era un mostro e niente di ciò che aveva da dirmi poteva cambiare le cose. - E' stato Chauncey a formare la società di sangue dei Nephilim - continuò. Quell'informazione ebbe il potere di ridestare la mia attenzione. - Che cosa? Come lo sai? - Ho accesso ad alcuni ricordi. Ricordi... altrui - rispose con una certa riluttanza. - Ricordi altrui? -. Ero sconvolta, sembrava non ci fosse fine al peggio. Con che coraggio giustificava tutte le cose orribili che aveva fatto? Con che coraggio veniva a dirmi che scorrazzava segretamente nei pensieri più intimi delle persone? Si aspettava che lo ammirassi per quello? Era fin troppo anche solo aspettarsi che restassi lì ad ascoltarlo. - Qualcuno ha ripreso la missione di Chauncey, dal punto esatto in cui lui l'ha lasciata. Un successore. Non sono ancora riuscito a scoprire il suo nome, ma gira voce che non sia contento della morte di Chauncey, e questo mi fa pensare che possa essere un suo amico oppure un parente. Scossi la testa. - Non voglio sapere niente di questa storia. - Il successore ha dato ordine di vendicare l'uccisione di Chauncey -. Smisi immediatamente di protestare. Patch e io ci scambiammo un'occhiata. Vuole che l'assassino muoia. - Vuoi dire che vuole che io muoia dissi con un filo di voce. - Nessuno sa che sei stata tu a uccidere Chauncey, il quale ignorava che tu fossi la sua discendente fino a pochi minuti prima di morire. Quindi ci sono pochissime possibilità che altri lo sappiano. Il successore potrebbe cercare di rintracciare i discendenti di Chauncey, e in quel caso gli auguro buona fortuna. Io ci avevo messo tantissimo tempo per trovarti -. Fece un passo verso di me, ma io indietreggiai. — Quando ti svegli, devi dire che vuoi che io sia di nuovo il tuo angelo custode. Dillo con intenzione, in modo che gli arcangeli possano sentirti e magari esaudirti. Sto facendo tutto il possibile per vegliare su di te, ma ho dei limiti. Ho bisogno di avere più accesso alle persone che ti stanno accanto, alle tue emozioni, a tutto il tuo mondo. - Ma che cosa stava dicendo? Che gli arcangeli mi avevano finalmente trovato un nuovo angelo custode? Per questo Patch si era appena intrufolato nel mio sogno? Perché era stato tagliato fuori dalla mia vita e non poteva più fare con me quello che voleva? - Sentii scivolare le sue mani sui miei fianchi, sentii che mi stava attirando a sé, deciso e protettivo. - Non permetterò che ti accada niente di male. - Mi irrigidii e mi liberai. Avevo la mente in tempesta. «Vuole che l'assassino muoia.» Non riuscivo a togliermi quel pensiero dalla testa. Ero tramortita all'idea che qualcuno volesse uccidermi. Non volevo restare lì, non volevo sapere quelle cose. Tutto quello che volevo era sentirmi di nuovo al sicuro. - Quando capii che Patch non aveva alcuna intenzione di lasciare il mio sogno, decisi di andarmene io. Lottai contro le barriere invisibili del sonno per costringermi a svegliarmi. «Apri gli occhi» dissi a me stessa. «Aprili!» - Patch mi afferrò per un gomito. - Che cosa stai facendo? - Sentivo che riacquistavo lucidità. Sentivo il calore delle lenzuola, la morbidezza del cuscino contro la guancia. Mi sentivo confortata da tutti gli odori familiari della mia camera. - - Non svegliarti, angelo Mi ravviò i capelli e mi prese il viso tra le mani, costringendomi a guardarlo negli occhi. Non hai ancora saputo tutto. C'è una ragione molto importante per la quale devi vedere questi ricordi. Sto cercando di dirti una cosa, e non posso farlo in altro modo. Devi riuscire a immaginare ciò di cui sto parlando. Smettila di bloccarmi. - Voltai la testa dall'altra parte. Sembrava che i piedi mi si staccassero da terra, che venissi trasportata verso la nube a imbuto. Patch mi afferrò, imprecando sottovoce, ma la sua presa era leggera come una piuma, immaginaria. - «Svegliati» ordinai a me stessa. «Svegliati.» - E poi lasciai che la nuvola mi consumasse. 18 Mi svegliai riprendendo fiato di colpo. La stanza era in ombra e dietro i vetri, in lontananza, la luna brillava come una sfera di cristallo. Le lenzuola erano calde e umide, attorcigliate alle gambe. L'orologio segnava le nove e trenta. Saltai fuori dal letto e andai in bagno. Riempii un bicchiere d'acqua che bevvi con avidità, quindi mi appoggiai al muro. Non potevo riaddormentarmi: qualunque cosa, tranne permettere a Patch di tornare nei miei sogni. Presi a camminare avanti e indietro nel corridoio, cercando in ogni modo di tenermi sveglia, ma ero talmente agitata che non sarei riuscita a riaddormentarmi neanche se avessi voluto. Diversi minuti dopo, il battito del cuore era diminuito, ma non era altrettanto facile placare la mente. La Mano Nera. Quelle tre parole mi perseguitavano. Erano sfuggenti, minacciose, beffarde. Non riuscivo a pensarci con calma: ogni volta mi sembrava che il mio mondo, già fragile, stesse per andare in pezzi. Sapevo che stavo evitando di far sapere agli arcangeli che Patch era la Mano Nera, nonché l'assassino di mio padre, per proteggermi dall'infame verità: ero innamorata di un assassino. Avevo lasciato che mi baciasse, mi mentisse, mi tradisse. Quando entrava nei miei sogni e mi toccava, tutta la mia forza di volontà si sgretolava, e io mi sentivo di nuovo prigioniera della sua rete. Possedeva ancora il mio cuore, e quello era il tradimento più grande. Che razza di persona ero, che non riuscivo nemmeno a consegnare alla giustizia l'assassino di mio padre? Patch aveva detto che potevo far sapere agli arcangeli che volevo che lui tornasse a essere il mio angelo custode: bastava lo dicessi ad alta voce. Sembrava logico, quindi, che se avessi gridato: «Patch ha ucciso mio padre!» avrei risolto il problema. Giustizia sarebbe stata fatta. Patch sarebbe stato mandato all'inferno e io, piano piano, avrei potuto cominciare a ricostruirmi una vita. Non riuscivo a tirarle fuori, però, quelle parole: era come se fossero incatenate da qualche parte in fondo alla mia anima. Troppe cose non tornavano. Perché Patch, un angelo, avrebbe dovuto mischiarsi a una società di sangue dei Nephilim? Se era la Mano Nera, perché andava in giro a marchiare le reclute? E poi perché li reclutava? Non solo era strano: era illogico. La razza Nephilim odiava gli angeli, e viceversa. E se la Mano Nera era il successore di Chauncey nonché il nuovo leader della società... come poteva essere Patch? Mi massaggiai le tempie. Mi sentivo come se da un momento all'altro la testa potesse esplodermi, a furia di girare e rigirare intorno alle stesse domande. Perché tutto ciò che riguardava la Mano Nera sembrava essere un labirinto senza fine e pieno di tranelli? In quel momento, Scott era l'unico legame affidabile che avevo con la Mano Nera. Sapeva più di quanto mi avesse rivelato, ne ero sicura. Aveva semplicemente troppa paura per parlare. Quando aveva raccontato della Mano Nera, la sua voce aveva tradito autentico panico. Bisognava mi dicesse tutto quello che sapeva, peccato che fosse in fuga dal passato e niente di ciò che io potevo dire lo avrebbe convinto a voltarsi indietro e affrontarlo. Mi premetti i palmi delle mani contro la fronte, cercando di pensare con chiarezza. Poi telefonai a Vee. - Buone notizie - esordì lei prima ancora che riuscissi a proferire parola. - Ho convinto mio padre a tornare alla spiaggia con me e a pagare la multa per far togliere le ganasce alla macchina. Sono di nuovo in pista. - Bene, perché ho bisogno del tuo aiuto. - Aiuto è il mio secondo nome. Ero quasi sicura che mi avesse già detto che il suo secondo nome fosse "brutto", ma me lo tenni per me. - Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a perquisire la camera di Scott -. Era probabile che Scott non tenesse in bella vista le prove del suo coinvolgimento con la società dei Nephilim, ma quali alternative avevo? Era sempre riuscito, con grande abilità, a non darmi delle risposte dirette e dopo il nostro ultimo incontro sapevo che non si fidava di me. Per scoprire ciò che sapeva, avrei dovuto faticare un po'. - Sembra che Patch abbia annullato il nostro appuntamento a quattro, quindi sono libera - mi informò Vee, un po' troppo entusiasta. Mi aspettavo piuttosto che volesse sapere per quale motivo andavamo a curiosare in camera di Scott. - Perquisire la stanza di Scott non sarà pericoloso o eccitante - le dissi, giusto per essere sicura che fossimo sulla stessa lunghezza d'onda. - Tu devi solo startene seduta nella Neon e avvisarmi se arriva. Sono io che entro. - Il fatto che io non entri a frugare dappertutto non significa che non sia eccitante. Sarà come guardare un film, solo che nei film i buoni non vengono presi quasi mai, mentre questa è la vita reale e ci sono altissime probabilità che tu venga beccata. Capisci? Il fattore divertimento è alle stelle. Oddio, Vee mi sembrava un po' troppo ansiosa di vedermi scoperta. - Hai intenzione di avvisarmi se Scott torna a casa, vero? - chiesi. - Ma certo, tesoro! Ti copro io! La telefonata successiva fu a casa di Scott. Rispose sua madre. - Nora, come sono contenta di sentirti! Scott mi ha detto che le cose tra voi due stanno iniziando a funzionare - disse con tono cospiratore. -Be'... - Ho sempre pensato che sarebbe stato bello se Scott avesse sposato una ragazza di qui. Non mi piace l'idea che vada a finire in una famiglia di estranei, magari svitati. Tua madre e io siamo così amiche, te lo immagini quanto ci divertiremmo a organizzare insieme il matrimonio? Oddio, sto correndo troppo! Ogni cosa a suo tempo, come si suol dire. Oddio. - Signora Parnell, Scott è in casa? Ho delle notizie per lui. Sentii che copriva il ricevitore con la mano e gridava: - Scott! Prendi il telefono, è Nora! Un attimo dopo, lui prese la chiamata. - Riaggancia, mamma -. Sembrava diffidente. - Volevo solo essere sicura che rispondessi, tesoro. - Ho risposto. - Nora ha delle notizie interessanti - disse lei. - Allora riaggancia, così può dirmele. Seguì un sospiro deluso e un clic. - Credevo di averti detto di starmi lontana - disse Scott. - Hai già trovato una band? - chiesi con voce sicura, sperando di prendere il controllo della conversazione e stuzzicare il suo interesse prima che mi chiudesse il telefono in faccia. - No - rispose, con lo stesso cauto scetticismo. - Ho detto a un amico che suoni la chitarra... - Il basso. - E lui ha fatto circolare la voce e ha trovato una band che vuole sentirti. Stasera. - Come si chiama la band? Non ero preparata a quella domanda. - Ah... i Pigmen. - Sembra il nome di un gruppo degli anni Sessanta. - Vuoi fare l'audizione o no? - A che ora? - Alle dieci, alla Sacca del Diavolo -. Se avessi conosciuto un magazzino più lontano, ce l'avrei mandato. In quel modo, invece, avrei dovuto farmi bastare i venti minuti che ci volevano per andare e tornare. - Ho bisogno di un nome e di un numero. Ecco, quella domanda non avrebbe davvero dovuto farla. - Ho detto al mio amico che ti avrei informato io, ma non ho pensato di chiedere i nomi e i numeri dei membri della band. - Non sprecherò la serata per un'audizione senza sapere prima chi sono questi tizi, che tipo di musica suonano e dove si sono esibiti. Sono punk, indie-pop, metal? - Tu che cosa suoni? - Punk. - Mi faccio dare i numeri e ti richiamo. Chiusi con Scott e chiamai Vee. - Ho detto a Scott di avergli procurato un'audizione con una band stasera, ma lui vuole sapere che tipo di musica suonano e dove si sono esibiti. Se gli do il tuo numero, farai fìnta di essere la ragazza di uno della band? Di' solo che quando il tuo ragazzo suona rispondi sempre tu al suo cellulare. Non dire altro, ok? Sono una band punk, stanno per sfondare e lui sarebbe proprio stupido a non correre all'audizione. - Questo lavoro da spia inizia proprio a piacermi - commentò Vee. - Quando la vita di tutti i giorni diventa noiosa, basta solo che mi intrufoli nella tua. Quando Vee arrivò ero seduta in veranda, le ginocchia rannicchiate contro il petto. - Credo dovremmo fare una salto da Skippy a prendere un hot dog, prima di andare - disse appena salii in auto. - Non so come mai, ma gli hot dog mi danno un'iniezione di coraggio; ne basta uno e ho la sensazione di poter fare qualsiasi cosa. - Perché sei drogata di tutte le tossine con cui li riempiono. - Ripeto: credo che dovremmo passare da Skippy. - Ho già cenato. Pasta. - La pasta non riempie. - La pasta riempie eccome. - Sì, ma non come la senape e la salsa piccante - ribatté Vee. Quindici minuti dopo, dopo essere state servite direttamente in auto, lasciammo Skippy con due hot dog, una confezione grande di patatine fritte e due frappé alla fragola. - Odio questo tipo di cibo - dissi, la mano unta dal grasso che filtrava attraverso la carta oleata in cui era avvolto l'hot dog. - E' tossico. - Proprio come una relazione con Patch, ma questo non ti ha fermata di certo. Non risposi. Quattrocento metri prima del complesso in cui abitava Scott, Vee accostò. Il primo problema da risolvere era dove sistemarsi. Deacon Road era una strada chiusa, che finiva subito dopo casa di Scott. Vee e io eravamo bene in vista; uscendo, per Scott era impossibile non notare la Neon con Vee seduta dentro. Un secondo dopo avrebbe capito che stavamo architettando qualcosa. Non avevo avuto paura che riconoscesse la sua voce al telefono, ma poteva ricordarsi il suo viso. Ci aveva viste insieme più di una volta, per esempio quando l'avevamo pedinato con la Neon. - Devi andare oltre il ciglio della strada e parcheggiare dietro quei cespugli - dissi a Vee. Vee si sporse, scrutando l'oscurità. - È un fosso quello che vedo tra me e i cespugli? -Non è profondo. Fidati, riusciremo a tirarla fuori, dopo. - A me sembra profondo. Questa è una Neon, non un Hummer. - La Neon non è molto pesante. Se non ce la fa a uscire, la spingo io. Vee inserì la marcia e passò sopra il ciglio della strada; si sentì il fruscio dell'erba alta che strisciava contro il telaio dell'auto. - Vee, accelera! — dissi. Furono le mie ultime parole perché la bocca mi si chiuse di scatto quando l'auto superò con un balzo la banchina sassosa. L'auto si inclinò e piombò giù, nel fosso; le ruote anteriori si bloccarono. - Così non va - disse Vee dando gas. Le ruote girarono a vuoto, senza fare presa sul terreno. - Devo prenderla da un'altra angolazione -. Girò bruscamente il volante a sinistra e pigiò il pedale dell'acceleratore. - Ecco, sembra che funzioni - disse, mentre la Neon si muoveva a scatti. - Attenta al masso... - la avvertii, ma troppo tardi. La Neon era andata a finire esattamente sul masso che spuntava dal terreno. Vee spense l'auto, dopodiché uscimmo a controllare la ruota anteriore sinistra. - C'è qualcosa di strano — disse. — E normale che la gomma abbia quell'aspetto? Battei la testa contro un albero accanto a me. - Abbiamo forato - disse Vee. - E adesso? - Andiamo avanti con il piano: io vado a perquisire la stanza di Scott e tu resti di guardia. Quando torno, chiami Rixon. - Per dirgli cosa? - Che abbiamo visto un cervo, hai sterzato per evitarlo e la Neon è finita nel fosso, atterrando sul masso. - Mi piace questa storia - commentò Vee. - Mi fa sembrare un'amante degli animali e sono sicura che a Rixon piacerà. - Domande? - No, capito tutto. Ti chiamo appena Scott lascia il palazzo. Ti chiamo se torna per avvisarti di squagliartela Poi abbassò lo sguardo sulle mie scarpe. - Hai intenzione di scalare il palazzo ed entrare da una finestra? Perche in quel caso avresti dovuto metterti le scarpe da ginnastica: le ballerine sono deliziose, ma per niente pratiche. - Ho intenzione di entrare dalla porta principale. - E cosa dirai alla mamma di Scott? - Non importa. Le piaccio, mi farà entrare -. Le porsi il mio hot dog, ormai freddo. - Lo vuoi? - Neanche per sogno. Potresti averne bisogno: se succede qualcosa di brutto, prendine un morso e vedrai che in dieci secondi ti si scalda il cuore. Percorsi in fretta il resto della Deacon, riparandomi all'ombra degli alberi ogni volta che vedevo muoversi qualcuno dietro le finestre dell'appartamento di Scott, al terzo piano. Sembrava che la signora Parnell fosse in cucina e si spostasse dal frigo al lavello, come se stesse preparando un dolce o improvvisando uno spuntino. La luce in camera di Scott era accesa, ma le tende erano tirate. Poi la luce si spense e un attimo dopo Scott entrò in cucina e diede un bacio sulla guancia a sua madre. Restai immobile a schiacciare zanzare per altri cinque minuti, finché Scott uscì dal portone con quella che sembrava la custodia di una chitarra. La mise nel bagagliaio della Mustang e uscì dal parcheggio in retromarcia. Un minuto dopo mi squillò il cellulare. - L'aquila ha lasciato il nido - disse Vee. - Lo so. Resta dove sei, io entro. Salii in casa e suonai il campanello. La porta si aprì e, appena mi vide, la signora Parnell sorrise. - Nora! - esclamò, appoggiandomi amichevolmente le mani sulle spalle. - Scott è appena uscito per andare a un'audizione. Non so dirti quanto significhi per lui il fatto che ti sia presa il disturbo di organizzare la cosa. Li stenderà, vedrai -. E