Anno 4- Numero 5– 01/05/2012
Periodico della parrocchia di S. Anselmo di Lucca
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Italiani mai esigenti
Lacrime e
carezze
N
ei Paesi più civili e sereni economicamente del nostro è
la gente che esige il proprio sistema, non è un processo
che viene dall'alto. Non hanno bisogno di un mentore Essere
padre di famiglia è bello e faticoso. Essere un buon professionista pure. Essere un buon cittadino, un italiano sereno e onesto
è un vero e proprio lavoro. Certe mattine ci si alza con spensieratezza, in altre non ci si crede più molto, ma ci si inventa una
facci a e si inizia la giornata. Penso al perché della nostra televisione nazionale, rifletto sul motivo della generalizzata arroganza e inaffidabilità che pervade la nostra società e il mondo del
lavoro, i rapporti umani persino. Non tendo mai a giustificare il
basso livello culturale del Paese in cui vivo con facili formule
autocommiserative, indulgenti o autocelebrative.
Al fatto che noi italiani «siamo così» non ci ho mai creduto.
Per anni, nella giovinezza ho quasi sempre contrastato interiormente le parole di mio padre, quelle sue frasi che non volevo
ascoltare. Oggi, quelle odiate frasi mi risuonano nella mente
con un timbro sempre più nitido, purtroppo. Ricordo che con
un suo epiteto particolarmente infastidente, che oggi considero
essere più inquietante, mi diceva che in un sistema capitalistico
come il nostro, il mantenere salari nettamente più bassi rispetto
agli omologhi Paesi industrializzati europei è un modo per tenerci sotto, per renderci meno autonomi, e togliere soldi ai servizi e alle scuole è un modo per fare in modo che noi si resti
terra di conquista. Ieri mi infuriavo, oggi ci rifletto. Oggi contrasto meno quelle parole, non vi aderisco ma
le accolgo, le elaboro.
Eppure, mi dico, nei Paesi più civili e sereni economicamente
del nostro è pur sempre la gente che esige il proprio sistema,
non è un processo che viene dall’alto. Non hanno avuto bisogno di una guida, di un conducator o di un mentore, loro. Il
solito problema dell’uovo e della gallina. Il dilemma che ho
dentro non si
è
anco ra
risolt o
e
sarebbe ora
che mi sbrigassi a scioglierlo, visto
che ho due
figli piccoli.
S
ono un medico e lavoro in oncologia
p edi at ri ca.
I
bambini affetti
dal cancro sono
pazienti speciali:
nonostante
la
loro età, sono
c o n s a p ev o l i ,
talvolta più dei loro stessi genitori, di ciò che devono affrontare.
Ho accompagnato molti di loro nelle difficoltà di una vita fatta
di chemioterapia, sofferenze e angosce: spesso la medicina
giusta per tutto questo l’ho somministrata attraverso un sorriso,
attraverso parole di conforto, attraverso una carezza. È la solitudine che rende la tragedia inaccettabile e crudel e al punto da
non essere tollerabile, per quanto certe sofferenze, come la
perdita di un figlio, siano di per se stesse assurde. In questo
limbo di dolore, essere accompagn ati per mano non solo aiuta,
ma salva il cuore, l’anima e la mente di chi rimane. Tutto questo accade a Londra, dove io vivo e lavoro: una terra che per
falsi preconcetti consideriamo più fredda e indifferente se confrontata al calore di noi italiani. Nulla di più sbagliato: a Londra, se si è in difficoltà, una parola di conforto, un abbraccio,
non sono gesti rari ma consueti. Sembrano invece gesti rari e
scomodi qui in Italia. La mia è stata una Pasqua di dolore perché mia madre è entrata in coma. In questi momenti di lacrime
e sofferen za posso dire che i medici e le
infermiere, incontrati all’inizio di questo calvario, ci hanno
lasciati orrendamente soli. Sì, soli nel nostro dolore. Con spietata indifferenza siamo stati quotidianamente aggiornati sulle
condizioni cliniche della mamma, ma non una parola, non un
gesto sono stati spesi per dar conforto. Sono consapevole che
non si deve generalizzare, che tante persone si comportano in
modo diverso, e una singola esperienza non può fare statistica:
ma è la mia esperienza, è la mia unica mamma, e non avrò
altre possibilità di vedere le persone buone che forse si nascondono dietro alla crudeltà da me incontrata.
*medico,35 anni, Londra
Salvavita in campo
La morte di Morosini serva almeno a salvare altre vite. Non si può dichiarare agibile un impianto sportivo senza un defibrillatore e personal e all'altezza a disposizione È raggelante vedere un giovane crollare prono, dopo la breve incredula lotta dell’anima
con il corpo, come una gazzella azzannat a al collo da un leone invisibile. È accaduto in un fazzoletto di un campo di calcio, non
nella piana infinita del Serengeti. La morte improvvisa esisterà sempre. Nel 490 a.c. Filippide corre da Maratona ad Aten e per
annunciare la vittoria, e dopo 42 km si accasci a per sempre, la prima morte improvvisa di un «atleta».
Piermario Morosini ha perso tutto e vinto tutto. Perso genitori e fratelli, vinto il sogno di giocare in nazionale mentre la maggior
parte dei giovani non sa più nemmeno cosa sognare. La sua morte salverà un sacco di vite, ne sono certo. Ma perché questo
accada si deve partire dallo scand alo - non trovo parola più appropriata- dei suoi ultimi momenti. Un addetto ai lavori non può
non essere colpito dal ritardo imbarazzante dei soccorsi. E’ inaccettabile. In Formula 1 si cambiano quattro ruote e si fa il pieno
ad uno stupido bolide in otto secondi, possibile che ci vogliano minuti a soccorrere
come si deve un uomo in una palestra o in un campo da calcio ? I recenti drammi in
luoghi sportivi accaduti in Inghilterra (calci atore Muamba), India ( calci atore Venk atesh), Macerat a (pallavolista Bovolenta) e ora a Pescara con Morosini dovrebbero una
volta per sempre stabilire una cosa. Non si può dichiarare agibile un impianto sportivo, per dilettanti come per professionisti, che non abbia un defibrillatore cardiaco e
personale all’altezza a pronta disposizione. Parliamo di una macchina da mille euro e
di procedure di rianimazione facilmente apprendibili. Gli atleti, o i loro genitori per i
minorenni, dovrebbero rifiutarsi di giocare in un impianto sprovvisto di un apparecchio salvavita che costa come uno smartphone.
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Crisi e senso di morte, la vita si fa dura, appassisce la speranza
I
l mar Egeo, che bagna Atene, prende il nome da un
padre suicida: il mitico re che si gettò nelle acque di
quel mare da una rupe, convinto che il figlio Teseo fosse
stato ucciso dal Minotauro. C’è disperazione paterna, non
solo invito alla rivolta, anche nel suicidio del farmacista
pensionato che si è sparato pochi giorni fa di fronte al Parlamento greco. “Giacché ho un’età che non mi permette di
reagire con forza non vedo altra soluzione che una fine
dignitosa prima di dover cominciare a rovistare nella spazzatura per cercare cibo”, ha lasciato scritto Dimitris Chistoulas, che prima di uccidersi ha gridato di non voler lasciare debiti ai suoi figli.
E non è forse un suicidio differito, quello messo in pratica
da quei genitori greci che lasciano i loro bambini, anche
grandicelli, in chiesa o a scuola, con un biglietto in tasca
in cui si spiega che non sono più in grado di dar loro da
mangiare? Un reportage della Bbc, a dicembre, raccontava
l’inimmaginabile, anche solo un anno fa. Perché era inimmaginabile che la Grecia, con un numero di suicidi tra i
più bassi d’Europa, nel giro di tre anni scalasse di parecchi
punti quella triste classifica.
Anche l’Italia vive la sua stagione di suicidi legati alla
crisi, inaugurata nel nord-est dai piccoli imprenditori che
non riescono più a far fronte agli impegni verso fornitori e
dipendenti, e senza speranza di ottenere credito dalle banche. Accanto ai nomi dei “padroncini” veneti suicidi , in
un’ideale lapide intestata alla Grande Depressione del
Ventunesimo secolo, leggiamo, giorno dopo giorno, nomi
lombardi, toscani, laziali, siciliani, campani.
Da ieri, c’è anche quello di Giuseppe Campaniello, l’artigiano edile che si era dato fuoco dieci giorni fa davanti
alle sede dell’Agenzia delle entrate a Bologna. Uomini,
quasi sempre. Perché per quella metà del cielo il suicidio è
via di fuga da sempre più praticata. Ma anche perché, come dice a proposito della Grecia la psichiatra Eleni Beikari, “gli uomini soffrono di più per la perdita del senso di
dignità e di orgoglio” legata
alle difficoltà economiche.
Aggiunge lo psicologo Claudio Risé che “per l’imprenditore e il padre di famiglia, è
insopportabile non poter più
immaginare il futuro per sé,
per i propri figli, per i dipendenti. E’ il dramma di chi non
sa fare i conti con il senso di
catastrofe, di rovesciamento
delle aspettative individuali e
collettive.
Un dramma soprattutto maschile”. Ci sono le eccezioni.
C’è la settantottenne di Gela
che tre giorni fa si è buttata
dal balcone dopo che la sua
pensione era stata ridotta da
ottocento a seicento euro.
Da almeno ottant’anni non è
più vero quello che scriveva
Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, alla fine
dell’Ottocento, quando notava che nella povera Calabria ci si
toglieva la vita assai meno rispetto a luoghi ben più opulenti.
“Si può quasi dire che la miseria protegge” dalla tentazione
del suicidio, sosteneva. A smentirlo arrivò la crisi del 1929,
inaugurata dal crollo della Borsa di New York.
“Fallirono banche, compagnie di assicurazione, imprese private. Il numero dei disoccupati salì fortemente, mentre la
ricchezza delle famiglie si ridusse. Crebbe anche il tasso di
suicidio, ma con tempi e intensità diversi a seconda dei paesi. L’aumento più forte fu in Austria, negli Stati Uniti e in
Spagna, più contenuto in Germania e in Inghilterra, mentre
non avvenne per nulla in Italia” (Marzio Barbagli,
“Congedarsi dal mondo”, il Mulino). Oggi, lo scrittore Guido
Ceronetti si trova a dire da Radio 24 che “l’Italia non è un
paese da epidemie di suicidi, non è né Vienna né la Svezia né
l’Ungheria.
L’Italia è un paese dove il suicidio facile non esiste, e invece
adesso sono stati diversi negli ultimi due mesi.
Ed è proprio questa vita concreta quella a cui posso pensare,
che mi ha provocato un risveglio, non ai temi, ma all’alitare
umano di questa sofferenza per questi motivi, che poi si intrecciano”.
Negli anni Trenta erano i ricchi, diventati in un giorno nullatenenti, a togliersi la vita, e gli azionisti rovinati che si lanciavano dai grattacieli sono ancora il simbolo della disfatta
delle grandi illusioni, insieme con il giocatore che si spara
sulle scale del casinò dopo avere perduto una fortuna. Più
tardi, quando la povertà dilagò, a dare voce alla fatica degli
ultimi fu Woody Guthrie, il cantore della Grande Depressione e delle Dust Bowl Ballads (da Dust Bowl, “conca di polvere”, termine che indicava le Grandi Pianure flagellate dalla
siccità negli anni Trenta, dalle quali i contadini ridotti in miseria fuggivano in massa verso il sogno californiano). Ci
furono Faulkner e Steinbeck, che rappresentarono un’umanità dolente ma tenacemente attaccata alla vita. Uccidersi era
fermarsi, e i poveri di “Furore” (Steinbeck) o di “Mentre
morivo” (Faulkner), non si fermavano mai, mai smettevano di
pensare che forse l’indomani la
loro vita sarebbe cambiata. La
speranza resiste anche quando,
nell’ultima scena di “Furore”, la
giovane Rosa Tea, che ha partorito un bambino morto, offre il
latte del suo seno allo sconosciuto che sta morendo di fame. La
speranza resiste anche nel suicidio di Joseph Wayne, che in un
altro romanzo di Steinbeck, “Al
Dio sconosciuto”, si taglia i polsi
perché “sa” che così la pioggia
tornerà, come in effetti accade.
Wayne sentiva di immolarsi come un Sansone biblico, oggi la
speranza non è l’ultima ma la
prima a morire, nei capannoni
del nord-est e tra i piccolo borghesi che frugano nei rifiuti ad
Atene.
