IL CORAGGIO DI AMARE I CONFLITTI L’OBBEDIENZA E LA VIRTU’ San Rossore 6 - 10 agosto Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani M.A.S.C.I. Verona 20 www.mascivr20.it - [email protected] ed. 2014 per Laboratorio Route Nazionale Agesci animatori: Luisa Zanelli & Marco Cometti COSA C’E’ NELLA NOSTRA VITA Inizio con una domanda: “Avete tante cose da fare in una giornata?” “Si!”. “E riuscite a fare anche qualcos’altro” “A volte si”. “Siete contenti a sera perché avete fatto tutto quello che dovevate fare?” Vogliamo vedere un po’ la nostra giornata? Prendiamo un vaso; è la nostra giornata, la nostra vita. Riempiamolo con dei sassi. Ci sta dell’altro? Sì, possiamo aggiungere della ghiaia, fino a riempirlo. Ci sta dell’altro? Si; scuotendolo, possiamo aggiungere della sabbia, fino all’orlo. Pieno? No; possiamo aggiungere dell’acqua, fino all’orlo. Ora è proprio pieno del tutto. Non ci sta più nulla. Prendiamo un altro vaso, uguale al primo. Questa volta, però, mettiamo dentro prima l’acqua, poi la sabbia, poi la ghiaia e poi i sassi. Alcuni sassi non entrano, restano fuori. Possiamo dire che il vaso è pieno? No, non è pieno. Ciò significa che non abbiamo riempito con criterio il vaso. Ovvero, non abbiamo riempito con criterio la nostra giornata, la nostra vita. Se i sassi sono i nostri punti di riferimento, e li mettiamo per primi nella nostra giornata, nella nostra vita, allora vi possiamo aggiungere quello che vogliamo, saranno sempre presenti; ma se li mettiamo per ultimi, qualcuno, o tanti, rimarranno fuori. Allora, cosa sono i sassi? Sono le Virtù, quelle Teologali (Fede, Speranza, Carità), e quelle Cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza) “Virtù” da “Vir”, uomo, perché sono i principi fondanti, i punti di riferimento della persona. Devono entrare per primi nella nostra vita, sennò si corre il rischio che non ci stiano più Cosa è la ghiaia? Sono le virtù umane: ascolto, attenzione, servizio… Cos’è la sabbia? E’ la vita, la sensibilità, che entra dappertutto, magari scuotendo un po’ il vaso. Per riempire tutto il vaso, però, ci vuole pazienza; l’acqua, che tutto unisce e circonda, imbeve tutto, ed è la preghiera. Tutto questo sta nella nostra giornata. Ma solo se ci entrano per primi dei solidi principi, i sassi grossi. Come in una casa, in cui posso mettere quel che voglio, se le fondamenta sono solide. LE VIRTU’ UMANE Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell'intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la coscienza. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona. L'uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene. Quattro virtù hanno funzione di “cardine”. Per questo sono dette “cardinali”; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. La prudenza è la virtù che permette alla ragione di scegliere in ogni circostanza il nostro vero bene e i mezzi adeguati per compierlo. L'uomo prudente allora non è tanto l'indeciso, il cauto, il titubante, ma al contrario è uno che sa decidere con sano realismo, non si fa trascinare dai facili entusiasmi, non tentenna e non ha paura di osare. La giustizia La giustizia consiste nella volontà costante e ferma di dare alla società e al prossimo ciò che è loro dovuto e quindi, per mezzo di essa, intendiamo e conseguentemente operiamo ciò che è bene nei riguardi della società, di noi stessi e del prossimo. La fortezza assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. La fortezza è la capacità di resistere alle avversità, di non scoraggiarsi dinanzi ai contrattempi, di perseverare nel cammino di perfezione, cioè di andare avanti ad ogni costo, senza lasciarsi vincere dalla pigrizia, dalla viltà, dalla paura. La temperanza è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La temperanza è l’autoeducazione della volontà. Il credente, per mezzo della sua fede, esalta il cammino morale delle virtù, indirizzandosi verso la santità (comunione con Dio e i fratelli) PRUDENZA GIUSTIZIA FORTEZZA TEMPERANZA Cosa faccio io nel mio quotidiano per dare attuazione pratica alle virtù ? E’ / NON E’ Prudenza (rispondere “è” o “non è”) Fuggire sempre i pericoli Fumare uno spinello, per una volta soltanto “Ma chi me lo fa fare?” Non intervenire in situazioni pericolose Favorire, fra le mie relazioni, quelle che mi aiutano a crescere Giustizia (rispondere “è” o “non è”) Pagare le tasse Applicare le leggi, in qualsiasi situazione Avere un comportamento…”perché così fan tutti” Le legge “occhio per occhio” Pagare sempre il biglietto dell’autobus Fortezza (rispondere “è” o “non è”) Avere successo Avere forza fisica o potere di convincimento Esercitare potere sulle cose o sulle persone Avere forza d’animo Non lasciarsi turbare dal male Rassegnarsi di fronte agli insuccessi Temperanza (rispondere “è” o “non è”) Rispettare la natura Indebitarsi per una cosa che si desidera tanto Trascorrere molto tempo al computer o alla televisione rinunciare a tutte le cose che ci danno piacere evitare lo spreco di acqua e carta usare il linguaggio scurrile (le parolacce, le allusioni