mi diede un buffetto sulla guancia. - Veramente Scott mi ha appena chiamata. Ha lasciato a casa degli spartiti e mi ha chiesto di prenderglieli. Sarebbe tornato indietro, ma non voleva arrivare in ritardo all'audizione e fare una brutta impressione. - Oh certo! Vieni dentro. Ha detto quali spartiti voleva? - Mi ha mandato un sms. Spalancò la porta. - Ti accompagno in camera sua. Scott ci resterà malissimo se l'audizione non andrà bene. Non dimentica mai gli spartiti, ma stavolta è successo tutto così in fretta. Sono sicura che sarà andato un po' fuori di testa, poveretto. - Sì, sembrava proprio agitato - confermai. - Ci metterò pochissimo. La signora Parnell mi guidò lungo il corridoio. Non appena varcai la soglia della camera di Scott, notai che c'erano stati dei grossi cambiamenti. Innanzitutto le pareti: erano state dipinte di nero, mentre l'ultima volta che ero stata lì erano bianche. Il poster di Il Padrino e il gagliardetto dei New England Patriots erano stati tolti e c'era un forte odore di pittura e di deodorante per ambienti. - Scusami per le pareti - disse la signora Parnell. - Scott è un po' in crisi, sai... trasferirsi è dura. Ha bisogno di uscire di più -. Mi guardò in modo eloquente, ma io feci finta di non aver capito. - Allora gli spartiti sono questi? - chiesi, indicando un mucchio di fogli sparsi a terra. Lei si asciugò le mani sul grembiule. - Vuoi che ti aiuti a cercare quelli che ti servono? - No, non c'è problema, davvero. Non voglio trattenerla, ci vorrà un secondo. Appena fu uscita, chiusi la porta. Appoggiai il cellulare e l'hot dog sulla scrivania di fronte al letto e mi diressi all'armadio a muro. In mezzo a una montagna di jeans e magliette buttati per terra alla rinfusa, sbucavano un paio di scarpe da basket bianche. Le uniche cose rimaste appese erano tre camicie di flanella a quadri. Mi chiesi se non gliele avesse comprate sua madre, perché non ce lo vedevo proprio con quelle addosso. Sotto il letto trovai una mazza da baseball di alluminio, un guantone e una piantina. Chiamai Vee. - Che aspetto ha la marijuana? - Foglia a cinque punte - rispose. - Scott coltiva la marijuana. Sotto il letto. - E la cosa ti sorprende? No, non mi sorprendeva, e spiegava l'odore di deodorante. Non so se riuscivo a immaginare Scott a fumare marijuana, ma a venderla sì: era sempre alla ricerca disperata di denaro. - Se trovo qualcos'altro ti richiamo - dissi. Lasciai cadere il cellulare sul letto di Scott e mi guardai intorno. Non c'erano molti nascondigli. La parte inferiore del ripiano della scrivania era libera, le bocchette del riscaldamento erano vuote e non c'era niente di cucito alla coperta. Stavo per arrendermi quando la mia attenzione fu attirata da un segno vicino all'armadio, in alto. Il muro era spaccato. Presi la sedia della scrivania e vi montai sopra. Sulla parete era stato fatto un buco quadrato e poi era stato rimesso a posto l'intonaco in modo che non si notasse. Aiutandomi con una gruccia di metallo, visto che da sola non ci arrivavo, feci saltare via l'intonaco. Mi sembrò di vedere una scatola da scarpe della Nike. La colpii ripetutamente con la gruccia, ma invece di tirarla fuori finii per spingerla più in fondo. Un ronzio ovattato interruppe la mia concentrazione, e mi resi conto che era il mio cellulare che suonava in modalità vibrazione sul letto di Scott, attutito dalle coperte. Saltai giù dalla sedia e risposi. - Vee? - Esci subito di lì! - sibilò in preda al panico. - Scott ha richiamato e mi ha chiesto qualcosa a proposito di un magazzino, ma io non sapevo di quale magazzino gli avessi parlato, così mi sono impappinata e gli ho detto che ero solo la ragazza di uno della band, che non sapevo dove tenessero le audizioni. Lui mi ha chiesto in quale magazzino provassero di solito e gli ho detto che non sapevo neanche quello. La buona notizia è che ha riattaccato, così non ho dovuto infilarmi in un'altra serie di bugie, la brutta notizia è che sta tornando a casa. Adesso. - Quanto tempo ho? - Visto che mi è appena passato davanti a cento all'ora, credo un minuto al massimo. -Vee! - Non è colpa mia! Sei tu che non rispondi al telefono! - Raggiungilo e prendi tempo. Ho bisogno di altri due minuti. - Raggiungilo? E come? Ho la gomma a terra! - Con i piedi! - Cioè dovrei correre? Tenendo il telefono incastrato sotto il mento, tirai fuori un pezzo di carta dalla borsa e mi misi a cercare una penna sulla scrivania. - Sono meno di quattrocento metri, praticamente un giro di pista! Vai! - Sì, e quando lo raggiungo che cosa gli racconto? - Fai come le spie: improvvisa! Fatti venire in mente qualcosa, ora devo andare - dissi, e buttai giù. Ma dov'erano le penne? Possibile che non ci fosse una penna o una matita sulla scrivania? Alla fine, ne trovai una nella mia borsa; scrissi velocemente un messaggio sul pezzo di carta e lo infilai sotto l'hot dog. Sentii la Mustang entrare nel parcheggio. Corsi all'armadio e salii di nuovo sulla sedia. Mettendomi in punta di piedi, cercai di colpire la scatola con la gruccia. Sentii sbattere la porta d'ingresso. - Scott? - gridò la signora Parnell dalla cucina. - Come mai sei già tornato? Riuscii a infilare il gancio della gruccia sotto il coperchio e a tirare fuori la scatola a metà. Una volta fuori, la forza di gravità fece il resto e la scatola mi cadde tra le mani. L'avevo appena infilata nella borsa e stavo per rimettere a posto la sedia, quando la porta della camera si spalancò. Gli occhi di Scott si posarono su di me. - Che stai facendo? - chiese. - Non credevo tornassi così presto - balbettai. - L'audizione era una balla, vero? -Io... - Tu volevi che uscissi di casa -. Mi raggiunse con due passi e mi prese per un braccio, scuotendomi forte. - Hai fatto un grosso errore a venire qui. Arrivò la signora Parnell. - Che succede, Scott? Per l'amor del cielo, lasciala stare! È venuta a prendere gli spartiti che avevi dimenticato. - Balle. Non ho dimenticato nessuno spartito. - Ho mentito - confessai tremante, quindi deglutii per cercare di riacquistare un tono di voce tranquillo. - Il fatto è che volevo invitare Scott alla festa del solstizio d'estate del Delphic, ma non avevo il coraggio di farlo di persona. E' davvero imbarazzante -. Andai alla scrivania e gli porsi l'hot dog insieme al biglietto che avevo scritto poco prima. - Non fare il salame - lesse Scott. - Vieni alla festa del solstizio d'estate con me. - Be', che ne dici? - dissi cercando di trattenere un sorriso. - Vuoi fare il salame? Scott guardò prima il biglietto, poi il panino, infine me. - Cosa? - È la cosa più simpatica che abbia mai sentito - intervenne la signora Parnell. - Non vorrai fare il salame, vero Scott? - Mamma, ci lasci soli un secondo? - È elegante questa festa?-chiese lei. Come un ballo? Perché potrei già prenotare uno smoking. - Mamma. - Oh. Va bene. Vado in cucina. Nora, devo ammetterlo: non avevo proprio capito che fossi qui per lasciare un invito, credevo davvero dovessi prendere gli spartiti. Molto furba Mi fece l'occhiolino e se ne andò, richiudendosi la porta alle spalle. Appena restai sola con Scott, mi sentii persa. - Dimmi perché sei qui - disse, la voce sensibilmente più cupa. -Te l'ho detto... - Non me la bevo -. I suoi occhi percorsero rapidamente la stanza, attenti. - Che cosa hai toccato? - Sono venuta per lasciarti l'hot dog, giuro. Ho solo cercato una penna sulla scrivania per scrivere il biglietto, nient'altro. Scott raggiunse in due falcate la scrivania, aprì i cassetti uno a uno e passò al setaccio tutto il contenuto. - So che stai mentendo. Feci un passo indietro in direzione della porta. - Sai una cosa? Tieniti l'hot dog, ma dimentica il solstizio d'estate. Stavo solo cercando di essere gentile, di rimediare all'altra sera, perché mi sentivo responsabile di quel pugno in faccia. Dimentica quello che ho detto. Restò in silenzio a soppesarmi con lo sguardo. Non avevo idea di che cosa pensasse, se mi avesse creduto, ma non me ne importava nulla. Pensavo solo a uscire di là. - Ti tengo d'occhio - disse alla fine, con un tono inquietante e minaccioso. Non avevo mai visto Scott così ostile, freddo. - Ricordatelo. Ogni volta che credi di essere sola, ricordatelo. Ti osservo. Se mai ti ritrovo a ficcare il naso in camera mia, sei morta. E' chiaro? Deglutii. - Cristallino. Uscendo, passai davanti alla signora Parnell che era accanto al camino con un bicchiere di tè freddo in mano. Ne bevve un sorso, appoggiò il bicchiere sulla mensola e mi fece segno di fermarmi. - Scott è un ragazzo speciale, vero? - disse. - Ah, senza dubbio. - Scommetto che lo hai invitato alla festa con tanto anticipo perché sapevi che ci sarebbe stata la fila. Il solstizio d'estate era la sera dopo e tutti quelli che ci andavano avevano già un compagno. Visto che non potevo dirglielo, optai per un sorriso: avrebbe deciso lei come interpretarlo. - Devo procurargli uno smoking? - chiese. - Veramente la festa è molto casual. Jeans e maglietta andranno benissimo -. A Scott l'onore di comunicarle che non andavamo più insieme. Sfoggiò un'espressione delusa. - Be', c'è sempre il ballo degli ex alunni. Hai intenzione di invitarlo anche a quel ballo? - Veramente non ci ho ancora pensato. E comunque Scott potrebbe volerci andare, ma non con me. - Non essere sciocca! Tu e Scott vi conoscete da una vita, lui è pazzo di te. Lui è pazzo. Punto. - Devo andare, signora Parnell. È stato un piacere rivederla. - Vai piano! - mi gridò, salutandomi con la mano. Trovai Vee nel parcheggio. Era piegata in avanti, le mani sulle ginocchia, e respirava a fondo. La maglietta aveva una chiazza di sudore sulla schiena. - Ottimo diversivo - le dissi. Lei alzò lo sguardo, la faccia rossa come un pomodoro. - Hai mai provato a inseguire una macchina? Boccheggiava. - Ti ho battuta. Ho dato l'hot dog a Scott e gli ho chiesto se voleva venire alla festa del solstizio d'estate con me. - Che c'entra l'hot dog con la festa? - Gli ho detto che se non ci veniva con me avrebbe fatto la figura del salame. - Vee scoppiò a ridere. - Se avessi saputi) che ti avrei vista dargli del salame, avrei corso più in fretta. - Quarantacinque minuti dopo, il padre di Vee aveva chiamato il soccorso stradale, che aveva tirato fuori dal fosso la Neon, e riaccompagnato me a casa. In meno di un secondo, sgombrai il tavolo della cucina e ci appoggiai la scatola da scarpe, che era avvolta in strati e strati di nastro isolante. Qualunque cosa nascondesse, Scott non voleva che il resto del mondo lo trovasse. - Tagliai il nastro con un coltello, liberai il coperchio, lo misi da una parte e sbirciai dentro la scatola: sul fondo giaceva un innocuo calzino bianco. - Lo fissai, delusa, ma poi corrugai la fronte. Aprii il calzino quel tanto che bastava per guardarci dentro, e per poco le ginocchia non mi cedettero. - C'era un anello. Uno degli anelli della Mano Nera. 19 Fissai l'anello con sguardo assente. Non riuscivo a mettere un argine ai miei pensieri. Due anelli? Proprio non capivo. Evidentemente la Mano Nera aveva più di un anello, ma perché uno ce l'aveva Scott? E perché si era dato la pena di nasconderlo in un buco scavato nel muro? E perché, se si vergognava tanto del marchio che aveva sul petto, si teneva stretto l'anello che, con ogni probabilità, gliel'aveva procurato? In camera mia, tirai fuori il violoncello dall'armadio e misi l'anello di Scott in una delle tasche della custodia, insieme al suo gemello: l'anello che avevo ricevuto la settimana prima. Non riuscivo proprio a trovarci un senso. Ero andata da Scott a cercare delle risposte, ed ero tornata più confusa che mai. Potevo continuare a ragionare sugli anelli, magari elaborando anche delle teorie, ma non avevo assolutamente idee. Quando la pendola batté la mezzanotte, controllai e ricontrollai la serratura della porta d'ingresso e mi infilai a letto. Tirai su il cuscino, mi sedetti ben dritta e mi misi lo smalto blu notte sulle unghie delle mani, quindi passai alle unghie dei piedi. Accesi l'iPod e lessi diversi capitoli del libro di chimica. Non potevo andare avanti in eterno senza dormire, ma ero decisa a resistere il più a lungo possibile. Ero terrorizzata all'idea che Patch mi stesse aspettando dall'altra parte. Non mi resi conto di essermi addormentata finché non fui svegliata da uno strano cigolio. Restai a letto, immobile, cercando di capire da dove provenisse. Le tende erano tirate, la stanza in ombra. Sgusciai fuori dal letto e diedi un'occhiata attraverso le tende. Il giardino era immobile. Quieto. Ingannevolmente tranquillo. Di sotto, si sentì un leggero scricchiolio. Afferrai il cellulare sul comodino e aprii la porta quanto bastava per poter sbirciare fuori. Il corridoio era libero, quindi uscii. Il cuore mi batteva talmente forte che ebbi paura che il petto potesse rompersi. Ero arrivata alle scale, quando un piccolo scatto mi fece capire che qualcuno stava girando la maniglia della porta d'ingresso. La porta si aprì e una figura circospetta entrò nell'ingresso buio Scott era dentro, a pochi metri da me, ai piedi della scala. Strinsi più forte il cellulare, che rischiava di scivolarmi dalla mano sudata. - Che ci fai qui? - gli gridai. Lui alzò la testa di scatto, spaventato, poi mi mostrò le mani per farmi vedere che era disarmato. - Dobbiamo parlare. - La porta era chiusa a chiave. Come hai fatto a entrare? -. La mia voce era acuta, tremante. Non rispose, non ce n'era bisogno. Scott era un Nephilim e aveva una forza inaudita. Ero quasi certa che, se fossi andata a controllare, avrei trovato la serratura rotta dalla pura e semplice forza delle sue mani. - L'effrazione è un reato - dissi. - Anche il furto. Hai rubato qualcosa che mi appartiene. Mi inumidii le labbra. - Possiedi uno degli anelli della Mano Nera. -Non è mio. L'ho... rubato Mentiva: lo capii dalla leggera esitazione della sua voce. - Ridammelo, Nora. - No. Prima devi dirmi tutto. - Possiamo passare alle maniere forti, se credi -. E salì il primo gradino. - Non muoverti! - gli ordinai, il dito sui tasti del cellulare, pronta a chiamare il 911. - Se fai un altro passo, chiamo la polizia. - Ci metteranno venti minuti ad arrivare. - Non è vero -. Invece sì, e lo sapevamo entrambi. Salì un altro gradino. - Fermo. Guarda che chiamo, giuro che lo faccio. - E cosa racconteresti? Che sei entrata in camera mia a rubarmi un gioiello di valore? - Mi ha fatto entrare tua madre - dissi nervosa. - Non l'avrebbe fatto, se avesse saputo le tue intenzioni —. Avanzò di un altro passo, i gradini scricchiolarono sotto il suo peso. Cercai disperatamente di farmi venire un'idea per distrarlo ed evitare che si avvicinasse. Allo stesso tempo, volevo spingerlo a raccontarmi la verità, una volta per tutte. - Mi hai mentito sulla Mano Nera. Bella recita, lo ammetto, le lacrime erano quasi convincenti. Mi sembrava di vedergli girare gli ingranaggi in testa, cercare di capire quanto sapessi. - Ho mentito - disse alla fine. Cercavo di tenerti fuori da questa storia. E' meglio che non ti immischi con la Mano Nera. - Troppo tardi. Ha ucciso mio padre. - Tuo padre non è l'unico che la Mano Nera voleva morto. Vuole morto anche me, Nora. Ho bisogno dell'anello Di colpo, era sul quinto gradino. Morto? La Mano Nera non poteva uccidere Scott. Lui era immortale. Pensava che non lo sapessi? E poi perché era così importante riavere l'anello? Credevo disprezzasse il marchio che aveva sulla pelle. E di colpo una nuova idea si affacciò alla mia mente. - La Mano Nera non ti ha costretto a marchiarti, non è vero? - dissi. - L'hai voluto tu. Tu hai voluto far parte della società, tu hai voluto giurare fedeltà. Ecco perché hai tenuto l'anello. E' un oggetto sacro, vero? La Mano Nera te l'ha dato dopo averti marchiato. La sua mano si contrasse sulla ringhiera. - No. Mi ha costretto. - Non ti credo. Socchiuse gli occhi. — Pensi davvero che avrei permesso a uno psicopatico di piantarmi un anello rovente nella carne? Se sono così orgoglioso del marchio, perché lo tengo sempre coperto? - Perché è una società segreta. Sono sicura che hai pensato che il marchio fosse un piccolo prezzo da pagare in confronto ai benefìci che avresti ottenuto. - Benefìci? Credi che la Mano Nera abbia mai fatto qualcosa per me? -. Era furioso. - Lui è il Tristo Mietitore. Non posso sfuggirgli e, credimi, ci ho provato. Più volte di quante riesca a ricordare. Soppesai attentamente anche quell'informazione, mettendo a nudo un'altra bugia. - Lui è tornato - dissi, pensando a voce alta. - Dopo averti marchiato. Mi hai mentito quando hai detto di non averlo mai più visto. - Certo che è tornato! - rispose brusco. - Chiamava nel cuore della notte, mi arrivava alle spalle di soppiatto quando tornavo a casa dal lavoro, con un passamontagna addosso. Era sempre là. - Che cosa voleva? I suoi occhi mi scandagliarono. - Se parlo, mi ridai l'anello? - Solo se credo che tu stia dicendo la verità. Scott si strofinò furiosamente le nocche sulla fronte. - La prima volta che l'ho visto è stato il giorno del mio quattordicesimo