LADOMENICA
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
NUMERO 449
DIREPUBBLICA
Nella sua casa newyorchese
la figlia Giovanna
apre l’album
dei ricordi
CULT
E racconta il papà scrittore
che tra due giorni
avrebbe compiuto
novant’anni
All’interno
La copertina
Quando l’artista
diventa guru
fissando le regole
della felicità
DARIO PAPPALARDO
ed ELENA STANCANELLI
Il libro
C’è una porta
insuperabile
per il mediocre
di Soseki
Mio
padreItalo
FRANCO MARCOALDI
Calvino
Straparlando
Sergio Zavoli
“Il mio sogno
dai Vitelloni
al Giro d’Italia”
GIOVANNA CALVINO DA BAMBINA CON IL PAPÀ
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
ANTONIO GNOLI
Il teatro
L’attualità
Amburgo tifa
per il Lampedusa
Football Club
ANDREA TARQUINI
Il documento
Le lettere infuocate
di Enrico VIII
ad Anna Bolena
NADIA FUSINI
ANTONIO MONDA
G
PAOLO MAURI
NEW YORK
iovanna Calvino vive da più di vent’anni negli Stati
Uniti, dopo aver trascorso la propria infanzia e adolescenza a Parigi. È una donna raffinata e spiritosa, e
ha arredato con un’eleganza sobria l’appartamento
su Central Park. Vi campeggia una stampa dell’Avana, città in cui il
padre Italo è nato e dove ha sposato la madre, Esther Singer, da tutti
detta Chichita. Nella grande libreria sono mescolati, senza ordine
apparente, libri di ogni genere: le traduzioni dei romanzi del padre,
molta letteratura inglese e i testi che sta leggendo in questi giorni: 10
Dicembredi George Saunders e La mia lottadi Karl Ove Knausgaard.
Dopo aver conseguito un Ph.D in letteratura comparata, ha insegnato a New York e oggi racconta che quegli anni di studio le hanno
consentito di imparare meglio la lingua paterna. A cominciare dalle
regole del congiuntivo che, scherza, ha di nuovo dimenticato.
(segue nelle pagine successive)
«I
o appartengo alla generazione che si è fatta più
sui poeti italiani che sui narratori… appartengo
a una letteratura italiana che ha la sua spina dorsale nella poesia più che nella prosa e negli scrittori che scrivono stando attenti a ogni parola, così come devono
stare attenti i poeti» raccontava Italo Calvino a Gaetano Rando in
una intervista dei primi anni Ottanta che ora si può leggere nel
volume mondadoriano curato da Luca Baranelli Sono nato in
America. Calvino pensava a Eugenio Montale e al primo Montale in particolare, avendo qualcosa da ridire sull’ultimo che, dopo
Satura, aveva scelto un linguaggio più colloquiale.
In un’altra occasione aveva detto: «Montale fin dalla mia adolescenza è stato il mio poeta e continua a esserlo».
(segue nelle pagine successive)
con articolo di EUGENIO SCALFARI
Da Pippo Delbono
Bobò e gli altri
una bella lezione
su cosa è la vita
ANNA BANDETTINI
L’arte
Il Museo
del mondo
L’epica lattaia
di Vermeer
MELANIA MAZZUCCO
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 30
La copertina
Italo Calvino
“C’è una bella foto:
io adolescente
malinconica,
lui con i basettoni
tipici di quegli anni”
Con la figlia
Giovanna
sfogliando
l’album
di famiglia
ANTONIO MONDA
(segue dalla copertina)
arla raramente del padre, al
quale assomiglia in maniera impressionante, ma ha
deciso di farlo per celebrarne il novantesimo anniversario della nascita e dopo
avermi mostrato uno scatto nel quale lo
scrittore la guarda con tenerezza. «È
una foto scattata quando ci siamo trasferiti a Roma», racconta mentre si siede sul pavimento, «siamo in mezzo ai
calcinacci, io in piena malinconia adolescenziale e lui con le basette lunghe,
tipiche di quell’epoca».
Qual è la prima immagine di suo padre che le viene in mente?
«Un suo autoritratto, in una lettera
che mi mandò quando avevo otto anni,
in cui lui è alle prese coi ferri cercando
di fare la calzamaglia».
E l’ultima?
«Chinato sul suo lavoro con la testa
tra le mani. Stava lavorando alle Lezioni americane ed era pochi mesi prima
dell’emorragia cerebrale che lo avrebbe ucciso».
Ha letto tutti i suoi libri?
«Quasi. E devo dire, con un certo sollievo, che mi piacciono molto. Ma per
esempio Il Visconte dimezzato non l’ho
letto tutto, anche se in pubblico faccio
finta di conoscerlo. Quando insegnavo
a Philadelphia mi era stato chiesto di fare una lezione proprio sul Visconte: ho
avuto un blocco e ho chiesto a un collega di sostituirmi per quel giorno, poi
non ho più ripreso in mano il libro».
Parlavate spesso di letteratura?
«Ricordo un’estate in Maremma insieme a mia madre: si erano appassionati alla scrittrice inglese Barbara Pym,
che avevano scoperto tramite Carlo
Fruttero. In seguito anch’io me ne innamorai».
Suo padre si è mai confrontato con
lei mentre scriveva?
«Quando avevo quindici anni mi
chiese se preferissi la leggerezza della
piuma o quella dell’uccello. Era una riflessione di Paul Valéry che riprese nelle Lezioni americane. La risposta giusta
è facile da intuire, ma ricordo che io non
riuscii a spiegarne il perché».
C’è una sua frase che le è rimasta
particolarmente impressa?
«Alle volte uno si crede incompleto
ed è soltanto giovane».
Ultimamente si è cimentata anche
lei nella scrittura.
«Ho scritto un libro per bambini intitolato La Strega dentro di me a quattro
mani con l’illustratrice Marina Sagona.
È una storia personale, anche se in chiave metaforica. Sentivo il peso del mio
cognome, ma ho trovato un escamotage scrivendola prima in inglese, lingua
nella quale mi sento più libera».
Come mai i romanzi di suo padre
non sono diventati film?
«Moltissimi anni fa Dino De Laurentiis comprò i diritti del Barone rampante per farne un film con Jean-Paul Belmondo: non se ne fece nulla, ma con
quei soldi i miei costruirono la casa in
Maremma. In seguito si interessò al romanzo Louis Malle, però mio padre
non diede seguito. Considerò anche
una collaborazione con Fellini. Ma in
fondo un romanzo riuscito è una cosa
P
Li ho letti
(ma non tutti)
i libri di papà
compiuta in sé: se l’adattamento non è
geniale si può fare a meno del film».
Sua madre Chichita ha una personalità straordinaria: che importanza
ha avuto nell’evoluzione artistica e
nella carriera di suo padre?
«Avevano un rapporto intellettuale
molto forte e lui diceva che mia madre
era i suoi occhi: lei guardava il mondo e
glielo raccontava. Va detto che senza
occhiali mio padre non ci vedeva molto… Mi dispiace che mia madre non abbia scritto le sue memorie: ha un tesoro
di ricordi di vicende e incontri con personaggi diversissimi, da Che Guevara a
Roland Barthes».
Che ricordo ha degli amici scrittori
di suo padre?
«Per esempio ricordo Mary McCarthy, una donna splendida che per
me rappresentava l’America. O anche
Octavio Paz con sua moglie Marie-José. E Sonia Orwell, la vedova di George,
che i miei amavano molto. E la traduttrice Aurora Bernardez, amica del cuore di mia madre, e prima moglie di Julio Cortazar. Lui alla mia nascita mi regalò una pecorella di peluche che ancora possiedo».
Ci sono alcune foto in cui lei gioca
con lui sotto gli occhi di sua madre.
«Ci troviamo nello studio di mio pa-
dre a Parigi, all’ultimo piano della nostra casa nel quartiere allora operaio
di Porte d’Orléans. Una casa stretta e
lunga, di quattro piani, come certe case inglesi».
In un’altra immagine è ritratto suo
nonno a caccia.
«Sì, in Somalia o Eritrea, e mi fa impressione per la quantità di animali che
ha ucciso. Mio nonno Mario era un
agronomo ed è stato colui che ha importato in Italia l’avocado e il pompelmo. In un'altra foto è ritratto con mia
nonna Eva, la prima donna in Italia ad
avere una cattedra di botanica».
Lei ora è diventata madre.
«Mia figlia ha già quattro anni, suo
padre è americano con origini nel Belize e Suriname. Fa il biologo. La maternità mi ha piuttosto rincitrullita, ma è la
più bella cosa del mondo».
Come mai ha scelto di vivere a New
York?
«Avevo l’idea che l’America mi
avrebbe salvato la vita, ed è stato proprio così».
Qual è la prima definizione che le
viene in mente, pensando a suo padre?
«Penso che lui abbia lavorato al fine
di non poter essere ridotto a una sola
definizione, e che ci sia riuscito».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 31
Il compagno di banco
Su quella panchina a discutere di Dio
EUGENIO SCALFARI
taloCalvino l’ho conosciuto nell’ottobre del 1938,
quando il professore di latino e italiano, un dotto
e severo sacerdote, chiamò l’appello degli alunni
della «prima C» del regio liceo G. Cassinis di Sanremo. Fummo destinati allo stesso banco e da allora,
per tre anni, vivemmo insieme a scuola e fuori. (...)
Ma l’immagine del Calvino grande scrittore, forse
il più grande degli scrittori italiani di questi anni, per
me è come giustapposta ed esterna rispetto al Calvino che ho avuto compagno. Aveva uno strano modo
d’incedere, camminava muovendo appena le braccia e le muoveva impacciato, quasi non sapesse dove
metterle e che cosa farne. aveva occhi dolci, gli occhi
di sua madre. Molto umorismo. La sua prima attività
creativa furono vignette e fumetti. Leggeva accanitamente il Bertoldo. Lo affascinava il teatro. I suoi primi lavori furono alcuni brevi racconti nei quali in filigrana si vedono già le Cosmicomiche. (...)
La sera andavamo in un fumoso caffè sul Corso,
con una sala di biliardo. Giocavamo interminabili
FOTO GENTILMENTE CONCESSE DALLA BIBLIOTECA “ITALO CALVINO” DI CASTIGLIONE DELLA PESCAIA
I
LE IMMAGINI E LA MOSTRA
Sopra, una lettera-autoritratto di Calvino alla figlia
Giovanna, classe 1965, quando aveva otto anni
Nella foto grande: lei adolescente a Roma col padre
Nelle piccole, da sinistra: “nonno” Mario Calvino nel ’28
a caccia in Africa; Italo bambino con la madre a Cuba;
Giovanna nel ’74 con i genitori a Parigi e in un’immagine
recente. Le foto e altri documenti saranno esposti
dal 25/10 al 31/1 presso la Biblioteca nazionale di Roma
nella mostra “Il lavoro editoriale di Italo Calvino”
partite alternandoci — eravamo un gruppo d’una
dozzina di amici per la pelle — e negli intervalli chi
non giocava faceva i compiti per sé e per gli altri. Dopo cena, sulle panchine della passeggiata Imperatrice, parlavamo dell’esistenza di dio, che bonariamente chiamavamo Filippo. Lui, figlio di liberi pensatori, in Filippo non ci credeva, ma non era del tutto
persuaso che proprio non esistesse. Voleva convincersene con la ragione, e giù, discussioni interminabili su Filippo, sulla sua assoluta improbabilità, sulla
sua inspiegabile (qualora fosse esistito) capricciosità. E tutte le domande che solitamente seguono a
problemi di quel genere e che, tra i sedici e i diciott’anni, tutti si sono posti, almeno all’epoca in cui
li avevamo noi: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché ci andiamo...
(Repubblica, 20 settembre1985
dall’articolo scritto in occasione della morte
dello scrittore, avvenuta il giorno prima)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LA FOTOGRAFIA
Sanremo, passeggiata Imperatrice, fine anni Trenta. Eugenio Scalfari (il primo da sinistra)
e Italo Calvino (il secondo da destra) insieme ad altri compagni della classe Prima C
del Liceo Cassinis: da sinistra Roero, Pigati, Dentone e, ultimo a destra, Donzella
Lo scrittore
Una ponderata leggerezza
PAOLO MAURI
(segue dalla copertina)
a dichiarazione è preziosa. E le affiancherei
subito quell’altra, che si trova in una lettera
aperta ad Anna Maria Ortese del 1967 in cui
Calvino dice di aver trovato in Galileo un maestro di
stile capace, quando parla della Luna, di raggiungere, oltre alla grande precisione, una «rarefazione lirica prodigiosa».
Non è strano dunque che oggi al nome di Calvino
venga quasi sempre associata una parola: quella
«leggerezza» cui dedicò una delle Lezioni americane
uscite postume e che fu anche una linea guida nella
sua ricerca di narratore. La leggerezza dello «scoiattolo della penna», secondo la celebre definizione di
Pavese, a proposito de Il sentiero dei nidi di ragno
quando narrando il vero della Resistenza si lasciava
tentare dal fiabesco, la leggerezza che consisteva nel
“togliere” e che lo portò a tanto ragionare intorno ai
suoi esordi che ancora a vent’anni di distanza gli faceva quasi desiderare di non avere scritto quel libro.