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Il Papa blocca le donne prete
La vita donata
I
l “no” pronunciato ieri dal Papa nell’omelia della messa crismale è
stato perentorio: “La disobbedienza” e la richiesta di “ordinazione
delle donne” non sono “una via per rinnovare la chiesa”, ha detto rivolgendosi al movimento dei preti austriaci – “cattolici irrequieti” li chiamano oltre il Tevere – che hanno sottoscritto un documento che chiede riforme radicali alla chiesa e che ha raccolto consensi in Germania, Irlanda, Belgio e Svizzera. Le parole del Papa pronunciate in apertura di un
triduo carico di significato per la chiesa mostrano che la situazione è
“drammatica”. Roma vive con preoccupazione, a tratti con angoscia, il
dissenso e la disobbedienza predicati dalle chiese del centro Europa.
A tutto ciò si è aggiunta la decisione, “inspiegabile” dicono in Vaticano,
di due giorni fa del cardinale Christoph Schönborn di accettare la nomina
di Florian Stangl, omosessuale sposato civilmente con il suo compagno,
a capo del Consiglio pastorale di Stützenhofen, a nord di Vienna. Il Papa
è stato sostanzialmente “costretto” a intervenire. Egli non si sente descritto dalla vulgata che lo dipinge come “retrogrado”, arro ccato su un
passato che non esiste più. La sua richiesta di rinnovamento c’è ed è forte, ma il rinnovamento non deve tradire la dottrina. I segnali che egli dà
sono molteplici. L’ultimo in ordine di tempo è un’iniziativa a suo modo
storica e che, secondo quanto apprende il Foglio, ha già ricevuto il placet
delle stanze più nobili del Vaticano, un’iniziativa significativa anche alla
luce delle nubi che si addensano in queste ore: nelle prossime settimane
l’Osservatore Romano farà decollare un inserto di quattro pagine intitolato “Donne, chiesa, mondo” tutto dedicato alle donne, curato e ideato da
due ex femministe già da tempo firme di punta del quotidiano, Lucetta
Scaraffia e Ritanna Armeni. L’idea è di valorizzare le donne che fanno
grande la chiesa, mostrare insomma l’esistenza di una sorta di femminismo amico della fede. Gerarchie a parte, infatti, la chiesa pullula di presenze femminili importanti: uno dei movimenti più diffusi, ad esempio, è
quel movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich e oggi affidato
all’avvocato Maria Voce.
Fino agli anni Cinquanta le uniche sottane ammesse in Vaticano erano
quelle dei preti. Poi molto è cambiato. Un’accel erazione in questo senso
si è avuta negli ultimi anni, nell’era Wojtyla prima e nel tempo di Ratzinger poi. Una scossa si è avuta nel 2003 per “colpa” della moglie di Tony
Blair, la cattolica Cherie, che dopo un’udienza papale disse con un filo di
sfrontatezza: “Si dovrebbe eliminare il sessismo che anco ra domina in
Vaticano”. Parole in qualche modo fatte proprie dal segretario di statovaticano Tarcisio Bertone il quale, convinto assertore di una più significativa presenza femminile nei posti di comando della chiesa, disse nel 2007
in una funambolica
intervista concessa a Repubblica: “Stiamo disegnando le nuove nomine
in Vaticano, tutti lo sanno, e nel quadro delle responsabilità, dei carismi,
delle potenzialità delle donne ci sono incarichi che assumeranno”. Poco
dopo, sull’Osservatore, fu invece la Scaraffia a tornare sul tema proponendo, di certo non senza coraggio, le donne come soluzione alla pedofilia nel clero: “Una maggiore pres enza femminile non subordinata avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha
coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti”.
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quella di tanti missionari, sia religiosi sia laici,
Èche non occupano un territorio, ma si dedicano
totalmente alla gente e alla terra che li ospita.
Nella «Giornata dei missionari martiri», che ha coinciso con l’anniversario dell’uccisione del Vescovo
Oscar Romero nel 1980 ad opera del regime salvadoregno che lui contrastava, l’agenzia Vaticana «Fides»
ha reso noto l’elenco degli operatori pastorali che
hanno perso la vita in modo violento nel corso del
2011. Nell’anno appena trascorso sono stati uccisi 26
operatori pastorali (uno in più rispetto all’anno precedente), di cui: 18 sacerdoti, 4 religiose, 4 laici. Sangue che è stato versato su tutti i continenti, in una
strage continua, che non conosce né limiti geografici
né storici, come ha ricordato il professor Andrea Riccardi nel libro «Il secolo del martirio».
È triste che la «regola d’oro» del vivere civile, come
chiamano alcuni il «principio della reciprocità», non
riesca a radicarsi nel cuore e nella mente di tante
culture. Il dialogo interreligioso, portato avanti tra
mille difficoltà, è oggi l’unica arma pacifica disponibile, ma il suo agire è lento, troppo lento e laborioso.
Vorrei ricordare le parole tratte dal testamento spirituale di Padre Christian de Chegé, uno dei sette monaci di Tibhirine uccisi nel 1996 da fondamentalisti
islamici: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che
sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che
vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia
Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita
era donata a Dio e a questo paese... Che sapessero
associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato». Il
missionario, sia esso cattolico che laico, non occupa
un territorio, non cerca guerre di religione, non fa
crociate, si «dona» totalmente e disinteressatamente
alla gente e alla terra che lo ospita.
CUSTODI DEL CREATO PER IL BENE COMUNE (E I SUOI COMANDAMENTI)
N
el suo intervento conclusivo il Vescovo mons. Adriano
Caprioli ha lasciato ai partecipanti un “decalogo”,
coniugato sui 10 comandamenti dati da Dio a Mosè e
adattato al nostro tempo.
1.Non avrai altri dei di fronte a me. Si dice che Cristoforo
Colombo non abbia inventato l’America, ma l’ha solo
scoperta. Il premio Nobel Alexis Carrel, convertitosi a
Lourdes, diceva di non aver inventato il trapianto di tessuti e organi essenziali, ma solo di averlo scoperto.
L’uomo di scienza, non positivista, non inventa niente,
ma scopre tutto come riflesso di Colui che “vide tutto come
cosa buona”
2.Non nominare invano il nome del Signore, invocandolo contro qualcuno oppure strumentalizzando la religione come ragione di violenza, di guerra, a completa
disposizione dei propri interessi; ma pregalo come Colui
“che fa piovere sui buoni e sui cattivi”.
3. Ricordati del giorno di festa, del primato dell’uomo sul
sabato, della carità sul riposo, della festa sul tempo libero, della politica sull’economia, benedicendo il Signore
del pane e del vino, frutti della terra e del lavoro umano.
4. Onora tuo padre e tua madre, non solo quelli della
tua famiglia, del tuo Paese e cultura, ma anche padri e madri
di famiglie di immigrati facendo attenzione ai loro problemi umani di lavoro, di casa, di ricongiungimenti familiari,
di cittadinanza attiva e corresponsabile.
5. Non ucciderai la speranza dei popoli della terra, dell’Africa e d el Sud America, provati dai mutamenti climatici, dai ripetuti fenomeni di siccità o inondazioni; la speranza dei
pescatori di Uttan nel Nord India, espropriati dalle loro
terre per farn e un “paradiso di divertimenti” per manager stranieri.
6. Non commetterai adulterio con la terra, inquinandone
la bellezza con le scorie degli inquinamenti illeciti; ma anche con l’ideologia, ignara delle generazioni future, che vede
la terra come una riserv a dalle risorse illimitate.
7. Non ruberai ai poveri, alle famiglie numerose, che
hanno con il lavoro i beni di prima necessità come l’acqua, il
pane, le medicine: non rub erai medi ante la crescita d ei
prezzi, le speculazioni finanzi arie e i regimi di monopolio
della fornitura di tali beni.
8. Non pronuncerai falsa testimonianza, equiparando
l’uomo alla natura, considerando la natura materi ale o animale più importante dell’uomo, ma testimoniando stili di
vita meno egoistici e più sobri nel rispetto dell’ambiente e
nell’uso dei beni.
9. Non desidererai la casa del tuo prossimo, anche qui in
città, impegnandoti ad un maggior controllo nel “consumo di
territorio” — bene in sé non rinnovabile —, e impegnandoti a
sostenere la riqualificazione del patrimonio abitativo esistente, più che allargare le aree del territorio edificabile.
10. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il
suo schiavo né la sua schi ava, né il suo bue, né il suo
asino, né alcuna cosa che
apparteng a al tuo prossimo:
la madre terra, nostra “sora
Acqua”, “fratello Sole”, tutti
come doni di Dio e bene comune.
Grato dell’atten zione, vi ringrazio anch e a nome di... Mosè!
+ AdriAno CAprioli
Il vecchietto dove lo metto
D
iventar vecchi è una tragedia. Ma fortun atamente non più
per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia d el Fondo Monetario Internazionale,
noto ente benefi co con il cuore a forma di trappola. «Se entro il
2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime
attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già
elevati costi del Welfare crescerebb ero del 50 per cento». Lo
scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e
vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le
mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (bast a vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di
indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavo ratori precari e p reco cem ente invecchiati. I fondi pensione senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a
fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo
Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan
sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del
pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.
Come scongiurare lo sfacelo annunci ato? Qualcuno dovrà pu r
sacrificarsi. Escludendo che quel
qualcuno sia il Fondo Monetario,
non restiamo che noi, i vecchietti
del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratam ente
protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione av anzata dallo
scrittore Martin Amis: entrare in una
cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e
adios.
La vita seria
R
agazzino, come mai cammini accanto ai binari del treno?
Vado per la mia strad a, risponde Flavio alla donna di
Moncalieri ch e lo interroga dal bordo d el viale. Meglio allontanarsi dalla città, seguire il percorso della ferrovia finch é ci sono
soltanto prati intorno. E’ allora che il ragazzino posa a terra lo
zaino e co rre fra i binari con un tempismo perfetto che impedisce al macchinista di frenare. Aveva quindici anni e un quattro
e mezzo di mat ematica n el suo diario. Adesso scav eranno sulla
sua famiglia, il genitore duro, il genitore assente. Tutto vero,
tutto relativo. Di assoluto c’è solo quel gesto che s embra ri cordarci
qualcosa. I nostri quindici anni. Quando la vita è ancora una
cosa seria da prendere molto sul serio, senza chiaroscuri né
ironie a farci da guscio. Quando un quattro a scuola non è un
quattro, ma una sentenza definitiva. E lo sfiorire del primo
amore diventa l’arch etipo irripetibile di ogni sofferenza futura,
come ricorda Nick Hornby alla fidanzata trentenne che lo ha
lasciato, nell’incipit memorabile di Alta fedeltà: «Se volevi
davvero incasinarmi, dovevi arrivare prima». Perché poi la vita
cambia e ci cambia, rendendoci disponibili ai compromessi, ai
ragionamenti, alle lusinghe del buon senso e della convenienza.
Uno impara a dominare gli istinti, a mentire a se stesso oltre che agli altri, a osservare la realtà in diagonal e e non sempre di
petto. Ma non tutti arrivano a questo stadio. Qualcuno si ferma prima. Perché più
idealista, più tormentato, più debole. Nessuno lo incolpi e nessuno si senta in colpa.
Flavio è andato per la sua strada e a me
viene soltanto da dirgli ciao.
7
ROMA- “Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra lingua italiana.
Se mi sbaglio, mi corigerete”.
furono le prime parole di Giovanni Paolo II, queste furono il primo suono d’amore che trasmesse ai fedeli dopo
Q ueste
lo storico “Habemus papam”del 16 ottobre 1978. Oggi Giovanni Paolo II avrebbe compiuto 92 anni di vita e di fede. Nacque a Wadowice, cittadina a sud della Polonia, il 18 maggio 1920 e da quel momento usandouno dei suoi più belli
pensieri, prese in mano la sua vita e ne fece un capolavoro. La sua vita straordinaria non è racchiusa solo nei suoi anni
di pontificato. Era un giovane tra i giovani, era un uomo tra gli uomini perché proprio la sua gioventù, dalle sofferenze
familiari alla guerra, lo portarono ad affrontare il dolore e la vita con tenacia e gioia. Fece il bibliotecario all’Università di
Cracovia dove studiò letteratura e lingua polacca, successivamente fece il manovale in una cava e altri lavori, fino ad essere ordinato sacerdote il 1 novembre 1946 e da quel momento divenne un umile servo d’amore.
