SPC
Scienze del pensiero e
del comportamento
Rivista di psicologia, pedagogia ed epistemologia delle scienze umane
LA FILOSOFIA CON I BAMBINI E I RAGAZZI
COME SFIDA PER IL CAMBIAMENTO SOCIALE
Una selezione di scritti, ad uso dei partecipanti al convegno:
“I MAESTRI DELL‟APPRENDIMENTO” dedicato al prof. Bruno Schettini..
Piazza del Sapere. Caserta, 1 febbraio 2012
a cura di
Pina Montesarchio
(Docente nei licei di Filosofia e Storia. Coordinatrice delle scuole estive di alta formazione, in
collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici)
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
La filosofia con i bambini e i ragazzi come sfida per il cambiamento sociale
a cura di Pina Montesarchio
Disegno realizzato dai bambini della Scuola dell‟Infanzia “Bruno Ciari” del 244° C.D. di Marino, Roma
"Ai miei studenti di ieri e di oggi.
A quelli ai quali ho proposto itinerari arditi
di cambiamento e di trasformazione,
affinché, ovunque siano,
non cessino mai di crescere e sfidare
le intemperie della vita"
Bruno Schettini.
In questo opuscolo viene raccolto un primo gruppo di scritti e interventi di Bruno
Schettini, con la prospettiva di arrivare a un libro che renda debitamente conto del suo
creativo pensiero pedagogico.
2
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Indice
Educazione: riforma o rivoluzione?
4
Una scuola per la democrazia cognitiva
9
Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire
12
Leggere le parole per leggere il mondo
20
Educarsi attraverso la fiaba
23
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo
33
Ogni età merita la sua domanda
44
La Filosof-azione con i bambini
47
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità
53
FILOSOF-AZIONE! Ma di che stiamo parlando?
59
La filosofia con i bambini e i ragazzi come sfida per il cambiamento sociale
65
Nota biografica
68
Bibliografia
69
3
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Educazione: riforma o rivoluzione? 1
La domanda è complessa e cercherò di dare delle risposte senza banalizzare.
Senz‟altro ci sono più risposte; la prima è questa: nella nostra società, soprattutto
europea, l‟educazione è maggiormente considerata come istruzione o formazione
continua cioè professionale e, quindi, è finalizzata a che gli studenti, i giovani e quanti
hanno lasciato da tempo la scuola senza conseguire un titolo di studio o sono
disoccupati, conseguano un titolo di studio certificato; ma questa non è educazione, è
istruzione o formazione. Altri, poi, pensano che l‟educazione sia introdurre i più giovani
nella società degli adulti; questa - però - è socializzazione, non è ancora educazione e per
la maggior parte delle persone l‟educazione è in parte istruzione e in parte socializzazione
secondaria; poi ci sono alcuni, anche io la penso così, i quali ritengono che l‟educazione
sia tutt‟altra cosa, sia, cioè, accompagnamento dei bambini, dei giovani e degli adulti,
durante tutto il corso della vita e nei vari cicli di essa, quando cioè il tempo della crescita
esige uno sforzo per il cambiamento proattivo; ecco, questa include l‟istruzione, la
socializzazione, ma non si riduce a istruzione e a socializzazione; è stimolo al
cambiamento e alla crescita, è un aiuto ad allargare gli orizzonti delle vita e a far vedere
criticamente sempre più oltre, è facilitazione a cercare punti di arrivo che non siano già
dati anche se, però, nella nostra società c‟è sempre la tentazione, da parte di qualcuno, di
indicare dove andare; c‟è sempre qualcuno insomma - fra i vari sistemi come la chiesa, le
organizzazioni economiche, finanziarie, sindacali, istituzionali, ecc… - che si erge a
sistema-guida indicando e sostenendo una direzione da seguire attraverso una costante
pressione morale, sociale, psicologica ed economica, che fa largo uso degli strumenti
mediatici, affinché giovani e adulti vadano in una direzione precostruita.
Ecco, credo che neanche questa sia educazione, perché l‟educazione deve lasciare
lo spazio alle persone per orientarsi e auto-direzionarsi, altrimenti non si ha
cambiamento autentico né formazione della persona: educazione e cambiamento sono i
due volti della stessa medaglia non si dà cambiamento senza educazione e l‟educazione è
1
Intervista rilasciata da Bruno Schettini alla prof.ssa Artemis Torres a Cuiabà (Universidade Federal de
Mato Grosso) 19.11.2008.
In http://edasociety.educazione-degli-adulti.it/farm/materiali/articoli/entrevista-artemis.pdf
4
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
cambiamento per dare forma continuamente ad un sé dinamico, processuale, che
staziona quel tanto che basta in una “posizione”, per subito riprendere il cammino. La
maturità, quella dell‟adulto anagrafico che ci è stata consegnata sia da una vecchia
pedagogia essenzialista, quanto da quella naturalistico deterministica o comunque ad
orientamento normativo-riproduttivo che porta l‟individuo a operare le proprie scelte
basandosi sul sistema morale vigente nella propria società, è una falsa maturità,
certamente rassicurante, ma che declina ogni responsabilità circa il futuro. 2 Il
cambiamento può essere radicale, ma esso in genere avviene lungo il corso della vita
delle persone e mai in modo repentino; a volte si incontrano persone conosciute dopo
un qualche di tempo e le scorgiamo totalmente trasformate; ecco questo è un
cambiamento, alle volte radicale quando le esperienze della vita sono così tanto
fortemente incidenti sui nostri sistemi di comprensione dei fatti e degli avvenimenti da
esigere una risposta adeguata nell‟immediato ai fini della sopravvivenza; ma tutto ciò
dipende dalle esperienze della vita, perché in educazione le esperienze della vita sono
importanti anche se non tutte le esperienze sono educative, perché per esserlo bisogna
riflettere criticamente su di esse, occorre tematizzarle, discriminarle per capire che cosa
di esse è veramente importante per la crescita della propria persona nel confronto con le
altre. Penso, in questo momento, a tutto il Movimento della cosiddetta “Pedagogia non
direttiva” e, in particolare, a pedagogisti come Paulo Freire od anche all‟italiano Ettore
Gelpi, e più ancora ad Antonio Gramsci, ma penso anche allo stesso “Grupo de
Pesquisa em Movimentos Sociais e Educação” brasiliano, all‟esperienza dei “Sem Terra”,
a quella di Porto Alegre o del World Social Forum ecc… e ad altri ancora.3
Senz‟altro c‟è chi pensa anche che l‟educazione sia un accompagnamento blando,
dolce che marchi il tempo dei cicli della vita. Io penso che l‟educazione abbia sia questo
aspetto cioè di un accompagnamento lento, sia anche quello che dà luogo a dei veri e
propri breakdown che mettano le persone dinanzi alle loro responsabilità, perché la
crescita è espressione di scelte e quando il cambiamento bussa alla porta è allora che
2
Cf: SUCHODOLSKI B., Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, Armando Editore,
Roma 1972.
3
Sull‟argomento, cf. MAYO P., Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti. Possibilità di un’educazione
trasformativa, Carlo Delfino Editore, Sassari 2007.
5
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
bisogna dare spazio a ciò che di nuovo, di originale, di creativo c‟è nei pensieri, nelle
azioni e negli affetti delle persone.4 Ecco questa non è una visione dell‟educazione molto
condivisa perché, in Europa, in Italia nei Paesi dell‟Unione Europea 5 c‟è
un‟omologazione imperante, una pressione che i governi, i decisori politici, gli
amministratori e il mondo dell‟economia fanno continuamente sulla gente attraverso le
televisioni sia pubbliche che private, ma anche attraverso la carta stampata, attraverso le
martellanti pubblicità, talk show, fiction ecc… propagandando le diffuse immagini di una
società dell‟effimero in cui ciò che in genere è considerato come valore positivo ormai
viene di fatto deriso attraverso le azioni della quotidianità e indicato come obsoleto non
attraverso le parole, pure celebrate ma svuotate del loro significato originario, ma
attraverso i pervasivi messaggi che creano e distruggono continuamente quei nuovi miti
che tendono ad alimentare l‟immaginario delle giovani generazioni – e non solo – ormai
svuotate di idealità positive. Certo, dinanzi ad una situazione di questo genere, che è
planetare, parlare di educazione nel senso di un cambiamento che viaggi sui tempi molto
lunghi, appare quanto meno privo di senso o di futuro; forse quello che oggi occorre è
un modello di educazione “radicale” che crei ed evidenzi quel gap esistente fra le
melliflue lusinghe di una società votata alla deriva cosmica e la necessità cogente di una
ripresa di temi che invitino ad una severa riflessione politica, etica sulla dignità dell‟uomo
al quale è stata tolta la prospettiva di uno spazio futuro di umana vivibilità e
condivisibilità: una città non già costruita, ma un luogo nel quale gli uomini possano
4
Il concetto è stato successivamente sviluppato di recente dallo stesso A., Il lavoro dell’educazione con gli
adulti, in “Pedagogika.it”, n.2-3 (2009), pp.62- 66.
5
I Documenti principali dell‟U.E. in materia di lifelong learning:
Consiglio dell‟UE, L’apprendimento permanente per la conoscenza, la creatività e lo sviluppo, Bruxelles 2008;
Commissione delle Comunità europee, E’ sempre il momento di imparare. Piano di azione in materia di
educazione degli adulti, Bruxelles 2007; Commissione delle Comunità europee, Educazione degli adulti: non è
mai troppo tardi per apprendere, Bruxelles 2006; Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio,
Le competenze chiave per l’apprendimento permanente, Bruxelles 2006; Commissione delle Comunità europee,
Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, Comunicazione della Commissione, Bruxelles
2001; Commissione delle Comunità europee, Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione, Relazione
della Commissione, Bruxelles 2001; Commissione delle Comunità europee, Memorandum sull’istruzione e
la formazione permanente, Bruxelles 2000; Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che proclama
il 1996 “Anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita”, Bruxelles 1995;
Commissione delle Comunità europee, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Libro Bianco su
Istruzione e Formazione, Bruxelles 1995; Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività,
occupazione: le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, Lussemburgo 1993. Sui documenti citati, cf:
TORIELLO F., Fondamenti epistemologici del lifelong learning, Tecnodid Editrice, Napoli 2008.
6
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
scambiare, condividere, confrontarsi anche con il conflitto delle idee, nella prospettiva,
però, di creare sintesi dialetticamente nuove. Questo però è possibile a partire da una
rinnovata idea di educazione degli adulti e da un‟educazione che si ponga come
strumento di contrasto a quanti, con i loro comportamenti mediaticamente ampliati a
dismisura, finiscono con il convincere le persone adulte e giovani che questa è la vita che
vale la pena di vivere, una vita che non ha spazi futuri ed è come se essa andasse
consumata tutta nell‟oggi perché del domani non v‟è affatto certezza alcuna anche dal
punto di vista dell‟impatto ambientale. Questo messaggio toglie proprio ogni prospettiva
al mondo dell‟educazione e toglie anche autorevolezza agli educatori perché essi non
hanno la possibilità di Freire, che abbia il coraggio di riproporre il futuro come progetto
personale e collettivo da costruire6, pur considerando il contesto estremamente
riduzionistico in cui si è chiamati a lavorare fra le incomprensioni della stessa gente
oppressa a cui ci si rivolge per aiutarla a riscattarsi da ogni forma di oppressione;
quell‟oppressione che essi neanche sono in grado di riconoscere tant‟è l‟avvilimento a cui
sono sottoposti.7
E‟ vero che in Italia e, in modo particolare, in Europa si parla molto e si discute di
educazione degli adulti o del lifelong learning. Ma sui programmi europei e nazionali di
lifelong learning, come un pesante maglio, è caduta l‟ideologia neoeconomicistica e
neoliberistica interamente asservita al fine del mercato del lavoro; quello stesso mercato
che, mentre chiede sempre nuovi titoli di studio e livelli più alti di formazione, svuota
continuamente la propria domanda attraverso la drastica riduzione di posti di lavoro e
l‟indottrinamento mediatico che priva le menti di un sapere critico e le avvilisce
attraverso la dimostrazione dell‟inutilità di una formazione veramente diffusa e degna di
questo nome sia a livello umanistico che scientifico. Tuttavia, stiamo assistendo ad un
timido risveglio delle coscienze; c‟è una tensione e anche un‟attenzione a cambiare
l‟orientamento che ci viene imposto; la lotta, però, è dura perché è controcorrente,
perché l‟educazione è disarmata di fronte a questa situazione e occorre trovare forme di
6
Cf. SEMERARO G., Il Circolo di studio: “Dizer a palava, pronunciar o mundo, estar sendo”, in SCHETTINI
B., TORIELLO F., PAULO FREIRE. Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo,
LucianoEditore, Napoli 2008. pp. 127-133.
7
7 Sul punto, la riflessione più adeguata e ancora attuale è proprio quella condotta da Paulo Freire nel
suo volume Pedagogia do oprimido.
7
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
lotta nuove per poter affermare un‟educazione per un mondo vivibile per tutti. Io non so
se quello di oggi sia ancora il tempo di un‟educazione graduale, progressiva, di tipo
riformistico cioè; sarà senz‟altro così per alcuni e a certe condizioni; tuttavia, credo che ci
sia un grande bisogno di trovare nuove forme di lotta molto forti per poter opporre una
resistenza, forse non necessariamente cruenta, ma che avrà i suoi morti sul campo, morti
in senso metaforico ma non solo; morti, per idee e valori positivi e proattivi, ben consci
di non poterle vedere realizzate in costanza della stessa vita. Ma questo è importante
perché l‟educazione è sempre educazione alla libertà cioè lotta per una libertà sempre in
costruzione nello svelamento continuo di ciò da cui esplicitamente e/o occultamente
dipendiamo; ma non c‟è educazione senza lotta per la libertà delle persone singole e
associate, perché nessuno regala niente a nessuno! La storia, poi, ci insegna che chi lotta
veramente per la libertà compie un sacrificio autentico giungendo talora anche
all‟estremo sacrificio; e questa è la grande utopia dell‟educazione nascosta sotto le vesti
del magistrato e delle forze dell‟ordine che lottano contro la mafia e la camorra, del
giornalista che documenta la violenza e le ingiustizie da chiunque operate, dei sindacalisti
che lottano contro le sopraffazioni e gli abusi, dei docenti, preti e suore che formano ai
valori e sono di esempio e testimonianza, dei ricercatori che valorizzano la creatività a
servizio dell‟uomo, degli imprenditori che pensano al lavoro come a uno strumento
autentico, accanto alla conoscenza, di emancipazione dell‟uomo e di produttività e non
di mera speculazione, ecc...8
Vale la pena di cimentarsi, di sperimentarsi, però è controcorrente e dinanzi c‟è
solo il muro dell‟incomprensione quando non anche dell‟interesse personale o di casta o
di famiglia che, purtroppo, si riproduce nel tempo secondo meccanismi invasivi e
mascherati. In questo senso, a ben rivedere, la storia italiana ed europea di educazione
degli adulti, ma anche di oltre Oceano, è già sempre stata in questa direzione, occorre
riprenderla e toglierla dalle mani di chi di essa si è impadronita per dirottarla in direzioni
quanto meno improprie. E‟ una difficile, ma bella scommessa!
8
In questo senso e a titolo esemplificativo, si veda il volume di IORIO P., Il Sud che resiste, Ediesse,
Roma 2009.
8
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Una scuola per la democrazia cognitiva 9
Ai nostri giorni la formazione dovrebbe diventare un vero e proprio progetto
politico per una cultura della conoscenza e della comprensione e non soltanto per
un‟informazione finalizzata al mercato del lavoro anche se quest‟ultimo fosse inteso
nell‟accezione di strumento ineludibile della capacità di una società di evitare forme di
marginalizzazione e di esclusione sociale. Uno sguardo al mercato del lavoro, comunque,
ci fa capire che al mercato dei titoli di studio non fa automaticamente riscontro quello
del lavoro.10
Questo significa che a fronte dell‟asservimento della scuola alle tesi confindustriali
più spregiudicate, è stato anche perpetrato un grave inganno a danno delle nuove
generazioni quando si è spostato il discorso dall‟occupazione all‟occupabilità e/o impiegabilità
attraverso quell‟analfabetismo strisciante di ritorno e quell‟illetteratismo attraverso i quali
si è potuto ambiguamente giocare su di un concetto di flessibilità inteso come
discontinuità del diritto al lavoro per tutta la vita e come carenza dei diritti sul lavoro. In
tale contesto, la Scuola di oggi porta in sé numerosissime contraddizioni; il processo di
globalizzazione, per esempio, ha comportato certamente un flusso notevole di
informazioni, allargando confini, ma la scuola non si è mostrata in grado di direzionare
didatticamente e pedagogicamente tale flusso, anzi per lo più vive soggiogata come presa
da un complesso di inferiorità, mentre un numero di persone enorme, ma esiguo rispetto
alla totalità della popolazione mondiale, gestisce la maggior parte delle informazioni,
comportando un rischio reale e non virtuale per la democrazia. Nello stesso tempo, la
scuola è stata fatto oggetto di quel totalitarismo tecnoscientifico per il quale conterebbe
solo la quantità e non la qualità dei contenuti, la celerità e non la durata dell‟istruzione,
come hanno fatto notare, a vario titolo, Karl Popper e Edgar Morin.
Allora, più che di società della conoscenza (e dell‟informazione) diffusa
dovremmo parlare di una società dell‟opinione diffusa che scalza continuamente sia una
conoscenza autorevole frutto di studio e di ricerca e a cui occorrerebbe riferirsi quale
9
Il testo di questo intervento è tratto dalla relazione presentata da Bruno Schettini per il Laboratorio di
filosofia “Siamo in pensiero…” al Fantasio Festival 2009 di Perugia, in Amica Sofia, giugno 2009.
10
Cf. SVIMEZ, Rapporto Svimez 2007 sull’economia nel Mezzogiorno, FrancoAngeli, Milano 2007.
9
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
mediatrice di civiltà, sia una corretta informazione indipendente dai centri di potere. Il
rischio più forte al quale andiamo incontro è quello di lasciare che le economie
neoliberiste, sempre più slegate dal controllo e dalla regolamentazione dei governi (anzi
condizionandone, spesso, le decisioni), scelgano le linee di modificazione ed
investimento nei sistemi educativi e di istruzione, sempre più orientati verso la
mercantilizzazione dell‟offerta formativa, la mercificazione dei prodotti “culturali” e la
considerazione dei destinatari come clienti/consumatori. Tutto ciò esige che mete
formative di media e lunga scadenza con chiari obiettivi educativi tesi alla cittadinanza,
alla democrazia cognitiva, alla solidarietà e all‟istruzione costituiscano lo snodo di un
progetto di società che, dopo circa 30 anni di intenzionale informazione spazzatura, si
presenta a rischio di democrazia.
Ci si dovrebbe chiedere, dunque, quale sia oggi il compito della scuola per il
futuro. Da più parti, ormai, si sostiene che i processi formativi non debbano seguire
pedissequamente le condizioni dettate, anche in modo accattivante, dall‟ideologia
neoliberistica e neoeconomicistica che suggerisce di inseguire fluidamente il mercato del
lavoro, ma di interconnettere i canali della conoscenza, procedere alla riforma del
pensiero e dell‟insegnamento in modo da ricomporre – come già auspicava Elio Vittorini
- il sapere umanistico, scientifico e tecnologico, oggi scissi. Più che una “scuola liquida”,
per dirla alla Zygmunt Bauman – piacerebbe una “scuola oleosa” che lasci traccia del suo
lavoro in processi consistenti di apprendimento significativo. 11
In realtà, le competenze, in quanto risorsa per rispondere a esigenze individuali e
sociali sempre più estese, necessarie per svolgere attività e compiti di lavoro e della vita,
chiamano in causa dimensioni cognitive e affettive da esplicarsi sapientemente nella vita
individuale e collettiva, come scrive Howard Gardner 12 che ricorda come una mente
educata in senso creativo, e non solo tecnologico, possa aiutare chiunque a dare risposte
inattese, in grado di fronteggiare il mondo del futuro che esigerà capacità oggi ritenute
opzionali come la capacità di fare scelte adeguate attraverso un intuito ancorato ad abilità
di sintesi su cui esso dovrà saldamente poggiare.