compleanno. Disse che non ero umano, che ero un Nephilim, come lui. Disse che dovevo unirmi a questo gruppo a cui lui apparteneva. Disse che tutti i Nephilim dovevano fare causa comune, che non c'era altro modo di liberarci dagli angeli caduti Scott alzò lo sguardo verso di me, torvo, sprezzante, eppure velato da una certa diffidenza, come se pensasse che avrei potuto crederlo pazzo. - Pensavo fosse fuori di testa, che avesse le allucinazioni. Cercavo di sfuggirgli ma lui tornava, sempre. Iniziò a minacciarmi, disse che appena avessi compiuto sedici anni gli angeli caduti mi avrebbero preso. Mi seguiva dappertutto, dopo la scuola e il lavoro, dicendo che mi guardava le spalle e che avrei dovuto essergli riconoscente. Poi scoprì la storia dei debiti. Li pagò, credendo che in segno di gratitudine mi sarei unito al gruppo, ma non andò così: gli dissi di starmi alla larga. Quando seppe che avevo intenzione di chiedere a mio padre di emettere un ordine restrittivo nei suoi confronti, mi trascinò in quel magazzino, mi legò e mi marchiò. Disse che era l'unico modo per tenermi al sicuro, che un giorno avrei capito e l'avrei ringraziato -. Dal tono della sua voce, capii che quel giorno non sarebbe mai arrivato. - Sembra sia ossessionato da te. Scott scosse la testa. - Crede che io l'abbia tradito. Mia madre e io ci siamo trasferiti qui per sfuggirgli. Lei non sa della storia dei Nephilim né del marchio, crede si tratti solo di un molestatore. Abbiamo traslocato, ma lui non vuole mollare, e soprattutto non vuole rischiare che me ne vada in giro a spifferare tutto, rivelando l'esistenza della sua setta segreta. - Sa che sei a Coldwater? - Non lo so, per questo ho bisogno dell'anello. Me lo diede dopo avermi marchiato, dicendomi di tenerlo e di trovare altre reclute. Mi raccomandò di non perderlo: se l'avessi fatto, le conseguenze sarebbero state terribili. E pazzo, Nora aggiunse con voce tremante. - Potrebbe farmi qualsiasi cosa. - Devi aiutarmi a trovarlo. Avanzò di altri due gradini. - Scordatelo. Non ho intenzione di cercarlo Allungò la mano. - Ora dammi l'anello. So che è qui. Rispondendo al puro istinto, mi voltai e corsi a chiudermi a chiave in bagno. - Guarda che non funziona - disse da dietro la porta. - Apri -. Aspettò un momento e urlò: - Credi che questa porta mi fermerà? No, non lo credevo, ma non sapevo cos'altro fare. Ero schiacciata contro la parete, e fu allora che vidi il coltellino da frutta, sul ripiano. Lo tenevo in bagno perché lo usavo per aprire le confezioni dei cosmetici e staccare le etichette dai vestiti. Lo impugnai. Scott si lanciò contro la porta, che si spalancò sbattendo contro il muro. Ci trovammo faccia a faccia, mentre io stringevo il coltello. Scott venne verso di me, me lo strappò di mano e me lo puntò addosso. - Chi comanda adesso? - sogghignò. Alle spalle di Scott, il corridoio era al buio, solo la luce del bagno illuminava la carta da parati sbiadita. L'ombra si mosse furtiva, tanto che quasi non me ne accorsi. Rixon comparve dietro Scott brandendo la base della lampada di ottone che mia madre teneva sul tavolino all'ingresso e lo colpì sulla testa. - Aaah - gemette Scott, girandosi per vedere che cosa l'avesse ferito. D'istinto, sollevò il coltello e lo mosse alla cieca. Mancò l'obiettivo, mentre Rixon ne approfittava per colpirlo al braccio. Mentre Scott si accasciava contro il muro il coltello cadde a terra e Rixon gli diede un calcio, spedendolo in corridoio, fuori dalla portata di Scott, quindi gli assestò un pugno in faccia. Uno schizzo di sangue macchiò il muro. Rixon gli mollò un altro pugno e Scott scivolò giù lungo la parete, cadendo pesantemente a terra. Rixon lo afferrò per il colletto, tirandolo su quel tanto che bastava per colpirlo una terza volta. Scott rovesciò gli occhi all'indietro. - Rixon! Il grido isterico di Vee mi riscosse di colpo dalla violenza che avevo davanti agli occhi. La mia amica salì le scale di corsa, aggrappandosi alla ringhiera per fare prima. - Basta, Rixon! Così lo ammazzi! Lui lasciò la presa e si allontanò. - Patch avrebbe ammazzato me se non l'avessi fatto -. Poi rivolse la sua attenzione a me. - Stai bene? La faccia di Scott era una maschera di sangue, avevo lo stomaco rivoltato. - Sì - risposi inebetita. - Sei sicura? Vuoi un bicchiere d'acqua? Una coperta? Hai bisogno di sdraiarti? Guardai prima Rixon, poi Vee. - Che facciamo adesso? - Chiamo Patch - disse Rixon portandosi il cellulare all'orecchio. — Vorrà essere presente. Ero troppo sotto shock per discutere. - Dovremmo chiamare la polizia - disse Vee. Gettò un'occhiata furtiva al corpo malconcio e privo di sensi di Scott. Dite che dovremmo legarlo? Magari si sveglia e cerca di scappare. - Appena finisco di parlare al telefono lo lego nel retro del furgone - disse Rixon. - Tesoro, vieni qui - disse Vee abbracciandomi. Mi guidò di sotto, sostenendomi con un braccio intorno alle spalle. Stai bene? - Sì - risposi automaticamente, ancora stordita. - Ma voi come mai siete qui? - Rixon e io eravamo in camera mia, quando ho avuto un brutto presentimento che riguardava te, così abbiamo deciso di venire a controllare. Quando siamo arrivati e abbiamo visto la Mustang parcheggiata nel vialetto, ho immaginato che Scott non fosse qui per una visita di piacere, soprattutto dopo che avevamo ficcato il naso in camera sua. Ho detto a Rixon che c'era qualcosa che non andava e mi ha detto di aspettare in macchina mentre lui entrava. Meno male che siamo arrivati prima che potesse succedere il peggio. Oh cavoli, ma come gli è saltato in mente di minacciarti con un coltello? Prima che riuscissi a dirle che il coltello, in realtà, l'avevo tirato fuori io, Rixon ci raggiunse. - Ho lasciato un messaggio a Patch - disse. - Dovrebbe arrivare presto. Ho anche chiamato la polizia. Venti minuti dopo, il detective Basso arrivò con il lampeggiante acceso e frenò in fondo al vialetto. Scott stava lentamente riprendendo conoscenza e si agitava e gemeva sul pianale del furgone di Rixon. Aveva il viso gonfio e chiazzato, le mani legate dietro la schiena. Il detective Basso lo tirò fuori dal furgone e sostituì la corda con un paio di manette. - Non ho fatto niente - protestò Scott, le labbra un ammasso informe di carne e sangue. - Il reato di effrazione ti sembra niente? - ribatté il detective. - Strano, secondo la legge non è così. - Mi ha derubato -. Scott mi indicò con il mento. - Lo chieda a lei. Qualche ora fa era in camera mia. - Che cosa ti ha rubato? - Non... non posso dirglielo. Il detective Basso mi guardò con aria interrogativa. - E' stata tutta la sera con noi — si inserì Vee. - Vero, Rixon? - Assolutamente sì - rispose lui. Scott mi rivolse uno sguardo tradito. - Sempre santarellina, tu, eh? Il detective lo ignorò. - Parliamo del coltello. - E' lei che l'ha tirato fuori! - Sei entrato in casa mia - dissi. - E' stata legittima difesa! - Voglio un avvocato - disse Scott. Il detective Basso sorrise, ma non era un sorriso indulgente. - Un avvocato? Così sembri colpevole. Perché hai cercato di accoltellarla? - Non ho cercato di accoltellarla. Le ho tolto il coltello di mano, era lei che voleva accoltellarmi. - E' proprio un gran bugiardo, non c'è che dire - disse Rixon. - Scott Parnell, ti dichiaro in arresto - proclamò il detective Basso mentre gli abbassava la testa per spingerlo sul sedile posteriore della volante. - Hai il diritto di restare in silenzio. Qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te. Scott mantenne un'espressione ostile, ma sotto la maschera di sangue e lividi sembrava pallido. - Stai facendo un grosso errore - disse guardando me. - Se vado in prigione, faccio la fine del topo in trappola: lui mi troverà e mi ucciderà. La Mano Nera. Sembrava davvero terrorizzato, e io ero indecisa se congratularmi silenziosamente con lui per la commedia ben riuscita o pensare che davvero non avesse idea di quello che, essendo un Nephilim, era in grado di fare. Insomma, come aveva potuto essere marchiato e introdotto controvoglia in una setta Nephilim senza avere idea di essere immortale? Possibile che nessuno, nella società segreta che l'aveva reclutato, gliene avesse parlato? Scott non staccò gli occhi dai miei, ma assunse un tono supplichevole. - È così, Nora. Se vado in galera, sono morto. — Sì, sì - disse il detective Basso sbattendo la portiera. Poi si rivolse a me: - Ce la fai a stare fuori dai guai fino a domattina? 20 Aprii la finestra della mia camera e mi sedetti a pensare, in compagnia di una brezza fresca e un coro notturno di insetti. In lontananza vidi brillare una luce in una delle case che si trovavano dall'altra parte del campo. Sapere di non essere l'unica persona ancora sveglia a quell'ora mi sembrò rassicurante. Dopo che il detective Basso era andato via insieme a Scott, Vee e Rixon avevano esaminato la serratura della porta principale. - Accidenti - aveva detto Vee fissando la porta distrutta. - Come ha fatto Scott a conciare così la maniglia? Con la fiamma ossidrica? Rixon e io ci eravamo limitati a scambiarci un'occhiata. - Passo domani a montartene una nuova - aveva detto lui. Tutto questo era successo più di due ore prima, prima che Rixon e Vee se ne andassero, lasciandomi sola con i miei pensieri. Non volevo pensare a Scott, ma la mente continuava a tornarci. Stava esagerando o l'indomani avrei saputo che era stato aggredito mentre si trovava alla stazione di polizia? Comunque non sarebbe morto. Ammaccato, magari, ma non morto. Non permisi a me stessa di pensare che la Mano Nera si sarebbe spinto oltre, ammesso che rappresentasse davvero una minaccia. Scott non era neanche sicuro che il suo torturatore sapesse che lui si trovava a Coldwater. Dissi a me stessa che a quel punto non c'era nulla che potessi fare. Scott era entrato in casa mia e mi aveva puntato contro un coltello. Era dietro le sbarre per colpa sua. Lui era sotto chiave, io al sicuro. La cosa buffa era che avrei voluto esserci anch'io, in prigione, quella notte. Se Scott era un'esca per la Mano Nera, avrei voluto essere lì per trovarmelo di fronte una volta per tutte. La mia concentrazione era scarsa a causa della mancanza di sonno, ma feci del mio meglio per passare al vaglio tutte le informazioni in mio possesso. Scott era stato marchiato da un Nephilim che si faceva chiamare Mano Nera. Rixon però aveva detto che Patch era la Mano Nera, un angelo. Sembrava quasi stessi cercando due individui diversi che condividevano lo stesso nome... Mezzanotte era passata da un pezzo, ma non volevo dormire. Non se significava aprire un varco a Patch, sentire la sua rete chiudersi su di me, lasciarmi sedurre dalle sue parole e dal suo tocco morbido, confondermi più di quanto non fossi già. Più che dormire, avevo bisogno di risposte. Non ero ancora stata a casa di Patch ed ero assolutamente certa, adesso più che mai, che tutte le risposte si trovassero lì. Mi infilai un paio di jeans scuri a sigaretta e una maglietta aderente nera. Visto che le previsioni davano pioggia, indossai scarpe da ginnastica e giacca a vento. Presi un taxi fino alla parte più a est della città. Il fiume luccicava come un grosso serpente nero e, dall'altra parte, il buio della notte rendeva il profilo delle ciminiere delle fabbriche simile a quello di enormi mostri. Superato l'isolato in cui i numeri civici andavano dal cinquecento in su, trovai due palazzi, entrambi di tre piani. Entrai nell'atrio del primo. Era tutto tranquillo, dal che dedussi che nessuno degli inquilini fosse sveglio. Controllai le caselle della posta, ma non c'era nessun Cipriano. D'altra parte, se Patch faceva di tutto per tenere nascosto il proprio appartamento non avrebbe di certo messo il cognome in bella vista. Imboccai le scale e salii fino all'ultimo piano. Appartamento 3A, B e C. Nessun appartamento 34. Scesi le scale, arrivai al palazzo successivo ed entrai. Oltre il portone c'era un minuscolo ingresso con le piastrelle rovinate e un sottile strato di pittura che avrebbe dovuto coprire dei graffiti rossi e neri. Esattamente come nell'altro palazzo, vidi una fila di caselle della posta, davanti alle quali l'aria condizionata sbatacchiava e ronzava, mentre un vecchio ascensore con le fauci spalancate sembrava non aspettare altro che divorarmi. Decisi di evitarlo in favore delle scale. Tutto l'edifìcio aveva un'aria triste e abbandonata; il tipico posto in cui i vicini pensavano solo ai fatti propri, in cui nessuno conosceva l'altro e i segreti erano facili da mantenere. Al terzo piano regnava una calma assoluta. Passai davanti agli appartamenti 31, 32 e 33. In fondo al corridoio, trovai l'appartamento 34. All'improvviso mi chiesi che cosa avrei fatto se Patch fosse stato in casa, ma a quel punto potevo solo sperare che non ci fosse. Bussai, ma non ricevetti risposta, quindi provai a girare la maniglia che, con mia sorpresa, si mosse. Sbirciai dentro, nell'oscurità immobile, in ascolto. Feci scattare l'interruttore che stava proprio accanto alla porta, ma o le lampadine erano fulminate o l'elettricità era stata staccata. Estrassi la torcia dalla tasca della giacca, entrai e chiusi la porta. Fui investita da un forte odore di cibo guasto. Puntai la torcia in direzione della cucina. Sul bancone c'era una padella con delle uova strapazzate vecchie di giorni e un cartone di latte inacidito al punto da essersi gonfiato. Non era il tipo di posto in cui avrei mai immaginato che Patch potesse vivere, ma questo provava soltanto che c'erano molte cose di lui che ignoravo. Lasciai le chiavi e la borsa sul bancone e mi tirai su la maglietta fino a coprirmi il naso, nel tentativo di non sentire quel fetore. Le pareti erano spoglie, pochi i mobili. Nel soggiorno individuai una Tv antiquata e probabilmente in bianco e nero, di quelle con la doppia antenna, e un divano logoro, entrambi lontani dalla finestra che era stata accuratamente coperta con della carta da pacchi. Tenendo la torcia bassa, percorsi il corridoio fino al bagno. Era spoglio, a eccezione di una tenda beige per la doccia che in origine doveva essere stata bianca e di un lurido asciugamano con le sigle di un hotel. Niente sapone, rasoio o crema da barba. Il pavimento di linoleum aveva i bordi sollevati e l'armadietto delle medicine sopra il lavandino era vuoto. Proseguii fino alla camera da letto. Aprii la porta. L'aria era impregnata dalla puzza di sudore e di biancheria sporca. Dal mo- mento che le luci erano spente, pensai che potesse essere sicuro aprire la finestra a ghigliottina per far entrare un po' d'aria fresca. Si diffuse il bagliore di un lampione, che rischiarò la stanza di un grigio pallido. Piatti incrostati di cibo erano impilati sul comodino e le lenzuola non sembravano esattamente fresche di bucato, anzi: a giudicare dall'odore, non dovevano vedere il detersivo da mesi. Vidi un armadio e nell'angolo opposto una scrivania con un monitor appoggiato sopra. Il computer però mancava e mi venne da pensare che davvero Patch era stato molto attento a non lasciare tracce. Iniziai ad aprire e chiudere cassetti. Non mi sembrava ci fosse niente di strano: matite e una copia dell'elenco telefonico. Stavo per richiudere il cassetto quando la mia attenzione fu attirata da un piccolo portagioie nero attaccato con il nastro adesivo sotto alla scrivania. Feci scorrere la mano sotto il ripiano e lo staccai con cautela. Alzai il coperchio e mi si drizzarono tutti i peli del corpo. Conteneva sei anelli. Sei sigilli della Mano Nera. All'altro capo del corridoio, la porta si aprì. Saltai in piedi. Patch era tornato? Non potevo farmi trovare lì, non in quel momento, non dopo aver scoperto gli anelli nel suo appartamento. Mi guardai intorno in cerca di un posto in cui nascondermi, ma tra me e l'armadio c'era il letto: se ci avessi camminato intorno, sarei stata visibile dalla porta, ma se l'avessi scavalcato camminandoci sopra avrei rischiato di far cigolare le molle. La porta d'ingresso si richiuse con uno scatto leggero. Passi pesanti attraversarono la cucina. Non vedendo alternativa, salii sul davanzale della finestra, lo scavalcai e mi lasciai cadere sulla scala antincendio cercando di fare il meno rumore possibile. Cercai di richiudere la finestra dall'esterno, ma si era bloccata e non tornava giù. Mi abbassai fino ad avere gli occhi all'altezza del davanzale, per poter almeno sbirciare dentro. Sulla parete del corridoio venne proiettata un'ombra, che si allungava a mano a mano che si avvicinava. Abbassai la testa. Temevo che da un momento all'altro sarei stata scoperta, invece i passi indietreggiarono. Meno di un minuto dopo sentii aprirsi e richiudersi la porta d'ingresso. L'appartamento ripiombò di nuovo in un silenzio spettrale. Lentamente, mi rialzai. Restai così ancora un minuto, e quando fui del tutto sicura che l'appartamento fosse vuoto strisciai di nuovo dentro. All'improvviso, mentre percorrevo il corridoio, mi sentii scoperta, vulnerabile. Dovevo andare in un posto tranquillo, a riordinare i pensieri. Cos'è che mi sfuggiva? Patch era chiaramente la Mano Nera, ma che ruolo aveva nella setta? Che diavolo stava succedendo? Infilai la borsa a tracolla e mi avviai alla porta. Avevo già la mano sulla maniglia, quando uno strano rumore penetrò nei miei pensieri. Un orologio. Il debole ticchettio di un orologio. Aggrottai la fronte e tornai indietro. Quando ero arrivata, quel suono non c'era... o almeno così mi pareva. Mi misi in ascolto, attenta, e seguii il ticchettio fino alla cucina, quindi mi inginocchiai davanti allo sportello di sotto del lavello. Sempre più allarmata, lo aprii. Nonostante il panico e la confusione, individuai un congegno poco distante dalle mie ginocchia. Candelotti di dinamite. Nastro isolante. Fili bianchi, blu e gialli. Scattai in piedi e corsi fuori. I piedi volavano sugli scalini così velocemente che dovetti aggrapparmi alla ringhiera per evitare di cadere. Arrivata in fondo alle scale, mi precipitai in strada e continuai a correre. Mi voltai indietro e vidi un bagliore e, un istante dopo, del fuoco uscire dalle finestre del terzo piano. Grandi volute di fumo salirono nel cielo notturno. Frammenti di mattoni e tizzoni di legno incandescenti volarono in strada. Tra i palazzi rimbombò il suono lontano delle sirene e io, terrorizzata all'idea di dare nell'occhio ma troppo sconvolta per non voler sparire di scena, alternai il passo svelto alla corsa finché non raggiunsi l'isolato successivo. Poi, una volta girato l'angolo, schizzai via. Sentivo il cuore pulsarmi in ogni cellula, la mente annebbiata. Se fossi rimasta nell'appartamento un minuto di più, sarei morta. Rabbrividii, e mi scappò un singhiozzo; mi colava il naso e avevo i crampi allo stomaco. Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano e cercai di concentrarmi sulle sagome che si stagliavano nell'oscurità: segnali stradali, auto parcheggiate, il marciapiede, l'ingannevole riflesso dei lampioni sulle finestre. In una manciata di secondi, il mondo si era trasformato in un labirinto confuso fatto di verità mutevole, sfuggente, che svaniva ogni volta che tentavo di guardarla in faccia. . Era per distruggere le prove che avevano fatto saltare in aria l'appartamento? Per gli anelli? Era stato Patch? Davanti a me apparve una stazione di servizio. Barcollando, raggiunsi la toilette esterna e mi chiusi dentro a chiave. Avevo le gambe molli e le mani mi tremavano così tanto che faticai ad aprire il rubinetto. Mi spruzzai l'acqua fredda sul viso per riavermi dallo shock, poi mi appoggiai al lavandino e cercai di riprendere fiato. 21 Non dormivo da più di trentasei ore, se si escludeva quella breve parentesi di giovedì sera, quando Patch era venuto a trovarmi nel sogno. Restare sveglia tutta la notte non era stato un grande sforzo: ogni volta che mi si chiudevano gli occhi, l'esplosione mi divampava in testa. Non riuscendo a dormire, avevo pensato a Patch tutta la notte. Quando Rixon mi aveva detto che Patch era la Mano Nera, aveva piantato in me il seme del dubbio, che aveva attecchito ed era germogliato nutrendosi dell'orribile sensazione di essere stata tradita. Ma non aveva soffocato del tutto ciò che provavo per lui. Non ancora. Una parte di me ancora piangeva e scuoteva risolutamente la testa all'idea che avrebbe potuto essere stato Patch a uccidere mio padre. Mi morsi forte le labbra, concentrandomi su quel dolore, invece di richiamare alla mente tutte le volte che Patch mi aveva sfiorato le labbra con le dita, o mi aveva baciato l'orecchio. Non potevo pensarci. Non mi ero preoccupata di alzarmi alle sette per andare a scuola. Per tutta la mattina e il pomeriggio avevo lasciato una serie di messaggi telefonici al detective Basso, uno ogni ora, continuando anche quando ormai era scesa la sera, ma non mi aveva richiamato. Dicevo a me stessa che telefonavo per avere notizie di Scott, anche se in realtà sospettavo che il mio fosse solo un modo per poter essere sempre in contatto con la polizia. Perché una piccola parte di me iniziava a dubitare che la notte prima volessero solo distruggere le prove. E se invece avessero cercato di uccidere me? Nel mezzo di tutto quel rimuginare, avevo girato e rigirato intorno a ogni singolo frammento di informazione in mio possesso, cercando di ricostruire il quadro. L'unico frammento chiaro, al quale tornavo ogni volta, era la società dei Nephilim. Patch aveva detto che il successore di Chauncey voleva vendicarne la morte, ma che nessuno avrebbe potuto ricondurla a me. Io però iniziavo a pensarla diversamente. Se il successore sapeva della mia esistenza, forse quello della notte prima era stato il suo primo tentativo di vendicarsi. Mi sembrava improbabile che qualcuno mi avesse seguita fino a casa di Patch nel bel mezzo della notte, ma se c'era una cosa che avevo imparato era che i Nephilim erano bravissimi a comportarsi nei modi più improbabili. Sentii il cellulare vibrarmi in tasca e lo tirai fuori prima che terminasse il primo squillo. - Pronto? - Andiamo alla festa del solstizio d'estate - mi informò Vee. - Mangiamo un po' di zucchero filato, facciamo qualche giro sulle giostre, magari ci facciamo ipnotizzare e finiamo a fare qualche pazzia di cui poterci vergognare. Il cuore, che era balzato in gola, stava tornando a posto. Non era il detective Basso. - Ciao - dissi. -Che ne pensi? Hai voglia di un po' di movimento? Hai voglia di andare al Delphic? Sinceramente no. Avevo solo voglia di chiamare il detective Basso a intervalli regolari di sessanta minuti fino a che non avesse risposto. - Terra chiama tesoro. - Non mi sento bene - risposi. - Non ti senti bene in che senso? Hai mal di stomaco? Mal di testa? I dolori mestruali? Avvelenamento da cibo? Il Delphic è la cura giusta per quasi tutte queste cose. - No, ma grazie lo stesso. - È per Scott? Lui è in galera, non può farti niente. Vieni a divertirti. Rixon e io non ci baceremo davanti a te, se è questo il problema. - Mi metto il pigiama e guardo un film. - Stai dicendo che è più divertente guardare un film che stare con me? - Stasera sì. - Film un paio di palle. Sai che non ti lascio in pace finché non vieni. - Lo so. - Allora falla finita e di' di sì. Sospirai. Potevo restare seduta a casa tutta la sera ad aspettare che il detective Basso rispondesse a una delle mie chiamate, oppure potevo fare una pausa e riprendere a telefonare quando fossi tornata. E poi lui aveva il mio numero di cellulare, poteva raggiungermi ovunque fossi. - Va bene - le dissi. - Dammi dieci minuti. Indossai i jeans a sigaretta, una maglietta, un cardigan e completai il tutto con un paio di mocassini scamosciati. Mi legai i capelli in una coda bassa, leggermente spostata a destra. Non dormivo da più di un giorno e avevo delle belle occhiaie così misi il mascara, l'ombretto color argento e il lucidalabbra, sperando che il mio aspetto fosse migliore di quanto mi sembrasse. Lasciai un biglietto piuttosto scialbo a mia madre, informandola di essere andata alla festa del solstizio d'estate. Non l'aspettavo prima dell'indomani mattina, ma accadeva spesso che mi facesse la sorpresa di tornare in anticipo; se fosse successo anche quella sera, probabilmente se ne sarebbe pentita. Avevo già deciso che cosa le avrei detto. L'importante era non perdere mai il contatto visivo mentre le dicevo che sapevo della sua relazione con Hank. E non lasciarle dire neanche una parola prima di comunicarle che me ne sarei andata di casa. Quando mi ero preparata il discorso, avevo stabilito che a quel punto sarei uscita immediatamente dalla stanza: volevo capisse che ormai era troppo tardi per parlare. Se voleva dirmi la verità, avrebbe dovuto farlo prima. Aveva avuto sedici anni di tempo. Ormai era troppo tardi. Chiusi la porta d'ingresso e mi incamminai lungo il vialetto, incontro a Vee. Un'ora dopo la mia amica infilò la Neon al pelo tra due camion enormi, che ci assediavano da entrambi i lati. Per non graffiare le portiere, invece di aprirle abbassammo i finestrini e sgusciammo fuori da lì. Attraversammo il parcheggio, pagammo l'ingresso e superammo i cancelli. Il parco era più affollato del solito perché quello era il giorno più lungo dell'anno, il solstizio d'estate. Riconobbi subito alcune facce conosciute a scuola, ma per il resto mi sembrava di essere in mezzo a un mare di estranei. La maggior parte indossava una maschera a forma di farfalla dai colori brillanti; forse c'era una bancarella che le vendeva in saldo. - Da dove cominciamo? - chiese Vee. - La sala giochi? La casa degli orrori? I chioschi di dolci? Per quanto mi riguarda, credo che dovremmo cominciare dal cibo, così mangeremo meno. - Cos'è, una tua teoria? - Se ci fermiamo a mangiare alla fine, avremo troppa fame. Io mangio sempre di più in quei casi. Non m'importava da dove avremmo cominciato. Ero lì solo per distrarmi per un paio d'ore. Controllai il cellulare, ma non c'erano chiamate perse. Quanto ci metteva il detective a richiamare? Gli era successo qualcosa? Mi sentivo inseguita da una nuvola nera, e la sensazione di disagio che mi provocava non mi piaceva affatto. - Sei pallida - disse Vee. - Te l'ho detto, non mi sento bene. - E’ perché non mangi abbastanza. Siediti, vado a prendere hot dog e zucchero filato. Pensa a tutta quella salsa piccante e senape. Non so tu, ma io sento già la testa più leggera e il battito rallentato. - Non ho fame, Vee. - Certo che hai fame. Tutti hanno fame, ecco perché qui è pieno di chioschi -. E prima che riuscissi a fermarla venne ingoiata dalla folla. Andavo avanti e indietro sul vialetto, aspettando che Vee tornasse, quando il telefono squillò. Sullo schermo comparve il nome del detective Basso. - Finalmente - sussurrai rispondendo alla chiamata. - Nora, dove sei? - disse subito. Parlava in fretta, sembrava agitato. - Scott è scappato, sparito. Tutte le forze di polizia lo stanno cercando, ma io voglio che tu stia assolutamente lontano da lui. Starai con me finché le cose non si risolvono. Sto venendo a casa tua, sono già per strada. Mi si chiuse la gola, quasi non riuscivo a parlare. - Che cosa? Come ha fatto a uscire? Il detective Basso esitò, poi rispose: - Ha piegato le sbarre della cella. Naturalmente. Era un Nephilim. Due mesi prima avevo visto Chauncey maciullare il mio telefono con una mano. Non era difficile immaginare Scott che utilizzava la sua forza Nephilim per scappare di prigione. - Non sono a casa - mormorai. - Sono al Delphic -. Senza quasi rendermene conto, gettai uno sguardo sulla folla, anche se Scott non poteva sapere che fossi lì. Dopo essere scappato di prigione, probabilmente era andato dritto a casa mia, aspettandosi di trovarmi lì. Provai un'immensa gratitudine per Vee, per avermi trascinata fuori. Probabilmente in quel preciso momento Scott era sotto la mia finestra... Per poco il cellulare non mi scivolò di mano. Il biglietto. Sul bancone. Quello che avevo lasciato a mia madre, quello in cui avevo scritto di essere al Delphic. - Credo che sappia dove mi trovo - dissi al detective avvertendo i primi segnali di panico. - Tra quanto riesce ad arrivare qui? - Al Delphic? Trenta minuti. Rivolgiti al servizio di sicurezza e tieni sempre il telefono a portata di mano. Se vedi Scott, chiamami subito. - Non c'è un servizio di sicurezza al Delphic - dissi, la bocca completamente asciutta. Era risaputo che il parco non avesse alcun servizio di sicurezza, era anche uno dei motivi per i quali a mia madre non piaceva che ci andassi. - Allora vattene subito da lì - abbaiò. - Torna a Coldwater, ci vediamo alla stazione. Ce la fai? Sì, potevo farcela. Vee mi avrebbe dato un passaggio. Mi ero già incamminata nella direzione in cui era andata lei, e la stavo cercando. Il detective Basso emise un sospiro. - Andrà tutto bene, però... sbrigati. Io mando altre pattuglie al Delphic. Lo troveremo —. L'ansia che aveva nella voce però non mi tranquillizzò granché. Riattaccai. Scott era fuori. La polizia era sulle sue tracce e sarebbe andato tutto bene... purché me ne andassi subito da lì. Misi insieme un piano approssimativo. Primo: trovare Vee. Dovevo mischiarmi alla folla perché se Scott avesse percorso il viale in quel preciso istante mi avrebbe vista. Mi dirigevo a passo svelto verso i chioschi di cibarie, quando qualcuno, da dietro, mi diede una gomitata. Qualcosa nella violenza di quel gesto mi fece intuire che non si fosse trattato solo di un incidente. Mi voltai, e prima che facessi un giro completo il mio cervello mi avvisò di aver visto un volto familiare. La prima cosa che notai fu il bagliore del cerchietto d'argento all'orecchio. La seconda cosa che notai fu quanto fosse pestata la faccia. Aveva il naso rotto: storto e coperto da un livido rosso scuro, che si estendeva sotto entrambi gli occhi, dove diventava viola. Un attimo dopo, Scott mi trascinava via per un gomito. - Toglimi le mani di dosso - dissi, cercando di liberarmi. Ma Scott era più forte, e non lasciò la presa. - Certo, Nora, appena mi dici dov'è. - Dov'è cosa? - risposi, la voce passivo-aggressiva. Lui fece una risata priva di divertimento. Cercai di mantenere un'espressione il più neutra possibile, ma avevo un sacco di pensieri che mi sfrecciavano nella mente. Se gli avessi detto che l'anello era a casa, avrebbe lasciato il parco, ma probabilmente mi avrebbe trascinata via con sé. Quando la polizia fosse arrivata, non avrebbe trovato né lui né me. Non potevo certo chiamare il detective Basso per dirgli che stavamo andando a casa mia. Non con Scott attaccato alle costole. No, dovevo fare in modo che restasse lì, nel parco. - L'hai dato al ragazzo di Vee? Pensavi che avrebbe potuto proteggerlo da me? So che non è... normale -. Gli occhi di Scott erano tormentati dall'incertezza. - So che può fare cose che gli altri non possono fare. -Come te? Scott mi guardò accigliato. - Lui non è come me. Non è la stessa cosa. Più di questo non posso dire. Non ti farò del male, Nora. Voglio solo l'anello. Dammelo, e non mi rivedrai mai più. Mentiva. Mi avrebbe fatto del male. Se era così disperato da scappare di prigione, non c'era niente che non fosse disposto a fare: avrebbe riavuto l'anello, a qualunque costo. Sentivo le scariche di adrenalina lungo le gambe e non riuscivo a pensare con chiarezza. Ma da qualche parte, in fondo alla mente, l'istinto di sopravvivenza mi spingeva a prendere il controllo della situazione. Dovevo trovare un modo per separarmi da Scott. Seguendo ciecamente il mio istinto, dissi: - Ho l'anello. - So che ce l'hai tu - disse impaziente. - Dov'è? - È qui, l'ho portato con me. Rifletté, fissandomi un momento, quindi mi strappò di mano la borsa, la aprì di scatto e ci frugò dentro. Scossi la testa. - L'ho buttato. Mi lanciò la borsa, io l'afferrai e la strinsi al petto. - Dove? - domandò. - In un cestino vicino all'entrata - risposi. - In uno dei bagni delle donne. - Mostramelo. Mentre percorrevamo il viale, ordinai a me stessa di rimanere calma e di pensare alla prossima mossa. Correre? No, mi avrebbe raggiunta. Nascondermi in uno dei bagni? Non potevo restare chiusa in una toilette per sempre. Scott non era timido, non avrebbe avuto problemi a entrare per ottenere quello che voleva. Avevo ancora il cellulare, però: nel bagno delle donne avrei chiamato il detective Basso. - Questo qui - dissi, indicando una delle piccole costruzioni di calcestruzzo. L'entrata era proprio di fronte all'ingresso, in fondo a una discesa in cemento, mentre quello degli uomini era sul retro. Scott mi afferrò per le spalle e mi scosse. - Non mentirmi. Se lo perdo, mi uccidono. Se mi stai mentendo, io... -. Si bloccò, ma io avevo capito che cosa stava per dire: «Se mi stai mentendo, ti uccido». - E' nel bagno - dissi e annuii, più per convincere me stessa di potercela fare che per rassicurare lui. - Vado a prenderlo. E poi mi lasci in pace, d'accordo? Invece di rispondere, Scott tese la mano colpendomi sull'ombelico. - Il cellulare. Il mio cuore perse un battito. Non vedendo altra via d'uscita lo presi e glielo consegnai. Mi tremava leggermente la mano, ma cercai di tenerla ferma, per evitare che capisse che avevo un piano e che l'aveva appena mandato all'aria. - Hai un minuto. Non fare idiozie. Una volta in bagno, mi guardai velocemente intorno. Cinque lavandini contro una parete e, di fronte, cinque box. Due liceali ai lavandini, le mani coperte di schiuma. Sulla parete di fondo vidi una piccola finestra aperta. Senza sprecare tempo prezioso, salii sull'ultimo lavandino e mi misi in piedi. In quel modo, la finestra mi arrivava all'altezza dei gomiti. Per fortuna non c'era la zanzariera a bloccarmi, ma l'apertura comunque era stretta e non sarebbe stato facile uscire di lì. Mi sentivo tutti gli occhi addosso, ma li ignorai e mi issai sul davanzale, cercando di non fare caso alle cacche d'uccello e alle ragnatele. Spinsi il vetro della finestra, che si sganciò e cadde all'esterno, sbattendo forte per terra. Inspirai a fondo, pensando che Scott avesse sentito, invece il frastuono della gente aveva coperto il rumore. Appoggiai la pancia al davanzale e sollevai la gamba sinistra, tenendola piegata contro di me. Riuscii a farla passare dall'altra parte, mi girai tutta e feci passare anche la gamba destra. Afferai il davanzale e mi lasciai cadere giù. Restai acquattata un momento, aspettando di veder spuntare Scott. Poi corsi verso il viale principale del parco e mi mischiai alla folla. 