Sae l ute
Territorio
Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Redazione
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Collaboratori
Marco Biocca, Centro Documentazione Regione
Emilia-Romagna
Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia
Regionale di Sanità della Toscana
Ivan Cavicchi, Università La Sapienza
e di Tor Vergata - Roma
Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino
Nerina Dirindin, Assessore alla Sanità, Regione Sardegna
Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli
Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Emanuele Scafato, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Comitato Scientifico
Giovanni Berlinguer, Professore Emerito
Facoltà di Scienze - Roma
Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria
e Ospitaliera - Reggio Emilia
Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano
Donato Greco, Direttore Direzione Generale
della Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute
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Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 dicembre 2007
165 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
Giunta Regionale Toscana
Anno XXVIII - Novembre-Dicembre 2007
Sommario
338
340
344
E. Catarsi
L. Caligiani, I.Lapi
F. Mori
348
S. Vaccari
Monografia
356 L. Tomatis
361
365 F. Carnevale
368
369
E. Buiatti
372
373
376
377
380
381
383
384
387
388
390
392
E. Paci
G. Berlinguer
G. Donzelli
I. Cavicchi
A. Stefanini
C. Cislaghi
Esperienze dal territorio
394 P. De Simone
396 M. Buselli
Abbonamenti 2007
Italia
€ 41,32
Estero € 46,48
Sostegno alla genitorialità
Assistenza al lutto dei minori
Enzo Arian ebreo, psichiatra,
psicoterapeuta
Madri a rischio
Maccacaro, lo stratega del SSN
I rischi attribuiti ad agenti chimici
Medicina e lavoro
Scienziato e sostenitore delle lotte
per la salute dei lavoratori
Malattia qualitativa
e malattia quantitativa
La transizione epidemiologica
da Maccacaro ai nostri tempi
Prevenzione secondaria
e screening di massa
Sviluppo della tecnologia
e della biomedicina
Lettera al presidente dell’ordine
La risposta all’inquisitore
Il bambino è dell’ospedale?
I diritti del bambino ospedalizzato
L’Unità sanitaria locale
L’idea originaria di un “insieme di servizi”
L’uso di classe della medicina
La persistenza delle diseguaglianze
nella salute
Pratica medica e controllo sociale
Classi sociali e salute
La comunicazione dei rischi in Azienda
Criticità organizzative nell’ambito
del sistema 118
Fotocomposizione e stampa
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l ute
Sa
e
338 Territorio
Enzo Catarsi
Direttore del Dipartimento
di scienze dell’educazione
dell’Università di Firenze
e Consulente dell’Istituto
degli Innocenti
N
el nostro Paese abbiamo assistito nell’ultimo
cinquantennio ad una
ricorrente campagna, tanto
retorica quanto inconcludente e velleitaria, a proposito
del ruolo della famiglia e del
significato educativo della
genitorialità. È infatti mancata, in concreto, una vera e
propria politica della famiglia, mentre, al contempo,
sono stati in generale inesistenti gli interventi tesi a sostenere la genitorialità, in
special modo nel momento in
cui essa inizia ad esplicitarsi
e ad essere interpretata dai
nuovi genitori. Gli stessi Consultori familiari si sono limitati ad operare in direzione di
una peraltro utile e valida
educazione contraccettiva,
senza impegnarsi in maniera
adeguata nella organizzazione di percorsi formativi di sostegno ai nuovi genitori.
Scelte procreative e ruolo
dei Consultori
Questi ultimi, fra l’altro, hanno sempre più richiesto, nel
corso degli anni, un’attenzione specifica per il momento
della nascita, a cui si è risposto con l’organizzazione di
percorsi di preparazione al
parto che, almeno in Toscana,
si sono andati sempre più
qualificando, ma che non potevano rispondere ai bisogni
Educazione sociosanitaria
N. 165 - 2007
Sostegno
alla genitorialità
formativi più generali delle
giovani coppie. L’elevamento
del livello culturale della popolazione italiana, unitamente alla consapevolezza
sempre più diffusa riguardo l’
importanza dei primi anni di
vita, hanno peraltro determinato un atteggiamento più
responsabile e meditato di
fronte alle scelte della procreazione e dell’allevamento.
Uno dei risultati di questo
nuovo atteggiamento è senza
dubbio il fenomeno del “figlio
unico”, che, al di là della superficiale accusa di “individualismo”, mossa ai genitori
che decidono di avere un solo
figlio, è quasi sempre il frutto
di diverse motivazioni, a cominciare dalla consapevolezza delle difficoltà finanziarie
connesse all’allevamento.
L’accusa di individualismo che
viene rivolta ai genitori che
decidono di avere un solo figlio appare quindi stereotipata e frutto di quel senso comune che troppo spesso è solo l’aspetto visibile del pregiudizio.
È vero invece che i genitori
sono sempre più consci dei
loro limiti e talvolta sono
condizionati da una sorta di
“ansia genitoriale” frutto della solitudine con cui quasi
sempre si trovano ad interpretare il ruolo di madre e di
padre. La decisione di avere
Un piano di ricerca-azione promosso dalla
Regione Toscana dalla nascita all’inserimento
del bambino nel contesto familiare
un figlio comporta, evidentemente, un forte investimento
psicologico, specialmente in
una situazione come quella
italiana – ma anche toscana –
in cui l’evento nascita è venuto assumendo un’importanza di grande significato e
deve essere accompagnato da
percorsi di formazione dei genitori dai caratteri non solo
sanitari.
La nascita, peraltro, ha anche
evidenti e prioritarie implicazioni di tipo medico, che però
sono state sopravalutate a
scapito di quelle di carattere
psicologico. Queste ultime, in
effetti, non hanno avuto la
considerazione che meritano,
mentre la dimensione medica
ha avuto una importanza
sempre maggiore, fornendo,
peraltro, anche buoni risultati nel processo di lotta alla
mortalità infantile. La madre
ed il bambino tendono così a
diventare dei pazienti, anche
se la situazione sta cambiando, come dimostra anche la
realtà toscana dove esistono,
in maniera sempre più diffusa, modalità organizzative
del momento del parto che ri-
spondono ai bisogni psicologici – di rassicurazione e di
costruzione del legame di attaccamento – di entrambi.
Quello che più fa piacere, peraltro, è che tali considerazioni siano state fatte da alcuni ginecologi, che in tal
modo si sono espressi nel
contesti dei focus group che
sono stati organizzati nell’ambito della esperienza di
ricerca di cui diamo conto in
questo articolo e che è stata
promossa dall’Assessore Enrico Rossi e gestita dall’Istituto
degli Innocenti.
Il progetto nascita in Toscana
Partendo da questi presupposti la ricerca di cui diamo
conto, promossa dalla Regione Toscana e gestita dall’Istituto degli Innocenti, ha inteso promuovere una prima rilevazione dei corsi di preparazione al parto ed alla nascita
organizzati nei Punti nascita
e nei Consultori operanti nella Regione Toscana. I risultati
sono piuttosto interessanti e
consentono in ogni caso di
fermare l’attenzione su alcuni
Educazione sociosanitaria
N. 165 - 2007
aspetti significativi, a cominciare dalla “centralità” della
figura dell’ostetrica, che accoglie le donne nel primo momento della gravidanza e le
accompagna fino alla nascita
del bambino. Tale dato emerge da più elementi, a cominciare dalla offerta del “Libretto regionale di gravidanza”
che in Toscana viene consegnato a tutte le gestanti.
Interessante appare anche il
dato relativo alle diverse denominazioni dei percorsi nascita organizzati nella nostra
Regione. Ovviamente il richiamo al parto è presente
nei 2/3 delle situazioni. Ma il
contemporaneo utilizzo del
termine nascita lascia intendere che si è ormai acquisita
la consapevolezza di superare
l’impronta esclusivamente
medicalizzata che ha caratterizzato storicamente i corsi di
preparazione al parto. In
questo caso molto si deve al
movimento delle donne ed all’impegno professionale delle
ostetriche più avvertite che –
prima e meglio dell’altro personale sanitario – hanno capito i bisogni relazionali e di
rassicurazione che provenivano dalle gestanti. Anche per
questo la presenza delle ostetriche è apparsa centrale all’interno dei diversi percorsi
nascita, con un impegno che
talvolta risulta davvero gravoso, come ha rilevato Rita
Breschi, Direttore dell’Unità
operativa di Ostetricia dell’Azienda fiorentina, la quale,
nel corso di uno dei focus
group organizzati nell’ambito
del progetto, ha dato delle
indicazioni assai interessanti
Le ostetriche hanno quindi
piena consapevolezza dell’onere che è ricaduto su di loro
e che in effetti questa ricerca
riscontra in maniera inconfutabile. Oltre a quanto affermato in precedenza, in effetti, lo dimostrano anche le risposte alle domande della
scheda di rilevazione, in cui
si chiedeva di indicare la figura professionale impegnata
per più tempo nel corso di
preparazione e, un po’ dopo,
come ulteriore verifica, il numero di incontri tenuti dal
singolo operatore.
La nostra rilevazione lascia
emergere, inoltre, il dato che
i corsi di preparazione alla
nascita hanno carattere continuativo e sono ormai entrati a far parte del programma
di lavoro delle strutture che
hanno risposto. Allo stesso
modo è indicato che la stragrande maggioranza dei corsi
inizia con il settimo mese di
gravidanza delle gestanti,
mentre in qualche altro caso
inizia con il sesto. Quasi nessuno dichiara di iniziare prima. Questo, evidentemente, è
un dato significativo per capire l’obiettivo dell’intervento, esclusivamente finalizzato al momento del parto. Ed è
appunto su questo elemento
che occorre lavorare, al fine
di trasformare realmente
questi contesti in rinnovati
percorsi di educazione familiare, in grado di dare strumenti ai giovani genitori nella prospettiva del sostegno
effettivo alla crescita ed allo
sviluppo dei loro bambini.
Tale obiettivo, peraltro, non
significa in alcun modo sottovalutare l’interesse per il
momento del parto ed il coinvolgimento del personale sanitario, che ha importanza
prioritaria e la cui presenza è
evidentemente essenziale. Ma
è proprio a partire dal grande
consenso che hanno queste
caratteristiche che occorre
introdurre una nuova attenzione per la dimensione formativa della genitorialità, di
significato fondamentale per
lo sviluppo delle giovani generazioni.
Il gruppo di formazione dei
genitori
Un limite significativo che
emerge dalla rilevazione è la
sostanziale mancanza di interventi dopo il parto. In generale questi possono avvenire su richiesta esplicita
della donna, mentre solo in
pochi casi esiste una offerta
dell’Azienda. In ogni caso
quando esiste un intervento
dopo il parto esso consiste
generalmente in una o due
visite domiciliari di ostetriche, integrate, ma solo in pochi casi, da visite dell’assistente sociale.
Negli ultimi tempi cominciano ad essere introdotte anche
altre attività, anche se non in
maniera sistematica e molto
spesso sulla spinta della campagna per l’allattamento al
seno che, in effetti, costituisce occasione di aggregazione. In altri casi l’incontro ha
carattere di festa, per ritrovarsi dopo l’evento nascita e
socializzarne le caratteristiche all’interno del gruppo
con cui si era condiviso il
percorso di formazione. In
pochi altri casi si parla di corsi di massaggio infantile oppure di cicli di incontri con la
psicologa, generalmente portati a termine con il terzo
mese della vita del bambino.
In ogni caso la rilevazione
realizzata nei “Punti nascita”
e nei Consultori della Toscana
Sae l ute
Territorio 339
ha mostrato come nella nostra Regione vi sia ormai una
ricchezza di esperienze riguardo i corsi di preparazione
alla nascita. Al contempo è
emerso come questi ultimi si
limitino al periodo prenatale,
mentre dopo il parto i genitori vengono lasciati soli con sé
stessi, in un momento cruciale della vita come è quello
della nascita di un figlio. Tale
evento, in effetti, è particolarmente significativo nella
vita di un uomo e di una donna, in quanto comporta l’acquisizione di una nuova identità, quella genitoriale, ma
anche un cambiamento nell’organizzazione e nella definizione dei ruoli e delle relazioni all’interno della famiglia stessa. I figli assegnano
nuovi ruoli, non solo all’interno della coppia, ma anche
nelle famiglie d’origine: i coniugi diventano anche genitori, i genitori anche nonni,
alcuni diventano zii, ogni
membro della famiglia ricopre contemporaneamente un
doppio ruolo e si trova a gestire una rete complessa di
rapporti.
Proprio in virtù di tali considerazioni il Progetto nascita
curato dall’Istituto degli Innocenti ha previsto fin dall’inizio la realizzazione di un
percorso di formazione con i
genitori, al fine di far loro
acquisire una maggiore sicurezza unitamente a specifiche competenze genitoriali.
Quest’ultima è stata concepita e realizzata come un nuovo intervento di educazione
familiare, fondato sulla strategia del piccolo gruppo, dove
(Segue a pag. 343)
l ute
Sa
e
340 Territorio
Lucia Caligiani
Isabella Lapi*
Medico palliativista,
psicoterapeuta, UFMA
Cure palliative,
Azienda sanitaria Firenze
* Psicologo psicoterapeuta,
UF. Salute mentale
infanzia-adolescenza,
Azienda sanitaria Firenze
C
onoscere e analizzare le
problematiche che un
bambino deve affrontare per la perdita di un genitore, ancor prima che il lutto
avvenga, è indispensabile
per qualunque familiare e
operatore.
L’accompagnamento nel corso
della malattia, prima della
morte e nei primi tempi del
lutto, riveste un’estrema importanza per lo svolgimento e
l’esito del lutto dei minori.
Quando in famiglia un genitore o un familiare significativo sta male e muore, intorno al bambino cala il silenzio:
si tace su ciò che sta per accadere, alle domande non si
risponde se non vagamente o
con spiegazioni fantastiche,
si parla sottovoce cercando di
non farsi sentire, si negano le
lacrime, a volte si esibisce
una allegria forzata, più spesso, nel momento decisivo, lo
si allontana da casa.
Il silenzio degli adulti è fatto
per “proteggere il bambino”:
si pensa che non sia in grado
di capire un fatto così impensabile come la morte e non
sia in grado di sopportare un
dolore così grande, nell’illusione dell’infanzia come periodo felice che non deve essere turbato. ”È troppo piccolo per capire… non può reggere tanto dolore… non può
Psicoterapia
N. 165 - 2007
Assistenza al lutto
dei minori
pensare a certe cose alla sua
età” sono le parole più ricorrenti, e con esse, il grande interrogativo: “Ma come facciamo a dirglielo?”. Già tanto
provati dal proprio dolore gli
adulti molto spesso fanno fatica ad affrontare, accogliere
e contenere anche il dolore
del bambino, si sentono incapaci, hanno paura di fargli
del male e, forse, di far ancor
più male a sé stessi. Accanto
al desiderio di proteggere il
bambino c’è il desiderio inconscio di proteggersi: tenendo il bambino al riparo
dal dolore si cerca di tenere al
riparo una parte di sè stessi.
Ma il silenzio degli adulti per
il bambino è un silenzio che
grida angoscia e paura provenienti dal suo mondo interno.
È un vuoto inquietante, riempito dal dolore che percepisce
dagli adulti e dalle sue fantasie che inevitabilmente vanno
a colmare l’informazione e la
spiegazione che mancano –
fantasie paurose e connotate
da sensi di colpa.
I bambini e gli adolescenti
di fronte alla morte
I bambini non interpretano
l’esclusione in senso protettivo ma spesso sviluppano fantasie drammatiche, come la
paura di essere abbandonati
sia dal genitore malato che
Un progetto di sostegno psicologico
per la prevenzione del danno della perdita
di un familiare
da quello sano; altri cercano
di riparare al danno sentendosi in dovere di sostituire il
genitore mancante assumendone il ruolo.
La morte disorienta in ogni
caso il bambino, che nel suo
inconscio tende ad interpretarla come provocata da qualcuno, quasi come un assassinio: alcuni pensano di esserne stati loro la causa, si sentono colpevoli e il loro dolore
diventa intollerabile. A questo dolore si aggiungono il disorientamento e il senso di
colpa del genitore vivente,
che subisce anch’egli la violenza di una morte che lo ha
reso impotente e ha risvegliato tutte le sue fragilità. Al
bambino viene così a mancare
la presenza protettiva dell’adulto: la chiusura ed il silenzio dell’adulto lo lasciano
nella solitudine, resa più dolorosa dalla percezione che
l’adulto in quel momento non
ce la fa ad essere con lui.
Il bambino e, in parte, anche
l’adolescente, hanno un pensiero autoreferenziale ed egocentrico, tendente cioè ad at-
tribuire a sé stessi la responsabilità degli eventi. È essenziale affrontare nel lavoro di
elaborazione del lutto il senso di colpa che sempre aleggia intorno alla morte, che
nei bambini è ancora maggiore che negli adulti.
Essenziale è anche favorire
nei bambini i ricordi della
persona perduta, in modo
particolare il genitore, per favorire il mantenimento nel
suo mondo interno di un oggetto buono di riferimento.
Questa figura di genitore “immaginario”, che molti bambini conservano dentro di sé,
pur essendo consapevoli della
perdita reale, è necessaria e
non è da ritenersi una complicazione del lutto.
Fantasie distruttive o di danneggiamento – come paura di
ammalarsi loro stessi o che
l’intera famiglia possa dissolversi – possono irrompere anche quando al posto del silenzio si insinua la “bugia” degli
adulti. I familiari, infatti,
tentano spesso di sdrammatizzare e mascherare l’ineluttabile realtà con un’immagine
Psicoterapia
N. 165 - 2007
che ritengono meno paurosa,
rimandando la “verità” ad un
momento futuro “più opportuno”. In realtà il momento
più opportuno viene continuamente rimandato e per il
bambino, lasciato solo con le
sue fantasie, sembra non arrivare mai.
I danni del lutto “bloccato”
I bambini e gli adolescenti
reagiscono in modo evidente
alla morte e sviluppano processi di lutto analoghi a quelli degli adulti.
La malattia grave e la morte
minacciano profondamente la
sicurezza dell’attaccamento e
la serenità del percorso evolutivo, e non è infrequente
l’insorgere sia a breve che a
lungo termine, di problematiche depressive, di disturbi del
sonno e dell’alimentazione,
difficoltà scolastiche e relazionali, comportamento aggressivo, o al contrario, chiusura e passività. La presenza
di questi disturbi è maggiore
tanto più la malattia del genitore o del congiunto dura
da tempo ma anche quando il
figlio non è stato informato o
non lo è stato adeguatamente
circa le circostanze della morte e non ha partecipato al
lutto familiare.
Se risulta normale in un primo momento la fase della non
accettazione della perdita,
quando non vengono espresse le forti emozioni ad essa
collegata esiste il rischio di
prolungare troppo questa fase, continuando a vivere come se nulla fosse successo
per evitare del tutto il lutto.
Questa situazione favorisce
un’apparente sicurezza che
deve sempre essere rinforzata, per lo più al prezzo di un
totale adeguamento ad un
modello di comportamento
compiacente e adultizzato.
Restando intrappolato in questa situazione di negazione, il
bambino si sentirà sempre più
triste e privo di significato.
Questa modalità spesso non è
che il tentativo per evitare la
fase in cui erompono le emozioni che fanno sentire il
bambino e il ragazzo sopraffatto, come rabbia, dolore,
senso di colpa. Si crea così
una situazione di blocco psichico che rende il minore impotente tanto che non riesce
ad andare avanti nel processo
di elaborazione del lutto, non
concedendosi di entrare nella
fase trasformativa.
Spesso il lutto può bloccarsi
proprio nella fase in cui si ha
la separazione interiore dal
defunto e il bambino comincia a rivolgere l’attenzione
verso un nuovo oggetto d’amore vivo e vitale: può venire
travolto dai ricordi e dai sensi
di colpa per essere cambiato e
avere “tradito”, e da qui può
iniziare una regressione che
impedisce al morto di essere
tale e al vivo di vivere.
La rimozione o un processo di
lutto incompiuto può portare
a situazioni di ansia e depressione che si manifestano con
sintomi abbastanza tipici ma
talvolta sottovalutati: disturbo d’ansia di separazione che
si manifesta in maniera eccessiva rispetto alla separazione da casa o dai familiari,
riluttanza o rifiuto di andare
a scuola, difficoltà a stare da
solo a casa o senza la presenza di una figura di attaccamento, rifiuto ad andare a
dormire nel proprio letto, incubi frequenti.
Spesso si manifesta disagio a
scuola in cui il ragazzo non
riesce a mantenere un adeguato livello di attenzione,
oppure nel gioco, o ancora,
sembra assente nella conversazione e ha difficoltà a organizzarsi nelle incombenze
quotidiane.
Si assiste a fenomeni di iperattività, in cui non riesce
neppure a giocare e sembra
sempre sotto pressione.
Al contrario, si può avere inibizione psicomotoria, che
evoca assideramento emotivo
e blocco delle funzioni mentali, abulia e prostrazione.
Si osserva talvolta la perdita
di progettualità per il futuro,
che porta il bambino a non
immaginare di poter diventare adulto oppure, per formazione reattiva, a sentirsi magicamente onnipotente rispetto al congiunto rimasto
invece vittima della morte.
Non infrequenti sono le manifestazioni somatiche del
trauma che non trovando un
canale psichico di espressione si evidenzia a livello corporeo: disturbi del sonno, regressioni fisiche e comportamentali (tipica è l’enuresi),
sintomi dermatologici.
La comunicazione delle
emozioni
Il modo in cui vengono condivise la malattia e la perdita
condizionano il processo del
lutto e sono determinanti per
l’evoluzione psicologica del
bambino e dell’adolescente.
Per il bambino, quando muore un familiare, l’essere insieme a chi è rimasto condividendo i sentimenti di perdita
e le fantasie collegate, è la
condizione necessaria per poter elaborare il lutto. Certamente l’atteggiamento pro-
Sae l ute
Territorio 341
tettivo da parte dell’adulto
non va abbandonato: alcuni
aspetti della malattia e della
morte possono essere veramente troppo per il bambino,
troppo grandi e inutili per il
suo livello di comprensione,
dannosi perché oltre la sua
possibilità di assorbimento
emotivo. Tuttavia, pur senza
investire il bambino di pesi
troppo grandi per lui, occorre
comunque assecondare e guidare la sua curiosità e la sua
ricerca psicologica intorno alla morte perché il processo di
lutto possa compiersi: parlare
di quanto sta accadendo,
spiegare, esplicitare il dolore
di ognuno, partecipare alle
esequie sono premesse per la
presa di coscienza di una perdita che è, sì, irreparabile ma
il cui dolore può essere lenito
se viene condiviso.
Parlare di morte ai figli di un
malato a fine vita è certamente molto difficile ed andrebbe fatto per gradi ma è
anche necessario: le non risposte dell’adulto bloccano
ogni ricerca,ogni interrogazione, ogni elaborazione, e
possono condurre ad una
mancata elaborazione del lutto le cui conseguenze psicologiche,come abbiamo visto,
possono essere molto gravi.
Le non risposte dell’adulto
spesso sono le non domande
del bambino: il minore può
trincerarsi dietro il silenzio ritenendo indicibile il proprio
dolore e insostenibile per l’adulto, di cui intuisce la sofferenza; anche il bambino pensa
di dover proteggere la sua famiglia usando gli stessi mezzi.
Nell’imminenza di una morte
e nei momenti immediatamente successivi è necessario
offrire sostegno con strumen-
l ute
Sa
e
342 Territorio
ti tecnici specialistici per avviare il processo fisiologico
del lutto.
Il progetto ALBA
Per prevenire la psicopatologia del lutto e i suoi danni
evolutivi, abbiamo costituito
nell’area fiorentina un progetto sperimentale per sostenere i minori.
Nato con l’appoggio diretto
delle Società della salute e
dell’Azienda sanitaria di Firenze, e con il sostegno di organizzazioni di volontariato1,
il progetto, denominato ALBA (Assistenza lutto bambini
adolescenti), è attuato da un
piccolo team di psicoterapeuti – con formazione ad orientamento psicoanalitico e
competenze nell’area specifica delle cure palliative e del
lutto – che effettua consultazioni psicoterapeutiche direttamente ai bambini e agli
adolescenti: l’intento è offrire
loro spazio di espressione e
contenimento al dolore, favorire l’avvio del processo del
lutto, potenziare le energie
psichiche sane che possono
contrastare gli effetti traumatici della perdita.
Su segnalazione dell’équipe
delle cure palliative che ha in
carico il paziente in fase terminale, i terapeuti visitano a
casa la famiglia e concordano
le modalità di osservazione e
colloquio con i figli; contemporaneamente vengono date
indicazioni di comportamento ai familiari, e spesso anche
Psicoterapia
alla scuola; ogni caso, infine,
è discusso con l’équipe di cure palliative sia per restituire
all’équipe la lettura della situazione del minore sia per
coordinarsi con gli psicologi
interni al servizio che si occupano del sostegno al lutto
dell’adulto2, o anche per attivare, in caso di necessità, la
rete dei servizi (servizi di salute mentale infanzia-adolescenza, servizi sociali, gruppi
di auto-mutuo-aiuto per le famiglie monoparentali, ecc.).
La consultazione psicoterapeutica
La consultazione prevede in
genere un ciclo di sedute di
osservazione e gioco con i
bambini più piccoli, e di colloquio con gli adolescenti, fino ad un massimo di cinque
nell’arco di tempo che va dalla fase terminale al periodo
immediatamente successivo
alla morte, e altre due – tre
sedute nell’arco dell’anno,
scelte in base a date significative. Il modello dell’intervento è flessibile per adattarsi a
situazioni molto diverse tra
loro per bisogni, capacità, difficoltà vissute: in alcuni casi
il numero delle sedute può
estendersi e la consultazione
può assumere la veste di una
psicoterapia breve focale, in
altri può anche bastare un solo incontro; in presenza di disagio o patologia pregressi, o
di difficoltà persistenti, sarà
invece necessario l’invio mirato ai servizi di salute mentale
N. 165 - 2007
infantile per una presa in carico più duratura.
Il setting iniziale è la casa
stessa del minore ma è a disposizione anche una stanza
di consultazione presso la
struttura sanitaria; la stanza
è attrezzata come una qualunque stanza di psicoterapia, i bambini hanno a disposizione piccoli giocattoli (famiglie, animali, macchinine…), carta e colori.
Nella consultazione il terapeuta si pone in un atteggiamento di contenimento e di
“verità” affrontando in modo
diretto il problema della perdita: questo consente al bambino di esprimere e condividere le sue angosce trovando
difese più funzionanti.
Per il suo lavoro il terapeuta
del team si avvale degli strumenti tecnici mutuati dall’Osservazione partecipe (Infant
Observation secondo E. Bick)
e dalla terapia psicoanalitica
(come l’interpretazione).
Attraverso il colloquio preliminare alla consulenza ai figli, anche i familiari vengono
aiutati a porsi con il bambino
in un atteggiamento di verità
trovando le modalità di stare
vicini a lui e coinvolgerlo nel
commiato e nel funerale, rispettando la sua età e il suo
bisogno di protezione ma
senza escluderlo.
L’atteggiamento di verità e di
condivisione viene suggerito
anche alla scuola, soprattutto
al momento di riaccogliere in
classe il bambino o il ragazzo.
Conclusioni
Anche se viene riconosciuto
da tutti gli operatori il potenziale patogeno delle perdite familiari e denunciate le
difficoltà degli adulti a gestirle nella relazione con i figli, esiste un vuoto assistenziale generalizzato – quasi
come se anche le istituzioni
sanitarie vivessero la stessa
difficoltà dei familiari ad infrangere il muro di silenzio
che circonda il bambino. In
Italia e all’estero sono pochissime e non strutturate in
servizio le esperienze di sostegno psicologico al lutto
dei minori.
Il progetto ALBA si presenta
fortemente innovativo per le
sue caratteristiche originali:
il sostegno psicologico viene
ottenuto tramite consultazione rivolta direttamente ai
bambini e agli adolescenti, e
non filtrata dai familiari; la
natura prettamente psicologica di questa consultazione
è tesa a sostenere il mondo
interno del bambino cercando
di attenuare l’angoscia, e promuovere e potenziare le sue
difese. Al contempo, viene
data attenzione anche al suo
mondo esterno, tramite le indicazioni di comportamento
agli adulti, che vogliono sollecitare nella famiglia un clima di verità e dialogo. L’altra
scelta operativa importante è
quella di iniziare l’intervento
prima della morte del genitore: il sostegno offerto ai figli
e ai familiari favorisce la pos-
1 Il nostro ringraziamento va a quanti hanno creduto fin da subito a questo progetto e ci hanno aiutato, in particolare i Respons abili UFMA Cure
palliative, la dott.ssa S.Rogialli e il prof.L.Bartolini, rispettivamente Direttore e Presidente della SdS Sud est, il Calcit, la dott.ssa L.Tre Re, Direttore della SdS Firenze, la Direzione Sanitaria dell’ASL di Firenze. Ringraziamo inoltre, il dr. A. Valdrè, Direttore della SdS Nord ovest, che ha favorito l’avvio di un progetto di zona per il sostegno al lutto, coordinato dalla dott.ssa C. Pratesi, con il quale collaboriamo.
2 Già dal 2000 è presente nei Servizi aziendali di cure palliative l’attività di consulenza psicologica diretta sia al malato a fine vita e alla sua famiglia, sia al gruppo di lavoro degli operatori e dei volontari, coordinata dalla dott.ssa G. Mieli.
Psicoterapia
N. 165 - 2007
sibilità di salutarsi e separarsi, ed entrare nel lutto con
maggiore serenità.
Il progetto è nato all’interno
delle cure palliative e ne ripropone la filosofia, ovvero la
non medicalizzazione del
processo di morte e la presa
in carico globale del paziente.
Il lutto è da ritenersi una reazione psicologica normale rispetto alla perdita e l’intento
della consultazione specialistica è solo quello di soste-
Bibliografia
Campione F. (2000), Rivivere. L’aiuto psicologico nelle situazioni di crisi, Clueb, Bologna.
Cancrini T., (2003), Un tempo per il dolore, Bollati, Torino.
(segue da pag. 339): Sostegno alla
genitorialità
i genitori possono raccontare
le loro esperienze e confrontarsi fra loro. Tale impegno
conversazionale, peraltro,
non è fine a sé stesso, ma si
alimenta di una continua mediazione tra sapere teorico,
proprio degli specialisti, e sapere pratico, di cui sono portatori i genitori. Tale modalità
necessita di un animatore che
si vive come “facilitatore della
comunicazione” e che riesce a
vivere la sua professionalità
al servizio della crescita dei
genitori. Giuseppe Sparnacci,
in effetti, che come psicologo
ha coordinato il gruppo dei
genitori, ha interpretato al
meglio questo ruolo, mettendo i genitori a loro agio ed in
condizione di confrontarsi e
discutere fra loro. Il suo modo
di operare, fra l’altro ha favorito una presenza “non direttiva” anche del pediatra e del
pedagogista. In particolare il
primo, in effetti, non sempre
ha comportamenti di questa
natura, anche se dobbiamo
evidenziare che Paolo Sarti –
intervenuto in questo contesto – è un pediatra dalle evidenti competenze relazionali
e dalla spiccata sensibilità democratica, come dimostra la
sua trentennale attività con
le mamme ed i genitori in generale. Allo stesso modo stimolante si è rivelata la partecipazione della pedagogista,
che ha affrontato con i genitori i temi del gioco e della
lettura dei libri di figure.
Anche alla luce di questa
esperienza dell’Istituto degli
Innocenti appare quindi im-
nerne l’evoluzione sana, e ha
quindi finalità squisitamente
preventive.
Una frase, anonima, racchiude in poche parole l’essenza
del nostro lavoro: “Non puoi
diminuire la notte ma puoi
Sae l ute
Territorio 343
aumentare la luce” – non è
possibile, infatti, eliminare il
dolore del lutto, ma è possibile aumentare la capacità psichica di non esserne sopraffatto e non perdersi nelle tenebre del dolore.
Chabert C. et al. (2006), Figure della depressione, Borla, Roma.
Freud S. (1915), Lutto e melanconia, OSF, VIII.
Palacio Espasa F. (1995), Psicoterapia con i bambini, Cortina, Milano.
Palacio Espasa F. (2004), Depressione di vita, depressione di morte,
Cortina, Milano.
pensabile organizzare iniziative di formazione dei genitori
dal carattere precettistico,
mentre sembra non più rinviabile la realizzazione di esperienze che educhino i genitori
alla riflessione critica ed alla
disponibilità all’ascolto, foriera di qualificare tutte le relazioni ed in particolare quelle
con i figli. L’educazione dei
genitori, in effetti, non può
essere intesa secondo una tradizionale logica trasmissiva
del sapere, ma deve partire dagli stili educativi messi in atto, per discuterli e confrontarli, in maniera da migliorarli e
da rispondere sempre più precisamente ai bisogni dei figli.
I risultati di questo progetto,
in definitiva, paiono però interessanti non solo per i genitori, ma anche per la formazione del personale sani-
tario. Un auspicabile proseguimento, infatti, potrebbe
essere costituito dalla formazione in servizio di tutti quei
professionisti che, nei diversi
“Punti nascita” della Regione
Toscana, operano nei percorsi
di preparazione alla nascita.
Allo stesso modo sarebbe assai utile poter sperimentare il
percorso genitori dopo il parto in alcune altre realtà toscane, dopo averlo fatto all’Istituto degli Innocenti. In
questo modo potrebbe essere
elaborato una sorta di “modellino” da utilizzare poi al
meglio in tutta la realtà regionale al fine di far diventare il momento della nascita
un primo contesto di educazione dei genitori e conseguentemente un investimento per il futuro successo formativo dei bambini.
l ute
Sa
e
344 Territorio
Franco Mori
Psichiatra
S
fogliare semplicemente
il curriculum di Enzo
Arian significa per me,
toccare con mano alcune delle vicende più drammatiche
del secolo scorso, per poco
che esse vivano ancora nel ricordo delle persone che in
qualche modo le hanno vissute o ne abbiano avuto notizia.
Enzo nasce a Berlino nel
1912, poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, che dunque da bambino vive e soffre. Come tutti i
suoi coetanei è costretto a
trascorrere l’adolescenza in
una patria umiliata dalla
sconfitta e devastata dalla inflazione. A diciannove anni si
iscrive alla Facoltà di medicina ma dopo due anni appena,
nel 1933, ne viene espulso: in
quanto ebreo non aveva il diritto essere considerato cittadino tedesco come tutti gli
altri, nè tantomeno il diritto
di studiare, di laurearsi, di
esercitare una professione.
Così Enzo Arian se ne va dalla
Germania e viene in Italia,
dove conclude a Torino gli
studi di Medicina, frequentando anche assiduamente la
Clinica delle malattie nervose
e mentali, diretta dall’illustre
Storia della medicina
N. 165 - 2007
Enzo Arian ebreo,
psichiatra,
psicoterapeuta*
Prof. Lugaro, autore insieme
a Tanzi di un celeberrimo
trattato della malattie mentali sul quale hanno studiato
almeno due generazioni di
psichiatri.
Si laurea nel novembre 1937.
Nel 1938 dà l’esame di stato e
si sposa con Giorgina Levi;
ma appena iniziato ad esercitare la sua professione ne viene impedito, perché la legislazione razziale già imposta
in Germania viene ora imposta anche in Italia.
A quell’ epoca non si aveva
ancora alcun sentore della
“soluzione finale” architettata dai nazisti, il regime fascista era solo agli inizi della
campagna per la “difesa della
razza” ed aveva decretato
“soltanto” che gli ebrei non
potevano avere impieghi o
mansioni pubbliche. Molto
saggiamente Enzo preferisce
lasciare questo Paese divenuto inospitale e cerca lavoro in
Bolivia dove “i governanti
militari dopo la Guerra del
Chaco (1932-35) erano fra i
pochi che accettavano di ricevere gli ebrei, e in più,
quando si trattava di medici,
di offrir loro anche un lavoro”
come dice Lupo Cajias.
Un ricco e prezioso contributo alla cura
della malattia mentale sia attraverso
gli psicofarmaci, sia con la terpia psicoanalitica
Enzo abbandona dunque rapidamente anche l’Italia in cui
si era rifugiato e va con sua
moglie in Bolivia, dove fra difficoltà di ogni genere, (anche
perchè la sua patria, la Germania, lo aveva privato della
cittadinanza, per cui egli era
dichiarato “apolide”), trova il
modo di fare il medico per otto anni, dal 1938 al 1946, fino
a quando, finita ormai la
guerra e precipitati i regimi
che l’avevano scatenata, decide di tornare in quell’Italia
che aveva scelto come patria
in gioventù e che nel frattempo gli eserciti alleati avevano
liberato dal giogo tedesco e
dalla dittatura fascista.
Appena arrivato in Bolivia,
detiene uno dopo l’altro alcuni incarichi “ufficiali” per pochi mesi, passando rapidamente dalla carica di Direttore della sanità della provincia
di Zudanez a quello di “assistente ad honorem” nel Manicomio nazionale Pacheco, poi
a quella di Ispettore dell’Ufficio d’Igiene della Città e Provincia di Oruro. La sua condizione di “apolide” gli impediva di essere assunto regolarmente da un Ente pubblico,
mentre la sua aspirazione era
quella di dedicarsi alla cura
dei lavoratori senza dover
stabilire una relazione privata, basata sul danaro.