E’ stato eletto papa il 16 ottobre 1978. Giovanni Paolo II intraprese sin dal principio del suo pontificato una vigorosa azione politica e diplomatica contro il comunismo e l'oppressione politica. Stigmatizzò inoltre il capitalismo sfrenato e il consumismo, considerati antitetici alla ricerca della giustizia sociale, causa di
ingiustificata sperequazione fra i popoli e, per taluni effetti, lesivi della dignità dell'uomo. Nel campo della morale, si oppose fermamente all'aborto e
confermò l'approccio tradizionale della Chiesa sulla sessualità umana, sul
celibato dei preti, sul sacerdozio femminile.
Tante le battaglie intraprese e le parole di conforto e di speranza portate nei
suoi oltre 100 viaggi in tutto il mondo. Aveva un’esigenza Giovanni Paolo:
quella di comunicare e arrivare in fretta al cuore di tutta la gente, infatti conosceva e parlava 11 idiomidiversi: polacco, slovacco, russo, italiano, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, ucraino e inglese, oltre ad un'o ttima
conoscenza del latino ecclesiastico. Primo papa non italiano dopo 455 anni,
cioè dai tempi dell'o landese Adriano VI (1522 - 1523), è statoinoltre il primo pontefice polacco, ed il suo è stato il terzo pontificato più lungo nella
storia.
Morì il 2 aprile 2005 dopo lunghi anni di sofferenze e malattie. A seguito
del processo di canonizzazione, ancora in corso, gli è stato conferito il titolo
di servo di Dio il 2 aprile 2007 ed è stato proclamato venerabile il 19 dicembre 2009.
La cultura dell'eccesso
L
'esagerazione, alla lunga, porta all'indifferenza Dalla tv questa cattiva abitudine si è estesa alla vita sociale. Dove invece servirebbe più misura e sobrietà
Scriveva Otto von Bismarck, cancelliere tedesco: «Nella vita non si mente tanto quanto lo si fa dopo una battuta di caccia,
durante una guerra o prima delle elezioni politiche». Premetto che qualsiasi riferimento,in questa citazione, a fatti o persone reali e attuali è puramente casuale.
In realtà le parole sopracitate di Otto von Bismarck (1816-1898) non fanno che codificare una sorta di legge generale non
scritta che regola da sempre il comportamento umano. Stiamo, però, al tema generale della menzogna, considerandola sotto l’aspetto particolare suggerito dal famoso uomo politico tedesco, ossia quello dell’eccesso, dell’esagerazione, dell’enfasi. Certo, oggigiorno a condizionare la comunicazione è stata certamente la televisione che ha preso la mano, usando negli
anni temi sempre più forti. Non c’è bisogno di esemplificare perché è sotto gli occhi di tutti l’esasperazione fittizia che
dallo schermo si è ramificata in ogni ambito della vita sociale. Freud affermava che «ogni eccesso reca in sé il germe della
propria auto-eliminazione». E questo è vero, perché a furia di esagerare si resta vaccinati e si diventa indifferenti. Ma anche questo è un danno arrecato all’animo umano. Insomma, a forza di vedere certi spettacoli e
di sentire certe dichiarazioni si mitizza la violenza, la mancanza di rispetto e della parola e
perciò la falsità, per raggiungere i propri scopi,
diviene una virtù anziché un grave difetto.
La coscienza non ha più fremiti di ribrezzo e
questo ci fa avviare verso il pendio della superficialità o indifferenza, che è una delle piaghe
del nostro tempo. È, allora, necessario un sussulto che ci faccia ritornare, da un lato, alla sobrietà, alla misura, e d’altro lato alla moralità e
alla capacità di giudizio. E allora qualche volta
di più scegliamo quella che Orazio nelle sue Odi
chiamava nuda veritas.
8
Quel muoversi verso l'ignoto alla ricerca di una stabilità
I
l pellegrinaggio è uno dei fenomeni
antropologici più antichi e diffusi, caratterizzato da una dimensione paradossale: il pellegrino lascia la propri a terra, la
propria cas a per and are v erso un
“altrove”, percepito come luogo in cui
poter ritrovare le prop rie radici. Si mette
in movimento cioè per ritrovare stabilità,
saldezza.
E questo in virtù di due elementi fondamentali e complementari propri al pellegrinaggio: da un lato il viaggio stesso,
l’essere in movimento, l’iter che si compie, dall’altro il luogo a cui si desidera
pervenire. Lo snodarsi del viaggio ha una
dimensione di esodo, di uscita dal proprio
mondo, di costante cambiamento di prospettive, di orizzonti, di panorami, un’inesauribile ricchezza di volti e paesaggi
nuovi, un’alternanza d el pensiero tra il
luogo noto e certo che si è lasciato e l’ignoto cui si va incontro e del quale si sa
solo che può offrirci nuova e duratura saldezza. La meta d el
pellegrinaggio deve dal canto suo essere chiara fin dalla partenza: “nessun vento infatti è favorevole alla nave ch e non sa a
quale porto vuole app rodare”, ammoniva già Sen eca. E questa
sua qualità di “meta”, di telos, di compimento, le viene proprio
dal poter offrire al pellegrino che le corre incontro quel clima
di anelito alla santità, quello “spazio sacro” di fronte al quale
ci si toglie i calzari del viandant e, quel “faccia a faccia” con la
verità che fa es clamare “Dio è là”.
Ogni pellegrinaggio non inizia mai con la partenza, bensì molto prima: con il pensarlo e il prepararlo, cioè con il chiedersi
perch é intraprend ere un pellegrinaggio e con la scelta della
meta. Infatti, anche quando risponde all’adempimento di un
voto o di un obbligo religioso, il pellegrinaggio ha sempre
motivazioni profondamente person ali. Cosa ci spinge a metterci in cammino nella modalità del pellegrinaggio? Forse il dolore che la situazione in cui ci si trova suscita in noi, il desiderio
di una novità che ridia dinamica alla nostra vita, la voce di
qualcosa o qualcuno che ci chiama, la curiosità di scoprire se
le nostre radici hanno diramazioni insospettate. O ancora, in
una dimensione più interiore: l’insostenibilità di una vita della
quale si è smarrito il senso, l’intuizione di essere abitati da
dinamiche assopite, il richiamo di una voce amica o la scop erta che una voce fino ad allora indistinta si è fatta chiara, la
percezione di attingere linfa vitale da un humus sconosciuto.
Forse, per assurdo, il momento del pellegrinaggio in sé è quello del quale si riesce a dire meno, come quando si cerca di
cogliere il “present e”, schiacci ato tra passato e futuro. O me-
glio, quello che si dice è costantemente
intessuto di nostalgia e di attesa, di rimpianto per quanto ci sta alle spalle e di
timore per quanto ci attend e. Non sono
forse questi i sentimenti che hanno abitato
il popolo di Israele durante uno d ei viaggi
più famosi dell’antichità, quell’esodo che
è divenuto ben presto paradigma di ogni
“uscita” dalla schiavitù verso la libertà,
metafora di un ininterrotto viaggio interiore ch e attrav ersa l’aridità del des erto in
direzione di una terra “promessa”? Così,
nel nostro viaggio interiore, le soffocanti
sicurezze di un tempo diventano miraggi
che distolgono lo sguardo da possibilità
nuove, da spazi aperti ma esigenti. Ansia
dell’ignoto e nostalgia del già noto: è lo
struggimento per un’assen za che ferisce il
cuore con la sua presen za.
In viaggio come pellegrini e forestieri,
inoltre, si attraversa non solo lo spazio,
ma anche il tempo: si scopre la non contemporaneità delle diverse culture, si tocca con mano che, anche se il calend ario indica la stessa d ata, i tempi restano diversi, a volte inconciliabili: differenze di approccio alla realtà, di
costumi, di memoria storica, di tradizione. È in viaggio, prima
ancora di fissare anche solo provvisoriamente una nuova dimora, che sperimentiamo quella ch e i padri del deserto chi amavano la xeniteia, l’essere xenos, straniero, senza nessuna
protezione soci ale, in balìa di leggi e costumi propri di altri,
circondati da linguaggi e p aes aggi sconosciuti. E in questa
estraneità acquistano valore insospettabile anch e i rapporti con
i compagni di viaggio, che siano persone già conosciute con le
quali abbiamo deciso di intraprend ere il cammino, oppure pellegrini incontrati lungo la strada, là dove i nostri sentimenti
sono più disarmati e predisposti al dialogo e all’apertura.
Così anche la strada verso un “santuario”, un luogo “santo” nel
suo significato originario di “separato”, altro, diverso dal nostro quotidiano, è già preparazione a vivere in modo “altro” il
tempo e lo spazio. Non vi è nulla di magico nelle “città sante”,
niente che possa catturare od obbligare Dio, nessuna garanzia
di possesso privilegiato, ma una capacità di evocare un ev ento,
di richiamare l'uomo, di invitarlo a sollevare lo sguardo verso
l'alto, di indicargli, attraverso il luogo dell'evento, colui che
l'evento ha operato! Non a caso il pellegrinaggio rimane met afora della nostra stessa vita: un cammino aperto v erso un futuro altro.
ENZO BIANCHI
L'assistenza non ha valore a meno che non venga prodigata con piacere, quando si esercita per dare nell'occhio o per paura dell'opinione pubblica, è gravosa e avvilente. L'aiuto dispensato senza gioia non benefica né il
datore né il ricevente; invece scompaiono gli altri piaceri e le altre passioni se paragonati alla gioia che procura
il prendersi lietamente cura del proprio prossimo.
9
Hunger Games, il film dove morire è un gioco
I
n Italia arriverà l’1 maggio ma
negli Usa e in Gran Bretagna è già
diventato il «caso cinematografico
dell’anno», uno di quei fenomeni di
costume che entusiasmano i più giovani e preoccupano i genitori, gli educatori e persino i politici. Tutto esaurito
dunque nelle sale, merito anche della
massiccia campagna della Lionsgate
sui social network.
Tratto dall’omonimo best seller di
Suzanne Collins (il primo di una trilogia) che oltreoceano, da quando è uscito nel 2008, ha venduto 25 milioni di
copie di copie, Hunger Games è un
film su bambini che uccidono bambini. A dire il vero sono bambini nel
libro, mentre nel film diretto da Gary
Ross e realizzato con un budget di 90
milioni di dollari diventano per lo più
adolescenti, per attrarre maggior pubblico nelle sale. In Usa i ragazzini
sotto i 13 anni devono essere accompagnati dai genitori per vedere la pellicola, mentre in Inghilterra le madri
sono in rivolta per l’eccessiva brutalità
delle immagini.
Fatto è che, archiviate le saghe di Harry Potter e Twilight, eccone pronta un’altra (la seconda puntata,
Catching Fire, è attesa per il 2013) diventata il nuovo «culto»
giovanile nello spazio di un solo weekend. Ma questa volta il
gioco si fa decisamente più duro.
Ambientato in un’America post-apocalittica, distopica (ovvero
indesiderabile) e dittatoriale, il film racconta la disperata lotta per
la sopravvivenza dei giovani Katniss Everdeen (la neo diva Jennifer Lawrence) e Peeta Mellark (l’emergente Josh Hutcherson),
sorteggiati insieme ad altri 22 concorrenti (due per ognuno dei
dodici distretti oppressi e affamati da una Capitale sfarzosa e decadente) per partecipare a un crudele reality show trasmesso in
tutto il paese che vedrà la vittoria di un solo giocatore. Tutti gli
altri sono destinati al sacrificio della propria vita, per cause naturali o per mano degli avversari.
Il tema non è nuovo per il cinema (tra non molto arriverà anche
Big House di Matteo Garrone), ma con <+corsivo>Hunger Games<+tondo> il livello dell’asticella si alza. L’obiettivo, almeno
sulla carta, è chiaro: puntare il dito
contro la sottocultura televisiva che ha
trasformato la violenza in intrattenimento, il dolore degli altri in svago,
desensibilizzando il pubblico affamato
di emozioni sempre più scioccanti.
Con chiari riferimenti ai giochi gladiatori degli antichi Romani e al mito
greco del Minotauro, il film infatti
nella prima parte mostra con molta
efficacia la macchina dello spettacolo
che ruota intorno ai condannati a morte, costretti prima di iniziare il fatale
gioco a partecipare a insulsi talk show
e a sfilare su tappeti rossi con un look
curato da un personal stylist e che
molto può influire sulle simpatie del
pubblico. Se il concorrente piace, non
è escluso che qualche sponsor paghi
per un "aiutino" durante una gara comunque manipolata dai produttori al
fine di ottenere un successo più clamoroso.
