Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Marco Geddes Valtere Giovannini Carlo Hanau Gavino Maciocco Mariella Orsi Daniela Papini Paolo Sarti Luigi Tonelli Alberto Zanobini Collaboratori Marco Biocca, Centro Documentazione Regione Emilia-Romagna Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia Regionale di Sanità della Toscana Ivan Cavicchi, Università La Sapienza e di Tor Vergata - Roma Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino Nerina Dirindin, Assessore alla Sanità, Regione Sardegna Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma Emanuele Scafato, Istituto Superiore di Sanità - Roma Comitato Scientifico Giovanni Berlinguer, Professore Emerito Facoltà di Scienze - Roma Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera - Reggio Emilia Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano Donato Greco, Direttore Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma Segreteria di redazione Simonetta Piazzesi 349/4972131 Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 dicembre 2007 165 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini Giunta Regionale Toscana Anno XXVIII - Novembre-Dicembre 2007 Sommario 338 340 344 E. Catarsi L. Caligiani, I.Lapi F. Mori 348 S. Vaccari Monografia 356 L. Tomatis 361 365 F. Carnevale 368 369 E. Buiatti 372 373 376 377 380 381 383 384 387 388 390 392 E. Paci G. Berlinguer G. Donzelli I. Cavicchi A. Stefanini C. Cislaghi Esperienze dal territorio 394 P. De Simone 396 M. Buselli Abbonamenti 2007 Italia € 41,32 Estero € 46,48 Sostegno alla genitorialità Assistenza al lutto dei minori Enzo Arian ebreo, psichiatra, psicoterapeuta Madri a rischio Maccacaro, lo stratega del SSN I rischi attribuiti ad agenti chimici Medicina e lavoro Scienziato e sostenitore delle lotte per la salute dei lavoratori Malattia qualitativa e malattia quantitativa La transizione epidemiologica da Maccacaro ai nostri tempi Prevenzione secondaria e screening di massa Sviluppo della tecnologia e della biomedicina Lettera al presidente dell’ordine La risposta all’inquisitore Il bambino è dell’ospedale? I diritti del bambino ospedalizzato L’Unità sanitaria locale L’idea originaria di un “insieme di servizi” L’uso di classe della medicina La persistenza delle diseguaglianze nella salute Pratica medica e controllo sociale Classi sociali e salute La comunicazione dei rischi in Azienda Criticità organizzative nell’ambito del sistema 118 Fotocomposizione e stampa Edizioni ETS - Pisa Per abbonarsi: www.edizioniets.com/saluteeterritorio Pagamenti online con carta di credito o PayPal l ute Sa e 338 Territorio Enzo Catarsi Direttore del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Firenze e Consulente dell’Istituto degli Innocenti N el nostro Paese abbiamo assistito nell’ultimo cinquantennio ad una ricorrente campagna, tanto retorica quanto inconcludente e velleitaria, a proposito del ruolo della famiglia e del significato educativo della genitorialità. È infatti mancata, in concreto, una vera e propria politica della famiglia, mentre, al contempo, sono stati in generale inesistenti gli interventi tesi a sostenere la genitorialità, in special modo nel momento in cui essa inizia ad esplicitarsi e ad essere interpretata dai nuovi genitori. Gli stessi Consultori familiari si sono limitati ad operare in direzione di una peraltro utile e valida educazione contraccettiva, senza impegnarsi in maniera adeguata nella organizzazione di percorsi formativi di sostegno ai nuovi genitori. Scelte procreative e ruolo dei Consultori Questi ultimi, fra l’altro, hanno sempre più richiesto, nel corso degli anni, un’attenzione specifica per il momento della nascita, a cui si è risposto con l’organizzazione di percorsi di preparazione al parto che, almeno in Toscana, si sono andati sempre più qualificando, ma che non potevano rispondere ai bisogni Educazione sociosanitaria N. 165 - 2007 Sostegno alla genitorialità formativi più generali delle giovani coppie. L’elevamento del livello culturale della popolazione italiana, unitamente alla consapevolezza sempre più diffusa riguardo l’ importanza dei primi anni di vita, hanno peraltro determinato un atteggiamento più responsabile e meditato di fronte alle scelte della procreazione e dell’allevamento. Uno dei risultati di questo nuovo atteggiamento è senza dubbio il fenomeno del “figlio unico”, che, al di là della superficiale accusa di “individualismo”, mossa ai genitori che decidono di avere un solo figlio, è quasi sempre il frutto di diverse motivazioni, a cominciare dalla consapevolezza delle difficoltà finanziarie connesse all’allevamento. L’accusa di individualismo che viene rivolta ai genitori che decidono di avere un solo figlio appare quindi stereotipata e frutto di quel senso comune che troppo spesso è solo l’aspetto visibile del pregiudizio. È vero invece che i genitori sono sempre più consci dei loro limiti e talvolta sono condizionati da una sorta di “ansia genitoriale” frutto della solitudine con cui quasi sempre si trovano ad interpretare il ruolo di madre e di padre. La decisione di avere Un piano di ricerca-azione promosso dalla Regione Toscana dalla nascita all’inserimento del bambino nel contesto familiare un figlio comporta, evidentemente, un forte investimento psicologico, specialmente in una situazione come quella italiana – ma anche toscana – in cui l’evento nascita è venuto assumendo un’importanza di grande significato e deve essere accompagnato da percorsi di formazione dei genitori dai caratteri non solo sanitari. La nascita, peraltro, ha anche evidenti e prioritarie implicazioni di tipo medico, che però sono state sopravalutate a scapito di quelle di carattere psicologico. Queste ultime, in effetti, non hanno avuto la considerazione che meritano, mentre la dimensione medica ha avuto una importanza sempre maggiore, fornendo, peraltro, anche buoni risultati nel processo di lotta alla mortalità infantile. La madre ed il bambino tendono così a diventare dei pazienti, anche se la situazione sta cambiando, come dimostra anche la realtà toscana dove esistono, in maniera sempre più diffusa, modalità organizzative del momento del parto che ri- spondono ai bisogni psicologici – di rassicurazione e di costruzione del legame di attaccamento – di entrambi. Quello che più fa piacere, peraltro, è che tali considerazioni siano state fatte da alcuni ginecologi, che in tal modo si sono espressi nel contesti dei focus group che sono stati organizzati nell’ambito della esperienza di ricerca di cui diamo conto in questo articolo e che è stata promossa dall’Assessore Enrico Rossi e gestita dall’Istituto degli Innocenti. Il progetto nascita in Toscana Partendo da questi presupposti la ricerca di cui diamo conto, promossa dalla Regione Toscana e gestita dall’Istituto degli Innocenti, ha inteso promuovere una prima rilevazione dei corsi di preparazione al parto ed alla nascita organizzati nei Punti nascita e nei Consultori operanti nella Regione Toscana. I risultati sono piuttosto interessanti e consentono in ogni caso di fermare l’attenzione su alcuni Educazione sociosanitaria N. 165 - 2007 aspetti significativi, a cominciare dalla “centralità” della figura dell’ostetrica, che accoglie le donne nel primo momento della gravidanza e le accompagna fino alla nascita del bambino. Tale dato emerge da più elementi, a cominciare dalla offerta del “Libretto regionale di gravidanza” che in Toscana viene consegnato a tutte le gestanti. Interessante appare anche il dato relativo alle diverse denominazioni dei percorsi nascita organizzati nella nostra Regione. Ovviamente il richiamo al parto è presente nei 2/3 delle situazioni. Ma il contemporaneo utilizzo del termine nascita lascia intendere che si è ormai acquisita la consapevolezza di superare l’impronta esclusivamente medicalizzata che ha caratterizzato storicamente i corsi di preparazione al parto. In questo caso molto si deve al movimento delle donne ed all’impegno professionale delle ostetriche più avvertite che – prima e meglio dell’altro personale sanitario – hanno capito i bisogni relazionali e di rassicurazione che provenivano dalle gestanti. Anche per questo la presenza delle ostetriche è apparsa centrale all’interno dei diversi percorsi nascita, con un impegno che talvolta risulta davvero gravoso, come ha rilevato Rita Breschi, Direttore dell’Unità operativa di Ostetricia dell’Azienda fiorentina, la quale, nel corso di uno dei focus group organizzati nell’ambito del progetto, ha dato delle indicazioni assai interessanti Le ostetriche hanno quindi piena consapevolezza dell’onere che è ricaduto su di loro e che in effetti questa ricerca riscontra in maniera inconfutabile. Oltre a quanto affermato in precedenza, in effetti, lo dimostrano anche le risposte alle domande della scheda di rilevazione, in cui si chiedeva di indicare la figura professionale impegnata per più tempo nel corso di preparazione e, un po’ dopo, come ulteriore verifica, il numero di incontri tenuti dal singolo operatore. La nostra rilevazione lascia emergere, inoltre, il dato che i corsi di preparazione alla nascita hanno carattere continuativo e sono ormai entrati a far parte del programma di lavoro delle strutture che hanno risposto. Allo stesso modo è indicato che la stragrande maggioranza dei corsi inizia con il settimo mese di gravidanza delle gestanti, mentre in qualche altro caso inizia con il sesto. Quasi nessuno dichiara di iniziare prima. Questo, evidentemente, è un dato significativo per capire l’obiettivo dell’intervento, esclusivamente finalizzato al momento del parto. Ed è appunto su questo elemento che occorre lavorare, al fine di trasformare realmente questi contesti in rinnovati percorsi di educazione familiare, in grado di dare strumenti ai giovani genitori nella prospettiva del sostegno effettivo alla crescita ed allo sviluppo dei loro bambini. Tale obiettivo, peraltro, non significa in alcun modo sottovalutare l’interesse per il momento del parto ed il coinvolgimento del personale sanitario, che ha importanza prioritaria e la cui presenza è evidentemente essenziale. Ma è proprio a partire dal grande consenso che hanno queste caratteristiche che occorre introdurre una nuova attenzione per la dimensione formativa della genitorialità, di significato fondamentale per lo sviluppo delle giovani generazioni. Il gruppo di formazione dei genitori Un limite significativo che emerge dalla rilevazione è la sostanziale mancanza di interventi dopo il parto. In generale questi possono avvenire su richiesta esplicita della donna, mentre solo in pochi casi esiste una offerta dell’Azienda. In ogni caso quando esiste un intervento dopo il parto esso consiste generalmente in una o due visite domiciliari di ostetriche, integrate, ma solo in pochi casi, da visite dell’assistente sociale. Negli ultimi tempi cominciano ad essere introdotte anche altre attività, anche se non in maniera sistematica e molto spesso sulla spinta della campagna per l’allattamento al seno che, in effetti, costituisce occasione di aggregazione. In altri casi l’incontro ha carattere di festa, per ritrovarsi dopo l’evento nascita e socializzarne le caratteristiche all’interno del gruppo con cui si era condiviso il percorso di formazione. In pochi altri casi si parla di corsi di massaggio infantile oppure di cicli di incontri con la psicologa, generalmente portati a termine con il terzo mese della vita del bambino. In ogni caso la rilevazione realizzata nei “Punti nascita” e nei Consultori della Toscana Sae l ute Territorio 339 ha mostrato come nella nostra Regione vi sia ormai una ricchezza di esperienze riguardo i corsi di preparazione alla nascita. Al contempo è emerso come questi ultimi si limitino al periodo prenatale, mentre dopo il parto i genitori vengono lasciati soli con sé stessi, in un momento cruciale della vita come è quello della nascita di un figlio. Tale evento, in effetti, è particolarmente significativo nella vita di un uomo e di una donna, in quanto comporta l’acquisizione di una nuova identità, quella genitoriale, ma anche un cambiamento nell’organizzazione e nella definizione dei ruoli e delle relazioni all’interno della famiglia stessa. I figli assegnano nuovi ruoli, non solo all’interno della coppia, ma anche nelle famiglie d’origine: i coniugi diventano anche genitori, i genitori anche nonni, alcuni diventano zii, ogni membro della famiglia ricopre contemporaneamente un doppio ruolo e si trova a gestire una rete complessa di rapporti. Proprio in virtù di tali considerazioni il Progetto nascita curato dall’Istituto degli Innocenti ha previsto fin dall’inizio la realizzazione di un percorso di formazione con i genitori, al fine di far loro acquisire una maggiore sicurezza unitamente a specifiche competenze genitoriali. Quest’ultima è stata concepita e realizzata come un nuovo intervento di educazione familiare, fondato sulla strategia del piccolo gruppo, dove (Segue a pag. 343) l ute Sa e 340 Territorio Lucia Caligiani Isabella Lapi* Medico palliativista, psicoterapeuta, UFMA Cure palliative, Azienda sanitaria Firenze * Psicologo psicoterapeuta, UF. Salute mentale infanzia-adolescenza, Azienda sanitaria Firenze C onoscere e analizzare le problematiche che un bambino deve affrontare per la perdita di un genitore, ancor prima che il lutto avvenga, è indispensabile per qualunque familiare e operatore. L’accompagnamento nel corso della malattia, prima della morte e nei primi tempi del lutto, riveste un’estrema importanza per lo svolgimento e l’esito del lutto dei minori. Quando in famiglia un genitore o un familiare significativo sta male e muore, intorno al bambino cala il silenzio: si tace su ciò che sta per accadere, alle domande non si risponde se non vagamente o con spiegazioni fantastiche, si parla sottovoce cercando di non farsi sentire, si negano le lacrime, a volte si esibisce una allegria forzata, più spesso, nel momento decisivo, lo si allontana da casa. Il silenzio degli adulti è fatto per “proteggere il bambino”: si pensa che non sia in grado di capire un fatto così impensabile come la morte e non sia in grado di sopportare un dolore così grande, nell’illusione dell’infanzia come periodo felice che non deve essere turbato. ”È troppo piccolo per capire… non può reggere tanto dolore… non può Psicoterapia N. 165 - 2007 Assistenza al lutto dei minori pensare a certe cose alla sua età” sono le parole più ricorrenti, e con esse, il grande interrogativo: “Ma come facciamo a dirglielo?”. Già tanto provati dal proprio dolore gli adulti molto spesso fanno fatica ad affrontare, accogliere e contenere anche il dolore del bambino, si sentono incapaci, hanno paura di fargli del male e, forse, di far ancor più male a sé stessi. Accanto al desiderio di proteggere il bambino c’è il desiderio inconscio di proteggersi: tenendo il bambino al riparo dal dolore si cerca di tenere al riparo una parte di sè stessi. Ma il silenzio degli adulti per il bambino è un silenzio che grida angoscia e paura provenienti dal suo mondo interno. È un vuoto inquietante, riempito dal dolore che percepisce dagli adulti e dalle sue fantasie che inevitabilmente vanno a colmare l’informazione e la spiegazione che mancano – fantasie paurose e connotate da sensi di colpa. I bambini e gli adolescenti di fronte alla morte I bambini non interpretano l’esclusione in senso protettivo ma spesso sviluppano fantasie drammatiche, come la paura di essere abbandonati sia dal genitore malato che Un progetto di sostegno psicologico per la prevenzione del danno della perdita di un familiare da quello sano; altri cercano di riparare al danno sentendosi in dovere di sostituire il genitore mancante assumendone il ruolo. La morte disorienta in ogni caso il bambino, che nel suo inconscio tende ad interpretarla come provocata da qualcuno, quasi come un assassinio: alcuni pensano di esserne stati loro la causa, si sentono colpevoli e il loro dolore diventa intollerabile. A questo dolore si aggiungono il disorientamento e il senso di colpa del genitore vivente, che subisce anch’egli la violenza di una morte che lo ha reso impotente e ha risvegliato tutte le sue fragilità. Al bambino viene così a mancare la presenza protettiva dell’adulto: la chiusura ed il silenzio dell’adulto lo lasciano nella solitudine, resa più dolorosa dalla percezione che l’adulto in quel momento non ce la fa ad essere con lui. Il bambino e, in parte, anche l’adolescente, hanno un pensiero autoreferenziale ed egocentrico, tendente cioè ad at- tribuire a sé stessi la responsabilità degli eventi. È essenziale affrontare nel lavoro di elaborazione del lutto il senso di colpa che sempre aleggia intorno alla morte, che nei bambini è ancora maggiore che negli adulti. Essenziale è anche favorire nei bambini i ricordi della persona perduta, in modo particolare il genitore, per favorire il mantenimento nel suo mondo interno di un oggetto buono di riferimento. Questa figura di genitore “immaginario”, che molti bambini conservano dentro di sé, pur essendo consapevoli della perdita reale, è necessaria e non è da ritenersi una complicazione del lutto. Fantasie distruttive o di danneggiamento – come paura di ammalarsi loro stessi o che l’intera famiglia possa dissolversi – possono irrompere anche quando al posto del silenzio si insinua la “bugia” degli adulti. I familiari, infatti, tentano spesso di sdrammatizzare e mascherare l’ineluttabile realtà con un’immagine Psicoterapia N. 165 - 2007 che ritengono meno paurosa, rimandando la “verità” ad un momento futuro “più opportuno”. In realtà il momento più opportuno viene continuamente rimandato e per il bambino, lasciato solo con le sue fantasie, sembra non arrivare mai. I danni del lutto “bloccato” I bambini e gli adolescenti reagiscono in modo evidente alla morte e sviluppano processi di lutto analoghi a quelli degli adulti. La malattia grave e la morte minacciano profondamente la sicurezza dell’attaccamento e la serenità del percorso evolutivo, e non è infrequente l’insorgere sia a breve che a lungo termine, di problematiche depressive, di disturbi del sonno e dell’alimentazione, difficoltà scolastiche e relazionali, comportamento aggressivo, o al contrario, chiusura e passività. La presenza di questi disturbi è maggiore tanto più la malattia del genitore o del congiunto dura da tempo ma anche quando il figlio non è stato informato o non lo è stato adeguatamente circa le circostanze della morte e non ha partecipato al lutto familiare. Se risulta normale in un primo momento la fase della non accettazione della perdita, quando non vengono espresse le forti emozioni ad essa collegata esiste il rischio di prolungare troppo questa fase, continuando a vivere come se nulla fosse successo per evitare del tutto il lutto. Questa situazione favorisce un’apparente sicurezza che deve sempre essere rinforzata, per lo più al prezzo di un totale adeguamento ad un modello di comportamento compiacente e adultizzato. Restando intrappolato in questa situazione di negazione, il bambino si sentirà sempre più triste e privo di significato. Questa modalità spesso non è che il tentativo per evitare la fase in cui erompono le emozioni che fanno sentire il bambino e il ragazzo sopraffatto, come rabbia, dolore, senso di colpa. Si crea così una situazione di blocco psichico che rende il minore impotente tanto che non riesce ad andare avanti nel processo di elaborazione del lutto, non concedendosi di entrare nella fase trasformativa. Spesso il lutto può bloccarsi proprio nella fase in cui si ha la separazione interiore dal defunto e il bambino comincia a rivolgere l’attenzione verso un nuovo oggetto d’amore vivo e vitale: può venire travolto dai ricordi e dai sensi di colpa per essere cambiato e avere “tradito”, e da qui può iniziare una regressione che impedisce al morto di essere tale e al vivo di vivere. La rimozione o un processo di lutto incompiuto può portare a situazioni di ansia e depressione che si manifestano con sintomi abbastanza tipici ma talvolta sottovalutati: disturbo d’ansia di separazione che si manifesta in maniera eccessiva rispetto alla separazione da casa o dai familiari, riluttanza o rifiuto di andare a scuola, difficoltà a stare da solo a casa o senza la presenza di una figura di attaccamento, rifiuto ad andare a dormire nel proprio letto, incubi frequenti. Spesso si manifesta disagio a scuola in cui il ragazzo non riesce a mantenere un adeguato livello di attenzione, oppure nel gioco, o ancora, sembra assente nella conversazione e ha difficoltà a organizzarsi nelle incombenze quotidiane. Si assiste a fenomeni di iperattività, in cui non riesce neppure a giocare e sembra sempre sotto pressione. Al contrario, si può avere inibizione psicomotoria, che evoca assideramento emotivo e blocco delle funzioni mentali, abulia e prostrazione. Si osserva talvolta la perdita di progettualità per il futuro, che porta il bambino a non immaginare di poter diventare adulto oppure, per formazione reattiva, a sentirsi magicamente onnipotente rispetto al congiunto rimasto invece vittima della morte. Non infrequenti sono le manifestazioni somatiche del trauma che non trovando un canale psichico di espressione si evidenzia a livello corporeo: disturbi del sonno, regressioni fisiche e comportamentali (tipica è l’enuresi), sintomi dermatologici. La comunicazione delle emozioni Il modo in cui vengono condivise la malattia e la perdita condizionano il processo del lutto e sono determinanti per l’evoluzione psicologica del bambino e dell’adolescente. Per il bambino, quando muore un familiare, l’essere insieme a chi è rimasto condividendo i sentimenti di perdita e le fantasie collegate, è la condizione necessaria per poter elaborare il lutto. Certamente l’atteggiamento pro- Sae l ute Territorio 341 tettivo da parte dell’adulto non va abbandonato: alcuni aspetti della malattia e della morte possono essere veramente troppo per il bambino, troppo grandi e inutili per il suo livello di comprensione, dannosi perché oltre la sua possibilità di assorbimento emotivo. Tuttavia, pur senza investire il bambino di pesi troppo grandi per lui, occorre comunque assecondare e guidare la sua curiosità e la sua ricerca psicologica intorno alla morte perché il processo di lutto possa compiersi: parlare di quanto sta accadendo, spiegare, esplicitare il dolore di ognuno, partecipare alle esequie sono premesse per la presa di coscienza di una perdita che è, sì, irreparabile ma il cui dolore può essere lenito se viene condiviso. Parlare di morte ai figli di un malato a fine vita è certamente molto difficile ed andrebbe fatto per gradi ma è anche necessario: le non risposte dell’adulto bloccano ogni ricerca,ogni interrogazione, ogni elaborazione, e possono condurre ad una mancata elaborazione del lutto le cui conseguenze psicologiche,come abbiamo visto, possono essere molto gravi. Le non risposte dell’adulto spesso sono le non domande del bambino: il minore può trincerarsi dietro il silenzio ritenendo indicibile il proprio dolore e insostenibile per l’adulto, di cui intuisce la sofferenza; anche il bambino pensa di dover proteggere la sua famiglia usando gli stessi mezzi. Nell’imminenza di una morte e nei momenti immediatamente successivi è necessario offrire sostegno con strumen- l ute Sa e 342 Territorio ti tecnici specialistici per avviare il processo fisiologico del lutto. Il progetto ALBA Per prevenire la psicopatologia del lutto e i suoi danni evolutivi, abbiamo costituito nell’area fiorentina un progetto sperimentale per sostenere i minori. Nato con l’appoggio diretto delle Società della salute e dell’Azienda sanitaria di Firenze, e con il sostegno di organizzazioni di volontariato1, il progetto, denominato ALBA (Assistenza lutto bambini adolescenti), è attuato da un piccolo team di psicoterapeuti – con formazione ad orientamento psicoanalitico e competenze nell’area specifica delle cure palliative e del lutto – che effettua consultazioni psicoterapeutiche direttamente ai bambini e agli adolescenti: l’intento è offrire loro spazio di espressione e contenimento al dolore, favorire l’avvio del processo del lutto, potenziare le energie psichiche sane che possono contrastare gli effetti traumatici della perdita. Su segnalazione dell’équipe delle cure palliative che ha in carico il paziente in fase terminale, i terapeuti visitano a casa la famiglia e concordano le modalità di osservazione e colloquio con i figli; contemporaneamente vengono date indicazioni di comportamento ai familiari, e spesso anche Psicoterapia alla scuola; ogni caso, infine, è discusso con l’équipe di cure palliative sia per restituire all’équipe la lettura della situazione del minore sia per coordinarsi con gli psicologi interni al servizio che si occupano del sostegno al lutto dell’adulto2, o anche per attivare, in caso di necessità, la rete dei servizi (servizi di salute mentale infanzia-adolescenza, servizi sociali, gruppi di auto-mutuo-aiuto per le famiglie monoparentali, ecc.). La consultazione psicoterapeutica La consultazione prevede in genere un ciclo di sedute di osservazione e gioco con i bambini più piccoli, e di colloquio con gli adolescenti, fino ad un massimo di cinque nell’arco di tempo che va dalla fase terminale al periodo immediatamente successivo alla morte, e altre due – tre sedute nell’arco dell’anno, scelte in base a date significative. Il modello dell’intervento è flessibile per adattarsi a situazioni molto diverse tra loro per bisogni, capacità, difficoltà vissute: in alcuni casi il numero delle sedute può estendersi e la consultazione può assumere la veste di una psicoterapia breve focale, in altri può anche bastare un solo incontro; in presenza di disagio o patologia pregressi, o di difficoltà persistenti, sarà invece necessario l’invio mirato ai servizi di salute mentale N. 165 - 2007 infantile per una presa in carico più duratura. Il setting iniziale è la casa stessa del minore ma è a disposizione anche una stanza di consultazione presso la struttura sanitaria; la stanza è attrezzata come una qualunque stanza di psicoterapia, i bambini hanno a disposizione piccoli giocattoli (famiglie, animali, macchinine…), carta e colori. Nella consultazione il terapeuta si pone in un atteggiamento di contenimento e di “verità” affrontando in modo diretto il problema della perdita: questo consente al bambino di esprimere e condividere le sue angosce trovando difese più funzionanti. Per il suo lavoro il terapeuta del team si avvale degli strumenti tecnici mutuati dall’Osservazione partecipe (Infant Observation secondo E. Bick) e dalla terapia psicoanalitica (come l’interpretazione). Attraverso il colloquio preliminare alla consulenza ai figli, anche i familiari vengono aiutati a porsi con il bambino in un atteggiamento di verità trovando le modalità di stare vicini a lui e coinvolgerlo nel commiato e nel funerale, rispettando la sua età e il suo bisogno di protezione ma senza escluderlo. L’atteggiamento di verità e di condivisione viene suggerito anche alla scuola, soprattutto al momento di riaccogliere in classe il bambino o il ragazzo. Conclusioni Anche se viene riconosciuto da tutti gli operatori il potenziale patogeno delle perdite familiari e denunciate le difficoltà degli adulti a gestirle nella relazione con i figli, esiste un vuoto assistenziale generalizzato – quasi come se anche le istituzioni sanitarie vivessero la stessa difficoltà dei familiari ad infrangere il muro di silenzio che circonda il bambino. In Italia e all’estero sono pochissime e non strutturate in servizio le esperienze di sostegno psicologico al lutto dei minori. Il progetto ALBA si presenta fortemente innovativo per le sue caratteristiche originali: il sostegno psicologico viene ottenuto tramite consultazione rivolta direttamente ai bambini e agli adolescenti, e non filtrata dai familiari; la natura prettamente psicologica di questa consultazione è tesa a sostenere il mondo interno del bambino cercando di attenuare l’angoscia, e promuovere e potenziare le sue difese. Al contempo, viene data attenzione anche al suo mondo esterno, tramite le indicazioni di comportamento agli adulti, che vogliono sollecitare nella famiglia un clima di verità e dialogo. L’altra scelta operativa importante è quella di iniziare l’intervento prima della morte del genitore: il sostegno offerto ai figli e ai familiari favorisce la pos- 1 Il nostro ringraziamento va a quanti hanno creduto fin da subito a questo progetto e ci hanno aiutato, in particolare i Respons abili UFMA Cure palliative, la dott.ssa S.Rogialli e il prof.L.Bartolini, rispettivamente Direttore e Presidente della SdS Sud est, il Calcit, la dott.ssa L.Tre Re, Direttore della SdS Firenze, la Direzione Sanitaria dell’ASL di Firenze. Ringraziamo inoltre, il dr. A. Valdrè, Direttore della SdS Nord ovest, che ha favorito l’avvio di un progetto di zona per il sostegno al lutto, coordinato dalla dott.ssa C. Pratesi, con il quale collaboriamo. 2 Già dal 2000 è presente nei Servizi aziendali di cure palliative l’attività di consulenza psicologica diretta sia al malato a fine vita e alla sua famiglia, sia al gruppo di lavoro degli operatori e dei volontari, coordinata dalla dott.ssa G. Mieli. Psicoterapia N. 165 - 2007 sibilità di salutarsi e separarsi, ed entrare nel lutto con maggiore serenità. Il progetto è nato all’interno delle cure palliative e ne ripropone la filosofia, ovvero la non medicalizzazione del processo di morte e la presa in carico globale del paziente. Il lutto è da ritenersi una reazione psicologica normale rispetto alla perdita e l’intento della consultazione specialistica è solo quello di soste- Bibliografia Campione F. (2000), Rivivere. L’aiuto psicologico nelle situazioni di crisi, Clueb, Bologna. Cancrini T., (2003), Un tempo per il dolore, Bollati, Torino. (segue da pag. 339): Sostegno alla genitorialità i genitori possono raccontare le loro esperienze e confrontarsi fra loro. Tale impegno conversazionale, peraltro, non è fine a sé stesso, ma si alimenta di una continua mediazione tra sapere teorico, proprio degli specialisti, e sapere pratico, di cui sono portatori i genitori. Tale modalità necessita di un animatore che si vive come “facilitatore della comunicazione” e che riesce a vivere la sua professionalità al servizio della crescita dei genitori. Giuseppe Sparnacci, in effetti, che come psicologo ha coordinato il gruppo dei genitori, ha interpretato al meglio questo ruolo, mettendo i genitori a loro agio ed in condizione di confrontarsi e discutere fra loro. Il suo modo di operare, fra l’altro ha favorito una presenza “non direttiva” anche del pediatra e del pedagogista. In particolare il primo, in effetti, non sempre ha comportamenti di questa natura, anche se dobbiamo evidenziare che Paolo Sarti – intervenuto in questo contesto – è un pediatra dalle evidenti competenze relazionali e dalla spiccata sensibilità democratica, come dimostra la sua trentennale attività con le mamme ed i genitori in generale. Allo stesso modo stimolante si è rivelata la partecipazione della pedagogista, che ha affrontato con i genitori i temi del gioco e della lettura dei libri di figure. Anche alla luce di questa esperienza dell’Istituto degli Innocenti appare quindi im- nerne l’evoluzione sana, e ha quindi finalità squisitamente preventive. Una frase, anonima, racchiude in poche parole l’essenza del nostro lavoro: “Non puoi diminuire la notte ma puoi Sae l ute Territorio 343 aumentare la luce” – non è possibile, infatti, eliminare il dolore del lutto, ma è possibile aumentare la capacità psichica di non esserne sopraffatto e non perdersi nelle tenebre del dolore. Chabert C. et al. (2006), Figure della depressione, Borla, Roma. Freud S. (1915), Lutto e melanconia, OSF, VIII. Palacio Espasa F. (1995), Psicoterapia con i bambini, Cortina, Milano. Palacio Espasa F. (2004), Depressione di vita, depressione di morte, Cortina, Milano. pensabile organizzare iniziative di formazione dei genitori dal carattere precettistico, mentre sembra non più rinviabile la realizzazione di esperienze che educhino i genitori alla riflessione critica ed alla disponibilità all’ascolto, foriera di qualificare tutte le relazioni ed in particolare quelle con i figli. L’educazione dei genitori, in effetti, non può essere intesa secondo una tradizionale logica trasmissiva del sapere, ma deve partire dagli stili educativi messi in atto, per discuterli e confrontarli, in maniera da migliorarli e da rispondere sempre più precisamente ai bisogni dei figli. I risultati di questo progetto, in definitiva, paiono però interessanti non solo per i genitori, ma anche per la formazione del personale sani- tario. Un auspicabile proseguimento, infatti, potrebbe essere costituito dalla formazione in servizio di tutti quei professionisti che, nei diversi “Punti nascita” della Regione Toscana, operano nei percorsi di preparazione alla nascita. Allo stesso modo sarebbe assai utile poter sperimentare il percorso genitori dopo il parto in alcune altre realtà toscane, dopo averlo fatto all’Istituto degli Innocenti. In questo modo potrebbe essere elaborato una sorta di “modellino” da utilizzare poi al meglio in tutta la realtà regionale al fine di far diventare il momento della nascita un primo contesto di educazione dei genitori e conseguentemente un investimento per il futuro successo formativo dei bambini. l ute Sa e 344 Territorio Franco Mori Psichiatra S fogliare semplicemente il curriculum di Enzo Arian significa per me, toccare con mano alcune delle vicende più drammatiche del secolo scorso, per poco che esse vivano ancora nel ricordo delle persone che in qualche modo le hanno vissute o ne abbiano avuto notizia. Enzo nasce a Berlino nel 1912, poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, che dunque da bambino vive e soffre. Come tutti i suoi coetanei è costretto a trascorrere l’adolescenza in una patria umiliata dalla sconfitta e devastata dalla inflazione. A diciannove anni si iscrive alla Facoltà di medicina ma dopo due anni appena, nel 1933, ne viene espulso: in quanto ebreo non aveva il diritto essere considerato cittadino tedesco come tutti gli altri, nè tantomeno il diritto di studiare, di laurearsi, di esercitare una professione. Così Enzo Arian se ne va dalla Germania e viene in Italia, dove conclude a Torino gli studi di Medicina, frequentando anche assiduamente la Clinica delle malattie nervose e mentali, diretta dall’illustre Storia della medicina N. 165 - 2007 Enzo Arian ebreo, psichiatra, psicoterapeuta* Prof. Lugaro, autore insieme a Tanzi di un celeberrimo trattato della malattie mentali sul quale hanno studiato almeno due generazioni di psichiatri. Si laurea nel novembre 1937. Nel 1938 dà l’esame di stato e si sposa con Giorgina Levi; ma appena iniziato ad esercitare la sua professione ne viene impedito, perché la legislazione razziale già imposta in Germania viene ora imposta anche in Italia. A quell’ epoca non si aveva ancora alcun sentore della “soluzione finale” architettata dai nazisti, il regime fascista era solo agli inizi della campagna per la “difesa della razza” ed aveva decretato “soltanto” che gli ebrei non potevano avere impieghi o mansioni pubbliche. Molto saggiamente Enzo preferisce lasciare questo Paese divenuto inospitale e cerca lavoro in Bolivia dove “i governanti militari dopo la Guerra del Chaco (1932-35) erano fra i pochi che accettavano di ricevere gli ebrei, e in più, quando si trattava di medici, di offrir loro anche un lavoro” come dice Lupo Cajias. Un ricco e prezioso contributo alla cura della malattia mentale sia attraverso gli psicofarmaci, sia con la terpia psicoanalitica Enzo abbandona dunque rapidamente anche l’Italia in cui si era rifugiato e va con sua moglie in Bolivia, dove fra difficoltà di ogni genere, (anche perchè la sua patria, la Germania, lo aveva privato della cittadinanza, per cui egli era dichiarato “apolide”), trova il modo di fare il medico per otto anni, dal 1938 al 1946, fino a quando, finita ormai la guerra e precipitati i regimi che l’avevano scatenata, decide di tornare in quell’Italia che aveva scelto come patria in gioventù e che nel frattempo gli eserciti alleati avevano liberato dal giogo tedesco e dalla dittatura fascista. Appena arrivato in Bolivia, detiene uno dopo l’altro alcuni incarichi “ufficiali” per pochi mesi, passando rapidamente dalla carica di Direttore della sanità della provincia di Zudanez a quello di “assistente ad honorem” nel Manicomio nazionale Pacheco, poi a quella di Ispettore dell’Ufficio d’Igiene della Città e Provincia di Oruro. La sua condizione di “apolide” gli impediva di essere assunto regolarmente da un Ente pubblico, mentre la sua aspirazione era quella di dedicarsi alla cura dei lavoratori senza dover stabilire una relazione privata, basata sul danaro. Anzichè rassegnarsi a fare la professione privata va a fare il medico dei lavoratori delle miniere, che sono gestite da privati. Lì lavora intensamente per sei anni, fin quando decide di tornare in Italia, dove fa il medico specialista in Neuropsichiatria della Mutua aziendale della Fiat, pur frequentando la Clinica della Malattie nervose e mentali di quella Università di Torino in cui si era laureato. È tuttora senza patria, “apolide”, e come tale non può essere assunto nelle amministrazioni pubbliche, nei luoghi cioè * Il Fondo Arian, donato da Giorgina Levi Arian e comprendente le pubblicazioni e la biblioteca del marito, consiste di 221 volumi e 75 estratti di riviste, in varie lingue e su vari argomenti: neurofisiopatologia, psicologia sperimentale, psicoanalisi, psicologia del lavoro, donati nel 1966 al Comune di Firenze come gesto di solidarietà dopo l'alluvione, e di relazioni e riviste di carattere etnografico che E. Arian aveva scritto in Bolivia, donati nel 1996. Storia della medicina N. 165 - 2007 che lui considera gli unici adatti a compiere il proprio lavoro senza particolari fini di lucro personale, al servizio dei lavoratori. Così anche dopo la fine della guerra ed il suo ritorno in Italia dove pure si era laureato – con lode e dignità di stampa della sua tesi – non può essere nominato assistente, neppure volontario, della Clinica delle Malattie nervose e mentali, nella quale