11
12
3. Cf. Jedlowski P., Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994.
4. Cf. Gardner H., Five minds for the future, Harvard Business School Press, Boston 2006.
10
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Raccogliere questa sfida significa procedere ad una riforma dell‟insegnamento che
deve condurre alla riforma del modo di pensare. Una proposta dunque non
esclusivamente didattica, ma paradigmatica. Si tratta di apprendere a vivere, a
trasformare le informazioni in conoscenza e la conoscenza in saperi e apprendere a
vivere significa affrontare l‟incertezza, apprendere a diventare cittadini del proprio
“villaggio” e, contemporaneamente, del villaggio connesso con il mondo intero.
Per imparare a vivere nell‟incertezza, Edgar Morin ha avanzato, con lucidità,
molteplici proposte tra cui quella di praticare un pensiero che si sforzi di contestualizzare
e sintetizzare le informazioni e le conoscenze. Morin, archiviando quella che
comunemente viene definita la “conoscenza diffusa”, suggerisce una “democrazia
cognitiva”13 che permetta ad ogni cittadino di incorporare (non di sommare) i vari saperi,
poiché la conoscenza non deve essere additiva, ma organizzatrice e setacciatrice, deve,
cioè, sapere individuare ciò che è ridondante, superfluo, effimero, volgare, banale e privo
di significato. Ora il paradigma dell‟educazione e dell‟istruzione per tutto il corso della
vita è diventato centrale, ma ancora incerta e confusa è la strategia per realizzarlo. Se la
scuola non saprà impegnarsi per fornire gli strumenti per pensare criticamente, avrà
fallito il suo compito, perché essa non è chiamata a erogare solo quelle abilità e
conoscenze che servono a far crescere il sistema economico, incrementandone il PIL,
ma anche quelle competenze che, in quanto frutto di un sapere umanistico, forniscano
strumenti critici ed etici per orientare e dirigere la società degli uomini, la scienza e le sue
scelte. Ma qui si sta aprendo il discorso ad un‟aria pedagogica nuova e stiamo parlando di
un nuovo umanesimo a cui approdare, così come tratteggiato da autorevoli esperti quali
Paulo Freire, Ettore Gelpi, Erich Fromm ed altri ancora.
13
Cf. Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, RaffaelloCortina, Milano
2000. Ma si veda anche il volumetto a cura di Francesco Morace: Edgar Morin, Dialogo: l’identità umana e
la sfida della convivenza, Libri Scheiwiller, Milano 2003.
11
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire 14
Una lezione sempre attuale
A dieci anni dalla sua morte, occuparsi di alfabetizzazione significa anche tornare
con la mente ad un pedagogista ed educatore - Paulo Reglus Neves Freire15- che fece
della sua vita un impegno costante per la lotta contro l‟analfabetismo, quale strategia per
l‟umanizzazione delle condizioni di vita non solo dei diseredati e svantaggiati delle
favelas ma anche di molti altri Paesi del mondo intero.
Di fatto, l‟alfabetizzazione degli adulti fu un preciso campo di riflessione e di
intervento privilegiato, maturato all‟interno di una vita travagliata sin dall‟infanzia e della
quale egli stesso ricorda:“Bambino ancora, mi sono trasformato in un uomo grazie al
dolore e alla sofferenza, che tuttavia non mi hanno sommerso nelle ombre della
disperazione”.
D‟altra parte, il Nord Est del Brasile presentava una quantità così innumerevole di
analfabeti e una condizione di vita talmente degradata che era impossibile, per un
educatore come lui, ignorare questa dura realtà e contemporaneamente non lasciarsi
prendere da essa, per un‟avventura pedagogica la cui scommessa fosse la
coscientizzazione degli adulti. Finalità a lui cara che sicuramente vide come culla del suo
pensiero le qualità intellettuali, etiche ed educative del padre, Joaquin, che, costretto da
un incidente a non lavorare, si dedicò ai figli intensamente, tanto che lo stesso Freire
scrisse: “alcune cose che propongo come teoria pedagogica, democratica, in fondo le ho
sperimentate assieme a lui”.
Anche prescindendo dal contesto politico e storico in cui Freire operò, la sua
lezione torna ancora di estrema attualità se si considera che essa parte dall‟assunto che la
reiterazione di una concezione non-strutturale dell‟analfabetismo ha messo in luce una
14
B.Schettini, Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire, in La Rivista LLL (Lifelong
Lifewide Learning) promossa da EdaForum - Forum Permanente per l'Educazione degli Adulti (vedi sito:http://rivista.edaforum.it/numero7/monografico_schettini.html)
15
Paulo R. N. Freire nacque a Recife, Rua do Encarnament, quartiere della Casa Amarela, nello Stato
del Pernambuco, nel NE del Brasile, il 19 settembre 1921 e morì il 2 maggio 1997 nell‟ospedale di San
Paolo del Brasile. Fra l‟altro, nel 1989 gli fu conferita la Laurea “honoris causa” in Pedagogia presso
l‟Università di Bologna, ma ricevé lo stesso conferimento anche dalla Open University di Londra,
dall‟Università di Lovanio, e dalle Università del Michigan e di Ginevra.
12
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
visione sbagliata degli analfabeti, come fasce di persone definibili a-storicamente come
soggetti emarginati, per i quali la stessa offerta educativa diventa un ammortizzatore
sociale.
In realtà, proprio questa concezione costringe coloro che li considerano tali sostiene Freire - a dover riconoscere l‟esistenza di una realtà in rapporto alla quale gli
analfabeti sono emarginati, non solamente all‟interno di uno spazio fisico, ma nella realtà
storica, sociale, culturale ed economica, vale a dire in una dimensione strutturale della
realtà.
Se, quindi, l‟analfabetismo è la risultante di scelte politiche ed economiche che
conducono ai margini dell‟esistenza fasce considerevoli di popolazione, bisogna allora
riconsiderare tutto ciò che implica una posizione del genere: non solo povertà in
relazione alle più elementari necessità per la conduzione di una vita almeno dignitosa, ma
anche, e soprattutto, una costrizione a disperare, a non poter nutrire cioè la speranza per
un futuro che possa essere rappresentato con scenari ipoteticamente diversi a motivo di
un contesto che strutturalmente li nega, per poter continuare ad alimentare la parte
“graziosa” della società. Ai giorni nostri, la forbice della globalizzazione, nell‟ampliare
secondo una progressione matematica il numero - comunque fortemente contenuto - dei
ricchi, amplia a dismisura, secondo una progressione esponenziale, quello dei poveri. E
questa è una condizione che Freire definirebbe strutturale.
Nell‟analisi di Freire appare chiaro ed evidente che nessun uomo opterebbe per
una esistenza del genere; essa può continuare ad esistere solo lì dove ci sia qualcuno ad
imporla, anche se non necessariamente con la forza brutale di una dittatura cruenta:
l‟analfabetismo non è, quindi, una forma di ineluttabile emarginazione scaturente da
condizioni fatalisticamente intrinseche, perché esse si vengono a creare in una situazione
di scelte, operate in ristretti luoghi decisionali, alle quali resistere sarebbe d‟obbligo se il
riscatto non fosse impedito da condizioni strutturali espresse attraverso l‟esercizio di un
potere comunicativo abilmente persuasivo o mediante il ricorso, ad hoc, ad una legge di
natura che riporta l‟uomo a quella società istintiva dalla quale si era sottratto attraverso
l‟incessante e defatigante lavoro generazionale.
13
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Da questo punto di vista, l‟analfabeta non è solo colui che non sa dire la parola,
ma è, soprattutto, l‟oppresso cui viene negato il diritto ad esprimere la parola e, quindi,
l‟analfabetismo è una condizione mentale che trascende anche dalle più o meno
possedute capacità alfabetiche e numerarie. Lo stesso Freire critica gli sforzi di tutti
quegli alfabetizzatori che, considerando quale ultimo scopo dell‟educazione il possesso
della parola - oggi potremmo dire delle competenze per l‟occupabilità - si sono dati
l‟illusoria certezza di stare operando per il riscatto di un‟umanità sofferente.
In realtà, l‟alfabetizzazione è qualcosa di più del semplice dominio meccanico di
tecniche per scrivere e leggere. Essa è il dominio di queste tecniche in termini coscienti e,
dunque, porta con sé un atteggiamento di creazione e ricreazione . Implica un‟autoformazione che porta a un atteggiamento attivante dell‟uomo su se stesso, sul suo
contesto per una sorta di cura di sé in uno con quella degli altri. Nella prospettiva
educativa freieriana occorre fornire all‟analfabeta la capacità di utilizzare la parola in
maniera personale, autonoma e il metodo proposto è quello della scoperta della parola
stessa dall‟interno del contesto a cui l‟alfabetizzando appartiene e a cui riferirsi per
poterla riconoscere come propria.
L‟alfabetizzazione è, quindi, concepita da Paulo Freire come processo di ricerca
non come “deposito”, di creazione non come trasmissione, di recupero da parte
dell‟adulto della sua possibilità di semiticamente “nominare” e, quindi, di esprimere la
soggettività rispetto all‟oggetto, affrancandosi in tal modo da quelle forze rappresentate
come ineluttabili delle quali si servono gli oppressori per conservare lo status
quo ovvero la propria egemonia. Di qui la necessità, in Freire, di educare anche gli
oppressori per liberarli dalla condizione di oppressori che li tiene nel costante
allertamento per difendersi dagli oppressi che temono, ovunque essi siano. In ciò, se è
senz‟altro ravvisabile la visione antropologica cristiana del pedagogista-educatore Paulo
Freire, non è possibile non scorgere anche la visione Gelpiana di aspra critica rivolta agli
intellettuali, agli insegnanti, ai pedagogisti, agli educatori, agli operatori culturali nel
severo richiamo alle loro responsabilità storiche e di funzione sociale ormai inespressa o
quanto meno accomodante se non funzionale al principe di turno.
14
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Alfabetizzare, dunque, secondo Freire, non vuol dire solo “insegnare a leggere,
scrivere e fare di conto ma anche insegnare ad ascoltare, parlare e gridare. (…) L‟essere
umano, prima di parlare, grida; infatti, noi nasciamo gridando. Se al popolo… è stato
proibito di parlare… è necessario imparare a gridare con il popolo”.
L‟uomo apprende la necessità di scrivere la sua vita, di approfondire la sua
vocazione ontologica e storica, di umanizzarsi e di inserirsi criticamente nella propria
realtà per cercare, come soggetto tra altri soggetti, la propria trasformazione. In questa
prospettiva si comprende come alfabetizzare significa dare, o meglio restituire, alla gente
comune ciò di cui è stata defraudata, perché possa percepirsi come soggetto con una
propria dignità, in grado di prendere le proprie decisioni in maniera libera e autonoma,
almeno per quel tanto o quel poco che consente la condizione umana di ciascuno. Non a
caso l‟obiettivo principale dell‟alfabetizzazione, secondo il pensiero di Freire, consiste
nella coscientizzazione, cioè nella presa di coscienza attiva e consapevole delle proprie
condizioni nel contesto lavorativo e sociale in cui ciascuno si trova a vivere e a lavorare.
Ciò perché, attraverso un‟alfabetizzazione che non si limiti all‟acquisizione di tecniche
funzionali, è possibile aiutare e sostenere una percezione politica della realtà vissuta e
rappresentata, abilitare e mettere gli oppressi, cioè i nuovi analfabeti di base e/o di
ritorno, nelle condizioni di acquisire conoscenza e condizionare l‟esercizio di un potere
che stenta sempre di più a chiudere il cerchio virtuoso della democrazia partecipante.
Coscientizaçao
La parola portoghese “coscientizaçao” è utilizzata da Freire per indicare il
processo con il quale gli uomini si preparano ad inserirsi criticamente nell‟azione di
trasformazione, avendo così l‟opportunità di riscoprire se stessi attraverso la riflessione
sul processo stesso della propria esistenza. “Coscientizaao”. Molti credono che questa
parola, diffusa in Europa e negli Stati Uniti dal vescovo brasiliano Helder Camara, sia
stata coniata dallo stesso Freire. Il pedagogista ne ha sempre rifiutato la paternità,
attribuendone la creazione ad uno dei professori dell‟èquipe dell‟Istituto Superiore degli
Studi Brasiliani, disciolto dal regime militare del „64. Così egli scrive: “ho partecipato
molto alle loro ricerche ed è stato precisamente lì che ho udito per la prima volta la
parola coscientizzazione e mi sono accorto immediatamente della profondità del suo
15
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
significato, perché ero assolutamente convinto che l‟educazione, come pratica della
libertà, è un atto di conoscenza, un avvicinarsi criticamente alla realtà”. Ciò che si cerca
di fare nel processo di coscientizzazione non è attribuire alla coscienza un ruolo di
creazione, ma al contrario nel riconoscere il mondo statico “dato” come un mondo
dinamico “che dà”. È la capacità di elaborare la realtà esterna e darle un nome con l‟aiuto
dell‟educatore, che favorisce questo processo.
L‟ alfabetizzazione e la coscientizzazione sono, dunque, per Freire, inscindibili –
forse sovrapponibili -, così come qualsiasi apprendimento deve essere legato alla presa di
coscienza della situazione reale dell‟educando; riflessione e azione sono, quindi,
indissociabili perché l‟azione è prassi solo se il sapere che l‟accompagna si fa esso stesso
oggetto di riflessione critica per la trasformazione di una realtà troppo spesso data come
fissa perché abilmente invocata come appartenente ad un ordine immutabile.
La coscientizzazione ha come punto di partenza proprio l‟uomo illitterato o semiillitterato, con la sua maniera propria di percepire e comprendere la realtà ed è per questo
che l‟azione educativa di Freire e la sua riflessione trovano fondamento nella vita
quotidiana della gente comune e nei luoghi da essa abitati: il lavoro, la famiglia, la vita
nelle periferie degradate o abbandonate, nelle città tumultuose e alienanti.
L‟alfabetizzazione, per Freire, deve rimandare al contesto in cui vivono gli
alfabetizzandi: ai suoi allievi brasiliani non insegnava “F” di farfalla ma, piuttosto, “F” di
favela, non le parole decise dall‟accademia, ma quelle nate dall‟esperienza quotidiana.
Radicando i processi di alfabetizzazione nelle esperienze e conoscenze della gente a cui si
rivolgeva, Freire riusciva a cogliere la dimensione motivazionale dell‟apprendimento
innescando, così, il meccanismo virtuoso della rapidità dell‟apprendimento stesso. In tal
modo risulta evidente che l‟alfabetizzazione era da intendersi, anche e soprattutto, come
un processo socio-cognitivo di emancipazione e al tempo stesso di crescita politica,
come una risorsa a cui attingere per una più ricca ed equilibrata crescita individuale e di
comunità, in ciò offrendo un contesto di lettura fortemente politico per ogni forma di
conoscenza diffusa quale opportunità per la cittadinanza e la vita democratica.
Conoscenza, dunque, per la cittadinanza e la vita democratica, non per l‟asservimento a
nuove forme di schiavitù più sofisticate e, dunque, più subdole.
16
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Da questo punto di vista, occorrerebbe insegnare a leggere la “T” come
totalitarismi - vecchi o nuovi che siano - e non solo come “T” di tecnologie che, ove
rappresentate come l‟unico panorama possibile di alfabetizzazione, si palesano come un
richiamo seduttivo e una nuova forma di totalitarismo di tipo tecnocratico; e così pure
occorrerebbe imparare a leggere la “I” come intelligenza e idiograficità e non solo come
internet e inglese, laddove lo stesso studente, protagonista de‟ “L‟auberge espagnole” ,
dopo tanto “navigare” e “meticciarsi”, ogni volta che dismetteva i panni del giovane
funzionario europeo correva a ripercorrere i luoghi dove, talora spensieratamente,
talaltra con non poca vicissitudine, aveva appreso a crescere, ad essere se stesso, a tessere
la sua personale storia di vita.
Il pensiero di Freire, pur raccogliendo valutazioni spesso positive, non è stato
esente da critiche, e tra le più diffuse si ricordano quelle di E.W. Vasiloff e C. Scurati, le
quali, pur essendo ormai datate, hanno contribuito non poco al permanere, in Italia, di
un atteggiamento ostile o di dimenticanza nei confronti di un pedagogista che, invece,
torna oggi di estrema attualità, mentre non poche esperienze contemporanee, europee e
del bacino del Mediterraneo, fanno riferimento ai suoi scritti e alle sue rivisitate pratiche.
Se, per il primo, Freire sembrerebbe tralasciare altre questioni pedagogiche molto
differenti da quella da lui esaminata in favore della sola alfabetizzazione, per il secondo il
pedagogista brasiliano appare quasi banale nelle sue critiche rivolte alla scuola e ai metodi
didattici.
In realtà, è proprio il suo ultimo libro, recentemente rieditato, Pedagogia
dell’autonomia: saperi necessari per la pratica educativa che pone Freire
nuovamente all‟attenzione di pedagogisti, educatori, insegnanti, politologi e decisori
pubblici, per il suo interesse verso i temi della professionalizzazione degli insegnanti,
dell‟autonomia gestionale, didattica e pedagogica della scuola, dell‟interdisciplina, avendo
sullo sfondo, da un lato, i temi forti della globalizzazione economica, dello sfruttamento
della Terra, della mercantilizzazione delle risorse e della mercificazione della vita e,
dall‟altro, la necessità di educare verso una comune cittadinanza terrestre, nella
consapevolezza del debito contratto da ciascuna generazione nei confronti di quelle
precedenti e più ancora verso le successive, della convivenza democratica e accogliente,
17
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
di una conoscenza diffusa ma che, nella sua ridondanza disorientante, si mostra sempre
più oligocratica.
Di fatto, una delle conseguenze più rilevanti della globalizzazione, come della
rivoluzione tecnologica che l‟accompagna, è la trasformazione della natura stessa del
lavoro. Lo sviluppo tecnico ha reso possibile un‟incorporazione nelle macchine di molte
funzioni cognitive e un cambiamento strutturale del processo di produzione.
L‟alienazione non solo non è scomparsa, ma tende ad assumere forme storiche diverse
rispetto al passato, forme che sfuggono alla criticità, al controllo e alla possibilità della
lotta per la costante saturazione delle menti da parte di un‟assordante vocìo volutamente
privo di senso e di significato.
Tutti questi cambiamenti hanno avuto un impatto fortissimo anche sui sistemi
educativi che risultano indeboliti sia nella loro capacità di formare individui autonomi e
consapevoli di se stessi e del mondo, sia nel loro ruolo di sostegno alla produttività del
sistema. Quest‟ultimo aspetto è particolarmente importante perché costituisce una novità
nella storia dei sistemi educativi, dal momento che appare in controtendenza rispetto alla
tesi, mai dimostrata come veritiera, delle virtù della società globale e della conoscenza a
valorizzare, per intrinseca capacità, il cosiddetto “capitale umano”. Un‟analisi non viziata
dall‟ottimismo positivista si soffermerebbe un po‟ più attentamente sul fenomeno della
sovraqualificazione apparso negli ultimi dieci anni nelle società industrializzate e sul mito
del self-made-man che fa transitare dalla soggettività centrata sulla coscientizzazione e
sull‟autonomia critica del soggetto al più pericoloso soggettivismo fagocitante e
autoritario.