volgari) della “compagnia” RILEGGERE DON MILANI L’11 febbraio 1965, a Firenze, i cappellani militari della Toscana firmano un ordine del giorno, pubblicato l'indomani sul giornale “La Nazione”, in cui affermano che «considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». All'epoca di questo scritto gli obiettori di coscienza pagavano il rifiuto di prestare il servizio militare con il carcere. Accade che nei giorni seguenti il giornale arriva anche nel remoto paesino di Barbiana, sui monti della Toscana, dove un prete, esiliato lì da una curia che lo considera scomodo, ha avviato una scuola. È una scuola per poveri ragazzi di montagna, ignoranti, figli di contadini. Ma è una scuola speciale, dove un maestro altrettanto speciale punta a fare di quei ragazzi degli uomini e dei cittadini responsabili, piuttosto che dei dottori. Quel maestro è don Milani. Don Milani e i suoi ragazzi, dalla remota scuola di Barbiana, si sentono interpellati dalle parole ingiuste dei cappellani toscani e decidono di rispondere «perché hanno insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo». Lo scritto,con la sua nuda forza, ci pone di fronte ad un dilemma: l'obbedienza è un valore a cui educare ed educarci? O è un disvalore, un rinunciare alla propria capacità di giudizio, alla propria responsabilità? La verità è che l'obbedienza è difficile, sia da praticare, che da insegnare perché significa di sacrificare il proprio personale punto di vista, parziale, ed è il riconoscere un valore “superiore” a cui la nostra obbedienza è dovuta. Lo scritto di Don Milani non è contro l’obbedienza “tout court”, ma è piuttosto contro le nostre scuse. L'obbedienza non è una virtù, quando è comodità, abitudine, conformismo, quando ci fa da scusa nel non seguire il dettame superiore della nostra coscienza, la prima istanza a cui dobbiamo obbedienza. E come l'obbedienza non può essere una scusa per impedirci di fare il giusto per paura di una ritorsione, così non possono essere una scusa malintesi ideali umani, usati per giustificare divisioni e violenze. Ecco quindi perché è importante essere educati ed educare a scegliere dove e quali sono i valori più alti da seguire. Dove sacrificare la propria persona nell'esercizio difficile dell'obbedienza e dove sacrificarsi nell'esercizio, ancora più difficile e necessario, dell'obiezione. (tratto da : PE aprile 2011) IL SETTIMO ARTICOLO DELLA LEGGE SCOUT Quando Baden-Powell scrisse la prima versione della legge scout questa diceva <obbedisce agli ordini del suo caposquadriglia e caporeparto senza fare difficoltà>. Facendo richiamo alla disciplina militare sottolineava che lo scout obbediva anche se riceveva un ordine che non condivideva. Solo dopo aver eseguito l'ordine prontamente, al momento opportuno avrebbe potuto far presente le ragioni per cui non era d'accordo. Ma dopo pochi decenni vennero Mussolini, Hitler, Stalin e altri dittatori del XX secolo, che hanno rivelato come l'illuminismo con la fiducia un po' astratta ed aprioristica nel progresso e nella razionalità umana non proteggevano l'umanità dalle leggi e ordini ingiusti. Autorità, leggi ed ordine sono necessari per la crescita e la serenità dell'uomo singolo che teme il disordine: quando la confusione aumenta il cittadino tende a sostenere i partiti forti. Persino Cristo per realizzare e diffondere nel mondo il suo messaggio - benché spirituale- ha ritenuto necessario affidarlo ad una società organizzata con gerarchie e leggi. Ma da sempre, le autorità abusano del loro potere e le leggi possono risultare ingiuste, quindi bisogna imparare a distinguere per obbedire prontamente e con impegno alle leggi e agli ordini giusti. Il settimo punto della legge scout enunciato dall'AGESCI è stato integrato nella forma <la guida e lo scout sanno obbedire> per evidenziare che è indispensabile essere educati a discernere il bene ed il male. In questo contesto lo slogan di don Milani < l'obbedienza non è più una virtù> va compreso bene. È un richiamo contro l'obbedienza cieca che in passato era stata sostenuta da falsi educatori. Bisogna imparare a fare ordine tra le leggi a cui si deve obbedire e a stabilire un corretto rapporto tra i diversi livelli della legalità, considerando che non l'uomo è fatto per la legge, ma viceversa è la legge fatta per l'uomo. Questo problema non è certo nuovo, basti considerare che a Gesù stesso fu rimproverato di guarire di sabato. La società, e sempre più quella moderna, ha un grandissimo bisogno di legalità per lo sviluppo dell'economia e per garantire la crescita personale dei cittadini nel rispetto reciproco e nella pace. Quindi, è necessario mettere ordine e capire quali sono le leggi a cui bisogna obbedire, per evitare che il problema non venga affrontato dal singolo cittadino, finendo nel relativismo assoluto, giustificando qualunque scelta con la buona fede e la propria coscienza, scelta spesso costruita sull'egoismo e sulla convenienza. (Da : Una bussola per la vita - edizione scout - Maurizio Millo) Confrontiamoci: A - Quali sono i motivi che hanno