Anzichè rassegnarsi a fare la
professione privata va a fare
il medico dei lavoratori delle
miniere, che sono gestite da
privati. Lì lavora intensamente per sei anni, fin quando
decide di tornare in Italia,
dove fa il medico specialista
in Neuropsichiatria della Mutua aziendale della Fiat, pur
frequentando la Clinica della
Malattie nervose e mentali di
quella Università di Torino in
cui si era laureato. È tuttora
senza patria, “apolide”, e come tale non può essere assunto nelle amministrazioni
pubbliche, nei luoghi cioè
* Il Fondo Arian, donato da Giorgina Levi Arian e comprendente le pubblicazioni e la biblioteca del marito, consiste di 221 volumi e 75 estratti di
riviste, in varie lingue e su vari argomenti: neurofisiopatologia, psicologia sperimentale, psicoanalisi, psicologia del lavoro, donati nel 1966 al Comune di Firenze come gesto di solidarietà dopo l'alluvione, e di relazioni e riviste di carattere etnografico che E. Arian aveva scritto in Bolivia, donati nel 1996.
Storia della medicina
N. 165 - 2007
che lui considera gli unici
adatti a compiere il proprio
lavoro senza particolari fini
di lucro personale, al servizio
dei lavoratori.
Così anche dopo la fine della
guerra ed il suo ritorno in
Italia dove pure si era laureato – con lode e dignità di
stampa della sua tesi – non
può essere nominato assistente, neppure volontario,
della Clinica delle Malattie
nervose e mentali, nella quale esplica la sua attività di
studioso e di ricercatore, come attesta il Direttore, Prof.
Dino Bolsi, nel 1958, dichiarandolo meritevole del conferimento della libera docenza
in Psichiatria.
Anche dopo aver finalmente
conseguito la libera docenza
e nel 1963, due anni prima
della morte, la cittadinanza
italiana, il professor Enzo
Arian seguita a fare il medico
restando sempre a contatto
diretto con la gente che lavora, e rifiuta la professione
privata preferendo seguitare
a dedicarsi professionalmente
alla assistenza mutualistica
istituita dalla Fiat, nelle more
di quella assistenza sanitaria
che lo Stato –come lui sostiene fermamente – dovrebbe
garantire a tutti i cittadini.
Ma questo non gli impedisce
di seguitare a studiare intensamente e a pubblicare i risultati delle sue osservazioni.
Le pubblicazioni di questo
periodo sono una settantina,
compresi la traduzione di due
importanti volumi, uno dal
tedesco all’italiano di David
Katz (La Psicologia della forma, con la prefazione di Cesare Musatti), l’altro dall’italiano al tedesco (Die verwirrthheitszzustanende, di
Gomirato e Gamna), un’antologia della dottrina dell’attività nervosa superiore nella
Medicina sovietica ed alcuni
lavori pubblicati fra il ‘60 ed
il ‘65.
Dalla sua attività in Bolivia
sono due grossi lavori in spagnolo sulla rivista Proteccion
Social: uno in due parti, dedicato a “La lucha contra el bocio”, cioè la lotta contro il
gozzo, una delle gravi malattie determinate soprattutto
dalla miseria e dalla ignoranza, ed un altro in dieci parti,
scritto negli anni dal 1941 al
1944, dedicato a “La reorganisacion de los servicios de
higiene y profilaxia en Bolivia”.
Questi lavori testimoniano il
profondo impegno civile che
ha orientato anche in quegli
anni, tutta e sempre, la sua
attività professionale e la sua
ricerca scientifica.
Gli altri sessanta lavori sono
pubblicati su varie riviste italiane dal 1948 al 1960, ad
esclusione di due: uno pubblicato nel 1956 insieme al
Prof. Gomirato sulla rivista
francese L’Encephale che è la
comunicazione preliminare
delle loro ricerche sperimentali su alcuni effetti terapeutici degli a quel tempo nuovissimi ed unici “psicofarmaci”, il largactil ed il serpasil,
(la cloropromazina e la reserpina), e di un altro del 1958
di chiara impronta sociale,
pubblicato su di una rivista
austriaca dal nome impronunciabile e che tratta delle
nevrosi provocate dai nuovi
metodi di produzione industriale.
Un primo gruppo di lavori
pubblicati in Italia dal 1948
al 1951 è costituito da una
dozzina di articoli che riguardano il metodo patergometrico applicato al campo neuropsichiatrico; un secondo
gruppo di 20 lavori pubblicati
dal 1948 al 1958 riguarda gli
effetti dei trattamenti “eroici” allora in auge per il trattamento – non vorrei dire la
cura – dei malati di mente:
vari tipi di annientamento
più o meno momentaneo e
completo della coscienza con
diversi metodi, dalla insulina
alla corrente elettrica.
Un terzo gruppo è formato da
lavori di vario argomento:
quello sul “valore dei metodi
di investigazione biologica ai
fini della interpretazione somatica dei fenomeni psicologici” alla “recente discussione sulla teoria di Speranskij”,
da quello su “Psichiatria e
cattolicesimo”a quello su
“Medicina pedagogica e psichiatria infantile”,
Un quarto gruppo di lavori riguarda aspetti di igiene mentale: la prevenzione dei delitti nei malati mentali, l’attività della clinica delle malattie nervose e mentali nel
campo dell’igiene e profilassi
mentale; l’anamnesi prossima
dei malati mentali rei di delitti contro la persona; le
neurosi da surmenage “pure”
e nuovi metodi di produzione
industriale; le neurosi da surmenage in rapporto alla rottura dello stereotipo lavorativo (nel quale ritorna il suo
spiccato interesse per il sociale); l’assistenza ai piccoli
malati mentali, in collaborazione con i cattedratici Bolsi
e Gomirato; la “modificazione
delle risposte a un test
proiettivo (Rorschach) in rapporto ad alcune variazioni
dell’attività nervosa superio-
Sae l ute
Territorio 345
re sperimentalmente indotte”
in collaborazione con A. Zanalda; nel 1961 sulla “cooperazione fra la Psichiatria e le
altre discipline nell’igiene e
profilassi mentale” su Minerva Medica e nel 1963, la assistenza psichiatrica ed il Servizio sanitario nazionale.
Un quinto gruppetto ancora
riguarda la esposizione teorica
e l’insegnamento: nel ‘58 pubblica un libretto per Minerva
medica dal titolo “Elementi di
Psicologia clinica”; due anni
prima aveva pubblicato sulla
stessa rivista “Un dibattito
sull’insegnamento della Psichiatria” e nel 1965, negli Atti
del XV Congresso degli Psicologi Italiani “La Psicologia patologica del pensiero”.
Alcuni dei suoi lavori riguardano in vario modo la valutazione critica dell’attività psicoterapeutica, della efficacia
cioè che può avere il rapporto
che si instaura fra il medico
ed il paziente, a prescindere
dalle terapie con medicinali
od altri interventi fisici.
In tutti i lavori che ho letto
ho apprezzato la sua chiarezza, il suo spirito critico ma
non distruttivo, la sua disponibilità ad accettare quanto
di nuovo incontrava, cercando di giudicarlo senza pregiudizi. Certo un uomo del suo
tempo, pieno di speranza in
un futuro migliore per un’umanità che avesse scelto di
mettere in pratica le idee di
Marx ed Engels, quando ancora non erano note le aberrazioni alle quali aveva portato
nella Russia sovietica il “socialismo reale”, che allora era
per molti in buona fede un
faro di civiltà.
Parlerò soltanto dei lavori che
mi hanno maggiormente inte-
l ute
Sa
e
346 Territorio
ressato; data la mia professione, quelli che riguardano la
psicoanalisi: non tanto quello
del 1960 “Su alcune valutazioni marxiste della psicoanalisi”, quanto il primo, fatto
giusto cinquanta anni fa, “Validità della psicoanalisi”, che
inizia dicendo: “Il modo migliore di rendere omaggio a
Freud nel primo centenario
della sua nascita ci pare la valutazione della sua opera
scientifica”. Dispiace sentirgli
scrivere (p. 7) che “il retaggio
scientifico di Freud è diventato uno strumento al servizio
del conservatorismo sociale e
la psicoanalisi una ideologia
reazionaria”, ma fa piacere
quando scrive, poche righe
sotto, che “al medico che vuole aiutare gli uomini sofferenti e contribuire, attraverso la
sua ricerca e la sua prassi clinica, al rinnovamento della
società, incombe il compito di
raccogliere e mettere a frutto
le molte verità relative e conquistate dalle cento e cento
scuole che hanno operato prima di lui e operano accanto a
lui, senza respingere alcuna
di esse in via pregiudiziale ed
assoluta, neppure quella psicoanalitica”.
Dopo avere per undici fitte
pagine esposto che “il carattere antistorico dogmatico
della psicoanalisi, che si manifesta nel concetto dei complessi (pilastro cardinale del
sistema freudiano), è da considerare uno dei difetti metodologici che inficiano le basi
stesse della dottrina psicoanalitica”, sempre a pag. 11
prosegue “purtuttavia ci accostiamo con attenzione, riverenza e modestia alla monumentale opera di Freud per
individuare in essa quelle
Storia della medicina
leggi e quelle tesi che si sono
confermate valide sul piano
clinico nella psicoterapia delle neurosi in molti anni di
nostra esperienza personale e
nella documentazione raccolta nell’Ambulatorio di Psicoterapia della Clinica delle Malattie nervose e mentali della
Università di Torino”.
Già nel 1948 aveva scritto un
lavoretto su questa esperienza che mi ha interessato molto, sia per l’epoca direi antidiluviana per l’Italia nella
quale è stata fatta, sia per la
posizione molto empirica che
prende il Nostro: da una parte rifiuta decisamente tutto
quanto odora di teoria psicoanalitica, dall’altra afferma
l’importanza della psicoterapia come trattamento di elezione delle nevrosi vere e
proprie, della quali riconosce
l’origine e la patogenesi “psicogena”, che provoca poi alterazioni organiche da meglio
e più completamente studiare: una psicoterapia da organizzare seriamente e da erogare da un ente di assistenza
pubblica, nella fattispecie la
mutua aziendale FIAT che paga le sedute di psicoterapia
offerte ai lavoratori, una psicoterapia della quale vanta
risultati importanti, ancorchè limitati a precise indicazioni diagnostiche.
In quegli stessi anni nella Clinica delle Malattie nervose e
mentali della Università di Firenze il Direttore, a me giovane assistente volontario che
gli manifestava il suo interesse per la psicoterapia e la psicoanalisi, aveva risposto che
nella sua Clinica si facevano
cose serie e dunque non c’era
posto per chi avesse voluto
occuparsi di qualcosa che non
N. 165 - 2007
fosse lo studio delle alterazioni organiche che avevano
causato la malattia e quelle
che da essa poi erano prodotte: di psicoterapia e di psicoanalisi neanche parlarne).
Nel lavoro sulla validità della
psicoanalisi Enzo Arian afferma che “della teoria freudiana sull’etiologia delle neurosi
rimane valido l’assetto cardinale, che le cause decisive
delle neurosi per lo più risiedono nei conflitti psicologici
i quali formano i nuclei costitutivi dei complessi patogeni.
Ne consegue la norma, che
per aggredire terapeuticamente le neurosi, bisogna in
primo luogo individuare e risolvere i conflitti patogeni”
(p. 15); riconosce a Freud “il
merito originale di aver rilevato la grande importanza
che per la condotta patologica del neurotico (come pure
per la condotta normale dell’uomo sano) ha la vita sessuale: l’intensità e l’orientamento delle pulsioni erotiche, le abitudini, le esperienze, le soddisfazioni, le frustrazioni, le fantasie e le pratiche sessuali”; prosegue riconoscendo “la grande importanza che ha la prima infanzia per la formazione della
personalità neurotica (e normale)” (da p. 19).
Da questo punto fino alla fine
del suo lavoro, Enzo Arian si
dà da fare per confutare tutta
“la teoria psicoanalitica”,
concludendo che non si sente
affatto di sottoscrivere il paragone che è stato fatto da
alcuni tra Freud e Copernico,
perchè Freud “si colloca al
contrario alla chiusura della
psichiatria del passato, che
opera in ampia misura sulla
base di intuizioni, astrazioni
teoriche e speculazioni”... ed
“ha fornito armi ideologiche
non alle nuove forze che nella società contemporanea sono in divenire, bensì alle forze egemoni vecchie in via di
involuzione, armi per la loro
lotta di conservazione e sopravvivenza contro l’ascesa
delle forze nuove pronte a
trasformarsi da subalterne in
dirigenti”, concludendo che
“ricordiamo ed onoriamo
Freud”... “come uno degli ultimi grandi pensatori di un’era storica al tramonto”.
In un lavoretto del 1963,
estratto dagli Atti del Convegno su Riforma sanitaria e sicurezza sociale, dal titolo
“L’assistenza psichiatrica e il
Servizio sanitario nazionale”,
enumera molto lucidamente
le magagne della situazione
italiana allora: “in Europa l’Italia si trova al penultimo
rango per quanto riguarda il
numero di posti-letto psichiatrici per 1000 abitanti...
ci sono 160.000 ricoverati,
280 Primari e non più di 1000
altri fra aiuti e assistenti...
buona parte di questi medici
sono psichiatri di grande valore, che con dedizione e non
di rado con personale sacrificio e con ingegnosità (spesso
aiutati con ingenti fondi dalle Amministrazioni provinciali) cercano di dare una certa
impronta clinica ai loro istituti: ma i loro tentativi patetici sono quasi sempre condannati al fallimento... gran
parte della colpa ricade sulla
legislazione... poliziesca, per
cui gli ospedali psichiatrici
continuano a rassomigliare
più a reclusori... cittadini e
medici considerano il ricovero
una sciagura gravida di deleterie conseguenze, per cui la
Storia della medicina
N. 165 - 2007
tendenza ad occultare la malattia e l’ammalato mentale il
più a lungo possibile... le forze che si oppongono alla
riforma della legge sono essenzialmente quelle dei proprietari delle Case di cura psichiatriche private”. Se questi
problemi sono gravi, gravissimi e complicatissimi sono i
problemi della “piccola psichiatria extraospedaliera “
per cui auspica che “i comunisti italiani si mettano alla
testa di un vasto movimento
di massa per il Servizio sanitario nazionale”... studiando
attentamente gli esempi di
alcuni Paesi, non solamente
quello della Unione Sovietica
dove l’assistenza psichiatrica
ha raggiunto livelli altissimi e
per ora difficilmente imitabili, ma anche e soprattutto altri...” ed enumera l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti.
Dell’assistenza psichiatrica in
alcuni di questi Paesi in quel
tempo avevo avuto anche io
qualche notizia: a Losanna ed
a Innsbruck nel corso di un
viaggio di studio compiuto
con Mario Barucci, nei primissimi anni in cui venivano
utilizzati i primi psicofarmaci
(la cloropromazina e la reserpina) e ricordo il nostro stupore nel frequentare quegli
Ospedali psichiatrici che, a
differenza dei nostri di allora,
erano civili, puliti, ordinati,
silenziosi, in buona parte anche operosi; e poi a Portsmouth, a Londra e a Parigi
nel corso di ripetute visite.
Dalla Francia – da una fronda
di psichiatri che hanno rifiutato lo “statu quo” dei loro
Manicomi – è partito il movimento di profonda educazione del personale curante che
insieme ad alcuni colleghi,
ma soprattutto con l’aiuto determinante di alcuni insegnanti elementari, infermieri
psichiatrici ed assistenti sociali abbiamo cercato di introdurre nel nostro Paese, fino a
quando la marea montante
della generosa ideologia basagliana ha portato alla chiusura dei manicomi, ma non ha
potuto far altro che impostare meglio il problema concreto della cura delle persone
che soffrono, problema che
Sae l ute
Territorio 347
richiede un impegno personale così importante da parte di
tutti i curanti, e così gravoso
dal punto di vista economico,
tanto da venir spesso rimandato.Ma questo è un altro discorso, che esula dal tema.
Con quanto finora accennato
mi sembra di aver offerto elementi sufficienti a comprendere ed ammirare la personalità di Enzo Arian, valido medico che lavora “sul campo”,
onesto e forte testimone del
suo tempo.
I suoi lavori e la sua biblioteca sono ora custoditi e resi
fruibili presso la Biblioteca
“Vincenzo Chiarugi” dell’Azienda USL 10 di Firenze, già
biblioteca dell’Ospedale psichiatrico di San Salvi.
l ute
Sa
e
348 Territorio
Stefania Vaccari
Didatta ordinario supervisore
riconosciuto dalla FISIG,
Istituto Gestalt Firenze
Dirigente psicologo,
Azienda sanitaria di Firenze
U
no dei concetti fondamentali, per comprendere lo schema di sviluppo infantile, è “l’attaccamento”. Cioè: “quella forma di
comportamento che si manifesta in una persona che consegue e mantiene una prossimità nei confronti di un’altra
persona, chiaramente identificata e ritenuta in grado di
affrontare il mondo in modo
adeguato” (Bowlby J. 1988).
Il legame di attaccamento
promuove e consente l’evoluzione di una serie di comportamenti di ricerca della prossimità e di mantenimento del
contatto nei confronti del referente del legame che vengono a costituirsi come patrimonio autonomo e personale
dell’individuo. Tale patrimonio consente ad un soggetto
della specie umana la possibilità di relazione e di contatto
con l’altro.
Vi è una spinta del piccolo alla socializzazione e una sensibilità materna nel cogliere i
messaggi e le esigenze del
bambino che sono alla base
*
Servizi sociali
N. 165 - 2007
Madri a rischio*
della formazione del suo sé
sociale.
La conoscenza del bambino si
organizza in “modelli operativi interni” di sé, della madre e dello stato affettivo associato alla relazione.
Alla luce di tale teoria, il ruolo della madre o di un suo sostituto, quale “base sicura”
per favorire lo sviluppo del
piccolo, è basilare.
Al fine di disporre, in questo
settore, di ulteriori elementi
tecnici, preventivi e curativi,
oltre quelli proposti dalla letteratura, è stato predisposto
uno studio per approfondire
come specifiche difficoltà
della madre possano condizionare l’espressione delle
sue competenze parentali.
In altre parole, come specifici
problemi della madre influenzino la sua possibilità di essere “base sicura” per il proprio
figlio.
Comprendere “tale influenza”
e predisporre precocemente
interventi affinché essa sia, il
più possibile positiva, crediamo abbia un alto livello pre-
Uno studio sulle problematiche di donne
inviate dai Servizi sociali in una casa
di accoglienza
ventivo per migliorare lo sviluppo infantile.
Dati e analisi proposte
I soggetti del presente studio
sono stati esaminati presso
una Comunità di accoglienza
per madri problematiche ed i
loro figli.
Lo studio, retrospettivo, riguarda il periodo 19892002/4.
Sono stati analizzati i dati di
utenti entrate in un Istituto
fino alla data del 31 dicembre
2002 e i cui percorsi si sono
protratti fino al febbraio 2004.
Le donne esaminate sono 147.
È stato analizzato innanzi
tutto nel gruppo totale di
donne in quale quantità (valore numerico assoluto e percentuale) sono presenti le
problematiche.
È stata fornita quindi una di-
stribuzione quantitativa delle
donne assemblate secondo la
tipologia delle problematiche
presentate ad inizio percorso
(“donne con problemi psichiatrici”15, “donne con problemi sociali” 95, “donne con
problemi di dipendenza da
sostanze”13 e “donne multiproblematiche” 24).
Successivamente è stata evidenziata come tale distribuzione si modifica ad una successiva osservazione più attenta e continua all’interno
dell’Istituto (“donne con problemi psichiatrici”14, “donne
con problemi sociali” 81,
“donne con problemi di dipendenza da sostanze”13 e “donne multiproblematiche” 39).
È stato poi descritto come le
variabili: presenza o meno del
Decreto del Tribunale dei Minorenni, obiettivi**, età, pro-
Lo studio completo è disponibile su Stefania Vaccari (a cura di), “Percorsi di madri”, Numero Monografico di “Formazione in Psicoterapia
Counselling Fenomenologia”, N° 8, novembre/dicembre 2006 (pp. 133).
** Gli obiettivi che i tecnici si propongono per una madre nella Comunità, sono “supporto” o “verifica”.
In caso di obiettivo di supporto, pur in una situazione a rischio, i Servizi competenti hanno osservato la presenza di competenze parentali adeguate
e reputano utile sostenere la madre affinché le potenzi o le esprima.
In caso di obiettivi di verifica invece i Servizi competenti hanno evidenziato precise difficoltà di espressione nelle competenze parentali ed inviano
la donna in Istituto affinché sia verificato se, in un contesto di protezione e stimolo, emergono possibilità parentali che non si erano potute manifestare in contesti problematici.
Servizi sociali
N. 165 - 2007
venienza, numero dei figli,
tempo di permanenza in Istituto, rapporto con i servizi invianti e affidamento dei figli
alla madre. Si distribuiscono
(valore numerico assoluto e
percentuale) nel gruppo totale e nei sottogruppi di donne
assemblate secondo le problematiche presentate alla prima
e/o successiva osservazione.
Successivamente è stata presentata una possibile “misurazione” della “dimensione
personale” e della “dimensione genitoriale” delle madri
nel gruppo totale e nei sottogruppi di donne assemblate
secondo la tipologia delle
problematiche presentate.
Tale “misurazione” è stata effettuata ad inizio e fine percorso del esaminato.
La “dimensione personale” è
stata articolata secondo le seguenti variabili:
1. Presenza di un partner
con cui condividere l’esperienza genitoriale.
2. Un rapporto positivo con
sé stessa anche in termini di capacità di curarsi.
3. Capacità di avere un rapporto positivo con le altre ospiti della casa quale
segnale della capacità di
avere positivi scambi sociali.
4. Rapporto positivo con gli
educatori quale segnale
della capacità di avere
rapporti adeguati con “figure autorevoli” e della
capacità di chiedere e accettare aiuto.
5. Capacità domestiche quale segnale di saper tenere
una abitazione e provvedere quindi alle necessità
dei congiunti.
6. Autonomia sociale.
7. Lavoro.
8. Scolarità.
9. Rapporto con la famiglia
di origine quale capacità
di tenere i contatti familiari e offrire al piccolo
altre risorse relazionali.
La “dimensione genitoriale” è
stata articolata secondo le seguenti variabili:
1. Qualità delle cure routinarie: la madre è in grado
di espletare le cure di
routine quotidiane come
cambiare il bambino, farlo dormire, alimentarlo
ecc.
2. Gioco: la madre è capace
di giocare con il bambino
e far giocare (stimolare)
il bambino.
3. Riconosce i bisogni del
figlio: la madre riconosce
ciò di cui il bambino ha
bisogno; mangiare, dormire.
4. Risposte adeguate: la
madre sa rispondere in
modo adeguato al bambino; si riferisce alla capacità di rispondere in modo corretto, anche emotivamente, al bambino e di
rapportarsi a lui in modo
coerente.
5. Capacità di essere modulate: la madre è capace di
modulare i propri comportamenti e le proprie
azioni in rapporto alle
esigenze del bambino
adeguandosi al ritmo del
piccolo.
6. Capacità predittiva: La
madre è capace di anticipare le possibile richieste
del bambino organizzandosi per soddisfarle adeguatamente.
7. Coerenza; la madre si sa
comportare in modo coerente senza alternanza di
atteggiamenti e reazioni
8.
9.
10.
11.
12.
13.
(ora affettuosa, ora aggressiva).
Pazienza; la madre interagisce in modo paziente
con il bambino, ovvero
non perde subito la pazienza quando ad esempio il bambino piange, o
non si calma subito, o se
il bambino non vuole
mangiare ecc.
Contenimento: la madre è
capace di tranquillizzare
e contenere i momenti di
ansia o di sconforto del
bambino.
Soddisfazione: la madre
mostra un atteggiamento
e un sentimento di soddisfazione per il bambino e
per il suo rapporto con
lui.
Grado di coinvolgimento:
si riferisce al grado e al
livello con cui la madre si
dedica al bambino sia per
tempo che per intensità e
interesse.
Approvazione: la madre è
capace di sostenere e incoraggiare il bambino in
ciò che fa (scoperte, acquisizioni).
Tono affettivo dell’interazione tra madre e figlio: la madre è capace di
una relazione qualitativamente positiva con il
piccolo. Si riferisce alla
sfera emotiva e affettiva
dell’interazione.
Riflessioni
Le riflessioni proposte, sono
riferibili solo al gruppo di
donne esaminate nel presente lavoro.
Quanto proponiamo infatti
non è riferibile all’universo di
donne possibili, raggruppate
secondo i tipi di problemi evidenziati dal presente studio.
Sae l ute
Territorio 349
Con la forma espressiva “donne tossicodipendenti”, si possono intendere donne che,
pur avendo come sintomo comune l’uso di sostanze d’abuso, hanno strutture di personalità molteplici. Sottolineiamo che anche, “il comune uso
di sostanze”, può essere diverso per quantità, qualità e
stile di vita legatovi.
Con la forma espressiva
“donne con problemi psichiatrici” si possono intendere
donne che manifestano sintomi psichiatrici diversissimi
e hanno molteplici strutture
di personalità.
È comunque vero che i dati
raccolti ci mostrano alcune
“tendenze” specifiche, nei
vari gruppi di donne raggruppate secondo determinate tipologie di problemi, sottese
dagli invii dei Servizi che se
ne fanno carico.
Le “tendenze” individuate nei
vari gruppi di donne evocano
“una maggiore o minore possibilità di recepire aiuto in un
tempo dato”. Si sottolinea che
in questo studio parliamo della possibilità di recepire aiuto/”trattabilità “– in senso
relativo e non assoluto.
Tale “trattabilità” è riferita al
possibile al recupero del rapporto con quel bambino in
quel tempo dato (nelle specifiche situazioni di questi 147
casi).
Sia nel senso che, quel bambino di quella specifica età,
al di là dei tempi di recupero
della madre, ha specifiche necessità di cura e sostegno legate a linee di sviluppo quale
piccolo della specie umana.
In lui precisi schemi evolutivi
possono essere facilitati da
precisi schemi di relazione offerti in momenti sensibili del
l ute
Sa
e
350 Territorio
suo percorso di crescita.
Sia nel senso che anche per la
donna la possibilità di recepire aiuto è quella legata a
quella fase della sua vita.
In tempi diversi, con congiunture particolari, la possibilità di recepire aiuto di
quella donna potrebbe essere
diversa sia nella sua globalità
sia nello specifico delle sue
possibilità parentali.
Pertanto, in questo contesto,
quello che si intende per possibilità di recepire aiuto/
”trattabilità”, è la possibilità
specifica di, “recupero o formazione” di un rapporto “sufficientemente buono”, con
“quel piccolo” tenendo conto
delle sue necessità evolutive
di questi e delle risorse della
madre in quel momento specifico della sua vita.
Tempi non legati a questo specifico recupero potrebbero
permettere configurazioni diverse, ma ciò non è comunque
oggetto del presente studio.
Se quindi, da un lato, quanto
presentato ha carattere circostanziato, dall’altro, alcuni
dati emersi potrebbero essere
utili a noi operatori, per porre attenzione ad alcuni elementi piuttosto che ad altri
quando dobbiamo operare
con madri/donne problematiche nella fase di definizione
di un progetto terapeutico
possibile e percorribile.
È necessaria molta attenzione
al fine di poter tutelare noi
tecnici e le utenti da ipotesi
onnipotenti a cui possono seguire pesanti insuccessi progettuali da gestire con enormi difficoltà.
Insuccessi progettuali che
possono rendere noi tecnici
poco credibili ed affidabili
per continuare con quella de-
Servizi sociali
terminata donna una relazione terapeutica.
Nello stesso tempo le riflessioni e i dati che proponiamo
ci possono aiutare ad aver minori pregiudizi e preclusioni.
Essi ci possono permettere di
saper vedere risorse parentali
al di là della presenza di particolari tipi di disagio e/o stili di vita.
Donne con problemi psichiatrici
Lo specifico gruppo “donne
con problemi psichiatrici” del
presente studio si configura
con le seguente caratteristiche: sono tutte in carico ai
Servizi di salute mentale da
tempo o inviate in Istituto
dopo un ricovero nel Servizio
psichiatrico di diagnosi e cura ospedaliero per una crisi
psichiatrica importante. Al di
là della specifica diagnosi,
sono donne con il senso di
identità compromesso e con
scarso senso di realtà. In questo gruppo, gli ingressi in
Istituto accompagnati da Decreto del Tribunale dei minorenni raggiungono la percentuale più alta dei quattro sottogruppi (71,4%). Tali donne
entrano nella Comunità di accoglienza, con obiettivi di
verifica in percentuale inferiore (57,1%) a quella raggiunta dai soggetti del gruppo delle “tossicodipendenti”
(69,3%) e delle “multiproblematiche” (82,1%), ma, durante il percorso, osservate
nella quotidianità, raggiungono la percentuale più elevata di obiettivi di verifica
(78,6%).
Tali donne hanno, mediamente, il numero più basso di abilità della “dimensione personale” ad inizio percorso (3,21
N. 165 - 2007
su 9) e anche a fine percorso
(4,50 su 9) rispetto alle donne degli altri gruppi. Hanno
anche l’incremento medio minore (+1,29). Sempre nella
“dimensione personale” le
competenze legate a possibili
relazioni con un compagno
(partner 7,1% inizio percorso
21,4% fine percorso) o con altre donne (compagne 14,3%
inizio percorso 35,7% fine
percorso) sono presenti in
una bassa percentuale. È presente in percentuale più alta
la capacità di avere rapporti
positivi con gli educatori
(42,9% inizio percorso e 50%
fine percorso) probabilmente
in una ottica di dipendenza o
nella ricerca di una possibile
“base da cui ri/partire” e di
autonomia sociale (50% inizio percorso e 57,1% fine percorso).
La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale ” sia ad inizio che a
fine percorso è bassa (2 abilità su 13 ad inizio percorso e
3 su 13 a fine percorso). Colpisce la mancanza di presenza della competenza “adeguatezza” in tutti i soggetti
di questo gruppo a inizio percorso (0%).
Tale competenza è invece
presente a fine percorso nel
23,1% di queste donne.
Probabilmente tale competenza si modifica in misura
accettabile perché, forse, in
un contesto protetto tali
donne imparano formalmente
una serie di comportamenti
corretti o forse perché con
una guida continua sono meno ansiose e quindi, sentendosi protette, riescono ad essere maggiormente adeguate.
Le competenze della “dimensione genitoriale” più legate
alla “possibilità di relazione”
non hanno alcun incremento
durante il percorso esaminato. La competenza “contenimento” è presente ad inizio
percorso nel 7,7% delle madri
di questo gruppo e durante il
percorso nessun soggetto acquista la competenza di contenere i momenti di sconforto
del figlio. Le competenze
“soddisfazione”, “coinvolgimento” e “approvazione” sono presenti ad inizio percorso
nel 23,1 % dei soggetti di
questo gruppo ma nessuna
altra madre acquista tali competenze della “dimensione
genitoriale” durante il percorso esaminato.
Si può ipoteticamente dedurre che, per tali donne, la scarso senso di identità personale, le difficoltà di scambio e
relazione su di un piano di
realtà non permetta loro l’esercizio di quelle abilità della
“dimensione genitoriale” che
consentono “relazione ed empatia” con il proprio piccolo
È interessante notare che in
questo gruppo di donne ad
inizio percorso vi è una percentuale più alta di obiettivi
di supporto (42,9%) rispetto
a quella rilevata nel gruppo
delle donne “multiproblematiche”(17,9%) e “tossicodipendenti”(30,7%)
Durante il percorso in Istituto
però, in tale gruppo di donne
gli obiettivi di supporto sono
presenti in percentuale inferiore (21,4%).
È probabile che lo stile di vita
accettabile che queste donne
conducono, induca gli operatori a pensare ad una “possibile trattabilità” per un recupero delle competenze genitoriali; “trattabilità” che poi
non si manifesta.
Servizi sociali
N. 165 - 2007
Il tempo medio (6.0 mesi)
che le donne di questo gruppo trascorrono in Istituto, è
quello più basso dei quattro
gruppi.
Si può ipotizzare che, dopo un
breve periodo iniziale in cui
tali donne cercano di mostrare il meglio di sé, appaiono
chiaramente le loro difficoltà
a svolgere adeguatamente l’esercizio del ruolo genitoriale.
Forse tali madri, poco contrappositive e più disposte a
”dipendere” dagli operatori,
se gestite con professionalità
tatto e competenze adeguate,
da tecnici che gestiscono il
caso (sia quelli dell’Istituto
che quelli dei Servizi), possono accettare le decisioni istituzionali circa il loro futuro
genitoriale in tempi relativamente adeguati.
A fine percorso le donne che
non ottengono l’affidamento
dei figli sono in percentuale
maggiore (71,5%).
A questo proposito, si sottolinea come per noi operatori
che trattiamo questi casi nei
Servizi, sia necessario acquisire strumenti tecnici per “accompagnare” le madri durante una eventuale separazione
dai propri figli. È necessario
avere strumenti per contenere il loro dolore.
È indispensabile elaborare la
loro incapacità ad accudire il
figlio, permettendo loro di
mantenere integro il senso di
“dignità personale”.
È bene ricordare che, in questi casi, parte del dolore della
separazione è legato alla
identificazione della madre
con il figlio quale possibile
immagine del proprio io fragile ed addolorato.
Dare alla donna da parte degli operatori un possibile pro-
getto positivo riguardo al figlio, potrebbe aiutarla ad
avere la “fantasia di un possibile progetto positivo anche
per sé stessa”.
Il porre attenzione a tali
aspetti ha un valore altamente terapeutico per la parte sofferente di quella donna
e la potrà tutelare dal ritentare altre eventuali maternità riparatrici.
Donne con problemi sociali
Le “donne con soli problemi
sociali”, rispetto alle donne
degli altri gruppi, hanno la
più bassa percentuale di ingressi in Istituto accompagnati dal Decreto del Tribunale dei minorenni (il 25,9%).
Per quanto riguarda gli obiettivi, ad inizio percorso in tale
gruppo vi è la percentuale
maggiore di obiettivi di supporto (49,8%) e la minore
percentuale di obiettivi di verifica (50,2%).
Durante la permanenza in
Istituto aumenta ulteriormente la percentuale di
obiettivi di supporto (56,8%)
e diminuisce ulteriormente la
percentuale di obiettivi di verifica (43,2%).
In tale gruppo di donne vi
sono i soggetti con l’età media inferiore (26.05 anni), la
più bassa percentuale di soggetti di nazionalità italiana
(64,2%), la più alta percentuale di soggetti europei
(13,6%) ed extraeuropei
(22,2%).
Dopo le “donne con problemi
di tossicodipendenza” sono
quelle che, rimangono in Istituto il tempo medio (8.8 mesi) e il tempo massimo (30
mesi) più elevati.
Le donne del gruppo con “soli
problemi sociali” manifesta-
no mediamente il maggiore
numero di abilità della “dimensione personale” sia ad
inizio percorso, (4,91variabili
su 9) sia a fine percorso considerato (6,86 variabili su 9)
e l’incremento medio maggiore (+1,95).
Le madri con soli problemi
sociali hanno mediamente un
significativo maggior numero
di abilità della “dimensione
personale” sia ad inizio che a
fine percorso rispetto ai soggetti dei gruppi di donne
“psichiatriche” e “multiproblematiche”.
Anche nella “dimensione genitoriale” si osservano le
stesse tendenze.
Le donne del gruppo con “soli
problemi sociali” manifestano mediamente il maggiore
numero di competenze della
“dimensione genitoriale” sia
ad inizio percorso (8,67 variabili su 13), sia a fine percorso (10,37 su 13).
Le madri con soli problemi
sociali hanno mediamente un
significativo maggior numero
di competenze della “dimensione genitoriale” sia ad inizio che a fine percorso rispetto ai soggetti dei gruppi di
donne “psichiatriche” e
“multiproblematiche”.
In tale gruppo di donne vi è la
percentuale più alta di soggetti che mantengono l’affidamento dei propri figli dopo il
percorso esaminato (il 72,8%).
Appare evidente come offrire
ai soggetti di questo gruppo,
aiuto e protezione permetta
loro di manifestare comportamenti parentali “sufficientemente buoni” e di avere un
buon recupero per quanto riguarda le precedenti inadeguatezze parentali contestate.
Sae l ute
Territorio 351
Donne con problemi di dipendenza da sostanze
Le “donne tossicodipendenti”
di questo gruppo, sono tutte
seguite dai Servizi territoriali
per la cura delle dipendenze.
Poiché tali Servizi, quando
una utente dimostra inadeguatezze parentali e la situazione è molto degradata, possono optare per un inserimento in una Comunità terapeutica, si può a ragione presumere che le “tossicodipendenti” di tale gruppo non siano tra le più gravi. Le caratterizza il fatto di essere in carico ai Servizi e di accettare
un trattamento con sufficiente continuità.
Le donne di questo gruppo
entrano in Istituto, con la
presenza di un Decreto del
Tribunale dei minorenni, in
percentuale inferiore (46,2%)
rispetto alle donne “multiproblematiche” (56,4%) e alle “donne con problemi psichiatrici” (71,4%).
Le tossicodipendenti accedono spesso autonomamente ai
Servizi per la cura delle dipendenze non fosse altro che
per richiedere la terapia farmacologica. In questo modo
mantengono un livello accettabile di rapporto con i Servizi permettendo a questi di
operare affinché una tossicodipendente con figli in difficoltà accetti eventualmente
un ingresso in Istituto senza
Decreto.
Ad inizio percorso hanno una
percentuale di obiettivi di verifica (69,3%) inferiore solo
alle donne “multiproblematiche” (82,1%), superiore quindi sia alle “donne con problemi psichiatrici” (57,1%) che
alle “donne con soli problemi
sociali” (50,2%).
l ute
Sa
e
352 Territorio
Durante il percorso, in questo
gruppo di donne aumenta la
percentuale di obiettivi di verifica (77%).
Pertanto questa nuova percentuale di presenza di obiettivi di verifica è superiore a
quella delle donne “multiproblematiche (59%) e delle
donne con soli problemi sociali” (43,2%) ma inferiore a
quella delle “donne con problemi psichiatrici” (78,6%).
Tali donne hanno mediamente una presenza di abilità
della “dimensione personale”
maggiore (4,62 variabili su 9
ad inizio percorso e 6,00 variabili su 9 a fine percorso)
sia rispetto alle “donne con
problemi psichiatrici”che alle
donne “multiproblematiche”.