Nonostante l‟aggressività del neo-liberismo, che cerca di piegare l‟uomo e la
scuola alle richieste di mercato senza regole, gli individui esprimono un inconsapevole e
represso bisogno di una educazione umanizzatrice. Occorrerà, allora, declinare la
pedagogia di Freire, tentare di contestualizzarne il pensiero ed il metodo valorizzando
soprattutto la tesi che non è possibile per gli educatori, per gli insegnanti, per i ricercatori
essere neutrali dinanzi a ciò che accade nel mondo e che non vi può essere scissione fra
educazione e politica , pena per taluni d‟essere cattivi maestri e per altri dei don
Chisciotte.
18
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
La pedagogia di Freire, nonostante i suoi molteplici detrattori, con la sua visione
fenomenologico-esistenziale
della
coscienza,
getta
le basi per
una
filosofia
dell‟educazione centrata sul soggetto e sulla sua libertà all‟interno di una nuova
narrazione, intersoggettiva ed eticamente fondata, del mondo, perché le parole non
veicolano soltanto significanti, ormai pietrificati, ma evocano storie individuali e
collettive, emozioni ed esperienze vissute che riempieno quelli di nuovi significati
accomunanti in una rinnovata comprensione della realtà per la sua trasformazione
dall‟interno stesso delle comunità di appartenenza, come sosteneva Raffaele Laporta.
In questo orizzonte, la pedagogia di Paulo Freire diventa uno straordinario
supporto per una rinnovata riflessione sui temi propri dell‟educazione oltre che
dell‟alfabetizzazione degli adulti, al fine della costruzione di un neoumanesimo del quale
si avverte sempre di più la necessità, collocandolo così accanto a pensatori
contemporanei di pari sintonìa quali Erich Fromm, Carl Rogers, Victor E. Frankl, Ettore
Gelpi, Edgar Morin, per citarne solo alcuni.
Non a caso, in fondo, ad un giornalista israeliano che gli chiedeva in un‟intervista,
pochi giorni prima di morire, come volesse essere ricordato, egli rispondeva:“come una
persona che ama la vita, che ama uomini, donne, il mondo, le montagne, l‟acqua, la
terra”; questa, d‟altra parte è una filosofia della vita per la quale l‟importante è l‟avere
pienamente vissuto negli affetti autentici - e non di circostanza - delle persone e secondo
la quale alle prove della vita occorre rispondere all‟appello con tutta la propria lacerata
Umanità - bandiera onorevole del combattente - e non con il suono monocorde e
monotono di un meccanismo servente. Tuttavia, alla luce dell‟insegnamento di Freire,
anche i meccanismi serventi e gli oppressori devono essere alfabetizzati perché abbiano
coscienza di ciò che sono e rappresentano per i pochi o i molti che opprimono.
19
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Leggere le parole per leggere il mondo 16
Nel dibattito pedagogico degli ultimi venti anni, a livello internazionale ed
europeo, la prospettiva del life long learning - all‟interno della quale si inscrive
l‟educazione degli adulti come prassi e come disciplina - ha assunto una funzione
fondamentale di ripensamento pedagogico più generale sull‟educazione. Lo stesso
concetto di educazione permanente, in effetti, spinge a riflettere contemporaneamente
tanto su di un apprendimento di tipo idiografico che ne connota la permanenza quanto
sulla capacità delle istituzioni educative, o più ampiamente formative, di considerare
l‟educazione come un processo che dura per tutto il corso della vita (life wide learning) e,
quindi, di sapervi corrispondere adeguatamente.
Tuttavia, una volta accantonato il puerocentrismo pedagogico, una riflessione più
spinta e generale sull‟educazione ha di mira l‟ineludibile domanda di umanizzazione che
proviene, troppo spesso inconsapevolmente, proprio dal mondo degli adulti soprattutto quello a vario titolo sofferente, che è poi la maggioranza - al quale è possibile
dare una concreta risposta solo se ci si accosta ad esso rispettando la dignità delle tante
storie personali e collettive e si intende acconsentire ad un‟autorealizzazione che
necessita di opportunità in grado di offrire, strutturalmente e non come ammortizzatori
sociali, momenti ed occasioni di crescita individuale e sociale lungo tutto il corso della
vita. In questa seconda prospettiva la riflessione sull‟educazione - degli adulti, in
particolare - tende a farsi più complessa e di natura politica, perché il presupposto di
tutto ciò è la modificazione permanente della realtà da parte dell‟uomo ogni volta che
essa tende - per precisi e ben definiti interessi di gruppi di potere - a cristallizzarsi nelle
forme corrotte di una democrazia tanto “liquida” da lasciare scorrere ogni nefandezza e
crimine e non concedere il tempo di porre un argine a tutto ciò, con l‟esito intenzionalmente atteso - di una qualunquistica assuefazione.
Da questo punto di vista, se il fine di ogni educazione autentica è la libertà non
solo come aspetto paradossale e metaforico, ma soprattutto come condizione storica
16
B.Schettini, Leggere le parole per leggere il mondo” ovvero l’alfabetizzazione dalla prospettiva di Paulo Freire, in
NEWSLETTER AISLo febbraio 2007, www.aislo.it
20
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
sempre perfettibile, allora, come sostiene Paulo Freire , “l‟idea di libertà acquista il suo
pieno significato solo quando si identifica con la lotta concreta degli uomini per la loro
liberazione” . Ma, la modificazione permanente della realtà destabilizzerebbe sinanche la
fluidità di una società globale già fin troppo orientata da una “conoscenza diffusa” e
protesa verso un mercato planetario senza regole, dunque sprezzante tanto della dignità
dell‟uomo quanto delle forme storiche della sua autorealizzazione. Ciò egli lo aveva ben
compreso quando scriveva: “la realtà può essere modificata soltanto quando l‟uomo
scopre che è modificabile e che egli è in grado di farlo.
E‟ necessario, pertanto, fare di questa presa di coscienza il primo obiettivo di
qualsiasi educazione” suscitando, anzitutto, un atteggiamento critico di riflessione in
grado di impegnare nell‟azione per la trasformazione e non quale mero esercizio mentale.
La strategia per realizzare ciò fu l‟alfabetizzazione il cui assunto di base è nelle stesse
parole di Freire: “Gli uomini sono gli unici esseri, tra quelli inconclusi, capaci di avere
come oggetti della propria coscienza non solo la propria attività, ma anche se stessi, e ciò
li distingue dagli animali, incapaci di separarsi dalla loro attività…L‟animale, non
potendo separarsi dalla propria attività, sulla quale non può esercitare un atto riflessivo,
non riesce ad impregnare di significato (che va oltre lui stesso) la trasformazione che
realizza del mondo. L‟animale, per il fatto che si identifica con la sua attività, senza
potersene separare, si struttura fondamentalmente come un essere chiuso in sé.
L‟animale è astorico. Il mondo umano, che è storico, diventa per l‟essere chiuso in sé
semplice supporto. L‟animale per ciò stesso non può impegnarsi. La sua condizione
astorica non gli permette di assumere la vita, e dal momento che non l‟assume, non la
può costruire”.
Così, per prima cosa, egli invitava gli individui ad interrogare il loro ambiente
sociale, politico, economico e culturale alfine di coglierne il senso e riuscire ad attribuire
un significato alla propria vita. Insegnava, cioè a “leggere le parole per leggere il mondo”,
come amava ripetere, ben sapendo che in ciò non pochi scorgevano il pericolo di
un‟utopia pienamente aperta a forme di una sua realizzazione storica. Di fatto, “nella
maggior parte degli interrogatori ai quali fui sottoposto, quello che si voleva provare,
oltre alla mia ignoranza (come se ci fossero un‟ignoranza assoluta o una sapienza
21
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
assoluta: quest‟ultima esiste solo in Dio), quello che si voleva provare, ripeto, era il
pericolo che io rappresentavo” . Non a caso, l‟obiettivo principale dell‟alfabetizzazione,
nella teoria e nell‟azione freieriana, consisteva nella coscientizzazione, cioè in una pratica
educativa il cui esito corrisponde alla presa attiva e consapevole delle proprie condizioni
nel contesto lavorativo e sociale in cui ciascuno si trova a vivere e a lavorare o a non
lavorare. Un‟alfabetizzazione che non si limita all‟apprendimento della tecnica di saper
decodificare segni, confinandola in un mero funzionalismo, ma si associa ad una
percezione politica della realtà rappresentata, mentre abilita ad acquisire conoscenza per
la trasformazione della realtà e, dunque, all‟esercizio autenticamente democratico del
potere.
In Freire alfabetizzazione e coscientizzazione sono inscindibili, perché il suo
scopo era quello di aiutare gli individui a uscire da una forma puramente sensibile di
esistenza, mostrando loro che il mondo non è dato, ma si dà alla curiosità di chi lo
interroga. Se nella selve e nelle favelas brasiliane, l‟alfabetizzazione coincideva con
l‟insegnare a leggere e scrivere e a discutere i problemi della quotidianità, nelle società
attuali del Nord e del Sud del mondo essa molto probabilmente coincide con il rendere
pienamente coscienti del mondo in cui le generazioni attuali e future sono chiamate a
vivere.
Questa
“alfabetizzazione”,
nella
prospettiva
freieriana,
correttamente
ecosistemica, riguarda tanto gli oppressi che gli oppressori, perché la realtà non può
cambiare se gli uni e gli altri non partecipano del processo di coscientizzazione, anche se
a partire da posizioni diverse e confligenti.
22
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Educarsi attraverso la fiaba17
Un tempo - quando il tempo aveva un suo spazio interiore ed esteriore
significativo nella vita di relazione delle persone che curavano questo tempo - genitori,
nonni ed altre figure più o meno parentali raccontavano fiabe per educare… poi, quando
si accorgevano che il raccontare produceva estraniazione, ascolto passivo, allora
invitavano i figli, i nipoti, gli educandi a costruirle insieme; in tal modo il tempo
all‟interno del quale si dispiegava la narrazione diventava il tempo della costruzione della
fiaba, della socialità, dell‟impegno cooperativo, della ricerca ed espressione della
soggettività, dell‟identità che si svela attraverso la relazione identificante e poi attraverso
l‟elaborazione della separazione. Il passaggio dalla fiaba raccontata alla fiaba costruita
non è indolore soprattutto perché la fiaba, dal punto di vista della pedagogia attiva,
respinge la favola, il cui fine è quello di svolgere una funzione di carattere moralistico e
precettistico.
La fiaba, invece, chiede ulteriore tempo che è il tempo della cura di sé da parte
dell‟adulto che, nell‟avere cura dell‟altro, cioè del bambino, insegna anche a quest‟ultimo
ad avere cura di sé, a non affannarsi dietro la paura delle punizioni, ma ad apprezzare
invece il coraggio e l‟audacia, la divergenza e la creatività, l‟autodeterminazione,
l‟autostima positiva di sé all‟interno di contesti, immaginati, fiabeschi, per l‟appunto, che
mettono alla prova l‟affermazione individuale e dove il momento sociale è dato proprio
dal costruire insieme-con-altri e non da soli la fiaba: primato della soggettività non del
soggettivismo.
In questo senso la favola è prondamente diversa dalla fiaba, la prima utilizza il
protagonista e le vicende di cui esso è interprete per illustrare le punizioni in cui incappa
colui che trasgredisce alle regole sociali, morali, religiose di cui il racconto si fa portatore.
I protagonisti della favola, a differenza della fiaba, sono scelti per costituire
convenzionali tipizzazioni di difetti e di virtù umane in funzione di ammonizione e di
esempio morale; la seconda, invece, vede sempre il trionfo dell‟individuo-protagonista, al
17
B.Schettini, in Centro per le Famiglie, II Report d‟Attività 2002-2007 a cura di Gabriella Ferrari Bravo
(resp. Progetto). Napoli 2008, pp.164-168.
23
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
quale, spesso perché trasgressore o comunque individualmente coraggioso e audace, la
fiaba accorda sostegni magici e soprannaturali.
“E‟ quindi evidente che la favola viene privilegiata, come strumento didattico, da
quei regimi educativi che privilegiano il momento collettivo su quello individuale, e
ritengono essere valori fondamentali l‟obbedienza - e come si dice - la normalizzazione.
La fiaba invece viene oggi promossa ed enfatizzata da coloro che privilegiano
l‟affermazione individuale, la divergenza, il diritto all‟autodeterminazione”. 18 Si potrebbe
giungere ad una prima evidente conclusione e cioè che l‟impiego del genere letterario
favolistico o fiabesco all‟interno dei processi educativi rivela il paradigma educativo di
riferimento dell‟adulto genitore, educatore o insegnante. Una seconda riflessione potrà
tornare utile al lettore genitore, docente, educatore. La fiaba raffigura con un linguaggio
simbolico, ma impastato di immagini corpose e affidate in molta parte al dialogo, lo
sviluppo dell‟individuo e della stessa cultura come un processo storico e dinamico,
riproponendone con tenace iteratività le fasi di lotta e di maggiore tensione. Essa è
perciò stesso un racconto “reale”, giacché della realtà umana, contraddittoria ed
ambigua, difficile e pur meravigliosa, ci offre icasticamente gli aspetti più pregnanti con
un linguaggio e con una movenza narrativa che piacciono al bambino. Questi, infatti,
mostra di gustare espressioni, ritmi e formule magiche, divertendosi a dar corpo a
personaggi paurosi e benigni che esorcizza o rivive attraverso una ripetuta imitazione
drammatica il cui modello è emotivamente costruito sull‟intonazione con cui per la
prima volta ha udito raccontare la fiaba. Il racconto fiabesco, benché sorto non per
essere proposto ai bambini, possiede molti requisiti grazie ai quali può essere utilizzato
con i bambini nel processo educativo sia come espressione delle più profonde ed
inalienabili esigenze di essi, sia in virtù di quella forza fantastica che essa può alimentare
per operare sulle cose con una visione pedagogicamente progettuale.
In questo senso la tecnica della fiabazione impegna certamente il bambino nel
mondo della fantasia, ma lo chiama anche a dare forma di progetto alle soluzioni a cui
intende pervenire nella costruzione della fiaba, abilitandolo a dare senso al tempo e
18
Cf. voce “Favola” in Bertolini P., Dizionario di Pedagogia e Scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna
1996.
24
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
simboli allo spazio, a costruire e a dotare di significato gli eventi che desidera fortemente
che accadano, a vincere la frustrazione del tempo differito quello cioè che trascorre
prima che l‟evento auspicato si realizzi, ma anche a modificare gli obiettivi in funzione
dello svolgimento degli avvenimenti e dei contesti. Da questo punto di vista, la
fiabazione si inserisce a pieno titolo all‟interno del costruzionismo sociale e
dell‟approccio sistemico perché consente, e nello stesso tempo costringe, a chi si
impegna nella fiabazione, a fare i conti con le molteplici retroazioni circolari dei
microsistemi e con l‟unità/molteplicitià del contesto.
La fiaba, inoltre, ha l‟indubbio vantaggio, rispetto ad altri generi letterari, della
indiscutibile centralità e primarietà del linguaggio nei confronti dei contenuti. Il
linguaggio, cioè, usato dalla fiaba consente di instaurare agganci con la psiche del
bambino e, laddove questi agganci corrono il rischio di vanificarsi per la presenza di
contenuti (azioni) ansiogeni e violenti, è sempre possibile operare, tramite un “dosaggio”
del linguaggio, un ridimensionamento degli stessi contenuti, senza peraltro snaturare la
fiaba, giacché non ne vengono alterate le funzioni narrative. L‟importante è però non
lasciare i bambini in balìa della fiaba come lettura isolata, dato che proprio questo
aspetto richiede la presenza attiva di una guida che, ponendosi come compagno di
viaggio, impedisca alla fantasia di degenerare in una vera e propria evasione solipsistica
da una realtà che il soggetto non riesce ad accettare, “dal momento che la capacità di
inventare e presentare immagini difformi da quanto sia reperibile nella realtà è una
dimensione che, perlomeno a livello di predisposizione, può essere considerata come
strutturale della mente umana”.19
Dal punto di vista dinamico, infine, leggendo o costruendo una fiaba, è possibile
dare volto e voce a quei processi interiori profondi che nella vita di tutti i giorni restano
nascosti alla nostra coscienza e che, tuttavia, una parte di noi sa che vive dentro di sé. In
fondo, la simbiosi tra noi e la fiaba esprime la nostra storia o la parte più vulnerabile di
essa rappresentata sotto forma di metafora. La tecnica della fiabazione, tuttavia, non
utilizza la fiaba come strumento per pervenire ad una diagnosi nella sua accezione
19
Cf. Voce “Fantasia” in Genovesi G., Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Corso
Editore,
Ferrara 1998.
25
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
clinico-nosografica o di refertazione in ambito psicopatologico, bensì come strumento di
narrazione
congruo
all‟età
dei
narratori
che,
impegnati
nel
rappresentarsi
simbolicamente, possono avvicinarsi ai loro processi più profondi in corso e portarli alla
coscienza con effetto terapeutico 20 o autonoetico, impegnandosi a ricercare, attraverso la
fiaba, le modalità di gestione delle difficoltà esperite e immagazzinate. Nello stesso
tempo, la tecnica della fiabazione con le sue regole narratologiche, attraverso il momento
immaginativo positivamente diretto, consente a genitori, insegnanti, educatori, senza
farsi interpreti dei racconti per esprimere giudizi, ed essere intrusivi ed ansiogeni, di
utilizzare la fiaba come strumento di conoscenza dei propri figli e di essi anche come
allievi.21 Le fiabe, costruite secondo la tecnica della fiabazione, non propongono
soluzioni magiche ai problemi e dunque inapplicabili alla realtà della vita quotidiana, ma
al contrario accostano gli individui alla realtà talora problematica, favorendo un vero e
proprio processo di empowerment, dal momento che certi sentimenti ed emozioni non
attendono che dall‟esterno giunga il “principe/demiurgo” risolutore del problema, ma
necessitano senz‟altro che vengano attivate forze e capacità sul piano intrapsichico che
sono rappresentate attraverso un linguaggio tipicamente simbolico e mediante
personaggi e passaggi della fiaba che non hanno il significato di rappresentanti di
situazioni reali, bensì di attivatori delle nostre personali forze interiori per superare le
difficoltà e raggiungere equilibri più armoniosi. D‟altra parte, i problemi che una fiaba
fronteggia sono tutte quelle condizioni fisiche, relazionali, ma anche lavorative, in cui si
presenta una nuova esigenza posta sotto forma di domanda e a cui non c‟è ancora
risposta o non si sa come rispondervi 22 e, soprattutto, significa aprire una finestra sugli
orizzonti del possibile, liberandosi dai vincoli della logica e creare un contesto all‟interno
del quale si può provare a risolvere un problema rischiando con la fantasia, prima di
20
4 Cf. Santagostino P., Guarire con una fiaba, Feltrinelli, Milano 2006.
Il Centro per le famiglie del Comune di Napoli e del Dipartimento Socio Sanitario dell‟Asl Na1 ha
condotto un‟esperienza significativa nel biennio scolastico 2004-2006 in alcune scuole napoletane
utilizzando il metodo della fiabazione. Il progetto denominato “Matrioska”, condotto in collaborazione
con la II Cattedra di pedagogia della Facoltà di Psicologia della S.U.N., è stato al centro di un intervento
con genitori, insegnanti e alunni. Le riflessioni contenute nel presente lavoro costituiscono un primo
contributo di elaborazione teorica dal punto di vista pedagogico e didattico e offrono spunti per la
ricomprensione complessiva dell‟esperienza nella prospettiva della prosecuzione del progetto.