Senza svelarvi il finale di questa prima
avventura, diciamo solo che i due
protagonisti proveranno a forzare le
regole del gioco nel tentativo di sottrarsi all’assurda logica di morte dello
show. Eppure questa condanna della ferocia dei media al dunque
lascia assai perplessi, soprattutto nella seconda parte della pellicola dove mancano lo sgomento e l’indignazione che ci si aspetterebbe di trovare.
Abbiamo visto il film in un cinema di Londra gremito di giovani
che anche durante le scene più violente non hanno mai smesso di
sgranocchiare pop corn, ridacchiare, parlottare. Brutto segno.
Significa forse che invece di immedesimarsi con le povere vittime costrette a massacrarsi tra loro, il pubblico reale è vicino a
quello del film, indifferente e sadico? Significa che starà un po’
di più dalla parte degli autori dello show, pronti a inventarsi sempre qualche nuova crudeltà, tanto per movimentare un po’ le cose? E che si divertirà davvero solo quando vedrà la protagonista
diventare carnefice? Se fosse così, sarebbe davvero un brutto
segnale.
Alessandra De Luca
Il rosario
I
l rosario (dal latino rosārium, "rosaio"; a partire dal XIII secolo acquisì il significato religioso indicante le preghiere che
formano come una "coron a", nell'accezione latina di corōna ovvero ghirlanda, di rose alla Madonna) è una preghiera devozionale e contemplativa a carattere litanico tipica del rito latino della Chiesa cattolica.
La Chiesa cattolica, per tradizione, ne attribuisce la nascita ad un'apparizione della Madonn a con la consegna del rosario a San
Domenico. Le sue origini sono tardomedievali: fu introdotto dall'ordine domenicano e diffuso, soprattutto dal Seicento, grazie
alla diffusione delle Confraternite del Santo Rosario, la prima delle quali risale al 1476.
Fu approvata, a nome del papa, dal cardinale Alessand ro Nanni Malatesta, legato pontificio e vescovo di Forlì. Non essendo
momento della liturgia della Chiesa cattolica, questa pratica ha subìto notevoli varianti nel corso dei secoli.
La preghiera consiste in cinque serie (chiamate "poste") di dieci Ave Maria unite alla meditazione dei "misteri" (eventi, momenti o episodi significativi) della vita di Cristo e di Maria.
Il nome indica la "corona di rose", con riferimento al fiore "mariano" per eccellenza, simbolo della stessa "Ave Maria".
La versione integrale della meditazion e preved e la contemplazione di tutti i venti misteri e
quindi la recita, tra l'altro, di duecento avemarie (p rima dell'aggiunta dei cinque "misteri
luminosi", nel 2002, si contavano quindici "poste" per complessive centocinquanta
"avemarie"). Il conto si tiene facendo scorrere tra le dita i grani della corona
10
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Reggio Emilia: quei manifesti “ senza testa”
Altre pubblicità demenziali
Campagna choc Cna,,
L
a situazione che stiamo vivendo nel nostro paese non è
certo delle più rosee tuttavia la Cna di Reggio Emilia ha
lanciato una campagn a “pubblicitaria” che mette in correlazione stretta la situazione economica con il crescere l’ aumento
del numero di suicidi.
Le immagini scelte per questa , che noi vorremmo definire,
manifesti senza testa, ritraggono una donna in punta di piedi
dinnanzi ad un baratro, nel chiaro intento di spiccare il “volo”
nel vuoto “ Credevo di volare, ma la mia banca mi ha tagliato
le ali, un’impresa senza credito è un’ impresa senza futuro”.
Altra lodevole immagine è quella di un uomo che si incammina
sui binari del treno che vanno verso l’ infinito e dice “ Credevo
di investire nella mia azienda ma lo stato mi ha investito dei
suoi mancati pagamenti” .
Le reazioni a questi manifesti “fatti senza testa” sono state molteplici, una fra tutte la lettera di due genitori di un piccolo imprenditore che a quel gesto estremo è già arrivato, nella sua
solitudine. Nel loro dolore per la perdita del figlio esprimono
indignazione e rabbia nei confronti di chi ha voluto choccare i
cittadini strumentalizzano un gesto che richiede pietà, sincera
partecip azione. La persona ch e ha “ideato ” e realizzato il manifesto, si continua a leggere nella lettera, e quanti l’hanno approvato non si sono posti alcun problema, hanno pensato a
“qualcosa di forte” non
rendendosi conto, per
mancan za assoluta di
sensibilità, e per profonda ignoranza, che
dietro ognuno di questi
gesti c’ è un travaglio
individuale che non
può essere ricondotto
semplicemente a un
solo motivo”.
L’ accus a dei genitori è
ferma: “hanno prodotto
qualcosa di osceno2 e
per osceno intendiamo
qualcosa che offende la
morale. Fu definito
osceno il poster di Oliviero Toscani dove un
prete e una suora si
baciav ano, ma questo
va ben oltre.
Prima Pagina
14
RENAULT
Lo spot in oggetto è quello
dove una ragazzina esce da
scuola e trova la madre ad
attenderla; nel salire in macchina, la giovane fa intravvedere un piccolo tatuaggio.
La “madre”, per tutta risposta
le fa ved ere il suo che h a nella schiena.
GIOCO D’AZZARDO
Una serie di pubblicità fatte
con vari tipi di gioco, online
oppure Gratta & Vinci ma con
la raccom andazion e di “gioca
il giusto”
… Il giusto per chi?
BENETTON
Papa Benedetto XVI bacia
sulla bocca l’imam del Cairo
e il presidente americano,
Barack Ob ama, dà un bacio al
suo omologo cinese Hu Jintao: sono alcune delle sei immagini della nuova campagna
shock di Benetton dal titolo
‘Unhatè (non odio)
CAROSELLO
M
a dove sono andati a finire gli studi grafici che confezionavano gli spot televisivi di Carosello, dove lo slogan era simpatico, piacevole da vedere?
Dove è and ato a finire il buon gusto della battuta sen za offendere l’ interlocutore o dire parole che offendo lìinteligenza di
chi ascolta?
E’ vero, ricordare Carosello con Paulista con Caballero e Carmensita, Joe Condor o Calimero con Mira lanza oppu re Pippo
l’ ipoppotamo dei pannolini Lines è un po’ retrò ma il buon
senso la faceva da p adrone … anche p erch é i bambini guardavano gli spot come un secondo tempo della TV dei ragazzi.
Stiamo parlando di altri tempi, è vero ma permetteteci di avere
un po’ rimpianti per quando si sorrideva nel guardare uno spot
e, caso mai, si
comprava il prodotto pubblicizzato solo per simpatia.
Oggi la pubblicità origina spesso
indignazione per
scarsità di buongusto e, soprattutto di buon senso
LA DEVOZIONE A MARIA
Maria, donna dei nostri giorni
Maria, donna dei nostri giorni, vieni ad abitare in mezzo a noi. Tu hai predetto che tutte le generazioni ti avrebbero chiamata beata. Ebbene, tra queste generazioni c'è anche la nostra, che vuole cantarti la
sua lode non solo per le cose grandi che il Signore ha fatto in te nel passato, ma anche per le mera viglie che
egli continua a operare in te nel presente.
Fa' che possiamo sentirti vicina ai nostri problemi. Non come
Signora che viene da lontano a sbrogliarceli con la potenza della sua grazia o con i soliti moduli stampati
una volta per sempre. Ma come una che, gli stessi problemi, li vive anche lei sulla sua pelle, e ne conosce
l'inedita drammaticità, e ne percepisce le sfumature del mutamento, e ne coglie l'alta quota di tribolazione.
Maria, donna dei nostri giorni, liberaci dal pericolo di pensare che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa siano
improponibili oggi per noi, figli di una civiltà che, dopo essersi proclamata postmoderna, postindustriale e postnonsoché, si qualifica anche come postcristiana!
Maria, donna dei nostri giorni, dandoti per nostra madre, Gesù ti ha costituita non solo conterranea, ma anche contemporanea
di tutti. Prigioniera nello stesso frammento di spazio e di tempo. Nessuno, perciò, può addebitarti distanze generazionali, né gli è lecito sospettare che tu non sia in grado di capire i drammi della nostra epoca.
Mettiti, allora, accanto a noi, e ascoltaci mentre ti confidiamo le ansie quotidiane che assillano la nostra vita moderna: lo
stipendio che non basta, la stanchezza da stress, l'incertezza del futuro, l'usura dei rapporti, l'instabilità degli affetti,
l'educazione difficile dei figli, l'incomunicabilità perfino con le persone più care, la frammentazione assurda del tempo,
il capogiro delle tentazioni, la tristezza delle cadute, la noia del peccato…
Facci sentire la tua rassicurante presenza, o coetanea dolcissima di tutti. E non ci sia mai un appello in cui risuoni
il nostro nome, nel quale, sotto la stessa lettera alfabetica, non risuoni anche il tuo, e non ti si oda rispondere:
'Presente!'. Come un'antica compagna di scuola".
«
Il racconto di Canzian: «Io, la fede e la malattia»
Non ho mai amato chi dà consigli. Però raccontare la mia esperien za, mettendo in gioco la mia popolarità, vorrei che segnalasse diverse possibilità di vita. Perché li vedo, i ragazzi di oggi: sono più fragili di noi, hanno tutto ma hanno perso
l’incanto di sorprendersi. Senza pretese volevo raccont are questa fortun a».
Red Canzian è il bassista dei Pooh, ma nel suo terzo libro in uscita oggi racconta altro: i genitori, la miseria, il dietro le quinte
del successo, la musica come ricerca di sé, la famiglia, la fede. I Pooh appaiono a pagina 98 e poi… basta. «Perché la nostra
storia si sa; e poi semmai dovremmo raccontarl a tutti insieme». Ho visto sessanta volte fiorire il calicanto, il libro di Canzian,
nasce dalla voglia di raccontarsi dietro le maschere: «Sono nato poco dopo l’alluvione, in una casa senza riscald amento. E la mia
vita non è soltanto ciò che di me va sul palco o in tv».
Però insiste molto, sulla voglia di andare oltre le "apparenze" del pop. Le danno tanto fastidio?
Non mi pesano. Però non mi riconosco in certe cose che ho fatto per il mestiere, né in taluni in atteggiamenti che per esso ho
dovuto condividere.
Alla sua infanzia dedica pagine e pagine: povertà materiale eppure ricchezza interiore, scrive.
Sì, è lì che ho imparato a vivere. Con le spalle grosse. Oggi quando sono coi miei figli vedo che li sorprendi solo con la tenerezza, a livello materiale sono rodati a tutto. E non mi pare una fortuna.
Ma suo padre e sua madre quanto hanno condiviso la musica, i Pooh, le famose maschere del successo?
Per mio padre era un gioco, mia madre aveva pau ra. Però non mi hanno ostacolato. E al dunque, mio padre mi disse «ok, vai,
raccogli quanto hai seminato».
Cita spesso Sant’Agostino, nel libro. Parlando di fede ma in modo pudico. Perché non esplicitarla?
Ho nella mia camera un Cristo del Seicento che ho restaurato io. Parlo di fede con Lui, da solo, in intimità. Non mi sembrava
corretto ostentare qualcosa ch e comunque c’è, ho dentro, mi dà risposte.
E quanto entra nella sua musica, nel suo mestiere?
Tanto. Il mondo toglie certezze, scrivere è un modo di ritrovarle: e non potrei farlo dimenticandomi di Dio. La musica per me è
ricerca, mai stata tecnica.
Ha fatto molto per i giovani, dal produttore alla Fondazione Q. Sente di avere fatto abbastanza?
Sono vent’anni che dedico alcuni giorni all’anno al progetto. Credo conti la qualità del tempo che si investe sulle cose. Come
produttore qualche rimpianto c’è: dovrei lavorare meno coi Pooh…
Perché nel libro ha messo nero su bianco cose molto delicate come l’attuale malattia di
sua madre o la fine del suo primo matrimonio?
Non avrei saputo non parlarne. Penso che anche piccol e vicende person ali, sofferte, possano
dare qualcos a. E volevo dire veramente chi sono.
Però non parla della fine. Dei Pooh, della vita… A sessant’anni ci si pensa?
Alla fine dei Pooh non credo, siamo stati superati dalla nostra stessa storia. La morte… A 25
anni ho avuto l’epatite virale, e dieci anni fa mi hanno tolto un melanoma, cosa che non sa
nessuno. Ci ho convissuto con l’idea della morte. Ma non ne ho paura.