Calvino non ci ha dato il grande romanzo-cattedrale alla Thomas Mann, del resto lontano dalla tradizione italiana, ma ha scelto di muoversi — e con
grande libertà e intelligenza — ancora una volta con
strumenti più leggeri, ma non per questo meno lavorati e incisivi. Nel ’63, dopo un lungo silenzio (Il
cavaliere inesistente è del ’59) esce La giornata di
uno scrutatore. Lo scrittore ha quarant’anni. L’esperienza a cui si rifà il racconto, la partecipazione
come scrutatore nel seggio elettorale allestito presso il Cottolengo, casa di ricovero per persone spesso incapaci di intendere e volere, risale a dieci anni
prima, alle elezioni del ’53. Amerigo Ormea, alter
ego dello scrittore, è stato nominato dal Pci scrutatore, con il compito di osservare e se possibile contrastare gli abusi del partito di maggioranza che pilotava i voti dei degenti con la complicità delle monache. Notò Guido Piovene recensendo il libro sulla Stampa che si trattava di un romanzo-saggio,
«l’unica strada, a mio parere, sulla quale può incamminarsi un vero romanzo moderno».
L’oggettività era stata al centro di una lunga me-
L
ditazione di Calvino, ed era stata il rovello di un’epoca intera. Ma, come ricorda il bellissimo titolo di
una raccolta di saggi e interventi su letteratura e società, certi discorsi si fanno e rifanno per metterci
poi Una pietra sopra.
All’altezza del 1980 Calvino osservava: «Certo il
mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana, come
cancrena (o nelle sue apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure,
come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli». Da tempo Calvino
s’era inoltrato in esperienze letterarie che tenevano
conto dell’arte combinatoria e dell’infinita progettualità del Caso. Si era misurato con Il castello dei
destini incrociati a ridosso dei tarocchi e da poco
con le avventure di un lettore in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Era ormai postmoderno? Non
so, non saprei. Mi sembra che racchiudere un’esperienza così larga in una formuletta sia per lo meno poco proficuo. «Non chiedermi la parola…».
Non diceva proprio così Montale? E Calvino non
era, a un certo punto, andato a sedersi sulla Luna
per meglio osservare quello che succedeva ai terrestri? Palomar torna a Galileo e a Leopardi.
Lo scrittore che aveva cercato di raccontare la
realtà e che poi aveva dato spazio alle invenzioni
fantastiche per raccontarla ancora meglio, dall’alto degli alberi o da dentro la corazza del cavaliere
inesistente, ora aveva dotato il proprio laboratorio
anche di un potente telescopio. Grazie a quello intrecciava cosmicomiche e decifrava i profili di città
invisibili. E spesso, semplicemente guardava. Alla
fine anche senza telescopio, come quando mandò
a questo giornale un pezzo breve e mirabile sul volo degli storni nel cielo di Roma. La letteratura è ricerca e non bisogna porle dei limiti.
Oggi il novantenne Calvino non credo direbbe altrimenti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 32
L’attualità
Rivincite
1
2
Lampedusa G
Hamburg
Football Club
AMBURGO
ibri ha ventidue anni, da mezzala è il più temuto. Benkofi, ventiquattrenne,
è formidabile in difesa. Bright, sui venticinque, passa con disinvoltura da
fuoriclasse dal ruolo di centrocampista a quello di attaccante. Takyi Stephen
è l’allenatore che tutti ascoltano. È una squadra africana giovane, carica
d’ambizioni e voglia di vincere, l’avete capito. Meno consueto è il suo nome:
FC Lampedusa Hamburg. I giocatori sono tutti ragazzi fuggiti prima dai loro paesi in Africa
per scampare a persecuzioni politiche o religiose, poi dalla Libia dove nel dopo-Gheddafi
il Gastarbeiter nero era il nemico necessario, e infine da Lampedusa: 500 euro a testa pagati dall’Italia per spedirli a nord, fino in Germania. E adesso eccoli in campo contro gli avversari-amici del St.Pauli che concedono il loro campo per allenarsi.
Il Fussball Club Lampedusa Hamburg è una squadra ma anche un luogo. È l’antica chiesa di St.Pauli, quartiere di puttane e marinai che ricorda canzoni di Jacques Brel e che ha
una formazione nella massima divisione tedesca, con una tifoseria di estrema sinistra. In
mattoncini rossi, la chiesa è nascosta tra il grande Kindergarten cristiano e le ombre lunghe
e lontane di gru e dock del grande porto che rilancia attutite appena le sirene degli enormi
cargo dell’export made in Germany. Eccoci, un pezzo dei dolori e delle tragedie di Lampedusa è approdato qui.
Mi dice Affo Tchassei: «Noi siamo i sopravvissuti», e me lo dice col suo bel sorriso triste
pensando ai morti di Lampedusa mentre ce ne stiamo seduti al tavolo di un bistrò turco. Annuisce Takyi Stephen, l’allenatore: «Arrivammo in Europa, a Lampedusa, chi due e chi tre
anni fa. L’Italia diede a ognuno di noi 500 euro dicendo che non poteva più ospitarci, che
eravamo troppi, che altri ne stavano arrivando e che saremmo stati meglio al Nord. Così siamo finiti qua. Non scappiamo per soldi, fuggiamo da persecuzioni etniche, politiche e religiose, e ogni volta che uno di noi voleva fuggire sapeva di affidare la sua vita al Mediterraneo, al mare spietato». La tv turca diffonde il rock di Istanbul e i notiziari con la faccia di Er-
ANDREA TARQUINI
5
1. I TIFOSI
I tifosi dell’FC Lampedusa Hamburg (squadra al completo nella foto grande centrale)
Tra i sostenitori ci sono molti volontari della chiesa Sankt Pauli che ospita i rifugiati
2. IL TORNEO
Il Sankt Pauli, squadra della massima divisione tedesca, ha organizzato
un torneo per rifugiati, partecipando con una sua selezione di amatori
3. IL TRIONFO
L’FC Lampedusa Hamburg ha sconfitto nella finale proprio il Sankt Pauli
festeggiando al termine con grande entusiasmo. E perfino fuochi d’artificio
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 33
Sono ragazzi e sono africani. Hanno sconfitto il Sahara e il Mediterraneo. Sono stati sull’isola che ancora conta i morti
e ora dormono accampati in una chiesa nella più fredda tra le città della Germania. Ma sono vivi
E hanno avuto un’idea: sfidare l’Europa intera a pallone. Questa è la loro squadra
3
vani o delle famiglie con bimbi piccoli che padre Wilm e gli altri volontari stanno aiutando.
«Abbiamo saputo del massacro di Lampedusa dagli sms che ci hanno mandato i parenti che
stanno in America», racconta Affo e intorno al tavolo gli sguardi tornano cupi per la commozione. «Non volevamo crederci, abbiamo acceso la tv e ci siamo collegati a Internet per
saperne di più. Da quel giorno ogni nostra partita comincia con un minuto di silenzio, e gli
amici del St.Pauli fanno lo stesso. Da allora noi qui ad Amburgo siamo “quelli di Lampedusa”, non siamo più soltanto esuli ma sopravvissuti, quelli che possono mandare a casa soldi e notizie».
Il Ghana con cinque giocatori (Gibri, Benkofi, Mussah, Bright, Sopesi), poi il Mali con
Amadou e Kabore, poi il Niger con Mourtala. Gioco aggressivo e veloce. L’FC Lampedusa
Hamburg conquista sempre più simpatie tra i tifosi del St.Pauli, squadra proletaria e multietnica. L’inglese li salva come lingua comune. Herr Georgie, coach e volontario, tedesco,
li ha aiutati a organizzarsi. «I tifosi crescono, adesso alle nostre partite vengono in pullman
noleggiati anche da altre parti della Germania», dice Takyi Stephen : «Insieme agli amici del
St.Pauli, ai pastori della Chiesa, ai volontari cerchiamo di far capire con il pallone alla gente di qui che siamo persone capaci, con tanta voglia di fare». Dalla loro tenda della protesta,
a un passo alla stazione, ogni mercoledì i lampedusiani neri di Amburgo sfilano in corteo
contro «l’apartheid». Di questo oggi hanno paura. Il sindaco più che altro li ignora, tratta
con la Chiesa, mai con loro. «Dovrebbero fornire le loro generalità complete alle autorità
per chiedere asilo», afferma glaciale Marcel Schweitzer, portavoce del governo socialdemocratico di una delle più ricche città del mondo, come se servisse agli eredi di Brandt e
Schmidt cavalcare umori xenofobi. E allora forza Gibri, forza Benkofi, forza Amadou, pensi col groppo in gola vedendo come se la cava l’undici degli africani di Lampedusa in terra
tedesca. «Lo sport unisce la gente, ci si diverte insieme tifando per squadre opposte», mi dicono salutandomi i giovani africani. «All’Europa non vogliamo togliere nulla, vogliamo solo darle i nostri talenti».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FOTO DI MARIA FECK
dogan mentre ascolto il racconto dei lampedusani di Amburgo. Chi ad Amburgo ci è arrivato in treno, via Monaco, chi in aereo fino a Norimberga e poi in autobus. La chiesa di
St.Pauli è il loro rifugio. «Il pastore, Sieghard Wilm, ci ha subito offerto di dormire lì per salvarci dal gelo in arrivo. Prima di ogni funzione sgomberiamo da sotto la navata e dall’altare sacchi a pelo, ceste di biancheria e panni stesi ad asciugare», spiega Affo Tchassei. Il borgomastro, il socialdemocratico Olaf Scholz, ha vietato a padre Wilm di ospitare i profughi
in container nel giardino della chiesa, come il prete avrebbe voluto. Ancora Affo: «I documenti europei che ci hanno dato in Italia per il momento ci permettono di restare qui, ma
non di cercare un lavoro, avere assicurazione sanitaria o pensionistica, diritto alla scuola
per i nostri figli». È il volto orrendo, spietato, isterico della fortezza Europa. A cui qui ad Amburgo gli africani di Lampedusa reagiscono scommettendo sul calcio.
Sì, il calcio. «L’idea ci è venuta quattro mesi fa», racconta il mister. «Ci alleniamo ogni giorno, nel campo degli amici del St.Pauli o nel giardino della chiesa. Il calcio per noi africani è
una passione e il passaggio in Italia di certo non ci poteva fare guarire. Ci ha acceso nel cuore la voglia di mostrare ai tedeschi che non siamo pigri e passivi, venuti fin qui per mangiare col loro welfare». Gibri, il più giovane, sorride e supera la timidezza davanti al mio vecchio registratore. «Come molti della squadra vengo dal Ghana, e tutti abbiamo attraversato quel mare assassino. Non sai quanto possa riscaldarci il cuore giocare a calcio. E non sai,
scusa la presunzione, che cosa voglia dire sentirti nascere dentro il sogno di giocare un giorno in una squadra europea, come Asamoah. Tornare a casa per noi vorrebbe dire morte sicura». Sono umidi di lacrime gli occhi del giovane Gibri che narra il suo sogno. E tace quando il suo allenatore dice: «Questo ragazzo è stato scelto dagli amici della squadra del St.Pauli anche per addestrare la loro formazione. Sono grandiosi. La prima partita l’abbiamo vinta noi 5 a 4, e nello stadio stracolmo di tedeschi nessuno se l’è presa».
Gibri è fuggito dal Ghana. Anant Kofi Mark e Asuro Udo sono scampati ai massacri religiosi in Nigeria, altri compagni di squadra sono scappati dal Togo. Ogni giocatore del Fussball Club Lampedusa Hamburg ha alle spalle una storia simile a quella di ognuno dei gio-
4
6
4. IL CORTILE
Abdullah, uno dei rifugiati, si allena con un pallone all’esterno della chiesa
che ha accolto lui e i suoi compagni dopo tante traversie
5. LA MUSICA
Sullo sfondo Agyei si esercita con la tromba regalatagli dal pastore
e che suona durante le funzioni religiose della domenica
6. IL DORMITORIO
L’interno della chiesa di Sankt Pauli trasformata in dormitorio
per dare riparo, dallo scorso giugno, a un’ottantina di esuli africani
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 34
Il documento
Relazioni pericolose
“Sogno di trovarmi tra le braccia della mia amata, le cui graziose
mammelle presto vorrei poter baciare”. Le ardenti missive
del Re d’Inghilterra alla sua futura seconda
moglie (di sei) ora tradotte e raccolte in un libro
Per lei provocò lo scisma anglicano. Poi la mandò al patibolo
Il monarca ossessionato
da una donna differente
NADIA FUSINI
ei molti ritratti ufficiali di Holbein, Enrico VIII appare come un uomo grande, grosso e corpulento, ben
ritto sulle gambe aperte, sicuro di sé, aggressivo.
Sfoggia in aperta evidenza una forza virile e muscolosa che
tutta si condensa nella gonfia brachetta — a conferma di un
potere che si sostiene sulla potenza procreativa. Del resto,
è sulla performance sessuale del sovrano che si fondano le
dinastie regnanti.
È proprio questo, però, il punto debole del nostro aitante
monarca, il quale, per quanto sia bello e forte sembra non
riuscire a depositare nel grembo della sua regina Caterina
d’Aragona il seme del futuro. Dopo anni di matrimonio tutto il raccolto consiste in una deludentissima femmina,
mentre crescono gli aborti, le morti precoci dei regali infanti, e il disamore tra i coniugi. Enrico si distrae con le dame di
corte e con la caccia, finché non incontra Anna Bolena, meno regale, ma più giovane di Caterina; ed è tutto preso da lei.
Ha già avuto un affair con la madre, si mormora, e anche con
la sorella, sì che torbida è la loro liason, odora di incesto.