22 L’oscurità si allargava nel cielo, eclissando le pallide strisce di luce che sventagliavano all'orizzonte. Andai di corsa verso l'uscita del parco. Vedevo già i cancelli. C'ero quasi. Stavo per staccarmi dalla folla, ma mi bloccai. A cinque metri da me c'era Scott, gli occhi fissi sulla gente che andava e veniva. Aveva immaginato che fossi scappata dal bagno e ora bloccava l'unica via d'uscita del parco, che era circondato da un alto reticolato sormontato dal filo spinato. L'unico modo per andarsene erano i cancelli. Lo sapevo, e lo sapeva anche Scott. Feci dietrofront e mi mescolai di nuovo alla folla, guardandomi continuamente alle spalle per assicurarmi che Scott non mi avesse vista. Mi addentrai nel parco pensando che se l'ultimo posto in cui avevo visto Scott erano i cancelli la cosa giusta da fare fosse allontanarmi da lì il più possibile. Avrei potuto nascondermi nel buio della casa degli orrori fino a quando non fosse arrivata la polizia, oppure potevo salire sul trenino panoramico, dal quale avrei potuto tenere d'occhio Scott e sapere dove si trovasse. Se non avesse mai guardato in alto, sarei stata al sicuro. Naturalmente, se mi avesse visto, mi avrebbe aspettato alla fine della corsa. Decisi di continuare a spostarmi, restando nei punti più frequentati ad aspettare che fosse finita. Alla ruota panoramica, il vialetto si divideva: un sentiero conduceva agli scivoli d'acqua, l'altro portava all'Arcangelo, le montagne russe. Avevo già svoltato in direzione di quest'ultimo quando vidi Scott. Anche lui mi vide. Eravamo su vialetti paralleli, separati dai binari del trenino panoramico. Un ragazzo e una ragazza montarono sul trenino, interrompendo momentaneamente il contatto visivo fra me e Scott, e io ne approfittai per scappare. Mi feci largo a spintoni, ma dovevo fermarmi continuamente perché i vialetti, delimitati da alte siepi che servivano a incanalare la gente in una specie di labirinto, erano affollatissimi. Non osavo voltarmi, ma sapevo che Scott non era lontano. Non si sarebbe azzardato a farmi del male davanti a tutti, no? Scossi la testa per scacciare quel pensiero e mi concentrai sul da farsi. Ero stata al Delphic solo altre tre o quattro volte, sempre di sera. Troppo poco per riuscire a orientarmi senza cartina. Mi sarei presa a calci per non averne presa una, entrando. Trovavo incredibilmente ironico che trenta secondi prima avessi cercato di allontanarmi dall'uscita e adesso l'unica cosa che avevo in mente era riuscire a raggiungerla. - Ehi! Fai un po' di attenzione! - Mi scusi - dissi trafelata. - Da che parte è l'uscita? - Perché? Dov'è l'incendio? Continuai a cercare di farmi strada. - Mi scusi. Devo passare... mi scusi-. Sopra le siepi, le luci scintillanti delle giostre brillavano sullo sfondo del cielo notturno. Mi fermai a un bivio, cercando di orientarmi. Destra o sinistra? Qual era la strada più veloce per raggiungere l'uscita? - Eccoti qua -. Il fiato di Scott era caldo sul mio orecchio. Mi mise una mano sul collo e fui percorsa da un brivido. - Aiuto! - urlai. - Qualcuno mi aiuti! - È la mia ragazza - spiegò Scott ai pochi che si erano fermati a guardarci. - È un gioco che facciamo sempre. - Non sono la sua ragazza! - gridai in preda al panico. - Toglimi le mani di dosso! - Dai, tesoro, vieni qui -. Scott mi abbracciò con forza, immo bilizzandomi. - Ti avevo avvertito di non mentirmi - mi sussurrò all'orecchio. - Ho bisogno dell'anello. Non voglio farti del male, Nora, ma lo farò se sarò costretto. - Toglietemelo di dosso! - gridai a chiunque potesse sentirmi. Scott mi torse il braccio dietro la schiena. Strinsi i denti per contrastare il dolore, ma riuscii a dirgli: - Sei pazzo? Non ho più l'anello. L'ho dato alla polizia, ieri sera. Fattelo ridare da loro. - Smettila di mentire! - ringhiò. - Chiamali. E' la verità. L'ho dato a loro, non ce l'ho più -. Chiusi gli occhi, pregando che mi credesse e mi lasciasse il braccio. - Allora mi aiuterai a riprenderlo. - Non me lo daranno mai. E' una prova. Gli ho detto che era tuo. - Lo restituiranno - disse lentamente, come se stesse elaborando un piano mentre parlava. - Se in cambio gli darò teAllora capii. - Hai intenzione di prendermi come ostaggio? Di usarmi per farti ridare l'anello? Aiuto! - urlai. Qualcuno mi aiuti! Un tizio che era lì vicino si mise a ridere. - Non è uno scherzo! - gridai. - Aiutatemi a liberarmi... Scott mi tappò la bocca con la mano, ma io gli diedi un calcio sullo stinco. Gli scappò un grugnito di dolore e si piegò in due. Colto di sorpresa, allentò un po' la stretta e riuscii a liberarmi. Feci un passo indietro e vidi il suo viso contratto dalla sofferenza, poi mi voltai e scappai, cercando una via di fuga, tentando di orientarmi fra le attrazioni che intravedevo in mezzo alla folla. Dovevo soltanto raggiungere l'uscita. La polizia doveva essere vicina. Poi sarei stata salva. Salva. Ripetei continuamente quella parola per tenere occupata la mente e non cedere al panico. A ovest, il cielo conservava ancora una pallida luce e usai quel riferimento per trovare il nord: se avessi proseguito in quella direzione, avrei trovato l'uscita. Un'esplosione mi spaccò i timpani. Mi spaventai talmente tanto che inciampai e caddi in ginocchio. O magari avevo solo agito d'impulso, perché a terra, intorno a me, c'erano molte altre persone. Dopo un momento di calma terrificante, la gente scappò da tutte le parti, urlando. - Ha una pistola! —. Le parole arrivarono confuse alle mie orecchie, lontane. Nonostante nessuna parte di me avesse davvero intenzione di farlo, mi ritrovai a guardare indietro. Scott si teneva una mano sul fianco e un liquido rosso vivo si allargava sulla maglietta. Aveva la bocca aperta e gli occhi spalancati, terrorizzati. Quando cadde su un ginocchio, vidi che qualche metro dietro di lui c'era qualcuno con la pistola in pugno: Rixon. Accanto a lui, Vee, le mani premute sulla bocca, era bianca come un lenzuolo. Ci fu un fuggifuggi generale e grida di terrore agghiaccianti. Mi spostai di lato per non essere travolta. - Sta scappando! - strillò Vee. - Qualcuno lo fermi! Rixon sparò diversi colpi, ma stavolta nessuno si buttò a terra, anzi, si misero tutti a correre più forte per raggiungere l'uscita. Mi rimisi in piedi e guardai nel punto in cui avevo visto Scott e Rixon l'ultima volta. L'eco degli spari mi rimbombava ancora nelle orecchie, ma riuscii a leggere le parole sulle labbra di Rixon: «Da questa parte», mentre indicava con il braccio libero. Sentendomi come se agissi al rallentatore, avanzai controcorrente rispetto alla folla e lo raggiunsi. - Ma che diavolo ti prende? - strillò Vee. - Perché gli hai sparato? - Arresto eseguito da un privato cittadino. È previsto dalla legge - rispose lui. - Be', e poi me l'ha detto Patch. - Non puoi sparare alla gente solo perché Patch ti dice di farlo! Vee aveva gli occhi fuori dalle orbite. - Ti arresteranno. Che facciamo adesso? - La polizia sta arrivando - intervenni io. - Sanno di Scott. - Dobbiamo andarcene di qui! - strillò Vee, agitando le braccia e andando freneticamente avanti e indietro.Accompagno Nora alla stazione di polizia. Rixon, vai a cercare Scott, ma non sparargli di nuovo! Legalo, come l'altra volta. - Nora non può uscire dai cancelli - obiettò Rixon. - È quello che Scott si aspetta. Conosco un'altra uscita. Vee, vai a prendere la Neon, ci vediamo nel parcheggio accanto ai cassonetti per l'immondizia. - Come farete a uscire? - chiese Vee. Rixon le diede un bacio in fronte. - Sbrigati, amore. La folla si era diradata e il vialetto era sgombro. In lontananza sentivo ancora echeggiare urla di panico, ma sembravano provenire da un altro mondo. Vee esitò un momento, quindi annuì. - Fate presto, okay? - Nel seminterrato della casa degli orrori c'è una stanza con i quadri elettrici - mi spiegò Rixon mentre percorrevamo di corsa il vialetto in direzione opposta. - Da lì si raggiungono i tunnel che passano sotto il Delphic. Anche se Scott ne avesse sentito parlare e capisse che abbiamo intenzione di passare da lì non ci troverebbe mai: è peggio di un labirinto, lungo chilometri -. Mi sorrise nervosamente e aggiunse: - Non preoccuparti, il Delphic è stato costruito dagli angeli caduti. Non da me in particolare, ma diversi miei compagni hanno dato una mano. Conosco i tunnel a memoria. Be'... più o meno. 23 A mano a mano che ci avvicinavamo alla testa del clown dalla quale si entrava nella casa degli orrori, le urla dei visitatori terrorizzati furono rimpiazzate dalla tipica musichetta raccapricciante dei luna park, che risuonava come un carillon sparato a tutto volume. Entrai attraverso la bocca e il pavimento si mosse. Allungai la mano per non perdere l'equilibrio, ma le pareti si spostarono, ruotando. Appena gli occhi si abituarono alla poca luce che filtrava dalla bocca del clown alle mie spalle vidi che ero finita in un barile girevole, che sembrava non volersi fermare mai. Il barile era dipinto a strisce bianche e rosse, che finivano per mescolarsi in un rosa confuso. - Vieni - disse Rixon, guidandomi lungo il barile. Misi un piede davanti all'altro, camminando alla cieca e scivolando. Alla fine, di nuovo stabile sulla terra ferma, fui investita da un getto d'aria gelida sparato dal pavimento. Il freddo mi lambì la pelle e feci un salto, spaventata a morte. - Non è reale - mi rassicurò Rixon. - Dobbiamo proseguire. Se Scott decide di ispezionare i tunnel, è dentro che dobbiamo affrontarlo. L'aria era viziata, umida e puzzava di ruggine. La testa del clown, ormai, era solo un ricordo lontano. La sola luce proveniva da lampadine rosse appese al soffitto cavernoso, che brillavano a intermittenza giusto il tempo di illuminare uno scheletro penzolante, uno zombie in disfacimento o un vampiro che usciva dalla bara. - Quanto manca? - chiesi a Rixon in mezzo a quella cacofonia distorta di grida, risate stridule e lamenti che echeggiavano intorno a noi. - La stanza è lì avanti. Apriamo una porta e siamo nei tunnel. Scott sta sanguinando parecchio, ma non morirà. Patch ti ha spiegato tutto dei Nephilim, vero? Però potrebbe svenire se perde molto sangue. E' possibile che non trovi neanche l'entrata ai tunnel, comunque. Saremo fuori di qui prima che te ne accorga —. Sembrava esageratamente fiducioso, fin troppo ottimista. Avanzammo, e all'improvviso ebbi l'inquietante sensazione che qualcuno ci seguisse. Mi voltai di scatto, ma l'oscurità era assoluta. Se fossimo stati pedinati, non avrei comunque visto nulla. - Credi che Scott potrebbe averci seguiti? - chiesi a Rixon, cercando di parlare piano. Lui si fermò e si voltò. Restò in ascolto. Dopo un attimo dichiarò: - Non c'è nessuno. Proseguimmo a passo svelto, e di nuovo sentii una presenza dietro di me. Avvertii un brivido che mi fece rizzare i capelli e ancora una volta sbirciai alle mie spalle. Nell'oscurità si materializzò il profilo di un viso. Feci per urlare, ma poi il profilo divenne definito e familiare. Mio padre. I capelli biondi risplendevano nel buio, gli occhi erano scintillanti e tristi. «Ti voglio bene.» - Papà? - sussurrai, ma per precauzione feci un passo indietro. Era un trucco. Una menzogna. «Mi spiace di aver dovuto lasciare te e la mamma.» Volevo che sparisse. Non era reale. Era una minaccia. Voleva farmi del male. Ripensai a come mi aveva afferrato il braccio attraverso la finestra, in quella villetta, e aveva cercato di ferirmi. Ricordai quando mi aveva rincorso, in biblioteca. La sua voce, però, aveva lo stesso tono gentile e convincente della prima volta che mi aveva parlato, alla villetta. Non era la voce dura, acuta che poi l'aveva sostituita. Era la sua voce. «Ti voglio bene, Nora. Qualunque cosa accada, promettimi che te lo ricorderai. Non mi importa come o perché sei entrata nella mia vita: m'importa soltanto che l'hai fatto. Non ricordo tutte le cose sbagliate che ho fatto, soltanto quelle giuste. Ricordo te. Tu hai dato un senso alla mia vita. L'hai resa speciale.» Scossi la testa, cercando di scacciare la sua voce e chiedendomi perché Rixon non dicesse nulla: non riusciva a vederlo? Non potevamo fare niente per mandarlo via? La verità era, però, che non volevo che la voce di mio padre smettesse di parlare. Non volevo che se ne andasse. Volevo che fosse reale. Avevo bisogno di gettarmi tra le sue braccia e sentirgli dire che sarebbe andato tutto bene. E più di ogni altra cosa, volevo che tornasse a casa. «Prometti che te ne ricorderai.» Avevo il viso rigato di lacrime. «Lo prometto» pensai, anche se sapevo che non mi avrebbe sentito. «Un angelo della morte mi ha aiutato a incontrarti. Lei sta tenendo il tempo fermo per noi, Nora. Mi sta aiutando a parlarti nella mente. Devo dirti una cosa importante, ma non ho molto tempo. Devo tornare indietro e prima ho bisogno che mi ascolti con attenzione.» — No - dissi con voce strozzata. - Voglio venire con te. Non lasciarmi qui. Voglio venire con te! Non puoi lasciarmi di nuovo! «Non posso restare, tesoro. Ormai appartengo a un altro posto.» - Per favore, non andare - singhiozzai stringendomi i pugni al petto come se volessi impedire al cuore di scoppiare. L'enorme senso di abbandono che provavo era più forte di qualsiasi altra emozione. Mi avrebbe lasciata lì, nella casa degli orrori, al buio, con nessun altro ad aiutarmi a parte Rixon. - Perché mi lasci di nuovo? Ho bisogno di te! «Tocca le cicatrici di Rixon. Troverai la verità.» Il viso di mio padre si dissolse nell'oscurità. Allungai la mano per fermarlo, ma afferrai soltanto una striscia di fumo. - Nora? Al suono della voce di Rixon sobbalzai. - Dobbiamo sbrigarci - disse, come se fosse passato solo il battito di un secondo. Mio padre se n'era andato. Per ragioni che non riuscivo a spiegare, sapevo di averlo visto per l'ultima volta. Il dolore e lo smarrimento erano insopportabili. Nel momento in cui avevo più bisogno di lui, proprio quando stavo per entrare nei tunnel, impaurita e smarrita, mi aveva lasciata sola. - Non vedo dove metto i piedi - dissi ansimando, mentre mi asciugavo gli occhi. Cercavo faticosamente di concentrare i miei pensieri su un obiettivo specifico: arrivare ai tunnel e incontrare Vee dall'altra parte. - Ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi. Rixon mi cacciò in mano un lembo della sua camicia. - Tieniti e seguimi. Stai al passo, non abbiamo molto tempo. Strinsi il cotone tra le dita e il cuore prese a battermi più forte. A pochi centimetri da me c'era la sua schiena nuda. Mio padre mi aveva detto di toccargli le cicatrici: sarebbe stato facile adesso. Dovevo solo far scivolare la mano... Cedere al vortice scuro in cui sarei stata risucchiata... Ripensai a quando avevo toccato le cicatrici di Patch e a come fossi stata trasportata all'interno della sua memoria. Non avevo il minimo dubbio che toccare le cicatrici di Rixon sarebbe stata la stessa cosa. Non volevo andarci. Volevo stare con i piedi per terra, arrivare ai tunnel e uscire dal Delphic. Mio padre, però, era tornato per dirmi dove avrei potuto trovare la verità. Qualunque cosa voleva che vedessi nel passato di Rixon, doveva essere importante. Per quanto male facesse sapere che mio padre mi aveva lasciata lì, dovevo fidarmi di lui. Dovevo fidarmi del fatto che avesse rischiato tutto per me. Feci scivolare la mano sulla schiena di Rixon. La pelle era liscia... poi ecco il bordo frastagliato della cicatrice. Vi appoggiai la mano aperta e aspettai di essere risucchiata in un mondo strano, sconosciuto. La strada era buia, silenziosa. Le case che la fiancheggiavano su entrambi i lati erano abbandonate, fatiscenti. I cortili minuscoli e recintati. Le finestre sprangate o coperte da assi inchiodate. Il gelo mi affondava i denti nella pelle. Due forti esplosioni ruppero il silenzio. Mi voltai di scatto, in direzione della casa dall'altra parte della strada. «Spari?» pensai, in preda al panico. D'istinto, portai le mani alle tasche per prendere il cellulare e chiamare il 911, ma poi mi ricordai di essere nei ricordi di Rixon. Quello a cui stavo assistendo era già accaduto e non potevo fare nulla per cambiarlo. Passi rapidi, di qualcuno che si avvicinava di corsa, risuonarono nella notte e vedere mio padre che attraversava il cancello e spariva nel cortile fu uno shock. Senza neanche pensarci, lo seguii. - Papà! - gridai. Non riuscii a evitarlo. - Non entrare! -. Indossava gli stessi abiti della sera in cui era stato ucciso. Spinsi il cancello e lo raggiunsi. Singhiozzando, gli gettai le braccia al collo. - Dobbiamo andarcene. Sta per succedere qualcosa di orribile. Mio padre passò attraverso le mie braccia e raggiunse un muretto che correva intorno alla proprietà. Si abbassò e continuò a muoversi lungo il muretto, gli occhi fissi alla porta di servizio. A quel punto, mi appoggiai alla parete della casa e piansi. Non volevo assistere a quella scena. Perché mio padre mi aveva detto di toccare le cicatrici di Rixon? Non volevo. Non si rendeva conto di quanto avessi già sofferto? - È la tua ultima possibilità - . Le parole arrivarono dall'interno della casa, attraverso la porta di servizio aperta. - Vai al diavolo. Un altro sparo. Mi accasciai a terra e mi schiacciai contro la parete, desiderando solo che il ricordo finisse. - Lei dov'è? -. La domanda fu pronunciata a voce talmente bassa, tranquilla, che a stento riuscii a sentirla in mezzo ai miei singhiozzi. Con la coda dell'occhio vidi che mio padre si muoveva. Attraversò il cortile, rapido e furtivo, e raggiunse la porta. Aveva una pistola. La sollevò e prese la mira. Corsi da lui e cercai di strappargliela di mano, di spingerlo da una parte, nell'ombra, ma era come spostare un fantasma: le mie mani lo attraversavano da parte a parte. Mio padre premette il grilletto e lo sparo lacerò la notte, spezzando il silenzio. Fece fuoco ancora e poi ancora. Nonostante tutto il mio essere si opponesse, mi voltai in direzione della casa e vidi, di spalle, il fisico asciutto del giovane a cui mio padre stava sparando. Più in là, un altro uomo giaceva a terra con le spalle contro il divano. Sanguinava e aveva il viso contorto in una smorfia di dolore e panico. Frastornata, mi resi conto che si trattava di Hank Millar. - Scappa! - gridò Hank a mio padre. - Non pensare a me! Scappa e salvati! Ma mio padre non scappò. Tenendo la pistola con entrambe le mani, continuò a sparare al giovane, che sfoggiava un cappellino da baseball blu e un'espressione impenetrabile. E poi, molto lentamente, si voltò a guardare mio padre. 