indotto l'AGESCI all'attuale formulazione del VII punto della legge scout. La formulazione in atto <<sanno obbedire>> è ancora valida oppure si rende necessaria una nuova formulazione, in sintonia con il tempo attuale? B - I giovani del 21° secolo come vivono l'ubbidienza? È ritenuta un valore positivo o negativo? C - Quali personaggi ci vengono in mente che, con le loro scelte controcorrente o andando contro leggi ingiuste, hanno rivoluzionato in maniera positiva le leggi ed il modo di pensare? E perché? Cenni biografici Ghandi - Martin Luter King Malala Yousafzai - Don Lorenzo Milani - - Don Peppe Diana - Nelson Mandela - E’ conosciuto anche con l’appellativo di “grande anima” Nasce il 2 ottobre 1869 e muore il 30 gennaio 1948 Apostolo della resistenza non violenta (Satyagraha) Nel suo Paese è stato riconosciuto come Padre della Nazione U.S.A., 1929- 1968 Pastore protestante e attivista dei diritti civili Fu definito anche “redentore dalla faccia nera” Assassinato a Menphis Pakistan, 1997 È la più giovane candidata al Premio Nobel per la pace, Insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero Firenze, 1923- 1967 Figlio di una ricca famiglia borghese. Il padre era laureato in chimica , la mamma,di origine ebraica, da giovane era sta a lezione da James Joyce. Nella primavera del 1943 andò a trovare Don Raffaele Bensi, sacerdote molto amato dai fiorentini. Il 3 giugno dello stesso anno si convertì e otto giorni dopo ricevette la cresima. Entrò in seminario nel novembre del 1943, contro il parere dei genitori. Priore di Barbiana Casaldiprincipe, 1958 da una famiglia di proprietari terrieri - 1994 Caporeparto Agesci Assistente ecclesiastico del Gruppo Scout di Aversa e dei Foulard Blanc Assassinato mentre si accinge a celebrare le S. Messa per il suo impegno anti-camorra Sudafrica, 18 luglio 1918, 5 dicembre 2013 Protagonista insieme al presidente de Klerk dell'abolizione dell'apartheid all'inizio degli anni Novanta Parole Ghandi - - - Martin Luther King - - - Malala Yousafzai - - - Don Lorenzo Milani - - “Per me è sempre stato un mistero perché gli uomini si sentano onorati quando impongono delle umiliazioni ai loro simili.” “Rispondendo all'odio con l'odio non si fa altro che accrescere la grandezza e la profondità dell'odio stesso.” La mia esperienza mi ha portato a constatare che il modo migliore per ottenere giustizia è trattare gli altri con giustizia” “Ogni persona che incontri è migliore di te in qualcosa: in quella cosa impara” "...siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione... “La non collaborazione al male è un obbligo come lo è la collaborazione al bene”. “Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste.” “La legge e l'ordine saranno rispettati solo quando si concederà la giustizia a tutti indistintamente.” “Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno.” “Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo. L'istruzione è l'unica soluzione” “Questo non è il mio giorno, ma è il giorno di coloro che combattono per una causa, io sono qui per dare la parola anche a chi non ha voce” "Se ai giovani non si mettono in mano le penne, i terroristi daranno loro le armi." “Quando avete buttato nel mondo di oggi un ragazzo senza istruzione, avete buttato in cielo un passerotto senza ali “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: “I care”. È il motto intraducibile dei - Don Peppe Diana - - - Mandela - - giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. Esatto il contrario del motto fascista “me ne frego” “Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo di domani” “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutti” "La felicità è la possibilità di poter sognare. È la libertà di potersi rinchiudere nei propri pensieri quando si vuole. L'uomo senza i sogni, morirebbe all'istante." “Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”. “Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.” “I veri leader devono essere in grado di sacrificare tutto per il bene della loro gente” “Esseri liberi non significa semplicemente rompere le catene ma vivere in modo tale da rispettare e accentuare la libertà altrui.” “Provare risentimento è come bere veleno sperando che ciò uccida il nemico.” “L’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo.” Azioni Ghandi - - - - - Martin Luther King - - - - - 1919 1^ campagna di disobbedienza civile: boicottaggio delle merci inglesi e il non pagamento delle tasse 1921 2^ campagna di disobbedienza civile: rivendicazione del diritto dell’indipendenza 1930 3^ campagna di disobbedienza civile: la marcia del sale Ha propugnato la satyagraha, cioè la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa alle leggi del dominatore inglese. Si è battuto dapprima contro l’apartheid in Sudafrica, quindi si sposta in India dove inizia la sua opera. Sfida e disobbedisce alle leggi imposte al suo Paese subendo le punizioni prevista senza reagire con la violenza. Indice lunghi scioperi dei contadini costretti a coltivare piantagioni imposte dal governo (mal