Anna non sarà bella, ma in tutte le descrizioni si esalta il
suo “magnetismo” animale. Ha sex appeal. È svelta di lingua, precoce d’intelletto e ha potuto coltivare tali doti naturali nelle corti di Francia e di Navarra. È raffinata nel gusto:
a Parigi e Amboise l’arte è di casa, Leonardo lavora a corte.
È amica di Margherita d’Asburgo, figlia di Maria di Borgogna, grande principessa, e di Claudia di Francia, la quindicenne moglie di Francesco I, e di Margherita Angoulême.
Forse proprio Margherita la introduce all’interesse per la
poesia e la letteratura e per la riforma religiosa.
Con un corredo di modi perfetti, e una moderna curiosità
rivolta alla vita intellettuale, è appena tornata in patria che
abbocca al suo amo niente meno che il re. Anna potrebbe
fare come fan tutte, compiacerlo. E invece no. È una donna
moderna, una donna dei tempi nuovi. Non sarà nobile abbastanza per la corona, ma è troppo intelligente per fare la
concubina. Così tiene a bada la voracità dello spasimante
bulimico: non si concederà a lui, a meno che in cambio non
le siano concesse le nozze. Qui non c’entra il pudore, c’entrano l’orgoglio e l’ambizione. E c’entra l’intuito: Anna capisce che non di facili amori quest’uomo è alla ricerca, né di
più o meno eccentrici bunga-bunga. Enrico non è un libertino; è un’altra la sua magnifica ossessione. Si annida sempre nell’orizzonte del coito, ma lo trascende nella tensione
ideale di chi intende assolvere il compito politico della continuità dinastica. Anna non è affatto avversa all’idea, ma
comprende che l’atto procreativo al servizio della dinastia
troverà il massimo orgasmo, se la copulazione produrrà un
frutto che non sia bastardo.
Anna ha intelletto d’amore, e si impegna nel soddisfare
quel desiderio: darà a Enrico il maschio per la corona. Per
questo, però, Enrico dovrà divorziare da Caterina. Si badi
bene, non è per gelosia servile, né per vendetta sociale; semplicemente Anna non vede altra strada, né la vede Enrico,
per realizzare il sublime scopo: bisogna che Enrico abbia
l’annullamento del matrimonio incestuoso; non si può
pensare che succeda a Enrico la figlia Maria la spagnola, come la madre cattolica e in combutta con la Spagna. Anna è
inglese, una patriota, e vuole l’indipendenza della sua isola: Maria Tudor non la garantisce. La garantirà invece il figlio maschio che lei darà al suo re. Quando l’avrà sposata.
Se Anna diventerà regina, sarà grazie alla memorabile accusa contro se stesso e la legittima consorte da parte di Enrico VIII, che dichiarerà di aver vissuto in incestuoso adulterio
con la sposa vedova del fratello Arturo. Seguirà il grande scisma da Roma, che non riconosce il “sacrosanto diritto” del
re inglese a sciogliersi da chi non gli scodella il figlio maschio.
Purtroppo neanche la politica Anna ci riuscirà. Il 7 settembre 1533 nasce non un bel bambino, ma una femminuccia: Elisabetta. E nella testa di Enrico ritorna l’antico rovello: Dio lo umilia nella sua virilità perché copula nel letto
di una donna impura. Al terzo aborto Anna è davvero nei
guai. Enrico la denuncia come strega eretica: lui è un cornuto, lei un’adultera, Elisabetta una bastarda. Il 15 maggio
del 1536 è processata per adulterio, incesto, stregoneria e alto tradimento, il 18 sale sul patibolo. Il giorno dopo, il re tutto vestito di bianco sposa Jane Seymour.
A questo punto, Enrico si trasforma in un Barbablù paranoico, immobilizzato in una montagna di grasso, che colleziona regine come prede immolate sull’altare della sua impotenza. Tanto che in inglese circola una filastrocca che
elenca le sue ben sei successive spose recitando: ripudiata,
decapitata, morta; ripudiata, decapitata, sopravvissuta.
Comincia con Caterina ripudiata; continua con Bolena decapitata; poi è la volta di Jane Seymour che muore spontaneamente, di Anne di Clèves ripudiata, di Catherine
Howard decapitata, e di Katherine Parr che gli sopravvive e
muore di morte naturale.
N
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Enrico VIII ~ Anna Bolena
“Signora, brucio nell’attesa”
ENRICO VIII
ante luglio 1527
ia Signora e Amica,
Ci mettiamo nelle vostre mani — io e il mio cuore — e vi supplichiamo e ci raccomandiamo ai vostri favori, perché l’assenza non diminuisca l’affetto che provate per noi. Sarebbe infatti una gran
pena accrescere la nostra sofferenza, che già l’assenza basta ad aumentare, ben più di quanto mai
avrei pensato possibile. Mi viene in mente un assunto della scienza astronomica, ovvero, che più
i giorni si allungano, più s’allunga la distanza del
sole; epperò, tanto più rovente è il calore. Così è
col nostro amore, che malgrado la lontananza
conserva il suo calore, almeno da parte nostra.
Ho la speranza che sia lo stesso per voi, e vi assicuro che per me il disagio dell’assenza è già troppo grande. E quando penso al prolungamento di
quel che già sono costretto a soffrire, mi sembra
quasi intollerabile, non fosse per la ferma speranza che nutro nel vostro indissolubile affetto
per me. Ora, perché almeno a volte ve ne ricordiate, vedendo che non posso esservi accanto di
persona, vi invio la cosa più prossima, cioè il mio
ritratto, incastonato in un bracciale, con l’emblema che già vi è noto, e vorrei essere io al suo posto, quando piacerà a voi.
Dalla mano del vostro
Servitore e Amico,
Rex
ante luglio 1527
Riflettendo fra me e me sul contenuto delle vostre
ultime lettere, sono entrato in grande agitazione,
non sapendo come interpretarle, se a mio svantaggio, come mi pare da alcuni passi, o a mio van-
taggio come capisco in altri. Perciò vi supplico
con tutto il cuore di farmi conoscere apertamente e con certezza le vostre intenzioni riguardo al
nostro amore. Sono necessariamente costretto a
incalzarvi per avere risposta, essendo stato colpito dal dardo d’amore ormai da più di un anno intero, senza la certezza di poter trovare posto nel
vostro cuore e tra i vostri affetti. Questa incertezza mi impedisce da qualche tempo di potervi
chiamare mia Signora, poiché il nome non è appropriato per voi, se mi amate di un amore comune, visto che denota una singolarità ben lontana dall’ordinario. Ma se vi piacerà compiere
l’ufficio di una vera, leale amante e amica, e darvi corpo e anima a me che sarò come sono sempre stato vostro leale servitore (se per rigore non
me lo proibite), vi prometto che non solo vi sarà
dato il nome, ma che vi prenderò anche come mia
unica Signora, e allontanerò dai miei pensieri e
dai miei affetti tutte le altre, che sono in competizione con voi, e servirò soltanto voi. Vi prego di
dare una risposta chiara a questa mia rude lettera, perché io possa conoscere quanto e fino a che
punto posso fare affidamento su di voi. Se non vi
piacesse rispondere per iscritto, designate un
luogo in cui io possa avere una risposta per bocca vostra, e verrò con tutto il cuore. Per ora basta,
non voglio tediarvi. Scritta per mano di colui che
ben volentieri resterebbe vostro,
H. Rex
ante luglio 1527
Anche se, mia Signora, non avete avuto la compiacenza di ricordarvi della promessa che mi avete fatta l’ultima volta che ero con voi, e cioè che
avrei avuto vostre notizie, e una risposta alla mia
ultima lettera; pure credo convenga a un leale
servitore (dal momento che non può saperlo in
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
MOSTRE
LE
■ 35
DI REPUBBLICA
E IL SOGNO
AMERICANO
TROVÒ
LA SUA
ESTETICA
ACHILLE BONITO OLIVA
utti si rassomigliano e
agiscono allo
stesso modo,
ogni giorno
che passa di più. Penso che tutti
dovrebbero essere macchine.
[…] Io dipingo in questo modo
perché voglio essere una macchina». Così afferma Andy Warhol in
una intervista su Art News del novembre 1963. E infatti con la sua
presenza fredda e distaccata cancella ogni traccia di profondità e i
suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie per la superficie. Lo strumento da lui usato è uno stile che
non rifiuta il sistema meccanico
di riproduzione dell’immagine,
perlomeno dell’ottica e dello spirito che lo determina, ma anzi accoglie il procedimento e la neutralità di fondo che lo sorreggono.
Perché questo avvenga è necessario eliminare ogni discriminazione per quanto riguarda l’ambito dove l’immagine nasce, cresce e si sviluppa.
Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto
fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in
una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta, la cui reiterazione non comporta più
un’angoscia esistenziale ma il
raggiungimento di uno stato di
ostentata indifferenza, che è lo
stesso attraverso cui Warhol
guarda il mondo e che costituisce la premessa di quel consumo
cui la civiltà americana e l’artista
stesso non intendono sfuggire.
L’occhio cinico di Warhol ci restituisce la condizione oggettiva
del ceto medio americano accettata così com’è e per quello che è,
poiché i modelli adoperati non
sono fuori di quella realtà, ma
dentro: le facce inespressive dell’uomo-folla gettato nella sua
solitudine quotidiana, separato
dagli altri uomini; gli incidenti
d’auto; le nature morte di fiori
psichedelici riprodotte con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia. Sono tutte immagini recuperate dallo spazio cittadino: una
megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia
in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La metropoli è l’alveo naturale dell’american dream, inteso come sogno
continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce.
La città è un grande happening,
un evento incontrollato, in cui le
immagini si associano tra loro, si
scompongono, si sovrappongono e scompaiono all’interno di
un paesaggio artificiale vissuto
come l’unica natura possibile
dell’uomo moderno.
(segue nella quarta pagina)
«T
DUE MOSTRE
A PISA E
A MILANO
CELEBRANO
IL PADRE DEL POP
CHE HA ANCORA
GRANDE INFLUENZA
SULL’ARTE
CONTEMPORANEA
ANDYWARHOL
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LE
LEGRANDI
GRANDIMOSTRE
MOSTRE
■ 36
ANDY
WARHOL
A Palazzo Blu, un percorso diviso
in otto stazioni tematiche mette ordine
in una produzione sterminata
che arriva fino al rapporto con Napoli,
Beuys e il gallerista Lucio Amelio
I QUARANT’ANNI
CHE CAMBIARONO
IL MONDO DELL’ARTE
Da Liz a Marilyn, passando per gli autoritratti
ecco miti, simboli e icone di un genio multimediale
PAOLO RUSSO
DOLLARO
Dollar Sign
(1981)
vernice sintetica polimerica
e inchiostro serigrafico su tela
FIORI
Flowers
(1964)
pittura acrilica
e serigrafica su tela
La
mostra
“Andy Warhol. Una storia
americana”, fino al 1° febbraio
2014 a Pisa, Palazzo Blu.
Promossa da Fondazione
Palazzo Blu e prodotta in
collaborazione con Gamm
Giunti e The Andy Warhol
Museum di Pittsburgh. Curata
da Walter Guadagnini e Claudia
Beltramo Ceppi. Orari: dal
lunedì al venerdì 10-19; sabato e
domenica 10-20. La biglietteria
chiude un’ora prima. Biglietti:
intero 10 euro; ridotto 8,50.
Informazioni e prenotazioni:
telefono 050 220.46.50 Numero
verde: 800.144.385 Catalogo:
Gamm Giunti
PISA
idea di America è formidabile, perché più una cosa è uguale
a un’altra e più è americana». Superlativo forgiatore di paradossi, cantore seriale di masse e consumi, artefice di miti alla base della moderna americanità, Andy Warhol ha sempre
seminato qua e là indizi su di sé che facessero contenti quei
media coi quali ha giocato tutta la vita. Ripagandone, inesauribile Fantômas, la brama d’una verità su di lui con ciò che volevano ogni volta sentirsi dire. Ma dietro quell’osmosi con l’eterna superficie – d’un prodotto, un oggetto, un volto baciato dalla fama – Warhol ha penetrato anche alcune delle grandi paure dell’uomo. La morte, ad
esempio, e la violenza. Celebre nell’arte come nessuna star è mai stata, ma ingabbiato in quell’“anticonformismo di massa” – una delle sue boutade – da lui generato,
Warhol è però di fatto poco conosciuto nella sua camaleontica complessità, al di là
del clamore della stagione Pop: come se fosse rimasto rinchiuso in una delle sue lattine di Campbell.
Il disvelamento in profondità del suo lavoro è il merito più evidente di Andy Warhol.