Un’altra cosa non dice: che si chiama Bruno. Ecco, il Bruno dell’infanzia povera che
pensa del ricco Red?
Si sono riappacificati tanti anni fa. All’inizio non mi piaceva Red, mi imbarazzav a, era davvero una maschera. Poi ho capito che mi aiutava a esprimere tanto di me, e che in fondo sono la
stessa cosa. Anche se è dagli ultimi giorni di mio padre, che non sentivo nessuno ricordarsi del
mio vero nome.
15
Akram Toseef
17/giu
Amadei Antonella
04/giu
Anceschi Stefano
18/giu
Andrade Santos Antonio
Rubens 13/giu
Aracri Giuliana
26/giu
Arapi Elisabeta
06/giu
Arleoni Jacopo
15/giu
Arlotti Davide
02/giu
Badenchini Sofia
07/giu
Barilli Riccardo
01/giu
Baroni Silvia
23/giu
Bassoli Federico
06/giu
Bell Shivani Giovanna
02/giu
Bellei Matteo
01/giu
Berti Giulia
16/giu
Bolondi Aparecida
11/giu
Bompani Andrea
30/giu
Bondani Francesca
29/giu
Bonini Mariagiulia
20/giu
Bonini Mario Ricardo
18/giu
Bonomi Martina
11/giu
Brahasani Keizi
09/giu
Brogio Martino
25/giu
Buccheri Syria
01/giu
Burani Silvia
15/giu
Busana Luca
09/giu
Campani Federico
30/giu
Campani Marco
24/giu
Campari Xuan
17/giu
Cantiello Francesca
08/giu
Capiluppi Davide
08/giu
Caruso Chiara
23/giu
Caselli Cecilia
15/giu
Casoni Veronica
14/giu
Catellani Riccardo
14/giu
Cattani Francesco
29/giu
Cavazzoni Luca
16/giu
Celeste Jimmy Lorenzo 23/giu
Cepelli Emma
21/giu
Cersosimo Chiara
19/giu
Cervignani Lorenzo
26/giu
Chiari Alessandro
16/giu
Cigarini Ilaria
29/giu
Cilenti Valentina
20/giu
Cilloni Valentina
20/giu
Coppola Raffaele
05/giu
Corradini Gabriele
13/giu
Corradini Zini Luca
13/giu
Costi Federica
26/giu
Covezzi Paolo
29/giu
Crotti Priyanka
20/giu
D'Errico Veroni ca
12/giu
D'Orsi Matteo
06/giu
Dattoli-Codispoti Aurora 16/giu
De Tommaso Denyse
20/giu
Dougherty Sofia Francesca 12/giu
El Bihichi Salah
27/giu
Faccia Elia
28/giu
Faccia Gab riele
11/giu
Faggioli Elisa
19/giu
Ferrari Alessia
26/giu
Ferrari Cecilia
05/giu
Ferrari Consuelo
11/giu
Ferrari Giulia
11/giu
Tanti auguri a …
Vorremmo fa re tan auguri ai ragazzi
della nos tra pa rrocchia che nel mese di
Giugno compiranno gli anni
Ferrari Michael
03/giu
Ferrari Nat asha
02/giu
Ferretti Davide
02/giu
Figliola Davide
16/giu
Fontana Stefano
03/giu
Fontanili Erika
06/giu
Frances coni Caterina
04/giu
Froio Raffaella
18/giu
Galloni Simone
19/giu
Gashi Blerim
23/giu
Gazzotti Carlotta
21/giu
Gentile Alessio
28/giu
Gervasi Jessika
11/giu
Giancat erino Andrea
18/giu
Gilioli Greta
26/giu
Gilioli Paolo
28/giu
Giordani Federico
13/giu
Giordano Greta
30/giu
Giso Antonella
20/giu
Gobbi Giorgia
06/giu
Gordienko Katerin a
08/giu
Gorini Giulia
28/giu
Grassi Riccardo
17/giu
Grisendi Manuel
04/giu
Guion Manuel
17/giu
Gulczynska Malgorzata
Agnieszka
01/giu
Guzzi Alessandra
09/giu
Haskoj Nevada
13/giu
Holopainen Laura
11/giu
Incerti Fabio
20/giu
Incerti Federico
20/giu
Iori Alessandra
23/giu
Ivaldi Maddalena
30/giu
Kumi Benjamin
20/giu
Landini Leonardo
24/giu
Ligabue Laura
23/giu
Liu Yisha
25/giu
Lugari Christian
09/giu
Luise Linda
10/giu
Manfredini Gabri ele
11/giu
March etti Tebano Martina 26/giu
Margini Alessandro
22/giu
Marino Giovanna
23/giu
Marotta Maria Paola
11/giu
Marsal Oliveira Josiane 03/giu
Maruccio Valentina
14/giu
Mbaye Mame Diarra
29/giu
Menozzi Simone
17/giu
Mereanu Anastasia
18/giu
Messina Giorgia
29/giu
Miracola Calogero
03/giu
Montanari Davide
04/giu
Montaser Mohamed Abd
El Magid Abdelrahman 03/giu
Negri Andrea Takashi
09/giu
Neri Matteo
02/giu
Neri Sara
15/giu
Obeng Asante
28/giu
16
Onesti Federico
Orsi Francesca
Panizza Elena
Pasquali Mattia
Patti Cesare
Pelli Ruben
Pergetti Rossella
Petrovici Erick Vasile
Philip Gunarajah Minucia
Pilastri Giulia
Pinetti Emanuele
Poli Valentina
Raffaele Ilaria
Restuccia Paolo
Reyna Yaima
Ricco' Panciroli Chiara
Ristani Sofia
Rivetti Davide
Rivetti Michela
Rolla Martina
Rossi Sara
Ryzhkov Dmytro
Salati Pietro
Salsi Filippo
Santos De Sousa Juliana
Sarcone Francesco
Sassatelli Francesco
Scalabrini Mihai
Scarano Grazia
Scolari Damiano
Selimi Adela
Selimi Aldo
Semeraro Federico
Serenari Tommaso
Sergio Gianmario
Shametaj Enrik
Shametaj Pazait
Silipo Sara
Sinani Alesia
Skriabin Oleksandr
Sole Marta
Sorrentino Rosanna
Spaggiari Noemi
Spallanzani Anna
Starczewska Van essa
Storchi Nicole 10/giu
Stracquadaini Denise
Stracquadaini Ylenia
Tagliati Francesca
Tamagnini Francesca
Tawia Henry Kojo
Torres Loren zo Antonio
Torriero Diego
Toschi Arianna
Trombara Filippo
Tua Silvia
Varolli Massimiliano
Vezzani Luca
Zacch eo Nicolo'
Zanni Caterina
01/giu
10/giu
24/giu
29/giu
13/giu
09/giu
07/giu
16/giu
06/giu
16/giu
26/giu
04/giu
19/giu
23/giu
30/giu
19/giu
11/giu
17/giu
04/giu
17/giu
07/giu
10/giu
06/giu
07/giu
16/giu
30/giu
04/giu
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25/giu
14/giu
09/giu
09/giu
18/giu
26/giu
23/giu
11/giu
14/giu
30/giu
14/giu
23/giu
26/giu
11/giu
28/giu
20/giu
12/giu
28/giu
16/giu
07/giu
29/giu
27/giu
28/giu
19/giu
16/giu
12/giu
01/giu
18/giu
04/giu
12/giu
01/giu
Leggende di fiori, piante e montagne La leggenda delle rose
T
utti sanno che le vette delle
Dolomiti si tingono, al crepuscolo, di un bellissimo color
rosa: strano riflesso luminoso, che
dura pochi momenti e si spegne
quasi d’un tratto.
Alpenglühen lo chiamano i tedeschi, e i ladini Enrosadira.
Questa fugace apparizione di luce
rosata ha in ogni tempo eccitato la fantasia dei montanari; e
alla montagna dove essa è più bella e più viva i tedeschi
hanno dato il nome di giardino delle rose (Rosengarten).
Fra le rose abitava un popolo di Nani, sul quale regnava,
amato sovrano, re Laurino. Nell’interno del monte erano
scavati lunghi corridoi e grandi sale, che racchiudevano
tesori favolosi. Un giorno Laurino venne a sapere che un
re suo vicino aveva una figlia di mirabile bellezza, e decise
di domandarla in isposa. Tre Nani ambasciatori partirono
per chiedere la mano della principessa Similda. Arrivati che
furono al castello reale, il soldato di guardia alla porta, Vìtege, non voleva lasciarli passare: poi aprì con mala grazia
e disse ai suoi compagni: «E’ senza esempio la sfacciataggine di questi Nani: si considerano nostri pari. Se fossi il re,
li farei bastonare e mettere alla porta, questi ambasciatori
da ridere.»
Il re li accolse cortesemente, ma la principessa, interrogata,
respinse la proposta; e i tre piccoli ambasciatori lasciarono
il castello, rattristati d’essere costretti a portare un rifiuto al
loro sovrano.
Se ne rallegrò il cattivo Vìtege, e gridò loro parole di scherno. Ma i Nani, che eran pronti di lingua, risposero per le
rime: Vìtege, furioso, appena si fece buio li inseguì, li raggiunse in un bosco a mezza strada e uccise uno di loro. Gli
altri due fuggirono e corsero a raccontare l’accaduto a re
Laurino.
Il re dei Nani era anche un incantatore potente: con le sue
arti magiche riuscì a rapire Similda e a condurla nel cavo
della sua montagna. E per sette anni la tenne prigioniera,
senza che i famigliari di lei riuscissero ad avere alcuna notizia.
Passati sette anni il fratello di Similda scoprì il luogo dove
la bella principessa era rinchiusa. Subito voleva partire con
i suoi uomini per liberarla; ma Ildebrando, il vecchio guerriero, lo ammonì che re Laurino era un avversario troppo
forte perchè egli potesse vincerlo da solo; e, dietro suo consiglio, il principe decise di chiedere aiuto a Teodorico da
Verona, l’eroe famoso. Teodorico si dichiarò pronto ad
assumere l’impresa. Partirono accompagnati da Vìtege ed
altri guerrieri, e presto giunsero in vista della montagna
coperta di rose: pareva loro d’esser già molto vicini, ma
soltanto dopo lungo cammino arrivarono al filo di seta che
cingeva l’immenso roseto. Era mezzogiorno. Sotto il caldo
sole d’estate fiorivano le rose, meravigliosamente rosse e
profumate. Disse allora il forte Teodorico: «Contro chi devo combattere? Non vedo guerrieri, né mura, né difese:
vedo soltanto un filo di seta, che io non posso né voglio
violare. Vi propongo di mandare un messo a trattare con re
Laurino. »
17
Queste parole di pace irritarono Vìtege; violento, balzò
avanti, strappò il filo e calpestò le rose. Immediatamente,
fra i fiori schiantati e sfogliati, comparve un omettino armato da capo a piedi, che aveva sul capo una corona d’oro.
Era Laurino, il re dei Nani: brandiva una piccola lancia e si
volgeva minaccioso contro Vìtege. Tutti i cavalieri del giovane principe risero; solo non rise Ildebrando, che gridò a
Vìtege di guardarsi. Ma Vìtege disse allegramente: «Vieni,
vieni qui, nanerottolo, che io ti prenda per i piedi e ti sbatta
contro la roccia.»
Le cose però non andarono proprio come Vìtege credeva: i
due avversari lottarono e in breve Vìtege si trovò così a
mal partito che dovette chiamare in aiuto Teodorico. Teodorico accorse e Ildebrando gli gridò dietro: «Laurino ha
una cintura che gli dà la forza di dodici uomini; strappagliela e la vittoria sarà tua. »
Teodorico seguì il buon consiglio e in un momento ebbe
vinto il Nano. Allora si avanzò il fratello di Similda e domandò conto della principessa.
«Similda sta nella mia montagna – rispose Laurino – Ha
grandi sale per abitare e dame per servirla; nessun male le è
stato fatto, siatene sicuro. »
«Conducimi da lei e mettila immediatamente in libertà, gridò il cavaliere - se non vuoi che ti tagli la testa.»
Ma Teodorico, l’eroe, non tollerò che si parlasse così duramente al piccolo Laurino, e ne fece rimprovero a Vìtege e
al giovane principe. I cavalieri presero parte chi per Vìtege
e chi per Teodorico e vennero alle mani fra di loro.