Durante il percorso considerato però, hanno un aumento di
tali abilità mediamente inferiore (+1,38) a quello riportato dal gruppo di donne “multiproblematiche” (+1,87).
Merita attenzione la bassa
percentuale (23,1%) di donne
che in questo gruppo ad inizio percorso hanno un rapporto positivo con sé,cura
della propria persona e senso
di adeguatezza personale.
È bene ricordare come sia
specifico delle donne che
abusano di sostanze la poca
cura della propria persona e
della propria immagine. Ciò è
anche legato allo stile di vita
specifico di questo stato.
Ad inizio percorso in questo
gruppo è degna di nota la bassa percentuale (15,4%) di soggetti in possesso di un lavoro.
È anche bassa la percentuale
(15,4%) di soggetti che ad
inizio percorso hanno rapporti positivi con la famiglia di
origine.
Durante il percorso conside-
Servizi sociali
rato, in questo gruppo, una
buona percentuale di donne
(46,2%, a fine percorso con
un incremento del 30,8%)
riesce a recuperare tale rapporto suggerendo che uno
stile di vita diverso della donna che abusa di sostanze, (in
assenza di altri nuclei patologici che questo gruppo di tossicodipendenti sembrerebbe
non avere) può permettere
un buon recupero in questo
ambito di vita.
La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale ” è inferiore solo a
quella delle donne”con soli
problemi sociali” (6,42 competenze su 13 ad inizio percorso e di 8,42 competenze
su 13 a fine percorso).
In questo gruppo le madri
hanno mediamente più competenze delle “donne con
problemi psichiatrici” e delle
“donne multiproblematiche”,
sia ad inizio che a fine percorso.
Tali donne hanno in questa
dimensione l’incremento medio maggiore (+2.00) di tutti
i gruppi.
I soggetti appartenenti al
gruppo di donne con problemi
di abuso di sostanze hanno a
fine percorso una quantità
media di competenze della
“dimensione genitoriale” significativamente maggiore rispetto al gruppo di “donne
con problemi psichiatrici”.
Tali donne probabilmente, in
uno spazio protetto in cui le
regole sono definite e in cui
possibili spazi di fuga sono
vincolati, riescono ad attivare comportamenti parentali
corretti.
Si può ipotizzare vi sia in
queste gruppo un “io” sufficientemente integro da per-
N. 165 - 2007
mettere loro di riconoscere le
necessità del figlio.
Le donne di questo gruppo rimangono in Istituto mediamente più a lungo (10.8 mesi). In questo gruppo vi è anche il soggetto che è rimasto
in Istituto il tempo massimo
(42.00 mesi).
È probabile che nei periodi di
astinenza tali donne dimostrino comportamenti parentali sufficientemente adeguati, inducendo negli operatori
valutazioni positive. Allorché
si verificano ricadute, (le
donne in Istituto possono
uscire secondo tempi e modi
concordati con gli operatori)
tali donne manifestano verso
i figli, al di là delle modalità
personali, la “tipica trascuratezza” che spesso si accompagna al loro stile di vita.
Si può ipotizzare che i tempi
mediamente più lunghi di
permanenza siano dovuti al
dover verificare il raggiungimento di stabili e adeguati
comportamenti parentali.
Si può anche aggiungere che
spesso donne tossicodipendenti di questa tipologia manifestano comportamenti
contrappositivi.
È possibile quindi che quando
gli operatori verificano e sottolineano la loro inadeguatezza, tali donne non riconoscano i loro problemi, (anche
perché quando usano sostanze percepiscono una immagine di sé onnipotente che a
volte credono reale).
Diventa necessario trattenerle più a lungo all’interno del
programma o per verificare il
raggiungimento di stabili
adeguate abilità parentali o
affinché accettino la loro inadeguatezza e i provvedimenti
del caso.
Spesso si pensa che queste
donne siano lucidamente in
malafede.
In realtà quando affermano i
loro buoni propositi, – riferiti
ad una immagine ideale di sé
sperimentata con l’uso di sostanze – credono di poterli
realizzare.
L’abilità dei tecnici è nel rendere consapevoli le utenti di
tale meccanismo e aiutarle a
rimanere vigili nel sentirsi in
modo incongruo onnipotenti.
Vanno aiutate a prendere coscienza della propria inadeguatezza affinché la possano
elaborare.
È già stato rilevato come ad
inizio percorso, in questo
gruppo, gli obiettivi di verifica siano presenti in percentuale maggiore (69,3%) rispetto alla percentuale presente (57,1%) nel gruppo di
“donne con problemi psichiatrici”.
Si può ipotizzare che inizialmente la percezione di “trattabilità” degli operatori verso
questo gruppo di donne sia
inferiore rispetto alla “trattabilità percepita per le donne
psichiatriche”.
È probabile che la trattabilità
inferiore percepita sia legata
soprattutto allo stile di vita e
alla alternanza della attitudini parentali, in concomitanza
di eventuali comportamenti
di abuso.
A fine percorso conservano
l’affidamento dei figli in percentuale uguale (38,5%) alle
“donne multiproblematiche”
(38,5%) in percentuale maggiore rispetto alle “donne con
problemi psichiatrici” (28,5%)
e inferiore alle “donne con soli problemi sociali” (72,8%).
Servizi sociali
N. 165 - 2007
Donne multiproblematiche
Intendiamo per “multiproblematiche” quelle donne che
presentano più problemi contemporaneamente e il cui invio in Istituto è quindi proposto contemporaneamente
da più Servizi.
Per 24 donne l’ingresso in
Istituto di ogni singolo soggetto viene curato oltre che
dal Servizio per la presenza
di problemi sociali, anche dai
Servizi per la cura delle dipendenze (n° 5) o dai Servizi
di salute mentale (n° 16).
Pochissimi casi entrano in
Istituto con il contemporaneo
invio del Servizio per la cura
delle dipendenze e del Servizio di salute mentale (n° 3).
In Istituto, ad una osservazione più attenta e continua,
14 donne inviate nella Comunità di accoglienza dal solo
Servizio sociale per “l’evidenza” di soli problemi sociali,
hanno manifestato altre difficoltà per affrontare le quali
gli operatori dell’Istituto
hanno ritenuto opportuno
coinvolgere i Servizi per la
cura delle dipendenze (n° 5)
e i Servizi di salute mentale
(n° 9). Una donna entrata in
Istituto con iniziale invio del
solo Servizio di salute mentale, ha manifestato ulteriori
problemi per affrontare i quali si è reso necessario il coinvolgimento del Servizio per la
cura delle dipendenze (n° 1).
Il numero di “donne multiproblematiche” del presente
studio è quindi di 39 (n° 25
sociali/psichiatriche, n°10
sociali/tossicodipendenti e
n°4 tossicodipendenti/psichiatriche).
L’ipotesi iniziale era che le
donne caratterizzate dalla
presenza contemporanea di
più problemi fossero le più
gravi e quelle che avrebbero
avuto le maggiori difficoltà a
recepire aiuto.
In realtà i dati mostrano tendenze diverse.
Leggendo le singole cartelle
dei soggetti di questo gruppo
di donne, emerge infatti che
alcune di loro sono effettivamente le più gravi e quelle
che hanno recepito meno aiuto nel tempo esaminato.
Nella sua globalità però, questo gruppo di 39 donne presenta aspetti interessanti
che, in parte sono già stati
evidenziati precedentemente,
nella comparazione con gli
altri sottogruppi.
Precisiamo innanzi tutto che,
leggendo le cartelle e intervistando gli operatori, emerge
che i problemi psichici manifestati dalle donne di questo
gruppo (questo sia per le iniziali 16 che per le successive
9) sono meno gravi di quelli
manifestati dalle donne che
entrano nella Comunità di accoglienza con la diretta indicazione del solo Servizio di
salute mentale (anche se formalmente l’invio viene fatto
dal Servizio sociale).
Nel gruppo di “donne multiproblematiche” (per come sono state rilevate ad una seconda continua osservazione
all’interno dell’Istituto n°
39), gli obbiettivi di verifica
ad inizio percorso sono presenti nel 82,1% di soggetti,
la percentuale più alta dei
quattro sottogruppi di donne
assemblate secondo la tipologia del disagio manifestato.
Durante la permanenza in
Istituto, dopo che probabilmente si è osservato come i
soggetti di questo gruppo reagiscono agli stimoli proposti,
la distribuzione degli obbiettivi cambia completamente.
Gli obiettivi di supporto, inizialmente presenti solo nel
17,9% dei soggetti di questo
gruppo aumentano e sono
successivamente presenti nel
41% di donne.
Gli obiettivi di verifica inizialmente presenti nell’
82,1%, durante il percorso si
attestano intorno al 59% dei
soggetti di questo gruppo.
Probabilmente, i Servizi che
non hanno la possibilità di
osservare tali donne nelle loro espressioni parentali quotidiane, inizialmente optano
per un obiettivo o l’altro
(supporto o verifica) guidati
soprattutto dallo “stile di vita e di espressione immediata” delle utenti.
In tutti i soggetti dello studio,
in una fase iniziale spesso non
è possibile una osservazione
approfondita e continua che
dia informazioni del rapporto
tra madre e figlio nelle sue
molteplici espressioni.
È in una fase successiva, all’interno dell’Istituto, dove
“lo stile di vita è uguale per
tutte” che è possibile una valutazione fatta in modo articolato e non condizionata da
stili di vita incongrui. Si evidenziano quindi le caratteristiche proprie dei singoli
gruppi di soggetti dove i vari
livelli di difficoltà personali
influiscono sulle espressioni
parentali.
Nel gruppo di “donne multiproblematiche” i soggetti che
entrano in Istituto con la
presenza del Decreto del Tribunale dei minorenni sono il
56,4%.
Dai dati in nostro possesso
emerge che tali donne, assieme “alle donne psichiatri-
Sae l ute
Territorio 353
che”(71,4%) sono quelle che
raggiungono la percentuale
più alta di ingressi in Istituto
accompagnati da Decreto.
Le “donne multiproblematiche” rimangono in Istituto
mediamente 7,7 mesi.
Un tempo più lungo del tempo medio che vi trascorrono
le “donne psichiatriche” ma
più breve del tempo medio
che vi trascorrono le “donne
con soli problemi sociali” e le
“donne con problemi di abuso
da sostanze”.
Le “donne multiproblematiche” ad inizio percorso hanno
una presenza media di abilità
della “dimensione personale”
di poco superiore a quella
delle “donne con problemi
psichiatrici” (3,31 inizio percorso “donne multiproblematiche” / 3,21 inizio percorso
“donne psichiatriche”).
Il numero medio di abilità
della “dimensione personale”
presenti a fine percorso in
questo gruppo è di 5,18 abilità su 9.
Vi è quindi un incremento
medio di abilità della “dimensione personale di + 1,87
Tale incremento è superiore
sia all’incremento avuto dalle
“donne con problemi psichiatrici” (+1,29), sia all’incremento avuto dalle donne con
problemi di abuso di sostanze
(+1,38).
Merita attenzione il fatto che
le “tossicodipendenti” ad inizio percorso hanno mediamente una presenza più alta
di abilità della “dimensione
personale” (4,62 variabili su
9) delle donne “multiproblematiche” (3,31 su 9), ma un
incremento medio minore del
loro (+1,38 le donne con problemi di dipendenza, +1,87 le
donne “multiproblematiche”).
l ute
Sa
e
354 Territorio
Tutte le donne del gruppo
delle “tossicodipendenti” del
presente studio sono seguite
dai Servizi territoriali. È
quindi, a ragione presumibile
che, prima dell’ingresso in
Istituto abbiano fatto un percorso per migliorare la propria “dimensione personale”.
È a ragione ipotizzabile che le
donne “multiproblematiche”,
anche se seguite, non siano
assidue nel trattamento per
la parallela presenza di degrado sociale. Hanno quindi
minore possibilità di essere
aiutate ad acquisire competenze per migliorare la “dimensione personale”. Ciò può
in parte spiegare in questo
gruppo, ad inizio percorso,
una presenza media di abilità
più bassa rispetto alle “donne
con problemi di dipendenza”
e molto vicina a quella delle
“donne con problemi psichiatrici” (che sappiamo essere la
più bassa).
Quando poi le donne “multiproblematiche”, in un contesto protetto che annulla per
un tempo dato i problemi sociali, iniziano un percorso
(quelle che manifestano i
problemi ad una più attenta e
continua osservazione all’interno dell’Istituto) o proseguono con continuità quello
in essere prima dell’ingresso
nella Comunità di accoglienza, dimostrano una maggiore
permeabilità agli stimoli ed al
trattamento delle donne
“tossicodipendenti” e “psichiatriche”.
Generalizzando si può dire
Servizi sociali
che tipi specifici di disagio
sono più o meno “trattabili”
in un tempo dato.
La “trattabilità” non è legata
solo al tempo e al tipo di aiuto offerto, ma presumibilmente alle risorse in essere
della persona.
La possibile quota di “trattabilità” per quella data persona, in quello specifico momento della sua vita, in quel
tempo dato, può essere già
stata recepita prima dell’ingresso in Istituto se è in carico a qualche Servizio.
Merita attenzione il fatto che
in questo gruppo vi è la percentuale più bassa di soggetti
in possesso del diploma della
scuola dell’obbligo ad inizio
percorso (82,1%). Nessuno
dei soggetti di questo sottogruppo durante il percorso
esaminato riesce ad ottenerlo. La contemporanea presenza di più problemi non rende
possibile una eventuale acquisizione di questa abilità
nei soggetti di questo gruppo.
La presenza media di competenze della “dimensione genitoriale” (4,36 ad inizio percorso e 5,39 a fine percorso) è
superiore solo a quella delle
“donne psichiatriche”. Anche
l’incremento medio (+1,03) è
superiore solo a quello delle
“donne con problemi psichiatrici” (+1.00).
Le “madri multiproblematiche”, come le “madri con problemi di dipendenza da sostanze”, durante il percorso
acquisiscono in misura maggiore la capacità di essere
N. 165 - 2007
“adeguate” (+18,2%) e “modulate” (+15,2%).
Le distribuzioni rilevate ci
inducono a pensare che in un
contesto protetto e adeguato
parte delle madri del presente studio vivono con minor
ansia le responsabilità parentali verso il proprio piccolo e
riescono a sintonizzarsi maggiormente sui ritmi, richieste
e necessità dei figli (“adeguatezza”, “modulazione” e
“coerenza”).
A fine percorso le “donne
multiproblematiche” hanno
l’affidamento dei figli nella
percentuale del 38,5. Percentuale uguale alle “donne con
problemi di abuso di sostanze” e maggiore delle “donne
psichiatriche”.
Conclusioni
Lo studio presentato non
vuole essere portatore di nessuna specifica verità.
Esso si limita a presentare le
distribuzioni di alcune variabili specifiche, presumibilmente condizionate dai problemi di cui le madri sono
portatrici.
Problemi che più che essere
definiti quali “categorie diagnostiche” sono rilevati sulla
base di invii e rapporti con i
Servizi sanitari e sociali di riferimento.
Problemi non per questo meno dolorosi e meno inficianti
la piena espressione genitoriale.
Il presente lavoro ha cercato
di fornire alcune caratteristiche specifiche e comparative
tra vari gruppi di madri assemblate secondo la tipologia
dei problemi presentati affinché noi operatori si possa
trarre elementi per essere il
più possibile “problematizzati” nell’incontro con le utenti
nei nostri spazi lavorativi.
Ciò al fine di favorire in noi
operatori la possibilità di stabilire relazioni terapeutiche
il più possibile libere da personali preconcetti: operatori
aperti all’incontro con il
mondo di quella specifica madre che in quello specifico
presente non può vivere pienamente la sua specifica
esperienza genitoriale.
Nello studio non si forniscono particolari indirizzi per
“trattare” madri problematiche, i dati presentati hanno
lo scopo di facilitare in noi
tecnici una maggiore abilità a
cogliere la “complessità”.
L’esperienza di quella madre
in difficoltà ha valore per
quello che è, questo non per
accettarla incondizionatamente poiché essa può essere
invalidante per sé e il figlio,
ma proprio perché a partire da
essa sia possibile ricercare il
meglio esistenziale possibile
per quello specifico incontro
tra madre-figlio-operatore.
Lo studio fornisce senza dubbio pochi strumenti rispetto
ai bisogni di conoscenza di
quanti operano in questo settore. Vogliamo sia inteso come un modesto contributo alla comprensione del problema. I temi da approfondire
sono ancora molti.
MACCACARO,
LO STRATEGA DEL SSN
Sarebbe stato diverso il nostro Servizio sanitario se Giulio Maccacaro avesse potuto dare un
contributo alla sua nascita ed al successivo radicamento nel territorio?
Quanto avrebbero potuto incidere le sue intuizioni, così attuali a oltre trent’anni dalla sua
morte, la sua straordinaria capacità di immaginare e descrivere servizi mirati ai bisogni del
cittadino?
Quando Maccacaro irruppe sulla scena della sanità italiana, l’intangibile assunto della
“neutralità della scienza” cominciava ad essere messo in discussione; la ricerca, in
particolare, condotta su “cavie umane” inconsapevoli, non casualmente scelte fra i ceti più
deboli – il “mutuato”, il malato di mente o quello terminale – pubblicata sulle riviste più
autorevoli senza che nessuno mettesse in dubbio la metodologia della sperimentazione.
Maccacaro lo fece, insieme ad una reiterata, veemente denuncia di una “medicina di classe”
che determinava, e continua a determinare, inaccettabili disuguaglianze nella vulnerabilità
alla malattia e nella durata della vita non solo nel sud del mondo ma anche in quello di
Paesi sviluppati come il nostro.
Gli scritti di Maccacaro mantengono una importante validità sia per la programmazione dei
nuovi servizi che per la verifica di quelli operanti nell’ambito della sanità italiana.
La nostra rivista ha ritenuto irrinunciabile riproporre alcuni dei suoi contributi per
confrontarli con la realtà attuale: che cosa si è raccolto, o non raccolto, rispetto alle “linee
guida” contenute nei suoi scritti?
Insieme a questo, un riconoscimento, oltre che un utile contributo alla progettazione e allo
sviluppo dei servizi, ad un uomo che ci ha lasciato la preziosa testimonianza di come una
lettura politica dell’operare in medicina rappresenti l’unica strada per realizzare il diritto
alla salute di tutti i cittadini.
Monografia a cura di Francesco Carnevale
[email protected]
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Sa
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356 Territorio
Lorenzo Tomatis
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
I rischi attribuiti
ad agenti chimici*
“Sono amico di Renzo Tomatis, ma accingendomi a dirne vedo
che di lui, così schivo, io so ben poco. So che è nato a Sassoferrato nel 1929 da padre torinese e madre triestina. So che è
laureato in medicina e, per alcuni anni, ha svolto attività
scientifica e didattica in un Istituto dell’Università di Torino,
dedicandosi soprattutto a ricerche sulla silicosi e sul cancro.
Per sviluppare queste ultime si trasferì nel ’59 a Chicago dove è
rimasto fino al ’67 occupandosi di culture in vitro e soprattutto di cancerogenesi sperimentale. Tornato in Europa si è stabilito a Lione e vi lavora tuttora come responsabile di cancerogenesi chimica del Centro internazionale dell’Organizzazione
mondiale della sanità per le ricerche sul cancro. So che ha moglie, un bambino, una casa a Trieste e una ottima reputazione
internazionale di studioso…”. Così scriveva Giulio Maccacaro,
era il 1974, nella Prefazione a La Ricerca illimitata di Renzo
Tomatis (Feltrinelli, Milano). Anche Renzo Tomatis ci ha lasciati il 21 settembre del 2007. La coerenza ha segnato, dal
momento in cui scriveva Maccacaro, il resto della vita di Renzo, una coerenza costellata nell’impegno scientifico (testimoniato anche dalle autorevoli Monografie IARC per la valutazione dei rischi cancerogeni), interesse divulgativo e creativo
(espresso mediante opere di carattere letterario-saggistico,
l’ultima delle quali, L’ombra del dubbio, uscirà postuma) e
collaborazione con reti internazionali e nazionali dei movimenti impegnati per il diritto alla salute e per un ambiente
meno inquinato. Sono stati così in molti coloro che hanno avuto il privilegio di fruire del suo esempio, dei suoi consigli e della sua guida (F.C.).
L’
della IARC sordamente ed efficacemente osteggiata. In
tal modo diveniva possibile
continuare a discutere all’infinito sulla “vexata questio”
se e fino a qual punto la prevenzione primaria può essere
efficace nel ridurre l’incidenza e quindi la mortalità per
tumore, e se può esserlo perché non ha dato miglior prova di sé; discussioni inevitabilmente appaiate a quella
dell’attribuibilità dei rischi.
Il grande cancerologo russo
Leon Shabad quando gli capi-
affermazione di Maccacaro che “c’è solo un
MAC scientificamente
accettabile ed è quello zero”
(1) a suo tempo aveva suscitato scalpore e sconcerto, al
punto che gli si erano schierati contro anche ricercatori
ed epidemiologi che si ritenevano, o che venivano ritenuti
“impegnati”. Più cautamente
e con meno immediatezza,
ma con significato di fondo
simile, l’OMS e poi l’IARC affermavano che non vi è un livello di esposizione a un can-
cerogeno al di sotto del quale
si possa dire che non vi sia rischio per l’uomo.
L’affermazione gridata da
Maccacaro dava scandalo, faceva insorgere compatta la
formidabile potenza delle corporation che su di un altro
piano intensificavano la loro
opera di corruzione, e largheggiavano in blandizie nei
riguardi di ricercatori che, caritatevolmente, definirò come di poco carattere. La dichiarazione dell’OMS veniva
totalmente ignorata e quella
* Editoriale comparso su Epidemiologia & Prevenzione anno 28, 4-5, luglio-ottobre 2004, pp. 201-206.
tava, trenta anni fa, di doverne parlare, esordiva parafrasando André Gide: “Poiché
pochi leggono e ancor meno
ascoltano – diceva – è necessario continuare a scrivere e
anche ripetere quanto è stato
già scritto e detto”. Che senso
ha infatti domandarsi perché
la prevenzione primaria centrata sulla riduzione o l’abolizione dell’esposizione a cancerogeni chimici non è stata
più efficace, se per sostenere
questa pretesa inefficacia si
dimenticano i casi nei quali,
N. 165 - 2007
malgrado la schiacciante evidenza che un intervento preventivo avrebbe dovuto essere preso con estrema urgenza
e sarebbe stato risolutivo,
nulla è stato fatto? E si dimentica che una serie di argomenti più o meno pretestuosi e più o meno ignobili
sono riusciti a evitare o a rimandare di anni o decenni la
messa al bando di composti
altamente pericolosi? Che la
cancerogenicità delle amine
aromatiche sia stata riconosciuta nel 1895 (2), confermata nel 1921 (3), e che, a
parte qualche iniziativa isolata, si sia dovuto attendere la
fine degli anni 1960 per la loro messa al bando in alcuni,
non certo tutti, i paesi? (4).
Che l’amianto, del quale si conosceva la cancerogenicità
dagli anni trenta (5,6) e per
il quale è noto che “non esiste un livello di esposizione
nell’uomo al di sotto del quale non si manifesti un aumento di rischio di cancro”
(7), per decenni ha continuato a essere usato in maniera
incontrollata, e lo è tuttora
in molti paesi, e che ancora
se ne producono oltre due
milioni di tonnellate annue (i
maggiori produttori sono
Russia, Canada e Brasile), che
la demolizione di strutture
edilizie contenenti amianto
viene effettuata per lo più
senza adeguate misure protettive, come quella delle navi in disarmo che ancora imperversa da noi (8) e che viene sempre più spesso esportata in paesi poveri dove non
esiste una legislazione che
protegga i lavoratori? (9).
La litania sullo sfruttamento
deliberato e spietato per oltre
un secolo di quella parte del-
Maccacaro, lo stratega del SSN
la popolazione esposta a rischi occupazionali potrebbe
continuare con gli esempi del
benzene, per il quale si sono
mantenuti per decenni livelli
di esposizione inaccettabili
dopo che l’evidenza della sua
cancerogenicità era stata ormai abbondantemente dimostrata, del cloruro di vinile, la
cui cancerogenicità per organi diversi dal fegato è stata
per anni artatamente contestata, del butadiene, per il
quale l’evidenza di cancerogenicità è stata ancora recentemente messa in dubbio con
argomenti fittizi, del berillio,
del quale per decenni è stata
negata la cancerogenicità
malgrado l’evidenza disponibile, e così pure di cromo,
nickel, cadmio e la lista potrebbe allungarsi.
Mi par già di udire le reazioni
irridenti o sprezzanti di quella parte dell’establishment
scientifico che sostiene, ed è
finanziato, dalle corporation:
queste cose le poteva dire
Maccacaro trenta o quarant’anni fa, ma non fanno
più presa oggi, siete solo capaci di ripetere fino alla noia
le stesse storie, rifiutate di
vedere che le amine aromatiche pericolose non esistono
più, che l’amianto è una faccenda del passato, che il processo di Marghera ha dimostrato che il cloruro di vinile
è pressoché innocuo, che il
benzene, si sa, è anche un
prodotto naturale, e a piccole
dosi non fa male, e che nell’insieme i tumori occupazionali, oltre ad aver sempre
rappresentato solo una piccola percentuale del totale dei
tumori, sono in netto calo.
Partendo da questo abbrivio
l’intera questione dei rischi
attribuibili ad agenti chimici
ambientali viene liquidata in
questo modo: 1. la maggioranza dei cancerogeni chimici
identificati sono cancerogeni
occupazionali, ossia il loro effetto è stato dimostrato seguendo l’approccio epidemiologico in condizioni estreme
(prolungata esposizione a dosi alte) e non hanno quindi
importanza per la popolazione generale e possono essere
ignorati, mentre della cancerogenicità di alcuni medicinali non è il caso di parlare data
la indiscussa utilità che ne
giustifica pienamente l’uso;
2. per estensione, qualunque
agente chimico che sia stato
identificato sperimentalmente come cancerogeno usando
dosi alte o comunque più alte
di quelle alle quali la popolazione generale è esposta può
venir ignorato, e in ogni caso
i risultati di saggi sperimentali non sono in grado di predire eventi simili nell’uomo;
3. di conseguenza le cause dei
tumori vanno ricercate altrove, l’industria chimica non
c’entra, è più fruttuoso concentrarsi sulla dieta e l’esercizio fisico e sull’insieme delle
abitudini di vita.
L’allentamento dell’attenzione sui rischi chimici è stato
anche favorito dalla notevole
incoerenza con la quale viene
effettuata l’attribuzione dei
rischi. Non di rado infatti
questa viene fissata sulla base di livelli di evidenza che
variano considerevolmente
per i diversi fattori di rischio
presi in considerazione, ma
trattandoli alla stessa stregua, oppure amplificando o
riducendo arbitrariamente la
plausibilità biologica di eguali o simili livelli di evidenza a
Sae l ute
Territorio 357
seconda dei tipi di esposizione considerati. Per far accettare l’esistenza di un’associazione causale fra un’esposizione occupazionale o ambientale e cancro nell’uomo si
esige un’evidenza particolarmente robusta, mentre l’evidenza che riguarda, per
esempio, il contributo di alcuni fattori dietetici all’aumento o alla diminuzione dei
rischi di cancro viene spesso
ritenuta sufficiente anche se
piuttosto debole, con il risultato di oscurare il contributo
di altri fattori. Questa attitudine ha cominciato ad affermarsi dopo la pubblicazione
del primo importante saggio
sull’attribuibilità dei rischi,
che è divenuto un classico
(10), ha avuto largo seguito e
una coorte di imitatori.
L’ostinata negazione di un
ruolo eziologico delle piccole
quantità di cancerogeni chimici di origine industriale
che si incontrano nell’ambiente inquinato mette in
evidenza un’altra incoerenza:
si dimentica deliberatamente
che l’universale consenso sulla cancerogenicità del fumo
di tabacco, sia attivo sia passivo, implica pure il riconoscimento del ruolo eziologico
determinante di piccole
quantità di cancerogeni chimici. Essa fornisce infatti la
dimostrazione che cancerogeni diversi, a concentrazioni
basse (non molto dissimili da
quelle che si incontrano nell’ambiente generale inquinato) hanno verosimilmente un
effetto, se considerati individualmente, che sarebbe molto difficile da cogliere con la
metodologia epidemiologica
oggi a disposizione, mentre
possono addizionare i loro
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358 Territorio
effetti e cooperare fra loro fino a produrre un effetto cancerogeno rilevante.
Senza alcun dubbio è giusto e
utile promuovere una adeguata educazione sanitaria e
rendere l’individuo più conscio e responsabile nella scelta delle proprie abitudini di
vita, ma è anche chiaro come
la presa di posizione che nega
il ruolo dell’inquinamento da
sostanze chimiche sia interessata e per qualcuno molto
fruttuosa, dato che mentre
evita alle corporation chimico-farmaceutiche-agroalimentari l’obbligo di investire
una parte dei loro profitti in
miglioramenti impiantistici o
nella sostituzione di qualche
catena di produzione, può
egualmente garantire un ulteriore aumento di profitti
con la produzione di prodotti
dei quali viene nascosto/
ignorato/ sottostimato l’impatto negativo sulla salute.
Mi limiterò a questo proposito a due esempi, uno riguarda
l’atrazina e l’altro l’iniziativa
europea nota sotto l’acronimo di REACH (Registration,
Evaluation, Authorization
and restriction of Chemicals).
Due esempi significativi
L’atrazina è un erbicida del
quale si producono annualmente oltre 70.000 tonnellate. Nel 1990 l’atrazina viene
assegnata dalla IARC al gruppo 2B (possible human carcinogen) (11), sulla base di una
evidenza sperimentale di
cancerogenicità sufficiente,
una evidenza epidemiologica
inadeguata e l’evidenza di
una azione di disturbo sul sistema endocrino (endocrine
disruption). Nel 1998 l’atrazina viene declassata dalla
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
IARC al gruppo 3 (not classifiable as to its carcinogenicity
to humans) (12) benché l’evidenza sperimentale sia rimasta sufficiente e quella epidemiologica, pur continuando a
essere considerata inadeguata, indichi un’associazione
fra esposizione ad atrazina e
un aumento di rischio per
linfomi non-Hodgkin, carcinoma dell’ovaio e carcinoma
della prostata. La potente
corporation che produce e distribuisce l’atrazina aveva
mostrato abbondantemente
la sua capacità di reazione a
ogni evidenza che potesse
danneggiare i suoi interessi,
negando l’evidenza di un’azione di disturbo del sistema
endocrino. In realtà quest’ultima evidenza, ripetutamente confermata, è stata ritenuta sufficientemente preoccupante per indurre l’Unione
Europea a bandirne l’uso a
partire dal 2005. Non così gli
Stati Uniti che ne usano circa
50.000 tonnellate all’anno
(soprattutto su granturco,
sorgo e canna da zucchero) e
dove il poderoso sistema di
lobbying messo in moto dalla
multinazionale è riuscito, per
ora, a far usare in maniera
perversa un decreto chiamato
Data Quality Act. Tale decreto
era stato a suo tempo presentato (si può ben dire in malafede, dato che chi lo presentava è lo stesso individuo che
si è adoperato strenuamente
per confondere i dati che indicavano i rischi del fumo di
tabacco passivo) come strumento per garantire un massimo di “qualità, obiettività,
utilità e integrità dell’informazione fornita dalle agenzie
federali”, fra le quali ovviamente l’EPA (Environmental
zione ad atrazina e cancro
della prostata (15).
Il caso dell’atrazina è uno dei
tanti esempi lampanti di come una programmata produzione di incertezze possa interferire pesantemente con la
prevenzione primaria. Gli avvertimenti su quanto complessi, penetranti e, purtroppo, efficaci siano le tattiche
messe in opera per creare
dubbi attorno a risultati non
graditi alle corporation, sono
venuti anche da fonti molto
autorevoli (16), ma senza
grande effetto.
Il secondo esempio, quello di
REACH, è già stato trattato
estesamente nell’articolo di
Maria Luisa Clementi (17),
nel quale venivano sottolineati sia gli aspetti positivi
del nuovo sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione di tutte le sostanze
chimiche in uso (fa spicco
quello che pone l’onere delle
prove sull’industria, mentre
finora ricadeva sull’autorità
pubblica), sia i suoi limiti, fra
i quali quello di lasciare fuori
dalla normative i composti
che vengono commercializzati in una quantità che non
superi la tonnellata. Degli oltre tre milioni di composti
chimici conosciuti, se ne usano correntemente fra i cinquantamila e gli ottantamila.
L’incertezza di queste due ultime cifre riflette la difficoltà
di ottenere, per un ragguardevole numero di composti,
informazioni adeguate sulle
quantità realmente prodotte
a livello industriale e sugli
usi ai quali un numero non
indifferente di composti sono
effettivamente destinati.
Attualmente abbiamo a disposizione dati di tossicità a
Protection Agency). In pratica
è successo che appena i risultati di uno studio dimostravano l’azione di disturbo endocrino dell’atrazina (azione
che già si manifesta, è bene
ricordare, a concentrazioni di
pochi parti per miliardo)
spuntavano come funghi diversi studi i cui risultati li
mettevano in dubbio. Il fatto
che tali studi fossero inadeguati o palesemente concepiti per non fornire risultati significativi non ha impedito
che facessero aumentare il
rumore di fondo con un’azione di confondimento che ha
avuto verosimilmente un peso notevole anche nel declassamento deciso dall’IARC nel
1998.
Lo stesso tipo di azione è stata condotta nei riguardi dei
dati sui carcinomi della prostata. Un aggiornamento dello studio sui tumori della prostata che rinforzava l’ipotesi
di un’associazione con l’esposizione ad atrazina, sia pure
in modo molto cauto, e non
c’è da meravigliarsene dato
che gli autori hanno ottime
relazioni con l’industria produttrice (13), ha subito indotto una conveniente ed efficace opera di disturbo. Tempestivamente è così comparso
un altro studio che molto genericamente dimostra che
produrre atrazina non è pericoloso e fa addirittura bene
alla salute, malgrado qualche
linfoma in più (14), e un altro che, omettendo di includere nello studio i casi osservati negli ultimi anni,
confonde le pur guardinghe
osservazioni dello studio di
MacLennan et al, 2002, e afferma recisamente che non vi
è alcuna evidenza fra esposi-
N. 165 - 2007
breve e lungo termine (questi
ultimi non sempre adeguati)
per circa 2.700 composti, il
che significa che per la stragrande maggioranza dei composti chimici dei quali ci serviamo e/o ai quali siamo
esposti non abbiamo dati che
indichino se costituiscano o
meno un pericolo per la salute. Anche se si può sperare
che la percentuale di sostanze ad alta tossicità acuta e/o
cronica fra quelle tuttora non
saggiate non sia troppo elevata (ma anche solo l’un per
mille vorrebbe pur sempre dire alcune decine di sostanze
tossiche in più di quelle che
già conosciamo), significa
pure che si è passati da una
produzione globale di un milione di tonnellate annue di
prodotti chimici nel 1930 a
quella attuale di 400 milioni
di tonnellate nella pressoché
totale ignoranza e omissione
di elementari regole di precauzione. Ma ciò non è certamente avvenuto per semplice
distrazione. Come è stato sottolineato da Margaret Wallstrom, commissario europeo
per l’ambiente, alle autorità
pubbliche spettava in passato di valutare i possibili rischi di sostanze in uso sulla
base di informazioni fornite
dall’industria, ma tali informazioni potevano essere richieste solo se era possibile
provare che vi era realmente
un aumento di rischio, un
circolo vizioso che non solo
non favoriva una corretta valutazione dei rischi, ma rappresentava un quasi insormontabile ostacolo alla messa
Maccacaro, lo stratega del SSN
in atto di una efficiente prevenzione primaria.
Contro l’applicazione di REACH, che potrebbe compensare
almeno in parte la grande lacuna preventiva che si è spalancata nei riguardi dei composti chimici entrati nel nostro ambiente, si è schierata
la lobby degli industriali europei, con quelli tedeschi in
testa. A quella europea si è
presto aggiunta la potente
lobby americana, che è riuscita anche a indurre lo stesso
governo statunitense a pronunciarsi contro l’adozione di
REACH, che considera alla
stessa stregua composti prodotti all’interno della Comunità europea e quelli importati in Europa, includendo
quindi quelli prodotti negli
Usa. Il processo di diluizione
e annacquamento di REACH è
in atto e non è dato ancora
sapere fino a qual punto potrà giungere. Considerando
che alcune corporation da sé
sole hanno un bilancio che è
pari o superiore a quello di
una nazione di media grandezza, non si può essere troppo ottimisti.
Rileggendo a ventotto anni
dalla sua morte gli scritti di
Maccacaro si ha la netta impressione che le denunce fatte qui sopra non facciano che
riflettere situazioni che Maccacaro conosceva più che bene e che aveva già denunciato
chiaramente a suo tempo. Le
sue critiche, ipotesi e proposte rimangono pienamente
valide. Rimane valido il suo
incitamento ad abbattere i
muri che ci imprigionano per
poter realizzare la fuga dal
“carcere in cui ci ha imprigionato il capitale” e operare
perché “sia possibile la nascita di una nuova scienza, la
scienza di un nuovo potere”
(18), dove non sia più il capitalismo, come diceva Haldane
(19), a prendersi cura del ricercatore scientifico perché
produca le uova d’oro per la
sua tavola.
Come orientarci in futuro?