24 Rixon mi afferrò il polso e strinse forte. - Attenta a dove ficchi il naso -. Aveva le mascelle serrate dall'ira, le narici dilatate. - Forse è così che funziona con Patch, ma con me no. Nessuno tocca le mie cicatrici Sollevò le sopracciglia in modo eloquente. Ero quasi piegata in due dal nodo che mi stringeva lo stomaco. - Ho visto morire mio padre - sussurrai, paralizzata dall'orrore. - Hai visto l'assassino? - chiese Rixon scuotendomi per il polso nel tentativo di riportarmi al presente. - Ho visto Patch da dietro -. Ansimai. - Indossava il suo cappellino da baseball. Annuì, come se riconoscesse che ormai, dopo quello che avevo visto, non si poteva più tornare indietro. - Non voleva mentirti, ma sapeva che se te l'avesse detto ti avrebbe persa. E' successo prima di conoscerti. - Non mi interessa quando è successo - dissi, la voce stridula e tremante. - Dev'essere consegnato alla giustizia. - Non puoi farlo. Stiamo parlando di Patch. Se lo denunci, credi davvero che si lascerà mettere sotto dai poliziotti? No, certo che no. La polizia non gli faceva nessuna paura. Solo gli arcangeli potevano fermarlo. - Una cosa però mi sfugge. C'erano soltanto tre persone nel ricordo: mio padre, Patch e Hank Millar. Tutti e tre hanno visto cos'è successo. Allora perché io l'ho visto nella tua memoria? Rixon non disse nulla, ma la bocca gli si indurì. Fui assalita da un nuovo, orribile pensiero. Tutte le certezze riguardo l'assassino di mio padre svanirono. L'avevo visto di spalle e avevo dedotto che si trattasse di Patch a causa del cappellino. Più riflettevo sul ricordo, però, più mi convincevo che l'assassino era troppo magro per essere Patch, le spalle troppo spigolose. Infatti, l'assassino somigliava molto a... -Tu l'hai ucciso - sussurrai. - Sei stato tu. Indossavi il cappellino di Patch -. Lo shock venne divorato velocemente dalla ripugnanza e da un gelido terrore. - Hai ucciso mio padre. Dagli occhi di Rixon svanì ogni traccia di gentilezza o comprensione. - Be', è imbarazzante. - Indossavi il cappellino di Patch, quella notte. L'hai preso in prestito, non è vero? Per uccidere mio padre dovevi assumere un'altra identità, solo così potevi permettere alla tua psiche di attuare un meccanismo di rimozione - dissi, attingendo a tutto quello che mi ricordavo del corso di psicologia del primo anno. - No. Aspetta. Non è questo. Tu hai fìnto di essere Patch perché vorresti essere lui. Sei geloso. E' così, non è vero? Preferiresti essere lui... Rixon mi afferrò la mascella, obbligandomi a tacere. - Chiudi quella bocca. Balzai indietro, la faccia dolorante. Avrei voluto scagliarmi su di lui, colpirlo con qualsiasi cosa mi capitasse sottomano, ma sapevo di dover stare calma. Dovevo scoprire tutto il possibile. Iniziavo a credere che Rixon non mi avesse portato nei tunnel per aiutarmi a fuggire. Peggio, iniziavo a credere che non avesse alcuna intenzione di portarmi fuori di lì. - Geloso di lui? - ringhiò. - Certo che sono geloso. Non è lui quello sulla corsia di sorpasso che porta dritta all'inferno. Eravamo insieme in questa storia, ma lui ne è uscito e ha riacquistato le ali —. I suoi occhi mi ispezionarono con disgusto. - Per colpa tua. Scossi la testa. Non ci credevo. - Hai ucciso mio padre prima di sapere chi fossi. Rise, ma non era per niente divertito. — Sapevo che eri da qualche parte, ti stavo cercando. - Perché? Rixon tirò fuori la pistola da sotto la camicia e fece un gesto per indicarmi di addentrarmi nella casa degli orrori. Continua a camminare. - Dove stiamo andando? Non rispose. - La polizia sta arrivando. - Al diavolo la polizia - disse Rixon. - Quando arriveranno avrò già finito. «Finito? Stai calma» mi dissi. «Cerca di guadagnare tempo.» - Hai intenzione di uccidermi perché ho scoperto la verità? Perché so che sei stato tu a uccidere mio padre? - Harrison Grey non era tuo padre. Aprii la bocca, ma le parole che credevo stessero per uscire non arrivarono. L'unica immagine che avevo davanti agli occhi era quella di Marcie in piedi nel giardino di casa sua che mi diceva che Hank Millar avrebbe potuto essere mio padre. Mi venne da vomitare. Allora Marcie diceva la verità? Per sedici anni mi avevano nascosto la verità sulla mia famiglia? Mi domandai se mio padre ne fosse al corrente; il mio vero padre: Harrison Grey, l'uomo che mi aveva cresciuto e mi aveva amata. Non il mio padre biologico, che mi aveva abbandonata. Non Hank Millar, che per quello che mi riguardava poteva andarsene all'inferno. - Tuo padre è un Nephilim di nome Barnabas - continuò Rixon. - Ultimamente si fa chiamare Hank Millar. No. Barcollai, frastornata da quella rivelazione. Il sogno. Il sogno di Patch. Era davvero un ricordo, non aveva mentito. Barnabas - Hank Millar - era un Nephilim. Ed era mio padre. Mi sembrò che tutto il mio mondo stesse per crollarmi addosso, ma mi costrinsi a non perdere la concentrazione. In un luogo re- condito della memoria era racchiuso un dettaglio che collegavo al nome di Barnabas. Non riuscivo a collocarlo, ma non era la prima volta che lo sentivo, era troppo insolito per essere dimenticato. «Barnabas, Barnabas, Barnabas...» Cercai di venirne a capo. Perché Rixon mi stava dicendo tutte quelle cose? Come faceva a sapere del mio padre biologico? Che cosa gliene importava? E poi l'illuminazione. Una volta, quando avevo toccato le cicatrici di Patch entrando nella sua memoria, l'avevo sentito parlare del suo vassallo Nephilim, Chauncey Lan- geais. Ma aveva parlato anche del vassallo di Rixon, Barnabas... - No - mormorai senza neanche accorgermene. -Sì. Avrei voluto mettermi a correre, disperatamente, ma avevo le gambe di legno, rigide come pali. - Quando Hank ha messo incinta tua madre, aveva sentito abbastanza voci sul Libro di Enoch da temere che sarei andato a cercare suo figlio, soprattutto se fosse stata una femmina. Quindi fece l'unica cosa possibile. Nascose sua figlia. Te. Quando Hank disse al suo amico Harrison Grey che tua madre era nei guai, lui accettò di sposarla e di fare finta che tu fossi sua. «No, no, no.» - Ma io discendo da Chauncey. Da parte di mio padre, Harrison Grey. Ho un segno sul polso che lo prova. Certo. Molti secoli fa, Chauncey si divertì con una contadina. Lei ebbe un figlio. Nessuno perse tempo a ragionare su quel ragazzo, o sui suoi figli, o i figli dei figli, e così via nei secoli fino a che uno dei figli andò a letto con una donna che non era sua moglie, immettendo il nobile sangue Nephilim del suo antenato, il duca di Langeais, in un'altra discendenza. La discendenza che finì per dare i natali a Barnabas, o Hank, come sembra preferisca ultimamente Con un cenno impaziente, Rixon mi fece capire di fare due più due. Già fatto. - Stai dicendo che sia Harrison sia Hank hanno il sangue Ne- philim di Chauncey - dissi. E Hank, un purosangue Nephilim di prima generazione, era immortale, mentre il sangue Nephilim di mio padre, diluito nei secoli come il mio, non lo era. Hank, un uomo che conoscevo appena e che rispettavo ancora meno, poteva vivere per sempre. Mentre mio padre se n'era andato per sempre. - Certo, amore. - Non chiamarmi amore. - Preferisci che ti chiami angelo? Si stava prendendo gioco di me. Giocava con me perché ero esattamente dove voleva che fossi. Ci ero già passata una volta, con Patch, e sapevo che cosa sarebbe successo. Hank Millar era il mio padre biologico nonché il vassallo Nephilim di Rixon, che mi avrebbe sacrificata per uccidere Hank Millar e ottenere un corpo umano. - Ho diritto a delle risposte prima di morire? - chiesi, con tono di sfida più che di paura. - Perché no? - disse con un'alzata di spalle. - Credevo che solo i Nephilim purosangue potessero giurare fedeltà. Se Hank fosse stato di prima generazione, avrebbe dovuto avere come genitori un umano e un angelo caduto. Ma suo padre non era un angelo caduto, era uno dei discendenti di Chauncey. - Dimentichi il fatto che gli uomini possono avere relazioni con angeli caduti donna. Scossi il capo. - Gli angeli caduti non hanno corpi umani. Le donne non possono partorire. Me l'ha detto Patch. - Ma un angelo caduto donna nel momento in cui possiede un corpo umano femminile, durante Cheshvan, può generare un bambino. Anche se la donna umana partorisce molto dopo Cheshvan, il bambino è contaminalo perché è stato concepito da un angelo caduto. - Disgustoso. Lui mi rivolse un debole sorriso. - Sono d'accordo con te. - Giusto per curiosità, quando mi sacrificherai il tuo corpo diventerà umano o dovrai possedere un altro corpo umano per sempre? - Diventerò umano -. Piegò leggermente le labbra. - Quindi se esci dalla tomba per perseguitarmi, ricordati di cercare sempre il mio bel musetto. - Patch arriverà da un momento all'altro e ti fermerà - dissi, cercando di apparire sicura, ma incapace di fermare l'insopportabile tremore che squassava ogni centimetro del mio corpo. Gli risero gli occhi. - Ho avuto il mio bel daffare, ma sono sicuro di aver causato un attrito pressoché irreparabile tra di voi. Hai dato inizio tu a tutto, quando l'hai lasciato, e devo dire che neanch'io avrei saputo organizzare meglio le cose. Poi le liti continue, la tua gelosia nei confronti di Marcie, il biglietto di Patch, che ho drogato giusto per aggiungere ulteriore sfiducia. Quando ho rubato l'anello a Barnabas e te l'ho mandato in pasticceria, non avevo dubbi che l'ultima persona da cui saresti corsa sarebbe stata Patch. Mettere da parte l'orgoglio e chiedere il suo aiuto? Quando pensavi che stesse insieme a Marcie? Neanche a parlarne. Quando poi mi hai chiesto se fosse lui la Mano Nera, mi hai servito il gioco su un piatto d'argento. Ho potuto fornire la prova schiacciante rispondendo che sì, lo era. Poi ho approfittato della piega presa dalla nostra conversazione per darti l'indirizzo di una delle case sicure usate da Barnabas spacciandola come casa di Patch, sapendo bene che saresti andata a curiosare e che probabilmente ci avresti anche trovato dei sigilli della Mano Nera. Ho annullato io la serata al cinema, ieri, non Patch. Non volevo restare bloccato in un cinema, mentre tu eri sola in quell'appartamento: avevo bisogno di seguirti. Ho piazzato la dinamite quando eri già dentro, sperando di sacrificarti, ma tu sei scappata. - Sono davvero colpita, Rixon. Una bomba. Che finezza. Perché non hai reso tutto più semplice? Sarebbe bastato entrare in camera mia una notte e piazzarmi una pallottola in mezzo agli occhi. Lui spalancò le braccia. - Questo è un momento importante per me, Nora. Vuoi farmene una colpa se ho voglia di renderlo un po' altisonante? Ho cercato di fingermi il fantasma di Harrison per attirarti, pensando che sarebbe stato davvero fantastico farti crepare pensando di essere stata uccisa dal tuo stesso padre, ma non ti sei fidata. Continuavi a scappare. - Sei uno psicopatico. - Preferirei "creativo". - Quali altre bugie mi hai raccontato? In spiaggia, mi hai detto che Patch era ancora il mio angelo custode... - Per farti pensare di essere al sicuro, sì. - E il giuramento di sangue? - Ho improvvisato. Tanto per tenere viva la situazione. - Quindi mi stai dicendo che niente di quello che mi hai raccontato è vero. - Eccetto la parte che riguarda il tuo sacrificio. A quel proposito ero maledettamente serio. Ma adesso basta parlare, andiamo avanti Spingendomi con la pistola, mi costrinse ad addentrarmi ancora nella casa degli orrori, ma mi fece perdere l'equilibrio e inciampai, atterrando su una parte di pavimento che iniziò a dondolare su e giù. Sentii che Rixon mi afferrava per il braccio per rimettermi in piedi, ma qualcosa andò storto. La sua mano mollò la presa e sentii il tonfo del suo corpo che cadeva. Il suono sembrò arrivare da un punto esattamente sotto di me. Mi sfiorò il pensiero che potesse essere caduto in una delle trappole di cui si diceva fosse disseminata la casa, ma non rimasi lì a controllare. Fuggii di corsa nella direzione da cui eravamo arrivati, cercando la testa del clown. Davanti a me saltò fuori una figura, accompagnata da una luce lampeggiante che illuminava un'ascia insanguinata conficcata sulla testa di un pirata barbuto. Mi guardò con malizia, poi girò gli occhi all'indietro e la luce si spense. Feci una serie di respiri brevi, ricordando a me stessa che era tutto finto, ma non riuscivo a mantenere l'equilibrio su quel pavimento che tremava e ondeggiava sotto i piedi. Mi misi in ginocchio e avanzai carponi sulla sporcizia che mi si attaccava ai palmi delle mani, cercando di fermare la testa, che sembrava oscillare insieme al pavimento. Avanzai per qualche metro, intenzionata ad allontanarmi il più possibile prima che Rixon riuscisse a liberarsi dalla trappola. - Nora! -. L'urlo rabbioso di Rixon mi raggiunse da dietro. Mi tirai su appoggiandomi alle pareti, che però erano ricoperte di una fanghiglia scivolosa. Sopra di me rimbombarono delle risate, che pian piano scemarono in un brusio. Scossi le mani per liberarmi dalla fanghiglia, quindi cercai di trovare la strada nel buio pesto che avevo davanti. Ero completamente disorientata. Mossi qualche passo avanti, svoltai e socchiusi gli occhi al debole bagliore arancione che comparve qualche metro più in là. Non era la testa del clown, ma fui attirata dalla luce come una falena. Raggiunta la lanterna, vidi che illuminava la scritta TUNNEL DELLA PAURA. Mi trovavo su un molo: piccole barche di plastica erano ormeggiate una in fila all'altra, lambite dall'acqua del canale. Sentii dei passi dietro di me. Non potendo fermarmi a riflettere, salii sulla barca più vicina. Feci appena in tempo a rimettermi in equilibrio che la barca partì sobbalzando e io fui scaraventata contro l'asse di legno che fungeva da sedile. Le imbarcazioni si muovevano in fila indiana, e i binari su cui scivolavano facevano un rumore secco a mano a mano che procedevano lungo il tunnel. Davanti a me si spalancarono un paio di porte da saloon e venni ingoiata dal buio. Procedendo a tentoni verso la parte anteriore della barca, mi arrampicai sulla battagliola e da lì sulla prua. Restai ferma un momento, con una mano protesa avanti, per cercare di afferrare la battagliola posteriore della barca che precedeva la mia. Non ci arrivavo. Bisognava che saltassi. Mi posizionai più avanti possibile sulla prua, piegai le gambe e saltai. Mi concessi un attimo di pausa per riprendere fiato, quindi mi rimisi al lavoro. Andai di nuovo a prua, con l'intenzione di saltare da una barca all'altra fino a raggiungere la fine della fila. Rixon era più grosso e più veloce, e aveva una pistola. La mia unica speranza era quella di riuscire a guadagnare tempo. Ero sulla barca successiva, pronta a saltare, quando fui investita dal suono di una sirena e da un'improvvisa luce rossa che si accese sopra di me, accecandomi. Dal soffitto piombò uno scheletro che mi cadde addosso. Persi l'appiglio, ebbi un capogiro e scivolai fuoribordo. L'acqua gelida mi inzuppò gli abiti e mi sommerse. Mi spinsi con il piede e riaffiorai in superficie, quindi raggiunsi faticosamente la barca con l'acqua che mi arrivava al petto. Battendo i denti per il freddo, mi afferrai alla battagliola e mi issai di nuovo dentro. Nel tunnel risuonarono diversi spari, e uno dei proiettili mi passò accanto fischiando. Mi