Allora si aprì nella roccia una porta, che nessuno prima di
quel momento aveva veduta, e ne uscì Similda, seguita
dalla schiera delle sue donne. La principessa si rallegrò di
rivedere il fratello, e ringraziò lui e i compagni di averla
liberata; ma aggiunse che Laurino era buono e leale, che
l’aveva sempre onorata come una regina: ora essi dovevano stringere amicizia con lui e non più combatterlo né essergli ostili.
Piacquero queste parole al forte Teodorico; porse la mano
a Laurino e impose agli altri guerrieri di seguire il suo
esempio. Tutti lo fecero, ad eccezione di Vìtege, il quale
salutò bruscamente e si allontanò adirato.
(Continua a pagina 18)
(Continua da pagina 17)
Re Laurino disse: «Ora
che siamo amici, entrate
nella mia montagna;
voglio mostrarvi i miei
tesori e darvi ospitalità.»
I cavalieri accettarono
volentieri l’invito cortese e seguirono Laurino
nell’interno del monte.
Ai loro occhi stupiti
apparvero mirabili cose:
il regno dei Nani conteneva tesori inestimabili
e opere d’arte di molto
pregio. In una grande
sala una tavola ricchissima era preparata per gli
ospiti, e i Nani con canti e con danze rallegrarono il convito. Così passarono lietamente le ore fino a notte. Allora re
Laurino fece togliere le mense e condusse gli ospiti a riposare; e in breve tutto il regno dei Nani fu addormentato.
Ma la mezzanotte era appena scoccata quando un Nano
corse ad avvertire il re che Vìtege, con una schiera di armati, saliva cautamente fra le rose, per tentar di sorprendere i
Nani nel sonno. Seguito dai suoi, re Laurino si slanciò fuori
dalla sua dimora sotterranea, e dopo una breve violenta
lotta Vìtege e i suoi furono ricacciati giù per la montagna. I
Nani, vincitori, ripresero la via di casa, non pensando ad
altro che a riprendere il sonno interrotto.
Ma intanto il vecchio Ildebrando, udito il rumore della battaglia, aveva destato i suoi gridando al tradimento. In men
che non si dica tutti furono armati e occuparono le porte.
Ora accadde che quando Laurino tornò dal combattimento,trovando i suoi ospiti desti ed in armi, credette che fra
essi e Vìtege vi fosse stata una perfida intesa, e assalì i cavalieri con amari rimproveri. Così si venne di nuovo alle
armi e la lotta questa volta fu terribile. A un cenno di Laurino, i Nani indossarono cappe che li rendevano invisibili, e
riuscirono così a vincere i loro più forti avversari. Li avvinsero con catene, li chiusero in un sotterraneo e tornarono a
dormire. Ma Teodorico, l’eroe, fu preso da tale furore che
dalla bocca gli uscirono fiamme. Con quel fuoco fuse le sue
catene, e una volta libero pote’ sciogliere i compagni dalle
loro.
Intanto Similda veniva in segreto alla prigione, portando
per ciascuno un anello magico, che rendeva nullo il potere
delle cappe; così che quando i Nani, assaliti d’improvviso,
ricorsero ad esse, sicuri di rendersi invisibili, furono ridotti
a mal partito dai guerrieri che, grazie agli anelli fatati, li
vedevano perfettamente.
Re Laurino, sentendosi perduto, mandò a chiamare in fretta
cinque Giganti, che abitavano sopra una montagna vicina, e che arrivarono in un momento in
aiuto dei loro minuscoli
amici. Si riaccese più
terribile la lotta: ma il
forte Teodorico e i suoi
compagni furono questa
volta vincitori e condussero via, prigioniero, re
Laurino. Lo chiusero in
una vecchia casa solitaria e gli diedero Vìtege
per custode.
Così Laurino aveva perduto il regno ed era ridotto nelle più misere
condizioni. Vìtege lo maltrattava, i soldati addetti alla sua
sorveglianza lo schernivano: spesso lo legavano con una
lunga corda a un palo e lo costringevano a cantare e ballare
per divertire gli uomini d’arme, che si ridevano di lui.
La dura prigionia di re Laurino durò molti anni. Una sera
d’inverno Vìtege e un altro soldato erano di guardia presso
l’infelice re dei Nani. Giocavano ai dadi sopra un tamburo e
bevevano grandi boccali di birra, senza darsi pensiero di
Laurino, che avevan legato al palo con una corda di cuoio.
Per scaldarsi avevano acceso un gran fuoco: e sia per la birra bevuta, sia per il buon tepore diffuso dalla fiamma, poco
prima dell’alba si lasciarono pendere dal sonno. Laurino
allora si accostò al focolare; e tenne sulla cenere ardente la
corda di cuoio finché non fu consumata. Liberato dai legami, fuggì dalla prigione senza esser visto da nessuno. Dopo
lungo cammino giunse fra le sue montagne. Ma quando, a
una svolta della valle, gli apparve il bel giardino di rose,
rosso splendente al di sopra dei boschi, re Laurino disse:
«Son le rose che mi hanno tradito. Se gli uomini non le
avessero viste, non avrebbero mai scoperto il mio regno.»
E per renderlo invisibile, Laurino trasformò in pietra tutto il
roseto e fece un incantesimo, che le rose non potessero vedersi né di giorno né di notte.
Ma nell’incantesimo il re Nano aveva dimenticato il crepuscolo, che non è giorno e non è notte: così ogni sera, dopo il
tramonto si rivedono le rose rosse del giardino incantato.
Allora gli abitanti della montagna escono dalle capanne e
guardano e ammirano, e, per un attimo solo, nelle loro menti inconsapevoli sorge una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli uomini non si odiavano né si uccidevano e tutte le cose erano più belle e più buone.
E quando il Rosengarten si spegne e le sue punte di pietra
ridiventano chiare e fredde, gli uomini rientrano in silenzio,
presi da indefinita tristezza, nelle loro capanne fumose.
ANSELMO PARK 2012
NON MANCARE
18
Storia di Rocco che voleva solo essere ricco e immortale
stallani, facendogli credere ch e con
quella macchina avrebb e sicuram ente
rimorchiato. Rivendette poi lo stesso
telefonino allo stesso Fistallani convincendolo che già la Duna era una macchina così così, ma senza un telefonino
sarebb e stata prop rio una macchina di
merda. Il bambino agiato Fistallani pensò che Rocco fosse una persona molto
profonda, lo ringraziò del consiglio e
ricomprò il suo telefonino per appena
250 euro.
Nei mesi successivi Rocco eseguiva i
tagliandi alla Duna di Fistallani facendosi pagare 300 euro ogni volta.
Rocco era anch e l’assicu ratore di Fistallani: la Duna fu assicu rata p er un valore
di 58.000 euro, e con scadenza trimestrale Fistallani pagava
856 euro di polizza che lo garantiva da rc, furti e incendi. Al
secondo anno d’asilo scadde il leasing e Fistallani pagò a
Rocco 1250 euro per il riscatto.
Infine vendette il bigliettino «Ti vorremo bene per sempre,
mamma e papà» a Preda, l’orfano della classe.
Preda gli era simpatico e si fece dare solo 20 euro. Ogni sei
mesi procurav a a Preda bigliettini di quel tono facendogli
cred ere ch e i suoi genitori non erano morti, ma immigrati nelle
Filippine per cercare lavo ro, e non possedendo più una cas a in
Italia scrivev ano a Rocco quei biglietti. Tutte le volte Rocco si
faceva dare da Preda 20 euro, dicendo che erano per le spese
postali. Preda leggeva i bigliettini che invariabilmente dicevano la stessa frase («Ti vorremo bene per sempre») e piangeva
commosso. Tramite Rocco, l’affetto dei genitori di Preda non
venne mai meno.
Dopo tre anni d’asilo Rocco av eva un discreto conto in banca.
Le suore, con i soldi delle mance potev ano permettersi le calze di seta. Fistallani aveva messo sul lastrico i suoi genitori.
Cosa se ne facesse di tutti quei soldi Rocco, lo scopriremo un
paio di decenni più avanti quando il nostro acquistò dei terreni
destinati al pascolo e ci costruì un centro residenziale. Il primo acquirente fu Fistallani. Preda divenne l’amico più fedele
di Rocco.
Passarono gli anni e Rocco diventò veramente ricco. Ebbe una
vita molto divertente e piena di soddisfazioni. Con i suoi amici del cuore, Preda e Fistallani, condivideva le passioni calcistiche, il sarto a Londra e la stessa donna: a Fistallani toccava
il conto del gioielliere, a Preda le lettere infuocate d’amore e a
Rocco non rimaneva che portarsel a a letto:qualcuno doveva
pur farlo.
Insieme investirono in borsa, specularono sui derivati, fondarono società offshore, pilotarono il mercato dei cereali, investirono nel settore delle discariche, dell’energia eolica e nelle
automobili a motori ibridi.
Avevano partecip azioni importanti in società ch e si occupav ano di agricoltura biologica, nei settori degli infestanti chimici
e della ricerca farmacologia. Mettevano i soldi in Svizzera, poi
li spostavano alle Bahamas e poi di nuovo in Svizzera, transitavano per qualche ora a Dubai, per poi tornare in un’isola
caraibica.
Fistallani non si ricordava mai dove aveva il conto corrente e
finiva sempre per farsi prestare i soldi da Rocco.
Un giorno i tre amici fondarono un partito, solo perché Preda
voleva diventare sindaco del suo paese. Fu eletto con il 97%
dei consensi perch é in campagn a elettorale promise l’abolizio-
Che gusto c'è ad avere i soldi se tutti
cercano di portarteli via?
Perfino Dio è invidioso di te e ti vuole
far morire...
Questa è la storia di Rocco. Rocco aveva un solo desiderio: essere ricco. Dopo
aver desiderato di essere ricco, pensò
che dovev a essere an che immortale,
perch é la ricch ezza è talment e bella che
tutti cercano di portartela via: moglie,
figli, parenti, amici, nemici, poveri,
ministero delle finanze, banche,
galleristi e venditori di auto e di orologi…
Tutti sono invidiosi dei tuoi soldi, persino Dio è invidioso e per questo vuole
farti morire. E allora come prot eggere la tua ricchezza? Con le
azioni? Hedge fund? Investimenti immobiliari? Diamanti?
Fatturare a Reggio Emilia e avere la residenza fiscale a Montecarlo? No, fregandoli tutti e diventando immortale. Ma come
si diventa ricchi e dove la si trova l’immortalità?
Rocco manifestò queste tend enze e desideri fin da bambino: si
racconta che all’asilo nido desse la mancia alle suore tutte le
volte che gli veniva cambiato il pannolino. Dove si procurasse
i soldi per le mance è tuttora coperto dal segreto istruttorio.
Ma dove procurarsi l’immortalità?
Questa lacerante domand a accomp agnò Rocco nei suoi primissimi anni di vita, finché finalmente, dopo un episodio febbrile
acuto che gli procurò le convulsioni, ebbe un’intuizione geniale e decise di chiederla, l’immortalità a Babbo Natale. A tre
anni, scrivendogli la sua prima letterina, si potevano leggere le
seguenti sconcert anti parole: «Egregio Dottor Natale, sarebbe
bello se il giorno di Natale mi svegliassi e sotto l’albero trovassi un bel sacco di monete d’oro in valuta pregiata e una
Hummer color mimetizzato. Si risparmi puzzle, peluche e
marchingegni elettronici, mi faccia trovare invece un attestato
di Immortalità e le assicuro che non rivelerò ai bimbi del quartiere la sua vera identità».
Quel Natale il papà e la mamma di Rocco gli fecero trovare
sotto l’albero tre pacchettini: il primo conteneva 25 euro in
monete di cioccolato, il secondo una macchinina Fiat Duna
color giallo ocra, e il terzo, non sapendo dove procurarsi una
certificazione di Immortalità, conteneva una letterina con su
scritto: «Ti vorremo bene per sempre. Firmato Mamma e Papà».
Il bambino che voleva diventare ricco dopo le vacanze di Natale si recò all’asilo portando con sé i pacchettini dei regali e
diede inizio alla sua fortun a colossale: iniziò con lo scambiare
due monete di cioccolato contro una moneta da un euro. Perché lui a tre
anni non amava il cioccolato, ma il sapore del
den aro
lo
mandava in
sollucchero.
Scambiò
la
Duna con un
iPhone
del
bambino più
agiato dell’asilo, tale Fi19
ne delle tasse e la costruzione di un asilo per orfani. Rocco
divenne assessore alla finan za local e. Un giudice indagò sulle
attività del suo assessorato e Rocco venne condannato a cinque anni di carcere per corruzione.