Ma in quale direzione dobbiamo orientarci per provare
ad arginare la strapotenza finanziaria delle corporation e
la loro travolgente capacità
corruttrice? Forse ci può aiutare la considerazione che ricerca scientifica e forze armate hanno caratteristiche
che in qualche modo le accomuna. Sono definite ambedue come necessità che si
giustificano principalmente
con degli scopi difensivi e
per ambedue la tendenza
odierna è di metterle sempre
più strettamente al servizio
di interessi particolari. In tal
modo gli eserciti vengono
trasformati in eserciti professionali e la ricerca viene trasformata in una società chiusa a obiettivi limitati. Vediamo questa trasformazione
prender forma sotto i nostri
occhi. La preselezione di ricercatori e obiettivi della ricerca per mezzo di canali di
finanziamento fuori dei quali
esistono poche o nulle speranze di sovvenzione, tende
a fare dei ricercatori un esercito professionale efficiente
e acritico. Ma alla stessa stre-
Sae l ute
Territorio 359
gua come le difficoltà di condizionare e irregimentare
tutti i coscritti al medesimo
grado rende possibile che affiori una certa proporzione di
contestatori, facendo in tal
modo dell’esercito a coscrizione obbligatoria un minor
male, il preservare e difendere un certo grado di autonomia della ricerca, sia pure dispersiva e sia pure disorganizzata come quella finanziata da enti pubblici e per di
più povera di mezzi come
quella universitaria, e quella
ancor più povera di alcuni
coraggiosi singoli ricercatori
e piccoli gruppi autonomi,
garantisce un minimo di iniziative divergenti o controcorrente che si oppongono
alla dominazione assoluta di
un programma multinazionale. È fra le poche speranze
che oggi si possono avere per
una ricerca biomedica che
voglia essere al servizio della
gente e non di potenti gruppi finanziari. La deliberata
spietatezza con la quale la
popolazione operaia è stata
usata per aumentare la produzione di beni di consumo e
dei profitti che ne derivano,
si è ora estesa su tutta la popolazione del pianeta, coinvolgendone anche la componente più fragile, che sono i
bambini, sia con l’esposizione diretta alla pletora di cancerogeni, mutageni e sostanze tossiche di varia natura
presenti nell’acqua, aria,
suolo e cibo, sia con le conseguenze della sistematica e
accanita distruzione del nostro habitat.
l ute
Sa
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360 Territorio
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
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(18) Maccacaro G.A. (1979), Per una medicina da rinnovare, Feltrinelli, Milano, p. 177.
Nota biografica di G.A. Maccacaro
Giulio Alfredo Maccacaro (8-1-1924 / 15-1-1977) nasce a Codogno (Lodi) e si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di
Pavia.
Dal 1949 lavora a Cambridge, occupandosi di ricerca microbiologica di base.
Nel 1951 ritorna in Italia come ricercatore all’Istituto di Igiene
dell’Università di Pavia, per trasferirsi nel 1953 all’Istituto di
Microbiologia di Milano.
Nel periodo 1961-1963 è professore incaricato di Microbiologia
medica all’Università di Modena, nel 1964-1965 all’Università
di Sassari e nel 1966 è chiamato a istituire e dirigere l’Istituto
di Statistica Medica e Biometria dell’Università di Milano.
Promuove la nascita della collana di monografie “Applicazioni
biomediche del calcolo elettronico” (ABDCE), dedicate all’ap-
profondimento metodologico dell’applicazione dell’informatica
alla ricerca biomedica e clinica; cura e rinnova la storica rivista italiana di divulgazione scientifica “Sapere”; contribuisce
con vari interventi sul Corriere della Sera e su Il Giorno al
dibattito culturale su svariati temi; promuove e cura per Feltrinelli la Collana “Medicina e Potere”, per la quale assicura
la traduzione del libro di A.L. Cochrane “Effectiveness and
Efficiency”, con il titolo di “Inflazione medica”, del libro di I.
Illich “Nemesi Medica”, del libro di M.H. Pappworth “Cavie
umane”.
Nel 1976, poco prima della morte, fonda la rivista “Epidemiologia e prevenzione” come laboratorio di incontro di diverse culture e professionalità per promuovere il rinnovamento, anche
teoretico e metodologico, della ricerca in ambito preventivo.
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Medicina e lavoro*
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volte i discorsi generali su temi come questo sono delle divagazioni e pertanto inutili e dannosi nella misura in cui fanno perdere tempo: qualche volta sono anche una necessità nella misura in cui possono aiutare ad inquadrare delle problematiche
specifiche e particolari in un quadro più generale che permetta di leggerne le motivazioni di fondo, che sono sempre motivazioni politiche.
Il tema “medicina e lavoro” di questo breve intervento io non lo intendo nel senso più consueto, ma semmai di “lavoro della medicina” e cioè come lavora e qual è il senso politico di questa grossa macchina che è la medicina ed in particolare la medicina di
una società a capitale più o meno maturo come la nostra.
Questa macchina, voglio dire, dalle apparenze assistenziali e soccorritrici e dalle sostanze gestionali e repressive. Forse il tema sarebbe stato più completo se avessimo aggiunto un terzo termine, cioè quello di “capitale”, per dire come si colloca la medicina tra
lavoro e capitale.
In genere si pensa – e, interessante, la nostra controparte politica cerca di favorire questa tendenza – che la medicina stia da una
parte e capitale e lavoro dall’altra: cioè che la medicina sia neutrale, equanime, al di sopra delle parti, fuori dallo scontro di classe. Si dice che “di fronte alla malattia e alla morte non ci sono più differenze” oppure che “quando ci spogliamo davanti al medico
siamo tutti uguali” e così sia. Ma non è vero.
Si dice e si cerca di far pensare che se fosse così, così sarebbe giusto. In verità giusto sarebbe che la medicina fosse da una precisa
parte, cioè insieme al lavoro contro il capitale; con lo sfruttato contro lo sfruttatore, con la classe oppressa di fronte a quella dominante.
Ma è vero proprio il contrario: la medicina non è né neutrale né dalla parte del lavoro, ma con il capitale contro il lavoro. Mi riferisco, naturalmente, alla medicina di società come la nostra, tuttora nel comando capitalistico e nell’egemonia borghese. Perché
borghese e capitalistica è la medicina stessa di tali società. Come ho detto e scritto più diffusamente in altre sedi, è vero della medicina, come è vero, più generalmente, della scienza.
Oggi la scienza (e la medicina borghese viene sempre più arricchendosi di contenuti e soprattutto di apparenze scientifiche) non è
più al servizio dell’uomo; ma è l’uomo che è al servizio della medicina, che a sua volta è al servizio del capitale. Come può essere
questo? Non è questo contrario all’immagine che in fondo noi abbiamo, ed in particolare hanno coloro che partecipano all’atto sanitario come oggetti, come gestiti e mai come soggetti, come attori?
Su questo punto può valere la pena di capire qualche cosa in più. Nel pensiero comune, per esempio di un lavoratore, si pensa al
mondo della scienza ed al mondo del lavoro come due mondi molto lontani: due momenti del vivere sociale con scarso rapporto
tra loro; cioè si pensa ad un distacco tra scienza e lavoro paragonabile a quello che vi è, nell’esperienza quotidiana, tra la vita dello scienziato e la vita del lavoratore.
Il lavoratore pensa allo scienziato come ad un uomo che ha un’altra cultura ed un altro linguaggio, che vive in un altro mondo,
che svolge un’altra attività che in genere viene supposta buona. Infatti apparentemente è un’attività progressiva, che aggiunge
conoscenze alle conoscenze, potenza a potenza, capacità a capacità, e che quindi rappresenta continuamente un avanzamento per
i singoli e per tutti. Ora queste diversità di cultura, di mondo, di linguaggio, o per lo meno creduti tali, fanno pensare allo scienziato come a qualcosa di diverso rispetto al lavoratore: cioè la scienza è altra cosa rispetto al lavoratore, essi non hanno momenti
di contatto.
In realtà quello che sfugge spesso a noi stessi è che il tema fondamentale della scienza, nella società capitalistica, è proprio il lavoratore, soprattutto nel senso della “organizzazione scientifica del lavoro”. Questo è lo scopo fondamentale di tutta la scienza, se
riveduta criticamente.
* Intervento di G.A. Maccararo svolto al Convegno regionale del PSI “Prevenzione e tutela della salute delle lavoratrici” (Milano, maggio 1973)
comparso in: D’Ambrosio F., Badaracco E., Buscaglia M., Donna Salute e Lavoro, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1975.
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Parlo della scienza moderna borghese, che è cresciuta, e si è sviluppata ed è diventata una delle attività soverchianti della nostra
società. Il suo scopo fondamentale è quello di organizzare lo sfruttamento del lavoro e in questo scopo sono solidali matematici,
medici, psicologi, ingegneri, economisti, sociologi, e tutti quanti. Tutte le scienze, se viste nelle loro motivazioni fondamentali,
convergono su questo obiettivo; infatti la nostra scienza non è una scienza che si possa giudicare come valore assoluto, ma può
stare anche per conto suo, anche se così se ne parla per mistificazione.
La nostra società è la società borghese, quella che è nata con l’inizio della rivoluzione industriale e che ha egemonizzato e ha servito l’egemonia della maggior parte delle forze produttive, economiche e sociali in questi due secoli. All’inizio, in effetti, fu una
forza rivoluzionaria, quando servì ad abbattere il potere feudale e a creare il potere borghese, perché in quel momento si poneva
effettivamente come contraddizione di un altro potere della società, ma oggi è diventata manifestamente e chiaramente una forza
non più rivoluzionaria, ma conservatrice, intesa allo sfruttamento del lavoro sociale per creare il capitale privato.
Che cosa significa allora “organizzazione scientifica del lavoro” per il riflesso che ha sulla medicina e sulla sanità in generale? Significa la soggettivazione ed il comando del capitale rispetto alla oggettivazione e alla servitù dell’uomo. La più grande invenzione borghese è stata proprio questa: creare un luogo, la fabbrica, come laboratorio di ricerca, dove il capitale studia giorno per
giorno ed esperimenta e prova continuamente (qui sono le vere “cavie umane”) i modi di estrazione e del plus valore, i modi di
sfruttamento del lavoro sociale per il profitto del capitale privato. È un secolo e mezzo che si svolge un gigantesco esperimento
giorno per giorno, momento per momento, e che ha degli obiettivi ben precisi: saggiare i limiti della resistenza fisica e psichica
della classe, trovare gli strumenti di prelievo della forza lavoro, spremere tutte le gocce possibili di plus lavoro per trasformarle in
capitale. Ogni giorno, in ogni politecnico come in ogni fabbrica, si fa un esperimento di questo genere.
Non si può progettare una macchina senza progettare ogni volta un uomo nuovo. Il concetto di macchina parziale, che era così chiaro in Marx e che è tuttora valido ci aiuta a capire come l’invenzione tecnica è sempre anche un’invenzione che ha come obiettivo
l’uomo, e che lo immagina adatto, piegato, assorbito nel disegno stesso della produzione generale e della macchina in particolare.
Come in ogni politecnico, così in ogni fabbrica ogni giorno si compie un esperimento di questo genere: questo è il ruolo vero e
profondo della scienza borghese. Ma anche la medicina è una scienza: anzi, la medicina moderna, da tempo ed insistentemente
presentata come “medicina scientifica”, attraverso varie sue manifestazioni quali l’industrializzazione del farmaco, la tecnicizzazione dei metodi, l’organizzazione dei servizi, l’automazione della gestione, tende sempre più a porsi in una razionalità scientifica, cioè a vantarsi e a dichiararsi sempre più come una vera scienza. Infatti la medicina borghese non è diversa dalle altre scienze
nella logica a cui si accennava; ma allora questa medicina con la quale facciamo i conti oggi, con la quale si scontrano le lotte della classe operaia e delle forze politiche che ne rappresentano l’autentica espressione e l’avanguardia, da quale esigenza è nata?
Questo tipo di medicina, che è quella che noi usiamo oggi, impariamo, insegniamo e pratichiamo, nasce agli albori della rivoluzione industriale, quando ancora le malattie dominanti a livello di massa, veri flagelli per le popolazioni, erano soprattutto rappresentate dalle malattie infettive, dovute ai parassiti, ai germi, ai virus che producevano pesti e calamità; vi era quindi qualcosa di
imprevedibile, di selvaggio nel modo in cui la malattia si poneva in quei termini, cioè come causata da agenti naturali.
Vi era qualcosa di assolutamente rovinoso e insopportabile per ogni progettazione di investimento, di sviluppo e di profitto. Per
questo la rivoluzione industriale e l’avvento dell’egemonia borghese hanno voluto dire un grande impegno dal punto di vista tecnico e scientifico, della sanità, perché era impossibile programmare lo sviluppo del capitale accettando l’irrazionalità della malattia naturale.
Pasteur, tipico esempio di scienza medica nelle sue migliori e più celebrate manifestazioni, non era un medico; era un chimico
dell’industria.
La logica era la stessa, lo scopo da raggiungere era il medesimo, cioè ridurre al programmabile, all’economicamente prevedibile e
sviluppabile, tutta una serie di produttività, compresa anche quella dell’uomo: ovvero l’uomo, a sua volta, come prodotto. Quindi
questa grande, enorme stagione della medicina, che va dai disinfettanti del secolo scorso agli antibiotici di questo dopoguerra,
avviene all’insegna di una contraddizione molto semplice: quella dell’uomo contro la natura. La malattia è vista come il flagello
che viene dalla natura e che colpisce l’uomo. La medicina è quella che difende l’uomo contro il flagello naturale. Allora la collocazione del medico è molto chiara in questo contesto: il medico è “dalla parte dell’uomo” contro la natura e tutto ciò che lo minaccia; ma lo è soltanto nella misura in cui quella minaccia non investe solo l’uomo, ma un sistema produttivo; investe una nuova
ipotesi di organizzazione e di sviluppo sociale ed economico.
Quando invece arriviamo alle società contemporanee, ad alto sviluppo industriale, la patologia di quel tipo viene relativamente
scomparendo. I nostri figli non sanno più che cosa vogliano dire carbonchio, tifo nero, peste, colera ed altre cose del genere. Un’altra patologia di oggi ci tormenta: sono malattie dovute non più a cause naturali, ma a cause umane, che derivano, cioè, dai modi
di produzione, non dalla natura. Sono le malattie da usura, da lavoro, da modo di vita e di convivenza: sono i ritmi, la scomposizione del lavoro, l’inquinamento delle città, l’affollamento, la catena di montaggio, la pendolarità, la monotonia, la costrizione e
l’alienazione.
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Sono tutte queste cose che oggi logorano, sciupano, spengono la vita dell’uomo; quindi la contraddizione, in termini medici, non è
più tra uomo e natura, ma tra l’uomo e un altro uomo, perché è l’altro uomo che ha creato tutte queste contraddizioni ed in queste contraddizioni costringe a vivere il nostro uomo, il nostro compagno. Ma se la contraddizione è ora tra uomo e uomo, e non
più tra uomo e natura, questo terzo uomo, che è il medico, da che parte sta? Non può dire di essere dalla parte dell’uomo, ma deve dire dalla parte di quale uomo: cioè con il lavoratore o con il padrone.
Vedendo le cose da questo punto di vista, si può fare qualche chiarezza su quella che è la collocazione effettiva dell’atto sanitario,
e quindi della prestazione medica nella società attuale, intesi e giudicati non come atti di individui singoli, ma come elementi
strutturali della macchina sanitaria.
Si fa chiaro così che la medicina non è né neutrale, né benefica, a livello sociale, ma è uno strumento di gestione per conto del capitale, è un altro comando per conto del padrone. Anche il medico contribuisce a quella gestione, trasmette quel comando anche
se soggettivamente non ne prende coscienza oltre, nei casi migliori e ben rari, che con oscuro senso di contraddizione e di crisi.
Eppure, per superare questa crisi, basterebbe che facesse il medico davvero: ma è proprio quello che non fa.
Basterebbe che sapesse conoscere le nostre malattie per quello che veramente sono: malattie globali, che investono tutto l’organismo, malattie psico-somatiche che hanno la loro autentica e più attendibile espressione nella soggettività del paziente, e non solo
nell’oggettività del medico. Voglio dire che il medico è educato a ridurre il malato ad oggetto, a corpo fatto di organi, a organi visti come macchine o parti di una macchina, che funzionano o non funzionano per quel che il medico constata, non per quel che il
malato sente o dichiara. Così accade che il medico proceda ad un vera e propria scomposizione del malato, così come si procede a
quella di una macchina, e che ne vada in tal modo distrutta o negata, o repressa la soggettività, che è verità della sofferenza e
delle cause che la producono.
Il processo che educa il medico ad operare questa scomposizione, lo scompone a sua volta perché possa convivere con la sua contraddizione. La nostra scuola medica lo porta sempre più a frantumarsi come medico parziale (il medico delle orecchie, il medico
del fegato, dei reni, ecc.), perdendo completamente la capacità di recuperare in sé l’unità necessaria a capire l’unità dell’uomo
che ha di fronte e, quindi, l’unità delle cause che lo rendono malato.
Una manifestazione grottesca di tale tendenza è, tra le tante, il ricorso al laboratorio di analisi: non vi è ormai più nessuno che
per la minima affezione non venga mandato a fare una decina di esami (del sangue, delle urine, ecc.) da un medico che non sa
bene perché le chiede, e, ottenuti i risultati, non saprà bene cosa vogliono dire. So di operai che, arrivati ad un livello limite di
sopportabilità del lavoro in fabbrica, una mattina hanno buttato una chiave inglese sul banco di lavoro e se ne sono andati senza
tornare mai più neanche a ritirare l’ultima busta paga. Se voi aveste fermato all’uscita della fabbrica un operaio in questa condizioni e gli aveste fatto l’esame del sangue e delle urine non avreste trovato niente; però era un uomo disperato lo stesso. So che
negli anni di maggior flusso migratorio da Sud verso il triangolo industriale una donna ogni 90 di quelle immigrate ha tentato il
suicidio entro sei mesi dall’arrivo a Milano, per la disperazione prodotta dall’impossibilità di qualsiasi inserimento sociale. Se voi
aveste fermato quella donna, prima che si buttasse dalla finestra, per farle degli esami, non avreste trovato niente, ma era una
donna che non riusciva più a vivere.
L’uso che si fa di questa riduzione della malattia al dato chimico, al fatto fisico, al segno obiettivo, è solo teso a distrarci dalla conoscenza delle cause reali; cause che non vengono più dalla natura, ma dal sistema. La verità che non si deve sapere e non si deve
dire è che la classe operaia ha una grossa malattia che la investe tutta e che si chiama capitale; ma questa diagnosi non viene mai
fatta, cioè si ricorre a qualsiasi altro tipo di diagnosi pur di tacere questa. Così come non si riesce più a curare.
In un recente dibattito a Pavia un operaio ci chiedeva, con parole semplici e limpidissime: “Perché i medici non curano più? Perché le medicine non guariscono più?” Aveva ragione. Il fatto è che le medicine non servono per queste malattie, e la classe operaia
non deve lasciarsi imbottire di medicine che servono al padrone. Questo tipo di patologia non conosce cure, non vi sono cure adatte: vi è solo la prevenzione. Bisogna abolire le cause di queste malattie. Non si può costringere l’uomo ad un ritmo di lavoro che gli
genera l’ulcera, e poi dopo togliergli un pezzo di stomaco per dire che non ha più l’ulcera. Bisogna togliergli la catena di montaggio; bisogna toglierlo da quella situazione che produce l’ulcera e che lo porta fino a quel punto.
Non vi sono cure per questo, ma per non riconoscerlo si crea il mito del farmaco; questa ipertrofia mostruosa dell’uso del farmaco
per cui quasi tutti gli individui prendono sei o sette medicine al giorno. Questa è una enorme truffa, in due modi:
1) perché riduce ulteriormente l’uomo al servizio del capitale (in questo caso farmaceutico) che recupera un alto margine di profitto;
2) perché ne ribadisce il servizio al capitale più grande (cioè non solo farmaceutico) in quanto tutti questi che consumiamo non
sono medicamenti che guariscono, ma soltanto dei farmaci sintomatici, che servono a togliere il segnale d’allarme, a far tacere
per un momento la voce della sofferenza che poi riemergerà e chiederà altri farmaci ed altre dosi, mentre la malattia rimane e
si aggrava. Sono dei tappi messi in un buco, lo strappo, rimangono.
Quello che si dovrebbe fare è la vera prevenzione. E qui bisognerà che la classe lavoratrice stia bene attenta ai messaggi che viene
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ricevendo su questo argomento, perché la vera prevenzione è soprattutto prevenzione primaria e non prevenzione secondaria.
Noi usiamo questi due aggettivi in sede tecnico-scientifica per distinguere quella che è la ricerca e la rimozione delle cause da
quella che è la diagnosi precoce degli effetti. Il problema non è quello di rincorrere una malattia sulla strada che la malattia ha
già preso a percorrere, perché quando poi la malattia c’è, anche se è precocemente accertata è già in qualche modo accettata. Il
problema è quello di impedire alla malattia di sopraggiungere e quindi quello di risalire veramente a monte per identificarne le
cause profonde e rimuoverle. Questa è quella che noi chiamiamo medicina preventiva.
Ora io voglio concludere questa analisi qui appena abbozzata, ma approfondita altrove più ampiamente, dicendo che la struttura
medica attuale appare per quello che è, cioè strumento di potere; essa sembra rivolta all’assistenza, ma in realtà è rivolta alla gestione della società; ed una gestione per conto terzi, una gestione per conto del capitale. Tipica è la medicina in fabbrica, medicina detta del lavoro, in realtà medicina per il datore di lavoro.
Tipico è l’ospedale psichiatrico, tipico il gerontocomio, l’istituto per handicappati, tutte le istituzioni sanitarie che sono essenzialmente istituzioni per l’esclusione.
Questo è vero dappertutto: in via F. Sforza, a Riguarda, in via Castelvetro, ovunque. Noi con un gruppo di studenti abbiamo fatto
recentemente uno studio sui reparti pediatrici di dodici ospedali lombardi. Ci eravamo chiesti: che tipo di obiettivo ha un ospedale
pediatrico? Esso è visto di solito come un luogo sereno e affettuoso, si pensa che dove c’è un bambino ci debba essere tenerezza;
non certo la violenza o la miseria del manicomio o dell’ospizio. Volevamo rispondere alla domanda se la pratica di un ospedale pediatrico, che dovrebbe essere per definizione soccorritrice e donativa come poche altre, è fatta per ottimizzare la gestione del reparto come azienda o è fatta per ottimizzare l’assistenza del bambino come infermo; abbiamo sempre confermato la prima ipotesi. Del resto, in un’intervista, rilasciata il 13 marzo 1973 a ”L’Espresso”, un avvocato torinese, noto come Giovanni Agnelli, diceva
che dobbiamo ormai renderci conto che gli ospedali sono come le imprese, e come tali vanno gestiti; che non sono più i contenuti,
ma i problemi di efficienza quelli che contano. Il capitale parla ormai chiaro su questi punti; avrebbe avuto timidezza a dire queste cose alcuni anni fa. Ora le dice con molta iattanza.
Concludo su questo punto, dell’assistenza del bambino, che coinvolge tutte le lavoratrici. Un bambino tra la fine del primo anno di
vita ed il terzo anno non può vivere la separazione dalla madre se non come abbandono, perché in una società fratturata e scomposta, come quella del capitale, il suo termine di riferimento è la madre, o chi ne ha il ruolo.
È l’altra immagine rispetto alla quale la sua cresce, ed il suo io si sviluppa. Quindi, quando il bambino è posto improvvisamente in
una situazione per lui incomprensibile, come quella del ricovero ospedaliero (ancorché dettato da una reale necessità), se viene
isolato improvvisamente dalla madre e dalla famiglia, è del tutto smarrito e ne ricava delle cicatrici psicologiche molto profonde e
durature. In realtà in quell’età non esiste il paziente madre o il paziente bambino: esiste un paziente complesso madre-bambino,
che non dovrebbe essere dissociato. Allora qual’è lo spazio che la madre ha nell’ospedale pediatrico? So di dire cose ovvie, perché
quasi tutti voi avete avuto questa esperienza. Ebbene, la madre non ha nessuno spazio. L’orario di visita dovrebbe essere di 24 ore
su 24 per favorire la madre lavoratrice, sia al mattino presto che la sera tardi, per dare anche a lei il modo di vedere suo figlio; invece questo orario è ristretto e fissato secondo la logica gestionale dell’ospedale.
Abbiamo visto qui a Milano, in tre ospedali su quattro, mezz’ora di visita al giorno nelle ore più pazze, cioè con una trascuratezza
totale di quelle che sono le esigenze, non solo della madre, ma soprattutto del bambino, il quale entra poi in una serie di crisi, col
risultato che la madre non può ristabilire con il figlio il rapporto di cui egli ha bisogno.
Quando noi facevamo domande su queste cose, ci rispondevano che sarebbe stato meglio abolire del tutto le visite delle madri. Ci
hanno parlato delle madri meridionali che non capiscono niente, che dovrebbero consegnare il bambino e poi venirlo a prendere
quando è guarito, così come si fa in un’officina dove si lascia un’automobile e poi si torna quando è riparata..
Ci hanno detto molte altre cose che abbiamo riferito in un libro che esce in questi giorni. Ora, qual è il significato profondo di tutto ciò? Non è soltanto negligenza, grettezza d’animo; è la stessa situazione, lo stesso rapporto che intercorre tra l’operaio e la medicina: cioè in ogni malato vi è un corpo malato, ma vi è anche un soggetto, vale a dire vi è lui come uomo che totalizza la sua
storia e la storia della sua classe, della sua famiglia.
L’operazione viene sempre compiuta in forma così riduttiva: è proprio la separazione tra il soggetto e l’oggetto, perché l’oggetto, il
corpo, parla a nome di sé, mentre il soggetto parla a nome di tanti, parla a nome di una situazione di un quartiere, di una classe,
di una fabbrica.
È proprio la negazione di una classe. Il medico, a questo punto, diventa il guastatore della classe operaia; è colui che cerca di
strappare l’individuo dalla classe, che cerca di risolvere ogni rapporto con essa, di togliergli la storia, perché egli non sia più un
portatore di storia, ma il portatore di una cronaca puramente personale; cioè diventi un caso perché poi diventi una cosa. Questo
è dunque il senso della separazione della madre dal bambino all’interno dell’ospedale pediatrico. Il bambino è il paziente ideale:
non ha esigenze, non fa domande; si può fargli qualsiasi cosa. Questo è una specie di modello a cui tenderebbe tutta la gestione
ospedaliera: Cosificare l’uomo, ridurlo a cosa così come è cosificato in fabbrica. L’ospedale cioè è la proiezione sanitaria della fab-
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brica; ne ha tutti gli aspetti caratteristici: la divisione del lavoro, la gerarchia, la separazione tra soggetto ed oggetto. Mi rendo
conto che tutto il mio intervento è fatto in segno negativo, mentre andrebbero fatti anche discorsi positivi. Un discorso sulla medicina si conclude soltanto con una diagnosi amara. Ma se posso dare anch’io una risposta al “che fare?”, che è poi la domanda di
sempre, direi che ciò che è assente è la partecipazione, l’autogestione dei lavoratori. Sono i lavoratori che devono conquistarsi un
posto decisionale anche nell’ambito della sanità. Il lavoratore deve riprendere in mano la sanità, perché essa, in definitiva, è sua.
Scienziato e sostenitore delle lotte per la salute
dei lavoratori
Francesco Carnevale
Azienda sanitaria di Firenze
Le origini di un impegno
Un contesto indubbiamente
favorevole, quello della seconda metà degli anni Sessanta delle università, delle
fabbriche poi e della società,
porta Giulio Maccacaro a ragionare ed a muoversi con il
rigore acquisito in precedenza sul filo di un paradigma
genuinamente maturato e rigidamente espresso: la scienza viene attivamente utilizzata dalla borghesia per perpetuare il proprio potere egemonico sul proletariato inibendo a quest’ultimo il ruolo
che storicamente e meritevolmente gli è assegnato; la statistica e le sue applicazioni
debbono risultare strumenti
autorevoli ed indispensabili
(assieme ad altri ovviamente)
per smascherare, a proposito
del progetto del capitale, le
motivazioni e gli effetti del
“privilegio” assegnato alla
medicina curativa rispetto a
quella preventiva.
La missione da compiere, tanto ovvia quanto impegnativa,
passava attraverso l’inversione del senso della prevenzione dovendo far valere il fatto
che alla pratica della falsa
prevenzione era corrisposta e
corrispondeva l’annullamento
di quella vera e che solo quest’ultima, affrancando il proletariato, la classe operaia
con i suoi propri bisogni di sicurezza e di salute, diventava
utile per tutte le altri componenti della società.
Il contesto storico
A gridare vendetta in quella
particolare contingenza storica c’erano, e molto evidenti,
tutti gli effetti sanitari, differiti, in quanto, per motivi meramente biologici doveva trascorrere il tempo, qualche lustro, necessario per manifestarsi, delle attività produttive che avevano animato, nelle
grandi come nelle piccole fabbriche, la “ricostruzione” del
secondo dopoguerra e quindi
il “boom economico”. Alla base di tutto era riconoscibile lo
sfruttamento o, come è stato
chiamato riferendosi in particolare agli anni dell’immediato dopoguerra, il “supersfruttamento” dei lavoratori, una
miscela esplosiva composta di
disoccupazione, bassi salari,
revisione delle tabelle di cottimo, parcellizzazione e gravosità fisica di molte mansioni, paghe “di posto” o inden-
nità di nocività, innovazioni
tecniche parziali ma anche
arretratezza dell’industria e
degli industriali italiani,
“gabbie salariali”, discriminazione politica sempre più accentuata. Gli effetti si producevano principalmente sul fisico dei lavoratori, al lavoro
come in una guerra, e diventavano computabili, avendone l’intenzione e la capacità,
in termini di malattie, di menomazioni, di invecchiamento e di morte precoce. Lo scenario di questi effetti può essere reso efficacemente con le
stesse parole di Giulio: “…
questa è un’altra strage di
classe, inoltre a quella di cui
sappiamo tutti, questa è veramente un altra strage di Stato
che avviene giorno per giorno, non soltanto il 12 dicembre, ma tutti i giorni dell’anno. A Torino, per esempio, ci
sono ogni giorno 30 infortuni
con perdita anatomica (perdita anatomica vuol dire perdita di un pezzo del corpo, che
può essere una falange, un dito, una mano, un avambraccio, un braccio): Se voi immaginate per un momento questo piccolo o grosso mucchio
di carne sanguinante (fatto di
qualche braccio, di qualche
mano o di qualche dito, ecc.)
che ogni giorno si forma in
quel di Torino, avrete una
precisa rappresentazione di
che cosa significhi l’espressione ‘appropriazione del corpo
da parte del capitale’. Quest’ultima oggi non è neanche
più una metafora, è semplicemente una realtà” (Maccacaro, 1974).
I ragionamenti e le iniziative
di Giulio su queste materie si
sono sviluppate ad ampio
spettro in un decennio, sino
all’improvvisa e prematura
morte avvenuta nel 1977, ed
hanno avuto una grande risonanza diventando referenza
politica di una generazione di
militanti ed influendo decisamente sull’ammodernamento
della cultura della sanità
pubblica in Italia, ed anche
in una certa misura nei cambiamenti istituzionali prodottisi nella sanità nella seconda
metà degli anni ‘70. È in questo scenario che origina,
spontaneamente ma con un
rigore ed una coerenza eccezionale, l’attenzione alla salute dei lavoratori ed alle iniziative culturali e politiche
ad essa correlate da parte di
uno che in passato non se ne
era occupato ove si escluda
un sua precoce ricerca, del
1954, sul solfocarbonismo
sperimentale (Maccacaro e
Dordi 1954; Maccacaro e Dordi 1955) ed una indagine di
tipo sociale sulle condizioni
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igieniche delle abitazioni dei
salariati agricoli del Comune
di Vigevano (Maccacaro e Comaschi, 1955).
La produzione intellettuale
e la militanza
Della nuova stagione di impegno a favore della salute dei
lavoratori sono buoni testimoni in particolare alcuni
suoi scritti preparati per lo
più per convegni con grande
presenza di militanti e di
pubblico, veri momenti di
esplicitazione o di approfondimento di ragionamenti generali sulla salute degli uomini e delle donne. Si debbono
ricordare in particolare: Medicina e lavoro, un intervento
al convegno regionale del PSI
sulla Prevenzione e tutela
della salute delle lavoratrici
tenuto a Milano nel maggio
1973 (dal quale è tratto il
brano proposto in questo fascicolo di “Salute e Territorio”); Classe e salute, il testo
dell’intervento al convegno
sulla salute organizzato dal
PdUP a Firenze nel novembre
del 1973 (Maccacaro, 1974).
Non è da dire tuttavia che altri scritti fondamentali, vero
manifesto del pensiero di
Giulio, trascurino di coinvolgere, in un ambito più generale, la dimensione della salute dei lavoratori. Interessano
però più direttamente la salute dei lavoratori gli scritti
riguardanti i tumori e tra
questi la prefazione al libro di
Renzo Tomatis, La ricerca illimitata (Maccacaro, 1974a) e
L’onere della prova di cancerogenicità: sulle cose o sugli uomini?, editoriale del numero
zero della rivista “Epidemiologia e Prevenzione” scritto a
partire da una relazione te-
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nuta a Padova nel febbraio
1976 al Convegno sull’Epidemiologia e prevenzione dei
tumori occupazionali (Maccacaro, 1976) e quindi alcuni
scritti riguardanti l’“incidente” di Seveso comparsi sulla
rivista “Sapere” (Maccacaro,
1976a). E poi ancora, Al lavoro come in guerra, un servizio
sugli infortuni del lavoro nelle fabbriche e fabbrichette
della Brianza di Giovanni Cesareo su “SE” (“Scienza Esperienza”, supplemento al n.
105 di “Abitare” del 1972):
un numero monografico della
rivista “Sapere”su Cancro da
lavoro (marzo 1974); La medicina del lavoro, una monografia del febbraio 1975 costruita in certa misura attorno ad una testimonianza, L’esperienza dei lavoratori, del
Gruppo di Prevenzione ed
Igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza.
La rivista “Epidemiologia e
Prevenzione”, trimestrale
scientifico rivolto ad accogliere contributi di ricerca, rendiconti di esperienza e proposte
di interventi nei campi della
epidemiologia e della prevenzione rappresenta il naturale
sviluppo di iniziative precedenti ed anche la realizzazione di un obiettivo fondamentale per tutta la cultura biomedica italiana, la diffusione
se non proprio la nascita dell’Epidemiologia in Italia. La
rivista viene concepita tra la
primavera e l’estate del 1976,
praticamente in contemporanea con i fatti di Seveso (10
luglio 1976). Sono questi fatti
che, come si legge sull’editoriale del numero 0 (autunno
1976), in maniera emblematica rappresentano la storia di
nizio di un processo che può
andare molto lontano e che mi
auguro passi anche attraverso
le 150 ore in fabbrica per i
professori, gli studenti e i medici …(Maccacaro, 1974). Le
iniziative hanno come destinatari i lavoratori, ma sono
molti anche i tentativi di realizzare un percorso inverso o
circolare, di sperimentare
cioè il “capovolgimento” delle
facoltà, portandovi i lavoratori o trasferendo gli studenti
ed i docenti nelle fabbriche.
In questo lavoro Giulio solidarizza con i “produttori di
sapere operaio” e principalmente, tra gli altri, con il
Gruppo di prevenzione e igiene ambientale del Consiglio
di Fabbrica della Montedison
di Castellana. Innumerevoli
sono le collaborazioni per la
conduzione di inchieste “dal
basso” sulla nocività in
aziende lombarde e quindi le
occasioni di lotte effettivamente capaci di innalzare il
livello di prevenzione (Clementi, 1997). È sulla spinta
di queste esperienze che nasce la rivista “Medicina Democratica” – movimento di
lotta per la salute “uno strumento di lotta in più nelle
mani del movimento per realizzare condizioni di salute
sempre più adeguate alle esigenze della classe operaia e
delle masse popolari, come
momento intermedio per la
realizzazione definitiva del
proprio benessere attraverso
l’eliminazione delle cause del
malessere e della perdita di
salute attuali” (Medicina Democratica, 1976).
una prevenzione negata, di
una partecipazione esclusa,
quelli stessi che la rivista
vuole contribuire a contrastare scientificamente. L’articolo
di apertura di questo numero
firmato da Giorgio Duca non
casualmente è dedicato alla
Soggettività nella prevenzione
e quindi al tema portante posto in seguito ai risultati del
dibattito affermatisi in quegli
anni a proposito della salute
dei lavoratori; altri due contributi sullo stesso argomento
compariranno nel numero
successivo (scritti da Renato
Rozzi e da Berrino e Morosini,
Primavera 1977).
Della collana feltrinelliana
(Medicina e Potere) tra i 20 titoli pubblicati o programmati
da Maccacaro sono da ricordare quelli che più direttamente hanno contribuito a
innovare in Italia le conoscenze e la pratica della prevenzione nei luoghi di lavoro:
Lavorare fa male alla salute
(Stellman e Daum, 1975), I
medici dalle mani sporche
(Targowla, 1978), L’aggressione nascosta (Biava, 1979) e
Donna e salute, donna e lavoro (Stellman, 1982).
L’enfasi sulla produzione teorica e sugli scritti di Maccacaro non deve oscurare la quantità e la qualità del suo impegno negli interventi sul campo, nelle lotte per la salute
ed in tutto quanto era propedeutico a questi. Giulio con i
suoi collaboratori sono stati
dei fervidi protagonisti della
stagione delle 150 ore. Con
varie iniziative ha messo in
pratica l’auspicio formulato
qualche anno prima: la conquista delle 150 ore di studio
è un’altra prova e un’altra
possibilità di espansione: è l’i-
La soggettività operaia e gli
“esperti”
È sempre cosa ardua dare se-
N. 165 - 2007
guito all’esigenza più o meno
inconscia e sollecitata dai più
di “attualizzare” l’opera di un
grande pensatore e uomo d’azione come Giulio Maccacaro.