esplica la sua attività di studioso e di ricercatore, come attesta il Direttore, Prof. Dino Bolsi, nel 1958, dichiarandolo meritevole del conferimento della libera docenza in Psichiatria. Anche dopo aver finalmente conseguito la libera docenza e nel 1963, due anni prima della morte, la cittadinanza italiana, il professor Enzo Arian seguita a fare il medico restando sempre a contatto diretto con la gente che lavora, e rifiuta la professione privata preferendo seguitare a dedicarsi professionalmente alla assistenza mutualistica istituita dalla Fiat, nelle more di quella assistenza sanitaria che lo Stato –come lui sostiene fermamente – dovrebbe garantire a tutti i cittadini. Ma questo non gli impedisce di seguitare a studiare intensamente e a pubblicare i risultati delle sue osservazioni. Le pubblicazioni di questo periodo sono una settantina, compresi la traduzione di due importanti volumi, uno dal tedesco all’italiano di David Katz (La Psicologia della forma, con la prefazione di Cesare Musatti), l’altro dall’italiano al tedesco (Die verwirrthheitszzustanende, di Gomirato e Gamna), un’antologia della dottrina dell’attività nervosa superiore nella Medicina sovietica ed alcuni lavori pubblicati fra il ‘60 ed il ‘65. Dalla sua attività in Bolivia sono due grossi lavori in spagnolo sulla rivista Proteccion Social: uno in due parti, dedicato a “La lucha contra el bocio”, cioè la lotta contro il gozzo, una delle gravi malattie determinate soprattutto dalla miseria e dalla ignoranza, ed un altro in dieci parti, scritto negli anni dal 1941 al 1944, dedicato a “La reorganisacion de los servicios de higiene y profilaxia en Bolivia”. Questi lavori testimoniano il profondo impegno civile che ha orientato anche in quegli anni, tutta e sempre, la sua attività professionale e la sua ricerca scientifica. Gli altri sessanta lavori sono pubblicati su varie riviste italiane dal 1948 al 1960, ad esclusione di due: uno pubblicato nel 1956 insieme al Prof. Gomirato sulla rivista francese L’Encephale che è la comunicazione preliminare delle loro ricerche sperimentali su alcuni effetti terapeutici degli a quel tempo nuovissimi ed unici “psicofarmaci”, il largactil ed il serpasil, (la cloropromazina e la reserpina), e di un altro del 1958 di chiara impronta sociale, pubblicato su di una rivista austriaca dal nome impronunciabile e che tratta delle nevrosi provocate dai nuovi metodi di produzione industriale. Un primo gruppo di lavori pubblicati in Italia dal 1948 al 1951 è costituito da una dozzina di articoli che riguardano il metodo patergometrico applicato al campo neuropsichiatrico; un secondo gruppo di 20 lavori pubblicati dal 1948 al 1958 riguarda gli effetti dei trattamenti “eroici” allora in auge per il trattamento – non vorrei dire la cura – dei malati di mente: vari tipi di annientamento più o meno momentaneo e completo della coscienza con diversi metodi, dalla insulina alla corrente elettrica. Un terzo gruppo è formato da lavori di vario argomento: quello sul “valore dei metodi di investigazione biologica ai fini della interpretazione somatica dei fenomeni psicologici” alla “recente discussione sulla teoria di Speranskij”, da quello su “Psichiatria e cattolicesimo”a quello su “Medicina pedagogica e psichiatria infantile”, Un quarto gruppo di lavori riguarda aspetti di igiene mentale: la prevenzione dei delitti nei malati mentali, l’attività della clinica delle malattie nervose e mentali nel campo dell’igiene e profilassi mentale; l’anamnesi prossima dei malati mentali rei di delitti contro la persona; le neurosi da surmenage “pure” e nuovi metodi di produzione industriale; le neurosi da surmenage in rapporto alla rottura dello stereotipo lavorativo (nel quale ritorna il suo spiccato interesse per il sociale); l’assistenza ai piccoli malati mentali, in collaborazione con i cattedratici Bolsi e Gomirato; la “modificazione delle risposte a un test proiettivo (Rorschach) in rapporto ad alcune variazioni dell’attività nervosa superio- Sae l ute Territorio 345 re sperimentalmente indotte” in collaborazione con A. Zanalda; nel 1961 sulla “cooperazione fra la Psichiatria e le altre discipline nell’igiene e profilassi mentale” su Minerva Medica e nel 1963, la assistenza psichiatrica ed il Servizio sanitario nazionale. Un quinto gruppetto ancora riguarda la esposizione teorica e l’insegnamento: nel ‘58 pubblica un libretto per Minerva medica dal titolo “Elementi di Psicologia clinica”; due anni prima aveva pubblicato sulla stessa rivista “Un dibattito sull’insegnamento della Psichiatria” e nel 1965, negli Atti del XV Congresso degli Psicologi Italiani “La Psicologia patologica del pensiero”. Alcuni dei suoi lavori riguardano in vario modo la valutazione critica dell’attività psicoterapeutica, della efficacia cioè che può avere il rapporto che si instaura fra il medico ed il paziente, a prescindere dalle terapie con medicinali od altri interventi fisici. In tutti i lavori che ho letto ho apprezzato la sua chiarezza, il suo spirito critico ma non distruttivo, la sua disponibilità ad accettare quanto di nuovo incontrava, cercando di giudicarlo senza pregiudizi. Certo un uomo del suo tempo, pieno di speranza in un futuro migliore per un’umanità che avesse scelto di mettere in pratica le idee di Marx ed Engels, quando ancora non erano note le aberrazioni alle quali aveva portato nella Russia sovietica il “socialismo reale”, che allora era per molti in buona fede un faro di civiltà. Parlerò soltanto dei lavori che mi hanno maggiormente inte- l ute Sa e 346 Territorio ressato; data la mia professione, quelli che riguardano la psicoanalisi: non tanto quello del 1960 “Su alcune valutazioni marxiste della psicoanalisi”, quanto il primo, fatto giusto cinquanta anni fa, “Validità della psicoanalisi”, che inizia dicendo: “Il modo migliore di rendere omaggio a Freud nel primo centenario della sua nascita ci pare la valutazione della sua opera scientifica”. Dispiace sentirgli scrivere (p. 7) che “il retaggio scientifico di Freud è diventato uno strumento al servizio del conservatorismo sociale e la psicoanalisi una ideologia reazionaria”, ma fa piacere quando scrive, poche righe sotto, che “al medico che vuole aiutare gli uomini sofferenti e contribuire, attraverso la sua ricerca e la sua prassi clinica, al rinnovamento della società, incombe il compito di raccogliere e mettere a frutto le molte verità relative e conquistate dalle cento e cento scuole che hanno operato prima di lui e operano accanto a lui, senza respingere alcuna di esse in via pregiudiziale ed assoluta, neppure quella psicoanalitica”. Dopo avere per undici fitte pagine esposto che “il carattere antistorico dogmatico della psicoanalisi, che si manifesta nel concetto dei complessi (pilastro cardinale del sistema freudiano), è da considerare uno dei difetti metodologici che inficiano le basi stesse della dottrina psicoanalitica”, sempre a pag. 11 prosegue “purtuttavia ci accostiamo con attenzione, riverenza e modestia alla monumentale opera di Freud per individuare in essa quelle Storia della medicina leggi e quelle tesi che si sono confermate valide sul piano clinico nella psicoterapia delle neurosi in molti anni di nostra esperienza personale e nella documentazione raccolta nell’Ambulatorio di Psicoterapia della Clinica delle Malattie nervose e mentali della Università di Torino”. Già nel 1948 aveva scritto un lavoretto su questa esperienza che mi ha interessato molto, sia per l’epoca direi antidiluviana per l’Italia nella quale è stata fatta, sia per la posizione molto empirica che prende il Nostro: da una parte rifiuta decisamente tutto quanto odora di teoria psicoanalitica, dall’altra afferma l’importanza della psicoterapia come trattamento di elezione delle nevrosi vere e proprie, della quali riconosce l’origine e la patogenesi “psicogena”, che provoca poi alterazioni organiche da meglio e più completamente studiare: una psicoterapia da organizzare seriamente e da erogare da un ente di assistenza pubblica, nella fattispecie la mutua aziendale FIAT che paga le sedute di psicoterapia offerte ai lavoratori, una psicoterapia della quale vanta risultati importanti, ancorchè limitati a precise indicazioni diagnostiche. In quegli stessi anni nella Clinica delle Malattie nervose e mentali della Università di Firenze il Direttore, a me giovane assistente volontario che gli manifestava il suo interesse per la psicoterapia e la psicoanalisi, aveva risposto che nella sua Clinica si facevano cose serie e dunque non c’era posto per chi avesse voluto occuparsi di qualcosa che non N. 165 - 2007 fosse lo studio delle alterazioni organiche che avevano causato la malattia e quelle che da essa poi erano prodotte: di psicoterapia e di psicoanalisi neanche parlarne). Nel lavoro sulla validità della psicoanalisi Enzo Arian afferma che “della teoria freudiana sull’etiologia delle neurosi rimane valido l’assetto cardinale, che le cause decisive delle neurosi per lo più risiedono nei conflitti psicologici i quali formano i nuclei costitutivi dei complessi patogeni. Ne consegue la norma, che per aggredire terapeuticamente le neurosi, bisogna in primo luogo individuare e risolvere i conflitti patogeni” (p. 15); riconosce a Freud “il merito originale di aver rilevato la grande importanza che per la condotta patologica del neurotico (come pure per la condotta normale dell’uomo sano) ha la vita sessuale: l’intensità e l’orientamento delle pulsioni erotiche, le abitudini, le esperienze, le soddisfazioni, le frustrazioni, le fantasie e le pratiche sessuali”; prosegue riconoscendo “la grande importanza che ha la prima infanzia per la formazione della personalità neurotica (e normale)” (da p. 19). Da questo punto fino alla fine del suo lavoro, Enzo Arian si dà da fare per confutare tutta “la teoria psicoanalitica”, concludendo che non si sente affatto di sottoscrivere il paragone che è stato fatto da alcuni tra Freud e Copernico, perchè Freud “si colloca al contrario alla chiusura della psichiatria del passato, che opera in ampia misura sulla base di intuizioni, astrazioni teoriche e speculazioni”... ed “ha fornito armi ideologiche non alle nuove forze che nella società contemporanea sono in divenire, bensì alle forze egemoni vecchie in via di involuzione, armi per la loro lotta di conservazione e sopravvivenza contro l’ascesa delle forze nuove pronte a trasformarsi da subalterne in dirigenti”, concludendo che “ricordiamo ed onoriamo Freud”... “come uno degli ultimi grandi pensatori di un’era storica al tramonto”. In un lavoretto del 1963, estratto dagli Atti del Convegno su Riforma sanitaria e sicurezza sociale, dal titolo “L’assistenza psichiatrica e il Servizio sanitario nazionale”, enumera molto lucidamente le magagne della situazione italiana allora: “in Europa l’Italia si trova al penultimo rango per quanto riguarda il numero di posti-letto psichiatrici per 1000 abitanti... ci sono 160.000 ricoverati, 280 Primari e non più di 1000 altri fra aiuti e assistenti... buona parte di questi medici sono psichiatri di grande valore, che con dedizione e non di rado con personale sacrificio e con ingegnosità (spesso aiutati con ingenti fondi dalle Amministrazioni provinciali) cercano di dare una certa impronta clinica ai loro istituti: ma i loro tentativi patetici sono quasi sempre condannati al fallimento... gran parte della colpa ricade sulla legislazione... poliziesca, per cui gli ospedali psichiatrici continuano a rassomigliare più a reclusori... cittadini e medici considerano il ricovero una sciagura gravida di deleterie conseguenze, per cui la Storia della medicina N. 165 - 2007 tendenza ad occultare la malattia e l’ammalato mentale il più a lungo possibile... le forze che si oppongono alla riforma della legge sono essenzialmente quelle dei proprietari delle Case di cura psichiatriche private”. Se questi problemi sono gravi, gravissimi e complicatissimi sono i problemi della “piccola psichiatria extraospedaliera “ per cui auspica che “i comunisti italiani si mettano alla testa di un vasto movimento di massa per il Servizio sanitario nazionale”... studiando attentamente gli esempi di alcuni Paesi, non solamente quello della Unione Sovietica dove l’assistenza psichiatrica ha raggiunto livelli altissimi e per ora difficilmente imitabili, ma anche e soprattutto altri...” ed enumera l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti. Dell’assistenza psichiatrica in alcuni di questi Paesi in quel tempo avevo avuto anche io qualche notizia: a Losanna ed a Innsbruck nel corso di un viaggio di studio compiuto con Mario Barucci, nei primissimi anni in cui venivano utilizzati i primi psicofarmaci (la cloropromazina e la reserpina) e ricordo il nostro stupore nel frequentare quegli Ospedali psichiatrici che, a differenza dei nostri di allora, erano civili, puliti, ordinati, silenziosi, in buona parte anche operosi; e poi a Portsmouth, a Londra e a Parigi nel corso di ripetute visite. Dalla Francia – da una fronda di psichiatri che hanno rifiutato lo “statu quo” dei loro Manicomi – è partito il movimento di profonda educazione del personale curante che insieme ad alcuni colleghi, ma soprattutto con l’aiuto determinante di alcuni insegnanti elementari, infermieri psichiatrici ed assistenti sociali abbiamo cercato di introdurre nel nostro Paese, fino a quando la marea montante della generosa ideologia basagliana ha portato alla chiusura dei manicomi, ma non ha potuto far altro che impostare meglio il problema concreto della cura delle persone che soffrono, problema che Sae l ute Territorio 347 richiede un impegno personale così importante da parte di tutti i curanti, e così gravoso dal punto di vista economico, tanto da venir spesso rimandato.Ma questo è un altro discorso, che esula dal tema. Con quanto finora accennato mi sembra di aver offerto elementi sufficienti a comprendere ed ammirare la personalità di Enzo Arian, valido medico che lavora “sul campo”, onesto e forte testimone del suo tempo. I suoi lavori e la sua biblioteca sono ora custoditi e resi fruibili presso la Biblioteca “Vincenzo Chiarugi” dell’Azienda USL 10 di Firenze, già biblioteca dell’Ospedale psichiatrico di San Salvi. l ute Sa e 348 Territorio Stefania Vaccari Didatta ordinario supervisore riconosciuto dalla FISIG, Istituto Gestalt Firenze Dirigente psicologo, Azienda sanitaria di Firenze U no dei concetti fondamentali, per comprendere lo schema di sviluppo infantile, è “l’attaccamento”. Cioè: “quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che consegue e mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona, chiaramente identificata e ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato” (Bowlby J. 1988). Il legame di attaccamento promuove e consente l’evoluzione di una serie di comportamenti di ricerca della prossimità e di mantenimento del contatto nei confronti del referente del legame che vengono a costituirsi come patrimonio autonomo e personale dell’individuo. Tale patrimonio consente ad un soggetto della specie umana la possibilità di relazione e di contatto con l’altro. Vi è una spinta del piccolo alla socializzazione e una sensibilità materna nel cogliere i messaggi e le esigenze del bambino che sono alla base * Servizi sociali N. 165 - 2007 Madri a rischio* della formazione del suo sé sociale. La conoscenza del bambino si organizza in “modelli operativi interni” di sé, della madre e dello stato affettivo associato alla relazione. Alla luce di tale teoria, il ruolo della madre o di un suo sostituto, quale “base sicura” per favorire lo sviluppo del piccolo, è basilare. Al fine di disporre, in questo settore, di ulteriori elementi tecnici, preventivi e curativi, oltre quelli proposti dalla letteratura, è stato predisposto uno studio per approfondire come specifiche difficoltà della madre possano condizionare l’espressione delle sue competenze parentali. In altre parole, come specifici problemi della madre influenzino la sua possibilità di essere “base sicura” per il proprio figlio. Comprendere “tale influenza” e predisporre precocemente interventi affinché essa sia, il più possibile positiva, crediamo abbia un alto livello pre- Uno studio sulle problematiche di donne inviate dai Servizi sociali in una casa di accoglienza ventivo per migliorare lo sviluppo infantile. Dati e analisi proposte I soggetti del presente studio sono stati esaminati presso una Comunità di accoglienza per madri problematiche ed i loro figli. Lo studio, retrospettivo, riguarda il periodo 19892002/4. Sono stati analizzati i dati di utenti entrate in un Istituto fino alla data del 31 dicembre 2002 e i cui percorsi si sono protratti fino al febbraio 2004. Le donne esaminate sono 147. È stato analizzato innanzi tutto nel gruppo totale di donne in quale quantità (valore numerico assoluto e percentuale) sono presenti le problematiche. È stata fornita quindi una di- stribuzione quantitativa delle donne assemblate secondo la tipologia delle problematiche presentate ad inizio percorso (“donne con problemi psichiatrici”15, “donne con problemi sociali” 95, “donne con problemi di dipendenza da sostanze”13 e “donne multiproblematiche” 24). Successivamente è stata evidenziata come tale distribuzione si modifica ad una successiva osservazione più attenta e continua all’interno dell’Istituto (“donne con problemi psichiatrici”14, “donne con problemi sociali” 81, “donne con problemi di dipendenza da sostanze”13 e “donne multiproblematiche” 39). È stato poi descritto come le variabili: presenza o meno del Decreto del Tribunale dei Minorenni, obiettivi**, età, pro- Lo studio completo è disponibile su Stefania Vaccari (a cura di), “Percorsi di madri”, Numero Monografico di “Formazione in Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, N° 8, novembre/dicembre 2006 (pp. 133). ** Gli obiettivi che i tecnici si propongono per una madre nella Comunità, sono “supporto” o “verifica”. In caso di obiettivo di supporto, pur in una situazione a rischio, i Servizi competenti hanno osservato la presenza di competenze parentali adeguate e reputano utile sostenere la madre affinché le potenzi o le esprima. In caso di obiettivi di verifica invece i Servizi competenti hanno evidenziato precise difficoltà di espressione nelle competenze parentali ed inviano la donna in Istituto affinché sia verificato se, in un contesto di protezione e stimolo, emergono possibilità parentali che non si erano potute manifestare in contesti problematici. Servizi sociali N. 165 - 2007 venienza, numero dei figli, tempo di permanenza in Istituto, rapporto con i servizi invianti e affidamento dei figli alla madre. Si distribuiscono (valore numerico assoluto e percentuale) nel gruppo totale e nei sottogruppi di donne assemblate secondo le problematiche presentate alla prima e/o successiva osservazione. Successivamente è stata presentata una possibile “misurazione” della “dimensione personale” e della “dimensione genitoriale” delle madri nel gruppo totale e nei sottogruppi di donne assemblate secondo la tipologia delle problematiche presentate. Tale “misurazione” è stata effettuata ad inizio e fine percorso del esaminato. La “dimensione personale” è stata articolata secondo le seguenti variabili: 1. Presenza di un partner con cui condividere l’esperienza genitoriale. 2. Un rapporto positivo con sé stessa anche in termini di capacità di curarsi. 3. Capacità di avere un rapporto positivo con le altre ospiti della casa quale segnale della capacità di avere positivi scambi sociali. 4. Rapporto positivo con gli educatori quale segnale della capacità di avere rapporti adeguati con “figure autorevoli” e della capacità di chiedere e accettare aiuto. 5. Capacità domestiche quale segnale di saper tenere una abitazione e provvedere quindi alle necessità dei congiunti. 6. Autonomia sociale. 7. Lavoro. 8. Scolarità. 9. Rapporto con la famiglia di origine quale capacità di tenere i contatti familiari e offrire al piccolo altre risorse relazionali. La “dimensione genitoriale” è stata articolata secondo le seguenti variabili: 1. Qualità delle cure routinarie: la madre è in grado di espletare le cure di routine quotidiane come cambiare il bambino, farlo dormire, alimentarlo ecc. 2. Gioco: la madre è capace di giocare con il bambino e far giocare (stimolare) il bambino. 3. Riconosce i bisogni del figlio: la madre riconosce ciò di cui il bambino ha bisogno; mangiare, dormire. 4. Risposte adeguate: la madre sa rispondere in modo adeguato al bambino; si riferisce alla capacità di rispondere in modo corretto, anche emotivamente, al bambino e di rapportarsi a lui in modo coerente. 5. Capacità di essere modulate: la madre è capace di modulare i propri comportamenti e le proprie azioni in rapporto alle esigenze del bambino adeguandosi al ritmo del piccolo. 6. Capacità predittiva: La madre è capace di anticipare le possibile richieste del bambino organizzandosi per soddisfarle adeguatamente. 7. Coerenza; la madre si sa comportare in modo coerente senza alternanza di atteggiamenti e reazioni 8. 9. 10. 11. 12. 13. (ora affettuosa, ora aggressiva). Pazienza; la madre interagisce in modo paziente con il bambino, ovvero non perde subito la pazienza quando ad esempio il bambino piange, o non si calma subito, o se il bambino non vuole mangiare ecc. Contenimento: la madre è capace di tranquillizzare e contenere i momenti di ansia o di sconforto del bambino. Soddisfazione: la madre mostra un atteggiamento e un sentimento di soddisfazione per il bambino e per il suo rapporto con lui. Grado di coinvolgimento: si riferisce al grado e al livello con cui la madre si dedica al bambino sia per tempo che per intensità e interesse. Approvazione: la madre è capace di sostenere e incoraggiare il bambino in ciò che fa (scoperte, acquisizioni). Tono affettivo dell’interazione tra madre e figlio: la madre è capace di una relazione qualitativamente positiva con il piccolo. Si riferisce alla sfera emotiva e affettiva dell’interazione. Riflessioni Le riflessioni proposte, sono riferibili solo al gruppo di donne esaminate nel presente lavoro. Quanto proponiamo infatti non è riferibile all’universo di donne possibili, raggruppate secondo i tipi di problemi evidenziati dal presente studio. Sae l ute Territorio 349 Con la forma espressiva “donne tossicodipendenti”, si possono intendere donne che, pur avendo come sintomo comune l’uso di sostanze d’abuso, hanno strutture di personalità molteplici. Sottolineiamo che anche, “il comune uso di sostanze”, può essere diverso per quantità, qualità e stile di vita legatovi. Con la forma espressiva “donne con problemi psichiatrici” si possono intendere donne che manifestano sintomi psichiatrici diversissimi e hanno molteplici strutture di personalità. È comunque vero che i dati raccolti ci mostrano alcune “tendenze” specifiche, nei vari gruppi di donne raggruppate secondo determinate tipologie di problemi, sottese dagli invii dei Servizi che se ne fanno carico. Le “tendenze” individuate nei vari gruppi di donne evocano “una maggiore o minore possibilità di recepire aiuto in un tempo dato”. Si sottolinea che in questo studio parliamo della possibilità di recepire aiuto/”trattabilità “– in senso relativo e non assoluto. Tale “trattabilità” è riferita al possibile al recupero del rapporto con quel bambino in quel tempo dato (nelle specifiche situazioni di questi 147 casi). Sia nel senso che, quel bambino di quella specifica età, al di là dei tempi di recupero della madre, ha specifiche necessità di cura e sostegno legate a linee di sviluppo quale piccolo della specie umana. In lui precisi schemi evolutivi possono essere facilitati da precisi schemi di relazione offerti in momenti sensibili del l ute Sa e 350 Territorio suo percorso di crescita. Sia nel senso che anche per la donna la possibilità di recepire aiuto è quella legata a quella fase della sua vita. In tempi diversi, con congiunture particolari, la possibilità di recepire aiuto di quella donna potrebbe essere diversa sia nella sua globalità sia nello specifico delle sue possibilità parentali. Pertanto, in questo contesto, quello che si intende per possibilità di recepire aiuto/ ”trattabilità”, è la possibilità specifica di, “recupero o formazione” di un rapporto “sufficientemente buono”, con “quel piccolo” tenendo conto delle sue necessità evolutive di questi e delle risorse della madre in quel momento specifico della sua vita. Tempi non legati a questo specifico recupero potrebbero permettere configurazioni diverse, ma ciò non è comunque oggetto del presente studio. Se quindi, da un lato, quanto presentato ha carattere circostanziato, dall’altro, alcuni dati emersi potrebbero essere utili a noi operatori, per porre attenzione ad alcuni elementi piuttosto che ad altri quando dobbiamo operare con madri/donne problematiche nella fase di definizione di un progetto terapeutico possibile e percorribile. È necessaria molta attenzione al fine di poter tutelare noi tecnici e le utenti da ipotesi onnipotenti a cui possono seguire pesanti insuccessi progettuali da gestire con enormi difficoltà. Insuccessi progettuali che possono rendere noi tecnici poco credibili ed affidabili per continuare con quella de- Servizi sociali terminata donna una relazione terapeutica. Nello stesso tempo le riflessioni e i dati che proponiamo ci possono aiutare ad aver minori pregiudizi e preclusioni. Essi ci possono permettere di saper vedere risorse parentali al di là della presenza di particolari tipi di disagio e/o stili di vita. Donne con problemi psichiatrici Lo specifico gruppo “donne con problemi psichiatrici” del presente studio si configura con le seguente caratteristiche: sono tutte in carico ai Servizi di salute mentale da tempo o inviate in Istituto dopo un ricovero nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura ospedaliero per una crisi psichiatrica importante. Al di là della specifica diagnosi, sono donne con il senso di identità compromesso e con scarso senso di realtà. In questo gruppo, gli ingressi in Istituto accompagnati da Decreto del Tribunale dei minorenni raggiungono la percentuale più alta dei quattro sottogruppi (71,4%). Tali donne entrano nella Comunità di accoglienza, con obiettivi di verifica in percentuale inferiore (57,1%) a quella raggiunta dai soggetti del gruppo delle “tossicodipendenti” (69,3%) e delle “multiproblematiche” (82,1%), ma, durante il percorso, osservate nella quotidianità, raggiungono la percentuale più elevata di obiettivi di verifica (78,6%). Tali donne hanno, mediamente, il numero più basso di abilità della “dimensione personale” ad inizio percorso (3,21 N. 165 - 2007 su 9) e anche a fine percorso (4,50 su 9) rispetto alle donne degli altri gruppi. Hanno anche l’incremento medio minore (+1,29). Sempre nella “dimensione personale” le competenze legate a possibili relazioni con un compagno (partner 7,1% inizio percorso 21,4% fine percorso) o con altre donne (compagne 14,3% inizio percorso 35,7% fine percorso) sono presenti in una bassa percentuale. È presente in percentuale più alta la capacità di avere rapporti positivi con gli educatori (42,9% inizio percorso e 50% fine percorso) probabilmente in una ottica di dipendenza o nella ricerca di una possibile “base da cui ri/partire” e di autonomia sociale (50% inizio percorso e 57,1% fine percorso). La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale ” sia ad inizio che a fine percorso è bassa (2 abilità su 13 ad inizio percorso e 3 su 13 a fine percorso). Colpisce la mancanza di presenza della competenza “adeguatezza” in tutti i soggetti di questo gruppo a inizio percorso (0%). Tale competenza è invece presente a fine percorso nel 23,1% di queste donne. Probabilmente tale competenza si modifica in misura accettabile perché, forse, in un contesto protetto tali donne imparano formalmente una serie di comportamenti corretti o forse perché con una guida continua sono meno ansiose e quindi, sentendosi protette, riescono ad essere maggiormente adeguate. Le competenze della “dimensione genitoriale” più legate alla “possibilità di relazione” non hanno alcun incremento durante il percorso esaminato. La competenza “contenimento” è presente ad inizio percorso nel 7,7% delle madri di questo gruppo e durante il percorso nessun soggetto acquista la competenza di contenere i momenti di sconforto del figlio. Le competenze “soddisfazione”, “coinvolgimento” e “approvazione” sono presenti ad inizio percorso nel 23,1 % dei soggetti di questo gruppo ma nessuna altra madre acquista tali competenze della “dimensione genitoriale” durante il percorso esaminato. Si può ipoteticamente dedurre che, per tali donne, la scarso senso di identità personale, le difficoltà di scambio e relazione su di un piano di realtà non permetta loro l’esercizio di quelle abilità della “dimensione genitoriale” che consentono “relazione ed empatia” con il proprio piccolo È interessante notare che in questo gruppo di donne ad inizio percorso vi è una percentuale più alta di obiettivi di supporto (42,9%) rispetto a quella rilevata nel gruppo delle donne “multiproblematiche”(17,9%) e “tossicodipendenti”(30,7%) Durante il percorso in Istituto però, in tale gruppo di donne gli obiettivi di supporto sono presenti in percentuale inferiore (21,4%). È probabile che lo stile di vita accettabile che queste donne conducono, induca gli operatori a pensare ad una “possibile trattabilità” per un recupero delle competenze genitoriali; “trattabilità” che poi non si manifesta. Servizi sociali N. 165 - 2007 Il tempo medio (6.0 mesi) che le donne di questo gruppo trascorrono in Istituto, è quello più basso dei quattro gruppi. Si può ipotizzare che, dopo un breve periodo iniziale in cui tali donne cercano di mostrare il meglio di sé, appaiono chiaramente le loro difficoltà a svolgere adeguatamente l’esercizio del ruolo genitoriale. Forse tali madri, poco contrappositive e più disposte a ”dipendere” dagli operatori, se gestite con professionalità tatto e competenze adeguate, da tecnici che gestiscono il caso (sia quelli dell’Istituto che quelli dei Servizi), possono accettare le decisioni istituzionali circa il loro futuro genitoriale in tempi relativamente adeguati. A fine percorso le donne che non ottengono l’affidamento dei figli sono in percentuale maggiore (71,5%). A questo proposito, si sottolinea come per noi operatori che trattiamo questi casi nei Servizi, sia necessario acquisire strumenti tecnici per “accompagnare” le madri durante una eventuale separazione dai propri figli. È necessario avere strumenti per contenere il loro dolore. È indispensabile elaborare la loro incapacità ad accudire il figlio, permettendo loro di mantenere integro il senso di “dignità personale”. È bene ricordare che, in questi casi, parte del dolore della separazione è legato alla identificazione della madre con il figlio quale possibile immagine del proprio io fragile ed addolorato. Dare alla donna da parte degli operatori un possibile pro- getto positivo riguardo al figlio, potrebbe aiutarla ad avere la “fantasia di un possibile progetto positivo anche per sé stessa”. Il porre attenzione a tali aspetti ha un valore altamente terapeutico per la parte sofferente di quella donna e la potrà tutelare dal ritentare altre eventuali maternità riparatrici. Donne con problemi sociali Le “donne con soli problemi sociali”, rispetto alle donne degli altri gruppi, hanno la più bassa percentuale di ingressi in Istituto accompagnati dal Decreto del Tribunale dei minorenni (il 25,9%). Per quanto riguarda gli obiettivi, ad inizio percorso in tale gruppo vi è la percentuale maggiore di obiettivi di supporto (49,8%) e la minore percentuale di obiettivi di verifica (50,2%). Durante la permanenza in Istituto aumenta ulteriormente la percentuale di obiettivi di supporto (56,8%) e diminuisce ulteriormente la percentuale di obiettivi di verifica (43,2%). In tale gruppo di donne vi sono i soggetti con l’età media inferiore (26.05 anni), la più bassa percentuale di soggetti di nazionalità italiana (64,2%), la più alta percentuale di soggetti europei (13,6%) ed extraeuropei (22,2%). Dopo le “donne con problemi di tossicodipendenza” sono quelle che, rimangono in Istituto il tempo medio (8.8 mesi) e il tempo massimo (30 mesi) più elevati. Le donne del gruppo con “soli problemi sociali” manifesta- no mediamente il maggiore numero di abilità della “dimensione personale” sia ad inizio percorso, (4,91variabili su 9) sia a fine percorso considerato (6,86 variabili su 9) e l’incremento medio maggiore (+1,95). Le madri con soli problemi sociali hanno mediamente un significativo maggior numero di abilità della “dimensione personale” sia ad inizio che a fine percorso rispetto ai soggetti dei gruppi di donne “psichiatriche” e “multiproblematiche”. Anche nella “dimensione genitoriale” si osservano le stesse tendenze. Le donne del gruppo con “soli problemi sociali” manifestano mediamente il maggiore numero di competenze della “dimensione genitoriale” sia ad inizio percorso (8,67 variabili su 13), sia a fine percorso (10,37 su 13). Le madri con soli problemi sociali hanno mediamente un significativo maggior numero di competenze della “dimensione genitoriale” sia ad inizio che a fine percorso rispetto ai soggetti dei gruppi di donne “psichiatriche” e “multiproblematiche”. In tale gruppo di donne vi è la percentuale più alta di soggetti che mantengono l’affidamento dei propri figli dopo il percorso esaminato (il 72,8%). Appare evidente come offrire ai soggetti di questo gruppo, aiuto e protezione permetta loro di manifestare comportamenti parentali “sufficientemente buoni” e di avere un buon recupero per quanto riguarda le precedenti inadeguatezze parentali contestate. Sae l ute Territorio 351 Donne con problemi di dipendenza da sostanze Le “donne tossicodipendenti” di questo gruppo, sono tutte seguite dai Servizi territoriali per la cura delle dipendenze. Poiché tali Servizi, quando una utente dimostra inadeguatezze parentali e la situazione è molto degradata, possono optare per un inserimento in una Comunità terapeutica, si può a ragione presumere che le “tossicodipendenti” di tale gruppo non siano tra le più gravi. Le caratterizza il fatto di essere in carico ai Servizi e di accettare un trattamento con sufficiente continuità. Le donne di questo gruppo entrano in Istituto, con la presenza di un Decreto del Tribunale dei minorenni, in percentuale inferiore (46,2%) rispetto alle donne “multiproblematiche” (56,4%) e alle “donne con problemi psichiatrici” (71,4%). Le tossicodipendenti accedono spesso autonomamente ai Servizi per la cura delle dipendenze non fosse altro che per richiedere la terapia farmacologica. In questo modo mantengono un livello accettabile di rapporto con i Servizi permettendo a questi di operare affinché una tossicodipendente con figli in difficoltà accetti eventualmente un ingresso in Istituto senza Decreto. Ad inizio percorso hanno una percentuale di obiettivi di verifica (69,3%) inferiore solo alle donne “multiproblematiche” (82,1%), superiore quindi sia alle “donne con problemi psichiatrici” (57,1%) che alle “donne con soli problemi sociali” (50,2%). l ute Sa e 352 Territorio Durante il percorso, in questo gruppo di donne aumenta la percentuale di obiettivi di verifica (77%). Pertanto questa nuova percentuale di presenza di obiettivi di verifica è superiore a quella delle donne “multiproblematiche (59%) e delle donne con soli problemi sociali” (43,2%) ma inferiore a quella delle “donne con problemi psichiatrici” (78,6%). Tali donne hanno mediamente una presenza di abilità della “dimensione personale” maggiore (4,62 variabili su 9 ad inizio percorso e 6,00 variabili su 9 a fine percorso) sia rispetto alle “donne con problemi psichiatrici”che alle donne “multiproblematiche”. Durante il percorso considerato però, hanno un aumento di tali abilità mediamente inferiore (+1,38) a quello riportato dal gruppo di donne “multiproblematiche” (+1,87). Merita attenzione la bassa percentuale (23,1%) di donne che in questo gruppo ad inizio percorso hanno un rapporto positivo con sé,cura della propria persona e senso di adeguatezza personale. È bene ricordare come sia specifico delle donne che abusano di sostanze la poca cura della propria persona e della propria immagine. Ciò è anche legato allo stile di vita specifico di questo stato. Ad inizio percorso in questo gruppo è degna di nota la bassa percentuale (15,4%) di soggetti in possesso di un lavoro. È anche bassa la percentuale (15,4%) di soggetti che ad inizio percorso hanno rapporti positivi con la famiglia di origine. Durante il percorso conside- Servizi sociali rato, in questo gruppo, una buona percentuale di donne (46,2%, a fine percorso con un incremento del 30,8%) riesce a recuperare tale rapporto suggerendo che uno stile di vita diverso della donna che abusa di sostanze, (in assenza di altri nuclei patologici che questo gruppo di tossicodipendenti sembrerebbe non avere) può permettere un buon recupero in questo ambito di vita. La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale ” è inferiore solo a quella delle donne”con soli problemi sociali” (6,42 competenze su 13 ad inizio percorso e di 8,42 competenze su 13 a fine percorso). In questo gruppo le madri hanno mediamente più competenze delle “donne con problemi psichiatrici” e delle “donne multiproblematiche”, sia ad inizio che a fine percorso. Tali donne hanno in questa dimensione l’incremento medio maggiore (+2.00) di tutti i gruppi. I soggetti appartenenti al gruppo di donne con problemi di abuso di sostanze hanno a fine percorso una quantità media di competenze della “dimensione genitoriale” significativamente maggiore rispetto al gruppo di “donne con problemi psichiatrici”. Tali donne probabilmente, in uno spazio protetto in cui le regole sono definite e in cui possibili spazi di fuga sono vincolati, riescono ad attivare comportamenti parentali corretti. Si può ipotizzare vi sia in queste gruppo un “io” sufficientemente integro da per- N. 165 - 2007 mettere loro di riconoscere le necessità del figlio. Le donne di questo gruppo rimangono in Istituto mediamente più a lungo (10.8 mesi). In questo gruppo vi è anche il soggetto che è rimasto in Istituto il tempo massimo (42.00 