Non appena il giudice ebbe pronunciato la sentenza, Rocco
stappò bottiglie di champagne con gli amici, invitò la cittadinanza ai festeggiamenti ch e si prolungarono per settimane con
canti, balli, fuochi d’artificio ed esibizione nella piazza comunale delle Spice Girls offert a da Fistallani. Nel comizio conclusivo Rocco lanciò la proposta di riforma dell’elenco dei
reati che prev edev a l’abolizione di: concussione, falso in
bilancio, ricettazione, riciclaggio, aggiotaggio.
Era convinto che la gente av esse bisogno di una giustizia semplice ed efficace. Non a caso un disegno di legge del suo partito prevedeva la riforma dell’elenco dei reati con una drastica
riduzione del numero degli stessi. Massimo due: pornografia
minorile e vilipendio alla bandiera. In questo modo sarebbe
stato più semplice riconoscere le person e oneste dai delinquenti. I giudici avrebbero beneficiato di uno sgravio
notevole di lavoro e finalmente i pro cessi sarebb ero potuti
terminare in tempi brevi.
Prima che la giustizia del suo paese fosse riformata, Rocco
morì. Era gennaio, la gente si ammalava di influenza, ma Rocco che si sentiva immortale non faceva il vaccino antinfluenzale, anzi ai primi starnuti si metteva a torso nudo con Preda e
Fistallani sul balcone e fischiava alle ragazze che passav ano.
Una polmonite se lo portò via una mattina. Rocco capì di
essere morto quando, stando in fila con un sacco di gente, vide
i genitori di Preda. Si vergognò e abbassò gli occhi, ma la
mamma di Preda si avvicinò e gli regalò una moneta di cioccolato.
Non osava guardare le persone negli occhi, temeva di incontrare i genitori di Fistallani che per causa su a erano morti poverissimi. Tutti avevano monete di cioccolato, e si accorse che
a distribuire tutto quel cioccolato era un signore vecchio e
calmissimo, ad ognuno dava una carezza sulla testa e una moneta di cioccolato. Pensò che dovesse essere Babbo Natale, ma
Babbo Natale era dietro di lui in coda che asp ettava la sua
moneta di cioccolato. In quell’androne enorme dove tutti stavano in fila Rocco riconobbe faccendieri, finanzieri, concussi,
zoccol e, cassintegrati, orfani.
Amarament e si rese conto di essere morto e p ensando alla sua
vita ebbe un attimo di terrore perch é ora lo attendeva l’inferno. Infatti vide una porta proprio con la scritta che temeva:
Inferno. Si avvicinò, esitò qualche istante e poi si fece coraggio ed entrò. Con stupore vide che l’inferno era vuoto.
Si sentì battere dolcemente sulla spalla, si girò: erano i suoi
genitori, erano raggi anti di felicità, lo abbracciarono egli sussurrarono: «Ti abbiamo sempre voluto
bene», poi gli offrirono un biglietto di
cioccolato da 500
euro. Rocco per la
prima volta nella sua
vita assaggiò il cioccolato e dopo un morso disse:
«Uhm non male, conoscete per caso l’amministratore delegato?».
GIACOMO
PORETTI
I compari del calcio
Chiunque di noi sparasse fumogeni in una via del centro sarebbe circondato dai passanti e arrestato. Allo
stadio rimane impunito e diventa un personaggio». Era l’incipit di un Buongiorno datato 14 aprile 2005.
Sette anni fa. In Italia i problemi non si risolvono mai. Invecchiano come il buon vino in botti di rovere,
però a differenza del buon vino non diventano barolo ma aceto, lasciando in bocca il sapore acidulo della
resa.
La gogna di Genova è l’ultima vergogna.
Giocatori che infischiandosen e del pubblico perbene si tolgono la maglia sotto la minaccia dei violenti,
riconoscendo loro uno status di tifosi «più tifosi degli altri»
che essi rivendicano ma che non meritano.
L’incredibile Sculli che abbraccia uno di questi tipacci e gli
parla all’orecchio, da compare a compare. Sculli
che andrebbe squalificato a vita solo per questo. Tranquilli,
non succederà. Non succede mai nulla. Solo
retorica a vagonate. Troppi dirigenti del calcio sono pavidi e
mediocri, farebb ero fallire qualunque societ à
«normale» di cui per disgrazia diventassero i manager. Quanto
ai reggitori della Federcalcio e della Leg a
appaiono come funzionari grigi del potere politico ed economico. Di loro non si ricorda un gesto, uno
slancio vitale. Incapaci persino di proporre riform e ovvie come il campionato a 16 squadre e l’introduzione
dei playoff, che fra un po’ sarà la tv a pretendere perch é le
troppe partite fra brocchi hanno nauseato il
pubblico (tranne quello degli scommettitori). Tutti in prima
fila nell’indignarsi e nell’auspicare, ma alla fine
gli ultrà resteranno dove sono, a bordo campo, liberi di lanciare fumogeni e bombe carta, mentre a me e voi
gli steward dello stadio continueranno a sequestrare il tappo
dell’acqu a minerale.
Si aspettava la risposta dura delle istituzioni. Eccola: due giornate di squalifica al campo del Genoa. Più che
altro un regalo al presidente Preziosi: gli hanno risolto il problema fino al termine del campionato. Poi si
vedrà. Intanto il testone pelato che a Marassi sbraitava a favore di telecamera mica è stato arrestato,
nonostante fosse in flagranza di reato. E neppure i cinquanta
scalmanati che hanno preso in ostaggio
migliaia di spettatori normali. Quando la smetteranno i questori, per non avere grane, di lasciar circolare a
piede libero dei teppisti conosciuti nome per nome?
Il sospetto che i giocatori si vendano la partita o pezzi di essa,
scommettendo sul numero dei gol o dei calci
d’angolo, si è trasformato in uno splendido pretesto per scatenare la furia vendicatrice degli ultrà, smaniosi
di ergersi a grandi sacerdoti della religione tifosa. Fra questi
giovanotti col fisico da buttafuori ci sono
fanatici in buona fede, seriamente convinti di incarnare i valori del «Gladiatore», onore e dignità. La
retorica del dodicesimo uomo in campo, colpevolmente alimentata da noi giornalisti, ha contribuito ad
accrescere la loro convinzione di essere i custodi supremi della Purezza della Maglia. Un feticcio che va
onorato ogni maledetta domenica con qualsiasi mezzo, compresi la minaccia e la violenza.
Accanto a questi templari del pallone, talmente compresi nella
loro missione salvifica da avere ormai
espulso dalle curve le armi benedette dello sberleffo e dell’ironia, si muovono personaggi ancora più
20 torbidi. Razzisti, nazifascisti e autentici malviventi che si mescolano ai perdigiorno che nel tifo organizzato
hanno trovato una professione ben remunerata. Pascolano intorno al campo di allenamento, fanno parte
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Quando spunta l'anima di un bambino
Viaggio tra dubbi ed emozioni
di un papà che vuole aiutare
i figli a crescere
ppena nacque nostro figlio,
venne a trovarci in ospedale
un carissimo amico, mio e di mia
moglie, un vecchio sacerdote che
qualche anno prima ci aveva sposati: padre Bruno.
Non seppe resistere alla tentazione,
e come tutti gli anziani che si trovano davanti a un neonato, cominciò
a sorridergli e a scherzare con la
voce, prima in falsetto, poi con un timbro baritonale, infine, imitando una papera, cercò di attirare l’attenzione di
quell’esserino che aveva solo qualche ora di vita. Tentò
anche di improvvisare il balletto dell’orso Baloo, ma dopo
un accenno di tiptap deve essersi detto che per un anziano
sacerdote di 82 anni, che solitamente impiegava la sua voce per tenere le omelie, per condurre cineforum, moderare
conferenze e dirigere un centro culturale (quella era la sua
molteplice attività), forse il tip-tap in una stanza di ospedale era un poco eccessivo. Ci guardò, guardò nostro figlio,
poi disse: «Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne
un’anima!». Salutandoci sorrise e uscì dalla stanza. Guardandolo andare via mi sembrava che ballasse il tip-tap e
che nemmeno Gene Kelly avesse la sua leggerezza.
Che cosa voleva dire «farne un’anima»? Io e mia moglie ci
scambiammo uno sguardo interrogativo. I nove meravigliosi mesi di laboriosa gravidanza, e tutte quelle ore faticose del parto, l’avevano sfinita: umanamente non le si
poteva chiedere nessuno sforzo in più in quel momento,
anche perché quei 3 kg e 750 gr di esserino ai nostri occhi
erano bellissimi e, benché le dimensioni prefigurassero un
avvenire da brevilineo, eravamo convinti che non mancassero di nulla. Mi turbava l’idea dell’anima, mi ripromisi di
dare un’occhiata su Wikipedia per saperne di più; in quel
momento entrò il medico per accertarsi delle condizioni di
mamma e figlio, e mentre annotava qualche dato sulla cartella clinica gli chiesi dopo quanti
giorni si sarebbe manifestata l’anima, se prima o dopo i
denti da latte, e se ce ne saremmo accorti da qualche prodromo tipo febbre o colichette. Lui prima mi fece sedere,
mi auscultò il polso, mi obbligò a inghiottire una pastiglia
e infine disse: «Deve essere stata un’esperienza un po’
scioccante per lei assistere al parto, chissà da quante ore
non riposa, e poi tenere fra le braccia il proprio figlio! Lo
mandiamo a casa a dormire, questo papà?».
In effetti prendere fra le braccia il proprio figlio era stata
un’esperienza terrorizzante, come salire dietro ad Alonso
sulla sua Ferrari mentre sta disputando il Gp del Nürburgring. Mi era sembrato di avere avuto in braccio la cosa
più fragile dell’universo, più fragile di una flûte di cristallo, di quelle che si rompono sempre quando le metti in
lavastoviglie; altro che un figlio, mi sembrava che stessi
cullando una bomba atomica: non mi muovevo, non respiravo, non contraevo un muscolo. In genere si riesce a resistere in quelle condizioni non più di un minuto e quaranta
secondi, e quando l’infermiera te lo toglie dalle mani facendolo roteare come un giocoliere tu speri di riabbraccia-
re tuo figlio il giorno in cui si laureerà.
Farne un’anima? Dopo la prima
ecografia che ci rivelò essere un
maschietto, ricordo che fantasticai
di farne un’avvocato, un architetto,
un laureato in scienze economiche;
un vincitore del Pallone d’oro con
la maglia dell’Inter, tutt’al più un
campione di tennis, uno skipper, un
produttore di vini nel Salento, uno
chef da 3 stelle Michelin! Farne un
anima!? Avrà senso nell’era della
potenza tecnologica più dispiegata ? Cosa te ne fai di
un’anima quando tra non molto potrai prenotare via Internet un drone telecomandato che te lo mandano a casa e ti
stira le camicie e ti svuota la lavastoviglie? Poi torni a casa
la sera e trovi il drone ridotto a ferraglia perché la tua colf
lo aveva scambiato per un ladro e preso a bastonate.
Me lo immagino il confronto con gli altri genitori: «Mio
figlio ha conseguito la maturità con il massimo dei voti al
Liceo San Carlo, ha il diploma di miglior centrocampista
offensivo conseguito quest’estate in uno stage a Rio de
Janeiro, parla inglese fluently grazie alla permanenza bimestrale nel college Nathaniel Winkle di Brixton nella
contea di Hampstead, e come hobby progetta applicazioni
per iPad. E suo figlio?».
«Stiamo cercando di fargli conseguire un’anima...». «...ma
cos’è? Un liceo sperimentale, o frequenta una comunità di
recupero per tossicodipendenti?».
E poi, un’anima come la si crea? Quanto incide una corretta alimentazione nel contribuire al progetto? E nel caso,
sarebbe meglio una dieta iperproteica o senza glutine, oppure povera di sodio? E gli amminoacidi ramificati, la carnetina, oltre ad aumentare la massa muscolare, potrebbero
far lievitare l’anima? L’anima è più sviluppata nei vegetariani o negli obesi? E quale attività sportiva predilige un’anima? Una disciplina aerobica o anaerobica? Mi spiego: è
più adatta per un’anima la maratona o il curling? oppure
sarebbe meglio lo sci da discesa con attrezzi curving o lo
snorkeling con pinne lunghe? E poi che giochi si regalano
a un bambino per agevolare il processo: pistole, frecce,
Gameboy o il puzzle del Libro tibetano dei morti? Ma soprattutto, a cosa serve un’anima? Nessuno più te la chiede;
quando ti fermano i carabinieri si accontentano di patente e
libretto; se acquisti su Internet, bastano carta di credito e
mail e il resto del mondo pretende e desidera solo account
e password! A pensarci bene, un’anima sembra la cosa più
antimoderna che possa esistere, più antica del treno a vapore, più vecchia del televisore a tubo catodico, più démodé
delle pattine da mettere in un salotto con la cera al pavimento; lontana come una foto in bianco e nero, bizzarra
come un ventaglio, eccentrica come uno smoking e inutile
come un papillon.