Una storia americana, che fino al 2 febbraio porta in Palazzo Blu a Pisa 230 opere che
i curatori Walter Guadagnini e Claudia Zevi hanno scelto in collaborazione con l’Andy
Warhol Musem di Pittsburgh – più grande raccolta monotematica Usa – e altri eccellenti musei europei e gallerie americane. Voluta da Fondazione Palazzo Blu e Gamm
Giunti, la mostra analizza la ciclopica produzione warholiana in otto stazioni tematiche che mettono ordine in una sterminata produzione. E raccontano i quarant’anni che il creativo di Pittsburgh, dov’era
nato nel 1928 da religiosissima famiglia nuti di riprese mute chiesti ad amici e vislovacca, ha attraversato con infiniti me- sitatori) di Duchamp, Dylan, Dalí, Dendia (cinema, scrittura, giornalismo, con nis Hopper, Nico e Lou Reed; le adorate
la leggendaria rivista Interview, musica, Polaroid, con e senza l’artista, di Lennon
coi Velvet Undergound di Nico e Lou e Yoko, Lichtenstein, Stevie Wonder, BaReed, performance, teatro, moda, teatro, con, Haring e l’eterna Gloria Swanson.
tv, fino ai primi vagiti di computer art). Poco o punto viste pure le foto di ChriAnche se foto e serigrafia sono sempre stopher Makos in cui Warhol si offre lunstati i prediletti: la prima dato di partenza go una metamorfosi in drag queen, did’ogni lavoro, la seconda strumento seriale per natura, pilastri entrambe del nevrotico, ostentato distacco di Warhol. La
mostra riapre l’indagine anche rilevando
importanti fil rouge come le fototessera e
gli autoritratti che l’aprono nella sezione
“That’s Me” e che poi l’attraversano tutta, trionfo d’egotismo esibizionista. E se
eran d’obbligo i grandi hit della sua produzione pop, Campbell’s Soup, Flowers,
le scatole Brillo e il Dollar Sign, ecco con
loro il raro bianco e nero di Avanti Car.
Vira di registro “The Dark Side of America” in cui violenza e morte assumono le
artificiose, lancinanti policromie delle
Electric Chair, arricchite dalla foto originale di quella di Sing Sing sulla quale fu- stante attore d’un esibizionistico gioco
rono uccisi i Rosenberg che Warhol usò teatrale in cui né militanze gay – Warhol
come base della serie; il gelo di Gun, Skull lo era apertamente – né sessualità o sene Knives; l’impersonale tecnicismo d’un sualità lasciano traccia. Ed è una vera rimanuale di polizia in uno dei Most Wan- velazione la pittura anni ’80 nella quale
ted Man; il durissimo bianco e nero, solo elabora le sue foto, sempre loro, fino alserigrafato, di una rivolta razziale e quel- l’irriconoscibile rarefazione dell’iconico
li di Avedon del torso di Warhol pieno di volto nelle Shadows, debutta, con Eggs,
cicatrici per l’intervento dopo l’attentato nell’indagine sulla forma, facendo di
Myths catalogo e congedo dal Pop anni
della femminista Valerie Solanas.
Ne “Il mito diventa icona” ecco pun- ’60, e dal suo oggi datato cinema sperituali le celeberrime Marilyn e Liz, Mick mentale. In chiusura le opere napoletaJagger, Beuys e il piccolo inedito b/n di ne, nate dal legame di Warhol con la città
Troy Donahue con cui la serie nacque nel e il gallerista Lucio Amelio, che oltre ad
’62. E se la politica – come natura e sesso esporlo ne favorì l’amicizia con Beuys: le
– è estranea a Warhol ecco, nella sala de- acriliche serigrafie del Vesuvio, rilettura
dicata, l’isolato e clamoroso Nixon con la tra spettacolarità e morte di un topos del
scritta “Vote McGovern”, Jackie Kennedy vedutismo per una mostra dell’85, e Seiprima e dopo Dallas, Mao e Ted Kennedy. smograph, impenetrabile nero su nero
Mentre “Factory”, che di quel think tank- col tracciato delle scosse del terremoto
palcoscenico censisce la bizzarra freake- dell’81.
rie, brilla per gli inediti screen test (i 3 mi© RIPRODUZIONE RISERVATA
«L’
LIZ
Liz
(1964)
serigrafia
inchiostro
e polimeri
sintetici
MARILYN
Blue shot
Marilyn
(1964)
serigrafia
inchiostro
e polimeri
sintetici
SCHELETRO
Skull
(1976)
vernice
sintetica
polimerica
e inchiostro
serigrafico
su tela
Repubblica Nazionale
@
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
PER SAPERNE DI PIÙ
www.palazzoblu.it
www.warholmilano.it
■ 37
Al Palazzo Reale le opere della raccolta
dell’amico Peter Brant, che condivise
con il padre della Pop Art
la produzione di film indipendenti
e l’avventura nella rivista “Interview”
ZUPPA
Campbell’s Soup
(1962)
colori acrilici
su tela
IL COLLEZIONISTA
CHE LO CONVINSE
A TORNARE “PITTORE”
Tra polaroid, teschi e provocazioni glamour
tutte le tracce di una singolare “affinità elettiva”
CHIARA GATTI
SOLDI
Untitled (Roll of Bills)
(1962)
matita, pastello
e pennarello su carta
SCARPE
Diamond Dust Shoes
(Random) 1980, acrilico
inchiostro serigrafico e polvere
di diamante su lino
La
mostra
“Warhol” dal 24 ottobre al 9 marzo
2014 a Palazzo Reale di Milano. A
cura di Peter Brant con la
collaborazione di Francesco
Bonami - inserita nel progetto
Autunno Americano - è prodotta e
organizzata da 24 Ore Cultura Gruppo 24 Ore e Arthemisia
Group. Orari: lunedì 14.30-19.30;
martedì, mercoledì, venerdì e
domenica 9.30-19.30; giovedì e
sabato 9.30-22.30. Biglietti: intero
11 euro (audioguida gratuita);
ridotto 9,50. Informazioni e
prenotazioni: telefono 02 54913;
www.ticket.it/warhol. Catalogo:
24 Ore Cultura - Gruppo 24 Ore
MILANO
dieci anni, collezionava monete insieme al papà, un intellettuale di
origini bulgare, laureato in ingegneria a Lipsia, amante dei dipinti rococò ed emigrato in America al tempo della guerra. A diciotto anni,
comprò la prima opera d’arte, la tela del pittore figurativo Samson,
suo insegnante all’Università del Colorado. A diciannove anni, investì in borsa 10mila dollari che gli regalò il nonno e, con i guadagni, comprò un
quadro di Franz Kline, maestro dell’espressionismo astratto, famoso per i grandi segni neri simili a ideogrammi giapponesi. Era il 1966 e Peter Brant, magnate
newyorchese della carta da giornale, inaugurò così la sua raccolta destinata a diventare una fra le collezioni più ricche al mondo votate al lavoro degli artisti americani contemporanei. Andy Warhol in testa. Che Peter, giovanissimo, in abito
stile college, inseguiva fra le gallerie di tendenza a Manhattan. Come quella di
Leo Castelli, il principe dei mercanti d’arte statunitensi che, nell’Upper East Side, fece la fortuna di Pollock, de Kooning, Rauschenberg o Jasper Johns, e poi di
Roy Lichtenstein, il signore dei fumetti e dei retini tipografici eletti a regola d’arte, o dello stesso Warhol, col quale però collaborò poco «perché – confessò a
Brant – non era facile acchiapparlo, faceva mostre con galleristi d’ogni genere
ed era impossibile da gestire». Tant’è che i primi pezzi di Warhol acquistati da
Peter, appena ventenne, non uscirono dal magazzino di Castelli, ma da dimore
private che Leo conosceva bene e gli suggerì di rastrellare a tappeto.
Nel Missouri, a St. Louis, c’era un tale Jack Glenn, fabbricante di camicie da
bowling, che fu felice di vendergli un ritratto del ballerino Merce Cunnin- be portati a condividere l’avventura
gham, oltre alla serigrafia Red Elvis, editoriale di Interview, la prima vera ricon la faccia del re del rock ripetuta 36 vista fashion, e a produrre insieme due
volte su fondo rosso. A New York, un ti- film, L’Amournel ’73 e Badnel ’76. Pecpo che viveva sulla Quinta Avenue gli cato che, impegnato in mille attività e
cedette un ritrattone di Marilyn Mon- mai realmente ripresosi dall’incidente
roe che aveva un foro in fronte. Era la del ’68, quando Valerie Solanas, femmitica Blue Shot Marilyn, la “Marilyn minista folle, gli sparò nel suo studio riblu sparata”, ovvero il volto dai toni schiando d’ammazzarlo, Warhol avesfluo della Monroe che nel 1964 Dorothy Podber, una ragazzaccia del
Bronx che voleva fare l’artista e frequentava la Factory, bucò con una pistolettata; la bravata, studiata per farsi
notare, le costò l’allontanamento a vita dalla “fabbrica” del pop. È proprio
attorno a queste immagini, simbolo
degli esordi di Peter Brant nel mondo
del collezionismo made in Usa, che
ruota l’importante mostra allestita a
Palazzo Reale a Milano (prodotta dal
Comune, 24Ore Cultura e Arthemisia,
dal 24 ottobre fino al 9 marzo), curata
dallo stesso Brant con la collaborazione di Francesco Bonami, intitolata in
modo lapidario Warhol e dedicata al- se smesso di dipingere. Merito di Peter
l’affinità elettiva fra il divo dell’arte se, a un certo punto, («ti prego Andy riamericana e il suo cultore appassiona- comincia!» insisteva, caldeggiato dal
solito Leo Castelli) tornò a firmare serito.
Ecco allora, dietro il sorriso fragile grafie. Come quella di Mao, celebrità
dell’icona più glamour del cinema, della politica svuotata di contenuti e ribellissima e mortale, riprodotta sui dotta a emblema di un’epoca tanto
manifesti come all’epoca d’oro del suo quanto le sue scatole di zuppa. O come
boom mediatico, allineate 160 opere, l’infilata di teschi multicolori che, diedisegni, serigrafie e decine di quelle tro un velo di seduzione, nascondevapolaroid che Andy scattava, con la sua no lo stesso senso di deteriorabilità ceinseparabile macchina al collo, ai per- lato negli occhi tristi di Marilyn, ritratsonaggi famosi, da Liza Minnelli a Tru- ta a due anni dalla scomparsa, o di Liz
man Capote, da Yves Saint-Laurent a Taylor, ai tempi della presunta malatDiana Ross, affidati poi alle stampe nei tia. Ma anche nei volti dell’Ultima cena
colori elettrici delle tirature industria- di Leonardo, riletta in versione techno
li. Quando conobbe Brant, nei primi e presentata proprio a Milano un mese
anni Settanta, anche per lui scattò foto prima della sua morte improvvisa, nel
a raffica: sorridente, col sigaro strizza- 1987. Altra icona popolare che, per il
to fra i denti, o con il cappello da cow- suo cuore inquieto, si trasformò, alla fiboy calato sugli occhi. Immagini flash ne, in un segno del destino.
di un’amicizia che, negli anni, li avreb© RIPRODUZIONE RISERVATA
A
LE BOTTIGLIE
Silver coke
bottles
(1967)
vernice
argento
su bottiglie
di vetro
in cassetta
di legno
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
PER SAPERNE DI PIÙ
www.palazzoblu.it
www.warholmilano.it
LE
LEGRANDI
GRANDIMOSTRE
MOSTRE
■ 38
ANDY
WARHOL
UN ESTETA
NEL NUOVO
MONDO
DELLA MERCE
Storia del loft che produceva
serigrafie, rock, follia
e film low cost rivoluzionari
ACHILLE BONITO OLIVA
(dalla prima pagina dell’inserto)
L
C’ERA UNA VOLTA
LA FACTORY
TRA SESSO, DROGA
E NUOVO CINEMA
DARIO PAPPALARDO
el loft newyorchese al quinto piano del 231 sulla 47esima Est, si consumavano sesso, droga e rock n’roll. Le vite bruciavano. Le quotazioni di amici e amanti salivano
e precipitavano. “The Factory” era l’enclave di Mr. Andy
Warhol e della sua compagnia di giro. In quello spazio di
trenta metri per dodici, rivestito di stagnola e di vernice d’argento,
tra il divano rosso raccattato per strada, i carrelli e le scale appese alle pareti, ci si poteva imbattere in drag queen, spacciatori e superstar.
C’era Robert Olivo, alias Ondine, regina delle anfetamine del San
Remo Bar, «la persona più interessante che abbia conosciuto negli
anni Sessanta», dirà di lui Andy. C’erano i Velvet Underground che
provavano il loro disco. Malinconiche bellezze: tra le altre, Nico ovviamente, Anita Pallenberg, poi compagna di Keith Richards, e Edie
Sedgwick, ragazza di buona famiglia che, diventata Factory Girl, si
perderà per sempre. Dallo sgangherato montacarichi entravano
Truman Capote e Jim Morrison; Mick Jagger e Brian Jones; ragazzi
palestrati in cerca di fortuna e starlette che non sfioravano nemmeno il quarto d’ora di celebrità. Là
dentro, tra il fumo, le pasticche e mente lo spazio della scena in
l’eroina, l’eco della guerra del quello che è un primo, personaVietnam non arrivava. Si cam- lissimo adattamento, prima di
minava in coma lisergico e tran- Kubrick, di A Clockwork Orange.
Chelsea Girlsmostra dodici sice etiliche sul wild side che Lou
Reed avrebbe cantato di lì a po- tuazioni tra lacrime, strazio,
droga, violenza e comicità. Il rico.
Ma le sostanze psicotrope e le sultato di queste scene girate
orge non toglievano spazio alla nell’estate del 1966 è lungo sei
creatività e alla produzione di ore e mezzo, troppo per una norquella macchina infernale chia- male distribuzione. Per dimezmata Pop Art. Alla Factory, ex zare la durata Warhol proietta
fabbrica di cappelli, si assem- due rulli simultaneamente su
blavano serigrafie, si realizzava- uno schermo diviso in due: nano scarpe, oggetti firmati dal sce così il primo successo del cimaestro, si componeva e dise- nema underground. Ma l’exgnava musica – vedi la celebre ploit di Chelsea Girls – 130 mila
copertina della banana per la dollari di incasso in 19 settimane
band di Reed e John Cale – e si solo a New York – mette la polisperimentava un nuovo modo zia sul chi va là. La Factory didi fare cinema.