22
6 Ibidem.
21
26
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
cimentarsi sul piano della realtà e vedere il mondo con occhi nuovi o quanto meno da
una nuova prospettiva in precedenza ignorata o trascurata, questo perché “ogni fiaba
(olistico tassello nell‟infinito quadro d‟uno sconosciuto Sé) e l‟atto di fiabare (l‟action
fabuleaux) prevedono, rivelano, consentono la scoperta, l‟indagine, l‟approfondimento e,
spesso, la soluzione di ogni particolare e peculiare situazione che il soggetto, di volta in
volta, di fiaba in fiaba, intende affrontare nel (col) proprio inconscio che è tassello
dell‟inconscio collettivo (se uno di noi si taglia, sanguiniamo tutti”). 23
Dal punto di vista pedagogico, la fiaba e la tecnica della fiabazione contrastano
con una visione performativa dell‟educazione in quanto processo totalizzante, rinvenibile
in espressioni quali: travasamento, riepimento del vaso vuoto o della cera da plasmare a
piacimento secondo il progetto dell‟educatore. “L‟attenzione per la memoria,
l‟esperienza, i vissuti con i quali ciascuno entra in un contesto didattico risponde invece a
quanto appartiene ad una tradizione, quella dell‟attivismo, che non considera mai
l‟individuo una tabula rasa sulla quale incidere i saperi. Certo l‟educazione è anche
trasmissione di norme, istruzioni, modi di essere e fare, purtuttavia non è riducibile solo
a questo, poiché ciascuno di noi viene da una storia, da un intrico di storie che lo hanno
preceduto e di queste occorre tener conto affinché educazione significhi sviluppo delle
potenzialità naturali, incoraggiamento, orientamento verso la scoperta delle proprie
risorse”.24
Il discorso sembra allora farsi ancora più interessante perché l‟evoluzione del
progetto educativo implicherebbe il passaggio, senza soluzione di continuità, dalla fase di
lavoro attraverso la tecnologia della fiabazione alla fase della narrazione autobiografica
perché consentirebbe al discente ormai svezzato dal linguaggio della fiaba di accostarsi al
linguaggio corrente, utilizzando la molteplicità dei generi letterari, ma impegnandosi
anche a costruire una storia di sé con i frammenti della sua stessa storia. Le storie ci
dicono sempre chi siamo e chi siamo stati e, soprattutto, senza l‟ascolto delle storie degli
altri non possiamo conoscerci e conoscere l‟altro. Ora, di fronte alla crisi della narrazione
e della ricerca del sé poste in essere dalla condizione postmoderna, l‟autobiografia si
23
24
7 Cf: Parsi M.R., in “Riza Scienze”, n.38 (1990).
Demetrio D., Ricordare a scuola, Editori Laterza, Bari 2003, p. 26.
27
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configura come decifrazione dell‟io con le sue dimensioni personali, affettive, emozionali
e biografiche che si rendono esplicite mediante un processo riflessivo di ricostruzione
dell‟esperienza vissuta. A partire da ciò è possibile pensare ad una autobiografia che si
disvela nella modalità del prendersi in cura, intesa come possibilità di ripensarsi, riscoprirsi,
modificarsi e ricostruirsi in un‟esperienza vissuta come racconto di sé a se stessi e agli
altri e come ascolto del racconto di sé, dell‟altro, a noi. La soggettività grazie alla pratica
autobiografica ritrova qui il suo significato ed una sua dimensione peculiare. Grazie al
metodo narrativo-autobiografico assumono centralità importanti dimensioni dei vissuti e
la concezione di una soggettività in relazione col mondo. In questo dialogo col Sé e col
mondo la metodologia formativa autobiografica si dispiega nella modalità della cura: verso
se stesso, verso gli altri e verso le cose del mondo. La pratica autobiografica non esprime solo
importanti dimensioni dell‟esperienza vissuta, ma, più radicalmente, cura il soggetto;
configura il paradigma del prendersi-cura e si dispone come pratica formativa altamente
significativa perché libera il soggetto, svincolandolo da pregiudizi e, soprattutto, perché
attraverso il dispositivo della cura, che mette in gioco un io dialogico e la sua natura
relazionale e comunitaria – dove la soggettività è anche autotrascendenza e intenzionalità
e, soprattutto, scommessa sul futuro – quella pratica autobiografica si rivela come
strumento formativo che favorisce i processi di autoriflessione. In tali processi di
autoriflessione divengono manifeste simultaneamente componenti emancipative e di
crescita. Il passaggio dalla fiabazione ad accenni autobiografici, prima ancora che ad una
vera e propria narrazione autobiografica. è un passaggio graduale e non frettoloso, che
deve seguire il lento maturare della capacità dei soggetti impegnati ad utilizzare non
soltanto il racconto orale, il disegno, la metafora, ma anche la propria vita quale
contenuto del raccontare e la scrittura quale momento di oggettivazione della parola e
mezzo a cui affidare sé perché gli altri possano leggermi e perché io stesso possa
ritrovare me stesso nel frastuono delle tante cose scritte e riscritte.
Se la tecnologia della fiabazione si addice di più ai bambini della scuola primaria,
perché congeniale al loro mondo mentale ed affettivo, quella dell‟autobiografia si addice
di più a quei ragazzi che entrando nel ciclo di vita adolescenziale avvertono con urgenza
il bisogno di dare un nuovo senso alla loro esperienza di vita, presi come sono dalla
28
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voglia di scoprire il mondo e le riserve di potenzialità accumulate nell‟età precedente che
aprono verso nuovi orizzonti inesplorati ma dei quali di è sentito parlare, si è visto
qualcosa e molto si è immaginato. In questa delicata fase della vita in cui essi si
proiettano con slancio verso quel futuro che cercano di fare diventare realtà, con quegli
adattamenti continui che la vita stessa esige, qualcuno dovrà pur accompagnare questa
metamorfosi ed impedire che la memoria della fanciullezza vada perduta o relegata in
anfratti della memoria per poi tornare solo nei momenti della nostalgia in età adulta o nei
momenti più difficili delle chiusure, delle resistenze e delle regressioni. Ecco che
l‟autobiografia, allora, appare come un felice e naturale accompagnamento, perché, in
fondo, utilizzando ancora una tecnologia narrativa prende per mano il fanciullo che
quell‟adolescente è stato e lo traghetta verso la nuova età che esige il recupero di tutte
quelle risorse di svelamento autonoetico che la fiaba a suo modo proprio aveva prodotto
e che ora tornano ancora una volta ma come svelamento consapevole di chi si è stati e su
che cosa è possibile costruire il futuro attraversando il presente.
Bene, questo atteggiamento è proprio di chi si dà il tempo per avere la cura di sé,
ma anche degli altri in quanto genitori, insegnanti, educatori e tutto ciò è possibile
soltanto se tutte le figure che gravitano intorno al fanciullo, ora adolescente, si sono
impegnate nel percorso di svelamento metaforico di sé a se stessi e agli altri ed hanno a
loro volta partecipato del processo altrui (fiabazione), prima di transitare in quello del
racconto timidamente autobiografico. Il pensiero autobiografico è, quindi, quell‟insieme
di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e di ciò che si è fatto. E‟ una
presenza che da un certo momento in poi ci accompagna lungo il resto del viaggio della
nostra vita, è una compagna segreta, meditativa, comunicata agli altri solo attraverso
ricordi sparsi, a meno che non diventi uno scopo di vita. Solo in questo caso, oltre a
mutarsi in un progetto narrativo compiuto, storia di vita e suo romanzo, questa
compagna invisibile, impalpabile e pur presente e consistente ridà senso alla vita stessa e
consente a colui o colei che si sente invadere da questo pensiero spiccato e particolare di
percepire che ha vissuto e sta ancora vivendo. E‟ uno stato che entra a far parte della
nostra esperienza umana e intellettuale solo quando siamo in grado di dargli uno spazio
quotidiano, quando siamo in grado di fare esercizio filosofico su noi stessi
29
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
domandandoci chi siamo e chi siamo stati, quando diventa un luogo interiore di
benessere e cura.
Non è un momento solo mentale ma è molto di più: laddove vi è un passato
personale doloroso, pieno di errori e di occasioni perse, di storie consumate male o non
vissute affatto, di prospettive aperte e mai concluse, di attimi di gioia fuggevoli e talora
ingannevoli, rappresenta una sorta di ripatteggiamento con quanto si è stati, un modo
per riconciliarsi con il proprio passato e aprire la nostra soggettività verso nuovi
orizzonti proprio grazie a questi sentimenti di riappacificazione, di compassione e di
malinconia. Chi nella vita si è trovato in una situazione di stress o difficoltà sa bene che
esprimere le proprie emozioni negative aiuta subito a stare meglio e a superare un
momento difficile.
Nell‟istante in cui il pensiero autobiografico, che nasce nella nostra individualità e
di cui noi siamo gli unici attori, svela questi istanti affettivi, abbandona la sua origine
individualistica diventando altro e quell‟iniziale egocentrismo, che sembra caratterizzarlo,
si trasforma in una storia solidale, comunque comprensiva di altre storie, lasciando così
una traccia benefica soprattutto quando la nostra storia non è più del tutto nostra e
quando il lavoro sul passato ci riavvicina ed è difficile giudicare. Ciò che è stato forse
poteva compiersi in altro modo e avere un finale diverso, ma in ogni caso ora quella
storia è ciò che è stata, è ciò che è, e l‟unica cosa che bisogna cercare di fare è amarla
perché, la storia della nostra vita, è il primo e l‟ultimo amore che ci è dato in sorte. In tal
modo il pensiero autobiografico, ricomponendo la dimensione cognitiva con quella
esperienziale, ci cura, ci fa sentire meglio attraverso il raccontare e il raccontarci che
diventano allo stesso tempo sia forme di riconciliazione che forme di liberazione. Nel
rivederci, nel ricostruire il nostro passato, ci prendiamo consapevolmente in carico forse per la prima volta - assumendoci la responsabilità di tutto ciò che siamo stati e di
tutto ciò che abbiamo fatto non facendo altro che accettare la nostra storia che ci rende
unici e irripetibili. Il soggetto è l‟unico che può ritrovare, nel personale processo di
trasformazione, le coordinate che hanno dettato il cambiamento e attribuirne finalmente
il significato dopo avere a lungo cercato il senso delle cose. Ed è proprio in questa
30
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
capacità attributiva che è ravvisabile la dimensione autoformativa del pensiero
autobiografico.
Occorre, però, stare attenti a non vivere l‟autobiografia come farmaco, come un
qualcosa che serve a liberarci del nostro passato prendendone le distanze. Il vero
prendersi in carico, la vera cura di sé, inizia quando, non più il passato, ma il presente
entra in scena e diventa terreno fertile per inventare e svelare altri modi di sentire,
osservare, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi. Si accede così, dalla storia
del passato all‟autobiografia del tempo attuale, ai quaderni, agli appunti, alle note di un
diario quotidiano che è necessario, per “sentire” che si sta ancora vivendo. Questo non è
solo un modo per ritornare a vivere, ma è anche un modo per tornare a crescere per se
stessi e per gli altri, è un incoraggiamento a continuare a rubare i giorni al futuro che ci
resta da vivere, a vivere più intensamente quelle esperienze che, un po‟ per fretta, un po‟
per disattenzione, non sono state vissute con la stessa intensità, a lasciare tracce nell‟oggi
per riprenderle quando il futuro, diventando presente, cerca “luoghi” dove radicarsi
trascendendolo continuamente. Per quanto i ricordi possano essere sbiaditi e lontani, il
ricordare è una conquista mentale, un apprendere da se stessi, un imparare a vivere
attraverso un rivivere organizzato e meditato. Ogni singolo ricordo è un segno che ha
lasciato un‟ impronta nella nostra vita collocandosi ora in una scena, ora in una storia, e
l‟intelligenza retrospettiva non si limita a rievocare immagini isolate e vaganti ma
costruisce, collega e attribuisce uno spazio/tempo all‟evento, “lo socializza” passando
dal momento evocativo a quello interpretativo, cercando nessi, cause ed effetti, per
spiegare quell‟evento che può, apparentemente, apparire singolare. Non è solo come
sfogliare un album fotografico soffermandosi su un volto, un oggetto, un colore
dimenticato: l‟autobiografia prende vita perché il suo autore principale ha bisogno di
presentarsi al mondo e di attribuirsi ben più di un significato.
Ecco, allora, che si chiude il circolo virtuoso della cura di sé entrando e uscendo
continuamente nella propria vita con rispetto e senza rumori assordanti, nella
consapevolezza che nulla può essere spostato o cancellato, perché è avvenuto, e resterà
per sempre come risorsa, come riconoscimento di sé, come vita che si svolge giorno
dopo giorno lasciando tracce innumerevoli che sono altrettante ipotesi progettuali di
31
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
vita. Dal punto di vista pedagogico e didattico, credo che la fiabazione così come
tratteggiata in queste pagine si dischiuda naturalmente verso la narrazione autobiografica,
sia pure con i limiti ad essa propri nel momento in cui ci si accosta al mondo della scuola
e a tutte le sue componenti; tuttavia, ciò qualifica l‟azione didattica propria
dell‟insegnante perché la narrazione, sia essa intesa come fiabazione che come
autobiografia, favorisce una visione personale olistica di sé, degli altri, della cultura e del
mondo, promuove anche la trasformazione in competenze personali della capacità
narrativa che è ad un tempo costruzione retrospettiva di storie individuali e sociali: quella
storia che l‟alunno ha negoziato con se stesso e con gli altri momento per momento,
nella quale ha finito con l‟identificarsi e grazie alla quale ha potuto anche porsi in
relazione e guardare ormai al futuro senza paure ed angosce infantili.
32
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo 25
L‟articolo nasce a seguito di attività di ricerca pilota condotta in 6 Scuole
dell‟Infanzia Statali della Città di Napoli all‟interno delle quali è stata svolta, con
insegnanti ed allievi, l‟attività di “disegno spontaneo”. Scopo della ricerca pilota che, nel
nuovo anno scolastico 2011-12, vedrà la partecipazione di 16 Scuole dell‟Infanzia è
quello di distinguere fra disegno spontaneo o senza committenza e disegno con
committenza nei bambini di età compresa fra i tre ed i cinque anni, confrontandola con
la letteratura esistente in ambito sia pedagogico che psicologico. La ricerca pilota ha
prodotto anche un Catalogo intitolato “Lo scarabocchio” (edito dall‟Associazione Amici
del Margherita di Savoia-già Liceo Psicopedagogico) comprendente due articoli a firma
dei referenti scientifici (prof.ssa Daniela Cantone, ricercatrice di Psicologia generale
presso la Seconda Università di Napoli e il prof. Bruno Schettini coautore del presente
articolo) e un DVD con 615 disegni di bambini. La ricerca pilota ha contribuito a
problematizzare il discorso sul disegno spontaneo all‟interno del mondo scolastico
contattato, a fare affinare gli strumenti operativi sul modello del Closlieu del pedagogista
francese Arno Stern ed a generare un maggiore interesse scientifico sul tema della
Formulazione come unica modalità d‟espressione della memoria organica. La ricerca
estensiva procederà alla falsificazione del prodotto della ricerca pilota ai fini della
costruzione di un modello educativo metodologicamente corretto.
Lo scarabocchio di Sofia
L‟Uovo dell‟Arcobaleno è stato deposto il 15 maggio del 2010 praticamente al
termine dell‟anno scolastico che vedeva la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a
volare, di Sepulveda, al centro del percorso educativo-didattico. Un anno, sin dall‟inizio,
attraversato da un uovo, quello di Kengah, mamma gabbiana morente, affidato alle cure
del gatto Zorba a condizione di rispettare tre promesse: la prima di non mangiare l‟uovo;
la seconda di averne cura fino alla schiusa e la terza di insegnare al piccolo a volare.
Un po' sulla falsa riga del cappello non cappello de Il Piccolo Principe e di come la
visione adulta banalizzi ciò che nei bambini e nelle bambine è invece espressione
25
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo, di Bruno Schettini e Marina Perrone, in
www.educare.it.
33
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
profonda di vissuti, Martina, 5 anni, ha rappresentato, con l‟Uovo dell‟Arcobaleno,
l‟esperienza corporea, relazionale, cognitiva e affettiva di ciò che ha dato vita ad una
piena e autentica ricerca di senso.
Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie
vissute della natura”, vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire
un animale. Eccovi la copia del disegno. C’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza
masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione
richiede”. Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo
disegno. Il mio disegno numero uno.
Era così:
Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li
spaventava. Ma mi risposero: “ Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato
da un cappello?” Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un
boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos‟era, disegnai
l‟interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Pur lavorando da
lunghissimo tempo nella scuola dell‟infanzia e avendo dato nel 2008 il nome di
Scarabocchio di Sofia al Progetto di Circolo de Il Filo di Sofia26. Pur credendomi
immune dalla leggerezza dei giudizi disattenti, dalla superficialità e dalla banalità dei
frettolosi sguardi adulti, accadde che rimasi estremamente colpita quando, davanti ad un
disegno spontaneo consegnatomi per essere titolato e poi inserito nella mostra del
Concorso Ghirlando27, lo scambiai per un esercizio, si di abile fattura, ma pur sempre un
semplice miscuglio di colori e che accolsi con la frase di rito:
26
Il Filo di Sofia è un progetto di circolo che prevede l‟attuazione di percorsi di filosofia con bambini e
bambine. Tale progetto intende attuare la pratica del filosofare come strumento didattico e come
progetto edificante in senso educativo. Referente S. Bacchetta. www.avios.it/filodisofia/home.php.
27
Ghirlando Filosofo Giramondo è il nome di fantasia che Stefano Bacchetta, referente del progetto Il
Filo di Sofia, ha adottato per presentarsi e presentare ai bambini e alle bambine se stesso come amico di
Sofia e poeta. Tutto il percorso è iniziato nell‟a.s. 2007-08 con l‟arrivo di una lunghissima poesia. Il
Concorso Ghirlando ne è figlio. E‟ nato nel 2008-2009 su proposta di Giorgia, una bambina di 5 anni
34
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
“Che bello, cos‟è?”
Con mio enorme stupore seppi che si trattava dell‟Uovo dell‟Arcobaleno!
Come gli adulti descritti da Antoine Sainte-Exupery, mi sentii improvvisamente
“troppo adulta”, troppo distante dall‟immediatezza, profondamente spontanea, espressa
con il massimo della semplicità dal genio artistico di Martina, che si era venuta a trovare,
come ne Il Piccolo Principe, nella condizione di dover pensare: “Bisogna sempre spiegarle
le cose ai grandi” e aggiunse: “Prima c‟è l‟uovo e poi nasce l‟arcobaleno!”
Improvvisamente non avevo più tra le mani un semplice foglio ben riempito di
colore, non era più un semplice passatempo di abile destrezza e manualità, non era
neanche una copia di un unico gesto ripetuto quasi all‟infinito. Avevo tra le mani
un‟opera d‟arte unica, profondamente artistica, espressiva e rappresentativa di una
grande riflessione sulle esperienze e sui vissuti, trasformati e trasferiti fantasticamente su
un foglio bianco. Degna opera artistica, del nome di grandi maestri.