Telefonai a padre Bruno e chiesi: «Ma come si fa a fare
un’anima?». E lui rispose: «Cominci con il ringraziare».
«Chi?», domandai. «Il Padreterno che le ha donato un figlio e questa cose meravigliose che sono il mondo e la
vita». «E se non ci credessi, se fosse tutto un caso?». «E lei
A
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ringrazi il caso, che non ha faticato meno del Padreterno, benedica la circostanza, ma non si dimentichi mai di ringraziare». E poi aggiunse: «La seconda qualità dell’anima è la gentilezza, sia sempre gentile con tutti». «Anche con quelli sgarbati? Anche con quelli che ti fanno domande importune?». «Sì, sia sempre gentile e chieda: perché vuole saper proprio
questa cosa? Vedrà che cambierà domanda o starà in silenzio».
Padre Bruno mi congedò perché era affaticato, mentre io avrei avuto altre c ento domande da fargli a proposito dell’anima. «Le prometto che verrò a visitarla in sogno». Sorrisi della sua affermazione e dissi: «Ma non si disturbi, vengo io a
trovarla in sagrestia». La notte stessa ci lasciò perché, come lui amava dire, era arrivato il giorno dell’appuntamento con
la Persona più importante. Un giorno ero assorto nei miei pensieri, quando un tizio in maniera assolutamente sgarbata
mi rivolse la seguente domanda: «Perché ha parcheggiato la macchina in seconda fila?». Io misi in pratica il consiglio di
padre Bruno e gentilmente chiesi: «Perché vuole farmi proprio questa domanda?».
E lui: «Perché sono un vigile e questa è la sua bella contravvenzione, e mi ringrazi che oggi sono di buon umore, altrimenti gliela facevo rimuovere la sua bella macchinetta, ha capito?».
Ho ringraziato gentilmente. Ma poi guardando meglio mi accorsi che il vigile rideva, ma non solo era padre Bruno travestito. Lo stavo sognando! Mi abbracciò e chiese: «Allora come se la sta cavando con l’anima?».
«Mi applico ma non ci capisco niente. Ma, padre Bruno, l’anima è una cosa che esiste solo nelle canzoni, quasi sempre in
inglese...». «Si ricordi un’altra cosa: l’uomo supera infinitamente se stesso». E svanì come nella nebbia, anzi comein un
sogno. Al risveglio mi accolse il sorriso di mia moglie, e dopo essermi stiracchiato come un gatto le dissi: «Lo sai, amore, oggi sento che posso infinitamente superare me stesso». E lei rispose: «Come te la tiri!». Mi sa che ci vuole pratica per
fare un’anima!
P.G.
DAL BRASILE
Ci sentiamo molto importanti ad avere addirittura uno spazio tutto per noi sul blog!! Nel post di oggi, visto che la nostra storia a
Tapiramutá la conoscete già, proviamo a raccontarvi le nostre impressioni. Avevamo grandi aspettative per i giorni che avremmo trascorso qui: di don Paolo e dei suoi progetti a Fogliano se ne parla spesso ma ancora nessuno della nostra parrocchia avev a
avuto l’occasione di conoscerli da vicino. Prima dell’arrivo a Tapiramutá, però, oltre che curiose erav amo anche intimorite perché nei giorni di incontro a Ruy Barbosa gli altri preti continuavano a ripeterci: “Ah, ma dove andrete a finire!!”
Questo perché don Paolo, a differenza degli altri sacerdoti, ha scelto di vivere in uno dei quartieri più poveri della cittá, in una
casa come le altre, lasciando la piú confortevole casa parro cchi ale per ritiri coi giovani. Abbiamo avuto bisogno di qualche giorno di tempo per abituarci a questo stile di vita piú sobrio e capire la scelta di don Paolo. All’inizio ci sembrava una pazzia ma
poi ci é sembrata un’idea utile per entrare nella quotidianità della comunità e scoprirne meglio i meccanismi. A noi la vita in
Rua Boa Vista é servita per ricordarci che nessun a comodità é scontata e per lasciarci alla spalle i nostri metri di giudizio: ci
siamo rese conto alla svelta che é fuori luogo fare qualsiasi confronto con l’Italia.
Abbiamo cercato di osservare la realtà e parlare con piú gente possibile, per poter conoscere la realtà senza filtri, e ci siamo accorte che av evamo un po’ di stereotipi da togliere. Basta pensare alle fazende, per esempio: prima di arrivare ce le immaginavamo come perfette cas e coloniche circondate da enormi campi coltivati con cura; ma dopo aver perco rso chilometri e chilometri
su strade sterrate in compagnia di don Paolo abbiamo notato che la realtá é molto piú complicata. Ci sono fazende grandissime
totalmente abbandonate e lasciat e a se stesse, quando lí vicino abitano molte persone povere che potrebb ero lavorare quella terra. Abbiamo conosciuto famiglie di una comunità della campagna che vivono in case isolate, senza luce elettrica e spesso senza
acqua co rrent e. Nonostante questo, ci hanno colpito per la loro dignità e forza d’animo, in modo particolare le donne: sono loro
qui in Brasile a tenere in piedi la famiglia, e anche la chiesa. Nella maggior parte dei casi le leader sono donne, si occupano di
portare av anti la vita della comunità quando il prete non può essere presente. Risulta difficile infatti per don Paolo riuscire a dire
messa ogni settimana in tutte le comunità della parrocchia, che sono una trentina sparse in un territorio grande come la diocesi di
Reggio Emilia... E le strade per raggiungerl e non sono molto confortevoli!
Grazi e a don Paolo non abbiamo conosciuto solo dei luoghi ma anche delle persone in carne ed ossa, con cui scambiare quattro
chiacchiere (nonostante le grandi difficoltà della lingua). Aiutate dal fatto di essere le uniche straniere in tutta la cittá, siamo
state accolte fin dall’inizio come persone di famiglia e ci siamo subito sentite a nostro agio. Ci é sembrato che tutti avessero voglia di conoscerci e farsi conoscere: a pran zo e a cena eravamo sempre a casa di qualcuno curioso di vedere “as meninas italianas” e di farci assaggiare le specialità bahian e. In questi, seppur pochi, giorni grazie al carattere accogliente ed aperto del popolo
brasiliano abbiamo allacciato vari e relazioni ed al momento dei saluti il cuore si è stretto un po'´.
Abbiamo conosciuto diversi giovani che lavorano nelle attivitá della parrocchia e il loro impegno lascia senza parole. Questi
ragazzi, della nostra etá, si assumono grandi responsabilità per migliorare un ambiente che al momento offre poche prospettive
di crescita per il futuro. Don Paolo crede molto (e non si sbaglia) nella cultura come strumento di riscatto, per questo motivo ha
aperto per i giovani il progetto “Logos”: ogni sera nel salone parrocchial e un gruppo
di alcuni professori segue alcuni ragazzi nel perco rso di preparazione per il Vestibular, il test d’ingresso per l’università.
Questa è stata un’esperi enza molto importante che sicuramente ci rimarrá impressa a
lungo, speriamo di riuscire a trasmettere anch e solo un pochino di tutto quello che
abbiamo ricevuto, dalla comunità e da don Paolo, che ci ha accolto nella sua casa e ci
ha aiutato moltissimo ad ambientarci in una situazione nuova e ad entrare in contatto
diretto con la gente.
Agnese e Sara Prati
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Vorrei essere e morire da
clown:
Non è fuga dalla realtà,
ma l’immersione nel mondo dell’allegria,
della gioia che nasce quando uno vive
contento di sé, degli altri,
della vita e della morte…
… e in paradiso vorrei
arrivare
caval cando un asinello da circo,
con il naso rosso del clown…
Don Vittorio Chiari
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Lavoro e festa: disagio crescente
T
ra meno di un mese la Chiesa di Milano accoglierà circa eventuali genitori o nonni, a dare testimonianza che la ten un milione tra genitori e figli provenienti da tutto il mon- denza gen eral e in atto su “lavoro e festa” non ci convince e
do per l’In contro con Bened etto XVI su “La famiglia: il lavoro può essere contrast ata con mezzi leciti e opportuni.
e la festa”. Parteciperà anche un gruppo della nostra Diocesi, e L’invito a disertare i negozi aperti la domenica, rilanciadomenica 6 maggio – alle 16.15, nella parrocchia cittadina to anche dall’Azion e Cattolica diocesan a, è un modo concredell’Immacolat a Concezione - il Vescovo Adriano guiderà un to di farlo. Non basterà, certo, perché “così non fan tutti”,
incontro di preparazion e agli eventi clou del 2 e 3 giugno (si però è un segno importante.
veda a pagina 11).
Sulla riforma del lavoro in discussione nel Paese in queste
Non è davvero scontato, né superfluo, ferm arsi a riflettere sul settimane, poi, guardiamo al lascito del nuovo Beato Giusepsenso che la festa ed il lavoro stanno assumendo nella Società: pe Toniolo. C’è da scommetterci che il grande economioccorre parlarn e senza tabù ed ascoltare l’esperienza di altre sta cattolico avrebbe avuto da eccepire circa le norme che
famiglie, non solo nei grandi raduni come sarà l’In contro favoriscono una maggior licenziabilità: pare fond ato il timore
mondiale di Milano, ma prima di tutto intorno alla mensa do- che saranno presi di mira soprattutto i lavoratori con una cermestica, nelle nostre comunità parrocchi ali come sulle pagine ta età
del “nostro” settimanale.
anagrafica, chi costa di più e rende meno. La logica sottesa
La cultura stessa del lavoro e della fest a sta vorticosamente lascia l’amaro in bocca. Cosa vogliamo, per il
cambiando e pone alla nostra coscien za di uomini e donne di futuro di “lavoro e festa”? Persone od oggetti?
buona volontà, prima che di credenti, un’urgente questione
Edoardo Tincani
sociale ch e è ess enzialmente antropologica. Estremizzando i
termini del dibattito, e
attingendo dalla perdurante attualità di questa crisi
– che è comunque complessa e non consente di
i mm agin are so lu zi o ni
indolori - possiamo domandarci: ch e “lavo ro” è
quello di chi è di fatto
condannato a subire gli
effetti della precarietà dei
contratti o delle liberalizzazioni nel commercio,
costretto dal mercato a
lavorare di più per guadagnare quanto e forse meno
di prima? E che “festa”
può mai fare una famiglia
in cui c’è un giovane, magari laureato, che non riesce a trovare un’occupazione stabile e decentem ente retribuita, o in cui
i coniugi si ritrovano cassintegrati o, peggio,
“esodati”, cioè esclusi dal mondo del lavoro e
contemporaneamente anco ra lontani dal
“paradiso” pensionistico?
Anche le famiglie degli artigiani e delle pi cco- Orario S. Messe
le e medie imprese, fiore all’occhiello del tessuto produttivo locale, hanno l’acqua alla gola. Giorni feriali
È quanto ci hanno mostrato le discusse imma- Ore 07:00
recita delle Lodi
gini della campagna pubblicitaria che la Cna Ore 18:30
S. Messa
reggiana ha allestito nei giorni scorsi per protestare contro le restrizioni creditizie delle ban- Giorni festivi
che, i nuovi prelievi fiscali imposti dal governo Ore 09:00
S. Messa
ed i ritardi nei pag amenti vincolati al “Patto di Ore 11:00
S.
Messa
stabilità”.
Non spetta alla Chiesa indire manifestazioni
filo o anti governative. Ma è certo che molte Sabato
famiglie italiane, anche qu elle ch e presto inva- CONFESSIONI: Ore 9/10.15 -11.15/12.30 – 15.30/18.30
S. Messa a Villa Primula
deranno p acificamente la nostra capital e finan- Ore 10:30
S. Messa prefestiva
ziaria p er ricevere l’inco raggiam ento del Papa, Ore 18:30
vivono con il cuore gonfio per le afflizioni e
gli stress de l moment o presente . E allora
siamo tutti invitati, come figli prima che come
Avvisi della Parrocchia
S. Anselmo
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