Nel 1963, appena inaugurato,
lo spazio diventa subito un set.
Mentre dalla Francia Godard e
Truffaut diffondono la rivoluzione della Nouvelle Vague,
Warhol dal canto suo prova a fare lo stesso. Cerca forme narrative alternative, tenta un linguaggio visivo sporco, amatoriale,
frammentato. Il montaggio è
pressoché abolito. La sua è un’estetica del provino, del semilavorato: la dissonanza, l’errore, il
guasto tecnico fanno parte del
prodotto finale. I primi film made in Factory, girati e proiettati lì
– quando non in club notturni o venta teatro di retate antistupecinema a luci rosse – hanno tito- facenti. L’Fbi è presente sull’ulli di una sola parola: Sleep, Eat, timo film diretto da Andy, che laKiss. Registrano semplici mo- scia la macchina da presa dopo
menti di soddisfazione di un bi- essere stato ferito da Valerie Sosogno fisico: dormire, mangia- lanas, in quello stesso anno, il
re, baciare. Al protagonista di 1968. La pellicola del congedo è
Blow Job qualcuno pratica una Lonesome Cowboys, scritta cofellatio fuori campo. L’ossessio- me sempre dal fido Paul Morrisne del corpo è il filo rosso che le- sey. Qui il mito americano del
ga la ventina di titoli realizzati fi- west viene riletto in chiave gay
no al 1968: il corpo del ragazzo a con una sola donna, Viva (la
noleggio di My Hustler, del mo- “Garbo” di Warhol), che cerca di
tociclista di Bike Boy, dei clienti tenere testa a una banda di cownudi di The Nude Restaurant o boy omosessuali. Altro che
dei vestitissimi interpreti di Brokeback Mountain.
Vinyl, che riempiono intera© RIPRODUZIONE RISERVATA
N
a produzione, sostenuta
dal gioco serrato della
pubblicità, crea, per soddisfare i propri ritmi, una
sorta di fame, un desiderio di oggetti e consumi. Ma la situazione
presto s’inverte: ora è l’oggetto a
inseguire il soggetto. La città apre
la sua caccia sadica all’uomo, in
quanto ormai esiste un’inversione di ruoli e una nuova gerarchia
di posizioni: la città è il fine, l’uomo il mezzo.
La città non è più, infatti, lo spazio delle relazioni interpersonali
ma il luogo dello scambio, di un
puro passaggio di merci. La merce, infatti, è la grande madre che
accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo
assiste in tutti i suoi bisogni, fino
al punto di incentivare e creare
nuovi consumi. E il lavoro è l’unico tramite che l’uomo può stabilire con la realtà urbana. Neutralità, oggettività e impersonalità
sono i caratteri che identificano,
nel pragmatismo anglosassone e
nel suo sistema economico, il
produttore con il prodotto. Una
lezione ripresa poi da Jeff Koons
che ne ha celebrato la perennità
con la sua discendenza.
Palcoscenico per antonomasia della pop-art è New York, già
pronta all’inizio degli anni Sessanta a trasformare la “società di
massa” in “società dello spettacolo”. Qui le immagini accompagnano il viaggio diurno e notturno dell’uomo, irregimentato nell’ingranaggio produttivo di una
macchina che funziona senza sosta, secondo ruoli già assegnati
che lo rendono partecipe e soggetto passivo del grande spettacolo della merce. Le immagini
della città vengono accettate nel
loro improvviso narrativo come
reali. Perciò la tecnica del sogno
diventa il tramite necessario per
leggere la città e le sue imprevedibilità. D’altronde il sogno, la sostanza onirica, permea di sé la vita quotidiana della società americana, attraversata da immagini e
da merci che affollano il suo panorama visivo e tattile.
Da un deposito imperituro di
sogni incalzanti muove lo sguardo lucido di Warhol, per effettuare il prelievo di una singola immagine. L’arte diventa il momento di
esibizione splendente ed esemplare del sogno, la pratica alta che
mette sulla scena definitiva del
linguaggio lo stile basso delle immagini prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla
pubblicità e dagli altri strumenti
di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana. L’accumulo grammaticale delle immagini è l’effetto di una mentalità
che non ha il mito della complessità del mondo. Warhol situa le
proprie immagini per associazione elementare, che riflette con cinica disperazione il destino dell’uomo: l’esibizione come esibizionismo, come ineluttabile cancellazione della profondità e riduzione a uno splendente superficialismo. Lo spegnimento della
profondità psicologica segna il
punto di massima socialità nell’opera di Warhol. In una realtà
tecnologica che tende alla moltiplicazione e a moltiplicarsi, l’unica maniera di affermare tale identità è raddoppiare se stessi. Tale
procedimento passa inevitabilmente attraverso lo specchio, l’esibizionismo, il narcisismo e definisce l’uomo come semplice
voyeur della propria solitudine e
del mondo.
AUTORITRATTO
Autoritratto (1967) fotografia
BASQUIAT
Jean-Michel Basquiat (1982) acrilici e serigrafia su tela
DRACULA
The kiss
(Bela
Lugosi)
(1964)
monotipo
su carta
MAO
TRAVESTIMENTI
Mao (1973) acrilici
e serigrafia su tela
Self portrait in drag (1980); in
alto Self portrait (Green) 1964
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 39
IL LIBRO
Lettere d’amore ad Anna Bolena è la prima raccolta
in un unico volume delle diciassette lettere d’amore
inviate da Enrico VIII ad Anna Bolena tra il 1527
e il 1528, quando lei era una damigella d’onore
della regina Caterina, prima moglie
dalla quale il sovrano aveva già chiesto il divorzio
alla Chiesa di Roma. La Bolena sarà la seconda
delle sue sei consorti e verrà giustiziata nel 1536
Il libro, che include i saggi di Nadia Fusini
e Iolanda Plescia (che ha curato anche la traduzione),
sarà in libreria da domani, 14 ottobre,
per Nutrimenti (126 pagine, 12 euro)
LE IMMAGINI
A sinistra
un ritratto
di Enrico VIII,
opera
di Hans Holbein,
autore anche
dei due
progetti
per pendente,
qui accanto,
conservati
al British
Museum;
sotto,
Anna Bolena
dipinta
da un anonimo
e due
delle lettere
di Enrico VIII
custodite
nell’Archivio
Vaticano
altro modo) di mandare a chiedere notizie della
salute della sua Signora; ed è per poter dunque assolvere al compito del leale servitore che vi invio
questa lettera, supplicandovi di comunicarmi se
vi trovate in salute, del che prego Dio come per la
mia, affinché ve la conservi a lungo; e perché vi ricordiate più spesso di me, vi invio con questo
messaggero un cervo ucciso ieri sera tardi dalla
mia stessa mano, sperando che quando ne mangerete penserete al cacciatore; e così per mancanza di spazio termino la mia lettera, scritta per
mano del vostro servitore, il quale sovente desidererebbe voi al posto di vostro fratello.
H. Rex
15 giugno 1528
La sola ragione per cui vi scrivo in questo momento, cuor mio, è quella di sapere se siete in buona salute e prosperità, del che sarei felice come se
si trattasse della mia, mentre prego Dio (se è Sua
volontà) di volerci presto riunire, perché vi giuro
che lo desidero ardentemente, e sia come sia confido che il momento non sia troppo lontano. E visto che la mia adorata è assente, non posso fare a
meno, in rappresentanza del mio nome, di mandarle della carne, carne di cervo al posto di Enrico, con il pronostico che di qui a poco per volontà
di Dio gusterete la mia, e Dio volendo, magari fosse subito. Riguardo la questione di vostra sorella,
ho fatto scrivere da Walter Welche a vostro padre
le mie intenzioni e confido che Eva stavolta non
riuscirà a ingannare Adamo. Perché certo, qualunque cosa si dica, non potrà conservare l’onore se non si prende com’è suo dovere cura di lei,
sua figlia legittima, ora che si trova nell’estremo
bisogno. Non vi scrivo altro per ora, mia adoratissima, se non che vorrei che potessimo passare insieme una notte
dalla mano del vostro
H. Rex
23 GIUGNO 1528
Mi sono giunte all’improvviso nella notte le notizie più sgradite che potessi ricevere. Ho almeno
tre ragioni, infatti, per dolermi. La prima è che sono venuto a conoscenza dell’infermità della mia
Signora, che mi è più cara di ogni altra cosa al
mondo, e la cui salute bramo come fosse la mia —
e volentieri mi prenderei metà della vostra malattia pur di vedervi guarita. La seconda è che temo di dover sopportare ancora a lungo la tediosa
Assenza, che finora mi ha inflitto ogni pena possibile, e per quello che posso giudicare continuerà così o peggio. Prego Dio di liberarmi da
questo importuno persecutore. La terza ragione
è che il medico del quale più mi fido in questo momento non c’è, proprio quando potrebbe farmi il
piacere più grande. Spererei infatti di ottenere da
lui, e dalle sue arti, la gioia per me più grande a
questo mondo; cioè la guarigione della mia Signora. Tuttavia, in sua mancanza ve ne invio un
altro, l’unico che c’è, pregando Dio che ben presto possa guarirvi, e lo avrò più caro che mai.
Vi prego di lasciarvi governare dai suoi consigli, e se così farete ben presto vi rivedrò, e sarà per
me un ricostituente più prezioso di tutte le gem-
me del mondo. Scritto dal segretario che
è, e sarà sempre,
Vostro leale e sicuro Servitore,
H. (AB) Rex18
21 luglio 1528
Mia adorata, mi raccomando con tutto il cuore
a voi, assicurandovi che sono non poco perplesso per via di ciò che vi riporterà da parte mia vostro fratello, al quale vi prego di credere, perché
sarebbe troppo lungo da spiegare per iscritto.
Nelle mie ultime lettere vi informavo di come mi
aspettassi di vedervi presto, un fatto che è più risaputo a Londra che da chi mi è accanto — il che
desta in me non poca meraviglia, ma necessariamente la causa dev’essere una mancanza di discrezione. Non vi scrivo altro per ora, tranne che
ben presto i nostri incontri dipenderanno, così
confido, non dalla condotta poco accorta degli altri, ma dalla vostra.
Scritto dalla mano di colui che desidera
ardentemente di essere vostro,
H. Rex
luglio 1528
Cuor mio, questa mia è per dirvi della grande solitudine che provo da quando siete partita: vi assicuro che il tempo passato dalla vostra ultima
partenza mi pare ben più lungo di due intere settimane. Credo che siano la vostra amabilità e il
fervore del mio amore a farmi sentire così, ché altrimenti non mi sembrerebbe possibile addolorarmi per un’assenza così breve. Ma ora che sto
arrivando da voi, mi pare che la metà dei miei dolori siano guariti, e inoltre mi dà grande conforto
il fatto che il mio libro procede ed è di aiuto sostanziale alla mia causa, e infatti oggi ho passato
più di quattro ore a scrivere. Il che mi
costringe a una lettera più breve, a motivo
di un certo dolore di testa, mentre sogno di trovarmi (specialmente di notte) tra le braccia della
mia amata, le cui graziose mammelle presto vorrei poter baciare.
Scritta dalla mano di colui che è stato,
è, e sarà vostro per suo volere,
H. Rex
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 40
Spettacoli
Sopra le righe
Più che a Bernstein si paragona a Bakunin,
più che von Karajan ricorda Pete Doherty, odia la Scala
e distruggerebbe il Met. Siamo andati a sentire e vedere
il direttore d’orchestra che sta sovvertendo il (suo) mondo
CECILIA BARTOLI
HÉLÈNE GRIMAUD
GUSTAVO DUDAMEL
VANESSA MAE
Mezzosoprano:
47 anni, offre un look
“scandaloso”
al servizio di progetti
molto raffinati
Francese, 46 anni,
ha inciso 17 dischi
ed è fra le star
più popolari
della classica
Venezuelano,
32 anni,
è il più noto
diffusore
del metodo Abreu
Inglese, 34 anni,
violinista,
nota per terribili
produzioni
techno-classiche
VITTORIO GRIGOLO
RICCARDO CHAILLY
JUYA WANG
LANG LANG
Tenore, 36 anni,
segni particolari:
bellissimo
Spazia da Mozart
ai musical
Direttore
di lungo corso,
60 anni, collabora
con Bollani ed entra
nelle hit parade
26 anni,
bravissima e sexy,
siede al piano
in miniabito
e tacchi vertiginosi
Pianista, 32 anni,
è amato come
una rockstar, suona
interpretando
anche con il corpo
GIUSEPPE VIDETTI
N
BOCHUM
el silenzio dell’auditorio l’arrivo del direttore si annuncia
con passi pesanti, da generale, che risuonano già dal retropalco. Indossa stivali punk Teodor Currentzis, ha 41 anni e ne dimostra 25. Si accomoda sul podio e inizia la sua comunione totale con Stravinsky. La sagra della primavera è l’evento clou della RuhrTriennale, culla
delle avanguardie e paradiso degli artisti puri che per quaranta giorni si danno convegno
nelle ex miniere di carbone e di ferro della
Vestfalia riconvertite a spazi per la cultura.