mesi). È probabile che nei periodi di astinenza tali donne dimostrino comportamenti parentali sufficientemente adeguati, inducendo negli operatori valutazioni positive. Allorché si verificano ricadute, (le donne in Istituto possono uscire secondo tempi e modi concordati con gli operatori) tali donne manifestano verso i figli, al di là delle modalità personali, la “tipica trascuratezza” che spesso si accompagna al loro stile di vita. Si può ipotizzare che i tempi mediamente più lunghi di permanenza siano dovuti al dover verificare il raggiungimento di stabili e adeguati comportamenti parentali. Si può anche aggiungere che spesso donne tossicodipendenti di questa tipologia manifestano comportamenti contrappositivi. È possibile quindi che quando gli operatori verificano e sottolineano la loro inadeguatezza, tali donne non riconoscano i loro problemi, (anche perché quando usano sostanze percepiscono una immagine di sé onnipotente che a volte credono reale). Diventa necessario trattenerle più a lungo all’interno del programma o per verificare il raggiungimento di stabili adeguate abilità parentali o affinché accettino la loro inadeguatezza e i provvedimenti del caso. Spesso si pensa che queste donne siano lucidamente in malafede. In realtà quando affermano i loro buoni propositi, – riferiti ad una immagine ideale di sé sperimentata con l’uso di sostanze – credono di poterli realizzare. L’abilità dei tecnici è nel rendere consapevoli le utenti di tale meccanismo e aiutarle a rimanere vigili nel sentirsi in modo incongruo onnipotenti. Vanno aiutate a prendere coscienza della propria inadeguatezza affinché la possano elaborare. È già stato rilevato come ad inizio percorso, in questo gruppo, gli obiettivi di verifica siano presenti in percentuale maggiore (69,3%) rispetto alla percentuale presente (57,1%) nel gruppo di “donne con problemi psichiatrici”. Si può ipotizzare che inizialmente la percezione di “trattabilità” degli operatori verso questo gruppo di donne sia inferiore rispetto alla “trattabilità percepita per le donne psichiatriche”. È probabile che la trattabilità inferiore percepita sia legata soprattutto allo stile di vita e alla alternanza della attitudini parentali, in concomitanza di eventuali comportamenti di abuso. A fine percorso conservano l’affidamento dei figli in percentuale uguale (38,5%) alle “donne multiproblematiche” (38,5%) in percentuale maggiore rispetto alle “donne con problemi psichiatrici” (28,5%) e inferiore alle “donne con soli problemi sociali” (72,8%). Servizi sociali N. 165 - 2007 Donne multiproblematiche Intendiamo per “multiproblematiche” quelle donne che presentano più problemi contemporaneamente e il cui invio in Istituto è quindi proposto contemporaneamente da più Servizi. Per 24 donne l’ingresso in Istituto di ogni singolo soggetto viene curato oltre che dal Servizio per la presenza di problemi sociali, anche dai Servizi per la cura delle dipendenze (n° 5) o dai Servizi di salute mentale (n° 16). Pochissimi casi entrano in Istituto con il contemporaneo invio del Servizio per la cura delle dipendenze e del Servizio di salute mentale (n° 3). In Istituto, ad una osservazione più attenta e continua, 14 donne inviate nella Comunità di accoglienza dal solo Servizio sociale per “l’evidenza” di soli problemi sociali, hanno manifestato altre difficoltà per affrontare le quali gli operatori dell’Istituto hanno ritenuto opportuno coinvolgere i Servizi per la cura delle dipendenze (n° 5) e i Servizi di salute mentale (n° 9). Una donna entrata in Istituto con iniziale invio del solo Servizio di salute mentale, ha manifestato ulteriori problemi per affrontare i quali si è reso necessario il coinvolgimento del Servizio per la cura delle dipendenze (n° 1). Il numero di “donne multiproblematiche” del presente studio è quindi di 39 (n° 25 sociali/psichiatriche, n°10 sociali/tossicodipendenti e n°4 tossicodipendenti/psichiatriche). L’ipotesi iniziale era che le donne caratterizzate dalla presenza contemporanea di più problemi fossero le più gravi e quelle che avrebbero avuto le maggiori difficoltà a recepire aiuto. In realtà i dati mostrano tendenze diverse. Leggendo le singole cartelle dei soggetti di questo gruppo di donne, emerge infatti che alcune di loro sono effettivamente le più gravi e quelle che hanno recepito meno aiuto nel tempo esaminato. Nella sua globalità però, questo gruppo di 39 donne presenta aspetti interessanti che, in parte sono già stati evidenziati precedentemente, nella comparazione con gli altri sottogruppi. Precisiamo innanzi tutto che, leggendo le cartelle e intervistando gli operatori, emerge che i problemi psichici manifestati dalle donne di questo gruppo (questo sia per le iniziali 16 che per le successive 9) sono meno gravi di quelli manifestati dalle donne che entrano nella Comunità di accoglienza con la diretta indicazione del solo Servizio di salute mentale (anche se formalmente l’invio viene fatto dal Servizio sociale). Nel gruppo di “donne multiproblematiche” (per come sono state rilevate ad una seconda continua osservazione all’interno dell’Istituto n° 39), gli obbiettivi di verifica ad inizio percorso sono presenti nel 82,1% di soggetti, la percentuale più alta dei quattro sottogruppi di donne assemblate secondo la tipologia del disagio manifestato. Durante la permanenza in Istituto, dopo che probabilmente si è osservato come i soggetti di questo gruppo reagiscono agli stimoli proposti, la distribuzione degli obbiettivi cambia completamente. Gli obiettivi di supporto, inizialmente presenti solo nel 17,9% dei soggetti di questo gruppo aumentano e sono successivamente presenti nel 41% di donne. Gli obiettivi di verifica inizialmente presenti nell’ 82,1%, durante il percorso si attestano intorno al 59% dei soggetti di questo gruppo. Probabilmente, i Servizi che non hanno la possibilità di osservare tali donne nelle loro espressioni parentali quotidiane, inizialmente optano per un obiettivo o l’altro (supporto o verifica) guidati soprattutto dallo “stile di vita e di espressione immediata” delle utenti. In tutti i soggetti dello studio, in una fase iniziale spesso non è possibile una osservazione approfondita e continua che dia informazioni del rapporto tra madre e figlio nelle sue molteplici espressioni. È in una fase successiva, all’interno dell’Istituto, dove “lo stile di vita è uguale per tutte” che è possibile una valutazione fatta in modo articolato e non condizionata da stili di vita incongrui. Si evidenziano quindi le caratteristiche proprie dei singoli gruppi di soggetti dove i vari livelli di difficoltà personali influiscono sulle espressioni parentali. Nel gruppo di “donne multiproblematiche” i soggetti che entrano in Istituto con la presenza del Decreto del Tribunale dei minorenni sono il 56,4%. Dai dati in nostro possesso emerge che tali donne, assieme “alle donne psichiatri- Sae l ute Territorio 353 che”(71,4%) sono quelle che raggiungono la percentuale più alta di ingressi in Istituto accompagnati da Decreto. Le “donne multiproblematiche” rimangono in Istituto mediamente 7,7 mesi. Un tempo più lungo del tempo medio che vi trascorrono le “donne psichiatriche” ma più breve del tempo medio che vi trascorrono le “donne con soli problemi sociali” e le “donne con problemi di abuso da sostanze”. Le “donne multiproblematiche” ad inizio percorso hanno una presenza media di abilità della “dimensione personale” di poco superiore a quella delle “donne con problemi psichiatrici” (3,31 inizio percorso “donne multiproblematiche” / 3,21 inizio percorso “donne psichiatriche”). Il numero medio di abilità della “dimensione personale” presenti a fine percorso in questo gruppo è di 5,18 abilità su 9. Vi è quindi un incremento medio di abilità della “dimensione personale di + 1,87 Tale incremento è superiore sia all’incremento avuto dalle “donne con problemi psichiatrici” (+1,29), sia all’incremento avuto dalle donne con problemi di abuso di sostanze (+1,38). Merita attenzione il fatto che le “tossicodipendenti” ad inizio percorso hanno mediamente una presenza più alta di abilità della “dimensione personale” (4,62 variabili su 9) delle donne “multiproblematiche” (3,31 su 9), ma un incremento medio minore del loro (+1,38 le donne con problemi di dipendenza, +1,87 le donne “multiproblematiche”). l ute Sa e 354 Territorio Tutte le donne del gruppo delle “tossicodipendenti” del presente studio sono seguite dai Servizi territoriali. È quindi, a ragione presumibile che, prima dell’ingresso in Istituto abbiano fatto un percorso per migliorare la propria “dimensione personale”. È a ragione ipotizzabile che le donne “multiproblematiche”, anche se seguite, non siano assidue nel trattamento per la parallela presenza di degrado sociale. Hanno quindi minore possibilità di essere aiutate ad acquisire competenze per migliorare la “dimensione personale”. Ciò può in parte spiegare in questo gruppo, ad inizio percorso, una presenza media di abilità più bassa rispetto alle “donne con problemi di dipendenza” e molto vicina a quella delle “donne con problemi psichiatrici” (che sappiamo essere la più bassa). Quando poi le donne “multiproblematiche”, in un contesto protetto che annulla per un tempo dato i problemi sociali, iniziano un percorso (quelle che manifestano i problemi ad una più attenta e continua osservazione all’interno dell’Istituto) o proseguono con continuità quello in essere prima dell’ingresso nella Comunità di accoglienza, dimostrano una maggiore permeabilità agli stimoli ed al trattamento delle donne “tossicodipendenti” e “psichiatriche”. Generalizzando si può dire Servizi sociali che tipi specifici di disagio sono più o meno “trattabili” in un tempo dato. La “trattabilità” non è legata solo al tempo e al tipo di aiuto offerto, ma presumibilmente alle risorse in essere della persona. La possibile quota di “trattabilità” per quella data persona, in quello specifico momento della sua vita, in quel tempo dato, può essere già stata recepita prima dell’ingresso in Istituto se è in carico a qualche Servizio. Merita attenzione il fatto che in questo gruppo vi è la percentuale più bassa di soggetti in possesso del diploma della scuola dell’obbligo ad inizio percorso (82,1%). Nessuno dei soggetti di questo sottogruppo durante il percorso esaminato riesce ad ottenerlo. La contemporanea presenza di più problemi non rende possibile una eventuale acquisizione di questa abilità nei soggetti di questo gruppo. La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale” (4,36 ad inizio percorso e 5,39 a fine percorso) è superiore solo a quella delle “donne psichiatriche”. Anche l’incremento medio (+1,03) è superiore solo a quello delle “donne con problemi psichiatrici” (+1.00). Le “madri multiproblematiche”, come le “madri con problemi di dipendenza da sostanze”, durante il percorso acquisiscono in misura maggiore la capacità di essere N. 165 - 2007 “adeguate” (+18,2%) e “modulate” (+15,2%). Le distribuzioni rilevate ci inducono a pensare che in un contesto protetto e adeguato parte delle madri del presente studio vivono con minor ansia le responsabilità parentali verso il proprio piccolo e riescono a sintonizzarsi maggiormente sui ritmi, richieste e necessità dei figli (“adeguatezza”, “modulazione” e “coerenza”). A fine percorso le “donne multiproblematiche” hanno l’affidamento dei figli nella percentuale del 38,5. Percentuale uguale alle “donne con problemi di abuso di sostanze” e maggiore delle “donne psichiatriche”. Conclusioni Lo studio presentato non vuole essere portatore di nessuna specifica verità. Esso si limita a presentare le distribuzioni di alcune variabili specifiche, presumibilmente condizionate dai problemi di cui le madri sono portatrici. Problemi che più che essere definiti quali “categorie diagnostiche” sono rilevati sulla base di invii e rapporti con i Servizi sanitari e sociali di riferimento. Problemi non per questo meno dolorosi e meno inficianti la piena espressione genitoriale. Il presente lavoro ha cercato di fornire alcune caratteristiche specifiche e comparative tra vari gruppi di madri assemblate secondo la tipologia dei problemi presentati affinché noi operatori si possa trarre elementi per essere il più possibile “problematizzati” nell’incontro con le utenti nei nostri spazi lavorativi. Ciò al fine di favorire in noi operatori la possibilità di stabilire relazioni terapeutiche il più possibile libere da personali preconcetti: operatori aperti all’incontro con il mondo di quella specifica madre che in quello specifico presente non può vivere pienamente la sua specifica esperienza genitoriale. Nello studio non si forniscono particolari indirizzi per “trattare” madri problematiche, i dati presentati hanno lo scopo di facilitare in noi tecnici una maggiore abilità a cogliere la “complessità”. L’esperienza di quella madre in difficoltà ha valore per quello che è, questo non per accettarla incondizionatamente poiché essa può essere invalidante per sé e il figlio, ma proprio perché a partire da essa sia possibile ricercare il meglio esistenziale possibile per quello specifico incontro tra madre-figlio-operatore. Lo studio fornisce senza dubbio pochi strumenti rispetto ai bisogni di conoscenza di quanti operano in questo settore. Vogliamo sia inteso come un modesto contributo alla comprensione del problema. I temi da approfondire sono ancora molti. MACCACARO, LO STRATEGA DEL SSN Sarebbe stato diverso il nostro Servizio sanitario se Giulio Maccacaro avesse potuto dare un contributo alla sua nascita ed al successivo radicamento nel territorio? Quanto avrebbero potuto incidere le sue intuizioni, così attuali a oltre trent’anni dalla sua morte, la sua straordinaria capacità di immaginare e descrivere servizi mirati ai bisogni del cittadino? Quando Maccacaro irruppe sulla scena della sanità italiana, l’intangibile assunto della “neutralità della scienza” cominciava ad essere messo in discussione; la ricerca, in particolare, condotta su “cavie umane” inconsapevoli, non casualmente scelte fra i ceti più deboli – il “mutuato”, il malato di mente o quello terminale – pubblicata sulle riviste più autorevoli senza che nessuno mettesse in dubbio la metodologia della sperimentazione. Maccacaro lo fece, insieme ad una reiterata, veemente denuncia di una “medicina di classe” che determinava, e continua a determinare, inaccettabili disuguaglianze nella vulnerabilità alla malattia e nella durata della vita non solo nel sud del mondo ma anche in quello di Paesi sviluppati come il nostro. Gli scritti di Maccacaro mantengono una importante validità sia per la programmazione dei nuovi servizi che per la verifica di quelli operanti nell’ambito della sanità italiana. La nostra rivista ha ritenuto irrinunciabile riproporre alcuni dei suoi contributi per confrontarli con la realtà attuale: che cosa si è raccolto, o non raccolto, rispetto alle “linee guida” contenute nei suoi scritti? Insieme a questo, un riconoscimento, oltre che un utile contributo alla progettazione e allo sviluppo dei servizi, ad un uomo che ci ha lasciato la preziosa testimonianza di come una lettura politica dell’operare in medicina rappresenti l’unica strada per realizzare il diritto alla salute di tutti i cittadini. Monografia a cura di Francesco Carnevale [email protected] l ute Sa e 356 Territorio Lorenzo Tomatis Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 I rischi attribuiti ad agenti chimici* “Sono amico di Renzo Tomatis, ma accingendomi a dirne vedo che di lui, così schivo, io so ben poco. So che è nato a Sassoferrato nel 1929 da padre torinese e madre triestina. So che è laureato in medicina e, per alcuni anni, ha svolto attività scientifica e didattica in un Istituto dell’Università di Torino, dedicandosi soprattutto a ricerche sulla silicosi e sul cancro. Per sviluppare queste ultime si trasferì nel ’59 a Chicago dove è rimasto fino al ’67 occupandosi di culture in vitro e soprattutto di cancerogenesi sperimentale. Tornato in Europa si è stabilito a Lione e vi lavora tuttora come responsabile di cancerogenesi chimica del Centro internazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità per le ricerche sul cancro. So che ha moglie, un bambino, una casa a Trieste e una ottima reputazione internazionale di studioso…”. Così scriveva Giulio Maccacaro, era il 1974, nella Prefazione a La Ricerca illimitata di Renzo Tomatis (Feltrinelli, Milano). Anche Renzo Tomatis ci ha lasciati il 21 settembre del 2007. La coerenza ha segnato, dal momento in cui scriveva Maccacaro, il resto della vita di Renzo, una coerenza costellata nell’impegno scientifico (testimoniato anche dalle autorevoli Monografie IARC per la valutazione dei rischi cancerogeni), interesse divulgativo e creativo (espresso mediante opere di carattere letterario-saggistico, l’ultima delle quali, L’ombra del dubbio, uscirà postuma) e collaborazione con reti internazionali e nazionali dei movimenti impegnati per il diritto alla salute e per un ambiente meno inquinato. Sono stati così in molti coloro che hanno avuto il privilegio di fruire del suo esempio, dei suoi consigli e della sua guida (F.C.). L’ della IARC sordamente ed efficacemente osteggiata. In tal modo diveniva possibile continuare a discutere all’infinito sulla “vexata questio” se e fino a qual punto la prevenzione primaria può essere efficace nel ridurre l’incidenza e quindi la mortalità per tumore, e se può esserlo perché non ha dato miglior prova di sé; discussioni inevitabilmente appaiate a quella dell’attribuibilità dei rischi. Il grande cancerologo russo Leon Shabad quando gli capi- affermazione di Maccacaro che “c’è solo un MAC scientificamente accettabile ed è quello zero” (1) a suo tempo aveva suscitato scalpore e sconcerto, al punto che gli si erano schierati contro anche ricercatori ed epidemiologi che si ritenevano, o che venivano ritenuti “impegnati”. Più cautamente e con meno immediatezza, ma con significato di fondo simile, l’OMS e poi l’IARC affermavano che non vi è un livello di esposizione a un can- cerogeno al di sotto del quale si possa dire che non vi sia rischio per l’uomo. L’affermazione gridata da Maccacaro dava scandalo, faceva insorgere compatta la formidabile potenza delle corporation che su di un altro piano intensificavano la loro opera di corruzione, e largheggiavano in blandizie nei riguardi di ricercatori che, caritatevolmente, definirò come di poco carattere. La dichiarazione dell’OMS veniva totalmente ignorata e quella * Editoriale comparso su Epidemiologia & Prevenzione anno 28, 4-5, luglio-ottobre 2004, pp. 201-206. tava, trenta anni fa, di doverne parlare, esordiva parafrasando André Gide: “Poiché pochi leggono e ancor meno ascoltano – diceva – è necessario continuare a scrivere e anche ripetere quanto è stato già scritto e detto”. Che senso ha infatti domandarsi perché la prevenzione primaria centrata sulla riduzione o l’abolizione dell’esposizione a cancerogeni chimici non è stata più efficace, se per sostenere questa pretesa inefficacia si dimenticano i casi nei quali, N. 165 - 2007 malgrado la schiacciante evidenza che un intervento preventivo avrebbe dovuto essere preso con estrema urgenza e sarebbe stato risolutivo, nulla è stato fatto? E si dimentica che una serie di argomenti più o meno pretestuosi e più o meno ignobili sono riusciti a evitare o a rimandare di anni o decenni la messa al bando di composti altamente pericolosi? Che la cancerogenicità delle amine aromatiche sia stata riconosciuta nel 1895 (2), confermata nel 1921 (3), e che, a parte qualche iniziativa isolata, si sia dovuto attendere la fine degli anni 1960 per la loro messa al bando in alcuni, non certo tutti, i paesi? (4). Che l’amianto, del quale si conosceva la cancerogenicità dagli anni trenta (5,6) e per il quale è noto che “non esiste un livello di esposizione nell’uomo al di sotto del quale non si manifesti un aumento di rischio di cancro” (7), per decenni ha continuato a essere usato in maniera incontrollata, e lo è tuttora in molti paesi, e che ancora se ne producono oltre due milioni di tonnellate annue (i maggiori produttori sono Russia, Canada e Brasile), che la demolizione di strutture edilizie contenenti amianto viene effettuata per lo più senza adeguate misure protettive, come quella delle navi in disarmo che ancora imperversa da noi (8) e che viene sempre più spesso esportata in paesi poveri dove non esiste una legislazione che protegga i lavoratori? (9). La litania sullo sfruttamento deliberato e spietato per oltre un secolo di quella parte del- Maccacaro, lo stratega del SSN la popolazione esposta a rischi occupazionali potrebbe continuare con gli esempi del benzene, per il quale si sono mantenuti per decenni livelli di esposizione inaccettabili dopo che l’evidenza della sua cancerogenicità era stata ormai abbondantemente dimostrata, del cloruro di vinile, la cui cancerogenicità per organi diversi dal fegato è stata per anni artatamente contestata, del butadiene, per il quale l’evidenza di cancerogenicità è stata ancora recentemente messa in dubbio con argomenti fittizi, del berillio, del quale per decenni è stata negata la cancerogenicità malgrado l’evidenza disponibile, e così pure di cromo, nickel, cadmio e la lista potrebbe allungarsi. Mi par già di udire le reazioni irridenti o sprezzanti di quella parte dell’establishment scientifico che sostiene, ed è finanziato, dalle corporation: queste cose le poteva dire Maccacaro trenta o quarant’anni fa, ma non fanno più presa oggi, siete solo capaci di ripetere fino alla noia le stesse storie, rifiutate di vedere che le amine aromatiche pericolose non esistono più, che l’amianto è una faccenda del passato, che il processo di Marghera ha dimostrato che il cloruro di vinile è pressoché innocuo, che il benzene, si sa, è anche un prodotto naturale, e a piccole dosi non fa male, e che nell’insieme i tumori occupazionali, oltre ad aver sempre rappresentato solo una piccola percentuale del totale dei tumori, sono in netto calo. Partendo da questo abbrivio l’intera questione dei rischi attribuibili ad agenti chimici ambientali viene liquidata in questo modo: 1. la maggioranza dei cancerogeni chimici identificati sono cancerogeni occupazionali, ossia il loro effetto è stato dimostrato seguendo l’approccio epidemiologico in condizioni estreme (prolungata esposizione a dosi alte) e non hanno quindi importanza per la popolazione generale e possono essere ignorati, mentre della cancerogenicità di alcuni medicinali non è il caso di parlare data la indiscussa utilità che ne giustifica pienamente l’uso; 2. per estensione, qualunque agente chimico che sia stato identificato sperimentalmente come cancerogeno usando dosi alte o comunque più alte di quelle alle quali la popolazione generale è esposta può venir ignorato, e in ogni caso i risultati di saggi sperimentali non sono in grado di predire eventi simili nell’uomo; 3. di conseguenza le cause dei tumori vanno ricercate altrove, l’industria chimica non c’entra, è più fruttuoso concentrarsi sulla dieta e l’esercizio fisico e sull’insieme delle abitudini di vita. L’allentamento dell’attenzione sui rischi chimici è stato anche favorito dalla notevole incoerenza con la quale viene effettuata l’attribuzione dei rischi. Non di rado infatti questa viene fissata sulla base di livelli di evidenza che variano considerevolmente per i diversi fattori di rischio presi in considerazione, ma trattandoli alla stessa stregua, oppure amplificando o riducendo arbitrariamente la plausibilità biologica di eguali o simili livelli di evidenza a Sae l ute Territorio 357 seconda dei tipi di esposizione considerati. Per far accettare l’esistenza di un’associazione causale fra un’esposizione occupazionale o ambientale e cancro nell’uomo si esige un’evidenza particolarmente robusta, mentre l’evidenza che riguarda, per esempio, il contributo di alcuni fattori dietetici all’aumento o alla diminuzione dei rischi di cancro viene spesso ritenuta sufficiente anche se piuttosto debole, con il risultato di oscurare il contributo di altri fattori. Questa attitudine ha cominciato ad affermarsi dopo la pubblicazione del primo importante saggio sull’attribuibilità dei rischi, che è divenuto un classico (10), ha avuto largo seguito e una coorte di imitatori. L’ostinata negazione di un ruolo eziologico delle piccole quantità di cancerogeni chimici di origine industriale che si incontrano nell’ambiente inquinato mette in evidenza un’altra incoerenza: si dimentica deliberatamente che l’universale consenso sulla cancerogenicità del fumo di tabacco, sia attivo sia passivo, implica pure il riconoscimento del ruolo eziologico determinante di piccole quantità di cancerogeni chimici. Essa fornisce infatti la dimostrazione che cancerogeni diversi, a concentrazioni basse (non molto dissimili da quelle che si incontrano nell’ambiente generale inquinato) hanno verosimilmente un effetto, se considerati individualmente, che sarebbe molto difficile da cogliere con la metodologia epidemiologica oggi a disposizione, mentre possono addizionare i loro l ute Sa e 358 Territorio effetti e cooperare fra loro fino a produrre un effetto cancerogeno rilevante. Senza alcun dubbio è giusto e utile promuovere una adeguata educazione sanitaria e rendere l’individuo più conscio e responsabile nella scelta delle proprie abitudini di vita, ma è anche chiaro come la presa di posizione che nega il ruolo dell’inquinamento da sostanze chimiche sia interessata e per qualcuno molto fruttuosa, dato che mentre evita alle corporation chimico-farmaceutiche-agroalimentari l’obbligo di investire una parte dei loro profitti in miglioramenti impiantistici o nella sostituzione di qualche catena di produzione, può egualmente garantire un ulteriore aumento di profitti con la produzione di prodotti dei quali viene nascosto/ ignorato/ sottostimato l’impatto negativo sulla salute. Mi limiterò a questo proposito a due esempi, uno riguarda l’atrazina e l’altro l’iniziativa europea nota sotto l’acronimo di REACH (Registration, Evaluation, Authorization and restriction of Chemicals). Due esempi significativi L’atrazina è un erbicida del quale si producono annualmente oltre 70.000 tonnellate. Nel 1990 l’atrazina viene assegnata dalla IARC al gruppo 2B (possible human carcinogen) (11), sulla base di una evidenza sperimentale di cancerogenicità sufficiente, una evidenza epidemiologica inadeguata e l’evidenza di una azione di disturbo sul sistema endocrino (endocrine disruption). Nel 1998 l’atrazina viene declassata dalla Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 IARC al gruppo 3 (not classifiable as to its carcinogenicity to humans) (12) benché l’evidenza sperimentale sia rimasta sufficiente e quella epidemiologica, pur continuando a essere considerata inadeguata, indichi un’associazione fra esposizione ad atrazina e un aumento di rischio per linfomi non-Hodgkin, carcinoma dell’ovaio e carcinoma della prostata. La potente corporation che produce e distribuisce l’atrazina aveva mostrato abbondantemente la sua capacità di reazione a ogni evidenza che potesse danneggiare i suoi interessi, negando l’evidenza di un’azione di disturbo del sistema endocrino. In realtà quest’ultima evidenza, ripetutamente confermata, è stata ritenuta sufficientemente preoccupante per indurre l’Unione Europea a bandirne l’uso a partire dal 2005. Non così gli Stati Uniti che ne usano circa 50.000 tonnellate all’anno (soprattutto su granturco, sorgo e canna da zucchero) e dove il poderoso sistema di lobbying messo in moto dalla multinazionale è riuscito, per ora, a far usare in maniera perversa un decreto chiamato Data Quality Act. Tale decreto era stato a suo tempo presentato (si può ben dire in malafede, dato che chi lo presentava è lo stesso individuo che si è adoperato strenuamente per confondere i dati che indicavano i rischi del fumo di tabacco passivo) come strumento per garantire un massimo di “qualità, obiettività, utilità e integrità dell’informazione fornita dalle agenzie federali”, fra le quali ovviamente l’EPA (Environmental zione ad atrazina e cancro della prostata (15). Il caso dell’atrazina è uno dei tanti esempi lampanti di come una programmata produzione di incertezze possa interferire pesantemente con la prevenzione primaria. Gli avvertimenti su quanto complessi, penetranti e, purtroppo, efficaci siano le tattiche messe in opera per creare dubbi attorno a risultati non graditi alle corporation, sono venuti anche da fonti molto autorevoli (16), ma senza grande effetto. Il secondo esempio, quello di REACH, è già stato trattato estesamente nell’articolo di Maria Luisa Clementi (17), nel quale venivano sottolineati sia gli aspetti positivi del nuovo sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione di tutte le sostanze chimiche in uso (fa spicco quello che pone l’onere delle prove sull’industria, mentre finora ricadeva sull’autorità pubblica), sia i suoi limiti, fra i quali quello di lasciare fuori dalla normative i composti che vengono commercializzati in una quantità che non superi la tonnellata. Degli oltre tre milioni di composti chimici conosciuti, se ne usano correntemente fra i cinquantamila e gli ottantamila. L’incertezza di queste due ultime cifre riflette la difficoltà di ottenere, per un ragguardevole numero di composti, informazioni adeguate sulle quantità realmente prodotte a livello industriale e sugli usi ai quali un numero non indifferente di composti sono effettivamente destinati. Attualmente abbiamo a disposizione dati di tossicità a Protection Agency). In pratica è successo che appena i risultati di uno studio dimostravano l’azione di disturbo endocrino dell’atrazina (azione che già si manifesta, è bene ricordare, a concentrazioni di pochi parti per miliardo) spuntavano come funghi diversi studi i cui risultati li mettevano in dubbio. Il fatto che tali studi fossero inadeguati o palesemente concepiti per non fornire risultati significativi non ha impedito che facessero aumentare il rumore di fondo con un’azione di confondimento che ha avuto verosimilmente un peso notevole anche nel declassamento deciso dall’IARC nel 1998. Lo stesso tipo di azione è stata condotta nei riguardi dei dati sui carcinomi della prostata. Un aggiornamento dello studio sui tumori della prostata che rinforzava l’ipotesi di un’associazione con l’esposizione ad atrazina, sia pure in modo molto cauto, e non c’è da meravigliarsene dato che gli autori hanno ottime relazioni con l’industria produttrice (13), ha subito indotto una conveniente ed efficace opera di disturbo. Tempestivamente è così comparso un altro studio che molto genericamente dimostra che produrre atrazina non è pericoloso e fa addirittura bene alla salute, malgrado qualche linfoma in più (14), e un altro che, omettendo di includere nello studio i casi osservati negli ultimi anni, confonde le pur guardinghe osservazioni dello studio di MacLennan et al, 2002, e afferma recisamente che non vi è alcuna evidenza fra esposi- N. 165 - 2007 breve e lungo termine (questi ultimi non sempre adeguati) per circa 2.700 composti, il che significa che per la stragrande maggioranza dei composti chimici dei quali ci serviamo e/o ai quali siamo esposti non abbiamo dati che indichino se costituiscano o meno un pericolo per la salute. Anche se si può sperare che la percentuale di sostanze ad alta tossicità acuta e/o cronica fra quelle tuttora non saggiate non sia troppo elevata (ma anche solo l’un per mille vorrebbe pur sempre dire alcune decine di sostanze tossiche in più di quelle che già conosciamo), significa pure che si è passati da una produzione globale di un milione di tonnellate annue di prodotti chimici nel 1930 a quella attuale di 400 milioni di tonnellate nella pressoché totale ignoranza e omissione di elementari regole di precauzione. Ma ciò non è certamente avvenuto per semplice distrazione. Come è stato sottolineato da Margaret Wallstrom, commissario europeo per l’ambiente, alle autorità pubbliche spettava in passato di valutare i possibili rischi di sostanze in uso sulla base di informazioni fornite dall’industria, ma tali informazioni potevano essere richieste solo se era possibile provare che vi era realmente un aumento di rischio, un circolo vizioso che non solo non favoriva una corretta valutazione dei rischi, ma rappresentava un quasi insormontabile ostacolo alla messa Maccacaro, lo stratega del SSN in atto di una efficiente prevenzione primaria. Contro l’applicazione di REACH, che potrebbe compensare almeno in parte la grande lacuna preventiva che si è spalancata nei riguardi dei composti chimici entrati nel nostro ambiente, si è schierata la lobby degli industriali europei, con quelli tedeschi in testa. A quella europea si è presto aggiunta la potente lobby americana, che è riuscita anche a indurre lo stesso governo statunitense a pronunciarsi contro l’adozione di REACH, che considera alla stessa stregua composti prodotti all’interno della Comunità europea e quelli importati in Europa, includendo quindi quelli prodotti negli Usa. Il processo di diluizione e annacquamento di REACH è in atto e non è dato ancora sapere fino a qual punto potrà giungere. Considerando che alcune corporation da sé sole hanno un bilancio che è pari o superiore a quello di una nazione di media grandezza, non si può essere troppo ottimisti. Rileggendo a ventotto anni dalla sua morte gli scritti di Maccacaro si ha la netta impressione che le denunce fatte qui sopra non facciano che riflettere situazioni che Maccacaro conosceva più che bene e che aveva già denunciato chiaramente a suo tempo. Le sue critiche, ipotesi e proposte rimangono pienamente valide. Rimane valido il suo incitamento ad abbattere i muri che ci imprigionano per poter realizzare la fuga dal “carcere in cui ci ha imprigionato il capitale” e operare perché “sia possibile la nascita di una nuova scienza, la scienza di un nuovo potere” (18), dove non sia più il capitalismo, come diceva Haldane (19), a prendersi cura del ricercatore scientifico perché produca le uova d’oro per la sua tavola. Come orientarci in futuro? Ma in quale direzione dobbiamo orientarci per provare ad arginare la strapotenza finanziaria delle corporation e la loro travolgente capacità corruttrice? Forse ci può aiutare la considerazione che ricerca scientifica e forze armate hanno caratteristiche che in qualche modo le accomuna. Sono definite ambedue come necessità che si giustificano principalmente con degli scopi difensivi e per ambedue la tendenza odierna è di metterle sempre più strettamente al servizio di interessi particolari. In tal modo gli eserciti vengono trasformati in eserciti professionali e la ricerca viene trasformata in una società chiusa a obiettivi limitati. Vediamo questa trasformazione prender forma sotto i nostri occhi. La preselezione di ricercatori e obiettivi della ricerca per mezzo di canali di finanziamento fuori dei quali esistono poche o nulle speranze di sovvenzione, tende a fare dei ricercatori un esercito professionale efficiente e acritico. Ma alla stessa stre- Sae l ute Territorio 359 gua come le difficoltà di condizionare e irregimentare tutti i coscritti al medesimo grado rende possibile che affiori una certa proporzione di contestatori, facendo in tal modo dell’esercito a coscrizione obbligatoria un minor male, il preservare e difendere un certo grado di autonomia della ricerca, sia pure dispersiva e sia pure disorganizzata come quella finanziata da enti pubblici e per di più povera di mezzi come quella universitaria, e quella ancor più povera di alcuni coraggiosi singoli ricercatori e piccoli gruppi autonomi, garantisce un minimo di iniziative divergenti o controcorrente che si oppongono alla dominazione assoluta di un programma multinazionale. È fra le poche speranze che oggi si possono avere per una ricerca biomedica che voglia essere al servizio della gente e non di potenti gruppi finanziari. La deliberata spietatezza con la quale la popolazione operaia è stata usata per aumentare la produzione di beni di consumo e dei profitti che ne derivano, si è ora estesa su tutta la popolazione del pianeta, coinvolgendone anche la componente più fragile, che sono i bambini, sia con l’esposizione diretta alla pletora di cancerogeni, mutageni e sostanze tossiche di varia natura presenti nell’acqua, aria, suolo e cibo, sia con le conseguenze della sistematica e accanita distruzione del nostro habitat. l ute Sa e 360 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Bibliografia (10) Doll R., Peto R. (1981), The causes of cancer, Oxford University Press, Oxford. (1) Maccacaro G.A. (1979), Per una medicina da rinnovare, Feltrinelli, Milano, p. 314. (11) IARC Monographs on the Evaluation of Carcinogenic Risks to Humans, Vol. 53, IARC, Lyon 1991. (2) Rehn L. Bladder tumours in fuchsin workers (1895), Arch fuer Klin Chirurgie, 50: 588-600. (12) IARC Monographs on the Evaluation of Carcinogenic Risks to humans, Vol. 73, IARC, Lyon 1999. (3) International Labour Office (1921), Cancer of the Bladder among Workers in Aniline Factories, Studies and Reports, Series F, No. 1, ILO, Geneva. (13) MacLennan P.A., Delzell E., Sathiakumar N., Myers S.L. (2003), Mortality among triazine herbicide manufacturing workers, J Toxicol Environ Health, 66: 501-17. (4) Carnevale F., Montesano R., Partensky C., Tomatis L. (1987), Comparisons of regulations on occupational carcinogens in several industrialized countries, Am J Ind Med, 12: 453-73. (14) MacLennan P.A., Delzell E., Sathiakumar N., Myers S.L., Cheng M.H., Grizzle W., Hen V.W., Wu X,C. (2002), Cancer incidence among triazine herbicide manufacturing workers, J Occup Environ Med, 44: 1048-58. (5) Gloyne S.R. (1935), Two cases of squamous carcinoma of the lung occurring in asbestosis, Tubercle, 17: 5-10. (6) Lynch K.M., Smith W.A. (1935), Pulmonary asbestosis. III. Carcinoma of the lung in asbestos-silicosis, Amer J Cancer;, 24: 2017-218. (15) Hessel P.A., Kalmes R., Smith T.J., Lau E., Mink P.J., Mandel J. (2004), A nested case-control study of prostate cancer and triazine exposure, J Occup Environ Med, 46: 379-85. (7) IARC Monographs on the Evaluation of Carcinogenic Risks to Humans, Vol. 14, IARC, Lyon 1977. (16) Rosenstock L., Lee