Alla realizzare di un tale
obiettivo sono state dedicate
due importanti iniziative
commemorative realizzate in
occasione del primo (Aa.Vv.,
1988) e del secondo decennale (Aa.Vv., 1998) della sua
scomparsa. Queste operazioni
sono sicuramente valse a meglio storicizzare il multiforme
e ricchissimo profilo dell’uomo. Ne risulta il ritratto di un
protagonista assoluto della
sua epoca. La sua opera è
strettamente correlata ai
cambiamenti che si sono prodotti negli anni ’70 nella società, nella cultura scientifica
e generale ed anche negli ambienti di lavoro. In quest’ultimo campo il protagonismo
Maccacaro, lo stratega del SSN
dei lavoratori si è realizzato
in forme dirette e con una capacita’ di indirizzo nel metodo di intervento e nei criteri
di valutazione nei confronti
dei tecnici della salute chiamati a collaborare alle indagini in fabbrica, assumendo
tutti i connotati di una sollecitazione attiva, propositiva
di cambiamenti non procrastinabili ed apprezzabili. Certo l’ipotesi sottesa a questi
avvenimenti era quella di un
mutamento più radicale dei
rapporti sociali tanto da definire, e per sempre, nuovi rapporti di potere e nuovi indirizzi produttivi ed economici.
Il binomio “esperto e rosso”,
tanto abusato in quegli anni,
è l’attributo che meglio si addice a Giulio Maccacaro. Il
suo patrimonio culturale e
scientifico, la capacità di disseminarlo e di applicarlo nel-
Bibliografia
Biava P.M. (1979), L’aggressione nascosta. Limiti sanitari di esposizione ai rischi, Feltrinelli, Milano.
Aa.Vv. (1988), Attualità del pensiero e dell’opera di G.A. Maccacaro,
Costruzione della scienza del lavoro della salute dell’ambiente salubre,
Centro per la salute “Giulio A. Maccacaro”, Castellanaza.
Aa.Vv. (1998), Conoscenze scientifiche, saperi popolari e società umana alle soglie del duemila: attualità del pensiero di Giulio A.
Maccacaro, Atti del Convegno internazionale, Quaderni di Medicina
Democratica, Supplemento ai numeri 114-118 dell’omonima rivista,
Milano.
Clementi M.L. (1997), L’impegno di Giulio A. Maccacaro per una nuova
medicina, Medicina Democratica, Milano.
Maccacaro G.A., Dordi F. (1954), Il Solfocarbonismo sperimentale 1.
Solfocarbonismo ed avitaminosi B1, Annali della Sanità Pubblica, 15:
109-35.
Maccacaro G.A., Dordi F. (1955), Il Solfocarbonismo sperimentale 2.
Solfocarbonismo in animali trattati con tiamina e cocarbossilasi, Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia, 5-6: 1641-8.
Maccacaro G.A., Comaschi D. (1955), Inchiesta sulle condizioni igieniche delle abitazioni dei salariati agricoli del comune di Vigevano, Rivista Italiana d’Igiene, 15: 48-70.
la giusta direzione e nelle migliori occasioni assume il significato di un investimento
a lungo termine e comunque
un valore da ricercare e da riproporre. Come derivanti dall’insegnamento complessivo
di Giulio sono da considerare
almeno due situazioni tuttora decisive nel campo della
protezione e della autotutela
di ogni genere di lavoratore e
quindi di ognuno. In primo
luogo il rispetto, con il dovuto arricchimento scientifico,
dei processi che portano a valorizzare la soggettività degli
individui; dall’altra una visione più attiva e critica del tecnico e dello scienziato, tale
da umanizzare il parametro
freddo della “indipendenza”
in grado di influenzare con
sicurezza orientamenti e
scelte di campo nelle azioni
che hanno un effetto impor-
Sae l ute
Territorio 367
tante sulla società e sugli uomini e le donne. Se questo
processo verrà attivato, anche a costo di perdere l’occasione di ulteriori fasi alte di
lotta, la salute dei lavoratori
italiani sarà stata tutelata
con continuità e forse nella
stessa misura di tutti i lavori
di ogni altro posto del globo,
obiettivo quest’ultimo che
dovrebbe essere condiviso da
un’opinione pubblica finalmente attenta ai valori e ai
costi sociali della protezione
dei lavoratori e del lavoro e
più complessivamente dell’ambiente, attenzione questa
che rappresenta una importante novità rispetto a quanto accaduto anche negli anni
di Giulio. Tutto ciò serve a
combattere da una parte la
latitanza delle istituzioni
dello Stato e, dall’altra, la solitudine dei lavoratori.
Maccacaro G.A. (1974), Classe e salute (testo dell’intervento al convegno organizzato dal PdUP, Firenze, Novembre 1973) in Aa.Vv., La salute in fabbrica, Savelli, Roma, vol. 1, pp. 17-33.
Maccacaro G.A. (1975), Medicina e lavoro, in F. Dambrosio, E. Badaracco, M. Buscaglia (a cura di), Donna, salute, lavoro, Mazzotta, Milano.
Maccacaro G.A. (1974a), Prefazione, in R. Tomatis, La ricerca
illimitata, Feltrinelli, Milano, pp. 7-31.
Maccacaro G.A. (1976), L’onere della prova di cancerogenicità: sulle cose o sugli uomini?, Epidemiologia e Prevenzione, O (zero): 5-7.
Maccacaro G.A. (1976a), Seveso: un crimine di pace, Sapere, 89 (n.
796): 4-9.
Maccacaro G.A. (1979), Relazione su “L’uso di classe della medicina”
(Modena, 25 febbraio 1972), Testo della registrazione, ora in G.A.
Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-76, Feltrinelli,
Milano, pp. 406-34.
Medicina Democratica - movimento di lotta per la salute, Editoriale,
n. 0, aprile 1976.
Stellman J.M. (1982), Donna e salute, donna e lavoro, Edizione italiana a cura di C. Savonitto e G. Tessadri, Feltrinelli, Milano.
Stellman J.M., Daum S.M. (1975), “Lavorare fa male alla salute” I rischi
del lavoro in fabbrica, prefazione di F. Carnevale, Feltrinelli, Milano.
Targowla O. (1978), I medici dalle mani sporche, La medicina del
lavoro, Prefazione e cura di F. Carnevale, Feltrinelli, Milano.
l ute
Sa
e
368 Territorio
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
Malattia qualitativa
e malattia quantitativa*
N
on potremmo, infatti, parlare utilmente di medicina preventiva se non sapessimo quali sono le malattie da prevenire. E non
possiamo saperlo se non statisticamente. Il confronto rappresentato nella prima figura dice che, pur in un paese non completamente industrializzato qual è il nostro, e in un arco di tempo corrispondente ad una sola generazione, il pattern distributivo delle cause di morte è cosí cambiato da essere irriconoscibile. La piú drastica riduzione è avvenuta a carico delle malattie
infettive il cui contingente di morti si è ridotto ad un quinto; i piú cospicui incrementi sono quelli dei tumori che hanno quasi triplicato e delle malattie cardiovascolari che hanno piú che duplicato i contingenti rispettivi.
Tenendo conto delle distribuzioni per classi e per cause di morte, ci si convince facilmente che si tratta un unico fenomeno che segna la vittoriosa conclusione della lunga lotta contro le malattie infettive. Il trentennio considerato si apre, infatti, con la scoperta dei sulfamidici, vive la grande stagione degli antibiotici e si conclude con la proposta dei primi antivirali. Nella sua vigilia il
medico era ancora praticamente privo di farmaci efficaci per la cura delle malattie infettive. Tuttavia – e questo è il punto che vorrei sottolineare – la mortalità per esse era già declinante da tempo, cosí come da tempo le grandi epidemie erano divenute argomento di lezione più per gli storici che per i medici: questi ultimi avevano imparato che la prevenzione può essere più efficace che
la cura. Erano state, infatti, l’igiene degli alimenti e degli ambienti nonché la profilassi vaccinica specifica che avevano dato il
controllo di molte malattie infettive prima che se ne conoscesse qualsiasi terapia.
Consideriamo un poco piú da vicino, se pur in termini estremamente generali, questo tipo di patologia di cui veniamo discorrendo. Vediamo subito che la malattia infettiva, nell’accezione piú lata, ha un profilo caratteristico noto anche alla cultura non specializzata: è causata da un agente esogeno microbico; si propaga nella popolazione per contagio diretto o indiretto, a mezzo di
vettori o veicoli, secondo una catena epidemica di varia lunghezza e complessità; è diagnosticabile per isolamento dell’agente
stesso o per riconoscimento di suoi effetti specifici; è accompagnata di solito da una reazione cellulare e biomolecolare dell’organismo che acquisisce in tal
modo una immunità specifica
Figura 1 - Percentuali di
a successive infezioni dello
mortalità per gruppi di cause
stesso tipo.
in Italia nel triennio 1932-1934
Già questi pochi tratti fisiono(a sinistra) e nel triennio
mici della malattia infettiva
generalizzata bastano ad in1962-1964 (a destra). I gruppi
dicare alcuni fondamentali
di cause di morte sono così
criteri di medicina preventiva;
indicati:
1) ricerca ed eradicazione delRES: Morti per malattie dell’apparato
l’agente patogeno nell’amrespiratorio; CIR: Morti per malattie
biente e nei portatori;
dell’apparato cardiocircolatoriio,
2) interruzione della catena
DIG: Morti per malattie dell’apparato
digerente; NER: Morti per malattie
epidemica in ogni punto
dell’apparato nervoso; INF: Morti
aggredibile;
per malattie infettive; TUM: Morti
3) immunizzazione specifica
per tumori; SEN: Morti per
artificiale dei soggetti sani.
senescenza; ACC: Morti per accidenti;
Ebbene, ho cercato di richiaALT: Morti per altre cause.
mare l’attenzione su questi
* Questo contributo di Maccacaro, insieme a tutti gli altri che seguono, è tratto da Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli,
1979.
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
Sae l ute
Territorio 369
punti soltanto per dire che
Figura 2 - Alcune caratteristiche
nessuno dei criteri ora indicaMalattia
Malattia
della malattia tifoidea e della
ti – pur essendo il vanto di
infettiva
degenerativa
malattia arteriosclerotica
(es.: Tifo - paratifi)
(es.: Arteriosclerosi)
una medicina preventiva che
assunte come paradigmi
ha raddoppiato l’età media
Eziologia
Specifica
Aspecifica
rispettivamente della patologia
dell’uomo – avrebbe senso e
Predisposizione
Assente
Presente
Prodromi
Sintomatici
Asintomatici
tanto meno efficacia se fosse
infettiva e della patologia
Decorso
Acuto
Cronico
rivolto a prevenire le malattie
degenerativa. Trattasi di un
Guarigione
Possibile
Impossibile
che attualmente causano il
confronto sommario che,
Trasmissione
Infettiva
Ereditaria
maggior numero di morti. Se
Immunità
Presente
Assente
intenzionalmente, manca
assumiamo la malattia tifoiEtà modale
Infanzia
Vecchiaia
di sfumature perché siano
dea come paradigmatica di
più evidenti i contrasti.
quella patologia infettiva che
occupava ancora largamente la
scena quando la mia generazione era infante e la malattia arteriosclerotica come paradigmatica di quella patologia degenerativa che domina già largamente il
quadro sanitario mentre la mia generazione non è ancora senescente, il loro confronto (vedi figura 2) ha tutti i caratteri della perfetta opposizione.
Forse nessun tassonomo riconoscerebbe come specie di uno stesso genere o generi di una stessa famiglia due entità così contraddittorie. Eppure diciamo che si tratta in entrambi i casi di una malattia. Oppure dobbiamo mettere in discussione il concetto stesso di malattia, come ora vorrei fare brevemente, convinto che non si tratti di una digressione ma di un chiarimento essenziale allo
sviluppo del tema che ci siamo proposti.
Soprattutto il chiarimento dovrebbe vertere sull’esistenza delle malattie come entità indipendenti: esistenza, dirò subito, affermata da alcuni secoli di dottrina medica sino ai tempi della nostra educazione universitaria. A questa era sottesa ancora l’idea affatto linneiana di un insieme gerarchicamente ordinabile di malattie, presenti o assenti, singolarmente o molteplicemente, nell’uomo sano e nell’infermo.
La transizione epidemiologica da Maccacaro
ai nostri tempi
Eva Buiatti
Agenzia regionale di sanità della Toscana
Q
uando Maccacaro descriveva i dati di mortalità italiani del suo
tempo e li confrontava con
quelli degli anni trenta, correvano gli ultimi anni Sessanta del secolo scorso 1 . In
quegli anni nei Paesi occidentali il quadro epidemiologico aveva già subito profonde trasformazioni, caratteriz-
1
zate dal crollo della mortalità
per le malattie infettive (ma
anche per quelle respiratorie
e dell’apparato digerente),
mentre stava emergendo il
ruolo dei tumori e, forse ancora più chiaramente, quello
delle patologie dell’apparato
circolatorio.
Maccacaro vedeva in queste
trasformazioni i segnali di un
trend epocale, quindi destinato a durare, e diffuso, quindi
destinato ad avere rilevanza
per la specie umana. Un andamento figlio da un lato di
una clamorosa vittoria (quella
sulle malattie infettive) e,
dall’altro, di una dolorosa anche se non scontata sconfitta
nel campo delle patologie croniche emergenti. Suggeriva
G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, pp. 59-62.
anche una interpretazione di
questo diverso destino delle
nostre battaglie in difesa della salute. Identificava infatti
le patologie infettive come
monocausali, ben caratterizzate nel loro percorso eziopatogenetico che è possibile interrompere con la riduzione
della diffusione dell’agente
patogeno, la immunizzazione
dei soggetti a rischio di infezione, la terapia. Le malattie
cronico-degenerative invece
le descriveva come caratterizzate da una natura complessa
e sfumata, da una origine
multifattoriale, ad insorgenza
graduale e subdola, con de-
l ute
Sa
e
370 Territorio
corso forse non modificabile e
comunque spesso poco conosciuto, quindi più difficilmente aggredibili sia con la prevenzione che con la terapia.
Dopo quaranta anni si può discutere sul valore attuale delle sue interpretazioni e suggestioni, attraverso una più
recente analisi dei dati epidemiologici e del loro andamento nel tempo, che ci permette
di descrivere un quadro complesso e variegato.
Intanto, le malattie infettive
e parassitarie.
Correttamente Maccacaro attribuiva il crollo di mortalità
per queste cause alla prevenzione primaria prima che all’entrata in commercio di sulfamidici ed antibiotici: una
prevenzione in parte programmata (soprattutto attraverso la introduzione delle
vaccinazioni di massa e con
la diffusa attenzione alla
qualità dell’acqua); in parte
frutto secondario delle mutate condizioni di vita e della
crescita della qualità igienica
nella popolazione.
In effetti una visione più globalizzata della salute, possibile oggi e non ai tempi di
Maccacaro, mostra che non
solo negli anni Sessanta ma
neanche oggi la battaglia
contro le malattie infettive è
veramente vinta, se si fa eccezione per alcune, poche patologie che sono oggetto di
vaccinazione e nello stesso
tempo di un intervento pressante e sistematico dell’OMS
in tutti i Paesi perché la vaccinazione venga applicata
(vedi il vaiolo e, più recente-
2
3
Maccacaro, lo stratega del SSN
mente, la polio).
Paradigmatica a tal proposito
è la vicenda della malaria.
Dopo le speranze suscitate in
alcuni Paesi dalle tecniche di
prevenzione della malaria
tramite la lotta ai vettori con
i piretroidi ed il DDT, la malaria ha rialzato la testa. Il 40%
della popolazione mondiale
oggi è ancora a rischio, e
ogni anno si ammalano 500
milioni di persone. Non solo
gli insetticidi usati in maniera spesso sconsiderata risultano sempre meno efficaci,
ma anche la terapia della malattia conclamata (e la sua
profilassi) risultano sempre
più complesse per la emersione di ceppi resistenti2.
È vero che l’epidemia di malaria per manifestarsi richiede
specifiche condizioni climatiche, come quelle che caratterizzano soprattutto i Paesi nel
sud del mondo. È anche vero
però che il sud dell’Europa e
degli USA in passato ha dimostrato di poter ospitare vettori e plasmodi (e tanto più lo
potrà fare in futuro con i
cambiamenti climatici in atto), e tuttavia in questi Paesi
la malaria è stata sconfitta.
Occorre rivedere il paradigma
della malaria come patologia
monocausale, dovuta al plasmodio. Si tratta invece di
una patologia pluricausale: da
un lato il plasmodio e la sua
capacità di sopravvivenza,
dall’altro la miseria ed il suo
effetto dirompente sull’ambiente e sulla salute umana.
Un altro esempio di patologia
infettiva di interesse attuale
è dato dal virus HIV, una epi-
demia che Maccacaro ovviamente non poteva prevedere e
che non ha mai visto, ma la
cui comparsa nei decenni passati ha messo fortemente in
crisi l’ottimistica visione che
ci fossimo quasi liberati dalle
malattie infettive. Per la prima volta quest’anno l’OMS segnala una riduzione di diversi
milioni nel numero di soggetti sieropositivi, che tuttavia
si colloca ancora fra i 30 ed i
40 milioni di persone. Ma ancora più che in passato la distribuzione della malattia è
diseguale, e il contributo più
pesante è dato dai Paesi più
poveri, in particolare l’Africa
sub-sahariana. Inoltre, la riduzione della prevalenza dei
sieropositivi (non il rallentamento della loro crescita) negli ultimi anni, poiché il virus
una volta acquisito permane
per tutta la vita, non può che
significare che la mortalità da
AIDS (la malattia conclamata)
in quei Paesi è ancora altissima, per la mancata diffusione
delle terapie efficaci nella popolazione. Sono quei morti,
insieme al rallentamento della
crescita dei nuovi infettati,
che hanno permesso una riduzione secca del numero dei
sieropositivi. Anche in questo
caso quindi una patologia
multifattoriale: il virus certamente, associato a miseria e
disgregazione sociale.
Potremmo forse dire in sintesi
che, al contrario di quanto si
pensava a metà del secolo
scorso, oggi sappiamo che vinceremmo la battaglia contro le
malattie infettive se riuscissimo ad applicare in tutto il
WHO, 2007.
CDC-MMWR, S.L. Steward et al., Cancer mortality surveillance, United States 1990-2000.
N. 165 - 2007
mondo quanto conosciamo
per prevenirle e curarle.
Che dire dell’altro aspetto
della transizione epidemiologica, e cioè l’aumento delle
patologie croniche?
Usualmente si tende a credere che, se le malattie infettive sono legate alla miseria,
quelle cronico-degenerative
sono legate alla ricchezza:
una specie di egualitarismo
della natura rispetto alle opportunità di salute concesse
al genere umano.
Le cose però non stanno proprio così.
Se si guardano i dati epidemiologici degli ultimissimi
anni, si nota che nei Paesi occidentali si è verificato sì un
aumento costante di patologia cardiovascolare e di neoplasie nel loro insieme, ma
questo è spiegabile per la
maggior parte con l’aumentare della età media ed il comparire sulla scena di grandi
masse di popolazione anziana, a causa dell’aumentata
speranza di vita.
In realtà, ad esempio nel caso
delle neoplasie, si nota nell’ultimo decennio una riduzione della mortalità, dovuta
soprattutto ad una riduzione
dei decessi per tumore del
polmone nei maschi (e qui è
intervenuta la prevenzione
dell’abitudine al fumo) e di
quelli della mammella nelle
femmine (contributo della
diagnosi precoce e della terapia, e recentissimamente anche della minore diffusione
delle terapie sostitutive in
menopausa). Questi dati, veri
per gli Stati Uniti3, si ripeto-
N. 165 - 2007
no sostanzialmente in tutti i
Paesi occidentali.
Questa considerazione non
significa sminuire il significato di alcuni aumenti importanti di specifici tipi di neoplasia, né la rilevanza della
epidemia di obesità, segnalata con forza dall’OMS e foriera
di aumenti di patologie cardiovascolari e anche neoplastiche; e neanche significa
misconoscere la possibilità,
anzi il dovere, di intervenire
comunque con la prevenzione
che sappiamo essere efficace
su queste patologie.
Significa però che, dopo un
indubbio aumento per alcuni
decenni, a parità di età la
epidemia di patologie croniche a livello macro nei Paesi
sviluppati sembra avere subì-
4
WHO, 2007.
Maccacaro, lo stratega del SSN
to una battuta di arresto, anche se variegata se si considerano le singole malattie, e
soprattutto riferita alla mortalità. A cosa dobbiamo questa frenata, se non una vittoria sulla mortalità per patologie cronico-degenerative, almeno un iniziale controllo? È
complesso attribuire porzioni
del parziale successo alla prevenzione piuttosto che alle
terapie. Certamente ambedue
questi aspetti hanno avuto
un ruolo, e ambedue possono
averne in futuro uno ancora
maggiore. È vero però che gli
effetti potenzialmente immensi della prevenzione (a
giudicare almeno dalla letteratura epidemiologica) sono
stati ben poco sfruttati anche
nei Paesi occidentali e ancora
moltissimo resta da fare sia in
termini di prevenzione individuale che di comunità.
Ma le cose stanno andando
peggio nei Paesi poveri. Ad
esempio per quanto riguarda
la patologia cardiovascolare,
questa ha causato nel 2001
più di 16 milioni di morti a livello globale, ma di questi
l’80% è avvenuto (contrariamente a quanto si potrebbe
credere) nei Paesi a reddito
basso o medio-basso, e questo nonostante la minor componente delle classi di età anziane in quelle popolazioni4.
Accadrà per le patologie cronico-degenerative ciò che già
sta accadendo per le malattie
infettive? Riusciremo quantomeno a frenarle in questa parte del mondo, mentre nell’al-
Sae l ute
Territorio 371
tra dovranno convivere i due
tipi di problema di salute,
quelli acuti e quelli cronici, a
causa del diffondersi di stili di
vita a rischio insieme alla povertà e alla non disponibilità
di cure e controlli efficaci?
Se questo sarà il caso, non si
potrà più parlare di una transizione epidemiologica a livello globale, ma di almeno
due transizioni e con andamenti molto diversi.
Non potremo, in questo mondo globalizzato, dire che stiamo vincendo la battaglia per
avere più salute se questa
non sarà vinta dappertutto.
Anche perché, trattandosi
appunto di un mondo globalizzato, nessun popolo potrà
ritenersi al sicuro se non saranno al sicuro tutti i popoli.
l ute
Sa
e
372 Territorio
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
Prevenzione secondaria
e screening di massa
L
a prevenzione secondaria si attua in qella fase della malattia che abbiamo detto latente. Per la patologia cronico-degenerativa questa fase è molto spesso silenziosa sul piano sintomatologico così alla soggettività del paziente come all’esame obiettivo del medico generico. Ma, nella maggior parte dei casi, essa è anche la più diffusa nella popolazione. Ciò vuol dire che per
ogni paziente clinicamente canceroso, iperteso, diabetico, psicotico ne esistono altri – decine o centinaia – che da tempo e per altro tempo sono inconsapevolmente affetti dalle stesse malattie. L’incesso di queste è così lento e protratto da giustificare la speranza che una rilevazione tempestiva, cioè una diagnosi e una cura precoci, possano interrompere nei suoi primi stadi la evoluzione morbosa prevenendone gli effetti dannosi.
Questa, semplicemente, è la base degli screenings cui si rivolgono molte ma contrastate speranze della medicina preventiva: ancora una volta un problema di facile formulazione ma di difficile soluzione, come appare non appena si rifletta su questa definizione adottata dall’Organizzazione mondiale della sanità: “Le prove di screening separano le persone apparentemente in buona salute ma probabilmente affette da una particolare malattia da quelle probabilmente indenni dalla stessa. Tali prove non si propongono di essere diagnostiche ...” (cfr. Wilson e Jungner, 1968).
In queste brevi righe sono indicati tutti i problemi che qui mette conto di discutere.
In primo luogo è chiaro che l’ambito dell’indagine si estende dal ristretto gruppo dei malati al ben più largo insieme di coloro che
sono candidati ad esserlo: cioè a quanti – per età, condizioni di vita, tipo di occupazione, creditarietà, costituzione, ecc. – sono
esposti al rischio della malattia. Ciò significa, secondo valutazioni che ho già riferito altrove, un salto di due o tre ordini di grandezza nel numero di individui da esaminare (Maccacaro e Colombi, 1967).
Ebbene, è semplicemente impossibile compiere questo salto dalla pedana della medicina convenzionale: per leggere, con adeguata
periodicità, i vetrini istologici corrispondenti ad altrettante donne esposte al rischio del cancro dell’utero, gli elettrocardiogrammi
e i dati ematochimici di tutti gli uomini candidati all’infarto, le tonometrie oculari di tutti coloro che sono potenzialmente soggetti a glaucoma e cosí di seguito per tutti gli esami che integrano oggi una prevenzione secondaria di base occorrerebbe moltiplicare
il numero delle persone addette ai servizi sanitari per un fattore inaccettabile a qualsiasi comunità che non voglia sprofondare
nella contemplazione ipocondriaca di sé stessa a scapito di ogni altra attività.
L’unica possibilità alternativa è l’automazione degli screenings in tutti i momenti della loro realizzazione: questi vanno dalla programmazione delle prove, alla registrazione dei dati, all’analisi dei risultati. A ciascuno di questi momenti si addice, pur con diversi gradi di difficoltà, l’automazione elettronica come è dimostrato da una ricca letteratura scientifica della quale ho già riferito
in una recente occasione (Maccacaro e Colombi, 1967).
Qui mi pare di dover segnalare, tra i molti comuni ad altri campi, due problemi particolarmente acuti in questo e sui quali è augurabile, per noi medici, che possano convergere l’attenzione e lo studio dei cultori di calcolo automatico e di elettronica.
Uno è il problema del perfezionamento di dispositivi atti a porre il paziente sempre più “in linea” con il calcolatore attraverso
adatte interfaci. Occorrono sistemi di trasduttori idonei a raccogliere contemporaneamente le informazioni rilevanti che emergono
dal corpo del paziente e a trasmetterle, via un convertitore analogico-digitale, all’elaboratore che, simultaneamente in linea con
più pazienti, controlli anzitutto il campionamento (Rockwell, Shubin, Weill, Meagher, 1966; Talbot, 1965), provveda poi a un’elaborazione preliminare delle variabili registrate (Marx e Hunter, 1959) e proceda infine a registrazione, analisi e confronto con soglie critiche per il riconoscimento di valori normali e patologici.
Va anche detto, per la verità, che per una parte non piccola dell’informazione rilevante l’esigenza più autentica non è quella dell’elaborazione “in linea” ma quella dell’elaborazione “in tempo” e che pertanto pretendere l’una anche quando l’altra è sufficiente sarebbe sintomo di quella grave malattia che è il feticismo tecnologico.
L’altro problema cui intendevo riferirmi è posto dalla notevole e forse caratteristica rilevanza delle informazioni di tipo morfologico in medicina: si tratta dell’immagine radiografica di un cranio o del tracciato dell’attività bioelettrica del cervello in esso contenuto; si tratta della forma di un tumore o di quella del nucleo delle sue cellule. In ogni caso si tratta di ingenti volumi di informazioni, assai complesse e significative, che richiedono grandi quantità di tempo per la rilevazione e grandi capacità integratrici per
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l’interpretazione. Per questi motivi il problema del pattern recognition mi sembra uno, dei passaggi obbligati di maggior importanza verso l’automazione degli screenings per la medicina preventiva. Per gli stessi motivi una sezione del nostro gruppo dedica
le sue ricerche a problemi di pattern recognition con particolare riferimento al riconoscimento e alla classificazione di cromosomi
umani, ma anche di immagini radiologiche e di tracciati bioelettrici (Gallus, Montanaro, Maccacaro, 1967 e 1968; Gallus, 1968;
Basagni, Montanaro e Regogliosi, 1968).
Sviluppo della tecnologia e della biomedicina
Eugenio Paci
UO di Epidemiologia clinica e descrittiva - CSPO Istituto scientifico della Regione Toscana
N
egli anni sessanta,
quando Giulio Maccacaro scriveva la sua relazione sull’elaborazione automatica dei dati pubblicata nel
volume Per una medicina da
rinnovare, lo sviluppo dei sistemi informatici era all’inizio della prodigiosa crescita a
cui oggi, guardando a ritroso,
guardiamo con stupore. Negli
anni Sessanta, nell’industria
e nella ricerca erano state introdotti i sistemi a schede
perforate e i primi elaboratori, i linguaggi per il software
erano padroneggiati da un
gruppo ristretto, di avventurosi ricercatori.
Rapidamente si diffuse il
computer che negli anni Ottanta era già divenuta la nuova divinità della nostra vita.
Nella sua discussione, in particolare in queste pagine del
suo contributo appare chiaro,
dalle citazioni di nomi significativi del sistema sanitario
inglese come l’atmosfera in
cui egli viveva fosse quella
scientifica e di sanità pubblica internazionale, attento a
ciò che si sviluppava nel panorama negli altri Paesi e in
particolare in una comunità
sensibile alle tematiche della
salute di comunità, della statistica sociale e sanitaria
(meno definita di quanto sarà
poi da noi, come epidemiologia) e aperta già allora alla
discussione sulle potenzialità
dello sviluppo dell’automazione nella elaborazione dei
dati.
In Inghilterra in quegli anni,
sull’onda del libro di Archibald Cochrane, iniziava la discussione, che ancora oggi ci
accompagna, sugli screening,
sulla loro efficacia nel raggiungimento degli obiettivi
(ricordo la discussione sullo
screening con il Pap test, mai
formalmente dimostrato efficace con trial randomizzato),
su come la sanità pubblica si
dovesse attrezzare nei confronti di questa nuova possibilità della medicina tecnologica. I principi del WHO sugli
screening, pubblicati nel 1968
e ripresi da Maccacaro, sono
ancora citati da molti, seppure a mio avviso siano oggi poco attuali, come i comandamenti dei programmi di screening in sanità pubblica.
Io credo che questa apertura
alla conoscenza internazionale non subordinata, ma
partecipe, con la dignità del
protagonista che è interno ad
un dibattito e non che lo segue leggendo qua e là un titolo o un articolo sulle riviste
scientifiche internazionali,
sia una delle più importanti
qualità che traspira dal lavoro
di G.A. Maccacaro. Di fronte
ad un mondo medico e accademico chiuso in se stesso ed
autoreferenziato come era
quello italiano negli anni
Sessanta, leggere il suo contributo fa immediatamente
capire che il suo riferimento
era il mondo della ricerca anglosassone; quel mondo, come egli ricorda nel citare il
lavoro del suo allievo Rodolfo
Saracci sulla valutazione di
qualità dei laboratori, a cui
riteneva indispensabile che la
medicina italiana facesse riferimento per acquisire credibilità e rigore.
Forse a qualcuno questo lato
del pensiero di Maccacaro può
sembrare secondario rispetto
a ciò che viene espresso nei
suoi scritti più politici. A me
sembra invece che rappresenti a tutt’oggi uno dei suoi più
importanti messaggi. Lo sviluppo dell’Epidemiologia italiana successiva, così presente a livelli di grande autorevo-
lezza nelle riviste scientifiche
internazionali, ha confermato
ampiamente la vitalità di
quell’impianto culturale, che
ha ripreso dalla scuola anglosassone il rigore scientifico
non rinunciando alla dimensione sociale e di sostegno
della promozione della salute
e della prevenzione. La rivista
da lui fondata, “Epidemiologia & Prevenzione”, è non per
caso una delle poche italiane
che si distinguono per attenzione al rigore scientifico e
alla sanità pubblica.
Nel discutere della medicina
preventiva Maccacaro fa riferimento alla tradizionale distinzione della prevenzione
in primaria, secondaria e terziaria e affronta le implicazioni dello sviluppo della tecnologia nella nostra capacità
di individuare precocemente
le malattie con l’obiettivo di
mantenere lo stato di salute.
Un punto mi pare essenziale
nella premessa che Maccacaro
fa sulla prevenzione secondaria. Una azione medica di
questo tipo può esistere solo
nella realtà, allora incipiente,
dei calcolatori, nella nuova
realtà della archiviazione automatica dei dati.
Credo che questo punto sia
centrale nella sua argomentazione e mi sembra che il tempo abbia confermato questa
sua intuizione. Lo sviluppo
dell’imaging diagnostico, degli approcci di laboratorio, è
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cresciuta in questi anni in
una maniera non prevedibile.
In contemporanea si sono
aperti settori, che operano
coadiuvati dalle potenzialità
rese possibili dallo sviluppo
dei calcolatori, che hanno
aperto scenari nello studio
della genetica ma anche delle
componenti ambientali, pensiamo allo studio delle polveri, che erano assolutamente
fuori portata. Un mondo che
si è trasformato e che ha modificato sostanzialmente la
medicina, oggi sempre più
biomedicina in cui la tecnologia informatica applicata alla
diagnostica sta in questi ultimi anni aprendo ancora nuove
possibilità. Maccacaro intuì
molto di questo potenziale e
soprattutto individuava la sua
ricaduta per la definizione di
uno stato di salute di massa.
Criteri per definire le soglie di
malattia, possibilità di verificare differenze nella prassi
biotecnologica, cioè i problemi che saranno di crescente
importanza nella valutazione
della qualità e validità del dato, sono aspetti correlati al
contributo che questa massa
di nuove conoscenze può avere per la salute della popolazione: sfide di allora che sono
in gran parte sfide di oggi,
quando è più facile vederle
anche se forse ci appare ancora più improbo governarle.
In altri scritti successivi la
posizione di Maccacaro nei
confronti della medicina predittiva è assai più critica che
in questo testo, dato che sostanzialmente ne parla in termini di falsa prevenzione contrapposta alla vera, quella
della medicina primaria. Sottolinea in sostanza i rischi
connessi allo sviluppo di un
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mercato delle indagine diagnostiche, il rischio di essere
lo strumento di un’ approccio
solo tecnologico alla malattia.
È indubbio che proprio in
questa direzione è andato
molto dello sviluppo della
medicina preventiva, che in
larga parte si è fatta assorbire
da quella predittiva. Si è sviluppata in questi decenni
una medicina preventiva prevalentemente centrata sui
fattori di rischio e sulla possibilità di correggerli con iniziative personali, dell’individuo. Fumo, alcol, obesità
vengono dipinte come responsabilità della persona,
ma soprattutto la medicina
produce test che fissano soglie di valori da non superare.
Soglie che lo sviluppo della
tecnologia, della capacità di
misura spinge a rendere sempre più basse e invita a ridurre attraverso interventi farmacologici.
Cosi la medicina predittiva è
divenuta la nuova frontiera
della stessa medicina clinica:
i limiti si sono confusi, spesso sovrapposti, invitando anche il clinico, che sempre più
spesso risponde a una persona sana che a lui si rivolge
per preservare la propria salute, a spaziare in campi che
non gli erano noti. La medicina clinica si trova ad affrontare il tema, del tutto nuovo,
del sano che vive, incarna, un
rischio di malattia. Segnan e
Armaroli hanno ben discusso
in un interessante articolo,
seguito da un successivo dibattito, questo modificarsi
del rapporto tra clinica e prevenzione su “Epidemiologia e
Prevenzione” nel 2002.
L’atteggiamento di Maccacaro
in tutti i suoi lavori non era
condividere e globalizzare.
Ognuno di noi può partecipare in diretta, per esempio, al
dibattito scientifico in America o altri Paesi europei senza dover attendere, come avveniva fino a pochi anni fa,
l’arrivo, tardivo, delle riviste
da oltreoceano. Questa potenzialità nuova offre possibilità diverse alla partecipazione, alla capacità di ognuno
di documentarsi, conoscere e
intervenire. È forse questo il
maggiore cambiamento di
questi due ultimi decenni. Un
cambiamento, che in termini
del tutto nuovi, ripropone la
questione della partecipazione e del potere.
In questi anni la medicina
predittiva ha sicuramente
avuto un grande sviluppo
tecnologico e posto rilevanti
problemi per il suo impatto
sulla sanità pubblica. Però è
anche un fatto che a partire
dagli anni Ottanta, e sicuramente lo sviluppo della elaborazione dei dati ha dato un
importante contributo, si sono attivati grandi iniziative
di sanità pubblica da parte
dei sistemi sanitari universalistici in gran parte dell’Europa che hanno visto il coinvolgimento di milioni di donne e
uomini per gli screening del
tumore della mammella, del
colon retto, che si sono aggiunti a quello dello screening per il tumore della cervice. L’avvio di questi programmi è avvenuto secondo un
processo, sebbene discusso e
contrastato, di costruzione
dell’evidenza scientifica in
studi sperimentali e il trasferimento, in accordo con linee
guida condivise, delle indicazioni in programmi attivi di
massa. Offerta di test per la
luddista, bensì scientifico e rivolto a considerare quello che
la scienza poteva offrire all’uomo ed in particolare alle
classi più svantaggiate. L’enorme sviluppo pone noi oggi,
come probabilmente avrebbe
posto lui,in condizioni di governare un mondo che produce scienza e soprattutto tecnologia senza prevedere le
possibilità di controllo. Il suo
invito è stato sempre duplice
e credo che, seppure a cosi
tanti anni di distanza, possa
essere considerato ancora valido. Scientificità, verifica di
efficacia, controllo di qualità,
ma anche interpretazione del
senso che ciascuna azione dà
al nostro agire, tentativo costante di capire come la tecnologia può interagire con la
medicina e travolgerne gli
obiettivi, considerazione attenta delle implicazioni sociali e etiche del nostro fare.
In questi scritti di Maccacaro,
più che nei suoi scritti politici, che in larga misura risentono di una stagione ideologica ormai lontana, si sente il
bisogno di costruire non solo
la lotta per la salute ma soprattutto i protagonisti della
partecipazione.