Una lunga traccia filata di esperienze psicomotorie relazionali aveva fatto vivere a
Martina le tappe della storia. Dalla deposizione fino al prendersi cura dell‟uovo. Dalla
schiusa alla ricerca del nutrimento adeguato. Dal difficile compito della scoperta e del
riconoscimento di una evidente e grande diversità, fino alla ricerca della strategia per
riuscire a far spiccare il volo alla piccola gabbianella Fortunata. Nel laboratorio grafico il
percorso si era soffermato sul contrasto bianco (Fortunata) e nero (gatto Zorba), giorno
e notte, vita prenatale e nascita. Il tutto era stato poi racchiuso e concretizzato nella
realizzazione individuale de Il libro della vita, dove foto e disegni illustravano l‟arco di
tempo che andava dalla gravidanza ai loro primi anni di vita. Un altro spunto importante
di esperienze le aveva ricevute nel percorso grafico sulle luci e le ombre in preparazione
della visita alla mostra “Caravaggio” presso Le Scuderie del Quirinale a Roma dove le
che nel tentativo di sfidare Ghirlando in una gara di poesia, voleva catturare tutte le rime così da
impedire a Ghirlando di fare le sue. Al concorso hanno partecipato genitori, fratelli e sorelle, assistenti,
collaboratori scolastici ed insegnanti. La vittoria chiaramente è stata attribuita al “rimese” come lo definì
la nonna di Alice, cioè del linguaggio poetico che trionfò come mezzo comune di espressione del
piacere per la condivisione della bellezza e del pensare. Tutti ricevettero un diploma di riconoscimento.
35
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
creature, osservando le opere del grande maestro, scoprirono autonomamente
l‟espressione “mette in luce” .
Martina ha saputo rielaborare l‟esperienza e l‟ha trasferita in un nuovo contesto,
l‟ha applicata ad un aspetto della realtà che non era stato preso in considerazione. Dove
nasce l‟arcobaleno? Dove nascono i colori? Queste implicite domande danno la
dimensione della capacità che possiedono i bambini di essere nella domanda di senso. Di
come il dialogare, tanto ricercato nei percorsi del filosofare verbale e adatti ai bambini
più grandi, trovi proprio in queste modalità di educazione scolastica l‟approccio che
consente, prima di tutto, di trovare un senso di profonda percezione di sé come
possibilità personale di dialogo e si trasformi da intima rappresentazione ad espressione
corporea e grafico-pittorica. Non è meraviglioso come le infinite tracce racchiuse
nell‟Uovo si intersechino, si sovrappongano così strettamente le une alle altre fino a
formare L’uovo dell’arcobaleno? Una riflessione da mettere sul Filo:
Lo straordinario viaggio simbolico del me corpo, alla traccia lasciata sul foglio
Quando la vita inizia il suo percorso corporeo, inizia contemporaneamente
nell‟essere umano l‟esperienza legata alle sensazioni, alle percezioni di un essere in
continua relazione con ciò che lo circonda.
La relazione che dapprima è completamente avvolgente ed esclusiva, privilegiata,
embrionale e uterina, dipendente, con la nascita incomincia a registrare e a ricevere
l‟imprinting dal contatto sensoriale corporeo e dalle percezioni che da esse dipendono.
Mi chiedo: quanto dell‟esperienza prenatale c‟è nel disegno dell‟uovo dell‟arcobaleno di
Martina?
Mi incanta la sua rappresentazione simbolica e luminosa. Martina è riuscita a
rappresentare, nel gioco grafico di colori con-fusi e racchiusi, la potenza-uovo che
origina un essere distinto e differenziato: l‟arcobaleno. “A narrare il mutare delle forme
in corpi nuovi mi spinge l‟estro” sono le parole che aprono la grande opera di Ovidio 28
Le metamorfosi volendo narrare il passaggio dal Caos primordiale “di cose mal combinate
tra loro” … e dove … “niente aveva una forma stabile” per poi arrivare al Cosmo
ordinato. Oppure penso alla stella danzante di Nietzsche. Forse è questo l‟approccio
28
Ovidio, Le metamorfosi, Primo volume Libri I-VIII, I grandi libri, Garzanti Editore, Milano 2008.
36
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
educativo attraverso l‟infanzia della filosofia che Kohan nel suo testo Infanzia e filosofia
descrive come “La sola cosa che la filosofia come esperienza esige è un gruppo di
persone che prendano sul serio questo proposito di problematizzare se stessi e ciò che li
circonda”.29 Ed è importante che ciò avvenga nelle strutture educative scolastiche,
perché indica la qualità di attenzione e rispetto per la dignità del pensare di tutte le
persone, siano esse bambini o adulti e fa sì, come in questo caso, che lo spiazzamento
adulto sia fonte di ulteriori riflessioni e scoperte. Perché, insieme a Kohan, mi piace
domandarmi “…che cosa vogliamo fare in maniera seria e gioiosa con la filosofia?” 30.
Il valore pedagogico del disegno spontaneo o “senza committenza”
Riprendo lo scritto di Marina Perrone per sostenere, attraverso una visione
fenomenologica, che ogni bambino ha un diverso modo di considerare l‟arte e il suo
stile individuale nel disegno, caratterizzato da gusti particolari per i colori, le forme, le
grandezze, la spazialità realizzando, in tal modo, un genere personale di espressività.
Y. Pappas sostiene che “far disegnare un bambino ci appare come uno dei
metodi più significativi di cui possiamo disporre per avvicinarci all‟animo infantile.
Senza dubbio, essendo la nostra conoscenza quello che è, restano in noi molti
segreti inaccessibili, ma è proprio in essi che risiedono l'originalità e la libertà di
ognuno.
Non è male che questa originalità e questa libertà si manifestino per tempo:
esistono nella vita del bambino tante occasioni per inaridirle”. 31
Il bambino attraverso il disegno fa emergere il proprio mondo personale, quello
più creativo, quello più autentico che non sottosta a regole e divieti. Anzi è possibile
sostenere che il disegno infantile si esprime attraverso forme innate, basate su strutture
neuromentali fondamentali, che si possono percepire nel gioco di una costruzione
psichica.
Secondo A. Stern32, tutti i bambini del mondo e tutti gli esseri umani lasciano
tracce grafiche qualunque sia il contesto ambientale e culturale in cui vivono, perché il
29
W.O Kohan, Infanzia e filosofia, a cura di C. Chiapperini, Morlacco Editore, Perugia, 2006, pXX.
Ibidem, p. XXII.
31
Pappas Y., Lo sviluppo psicomotorio, cit. in "Universo della psicologia", Motta, Vol. III, pag. 1296, I,
Milano 1983.
30
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«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
disegno non è soltanto uno degli strumenti della comunicazione umana ma è,
originariamente, un atto compiuto per una necessità interiore che non produce un‟opera
d‟arte o una comunicazione, ma basta a se stesso e dà un piacere sconosciuto perché con
questa traccia viene liberata una ritenzione molto antica. Essa è la manifestazione
materiale della memoria cosiddetta organica (memoria degli avvenimenti della
formazione dell‟organismo) che viene ancora prima della ritenzione mnestica che è la
capacità di ricordare ciò di cui si ha esperienza.
In linea con questa prospettiva, A. Stern definisce “Formulazione” l‟insieme di
segni che nascono dalla loro concatenazione e, dopo numerosi studi, è pervenuto alla
considerazione che essa è un sistema coerente ed universale, non limitata ad un‟età
particolare, che accompagna l‟uomo in tutti i cicli della sua esistenza. Secondo lo
studioso francese, la Formulazione è legata al codice genetico e rappresenta l‟unico
mezzo d‟espressione della memoria organica; sicché, nel momento stesso in cui
rappresenta le sue prime immagini, il bambino ci offre anche uno strumento per
comprenderlo meglio, assai più di quanto non consenta il linguaggio, strumento che il
bambino impara presto a controllare, a seconda delle reazioni dell‟adulto nei suoi
confronti e che richiede, per esprimersi a fondo, ben altre finezze di quelle di cui egli
può disporre. Per imparare a comprendere ciò che i disegni rivelano, bisogna innanzi
tutto domandarsi cosa disegnano i bambini.
J. H.Di Leo indica in sei punti per rispondere a questa domanda 33. I bambini
disegnano:
1. Quello che è importante per loro: in primo luogo le persone, quindi gli animali, le
case, gli alberi;
2. una parte, ma non tutto di ciò che essi conoscono dell'oggetto;
3. ciò che si ricordano in quel momento;
4. l'idea colorata dai sentimenti;
5. ciò che è visto;
6. una realtà interiore, non ottica.
32
Cf. www.arnostern.com
J. H. Di Leo, I disegni dei bambini come aiuto diagnostico, Giunti, Firenze 1981, G.Gallino"Presentazione",
pag.VI.
33
38
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
L'adulto non deve preoccuparsi perciò che le opere infantili siano corrette dal punto di
vista formale e tanto meno premiarle per questo, L. Radice (1936) metteva in guardia da
una precoce correzione che è “disturbatrice, anzi devastatrice, della intuizione pittorica e
del relativo sforzo di estrinsecazione grafica”. Insomma, l‟adulto, come scrive Perrone, è
«troppo adulto, troppo distante dall‟immediatezza, profondamente spontanea, espressa
con il massimo della semplicità dal genio artistico di Martina, che si era venuta a trovare,
come ne Il Piccolo Principe, nella condizione di dover pensare: “Bisogna sempre spiegarle
le cose ai grandi” e aggiunse: “Prima c‟è l‟uovo e poi nasce l‟arcobaleno!”». Molti adulti,
infatti, incorrono nell‟errore descritto dalla Perrone: “lo scambiai per un esercizio, si di
abile fattura, ma pur sempre un semplice miscuglio di colori e che accolsi con la frase di
rito: Che bello, cos‟è?”.
L'adulto deve fornire, invece, appropriati mezzi d'espressione e creare un ambiente di
vita in cui il bambino sia stimolato a fare esperienze che siano insieme reali ed estetiche.
Come sostiene il pedagogista francese Stern 34, bisogna evitare di imporre ai bambini di
“copiare”, o ai più piccoli di colorare disegni con contorni già tracciati, con questi mezzi
si pensa di attuare la discussa educazione al realismo, in realtà si finisce solo con l‟annoiare e
a non far emergere la personale creatività e/o spontaneità.
Anche imporre temi d'espressione obbligatori è sbagliato per vari motivi. In generale
qualsiasi forma d'imposizione che provenga dall'esterno, senza una motivazione valida,
condiziona il bambino bloccandone il flusso creativo. L'espressione artistica è un
avvenimento non comune in cui prendono forma esigenze personali, stati inconsci,
sensibilità, intelligenza.
In un soggetto in età evolutiva si possono produrre dei disagi, perché la richiesta
dell'adulto è superiore alle obiettive possibilità del bambino, ad esempio nel chiedere ad
un bimbo, di tre anni di disegnare nei dettagli un omino, quando ancora non avverte
l'esigenza o non ne possiede le capacità, non si ottiene altro che di inibirlo favorendo
l'insorgere di un senso di soggezione
Se la maggior parte dei bambini è per natura incline al disegno e a trarre gioia da tale
attività, non è però detto che tutti i bambini si divertano a disegnare. Anche l'esigere
34
Cf. www.arnoster.com
39
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
modi d'espressione o temi superati per età o per esperienze, ha conseguenze negative. In
questi casi il bambino si fissa su moduli standardizzati e li riproduce meccanicamente,
questo tipo di ripetizione stereotipata ha carattere frenante o inibitorio.
Per poter fare esperienze che arricchiscano la sensibilità, il bambino deve poter vivere,
quando disegna o dipinge, momenti densi di godimento.
Affinché ciò avvenga è necessario che ci siano alcune condizioni che nella maggior parte
dei casi devono essere predisposte dall'adulto.
Il pedagogista F. De Bartolomeis 35 si dice contrario al non intervento dell'adulto, egli
ritiene che sia compito dell'educatore intervenire a rafforzare l'influenza dei “fattori
favorevoli”.
Cosa l'adulto può predisporre?
il materiale artistico: spesso il bambino si scoraggia perché non ha i mezzi
adeguati;
un disegno di gruppo: l'attività di gruppo è spesso di stimolo alla fantasia;
della musica e disegno: la musica è come il colore, molto sentita dal bambino;
un ambiente educativo: l‟adulto può intervenire sul comportamento espressivo,
sia ampliando le conoscenze del bambino, sia influenzandone
l'immaginazione.
Secondo Stern l‟insegnante, l‟educatore, il genitore o meglio ancora il praticien non
insegna, non giudica, non fa commentare la traccia, ma è un “servitore”; deve conoscere
le leggi della Formulazione. Il praticien, nel Closlieu ha acquisito un‟attitudine rispettosa
verso la persona e verso la traccia della persona. Comprendere il funzionamento della
Formulazione esige un percorso scientifico ed è tutt‟altra cosa che interpretare i disegni.
A differenza di De Bartolomeis, Stern indica alcune caratteristiche fondamentali
dell‟ambiente del Closlieu:
un luogo che metta la persona al riparo da pressioni e interferenze;
la presenza degli altri, non come spettatori, ma come compagni di gioco che
accettano l‟emissione, conferendole il suo carattere di non-comunicazione e di
normalità;
la presenza di un praticien che non giochi il ruolo di figura di riferimento, né
quello di destinatario di ciò che viene formulato: il suo ruolo è quello di un
servitore.
35
Cf. De Bartolomeis F., Il bambino da 3 a 5 annie la nuova scuola materna, La Nuova Italia, Firenze 1968.
40
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Un modo per stimolare l'immaginazione della classe è il racconto.36 Sarebbe
interessante, per esempio, se dopo il racconto, alla cui costruzione tutti partecipano, i
bambini fossero invitati a produrre disegni spontanei. Così facendo, l'insegnante non
avrà bisogno di suggerire i temi di rappresentazione, ma l'ispirazione e le intuizioni
scaturiranno spontaneamente dal bambino che desidererà illustrare i fatti e le esperienze
vissute per approfondirle e conoscere meglio.
La finalità dell'attività di disegno è l'arricchimento emotivo e intellettuale;
nell'educazione è principalmente il primo aspetto che va potenziato, perché interessa
soprattutto che il bambino si senta realizzato e viva delle esperienze che maturano la sua
personalità. Più del prodotto interessa il momento realizzativo in cui il bambino si sente
di fare una cosa sua e la vive intensamente.
Dai disegni dei bambini noi possiamo conoscere a quale stadio sia la loro
maturazione intellettuale, che cosa essi pensino del mondo e delle persone con cui
vivono, che cosa abbiano appreso…Tuttavia ciò che risalta particolarmente dai loro
disegni spontanei è la visione concreta d'un mondo che l'adulto ha dimenticato.
“L'infanzia, che pure è alle radici del nostro essere e con i cui occhi un tempo
guardavamo al mondo, ci sfugge a tal punto che, per capire i disegni infantili, non ci è
più sufficiente guardarli, ma dobbiamo studiarli. Quello che siamo diventati ci nasconde
quello che avremmo potuto essere e che portiamo dentro di noi come un vecchio
ritratto; ma il mondo è pieno di bambini, di menti vive e intelligenti che possono farci
riacquistare con il loro talento il senso della vita, purché nell'avvicinarli non siamo noi
stessi a distruggerli”37. Nell'opera Il disegno infantile – afferma G. Luquet – “ogni
momento dell'evoluzione si distacca dal precedente secondo un progresso quasi
insensibile, si prolunga più o meno nei successivi, attenuandosi gradualmente […]. La
descrizione che diamo è schematica, la continuità dei differenti momenti di questa
36
Cf. Schettini B., Fiabazione i narrazione autobiografica fra filosofia e metacognizione, in “Scienze del pensiero e
del comportamento” in: ww.avios.it/spc.html.
37
Oliviero Ferraris A., Il significato del disegno infantile, Bollati Boringheri, Torino, 1990 pag. 172.
41
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
evoluzione nella realtà è meno distinta che nell'analisi; la data e la durata di ciascuno di
essi variano considerevolmente secondo il bambino preso in esame” 38.
L'interpretazione di G. Luquet si basa sul concetto di realismo del disegno del
bambino che ordina gli eventi grafici, che si manifestano nello stesso soggetto
individuandone quattro fasi.
Generalmente gli autori moderni fanno delle descrizioni evolutive di concezione e di
terminologia più o meno analoghe, aggiungono a queste una fase iniziale denominata
dello “scarabocchio”. In questa fase il bambino traccia delle forme indipendenti rispetto
al significato, questa fase dura per i primi due anni di vita.
Di fatto, si tratta di un'attività grafica non ancora realmente elaborata. Per Luquet le
quattro fasi si manifestano secondo la seguente sequenza:
Il realismo fortuito Il bambino evidenzia un'analogia più o meno vaga, e spesso
impercettibile all'adulto, tra il tratto che sta facendo e qualcosa di
reale: dà al segno il nome dell'oggetto. Durante il 3° anno di vita il
ripetersi di queste esperienze viene superato da una "intenzione
rappresentativa" che è all'origine delle fasi successive che sono
strettamente intrecciate
Il realismo
mancato
il realismo
intellettivo
Questa fase copre l'arco di tempo dai 4 ai 12 anni.
Il bambino cerca di rappresentare la realtà in modo significativo,
ma all'inizio la rappresentanza del mezzo grafico "non è adeguata
"rispetto al suo proposito; successivamente l' "intenzione realista" e
il "senso sintetico" costruiscono una rappresentazione della realtà
riconoscibile, ma in cui "ciò che il bambino dice" sostituisce
l'evidenza visiva. Una serie di processi permette il compromesso
necessario tra l'uno e l'altro: enucleazione dei dettagli, trasparenza,
piano, ribaltamento molteplici punti di vista. Progressivamente il
ricorrere a questi processi lascia spazio ad una visione più unitaria.
38
Luquet G., Le dessin enfantin, Paris 1927, cit. in "Universo della psicologia", Vol. III, pag. 1296, I,
Motta, Milano 1983.
42
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Il realismo visivo
Verso il 12° anno di età si instaura la quarta fase, durante la quale
sembra vi sia una subordinazione della rappresentazione
all'apparenza visiva delle cose; questa caratteristica classicamente
viene considerata come il declino del disegno infantile. Di fatto lo
studio dell'espressività dell'adolescente dovrebbe lasciare da parte
questo giudizio.
I lavori di Luquet esaminano il disegno dal punto di vista della rappresentazione; e
anche se cerca di mettere in evidenza le forme che testimoniano le tappe di una
"evoluzione intellettiva", l‟esito dei suoi studi
costituisce un‟originale elaborazione
descrittiva; nonostante tali interpretazioni siano datate all'inizio del secolo, esse restano
attuali.
A proposito, poi, della interpretazione dei disegni e del gioco dei bambini, a
favore di un uso pedagogico di essi, concludo con un brano di Melanie Klein riguardante
le interpretazioni “selvagge” che possono essere fatte sul gioco infantile: “Orbene io non
mi sono mai azzardata a fare interpretazioni simboliche così selvagge del gioco infantile.
(…) Solo se il bambino manifesta ripetutamente in vari modi – per lo più in realtà
servendosi di mezzi vari, per esempio giocattoli, acqua o ritagliando, disegnando, ecc. –
lo stesso materiale psichico; e rilevo, inoltre, che queste attività sono di norma
accompagnate da senso di colpa che si palesa come angoscia o in rappresentazioni nelle
quali è insita della sovracompensazione, e cioè in formazioni reattive; se pervengo a
rendermi conto che nel complesso di tutto ciò esistono nessi precisi, ebbene, solo allora
io interpreto i singoli fenomeni e li connetto all‟inconscio e alla situazione analitica”39.