J.L. (2002), Attacks on science: the risks to evidence-based policy, Am J Public Health, 92: 14-18. (8) Gennaro V., Montanaro F., Lazzarotto A., Bianchelli M., Celesia M.V., Canessa P.A. (2000), Mesotheliona registry of’ the Liguria region. Incidence and occupational etiology in a high risk area, Epidemiol Prev, 24: 213-18. (17) Clementi M.L. (2004), Regole nuove per l’industria chimica europea, Epidemiol Prev, 28: 73-76. (9) Harris L.V., Kahva I.A. (2003), Asbetsos: old foe in 21st century developing countries, Sci Total Env, 307: 1-9. (19) Dronamraju K.R. (ed.) (1995), Haldanés Daedalus revisited, Oxford University Press, Oxford, p. 25. (18) Maccacaro G.A. (1979), Per una medicina da rinnovare, Feltrinelli, Milano, p. 177. Nota biografica di G.A. Maccacaro Giulio Alfredo Maccacaro (8-1-1924 / 15-1-1977) nasce a Codogno (Lodi) e si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Pavia. Dal 1949 lavora a Cambridge, occupandosi di ricerca microbiologica di base. Nel 1951 ritorna in Italia come ricercatore all’Istituto di Igiene dell’Università di Pavia, per trasferirsi nel 1953 all’Istituto di Microbiologia di Milano. Nel periodo 1961-1963 è professore incaricato di Microbiologia medica all’Università di Modena, nel 1964-1965 all’Università di Sassari e nel 1966 è chiamato a istituire e dirigere l’Istituto di Statistica Medica e Biometria dell’Università di Milano. Promuove la nascita della collana di monografie “Applicazioni biomediche del calcolo elettronico” (ABDCE), dedicate all’ap- profondimento metodologico dell’applicazione dell’informatica alla ricerca biomedica e clinica; cura e rinnova la storica rivista italiana di divulgazione scientifica “Sapere”; contribuisce con vari interventi sul Corriere della Sera e su Il Giorno al dibattito culturale su svariati temi; promuove e cura per Feltrinelli la Collana “Medicina e Potere”, per la quale assicura la traduzione del libro di A.L. Cochrane “Effectiveness and Efficiency”, con il titolo di “Inflazione medica”, del libro di I. Illich “Nemesi Medica”, del libro di M.H. Pappworth “Cavie umane”. Nel 1976, poco prima della morte, fonda la rivista “Epidemiologia e prevenzione” come laboratorio di incontro di diverse culture e professionalità per promuovere il rinnovamento, anche teoretico e metodologico, della ricerca in ambito preventivo. N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 361 Medicina e lavoro* A volte i discorsi generali su temi come questo sono delle divagazioni e pertanto inutili e dannosi nella misura in cui fanno perdere tempo: qualche volta sono anche una necessità nella misura in cui possono aiutare ad inquadrare delle problematiche specifiche e particolari in un quadro più generale che permetta di leggerne le motivazioni di fondo, che sono sempre motivazioni politiche. Il tema “medicina e lavoro” di questo breve intervento io non lo intendo nel senso più consueto, ma semmai di “lavoro della medicina” e cioè come lavora e qual è il senso politico di questa grossa macchina che è la medicina ed in particolare la medicina di una società a capitale più o meno maturo come la nostra. Questa macchina, voglio dire, dalle apparenze assistenziali e soccorritrici e dalle sostanze gestionali e repressive. Forse il tema sarebbe stato più completo se avessimo aggiunto un terzo termine, cioè quello di “capitale”, per dire come si colloca la medicina tra lavoro e capitale. In genere si pensa – e, interessante, la nostra controparte politica cerca di favorire questa tendenza – che la medicina stia da una parte e capitale e lavoro dall’altra: cioè che la medicina sia neutrale, equanime, al di sopra delle parti, fuori dallo scontro di classe. Si dice che “di fronte alla malattia e alla morte non ci sono più differenze” oppure che “quando ci spogliamo davanti al medico siamo tutti uguali” e così sia. Ma non è vero. Si dice e si cerca di far pensare che se fosse così, così sarebbe giusto. In verità giusto sarebbe che la medicina fosse da una precisa parte, cioè insieme al lavoro contro il capitale; con lo sfruttato contro lo sfruttatore, con la classe oppressa di fronte a quella dominante. Ma è vero proprio il contrario: la medicina non è né neutrale né dalla parte del lavoro, ma con il capitale contro il lavoro. Mi riferisco, naturalmente, alla medicina di società come la nostra, tuttora nel comando capitalistico e nell’egemonia borghese. Perché borghese e capitalistica è la medicina stessa di tali società. Come ho detto e scritto più diffusamente in altre sedi, è vero della medicina, come è vero, più generalmente, della scienza. Oggi la scienza (e la medicina borghese viene sempre più arricchendosi di contenuti e soprattutto di apparenze scientifiche) non è più al servizio dell’uomo; ma è l’uomo che è al servizio della medicina, che a sua volta è al servizio del capitale. Come può essere questo? Non è questo contrario all’immagine che in fondo noi abbiamo, ed in particolare hanno coloro che partecipano all’atto sanitario come oggetti, come gestiti e mai come soggetti, come attori? Su questo punto può valere la pena di capire qualche cosa in più. Nel pensiero comune, per esempio di un lavoratore, si pensa al mondo della scienza ed al mondo del lavoro come due mondi molto lontani: due momenti del vivere sociale con scarso rapporto tra loro; cioè si pensa ad un distacco tra scienza e lavoro paragonabile a quello che vi è, nell’esperienza quotidiana, tra la vita dello scienziato e la vita del lavoratore. Il lavoratore pensa allo scienziato come ad un uomo che ha un’altra cultura ed un altro linguaggio, che vive in un altro mondo, che svolge un’altra attività che in genere viene supposta buona. Infatti apparentemente è un’attività progressiva, che aggiunge conoscenze alle conoscenze, potenza a potenza, capacità a capacità, e che quindi rappresenta continuamente un avanzamento per i singoli e per tutti. Ora queste diversità di cultura, di mondo, di linguaggio, o per lo meno creduti tali, fanno pensare allo scienziato come a qualcosa di diverso rispetto al lavoratore: cioè la scienza è altra cosa rispetto al lavoratore, essi non hanno momenti di contatto. In realtà quello che sfugge spesso a noi stessi è che il tema fondamentale della scienza, nella società capitalistica, è proprio il lavoratore, soprattutto nel senso della “organizzazione scientifica del lavoro”. Questo è lo scopo fondamentale di tutta la scienza, se riveduta criticamente. * Intervento di G.A. Maccararo svolto al Convegno regionale del PSI “Prevenzione e tutela della salute delle lavoratrici” (Milano, maggio 1973) comparso in: D’Ambrosio F., Badaracco E., Buscaglia M., Donna Salute e Lavoro, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1975. l ute Sa e 362 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Parlo della scienza moderna borghese, che è cresciuta, e si è sviluppata ed è diventata una delle attività soverchianti della nostra società. Il suo scopo fondamentale è quello di organizzare lo sfruttamento del lavoro e in questo scopo sono solidali matematici, medici, psicologi, ingegneri, economisti, sociologi, e tutti quanti. Tutte le scienze, se viste nelle loro motivazioni fondamentali, convergono su questo obiettivo; infatti la nostra scienza non è una scienza che si possa giudicare come valore assoluto, ma può stare anche per conto suo, anche se così se ne parla per mistificazione. La nostra società è la società borghese, quella che è nata con l’inizio della rivoluzione industriale e che ha egemonizzato e ha servito l’egemonia della maggior parte delle forze produttive, economiche e sociali in questi due secoli. All’inizio, in effetti, fu una forza rivoluzionaria, quando servì ad abbattere il potere feudale e a creare il potere borghese, perché in quel momento si poneva effettivamente come contraddizione di un altro potere della società, ma oggi è diventata manifestamente e chiaramente una forza non più rivoluzionaria, ma conservatrice, intesa allo sfruttamento del lavoro sociale per creare il capitale privato. Che cosa significa allora “organizzazione scientifica del lavoro” per il riflesso che ha sulla medicina e sulla sanità in generale? Significa la soggettivazione ed il comando del capitale rispetto alla oggettivazione e alla servitù dell’uomo. La più grande invenzione borghese è stata proprio questa: creare un luogo, la fabbrica, come laboratorio di ricerca, dove il capitale studia giorno per giorno ed esperimenta e prova continuamente (qui sono le vere “cavie umane”) i modi di estrazione e del plus valore, i modi di sfruttamento del lavoro sociale per il profitto del capitale privato. È un secolo e mezzo che si svolge un gigantesco esperimento giorno per giorno, momento per momento, e che ha degli obiettivi ben precisi: saggiare i limiti della resistenza fisica e psichica della classe, trovare gli strumenti di prelievo della forza lavoro, spremere tutte le gocce possibili di plus lavoro per trasformarle in capitale. Ogni giorno, in ogni politecnico come in ogni fabbrica, si fa un esperimento di questo genere. Non si può progettare una macchina senza progettare ogni volta un uomo nuovo. Il concetto di macchina parziale, che era così chiaro in Marx e che è tuttora valido ci aiuta a capire come l’invenzione tecnica è sempre anche un’invenzione che ha come obiettivo l’uomo, e che lo immagina adatto, piegato, assorbito nel disegno stesso della produzione generale e della macchina in particolare. Come in ogni politecnico, così in ogni fabbrica ogni giorno si compie un esperimento di questo genere: questo è il ruolo vero e profondo della scienza borghese. Ma anche la medicina è una scienza: anzi, la medicina moderna, da tempo ed insistentemente presentata come “medicina scientifica”, attraverso varie sue manifestazioni quali l’industrializzazione del farmaco, la tecnicizzazione dei metodi, l’organizzazione dei servizi, l’automazione della gestione, tende sempre più a porsi in una razionalità scientifica, cioè a vantarsi e a dichiararsi sempre più come una vera scienza. Infatti la medicina borghese non è diversa dalle altre scienze nella logica a cui si accennava; ma allora questa medicina con la quale facciamo i conti oggi, con la quale si scontrano le lotte della classe operaia e delle forze politiche che ne rappresentano l’autentica espressione e l’avanguardia, da quale esigenza è nata? Questo tipo di medicina, che è quella che noi usiamo oggi, impariamo, insegniamo e pratichiamo, nasce agli albori della rivoluzione industriale, quando ancora le malattie dominanti a livello di massa, veri flagelli per le popolazioni, erano soprattutto rappresentate dalle malattie infettive, dovute ai parassiti, ai germi, ai virus che producevano pesti e calamità; vi era quindi qualcosa di imprevedibile, di selvaggio nel modo in cui la malattia si poneva in quei termini, cioè come causata da agenti naturali. Vi era qualcosa di assolutamente rovinoso e insopportabile per ogni progettazione di investimento, di sviluppo e di profitto. Per questo la rivoluzione industriale e l’avvento dell’egemonia borghese hanno voluto dire un grande impegno dal punto di vista tecnico e scientifico, della sanità, perché era impossibile programmare lo sviluppo del capitale accettando l’irrazionalità della malattia naturale. Pasteur, tipico esempio di scienza medica nelle sue migliori e più celebrate manifestazioni, non era un medico; era un chimico dell’industria. La logica era la stessa, lo scopo da raggiungere era il medesimo, cioè ridurre al programmabile, all’economicamente prevedibile e sviluppabile, tutta una serie di produttività, compresa anche quella dell’uomo: ovvero l’uomo, a sua volta, come prodotto. Quindi questa grande, enorme stagione della medicina, che va dai disinfettanti del secolo scorso agli antibiotici di questo dopoguerra, avviene all’insegna di una contraddizione molto semplice: quella dell’uomo contro la natura. La malattia è vista come il flagello che viene dalla natura e che colpisce l’uomo. La medicina è quella che difende l’uomo contro il flagello naturale. Allora la collocazione del medico è molto chiara in questo contesto: il medico è “dalla parte dell’uomo” contro la natura e tutto ciò che lo minaccia; ma lo è soltanto nella misura in cui quella minaccia non investe solo l’uomo, ma un sistema produttivo; investe una nuova ipotesi di organizzazione e di sviluppo sociale ed economico. Quando invece arriviamo alle società contemporanee, ad alto sviluppo industriale, la patologia di quel tipo viene relativamente scomparendo. I nostri figli non sanno più che cosa vogliano dire carbonchio, tifo nero, peste, colera ed altre cose del genere. Un’altra patologia di oggi ci tormenta: sono malattie dovute non più a cause naturali, ma a cause umane, che derivano, cioè, dai modi di produzione, non dalla natura. Sono le malattie da usura, da lavoro, da modo di vita e di convivenza: sono i ritmi, la scomposizione del lavoro, l’inquinamento delle città, l’affollamento, la catena di montaggio, la pendolarità, la monotonia, la costrizione e l’alienazione. N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 363 Sono tutte queste cose che oggi logorano, sciupano, spengono la vita dell’uomo; quindi la contraddizione, in termini medici, non è più tra uomo e natura, ma tra l’uomo e un altro uomo, perché è l’altro uomo che ha creato tutte queste contraddizioni ed in queste contraddizioni costringe a vivere il nostro uomo, il nostro compagno. Ma se la contraddizione è ora tra uomo e uomo, e non più tra uomo e natura, questo terzo uomo, che è il medico, da che parte sta? Non può dire di essere dalla parte dell’uomo, ma deve dire dalla parte di quale uomo: cioè con il lavoratore o con il padrone. Vedendo le cose da questo punto di vista, si può fare qualche chiarezza su quella che è la collocazione effettiva dell’atto sanitario, e quindi della prestazione medica nella società attuale, intesi e giudicati non come atti di individui singoli, ma come elementi strutturali della macchina sanitaria. Si fa chiaro così che la medicina non è né neutrale, né benefica, a livello sociale, ma è uno strumento di gestione per conto del capitale, è un altro comando per conto del padrone. Anche il medico contribuisce a quella gestione, trasmette quel comando anche se soggettivamente non ne prende coscienza oltre, nei casi migliori e ben rari, che con oscuro senso di contraddizione e di crisi. Eppure, per superare questa crisi, basterebbe che facesse il medico davvero: ma è proprio quello che non fa. Basterebbe che sapesse conoscere le nostre malattie per quello che veramente sono: malattie globali, che investono tutto l’organismo, malattie psico-somatiche che hanno la loro autentica e più attendibile espressione nella soggettività del paziente, e non solo nell’oggettività del medico. Voglio dire che il medico è educato a ridurre il malato ad oggetto, a corpo fatto di organi, a organi visti come macchine o parti di una macchina, che funzionano o non funzionano per quel che il medico constata, non per quel che il malato sente o dichiara. Così accade che il medico proceda ad un vera e propria scomposizione del malato, così come si procede a quella di una macchina, e che ne vada in tal modo distrutta o negata, o repressa la soggettività, che è verità della sofferenza e delle cause che la producono. Il processo che educa il medico ad operare questa scomposizione, lo scompone a sua volta perché possa convivere con la sua contraddizione. La nostra scuola medica lo porta sempre più a frantumarsi come medico parziale (il medico delle orecchie, il medico del fegato, dei reni, ecc.), perdendo completamente la capacità di recuperare in sé l’unità necessaria a capire l’unità dell’uomo che ha di fronte e, quindi, l’unità delle cause che lo rendono malato. Una manifestazione grottesca di tale tendenza è, tra le tante, il ricorso al laboratorio di analisi: non vi è ormai più nessuno che per la minima affezione non venga mandato a fare una decina di esami (del sangue, delle urine, ecc.) da un medico che non sa bene perché le chiede, e, ottenuti i risultati, non saprà bene cosa vogliono dire. So di operai che, arrivati ad un livello limite di sopportabilità del lavoro in fabbrica, una mattina hanno buttato una chiave inglese sul banco di lavoro e se ne sono andati senza tornare mai più neanche a ritirare l’ultima busta paga. Se voi aveste fermato all’uscita della fabbrica un operaio in questa condizioni e gli aveste fatto l’esame del sangue e delle urine non avreste trovato niente; però era un uomo disperato lo stesso. So che negli anni di maggior flusso migratorio da Sud verso il triangolo industriale una donna ogni 90 di quelle immigrate ha tentato il suicidio entro sei mesi dall’arrivo a Milano, per la disperazione prodotta dall’impossibilità di qualsiasi inserimento sociale. Se voi aveste fermato quella donna, prima che si buttasse dalla finestra, per farle degli esami, non avreste trovato niente, ma era una donna che non riusciva più a vivere. L’uso che si fa di questa riduzione della malattia al dato chimico, al fatto fisico, al segno obiettivo, è solo teso a distrarci dalla conoscenza delle cause reali; cause che non vengono più dalla natura, ma dal sistema. La verità che non si deve sapere e non si deve dire è che la classe operaia ha una grossa malattia che la investe tutta e che si chiama capitale; ma questa diagnosi non viene mai fatta, cioè si ricorre a qualsiasi altro tipo di diagnosi pur di tacere questa. Così come non si riesce più a curare. In un recente dibattito a Pavia un operaio ci chiedeva, con parole semplici e limpidissime: “Perché i medici non curano più? Perché le medicine non guariscono più?” Aveva ragione. Il fatto è che le medicine non servono per queste malattie, e la classe operaia non deve lasciarsi imbottire di medicine che servono al padrone. Questo tipo di patologia non conosce cure, non vi sono cure adatte: vi è solo la prevenzione. Bisogna abolire le cause di queste malattie. Non si può costringere l’uomo ad un ritmo di lavoro che gli genera l’ulcera, e poi dopo togliergli un pezzo di stomaco per dire che non ha più l’ulcera. Bisogna togliergli la catena di montaggio; bisogna toglierlo da quella situazione che produce l’ulcera e che lo porta fino a quel punto. Non vi sono cure per questo, ma per non riconoscerlo si crea il mito del farmaco; questa ipertrofia mostruosa dell’uso del farmaco per cui quasi tutti gli individui prendono sei o sette medicine al giorno. Questa è una enorme truffa, in due modi: 1) perché riduce ulteriormente l’uomo al servizio del capitale (in questo caso farmaceutico) che recupera un alto margine di profitto; 2) perché ne ribadisce il servizio al capitale più grande (cioè non solo farmaceutico) in quanto tutti questi che consumiamo non sono medicamenti che guariscono, ma soltanto dei farmaci sintomatici, che servono a togliere il segnale d’allarme, a far tacere per un momento la voce della sofferenza che poi riemergerà e chiederà altri farmaci ed altre dosi, mentre la malattia rimane e si aggrava. Sono dei tappi messi in un buco, lo strappo, rimangono. Quello che si dovrebbe fare è la vera prevenzione. E qui bisognerà che la classe lavoratrice stia bene attenta ai messaggi che viene l ute Sa e 364 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 ricevendo su questo argomento, perché la vera prevenzione è soprattutto prevenzione primaria e non prevenzione secondaria. Noi usiamo questi due aggettivi in sede tecnico-scientifica per distinguere quella che è la ricerca e la rimozione delle cause da quella che è la diagnosi precoce degli effetti. Il problema non è quello di rincorrere una malattia sulla strada che la malattia ha già preso a percorrere, perché quando poi la malattia c’è, anche se è precocemente accertata è già in qualche modo accettata. Il problema è quello di impedire alla malattia di sopraggiungere e quindi quello di risalire veramente a monte per identificarne le cause profonde e rimuoverle. Questa è quella che noi chiamiamo medicina preventiva. Ora io voglio concludere questa analisi qui appena abbozzata, ma approfondita altrove più ampiamente, dicendo che la struttura medica attuale appare per quello che è, cioè strumento di potere; essa sembra rivolta all’assistenza, ma in realtà è rivolta alla gestione della società; ed una gestione per conto terzi, una gestione per conto del capitale. Tipica è la medicina in fabbrica, medicina detta del lavoro, in realtà medicina per il datore di lavoro. Tipico è l’ospedale psichiatrico, tipico il gerontocomio, l’istituto per handicappati, tutte le istituzioni sanitarie che sono essenzialmente istituzioni per l’esclusione. Questo è vero dappertutto: in via F. Sforza, a Riguarda, in via Castelvetro, ovunque. Noi con un gruppo di studenti abbiamo fatto recentemente uno studio sui reparti pediatrici di dodici ospedali lombardi. Ci eravamo chiesti: che tipo di obiettivo ha un ospedale pediatrico? Esso è visto di solito come un luogo sereno e affettuoso, si pensa che dove c’è un bambino ci debba essere tenerezza; non certo la violenza o la miseria del manicomio o dell’ospizio. Volevamo rispondere alla domanda se la pratica di un ospedale pediatrico, che dovrebbe essere per definizione soccorritrice e donativa come poche altre, è fatta per ottimizzare la gestione del reparto come azienda o è fatta per ottimizzare l’assistenza del bambino come infermo; abbiamo sempre confermato la prima ipotesi. Del resto, in un’intervista, rilasciata il 13 marzo 1973 a ”L’Espresso”, un avvocato torinese, noto come Giovanni Agnelli, diceva che dobbiamo ormai renderci conto che gli ospedali sono come le imprese, e come tali vanno gestiti; che non sono più i contenuti, ma i problemi di efficienza quelli che contano. Il capitale parla ormai chiaro su questi punti; avrebbe avuto timidezza a dire queste cose alcuni anni fa. Ora le dice con molta iattanza. Concludo su questo punto, dell’assistenza del bambino, che coinvolge tutte le lavoratrici. Un bambino tra la fine del primo anno di vita ed il terzo anno non può vivere la separazione dalla madre se non come abbandono, perché in una società fratturata e scomposta, come quella del capitale, il suo termine di riferimento è la madre, o chi ne ha il ruolo. È l’altra immagine rispetto alla quale la sua cresce, ed il suo io si sviluppa. Quindi, quando il bambino è posto improvvisamente in una situazione per lui incomprensibile, come quella del ricovero ospedaliero (ancorché dettato da una reale necessità), se viene isolato improvvisamente dalla madre e dalla famiglia, è del tutto smarrito e ne ricava delle cicatrici psicologiche molto profonde e durature. In realtà in quell’età non esiste il paziente madre o il paziente bambino: esiste un paziente complesso madre-bambino, che non dovrebbe essere dissociato. Allora qual’è lo spazio che la madre ha nell’ospedale pediatrico? So di dire cose ovvie, perché quasi tutti voi avete avuto questa esperienza. Ebbene, la madre non ha nessuno spazio. L’orario di visita dovrebbe essere di 24 ore su 24 per favorire la madre lavoratrice, sia al mattino presto che la sera tardi, per dare anche a lei il modo di vedere suo figlio; invece questo orario è ristretto e fissato secondo la logica gestionale dell’ospedale. Abbiamo visto qui a Milano, in tre ospedali su quattro, mezz’ora di visita al giorno nelle ore più pazze, cioè con una trascuratezza totale di quelle che sono le esigenze, non solo della madre, ma soprattutto del bambino, il quale entra poi in una serie di crisi, col risultato che la madre non può ristabilire con il figlio il rapporto di cui egli ha bisogno. Quando noi facevamo domande su queste cose, ci rispondevano che sarebbe stato meglio abolire del tutto le visite delle madri. Ci hanno parlato delle madri meridionali che non capiscono niente, che dovrebbero consegnare il bambino e poi venirlo a prendere quando è guarito, così come si fa in un’officina dove si lascia un’automobile e poi si torna quando è riparata.. Ci hanno detto molte altre cose che abbiamo riferito in un libro che esce in questi giorni. Ora, qual è il significato profondo di tutto ciò? Non è soltanto negligenza, grettezza d’animo; è la stessa situazione, lo stesso rapporto che intercorre tra l’operaio e la medicina: cioè in ogni malato vi è un corpo malato, ma vi è anche un soggetto, vale a dire vi è lui come uomo che totalizza la sua storia e la storia della sua classe, della sua famiglia. L’operazione viene sempre compiuta in forma così riduttiva: è proprio la separazione tra il soggetto e l’oggetto, perché l’oggetto, il corpo, parla a nome di sé, mentre il soggetto parla a nome di tanti, parla a nome di una situazione di un quartiere, di una classe, di una fabbrica. È proprio la negazione di una classe. Il medico, a questo punto, diventa il guastatore della classe operaia; è colui che cerca di strappare l’individuo dalla classe, che cerca di risolvere ogni rapporto con essa, di togliergli la storia, perché egli non sia più un portatore di storia, ma il portatore di una cronaca puramente personale; cioè diventi un caso perché poi diventi una cosa. Questo è dunque il senso della separazione della madre dal bambino all’interno dell’ospedale pediatrico. Il bambino è il paziente ideale: non ha esigenze, non fa domande; si può fargli qualsiasi cosa. Questo è una specie di modello a cui tenderebbe tutta la gestione ospedaliera: Cosificare l’uomo, ridurlo a cosa così come è cosificato in fabbrica. L’ospedale cioè è la proiezione sanitaria della fab- N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 365 brica; ne ha tutti gli aspetti caratteristici: la divisione del lavoro, la gerarchia, la separazione tra soggetto ed oggetto. Mi rendo conto che tutto il mio intervento è fatto in segno negativo, mentre andrebbero fatti anche discorsi positivi. Un discorso sulla medicina si conclude soltanto con una diagnosi amara. Ma se posso dare anch’io una risposta al “che fare?”, che è poi la domanda di sempre, direi che ciò che è assente è la partecipazione, l’autogestione dei lavoratori. Sono i lavoratori che devono conquistarsi un posto decisionale anche nell’ambito della sanità. Il lavoratore deve riprendere in mano la sanità, perché essa, in definitiva, è sua. Scienziato e sostenitore delle lotte per la salute dei lavoratori Francesco Carnevale Azienda sanitaria di Firenze Le origini di un impegno Un contesto indubbiamente favorevole, quello della seconda metà degli anni Sessanta delle università, delle fabbriche poi e della società, porta Giulio Maccacaro a ragionare ed a muoversi con il rigore acquisito in precedenza sul filo di un paradigma genuinamente maturato e rigidamente espresso: la scienza viene attivamente utilizzata dalla borghesia per perpetuare il proprio potere egemonico sul proletariato inibendo a quest’ultimo il ruolo che storicamente e meritevolmente gli è assegnato; la statistica e le sue applicazioni debbono risultare strumenti autorevoli ed indispensabili (assieme ad altri ovviamente) per smascherare, a proposito del progetto del capitale, le motivazioni e gli effetti del “privilegio” assegnato alla medicina curativa rispetto a quella preventiva. La missione da compiere, tanto ovvia quanto impegnativa, passava attraverso l’inversione del senso della prevenzione dovendo far valere il fatto che alla pratica della falsa prevenzione era corrisposta e corrispondeva l’annullamento di quella vera e che solo quest’ultima, affrancando il proletariato, la classe operaia con i suoi propri bisogni di sicurezza e di salute, diventava utile per tutte le altri componenti della società. Il contesto storico A gridare vendetta in quella particolare contingenza storica c’erano, e molto evidenti, tutti gli effetti sanitari, differiti, in quanto, per motivi meramente biologici doveva trascorrere il tempo, qualche lustro, necessario per manifestarsi, delle attività produttive che avevano animato, nelle grandi come nelle piccole fabbriche, la “ricostruzione” del secondo dopoguerra e quindi il “boom economico”. Alla base di tutto era riconoscibile lo sfruttamento o, come è stato chiamato riferendosi in particolare agli anni dell’immediato dopoguerra, il “supersfruttamento” dei lavoratori, una miscela esplosiva composta di disoccupazione, bassi salari, revisione delle tabelle di cottimo, parcellizzazione e gravosità fisica di molte mansioni, paghe “di posto” o inden- nità di nocività, innovazioni tecniche parziali ma anche arretratezza dell’industria e degli industriali italiani, “gabbie salariali”, discriminazione politica sempre più accentuata. Gli effetti si producevano principalmente sul fisico dei lavoratori, al lavoro come in una guerra, e diventavano computabili, avendone l’intenzione e la capacità, in termini di malattie, di menomazioni, di invecchiamento e di morte precoce. Lo scenario di questi effetti può essere reso efficacemente con le stesse parole di Giulio: “… questa è un’altra strage di classe, inoltre a quella di cui sappiamo tutti, questa è veramente un altra strage di Stato che avviene giorno per giorno, non soltanto il 12 dicembre, ma tutti i giorni dell’anno. A Torino, per esempio, ci sono ogni giorno 30 infortuni con perdita anatomica (perdita anatomica vuol dire perdita di un pezzo del corpo, che può essere una falange, un dito, una mano, un avambraccio, un braccio): Se voi immaginate per un momento questo piccolo o grosso mucchio di carne sanguinante (fatto di qualche braccio, di qualche mano o di qualche dito, ecc.) che ogni giorno si forma in quel di Torino, avrete una precisa rappresentazione di che cosa significhi l’espressione ‘appropriazione del corpo da parte del capitale’. Quest’ultima oggi non è neanche più una metafora, è semplicemente una realtà” (Maccacaro, 1974). I ragionamenti e le iniziative di Giulio su queste materie si sono sviluppate ad ampio spettro in un decennio, sino all’improvvisa e prematura morte avvenuta nel 1977, ed hanno avuto una grande risonanza diventando referenza politica di una generazione di militanti ed influendo decisamente sull’ammodernamento della cultura della sanità pubblica in Italia, ed anche in una certa misura nei cambiamenti istituzionali prodottisi nella sanità nella seconda metà degli anni ‘70. È in questo scenario che origina, spontaneamente ma con un rigore ed una coerenza eccezionale, l’attenzione alla salute dei lavoratori ed alle iniziative culturali e politiche ad essa correlate da parte di uno che in passato non se ne era occupato ove si escluda un sua precoce ricerca, del 1954, sul solfocarbonismo sperimentale (Maccacaro e Dordi 1954; Maccacaro e Dordi 1955) ed una indagine di tipo sociale sulle condizioni l ute Sa e 366 Territorio igieniche delle abitazioni dei salariati agricoli del Comune di Vigevano (Maccacaro e Comaschi, 1955). La produzione intellettuale e la militanza Della nuova stagione di impegno a favore della salute dei lavoratori sono buoni testimoni in particolare alcuni suoi scritti preparati per lo più per convegni con grande presenza di militanti e di pubblico, veri momenti di esplicitazione o di approfondimento di ragionamenti generali sulla salute degli uomini e delle donne. Si debbono ricordare in particolare: Medicina e lavoro, un intervento al convegno regionale del PSI sulla Prevenzione e tutela della salute delle lavoratrici tenuto a Milano nel maggio 1973 (dal quale è tratto il brano proposto in questo fascicolo di “Salute e Territorio”); Classe e salute, il testo dell’intervento al convegno sulla salute organizzato dal PdUP a Firenze nel novembre del 1973 (Maccacaro, 1974). Non è da dire tuttavia che altri scritti fondamentali, vero manifesto del pensiero di Giulio, trascurino di coinvolgere, in un ambito più generale, la dimensione della salute dei lavoratori. Interessano però più direttamente la salute dei lavoratori gli scritti riguardanti i tumori e tra questi la prefazione al libro di Renzo Tomatis, La ricerca illimitata (Maccacaro, 1974a) e L’onere della prova di cancerogenicità: sulle cose o sugli uomini?, editoriale del numero zero della rivista “Epidemiologia e Prevenzione” scritto a partire da una relazione te- Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 nuta a Padova nel febbraio 1976 al Convegno sull’Epidemiologia e prevenzione dei tumori occupazionali (Maccacaro, 1976) e quindi alcuni scritti riguardanti l’“incidente” di Seveso comparsi sulla rivista “Sapere” (Maccacaro, 1976a). E poi ancora, Al lavoro come in guerra, un servizio sugli infortuni del lavoro nelle fabbriche e fabbrichette della Brianza di Giovanni Cesareo su “SE” (“Scienza Esperienza”, supplemento al n. 105 di “Abitare” del 1972): un numero monografico della rivista “Sapere”su Cancro da lavoro (marzo 1974); La medicina del lavoro, una monografia del febbraio 1975 costruita in certa misura attorno ad una testimonianza, L’esperienza dei lavoratori, del Gruppo di Prevenzione ed Igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza. La rivista “Epidemiologia e Prevenzione”, trimestrale scientifico rivolto ad accogliere contributi di ricerca, rendiconti di esperienza e proposte di interventi nei campi della epidemiologia e della prevenzione rappresenta il naturale sviluppo di iniziative precedenti ed anche la realizzazione di un obiettivo fondamentale per tutta la cultura biomedica italiana, la diffusione se non proprio la nascita dell’Epidemiologia in Italia. La rivista viene concepita tra la primavera e l’estate del 1976, praticamente in contemporanea con i fatti di Seveso (10 luglio 1976). Sono questi fatti che, come si legge sull’editoriale del numero 0 (autunno 1976), in maniera emblematica rappresentano la storia di nizio di un processo che può andare molto lontano e che mi auguro passi anche attraverso le 150 ore in fabbrica per i professori, gli studenti e i medici …(Maccacaro, 1974). Le iniziative hanno come destinatari i lavoratori, ma sono molti anche i tentativi di realizzare un percorso inverso o circolare, di sperimentare cioè il “capovolgimento” delle facoltà, portandovi i lavoratori o trasferendo gli studenti ed i docenti nelle fabbriche. In questo lavoro Giulio solidarizza con i “produttori di sapere operaio” e principalmente, tra gli altri, con il Gruppo di prevenzione e igiene ambientale del Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellana. Innumerevoli sono le collaborazioni per la conduzione di inchieste “dal basso” sulla nocività in aziende lombarde e quindi le occasioni di lotte effettivamente capaci di innalzare il livello di prevenzione (Clementi, 1997). È sulla spinta di queste esperienze che nasce la rivista “Medicina Democratica” – movimento di lotta per la salute “uno strumento di lotta in più nelle mani del movimento per realizzare condizioni di salute sempre più adeguate alle esigenze della classe operaia e delle masse popolari, come momento intermedio per la realizzazione definitiva del proprio benessere attraverso l’eliminazione delle cause del malessere e della perdita di salute attuali” (Medicina Democratica, 1976). una prevenzione negata, di una partecipazione esclusa, quelli stessi che la rivista vuole contribuire a contrastare scientificamente. L’articolo di apertura di questo numero firmato da Giorgio Duca non casualmente è dedicato alla Soggettività nella prevenzione e quindi al tema portante posto in seguito ai risultati del dibattito affermatisi in quegli anni a proposito della salute dei lavoratori; altri due contributi sullo stesso argomento compariranno nel numero successivo (scritti da Renato Rozzi e da Berrino e Morosini, Primavera 1977). Della collana feltrinelliana (Medicina e Potere) tra i 20 titoli pubblicati o programmati da Maccacaro sono da ricordare quelli che più direttamente hanno contribuito a innovare in Italia le conoscenze e la pratica della prevenzione nei luoghi di lavoro: Lavorare fa male alla salute (Stellman e Daum, 1975), I medici dalle mani sporche (Targowla, 1978), L’aggressione nascosta (Biava, 1979) e Donna e salute, donna e lavoro (Stellman, 1982). L’enfasi sulla produzione teorica e sugli scritti di Maccacaro non deve oscurare la quantità e la qualità del suo impegno negli interventi sul campo, nelle lotte per la salute ed in tutto quanto era propedeutico a questi. Giulio con i suoi collaboratori sono stati dei fervidi protagonisti della stagione delle 150 ore. Con varie iniziative ha messo in pratica l’auspicio formulato qualche anno prima: la conquista delle 150 ore di studio è un’altra prova e un’altra possibilità di espansione: è l’i- La soggettività operaia e gli “esperti” È sempre cosa ardua dare se- N. 165 - 2007 guito all’esigenza più o meno inconscia e sollecitata dai più di “attualizzare” l’opera di un grande pensatore e uomo d’azione come Giulio Maccacaro. Alla realizzare di un tale obiettivo sono state dedicate due importanti iniziative commemorative realizzate in occasione del primo (Aa.Vv., 1988) e del secondo decennale (Aa.Vv., 1998) della sua scomparsa. Queste operazioni sono sicuramente valse a meglio storicizzare il multiforme e ricchissimo profilo dell’uomo. Ne risulta il ritratto di un protagonista assoluto della sua epoca. La sua opera è strettamente correlata ai cambiamenti che si sono prodotti negli anni ’70 nella società, nella cultura scientifica e generale ed anche negli ambienti di lavoro. In quest’ultimo campo il protagonismo Maccacaro, lo stratega del SSN dei lavoratori si è realizzato in forme dirette e con una capacita’ di indirizzo nel metodo di intervento e nei criteri di valutazione nei confronti dei tecnici della salute chiamati a collaborare alle indagini in fabbrica, assumendo tutti i connotati di una sollecitazione attiva, propositiva di cambiamenti non procrastinabili ed apprezzabili. Certo l’ipotesi sottesa a questi avvenimenti era quella di un mutamento più radicale dei rapporti sociali tanto da definire, e per sempre, nuovi rapporti di potere e nuovi indirizzi produttivi ed economici. Il binomio “esperto e rosso”, tanto abusato in quegli anni, è l’attributo che meglio si addice a Giulio Maccacaro. Il suo patrimonio culturale e scientifico, la capacità di disseminarlo e di applicarlo nel- Bibliografia Biava P.M. (1979), L’aggressione nascosta. Limiti sanitari di esposizione