retribuite) e non quelle necessarie alla loro sopravvivenza alimentare Nobel per la Pace nel 1984 sempre esposto in prima linea affinché fosse abbattuto, nella realtà americana degli anni cinquanta e sessanta, ogni sorta di pregiudizio etnico Ha predicato l'ottimismo creativo dell'amore e della resistenza non violenta, come la più sicura alternativa sia alla rassegnazione passiva che alla reazione violenta preferita da altri gruppi di colore, come ad esempio, i seguaci di Malcolm X Leader dei diritti civili si adoperò soprattutto per effettuare tra la popolazione nera la cosiddetta "campagna del voto". Tenne un discorso a Washington il 17 maggio 1957 intitolato Give Us the Ballot uno dei suoi più famosi discorsi sull'abolizione della discriminazione razziale inizia con le parole: " I have a dream ! " Nel 1957 fonda la "Southern Christian Leadership Conference" (Sclc), un movimento Malala Yousafzai - - - Don Milani - - - - Don Peppe Diana - che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla nonviolenza di stampo ghandiano All'età di tredici anni apre un blog, nel quale documenta il regime dei talebani pakistani, contrari ai diritti delle donne ad istruirsi Il 9 ottobre 2012 è stata gravemente ferita alla testa e al collo da uomini armati saliti a bordo del pullman scolastico su cui lei tornava a casa da scuola. Il 12 luglio 2013, in occasione del suo sedicesimo compleanno, parla al palazzo delle nazioni unite a New York, lanciando un appello all'istruzione dei bambini di tutto il mondo È la più giovane candidata al Premio Nobel per la Pace 2013 Organizzò una scuola per bambini e giovani, la Scuola di Barbiana, a 40km da Firenze. Barbiana mancava assolutamente dei servizi più elementari: niente luce elettrica, niente telefono, niente acqua, niente strada. A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola “dal prete” dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”. Fu accusato di istigazione a delinquere per aver difeso gli obiettori di coscienza dal disprezzo di alcuni cappellani militari Fonda a San Donato di Calenzano una scuola popolare serale x operai e contadini A sua difesa scrisse la “Lettera ai giudici”, in cui sosteneva l’esigenza di obbedire alla Verità prima che alle Leggi stabilite Attribuiva alla scuola il fine grande e onesto di “dedicarsi al prossimo”, sosteneva l’esigenza di diffondere una cultura pronta a difendere gli ultimi anziché abbandonarli. Scrive una lettera:”Per amore del mio popolo”, un documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana, un manifesto dell'impegno contro il sistema criminale camorristico - - - Nelson Mandela - cerca di aiutare la gente nei momenti resi difficili dalla camorra, negli anni del dominio assoluto della camorra casalese; sacerdote che si è sempre scontrato con la camorra cercando di salvare i giovani da un futuro nella criminalità organizzata decide di non trasferirsi a Roma, rifiuta dei soldi dalla camorra, organizza una fiaccolata in paese ed aiuta Teresa Capuano, figlia di un boss destinata a sposare un ragazzo di una famiglia rivale aiuta anche gli immigrati clandestini, sfruttati dalla camorra Presidente del Sudafrica dal maggio 1994 al giugno 1999; Premio Nobel per la pace nel 1993. Per la sua lotta contro l’apartheid, subì una detenzione durata 26 anni, Nonostante la dura oppressione e la lunga detenzione, rinunciò a una strategia violenta e vendicativa in favore di un processo di riconciliazione e pacificazione. L’OBBEDIENZA QUESTA SCONOSCIUTA OB-AUDIRE = ASCOLTARE STANDO DI FRONTE Sono obbediente o disobbediente se: 1. Il semaforo è rosso, non c’è nessuno e io passo ugualmente 2. Il semaforo è rosso, ho un ferito a bordo e io passo ugualmente 3. Non mi sono preparato per l’interrogazione, e non vado a scuola 4. Siamo in Quaresima, non mangio carne oggi che è venerdì, ma stasera starò fuori fino a tardi con i miei amici, al bar dove ci troviamo per bere e per giocare 5. Nascondo bevande alcoliche in fondo allo zaino all’uscita scout 6. Rivelo ai capi che un mio compagno nasconde bevande alcoliche in fondo allo zaino 7. Rispetto i limiti di velocità anche se ho fretta 8. Segno un goal di mano, l’arbitro non vede e lo ritiene valido, ed io non dico niente In quali occasioni della mia vita mi sono trovato di fronte alla scelta se fosse giusto obbedire o no? Maria, donna obbediente Don Tonino Bello Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di obbedienza sorda. Sapete perché? Per spiegarvelo devo ricorrere all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche all'ascetica. Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa: ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari. Chi ubbidisce non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta. Non si avvilisce all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo. C'è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: "obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione. In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora. Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le voglie del marito e non può uscire mai di casa perché lui è geloso, e la sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti. L'obbedienza, insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di libertà. Non è silenzio di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento gaudioso di un piano superiore. Non è il gesto dimissionario di chi rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria. Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria. Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo "Sì", si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata. Forse non sarebbe sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria. Le pinze - da “Un anno sull’altipiano” di E. Lussu In quei giorni, il maggiore Carriera, comandante del 2° battaglione del nostro reggimento, era stato promosso tenente colonnello. A lui fu affidato il compito di dirigere l'assalto nel nostro settore. Egli era uomo di grande volontà. Il tenente colonnello aveva il seguente piano: la notte, far brillare i tubi; all'alba, mandare esploratori e far allargare le brecce dei reticolati con le pinze tagliafili; subito dopo, attaccare. Quando io sentii parlare di pinze, mi si rizzarono i capelli. Con le pinze, sul Carso, avevamo perduto i migliori soldati, sotto i reticolati nemici. Il capitano Bravini, anch'egli comandante di battaglione, ma inferiore di grado, faceva tutto quanto il tenente colonnello gli comandava, senza un'obbiezione. Il tenente colonnello chiese al capitano Bravini il nome di un ufficiale del battaglione da mandare sotto i reticolati. Senza resistenza, il capitano suggerì il nome del tenente Santini e aggiunse che nessuno, come lui, conosceva il terreno. Per un portaordini, mandò a chiamare Santini. Ora, la luce dell'alba si era fatta più viva e noi potevamo distinguere tutto l'andamento delle trincee nemiche. Non ci voleva molto per capire che si mandava Santini a morire inutilmente. Io azzardai ancora un'obbiezione: “Ora c'è molta più luce, - dissi. - Inoltre, Santini è uscito, anche stanotte, con i tubi. Non si potrebbe rinviare all'alba di domani?” Il mio capitano non osò dire una parola. Il tenente colonnello mi rivolse uno sguardo ostile e mi disse: “ Si metta sull'attenti e faccia silenzio!” Il tenente Santini arrivò seguito dal suo portaordini. Il tenente colonnello gli spiegò quello che si voleva da lui e gli chiese se volesse offrirsi volontario. Egli era audace e aveva troppo orgoglio. Io avevo paura ch'egli rispondesse di sí. Mi avvicinai alle sue spalle e gli sussurrai, tirandogli le falde della giubba: - Di' di no. - È un'operazione impossibile, - rispose Santini. - È troppo tardi. - Io non le ho chiesto, - ribatté il tenente colonnello, - se sia presto o tardi. Io le ho chiesto se si offre volontario. Io gli tirai ancora le falde della giubba. - Signor no, - rispose Santini. Il tenente colonnello guardò Santini, quasi non prestasse fede alle sue orecchie, guardò il capitano Bravini, guardò me, guardò tutto il gruppo di ufficiali e di soldati che erano addossati alla trincea, vicino a noi, ed esclamò: - Questa è codardia! - Lei mi ha posto una domanda, io le ho risposto. Non è questione né di codardia, né di coraggio. - Lei non si offre volontario? - chiese il tenente colonnello. - Signor no. - Ebbene, io le ordino, dico le ordino, di uscire egualmente, e subito. Il tenente colonnello parlava calmo, la sua voce aveva l'espressione d'una preghiera gentile, quasi supplichevole. Ma il suo sguardo era duro. - Signor sì, - rispose Santini. - Se lei mi dà un ordine, io non posso che eseguirlo. - Prenda le pinze ed esca - ordinò il tenente colonnello, con la voce dolce e gli occhi freddi. - Signor sì, - disse Santini. Santini prese le pinze. Si slacciò dal cinturone un pugnale viennese dal corno di cervo, trofeo di guerra, e me l'offerse. - Tienilo per mio ricordo, - mi disse. Era pallido. Estrasse la pistola e scavalcò la trincea. Il portaordini, che nessuno di noi aveva notato, dopo il suo arrivo in compagnia del tenente, prese una pinza e uscì dalla trincea. Io ero ancora con il pugnale in mano. Il capitano Bravini beveva alla borraccia. Mi buttai alla feritoia più vicina e vidi i due, dritti in piedi, uno a fianco dell'altro procedere, a passo, verso le trincee nemiche. Era già giorno. Gli austriaci non sparavano. Eppure i due avanzavano allo scoperto. In quel punto, fra le nostre trincee e quelle nemiche, non vi erano più di cinquanta metri. Gli alberi erano radi e i cespugli bassi. Se si fossero buttati a terra, sotto i cespugli, sarebbero potuti arrivare non visti, almeno fino ai reticolati. Santini rimise la pistola nella fondina e avanzò con in mano le sole pinze. Il portaordini gli era sempre a fianco, con il fucile e le pinze. Traversarono il breve tratto e si fermarono ai reticolati. Dalle trincee, nessuno sparò. Il cuore mi batteva come un martello. Levai la testa dalla feritoia e guardai la nostra trincea. Tutti erano alle feritoie. Quanto tempo rimasero dritti, di fronte ai reticolati? Io non ne ho ricordo. Santini fece infine, ripetutamente, con la mano, un gesto verso il suo compagno per farlo ritornare indietro. Forse, egli pensava di poterlo salvare. Ma il gesto era il movimento stanco d'un uomo scoraggiato. Il soldato rimase al suo fianco. Santini s'inginocchiò accanto ai reticolati e, con le pinze, iniziò il taglio dei fili. Il portaordini fece altrettanto. Fu allora che, dalla trincea nemica, partì una scarica di fucili. I due stramazzarono al suolo. Da “Lettera ai cappellani militari” di Don Lorenzo Milani Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. .................... Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso,io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. .................... Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). .................... Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona. .................... Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo»che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro. .................... Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione,ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene. .................... Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità. Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. .................... Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano. Da “Lettera ai giudici” di Don Lorenzo Milani Signori Giudici, vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. .................... Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. .................... Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego». .................... In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perche siano cambiate. .................... Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. ................... Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima. Il Nemico e l’Uomo – da “ Un anno sull’altipiano” di E. Lussu Il mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di rincalzo ci desse il cambio…. La notte precedente a quella del cambio, io stesso m'ero voluto mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all'apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa dava un'apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse sempre d'una illusione. Potevano anche essere uomini che si spostassero, non alberi che sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti all'estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alle trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina dall'austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea antistante. Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v'erano alberi: non era quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d'infilata….. Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore? Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno….. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale. Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso…. Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva piú chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido " è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosí, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cosí!" Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo piú chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: - Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: - Neppure io. Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio. DON LORENZO MILANI Don Lorenzo nacque a Firenze il 27 maggio 1923 da una colta e ricca famiglia borghese. Il padre Albano, laureato in chimica, era cultore di studi umanistici, conosceva sei lingue, viveva di rendita; la madre, Alice Weiss, era di origine israelita. Lorenzo aveva due fratelli Adriano, medico, ed Elena. I tre bambini vennero battezzati, insieme, il 29 giugno del 1923. Nel 1930 da Firenze la famiglia si trasferì a Milano dove Lorenzo seguì gli studi fino alla maturità classica. Dall’estate del 1941, nonostante il parere contrario dei genitori, si dedicò alla pittura iscrivendosi all’Accademia di Brera. Qui conobbe una ragazza, Carla, che si innamorò di lui. D.M. dirà di lei: “è l’unica persona al mondo a cui ho fatto del male”. Nell’ottobre del 1942, a causa della guerra, la famiglia Milani ritornò a Firenze dove Lorenzo scoprì il Vangelo. Disse ad un amico: “Ho letto la messa. Ma sai che è più interessante dei “Sei personaggi in cerca d’autore”?” In questo periodo incontrò don Raffaello Bensi, un autorevole sacerdote fiorentino che fu da allora fino alla morte il suo direttore spirituale. Nel novembre del 1943 entrò in Seminario Maggiore a Firenze. Anche questa volta la sua famiglia non era d’accordo ma accettò la sua scelta. Non fu uno studente modello, seguiva ciò che riteneva utile (“se ho fame mangio, non digiuno per mostrarmi più devoto!”). Il 13 luglio 1947 fu ordinato sacerdote. Celebrò la prima messa il giorno seguente in San Michele Visdomini, parrocchia di don Bensi (“ero preoccupato, adesso dove me lo mandano questo ragazzo? Se lo mandano