Pallido, magro, vestito di nero, Currentzis si
lascia attraversare dalla musica, la asseconda con i movimenti del corpo — ora morbidi, ora impetuosi — mentre dirige la sua orchestra Musica Aeterna. Più Nijinsky che
Bernstein, più Pete Doherty che von Karajan. «Ho una missione: salvare la musica
classica», dice con la voce baritonale che
contrasta con il fisico fragile quando si riprende dalla trance, scosso dall’entusiasmo
di un giovane pubblico che per oltre mezz’ora non smette di applaudire. Mission impossible per un direttore d’orchestra greco
che dopo un periodo di militanza nella Novosibirsk State Opera si è confinato all’ombra degli Urali, a dirigere la State Opera e il
Ballet Theatre di Perm? Non esattamente, il
metodo Currentzis ha scosso e incuriosito il
mondo della classica. «Abbiamo creato una
comune, artisti liberi con altro credo che lottano per far cambiare direzione alla musica», ci spiega. «Da noi si crea senza orario,
magari al lume di candela e con un bicchiere di vino». Il mondo (della musica) non è
quello che sognava al conservatorio. «Ci sono due opzioni: allontanarsi dall’universo
che gira intorno alla musica e che mi disgusta; crearsi una nicchia in cui alimentare il
sacro fuoco. Troppa musica nell’aria, non
siamo più in grado di apprezzarla. Provi a
immaginare il mondo in mano a un dittatore che la proibisca per cinque anni; cosa succederebbe? Tutti, di notte, di nascosto, ad
ascoltare in cuffia le radio pirata. La musica
risorgerebbe dal silenzio, carica di forza e di
potere».
Currentzis è un radicale, si paragona a
Bakunin e Kropotkin, i grandi anarchici.
Non sogna la Scala, il Covent Garden o il Met.
Più esattamente, li raderebbe al suolo. «Chi
ama la musica può solo aspirare a distruggere il sistema che la controlla per ripartire da
un piccolo, fedele pubblico. Le grandi istituzioni sono destinate a morire. Anche nel
rock e nel jazz le cose migliori stanno arrivando dal mercato indie, il mainstream è
agonizzante, Mtv defunta, i supermarket dei
suoni allo sbando. Chi ama la musica ascolta i Sigur Rós, non Lady Gaga. Oggi si dice
troppo spesso: dobbiamo riportare i giovani a teatro. Ma anche questo va fatto nel modo giusto; non basta affidarsi alla superstar
del momento (i cantanti d’opera belli, fotogenici e palestrati). Noi parliamo ai giovani
che hanno un’opinione sul mondo, che reagiscono al sistema, quelli che poi a teatro ci
andranno per tutta la vita».
Da ragazzo, in Grecia, sognava di diventare un compositore. Come Mahler, il suo idolo, «che scriveva musica solo d’estate». Già
all’epoca era la poesia l’unico metro con cui
IN CONCERTO
Teodor Currentzis:
alla Triennale della Ruhr
cinquemila giovani fan
in delirio lo hanno applaudito
In alto una galleria
di musicisti che nei modi
più diversi tentano
di “rilanciare” la musica classica
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 41
Quarant’anni, greco, si è autoesiliato in Siberia
e ha un solo obiettivo: “Liberare l’arte dalla routine
dello show business”. Certamente non è il primo
L’eresia
sul podio
a tentare l’impresa, probabilmente non sarà l’ultimo
LEONETTA BENTIVOGLIO
untormentone melodioso e un sinfonico assillo:
le industrie discografiche, le istituzioni concertistiche, i teatri d’opera, gli artisti stessi, insomma
tutto il mondo musicale “classico” s’interroga sul
modo più efficace per diffondersi, riempire le
sale, evadere dall’élite dei musicofili e popolarizzarsi. Dopo il boom discografico dell’epoca di Herbert von Karajan, sfrenato
promotore della propria immagine e
abile nel cogliere per primo le potenzialità delle nuove tecnologie, la flessione
commerciale della classica è stata progressiva e inesorabile. Come reagire? Mescolando i generi, percorrendo crinali borderline, puntando sul glamour e lo charme degli interpreti. Con effetti a volte prodigiosi e a volte discutibili.
La collaborazione con Stefano Bollani di un direttore d’orchestra del calibro di Riccardo Chailly ha generato frutti preziosi non solo sul versante delle vendite.
Sarebbe assurdo porla sullo stesso piano dei vizi patinati e pseudo-sexy della violinista (nata a Singapore e
cresciuta a Londra) Vanessa Mae, raccoglitrice di consensi grazie ad atteggiamenti scollacciati e a una terrificante produzione techno-classica, cioè ad arrangiamenti di brani storici in chiave moderna. Muovendosi
a un livello più stimolante, seppure criticato dai puristi, il pianista cinese Lang Lang crea di continuo opportunità di comunicazione trasversale. Realizza
soundtrack per videogiochi, inserisce stranianti cloni
tecnologici di se stesso e di compositori “alti” (Chopin),
inventa il format sensazionale del “Concerto per 100
pianisti” che riunisce nei teatri, con clamore planetario, giovani studenti di pianoforte.
A volte il look scandaloso è funzionale alla visibilità
di progetti musicalmente raffinatissimi. Un’esperta di
questa tendenza è la cantante-star Cecilia Bartoli, che
nelle copertine dei suoi dischi, dedicati ad antichi repertori inediti e meravigliosi, può mostrarsi con travestimenti scioccanti quali il corpo nudo di una statua
marmorea (Sacrificium) o il volto di un prete calvo e
horror (Mission). E il geniale violoncellista Yo-Yo Ma,
consulente della Chicago Symphony, non teme di assumere, nel ruolo di composer in residence della prestigiosa orchestra, il dj adorato dai giovani Mason Bates (che è anche un bravo compositore “serio”). Sono
tanto più ruffiane le operazioni del violinista inglese Nigel Kennedy, il quale con la sua furia
punk fece vendere alle Quattro Stagioni di Vivaldi due milioni di dischi. Oggi risollevano i destini del mercato personaggi dirompenti come
l’organista statunitense Cameron Carpenter, che
ha impresso al suo strumento una fisionomia più
spettacolare che liturgica (vedi il fortunato Revolutionary, comprensivo di titoli di Bach e Liszt), e il virtuoso tedesco-americano David Garrett, che col suo violino scatenato, in certi pezzi rubati al rock, arriva a sostituire la chitarra di Kurt Cobain e la voce di Michael
Jackson. Tutto è concesso, senza esclusione di colpi.
È
DAVID GARRETT
SORELLE LABÈQUE
NIGEL KENNEDY
Tedesco, 32 anni,
col suo violino
ha sostituito
le chitarre di Brian
May o Kurt Cobain
Sessantenni,
il duo pianistico
di Katia e Marielle
ha dissacrato
la musica classica
Violinista inglese
classe 1956,
ha in repertorio
anche il jazz
e la musica klezmer
YO-YO MA
Americano
di origini cinesi,
58 anni, tra i primi
veri divulgatori
della classica
© RIPRODUZIONE RISERVATA
TEODOR CURRENTZIS
L’uomo
che voleva salvare
la
Musica
classica
misurava l’arte.
Era stregato dai
surrealisti, Artaud
in testa, e divorava i
versi di Georg Trakl,
Baudelaire, Lautréamont e Mallarmé. «Musicalmente, i miei punti di
riferimento non sono i dinosauri — von Karajan o
Bernstein — ma Gieseking,
Cortot, Glenn Gould, Harnoncourt». E quando ipotizza collaborazioni con altri artisti, ha parole solo per estremisti della sua specie: Peter
Sellars, Bob Wilson, Lars von Trier e Romeo Castellucci. «A Perm abbiamo fatto a
pezzi la routine che uccide l’arte. Vogliamo
colpire al cuore un sistema che programma
le opere e scrittura gli artisti con cinque anni
di anticipo. Non era così ai tempi di Caruso».
Altro che realismo nella lirica, Currentzis vagheggia un «teatro rituale» che preservi l’opera come i Vangeli, «la parola sacra cantata», per esaltare il mistero del libretto e conservare intatta la leggenda. Non sono solo
chiacchiere. La crisi dilaga, gli enti lirici chiudono, la ripresa passa anche per artisti come
lui. I manager di Sony Classical sono andati
a scovarlo a Perm, gli hanno dato carta bianca e offerto un contratto a lungo termine.
«Non accetterò compromessi, voglio il tempo e gli strumenti necessari, niente glamour
intorno a me, nessuna pressione. E loro hanno risposto: è per questo che siamo venuti.
Ho già inciso alcune composizioni di Jean-
Philippe Rameau, Le Nozze di Figaro e Così
fan tutte. Presto faremo La sagra della primavera, il Don Giovanni, le sinfonie e la Messa solenne di Beethoven».
Alla fine dell’esecuzione della Sagra il
pubblico è in delirio. Currentzis e l’orchestra
tornano in scena e si mettono in sintonia con
l’asse Stravinsky-Diaghilev-Nijinsky con
The Riot of Spring (“La rissa della primavera”) del giovane compositore russo Dmitri
Kourliandski. In un crescendo di archi gli orchestrali abbandonano uno a uno il palco e
si sparpagliano tra il pubblico. Violini, viole
e violoncelli vengono passate ai ragazzi che
con poche istruzioni continuano a rumoreggiare su una base elettronica. Il geniale
primo violino Andrey Baranov, 27 anni da
San Pietroburgo, stabilisce una relazione
quasi sessuale con la ragazza appena ventenne cui ha ceduto lo strumento. Il caos
musicale che ne deriva ha perfettamente
senso, è vivo, lirico, creativo. Alla fine alcuni
strumenti finiscono in pezzi, i ragazzi fanno
a gara ad accaparrarsene i resti da conservare come cimeli (tra Oistrach e Hendrix non
c’è confine). Heiner Goebbels, blasonato direttore artistico della RuhrTriennale, lascia
la sala estasiato: «Non immaginavo che il carisma di un direttore d’orchestra potesse arrivare a tanto». Ma Currentzis già pensa a domani. «Voglio diventare un artista più appassionato, più illuminato. Il romanticismo
esiste ancora, dipende da noi. Vogliamo essere i lettori o gli eroi del romanzo della vita?
Io ho fatto la mia scelta, non la più comoda».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 42
Next
Nuovi mondi
Entusiasmo, creatività e concretezza: la rivoluzione
degli artigiani digitali alla prima Maker Faire
europea, una vera Woodstock dell’innovazione
La stampante
all in one
L’obiettivo ora è trasformare la scintilla
in industria e rilanciare l’economia
Parola d’ordine: “Il cielo non è più un limite”
■
MASSIMO
MORETTI
Fondatore
progetto
Wasp
RICCARDO LUNA
ggi non avete più bisogno del permesso di nessuno per inventare delle cose meravigliose». La celebre frase con cui
Massimo Banzi, il creatore di Arduino, chiuse il TED Global
del 2012, non è mai stata tanto vera e concreta come nei giorni della prima Maker Faire di Roma nello scorso week end, di
cui chi scrive è stato il co-curatore. È stata una festa di creatività, un rito pagano in cui decine di migliaia di persone si sono riappropriate del futuro. Della possibilità di crearsene uno migliore. Con le proprie mani, perché questo fanno i makers: making stuff, si fanno le cose che immaginano. Magari con una stampante
3D. O una tagliatrice laser a controllo numerico. O una scheda Arduino, appunto, che
grazie a una elettronica facile, a prova di bambino, consente di dare un’anima agli oggetti. E così quando la fiera ha chiuso i battenti, quasi tutti invece di andare a casa sono rimasti sul piazzale antistante il Palazzo dei Congressi a ballare con il gigantesco robot suonatore di basso elettrico che un artista tedesco aveva portato per l’occasione.
In quel momento è stato evidente a cosa avevamo assistito per quattro giorni: alla
Woodstock dell’innovazione. E, forse, anche a una tappa verso un nuovo made in Italy.
Un “futuro artigiano” come lo chiama il professor Stefano Micelli, docente a Venezia
e uno dei più attenti osservatori del fenomeno: «Gli artigiani digitali e gli inventori faida-te stanno dando prova di vitalità e creatività. Ora dobbiamo trasferire quell’entusiasmo al resto dell’economia per farla ripartire». Operazione non facile, perché si tratta di contaminare vecchi artigiani e piccole imprese in crisi, ma intanto dal basso, dal
mondo dei makers, si avverte una spinta incredibile. Una voglia di fare che sembra voler smentire le statistiche su un paese deluso, disilluso e rassegnato. «I makers fanno
soprattutto per la gioia di fare» spiega il professor David Gauntlett, autore de La Società
dei Makers appena uscito in Italia.
La “gioia” è quindi una delle chiavi per capire questo mondo. E riguarda naturalmente i bambini, i veri protagonisti delle Maker Faire, chiamati a costruirsi i giocattoli invece di chiedere ai genitori di comprarne uno nuovo (grazie al crollo dei costi
delle stampanti 3D, «me lo stampi, papà?» è una delle frasi destinata a prendere il posto del classico «me lo compri?»). Ma riguarda anche gli adulti che nell’atto del “fa-
«O
La guida tattile
per ipovedenti
■
SERENA
RUFFATO
Ideatrice
Inventarsele tutte
perché la fantasia
vada al potere
230
ILLUSTRAZIONE DI ANNALISA VARLOTTA
Le invenzioni
presentate ed esposte
durante
la quattro giorni
romana
di Maker Faire
re” riscoprono un senso profondo, un equilibrio interiore. Un “fanciullino”
avrebbe detto Pascoli. Come è accaduto al giornalista Mark Frauenfelder, oggi direttore di Make, la bibbia dei Makers, che un giorno ebbe la classica crisi di mezza età e si trasferì con la moglie su un atollo del Pacifico per capire
solo dopo che quello che stava cercando era il piacere di imparare a farsi le
cose con le proprie mani: un orto, un caffé perfetto, una casa per le api,
una chitarra e così via.