È forse questo che oggi, rileggendo i suoi testi, ma anche
ripensando alla esperienza di
questi decenni, era forse meno prevedibile. In fondo lo
sviluppo della informatizzazione della conoscenza è a
tutt’oggi molto lontano dall’essere realizzato, basti pensare a quanto manchi ancora
per una adeguata diffusione
di cartelle cliniche elettroniche condivise. Invece ciò che
è veramente esploso è il mondo di Internet, della comunicazione, della possibilità di
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diagnosi precoce, ma anche
attenzione per tutto il processo diagnostico terapeutico
che va dalla diagnosi al trattamento, al follow up, includendo una valutazione di
qualità in continuo e l’attenta sorveglianza epidemiologi-
Maccacaro, lo stratega del SSN
ca del processo (inclusi effetti collaterali negativi e degli
esiti). Lo sviluppo della elaborazione elettronica dei dati, come allora si chiamava, è
stata centrale, ma quello che
più ha contato è stata la consapevolezza degli obiettivi di
salute della comunità a cui si
rivolgeva l’offerta di sanità e
il coinvolgimento allargato,
intorno a un problema di salute, di tutte le risorse, professionali e tecniche, che la
comunità aveva a disposizione. Una conferma della asso-
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luta necessità che lo sviluppo
tecnologico si accompagni
sempre a obiettivi che devono avere un senso di salute e
che devono essere realizzati
con la informazione, la partecipazione e la competenza
professionale.
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Lettera al presidente
dell’ordine*
Signor Presidente dell’Ordine
dei Medici di Milano e Provincia
Il 25 settembre scorso io stendevo alcune righe di prefazione a questa Medicina del capitale quando ella dettò per me le righe che
seguono:
A seguito di informazioni che La riguardano è invitato a presentarsi presso la Sede di questo Ordine Mercoledí 4 ottobre alle ore
11,30 per essere sentito dal Presidente o da un suo delegato.
Non mi restavano molti dubbi sulle intenzioni inquisitorie del suo invito, ma non commisi l’errore di interrogarmi intorno all’oggetto dell’inquisizione. Perché, se mi capisce, io non sono un Joseph K. e nemmeno un agrimensore: tra i fermacarte e i posacenere della sua scrivania non potrò mai cercare né la mia colpa né la mia salvezza. Tutt’al più – pensavo senza allegria – l’impronta
un po’ sudata di una mano che mi si dice impaziente di tendersi col braccio in un saluto ormai, credevamo, desueto.
Comunque, il 4 ottobre io comparvi puntualmente al suo un po’ badiale cospetto ed ascoltai le imputazioni a mio carico con quell’attenzione di cui ella mi darà atto e con quella crudeltà che ora io le confesso. Infatti, mentre ella veniva leggendomi – quasi
fossero capi d’accusa – parole e passi di una mia relazione tenuta recentemente a Perugia sul tema “Informazione medica e partecipazione” per invito dell’Istituto italiano di medicina sociale, mi erano chiare – dall’addensarsi angusto delle rughe sulla sua
fronte, da una lieve rifrangenza di sudore sul suo labbro, dall’inciampo delle parole e dalla casualità delle pause – mi erano chiare
e toccanti la sua fatica e la inanità della stessa: le sue capacità di intendere e di volere, visibilmente impegnate, scoprivano insieme il loro disuguale successo.
Io stesso faticavo a riconoscere e non sempre riconobbi nell’eco di così annaspante dizione – la voce pur familiare delle mie opinioni
che avevo offerte a un pubblico dibattito: sul potere e la servitù della medicina nella società del capitale, sulle deformazioni che ne
derivano all’atto medico ed al rapporto medico-paziente, sulle inerenti responsabilità e complicità dell’informazione sanitaria.
Avrei potuto aiutarla a capire, signor presidente, ma non lo feci: sarebbe stato inquinare la chiarezza di una situazione esemplare. Le avrebbe dato qualche sollievo ma le avrebbe tolto un po’ della sicumera necessaria a dirmi – di lí a poco – che ella considera
la possibilità di aprire un procedimento disciplinare nei miei confronti. Ora lei vede perché – alzandomi e rifiutandole per l’allora
e per il dopo qualsiasi risposta a contestazioni non ritualmente formulate – io mi congedavo preoccupato di evitare ad entrambi
la tentante insidia dell’approssimazione.
La mia crudeltà non era, dunque, efferata: forse soltanto un modo di velare una sollecitudine e una comprensione che non vorrei
ella ritenesse obbliganti. Tutto ciò che io attendo è la formalizzazione della sua istruttoria.
Credo, tuttavia, che la sua iniziativa superi, già ora, l’irrilevanza – voglia crederlo – delle nostre persone. Ricerche di questi giorni
e notizie raccolte da altri convergono a indicare lei come il primo presidente di un Ordine dei Medici – almeno in epoca post-fascista – che abbia ritenuto di poter inquisire sulle opinioni espresse, nel corso di un dibattito scientifico e politico, da un medico che
è anche insegnante. E di poterlo fare in nome e difesa di quella “dignità professionale” che non si riconosce nemmeno occasionalmente macchiata ed offesa dalla venalità e dalla violenza, dal servilismo e dalla prevaricazione di alcuni suoi titolari, ma soltanto
dalla diagnosi di questi mali, dalla ricerca delle loro cause.
Questa diagnosi e questa ricerca, profondamente penetranti nella matrice sociale e politica da cui si esprime la medicina come sistema, sono le radici onde cresce il libro di Jean-Claude Polack. È il libro che io stavo prefando quando sopportai la sua interruzione: proprio l’impertinenza che il conte di La Fère più severamente puniva sulla schiena del pur ottimo Grimaud. Ma non tema, non
* In Jean Claude Polack, La medicina del capitale, Feltrinelli, Milano 1972, 1977 5 ed., pp. VII-XXXVIII [tit. orig. La médecine du capital, Maspero, Paris 1971]; ristampato in “Sapere”, marzo 1977, vol. LXXX, 798, pp. 16-25.
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è questo il punto. Io ho pensato, riprendendo la penna, di riallacciare il discorso dove s’era interrotto, ripercorrere la traccia che
mi aveva convinto, ritrovare la pagina su cui mi ero fermato. Ma non fu così: tra il libro e me si era interposto, sgradevolmente, il
ricordo opaco della sua arroganza.
La prefazione che avevo iniziato, signor presidente, e che resterà in un cassetto, non assumeva la sua esistenza. Immaginava lettori tra i quali ella non è annoverabile, prevedeva riferimenti che non le sono disponibili, supponeva impegni che sarebbe ingeneroso chiederle.
Io volevo presentare il libro di Polack cercandone la collocazione culturale, indicandone una mappa di lettura, suggerendone i criteri di utilizzazione. Così s’usa per le prefazioni: tanto piú se di testi non facili.
E questa Medicina del capitale sempre facile non è. Per lo sforzo – che ha molti antecedenti, ma nessun uguale – di investire, in
un’analisi coerente che usa gli strumenti dello strutturalismo secondo una metodologia marxista, tutta la molteplicità del sistema
medico.
Per la densità sempre notevole, talvolta greve ma spesso fermentante, di una frase che non appare mai appagata dei significati
detti ed allusi. Per la offerta, straordinariamente generosa ma incalzante, di intuizioni – folgoranti alcune – e di proposte – talune seducenti – per analisi ed approfondimenti ulteriori.
Da un certo punto di vista, dunque, il libro di Polack è una lunga, straordinaria prefazione esso stesso: invito ed indicazione, indice e sommario, stimolo ed avvertenza. Soprattutto fruibile nelle sue parti, non meno e forse meglio che nel tutto, per uno studio,
un seminario, una ricerca, un piano di lavoro, cui è augurabile che molti concorrano, al fine di una intelligenza politica sempre
più penetrante e trasformante della medicina.
La prefazione di una prefazione: ecco signor presidente, che cosa sarebbe diventata la paginetta ormai interrotta dal suo sgraziato
– ma quanto istintivo! – intervento. Un’operazione che, nella mia immodestia, sospettavo di futilità.
Ora – dopo averla incontrata – io so che può essere non inutile anche la prefazione di un titolo.
ve, di elegante e feroce ironia. Una lettura che consiglio a tutti1, e ringrazio perciò Francesco Carnevale di
avermi chiesto qualche commento in proposito.
La risposta all’inquisitore
Giovanni Berlinguer
Membro Commissione per i determinanti sociali dell’OMS
P
oteva ancora accadere,
nel 1972, che uno scienziato, un medico, uno
scrittore e un professore, cioè
un personaggio quattro volte
illustre, fosse convocato con
tre righe dal Presidente dell’Ordine di Milano “per essere
sentito, a seguito di informazioni che La riguardano” e
poi minacciato, durante l’incontro, dell’apertura di un
processo disciplinare a suo
carico. Il reato, in verità, era
stato compiuto a Perugia,
fuori dalla sua giurisdizione,
1
ma era lì che il Presidente
dell’Ordine aveva ascoltato la
relazione di Giulio Maccacaro
su “Informazione medica e
partecipazione”; e annotato
accuratamente le eresie dell’oratore in vista di reprimende e scomuniche. In verità, le
tesi affermate erano piuttosto insolite, perché si riferivano “al potere e alla servitù
della medicina nella società
del capitale, sulle deformazioni che ne derivano all’atto
medico e al rapporto medicopaziente, sulle inerenti re-
sponsabilità e complicità dell’informazione sanitaria”.
Di fronte alle contestazioni,
l’imputato reagì “alzandosi e
rifiutandole per l’allora e per
il dopo”. Ma un dopo ci fu:
non sul piano disciplinare,
perché l’Ordine non osò procedere ulteriormente, ma sul
piano culturale. Alla sfida
repressiva seguì presto, infatti, la diffusione di un’ampia Lettera al Presidente dell’Ordine, che è un capolavoro
di scrittura, di analisi, di documentazione, di prospetti-
L’origine delle disuguaglianze in salute
Uno dei punti di partenza
della Lettera è la nozione storica del fatto che “la vita media non usava distinguere per
classi sociali, fino all’inizio
della rivoluzione industriale”, e che “con questa, la
morte e la malattia imparano
a discriminare tra ricchi e poveri, tra la classe del capitale
e quella del lavoro”. La borghesia da un lato stimola
un’attività scientifica, la quale “afferma una nuova intelli-
G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano 1979. Gli scritti sono stati raccolti da Giovanni Berlinguer, Giorgio Bert, Albano Del Bavero e Massimi Gaglio, continuatori (non a lungo) della prestigiosa collana “Medicina e Potere”. La Lettera al
Presidente dell’Ordine è alle pp. 135-66.
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genza della malattia, sottraendola all’astralità degli
influssi, esorcizzandola dall’invasione diabolica, togliendola insomma alla metafisica
del male”; dall’altro crea le
condizioni in cui la speranza
e la qualità di vita delle persone volgono al meglio, ma
insieme tendono a differenziarsi profondamente.
La sostanza è questa: il tema
delle diseguaglianze nella salute, nodo principale del rapporto fra medicina e società,
ha avuto sviluppi molto diversi nei tempi e nei luoghi.
L’avvio della rivoluzione industriale ha prodotto all’inizio, quasi ovunque, più umilianti e più logoranti condizioni di lavoro, di abitazione,
di alimentazione e di spazi
vitali, tanto da configurare a
volte un genocidio pacifico.
Solo a metà dell’Ottocento le
inchieste sul lavoro, le misure di risanamento urbano, le
indagini epidemiologiche e le
attività di prevenzione hanno
prodotto qualche miglioramento. Esso si consolidò negli sviluppi di fine secolo, dovuti alle lotte operaie e contadine, al riconoscimento delle cause microbiche delle malattie, all’impegno per la sanità pubblica e per le assicurazioni sociali. Un altro periodo positivo si aprì a metà
del Novecento, come effetto
delle aspirazioni dei popoli
conseguenti alla vittoria democratica della II guerra
mondiale e alla liberazione
dei popoli coloniali.
L’affermazione che la salute è
un diritto umano primario,
l’accesso più ampio a terapie e
2
Maccacaro, lo stratega del SSN
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profilassi (antibiotici e vaccini) e l’impulso dato da molti
Governi e dall’OMS alla sanità
pubblica ridussero in molti casi le disuguaglianze sociali.
Fino al 1978, potrei dire,
quando l’OMS lanciò con grande slancio il tema “Salute per
tutti per l’anno duemila” e subito dopo abbandonò al neoliberismo la guida delle politiche sanitarie. Da allora, le differenze inique ed evitabili sono costantemente cresciute.
prezzi esosi, per l’eccessiva
durata e l’amplissimo spettro
delle privative, per lo scarso
impegno nel produrre nuovi
vaccini e nell’aggiornare
quelli esistenti, nel riconoscere che quando un popolo è
colpito da epidemie bisogna
sospendere i privilegi delle
industrie e investire (da parte
degli Stati e della comunità
internazionale) a favore della
vita umana. È nato un nuovo
movimento, che ha già raggiunto successi significativi e
che può “far arrivare gli effetti dove ne è più acuta la
necessità”.
Il rapporto fra la medicina
e la scienza
Un nodo fondamentale della
Lettera è il rapporto fra il potere borghese e la scienza.
Maccacaro premette che “nessuno pensa di disconoscere
alla borghesia – alla sua sfida
antioscurantistica e antioautoritaria, al suo impegno per
il trionfo della ragione e della
democrazia – un ruolo storico
che nel suo tempo fu autenticamente rivoluzionario, anche se solo incompiutamente
liberatorio”, e afferma poi
che “nessuna scienza, oggi
come ieri, ha usi alternativi a
quelli del potere che la determina – ma fondò e sviluppò
per sé una nuova scienza e
una nuova medicina in quanto scientifica”. A questo aggiunge due considerazioni
empiriche: la prima è che definire i rapporti col potere
“non significa disconoscere a
tale scienza l’obiettività statistica dei suoi successi, il
merito individuale dei suoi
artefici, l’uso possibile dei
suoi portati”; la seconda è
che “per una ben triste ironia, i più brillanti successi
delle scienze biomediche non
arrivano a proiettare i loro effetti là dove ne è più acuta la
necessità. Un numero enorme
di uomini muore di malattie
prevenibili e curabili, oppure
sopravvive nell’infermità fisica e psichica per mancanza
delle più elementari cure della medicina moderna”.
La soluzione, allora affacciata
dallo stesso Presidente della
Commissione ricerca dell’OMS, H. Rosenheim, era nel
chiedersi “se le grandi quantità di danaro che vengono
spese oggi per la ricerca, in
molti Paesi, non potrebbero
produrre un più rapido e cospicuo progresso della salute
degli uomini ove fossero usate per applicare quanto è già
noto”2; ma questa era un’utopia regressiva. Quel che è accaduto, negli ultimi decenni,
è stata un’accelerazione e
un’espansione del dominio
universale del farmaco, guidato da imprese multinazionali e sorretto da leggi brevettuali sempre più restrittive, che ha reso la prevenzione
e le cure sempre meno accessibili ai poveri di tutto il
mondo. A questo si è aggiunta una forte tendenza alla
medicalizzazione dei sani,
cioè dei Paesi e dei soggetti
più danarosi, col risultato che
una parte cospicua dei cittadini del mondo soffre per il
negato accesso alle medicine,
e un’altra parte (più piccola)
per i loro eccessi patogeni. La
novità principale è che da
qualche anno le imprese multinazionali, il mercato dei
farmaci e il sistema brevettuale sono sotto accusa: per i
H. Rosenheim, Health in the world ot tomorrow, in “Lancet”, 1968, p. 821.
Le cause sociali delle malattie
All’aspirazione della medicina
“a dirsi e viversi dalla parte
dell’uomo”, spiega Maccacaro,
si oppone “la realtà soverchiante di una patologia che
nasce dall’organizzazione del
lavoro, dall’espropriazione del
‘tempo vivo’, dall’impoverimento della convivenza, dall’alienazione del corpo, dalla
costrizione urbana, dalla spoliazione ambientale, da tutto
ciò, insomma, che è modo, atto e materia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Giulio ne parla con consapevolezza e autorità, in base a
due forti esperienze: l’essere
vissuto nelle Università italiane come pioniere della metodologia statistica e delle
sue applicazioni biomediche,
e l’aver partecipato da protagonista alle straordinarie lotte per la salute e per la sicurezza, promosse dai lavoratori stessi nelle fabbriche e nelle campagne tra la fine degli
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anni Sessanta e l’inizio del
decennio successivo. Il motto
fondamentale, “la salute non
si vende”, implicava una partecipazione diretta dei lavoratori nel valutare e nel correggere le condizioni del loro
lavoro, e nel dare una priorità
etica alla vita. Le conquiste
maggiori furono il diritto a
150 ore di studio, la legge
“Statuto dei lavoratori”, la
facoltà di controllare e contrattare i ritmi e le condizioni
ambientali del lavoro.
L’Italia lavoratrice esercitò, in
quegli anni, un ruolo prestigioso ed esemplare, e le sue
esperienze vennero trasferite
in altri Paesi europei e latinoamericani; e non era la prima volta! Dall’Italia era venuto nell’anno 1700, per opera
di Bernardino Ramazzini, il
primo trattato organico di
medicina del lavoro, subito
tradotto in molte lingue europee, che diede avvio a ricerche analoghe in molti Paesi. Il
suo impattto proseguì a lungo: non è un caso che il suo
Maccacaro, lo stratega del SSN
libro sia stato utilizzato, in
epoche diverse, dai due maggiori (e diversi) economisti-filosofi: nel Settecento da
Adam Smith, nel suo trattato
Sulla natura e le cause della
ricchezza delle nazioni (1776),
e nell’Ottocento nel Capitale
di Karl Marx (Libro I, 1867).
Dall’Italia, infine, prese avvio
nel Novecento la nascita della
prima Clinica del lavoro al
mondo (1902) e la creazione
della Società internazionale di
medicina del lavoro, promossa
dal Comune di Milano, dalle
organizzazioni sindacali e imprenditoriali, dai primi specialisti della materia. A Milano si svolse il primo Congresso internazionale, nel 1906.
Un secolo dopo, sempre a Milano, si svolse il Congresso del
Centenario, nel quale il rapporto fra lavoro, condizioni di
vita e salute fu uno dei temi
principali. Parallelamente dopo che l’OMS aveva trascurato
colpevolemente la cause sociali delle malattie come fattore principale delle disegua-
glianze, nel 2005 prese l’avvio
la Commissione per i determinanti sociali delle malattie
che concluderà i suoi lavori
con l’Assemblea generale dell’OMS nel maggio 2008. Le diseguaglianze si moltiplicano,
ma cresce anche lo sdegno, la
mobilitazione dei cittadini, le
lotte per l’equità nell’accesso
alle cure, la creazione di sistemi di salute per tutti.
Post-scriptum (personale)
Oltre che a Maccacaro poteva
accadere anche ad altri, in
quella fase meschina e corporativa degli Ordini professionali orientata verso la sacralità e l’intangibilità del
medico, di incappare in un
Presidente con l’anima di
gendarme. Capitò anche ad
Adriano Ossicini, psicologo di
fama, co-fondatore durante
la Resistenza del movimento
dei cattolici-comunisti e
membro del Parlamento, e a
me con lui, di ricevere un perentorio “invito a comparire”
dal Presidente dei medici ro-
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Territorio 379
mani. L’accusa non riguardava lo scrivere o il dire, ma il
fare, cioè l’aver promosso,
con sette altri volonterosi di
varie esperienze, la nascita
di un Tribunale per i diritti
dei malati, con lo scopo di
tutelare “dal basso” i loro diritti. Adriano ed io, a differenza di Giulio, ci limitammo
a scrivere al Presidente romano testimoniando la nostra
sorpresa, affermando che per
i medici è sempre un dovere
ascoltare la parola dei malati
e invitandolo espressamente
a propagandare l’idea fra i
colleghi. Non avemmo risposta, ma il “tribunale”, di cui
fu animatrice soprattutto Teresa Petrangolini, fu avviato
e riconosciuto in gran parte
degli ospedali. A questo si
collegò, come filiazione e poi
come associazione autonoma
che fu guidata da Giovanni
Moro, la nascita del movimento Cittadinanza attiva,
tuttora attivo e ricco di collegamenti con associazioni
simili sul piano europeo.
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Sa
e
380 Territorio
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
Il bambino
è dell’ospedale?
A
bbiamo assunto come ipotesi di lavoro generale che pur nella complessità di una struttura non omogenea in cui si intrecciano molteplici differenziazioni e contraddizioni – il sistema medico di una società come la nostra sia percorso – proprio nelle
zone di piú avanzato sviluppo – dall’obbedienza coerente al comando capitalistico. Che non ci sia, quindi, da questo punto
di vista, una differenza qualitativa ma solo quantitativa tra un punto e l’altro del sistema: nelle sue istituzíoni, nelle sue funzioni, nei suoi ruoli, nei suoi servizi.
Considerando, come si è già detto, l’istituzione psichiatrica e la sperimentazione umana quale girone periferico di un unico cerchio1, decidemmo di muoverci centripetamente verso un “luogo” della medicina che avesse insieme due attributi: 1) appartenere
all’esperienza sanitaria comune, cioè della maggior parte delle persone; 2) presentarsi come sede di una attività medica manifestamente benevola e soccorritrice. Chiaramente queste scelte ci allontanavano, secondo le nostre intenzioni, dai nosocomi e dagli
istituti dell’esclusione (manicomi, gerontocomi, brefotrofi, ospizi per handicappati, ecc.) e ci portavano verso l’ospedale civile: e,
all’interno di questo, verso il reparto pediatrico dove il bambino – cui convenzionalmente si rivolge la tenerezza di tutti – in quanto malato è destinatario di particolari cure e sollecitudini.
All’interno dell’ipotesi di lavoro generale si definiva così ulteriormente un’ipotesi particolare: l’ospedale (o reparto) pediatrico regola il suo funzionamento e la erogazione dei suoi servizi al fine di ottimizzare la gestione di sé come momento di una piú larga
“impresa” sanitaria obbediente alla logica di cui si è detto e non al fine di ottimizzare l’effettiva assistenza alle infermità ed alle
necessità del bambino; tale divaricazione incide, con tutti i suoi effetti negativi, sui figli delle classi subalterne piuttosto che su
quelli delle classi dominanti.
Il problema
Nessuno studente del gruppo aveva una personale esperienza di pratica in reparto pediatrico. Tutti invece avevano ben chiari
(perché se ne era discusso in precedenza) i pericoli connessi alla individuazione dall’esterno dei problemi propri di una realtà che
è conoscibile solo dall’interno. Ci era stato detto che i problemi autentici vanno scoperti, nel senso che emergono dalla realtà stessa, e non inventati, nel senso che siano formulati – come spesso accade – dalla “curiosità” del ricercatore.
Per evitare questi pericoli avremmo potuto rimandare la nostra ricerca ad altro, imprecisabile tempo, quando le vicende personali
e lo sviluppo del curriculum di ciascuno ci avessero permesso di trovare il destro e l’opportunità di inserirci temporancamente in
un’attività pediatrica. Oppure avremmo potuto cercare attendibili mediatori che orientassero la preparazione del nostro successivo accostamento alla realtà che volevamo studiare. Naturalmente scegliemmo la seconda strada che ci fu particolarmente facilitata dalla possibilità di consultare alcuni operatori sanitari ed alcuni testi nello specifico campo.
La biblioteca dell’Istituto di Biometria e Statistica medica disponeva di un volume2 che ci parve particolarmente idoneo a indicarci
un preciso problema sul quale far convergere la nostra ricerca per la verifica dell’ipotesi generale e particolare che avevamo formulata. La lettura di questo libro e una ricerca bibliografíca ci portarono a conoscenza di altre opere rilevanti per il nostro seminario. Tali opere3 furono acquisite alla biblioteca dell’Istituto per la consultazione dai membri del gruppo: di alcune furono letti
collettivamente i passi salienti; più estesa, ancorché non integrale, fu la lettura collettiva del già citato libro di J. Robertson.
Dalla discussione inerente enucleammo questo problema: il bambino piccolo, in particolare tra il secondo semestre e il terzo anno
1
“De’violenti il primo cerchio è tutto; / ma perché si fa forza a tre persone / in tre gironi è distinto e costrutto” (Inf., XI 28-30).
J. Robertson, Young Children in Hospital, cit.
3 F. Fornari, La vita affettiva originaria del bambino, Feltrinelli, Milano 1970; R. Gaddini, R. Angeletti, C. Vetere, D. Perego, M. Amodei,
Il bambino, l’ospedale e la madre, in “Maternità e infanzia”, vol. 42, 11, ONMI, Roma 1970; M. Harris, Capire i bambini, Armando, Roma 1972;
S. Lebovivi, M. Soulé, La conoscenza del bambino e la psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1972; A. Ossicini, La relazione madre-bambino, GiuntiBarbera, Firenze 1963; R.A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, Firenze 1962; M. Siirala, Parola, presenza e integrazione,
Feltrinelli, Milano 1971; J.M. Tanner, B. Inhelder, Discussions on Child Development, vol. I-IV, Tavistock Publications, London 1963; C.D.
Williams, D.B. Jellife, Mother and Chils Health, Oxford University Press, London 1972.
2
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
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Territorio 381
di vita (ma spesso anche oltre), ha necessità di un regolare rapporto con la madre o con chi ne ha assunto per lui il ruolo. Una interruzione prolungata di questo rapporto, comunque motivata e prodotta, gli è incomprensibile perché gli è impossibile razionalizzare e quindi accettare la nuova situazione che egli vive esclusivamente come perdita o deprivazione materna, cioè di tutto
quanta per lui significava protezione e sicurezza.
Se il ricovero in ospedale opera tale interruzione – nel senso che rende impossibile o insufficiente la continuità di quel rapporto –
il bambino può risentirne dolorosamente, dannosamente e persistentemente come o più che per la malattia che aveva indicato il
suo ricovero.
Naturalmente questo ricovero può essere dettato da necessità assolute che non era nostro problema discutere; discutemmo invece se
la necessità detta sopra è da ritenersi naturale od indotta (vedi piú avanti) pur avendo chiaro che il nostro problema era ancora altro: posto che il bambino la viva come tale, per lui è autentica quale ne sia la genesi, ed è nel confronto con questa autentica necessità che va giudicato l’ospedale per il modo e la misura in cui l’accoglie o la nega. Uno di noi fece l’esempio di un diabetico cui succeda di fratturarsi un femore e venga ricoverato in un reparto ortopedico: questo, ancorché istituzionalmente specializzato e responsabilizzato per la riparazione scheletrica, non potrebbe dimenticarsi di assistere contemporaneamente in quel malato anche le necessità derivanti dalla sua malattia dismetabolica. Può, dunque, il reparto pediatrico che accoglie un bambino per curarne una broncopolmonite o una gastroenterite o qualsiasi altra patologia dei suoi organi e delle sue funzioni, imporre su di lui tanta violenza
quanta corrisponde alla lacerazione di un rapporto che gli è tuttora essenziale, alla negazione di una necessità esistenziale? E se
questo avviene, quale razionalità medica e quale scelta politica lo determinano e spiegano? E se, veramente, dietro una “razionalità” così implausibile si cela una precisa scelta politica, come invertirne il segno, come imporre una sostanziale alternativa? Ed infine: come tutto ciò è presente o rimosso nella vera o nella falsa coscienza dei portatori di ruoli diversi all’interno dell’assistenza al
bambino: il medico, la infermiera, la madre? È per rispondere a queste domande che decidemmo di passare all’inchiesta, cioè di portare il nostro seminario dall’aula in cui si era sviluppata la discussione all’ospedale in cui viveva la realtà che volevamo conoscere.
I diritti del bambino ospedalizzato
Gian Paolo Donzelli
Azienda Ospedaliera-Universitaria Meyer, Firenze
P
oco meno di 40 anni fa,
James Robertson, psichiatra, psicoanalista,
sociologo, pubblicò il libro
“Bambini in Ospedale” (Paperback Publisher ed. 1971). Appena due anni dopo tra gli
scaffali delle librerie, non
strettamente mediche, comparve la prima edizione italiana (Feltrinelli ed. 1973). Robertson, vista la disattenzione che, fin allora, il mondo
delle scienze pediatriche aveva riservato ai suoi richiami
per garantire una maggior tutela psicologica dei bambini
in ospedale, si rivolse direttamente all’opinione pubblica.
L’autore contestava il pensiero dominante istituzionale, il
quale sosteneva che il bambino era un “piccolo adulto”,
con la conseguenza che i problemi psicologici dell’ospedalizzazione erano i medesimi di
quelli propri degli adulti e
non esistevano motivazioni
per elaborare diritti speciali
per i bambini in ospedale. Con
dati sperimentali personali e
di altri ricercatori, Robertson
convinse la società anglosassone che l’ospedalizzazione
per un bambino è sempre un
trauma e che l’allontanamento dei piccoli pazienti dai propri genitori durante la degenza in ospedale provocava gravi sofferenze mentali. Queste
denunce furono accolte immediatamente dalla società
civile e dal mondo politico. Fu
nominata una commissione
ministeriale la quale decretò
che se l’ospedalizzazione de-
terminava una sofferenza psicologica per il bambino, emergeva la necessità di un diritto
speciale, primo fra tutti di
avere accanto la madre o altre
persone a lui care. Tutti gli
ospedali inglesi, in breve tempo, dovettero cambiare i regolamenti ed adeguare l’organizzazione dei reparti pediatrici
e “liberare i bambini ricoverati dalla prigionia della solitudine”. Nel 1984 Robertson
venne invitato dall’Ospedale
Pediatrico Meyer di Firenze a
parlare dei principi fondamentali del suo libro. Molti
giovani pediatri erano presenti, incluso chi scrive. Ma 10
anni prima, quando molti
ospedali italiani, negavano la
presenza dei genitori nei reparti pediatrici Giulio Macca-
caro, partigiano, medico,
scienziato, intellettuale democratico, militante del movimento dei lavoratori, aveva
utilizzato l’opera di Robertson
per un’esperienza di confronto con gli studenti nell’Istituto di Statistica medica e Biometria. Non a caso nel suo
scritto, qui rivisitato, egli usa
le parole: cerchio, girone. Come Dante collocò in un girone
del VII Cerchio dell’Inferno, i
violenti, così Maccacaro collocò in un girone periferico di
“un unico cerchio” la segregazione psichiatrica e la sperimentazione umana. Mentre
spostandosi centrepitamente,
vale a dire, uscendo dagli inferi, raggiunge la pediatra, intesa come “luogo” della medicina, condivisa dalla “gente”
e percepita come “benevola e
soccorritrice”. In questo passaggio Maccacaro trova il suo
bambino dentro e lo svela senza pudore: “l’ospedale civile
ed all’interno di questo, il re-
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parto pediatrico dove il bambino – cui convenzionalmente
si rivolge la tenerezza – in
quanto malato è destinatario
di particolari cure e sollecitudini”. Non risparmia però alla
classe pediatrica di allora, il
giudizio di essere – più o meno consapevolmente – obbediente con coerenza al comando capitalistico ed in
quanto tale tesa ad ottimizzare la gestione del reparto come momento di una più larga
impresa sanitaria. La macchina si muove, dice Maccacaro,
per raggiungere i suoi obiettivi che non sono, per certo,
quelli di curare la malattia e
garantire che la degenza sia la
più sopportabile possibile.
Maccacaro esprimeva tutta la
sua indignazione, per il furto
che veniva fatto al bambino:
in una situazione molto difficile, quale quella di un ricovero in ospedale: veniva loro rubata soprattutto la madre,
“cioè di tutto quanto per lui
significava protezione e sicurezza”. Sappiamo quanto sia
importante il precoce contatto genitori-bambino e come,
quanto più tale incontro viene ritardato, tanto più facilmente si stabiliscano distorsioni relazionali con gravi
conseguenze per il bambino e
l’ambiente familiare. Una separazione violenta, perpetuata da violenti che poteva incidere nella mente e nel corpo
più dolorosamente della stessa malattia, per la quale era
stato chiesto il ricovero. Due
fattori determinavano la “Sindrome da ospedalizzazione
pediatrica”: l’adorazione per
condizioni sterili ed asettiche
ed il fatto che il personale medico era costituto prevalentemente da uomini, i quali con-
Maccacaro, lo stratega del SSN
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sideravano sentimentalismi
sciocchi, allattare, accarezzare, raccontare una favola… ai
bambini ricoverati. Ma dal
comportamento individuale
del singolo medico Maccacaro
si sposta a giudicare il sistema, vale a dire l’intero ospedale, che ne è specchio fedele:
esce allora dall’aula didattica,
dalla biblioteca ed entra, con
gli studenti, nell’ospedale, per
compromettersi, per mettersi
in gioco, per rispondere alle
azioni ingiuste con la Politica.
La sua denuncia si alza limpida nel suo messaggio, senza
incertezze a dire inoltre che il
peso maggiore della separazione è dei figli delle classi
subalterne rispetto a quelli
delle classi dominanti.
Molta acqua è passata sotto i
ponti da allora. Oggi i diritti
del bambino in ospedale sono
sanciti dalla Carta della EACH
– European Association for
Children in Hospital – suddivisa in 10 articoli:
Il bambino deve essere ricoverato in ospedale soltanto se
l’assistenza di cui ha bisogno
non può essere prestata altrettanto bene a casa o in
trattamento ambulatoriale.
Il bambino in ospedale ha il
diritto di avere accanto a sé
in ogni momento i genitori o
un loro sostituto.
L’ospedale deve offrire facilitazioni a tutti i genitori che
devono essere aiutati e incoraggiati a restare. I genitori
non devono incorrere in spese aggiuntive o subire perdita
o riduzione di salario. Per
partecipare attivamente all’assistenza del loro bambino
i genitori devono essere
informati sull’organizzazione
del reparto e incoraggiati a
parteciparvi attivamente.
tante per la salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei
bambini.
Oggi Maccacaro percorrerebbe
altre strade, si confronterebbe
con altri studenti, con altri
pediatri. Ascolterebbe quanto
scrivo in suo onore: “i bambini, eroi silenziosi dei nostri
giorni combattono una quotidiana battaglia per conquistarsi la libertà dalla morte, la
libertà dalla fame, la libertà
dalla schiavitù del lavoro, la
libertà dalla devastazione della pedofilia, la libertà dalle
mine antiuomo, la libertà dal
mercato degli organi umani,
la libertà dall’adulto che sembra a volte dimenticarsi di essere stato bambino.
Il lavoro di genitore é il compito più nobile che può svolgere l’essere umano. Dopo
viene quello di chi governa
gli Stati, le città, i villaggi, le
scuole, gli asili nido, gli ospedali etc.
Gi adulti hanno ideato molte
‘carte dei diritti’ per l’infanzia, sottoscritte dalla stragrande maggioranza delle nazioni del pianeta. A queste
solenni prese di posizione
non sono sempre seguite adeguati impegni perché tali valori si sostanziassero.
I cittadini bambini continuano a vivere la loro eroica, silenziosa, perseverante, strenua lotta per la difesa dei loro diritti.
I bambini siano d’esempio per
l’adulto che si è arreso, che
ha smesso di lottare per una
società più giusta, che si fa
sedurre dai modelli dominanti, dimenticando che il vero
investimento è nei figli, futuri cittadini, future madri e
futuri padri”.
Grazie Giulio.
Il bambino e i genitori hanno
il diritto di essere informati
in modo adeguato all’età e alla loro capacità di comprensione. Occorre fare quanto
possibile per mitigare il loro
stress fisico ed emotivo.
Il bambino e i suoi genitori
hanno il diritto di essere
informati e coinvolti nelle
decisioni relative al trattamento medico. Ogni bambino
deve essere protetto da indagini e terapie mediche non
necessarie.
Il bambino deve essere assistito insieme ad altri bambini
con le stesse caratteristiche
psicologiche e non deve essere ricoverato in reparti per
adulti. Non deve essere posto
un limite all’età dei visitatori.
Il bambino deve avere piena
possibilità di gioco, ricreazione e studio adatta alla sua
età e condizione, ed essere ricoverato in un ambiente
strutturato arredato e fornito
di personale adeguatamente
preparato.
Il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche, emotive e psichiche del bambino
e della sua famiglia.
Al bambino deve essere assicurata la continuità dell’assistenza da parte dell’équipe
ospedaliera.
Il bambino deve essere trattato con tatto e comprensione e
la sua intimità deve essere rispettata in ogni momento.
Nei nostri tempi Maccacaro,
difenderebbe altri diritti, con
la determinazione e ruvidità
politica, che ne hanno fatto,
militante di fama internazionale per la tutela della salute
delle donne e degli uomini, in
questo caso un pediatra mili-
N. 165 - 2007
Maccacaro, lo stratega del SSN
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Territorio 383
L’Unità sanitaria
locale
I
l perimetro dell’USL, secondo un concetto già precedentemente sviluppato, non è definito dagli oggetti che deve includere per
adesione a uno schema prefissato ma si modella sui limiti di un’autentica partecipazione intesa come presenza di soggetti titolari del diritto di informazione e di decisione ed intesa anche come disponibilità di oggetti necessari a rendere la decisione
efficace e l’informazione utilizzabile.
Si vuol dire che non è la presenza di un ospedale che autentica un’USL, ma è l’USL, che decide sull’opportunità di un proprio ospedale o del ricorso a quello di un’USL viciniore. Cosí dìcasi per il paraospedale, per il servizio preventivo, per il servizio farmaceutico e per quanti altri presidi siano di volta in volta riconosciuti come necessari.
La loro enumerazione e la loro descrizione appaiono pertanto irrilevanti a questo livello di esame. Conviene invece sottolineare
che essi sono altrettante componenti del sistema e che quindi devono subordinare la loro attività al suo governo.
Noi non vediamo piú l’ospedale come vertice e motore dell’attività sanitaria locale, ma come servizio e tali vediamo anche le altre
istituzioni che gli si paragonano e che abbiamo in parte nominate. Pertanto ne disconosciamo qualsiasi centralità al processo decisionale che per essere partecipatorio non può essere periferico.