accanto ad un parroco che non lo capisce son dolori”). Come prima destinazione fu mandato in via provvisoria a Montespertoli dove iniziò a creare una specie di doposcuola. Poi, nell’ottobre 1947, venne trasferito a San Donato di Calenzano (FI) come cappellano del vecchio proposto don Pugi, che si affezionò, ricambiato, al giovane sacerdote (“….Perché l’è un po’ in quella maniera ma gli è tanto bòno”). A San Donato Don Milani fondò una scuola popolare serale per i giovani operai e contadini della sua parrocchia. Diceva: “il catechismo non deve essere una cosa astratta, ma deve essere collegato alla storia vera”. I primi anni di Calenzano furono molto difficili per don Lorenzo, per l’incomprensione dei giovani della parrocchia che non capivano quel pretino. Organizzò in canonica la scuola serale dicendosi che erano troppo ignoranti per capire. Scuola non di religione, ma scuola e basta. Problemi come l’analfabetismo, la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile, la crisi degli alloggi, la proprietà privata erano per lui semplicemente ostacoli da prendere a calci in quanto gli ingombravano il cammino di predicatore di Dio. Ovviamente, non piacque affatto a quei fedeli che avevano sempre fatto il bello e cattivo tempo in sacrestia, che corsero subito in Curia. Il 14 novembre 1954 don Pugi morì e don Lorenzo fu nominato priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna dove mancavano i servizi più elementari: la luce, l’acqua, il telefono, la strada…. Arrivò a Barbiana il 7 dicembre 1954. Fin dai primi giorni cominciò a radunare i giovani della nuova parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San Donato. Nel 1956 rinunciò alla scuola serale per i giovani del popolo e organizzò per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una scuola di avviamento industriale. Su una delle pareti della scuola c’era scritto grande:“I CARE”: mi importa!!! Nel maggio del 1958 dette alle stampe Esperienze pastorali iniziato otto anni prima a San Donato. Nel dicembre dello stesso anno il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perché ritenuta “inopportuna” la lettura. Nel dicembre del 1960 fu colpito dai primi sintomi del male (linfogranuloma) che sette anni dopo lo portò alla morte. Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà”. La lettera fu incriminata e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Al processo, che si svolse a Roma, non poté essere presente a causa della sua grave malattia. Inviò allora ai giudici un’autodifesa scritta. E’ in questo scritto che si trova la celebre frase: “….l’obbedienza non è ormai più una virtù…”. Il 15 febbraio 1966 il processo in prima istanza si concluse con l’assoluzione, ma in seguito, quando Don Lorenzo era già morto, su ricorso del pubblico ministero la Corte d’Appello modificò la sentenza di primo grado e condannò lo scritto. Nel luglio 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana iniziò la stesura di Lettera a una professoressa. Don Lorenzo morì a Firenze il 26 giugno 1967 a 44 anni. Prima di morire disse “ora mi sento l’ultimo anch’io”. Fu sepolto a Barbiana con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna. IF Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno colpa. Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano, tenendo pero' considerazione anche del loro dubbio. Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare, O essendo calunniato, non rispondere con calunnia, O essendo odiato, non dare spazio all'odio, Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio; Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone; Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo, Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina E trattare allo stesso modo questi due impostori. Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi, O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte, E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi. Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce, E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio senza mai far parola della tua perdita. Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti, E a tenere duro quando in te non c'è più nulla Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!" Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtu', O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso, Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti, Se per te ogni persona contera', ma nessuno troppo. Se saprai riempire ogni inesorabile minuto Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi, Tua sara' la Terra e tutto ciò che è in essa, E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio! IF è il titolo di una celeberrima poesia di Joseph Rudyard Kipling scritta nel 1895 dedicata al figlio. La si trova nel capitolo "Brother Square Toes" del libro "Ricompense e Fate" ("Rewards and Fairies"). Da : Il coraggio come virtù: resistenza e resa Gian Maria Zanoni SERVIRE – n. 3/2013 Le “virtù cardinali” - prudenza, giustizia, fortezza e temperanza - danno