ai rischi, Feltrinelli, Milano. Aa.Vv. (1988), Attualità del pensiero e dell’opera di G.A. Maccacaro, Costruzione della scienza del lavoro della salute dell’ambiente salubre, Centro per la salute “Giulio A. Maccacaro”, Castellanaza. Aa.Vv. (1998), Conoscenze scientifiche, saperi popolari e società umana alle soglie del duemila: attualità del pensiero di Giulio A. Maccacaro, Atti del Convegno internazionale, Quaderni di Medicina Democratica, Supplemento ai numeri 114-118 dell’omonima rivista, Milano. Clementi M.L. (1997), L’impegno di Giulio A. Maccacaro per una nuova medicina, Medicina Democratica, Milano. Maccacaro G.A., Dordi F. (1954), Il Solfocarbonismo sperimentale 1. Solfocarbonismo ed avitaminosi B1, Annali della Sanità Pubblica, 15: 109-35. Maccacaro G.A., Dordi F. (1955), Il Solfocarbonismo sperimentale 2. Solfocarbonismo in animali trattati con tiamina e cocarbossilasi, Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia, 5-6: 1641-8. Maccacaro G.A., Comaschi D. (1955), Inchiesta sulle condizioni igieniche delle abitazioni dei salariati agricoli del comune di Vigevano, Rivista Italiana d’Igiene, 15: 48-70. la giusta direzione e nelle migliori occasioni assume il significato di un investimento a lungo termine e comunque un valore da ricercare e da riproporre. Come derivanti dall’insegnamento complessivo di Giulio sono da considerare almeno due situazioni tuttora decisive nel campo della protezione e della autotutela di ogni genere di lavoratore e quindi di ognuno. In primo luogo il rispetto, con il dovuto arricchimento scientifico, dei processi che portano a valorizzare la soggettività degli individui; dall’altra una visione più attiva e critica del tecnico e dello scienziato, tale da umanizzare il parametro freddo della “indipendenza” in grado di influenzare con sicurezza orientamenti e scelte di campo nelle azioni che hanno un effetto impor- Sae l ute Territorio 367 tante sulla società e sugli uomini e le donne. Se questo processo verrà attivato, anche a costo di perdere l’occasione di ulteriori fasi alte di lotta, la salute dei lavoratori italiani sarà stata tutelata con continuità e forse nella stessa misura di tutti i lavori di ogni altro posto del globo, obiettivo quest’ultimo che dovrebbe essere condiviso da un’opinione pubblica finalmente attenta ai valori e ai costi sociali della protezione dei lavoratori e del lavoro e più complessivamente dell’ambiente, attenzione questa che rappresenta una importante novità rispetto a quanto accaduto anche negli anni di Giulio. Tutto ciò serve a combattere da una parte la latitanza delle istituzioni dello Stato e, dall’altra, la solitudine dei lavoratori. Maccacaro G.A. (1974), Classe e salute (testo dell’intervento al convegno organizzato dal PdUP, Firenze, Novembre 1973) in Aa.Vv., La salute in fabbrica, Savelli, Roma, vol. 1, pp. 17-33. Maccacaro G.A. (1975), Medicina e lavoro, in F. Dambrosio, E. Badaracco, M. Buscaglia (a cura di), Donna, salute, lavoro, Mazzotta, Milano. Maccacaro G.A. (1974a), Prefazione, in R. Tomatis, La ricerca illimitata, Feltrinelli, Milano, pp. 7-31. Maccacaro G.A. (1976), L’onere della prova di cancerogenicità: sulle cose o sugli uomini?, Epidemiologia e Prevenzione, O (zero): 5-7. Maccacaro G.A. (1976a), Seveso: un crimine di pace, Sapere, 89 (n. 796): 4-9. Maccacaro G.A. (1979), Relazione su “L’uso di classe della medicina” (Modena, 25 febbraio 1972), Testo della registrazione, ora in G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-76, Feltrinelli, Milano, pp. 406-34. Medicina Democratica - movimento di lotta per la salute, Editoriale, n. 0, aprile 1976. Stellman J.M. (1982), Donna e salute, donna e lavoro, Edizione italiana a cura di C. Savonitto e G. Tessadri, Feltrinelli, Milano. Stellman J.M., Daum S.M. (1975), “Lavorare fa male alla salute” I rischi del lavoro in fabbrica, prefazione di F. Carnevale, Feltrinelli, Milano. Targowla O. (1978), I medici dalle mani sporche, La medicina del lavoro, Prefazione e cura di F. Carnevale, Feltrinelli, Milano. l ute Sa e 368 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Malattia qualitativa e malattia quantitativa* N on potremmo, infatti, parlare utilmente di medicina preventiva se non sapessimo quali sono le malattie da prevenire. E non possiamo saperlo se non statisticamente. Il confronto rappresentato nella prima figura dice che, pur in un paese non completamente industrializzato qual è il nostro, e in un arco di tempo corrispondente ad una sola generazione, il pattern distributivo delle cause di morte è cosí cambiato da essere irriconoscibile. La piú drastica riduzione è avvenuta a carico delle malattie infettive il cui contingente di morti si è ridotto ad un quinto; i piú cospicui incrementi sono quelli dei tumori che hanno quasi triplicato e delle malattie cardiovascolari che hanno piú che duplicato i contingenti rispettivi. Tenendo conto delle distribuzioni per classi e per cause di morte, ci si convince facilmente che si tratta un unico fenomeno che segna la vittoriosa conclusione della lunga lotta contro le malattie infettive. Il trentennio considerato si apre, infatti, con la scoperta dei sulfamidici, vive la grande stagione degli antibiotici e si conclude con la proposta dei primi antivirali. Nella sua vigilia il medico era ancora praticamente privo di farmaci efficaci per la cura delle malattie infettive. Tuttavia – e questo è il punto che vorrei sottolineare – la mortalità per esse era già declinante da tempo, cosí come da tempo le grandi epidemie erano divenute argomento di lezione più per gli storici che per i medici: questi ultimi avevano imparato che la prevenzione può essere più efficace che la cura. Erano state, infatti, l’igiene degli alimenti e degli ambienti nonché la profilassi vaccinica specifica che avevano dato il controllo di molte malattie infettive prima che se ne conoscesse qualsiasi terapia. Consideriamo un poco piú da vicino, se pur in termini estremamente generali, questo tipo di patologia di cui veniamo discorrendo. Vediamo subito che la malattia infettiva, nell’accezione piú lata, ha un profilo caratteristico noto anche alla cultura non specializzata: è causata da un agente esogeno microbico; si propaga nella popolazione per contagio diretto o indiretto, a mezzo di vettori o veicoli, secondo una catena epidemica di varia lunghezza e complessità; è diagnosticabile per isolamento dell’agente stesso o per riconoscimento di suoi effetti specifici; è accompagnata di solito da una reazione cellulare e biomolecolare dell’organismo che acquisisce in tal modo una immunità specifica Figura 1 - Percentuali di a successive infezioni dello mortalità per gruppi di cause stesso tipo. in Italia nel triennio 1932-1934 Già questi pochi tratti fisiono(a sinistra) e nel triennio mici della malattia infettiva generalizzata bastano ad in1962-1964 (a destra). I gruppi dicare alcuni fondamentali di cause di morte sono così criteri di medicina preventiva; indicati: 1) ricerca ed eradicazione delRES: Morti per malattie dell’apparato l’agente patogeno nell’amrespiratorio; CIR: Morti per malattie biente e nei portatori; dell’apparato cardiocircolatoriio, 2) interruzione della catena DIG: Morti per malattie dell’apparato digerente; NER: Morti per malattie epidemica in ogni punto dell’apparato nervoso; INF: Morti aggredibile; per malattie infettive; TUM: Morti 3) immunizzazione specifica per tumori; SEN: Morti per artificiale dei soggetti sani. senescenza; ACC: Morti per accidenti; Ebbene, ho cercato di richiaALT: Morti per altre cause. mare l’attenzione su questi * Questo contributo di Maccacaro, insieme a tutti gli altri che seguono, è tratto da Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, 1979. Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Sae l ute Territorio 369 punti soltanto per dire che Figura 2 - Alcune caratteristiche nessuno dei criteri ora indicaMalattia Malattia della malattia tifoidea e della ti – pur essendo il vanto di infettiva degenerativa malattia arteriosclerotica (es.: Tifo - paratifi) (es.: Arteriosclerosi) una medicina preventiva che assunte come paradigmi ha raddoppiato l’età media Eziologia Specifica Aspecifica rispettivamente della patologia dell’uomo – avrebbe senso e Predisposizione Assente Presente Prodromi Sintomatici Asintomatici tanto meno efficacia se fosse infettiva e della patologia Decorso Acuto Cronico rivolto a prevenire le malattie degenerativa. Trattasi di un Guarigione Possibile Impossibile che attualmente causano il confronto sommario che, Trasmissione Infettiva Ereditaria maggior numero di morti. Se Immunità Presente Assente intenzionalmente, manca assumiamo la malattia tifoiEtà modale Infanzia Vecchiaia di sfumature perché siano dea come paradigmatica di più evidenti i contrasti. quella patologia infettiva che occupava ancora largamente la scena quando la mia generazione era infante e la malattia arteriosclerotica come paradigmatica di quella patologia degenerativa che domina già largamente il quadro sanitario mentre la mia generazione non è ancora senescente, il loro confronto (vedi figura 2) ha tutti i caratteri della perfetta opposizione. Forse nessun tassonomo riconoscerebbe come specie di uno stesso genere o generi di una stessa famiglia due entità così contraddittorie. Eppure diciamo che si tratta in entrambi i casi di una malattia. Oppure dobbiamo mettere in discussione il concetto stesso di malattia, come ora vorrei fare brevemente, convinto che non si tratti di una digressione ma di un chiarimento essenziale allo sviluppo del tema che ci siamo proposti. Soprattutto il chiarimento dovrebbe vertere sull’esistenza delle malattie come entità indipendenti: esistenza, dirò subito, affermata da alcuni secoli di dottrina medica sino ai tempi della nostra educazione universitaria. A questa era sottesa ancora l’idea affatto linneiana di un insieme gerarchicamente ordinabile di malattie, presenti o assenti, singolarmente o molteplicemente, nell’uomo sano e nell’infermo. La transizione epidemiologica da Maccacaro ai nostri tempi Eva Buiatti Agenzia regionale di sanità della Toscana Q uando Maccacaro descriveva i dati di mortalità italiani del suo tempo e li confrontava con quelli degli anni trenta, correvano gli ultimi anni Sessanta del secolo scorso 1 . In quegli anni nei Paesi occidentali il quadro epidemiologico aveva già subito profonde trasformazioni, caratteriz- 1 zate dal crollo della mortalità per le malattie infettive (ma anche per quelle respiratorie e dell’apparato digerente), mentre stava emergendo il ruolo dei tumori e, forse ancora più chiaramente, quello delle patologie dell’apparato circolatorio. Maccacaro vedeva in queste trasformazioni i segnali di un trend epocale, quindi destinato a durare, e diffuso, quindi destinato ad avere rilevanza per la specie umana. Un andamento figlio da un lato di una clamorosa vittoria (quella sulle malattie infettive) e, dall’altro, di una dolorosa anche se non scontata sconfitta nel campo delle patologie croniche emergenti. Suggeriva G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, pp. 59-62. anche una interpretazione di questo diverso destino delle nostre battaglie in difesa della salute. Identificava infatti le patologie infettive come monocausali, ben caratterizzate nel loro percorso eziopatogenetico che è possibile interrompere con la riduzione della diffusione dell’agente patogeno, la immunizzazione dei soggetti a rischio di infezione, la terapia. Le malattie cronico-degenerative invece le descriveva come caratterizzate da una natura complessa e sfumata, da una origine multifattoriale, ad insorgenza graduale e subdola, con de- l ute Sa e 370 Territorio corso forse non modificabile e comunque spesso poco conosciuto, quindi più difficilmente aggredibili sia con la prevenzione che con la terapia. Dopo quaranta anni si può discutere sul valore attuale delle sue interpretazioni e suggestioni, attraverso una più recente analisi dei dati epidemiologici e del loro andamento nel tempo, che ci permette di descrivere un quadro complesso e variegato. Intanto, le malattie infettive e parassitarie. Correttamente Maccacaro attribuiva il crollo di mortalità per queste cause alla prevenzione primaria prima che all’entrata in commercio di sulfamidici ed antibiotici: una prevenzione in parte programmata (soprattutto attraverso la introduzione delle vaccinazioni di massa e con la diffusa attenzione alla qualità dell’acqua); in parte frutto secondario delle mutate condizioni di vita e della crescita della qualità igienica nella popolazione. In effetti una visione più globalizzata della salute, possibile oggi e non ai tempi di Maccacaro, mostra che non solo negli anni Sessanta ma neanche oggi la battaglia contro le malattie infettive è veramente vinta, se si fa eccezione per alcune, poche patologie che sono oggetto di vaccinazione e nello stesso tempo di un intervento pressante e sistematico dell’OMS in tutti i Paesi perché la vaccinazione venga applicata (vedi il vaiolo e, più recente- 2 3 Maccacaro, lo stratega del SSN mente, la polio). Paradigmatica a tal proposito è la vicenda della malaria. Dopo le speranze suscitate in alcuni Paesi dalle tecniche di prevenzione della malaria tramite la lotta ai vettori con i piretroidi ed il DDT, la malaria ha rialzato la testa. Il 40% della popolazione mondiale oggi è ancora a rischio, e ogni anno si ammalano 500 milioni di persone. Non solo gli insetticidi usati in maniera spesso sconsiderata risultano sempre meno efficaci, ma anche la terapia della malattia conclamata (e la sua profilassi) risultano sempre più complesse per la emersione di ceppi resistenti2. È vero che l’epidemia di malaria per manifestarsi richiede specifiche condizioni climatiche, come quelle che caratterizzano soprattutto i Paesi nel sud del mondo. È anche vero però che il sud dell’Europa e degli USA in passato ha dimostrato di poter ospitare vettori e plasmodi (e tanto più lo potrà fare in futuro con i cambiamenti climatici in atto), e tuttavia in questi Paesi la malaria è stata sconfitta. Occorre rivedere il paradigma della malaria come patologia monocausale, dovuta al plasmodio. Si tratta invece di una patologia pluricausale: da un lato il plasmodio e la sua capacità di sopravvivenza, dall’altro la miseria ed il suo effetto dirompente sull’ambiente e sulla salute umana. Un altro esempio di patologia infettiva di interesse attuale è dato dal virus HIV, una epi- demia che Maccacaro ovviamente non poteva prevedere e che non ha mai visto, ma la cui comparsa nei decenni passati ha messo fortemente in crisi l’ottimistica visione che ci fossimo quasi liberati dalle malattie infettive. Per la prima volta quest’anno l’OMS segnala una riduzione di diversi milioni nel numero di soggetti sieropositivi, che tuttavia si colloca ancora fra i 30 ed i 40 milioni di persone. Ma ancora più che in passato la distribuzione della malattia è diseguale, e il contributo più pesante è dato dai Paesi più poveri, in particolare l’Africa sub-sahariana. Inoltre, la riduzione della prevalenza dei sieropositivi (non il rallentamento della loro crescita) negli ultimi anni, poiché il virus una volta acquisito permane per tutta la vita, non può che significare che la mortalità da AIDS (la malattia conclamata) in quei Paesi è ancora altissima, per la mancata diffusione delle terapie efficaci nella popolazione. Sono quei morti, insieme al rallentamento della crescita dei nuovi infettati, che hanno permesso una riduzione secca del numero dei sieropositivi. Anche in questo caso quindi una patologia multifattoriale: il virus certamente, associato a miseria e disgregazione sociale. Potremmo forse dire in sintesi che, al contrario di quanto si pensava a metà del secolo scorso, oggi sappiamo che vinceremmo la battaglia contro le malattie infettive se riuscissimo ad applicare in tutto il WHO, 2007. CDC-MMWR, S.L. Steward et al., Cancer mortality surveillance, United States 1990-2000. N. 165 - 2007 mondo quanto conosciamo per prevenirle e curarle. Che dire dell’altro aspetto della transizione epidemiologica, e cioè l’aumento delle patologie croniche? Usualmente si tende a credere che, se le malattie infettive sono legate alla miseria, quelle cronico-degenerative sono legate alla ricchezza: una specie di egualitarismo della natura rispetto alle opportunità di salute concesse al genere umano. Le cose però non stanno proprio così. Se si guardano i dati epidemiologici degli ultimissimi anni, si nota che nei Paesi occidentali si è verificato sì un aumento costante di patologia cardiovascolare e di neoplasie nel loro insieme, ma questo è spiegabile per la maggior parte con l’aumentare della età media ed il comparire sulla scena di grandi masse di popolazione anziana, a causa dell’aumentata speranza di vita. In realtà, ad esempio nel caso delle neoplasie, si nota nell’ultimo decennio una riduzione della mortalità, dovuta soprattutto ad una riduzione dei decessi per tumore del polmone nei maschi (e qui è intervenuta la prevenzione dell’abitudine al fumo) e di quelli della mammella nelle femmine (contributo della diagnosi precoce e della terapia, e recentissimamente anche della minore diffusione delle terapie sostitutive in menopausa). Questi dati, veri per gli Stati Uniti3, si ripeto- N. 165 - 2007 no sostanzialmente in tutti i Paesi occidentali. Questa considerazione non significa sminuire il significato di alcuni aumenti importanti di specifici tipi di neoplasia, né la rilevanza della epidemia di obesità, segnalata con forza dall’OMS e foriera di aumenti di patologie cardiovascolari e anche neoplastiche; e neanche significa misconoscere la possibilità, anzi il dovere, di intervenire comunque con la prevenzione che sappiamo essere efficace su queste patologie. Significa però che, dopo un indubbio aumento per alcuni decenni, a parità di età la epidemia di patologie croniche a livello macro nei Paesi sviluppati sembra avere subì- 4 WHO, 2007. Maccacaro, lo stratega del SSN to una battuta di arresto, anche se variegata se si considerano le singole malattie, e soprattutto riferita alla mortalità. A cosa dobbiamo questa frenata, se non una vittoria sulla mortalità per patologie cronico-degenerative, almeno un iniziale controllo? È complesso attribuire porzioni del parziale successo alla prevenzione piuttosto che alle terapie. Certamente ambedue questi aspetti hanno avuto un ruolo, e ambedue possono averne in futuro uno ancora maggiore. È vero però che gli effetti potenzialmente immensi della prevenzione (a giudicare almeno dalla letteratura epidemiologica) sono stati ben poco sfruttati anche nei Paesi occidentali e ancora moltissimo resta da fare sia in termini di prevenzione individuale che di comunità. Ma le cose stanno andando peggio nei Paesi poveri. Ad esempio per quanto riguarda la patologia cardiovascolare, questa ha causato nel 2001 più di 16 milioni di morti a livello globale, ma di questi l’80% è avvenuto (contrariamente a quanto si potrebbe credere) nei Paesi a reddito basso o medio-basso, e questo nonostante la minor componente delle classi di età anziane in quelle popolazioni4. Accadrà per le patologie cronico-degenerative ciò che già sta accadendo per le malattie infettive? Riusciremo quantomeno a frenarle in questa parte del mondo, mentre nell’al- Sae l ute Territorio 371 tra dovranno convivere i due tipi di problema di salute, quelli acuti e quelli cronici, a causa del diffondersi di stili di vita a rischio insieme alla povertà e alla non disponibilità di cure e controlli efficaci? Se questo sarà il caso, non si potrà più parlare di una transizione epidemiologica a livello globale, ma di almeno due transizioni e con andamenti molto diversi. Non potremo, in questo mondo globalizzato, dire che stiamo vincendo la battaglia per avere più salute se questa non sarà vinta dappertutto. Anche perché, trattandosi appunto di un mondo globalizzato, nessun popolo potrà ritenersi al sicuro se non saranno al sicuro tutti i popoli. l ute Sa e 372 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Prevenzione secondaria e screening di massa L a prevenzione secondaria si attua in qella fase della malattia che abbiamo detto latente. Per la patologia cronico-degenerativa questa fase è molto spesso silenziosa sul piano sintomatologico così alla soggettività del paziente come all’esame obiettivo del medico generico. Ma, nella maggior parte dei casi, essa è anche la più diffusa nella popolazione. Ciò vuol dire che per ogni paziente clinicamente canceroso, iperteso, diabetico, psicotico ne esistono altri – decine o centinaia – che da tempo e per altro tempo sono inconsapevolmente affetti dalle stesse malattie. L’incesso di queste è così lento e protratto da giustificare la speranza che una rilevazione tempestiva, cioè una diagnosi e una cura precoci, possano interrompere nei suoi primi stadi la evoluzione morbosa prevenendone gli effetti dannosi. Questa, semplicemente, è la base degli screenings cui si rivolgono molte ma contrastate speranze della medicina preventiva: ancora una volta un problema di facile formulazione ma di difficile soluzione, come appare non appena si rifletta su questa definizione adottata dall’Organizzazione mondiale della sanità: “Le prove di screening separano le persone apparentemente in buona salute ma probabilmente affette da una particolare malattia da quelle probabilmente indenni dalla stessa. Tali prove non si propongono di essere diagnostiche ...” (cfr. Wilson e Jungner, 1968). In queste brevi righe sono indicati tutti i problemi che qui mette conto di discutere. In primo luogo è chiaro che l’ambito dell’indagine si estende dal ristretto gruppo dei malati al ben più largo insieme di coloro che sono candidati ad esserlo: cioè a quanti – per età, condizioni di vita, tipo di occupazione, creditarietà, costituzione, ecc. – sono esposti al rischio della malattia. Ciò significa, secondo valutazioni che ho già riferito altrove, un salto di due o tre ordini di grandezza nel numero di individui da esaminare (Maccacaro e Colombi, 1967). Ebbene, è semplicemente impossibile compiere questo salto dalla pedana della medicina convenzionale: per leggere, con adeguata periodicità, i vetrini istologici corrispondenti ad altrettante donne esposte al rischio del cancro dell’utero, gli elettrocardiogrammi e i dati ematochimici di tutti gli uomini candidati all’infarto, le tonometrie oculari di tutti coloro che sono potenzialmente soggetti a glaucoma e cosí di seguito per tutti gli esami che integrano oggi una prevenzione secondaria di base occorrerebbe moltiplicare il numero delle persone addette ai servizi sanitari per un fattore inaccettabile a qualsiasi comunità che non voglia sprofondare nella contemplazione ipocondriaca di sé stessa a scapito di ogni altra attività. L’unica possibilità alternativa è l’automazione degli screenings in tutti i momenti della loro realizzazione: questi vanno dalla programmazione delle prove, alla registrazione dei dati, all’analisi dei risultati. A ciascuno di questi momenti si addice, pur con diversi gradi di difficoltà, l’automazione elettronica come è dimostrato da una ricca letteratura scientifica della quale ho già riferito in una recente occasione (Maccacaro e Colombi, 1967). Qui mi pare di dover segnalare, tra i molti comuni ad altri campi, due problemi particolarmente acuti in questo e sui quali è augurabile, per noi medici, che possano convergere l’attenzione e lo studio dei cultori di calcolo automatico e di elettronica. Uno è il problema del perfezionamento di dispositivi atti a porre il paziente sempre più “in linea” con il calcolatore attraverso adatte interfaci. Occorrono sistemi di trasduttori idonei a raccogliere contemporaneamente le informazioni rilevanti che emergono dal corpo del paziente e a trasmetterle, via un convertitore analogico-digitale, all’elaboratore che, simultaneamente in linea con più pazienti, controlli anzitutto il campionamento (Rockwell, Shubin, Weill, Meagher, 1966; Talbot, 1965), provveda poi a un’elaborazione preliminare delle variabili registrate (Marx e Hunter, 1959) e proceda infine a registrazione, analisi e confronto con soglie critiche per il riconoscimento di valori normali e patologici. Va anche detto, per la verità, che per una parte non piccola dell’informazione rilevante l’esigenza più autentica non è quella dell’elaborazione “in linea” ma quella dell’elaborazione “in tempo” e che pertanto pretendere l’una anche quando l’altra è sufficiente sarebbe sintomo di quella grave malattia che è il feticismo tecnologico. L’altro problema cui intendevo riferirmi è posto dalla notevole e forse caratteristica rilevanza delle informazioni di tipo morfologico in medicina: si tratta dell’immagine radiografica di un cranio o del tracciato dell’attività bioelettrica del cervello in esso contenuto; si tratta della forma di un tumore o di quella del nucleo delle sue cellule. In ogni caso si tratta di ingenti volumi di informazioni, assai complesse e significative, che richiedono grandi quantità di tempo per la rilevazione e grandi capacità integratrici per N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 373 l’interpretazione. Per questi motivi il problema del pattern recognition mi sembra uno, dei passaggi obbligati di maggior importanza verso l’automazione degli screenings per la medicina preventiva. Per gli stessi motivi una sezione del nostro gruppo dedica le sue ricerche a problemi di pattern recognition con particolare riferimento al riconoscimento e alla classificazione di cromosomi umani, ma anche di immagini radiologiche e di tracciati bioelettrici (Gallus, Montanaro, Maccacaro, 1967 e 1968; Gallus, 1968; Basagni, Montanaro e Regogliosi, 1968). Sviluppo della tecnologia e della biomedicina Eugenio Paci UO di Epidemiologia clinica e descrittiva - CSPO Istituto scientifico della Regione Toscana N egli anni sessanta, quando Giulio Maccacaro scriveva la sua relazione sull’elaborazione automatica dei dati pubblicata nel volume Per una medicina da rinnovare, lo sviluppo dei sistemi informatici era all’inizio della prodigiosa crescita a cui oggi, guardando a ritroso, guardiamo con stupore. Negli anni Sessanta, nell’industria e nella ricerca erano state introdotti i sistemi a schede perforate e i primi elaboratori, i linguaggi per il software erano padroneggiati da un gruppo ristretto, di avventurosi ricercatori. Rapidamente si diffuse il computer che negli anni Ottanta era già divenuta la nuova divinità della nostra vita. Nella sua discussione, in particolare in queste pagine del suo contributo appare chiaro, dalle citazioni di nomi significativi del sistema sanitario inglese come l’atmosfera in cui egli viveva fosse quella scientifica e di sanità pubblica internazionale, attento a ciò che si sviluppava nel panorama negli altri Paesi e in particolare in una comunità sensibile alle tematiche della salute di comunità, della statistica sociale e sanitaria (meno definita di quanto sarà poi da noi, come epidemiologia) e aperta già allora alla discussione sulle potenzialità dello sviluppo dell’automazione nella elaborazione dei dati. In Inghilterra in quegli anni, sull’onda del libro di Archibald Cochrane, iniziava la discussione, che ancora oggi ci accompagna, sugli screening, sulla loro efficacia nel raggiungimento degli obiettivi (ricordo la discussione sullo screening con il Pap test, mai formalmente dimostrato efficace con trial randomizzato), su come la sanità pubblica si dovesse attrezzare nei confronti di questa nuova possibilità della medicina tecnologica. I principi del WHO sugli screening, pubblicati nel 1968 e ripresi da Maccacaro, sono ancora citati da molti, seppure a mio avviso siano oggi poco attuali, come i comandamenti dei programmi di screening in sanità pubblica. Io credo che questa apertura alla conoscenza internazionale non subordinata, ma partecipe, con la dignità del protagonista che è interno ad un dibattito e non che lo segue leggendo qua e là un titolo o un articolo sulle riviste scientifiche internazionali, sia una delle più importanti qualità che traspira dal lavoro di G.A. Maccacaro. Di fronte ad un mondo medico e accademico chiuso in se stesso ed autoreferenziato come era quello italiano negli anni Sessanta, leggere il suo contributo fa immediatamente capire che il suo riferimento era il mondo della ricerca anglosassone; quel mondo, come egli ricorda nel citare il lavoro del suo allievo Rodolfo Saracci sulla valutazione di qualità dei laboratori, a cui riteneva indispensabile che la medicina italiana facesse riferimento per acquisire credibilità e rigore. Forse a qualcuno questo lato del pensiero di Maccacaro può sembrare secondario rispetto a ciò che viene espresso nei suoi scritti più politici. A me sembra invece che rappresenti a tutt’oggi uno dei suoi più importanti messaggi. Lo sviluppo dell’Epidemiologia italiana successiva, così presente a livelli di grande autorevo- lezza nelle riviste scientifiche internazionali, ha confermato ampiamente la vitalità di quell’impianto culturale, che ha ripreso dalla scuola anglosassone il rigore scientifico non rinunciando alla dimensione sociale e di sostegno della promozione della salute e della prevenzione. La rivista da lui fondata, “Epidemiologia & Prevenzione”, è non per caso una delle poche italiane che si distinguono per attenzione al rigore scientifico e alla sanità pubblica. Nel discutere della medicina preventiva Maccacaro fa riferimento alla tradizionale distinzione della prevenzione in primaria, secondaria e terziaria e affronta le implicazioni dello sviluppo della tecnologia nella nostra capacità di individuare precocemente le malattie con l’obiettivo di mantenere lo stato di salute. Un punto mi pare essenziale nella premessa che Maccacaro fa sulla prevenzione secondaria. Una azione medica di questo tipo può esistere solo nella realtà, allora incipiente, dei calcolatori, nella nuova realtà della archiviazione automatica dei dati. Credo che questo punto sia centrale nella sua argomentazione e mi sembra che il tempo abbia confermato questa sua intuizione. Lo sviluppo dell’imaging diagnostico, degli approcci di laboratorio, è l ute Sa e 374 Territorio cresciuta in questi anni in una maniera non prevedibile. In contemporanea si sono aperti settori, che operano coadiuvati dalle potenzialità rese possibili dallo sviluppo dei calcolatori, che hanno aperto scenari nello studio della genetica ma anche delle componenti ambientali, pensiamo allo studio delle polveri, che erano assolutamente fuori portata. Un mondo che si è trasformato e che ha modificato sostanzialmente la medicina, oggi sempre più biomedicina in cui la tecnologia informatica applicata alla diagnostica sta in questi ultimi anni aprendo ancora nuove possibilità. Maccacaro intuì molto di questo potenziale e soprattutto individuava la sua ricaduta per la definizione di uno stato di salute di massa. Criteri per definire le soglie di malattia, possibilità di verificare differenze nella prassi biotecnologica, cioè i problemi che saranno di crescente importanza nella valutazione della qualità e validità del dato, sono aspetti correlati al contributo che questa massa di nuove conoscenze può avere per la salute della popolazione: sfide di allora che sono in gran parte sfide di oggi, quando è più facile vederle anche se forse ci appare ancora più improbo governarle. In altri scritti successivi la posizione di Maccacaro nei confronti della medicina predittiva è assai più critica che in questo testo, dato che sostanzialmente ne parla in termini di falsa prevenzione contrapposta alla vera, quella della medicina primaria. Sottolinea in sostanza i rischi connessi allo sviluppo di un Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 mercato delle indagine diagnostiche, il rischio di essere lo strumento di un’ approccio solo tecnologico alla malattia. È indubbio che proprio in questa direzione è andato molto dello sviluppo della medicina preventiva, che in larga parte si è fatta assorbire da quella predittiva. Si è sviluppata in questi decenni una medicina preventiva prevalentemente centrata sui fattori di rischio e sulla possibilità di correggerli con iniziative personali, dell’individuo. Fumo, alcol, obesità vengono dipinte come responsabilità della persona, ma soprattutto la medicina produce test che fissano soglie di valori da non superare. Soglie che lo sviluppo della tecnologia, della capacità di misura spinge a rendere sempre più basse e invita a ridurre attraverso interventi farmacologici. Cosi la medicina predittiva è divenuta la nuova frontiera della stessa medicina clinica: i limiti si sono confusi, spesso sovrapposti, invitando anche il clinico, che sempre più spesso risponde a una persona sana che a lui si rivolge per preservare la propria salute, a spaziare in campi che non gli erano noti. La medicina clinica si trova ad affrontare il tema, del tutto nuovo, del sano che vive, incarna, un rischio di malattia. Segnan e Armaroli hanno ben discusso in un interessante articolo, seguito da un successivo dibattito, questo modificarsi del rapporto tra clinica e prevenzione su “Epidemiologia e Prevenzione” nel 2002. L’atteggiamento di Maccacaro in tutti i suoi lavori non era condividere e globalizzare. Ognuno di noi può partecipare in diretta, per esempio, al dibattito scientifico in America o altri Paesi europei senza dover attendere, come avveniva fino a pochi anni fa, l’arrivo, tardivo, delle riviste da oltreoceano. Questa potenzialità nuova offre possibilità diverse alla partecipazione, alla capacità di ognuno di documentarsi, conoscere e intervenire. È forse questo il maggiore cambiamento di questi due ultimi decenni. Un cambiamento, che in termini del tutto nuovi, ripropone la questione della partecipazione e del potere. In questi anni la medicina predittiva ha sicuramente avuto un grande sviluppo tecnologico e posto rilevanti problemi per il suo impatto sulla sanità pubblica. Però è anche un fatto che a partire dagli anni Ottanta, e sicuramente lo sviluppo della elaborazione dei dati ha dato un importante contributo, si sono attivati grandi iniziative di sanità pubblica da parte dei sistemi sanitari universalistici in gran parte dell’Europa che hanno visto il coinvolgimento di milioni di donne e uomini per gli screening del tumore della mammella, del colon retto, che si sono aggiunti a quello dello screening per il tumore della cervice. L’avvio di questi programmi è avvenuto secondo un processo, sebbene discusso e contrastato, di costruzione dell’evidenza scientifica in studi sperimentali e il trasferimento, in accordo con linee guida condivise, delle indicazioni in programmi attivi di massa. Offerta di test per la luddista, bensì scientifico e rivolto a considerare quello che la scienza poteva offrire all’uomo ed in particolare alle classi più svantaggiate. L’enorme sviluppo pone noi oggi, come probabilmente avrebbe posto lui,in condizioni di governare un mondo che produce scienza e soprattutto tecnologia senza prevedere le possibilità di controllo. Il suo invito è stato sempre duplice e credo che, seppure a cosi tanti anni di distanza, possa essere considerato ancora valido. Scientificità, verifica di efficacia, controllo di qualità, ma anche interpretazione del senso che ciascuna azione dà al nostro agire, tentativo costante di capire come la tecnologia può interagire con la medicina e travolgerne gli obiettivi, considerazione attenta delle implicazioni sociali e etiche del nostro fare. In questi scritti di Maccacaro, più che nei suoi scritti politici, che in larga misura risentono di una stagione ideologica ormai lontana, si sente il bisogno di costruire non solo la lotta per la salute ma soprattutto i protagonisti della partecipazione. È forse questo che oggi, rileggendo i suoi testi, ma anche ripensando alla esperienza di questi decenni, era forse meno prevedibile. In fondo lo sviluppo della informatizzazione della conoscenza è a tutt’oggi molto lontano dall’essere realizzato, basti pensare a quanto manchi ancora per una adeguata diffusione di cartelle cliniche elettroniche condivise. Invece ciò che è veramente esploso è il mondo di Internet, della comunicazione, della possibilità di N. 165 - 2007 diagnosi precoce, ma anche attenzione per tutto il processo diagnostico terapeutico che va dalla diagnosi al trattamento, al follow up, includendo una valutazione di qualità in continuo e l’attenta sorveglianza epidemiologi- Maccacaro, lo stratega del SSN ca del processo (inclusi effetti collaterali negativi e degli esiti). Lo sviluppo della elaborazione elettronica dei dati, come allora si chiamava, è stata centrale, ma quello che più ha contato è stata la consapevolezza degli obiettivi di salute della comunità a cui si rivolgeva l’offerta di sanità e il coinvolgimento allargato, intorno a un problema di salute, di tutte le risorse, professionali e tecniche, che la comunità aveva a disposizione. Una conferma della asso- Sae l ute Territorio 375 luta necessità che lo sviluppo tecnologico si accompagni sempre a obiettivi che devono avere un senso di salute e che devono essere realizzati con la informazione, la partecipazione e la competenza professionale. l ute Sa e 376 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Lettera al presidente dell’ordine* Signor Presidente dell’Ordine dei Medici di Milano e Provincia Il 25 settembre scorso io stendevo alcune righe di prefazione a questa Medicina del capitale quando ella dettò per me le righe che seguono: A seguito di informazioni che La riguardano è invitato a presentarsi presso la Sede di questo Ordine Mercoledí 4 ottobre alle ore 11,30 per essere sentito dal Presidente o da un suo delegato. Non mi restavano molti dubbi sulle intenzioni inquisitorie del suo invito, ma non commisi l’errore di interrogarmi intorno all’oggetto dell’inquisizione. Perché, se mi capisce, io non sono un Joseph K. e nemmeno un agrimensore: tra i fermacarte e i posacenere della sua scrivania non potrò mai cercare né la mia colpa né la mia salvezza. Tutt’al più – pensavo senza allegria – l’impronta un po’ sudata di una mano che mi si dice impaziente di tendersi col braccio in un saluto ormai, credevamo, desueto. Comunque, il 4 ottobre io comparvi puntualmente al suo un po’ badiale cospetto ed ascoltai le imputazioni a mio carico con quell’attenzione di cui ella mi darà atto e con quella crudeltà che ora io le confesso. Infatti, mentre ella veniva leggendomi – quasi fossero capi d’accusa – parole e passi di una mia relazione tenuta recentemente a Perugia sul tema “Informazione medica e partecipazione” per invito dell’Istituto italiano di medicina sociale, mi erano chiare – dall’addensarsi angusto delle rughe sulla sua fronte, da una lieve rifrangenza di sudore sul suo labbro, dall’inciampo delle parole e dalla casualità delle pause – mi erano chiare e toccanti la sua fatica e la inanità della stessa: le sue capacità di intendere e di volere, visibilmente impegnate, scoprivano insieme il loro disuguale successo. Io stesso faticavo a riconoscere e non sempre riconobbi nell’eco di così annaspante dizione – la voce pur familiare delle mie opinioni che avevo offerte a un pubblico dibattito: sul potere e la servitù della medicina nella società del capitale, sulle deformazioni che ne derivano all’atto medico ed al rapporto medico-paziente, sulle inerenti responsabilità e complicità dell’informazione sanitaria. Avrei potuto aiutarla a capire, signor presidente, ma non lo feci: sarebbe stato inquinare la chiarezza di una situazione esemplare. Le avrebbe dato qualche sollievo ma le avrebbe tolto un po’ della sicumera necessaria a dirmi – di lí a poco – che ella considera la possibilità di aprire un procedimento disciplinare nei miei confronti. Ora lei vede perché – alzandomi e rifiutandole per l’allora e per il dopo qualsiasi risposta a contestazioni non ritualmente formulate – io mi congedavo preoccupato di evitare ad entrambi la tentante insidia dell’approssimazione. La mia crudeltà non era, dunque, efferata: forse soltanto un modo di velare una sollecitudine e una comprensione che non vorrei ella ritenesse obbliganti. Tutto ciò che io attendo è la formalizzazione della sua istruttoria. Credo, tuttavia, che la sua iniziativa superi, già ora, l’irrilevanza – voglia crederlo – delle nostre persone. Ricerche di questi giorni e notizie raccolte da altri convergono a indicare lei come il primo presidente di un Ordine dei Medici – almeno in epoca post-fascista – che abbia ritenuto di poter inquisire sulle opinioni espresse, nel corso di un dibattito scientifico e politico, da un medico che è anche insegnante. E di poterlo fare in nome e difesa di quella “dignità professionale” che non si riconosce nemmeno occasionalmente macchiata ed offesa dalla venalità e dalla violenza, dal servilismo e dalla prevaricazione di alcuni suoi titolari, ma soltanto dalla diagnosi di questi mali, dalla ricerca delle loro cause. Questa diagnosi e questa ricerca, profondamente penetranti nella matrice sociale e politica da cui si esprime la medicina come sistema, sono le radici onde cresce il libro di Jean-Claude Polack. È il libro che io stavo prefando quando sopportai la sua interruzione: proprio l’impertinenza che il conte di La Fère più severamente puniva sulla schiena del pur ottimo Grimaud. Ma non tema, non * In Jean Claude Polack, La medicina del capitale, Feltrinelli, Milano 1972, 1977 5 ed., pp. VII-XXXVIII [tit. orig. La médecine du capital, Maspero, Paris 1971]; ristampato in “Sapere”, marzo 1977, vol. LXXX, 798, pp. 16-25. Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Sae l ute Territorio 377 è questo il punto. Io ho pensato, riprendendo la penna, di riallacciare il discorso dove s’era interrotto, ripercorrere la traccia che mi aveva convinto, ritrovare la pagina su cui mi ero fermato. Ma non fu così: tra il libro e me si era interposto, sgradevolmente, il ricordo opaco della sua arroganza. La prefazione che avevo iniziato, signor presidente, e che resterà in un cassetto, non assumeva la sua esistenza. Immaginava lettori tra i quali ella non è annoverabile, prevedeva riferimenti che non le sono disponibili, supponeva impegni che sarebbe ingeneroso chiederle. Io volevo presentare il libro di Polack cercandone la collocazione culturale, indicandone una mappa di lettura, suggerendone i criteri di utilizzazione. Così s’usa per le prefazioni: tanto piú se di testi non facili. E questa Medicina del capitale sempre facile non è. Per lo sforzo – che ha molti antecedenti, ma nessun uguale – di investire, in un’analisi coerente che usa gli strumenti dello strutturalismo secondo una metodologia marxista, tutta la molteplicità del sistema medico. Per la densità sempre notevole, talvolta greve ma spesso fermentante, di una frase che non appare mai appagata dei significati detti ed allusi. Per la offerta, straordinariamente generosa ma incalzante, di intuizioni – folgoranti alcune – e di proposte – talune seducenti – per analisi ed approfondimenti ulteriori. Da un certo punto di vista, dunque, il libro di Polack è una lunga, straordinaria prefazione esso stesso: invito ed indicazione, indice e sommario, stimolo ed avvertenza. Soprattutto fruibile nelle sue parti, non meno e forse meglio che nel tutto, per uno studio, un seminario, una ricerca, un piano di lavoro, cui è augurabile che molti concorrano, al fine di una intelligenza politica sempre più penetrante e trasformante della medicina. La prefazione di una prefazione: ecco signor presidente, che cosa sarebbe diventata la paginetta ormai interrotta dal suo sgraziato – ma quanto istintivo! – intervento. Un’operazione che, nella mia immodestia, sospettavo di futilità. Ora – dopo averla incontrata – io so che può essere non inutile anche la prefazione di un titolo. ve, di elegante e feroce ironia. Una lettura che consiglio a tutti1, e ringrazio perciò Francesco Carnevale di avermi chiesto qualche commento in proposito. La risposta all’inquisitore Giovanni Berlinguer Membro Commissione per i determinanti sociali dell’OMS P oteva ancora accadere, nel 1972, che uno scienziato, un medico, uno scrittore e un professore, cioè un personaggio quattro volte illustre, fosse convocato con tre righe dal Presidente dell’Ordine di Milano “per essere sentito, a seguito di informazioni che La riguardano” e poi minacciato, durante l’incontro, dell’apertura di un processo disciplinare a suo carico. Il reato, in verità, era stato compiuto a Perugia, fuori dalla sua giurisdizione, 1 ma era lì che il Presidente dell’Ordine aveva ascoltato la relazione di Giulio Maccacaro su “Informazione medica e partecipazione”; e annotato accuratamente le eresie dell’oratore in vista di reprimende e scomuniche. In verità, le tesi affermate erano piuttosto insolite, perché si riferivano “al potere e alla servitù della medicina nella società del capitale, sulle deformazioni che ne derivano all’atto medico e al rapporto medicopaziente, sulle inerenti re- sponsabilità e complicità dell’informazione sanitaria”. Di fronte alle contestazioni, l’imputato reagì “alzandosi e rifiutandole per l’allora e per il dopo”. Ma un dopo ci fu: non sul piano disciplinare, perché l’Ordine non osò procedere ulteriormente, ma sul piano culturale. Alla sfida repressiva seguì presto, infatti, la diffusione di un’ampia Lettera al Presidente dell’Ordine, che è un capolavoro di scrittura, di analisi, di documentazione, di prospetti- L’origine delle disuguaglianze in salute Uno dei punti di partenza della Lettera è la nozione storica del fatto che “la vita media non usava distinguere per classi sociali, fino all’inizio della rivoluzione industriale”, e che “con questa, la morte e la malattia imparano a discriminare tra ricchi e poveri, tra la classe del capitale e quella del lavoro”. La borghesia da un lato stimola un’attività scientifica, la quale “afferma una nuova intelli- G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano 1979. Gli scritti sono stati raccolti da Giovanni Berlinguer, Giorgio Bert, Albano Del Bavero e Massimi Gaglio, continuatori (non a lungo) della prestigiosa collana “Medicina e Potere”. La Lettera al Presidente dell’Ordine è alle pp. 135-66. l ute Sa e 378 Territorio genza della malattia, sottraendola all’astralità degli influssi, esorcizzandola dall’invasione diabolica, togliendola insomma alla metafisica del male”; dall’altro crea le condizioni in cui la speranza e la qualità di vita delle persone volgono al meglio, ma insieme tendono a differenziarsi profondamente. La sostanza è questa: il tema delle diseguaglianze nella salute, nodo principale del rapporto fra medicina e società, ha avuto sviluppi molto diversi nei tempi e nei luoghi. L’avvio della rivoluzione industriale ha prodotto all’inizio, quasi ovunque, più umilianti e più logoranti condizioni di lavoro, di abitazione, di alimentazione e di spazi vitali, tanto da configurare a volte un genocidio pacifico. Solo a metà dell’Ottocento le inchieste sul lavoro, le misure di risanamento urbano, le indagini epidemiologiche e le attività di prevenzione hanno prodotto qualche miglioramento. Esso si consolidò negli sviluppi di fine secolo, dovuti alle lotte operaie e contadine, al riconoscimento delle cause microbiche delle malattie, all’impegno per la sanità pubblica e per le assicurazioni sociali. Un altro periodo positivo si aprì a metà del Novecento, come effetto delle aspirazioni dei popoli conseguenti alla vittoria democratica della II guerra mondiale e alla liberazione dei popoli coloniali. L’affermazione che la salute è un diritto umano primario, l’accesso più ampio a terapie e 2 Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 profilassi (antibiotici e vaccini) e l’impulso dato da molti Governi e dall’OMS alla sanità pubblica ridussero in molti casi le disuguaglianze sociali. Fino al 1978, potrei dire, quando l’OMS lanciò con grande slancio il tema “Salute per tutti per l’anno duemila” e subito dopo abbandonò al neoliberismo la guida delle politiche sanitarie. Da allora, le differenze inique ed evitabili sono costantemente cresciute. prezzi esosi, per l’eccessiva durata e l’amplissimo spettro delle privative, per lo scarso impegno nel produrre nuovi vaccini e nell’aggiornare quelli esistenti, nel riconoscere che quando un popolo è colpito da epidemie bisogna sospendere i privilegi delle industrie e investire (da parte degli Stati e della comunità internazionale) a favore della vita umana. È nato un nuovo movimento, che ha già raggiunto successi significativi e che può “far arrivare gli effetti dove ne è più acuta la necessità”. Il rapporto fra la medicina e la scienza Un nodo fondamentale della Lettera è il rapporto fra il potere borghese e la scienza. Maccacaro premette che “nessuno pensa di disconoscere alla borghesia – alla sua sfida antioscurantistica e antioautoritaria, al suo impegno per il trionfo della ragione e della democrazia – un ruolo storico che nel suo tempo fu autenticamente rivoluzionario, anche se solo incompiutamente liberatorio”, e afferma poi che “nessuna scienza, oggi come ieri, ha usi alternativi a quelli del potere che la determina – ma fondò e sviluppò per sé una nuova scienza e una nuova medicina in quanto scientifica”. A questo aggiunge due considerazioni empiriche: la prima è che definire i rapporti col potere “non significa disconoscere a tale scienza l’obiettività statistica dei suoi successi, il merito individuale dei suoi artefici, l’uso possibile dei suoi portati”; la seconda è che “per una ben triste ironia, i più brillanti successi delle scienze biomediche non arrivano a proiettare i loro effetti là dove ne è più acuta la necessità. Un numero enorme di uomini muore di malattie prevenibili e curabili, oppure sopravvive nell’infermità fisica e psichica per mancanza delle più elementari cure della medicina moderna”. La soluzione, allora affacciata dallo stesso Presidente della Commissione ricerca dell’OMS, H. Rosenheim, era nel chiedersi “se le grandi quantità di danaro che vengono spese oggi per la ricerca, in molti Paesi, non potrebbero produrre un più rapido e cospicuo progresso della salute degli uomini ove fossero usate per applicare quanto è già noto”2; ma questa era un’utopia regressiva. Quel che è accaduto, negli ultimi decenni, è stata un’accelerazione e un’espansione del dominio universale del farmaco, guidato da imprese multinazionali e sorretto da leggi brevettuali sempre più restrittive, che ha reso la prevenzione e le cure sempre meno accessibili ai poveri di tutto il mondo. A questo si è aggiunta una forte tendenza alla medicalizzazione dei sani, cioè dei Paesi e dei soggetti più danarosi, col risultato che una parte cospicua dei cittadini del mondo soffre per il negato accesso alle medicine, e un’altra parte (più piccola) per i loro eccessi patogeni. La novità principale è che da qualche anno le imprese multinazionali, il mercato dei farmaci e il sistema brevettuale sono sotto accusa: per i H. Rosenheim, Health in the world ot tomorrow, in “Lancet”, 1968, p. 821. Le cause sociali delle malattie All’aspirazione della medicina “a dirsi e viversi dalla parte dell’uomo”, spiega Maccacaro, si oppone “la realtà soverchiante di una patologia che nasce dall’organizzazione del lavoro, dall’espropriazione del ‘tempo vivo’, dall’impoverimento della convivenza, dall’alienazione del corpo, dalla costrizione urbana, dalla spoliazione ambientale, da tutto ciò, insomma, che è modo, atto e materia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Giulio ne parla con consapevolezza e autorità, in base a due forti esperienze: l’essere vissuto nelle Università italiane come pioniere della metodologia statistica e delle sue applicazioni biomediche, e l’aver partecipato da protagonista alle straordinarie lotte per la salute e per la sicurezza, promosse dai lavoratori stessi nelle fabbriche e nelle campagne tra la fine degli N. 165 - 2007 anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Il motto fondamentale, “la salute non si vende”, implicava una partecipazione diretta dei lavoratori nel valutare e nel correggere le condizioni del loro lavoro, e nel dare una priorità etica alla vita. Le conquiste maggiori furono il diritto a 150 ore di studio, la legge “Statuto dei lavoratori”, la facoltà di controllare e contrattare i ritmi e le condizioni ambientali del lavoro. L’Italia lavoratrice esercitò, in quegli anni, un ruolo prestigioso ed esemplare, e le sue esperienze vennero trasferite in altri Paesi europei e latinoamericani; e non era la prima volta! Dall’Italia era venuto nell’anno 1700, per opera di Bernardino Ramazzini, il primo trattato organico di medicina del lavoro, subito tradotto in molte lingue europee, che diede avvio a ricerche analoghe in molti Paesi. Il suo impattto proseguì a lungo: non è un caso che il suo Maccacaro, lo stratega del SSN libro sia stato utilizzato, in epoche diverse, dai due maggiori (e diversi) economisti-filosofi: nel Settecento da Adam Smith, nel suo trattato Sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), e nell’Ottocento nel Capitale di Karl Marx (Libro I, 1867). Dall’Italia, infine, prese avvio nel Novecento la nascita della prima Clinica del lavoro al mondo (1902) e la creazione della Società internazionale di medicina del lavoro, promossa dal Comune di Milano, dalle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, dai primi specialisti della materia. A Milano si svolse il primo Congresso internazionale, nel 1906. Un secolo dopo, sempre a Milano, si svolse il Congresso del Centenario, nel quale il rapporto fra lavoro, condizioni di vita e salute fu uno dei temi principali. Parallelamente dopo che l’OMS aveva trascurato colpevolemente la cause sociali delle malattie come fattore principale delle disegua- glianze, nel 2005 prese l’avvio la Commissione per i determinanti sociali delle malattie che concluderà i suoi lavori con l’Assemblea generale dell’OMS nel maggio 2008. Le diseguaglianze si moltiplicano, ma cresce anche lo sdegno, la mobilitazione dei cittadini, le lotte per l’equità nell’accesso alle cure, la creazione di sistemi di salute per tutti. Post-scriptum (personale) Oltre che a Maccacaro poteva accadere anche ad altri, in quella fase meschina e corporativa degli Ordini professionali orientata verso la sacralità e l’intangibilità del medico, di incappare in un Presidente con l’anima di gendarme. Capitò anche ad Adriano Ossicini, psicologo di fama, co-fondatore durante la Resistenza del movimento dei cattolici-comunisti e membro del Parlamento, e a me con lui, di ricevere un perentorio “invito a comparire” dal Presidente dei medici ro- Sae l ute Territorio 379 mani. L’accusa non riguardava lo scrivere o il dire, ma il fare, cioè l’aver promosso, con sette altri volonterosi di varie esperienze, la nascita di un Tribunale per i diritti dei malati, con lo scopo di tutelare “dal basso” i loro diritti. Adriano ed io, a differenza di Giulio, ci limitammo a scrivere al Presidente romano testimoniando la nostra sorpresa, affermando che per i medici è sempre un dovere ascoltare la parola dei malati e invitandolo espressamente a propagandare l’idea fra i colleghi. Non avemmo risposta, ma il “tribunale”, di cui fu animatrice soprattutto Teresa Petrangolini, fu avviato e riconosciuto in gran parte degli ospedali. A questo si collegò, come filiazione e poi come associazione autonoma che fu guidata da Giovanni Moro, la nascita del movimento Cittadinanza attiva, tuttora attivo e ricco di collegamenti con associazioni simili sul piano europeo. l ute Sa e 380 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Il bambino è dell’ospedale? A bbiamo assunto come ipotesi di lavoro generale che pur nella complessità di una struttura non omogenea in cui si intrecciano molteplici differenziazioni e contraddizioni – il sistema medico di una società come la nostra sia percorso – proprio nelle zone di piú avanzato sviluppo – dall’obbedienza coerente al comando capitalistico. Che non ci sia, quindi, da questo punto di vista, una differenza qualitativa ma solo quantitativa tra un punto e l’altro del sistema: nelle sue istituzíoni, nelle sue funzioni, nei suoi ruoli, nei suoi servizi. Considerando, come si è già detto, l’istituzione psichiatrica e la sperimentazione umana quale girone periferico di un unico cerchio1, decidemmo di muoverci centripetamente verso un “luogo” della medicina che avesse insieme due attributi: 1) appartenere all’esperienza sanitaria comune, cioè della maggior parte delle persone; 2) presentarsi come sede di una attività medica manifestamente benevola e soccorritrice. Chiaramente queste scelte ci allontanavano, secondo le nostre intenzioni, dai nosocomi e dagli istituti dell’esclusione (manicomi, gerontocomi, brefotrofi, ospizi per handicappati, ecc.) e ci portavano verso l’ospedale civile: e, all’interno di questo, verso il reparto pediatrico dove il bambino – cui convenzionalmente si rivolge la tenerezza di tutti – in quanto malato è destinatario di particolari cure e sollecitudini. All’interno dell’ipotesi di lavoro generale si definiva così ulteriormente un’ipotesi particolare: l’ospedale (o reparto) pediatrico regola il suo funzionamento e la erogazione dei suoi servizi al fine di ottimizzare la gestione di sé come momento di una piú larga “impresa” sanitaria obbediente alla logica di cui si è detto e non al fine di ottimizzare l’effettiva assistenza alle infermità ed alle necessità del bambino; tale divaricazione incide, con tutti i suoi effetti negativi, sui figli delle classi subalterne piuttosto che su quelli delle classi dominanti. Il problema Nessuno studente del gruppo aveva una personale esperienza di pratica in reparto pediatrico. Tutti invece avevano ben chiari (perché se ne era discusso in precedenza) i pericoli connessi alla individuazione dall’esterno dei problemi propri di una realtà che è conoscibile solo dall’interno. Ci era stato detto che i problemi autentici vanno scoperti, nel senso che emergono dalla realtà stessa, e non inventati, nel senso che siano formulati – come spesso accade – dalla “curiosità” del ricercatore. Per evitare questi pericoli avremmo potuto rimandare la nostra ricerca ad altro, imprecisabile tempo, quando le vicende personali e lo sviluppo del curriculum di ciascuno ci avessero permesso di trovare il destro e l’opportunità di inserirci temporancamente in un’attività pediatrica. Oppure avremmo potuto cercare attendibili mediatori che orientassero la preparazione del nostro successivo accostamento alla realtà che volevamo studiare. Naturalmente scegliemmo la seconda strada che ci fu particolarmente facilitata dalla possibilità di consultare alcuni operatori sanitari ed alcuni testi nello specifico campo. La biblioteca dell’Istituto di Biometria e Statistica medica disponeva di un volume2 che ci parve particolarmente idoneo a indicarci un preciso problema sul quale far convergere la nostra ricerca per la verifica dell’ipotesi generale e particolare che avevamo formulata. La lettura di questo libro e una ricerca bibliografíca ci portarono a conoscenza di altre opere rilevanti per il nostro seminario. Tali opere3 furono acquisite alla biblioteca dell’Istituto per la consultazione dai membri del gruppo: di alcune furono letti collettivamente i passi salienti; più estesa, ancorché non integrale, fu la lettura collettiva del già citato libro di J. Robertson. Dalla discussione inerente enucleammo questo problema: il bambino piccolo, in particolare tra il secondo semestre e il terzo anno 1 “De’violenti il primo cerchio è tutto; / ma perché si fa forza a tre persone / in tre gironi è distinto e costrutto” (Inf., XI 28-30). J. Robertson, Young Children in Hospital, cit. 3 F. Fornari, La vita affettiva originaria del bambino, Feltrinelli, Milano 1970; R. Gaddini, R. Angeletti, C. Vetere, D. Perego, M. Amodei, Il bambino, l’ospedale e la madre, in “Maternità e infanzia”, vol. 42, 11, ONMI, Roma 1970; M. Harris, Capire i bambini, Armando, Roma 1972; S. Lebovivi, M. Soulé, La conoscenza del bambino e la psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1972; A. Ossicini, La relazione madre-bambino, GiuntiBarbera, Firenze 1963; R.A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, Firenze 1962; M. Siirala, Parola, presenza e integrazione, Feltrinelli, Milano 1971; J.M. Tanner, B. Inhelder, Discussions on Child Development, vol. I-IV, Tavistock Publications, London 1963; C.D. Williams, D.B. Jellife, Mother and Chils Health, Oxford University Press, London 1972. 2 Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Sae l ute Territorio 381 di vita (ma spesso anche oltre), ha necessità di un regolare rapporto con la madre o con chi ne ha assunto per lui il ruolo. Una interruzione prolungata di questo rapporto, comunque motivata e prodotta, gli è incomprensibile perché gli è impossibile razionalizzare e quindi accettare la nuova situazione che egli vive esclusivamente come perdita o deprivazione materna, cioè di tutto quanta per lui significava protezione e sicurezza. Se il ricovero in ospedale opera tale interruzione – nel senso che rende impossibile o insufficiente la continuità di quel rapporto – il bambino può risentirne dolorosamente, dannosamente e persistentemente come o più che per la malattia che aveva indicato il suo ricovero. Naturalmente questo ricovero può essere dettato da necessità assolute che non era nostro problema discutere; discutemmo invece se la necessità detta sopra è da ritenersi naturale od indotta (vedi piú avanti) pur avendo chiaro che il nostro problema era ancora altro: posto che il bambino la viva come tale, per lui è autentica quale ne sia la genesi, ed è nel confronto con questa autentica necessità che va giudicato l’ospedale per il modo e la misura in cui l’accoglie o la nega. Uno di noi fece l’esempio di un diabetico cui succeda di fratturarsi un femore e venga ricoverato in un reparto ortopedico: questo, ancorché istituzionalmente specializzato e responsabilizzato per la riparazione scheletrica, non potrebbe dimenticarsi di assistere contemporaneamente in quel malato anche le necessità derivanti dalla sua malattia dismetabolica. Può, dunque, il reparto pediatrico che accoglie un bambino per curarne una broncopolmonite o una gastroenterite o qualsiasi altra patologia dei suoi organi e delle sue funzioni, imporre su di lui tanta violenza quanta corrisponde alla lacerazione di un rapporto che gli è tuttora essenziale, alla negazione di una necessità esistenziale? E se questo avviene, quale razionalità medica e quale scelta politica lo determinano e spiegano? E se, veramente, dietro una “razionalità” così implausibile si cela una precisa scelta politica, come invertirne il segno, come imporre una sostanziale alternativa? Ed infine: come tutto ciò è presente o rimosso nella vera o nella falsa coscienza dei portatori di ruoli diversi all’interno dell’assistenza al bambino: il medico, la infermiera, la madre? È per rispondere a queste domande che decidemmo di passare all’inchiesta, cioè di portare il nostro seminario dall’aula in cui si era sviluppata la discussione all’ospedale in cui viveva la realtà che volevamo conoscere. I diritti del bambino ospedalizzato Gian Paolo Donzelli Azienda Ospedaliera-Universitaria Meyer, Firenze P oco meno di 40 anni fa, James Robertson, psichiatra, psicoanalista, sociologo, pubblicò il libro “Bambini in Ospedale” (Paperback Publisher ed. 1971). Appena due anni dopo tra gli scaffali delle librerie, non strettamente mediche, comparve la prima edizione italiana (Feltrinelli ed. 1973). Robertson, vista la disattenzione che, fin allora, il mondo delle scienze pediatriche aveva riservato ai suoi richiami per garantire una maggior tutela psicologica dei bambini in ospedale, si rivolse direttamente all’opinione pubblica. L’autore contestava il pensiero dominante istituzionale, il quale sosteneva che il bambino era un “piccolo adulto”, con la conseguenza che i problemi psicologici dell’ospedalizzazione erano i medesimi di quelli propri degli adulti e non esistevano motivazioni per elaborare diritti speciali per i bambini in ospedale. Con dati sperimentali personali e di altri ricercatori, Robertson convinse la società anglosassone che l’ospedalizzazione per un bambino è sempre un trauma e che l’allontanamento dei piccoli pazienti dai propri genitori durante la degenza in ospedale provocava gravi sofferenze mentali. Queste denunce furono accolte immediatamente dalla società civile e dal mondo politico. Fu nominata una commissione ministeriale la quale decretò che se l’ospedalizzazione de- terminava una sofferenza psicologica per il bambino, emergeva la necessità di un diritto speciale, primo fra tutti di avere accanto la madre o altre persone a lui care. Tutti gli ospedali inglesi, in breve tempo, dovettero cambiare i regolamenti ed adeguare l’organizzazione dei reparti pediatrici e “liberare i bambini ricoverati dalla prigionia della solitudine”. Nel 1984 Robertson venne invitato dall’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze a parlare dei principi fondamentali del suo libro. Molti giovani pediatri erano presenti, incluso chi scrive. Ma 10 anni prima, quando molti ospedali italiani, negavano la presenza dei genitori nei reparti pediatrici Giulio Macca- caro, partigiano, medico, scienziato, intellettuale democratico, militante del movimento dei lavoratori, aveva utilizzato l’opera di Robertson per un’esperienza di confronto con gli studenti nell’Istituto di Statistica medica e Biometria. Non a caso nel suo scritto, qui rivisitato, egli usa le parole: cerchio, girone. Come Dante collocò in un girone del VII Cerchio dell’Inferno, i violenti, così Maccacaro collocò in un girone periferico di “un unico cerchio” la segregazione psichiatrica e la sperimentazione umana. Mentre spostandosi centrepitamente, vale a dire, uscendo dagli inferi, raggiunge la pediatra, intesa come “luogo” della medicina, condivisa dalla “gente” e percepita come “benevola e soccorritrice”. In questo passaggio Maccacaro trova il suo bambino dentro e lo svela senza pudore: “l’ospedale civile ed all’interno di questo, il re- l ute Sa e 382 Territorio parto pediatrico dove il bambino – cui convenzionalmente si rivolge la tenerezza – in quanto malato è destinatario di particolari cure e sollecitudini”. Non risparmia però alla classe pediatrica di allora, il giudizio di essere – più o meno consapevolmente – obbediente con coerenza al comando capitalistico ed in quanto tale tesa ad ottimizzare la gestione del reparto come momento di una più larga impresa sanitaria. La macchina si muove, dice Maccacaro, per raggiungere i suoi obiettivi che non sono, per certo, quelli di curare la malattia e garantire che la degenza sia la più sopportabile possibile. Maccacaro esprimeva tutta la sua indignazione, per il furto che veniva fatto al bambino: in una situazione molto difficile, quale quella di un ricovero in ospedale: veniva loro rubata soprattutto la madre, “cioè di tutto quanto per lui significava protezione e sicurezza”. Sappiamo quanto sia importante il precoce contatto genitori-bambino e come, quanto più tale incontro viene ritardato, tanto più facilmente si stabiliscano distorsioni relazionali con gravi conseguenze per il bambino e l’ambiente familiare. Una separazione violenta, perpetuata da violenti che poteva incidere nella mente e nel corpo più dolorosamente della stessa malattia, per la quale era stato chiesto il ricovero. Due fattori determinavano la “Sindrome da ospedalizzazione pediatrica”: l’adorazione per condizioni sterili ed asettiche ed il fatto che il personale medico era costituto prevalentemente da uomini, i quali con- Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 sideravano sentimentalismi sciocchi, allattare, accarezzare, raccontare una favola… ai bambini ricoverati. Ma dal comportamento individuale del singolo medico Maccacaro si sposta a giudicare il sistema, vale a dire l’intero ospedale, che ne è specchio fedele: esce allora dall’aula didattica, dalla biblioteca ed entra, con gli studenti, nell’ospedale, per compromettersi, per mettersi in gioco, per rispondere alle azioni ingiuste con la Politica. La sua denuncia si alza limpida nel suo messaggio, senza incertezze a dire inoltre che il peso maggiore della separazione è dei figli delle classi subalterne rispetto a quelli delle classi dominanti. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. Oggi i diritti del bambino in ospedale sono sanciti dalla Carta della EACH – European Association for Children in Hospital – suddivisa in 10 articoli: Il bambino deve essere ricoverato in ospedale soltanto se l’assistenza di cui ha bisogno non può essere prestata altrettanto bene a casa o in trattamento ambulatoriale. Il bambino in ospedale ha il diritto di avere accanto a sé in ogni momento i genitori o un loro sostituto. L’ospedale deve offrire facilitazioni a tutti i genitori che devono essere aiutati e incoraggiati a restare. I genitori non devono incorrere in spese aggiuntive o subire perdita o riduzione di salario. Per partecipare attivamente all’assistenza del loro bambino i genitori devono essere informati sull’organizzazione del reparto e incoraggiati a parteciparvi attivamente. tante per la salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei bambini. Oggi Maccacaro percorrerebbe altre strade, si confronterebbe con altri studenti, con altri pediatri. Ascolterebbe quanto scrivo in suo onore: “i bambini, eroi silenziosi dei nostri giorni combattono una quotidiana battaglia per conquistarsi la libertà dalla morte, la libertà dalla fame, la libertà dalla schiavitù del lavoro, la libertà dalla devastazione della pedofilia, la libertà dalle mine antiuomo, la libertà dal mercato degli organi umani, la libertà dall’adulto che sembra a volte dimenticarsi di essere stato bambino. Il lavoro di genitore é il compito più nobile che può svolgere l’essere umano. Dopo viene quello di chi governa gli Stati, le città, i villaggi, le scuole, gli asili nido, gli ospedali etc. Gi adulti hanno ideato molte ‘carte dei diritti’ per l’infanzia, sottoscritte dalla stragrande maggioranza delle nazioni del pianeta. A queste solenni prese di posizione non sono sempre seguite adeguati impegni perché tali valori si sostanziassero. I cittadini bambini continuano a vivere la loro eroica, silenziosa, perseverante, strenua lotta per la difesa dei loro diritti. I bambini siano d’esempio per l’adulto che si è arreso, che ha smesso di lottare per una società più giusta, che si fa sedurre dai modelli dominanti, dimenticando che il vero investimento è nei figli, futuri cittadini, future madri e futuri padri”. Grazie Giulio. Il bambino e i genitori hanno il diritto di essere informati in modo adeguato all’età e alla loro capacità di comprensione. Occorre fare quanto possibile per mitigare il loro stress fisico ed emotivo. Il bambino e i suoi genitori hanno il diritto di essere informati e coinvolti nelle decisioni relative al trattamento medico. Ogni bambino deve essere protetto da indagini e terapie mediche non necessarie. Il bambino deve essere assistito insieme ad altri bambini con le stesse caratteristiche psicologiche e non deve essere ricoverato in reparti per adulti. Non deve essere posto un limite all’età dei visitatori. Il bambino deve avere piena possibilità di gioco, ricreazione e studio adatta alla sua età e condizione, ed essere ricoverato in un ambiente strutturato arredato e fornito di personale adeguatamente preparato. Il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche, emotive e psichiche del bambino e della sua famiglia. Al bambino deve essere assicurata la continuità dell’assistenza da parte dell’équipe ospedaliera. Il bambino deve essere trattato con tatto e comprensione e la sua intimità deve essere rispettata in ogni momento. Nei nostri tempi Maccacaro, difenderebbe altri diritti, con la determinazione e ruvidità politica, che ne hanno fatto, militante di fama internazionale per la tutela della salute delle donne e degli uomini, in questo caso un pediatra mili- N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 383 L’Unità sanitaria locale I l perimetro dell’USL, secondo un concetto già precedentemente sviluppato, non è definito dagli oggetti che deve includere per adesione a uno schema prefissato ma si modella sui limiti di un’autentica partecipazione intesa come presenza di soggetti titolari del diritto di informazione e di decisione ed intesa anche come disponibilità di oggetti necessari a rendere la decisione efficace e l’informazione utilizzabile. Si vuol dire che non è la presenza di un ospedale che autentica un’USL, ma è l’USL, che decide sull’opportunità di un proprio ospedale o del ricorso a quello di un’USL viciniore. Cosí dìcasi per il paraospedale, per il servizio preventivo, per il servizio farmaceutico e per quanti altri presidi siano di volta in volta riconosciuti come necessari. La loro enumerazione e la loro descrizione appaiono pertanto irrilevanti a questo livello di esame. Conviene invece sottolineare che essi sono altrettante componenti del sistema e che quindi devono subordinare la loro attività al suo governo. Noi non vediamo piú l’ospedale come vertice e motore dell’attività sanitaria locale, ma come servizio e tali vediamo anche le altre istituzioni che gli si paragonano e che abbiamo in parte nominate. Pertanto ne disconosciamo qualsiasi centralità al processo decisionale che per essere partecipatorio non può essere periferico. L’ospedale e gli altri servizi sono certamente sottosistemi, anche notevolmente complessi, che pongono il problema di propri sistemi informativi per un corretto esercizio delle loro attività. Ma il governo degli stessi è esterno a tali sistemi e prossimo al centro del sistema informativo dell’intera USL. Tale centro è destinato ad archiviare, selezionare ed elaborare le informazioni primarie e secondarie che gli giungono dalle sub-unità per ridistribuirle alle stesse come indirizzi decisionali e per coordinare l’USL al sistema sanitario regionale. In questo senso il centro si pone come strumento di sintesi informazionale per un governo di sintesi decisionale. La sua funzione non è quindi semplice né unica: deve infatti assumere informazioni dai servizi per distribuire loro decisioni ma distribuire informazioni ai soggetti della partecipazione, per assumerne le decisioni. È quindi naturale prevedere per esso l’adozione delle piú vantaggiose risorse tecnologiche ma anche il controllo piú attento, partecipato e politicamente avvertito del loro impiego. La partecipazione non “è” ma “diventa” e diventa per forza non di decreto ma di esercizio. Quindi bisogna dimettere ogni ipotesi di governo sanitario improvvisamente partecipatorio che si realizzi ope legis in una qualsiasi situazione storica e medica, politica e tecnologica. Così come bisogna dimettere ogni illusione che il processo di crescente partecipazione possa compiersi senza risentire delle soluzioni tecniche e organizzative adottate nel suo corso. Questa doppia preoccupazione ispira le considerazioni che seguono e che richiamano altre già sviluppate in precedenza. Avevamo fatto cenno della distinzione nelle diverse sedi di attìvìtà dell’USL tra informazione di governo ed informazione di esercizio associando alla prima il controllo della funzione ed alla seconda il controllo del funzionamento. Se ora utilizziamo questi termini per una lettura della situazione attuale – cioè di una fase che dovrebbe essere di transizione verso una sanità riformata – risulta che la maggior parte degli sforzi e degli investimenti per l’implementazione di sistemi informativi o di embrioni degli stessi sono dedicati alla gestione dell’informazione di esercizio piuttosto che a quella di governo. Sono molti gli ospedali, certamente la maggior parte dei maggiori, che si vengono dotando di elaboratori o di centri di calcolo; così alcuni centri di prevenzione secondaria, così laboratori pubblici o privati di analisi cliniche, ecc. Estrapolando un trend sul quale molto incidono la pressione dei produttori e la depressione dei programmatori, non è azzardato prevedere un futuro abbastanza prossimo in cui la decisione di implementare un sistema informativo partecipatorio per l’USL dovrà fare i conti con una realtà precostituita secondo tutt’altra ispirazione e di ben difficile recupero, proprio nel campo dell’informatica. Naturalmente, questo trend è soprattutto manifesto a livello di quelli che abbiamo chiamato servizi per la loro naturale tendenza a rivendicare come autonome le proprie esigenze di razionalità. A questi servizi avevamo negato ogni centralità nel processo decisionale che essi, però, ritrovano o almeno richiedono nel momento in cui propongono i propri modelli di gestione dell’informazione. Senza insistere ulteriormente su un’analisi di cui è facile intravedere gli sviluppi, si vorrebbe dire che l’avvio alla partecipazione implica un’opzione che favorisca l’informazione di governo nei confronti di quella di esercizio. Tale opzione priorizza la costituzione dei terminali informativi presso gli ambulatori distrettuali, delle stazioni informative presso il poliambulatorio delle sub- l ute Sa e 384 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 unità, e del centro informativo presso il governo dell’USL rispetto allo sviluppo di servizi di informatica presso i diversi servizi, ospedali inclusi. Se questi ultimi devono essere congrui a quelli è giusto che siano quelli a dettare i modi di questi e non viceversa, come sta forse avvenendo. Un’ulteriore opzione, che come la precedente è contraddittoria delle tendenze in atto o in espressione, è da farsi sulla direzione di sviluppo del processo: che deve essere centripeta nella misura in cui deve essere la partecipazione più periferica cioè di base che va incentivata ed assistita prioritarìamente perché operi e non accetti la scelta di gestione diretta, mediata e delegata dell’informazione. Queste scelte contribuiranno poi a definire anche quelle proprie della partecipazione intermedia e centrale. In sostanza e conclusione noi riteniamo che l’avvento dell’USL – se si darà e se darà corpo alle migliori speranze che ha suscitato – segnerà il passaggio da un’interpretazione insiemistica ad un’interpretazione sistemistica della sanità locale ed anche da un governo delegato ad un governo partecipato della stessa. Questa doppia e così fondamentale trasformazione non avviene come atto ma come processo che si definisce nel suo compiersi. Tanto il sistema sanitario quanto quello partecipatorio, ovvero il sistema operativo ed il sistema informativo, che insieme e non dissolubilmente sostanziano l’immagine sistemistica dell’USL si sviluppano e si definiscono a misura della loro interazione. Affermare che questo sviluppo non deve essere determinato ma assistito, che ha meno bisogno di regole che di gradi di libertà, che deve essere protetto dalle suggestioni tecnologiche del capitale pubblico e privato, che – insomma – deve potersi determinare in modo veramente autonomo, significa optare non per un’astensione scientifica, anzi per un impegno maggiore. L’idea originaria di un “insieme di servizi” Ivan Cavicchi Università La Sapienza e Tor Vergata, Roma C ommentare Maccacaro e trent’anni quasi dall’uscita della riforma sanitaria è sempre qualcosa che fa pensare, che stupisce, e che allo stesso tempo rattrista un po’. Fa pensare perché le sue intuizioni vanno certamente ricontestualizzate, stupisce per la loro lucidità culturale e per il loro grande spessore riformatore, rattrista un po’ perché esse danno la misura dello iato che oggi esiste tra pensiero e realtà, tra cultura e politica, tra un pensiero “forte” e una pratica istituzionale debole se non esangue. 