39
Klein M. (1921), Simposio sull’analisi infantile, in «Scritti 1921–1958», Boringhieri, Torino 1983.
43
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Ogni età merita la sua domanda 40
Ho assistito da osservatore critico e incuriosito alle sessioni di filosofia con i
bambini che si sono susseguite nei giorni del «Fantasio Festival 2009», presso la Rocca
Paolina, nella città di Perugia e, amante della mia autonomia di apprendimento, tipica di
chi fa il ricercatore di mestiere su di una materia tanto complessa qual è quella
dell‟educazione, sono tornato più volte con il rigore del ricordo a quelle giornate
trascorse. Alla ricerca del «metodo», ho scoperto che non c‟era alcun metodo, ma che
ogni insegnante-facilitatore ne proponeva uno che si adattasse, di volta in volta, al
«gruppo dei ricercatori in erba» che hanno saputo dimostrare che non è vero che l‟«erba
del vicino è sempre più verde» - come si usava dire ai miei tempi, quando si andava a
scuola e c‟era il famigerato compito in classe - e che muoversi come il mitico Prometeo,
se è rischioso, è anche più appagante e autentico, perché il prodotto della ricerca, che è la
conoscenza o una abilità, è qualcosa che si deve «rubare»; rubare, proprio come si fa per
imparare un mestiere e una professione al di là del metodo o dei metodi e delle
conoscenze che gli istituzionali luoghi della formazione pure ti hanno insegnato.
Non ho trovato neanche una «comunità di ricerca» e, a dire il vero, non amo
neanche il termine «comunità di ricerca», come dicono alcuni, ed essendo io, fra l‟altro,
smaliziato dalla personale esperienza, temo sempre che ci possa essere qualcuno che
aspiri a cose più ambiziose possedendo quel «metodo» che è l‟arte dell‟avere sempre
l‟ultima parola nella comunità; soprattutto, non credo nella felicità che sgorga dal
pensiero, che non sia quella che provenga dalle «euchine» e dalle «endorfine» o da una
coscienza calata in un continuo processo di liberazione - come direbbe Paulo Freire perché critica rispetto ad ogni forma di oppressione e in grado di prendere la distanza da
ogni forma di esercizio del potere dell‟uomo sul proprio simile anche di quella dell‟adulto
sull‟infanzia. «Pedagogia nera» (ovviamente negata), come la definirebbe la psicoanalista
austriaca Alice Miller. Temo, invece, quella felicità che discende da un pensiero pago di
se stesso, che non ha la forza di trasformare quello stesso pensiero in una prassi di
cambiamento per sé, per gli altri. A questo punto, mi piace chiarire un concetto. Le
40
B. Schettini, Ogni età merita la sua domanda, in http://edasociety.educazione-degli-adulti.it
44
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
esperienze o sessioni di filosofia con i bambini sono esercitazione didattica e quindi
addestramento - non educazione - per quando i bambini entreranno a pieno regime nella
vita - che però, a questo punto, è tutt‟altra cosa da quella esperita nell‟aula scolastica oppure le esperienze di filosofia con i bambini introducono la vita nell‟aula - fanno cioè
a meno
di un qualsivoglia
ortodosso contenuto didattico preconfezionato - e
riproducono quindi quello che «c‟è» concretamente nella vita di ogni giorno? Altra cosa
ancora è la modalità narrativa ed argomentativa attraverso la quale i bambini sono in
grado di esprimersi. Il problema è tutto in quel «c‟è» fenomenologico, esistenziale,
provocatorio quanto basta,
che
apre la discussione in una tempesta di cervelli
elettrizzata dalla possibilità di «esser-ci» per quello che si è, bambini in riflessione, a cui è
riconosciuta da subito una soggettività epistemica che è anche quella di «prendere e dire
la parola» in un mondo in cui la parola o ti è data per esercitazione didattica o ti è tolta
perché non appartieni al gruppo dei grandi, dei grandi che contano.
Qui ancora una volta il riferimento va a Paulo Freire e ai pedagogisti della
cosiddetta «Pedagogia non direttiva» ed anche a Gregory Bateson che sostiene che non
c‟è apprendimento senza quel sano conflitto che genera la differenza del potenziale di
apprendimento e a Carl Rogers che, insieme con Paolo Jedlowski ed altri, sostiene che
l‟apprendimento autentico, cioè significativo, è quello libero, autonomo, esperienziale,
fatto per prove ed errori.
Questo è l‟ultimo punto su cui intervengo. Non dico che le sessioni perugine
siano state l‟una o l‟altra cosa - non tocca a me in questa breve riflessione; non saprei
neanche articolare il discorso che sarebbe troppo lungo; è stato troppo poco il tempo di
osservazione e, fra l‟altro, fuori dai contesti di appartenenza dei «gruppi di filosofi in
erba» - penso, però che se la filosofia non è altro che la questione, riproposta senza
fine, del senso e dell‟Essere (Jaspers), allora ogni età merita di porsi le sue domande; ma
penso anche che ogni adultofacilitatore debba essere una persona risolta non soltanto
nel senso psichico (la grande differenza nella struttura dell‟Io e nel funzionamento del
principio di realtà ostacola la compresione tra grandi e piccoli), ma anche nel senso più
propriamente politico (pedagogia e didattica hanno a che fare quotidianamente con le
scelte della vita), nel senso cioè di sapere ridiscutere se stessi, i propri rapporti con la vita
45
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
e la società per evitare ogni forma di alienazione, sia essa ballostica o baunasica, che fa
perdere, in ambedue i casi, la coscienza intenzionale della propria interazione con l‟altro
da sé e fanno dell‟altro da sé la protesi di se stessi. Ecco, io penso che il problema della
filosofia con i bambini non sia da incentrarsi su falsi problemi, anche se
metodologicamente corretti, ma sull‟eterno paradosso dell‟educazione; anche la
Pedagogia, come la Filosofia, ha una domanda
paradossale, e perciò imperitura, alla
quale nessun secolo potrà mai dare risposta definitiva, perché è come un comando
autopoietico indipendente dal colore, dalla fede, dall‟etnìa, dalle idee, dal genere, dal
grado di istruzione e cultura, dalla latitudine e dalla longitudine: sii libero, sii autonomo,
sii te stesso! Ma, la libertà, l‟autonomia, la crescita sono processi e mentre qualcuno da
un lato si arroga il diritto-dovere di renderci liberi, autonomi, di farci crescere, dall‟altro
lato, abbiamo la necessità invece di potere pensare e nutrire la segreta speranza di
chiedere noi a qualcuno di aiutar-ci (nel senso della reciprocità che è la misura
dell‟autenticità) a tradurre il comando in una domanda di senso: come posso io, qui e
ora, «esser-ci libero», «esser-ci autonomo», «esser-ci in crescita», quindi cambiare senza
che il mio educatore, chiunque sia, si senta tradito (ma allora non è un educatore) e,
comunque, di farlo lo stesso anche se egli si sentisse tradito, per crescere, essere libero ed
autonomo? Non è forse questo il senso freiriano di quel “nessuno educa nessuno, ma
tutti si educano reciprocamente”? Queste sono domande circolari che devono porsi
prima di tutto gli educatori, gli insegnanti, i genitori, coloro che professano la relazione
di aiuto; vuol dire anche «esser-ci in formazione» e nutrire il desiderio di proporre
continuamente la democrazia del sapere e della vita per sé e per gli altri.
46
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
La Filosof-azione con i bambini41
Helene Schidlowsky, docente di filosofia alla Haute Ecole “F. Ferrer” di Bruxelles,
scrive che «già da piccolo il bambino si pone tutte le questioni filosofiche che sono
dotate di un senso: intorno alla vita, alla morte, all‟amore, al tempo, al pensiero.. I
bambini interrogano il mondo molto precocemente ed è qui il punto di partenza della
pratica filosofica. La filosofia è intesa qui come questione e non come sapere che
accompagna la meraviglia e lo stupore di fronte al mondo. Un corso di filosofia con i
bambini non sarà un luogo nel quale si espone la teoria platonica ma un luogo dove li si
impegna a porre le loro domande, a svilupparle e a riferirle al mondo». 42 Nello stesso
tempo, scrive Maria Antonella Galanti, «la filosofia nella sua veste di riflessione sugli
aspetti fondanti dell‟esistenza – la vita e la morte, la giustizia, il bene e il male, il conflitto,
l‟amore e l‟odio – non può essere insegnata, […] ma può solo essere praticata
dialogicamente, confrontando il proprio linguaggio specialistico con altri linguaggi legati
a soggetti o a contesti diversi». 43
Sui punti citati condivido il pensiero della Schidlowsky e della Galanti, tanto da
sostenere che ogni pratica educativa che sottragga il bambino alla possibilità della
domanda affinché dia risposte ai nostri quesiti, comunque posti, sia pure nella comunità
definita di ricerca, è di fatto una forma di violenza che rientra a pieno titolo nella
“pedagogia nera”, così definita dalla psicologa polacca Alice Miller 44 e parimenti da
ritenere che qualsiasi conversazione fra adulto e bambino che utilizzasse solo il
linguaggio convenzionale tenderebbe a mancare sia di profondità di espressione che di
comprensione, da esseri umani, non ci sarebbe bisogno dell‟arte, della musica, del teatro
o della poesia. Posti i termini del discorso, aggiungo che da un lato la filosofia è
41
B.Schettini, La Filosof-azione con i bambini, in AmicaSsofia | dicembre 2010
1. H. Schidlowsky, La filosofia per bambini: una educazione alla felicità e alla democrazia, Dossier
International de: “L’AGORA” – Revue internationale de didactique de la philosophie
(http://www.fasf.uniba.it/area_docenti/documenti_docente/materiali_didattici/45_La_filosofia_per_
bambini_Schidlowsky.pdf).
43
A. Galanti, Introduzione. Curiosità, sperimentazione e meraviglia come stimoli per la conoscenza, «Ead», 2008,
p.24.
44
Cf. A. Miller, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
42
47
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
un‟esperienza del pensare45 e che, come tale, si addice a ogni età, dall‟altra, ritengo che
essa favorisca l‟empowerment alla cittadinanza in quanto la problematizzazione filosofica
non è un intrattenimento intellettuale, sia pure a scopo didattico, alienato e alienante, una
fuga dall‟azione, un modo per nascondere la negazione del reale, ma è inseparabile
dall‟atto stesso della conoscenza e dalla situazione concreta che non soltanto costituisce
il contenuto su cui la conoscenza pone il suo cimento, ma anche l‟incipit del processo
riflessivo.
In questo senso la problematizzazione filosofica è un atto squisitamente
pedagogico, non didattico, in quanto è il motivo per cui, partendo dalla situazione
concreta, costringe ogni ragionamento a un confronto che implica un ritorno critico
all‟azione stessa dalla quale si era partiti. Parte da essa e da essa ritorna. 46 Per questo
considero tale pratica filosofica con i bambini una vera e propria attività di “filosofazione” una pratica cioè trasformativa – non meramente socializzatrice e didattica – che
impegna azione e pensiero per tornare all‟azione. In questo senso tendo a distinguere fra
simulazione didattica e processo educativo in quanto la prima è artefattamente costruita
dall‟adulto per conseguire obiettivi prefissati di conoscenza e di comportamento, il
secondo è un ingaggio fra due o più persone che sono co-protagoniste in un percorso
fondamentalmente paranormativo aperto cioè all‟imprevedibilità tipica di ogni sistema
vivente umano, e di cui si fa carico l‟azione educativa. Percorso che ammette
l‟autovalutazione, la customer satisfaction, e una valutazione di tipo formativo, più che
certificativa in senso stretto, anche perché sarebbe ben arduo utilizzare prove di
valutazione docimologica individuale in situazioni in cui il sapere è diffuso e irradiante
cioè condiviso per contaminazione. Per questo concordo – benché a ciascuno debba
essere riconosciuto il diritto di optare fra le varie proposte – con chi non condivide
percorsi vincolanti come racconti creati ad hoc, rigide sequenze di tappe operative e la
proposta indifferenziata e indiscriminata di contenuti e attività a bambini/e appartenenti
a contesti socio-geografici-culturali diversi. Anzi, l‟intolleranza a percorsi diversi, di tipo
45
Cf. G. Valera-Villegas, G.M. y Arleny Carpio, La filosofia como experiencia del pensar, Fundación Imprenta
de la Cultura, Caracas 2008.
46
Cf. J.E. Corona, Talleres de filosofia para niños. Un espacio para el desarrollo de la lectura, la escritura y la
expresión oral, «Revista del Programa de Educación Básica con énfasis en lengua castellana», 5, 2008.
48
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
non strettamente curriculare, e al confronto con essi è tipica dei modelli didattici
autoritari sia pure occultati attraverso il riferimento ad autori considerati, a torto o a
ragione, progressisti. Il mio riferimento letterario, allora, va a Gilles Deleuze 47 e più
ancora a Jacques Ranciére48 secondo il quale, come riferisce Walter O. Kohan, «chi
insegna accompagna l‟esperienza di chi apprende senza sapere il luogo cui intende
giungere l‟altro e si preoccupa, soprattutto, affinché questa ricerca si possa realizzare con
attenzione.
Chi insegna ignora, oltre a ciò che si dovrà conoscere, anche qualsiasi precedente
disuguaglianza relativa al pensiero: solo se siamo intellettualmente uguali possiamo avere
un‟esperienza di apprendimento e insegnamento in grado di trasformare tutti i
partecipanti. In questo contesto uguaglianza non significa assenza di differenza bensì
assenza di gerarchie in campo intellettuale. Siamo umani perché pensiamo e se non
siamo tutti nella stessa condizione di pensiero avremo, con tale presupposto, mutilato
sfacciatamente e irreparabilmente l‟umanità». 49
In questo modo Kohan precisa magistralmente quello che ho inteso dire quando
ho scritto, in precedenza, circa la differenza fra pratica didattica e pratica educativa, la
diversità delle opzioni metodologiche in campo, il co-protagonismo di educatore e
educando nel processo educativo e l‟imprevedibilità di ogni azione autenticamente
umana anche in risposta a input educativi e a prescrizioni al cambiamento pure previsti
nel setting educativo.
Un autentico fare educativo implica «che insegnare e apprendere filosofia
significhi condividere un gioco che fa del pensiero un‟esperienza aperta, imprevedibile,
trasformatrice. Significa aprire il pensiero a un‟avventura che permetta di andare più in là
del già pensato, che dia, ogni volta, la possibilità di pensare a se stesso, senza condizioni.
Incontrare il pensiero dei filosofi, interrogarsi e creare concetti con loro. Non credere in
nessun‟altra cosa se non all‟impossibilità di continuare ad essere nello stesso modo in cui
si era all‟inizio»; 509 anzi, l‟incapacità auto e co-trasformativa di chi propone la filosofia
47
G. Deleuze (1968), Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1972.
J. Ranciére (1987), O mestre ignorante, Autêntica, Belo Horizonte 2002.
49
W.O. Kohan, Infanzia e filosofia, a cura di Chiara Chiapperini, Morlacchi Editore, Perugia 2006, p.13.
50
9. Ivi, p. 16.
48
49
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
con i bambini restando immutabili, come simulacro sub specie aeternitatis, è la prova
certificata che si tratta di una proposta didattico-curriculare e non educativa e, in quanto
proposta didattica è cosa altra da un autentico pensare che fa della filosofia lo strumento
per eccellenza per non continuare ad essere nello stesso modo in cui si era all‟inizio di
tale percorso e, dunque, uno strumento pedagogico del quale si assume, per intera, tutta
la dignità del termine “strumento”. E‟ fuori discussione che la filosof-azione non sia
assimilabile a una pratica nel senso pragmatico del termine in quanto essa è una modalità
prassica cioè trasformatrice e non meramente socializzatrice e didattica; nel senso
prassico, la filosofia con i bambini o con gli adulti si coniuga strattemente con la prassi
politica sia perché lo scopo fondante della pratica filosofica fu sin dagli inizi, nel pensiero
socratico-platonico, politico-pedagogico, sia perché come progetto per il cambiamento
essa si pone nella linea del perseguimento di obiettivi concreti che in quanto tali
ammettono necessariamente il coinvolgimento dell‟ambito socio-politico. In questo
senso mi piace il riferimento, ancora una volta a Kohan: «perché diciamo che si tratta di
un lavoro politico? Perché a partire dall‟intervento filosofico possiamo pensare a ciò che
solitamente si mostra impensabile, ridicolo, impossibile, assurdo; si apre la possibilità di
pensare a un altro mondo radicalmente diverso dal mondo che pensiamo e abitiamo. In
altre parole, la filosofia è un lavoro politico del pensiero. Nella misura in cui ci permette
di pensare a un altro mondo, nello stesso tempo ci aiuta a pensare a ciò che oggi si
pretende sia impossibile da pensare. La filosofia ci aiuta a costruire in un altro tempo e in
un altro spazio ciò che oggi non ha né tempo e né luogo in questo mondo». 51
Da questo punto di vista il mio riferimento si dirige spontaneamente verso la
figura di Gramsci, al Gramsci filosofo, dunque politico e, dunque, educatore. Ma questa
è una scelta non “riduttivamente” politica bensì anche epistemologica. Allora, da filosofo
alle prime armi, ma da pedagogista smaliziato, mi sorge spontanea una domanda: cos‟è
l‟educazione? E senza attendere che altri diano la risposta al posto mio, dico che
l‟educazione autentica è “provocatoria mai omologante”, “eversiva mai neutrale”,
“trasgressiva mai normalizzatrice”, “perturbante mai acquiescente”, “rivoluzionaria mai
reazionaria”. In questa direzione provo a immaginare le categorie dello “spiazzamento”,
51
10. Ivi, pp. 19-20.
50
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
dello “stupore” e della “meraviglia” in modo diverso, non riferite cioè alla scoperta di
contenuti, ma alla scoperta della natura diversa del metodo di approccio alla realtà e alla
conoscenza ovvero dei modelli interpretativi della realtà. E, dunque, lo spiazzamento
inteso come lo scoprirsi fuori dai comuni percorsi della conoscenza e di un diverso
posizionamento personale nel cammino verso di essa e lo scoprire che ciò è possibile e
che c‟è un luogo metaforico in cui ciò si rende possibile; lo stupore quale scoperta e presa
d‟atto che si può pensare, agire anche in modo diverso dal mio e da quello che ci viene
continuamente trasmesso e nello stesso tempo lo scoprire che in quel luogo metaforico
ciò è legittimo anzi è la regola; la meraviglia quale scoperta che anche io posso pensare
legittimamente in modo diverso dagli altri e in modo diverso anche da come pensavo
prima e nello stesso tempo scoprire anche che questa diversità costituisce la molteplicità
dei punti di vista tutti aventi pari opportunità.