la giusta misura e la corretta interpretazione della virtù del coraggio Un invito è quanto di più profondamente e impegnativamente umano si possa immaginare: sia per chi lo fa, che per chi lo riceve. L’invito è l’apparire della possibilità, e quindi della necessità, di una scelta. Tra un ordine e un invito c’è un abisso. Per trasformare il primo nel secondo ci vuole molto coraggio: analizzando la dinamica dell’invitare si colgono infatti le manifestazioni fondamentali del coraggio: La capacità d’immaginare un futuro : chi invita deve assumersi la responsabilità del senso, dei contenuti e della validità di ciò che propone, deve avere fiducia nel progetto e sicurezza nelle personali capacità di realizzarlo. Per avere credibilità è necessario sconfiggere la paura dell’ignoto, del dubbio, dell’ignoranza, della fragilità, sia davanti agli altri, che, soprattutto, davanti a noi stessi. Ma anche chi accetta l’invito, deve esercitare il coraggio sia dell’analisi che della corresponsabilità. Un invito si può declinare, perché non è un ordine. Gli ordini non si discutono, perché tolgono, per definizione, ogni possibilità di scelta. Ma un invito, per sua natura, apre alternative che richiedono discernimento e volontà. È per questo che un ordine può essere un’autentica liberazione, allontanando il dubbio, il rimorso, la paura. Il saper affrontare il rifiuto: ciò che distingue l’ordine dall’invito non è il materiale rifiuto (anche un ordine può essere rigettato), ma è l’implicito e previo riconoscimento della legittimità del rifiuto. Chi veramente invita, riconosce l’autonomia altrui, la responsabilità di scegliere come fonte della dignità umana. Il coraggio di affrontare il rifiuto dimostra anche la bontà delle proprie convinzioni, che non trovano nell’assenso altrui il fondamento della loro validità, e, soprattutto crea lo spazio per una libera adesione, per l’assunzione di responsabilità, per una crescita autonoma. La fedeltà: dire ”seguimi”, significa proporre un legame che dovrà inevitabilmente svilupparsi nel tempo. Lungo o breve che sia il cammino, esso sarà percorso in comune. Ogni azione futura è legata ad un’altra presenza, libera ma duratura: l’invito impone, a quanti vi aderiscono, il coraggio della fedeltà. Ma nell’immaginare il futuro, nel sopportare i rifiuti, nell’esercizio della fedeltà possono nascondersi paura o temerarietà, atteggiamenti che alterano l’autentico invitare. Come è possibile riconoscere la presunzione, la sfrontatezza o la superficialità nel formulare o nell’accettare un invito, cioè nell’avere coraggio? Si impone la ricerca di un criterio di verifica, che consenta un solido discernimento. Per far ciò è utile ricordare, attualizzandola, l’antica formulazione delle virtù fondamentali, delle virtù “cardinali”: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. L’elenco non è casuale, perché comprende tutti gli ingredienti della corretta socialità, cioè di una vita quotidiana vissuta con coraggio, con l’attenzione costante all’invitare e all’essere invitato. Le quattro virtù formano un tutt’uno e non sono praticabili separatamente. La loro attenta considerazione mostra che esse attribuiscono spessore ed autenticità le une alle altre. La fortezza, che indica solidità, costanza e decisione, è sinonimo di coraggio e ricorda il modo e lo stile indispensabili all’esercizio delle altre virtù. Il coraggio, senza prudenza, giustizia e temperanza è cieco e scomposto, è sempre inadeguato, ed è destinato a degenerare nella temerarietà o nella paura. La prudenza non indica l’attenta e preoccupata considerazione dei possibili pericoli, ma è sinonimo di saggezza. È la capacità che permette al coraggio d’interpretare il presente e di pensare il futuro; è lo strumento che dona la vista e consente di non confondere l’illusione, il sogno con la realtà. La giustizia dà al coraggio i parametri per giudicare il passato, affrontare il presente e costruire il futuro. Delle tre virtù è quella fondamentale, perché ne giustifica la nascita, ne plasma il carattere, ne impone l’uso. Giustizia e coraggio si fondano a vicenda, si attribuiscono valore e contenuto, si danno autenticità. Avere coraggio significa sempre e comunque avere il coraggio della giustizia. La temperanza, in fine, garantisce al coraggio, come alle altre virtù, la giusta misura. Una misura adeguata alle situazioni ed agli scopi, evitando le sproporzioni sia per eccesso che per difetto. È sempre possibile trasformare un ordine in un invito, le più forti costrizioni, le situazioni più condizionanti in occasioni di scelta, in esperienze di libertà? L’Uomo, e soprattutto il credente, ha questa possibilità, in forza della Grazia, del coraggio, delle virtù. Ma noi, uomini di tutti i giorni, singoli e fragili individui non possiamo e non dobbiamo dimenticare che accanto alla resistenza esiste sempre la resa e che il nostro coraggio non può mai prescindere dalla considerazione della personale e riaffiorante fragilità. CORAGGIO L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza. Giovanni Falcone