L’ospedale e gli altri servizi sono certamente sottosistemi, anche notevolmente complessi, che pongono il problema di propri sistemi informativi per un corretto esercizio delle loro attività. Ma il governo degli stessi è esterno a tali sistemi e prossimo al centro
del sistema informativo dell’intera USL. Tale centro è destinato ad archiviare, selezionare ed elaborare le informazioni primarie e
secondarie che gli giungono dalle sub-unità per ridistribuirle alle stesse come indirizzi decisionali e per coordinare l’USL al sistema sanitario regionale. In questo senso il centro si pone come strumento di sintesi informazionale per un governo di sintesi decisionale. La sua funzione non è quindi semplice né unica: deve infatti assumere informazioni dai servizi per distribuire loro decisioni ma distribuire informazioni ai soggetti della partecipazione, per assumerne le decisioni. È quindi naturale prevedere per esso l’adozione delle piú vantaggiose risorse tecnologiche ma anche il controllo piú attento, partecipato e politicamente avvertito
del loro impiego.
La partecipazione non “è” ma “diventa” e diventa per forza non di decreto ma di esercizio. Quindi bisogna dimettere ogni ipotesi
di governo sanitario improvvisamente partecipatorio che si realizzi ope legis in una qualsiasi situazione storica e medica, politica
e tecnologica. Così come bisogna dimettere ogni illusione che il processo di crescente partecipazione possa compiersi senza risentire delle soluzioni tecniche e organizzative adottate nel suo corso.
Questa doppia preoccupazione ispira le considerazioni che seguono e che richiamano altre già sviluppate in precedenza. Avevamo
fatto cenno della distinzione nelle diverse sedi di attìvìtà dell’USL tra informazione di governo ed informazione di esercizio associando alla prima il controllo della funzione ed alla seconda il controllo del funzionamento. Se ora utilizziamo questi termini per
una lettura della situazione attuale – cioè di una fase che dovrebbe essere di transizione verso una sanità riformata – risulta che
la maggior parte degli sforzi e degli investimenti per l’implementazione di sistemi informativi o di embrioni degli stessi sono dedicati alla gestione dell’informazione di esercizio piuttosto che a quella di governo.
Sono molti gli ospedali, certamente la maggior parte dei maggiori, che si vengono dotando di elaboratori o di centri di calcolo; così alcuni centri di prevenzione secondaria, così laboratori pubblici o privati di analisi cliniche, ecc. Estrapolando un trend sul quale molto incidono la pressione dei produttori e la depressione dei programmatori, non è azzardato prevedere un futuro abbastanza
prossimo in cui la decisione di implementare un sistema informativo partecipatorio per l’USL dovrà fare i conti con una realtà precostituita secondo tutt’altra ispirazione e di ben difficile recupero, proprio nel campo dell’informatica.
Naturalmente, questo trend è soprattutto manifesto a livello di quelli che abbiamo chiamato servizi per la loro naturale tendenza a
rivendicare come autonome le proprie esigenze di razionalità. A questi servizi avevamo negato ogni centralità nel processo decisionale che essi, però, ritrovano o almeno richiedono nel momento in cui propongono i propri modelli di gestione dell’informazione.
Senza insistere ulteriormente su un’analisi di cui è facile intravedere gli sviluppi, si vorrebbe dire che l’avvio alla partecipazione
implica un’opzione che favorisca l’informazione di governo nei confronti di quella di esercizio. Tale opzione priorizza la costituzione dei terminali informativi presso gli ambulatori distrettuali, delle stazioni informative presso il poliambulatorio delle sub-
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Maccacaro, lo stratega del SSN
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unità, e del centro informativo presso il governo dell’USL rispetto allo sviluppo di servizi di informatica presso i diversi servizi,
ospedali inclusi. Se questi ultimi devono essere congrui a quelli è giusto che siano quelli a dettare i modi di questi e non viceversa,
come sta forse avvenendo. Un’ulteriore opzione, che come la precedente è contraddittoria delle tendenze in atto o in espressione, è
da farsi sulla direzione di sviluppo del processo: che deve essere centripeta nella misura in cui deve essere la partecipazione più
periferica cioè di base che va incentivata ed assistita prioritarìamente perché operi e non accetti la scelta di gestione diretta, mediata e delegata dell’informazione. Queste scelte contribuiranno poi a definire anche quelle proprie della partecipazione intermedia e centrale.
In sostanza e conclusione noi riteniamo che l’avvento dell’USL – se si darà e se darà corpo alle migliori speranze che ha suscitato –
segnerà il passaggio da un’interpretazione insiemistica ad un’interpretazione sistemistica della sanità locale ed anche da un governo delegato ad un governo partecipato della stessa. Questa doppia e così fondamentale trasformazione non avviene come atto
ma come processo che si definisce nel suo compiersi. Tanto il sistema sanitario quanto quello partecipatorio, ovvero il sistema
operativo ed il sistema informativo, che insieme e non dissolubilmente sostanziano l’immagine sistemistica dell’USL si sviluppano
e si definiscono a misura della loro interazione. Affermare che questo sviluppo non deve essere determinato ma assistito, che ha
meno bisogno di regole che di gradi di libertà, che deve essere protetto dalle suggestioni tecnologiche del capitale pubblico e privato, che – insomma – deve potersi determinare in modo veramente autonomo, significa optare non per un’astensione scientifica,
anzi per un impegno maggiore.
L’idea originaria di un “insieme di servizi”
Ivan Cavicchi
Università La Sapienza e Tor Vergata, Roma
C
ommentare Maccacaro e
trent’anni quasi dall’uscita della riforma sanitaria è sempre qualcosa che
fa pensare, che stupisce, e
che allo stesso tempo rattrista un po’.
Fa pensare perché le sue intuizioni vanno certamente ricontestualizzate, stupisce per
la loro lucidità culturale e per
il loro grande spessore riformatore, rattrista un po’ perché esse danno la misura dello
iato che oggi esiste tra pensiero e realtà, tra cultura e
politica, tra un pensiero “forte” e una pratica istituzionale
debole se non esangue.
1. La prima grande idea, una
della più tradite, ma nonostante i tradimenti, anche una
delle più attuali, è quella di
USL come soggetto comunita-
rio partecipante e non come
luogo, circoscrizione, spazio
che contiene oggetti amministrabili paternalisticamente.
In questi trent’anni:
– il famoso territorio è stato
nella pratica declinato come spazio, come servizi,
come bacino d’utenza, ma
non certo come comunità,
cioè come soggetto titolare
di un diritto come quello
della salute che coincide in
tutto e per tutto con la
condizione di cittadinanza;
– la USL non è mai stata definita in rapporto a obiettivi di ottimalità partecipativa ma all’inizio con
criteri di coincidenza con
precedenti realtà amministrative (Circoscrizioni,
Comuni, Province) fino a
diventare, dalla 502/517
in poi, una variabile sem-
pre più indipendente dalla
comunità di riferimento
perché misurata (pensata)
come minor numero possibile ai fini del risparmio
(accorpamenti e riduzione
del numero delle USL);
– il passaggio dalla USL alla
ASL, ha certamente il significato di negare radicalmente l’idea di USL quale
comunità partecipante,
cioè di trasformare questa
idea politica in un’idea
tecnocratica, dove il cittadino diventa un “customer” (cliente) e dove la
partecipazione diventa nel
migliore dei casi “empowerment”. Il cittadino
con la ASL diventa un consumatore di sanità, un
“case management”, misurato sempre come un prodotto subordinato comun-
que alle risorse disponibili.
Cioè il cittadino, la comunità, con la ASL perde tutti i suoi connotati politici.
Nonostante questi “tradimenti” o se si preferisce travisamenti, oggi, se si vuole fare
quello che tutti dicono che si
deve fare, cioè salute, è obbligatorio quasi tornare all’idea
di Maccacaro di USL/ASL quale comunità partecipante.
Va detto per onestà che l’idea
di comunità, per quanto mi
riguarda, è proprio un esempio di ricontestualizzazione
del pensiero di Maccacaro.
Egli, nel testo che mi è stato
chiesto di commentare, non
usa mai la parola comunità,
egli parla di soggetti titolari
di un diritto. Ai suoi tempi
“comunità” era un’idea che
apparteneva soprattutto alla
cultura cattolica, e per questo vista con sospetto dalla
cultura laica.
Oggi le cose sono cambiate e
comunità si presta bene a
mediare, a livello di un territorio, la dimensione individuale della salute e la sua di-
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mensione collettiva, riuscendo a sintetizzare ciò che nell’art. 32 della Costituzione, è
espresso come diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Comunità si sposa bene con
l’idea di USL di Maccacaro,
cioè con l’idea di partecipazione e, come dicevamo, è
inevitabile che si passi di qua
per fare salute, sostenibilità,
o per mettere in campo quello che oggi con una frase efficace si chiama “la salute” in
tutte le politiche.
Oggi non si tratta più solo di
difendere la salute del cittadino ma, soprattutto, di costruire la salute alla quale il
cittadino “politicamente” ha
diritto.
La costruzione della salute,
quello che io chiamo predicibilità sul piano tecnico e sostenibilità sul piano politico,
ha bisogno che le istituzioni
riconoscano alla comunità
una sovranità, organizzando
tale sovranità con nuove deleghe ai sindaci, ai Comuni,
alle organizzazioni sociali dei
cittadini stessi.
Senza questo passaggio non è
possibile agire attraverso forme di responsabilizzazione
dei cittadini, l’altra faccia del
diritto alla salute che è quella del dovere sociale ad assicurare in un territorio e quindi in una comunità, le condizioni più favorevoli alla salute stessa.
Oggi si fa un gran parlare di
“piani per la salute”; la cosa
che colpisce è che queste elaborazioni è come se uscissero
dalla ASL per collocarsi più
propriamente tra le competenze dei Comuni, rappresentanti secolari di vere e proprie comunità. Cioè è come se
Maccacaro, lo stratega del SSN
si ammettesse una sorta di
incompatibilità tra Azienda e
salute. Ciò è abbastanza paradossale ed è quello che a varie riprese ho definito il problema dell’inconseguenza
dell’Azienda più orientata alla parità di bilancio che non a
costruire salute.
Ma il paradosso dell’inconseguenza conferma la forza del
pensiero di Maccacaro, cioè
di una USL che coincide con
una comunità perché solo
questa coincide con la necessità politica della partecipazione sociale.
La seconda idea importante
del testo che ho esaminato è
che non sono i servizi ad “autenticare” una USL ma il contrario, il che equivale a dire
che è la comunità che decide
con le istituzioni sul sistema
dei servizi che serve dentro
certamente una programmazione regionale.
Il pensiero di Maccacaro è
molto lucido e attuale soprattutto quando vede la USL non
come un insieme di servizi
ma come un sistema di servizi
partecipati, quindi non come
“atto ma come processo”.
Maccacaro in fin dei conti, distingue due idee di governo
della sanità locale: il governo
delegato alle istituzioni (che
è l’idea corrente) e il governo
partecipato (ancora tutto da
conquistare).
La prima è un’idea debole
nella quale la partecipazione
è accessoria, la seconda è
un’idea forte dove la partecipazione è necessaria e fondamentale.
A seconda che si adotti o la
prima o la seconda cambia radicalmente l’idea di USL/ASL.
Il governo delegato vale se
accettiamo l’idea di un’istitu-
zione proprietaria del diritto
alla salute.
Il governo partecipato invece
vale se accettiamo che il primo vero soggetto proprietario
del diritto è che lo detiene
certo ma anche chi lo finanzia, vale a dire il cittadino,
quindi se accettiamo l’idea,
come ho sostenuto molte volte, non di un paziente e di un
beneficiario, ma di un esigente e di un contraente.
Anche questa in un certo
senso è una evoluzione ricontestualizzata del pensiero di
Maccacaro secondo il quale a
garantire il governo del sistema sanitario doveva essere il
sistema informativo, considerato un vero e proprio “centro” che raccoglie e ridistribuisce informazioni per decidere e scegliere. Maccacaro
arriva a distinguere l’informazione per il governo e
l’informazione per l’esercizio,
cioè un informazione per la
funzione e un’informazione
per il funzionamento.
Oggi personalmente sono dell’avviso che distinguere funzione da funzionamento non
giovi né allo sviluppo dell’idea di governo né a quello
dell’idea di partecipazione.
Ma la preoccupazione vera di
Maccacaro era in realtà quella
di favorire l’informazione di
governo che ai suoi tempi era
del tutto minoritaria rispetto
a quella di esercizio.
La modernità del pensiero di
Maccacaro si vede anche in
ciò.
Oggi le cose non sono così diverse, il problema di uno
squilibrio tra funzione e funzionamento, tra governo e
servizi, è ancora il problema,
come ha dimostrato una ricerca del Formez coordinata
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Territorio 385
da V. Mapelli sulla governance
dei servizi nei sistemi sanitari regionali.
Gli insegnamenti di Maccacaro oggi per essere riattualizzati hanno bisogno come è
naturale che sia (sono passati trent’anni) di una reimpostazione.
Dall’esame della normativa
vigente e delle esperienze
fatte nelle Regioni, emergono
sostanzialmente tre principi
partecipativi che in ambiti e
modi diversi riassumono tutte le forme di partecipazione
in essere:
– principio del coinvolgimento;
– principio della collaborazione;
– principio dell’informazione.
Il confronto tra questi importanti e preziosi principî con la
crisi delle deleghe mettono in
evidenza che le varie forme di
consensualità devono evolvere assumendo le forme di una
vera e propria concertazione
in forma pattizia. Altrimenti
il rischio è di ristagnare a forme di amministrativismo subdelegato, o, peggio, a forme
subdole di cogestione.
A parte ciò, il problema nuovo che si pone è il riconoscimento della comunità quale
sovranità e l’organizzazione
dei rapporti tra questa e le
istituzioni di riferimento.
Infine, per quanto riguarda le
possibilità legate alle nuove
tecnologie informatiche di
cui Maccacaro è stato un vero
precursore, è evidente che i
principi citati, non solo possono ricevere forza nelle loro
espressioni, ma sapendo che
il rapporto informatica/partecipazione deve creare le basi per un vero e proprio sistema partecipato stabile.
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2. Il problema nuovo è come
deve essere una relazione di
compossibilità tra forme di
partecipazione sociale, professionale, tecniche e sistema
istituzionale dato (compossibilità significa semplicemente
che se le forme di partecipazione non sono in contraddizione con il sistema istituzionale dato e viceversa, esse sono possibili nelle loro forme).
La soluzione al vincolo della
compossibilità deve essere
trovata per forza, altrimenti
si rischia l’inconcludenza, vale a dire di reiterare forme
tradizionali ma poco efficaci
di partecipazione e di riconfermare i rischi di forme vecchie, di centralismi amministrativi, di cogestioni sotto
mentite spoglie.
La nostra ipotesi di fondo,
che poi è lo sviluppo delle
idee di Maccacaro è il ripensamento del modo di essere dell’istituzione attraverso il ripensamento del modo di essere della partecipazione ciò significa ripensare le modalità
delle relazioni, degli scambi,
della comunicazione, delle
transazioni in un sistema co-
Maccacaro, lo stratega del SSN
N. 165 - 2007
me quello sanitario, tra questo sistema e la sua comunità
di riferimento.
La tesi conclusiva è:
La partecipazione, va ripensata per cambiare il modo di
essere delle istituzioni sanitarie con l’obiettivo di accrescere il grado di governabilità, di responsabilizzare i
soggetti interessati (cittadini
e operatori), di costruire la
domanda come significante/
referente dell’offerta di servizi e di politiche, di introdurre
forme competenti di controllo sociale, per migliorare la
qualità dei servizi, di ridurre i
costi della transazioni interne alle Aziende, tra direttore
generale e operatori e i costi
delle transazioni esterne tra
Azienda e comunità, di governare meglio la complessità
riconoscendo un ruolo alle
opinioni dei soggetti, e soprattutto di accrescere il grado di conoscenza della comunità, del singolo bisogno e
quindi di ridurre il grado di
fallibilità delle scelte e delle
decisioni a qualsiasi livello.
Lo spirito della sussidiarietà è
favorire libere iniziative dei
cittadini e non già quello di
esortare le istituzioni pubbliche a coinvolgere il cittadino.
Questo è lo spirito dell’art.
118 ultimo comma della Costituzione “Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province
e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base
del principio di sussidiarietà.” (UTI SOCIUS) che assegna ai pubblici poteri la
funzione di agire per assicurare l’integrazione sussidiaria dell’autonomia, iniziativa
dei cittadini rinunciando alla
presunzione di esclusività
nella tutela del diritto alla
salute.
Lo scopo politico della sussidiarietà è il superamento di
una visione del cittadino che
dichiara solo “consenso e obbedienza”.
Il cittadino, se informato, è
un soggetto attivo che svolge
un vero e proprio servizio di
utilità sociale specie nelle sue
forme di libera associazione.
3. La partecipazione sociale,
soprattutto sui temi della
produzione di salute, oggi
non è concepibile fuori dal
principio di sussidiarietà e da
un principio di qualità.
Questo principio consente di
organizzare la partecipazione
come:
– qualcosa che regola i rapporti tra diversi poteri
pubblici e sociali;
– qualcosa che ripartisce funzioni e responsabilità tra
istituzioni e società civile.
Il principio di sussidiarietà è
un principio di non ingerenza,
nel senso che in generale le
istituzioni non dovrebbero
sostituirsi alla partecipazione
sociale laddove questa sia
possibile, il che vuol dire sia
non amministrare il proprio
potere oltre quanto è strettamente necessario, sia non fare cose che possano essere
fatte meglio dalla comunità.
Quello della sussidiarietà è
un principio regolatore nei
rapporti tra istituzioni e comunità. In questo quadro, la
partecipazione sociale è lo
strumento che regola i rapporti tra cittadinanza e statualità.
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Maccacaro, lo stratega del SSN
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L’uso di classe
della medicina
Q
uando parlo di uso di classe della medicina non mi riferisco (come potrebbe essere per un malinteso che va subito dissipato)
soltanto alla medicina pratica, cioè alla medicina così come è esercitata, ma a tutta la medicina nei suoi diversi momenti.
C’è un uso di classe della medicina scientifica, un uso di classe della medicina didattica, un uso di classe della medicina pratica: questo cercherò brevemente di dire o di rappresentare come mio punto di vista personale.
Non dobbiamo, quando anche ci sia proposto, accettare una separazione di tali livelli, cioè un discorso del tipo: “sí, questo avviene, però la scienza medica è un’altra cosa, l’insegnamento della medicina ha altri valori, ecc.”. Non dobbiamo accettarlo perché un
discorso di questo genere è null’altro che l’ennesima proiezione del tipico modello della divisione del lavoro, qui trasferito alla divisione dell’atto medico che è invece didattico, scientifico e pratico nello stesso tempo. Ripeto, quindi, che quando dico: “uso di
classe della medicina”, non voglio escluderne nessuna parte, ma riferirmi a tutte ed in particolare alla medicina come pratica, come didattica e come scienza.
E possiamo proprio cominciare da qui, cioè dalla medicina come scienza.
Se mi permettete faccio una piccola citazione molto breve sempre da Marx. Nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, a un certo punto, Marx scrive: “L’economia della scienza e dell’abilità delle forze produttive generali del cervello sociale rimane, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale e si presenta perciò come proprietà del capitale.” Poi soggiunge: “Il pieno
sviluppo del capitale ha quindi luogo solo quando l’intero processo di produzione non si presenta assunto sotto l’abilità immediata dell’operaio ma come impiego tecnologico della scienza”. Ed ancora: “Tutti i processi, scientifici della civiltà, o in altre parole,
ogni incremento delle forze produttive sociali (se volete delle forze produttive: del lavoro stesso quali risultano dalla scienza della
divisione e combinazione del lavoro) arricchìscono non l’operaio, ma il capitale, e poiché il capitale è l’antitesi dell’operaio, quei
processi accrescono soltanto il potere oggettivo sul lavoro”. Quindi è chiaro che il riconoscimento della non neutralità della scienza
non potrebbe avere in Marx una espressione più precísa e più vigorosa di questa. Non continuo le citazioni, ma voi sapete che questo è il pensiero esplicito e ricorrente in Marx.
La scienza dunque è null’altro che un modo di essere del potere o meglio è comprensibile e leggibile solo nell’ottica della dialettica
dei poteri.
La borghesia ha fondato a un certo punto, cioè nel punto della sua nascita, una nuova scienza per abbattere il potere feudale e la
scienza è stata allora liberatrice nella misura in cui ha posto, nei confronti di un potere egemone (in quel momento storico era il
potere feudale), la domanda di potere di un’altra componente sociale che veniva nascendo e che era la borghesia. La borghesia,
naturalmente, ha poi utilizzato e continua, più che mai a utilizzare la scienza come strumento della sua conservazione; così fa
ogni potere che tende a conservare se stesso. Ora, se questa è l’operazione che ha fatto la borghesia, questa è l’operazione che dovrà fare il proletariato e cioè il proletariato a sua volta dovrà fondare una nuova scienza per abbattere il potere borghese. Non voglio dire con questo che ogni scienziato è delegato, o meglio, che allo scienziato è delegato il ruolo di rivoluzionario, ma che i rivoluzionari saranno anche scienziati, in senso tecnico e soprattutto in senso politico. Oggi, come la scienza è un modo del potere, la
medicina è un modo della scienza e quindi, per proprietà transitiva, la medicina è a sua volta un modo del potere. E naturalmente
il potere cui sto riferendomi è il potere capitalista.
Non è il caso che richiami qui i connotati del sistema capitalista se non per ricordare che esso è caratterizzato dal fatto che da una
parte si fonda sulla produzione sociale dei beni e dall’altra sull’appropriazione privata dei beni, e in partìcolare della forza-lavoro.
Questa appropriazione è la condizione necessaria per la riproduzione e l’aumento del capitale stesso (legge dominante della sua
logica) attraverso il profìtto. Quindi il sistema capitalista (qualche volta dirò sistema senza ripetere “capitalista”, ma è chiaro
che mi sto riferendo a questo) è interessato da una parte a consumare, e dall’altra a conservare la forza-lavoro. E alla medicina è
affidato il compito di risolvere, nella razionalità scientifica, questa contraddizione del modo di produzione capitalista, che da una
parte consuma e spegne la forza-lavoro, ma dall’altra parte ne ha bisogno per continuare ad alimentare sé stesso. Quindi deve
conservarla nella misura in cui serve consumarla. È contraddizione, questa, così centrale fra tutte, che il capitale, per poterla risolvere, cioè per portare avanti il suo sviluppo, il suo aumento, la sua, conservazione, anzi la sua riproduzione, deve assumere la
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gestione di tutti i momenti della medicina: cioè la gestione della malattia, la gestione del malato, la gestione del medico, la gestione della istituzione, la gestione dell’insegnamento e la gestione della ricerca scientifica ed in particolare medica. Quindi il
mio breve discorso si svilupperà attraverso l’analisi di questi momenti di gestione fatti dal sistema capitalista su questi momenti
della realtà medica.
La persistenza delle diseguaglianze nella salute
Angelo Stefanini
Dipartimento di Medicina e Sanità pubblica, Università di Bologna
A
trent’anni dalla morte
di Giulio Maccacaro, la
medicina continua a riprodurre le relazioni di potere dominanti nella società nei
luoghi in cui essa, per usare
le sue parole, si fa scienza, si
fa didattica o si fa pratica
medica.
A 25 anni dal Black Report
che, documentando le crescenti disuguaglianze socioeconomiche nella salute, ha
trasformato radicalmente il
modo di fare epidemiologia
(1), una parte significativa
del mondo scientifico continua a sottovalutarne il significato (2). La “discesa in campo” della Organizzazione
mondiale della sanità sulla
importanza dei determinanti
sociali della salute (3) ha
messo tuttavia in luce il ruolo
centrale che le relazioni sociali basate sulla disuguaglianza tra lavoro e profitto
esistenti nel sistema capitalistico hanno sulla salute umana. È comprensibile quindi la
ritrosia dei Governi, che sono
espressione di tale sistema, a
perseguire processi che consentano una reale attuazione
di radicali politiche di equità.
Ne è un esempio la Gran Bretagna che, pur aumentando
sostanzialmente i finanziamenti al settore sanitario e
introducendo al suo interno
meccanismi di lotta alle disuguaglianze, continua a vedere crescere il divario di salute
tra le classi socioeconomiche.
Evidentemente la medicina,
astratta dalla realtà politica,
si rivela impotente di fronte
ai determinanti distali della
salute, ossia alle ingiustizie
sociali causate dalle politiche
economiche e commerciali
neo-liberiste. È quanto accade ad esempio nella ricerca su
HIV/AIDS una parte della
quale, affrontando le iniquità
globali nella salute come un
fatto puramente tecnico, si
concentra sui comportamenti
individuali a rischio (determinanti prossimali) anziché
indagare a monte il più vasto
contesto politico e socio-economico che rende gli individui più suscettibili alla infezione.
La collana editoriale “Medicina e Potere” evidenziava come la salute e la medicina
non possono non essere considerate categorie politiche in
quanto su di esse viene esercitato il potere. A partire da
Galileo esistono molti esempi
di interferenza della ideologia
(4) sulla scienza, ma è forse
negli USA dei giorni nostri
che troviamo il maggiore “assalto all’integrità scientifica”
(5). In un rapporto al Congresso dell’agosto 2003 (6),
oltre venti aree scientifiche,
salute compresa, vengono citate come coinvolte attraverso la manipolazione dei Comitati scientifici, la distorsione
e soppressione della informazione scientifica e la interferenza con la ricerca scientifica finanziata dall’esterno.
Anche l’articolo scientifico
apparentemente più apolitico
e tecnico riflette il contesto
politico da cui proviene e che
ha condizionato, in un modo
o nell’altro, la scelta del problema da indagare, l’ipotesi
di lavoro, il disegno dello studio, il tipo e l’entità del finanziamento. Per esempio,
l’attuale enfasi sugli RCT nelle riviste scientifiche riflette
spesso più l’entità e le priorità dei finanziamenti dell’industria farmaceutica che i
reali bisogni di salute della
popolazione. Soltanto il 10%
dei 70 miliardi di dollari spesi
ogni anno in ricerca e sviluppo sanitario è mirata alle
condizioni responsabili del
90% del carico globale di ma-
lattia (7): un divario paradossale di 10/90, la moderna inverse care law (8). Un esempio di come un tema ad alta
sensitività politica possa essere “oscurato” per ragioni
ideologiche viene da due prestigiose riviste mediche: dal
settembre 2001 al 2004 il
New England Journal of Medicine e gli Annals of Internal
Medicine non hanno mai citato le parole “Afghanistan” o
“Iraq” (9).
Anche l’insegnamento accademico della medicina continua ostinatamente ad occuparsi quasi esclusivamente
del livello prossimale del percorso eziopatogenetico della
malattia, evitando di affrontare il biologico come inestricabilmente legato al sociale.
Il nome di Rudolf Virchow risuona ancora soltanto nelle
aule di biologia e di patologia, mentre praticamente
sconosciuti sono i suoi successi in veste di medico di sanità pubblica alle prese, ad
esempio, con l’“epidemia artificiale” di tifo petecchiale
nell’Alta Slesia della metà
dell’800. Lo stesso scienziato
che, da una parte, descriveva
la patogenesi della trombosi,
dall’altra definiva “Le epidemie artificiali” come “...attributi della società, prodotti di
una falsa cultura o di una
cultura che non è accessibile
a tutte le classi. Esse sono indicatori dei difetti prodotti
dalla organizzazione sociale e
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politica e quindi colpiscono
prevalentemente quelle classi
che non sono partecipi dei
vantaggi della cultura” (10).
Il mondo accademico tende
ad emarginare il docente che
denuncia gli effetti sulla salute di decisioni politiche come quella di entrare in guerra. Il medico che, fedele al
giuramento di Ippocrate,
mette in guardia la società
contro una malattia chiamata
guerra, che provoca feriti, disabili e morti, viene inevitabilmente accusato di immischiarsi indebitamente nella
politica (11).
L’uso di classe della medicina
nella pratica medica è oggi
forse più evidente che ai tempi di Maccacaro. In un momento in cui accumulare denaro è diventato la giustificazione sociale di esistere e soltanto al consumatore viene
concesso rispetto e dignità,
anche la medicina è schiava
dell’imperativo economico.
Maccacaro, lo stratega del SSN
Gli anni 90 hanno visto l’introduzione della “razionalità
del mercato” nel settore sanitario attraverso un’ondata
planetaria di riforme (in Italia il DPR 502 del 1992) che
hanno trasformato i pazienti
in “clienti” e “consumatori” e
i servizi clinici in linee di
produzione. La ricerca clinica
è progressivamente in mano
alla industria farmaceutica
che paga lauti stipendi a prestigiosi accademici e decide le
priorità. Pazienti e medici sono raggirati, quasi sempre
con successo, da sofisticate
campagne pubblicitarie in
mentite vesti educative e in
clamorosa violazione dei codici internazionali, con la
complicità di società scientifiche e di Governi (12).
La lotta contro l’HIV/AIDS è
un ennesimo esempio di come la medicina si fa modo del
potere. Nel mondo ricco questa malattia è ben trattabile
anche se non ancora curabile.
I farmaci a disposizione consentono un’aspettativa e una
qualità di vita abbastanza
rassicuranti a chi se li può
permettere. Tuttavia, dei sei
milioni di ammalati poveri
che hanno urgente bisogno di
farmaci antiretrovirali soltanto 450mila ne possono usufruire. La causa di tale ingiustizia non è tanto il costo dei
farmaci, disponibili con circa
250 dollari all’anno. Il fatto è
che gli USA, attraverso l’Organizzazione mondiale del
commercio, è riuscita paradossalmente a “proteggere”
le grandi multinazionali farmaceutiche dai Paesi poveri
che vorrebbero produrre essi
stessi o acquistare a basso
prezzo le versioni generiche
dei farmaci di cui ha bisogno
la loro popolazione. Il potere
avido della industria farmaceutica ha prevalso sui diritti
degli ammalati.
Se, come diceva Rudolf Virchow, “la politica è medicina
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su vasta scala”, è anche vero
che “la medicina è politica su
piccola scala”. L’attualità del
pensiero di Maccacaro sta nella denuncia di “questa medicina contemporanea che, di
giorno in giorno, si fa sempre
più assistenzialmente inefficace e socialmente repressiva”
(13). È necessario un ripensamento fondamentale del ruolo
sociale della medicina e dei
suoi professionisti. “Quando
lo stomaco è stato riempito di
una certa quantità di cibo, esso comincia a lavorare secondo le leggi generali della digestione. Ma è possibile, con
l’aiuto di queste leggi, spiegare perché cibi saporiti e nutrienti scendano ogni giorno
nel tuo stomaco mentre nel
mio sono rari visitatori? Spiegano forse queste leggi perché alcuni mangiano troppo
mentre altri soffrono la fame?
Forse la risposta va cercata in
qualche altra sfera, in qualche
altro genere di legge” (14).
Bibliografia
(7) Global Forum for Health Research (2002), The 10/90 Report on
Health Research 2001-2002, Global Forum for Health Research, Geneva.
(1) Saracci R. (2007), Epidemiology: a science for justice in health, International Journal of Epidemiology doi:10.1093/ije/dym009. Advance access published March 12, 2007.
(8) Tudor Hart J. (1971), The inverse care law, Lancet 1971, i: 405-12.
(2) Braveman P., Starfield B., Geiger H.J. (2001), World Health Report
2000: how it removes equity from the agenda for public health monitoring and policy, BMJ, 323: 6878-81.
(10) Rosen G. (1974), From Medical Police to Social Medicine, Science
History Publications, New York, Citato in Anderson M.A., Smith L., Sidel V.W., What is Social Medicine?, Monthy Review 12.31, 2004.
(3) WHO Commission on Social Determinants of Health.
http://www.who.int/social_determinants
(11) Si veda la risposta del Governo Berlusconi alla “Lettera aperta dei
medici italiani contro la guerra”. http://www.saluteglobale.it sezione
Documenti.
(4) Nel significato gramsciano di sistema di idee che riflettono e promuovono i valori politici, economici e culturali di un particolare gruppo sociale.
(5) McKee M. (2007), Cochrane on Communism: the influence of ideology on the search for evidence, International Journal of Epidemiology, 36: 269-273.
(6) United States House of Representatives. Committee on Government Reform-Minority Staff Special Investigations Division. August
2003, Politics and Science in the Bush Administration, Report prepared
for Rep. Henry A Waxman. August 2003. Citato in McKee 2007, op. cit.
(9) Barr D., Fenton L., Edwards D. (2004), Editorial - Politics and
Health, Q J Med, 97: 61-62.
(12) Si veda il recente esempio del libro di puericultura “Da 0 a 6 anni: Una guida per la famiglia”, pubblicato dalla Plasmon e inviato ai
pediatri di famiglia con richiesta di distribuirlo ai genitori dei loro assistiti. http://forum.promiseland.it/viewtopic.php?t=24061&sid=
5a6a266338b37c5645a7e3df2b68b789
(13) Relazione di apertura... Op. cit.
(14) Plekhanov G. (1947), The Development of the Monist View of History, International Publishers, New York 1947. Citato in Anderson
M.A., Smith L., Sidel V.W. 2004, op. cit.
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Pratica medica
e controllo sociale*
N
el preparare questa relazione, è stata valutata una serie di scritti comparsi in questi anni in Italia sul tema del medico e
della medicina. Fra questi, uno studio è apparso piú rigoroso e serio degli altri: si tratta del fascicolo ciclostilato dal titolo
Sviluppo capitalistico e riforma sanitaria, prodotto dal “Centro Karl Marx” di Pisa. Nella esposizione che seguirà ci riferiremo largamente ad alcune delle tesi dei compagni pisani, di cui peraltro non condividiamo molti orientamenti, anche di importanza essenziale.
L’attuale situazione dell’assistenza sanitaria in Italia è caratterizzata dalle contraddizioni che derivano dal tentativo di eliminare
alcune macroscopiche disfunzioni. Come è noto, la spesa sanitaria tende a crescere, nella maggior parte dei paesi capitalisti, con
un ritmo decisamente maggiore rispetto all’incremento del reddito nazionale. Ciò impone delle nuove esigenze di pianificazione.
Queste esigenze sono rese particolarmente urgenti nel nostro paese dal fatto che la spesa attuale (in particolare per quanto concerne il bilancio INAM) subisce da qualche anno un incremento imprevisto e incontrollato.
Lo stato capitalista registra attualmente il fatto che il costo sociale della malattia è di ostacolo allo sviluppo del sistema.
Nella valutazione del costo sociale della malattia è necessario includere:
1) il costo del deterioramento fisico (e quindi della inattività produttiva) della forza-lavoro, ai vari livelli di qualificazione, in termini di perdita temporanea di unità produttive (e quindi di spesa necessaria al suo rimpiazzamento, quando questo avvenga)
e di costo vivo delle spese di assistenza (rimborso parziale o totale del salario, ecc.);
2) i costi derivanti dalla insufficiente razionalizzazione delle risposte rispetto ai bisogni sanitari. Questi bisogni sanitari subiscono un incremento per una serie di motivi: in buona parte rientrano nell’incremento generale dei bisogni determinati dallo sviluppo economico.
L’esigenza e il tentativo (non necessariamente coordinato e coerente, ma non per questo meno reale), da parte del Capitale e dello Stato, di:
1) aumentare il rendimento globale dell’assistenza medica: quest’ultima attualmente è invece caratterizzata da un massiccio
squilibrio fra i costi e l’efficacia delle prestazioni;
2) pianificare l’assistenza medica in modo da colmare le piú gravi sperequazioni geografiche e settoriali; fornire un minimo di assistenza medica adeguata a tutta la popolazione (A questo proposito, si deve segnalare che con ogni evidenza lo sviluppo di
qualsiasi forma di medicina preventiva nell’attuale sistema economico comporterà un aumento ulteriore della spesa sanitaria
mediante la moltiplicazione dei cittadini categorizzati come assistiti e la tendenziale cronicizzazione dell’assistenza. L’aumento ulteriore della popolazione anziana contribuirà largamente a questa tendenza);
3) razionalizzare la distribuzione della disuguaglianza: fornire cioè agli strati sociali piú elevati terapie a alto livello all’interno
della medicina pubblica (e non piú solo nelle cliniche private); fornire agli strati borghesi, ai tecnici dell’industria, agli operai
qualificati, strumenti preventivi e curativi efficienti; dirigere infine le priorità per quanto riguarda le terapie ad alto costo (come la sostituzione di organi e di funzioni) e le indagini di massa a alto costo (come ad esempio la diagnosi precoce dei carcinomi dei bronchi). In questo senso si pone per lo Stato capitalista il problema dell’abolizione tendenziale della libera professione,
che sempre piú si configura come forma di rendita parassitaria, dato il suo non inserimento nei circuiti istituzionali aziendali
della sanità (un medico che presta la sua opera per un ente di Stato è, per lo Stato, produttivo anche se viene pagato lautamente; non così il medico che vende, concorrenzialmente, rispetto allo Stato stesso, il medesimo tipo di prestazione);
4) dirigere la spesa pubblica nel settore sanitario in modo tale da favorire le esigenze generali dei piani finanziari, l’interesse generale del capitale, e gli interessi particolari delle industrie piú direttamente coinvolte (industria edilizia, industria farmaceutica e dietetica, industria produttrice di apparecchi sanitari);
* Relazione al convegno “Assistenza sanitaria e farmaci”, organizzato dalla Assemblea del personale dell’Istituto superiore di sanità, Roma 8-910 luglio 1970.