E, dunque, il modello del fare filosofia è un modello cibernetico, dove l‟incipit
dell‟algoritmo è una domanda alla quale è pertinente rispondere con un‟altra domanda
perché gli indizi che consentono di darsi delle risposte, appunto, sono solo indizi,
frammenti di avvio alla conoscenza, come ci insegna l‟epistemologia che accompagna la
teoria della complessità. Ma si tratta di una conoscenza non curriculare, bensì
esperienziale che nasce da un apprendimento autenticamente significativo e un
apprendimento è significativo quando, come scrive P Jedlowski, è consistente 52 e come
tale consente di attribuire significato. Questa è un‟esperienza di filosofia che apre la porta
alla vita e si nutre degli interrogativi fondamentali della vita stessa: cos‟è la vita e cos‟è la
morte; perché il dolore e cos‟è la felicità; cos‟è la realtà e cos‟è la natura; chi è l‟uomo e
che cos‟è ciò che è diverso dall‟uomo; cos‟è la conoscenza e cos‟è ciò che chiamiamo
inconoscibile; esiste un dio e se esiste chi è, e se non esiste perché ce lo
rappresentiamo… Tuttavia occorre sapere riconoscere che prima ancora che una
“domanda di senso ed eziologica”, attraverso i loro “perché” i bambini esprimono una
“domanda di cura e di attenzione” che non possiamo trasformare, per nostro comodo,
in una domanda gnoseologica, a scopo didattico; sarebbe una forzatura o, per dirla con
la A. Miller, una violenza.
52
11. Cf. P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994.
51
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Sono domande che accompagnano da sempre l‟uomo, ogni uomo, e alle quali egli
ha dato risposte diverse nel tempo secondo le sue possibilità; ed ecco allora le
cosmogonie, le teogonie, le mitologie, le filosofie allorquando la risposta non è stata più
di tipo teosofico e teologico bensì gnoseologico e antropologico e la stessa domanda
non era più di tipo né finalistico né morale; tuttavia, ancora oggi le risposte spesso
intrecciano i vari percorsi compiuti dall‟umanità attraverso il tempo. La filosofia con i
bambini, ma anche con gli adulti, è una risposta che pone al centro la svolta
antropologica. Ed è per questo motivo che la filosofia – la filosofia non professionale,
non curriculare – non appartiene a nessuna scuola e a tutte, ma preminentemente
appartiene all‟uomo e, dunque, ha un valore pedagogico ed esprime una scelta politica.
52
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità53
Il punto del discorso
Come è stato illustrato nell‟articolo precedente,54 con l‟introduzione del costrutto
definito di “filosofazione” è stato descritto il tipo di approccio filosofico alla pratica della
filosofia con i bambini e, dal punto di vista pedagogico, con il riferimento a una
pedagogia dell‟autonomia è stato brevemente delineato anche verso quale processo
educativo ci si intende orientare posto che sia stata esclusa l‟opzione strettamente
didattico-curriculare. Dal punto di vista pedagogico, fare filosofia con i bambini vuol
dire sollecitarli a praticarla come ricerca di una identità che si va compiendo lungo tutto
il corso della vita e che, dunque, esige in fieri un atteggiamento personale di costante
messa in discussione. Si tratta di considerare la filosofia come attività di ingaggio alla
comprensione di sé e del mondo che la pratica del vivere quotidiano necessariamente
comporta; è anche un accompagnare i bambini nel loro tentativo di interrogare il mondo
attraverso l‟avvio di una pratica discorsiva che sappia valorizzare il loro pensiero
concreto e consenta anche di esternarlo non con logica adulta, ma con quella che essi
sono capaci di esprimere e comprendere. Tale pratica mira a educare a un modo di
pensare che opta per un paradigma epistemologico di tipo narrativo più che scientifico in
senso stretto.
La filosofia con i bambini diventa, così, un‟esperienza del “pensare-concreto”,
dove la problematizzazione non è un atto del conoscere distaccato dal reale, ma da
questo prende l‟avvio per dirigere il ragionamento e consentire la rivisitazione del punto
di partenza. Per questi motivi, la filosofia con i bambini è un‟attività di “filosof-azione”
nel senso di una prassi trasformatrice in cui azione e pensiero costituiscono un tutt‟uno
operazionale. Pertanto, la filosof-azione non può essere considerata una simulazione
didattica dove sono presenti itinerari e obiettivi prefissati dall‟adulto secondo le esigenze
di un sapere e di una logica formalmente costituiti, ma un vero e proprio processo
educativo che vede coinvolte due o più persone che diventano co-protagoniste di un
53
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità, di Bruno Schettini e Egidia Lotti, in Amica Sofia,
luglio 2011.
54
Cfr. B. Schettini, La Filosof-azione con i bambini, «Amica Sofia», 2/2010, pp. 27-29.
53
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
percorso aperto all‟imprevedibilità. Per la sua azione trasformatrice, la filosof-azione più
che una pratica è una prassi, non meramente socializzatrice e didattica. In linea con il
pensiero di Kohan, si può affermare che la filosofia è un lavoro politico del pensiero che
permette di pensare a un altro mondo, a ciò che oggi crediamo assurdo, irrealizzabile.
Insegnare e apprendere filosofia diventa, quindi, un gioco in cui il pensiero, con la sua
azione trasformatrice, va oltre il già pensato, oltre il risaputo, oltre la falsa credenza che
nulla di questo mondo si possa cambiare.
Due paradigmi costituenti
Nel presente studio ci si vuole soffermare su due concetti ritenuti fondativi; il
primo attiene strettamente alla scelta di un concetto di “educazione vs didattica” e il
secondo attiene al costrutto di “comunità di pratica vs comunità di ricerca”, anche se
concetti e costrutti non sono fra di loro alternativi. Il costrutto di base è quello che
considera l‟apprendimento in prospettiva socio-culturale all‟interno del quale è
ampiamente riconosciuto che la dimensione soggettiva del nostro conoscere e imparare
avviene attraverso la partecipazione a più sistemi sociali di apprendimento. 55 Coniugando
i due approcci e con riferimento ai bambini, appare interessante il richiamo alla
prospettiva winnicottiana56 secondo la quale, a parere di chi scrive, sarebbe possibile
considerare la filosof-azione come un apprendere insieme attraverso il gioco inteso come
quella situazione nella quale, fin dalla nascita, cominciamo ad apprendere, a conoscere e
a costruire e ri-costruire immagini mentali su un mondo esterno, ma anche interno.
Gioco attraverso il quale bambini e adulti, interagendo, possono liberamente dare luogo
alla loro creatività in uno spazio transizionale; spazio che consente di sviluppare un
pensiero relazionale e a suo modo critico in grado di esprimere una pluralità di repertori
di narrazione, descrizione, spiegazione e di partecipazione graduale alla dimensione
manipolativa/trasformativa della realtà. 57
55
3. Il riferimento immediato è alla psicologia culturale di J. Bruner e all‟orientamento situazionale e
costruzionista di A. Bandura.
56
4. D.W. Winnicott, Gioco e Realta, Armando, Roma 1974 [1971].
57
Sul punto, in questo stesso numero, cfr. V. Giugliano, Il gioco del filosofare. Dialogare con bambini di sei
anni; L. Formenti, La metacognizione e la facilitazione cognitiva, in Scandella O. (a cura di), Interpretare la
tutorship a scuola. Nuovi significati e pratiche nella scuola dell’autonomia, Franco Angeli, Milano 2007, pp.159171.
54
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
In questo modo si è già venuto delineando il costrutto paradigmatico dell‟attività
prassica della filosof-azione con riferimento ai nodi delle relazioni e dei legami sociali
(comunitari) veicolati dalle dinamiche del prendersi cura che il tema dell‟educazione
introduce, ma anche lo strutturale rapporto che conoscenza e apprendimento
istituiscono con l‟azione (nodo politico) e con i contesti di azione all‟interno dei quali «le
forme soggettive e private del conoscere e dell‟apprendere possono trovare espressione
pubblica riconoscibile, mediata attraverso transazioni discorsive e reticoli relazionali». 58
E‟ resa così più stringente l‟opzione di fondo che considera la costruzione
dell‟identità nella sua forma dinamica e narrativa. Identità che si viene costruendo
proprio attraverso l‟esperienza dell‟impegno concreto nella pratica della vita quotidiana,
nella negoziazione costante dei significati, che in essa avviene e che invita – costringe –
anche allo svelamento della responsabilità personale sul significato, che non può
accadere all‟interno di logiche adulte (im)poste dall‟esterno artificiosamente e in modo
non dichiarato al bambino stesso sia pure sotto forma di dialogo. In questo modo il
dialogo manifesta tutta la sua re-sistenza verso un ascolto capace di accogliere e
dialogicamente accettare, nel senso moriniano, 59 quella pluralità di repertori già richiamati
in precedenza. Il dialogo, infatti, come la logica presente nelle aule, esige un punto di
arrivo, come sottilmente esigeva Socrate; punto di arrivo che Socrate già conosceva
rispetto al suo interlocutore così come l‟insegnante. Questo non è più un gioco, nel
senso winnicottiano, né un apprendere dalla prassi quotidiana attraverso la vita di
relazione per riferire nella comunità di pratica dove responsabilmente negoziare i
significati in prima persona, né un crescere pedagogicamente sano nella identità. Poco
importa se l‟attività del filosofare del bambino, magari da lui positivamente rimembrata
in età più matura, e l‟uso di una struttura logica adulta sin dalla più tenera età diventano
per l‟insegnante testimonianza positiva del successo dell‟impresa didattica. Dal punto di
vista del costrutto paradigmatico dichiarato in apertura dello studio, «l‟educazione, nel
58
G. Scaratti, L’(in)effabile dicibilita delle comunita di pratica, “Prefazione” all‟edizione italiana del volume di
E. Wenger, Comunita di pratica. Apprendimento, significato e identita, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. XX.
59
Cf. E. Morin, Le vie della complessita, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessita,
Feltrinelli, Milano 1997.
55
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
senso più profondo, e a qualunque età avvenga, concerne l‟apertura di nuove identità –
ossia l‟esplorazione di nuovi modi di essere che travalicano la nostra condizione attuale.
Mentre la formazione mira a creare una traiettoria diretta verso l‟interno, intesa a
sviluppare la competenza in una pratica specifica, l‟educazione deve puntare ad aprire
nuove dimensioni per la negoziazione del Sé. Posiziona i discenti su una traiettoria
diretta all‟esterno, verso un vasto campo di possibili identità. L‟educazione solo
formativa, è anche trasformativa». 60 L‟educazione, a differenza della didattica, si occupa
prevalentemente, se non esclusivamente, di costruzione dell‟identità e di modalità
dell‟apprendimento e marginalmente di abilità e di conoscenze, anche se non ne
misconosce l‟importanza, ma si affida alla didattica curriculare e non a se stessa, poiché
essa enfatizza il significato e non le meccaniche dell‟apprendimento; infatti, «le
meccaniche di apprendimento devono assolutamente essere presenti, ma non devono
assumere un ruolo centrale, né diventare l‟oggetto primario della progettazione
educativa»,61 cosa che invece avviene nelle didattiche curriculari laddove «la
focalizzazione sulle meccaniche dell‟apprendimento a spese dei significati tende a
rendere problematico l‟apprendimento stesso reificandolo come processo e reificando i
partecipanti come discenti. Imparare una parola nuova, per esempio, è molto più difficile
se lo scopo è memorizzarla in un elenco, anziché includerla in attività significative». 62
«Da questo punto di vista, lo scopo della progettazione educativa non è
appropriarsi dell‟apprendimento e istituzionalizzarlo in un processo strutturato, ma
supportare la formazione di comunità di apprendimento», 63 per evitare di riprodurre le
comunità e le economie di significato che stanno all‟esterno e che sono imposte ai
bambini dall‟adulto anche se con metodologie finemente elaborate. La filosof-azione con
i bambini, pertanto, dal punto di vista pedagogico non appartiene alla categoria didattica
della ricerca di soluzione di problemi o a una euristica ripiegata sue stessa, ma a quella
della costruzione delle identità in contesti situati attraverso la negoziazione di significati
dei quali si viene assumendo nel tempo la responsabilità. I tempi sono quelli individuali
60
8. E. Wenger, op. cit., p. 293.
9. Ivi, p. 296.
62
10. Ibidem.
63
11. Ivi, p. 301.
61
56
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
dell‟apprendimento di ciascun bambino, non quelli posti dall‟esterno secondo ritmi di
una logica che non appartiene al bambino stesso bensì all‟adulto e alle finalità della
scuola. Questo è proprio l‟errore della scuola come istituzione formativa omologante ed
è anche la sua paradossale contraddizione. Affrontare questo paradosso è proprio
dell‟educazione, non della didattica. Il paradosso è lasciare che i bambini diventino ciò
che non sono – in termini di identità – e iniziare ciò che non si può iniziare a meno che,
nella reciprocità, anche l‟adulto accetti la prospettiva del cambiamento per sé e la
rinegoziazione dei suoi significati sia all‟interno della comunità di pratica sia nel
confronto con altre comunità di pratica.6412 In questo senso, è condivisibile
l‟affermazione di chi, in riferimento a pratiche di filosofia con i bambini di impostazione
deweyana, ritiene, pur senza notare la contraddittorietà dell‟enunciato, che «se trata de
entender que la filosofia como forma de pensar y de un vivir individual y colectivo, hace
del pensamiento una acción social que compromete a todas las personas en su desarollo
ciudadano. Se trata, entonces, de tener en la “comunidad de investigación” a niños que
estén libres de algún tipo de adoctrinamiento, reglas o ideologías que sean incompatibles
con el desarrollo de su libertad de pensamiento. Lo que se desea es ir preparando a
personas con identica propria, dueños de sus pensamientos y que sepan o estén
conscientes de por qué piensan como piensan y en qué se basan para ello». 65
Pertanto, se la finalità dell‟educazione non è semplicemente quella di preparare gli
studenti all‟acquisizione di una determinata capacità o abilità, ma quella di dare loro una
percezione delle possibili traiettorie a disposizione nella varie comunità allora la pratica
di filosofia con i bambini non può scaturire da un‟unica letteratura – l‟unica possibile66 –
sganciata dalla comunità di pratica e dalle altre comunità con cui occorre confrontarsi.
64
12. Cfr. ivi, p. 308.
13. B. Álvaro Márquez-Fernández, Yésika Rincón, La comunidad de investigación como práctica educativa en
la filosofía para ninos y ninas de M. Lipman, in G. Valera-Villegas, G. Madriz, A. Carpio (a cura di), La
filosofía como experiencia del pensar, Fundación Imprenta de la Cultura, Caracas 2008, p. 180.
66
14. Sul punto, scrive Valera-Villegas: «a este respecto vale la pena referir aquí algunas perspectivas que
se han hecho en torno a la enseñanza de la filosofia y el problema filosófico que lleva aparejado: en
primer lugar, tenemos la de Mathew Lipman, contenida en su programa “Filosofía para niños”. El
llamado modelo Lipman, como se sabe, está basado en el uso de unas istoria (Harry, Pixie, Elfie, entre
otras), las cuales fueron escritas para ser leídas y discutidas en grupo, y en él los alumnos deben dialogar
entre ellos, constituyendo así una comunidad de investigacíon (community of inquiry)» (.Filosofía en la
65
57
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
Considerazioni finali
La filosof-azione è dunque il luogo in cui più identità si incontrano, dove il sé di
ognuno si riconosce e non si arresta di fronte a nulla di ciò che obbligatoriamente si deve
pensare, conoscere, sapere, ma va oltre il già dato, il risaputo, per scoprire nuove
potenzialità. La filosof-azione diventa, pertanto, il luogo in cui, nella negoziazione di
significati, non si corre il pericolo di rinunciare alla primitivita intesa come l‟opportunità
dell‟uomo di andare oltre i confini già predefiniti di ciò che si riconosce come culturale
per riscoprire «il tessuto vivo del proprio pensare e sentire, del proprio avvertire e
percepire, dell‟apprezzare, godere e intravedere, e della singolarità del proprio
esprimere.67
In tale contesto, «l‟educatore deve esserci e non esserci, essere presente e attivo
ma non lasciare segni della sua presenza». 68 Nella narrazione aperta della filosof-azione è
proprio l‟idea di uomo il cardine di questo agire filosofico e la dia logicità il luogo
metaforico e/o il setting in cui si attua l‟educabilità.
escuela? Formación, pensamiento e infancia, “Presentación” in G. Valera-Villegas, G. Madriz, A. Carpio (a
cura di), op. cit., p. 13.
67
E. Ducci, Approdi all’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma 1992, p. 24.
68
Ivi, pp. 36-37.
58
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
FILOSOF-AZIONE! Ma di che stiamo parlando?69
In un mio precedente articolo introdussi il neologismo filosof-azione,70 collegato alla
filosofia con i bambini, con i giovani e gli adulti, e ne spiegai il motivo. Alcuni
obiettarono che fosse un termine estraneo alla filosofia, per di più cacofonico, e che, in
fondo, già esisteva la dizione “filosofia pratica”. Risposi che avrei scritto un secondo
articolo per rendere ragione del neologismo, avendo cura di distinguere fra quella pratica
che negli ambienti pedagogici e didattici è la traduzione lineare del termine pragma caro al
pensiero del filosofo pragmatista per eccellenza, l‟americano John Dewey, e praxis che fa
capo alla filosofia marxiana e, in specie, per quanto mi riguarda, al pensiero di Antonio
Gramsci.
Il neologismo filosof-azione
deriverebbe, secondo alcuni, dalla più esplicita
denominazione filosofia dell’azione. Ciò potrebbe stare bene se la specificazione soggettiva
e oggettiva stesse a indicare non soltanto che l‟azione, nel suo porsi letterario e politico,
si fa filosofia (specificazione soggettiva), ma anche che la filosofia nel discutere il suo
oggetto - che è l‟azione - assumesse quest‟ultimo come oggetto del suo stesso esistere e
pensare (specificazione oggettiva). Ovviamente sto parlando di un pensiero che, prima
ancora di essere immateriale è materiale; parlo di un‟azione che è pratica del pensare e
del pensare prospettico. Il termine filosof-azione, per me, risponde contemporaneamente
ad una specificazione indiscutibilmente soggettiva ed oggettiva e non ad un mero
speculare sull‟azione, qualsiasi azione.
Nello stesso tempo, la filosofia, in quanto tale, è volta ad approfondire il pensiero
nei suoi aspetti storici, presenti e futuri per rivendicare a sé il diritto a indicare nuove
prospettive e piste di riflessione-azione nella contemporaneità, come scriveva il filosofo
Benedetto Croce ripreso da Gramsci nel suo scritto La barba e la fascia, “un fatto passato,
per essere storia, e non semplice segno grafico, documento materiale, strumento
mnemonico, deve essere ripensato e in questo ripensamento si contemporaneizza,
69
FILOSOF-AZIONE! Ma di che stiamo parlando? di Bruno Schettini, in Amica Sofia, gennaio 2012.
Cfr: Schettini B., La Filosof-azione con i bambini, in “Amica Sofia”, n. 2 (2010), pp.27-29. In realtà, il
termine compare per la prima volta, solo accennato, in un altro mio precedente scritto: L’educazione degli
adulti in italia e in Europa: una difficile scommessa, in “I Problemi della Pedagogia”, n. 1-3 (2009), pp.265274.