In tutto questo c’è anche una nuova visione della società, evidentemente, una società nella quale non siamo più solo consumatori,
ma produttori; e soprattutto dove si spreca di meno, le cose infatti si riusano, si riciclano, si reinventano all’infinito (a Roma una
delle performance più apprezzate è stata l’esibizione dei Capone Bungt Bangt, band napoletana che fa musica stile Daft Punk
usando pentole, scope e barattoli pescati nella spazzatura).
Ma la gioia è solo il presupposto, la scintilla iniziale. Il resto lo
fa un contesto in cui inventare una cosa che non c’è sul mercato
è diventato infinitamente più facile visto che gli strumenti tecnologici per farsi un prototipo costano sempre meno e non richiedono un master in elettronica, anzi. «Sky is not the limit, il cielo non è
più il nostro limite» ha scandito il giorno della inaugurazione il professore svizzero Raffaello D’Andrea, che è un incredibile addomesticatore di
droni (nella sua Flying Arena di Zurigo, li fa giocare a tennis e li manda a raccogliere oggetti manco fossero cani da riporto).
Ma se non abbiamo più limiti alla fantasia, vuol dire davvero che tutto o quasi
è possibile. Basta crederci e provarci. In questa autentica esplosione di creatività si intravedono almeno tre filoni. Uno più legato a oggetti unici, irripetibili, amatoriali: come le elaboratissime costruzioni di legno a pedali per fare le bolle di sapone che realizza un giovane falegname pugliese a Tricase. Uno che punta a sfruttare le potenzialità dell’Internet delle cose per esempio nel progetto sardo di una macchina del caffé
che ti fa l’espresso solo se glielo chiedi via Facebook. E un terzo che pensa in grande e
quindi al futuro dell’auto, dell’energia, delle case (fra i tanti, ha avuto un ottimo riscontro la PowerWasp, una stampante 3D fatta a Ravenna, alla base del progetto di
stampare case in argilla in Africa «e salvare il mondo»).
Tutto questo può diventare una industry e contribuire a far ripartire l’economia? «Sì,
ma trasformare un prototipo fatto per passione in un prodotto commerciale non è facile» avverte Dale Dougherty, il fondatore delle Maker Faire e leader indiscusso del movimento. In realtà dei casi di successo già esistono: la MakerBot, la startup che fa una
stampante 3D a basso costo inventata in una cantina di Brooklyn da un hacker, Bre
Pettis, è stata recentemente venduta per 403 milioni di dollari; Adafruit, la società creata da una donna ingegnere del MIT, Limor Fried, che realizzata kit di elettronica per
inventori, ha già quasi cinquanta dipendenti; e la Intel ha appena lanciato un nuovo
prodotto per gli studenti assieme ad Arduino. Si chiama Galileo, un omaggio alla grande tradizione italiana di makers. In fondo il primo di tutti è stato un certo Leonardo da
Vinci che cinquecento anni fa diceva: «La conoscenza non è abbastanza, sento l’urgenza del fare».
La PowerWasp è una prototipatrice
3D che all’occorrenza diventa
fresatrice: una volta ottenuta
la forma, si potrà tagliare,
incidere e levigare,
così da modellarla
a piacere
L’obiettivo
è realizzare
oggetti
ecosostenibili
e a basso prezzo
Da oggi le opere d’arte hanno il dono
della parola. Merito di questa start up,
che realizza modelli tattili dotati
di sensori
Quando il dito
sfiora
un particolare
del modellino,
si attiva l’audio,
che descrive
quella parte
dell’opera
La lampada
ad acqua
■
THOMAS
BORRELLI
Ideatori
Spock
ha bisogno
di poco per funzionare:
acqua (distillata) e luce
Combinando l’uso
di tre celle combustibili
a tre pannelli solari,
agganciati
alla struttura,
avremo una lampada
completamente
eco-friendly
Il carrello
intelligente
■
MARCO
GIACOMELLI
■
DAMIANO
BERTATO
Ideatori
Si tratta di un prototipo di robot
in grado di seguire il proprietario
Shopper può trasportare
facilmente oggetti pesanti:
le possibili
applicazioni
prevedono
supermarket
aeroporti
e aziende
Può essere
d’aiuto ad anziani
e disabili
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 43
Il vaso
mobile
■
MAKEINBO
Associazione
di makers
bolognesi
Come dice il nome E-vaso
è un fioriera che scappa,
e che si sposta autonomamente
a seconda
della luce
Ha sei
“zampe”
per muoversi,
e sensori
per captare
i raggi
solari
Le maschere 2.0
■ ALESSANDRO
ZOMPARELLI
■
FILIPPO
NASSETTI
Soci della Do
the mutation
Il collagene è una delle componenti
nei tessuti connettivi
I ricercatori di Do the mutation
l’hanno scelto
per produrre
maschere
I volti sono
scansionati
e analizzati
da un software
che disegna
la maschera,
poi stampata
in 3D
La cyclette
smart
■
DUILIO
PERONI
Coordinatore
del progetto
Con questa bici si può arrivare
ovunque, senza neanche
uscire di casa
La Gooble Bike
è una cyclette integrata
con le mappe di Google
Street View. Riproduce
la pendenza del percorso
modificando
la resistenza
dei pedali, mentre
lo schermo mostra
i luoghi attraversati
La musica
da disegnare
■
GILDA
NEGRINI
■
RICCARDO
VENDRAMIN
e
na
m
y
M
H
EL
is
LO
!
ideatori
Con Music Ink ogni strumento
viene disegnato
con una
vernice
conduttiva
e una volta
ultimato
si collega a un circuito
costruito con Arduino
Basta sfiorare il disegno
per ascoltare i suoni
Gli eco-mobili
Le protesi
stampate
■
MAURIZIO
COSTABEBER
General
manager
di DWS
Neanche il tempo di una visita
dal dentista e questa macchina
è in grado di riprodurre
incisivi, molari e canini,
ma anche
calchi dentali
che
sostituiscono
quelli
tradizionali
in gesso
■
AMLETO
PICERNO
SERASO
Promotore
Mediterranean
FabLab
La linea Havana nasce da un’idea
di Mediterranean Fab Lab
I mobili sono realizzati in cartone
ondulato, sfruttando le potenzialità
di questo materiale. La collezione
comprende tavoli, sedie, lampade,
e persino
alcuni elementi
d’arredo
che si
possono
incastrare
fra loro
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 44
I sapori
Gin
Trasformisti
con
Piace a James Bond ma anche ai monaci
Perché l’infuso di ginepro inventato
dai medici olandesi per combattere la gotta
è febbrifugo, diuretico,
antisettico. E molto tonico
LICIA GRANELLO
ond ordinò un doppio Gin Tonic e un lime. Quando arrivò il drink, tagliò il lime e fece cadere le due
metà spremute nel bicchiere, riempiendolo di
ghiaccio fin quasi all’orlo, poi versò l’acqua tonica.
Portò il drink sulla terrazza e si sedette ammirando
lo spettacolare panorama davanti a lui».
La competenza di James Bond (e del suo creatore Ian Fleming) in fatto di
cocktail è fuori discussione. Ma dal Gin Tonic bevuto nelle pagine del Dr.
No (1958) a oggi, il gin ha cambiato pelle cento volte, e in scia al gin l’universo dei cocktail che portano la sua firma: né potrebbe essere diversamente, per questo campione del bere alcolico nato a fini curativi, come infusione alcolica delle bacche di ginepro. Una scelta legata alle proprietà benefiche dell’olio essenziale di juniperus communis, di cui in questi giorni si
raccolgono le bacche per la produzione invernale: febbrifugo, diuretico,
antisettico, tonico. E visto che nella ricca Olanda mercantile del Seicento
una delle malattie più diffuse era la gotta, l’intuizione alchemica del dottor
Franciscus de la Boe si trasformò in un successo planetario. Il jenever finì
prima in Inghilterra con l’esercito olandese (i due stati erano alleati contro
la Spagna) e poi in America, grazie ai pellegrini ospitati nella distilleria di
Plymouth prima di salpare con il Mayflower. Attraversando prima la Manica e poi l’Atlantico, la ricetta originaria perse due sillabe e acquistò finez-
«B
Il miglior amico
del cocktail party
za, diventando rapidamente il liquore ufficiale della Royal Navy, tanto che
gli ufficiali di stanza in India lo adottarono per “battezzare” l’acqua tonica,
anti-malarico per eccellenza grazie al chinino. In patria, la diffusione del gin
si tradusse in un vistoso incremento dell’alcolismo: ma l’introduzione dei
“Gin Acts” per arginarne la diffusione non riuscì a fermarne la dirompente
popolarità. Nel tempo, Olanda e Inghilterra hanno sviluppato due linee
produttive differenti: maturazione in terracotta e gusto morbido per il nipotino del jenever, palato asciutto e toni freschi per il britannico dry gin, con
l’eccezione dell’Old Tom, addolcito da un quid zuccherino.
L’evoluzione tumultuosa degli ultimi anni — che ha coinvolto marchi
storici come Bombay Sapphire (pepe nero e lemongrass per il nuovissimo
East), o Beefeater, con la Burrough’s Reserve affinata in botti di quercia —
ha sdoganato il gin dal ruolo di fratello minore della vodka. Profumati con
cardamomo o frutti rossi, liquirizia o agrumi, rosa o anice stellato, i gin hanno conquistato l’alta ristorazione, a partire dal Gin Tonic, aromatico ma rispettoso dei piatti, ideale per pulire le papille gustative. In più, lo status di
long drink — grazie a ghiaccio e acqua tonica, a sua volta ormai frammentata in decine di etichette, con intensità differenti — è apprezzato sia in chiave salutistica che nel conteggio calorico. Se la botanica alcolica vi attrae,
partite in escursione verso le colline di San Sepolcro, Arezzo, dove i frati del
monastero di Vallombrosa elaborano il gin dalle bacche più profumate del
mondo (il ginepro della macchia mediterranea è ambitissimo dai migliori
produttori internazionali). Assaggiato il loro gin, benedetto e buonissimo,
potrete meditare sulla bellezza della campagna in autunno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
‘‘
Raymond Chandler
Un vero Gimlet è metà gin
e metà succo di lime Rose’s e niente altro
da “IL LUNGO ADDIO” (1953)
Anthony Burgess
Ha un sapore molto liscio, induce una specie
di euforia metafisica e di rado lascia sbronzi
da “THE REAL LIFE OF ANTHONY BURGESS” (2005)
‘‘
‘‘
Francis Scott Fitzgerald
Tom rientrava precedendo quattro bicchieri
di gin che tintinnavano pieni di ghiaccio
da “IL GRANDE GATSBY” (1925)
Humphrey Bogart
Di tutti i Gin Joints di tutte le città
di tutto il mondo, lei è finita nel mio
da “CASABLANCA” (1942)
Gli indirizzi
TORINO
SMILE TREE
Piazza della Consolata 9/C
Tel. 331-1848136
ALBA (CN)
SODA
COCKTAIL BAR
Corso Italia 6
Tel. 346-5938838
MILANO
REBELOT
Ripa di Porta Ticinese 55
Tel. 02-84194720
VENEZIA
ORIENTAL BAR
(HOTEL METROPOLE)
Riva degli Schiavoni 4149
Tel. 041-5205044
SESTRI LEVANTE (GE)
BASQUIAT
LOUNGE BAR
Via Garibaldi 48
Tel. 0185-458492
L’AQUILA
LA DOLCE VITA
Viale Corrado IV
Tel. 329-1605001
ROMA
THE GIN CORNER
(HOTEL ADRIANO)
Via di Pallacorda 2
Tel. 06-68802451
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
■ 45
Gin Tonic
Martini
Negroni
White Lady
Tumbler grande
pieno a metà di ghiaccio,
tre parti di gin e sette
di acqua tonica, versata
sulla spirale verticale
del cucchiaio da cocktail
Solo due ingredienti:
gin e Martini Dry
in coppetta ghiacciata
Nel Vesper (prediletto
da James Bond),
gin, vodka e China Lillet
Gin, Campari e Vermut
rosso in parti uguali
per il cocktail servito
nel tumbler (bicchiere
cilindrico) basso
Ghiaccio e fetta d’arancia
Dedicato alla sofisticata
lady Ella Fitzgerald,
vanta cinque parti di gin,
tre di Cointreau e due
di limone. Nella coppetta,
una ciliegia candita
Gin Fizz
Spopola negli anni ’70
il drink a base di gin,
limone e sciroppo
di zucchero, shakerato
con ghiaccio, servito
con soda nel tumbler
A tavola
Il signore
in giallo
Farfalle
PIERO COLAPRICO
Etichette
&drink
Alcune etichette storiche
delle migliori marche di gin
Nelle foto: un Gimlet
(in basso, a sinistra)
il cocktail preferito
dal detective Marlowe,
e vari tipi di cocktail Martini,
il drink di James Bond
volte il lapsus è rivelatore di un
mondo. È il caso dello Sbagliato, un
cocktail che sin dal suo nome promette bene. Piccolo (necessario) antefatto.
Con ingredienti italiani, si serve l’Americano, antico cocktail internazionale. A Firenze un conte, Camillo Negroni, chiede al suo
barman di fiducia di fargli un Americano,
però senza seltz: ci metta il gin. Un successo immediato, tanto che il Negroni diventa
l’aperitivo italiano doc. Si arriva così negli
anni ’60 dove, in un fumoso e famoso bar
milanese, il Bar Basso, il Negroni una sera
viene versato con lo spumante al posto del
gin: lo Sbagliato nasce così. Senza immaginare che in quel lapsus c’è uno spartiacque
letterario.