1. La prima grande idea, una della più tradite, ma nonostante i tradimenti, anche una delle più attuali, è quella di USL come soggetto comunita- rio partecipante e non come luogo, circoscrizione, spazio che contiene oggetti amministrabili paternalisticamente. In questi trent’anni: – il famoso territorio è stato nella pratica declinato come spazio, come servizi, come bacino d’utenza, ma non certo come comunità, cioè come soggetto titolare di un diritto come quello della salute che coincide in tutto e per tutto con la condizione di cittadinanza; – la USL non è mai stata definita in rapporto a obiettivi di ottimalità partecipativa ma all’inizio con criteri di coincidenza con precedenti realtà amministrative (Circoscrizioni, Comuni, Province) fino a diventare, dalla 502/517 in poi, una variabile sem- pre più indipendente dalla comunità di riferimento perché misurata (pensata) come minor numero possibile ai fini del risparmio (accorpamenti e riduzione del numero delle USL); – il passaggio dalla USL alla ASL, ha certamente il significato di negare radicalmente l’idea di USL quale comunità partecipante, cioè di trasformare questa idea politica in un’idea tecnocratica, dove il cittadino diventa un “customer” (cliente) e dove la partecipazione diventa nel migliore dei casi “empowerment”. Il cittadino con la ASL diventa un consumatore di sanità, un “case management”, misurato sempre come un prodotto subordinato comun- que alle risorse disponibili. Cioè il cittadino, la comunità, con la ASL perde tutti i suoi connotati politici. Nonostante questi “tradimenti” o se si preferisce travisamenti, oggi, se si vuole fare quello che tutti dicono che si deve fare, cioè salute, è obbligatorio quasi tornare all’idea di Maccacaro di USL/ASL quale comunità partecipante. Va detto per onestà che l’idea di comunità, per quanto mi riguarda, è proprio un esempio di ricontestualizzazione del pensiero di Maccacaro. Egli, nel testo che mi è stato chiesto di commentare, non usa mai la parola comunità, egli parla di soggetti titolari di un diritto. Ai suoi tempi “comunità” era un’idea che apparteneva soprattutto alla cultura cattolica, e per questo vista con sospetto dalla cultura laica. Oggi le cose sono cambiate e comunità si presta bene a mediare, a livello di un territorio, la dimensione individuale della salute e la sua di- N. 165 - 2007 mensione collettiva, riuscendo a sintetizzare ciò che nell’art. 32 della Costituzione, è espresso come diritto dell’individuo e interesse della collettività. Comunità si sposa bene con l’idea di USL di Maccacaro, cioè con l’idea di partecipazione e, come dicevamo, è inevitabile che si passi di qua per fare salute, sostenibilità, o per mettere in campo quello che oggi con una frase efficace si chiama “la salute” in tutte le politiche. Oggi non si tratta più solo di difendere la salute del cittadino ma, soprattutto, di costruire la salute alla quale il cittadino “politicamente” ha diritto. La costruzione della salute, quello che io chiamo predicibilità sul piano tecnico e sostenibilità sul piano politico, ha bisogno che le istituzioni riconoscano alla comunità una sovranità, organizzando tale sovranità con nuove deleghe ai sindaci, ai Comuni, alle organizzazioni sociali dei cittadini stessi. Senza questo passaggio non è possibile agire attraverso forme di responsabilizzazione dei cittadini, l’altra faccia del diritto alla salute che è quella del dovere sociale ad assicurare in un territorio e quindi in una comunità, le condizioni più favorevoli alla salute stessa. Oggi si fa un gran parlare di “piani per la salute”; la cosa che colpisce è che queste elaborazioni è come se uscissero dalla ASL per collocarsi più propriamente tra le competenze dei Comuni, rappresentanti secolari di vere e proprie comunità. Cioè è come se Maccacaro, lo stratega del SSN si ammettesse una sorta di incompatibilità tra Azienda e salute. Ciò è abbastanza paradossale ed è quello che a varie riprese ho definito il problema dell’inconseguenza dell’Azienda più orientata alla parità di bilancio che non a costruire salute. Ma il paradosso dell’inconseguenza conferma la forza del pensiero di Maccacaro, cioè di una USL che coincide con una comunità perché solo questa coincide con la necessità politica della partecipazione sociale. La seconda idea importante del testo che ho esaminato è che non sono i servizi ad “autenticare” una USL ma il contrario, il che equivale a dire che è la comunità che decide con le istituzioni sul sistema dei servizi che serve dentro certamente una programmazione regionale. Il pensiero di Maccacaro è molto lucido e attuale soprattutto quando vede la USL non come un insieme di servizi ma come un sistema di servizi partecipati, quindi non come “atto ma come processo”. Maccacaro in fin dei conti, distingue due idee di governo della sanità locale: il governo delegato alle istituzioni (che è l’idea corrente) e il governo partecipato (ancora tutto da conquistare). La prima è un’idea debole nella quale la partecipazione è accessoria, la seconda è un’idea forte dove la partecipazione è necessaria e fondamentale. A seconda che si adotti o la prima o la seconda cambia radicalmente l’idea di USL/ASL. Il governo delegato vale se accettiamo l’idea di un’istitu- zione proprietaria del diritto alla salute. Il governo partecipato invece vale se accettiamo che il primo vero soggetto proprietario del diritto è che lo detiene certo ma anche chi lo finanzia, vale a dire il cittadino, quindi se accettiamo l’idea, come ho sostenuto molte volte, non di un paziente e di un beneficiario, ma di un esigente e di un contraente. Anche questa in un certo senso è una evoluzione ricontestualizzata del pensiero di Maccacaro secondo il quale a garantire il governo del sistema sanitario doveva essere il sistema informativo, considerato un vero e proprio “centro” che raccoglie e ridistribuisce informazioni per decidere e scegliere. Maccacaro arriva a distinguere l’informazione per il governo e l’informazione per l’esercizio, cioè un informazione per la funzione e un’informazione per il funzionamento. Oggi personalmente sono dell’avviso che distinguere funzione da funzionamento non giovi né allo sviluppo dell’idea di governo né a quello dell’idea di partecipazione. Ma la preoccupazione vera di Maccacaro era in realtà quella di favorire l’informazione di governo che ai suoi tempi era del tutto minoritaria rispetto a quella di esercizio. La modernità del pensiero di Maccacaro si vede anche in ciò. Oggi le cose non sono così diverse, il problema di uno squilibrio tra funzione e funzionamento, tra governo e servizi, è ancora il problema, come ha dimostrato una ricerca del Formez coordinata Sae l ute Territorio 385 da V. Mapelli sulla governance dei servizi nei sistemi sanitari regionali. Gli insegnamenti di Maccacaro oggi per essere riattualizzati hanno bisogno come è naturale che sia (sono passati trent’anni) di una reimpostazione. Dall’esame della normativa vigente e delle esperienze fatte nelle Regioni, emergono sostanzialmente tre principi partecipativi che in ambiti e modi diversi riassumono tutte le forme di partecipazione in essere: – principio del coinvolgimento; – principio della collaborazione; – principio dell’informazione. Il confronto tra questi importanti e preziosi principî con la crisi delle deleghe mettono in evidenza che le varie forme di consensualità devono evolvere assumendo le forme di una vera e propria concertazione in forma pattizia. Altrimenti il rischio è di ristagnare a forme di amministrativismo subdelegato, o, peggio, a forme subdole di cogestione. A parte ciò, il problema nuovo che si pone è il riconoscimento della comunità quale sovranità e l’organizzazione dei rapporti tra questa e le istituzioni di riferimento. Infine, per quanto riguarda le possibilità legate alle nuove tecnologie informatiche di cui Maccacaro è stato un vero precursore, è evidente che i principi citati, non solo possono ricevere forza nelle loro espressioni, ma sapendo che il rapporto informatica/partecipazione deve creare le basi per un vero e proprio sistema partecipato stabile. l ute Sa e 386 Territorio 2. Il problema nuovo è come deve essere una relazione di compossibilità tra forme di partecipazione sociale, professionale, tecniche e sistema istituzionale dato (compossibilità significa semplicemente che se le forme di partecipazione non sono in contraddizione con il sistema istituzionale dato e viceversa, esse sono possibili nelle loro forme). La soluzione al vincolo della compossibilità deve essere trovata per forza, altrimenti si rischia l’inconcludenza, vale a dire di reiterare forme tradizionali ma poco efficaci di partecipazione e di riconfermare i rischi di forme vecchie, di centralismi amministrativi, di cogestioni sotto mentite spoglie. La nostra ipotesi di fondo, che poi è lo sviluppo delle idee di Maccacaro è il ripensamento del modo di essere dell’istituzione attraverso il ripensamento del modo di essere della partecipazione ciò significa ripensare le modalità delle relazioni, degli scambi, della comunicazione, delle transazioni in un sistema co- Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 me quello sanitario, tra questo sistema e la sua comunità di riferimento. La tesi conclusiva è: La partecipazione, va ripensata per cambiare il modo di essere delle istituzioni sanitarie con l’obiettivo di accrescere il grado di governabilità, di responsabilizzare i soggetti interessati (cittadini e operatori), di costruire la domanda come significante/ referente dell’offerta di servizi e di politiche, di introdurre forme competenti di controllo sociale, per migliorare la qualità dei servizi, di ridurre i costi della transazioni interne alle Aziende, tra direttore generale e operatori e i costi delle transazioni esterne tra Azienda e comunità, di governare meglio la complessità riconoscendo un ruolo alle opinioni dei soggetti, e soprattutto di accrescere il grado di conoscenza della comunità, del singolo bisogno e quindi di ridurre il grado di fallibilità delle scelte e delle decisioni a qualsiasi livello. Lo spirito della sussidiarietà è favorire libere iniziative dei cittadini e non già quello di esortare le istituzioni pubbliche a coinvolgere il cittadino. Questo è lo spirito dell’art. 118 ultimo comma della Costituzione “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” (UTI SOCIUS) che assegna ai pubblici poteri la funzione di agire per assicurare l’integrazione sussidiaria dell’autonomia, iniziativa dei cittadini rinunciando alla presunzione di esclusività nella tutela del diritto alla salute. Lo scopo politico della sussidiarietà è il superamento di una visione del cittadino che dichiara solo “consenso e obbedienza”. Il cittadino, se informato, è un soggetto attivo che svolge un vero e proprio servizio di utilità sociale specie nelle sue forme di libera associazione. 3. La partecipazione sociale, soprattutto sui temi della produzione di salute, oggi non è concepibile fuori dal principio di sussidiarietà e da un principio di qualità. Questo principio consente di organizzare la partecipazione come: – qualcosa che regola i rapporti tra diversi poteri pubblici e sociali; – qualcosa che ripartisce funzioni e responsabilità tra istituzioni e società civile. Il principio di sussidiarietà è un principio di non ingerenza, nel senso che in generale le istituzioni non dovrebbero sostituirsi alla partecipazione sociale laddove questa sia possibile, il che vuol dire sia non amministrare il proprio potere oltre quanto è strettamente necessario, sia non fare cose che possano essere fatte meglio dalla comunità. Quello della sussidiarietà è un principio regolatore nei rapporti tra istituzioni e comunità. In questo quadro, la partecipazione sociale è lo strumento che regola i rapporti tra cittadinanza e statualità. N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 387 L’uso di classe della medicina Q uando parlo di uso di classe della medicina non mi riferisco (come potrebbe essere per un malinteso che va subito dissipato) soltanto alla medicina pratica, cioè alla medicina così come è esercitata, ma a tutta la medicina nei suoi diversi momenti. C’è un uso di classe della medicina scientifica, un uso di classe della medicina didattica, un uso di classe della medicina pratica: questo cercherò brevemente di dire o di rappresentare come mio punto di vista personale. Non dobbiamo, quando anche ci sia proposto, accettare una separazione di tali livelli, cioè un discorso del tipo: “sí, questo avviene, però la scienza medica è un’altra cosa, l’insegnamento della medicina ha altri valori, ecc.”. Non dobbiamo accettarlo perché un discorso di questo genere è null’altro che l’ennesima proiezione del tipico modello della divisione del lavoro, qui trasferito alla divisione dell’atto medico che è invece didattico, scientifico e pratico nello stesso tempo. Ripeto, quindi, che quando dico: “uso di classe della medicina”, non voglio escluderne nessuna parte, ma riferirmi a tutte ed in particolare alla medicina come pratica, come didattica e come scienza. E possiamo proprio cominciare da qui, cioè dalla medicina come scienza. Se mi permettete faccio una piccola citazione molto breve sempre da Marx. Nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a un certo punto, Marx scrive: “L’economia della scienza e dell’abilità delle forze produttive generali del cervello sociale rimane, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale e si presenta perciò come proprietà del capitale.” Poi soggiunge: “Il pieno sviluppo del capitale ha quindi luogo solo quando l’intero processo di produzione non si presenta assunto sotto l’abilità immediata dell’operaio ma come impiego tecnologico della scienza”. Ed ancora: “Tutti i processi, scientifici della civiltà, o in altre parole, ogni incremento delle forze produttive sociali (se volete delle forze produttive: del lavoro stesso quali risultano dalla scienza della divisione e combinazione del lavoro) arricchìscono non l’operaio, ma il capitale, e poiché il capitale è l’antitesi dell’operaio, quei processi accrescono soltanto il potere oggettivo sul lavoro”. Quindi è chiaro che il riconoscimento della non neutralità della scienza non potrebbe avere in Marx una espressione più precísa e più vigorosa di questa. Non continuo le citazioni, ma voi sapete che questo è il pensiero esplicito e ricorrente in Marx. La scienza dunque è null’altro che un modo di essere del potere o meglio è comprensibile e leggibile solo nell’ottica della dialettica dei poteri. La borghesia ha fondato a un certo punto, cioè nel punto della sua nascita, una nuova scienza per abbattere il potere feudale e la scienza è stata allora liberatrice nella misura in cui ha posto, nei confronti di un potere egemone (in quel momento storico era il potere feudale), la domanda di potere di un’altra componente sociale che veniva nascendo e che era la borghesia. La borghesia, naturalmente, ha poi utilizzato e continua, più che mai a utilizzare la scienza come strumento della sua conservazione; così fa ogni potere che tende a conservare se stesso. Ora, se questa è l’operazione che ha fatto la borghesia, questa è l’operazione che dovrà fare il proletariato e cioè il proletariato a sua volta dovrà fondare una nuova scienza per abbattere il potere borghese. Non voglio dire con questo che ogni scienziato è delegato, o meglio, che allo scienziato è delegato il ruolo di rivoluzionario, ma che i rivoluzionari saranno anche scienziati, in senso tecnico e soprattutto in senso politico. Oggi, come la scienza è un modo del potere, la medicina è un modo della scienza e quindi, per proprietà transitiva, la medicina è a sua volta un modo del potere. E naturalmente il potere cui sto riferendomi è il potere capitalista. Non è il caso che richiami qui i connotati del sistema capitalista se non per ricordare che esso è caratterizzato dal fatto che da una parte si fonda sulla produzione sociale dei beni e dall’altra sull’appropriazione privata dei beni, e in partìcolare della forza-lavoro. Questa appropriazione è la condizione necessaria per la riproduzione e l’aumento del capitale stesso (legge dominante della sua logica) attraverso il profìtto. Quindi il sistema capitalista (qualche volta dirò sistema senza ripetere “capitalista”, ma è chiaro che mi sto riferendo a questo) è interessato da una parte a consumare, e dall’altra a conservare la forza-lavoro. E alla medicina è affidato il compito di risolvere, nella razionalità scientifica, questa contraddizione del modo di produzione capitalista, che da una parte consuma e spegne la forza-lavoro, ma dall’altra parte ne ha bisogno per continuare ad alimentare sé stesso. Quindi deve conservarla nella misura in cui serve consumarla. È contraddizione, questa, così centrale fra tutte, che il capitale, per poterla risolvere, cioè per portare avanti il suo sviluppo, il suo aumento, la sua, conservazione, anzi la sua riproduzione, deve assumere la l ute Sa e 388 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 gestione di tutti i momenti della medicina: cioè la gestione della malattia, la gestione del malato, la gestione del medico, la gestione della istituzione, la gestione dell’insegnamento e la gestione della ricerca scientifica ed in particolare medica. Quindi il mio breve discorso si svilupperà attraverso l’analisi di questi momenti di gestione fatti dal sistema capitalista su questi momenti della realtà medica. La persistenza delle diseguaglianze nella salute Angelo Stefanini Dipartimento di Medicina e Sanità pubblica, Università di Bologna A trent’anni dalla morte di Giulio Maccacaro, la medicina continua a riprodurre le relazioni di potere dominanti nella società nei luoghi in cui essa, per usare le sue parole, si fa scienza, si fa didattica o si fa pratica medica. A 25 anni dal Black Report che, documentando le crescenti disuguaglianze socioeconomiche nella salute, ha trasformato radicalmente il modo di fare epidemiologia (1), una parte significativa del mondo scientifico continua a sottovalutarne il significato (2). La “discesa in campo” della Organizzazione mondiale della sanità sulla importanza dei determinanti sociali della salute (3) ha messo tuttavia in luce il ruolo centrale che le relazioni sociali basate sulla disuguaglianza tra lavoro e profitto esistenti nel sistema capitalistico hanno sulla salute umana. È comprensibile quindi la ritrosia dei Governi, che sono espressione di tale sistema, a perseguire processi che consentano una reale attuazione di radicali politiche di equità. Ne è un esempio la Gran Bretagna che, pur aumentando sostanzialmente i finanziamenti al settore sanitario e introducendo al suo interno meccanismi di lotta alle disuguaglianze, continua a vedere crescere il divario di salute tra le classi socioeconomiche. Evidentemente la medicina, astratta dalla realtà politica, si rivela impotente di fronte ai determinanti distali della salute, ossia alle ingiustizie sociali causate dalle politiche economiche e commerciali neo-liberiste. È quanto accade ad esempio nella ricerca su HIV/AIDS una parte della quale, affrontando le iniquità globali nella salute come un fatto puramente tecnico, si concentra sui comportamenti individuali a rischio (determinanti prossimali) anziché indagare a monte il più vasto contesto politico e socio-economico che rende gli individui più suscettibili alla infezione. La collana editoriale “Medicina e Potere” evidenziava come la salute e la medicina non possono non essere considerate categorie politiche in quanto su di esse viene esercitato il potere. A partire da Galileo esistono molti esempi di interferenza della ideologia (4) sulla scienza, ma è forse negli USA dei giorni nostri che troviamo il maggiore “assalto all’integrità scientifica” (5). In un rapporto al Congresso dell’agosto 2003 (6), oltre venti aree scientifiche, salute compresa, vengono citate come coinvolte attraverso la manipolazione dei Comitati scientifici, la distorsione e soppressione della informazione scientifica e la interferenza con la ricerca scientifica finanziata dall’esterno. Anche l’articolo scientifico apparentemente più apolitico e tecnico riflette il contesto politico da cui proviene e che ha condizionato, in un modo o nell’altro, la scelta del problema da indagare, l’ipotesi di lavoro, il disegno dello studio, il tipo e l’entità del finanziamento. Per esempio, l’attuale enfasi sugli RCT nelle riviste scientifiche riflette spesso più l’entità e le priorità dei finanziamenti dell’industria farmaceutica che i reali bisogni di salute della popolazione. Soltanto il 10% dei 70 miliardi di dollari spesi ogni anno in ricerca e sviluppo sanitario è mirata alle condizioni responsabili del 90% del carico globale di ma- lattia (7): un divario paradossale di 10/90, la moderna inverse care law (8). Un esempio di come un tema ad alta sensitività politica possa essere “oscurato” per ragioni ideologiche viene da due prestigiose riviste mediche: dal settembre 2001 al 2004 il New England Journal of Medicine e gli Annals of Internal Medicine non hanno mai citato le parole “Afghanistan” o “Iraq” (9). Anche l’insegnamento accademico della medicina continua ostinatamente ad occuparsi quasi esclusivamente del livello prossimale del percorso eziopatogenetico della malattia, evitando di affrontare il biologico come inestricabilmente legato al sociale. Il nome di Rudolf Virchow risuona ancora soltanto nelle aule di biologia e di patologia, mentre praticamente sconosciuti sono i suoi successi in veste di medico di sanità pubblica alle prese, ad esempio, con l’“epidemia artificiale” di tifo petecchiale nell’Alta Slesia della metà dell’800. Lo stesso scienziato che, da una parte, descriveva la patogenesi della trombosi, dall’altra definiva “Le epidemie artificiali” come “...attributi della società, prodotti di una falsa cultura o di una cultura che non è accessibile a tutte le classi. Esse sono indicatori dei difetti prodotti dalla organizzazione sociale e N. 165 - 2007 politica e quindi colpiscono prevalentemente quelle classi che non sono partecipi dei vantaggi della cultura” (10). Il mondo accademico tende ad emarginare il docente che denuncia gli effetti sulla salute di decisioni politiche come quella di entrare in guerra. Il medico che, fedele al giuramento di Ippocrate, mette in guardia la società contro una malattia chiamata guerra, che provoca feriti, disabili e morti, viene inevitabilmente accusato di immischiarsi indebitamente nella politica (11). L’uso di classe della medicina nella pratica medica è oggi forse più evidente che ai tempi di Maccacaro. In un momento in cui accumulare denaro è diventato la giustificazione sociale di esistere e soltanto al consumatore viene concesso rispetto e dignità, anche la medicina è schiava dell’imperativo economico. Maccacaro, lo stratega del SSN Gli anni 90 hanno visto l’introduzione della “razionalità del mercato” nel settore sanitario attraverso un’ondata planetaria di riforme (in Italia il DPR 502 del 1992) che hanno trasformato i pazienti in “clienti” e “consumatori” e i servizi clinici in linee di produzione. La ricerca clinica è progressivamente in mano alla industria farmaceutica che paga lauti stipendi a prestigiosi accademici e decide le priorità. Pazienti e medici sono raggirati, quasi sempre con successo, da sofisticate campagne pubblicitarie in mentite vesti educative e in clamorosa violazione dei codici internazionali, con la complicità di società scientifiche e di Governi (12). La lotta contro l’HIV/AIDS è un ennesimo esempio di come la medicina si fa modo del potere. Nel mondo ricco questa malattia è ben trattabile anche se non ancora curabile. I farmaci a disposizione consentono un’aspettativa e una qualità di vita abbastanza rassicuranti a chi se li può permettere. Tuttavia, dei sei milioni di ammalati poveri che hanno urgente bisogno di farmaci antiretrovirali soltanto 450mila ne possono usufruire. La causa di tale ingiustizia non è tanto il costo dei farmaci, disponibili con circa 250 dollari all’anno. Il fatto è che gli USA, attraverso l’Organizzazione mondiale del commercio, è riuscita paradossalmente a “proteggere” le grandi multinazionali farmaceutiche dai Paesi poveri che vorrebbero produrre essi stessi o acquistare a basso prezzo le versioni generiche dei farmaci di cui ha bisogno la loro popolazione. Il potere avido della industria farmaceutica ha prevalso sui diritti degli ammalati. Se, come diceva Rudolf Virchow, “la politica è medicina Sae l ute Territorio 389 su vasta scala”, è anche vero che “la medicina è politica su piccola scala”. L’attualità del pensiero di Maccacaro sta nella denuncia di “questa medicina contemporanea che, di giorno in giorno, si fa sempre più assistenzialmente inefficace e socialmente repressiva” (13). È necessario un ripensamento fondamentale del ruolo sociale della medicina e dei suoi professionisti. “Quando lo stomaco è stato riempito di una certa quantità di cibo, esso comincia a lavorare secondo le leggi generali della digestione. Ma è possibile, con l’aiuto di queste leggi, spiegare perché cibi saporiti e nutrienti scendano ogni giorno nel tuo stomaco mentre nel mio sono rari visitatori? Spiegano forse queste leggi perché alcuni mangiano troppo mentre altri soffrono la fame? Forse la risposta va cercata in qualche altra sfera, in qualche altro genere di legge” (14). Bibliografia (7) Global Forum for Health Research (2002), The 10/90 Report on Health Research 2001-2002, Global Forum for Health Research, Geneva. (1) Saracci R. (2007), Epidemiology: a science for justice in health, International Journal of Epidemiology doi:10.1093/ije/dym009. Advance access published March 12, 2007. (8) Tudor Hart J. (1971), The inverse care law, Lancet 1971, i: 405-12. (2) Braveman P., Starfield B., Geiger H.J. (2001), World Health Report 2000: how it removes equity from the agenda for public health monitoring and policy, BMJ, 323: 6878-81. (10) Rosen G. (1974), From Medical Police to Social Medicine, Science History Publications, New York, Citato in Anderson M.A., Smith L., Sidel V.W., What is Social Medicine?, Monthy Review 12.31, 2004. (3) WHO Commission on Social Determinants of Health. http://www.who.int/social_determinants (11) Si veda la risposta del Governo Berlusconi alla “Lettera aperta dei medici italiani contro la guerra”. http://www.saluteglobale.it sezione Documenti. (4) Nel significato gramsciano di sistema di idee che riflettono e promuovono i valori politici, economici e culturali di un particolare gruppo sociale. (5) McKee M. (2007), Cochrane on Communism: the influence of ideology on the search for evidence, International Journal of Epidemiology, 36: 269-273. (6) United States House of Representatives. Committee on Government Reform-Minority Staff Special Investigations Division. August 2003, Politics and Science in the Bush Administration, Report prepared for Rep. Henry A Waxman. August 2003. Citato in McKee 2007, op. cit. (9) Barr D., Fenton L., Edwards D. (2004), Editorial - Politics and Health, Q J Med, 97: 61-62. (12) Si veda il recente esempio del libro di puericultura “Da 0 a 6 anni: Una guida per la famiglia”, pubblicato dalla Plasmon e inviato ai pediatri di famiglia con richiesta di distribuirlo ai genitori dei loro assistiti. http://forum.promiseland.it/viewtopic.php?t=24061&sid= 5a6a266338b37c5645a7e3df2b68b789 (13) Relazione di apertura... Op. cit. (14) Plekhanov G. (1947), The Development of the Monist View of History, International Publishers, New York 1947. Citato in Anderson M.A., Smith L., Sidel V.W. 2004, op. cit. l ute Sa e 390 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN N. 165 - 2007 Pratica medica e controllo sociale* N el preparare questa relazione, è stata valutata una serie di scritti comparsi in questi anni in Italia sul tema del medico e della medicina. Fra questi, uno studio è apparso piú rigoroso e serio degli altri: si tratta del fascicolo ciclostilato dal titolo Sviluppo capitalistico e riforma sanitaria, prodotto dal “Centro Karl Marx” di Pisa. Nella esposizione che seguirà ci riferiremo largamente ad alcune delle tesi dei compagni pisani, di cui peraltro non condividiamo molti orientamenti, anche di importanza essenziale. L’attuale situazione dell’assistenza sanitaria in Italia è caratterizzata dalle contraddizioni che derivano dal tentativo di eliminare alcune macroscopiche disfunzioni. Come è noto, la spesa sanitaria tende a crescere, nella maggior parte dei paesi capitalisti, con un ritmo decisamente maggiore rispetto all’incremento del reddito nazionale. Ciò impone delle nuove esigenze di pianificazione. Queste esigenze sono rese particolarmente urgenti nel nostro paese dal fatto che la spesa attuale (in particolare per quanto concerne il bilancio INAM) subisce da qualche anno un incremento imprevisto e incontrollato. Lo stato capitalista registra attualmente il fatto che il costo sociale della malattia è di ostacolo allo sviluppo del sistema. Nella valutazione del costo sociale della malattia è necessario includere: 1) il costo del deterioramento fisico (e quindi della inattività produttiva) della forza-lavoro, ai vari livelli di qualificazione, in termini di perdita temporanea di unità produttive (e quindi di spesa necessaria al suo rimpiazzamento, quando questo avvenga) e di costo vivo delle spese di assistenza (rimborso parziale o totale del salario, ecc.); 2) i costi derivanti dalla insufficiente razionalizzazione delle risposte rispetto ai bisogni sanitari. Questi bisogni sanitari subiscono un incremento per una serie di motivi: in buona parte rientrano nell’incremento generale dei bisogni determinati dallo sviluppo economico. L’esigenza e il tentativo (non necessariamente coordinato e coerente, ma non per questo meno reale), da parte del Capitale e dello Stato, di: 1) aumentare il rendimento globale dell’assistenza medica: quest’ultima attualmente è invece caratterizzata da un massiccio squilibrio fra i costi e l’efficacia delle prestazioni; 2) pianificare l’assistenza medica in modo da colmare le piú gravi sperequazioni geografiche e settoriali; fornire un minimo di assistenza medica adeguata a tutta la popolazione (A questo proposito, si deve segnalare che con ogni evidenza lo sviluppo di qualsiasi forma di medicina preventiva nell’attuale sistema economico comporterà un aumento ulteriore della spesa sanitaria mediante la moltiplicazione dei cittadini categorizzati come assistiti e la tendenziale cronicizzazione dell’assistenza. L’aumento ulteriore della popolazione anziana contribuirà largamente a questa tendenza); 3) razionalizzare la distribuzione della disuguaglianza: fornire cioè agli strati sociali piú elevati terapie a alto livello all’interno della medicina pubblica (e non piú solo nelle cliniche private); fornire agli strati borghesi, ai tecnici dell’industria, agli operai qualificati, strumenti preventivi e curativi efficienti; dirigere infine le priorità per quanto riguarda le terapie ad alto costo (come la sostituzione di organi e di funzioni) e le indagini di massa a alto costo (come ad esempio la diagnosi precoce dei carcinomi dei bronchi). In questo senso si pone per lo Stato capitalista il problema dell’abolizione tendenziale della libera professione, che sempre piú si configura come forma di rendita parassitaria, dato il suo non inserimento nei circuiti istituzionali aziendali della sanità (un medico che presta la sua opera per un ente di Stato è, per lo Stato, produttivo anche se viene pagato lautamente; non così il medico che vende, concorrenzialmente, rispetto allo Stato stesso, il medesimo tipo di prestazione); 4) dirigere la spesa pubblica nel settore sanitario in modo tale da favorire le esigenze generali dei piani finanziari, l’interesse generale del capitale, e gli interessi particolari delle industrie piú direttamente coinvolte (industria edilizia, industria farmaceutica e dietetica, industria produttrice di apparecchi sanitari); * Relazione al convegno “Assistenza sanitaria e farmaci”, organizzato dalla Assemblea del personale dell’Istituto superiore di sanità, Roma 8-910 luglio 1970. N. 165 - 2007 Maccacaro, lo stratega del SSN Sae l ute Territorio 391 5) razionalizzare il prelievo delle risorse economiche necessarie alla spesa sanitaria (La fiscalizzazione parziale o totale degli oneri è fra l’altro uno strumento utile ai fini – della ridistribuzione dei redditi di lavoro dipendente e indipendente: questo meccanismo rientra nell’uso congiunturale della spesa pubblica e sanitaria); 6) rafforzare tutto il sistema assistenziale (e il sistema sanitario al suo interno) come sistema di selezione e di controllo. Il sistema sanitario contribuisce in modo coordinato a inserire tutta la popolazione in una rete medico-sociale (che può benissimo appellarsi ai principi della prevenzione) atta a gestire a livello individuale contraddizioni che in realtà hanno carattere collettivo, e a razionalizzare i destini individuali in funzione della classe sociale di appartenenza e delle esigenze della produzione e del consumo. L’ideologia mistificante della “società al soccorso dell’individuo” è essenziale per fare accettare la funzione sociale assegnata al singolo, attribuendogli, come sempre, la responsabilità individuale del suo inadattamento a altre funzioni. In questa prospettiva, il Capitale tende a attribuire quindi anche al sistema sanitario (in associazione con quello scolastico e con quello psichiatrico) il compito particolare di selezionare il più precocemente possibile i soggetti non adatti a mansioni lavorative specializzate. Questi lavoratori, nei casi piú tipici, sono caratterizzati di volta in volta da: assenteismo; inadattamento alla disciplina e ai ritmi; tendenza agli infortuni; tendenze alle malattie fisiche e psichiche recidivanti. Essi vengono probabilmente fabbricati dal sistema in numero sempre maggiore; in una situazione economica favorevole e con una tecnologia avanzata, essi costano meno come assistiti (come consumatori, come lavoratori degradati) che come produttori. Inoltre, come è ovvio, costano soprattutto meno al singolo capitalista se passano a carico dello Stato, e se i medici sono disposti, come spesso è la regola, a dare giustificazioni tecnicistiche a una diagnosi di disadattamento già formulata dal padrone; 7) ottenere la collaborazione attiva della classe operaia e delle sue organizzazioni, in modo da ingabbiare le richieste stesse della classe operaia, che costituiscono in questo settore una delle più grosse contraddizioni all’interno dello Stato capitalista. Le difficoltà attuali, all’interno del tentativo di attuare la riforma sanitaria, derivano principalmente: 1) dalla opposizione di taluni settori politico-burocratici di sottogoverno, legati agli istituti previdenziali; dalla opposizione e dalle richieste corporative di buona parte dei medici; 2) dalla impossibilità a colmare le sperequazioni geografiche e