70
59
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
poiché la valutazione, l‟ordine che si dà ai suoi elementi costitutivi dipendono
necessariamente dalla coscienza <contemporanea> di chi fa la storia anche passata, di
chi ripensa il fatto passato”.71 Qui torna, con insistenza, il problema anche politico oltre
che pedagogico, del fare filosofia, o meglio filosof-azione, con i bambini, con i giovani e gli
adulti.72 “La politica è per Gramsci il nucleo non soltanto della strategia per realizzare il
socialismo, bensì del socialismo stesso. E‟ per lui, come a ragione sottolineano Hoare e
Nowell Smith, <l‟attività umana centrale, il mezzo attraverso cui la coscienza del singolo
viene messa in contatto con il mondo sociale e naturale in tutte le sue forme>”. 73 Da
questo punto di vista è chiaro che, secondo Gramsci, tutto il complesso della riflessione
sull‟economia e sulle strutture fosse soprattutto un problema di educazione e di
istruzione tanto che egli ritenne che il concetto di lavoro fosse centrale da un punto di
vista educativo, e che il fondamento stesso della scuola elementare fosse quello di
liberare il mondo da ogni forma di magìa e stregoneria per lo sviluppo ulteriore di una
concezione storica, dialettica, del mondo, e per comprendere il movimento e il divenire
(…) a concepire l‟attualità come sintesi del passato, di tutte le generazioni passate, che si
proietta nel futuro. Questo – scrive Gramsci nei Quaderni del carcere – è il fondamento
della scuola elementare. 74 Per tutti questi motivi scrivo e discuto di filosof-azione.
Come illustra la definizione abbastanza “ingenua”, perché volgarizzata, del
Vocabolario della lingua italiana Zingarelli: FILOSOFIA è “ricerca di un sapere capace di
procurare un effettivo vantaggio all‟uomo”. 75 La filosofia, dunque, è azione non soltanto
nelle sue ricadute operazionalmente storicizzate, ma anche in sé e per sé e si affianca alla
politica perché si propone di indagare “del posto che la scienza politica occupa o deve
occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in una
71
Gramsci A., La barba e la fascia (05.02.1918), in Odio gli indifferenti, nella edizione curata da David
Bidussa, Instant Book, CHIARELETTERE, Milano 2011, pp.54-55; ridenominato dal curatore: La
storia è sempre contemporanea.
72
Sul problema dell‟educazione degli adulti in Gramsci, cfr: Schettini B., Antonio Gramsci e il problema
educativo. La formazione degli adulti come <guerra di posizione> per la trasformazione, in Salmeri S., Pignato R.S.
(a cura di), Gramsci e la formazione dell’uomo, Bonanno Editore, Acireale – Roma 2008, pp. 15-27.
73
Hobsbawn E., Come cambiare il MONDO, perché riscoprire l’eredità del MARXISMO, Rizzoli, Milano
2011, p.322.
74
Cfr: Gramsci A., Quaderni del carcere, vol. 3, Einaudi, Torino 1975, p.1541.
75
Zingarelli N. (a cura di), Vocabolario della lingua italiana,Ed. Zanichelli, Bologna 1971, p.669; Edizione
elaborata a cura di 109 specialisti diretti e coordinati da Miro Dogliotti, Luigi Rosiello, Paolo Valesio.
60
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
filosofia della praxis”.76 Nel dettaglio, la differenza sta proprio nell‟opzione filosofica e
politica, dunque anche pedagogica, fra azione in quanto pratica (pragma) e azione in
quanto prassi (praxis). Esplicito, in questo modo, un‟opzione di campo che è sia
filosofica che politica, oltre che pedagogica, che non assorbe la “verità” in sé del
contenuto della scelta, ma la distinzione del punto di partenza e della coerenza del
discutere non soltanto in astratto, ma anche in modo operazionale ed operativo e,
quindi, della contrapposizione dialettica e/o dialogica fra una pedagogia dell‟autonomia
V/S una pedagogia della socializzazione e della pedagogia V/S la didattica così come già
trattate in un precedente articolo. 77
Giungo così a quella che definirei la necessità di una formazione del cittadino, a
partire dai bambini, che non sia la società che canta le donne, i cavalieri e gli amori quale
“sintomo dello spappolamento che caratterizza la vita umana , per cui non si riesce mai a
graduare con esattezza né i valori umani né i valori politico-sociali”, né quella che porta
ad una conoscenza elevata a pettegolezzo, o a gossip - diremmo oggi – della quale scrive
Gramsci in Modernita, per cui la “modernità trionfante soddisfa l‟istinto dell‟animalità
troglodita”.78 In questo senso, “occorre che cambiamo noi stessi, che cambi il metodo
della nostra azione. Siamo avvelenati da un‟educazione riformistica che ha distrutto il
pensiero, che ha impaludato il pensiero, il giudizio contingente, occasionale, il pensiero
eterno, che si rinnova continuamente pur mantenendosi immutato. Siamo rivoluzionari
nell‟azione, mentre siamo riformisti nel pensiero: operiamo bene e ragioniamo male.
Progrediamo per intuizioni, più che per ragionamenti; e ciò porta a una instabilità
continua, a una continua insoddisfazione, siamo dei temperamenti più che dei
caratteri”.79
76
Gramsci A., Quaderni del carcere, op.cit., p.1568.
Cfr: Schettini B., Lotti E., La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità, in “Amica Sofia”, n.1
(2011), pp.35-38.
78
Entrambi gli scritti sono pubblicati in: Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, op.cit.; in part., il primo:
Caratteri italiani (10 luglio 1917), è alle pp. 35-40, ridenominato dal curatore: Le donne, i cavalieri e gli amori,
e il secondo: Modernità (18 marzo 1918), è alle pp. 43-45, ridenominato dal curatore: Conoscenza e
pettegolezzo. I testi si riferiscono all‟edizione degli scritti di A. Gramsci curata da Sergio Caprioglio
(Giulio Einaudi Editore), in particolare alla raccoltà La città futura Scritti 1917-1918 (1982).
79
Gramsci A., Letture (24 novembre 1917), in Id., Odio gli indifferenti, op, cit., p.89, ridenominato dal
curatore: Occorre cambiare noi stessi.
77
61
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
E vengo al punto conclusivo. Come non chiamare filosof-azione ogni pratica
filosofica che chiami in causa il tema di una conoscenza che voglia modificare ciò che è
in atto in quanto azione del pensiero che recupera il confronto con quello degli altri e,
quindi, si presta ad una retroazione circolare dello stesso pensiero modificato da un
dialogo profondamente maieutico ed esperienziale, non meramente persuasivo proprio
di colui che già sa dove dirigersi? Forse che la filosofia con e/o per i bambini non voglia
essere un agito in termini significativamente esperienziali? Temo, così, una filosofia
astratta, per professionisti e/o conformata al pensiero degli altri che desiderano e
pretendono di fare discutere a partire dalle loro o altrui formule sia pure didattiche e che
non sia lettura e interpretazione fattuale del mondo, sia pure esperita da bambini. Non
questo revisionismo è necessario. Cambiare le formule non serve a nulla. Esse non ci
danno la coscienza di essere autori della nostra storia e, d‟altra parte, è sempre più
necessario comprendere che conoscere il mondo e cambiarlo sono la stessa cosa, come
ci hanno insegnato il pedagogista brasiliano Paulo Freire e tutti quegli educatori che
ricadono, secondo Georges Snyders, nella nomenclatura dei pedagogisti progressisti. 80
Insomma, “E‟ la prassi, la storia compiuta dagli uomini stessi – e perché no, dai bambini
(NdA) – seppure in condizioni storiche date e in via di sviluppo, è ciò che essi fanno, e
non semplicemente le forme ideologiche nella quali gli uomini – e i bambini (NdA) –
diventano consapevoli delle contraddizioni della società”. 81 Ora,
il punto è: quale
filosofia con i bambini? La risposta, dal mio punto di vista è già data, ed è nelle mani
degli insegnanti a cui è affidata la “direzione intellettuale e morale” 82 - purché non sia
quella “tradizionale” - della “classe” dei bambini e/o delle famiglie a cui essi
appartengono. Qui, ovviamente, è necessario rivedere lo stesso concetto di classe, non
genericamente definita, ma così come è data e dal sentimento e coscienza di
appartenenza ad essa a prescindere dal ceto di provenienza di ciascun insegnante,
educatore, genitore, in quanto tutti si è ingaggiati per un‟opzione attraverso la quale “una
classe deve trascendere quella che Gramsci chiama organizzazione <economico80
Cfr: Snyders G. (1973), Le pedagogie non direttive, Editori Riuniti, Roma 1975.
Hobsbawn E., op. cit., p.322 con riferimento a K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Utet,
Torino 2009, libro I, p.1013.
82
Gramsci A., Quaderni, op. cit., p.2010.
81
62
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
corporativa> per diventare politicamente egemone” 83; così come è necessario rivedere
anche il concetto stesso di intellettuale, dal momento che chiunque può essere
intellettuale – per riprendere Gramsci -, ma non tutti esercitano la funzione sociale di
intellettuale. Ora, gli insegnanti che dicono di praticare la filosofia con i bambini, da
quale posizione si pongono: sono essi dei ripetitori di formule, anche didattiche e
apparentemente progressiste o sono propositori, con la propria azione – anche didattica
– della restituzione ai bambini (eterni defraudati della parola e della storia) e ai loro adulti
di riferimento (genitori, parenti, insegnanti, educatori) della possibilità concreta, cioè
storica, di vivere autentiche comunità di uomini liberi cioè di essere facitori di storia e di
trasformazioni individuali e collettive, mutuando dall‟esperienza pedagogica del gruppo
di apprendimento-lavoro? Ed ancora,
non è nelle comunità di pratiche, più che nelle
comunità di ricerca, che è richiesta la massima tolleranza nel gruppo che pratica la
filosofia, a partire dal facilitatore, dal momento che “si
può essere intransigenti
nell‟azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i più preparati hanno aiutato i
meno preparati ad accogliere la verità, e le esperienze singole sono state messe in
comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata
creata”?84 E questa è educazione alla vita democratica, alla cittadinanza, al confronto
costruttivo e partecipato più che ad un sapere disciplinare 85.
Ora, questa è la filosof-azione – altro si potrebbe ancora scrivere - se poi la filosofia
con i bambini, sotto mentite spoglie, deve essere puro didatticismo, esercizio di una
pedagogia autoreferenziale, compiacente e autoritaria, meramente socializzatrice, e
business di una “innovativa strategia didattica” che, in realtà, precede nel tempo anche gli
stessi fautori della filosofia con i bambini (nihil ex novo sub sole), allora, confesso che
questa filosofia non mi interessa, né mi interessano i loro profeti e vestali che, talora,
nell‟enfasi apologetica non si accorgono della contradditorietà dei loro stessi enuciati e
degli strumentali confronti fra paradigmi diversi talora attivati per difendere la propria
83
Hobsbawn G., op. cit., p.324.
Gramsci A., Intransigenza-tolleranza, Intolleranza-transigenza, scritto dell‟8 dicembre 1917, in Gramsci A,
Odio gli indifferenti, op.cit., p.29, ridenominato dal curatore: Nessuna tolleranza per lo sproposito.
85
Condivisibile è quello che scrive A. M. Iacono a proposito del fatto che il fare filosofia con i bambini
non debba tradursi in un modello disciplinare né tanto meno in uno terapeutico, cfr: Iacono A.M. , Il
modello ICHNOS. Laboratorio filosofico sulla complessità (http://ichnos.humnet.unipi.it).
84
63
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
egemonia di intellettuali tradizionali; né mi interessano quelle prèfiche che piangono la
“volgarizzazione” di un‟idea che si fa democrazia.
Il problema, dunque, non è quale autore chiamare in causa a giustificazione delle
proprie tesi, quanto quale incipit. Per me l’incipit non è nella filosofia pragmatica e
omologatrice dell‟America del nord, ma in quella filosofia della praxis86 così come
interpretata da Gramsci – benché per certi versi rivisitabile - intorno alla quale si
ritrovano gran parte dei pedagogisti ed educatori che lavorano per dare agli uomini come
ai bambini la speranza di un futuro degno di questo nome, in qualsiasi parte del mondo
essi siano.
86
Gramsci A., Quaderni, op.cit., p.1568.
64
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
La filosofia con i bambini e i ragazzi come sfida per il cambiamento sociale
Con l’entrata nel nuovo millennio noi non incontriamo un’epoca di cambiamenti, ma un
“cambiamento d’epoca”. Tutti i campi di vita e di pensiero oggi sono stimolati da nuove circostanze e
domande.
L’industria culturale suscita i bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed
etero-diretti annullandoli come persone e riducendoli a una massa informe.
Si impone l’Ideale rivoluzionario di un’umanità futura libera e disalienante, ossia una forma di
pensiero proteso a smascherare le contraddizioni profonde dell’esistente.
E ciò tramite un modello utopico in grado di fungere da pungolo rivoluzionario per un
mutamento radicale della società.
In questo cambiamento di millennio, la relazione tra educazione e cambiamento sociale e
l’importanza di un’azione etico-politica e pedagogica coerente, non si collocano solamente come temi di
analisi e di studio, ma come un’esigenza teorico-pratica decisiva: si tratta di rispondere, verso la
costruzione di una cittadinanza globale, alla domanda: “Di quale Educazione abbiamo bisogno per
quale tipo di Cambiamento Sociale?”87
Oggi, più che mai, questa situazione esige di ripensare alla nostra visione dell’educazione e
scavare nei fattori sostanziali che possono costituire una proposta educativa alternativa, più in là delle
sue forme, delle sue modalità o dei suoi sistemi amministrativi.
Si richiede una ricerca e una riflessione intorno ai fondamenti filosofici, politici e pedagogici di un
paradigma educativo che orienti gli sforzi diretti alla trasformazione sociale e alla formazione integrale
delle persone di fronte alla costruzione di nuove strutture sociali e nuove relazioni tra le persone basate
sulla giustizia, l’equità, la solidarietà e il rispetto dell’ambiente.
Costruire un nuovo paradigma educativo suppone fare una opzione epistemologica che ci permetta
di pensare “la storia come possibilità” perché non siamo semplicemente oggetto della storia, ma
ugualmente suoi soggetti” (Paulo Freire). La possibilità di edificare “un altro mondo possibile” nel quale
si esercitino relazioni di potere democratiche ed eque, in tutti gli ordini. Utopia e realtà, sono così i poli
87
A questa domanda cerca di rispondere il rapporto che elaborò per l‟UNESCO la commissione
Internazionale sull‟Educazione per il Secolo XXI presidiata da Jacques Delors.
65
«Scienze del pensiero e del comportamento» (www.avios.it/spc.html)
dinamici del nostro agire. 88 Un cambiamento sociale che implica la realizzazione di un determinato tipo
di educazione; opzione che significa anche la fiducia, la speranza che i valori etici possano realizzarsi
nella storia e che gli educatori e le educatrici abbiamo una responsabilità nel loro conseguimento.
Sorgono due visioni e prospettive in confronto: la prima afferma che abbiamo bisogno di
un'educazione che si adatti a questo mondo. La seconda, al contrario, afferma che abbiamo bisogno di
un'educazione che contribuisca a cambiare il mondo, umanizzandolo. È la prospettiva per cui si cerca
formare le persone come agenti di cambiamento, con capacità di incidere sulle relazioni economiche,
sociali, politiche e culturali come soggetti di trasformazione; è la prospettiva della razionalità etica ed
emancipatrice (Habermas).
In questa seconda prospettiva si iscrive la proposta della filosofia con i bambini e i ragazzi,
nell’ottica di una educazione che faciliti le persone a costruirsi come individui ed attori sociali:
- capaci di creare rotture con l'ordine sociale imperante che ci si impone come unica
possibilità storica (il modello di globalizzazione neoliberale);
- capaci di discutere gli stereotipi e modelli ideologici ed etici vigenti come verità assolute,
l'individualismo, la competenza, il mercato come regolatore delle relazioni umane;
- capaci di imparare e disimparare permanentemente, (appropriarsi di una capacità di
pensare e di una propedeutica e metodologia, più che di contenuti finiti);
- capaci di immaginare e di creare nuovi spazi e relazioni tra gli esseri umani concreti con i
quali conviviamo in casa, comunità, lavoro, paese, regione;
- capaci di suscitare una disposizione vitale solidale con l'ambiente sociale ed ambientale
come affermazione quotidiana;
- capaci di affermarci come persone autonome ma non auto-centrate, bensì come esseri
dialogici che hanno superato l'antagonismo io-altro.
La filosofia con i bambini e i ragazzi per impedire l’adesione in modo piatto e conservatore
all’esistente.
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L‟utopia, scrive Freire, esige conoscenza critica. E‟ un atto di conoscenza. Io non posso denunciare la
struttura disumanizzante se non la penetro per conoscerla. Non posso annunciare se non conosco, ma,
tra il momento dell‟annuncio e la realizzazione dello stesso esiste qualcosa che deve essere distaccato: è
che l‟annuncio non è l‟annuncio di un anti-progetto, perché è nella prassi storica che l‟anti-progetto
diviene progetto. E‟ mettendomi in atto che posso trasformare il mio anti-progetto in progetto, nella
mia biblioteca ho cioè un anti-progetto che si fa progetto in mezzo alla praxis.
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E’ chiaro che assumendo tale prospettiva ci posizioniamo a beneficio di un cambiamento sociale
umanizzatore e umanizzante, il quale implica il contrapporre alla logica del modello neoliberale
predominante centrato nel mercato, un’affermazione etica centrata nella persona umana.
“Non basta aver coscienza del fatto che il mondo deve essere trasformato, bisogna trasformarlo”.
(Augusto Boal) Per trasformare il mondo bisogna scegliere da che parte stare e dichiararlo.
E’ ciò che magistralmente fa Bruno nei suoi scritti e nelle sue lezioni.
P.M.
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Nota Biografica
Bruno Schettini (Napoli, 30/07/1952) Ordinario di Pedagogia e vice preside con
delega alla didattica della Facoltà di Psicologia nonché Direttore responsabile del Centro
di Ateneo per l‟Apprendimento Permanente della Seconda Università degli Studi di
Napoli. Membro del collegio dei docenti della scuola di dottorato in Filosofie e Scienze
Umane dell'Università di Verona e Direttore del Ce.Ri.Form (Centro Ricerca Interventi e
Formazione di Benevento), di cui dirigeva la collana “Quaderni di Ricerca". Tra le sue
pubblicazioni vanno ricordati i due Rapporti di ricerca dal titolo: "Il progetto SAPA Regione Campania. Pubblici resistenti e domanda sociale debole" (QdR1, 2009) e "Quale governante
per l'educazione degli adulti in Campania" (QdR2, 2009). Sempre al tema della governance nel
2010 ha curato e dato alla stampa per la ESI il volume a più voci: "Governare il lifelong
learning. Prospettive di educazione degli adulti".
Va segnalata la sua traduzione di uno dei libri fondamentali di Ettore Gelpi dal
titolo "Lavoro futuro. La formazione come progetto politico", e la pubblicazione del volume
dedicato a Paolo Freire su "Educazione,Etica,Politica", Liguori 2008. Bruno era anche
molto attivo in campo internazionale, in particolare nel Mato Grosso in Brasile, nel Sud
America, in Europa e a Malta. Qui aveva avuto relazioni e scambi professionali con
alcuni dei più autorevoli studiosi in pedagogia sociale (da Peter Mayo a Paolo Freire, da
Ettore Gelpi a tanti altri ). Fondatore e animatore del notiziario “Educazione degli
adulti.it”.
Socio fondatore dell‟Associazione Amica Sofia e componente del Consiglio
Direttivo.
Negli ultimi mesi il suo pensiero costante è stata la preparazione del convegno di
Napoli in programma per il febbraio 2012 e, più in generale, la credibilità e l'avvenire
dell'associazione in cui si era subito sentito di casa, Amica Sofia.
Dall'autunno 2009 è operosamente convissuto con la malattia che, il 21 dicembre
2011, ha finito col prevalere e portarcelo via. Lascia un figlio, Francesco.
Il suo ricordo evoca memoria di affetto, collaborazione, ricerca e soprattutto
condivisione di ideali.
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