Nei romanzi gialli, noir, polizieschi italiani, il protagonista di solito che cosa beve?
Vino. Lo fa anche l’indimenticabile catalano Pepe Carvalho, nei gialli di Montalbán.
Per non parlare di Maigret, dei suoi rossi
della Loira. Lungo il nostro Mediterraneo il
detective pensa, specula, a volte troppo.
Nei gialli americani il vino non c’è, infatti
scorrono cocktail a fiumi, l’azione prevale,
e a volte i morti si contano a carrettate.
Un romanzo-simbolo di rara bellezza è
Il lungo addio di Raymond Chandler. Narra dell’investigatore privato Philip Marlowe, che sull’Hollywood Boulevard si sente come «Tarzan su un monopattino rosso». Beve spesso un Gimlet, fatto per metà
di gin. Ed è il Succhiello(traduzione di Gimlet) ad aiutarlo nell’amicizia con un cliente
complicato che, colpo di scena dopo colpo
di scena, gli lascerà addosso una tristezza
tale da rendere inimmaginabile l’euforia
del vino. Nel Mondo Nuovo made in Usa
bisognava tagliare corto. Meglio rilassarsi
secondo i precetti del GrandeGatsby: il primo drink lo prendi tu finché, a un certo
punto, è il drink che prende te.
A
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Salmone affumicato,
panna e gin al posto
della vodka, per profumare
la nota alcolica del piatto
simbolo della nouvelle
cuisine all’italiana
Scaloppine
Nota fresca, secca
e speziata per le fettine
infarinate, spadellate,
sfumate con il gin,
in alternativa ai classici
limone o vino bianco
Coniglio
Rinforzo della nota
aromatica per il principe
delle carni bianche,
arrostito in pentola
o nella teglia del forno
con bacche di ginepro
Fragole
Sentori balsamici
per i frutti di bosco
battezzati con gin
e poco zucchero
Golosa la macerazione
della frutta secca
Gelato
Contrasto di note
balsamiche tra miele e gin
nel mantecato di crema,
servito con foglioline
di menta o timo, abbinato
con sorbetto alla lavanda
LA RICETTA
Luci d’autunno
NAPOLI
PIANO B
Vico Pallonetto
Santa Chiara 15
Tel. 081-5442798
LECCE
300MILA LOUNGE
via Centoquarantesimo
Reggimento Fanteria 11
Tel. 0832-279990
CATANIA
SALOTTO 69
Via Gornalunga 17
Tel. 366-5481631
Nello shaker
mettere la pera
fatta a pezzi e lavorarla
con un muddler,
il pestello del barman
Aggiungere quindi, a uno a uno,
tutti gli altri ingredienti (uva, acqua, limone
e miele)e solo alla fine il ghiaccio
Shakerare e colare in una coppetta fredda
Guarnire il tutto, infine, con un rametto
di rosmarino e servire con accanto
alcune sottili fettine di pera caramellata
✃
Luigi Iula e Salvo Romano
gestiscono uno dei bar
più interessanti
della scena mixologist
di Torino, il BarZ8,
in corso Moncalieri,
dove il gin — oltre cento
le etichette servite
dai due giovani creativi—
viene interpretato
in modo sapiente e innovativo,
come in questo drink
appositamente
ideato per i lettori
di Repubblica
Ingredienti
gin
2 pezzi di pera
3 chicchi d’uva
1 cl di succo di pera
1 cl d’acqua
1.5 cl di succo di limone
1 cucchiaino di miele
1 rametto di rosmarino
Repubblica Nazionale
DOMENICA 13 OTTOBRE 2013
LA DOMENICA
■ 46
L’incontro
Brave (ex) ragazze
Meg Ryan
All’università studiava per fare
la reporter, resterà nella storia
del cinema per la scena cult
di un finto orgasmo al ristorante
Anche per questo l’attrice di “Harry,
ti presento Sally”
a cinquantadue anni
dice di essere stufa
di Hollywood e del ruolo
che le ha affibbiato
“Non ne posso più
di fare la romantica carina
Un’etichetta che mi ha creato
molti problemi. Anche nella vita vera”
è un ristorante a
New York, meta di
gite scolastiche e
pellegrinaggi turistici. È il “Kat’z Delicatessen”, sulla
Houston Street, East Village. È lì che
un quarto di secolo fa è stata girata una
delle più famose scene della commedia cinematografica, il finto orgasmo
dimostrativo di Meg Ryan in Harry, ti
presento Sally davanti a un imbarazzatissimo Billy Crystal in una sala allibita. Si ricorderà che a missione compiuta l’attrice riaddentava tranquillamente il suo sandwich, mentre al tavolo accanto un’attempata signora
s’affrettava a ordinare «Quello che ha
preso la signorina». Tra le cento battute più memorabili del cinema, questa
è la trentatreesima nella classifica dell’American Film Institute. Da quando
il film di Rob Reiner uscì in tutto il
mondo, nell’89, una foto della Ryan giganteggia sopra il tavolo hot del ristorante. La scena aveva richiesto innumerevoli ciak, e altrettanti finti orgasmi, entrambi coronati a fine riprese
dal regalo del proprietario del locale
alla troupe: «Un enorme salsiccione».
Lo ricorda, ridendo, la stessa protagonista, incontrata in una innocua terrasse parigina durante un break-vacanza che lei spaccia per definitivo anche se va minacciandolo da almeno
cinque anni: «Basta, tra me e Hol-
‘‘
e adesso interpreta a Broadway l’adattamento teatrale. Forse è stata decisiva, al provino, la mia risposta sull’amicizia uomo-donna, perno del film:
sì, ho detto, ci può essere semplice
amicizia. Ho molti amici maschi e il
sesso è fuori questione». Oggi risponderebbe ancora così? «Certo. Lei no?».
Difficile sostenere il suo sguardo, e
non — come potrebbero sostenere i
maligni — per via dei troppi ritocchi di
chirurgia estetica. La Ryan rimane
l’impertinente scolaretta proiettata
nei nostri sogni dal grande schermo.
Oggi zietta di se stessa, conserva intatta la verve da nipote con quegli incantevoli occhi velati d’azzurro e l’immutato sorriso di ciliegia, sempre sospeso tra il sognante e la presa in giro. Zatteroni e tubino neri su cui sfiammano
capelli da ex adolescente. La scorsa
estate al Taormina Film Fest l’avevamo vista divertirsi davanti alle clip birichine montate dal direttore Mario
Con le registe donne
ci si capisce al volo
Per i registi
uomini
tu non sei mai
il soggetto
del film
ma l’oggetto
FOTO GETTY
C’
PARIGI
lywood, è finita! Dopo i quaranta, non
esistiamo più per gli schermi Usa», e
intanto è alla terza serie tv di Web Therapy: «È una sorta di “psico-lettino”
via internet, tre minuti a botta, anziché l’interminabile blabla delle sedute classiche di un’ora».
Il rischio, in un’intervista con Meg
Ryan, è di fermarsi lì, chiedendo tutto
di tutto su quella sequenza di culto:
come se, davanti a Sharon Stone, ci si
impuntasse solo su quel punto là o si
obbligasse Anita Ekberg a ripetere la
doccia nella Fontana di Trevi. Per di
più la Ryan, botox a parte, è oggi come
ieri l’eterna ragazzina, allora di ventisette anni oggi di cinquantadue (li
compirà il 19 novembre). Tanto vale,
dunque, soddisfare subito la principale curiosità e togliersi il pensiero,
secondo l’insegnamento di Groucho
Marx che dopo le prime righe di Memoirs of a Mangy Lover scriveva: «E ora
che abbiamo liquidato la questione
sesso, possiamo occuparci del resto».
Del resto è lei la prima a incoraggiare, maliziosa e complice: «Sa chi è la signora che chiede “quello che ha preso
la signorina”? Estelle Reiner, la madre
del regista». E a chi va il merito della
scena? «È una pensata collettiva. Durante le riprese, il regista e la sceneggiatrice, Nora Ephron, si resero conto
che occorreva riequilibrare i due protagonisti: Nora ha pensato all’orgasmo simulato, io ho suggerito il ristorante strapieno, Crystal ha trovato la
battuta-clou della signora». E gli innumerevoli compagni che le sono stati
assegnati dalle cronache rosa, da
Andy Garcia a Russell Crowe, non sono mai stati sfiorati dal dubbio dopo
averla ammirata in quella scena?
Scoppio di risa: «Non ci posso credere
che nessuno m’abbia mai rivolto prima questa domanda! Senza entrare in
dettagli personali, posso fornirle un
dato statistico: durante le proiezionitest, a divertirsi erano solo le donne,
mentre gli uomini ne uscivano intontiti». Altri retroscena? «Sa da chi ho saputo che ero diventata una gigantografia al “Kat’z Delicatessen”? Da mia
figlia (Daisy True, la bambina cinese
adottata sette anni fa, ndr). Corse verso di me al ritorno dalla gita scolastica:
“Mamma, mamma, eri nella foto!” mi
ha detto. Ha solo otto anni: le ho raccontato una bugia». E com’è arrivata
al ruolo che l’ha lanciata? «Il regista
aveva già scelto Molly Ringwald di Bella in rosa, che all’ultimo ha rinunciato
Sesti. Tra queste, la dimenticabile apparizione in Top Gun di Tony Scott,
suo primo volo accanto all’altro divo
agli esordi, Tom Cruise. «Avevo due
scene. “In una sei felice, nell’altra sei
triste”, era stata l’unica indicazione
del regista. Altro che Actor’s Studio. E
a poco più di vent’anni non avevo l’esperienza che di qualche ruoletto al limite della comparsa: nell’ultimo film
di George Cukor, Ricche e famose, e nel
quasi-ultimo di Richard Fleischer,
Amityville 3-D, oltre che nella sitcom
As the World Turns. Dove m’ero fatta
apprezzare perché capace di piangere
a comando. Per me fare l’attrice è stata una distrazione di gioventù. Da ragazza ero sicura di diventare una reporter, e se così fosse andata forse ora
sarei qui al suo posto. Ho studiato
giornalismo a New York, all’inizio recitavo solo per arrotondare la paghetta da universitaria». Poi il cinema ha finito per scandire la sua vita, anche
quella sentimentale: «Quasi subito,
con Dennis Quaid, sposato nel ’91.
L’avevo conosciuto a ventisei anni in
Salto nel buio di Joe Dante: sul set ero
la sua ragazza, lui un ufficiale miniaturizzato che finiva iniettato per errore nel corpo d’un timido commesso.
Un bel triangolo... Siamo stati insieme
dieci anni e abbiamo avuto un figlio,
Jack Henry, oggi ventunenne, anche
lui fa attore». Il viavai realtà-finzione
l’ha stordita o aiutata? «Tutt’e due le
cose. Non mi è mai piaciuto dover recitare anche nella vita la parte dell’inguaribile romantica, carina e frizzantina, modellata sui personaggi che mi
hanno reso celebre. L’etichetta cinematografica della girl friend fedele e
sognatrice mi ha creato problemi anche nel privato. Per questo, appena ho
potuto, ho cercato di dare uno
schiaffone alla mia immagine, interpretando per esempio nel ’94 una giovane madre alcolizzata in When a Man
Loves a Woman. Ruolo che ha coinciso positivamente con la realtà, perché
mio marito stava attraversando proprio un periodo d’alcolismo: grazie a
quanto imparato nel film ho potuto
capirlo meglio e quindi aiutarlo». Per
tutti, però, lei rimane la vagheggiata fidanzatina della porta accanto, la
bionda silhouette dell’innamorata
ideale che, film dopo film, da sceneggiatrice o da regista, le ha cucito addosso Nora Ephron, scomparsa l’anno scorso: «Le ero molto legata. La sua
morte ha colpito moltissimo sia me
che Tom Hanks. Aveva saputo farci diventare un tandem perfetto con soli
due film, Sleepless in Seattle e C’è post@ per te. Con lei è cominciata una
nuova era per la commedia sofisticata, vanto del cinema americano di
quegli anni. Ne conosceva i due
princìpi base: l’intelligenza dei dialoghi, dai ritmi magicamente calibrati
come partiture musicali, e la miracolosa alchimia dei partner, che ha evidentemente funzionato tra me e Crystal e, di nuovo, con Hanks, anche se
resta inspiegabile l’empatia tra attori,
dalle affinità mai naturali ma sempre
apparenti».
Meg Ryan è stata diretta di tanto in
tanto anche da registe: oltre alla Ephron, Diane Keaton e, dieci anni fa, Jane Campion, nel thriller erotico In the
Cut. Avverte sostanziali differenze rispetto alle regie maschili? «Assolutamente. Il film della Campion rappresenta un cambiamento radicale nella
mia carriera: sul set ci capivamo subito, si può dire che siamo state entrambe autrici del film. Con i registi non
m’è mai capitato. Per un uomo non sei
mai il soggetto di un film ma l’oggetto.
Una donna, invece, vede quel che vedi tu, sente quel che senti tu, è sempre
interessata a quello che provi. Per capirci: la scena nel film della Campion
(quella in cui lei è nuda e fa sesso con
l’ispettore Malloy/Mark Ruffalo, ndr)
l’ho vissuta come l’esatto contrario di
quella del finto orgasmo al “Kat’z Delicatessen”».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
Scarica

la domenica - La Repubblica.it