abbassai, mentre dietro, a qualche barca di distanza, sentivo la risata di Rixon. - E' solo questione di tempo! - gridò. Sopra di me lampeggiarono diverse luci, e tra un flash e l'altro riuscii a vedere Rixon che avanzava. Più avanti si sentì un debole scroscio e sentii salirmi il cuore in gola. Tutta la concentrazione riservata a Rixon si spostò sugli spruzzi d'acqua che riempivano l'aria. Il cuore sembrò fermarsi, ma poi riprese a martellare fin troppo forte. Mi afferrai alla battagliola e mi preparai al salto. La barca si inclinò e poi precipitò giù per la cascata, cadendo con un tonfo e spruzzando acqua dappertutto; inzuppata e tremante com'ero, l'acqua non mi sembrò neanche fredda. Mi asciugai gli occhi e fu allora che vidi una piccola banchina di servizio in una rientranza della parete del tunnel, alla mia destra. Da lì si apriva una porta su cui era appeso il cartello: ALTA TENSIONE. Mi voltai. La barca di Rixon non era ancora caduta giù e, avendo soltanto una manciata di secondi a disposizione, decisi di rischiare. Saltai giù dalla barca e cercai di raggiungere la banchina il più in fretta possibile, mi issai fuori dall'acqua e provai ad aprire la porta. Ci riuscii, e all'improvviso sentii il forte cigolio e lo sferragliare delle macchine, delle centinaia di meccanismi che giravano e ansimavano. Avevo trovato il cuore meccanico della casa degli orrori, l'entrata ai tunnel sotterranei. Chiusi la porta, lasciando solo uno spiraglio per vedere fuori. Con un occhio premuto contro la fessura, guardai cadere dalla cascata la barca successiva. Sopra c'era Rixon. Si sporgeva dalla battagliola, scrutando l'acqua. Mi aveva vista saltare fuori? Mi stava cercando? La sua barca proseguì il cammino, ma lui saltò in acqua. Scostandosi i capelli bagnati dal viso, esaminò la torbida superfìcie dell'acqua. Fu allora che mi resi conto che aveva le mani vuote. Non stava cercando me: aveva perso la pistola. Il tunnel era buio, e mi sembrava impossibile che Rixon riuscisse a vedere il fondo del canale, perciò avrebbe dovuto cercarla a tentoni, e questo avrebbe richiesto tempo. Io, però, non avevo bisogno solo di tempo, ma di un miracoloso colpo di fortuna. Sicuramente la polizia era già arrivata e stava setacciando il parco, ma chissà se gli sarebbe venuto in mente di guardare nei meandri della casa degli orrori prima che fosse troppo tardi. Chiusi piano la porta, sperando di trovare una serratura che mi consentisse di chiuderla a chiave, ma non c'era. Improvvisamente, pensai che forse sarebbe stato meglio provare a uscire prima di Rixon, invece di nascondermi: se lui avesse varcato quella porta, sarei stata in trappola. Dalla mia sinistra, dietro il quadro elettrico, arrivò un respiro affannoso. Mi voltai di scatto, facendo dardeggiare gli occhi nell'oscurità. -Chi è là? - Tu che dici? Battei le palpebre. - Scott? -. Indietreggiai nervosamente. - Mi sono perduto nei tunnel. Poi ho trovato una porta e sono arrivato qui. - Stai ancora sanguinando? - Già. Non mi sono ancora dissanguato, incredibile Parlava a scatti, si capiva che faceva fatica. - Hai bisogno di un dottore. Fece una risata spenta. - Ho bisogno dell'anello. A quel punto, non sapevo quanto fosse convinto di volerlo riavere. Era sfinito e sapevamo tutti e due che difficilmente sarebbe riuscito a trascinarmi fuori di là per usarmi come ostaggio. Era troppo debole, ma restava pur sempre un Nephilim: sarebbe sopravvissuto. Se avessimo collaborato, avremmo avuto una possibilità di cavarcela. Ma per riuscire a convincerlo ad aiutarmi, dovevo guadagnarmi la sua fiducia. Mi avvicinai al quadro elettrico e mi inginocchiai accanto a lui. Si teneva una mano premuta contro il fianco, proprio sotto la gabbia toracica, per cercare di fermare il sangue. Aveva il colorito giallognolo e lo sguardo devastato non fece che confermarmi quello che già sapevo: soffriva da morire. - Non credo che userai l'anello per fare nuovi adepti mormorai. - Non obbligherai altre persone a entrare nella società. Scott scosse la testa, dandomi ragione. - C'è una cosa che devi sapere. Ricordi che ti ho detto che la sera in cui tuo padre è stato ucciso io stavo lavorando? Ricordavo vagamente che me l'avesse detto. - Dove vuoi arrivare? - gli chiesi, esitante. - Lavoravo in un negozio di alimentari che si chiama Qui- ckies, e che si trovava a pochi isolati da dove tuo padre è stato ucciso -. Si fermò per un istante, come se si aspettasse che arrivassi da sola a chissà quale conclusione, poi continuò: - Avrei dovuto seguire tuo padre, quella notte. Me lo aveva chiesto la Mano Nera. Disse che tuo padre doveva incontrare qualcuno e che io dovevo proteggerlo. - Ma che stai dicendo? - chiesi, la voce secca come carta vetrata. - Non l'ho fatto -. Scott si nascose il viso tra le mani. - Volevo dimostrare alla Mano Nera che non poteva darmi ordini, che non volevo appartenere a quella società. Così restai al lavoro, non mi mossi. Non seguii tuo padre e lui venne ucciso. È morto per colpa mia. Scivolai giù, lungo la parete, fino a sedermi accanto a lui. Non riuscivo a parlare. Le parole giuste non venivano fuori. - Mi odi, vero? - mormorò. - Non sei stato tu a uccidere mio padre - dissi, inebetita. - Non è colpa tua. - Sapevo che era in pericolo, sennò perché mai la Mano Nera avrebbe dovuto chiedermi di fare in modo che arrivasse a quell'incontro sano e salvo? Avrei dovuto andarci. Se avessi eseguito gli ordini della Mano Nera, tuo padre sarebbe ancora vivo. - Ormai è successo - sussurrai, cercando di non lasciare che quell'informazione mi portasse a incolpare Scott. Avevo bisogno del suo aiuto. Insieme, avremmo potuto scappare. Non potevo permettermi di odiarlo, dovevo collaborare con lui. Dovevo fidarmi di lui, e lui doveva fidarsi di me. - Il fatto che ormai sia accaduto non significa che sia facile da dimenticare. Meno di un'ora dopo l'orario in cui avrei dovuto seguire tuo padre, il mio ha telefonato per darmi la notizia. Mi scappò un lamento. Poi la Mano Nera venne in negozio. Indossava una maschera, ma riconobbi la voce - Scott rabbrividì. - Non la dimenticherò mai. Mi diede una pistola e mi ordinò di farla sparire. Era la pistola di tuo padre. Disse che voleva che il rapporto della polizia dicesse che tuo padre era morto da persona innocente, disarmato. Non voleva che la tua famiglia dovesse sopportare il dolore e la confusione di sapere che cosa fosse realmente accaduto quella notte. Non voleva che qualcuno sospettasse che tuo padre avesse un legame con criminali come lui. Doveva sembrare una rapina finita male. Avrei dovuto gettare la pistola nel fiume, invece l'ho tenuta. Volevo uscire dalla società, e l'unico modo possibile mi sembrava quello di ricattare la Mano Nera. Così tenni la pistola. Quando mia madre e io ci trasferimmo qui, lasciai un messaggio alla Mano Nera. Gli dissi che se mi avesse cercato avrei fatto in modo che la polizia trovasse la pistola di Harrison Grey e che tutti sapessero dei suoi legami con la Mano Nera. Giurai che avrei trascinato nel fango il nome di tuo padre ogni volta che fosse stato necessario, se questo significava riavere indietro la mia vita. La pistola ce l'ho ancora -. Aprì le mani e l'arma gli cadde tra le ginocchia, sul cemento. - Ce l'ho ancora. Un dolore sordo e violento si impadronì di me. - Non sai quanto sia stato difficile averti accanto - disse Scott con un filo di voce. - Volevo che mi odiassi. Dio solo sa quanto io odiassi me stesso. Ogni volta che ti vedevo, riuscivo solo a pensare che mi ero tirato indietro, che avrei potuto salvare la vita di tuo padre. Mi dispiace. - Va tutto bene - dissi, tanto a me stessa quanto a lui. - Andrà tutto bene Mi sembrava la più grossa delle bugie, però. Scott impugnò la pistola. Prima che riuscissi a capire che cosa stesse succedendo, se la portò alla testa. - Non merito di vivere. Mi si gelò il sangue. - Scott... - E' giusto, per la tua famiglia. Non posso più guardarti in faccia, non posso più guardare in faccia neanche me stesso Il dito si piegò sul grilletto. Non c'era tempo per pensare. - Non sei stato tu a uccidere mio padre - dissi - ma Rixon, il ragazzo di Vee. È un angelo caduto. Tu sei un Nephilim, Scott, non puoi ucciderti, non così. Sei immortale. Non morirai mai. Se vuoi davvero rimediare ai sensi di colpa che provi per la morte di mio padre, aiutami a uscire da qui. Rixon è dietro quella porta, vuole uccidermi. Posso salvarmi solo con il tuo aiuto. Scott mi fissò senza aprire bocca. Prima che riuscisse a rispondere, la porta si aprì con uno scricchiolio e sulla soglia apparve Rixon. Si scostò i capelli dalla fronte e si guardò intorno. D'istinto, mi avvicinai a Scott. Lo sguardo di Rixon passò da me a Scott. - Dovrai passare sul mio cadavere per prenderla - disse Scott mettendosi davanti a me per farmi scudo con il suo corpo. Respirava affannosamente. - Non c'è problema -. Rixon alzò la pistola e sparò diversi colpi contro Scott, che si accasciò sopra di me. Avevo il viso rigato di lacrime. - Basta - mormorai. - Non piangere, amore. Non è morto. Quando riprenderà conoscenza sarà parecchio malridotto, ma è il prezzo da pagare quando si ha un corpo. Alzati e vieni qui. - Vaffanculo -. Non sapevo da dove mi arrivasse tutto quel coraggio, ma non sarei morta senza lottare. - Hai ucciso mio padre, non farò niente per te. Se mi vuoi, vieni a prendermi. Rixon si accarezzò le labbra con il pollice. - Non riesco a capire perché tu te la prenda tanto. Tecnicamente, Harrison non era tuo padre. - Tu hai ucciso mio padre - ripetei guardando Rixon negli occhi, provando una tale rabbia acuta, tagliente, che mi sembrava mi divorasse. - Harrison Grey si è ucciso da solo. Avrebbe dovuto restare fuori dai piedi. — Stava cercando di salvare la vita di un uomo! — Un uomo? -. Rixon sbuffò, arrotolando le maniche bagnate della camicia. - Faccio fatica a definire Hank Millar un uomo. E' un Nephilim, una creatura più simile a un animale. Risi, una risata vera, ma quando arrivò in gola sembrò gonfiarsi come una bolla facendomi quasi soffocare. - Sai una cosa? Mi fai pena. - Buffo, perché stavo proprio per dire la stessa cosa di te. — Stai per uccidermi, vero? -. Aspettai che quella consapevolezza scatenasse una nuova paura dentro di me, ma non c'era più spazio. Provavo una strana calma glaciale. Il tempo non rallentò e non accelerò: mi guardò dritto negli occhi, freddo e impassibile come la pistola che mi veniva puntata contro. - No, non voglio ucciderti, ma sacrificarti Piegò la bocca in una smorfia sbilenca. - C'è una bella differenza. Cercai di scappare, ma il fuoco devastante esplose e il mio corpo venne scagliato contro il muro. Il dolore era ovunque. Aprii la bocca per gridare, ma era troppo tardi. Una coperta invisibile mi soffocò tra le sue pieghe. Guardai la faccia sorridente di Rixon galleggiare a fuoco e fuori fuoco, mentre cercavo inutilmente di liberarmi dalla coperta. I polmoni si dilatarono fin quasi a scoppiare e poi, proprio quando pensavo di non poter resistere più, il petto si sgonfiò. Oltre le spalle di Rixon, sulla soglia, vidi Patch. Cercai di chiamarlo, ma il disperato tentativo di riempire d'aria i polmoni fallì. Era finita. 25 - Nora? Cercai di aprire gli occhi ma, nonostante il cervello comunicasse il messaggio, il corpo non rispondeva. Voci indistinte scivolavano dentro e fuori. La mia mente, in qualche modo, sapeva che la notte era tiepida, ma io mi sentivo inzuppata di sudore freddo. E di qualcos'altro. Sangue. Il mio sangue. - Stai bene - disse il detective Basso rispondendo al min urlo soffocato. - Sono qui, accanto a te, non me ne vado. Rimani con me, Nora. Andrà tutto bene. Cercai di fare un cenno con la testa, ma avevo sempre la sensazione di esistere al di fuori del mio corpo. - Ti stanno portando al pronto soccorso. Sei su una barella, stiamo uscendo dal Delphic. Lacrime calde mi scivolarono sulle guance. A fatica riaprii gli occhi. - Rixon -. Non riuscivo ad articolare bene le parole. - Dov'è Rixon? Il detective Basso stiracchiò un sorriso. - Sssh, non parlare. Il proiettile ti ha colpita al braccio. Una ferita superficiale, sei stata fortunata. Andrà tutto bene. - Scott? - riuscii a dire, ricordandomi di lui solo in quel momento. Cercai di tirarmi su, ma mi accorsi che ero legata. Avete portato fuori Scott? - Era con te? - Dietro il quadro elettrico. E' ferito, Rixon ha sparato anche a lui. Il detective gridò qualcosa a uno degli agenti in divisa impalati accanto all'ambulanza e quello prese vita e si avvicinò. - Sissignore? - Dice che con lei c'era anche Scott Parnell. L'agente scosse la testa. - Abbiamo controllato tutto il locale. Non c'era nessun altro. - Be', controllate di nuovo! - gridò il detective Basso, muovendo il braccio in direzione dei cancelli del Delphic. Poi si rivolse a me: - Chi diavolo è Rixon? Rixon. Se la polizia non aveva trovato nessun altro, voleva dire che era scappato. Era fuori, da qualche parte; probabilmente ci osservava da lontano, in attesa di una seconda chance per uccidermi. Afferrai la mano del detective Basso e la strinsi forte. - Non mi lasci sola. - Nessuno ti lascerà sola. Che mi dici di questo Rixon? La barella attraversò il parcheggio sobbalzando e i paramedici mi caricarono sull'ambulanza. Il detective Basso salì e prese posto accanto a me. Me ne accorsi appena, la mia attenzione era concentrata su tutt'altro. Dovevo parlare con Patch. Dovevo dirgli di Rixon. - Che aspetto ha? La voce del detective Basso mi riportò alla realtà. - C'era. L'altra sera - mormorai. - Aveva legato Scott nel suo furgone. - E' quello il tizio che ti ha sparato? Il detective afferrò la radio. - Il nome del sospettato è Rixon. Alto, magro, capelli neri. Naso aquilino. Età: vent'anni circa. - Come ha fatto a trovarmi? -. La mia memoria stava lentamente rimettendo insieme i pezzi. Ricordai di aver visto Patch oltrepassare la soglia oltre la quale mi nascondevo. Era stato solo un attimo, ma c'era. Ne ero certa. Dov'era adesso? Dov'era Rixon? - Una soffiata - disse il detective. - Qualcuno ha chiamato e ha detto dove cercarti. Sembrava una cosa inverosimile, ma non potevo ignorarla. Ha anche detto che si sarebbe occupato di chi ti aveva sparato. Ho creduto si stesse riferendo a Scott, ma ora tu mi dici che il colpevole è questo Rixon. Vuoi dirmi che cosa sta succedendo? A cominciare dal nome del tizio che ti ha tirato fuori dai guai e dove posso trovarlo. Ore dopo, il detective Basso rallentò e accostò al marciapiede davanti alla fattoria. Erano quasi le due di notte e le finestre riflettevano il cielo privo di stelle. Ero stata dimessa dal Pronto Soccorso, pulita e medicata. Il personale dell'ospedale aveva parlato al telefono con mia madre, ma io no. Sapevo che avrei dovuto parlarle, prima o poi, ma il viavai dell'ospedale non mi era sembrato il posto giusto per farlo e quando l'infermiera mi aveva passato il telefono avevo scosso la testa. Avevo anche rilasciato la mia dichiarazione alla polizia. Ero piuttosto sicura che il detective Basso pensava che avessi avuto le allucinazioni e che Scott non fosse davvero in quel locale con me. Ero abbastanza certa che pensava non stessi raccontando tutto su Rixon. E aveva ragione, ma anche se avessi raccontato tutto, non l'avrebbe trovato. Patch, invece, l'aveva trovato, evidentemente, o almeno aveva fatto sapere che era sua intenzione farlo. Non sapevo nient'altro. Da quando avevo lasciato il Delphic, avevo il cuore in gola, non facevo che chiedermi dove fosse Patch e che cosa fosse successo dopo che avevo perso i sensi. Scendemmo dall'auto e il detective mi accompagnò alla porta. - Grazie ancora - gli dissi. - Di tutto. - Chiamami, se hai bisogno di me. Entrai in casa e accesi le luci. Andai in bagno e mi spogliai, lentamente, intralciata dalla fasciatura alla parte superiore del braccio sinistro. I vestiti erano impregnati del forte odore della paura e li lasciai ammucchiati a terra. Dopo avere ricoperto le fasciatura con del cellophane, mi infilai sotto una doccia bollente. Mentre l'acqua calda tamburellava sul mio corpo, le scene di quella notte riapparivano all'improvviso nella mia mente. Mi illudevo che l'acqua potesse lavarle via, trascinare nello scarico tutto quello che avevo passato. Era tutto finito. C'èra però una cosa che non potevo lavare via: la Mano Nera Se non era Patch, chi era? E come faceva Rixon, un angelo caduto, a sapere tanto di lui? Venti minuti dopo, mi asciugai e controllai i messaggi in segreteria. Una chiamata da Enzo: volevano sapere se ero disponibile per quella sera. Una chiamata furibonda di Vee, che mi chiedeva dove fossi. La polizia l'aveva cacciata via dal parcheggio e aveva chiuso il parco divertimenti, non prima di averle garantito che stavo bene e di averle chiesto di andare a casa e restarci. Aveva concluso il messaggio urlando: - Se mi sono persa qualcosa di emozionante, giuro che mi incavolo a livelli stellari! Il terzo messaggio era di un numero sconosciuto, ma riconobbi immediatamente la voce di Scott. - Se pensi di raccontare