settoriali, a causa della prevalenza trainante delle zone geografiche e dei settori più direttamente legati agli interessi del capitale industriale (zone “sviluppate” del Nord Italia); 3) dalle resistenze di una parte del capitalismo italiano, preoccupato per le conseguenze economiche della fiscalizzazione degli oneri. Inoltre, dalle resistenze dei settori farmaceutici che hanno tratto enormi benefici dal sistema mutualistico e da talune facilitazioni legislative e di mercato (da questo punto di vista, è la grande industria farmaceutica quella più suscettibile di accettare la razionalizzazione dell’assistenza medica: la scomparsa del caotico bengodi farmacologico tipico del mutualismo può portare dei vantaggi a lungo termine al grande capitale farmaceutico mediante la razionalizzazione della domanda e la dilatazione del numero degli assistiti); 4) dalla persistenza di una prassi sanitaria inadeguata alle esigenze attuali del capitale. La prassi sanitaria italiana è infatti caratterizzata, da questo punto di vista, da: a) una scadente preparazione media tecnico-scientifica, sia a livello dei laureati che dei tecnici e infermieri; b) un ancoramento dei laureati (medici) a forti privilegi economici e sociali e a uno stile di lavoro individualista, e talora perfino vetero-borghese, notabilare e parassitario; c) ordinamenti gerarchici corporativi e chiusi con tendenze baronali e pseudo-tecnocratiche, e forti resistenze a pianificazioni razionali; 5) dalla insufficienza amministrativa degli enti locali e degli enti ospedalieri (oltre alle Opere Pie, ecc.), nonché dalla insufficienza organizzativa delle varie strutture assistenziali, e in particolare di quelle ospedaliere; 6) dalle resistenze degli ambienti interessati alla medicina privatistica (compresi gli ordini religiosi). (È da notare a questo proposito che la difesa della medicina privatistica è lo strumento più efficace per mantenere elevata la forza contrattuale dei medici). l ute Sa e 392 Territorio Maccacaro, lo stratega del SSN Classi sociali e salute Cesare Cislaghi Istituto di Biometria e Statistica medica “Giulio Maccararo”, Università di Milano R ileggendo dopo tanti anni la relazione di GAM tenuta all’ISS le prime sensazioni sono state tra di loro profondamente contraddittorie: mi ha sorpreso quanto mi apparisse ingenuo ed obsoleto il linguaggio esageratamente ideologizzato e quanto invece fosse profonda e rilevante l’analisi e quanto mi mancasse la sua capacità di ragionamento e di connotazione dei fatti. Rileggendo GAM ci si sente sempre più piccoli e più affollati di ragionamenti e di preoccupazioni minimali ed inutili ma anche ogni volta ristimolati ad una visione critica e globale della realtà. Non possiamo negare che in molti di noi c’è una forte nostalgia di ideologia, un bisogno di avere un modello “semplice” di interpretazione della realtà. Ma la nostalgia si affianca anche alla consapevolezza della negatività delle semplificazioni; ed è qui che GAM ritorna sempre a stupirmi! I suoi ragionamenti, pur intrisi di ideologia marxiana, hanno una profondità ed una genialità che rifiuta le semplificazioni e scende nel cuore dei problemi. Oltre a questo sorprende come, pur rifacendosi alle categorie marxiane, GAM valorizzasse interamente la persona ed i suoi bisogni che, sì contestualizzati nel sociale, però hanno valore sostanziale indipendente ed in quanto tale devono essere rispettati. C’è una sorta di religiosità laica della persona che riemerge sempre nelle parole e negli scritti di GAM, frutto sia di una educazione giovanile piena di questi valori, come lui più volte ha detto e scritto, ma anche di una appassionata sensibilità ed attenzione agli altri, sia come “classe” sia come “persone”, e soprattutto per una sua visione culturale e politica della società. Usando categorie di allora, ben si può dire che una sua esigenza forte era quella di fare sintesi tra l’elemento pubblico e l’elemento privato. Difficilmente potremmo definire marxiane la sua sensibilità per i rapporti personali, per il forte senso di famiglia, per l’attenzione ai sentimenti, per il valore dato agli affetti. Il tutto però con una attenzione che riempie di collettivo l’individuale, ed infatti GAM termina la sua relazione lamentando come spesso la medicina dia solo “consolazioni provvisorie individuali… utili solo a far accettare al singolo il suo destino personale ed a fargli perdere di vista il carattere collettivo del danno di cui soffre e a non fargli percepire le cause sociali, cioè politiche, del suo essere in una situazione di rischio. Erano gli anni in cui si incominciava a parlare di riforma sanitaria. Nel microbiologo diventato il fondatore della scuola statistica medica italiana dopo aver passato mesi a lavorare in Inghilterra con Fisher sull’analisi dei disegni sperimentali, riaffiora nel ’70 l’igenista ammiratore delle idee di Giovanardi e di Seppilli che sin dai tempi della Liberazione avevano propugnato l’istituzione di un servizio sanitario universalistico. E GAM si chiede quanto questa operazione sia a favore della liberazione dell’uomo o quanto invece rischi, almeno per alcuni versi, di diventare lo strumento funzionale solo dello sviluppo capitalistico preoccupato del costo sociale della malattia, ostacolo al suo progresso. La sua è una analisi Politica così lontana dalle analisi di bassa politica odierna dove l’ottica è solo lo scontro tra poteri, tra partiti, tra interessi e non una analisi dei disegni globali di sistema, talvolta astratti ma sicuramente utili per individuare le tendenze dinamiche della società. I costi sociali che lo sviluppo capitalistico vuole ridurre sono i costi del deterioramento della forza lavoro, i costi vivi delle spese di assistenza ed i costi derivanti dalla insufficiente razionalizzazione delle risposte ai bisogni. È per evitare questi costi che, secondo GAM, da parte del Capitale e quindi dello Stato si ha la necessità di: 1. Aumentare il rendimento globale dell’assistenza. È obiettivo oggi più evidente, quello della ricerca dell’efficienza. 2. Pianificare l’assistenza per N. 165 - 2007 colmare le più gravi sperequazioni geografiche e settoriali. E ciò produrrà un crescente aumento della spesa sanitaria. 3. Razionalizzare la distribuzione della diseguaglianza facendo rientrare nella sanità pubblica anche le terapie ad alto costo per gli strati sociali più elevati abolendo così tendenzialmente la libera professione che rappresenta una forza concorrenziale alle necessità dello Stato stesso. 4. Dirigere la spesa pubblica nel settore sanitario per favorire gli interessi delle industrie coinvolte nella sanità. 5. Razionalizzare il prelievo delle risorse economiche necessarie alla spesa sanitaria al fine anche dell’ottenimento della ridistribuzione dei redditi di lavoro dipendente ed indipendente. 6. Rafforzare tutto il sistema assistenziale come sistema di selezione e di controllo, riportando a livello individuale le contraddizioni sociali collettive. GAM denuncia l’ideologia mistificante della “società al soccorso dell’individuo”. I soggetti non adatti al sistema produttivo vengono selezionati e catalogati come assistiti e costano allo Stato meno come tali che come cattivi produttori. 7. Ottenere la collaborazione della classe operaia ingabbiando così le richieste e le lotte della stessa. È questa una analisi scomoda e per alcuni versi irritante della riforma sanitaria che di lì a dieci anni verrà approvata; è N. 165 - 2007 però anche una chiave di lettura politica di classe stimolante e forse oggi troppo estranea al dibattito anche a sinistra del Paese. Quanto il sistema sanitario sia una risposta ai bisogni delle persone, quanto sia una risposta ai bisogni della società e quanto invece sia una risposta ai bisogni della produzione, della classe dirigente, del potere statale, eccetera: questo è forse giunto il momento di ricominciare a chiedercelo. Ed infatti GAM elenca poi anche le forze che in quegli anni creavano resistenze al tentativo riformatore e queste erano: 1. L’opposizione dei settori burocratici-mutualistici e della corporazione medica che volevano conservare i privilegi acquisiti. 2. L’impossibilità di colmare le sperequazioni geografiche. 3. Le resistenze di parte delle forze capitalistiche preoccupate delle conseguenze economiche della fiscalizzazione degli oneri. 4. Dalla persistenza di prassi sanitarie inadeguate. 5. Dalle insufficienze ammi- Maccacaro, lo stratega del SSN nistrative degli enti pubblici. 6. Dalle resistenze degli ambienti interessati alla medicina privatistica, enti religiosi compresi. Si può ben dire, 37 anni dopo, ch’egli aveva già intuito e ipotizzato quasi tutto dell’evoluzione del movimento riformatore. Il successo della riforma infatti secondo GAM era incerto e dipendeva da vari fattori, e tra questi: 1. Dalla realizzazione della riforma ospedaliera che non può attuarsi “se non si giunge alla pianificazione dei ricoveri (attualmente al tempo stesso tardivi ed in numero eccessivo) e al miglioramento dell’assistenza esterna”. 2. Dalla possibilità di “attuare forme di medicina preventiva che eviti però di separare la medicina preventiva da quella curativa e riabilitativa, assegnandole perciò un ruolo degradato”. 3. Di riformare l’insegnamento sanitario. E soprattutto GAM afferma come “la battaglia sanitaria può essere uno strumento valido all’interno della lotta di classe solo nella misura in cui identifica le contraddizioni di classe. Non può essere un fine né uno strumento valido se illude i lavoratori nella possibilità di ottenere modelli alternativi di sviluppo dell’assistenza, come forme di consumo. La lotta per la salute è vana se non giunge soprattutto e rapidamente alla lotta contro le vere cause sociali della malattia”. Questo concetto GAM me lo ripropose con grande chiarezza ed intensità un mattino in Istituto. Mi disse “io ormai sono ‘vecchio’ ma tu sei ‘giovane’ e puoi fare ancora molto, e ci riuscirai solo se ti porrai degli obiettivi scientifici di alto livello. Vedi – mi disse – Pasteur si poneva di trovare l’origine biologica, microbica delle malattie ed è per questo poi che riuscì a fare quello che poi fece! Tu dovresti porti il problema di trovare l’origine sociale della malattia, capire come l’organizzazione sociale, come i rapporti di potere, inneschino i processi Sae l ute Territorio 393 patogeni odierni: solo dandoti questi obiettivi di largo respiro forse riuscirai a capire qualcosa di più della situazione epidemiologica attuale”. Sono passati 37 anni, il tempo di una carriera professionale, e tra me e Pasteur la distanza non faccio fatica a definirla abissale … però quanto mi ha detto GAM quella mattina lo ripeto spesso ai giovani che incontro; chissà se tra di loro qualcuno riuscirà nell’impresa di capire come la salute dipenda in gran parte dalla strutturazione in classi della società e quindi dell’implicito sfruttamento degli uni sugli altri! L’utopia comunista, quella tristemente conosciuta soprattutto in molti Paesi, è certamente e fortunatamente finita. La realtà resta e la speranza pure: quella di trovare una sintesi di lettura della realtà che ci permetta di individuare gli strumenti per i quali nessuno debba sentirsi causa della malattia dell’altro. E questa sarà la vera prevenzione e la vera politica sanitaria. l ute Sa e 394 Territorio Paola De Simone Centro ricerche Ergonomia Asl 10, Firenze I n questi anni, si è visto che ben difficilmente si riesce a realizzare una politica organizzativa di prevenzione se non si tiene conto che è fondamentale sviluppare negli individui conoscenze, capacità e comportamenti adeguati nei confronti del rischio connesso alle attività lavorative. La situazione si complica notevolmente quando i lavoratori sono atipici. Esistono oggi una trentina di tipi di contratto di lavoro precario nel panorama lavorativo italiano di questi anni. I soggetti coinvolti sono sopratutto giovani che sempre più si rassegnano ad essere lavoratori nomadi. È ormai certo che questi lavoratori sono per vari motivi più a rischio sul piano della sicurezza e della salute; il tasso di infortuni sul lavoro, infatti, risulta molto più alto rispetto ai lavoratori stabili così come il malessere psicosociale nel lungo termine. Nonostante secondo la legge Biagi siano equiparati ai dipendenti, sul piano della sicurezza questi lavoratori sono sicuramente meno integrati e forse, in generale, meno motivati dei loro colleghi con posto fisso; forse proprio perché la loro preoccupazione principale è mantenere il posto di lavoro. Come sostiene Luciano Gallino in un articolo apparso Esperienze dal territorio N. 165 - 2007 La comunicazione dei rischi in Azienda sul quotidiano la Repubblica “una simile proliferazione di contratti atipici, usa e getta, fa compiere un ulteriore passo verso un mercato del lavoro sul quale la merce lavoro viene scambiata in modo quanto più possibile analogo a qualsiasi altra merce, mentre le persone, i soggetti del lavoro scompaiono vieppiù nell’ombra, … al tempo stesso, essa è destinata a rendere il mercato del lavoro sempre meno comprensibile e gestibile, agli occhi degli esperti, delle imprese e dello stesso Governo”. Cosa fare? Insieme al lavoro delle istituzioni, le Aziende dovrebbero compiere uno sforzo maggiore per migliorare la conoscenza dei rischi in Azienda, per migliorare la comunicazione per la individuazione e gestione dei rischi stessi; la comunicazione, infatti, accompagnata dalla ricerca, può diventare uno dei principali strumenti per la prevenzione nei luoghi di lavoro. Per ridurre il rischio occorre, dunque valutarlo oggettivamente e informare/ formare circa la gravità. Spesso questo sforzo informativo risulta vano, perché? Il problema della sicurezza sul lavoro sta nella necessità di far coincidere il piano formale teorico con quello reale, esperienziale. La risposta è che non basta l’informazione; il comportamento della sicurezza dipende da come percepiamo e valutiamo soggettiva- mente i rischi (valutazioni cognitive ed emotive) (P. Slovic). Da qui l’esigenza di Conoscere le caratteristiche del rischio che influenzano il modo di percepirlo (osservabilità, gravità delle cause,frequenza…) e indagare sulle strategie di valutazione adottate che determinano l’adozione di comportamenti sicuri/insicuri (Savadori-Rumiati). Da questa idea di base siamo partiti per sviluppare un progetto di ricerca-intervento di tipo qualitativo mirato a esplicitare le percezioni di rischio vissute dai lavoratori precari in diversi settori produttivi dell’area fiorentina. L’approccio di ricerca privilegiato è stato quello visuale. Le immagini, in quanto lin- Fig. 1. N. 165 - 2007 Esperienze dal territorio Sae l ute Territorio 395 Fig. 2. guaggio universale, hanno dato anche ai lavoratori immigrati la possibilità di esprimersi sul tema della sicurezza superando le difficoltà della nostra lingua. Poiché pensiamo essenzialmente attraverso immagini, sono proprio le immagini sensoriali di cui facciamo quotidianamente esperienza (visive, uditive, tattili…) associate all’esperienza emotiva a costruire la base dei nostri giudizi e delle nostre scelte (Damasio). Ai lavoratori delle Aziende cha hanno partecipato all’in- dagine (ARPAT, Quadrifoglio, Careggi, ASL10, Università, Comune, Provincia, Unicoop) è stato chiesto di produrre due scatti fotografici riguardanti un’aspetto negativo del proprio lavoro e uno positivo. L’aspetto negativo doveva rappresentare un rischio, un pericolo percepito; quello positivo una buona pratica attuata in Azienda in materia di salute e sicurezza. I lavoratori hanno poi descritto i loro scatti fotografici definendo così le loro opinioni sull’argomento. In questo senso il concetto di rischio viene stu- Bibliografia Gallino L. (2003), L’occupazione usa e getta, la Repubblica, 7 giugno 2003. diato considerando l’elemento umano (individuale e sociale) di consapevolezza e capacità di gestione del rischio stesso. Il lavoro è stato svolto grazie alla collaborazione attiva dei lavoratori insieme agli attori della sicurezza delle Aziende (RLS, RSPP). Uno degli obiettivi raggiunti è stato proprio quello di coinvolgere i lavoratori in un percorso critico di riflessione sui rischi. I commenti e le immagini dei lavoratori sono stati raccolti al fine di organizzare un momento di incontro tra le Aziende per la condivisione dei risultati. La ricerca è stata svolta dalla UF Pisll dell’Azienda sanitaria fiorentina (C. Zamboni. C. Sgarella, F. Carnevale) con il Centro di ricerche in Ergonomia e fattore umano di Firenze (P. De Simone). Il nostro intervento si inserisce nell’ambito del Progetto regionale “Lavoro atipico: analisi del fenomeno e proposte operative per la tutela della salute dei lavoratori atipici” che ha coinvolto attivamente diverse Aziende sanitarie toscane (Pisa, Empoli, Pistoia, Valdinievole, Valdera). Savadori L., Ruminati R. (2005), Nuovi rischi vecchie paure, Il Mulino. Slovic P. (2000), The perception of risk, Earthscan, London. Damasio A. (1994), Descarte’s error, Reason and the human brain, Grosset-Putnam, New York. l ute Sa e 396 Territorio Marco Buselli Infermiere N ei Paesi occidentali si assiste da tempo a un incremento generalizzato dell’uso del Pronto soccorso: si ritiene che negli ultimi anni le prestazioni siano generalmente raddoppiate. Il quadro dell’emergenza-urgenza in Versilia riflette quindi un andamento più generale, risultando il trend degli interventi in continua ascesa sia per l’emergenza che per gli ordinari: dai 29.630 trasporti ordinari del 2002 ai 37.673 del 2003 per arrivare ai 46.107 del 2005 mentre per le emergenze dai 22.784 del 2002 ai 23.367 nel 2003 per toccare infine quota 24.391 nel 2005. Questo fenomeno investe in primo luogo la Centrale operativa ed il 118 ma si riversa conseguentemente sull’attività di Pronto soccorso, sempre più congestionata e caotica, col rischio, sempre in agguato, di trascurare le situazioni di effettiva urgenza. All’origine del problema oltre a fattori organizzativi insistono fattori culturali: la salute viene intesa sempre più come recupero dell’efficienza fisica ed eliminazione dei sintomi o del semplice sospetto Esperienze dal territorio N. 165 - 2007 Criticità organizzative nell’ambito del sistema 118 di malattia; questo atteggiamento può rendere soggettivamente urgenti anche situazioni che in realtà non lo sono e spingere, conseguentemente, a chiedere l’intervento del Pronto soccorso. In Versilia il fenomeno si inserisce in un contesto apparentemente positivo: la zona costiera è facilmente raggiungibile in ogni suo punto, abbondano le associazioni di volontariato e i medici a disposizione; spesso tutto ciò comporta comunque una distorsione nell’utilizzo delle risorse. L’assetto ambientale risulta variegato e la densità di popolazione variabile: zone ad elevatissima densità abitativa si alternano a zone montane scarsamente popolate; la maggior parte della popolazione si concentra sulla fascia costiera, in una percentuale stimabile attorno al 60% del totale. Tali numeri esplodono nel periodo estivo, laddove, sempre nella fascia costiera, si ha un incremento sino a raddoppiare-triplicare la popolazione stanziale della costa. Il sistema di soccorso è regolato da una convenzione tra ASL e volontariato, il coordi- namento affidato ad una Centrale di ascolto locale con personale misto: operatori tecnici e infermieri. Allo stato attuale esistono otto Punti di Emergenza territoriale assicurati da medici e volontari con ambulanza di tipo A in regime di stand by. L’operatore di Centrale, indifferentemente infermiere o tecnico, in forza degli attuali criteri organizzativi, è chiamato a discriminare sul presunto grado di criticità del soggetto da soccorrere e fare intervenire il mezzo più idoneo. Manca la figura, prevista per legge, del medico di Centrale e gli infermieri svolgono identiche mansioni rispetto agli operatori tecnici; sul territorio mancano Unità di soccorso avanzato con medico ed infermiere a bordo che intervengano rapidamente sul posto. La logica che ha portato dall’identificazione dei problemi alla costruzione di un progetto di miglioramento è composta da tre passaggi in successione: analisi delle criticità, degli obiettivi e delle strategie ipotizzabili. Il primo passaggio consiste nello stabilire relazioni causa-effetto tra i vari aspetti negativi della situazione; per istruire questa fase sono stati utilizzati strumenti quali il brainstorming tra gli operatori coinvolti ed un diagramma causa-effetto. Un secondo passaggio consiste nel definire obiettivi e nell’organizzarli in modo gerarchico, leggendo in passivo quanto emerso nel diagramma dei problemi. Il terzo passaggio consta nell’identificazione delle differenti strategie di soluzione dei problemi e nella scelta delle strategie di progetto. Da un’accurata analisi organizzativa del sistema 118 in Versilia emergono alcune criticità così sintetizzabili: 1. Inappropriato e ridondante impiego di risorse umane altrimenti utilizzabili. 2. Crescita esponenziale del numero di interventi del 118. 3. Conseguente numero elevato di accessi impropri in Pronto soccorso. Il progetto si propone di utilizzare linee guida, laddove esistano, o altrimenti ingenerare un processo di creazione delle stesse, al fine di affrontare e risolvere la prima criticità individuata, ottimizzan- N. 165 - 2007 do le risorse a disposizione e coniugando efficacia/efficienza in un contesto di razionalizzazione delle risorse. Allo stesso tempo si ipotizza che l’implementazione di linee guida “ad hoc” sull’argomento possa indirettamente e positivamente, influire sulla possibilità di risolvere le altre due criticità emergenti. Mentre il primo punto presuppone l’implementazione di un cambiamento organizzativo basato su evidenze, gli altri due livelli di criticità richiedono anche la messa in atto di complesse strategie di educazione sanitaria della popolazione, nonché di campagne informative sull’accesso ai servizi di emergenza. Il salto di qualità per affrontare le criticità determinate dal sempre più elevato numero di interventi 118 / accessi in Pronto soccorso oltre che dal punto di vista organizzativo deve in primo luogo maturare culturalmente. D’altro canto si intuisce una nuova sensibilità delle direzioni amministrative e politiche che vedono nei servizi di Pronto soccorso ed emergenza non solo un territorio ad “alta visibilità” da parte del cittadino, ma anche uno dei nodi cruciali attraverso cui ottimizzare la risposta ad una crescente domanda di salute. Dal macroobiettivo “ottimizzazione delle risorse disponibili” discende la necessità di due obiettivi ulteriori e ad esso collegati: la condivisione ad ampio raggio del nuovo modello organizzativo e la creazione di un’ipotesi di soccorso avanzato. Nella ricerca effettuata delle evidenze scientifiche dispo- Esperienze dal territorio nibili si evince che nella maggior parte dei casi trattasi di linee guida che non esplicitano il livello di forza delle raccomandazioni né fonti e metodologia utilizzata per giungere a specifiche conclusioni, determinando così la non oggettività scientifica delle stesse. Il progetto, constatata la mancanza di linee guida, prevede la costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare a livello aziendale che affronti la tematica in oggetto promuovendo la stesura di linee guida da parte di organismi preposti e supportando una revisione sistematica multicentrica delle evidenze in termini di risultato prodotte dalle realtà più avanzate. Prima di adottare la linea guida a livello aziendale, essa verrà testata attraverso una fase di valutazione critica: possono infatti annidarvisi errori o distorsioni (bias) in corso di elaborazione, nella sua validità interna ed esterna e nell’applicabilità alla pratica clinica quotidiana. Per sondarne la coerenza interna-esterna verrà adottata la metodologia AGREE (Appraisal of Guidelines Research & Evaluation in Europe), che ci permetterà di orientarci in base ai motivi per cui si vuole implementare la linea guida stessa: in relazione ad obiettivo, coinvolgimento delle parti in causa, rigore nell’elaborazione, chiarezza e applicabilità della linea guida alla pratica clinica. Le raccomandazioni prodotte debbono rappresentare uno strumento elastico che risponda a criteri di adattabilità e flessibilità in relazione alle aree del progetto su cui non si abbiano ancora risposte chiare e precise: determineranno così la declinazione completa del progetto, che assumerà così la sua connotazione definitiva. Nell’ambito delle buone pratiche cliniche si individua lo Stay and play quale modalità di attivazione più congrua per la costituzione di un nucleo di soccorso avanzato: esso consiste nel valutare e stabilizzare il paziente direttamente sulla scena prima di procedere ad una centralizzazione, presuppone alto livello di professionalità degli operatori (medici e infermieri), automatismi tipici del lavoro d’équipe e disponibilità di strumenti, materiali e mezzi all’avanguardia ed affidabili. L’obiettivo da centrare in ogni caso è quello di inviare il mezzo e l’équipe di soccorso più idonei per la gestione dell’emergenza sul posto e la centralizzazione della vittima. Altro obiettivo cardine del progetto è quello di ottimizzare la gestione della cosiddetta golden hour, nella quale si decide spesso e volentieri la vita del paziente. Ad esempio la destinazione del politraumatizzato (spesso a rischio concreto di shock emorragico) risulta di vitale importanza per la sua sopravvivenza (es.Contea Orange, California, riduzione mortalità dal 74 al 20% se il traumatizzato veniva inviato al Trauma Center anziché all’Ospedale secondario - West JG Arch. Surg 1983, 18: 740). Progetto operativo di superamento delle attuali criticità Il progetto declina una nuova Sae l ute Territorio 397 job description in Centrale operativa affidando al personale tecnico la gestione del servizio ordinario e a quello infermieristico la gestione delle urgenze, con la presenza di un medico in Centrale con funzioni di consulenza e coordinamento. Sul territorio l’equipaggio di automedica, composto da medico e infermiere riveste un ruolo chiave nella fase di centralizzazione del paziente, per stabilizzare le funzioni vitali e decidere la destinazione più opportuna. Il progetto prevede anche una suddivisione del territorio costiero in 2 macro-aree costiere, Versilia Sud e Versilia Nord, ciascuna con un’automedica di riferimento (Fig. 1). Novità organizzative Versilia Sud: l’automedica “Versilia Sud” diverrebbe perno del sistema appena descritto. Viareggio manterrebbe un PET invece degli attuali due; Torre del Lago perderebbe la funzione di PET diurno mentre manterrebbe quella di PET notturno nel periodo estivo. Novità organizzative Versilia Nord: insieme all’automedica “Versilia Nord” (di stanza a Querceta) tra Forte dei Marmi, Querceta, Pietrasanta e Marina di Pietrasanta rimarrebbe un solo PET con ambulanza medicalizzata in luogo degli attuali due. La sede individuata è quella di Pietrasanta - Marina di Pietrasanta. La durata del periodo di prova sarebbe di sei mesi, per raccogliere dati e valutare l’opportunità di correttivi da applicare, senza condurre ad assegnazioni di diritto. Inva- l ute Sa e 398 Territorio Esperienze dal territorio N. 165 - 2007 Fig. 1. riata la situazione delle zone interne, escluse dalla riorganizzazione territoriale. Risorse mediche si libererebbero per essere impiegate in Centrale, in automedica o al Pronto soccorso. Inoltre, la razionalizzazione ipotizzata dei Punti di Emergenza territoriale andrebbe di pari passo con una riqualificazione strutturale dei rimanenti, prevista tra l’altro dal PSR della Toscana 2005-2007. Per quanto riguarda i codici a bassa priorità, l’impegno assunto dalla Giunta regionale toscana è infatti quello di creare sul territorio servizi alternativi al Pronto soccorso ospedaliero, in grado di far fronte alle situazioni che non sono di autentica urgenza ma che richiedono d’altra parte un sollecito intervento medico-chirurgico (PSR Toscana 2005-2007). Indicatori e standard di qualità Il cambiamento organizzativo e l’implementazione di linee guida debbono essere inquadrati nel rispetto di standard di riferimento capaci di rappresentare livelli di qualità accettabili e sostenibili. Nel processare il cambiamento è sicuramente utile monitorare variabili sentinella che ci dia- no l’opportunità di valutare se ci stiamo muovendo in direzione dell’obiettivo e se i cambiamenti prodotti dalla nostra azione determinano un miglioramento in termini assoluti rispetto al gold standard, riferimento di eccellenza al momento conosciuto. La valutazione di efficacia o di risultato viene effettuata “ex post” e praticata attraverso la valutazioni di variabili (indicatori finali) versus standard di riferimento predefiniti. Esiste inoltre la concreta possibilità che molti sforzi rivolti al cambiamento organizzativo in genere risultino efficaci ma non efficienti. Di qui la necessità di controllare la qualità del processo anche con la determinazione di indicatori intermedi. Per quanto attiene la valutazione in itinere si individuano due indicatori intermedi: – Percentuale di pazienti stabilizzati o curati a domicilio (numero di interventi a domicilio effettuati dall’équipe di automedica versus interventi effettuati dall’équipe dell’ambulanza medicalizzata). Si vuol dimostrare che l’automedica può ridurre il numero di accessi in PS avendo l’equipe maggiori potenzialità operative. N. 165 - 2007 – Disponibilità di équipe avanzata in standby (in minuti/h 24) per area rispetto alla precedente copertura tramite i soli PET La forza delle variabili selezionate, data in termini misurabili e verificabili, ne fa di per sé indicatori consistenti ed affidabili nei confronti dello standard di riferimento. La valutazione di outcome dovrebbe coinvolgere i vari 118 per poter confrontarne i sistemi e poterne evincere dati significativi su scala più ampia. Come indicatori di risultato del progetto sono state individuate sei variabili: – Riduzione della mortalità a 30 gg (espressa in %) dei pazienti (codici rossi e gialli) trattati da equipe ALS versus pazienti trattati da medico + équipe BLS. PS Considerare i decessi dal momento dell’arrivo sul target dell’équipe di soccorso. – Numero di arresti cardiaci rianimati con esito positivo (espresso in %) tra l’arrivo sul target e la dimissione dal PS. Il valore ottenuto verrà confrontato con i dati attuali. – Numero di pazienti (codici rossi e gialli) rianimati con esito positivo e con “Glascow Outcome Score” negativo a distanza di sei mesi trattati da équipe ALS versus pazienti trattati da medico + équipe BLS. Il dato ottenuto (espresso in %) contribuirà ad orientare la riflessione sui danni cerebrali invalidanti causati dall’anossia e sull’efficacia in relazione a Esperienze dal territorio tale variabile. – Appropriatezza dell’attivazione dell’automedica (su c.gialli e rossi) espressa in %. Per quanto riguarda l’ultimo punto disponiamo dei dati nazionali di utilizzo delle automediche 2003, con un livello standard di appropriatezza nell’attivazione del 91.2%; per i primi tre si rispetta una logica (in attesa di definizione di gold standard e livelli qualitativi minimi) che valuti qualsiasi miglioramento o peggioramento in relazione ai valori attuali rilevati. La misura dell’appropriatezza è data dalla coerenza tra codice di invio e quello di ritorno e prevede il coinvolgimento degli operatori di Centrale e del medico di automedica. Secondo dati nazionali relativi all’anno 2004: – L’83,6% dei pazienti muore nei primi minuti e Il 5,8% entro le prime 24 ore a causa dei gravi danni cerebrali conseguenti. Sopravvive il 10,6% dimessi senza deficit invalidanti. La stima totale della sopravvivenza risulta invece inferiore al 5%. – Dati locali indicano l’88,1% di decessi nei primi minuti e Il 5,9% entro le prime 24 ore per danni cerebrali conseguenti. Sopravvive il 6% dei pazienti trattati dimessi senza deficit invalidanti. La stima totale della sopravvivenza è invece inferiore al 4%. Si persegue attraverso il cambiamento organizzativo almeno il raggiungimento dei livelli nazionali, se non un miglioramento rispetto ad essi. Il processo di valutazione e le opportunità offerte dal progetto Nell’ambito del progetto è prevista la verifica dell’ambito e degli obiettivi di progetto: attraverso tale processo misuriamo, il più sistematicamente ed obiettivamente possibile, il grado di raggiungimento degli obiettivi originari e rileviamo le ragioni delle deviazioni significative rispetto a quanto progettato (PAHO 1994). Le fasi di controllo sono state definite attraverso una definizione di standard quantitativi e qualitativi, misura dei risultati con tempi, modalità e responsabilità definite, raffronto tra previsto e realizzato e valutazione dell’eventualità di intraprendere azioni correttive (Megginson 1996). In seguito alla realizzazione di ciascuna delle fasi del progetto si provvederà a valutare le cause che hanno determinato variazioni e scostamenti rispetto a quanto pianificato e criteri di scelta adottati per le azioni correttive (PMI Standards Committee 1996). Ai fini della valutazione globale del progetto e delle ipotesi di risultato è necessario valutare se e come quel tipo di progetti è utile per l’organizzazione, qual’è il modo migliore di gestire i processi e quali sono i rischi più importanti in quel contesto; si stimerà infine quali sono punti di forza e aree di miglioramento della struttura, del personale e delle procedure nella gestione dei progetti. Nella fase esecutiva del progetto attraverso la funzione di controllo budgetario le informazioni riguarderanno il confronto tra i risultati at- Sae l ute Territorio 399 tuali e quelli previsti, l’analisi dell’andamento degli stessi e le previsioni per il futuro. I vantaggi economici derivanti dalla razionalizzazione delle risorse umane e tecniche a disposizione si concretizzano nell’ipotizzata riduzione del numero dei PET sul territorio, la riduzione dei servizi da pagare alle associazioni di volontariato (servizi cui non segue ricovero ospedaliero) per i casi risolti a domicilio, il recupero di personale medico in esubero dai PET per istituire nuovi servizi quali il medico in CO (doveroso adempimento legislativo), l’automedica e l’utilizzo progressivo di medici della continuità assistenziale per garantire il servizio sui PET rimanenti. Un medico costa all’Azienda 4.600 € al mese (comprensivi degli oneri previdenziali e di oneri derivanti da un accordo aziendale stimati in 774,68 € mensili) per un ammontare di 59.800 € annui. Se si moltiplica l’intera cifra per il numero di medici impiegati nell’emergenza territoriale possiamo affermare che solo la componente medica viene a costare all’intero sistema ben 2.212.600 € annui. Un altro capitolo del risparmio ipotizzabile sta nella riuscita dell’introduzione della figura infermieristica nel quadro dell’emergenza territoriale attraverso un sistema che preveda l’ambulanza infermieristica (INDIA), con susseguente possibilità di riassorbire ulteriori risorse mediche attualmente dedicate all’emergenza territoriale in ambito ospedaliero, con evidenti risparmi di gestione e nuove strategie ipotizzabili. l ute Sa e 400 Territorio La formazione per sostenere il cambiamento organizzativo Un progetto formativo coerente e condiviso è necessario per sostenere il cambiamento organizzativo ipotizzato e rappresenta la linfa vitale del progetto stesso. Obiettivo prioritario è promuovere la qualità assistenziale ed assicurare l’adeguatezza e l’uniformità delle cure garantendo ai pazienti i mi- Esperienze dal territorio gliori e i più appropriati interventi sanitari in un contesto di integrazione tra le varie figure professionali. Il progetto si propone altresì di fornire informazioni utili riguardo alla continua evoluzione delle evidenze in area critica, raccogliere esperienze di “buone pratiche” dalle realtà più avanzate, sensibilizzare i partecipanti ad elaborare protocolli operativi, incrementare la fiducia nella Bibliografia European Resuscitation Council (2005), The European Resuscitation Council guidelines for adult Advanced Life Support, Resuscitation. European Resuscitation Council (2005), 2005 International Consensus Conference on Cardipulmonary Resuscitation, Emergency Cardiovascular Care Science with Treatment Reccomendations. Cunial E., Cipollotti G., Benci L. (1999), 118: un servizio integrato per l’emergenza territoriale, Mc Graw Hill, Milano. Posner K., Applegarth M., Manuale di project management, Edicart, Zurich RE. Pessina E., Cantù E., L’aziendalizzazione della sanità in Italia: rapporto OASI 2000, CERGAS Università Bocconi. comunicazione efficace in ambito dell’equipe. Un progetto infine si conclude quando gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti o quando si comprende che gli stessi non sono realisticamente raggiungibili. 2007 Versilia Soccorso non intende rappresentare altro se non uno stimolo al cambiamento, al mettersi costantemente in gioco attraverso la forza delle idee, la passione N. 165 - 2007 per il proprio lavoro e ciò che rappresenta, la tenacia organizzativa. In fase conclusiva risulta infine assolutamente necessario documentare i risultati raggiunti, sia perché il progetto possa essere correttamente valutato, sia perché dall’esperienza fatta si possano ricavare suggerimenti ed informazioni utili per la pianificazione e lo svolgimento di progetti futuri. Grant H.D., Murray R.H., Ber J.D. (1999), Interventi di emergenza, Mc Graw-Hill Italia, Milano. Benci L. (1999), Professioni sanitarie non più ausiliarie, Rivista di diritto sanitario delle professioni sanitarie, n. 1, Lauri Edizioni. Azienda USL Versilia, Regolamento del servizio territoriale di emergenza - Urgenza, Dipartimento Emergenza -Urgenza - Centrale Operativa 118 “Versilia Soccorso”. Azienda USL Versilia (2006), Bilancio sociale Azienda USL 12 Viareggio. Benevento P., Bovi S., Giannoni L., Lattari M., Nocchi S., Pieroni F.., Emergenza Territoriale Ottimale, UO 118 Versilia Soccorso. Loiudice M. (1997), La gestione del cambiamento in sanità Manuale teorico pratico di project management per operatori sanitari, Centro scientifico editore.