alla polizia di questo messaggio, è inutile, perché per allora sarò già lontano. Volevo solo chiederti scusa, di nuovo -. Si interruppe e quando riprese a parlare sentii un accenno di sorriso nella sua voce. - Siccome so che sarai preoccupata da morire per me, volevo rassicurarti che sto guarendo e presto starò benone, come nuovo. Grazie per l'informazione sulla mia... salute. Dentro di me sorrisi, alleggerita. Scott stava bene. - E' stato bello conoscerti, Nora Grey. Chissà, magari non sarà l'ultima volta che avrai mie notizie. Magari i nostri destini si incroceranno ancora, in futuro -. Altra pausa. - Un'ultima cosa. Ho venduto la Mustang. Troppo vistosa. Non montarti la testa, ma con un po' del denaro ti ho comprato una cosina. Ho sentito che avevi messo gli occhi su una Volkswagen. La proprietaria te la consegnerà domani. Ho pagato anche per un pieno, quindi assicurati che ci sia. Il messaggio terminò, ma io restai a fissare il telefono. La Volkswagen? Per me? Ero stordita dalla gioia e dalla sorpresa. Un'automobile. Scott mi aveva comprato un'automobile. Spinta dal desiderio di ricambiare il favore, cancellai il messaggio, eliminando ogni prova del fatto che avesse chiamato. Se la polizia avesse trovato Scott, non sarebbe stato per colpa mia. E comunque, non credevo l'avrebbero trovato Poi telefonai a mia madre. Non era più il caso di rimandare. Ero stata a un passo dal morire, quella sera. Avevo intenzione di rimettere in sesto la mia vita, facendo pulizia per un nuovo inizio, a partire da subito. L'unica cosa ancora in sospeso era quella telefonata. - Nora? - rispose una voce spaventata. - Ho avuto il messaggio del detective, sto tornando a casa. Stai bene? Dimmi che stai bene! Feci un respiro tremante. - Adesso sì. - Oh, tesoro, ti voglio tanto bene. Lo sai, vero? - disse tra i singhiozzi. - So la verità. Silenzio. - So la verità su quello che è davvero successo sedici anni fa — chiarii. - Di che cosa stai parlando? Sono quasi arrivata. Da quando ho messo giù con il detective non ho smesso di tremare. Sono distrutta. Hanno idea di chi sia questo tizio, questo Rixon? Che cosa voleva da te? Non capisco come hai fatto a metterti in una situazione del genere. - Perché non me l'hai detto? - sussurrai con le lacrime agli occhi. - Bambina mia... - Nora. Non sono più una bambina. Mi hai mentito, tutti questi anni. Tutte le volte che mi sono arrabbiata per Marcie. Tutte le volte che abbiamo riso di quanto fossero stupidi e ricchi e grezzi i Millar... La voce mi cedette. Prima ero piena di rabbia, ora invece non riuscivo bene a capire se fossi turbata, stanca o solo confusa. All'inizio i miei genitori avevano fatto un favore a Hank Millar, ma poi, evidentemente, questa cosa si era trasformata in amore... tra loro e per me. Avremmo fatto funzionare le cose. Saremmo state felici. Mio padre non c'era più, ma pensava ancora a me Si preoccupava ancora per me Avrebbe voluto che tenessi unito quel che restava della famiglia, invece di scappare via da mia madre Ed era quello che volevo anch'io. Feci un bel respiro. - Appena arrivi a casa dobbiamo parlare. Di Hank Millar. Riscaldai una tazza di cioccolata con il microonde e me la portai in camera. All'inizio ebbi paura di stare in casa da sola, sapendo che Rixon era a piede libero. Poi, però, fui avvolta da una calma serafica. Non avrei saputo dire perché, ma era come se sapessi di essere al sicuro. Cercai di richiamare alla memoria quello che era successo qualche istante prima di perdere conoscenza. Patch era entrato nella stanza... E poi il vuoto, e la cosa era frustrante, perché sentivo che c'era qualcos'altro. Era lì, a un passo, ma non riuscivo ad afferrarlo e sapevo che era importante. Dopo un po' smisi di combattere con la memoria e i pensieri presero una strada ripida, pericolosa. Il mio padre biologico era vivo. Hank Millar mi aveva dato la vita e poi mi aveva abbandonata per proteggermi. In quel momento non avevo nessun desiderio di mettermi in contatto con lui. Era troppo doloroso persino pensarlo. Sarebbe stato come ammettere che era mio padre, e non volevo. Era già abbastanza difficile tenere viva la memoria del volto del mio vero padre, non volevo rischiare di sostituire la sua immagine o farla sbiadire più velocemente di quanto non accadesse già. No, avrei lasciato Hank Millar dove stava: lontano. Mi chiesi se un giorno avrei potuto cambiare idea e quella possibilità mi terrorizzò. Non era solo il fatto che avevo un'altra vita nascosta chissà dove, ma anche che, una volta svelata, la vita che avevo vissuto fino a quel momento sarebbe cambiata per sempre. Non avevo proprio voglia di indugiare su Hank, ma c'era ancora una cosa che non tornava. Lui mi aveva nascosta per proteggermi da Rixon, dal momento che ero una femmina. E Marcie? Mia... sorella. Aveva anche lei il suo sangue, quindi perché non nascondere anche lei? Cercai di ragionarci su, ma non ottenni alcuna risposta. Mi ero appena messa sotto le coperte quando bussarono alla porta. Appoggiai la tazza di cioccolata sul comodino. Non c'erano molte persone che avrebbero potuto passare a trovarmi a quell'ora di notte. Andai di sotto e guardai dallo spioncino, anche se non ce n'era bisogno: sapevo che si trattava di Patch dal fatto che il cuore non riusciva a tenere un ritmo regolare. Aprii la porta. - Sei stato tu a dire al detective Basso dove trovarmi. Tu hai impedito a Rixon di spararmi. Gli occhi scuri di Patch mi scrutarono. Per una frazione di secondo mi sembrò di vederli illuminati da una sequenza di emozioni: spossatezza, preoccupazione, sollievo. Odorava di ruggine, zucchero filato stantio e acqua fetida; sapevo che era vicino quando il detective Basso mi aveva trovata nei meandri della casa degli orrori. Era stato lì tutto il tempo, per assicurarsi che stessi bene. Mi prese tra le braccia e mi tenne stretta. - Pensavo di essere arrivato troppo tardi. Pensavo fossi morta. Mi aggrappai alla sua camicia e posai il capo sul suo petto. Piangevo, ma non m'importava. Ero al sicuro, Patch era lì con me. Niente era più importante. - Come hai fatto a trovarmi? - chiesi. - Era da un po' che sospettavo di Rixon - disse piano. - Ma dovevo esserne sicuro. Alzai lo sguardo. - Sapevi che Rixon voleva uccidermi? - Continuavo ad accumulare indizi, ma mi rifiutavo di crederci. Rixon e io eravamo amici... -. La sua voce si spezzò. — Quando ero il tuo angelo custode, avevo percepito che qualcuno volesse ucciderti. Non sapevo chi, perché stavano molto attenti. Non stavano elaborando un vero piano per ucciderti, quindi non avevo un quadro molto chiaro. Sapevo che un umano non avrebbe nascosto i propri pensieri con tanta attenzione, perché non avrebbe potuto sapere che erano leggibili dagli angeli. Di tanto in tanto, avevo un'intuizione: piccole cose che mi portavano verso Rixon, nonostante io non volessi. L'ho sistemato con Vee per poterlo avere sott'occhio e perché non pensasse che sospettavo di lui. Sapevo che l'unica ragione per cui avrebbe potuto ucciderti era quella di ottenere un corpo umano in cambio, così ho iniziato a scavare nel passato di Barnabas. È stato allora che ho scoperto la verità. Rixon era due passi avanti a me, ma doveva aver scoperto tutto anche lui dopo che io ti avevo trovata e mi ero iscritto a scuola, l'anno scorso. Voleva sacrificarti tanto quanto lo volevo io. Ha fatto di tutto per convincermi a lasciar perdere il Libro di Enoch, così io non ti avrei uccisa e avrebbe potuto farlo lui. - Perché non mi hai detto che stava cercando di uccidermi? - Non potevo. Mi hai mandato via, non mi hai più voluto come angelo custode. Non potevo intervenire nella tua vita per quanto riguardava la tua sicurezza. Ogni volta che ci provavo, venivo bloccato dagli arcangeli. Però avevo trovato una scappatoia. Avevo scoperto un modo per mostrarti i miei ricordi mentre dormivi. Ho cercato di darti tutte le informazioni che ti servivano per capire che Hank Millar era il tuo padre biologico e il vassallo Nephilim di Rixon. So che credi ti abbia abbandonata quando avevi più bisogno di me, ma non ho mai smesso di cercare un modo per avvertirti sul conto di Rixon Si sforzò di sorridere, ma il risultato fu una smorfia di stanchezza. - Anche quando cont inuavi a bloccarmi. Mi resi conto che stavo trattenendo il respiro e, lentamente, espirai. - Dov'è Rixon adesso? - L'ho mandato all'inferno. Non tornerà mai più - Patch tenne lo sguardo fìsso davanti a sé con un'espressione dura, ma non arrabbiata. Delusa, forse. Sperava in un finale diverso. In fondo, ero convinta che soffrisse più di quanto desse a vedere. Aveva mandato il suo più caro amico, la persona che gli era stata accanto sempre e comunque, ad affrontare un'eternità di tenebre. - Mi dispiace — mormorai. Restammo un momento in silenzio, io immaginando e Patch ripensando alla fine di Rixon. Io non vi avevo assistito, ma quello che la mia mente riusciva a immaginare era abbastanza orribile da farmi rabbrividire. Alla fine Patch parlò ai miei pensieri: «Ho trasgredito, Nora. Appena gli arcangeli se ne accorgeranno, verranno a cercarmi. E avevi ragione, non mi importa niente di infrangere le regole». Provai il folle impulso di buttarlo fuori di casa. Le sue parole mi rimbombavano in testa. «Trasgredito?» Il primo posto in cui gli angeli sarebbero venuti a cercarlo era casa mia. Lo faceva apposta a essere così incauto? - Sei pazzo? dissi. - Pazzo di te. - Patch! - Non preoccuparti, abbiamo tempo - Come fai a saperlo? Fece un passo indietro, la mano sul cuore. - La tua mancanza di fiducia mi offende. Lo guardai in modo ancora più severo. - Quando? Quand'è che hai trasgredito? «Questa sera. Sono passato da qui per assicurarmi che stessi bene. Sapevo che Rixon era al Delphic e quando ho letto il biglietto in cui scrivevi che anche tu ci saresti andata, ho capito che avrebbe agito. Ho rotto il vincolo con gli arcangeli e sono venuto a cercarti. Se non l'avessi fatto, angelo, non avrei potuto intervenire. Rixon avrebbe vinto.» - Grazie - sussurrai. Patch mi abbracciò. Io volevo solo restare avvolta nel suo abbraccio, dimentica di tutto tranne che della sensazione del suo corpo forte, solido, ma c'erano ancora domande che non potevano aspettare. - Questo vuol dire che non sei più l'angelo custode di Marcie? - chiesi. Sentii che sorrideva. - Sono un libero professionista adesso. I clienti me li scelgo da solo. - Perché Hank ha nascosto me e non Marcie? -. Appoggiai il viso contro il suo petto, in modo che non potesse guardarmi negli occhi. Non mi importava niente di Hank. Non significava niente per me, eppure, in un cantuccio del mio cuore, volevo che mi volesse bene tanto quanto ne voleva a Marcie. Anch'io ero sua figlia, ma aveva preferito lei a me. Io ero stata mandata via, mentre per lei stravedeva. - Non lo so -. Era così tranquillo che riuscivo a sentire il suo respiro. - Marcie non ha il tuo segno. Hank invece sì, come Chauncey. Non credo si tratti di una coincidenza, angelo. Il mio sguardo si posò sulla parte interna del polso, sulla macchia scura che spesso la gente scambiava per una cicatrice. Avevo pensato fosse una voglia, il mio segno distintivo. Fino a che non avevo conosciuto Chauncey. E ora Hank. Avevo la sensazione che il significato racchiuso nel segno fosse più profondo del semplice legame biologico con la discendenza di Chauncey, e la cosa mi spaventava parecchio. - Sei al sicuro con me - mormorò Patch accarezzandomi le braccia. Ci fu un momento di silenzio, quindi dissi: -Tutto questo dove ci porta? - A stare insieme -. Sollevò le sopracciglia in un'espressione interrogativa e incrociò le dita in un gesto scaramantico. - Litighiamo tantissimo - dissi. - Ma poi facciamo pace -. Patch mi prese la mano, posandomi sul palmo l'anello di mio padre e mi richiuse le dita. Quindi mi baciò le nocche. - Volevo dartelo prima, ma non era ancora pronto. Aprii la mano e guardai l'anello. All'interno c'era sempre lo stesso cuoricino, ma in più, ai lati, erano incisi due nomi: NORA e JEV. Lo guardai. - Jev? E' questo il tuo vero nome? - Nessuno mi chiama più così da tanto tempo Mi accarezzò le labbra con un dito e mi scrutò con i suoi dolci occhi neri. Mi sciolsi in un desiderio bruciante e pressante. Anche Patch sembrava provare la stessa sensazione, perché chiuse la porta a chiave e spense la luce. La stanza piombò nell'oscurità, rischiarata appena dalla luce della luna che filtrava attraverso le tende. I nostri occhi volarono al divano, nello stesso istante. - Mia madre sta arrivando - sussurrai. - Sarebbe meglio andare a casa tua. Patch si passò una mano sulla barba corta. - Ho delle regole riguardo a chi porto a casa. Iniziavo davvero a scocciarmi di quella risposta. - Se vedessi dove vivi poi dovresti uccidermi? - dissi, cercando di non irritarmi. - Una volta dentro, non potrei più uscire? Patch mi studiò un po', quindi mise la mano in tasca, sfilò una chiave dal suo portachiavi e me la infilò nella tasca della giacca del pigiama. - Una volta dentro, poi devi tornare. Quaranta minuti dopo, scoprii quale porta apriva la chiave che avevo ricevuto. Patch lasciò la jeep nel parcheggio vuoto del parco divertimenti del Delphic e poi lo attraversammo mano nella mano, mentre una fresca brezza estiva mi arruffava i capelli. Patch aprì il cancello e lo tenne aperto mentre passavo. Il Delphic aveva un aspetto totalmente diverso senza il rumore e le luci del luna park. Era tranquillo, fatato, magico. Per terra roto- lava una lattina vuota, spinta dal vento. Seguimmo il vialetto senza che nemmeno per un attimo io staccassi gli occhi dallo scheletro scuro dell'Arcangelo, che si stagliava contro il cielo nero. L'aria profumava di pioggia e, in lontananza, si udì il brontolio dei tuoni. Superato l'Arcangelo, abbandonammo il vialetto. Salimmo gli scalini di un capanno di lamiera. Patch aprì la porta proprio nel momento in cui il cielo si era deciso a mandare giù le prime gocce di pioggia, che iniziarono a danzare sul selciato. La porta si richiuse dietro di me e restammo preda dell'oscurità e della passione. Il parco era avvolto in un silenzio da brivido, rotto solo dal ticchettio della pioggia sul tetto. Sentii Patch muoversi dietro di me, le sue mani sui fianchi. La sua voce, calda, nell'orecchio. - Il Delphic è stato costrutto dagli angeli caduti, ed è l'unico posto nel quale gli arcangeli non entrano. Siamo solo tu e io, angelo. Mi voltai, assorbendo il calore del suo corpo. Patch mi sollevò il mento e mi baciò: fu un bacio caldo, che mandò in circolo un brivido di piacere. Aveva i capelli umidi e un leggero profumo di sapone. Le bocche scivolarono una sull'altra, la pelle lucida di pioggia, che gocciolava dal tetto basso e ci cospargeva di minuscole punture fredde. Le braccia di Patch mi avvolsero con un'intensità tale che desiderai solo sprofondare ancora di più in lui. Mi succhiò la pioggia dal labbro inferiore, e sentii la sua bocca sorridere contro la mia, poi mi scostò i capelli e mi baciò il collo. Mi mordicchiò l'orecchio, poi affondò i denti nella spalla. Mi aggrappai con le dita alla cintura dei suoi pantaloni e lo tirai verso di me. Patch nascose il viso nella curva della mia spalla, le mani sulla mia schiena. Emise un profondo sospiro. - Ti amo mormorò tra i miei capelli. - In questo momento sono più felice di quanto non sia mai stato. - Davvero commovente - disse una voce bassa, profonda, dall'altra parte del capanno, nel buio. - Prendete l'angelo. Un gruppo di giovani straordinariamente alti - Nephilim, di certo - uscì dall'ombra, circondò Patch e lo immobilizzò con le mani dietro la schiena. Confusa, vidi che lui non opponeva alcuna resistenza. «Appena inizio a lottare, scappa» mi disse Patch nella mente. Capii che non reagiva per potermi parlare, per aiutarmi a trovare una via d'uscita. «Io li tengo impegnati, tu scappa. Prendi la jeep. Ti ricordi come si fa a mettere in moto senza le chiavi? Non andare a casa, resta nella jeep, ti trovo io...» L'uomo che era rimasto nascosto, quello che dava gli ordini, uscì dall'ombra. All'improvviso fu colpito da un pallido raggio di luce che filtrava da una fessura del capanno. Era alto, magro, bello, stranamente giovanile per la sua età; indossava un'impeccabile polo bianca e un paio di pantaloni di cotone. - Signor Millar - mormorai. Non mi veniva in mente nessun altro modo per chiamarlo. "Hank" mi sembrava troppo informale e "papà" disgustosamente intimo. - Permettimi di presentarmi come si deve - disse. - Io sono la Mano Nera. Conoscevo bene tuo padre, Harrison. Sono felice che non possa essere qui ora a vedere come ti svilisci con uno della schiatta del diavolo -. Scosse la testa. - Non sei la ragazza che credevo saresti diventata, Nora. Fraternizzare con il nemico, beffarti del tuo retaggio. Credo che tu abbia anche fatto saltare in aria una delle mie case sicure Nephilim, l'altra sera. Ma non importa, quello posso perdonarlo-. Fece una lunga pausa e aggiunse: - E ora dimmi, Nora, sei stata tu a uccidere il mio caro amico Chauncey Langeais?