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5) razionalizzare il prelievo delle risorse economiche necessarie alla spesa sanitaria (La fiscalizzazione parziale o totale degli oneri è fra l’altro uno strumento utile ai fini – della ridistribuzione dei redditi di lavoro dipendente e indipendente: questo meccanismo rientra nell’uso congiunturale della spesa pubblica e sanitaria);
6) rafforzare tutto il sistema assistenziale (e il sistema sanitario al suo interno) come sistema di selezione e di controllo. Il sistema sanitario contribuisce in modo coordinato a inserire tutta la popolazione in una rete medico-sociale (che può benissimo appellarsi ai principi della prevenzione) atta a gestire a livello individuale contraddizioni che in realtà hanno carattere collettivo,
e a razionalizzare i destini individuali in funzione della classe sociale di appartenenza e delle esigenze della produzione e del
consumo. L’ideologia mistificante della “società al soccorso dell’individuo” è essenziale per fare accettare la funzione sociale
assegnata al singolo, attribuendogli, come sempre, la responsabilità individuale del suo inadattamento a altre funzioni. In
questa prospettiva, il Capitale tende a attribuire quindi anche al sistema sanitario (in associazione con quello scolastico e con
quello psichiatrico) il compito particolare di selezionare il più precocemente possibile i soggetti non adatti a mansioni lavorative specializzate. Questi lavoratori, nei casi piú tipici, sono caratterizzati di volta in volta da: assenteismo; inadattamento alla
disciplina e ai ritmi; tendenza agli infortuni; tendenze alle malattie fisiche e psichiche recidivanti. Essi vengono probabilmente
fabbricati dal sistema in numero sempre maggiore; in una situazione economica favorevole e con una tecnologia avanzata, essi
costano meno come assistiti (come consumatori, come lavoratori degradati) che come produttori. Inoltre, come è ovvio, costano soprattutto meno al singolo capitalista se passano a carico dello Stato, e se i medici sono disposti, come spesso è la regola,
a dare giustificazioni tecnicistiche a una diagnosi di disadattamento già formulata dal padrone;
7) ottenere la collaborazione attiva della classe operaia e delle sue organizzazioni, in modo da ingabbiare le richieste stesse della
classe operaia, che costituiscono in questo settore una delle più grosse contraddizioni all’interno dello Stato capitalista.
Le difficoltà attuali, all’interno del tentativo di attuare la riforma sanitaria, derivano principalmente:
1) dalla opposizione di taluni settori politico-burocratici di sottogoverno, legati agli istituti previdenziali; dalla opposizione e dalle richieste corporative di buona parte dei medici;
2) dalla impossibilità a colmare le sperequazioni geografiche e settoriali, a causa della prevalenza trainante delle zone geografiche e dei settori più direttamente legati agli interessi del capitale industriale (zone “sviluppate” del Nord Italia);
3) dalle resistenze di una parte del capitalismo italiano, preoccupato per le conseguenze economiche della fiscalizzazione degli
oneri. Inoltre, dalle resistenze dei settori farmaceutici che hanno tratto enormi benefici dal sistema mutualistico e da talune
facilitazioni legislative e di mercato (da questo punto di vista, è la grande industria farmaceutica quella più suscettibile di accettare la razionalizzazione dell’assistenza medica: la scomparsa del caotico bengodi farmacologico tipico del mutualismo può
portare dei vantaggi a lungo termine al grande capitale farmaceutico mediante la razionalizzazione della domanda e la dilatazione del numero degli assistiti);
4) dalla persistenza di una prassi sanitaria inadeguata alle esigenze attuali del capitale. La prassi sanitaria italiana è infatti caratterizzata, da questo punto di vista, da:
a) una scadente preparazione media tecnico-scientifica, sia a livello dei laureati che dei tecnici e infermieri;
b) un ancoramento dei laureati (medici) a forti privilegi economici e sociali e a uno stile di lavoro individualista, e talora perfino vetero-borghese, notabilare e parassitario;
c) ordinamenti gerarchici corporativi e chiusi con tendenze baronali e pseudo-tecnocratiche, e forti resistenze a pianificazioni
razionali;
5) dalla insufficienza amministrativa degli enti locali e degli enti ospedalieri (oltre alle Opere Pie, ecc.), nonché dalla insufficienza organizzativa delle varie strutture assistenziali, e in particolare di quelle ospedaliere;
6) dalle resistenze degli ambienti interessati alla medicina privatistica (compresi gli ordini religiosi). (È da notare a questo proposito
che la difesa della medicina privatistica è lo strumento più efficace per mantenere elevata la forza contrattuale dei medici).
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392 Territorio
Maccacaro, lo stratega del SSN
Classi sociali e salute
Cesare Cislaghi
Istituto di Biometria e Statistica medica “Giulio Maccararo”, Università di Milano
R
ileggendo dopo tanti
anni la relazione di
GAM tenuta all’ISS le
prime sensazioni sono state
tra di loro profondamente
contraddittorie: mi ha sorpreso quanto mi apparisse ingenuo ed obsoleto il linguaggio
esageratamente ideologizzato
e quanto invece fosse profonda e rilevante l’analisi e
quanto mi mancasse la sua
capacità di ragionamento e di
connotazione dei fatti.
Rileggendo GAM ci si sente
sempre più piccoli e più affollati di ragionamenti e di
preoccupazioni minimali ed
inutili ma anche ogni volta
ristimolati ad una visione critica e globale della realtà.
Non possiamo negare che in
molti di noi c’è una forte nostalgia di ideologia, un bisogno di avere un modello
“semplice” di interpretazione
della realtà. Ma la nostalgia si
affianca anche alla consapevolezza della negatività delle
semplificazioni; ed è qui che
GAM ritorna sempre a stupirmi! I suoi ragionamenti, pur
intrisi di ideologia marxiana,
hanno una profondità ed una
genialità che rifiuta le semplificazioni e scende nel cuore dei problemi.
Oltre a questo sorprende come, pur rifacendosi alle categorie marxiane, GAM valorizzasse interamente la persona
ed i suoi bisogni che, sì contestualizzati nel sociale, però
hanno valore sostanziale indipendente ed in quanto tale
devono essere rispettati. C’è
una sorta di religiosità laica
della persona che riemerge
sempre nelle parole e negli
scritti di GAM, frutto sia di
una educazione giovanile
piena di questi valori, come
lui più volte ha detto e scritto, ma anche di una appassionata sensibilità ed attenzione agli altri, sia come “classe”
sia come “persone”, e soprattutto per una sua visione culturale e politica della società.
Usando categorie di allora,
ben si può dire che una sua
esigenza forte era quella di fare sintesi tra l’elemento pubblico e l’elemento privato. Difficilmente potremmo definire
marxiane la sua sensibilità
per i rapporti personali, per il
forte senso di famiglia, per
l’attenzione ai sentimenti, per
il valore dato agli affetti. Il
tutto però con una attenzione
che riempie di collettivo l’individuale, ed infatti GAM termina la sua relazione lamentando come spesso la medicina dia solo “consolazioni
provvisorie individuali… utili
solo a far accettare al singolo
il suo destino personale ed a
fargli perdere di vista il carattere collettivo del danno di
cui soffre e a non fargli percepire le cause sociali, cioè politiche, del suo essere in una situazione di rischio.
Erano gli anni in cui si incominciava a parlare di riforma
sanitaria. Nel microbiologo
diventato il fondatore della
scuola statistica medica italiana dopo aver passato mesi
a lavorare in Inghilterra con
Fisher sull’analisi dei disegni
sperimentali, riaffiora nel ’70
l’igenista ammiratore delle
idee di Giovanardi e di Seppilli che sin dai tempi della
Liberazione avevano propugnato l’istituzione di un servizio sanitario universalistico. E GAM si chiede quanto
questa operazione sia a favore della liberazione dell’uomo
o quanto invece rischi, almeno per alcuni versi, di diventare lo strumento funzionale
solo dello sviluppo capitalistico preoccupato del costo
sociale della malattia, ostacolo al suo progresso.
La sua è una analisi Politica
così lontana dalle analisi di
bassa politica odierna dove
l’ottica è solo lo scontro tra
poteri, tra partiti, tra interessi
e non una analisi dei disegni
globali di sistema, talvolta
astratti ma sicuramente utili
per individuare le tendenze
dinamiche della società.
I costi sociali che lo sviluppo
capitalistico vuole ridurre sono i costi del deterioramento
della forza lavoro, i costi vivi
delle spese di assistenza ed i
costi derivanti dalla insufficiente razionalizzazione delle
risposte ai bisogni. È per evitare questi costi che, secondo
GAM, da parte del Capitale e
quindi dello Stato si ha la necessità di:
1. Aumentare il rendimento
globale dell’assistenza. È
obiettivo oggi più evidente, quello della ricerca dell’efficienza.
2. Pianificare l’assistenza per
N. 165 - 2007
colmare le più gravi sperequazioni geografiche e
settoriali. E ciò produrrà
un crescente aumento della spesa sanitaria.
3. Razionalizzare la distribuzione della diseguaglianza
facendo rientrare nella sanità pubblica anche le terapie ad alto costo per gli
strati sociali più elevati
abolendo così tendenzialmente la libera professione
che rappresenta una forza
concorrenziale alle necessità dello Stato stesso.
4. Dirigere la spesa pubblica
nel settore sanitario per
favorire gli interessi delle
industrie coinvolte nella
sanità.
5. Razionalizzare il prelievo
delle risorse economiche
necessarie alla spesa sanitaria al fine anche dell’ottenimento della ridistribuzione dei redditi di lavoro dipendente ed indipendente.
6. Rafforzare tutto il sistema
assistenziale come sistema
di selezione e di controllo,
riportando a livello individuale le contraddizioni sociali collettive. GAM denuncia l’ideologia mistificante della “società al soccorso dell’individuo”. I
soggetti non adatti al sistema produttivo vengono
selezionati e catalogati come assistiti e costano allo
Stato meno come tali che
come cattivi produttori.
7. Ottenere la collaborazione
della classe operaia ingabbiando così le richieste e le
lotte della stessa.
È questa una analisi scomoda
e per alcuni versi irritante della riforma sanitaria che di lì a
dieci anni verrà approvata; è
N. 165 - 2007
però anche una chiave di lettura politica di classe stimolante e forse oggi troppo
estranea al dibattito anche a
sinistra del Paese. Quanto il sistema sanitario sia una risposta ai bisogni delle persone,
quanto sia una risposta ai bisogni della società e quanto
invece sia una risposta ai bisogni della produzione, della
classe dirigente, del potere
statale, eccetera: questo è forse giunto il momento di ricominciare a chiedercelo.
Ed infatti GAM elenca poi anche le forze che in quegli anni
creavano resistenze al tentativo riformatore e queste erano:
1. L’opposizione dei settori
burocratici-mutualistici e
della corporazione medica
che volevano conservare i
privilegi acquisiti.
2. L’impossibilità di colmare le
sperequazioni geografiche.
3. Le resistenze di parte delle
forze capitalistiche preoccupate delle conseguenze
economiche della fiscalizzazione degli oneri.
4. Dalla persistenza di prassi
sanitarie inadeguate.
5. Dalle insufficienze ammi-
Maccacaro, lo stratega del SSN
nistrative degli enti pubblici.
6. Dalle resistenze degli ambienti interessati alla medicina privatistica, enti religiosi compresi.
Si può ben dire, 37 anni dopo, ch’egli aveva già intuito e
ipotizzato quasi tutto dell’evoluzione del movimento
riformatore. Il successo della
riforma infatti secondo GAM
era incerto e dipendeva da
vari fattori, e tra questi:
1. Dalla realizzazione della
riforma ospedaliera che
non può attuarsi “se non si
giunge alla pianificazione
dei ricoveri (attualmente
al tempo stesso tardivi ed
in numero eccessivo) e al
miglioramento dell’assistenza esterna”.
2. Dalla possibilità di “attuare
forme di medicina preventiva che eviti però di separare la medicina preventiva
da quella curativa e riabilitativa, assegnandole perciò
un ruolo degradato”.
3. Di riformare l’insegnamento sanitario.
E soprattutto GAM afferma
come “la battaglia sanitaria
può essere uno strumento
valido all’interno della lotta
di classe solo nella misura in
cui identifica le contraddizioni di classe. Non può essere un fine né uno strumento
valido se illude i lavoratori
nella possibilità di ottenere
modelli alternativi di sviluppo dell’assistenza, come forme di consumo. La lotta per
la salute è vana se non giunge soprattutto e rapidamente
alla lotta contro le vere cause
sociali della malattia”.
Questo concetto GAM me lo
ripropose con grande chiarezza ed intensità un mattino in
Istituto. Mi disse “io ormai
sono ‘vecchio’ ma tu sei ‘giovane’ e puoi fare ancora molto, e ci riuscirai solo se ti porrai degli obiettivi scientifici
di alto livello. Vedi – mi disse
– Pasteur si poneva di trovare
l’origine biologica, microbica
delle malattie ed è per questo
poi che riuscì a fare quello
che poi fece! Tu dovresti porti il problema di trovare l’origine sociale della malattia,
capire come l’organizzazione
sociale, come i rapporti di potere, inneschino i processi
Sae l ute
Territorio 393
patogeni odierni: solo dandoti questi obiettivi di largo respiro forse riuscirai a capire
qualcosa di più della situazione epidemiologica attuale”.
Sono passati 37 anni, il tempo di una carriera professionale, e tra me e Pasteur la distanza non faccio fatica a definirla abissale … però quanto mi ha detto GAM quella
mattina lo ripeto spesso ai
giovani che incontro; chissà
se tra di loro qualcuno riuscirà nell’impresa di capire
come la salute dipenda in
gran parte dalla strutturazione in classi della società e
quindi dell’implicito sfruttamento degli uni sugli altri!
L’utopia comunista, quella
tristemente conosciuta soprattutto in molti Paesi, è
certamente e fortunatamente
finita. La realtà resta e la
speranza pure: quella di trovare una sintesi di lettura
della realtà che ci permetta di
individuare gli strumenti per
i quali nessuno debba sentirsi
causa della malattia dell’altro. E questa sarà la vera prevenzione e la vera politica sanitaria.
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394 Territorio
Paola De Simone
Centro ricerche Ergonomia
Asl 10, Firenze
I
n questi anni, si è visto
che ben difficilmente si
riesce a realizzare una politica organizzativa di prevenzione se non si tiene conto
che è fondamentale sviluppare negli individui conoscenze,
capacità e comportamenti
adeguati nei confronti del rischio connesso alle attività
lavorative. La situazione si
complica notevolmente quando i lavoratori sono atipici.
Esistono oggi una trentina di
tipi di contratto di lavoro precario nel panorama lavorativo
italiano di questi anni. I soggetti coinvolti sono sopratutto giovani che sempre più si
rassegnano ad essere lavoratori nomadi. È ormai certo che
questi lavoratori sono per vari
motivi più a rischio sul piano
della sicurezza e della salute;
il tasso di infortuni sul lavoro, infatti, risulta molto più
alto rispetto ai lavoratori stabili così come il malessere psicosociale nel lungo termine.
Nonostante secondo la legge
Biagi siano equiparati ai dipendenti, sul piano della sicurezza questi lavoratori sono
sicuramente meno integrati e
forse, in generale, meno motivati dei loro colleghi con posto fisso; forse proprio perché
la loro preoccupazione principale è mantenere il posto di
lavoro. Come sostiene Luciano
Gallino in un articolo apparso
Esperienze dal territorio
N. 165 - 2007
La comunicazione
dei rischi in Azienda
sul quotidiano la Repubblica
“una simile proliferazione di
contratti atipici, usa e getta,
fa compiere un ulteriore passo verso un mercato del lavoro sul quale la merce lavoro
viene scambiata in modo
quanto più possibile analogo
a qualsiasi altra merce, mentre le persone, i soggetti del
lavoro scompaiono vieppiù
nell’ombra, … al tempo stesso, essa è destinata a rendere
il mercato del lavoro sempre
meno comprensibile e gestibile, agli occhi degli esperti,
delle imprese e dello stesso
Governo”.
Cosa fare? Insieme al lavoro
delle istituzioni, le Aziende
dovrebbero compiere uno
sforzo maggiore per migliorare la conoscenza dei rischi in
Azienda, per migliorare la comunicazione per la individuazione e gestione dei rischi
stessi; la comunicazione, infatti, accompagnata dalla ricerca, può diventare uno dei
principali strumenti per la
prevenzione nei luoghi di lavoro. Per ridurre il rischio occorre, dunque valutarlo oggettivamente e informare/
formare circa la gravità. Spesso questo sforzo informativo
risulta vano, perché? Il problema della sicurezza sul lavoro sta nella necessità di far
coincidere il piano formale
teorico con quello reale, esperienziale. La risposta è che
non basta l’informazione; il
comportamento della sicurezza dipende da come percepiamo e valutiamo soggettiva-
mente i rischi (valutazioni cognitive ed emotive) (P. Slovic). Da qui l’esigenza di Conoscere le caratteristiche del
rischio che influenzano il modo di percepirlo (osservabilità,
gravità delle cause,frequenza…) e indagare sulle strategie di valutazione adottate
che determinano l’adozione di
comportamenti sicuri/insicuri
(Savadori-Rumiati).
Da questa idea di base siamo
partiti per sviluppare un progetto di ricerca-intervento di
tipo qualitativo mirato a
esplicitare le percezioni di rischio vissute dai lavoratori
precari in diversi settori produttivi dell’area fiorentina.
L’approccio di ricerca privilegiato è stato quello visuale.
Le immagini, in quanto lin-
Fig. 1.
N. 165 - 2007
Esperienze dal territorio
Sae l ute
Territorio 395
Fig. 2.
guaggio universale, hanno
dato anche ai lavoratori immigrati la possibilità di
esprimersi sul tema della sicurezza superando le difficoltà della nostra lingua.
Poiché pensiamo essenzialmente attraverso immagini,
sono proprio le immagini
sensoriali di cui facciamo
quotidianamente esperienza
(visive, uditive, tattili…) associate all’esperienza emotiva a costruire la base dei nostri giudizi e delle nostre
scelte (Damasio).
Ai lavoratori delle Aziende
cha hanno partecipato all’in-
dagine (ARPAT, Quadrifoglio,
Careggi, ASL10, Università,
Comune, Provincia, Unicoop)
è stato chiesto di produrre
due scatti fotografici riguardanti un’aspetto negativo del
proprio lavoro e uno positivo.
L’aspetto negativo doveva
rappresentare un rischio, un
pericolo percepito; quello positivo una buona pratica attuata in Azienda in materia di
salute e sicurezza. I lavoratori
hanno poi descritto i loro
scatti fotografici definendo
così le loro opinioni sull’argomento. In questo senso il
concetto di rischio viene stu-
Bibliografia
Gallino L. (2003), L’occupazione usa e getta, la Repubblica, 7 giugno
2003.
diato considerando l’elemento
umano (individuale e sociale)
di consapevolezza e capacità
di gestione del rischio stesso.
Il lavoro è stato svolto grazie
alla collaborazione attiva dei
lavoratori insieme agli attori
della sicurezza delle Aziende
(RLS, RSPP). Uno degli obiettivi raggiunti è stato proprio
quello di coinvolgere i lavoratori in un percorso critico di
riflessione sui rischi.
I commenti e le immagini dei
lavoratori sono stati raccolti
al fine di organizzare un momento di incontro tra le
Aziende per la condivisione
dei risultati.
La ricerca è stata svolta dalla
UF Pisll dell’Azienda sanitaria
fiorentina (C. Zamboni. C.
Sgarella, F. Carnevale) con il
Centro di ricerche in Ergonomia e fattore umano di Firenze (P. De Simone). Il nostro
intervento si inserisce nell’ambito del Progetto regionale “Lavoro atipico: analisi
del fenomeno e proposte operative per la tutela della salute dei lavoratori atipici” che
ha coinvolto attivamente diverse Aziende sanitarie toscane (Pisa, Empoli, Pistoia,
Valdinievole, Valdera).
Savadori L., Ruminati R. (2005), Nuovi rischi vecchie paure, Il Mulino.
Slovic P. (2000), The perception of risk, Earthscan, London.
Damasio A. (1994), Descarte’s error, Reason and the human brain,
Grosset-Putnam, New York.
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396 Territorio
Marco Buselli
Infermiere
N
ei Paesi occidentali si
assiste da tempo a un
incremento generalizzato dell’uso del Pronto soccorso: si ritiene che negli ultimi anni le prestazioni siano
generalmente raddoppiate. Il
quadro dell’emergenza-urgenza in Versilia riflette
quindi un andamento più generale, risultando il trend degli interventi in continua
ascesa sia per l’emergenza
che per gli ordinari: dai
29.630 trasporti ordinari del
2002 ai 37.673 del 2003 per
arrivare ai 46.107 del 2005
mentre per le emergenze dai
22.784 del 2002 ai 23.367 nel
2003 per toccare infine quota
24.391 nel 2005.
Questo fenomeno investe in
primo luogo la Centrale operativa ed il 118 ma si riversa
conseguentemente sull’attività di Pronto soccorso, sempre più congestionata e caotica, col rischio, sempre in
agguato, di trascurare le situazioni di effettiva urgenza.
All’origine del problema oltre
a fattori organizzativi insistono fattori culturali: la salute viene intesa sempre più
come recupero dell’efficienza
fisica ed eliminazione dei sintomi o del semplice sospetto
Esperienze dal territorio
N. 165 - 2007
Criticità organizzative
nell’ambito
del sistema 118
di malattia; questo atteggiamento può rendere soggettivamente urgenti anche situazioni che in realtà non lo sono e spingere, conseguentemente, a chiedere l’intervento del Pronto soccorso.
In Versilia il fenomeno si inserisce in un contesto apparentemente positivo: la zona
costiera è facilmente raggiungibile in ogni suo punto,
abbondano le associazioni di
volontariato e i medici a disposizione; spesso tutto ciò
comporta comunque una distorsione nell’utilizzo delle
risorse. L’assetto ambientale
risulta variegato e la densità
di popolazione variabile: zone ad elevatissima densità
abitativa si alternano a zone
montane scarsamente popolate; la maggior parte della
popolazione si concentra sulla fascia costiera, in una percentuale stimabile attorno al
60% del totale. Tali numeri
esplodono nel periodo estivo,
laddove, sempre nella fascia
costiera, si ha un incremento
sino a raddoppiare-triplicare
la popolazione stanziale della
costa.
Il sistema di soccorso è regolato da una convenzione tra
ASL e volontariato, il coordi-
namento affidato ad una Centrale di ascolto locale con personale misto: operatori tecnici e infermieri. Allo stato attuale esistono otto Punti di
Emergenza territoriale assicurati da medici e volontari con
ambulanza di tipo A in regime
di stand by. L’operatore di
Centrale, indifferentemente
infermiere o tecnico, in forza
degli attuali criteri organizzativi, è chiamato a discriminare sul presunto grado di criticità del soggetto da soccorrere e fare intervenire il mezzo
più idoneo. Manca la figura,
prevista per legge, del medico
di Centrale e gli infermieri
svolgono identiche mansioni
rispetto agli operatori tecnici;
sul territorio mancano Unità
di soccorso avanzato con medico ed infermiere a bordo
che intervengano rapidamente sul posto.
La logica che ha portato dall’identificazione dei problemi
alla costruzione di un progetto di miglioramento è composta da tre passaggi in successione: analisi delle criticità,
degli obiettivi e delle strategie ipotizzabili.
Il primo passaggio consiste
nello stabilire relazioni causa-effetto tra i vari aspetti
negativi della situazione; per
istruire questa fase sono stati
utilizzati strumenti quali il
brainstorming tra gli operatori coinvolti ed un diagramma
causa-effetto.
Un secondo passaggio consiste nel definire obiettivi e
nell’organizzarli in modo gerarchico, leggendo in passivo
quanto emerso nel diagramma dei problemi.
Il terzo passaggio consta nell’identificazione delle differenti strategie di soluzione
dei problemi e nella scelta
delle strategie di progetto. Da
un’accurata analisi organizzativa del sistema 118 in Versilia emergono alcune criticità così sintetizzabili:
1. Inappropriato e ridondante impiego di risorse umane altrimenti utilizzabili.
2. Crescita esponenziale del
numero di interventi del
118.
3. Conseguente numero elevato di accessi impropri in
Pronto soccorso.
Il progetto si propone di utilizzare linee guida, laddove
esistano, o altrimenti ingenerare un processo di creazione
delle stesse, al fine di affrontare e risolvere la prima criticità individuata, ottimizzan-
N. 165 - 2007
do le risorse a disposizione e
coniugando efficacia/efficienza in un contesto di razionalizzazione delle risorse.
Allo stesso tempo si ipotizza
che l’implementazione di linee guida “ad hoc” sull’argomento possa indirettamente
e positivamente, influire sulla possibilità di risolvere le
altre due criticità emergenti.
Mentre il primo punto presuppone l’implementazione
di un cambiamento organizzativo basato su evidenze, gli
altri due livelli di criticità richiedono anche la messa in
atto di complesse strategie di
educazione sanitaria della
popolazione, nonché di campagne informative sull’accesso ai servizi di emergenza. Il
salto di qualità per affrontare
le criticità determinate dal
sempre più elevato numero di
interventi 118 / accessi in
Pronto soccorso oltre che dal
punto di vista organizzativo
deve in primo luogo maturare
culturalmente.
D’altro canto si intuisce una
nuova sensibilità delle direzioni amministrative e politiche che vedono nei servizi di
Pronto soccorso ed emergenza non solo un territorio ad
“alta visibilità” da parte del
cittadino, ma anche uno dei
nodi cruciali attraverso cui
ottimizzare la risposta ad una
crescente domanda di salute.
Dal macroobiettivo “ottimizzazione delle risorse disponibili” discende la necessità di
due obiettivi ulteriori e ad
esso collegati: la condivisione ad ampio raggio del nuovo
modello organizzativo e la
creazione di un’ipotesi di soccorso avanzato.
Nella ricerca effettuata delle
evidenze scientifiche dispo-
Esperienze dal territorio
nibili si evince che nella maggior parte dei casi trattasi di
linee guida che non esplicitano il livello di forza delle raccomandazioni né fonti e metodologia utilizzata per giungere a specifiche conclusioni,
determinando così la non oggettività scientifica delle
stesse.
Il progetto, constatata la mancanza di linee guida, prevede la
costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare a livello
aziendale che affronti la tematica in oggetto promuovendo la
stesura di linee guida da parte
di organismi preposti e supportando una revisione sistematica multicentrica delle evidenze
in termini di risultato prodotte
dalle realtà più avanzate.
Prima di adottare la linea guida a livello aziendale, essa
verrà testata attraverso una
fase di valutazione critica:
possono infatti annidarvisi
errori o distorsioni (bias) in
corso di elaborazione, nella
sua validità interna ed esterna e nell’applicabilità alla
pratica clinica quotidiana.
Per sondarne la coerenza interna-esterna verrà adottata
la metodologia AGREE (Appraisal of Guidelines Research
& Evaluation in Europe), che
ci permetterà di orientarci in
base ai motivi per cui si vuole
implementare la linea guida
stessa: in relazione ad obiettivo, coinvolgimento delle
parti in causa, rigore nell’elaborazione, chiarezza e applicabilità della linea guida alla
pratica clinica.
Le raccomandazioni prodotte
debbono rappresentare uno
strumento elastico che risponda a criteri di adattabilità e flessibilità in relazione
alle aree del progetto su cui
non si abbiano ancora risposte chiare e precise: determineranno così la declinazione
completa del progetto, che
assumerà così la sua connotazione definitiva.
Nell’ambito delle buone pratiche cliniche si individua lo
Stay and play quale modalità
di attivazione più congrua
per la costituzione di un nucleo di soccorso avanzato: esso consiste nel valutare e stabilizzare il paziente direttamente sulla scena prima di
procedere ad una centralizzazione, presuppone alto livello
di professionalità degli operatori (medici e infermieri),
automatismi tipici del lavoro
d’équipe e disponibilità di
strumenti, materiali e mezzi
all’avanguardia ed affidabili.
L’obiettivo da centrare in
ogni caso è quello di inviare
il mezzo e l’équipe di soccorso più idonei per la gestione
dell’emergenza sul posto e la
centralizzazione della vittima. Altro obiettivo cardine
del progetto è quello di ottimizzare la gestione della cosiddetta golden hour, nella
quale si decide spesso e volentieri la vita del paziente.
Ad esempio la destinazione
del politraumatizzato (spesso
a rischio concreto di shock
emorragico) risulta di vitale
importanza per la sua sopravvivenza (es.Contea Orange,
California, riduzione mortalità dal 74 al 20% se il traumatizzato veniva inviato al
Trauma Center anziché all’Ospedale secondario - West JG
Arch. Surg 1983, 18: 740).
Progetto operativo di superamento delle attuali
criticità
Il progetto declina una nuova
Sae l ute
Territorio 397
job description in Centrale
operativa affidando al personale tecnico la gestione del
servizio ordinario e a quello
infermieristico la gestione
delle urgenze, con la presenza di un medico in Centrale
con funzioni di consulenza e
coordinamento. Sul territorio
l’equipaggio di automedica,
composto da medico e infermiere riveste un ruolo chiave
nella fase di centralizzazione
del paziente, per stabilizzare
le funzioni vitali e decidere la
destinazione più opportuna.
Il progetto prevede anche una
suddivisione del territorio costiero in 2 macro-aree costiere, Versilia Sud e Versilia
Nord, ciascuna con un’automedica di riferimento (Fig. 1).
Novità organizzative Versilia
Sud: l’automedica “Versilia
Sud” diverrebbe perno del sistema appena descritto. Viareggio manterrebbe un PET
invece degli attuali due; Torre del Lago perderebbe la funzione di PET diurno mentre
manterrebbe quella di PET
notturno nel periodo estivo.
Novità organizzative Versilia
Nord: insieme all’automedica
“Versilia Nord” (di stanza a
Querceta) tra Forte dei Marmi, Querceta, Pietrasanta e
Marina di Pietrasanta rimarrebbe un solo PET con ambulanza medicalizzata in luogo
degli attuali due. La sede individuata è quella di Pietrasanta - Marina di Pietrasanta.
La durata del periodo di prova sarebbe di sei mesi, per
raccogliere dati e valutare
l’opportunità di correttivi da
applicare, senza condurre ad
assegnazioni di diritto. Inva-
l ute
Sa
e
398 Territorio
Esperienze dal territorio
N. 165 - 2007
Fig. 1.
riata la situazione delle zone
interne, escluse dalla riorganizzazione territoriale.
Risorse mediche si libererebbero per essere impiegate in
Centrale, in automedica o al
Pronto soccorso. Inoltre, la
razionalizzazione ipotizzata
dei Punti di Emergenza territoriale andrebbe di pari passo
con una riqualificazione
strutturale dei rimanenti,
prevista tra l’altro dal PSR
della Toscana 2005-2007. Per
quanto riguarda i codici a
bassa priorità, l’impegno assunto dalla Giunta regionale
toscana è infatti quello di
creare sul territorio servizi alternativi al Pronto soccorso
ospedaliero, in grado di far
fronte alle situazioni che non
sono di autentica urgenza ma
che richiedono d’altra parte
un sollecito intervento medico-chirurgico (PSR Toscana
2005-2007).
Indicatori e standard di
qualità
Il cambiamento organizzativo
e l’implementazione di linee
guida debbono essere inquadrati nel rispetto di standard
di riferimento capaci di rappresentare livelli di qualità
accettabili e sostenibili. Nel
processare il cambiamento è
sicuramente utile monitorare
variabili sentinella che ci dia-
no l’opportunità di valutare
se ci stiamo muovendo in direzione dell’obiettivo e se i
cambiamenti prodotti dalla
nostra azione determinano
un miglioramento in termini
assoluti rispetto al gold standard, riferimento di eccellenza al momento conosciuto. La
valutazione di efficacia o di
risultato viene effettuata “ex
post” e praticata attraverso la
valutazioni di variabili (indicatori finali) versus standard
di riferimento predefiniti.
Esiste inoltre la concreta possibilità che molti sforzi rivolti
al cambiamento organizzativo in genere risultino efficaci
ma non efficienti. Di qui la
necessità di controllare la
qualità del processo anche
con la determinazione di indicatori intermedi.
Per quanto attiene la valutazione in itinere si individuano due indicatori intermedi:
– Percentuale di pazienti stabilizzati o curati a domicilio (numero di interventi a
domicilio effettuati dall’équipe di automedica versus interventi effettuati
dall’équipe dell’ambulanza
medicalizzata). Si vuol dimostrare che l’automedica
può ridurre il numero di
accessi in PS avendo l’equipe maggiori potenzialità operative.
N. 165 - 2007
– Disponibilità di équipe
avanzata in standby (in
minuti/h 24) per area rispetto alla precedente copertura tramite i soli PET
La forza delle variabili selezionate, data in termini
misurabili e verificabili, ne
fa di per sé indicatori consistenti ed affidabili nei
confronti dello standard di
riferimento.
La valutazione di outcome
dovrebbe coinvolgere i vari
118 per poter confrontarne i sistemi e poterne
evincere dati significativi
su scala più ampia.
Come indicatori di risultato
del progetto sono state individuate sei variabili:
– Riduzione della mortalità a
30 gg (espressa in %) dei
pazienti (codici rossi e gialli) trattati da equipe ALS
versus pazienti trattati da
medico + équipe BLS.
PS Considerare i decessi
dal momento dell’arrivo
sul target dell’équipe di
soccorso.
– Numero di arresti cardiaci
rianimati con esito positivo
(espresso in %) tra l’arrivo
sul target e la dimissione
dal PS. Il valore ottenuto
verrà confrontato con i dati attuali.
– Numero di pazienti (codici
rossi e gialli) rianimati con
esito positivo e con “Glascow Outcome Score” negativo a distanza di sei mesi
trattati da équipe ALS versus pazienti trattati da medico + équipe BLS.
Il dato ottenuto (espresso
in %) contribuirà ad orientare la riflessione sui danni cerebrali invalidanti
causati dall’anossia e sull’efficacia in relazione a
Esperienze dal territorio
tale variabile.
– Appropriatezza dell’attivazione dell’automedica (su
c.gialli e rossi) espressa in
%.
Per quanto riguarda l’ultimo punto disponiamo dei
dati nazionali di utilizzo
delle automediche 2003,
con un livello standard di
appropriatezza nell’attivazione del 91.2%; per i primi tre si rispetta una logica (in attesa di definizione
di gold standard e livelli
qualitativi minimi) che valuti qualsiasi miglioramento o peggioramento in relazione ai valori attuali rilevati. La misura dell’appropriatezza è data dalla
coerenza tra codice di invio e quello di ritorno e
prevede il coinvolgimento
degli operatori di Centrale
e del medico di automedica. Secondo dati nazionali
relativi all’anno 2004:
– L’83,6% dei pazienti muore
nei primi minuti e Il 5,8%
entro le prime 24 ore a causa dei gravi danni cerebrali
conseguenti. Sopravvive il
10,6% dimessi senza deficit
invalidanti. La stima totale
della sopravvivenza risulta
invece inferiore al 5%.
– Dati locali indicano l’88,1%
di decessi nei primi minuti
e Il 5,9% entro le prime 24
ore per danni cerebrali
conseguenti. Sopravvive il
6% dei pazienti trattati dimessi senza deficit invalidanti. La stima totale della
sopravvivenza è invece inferiore al 4%.
Si persegue attraverso il cambiamento organizzativo almeno il raggiungimento dei livelli nazionali, se non un miglioramento rispetto ad essi.
Il processo di valutazione e
le opportunità offerte dal
progetto
Nell’ambito del progetto è prevista la verifica dell’ambito e
degli obiettivi di progetto: attraverso tale processo misuriamo, il più sistematicamente
ed obiettivamente possibile, il
grado di raggiungimento degli
obiettivi originari e rileviamo
le ragioni delle deviazioni significative rispetto a quanto
progettato (PAHO 1994).
Le fasi di controllo sono state
definite attraverso una definizione di standard quantitativi e qualitativi, misura dei
risultati con tempi, modalità
e responsabilità definite, raffronto tra previsto e realizzato e valutazione dell’eventualità di intraprendere azioni
correttive (Megginson 1996).
In seguito alla realizzazione
di ciascuna delle fasi del progetto si provvederà a valutare
le cause che hanno determinato variazioni e scostamenti
rispetto a quanto pianificato
e criteri di scelta adottati per
le azioni correttive (PMI
Standards Committee 1996).
Ai fini della valutazione globale del progetto e delle ipotesi di risultato è necessario
valutare se e come quel tipo
di progetti è utile per l’organizzazione, qual’è il modo
migliore di gestire i processi e
quali sono i rischi più importanti in quel contesto; si stimerà infine quali sono punti
di forza e aree di miglioramento della struttura, del
personale e delle procedure
nella gestione dei progetti.
Nella fase esecutiva del progetto attraverso la funzione
di controllo budgetario le
informazioni riguarderanno il
confronto tra i risultati at-
Sae l ute
Territorio 399
tuali e quelli previsti, l’analisi dell’andamento degli stessi
e le previsioni per il futuro.
I vantaggi economici derivanti dalla razionalizzazione delle risorse umane e tecniche a
disposizione si concretizzano
nell’ipotizzata riduzione del
numero dei PET sul territorio,
la riduzione dei servizi da pagare alle associazioni di volontariato (servizi cui non segue ricovero ospedaliero) per
i casi risolti a domicilio, il recupero di personale medico
in esubero dai PET per istituire nuovi servizi quali il medico in CO (doveroso adempimento legislativo), l’automedica e l’utilizzo progressivo di
medici della continuità assistenziale per garantire il servizio sui PET rimanenti.
Un medico costa all’Azienda
4.600 € al mese (comprensivi
degli oneri previdenziali e di
oneri derivanti da un accordo
aziendale stimati in 774,68 €
mensili) per un ammontare di
59.800 € annui. Se si moltiplica l’intera cifra per il numero di medici impiegati nell’emergenza territoriale possiamo affermare che solo la
componente medica viene a
costare all’intero sistema ben
2.212.600 € annui.
Un altro capitolo del risparmio ipotizzabile sta nella riuscita dell’introduzione della
figura infermieristica nel
quadro dell’emergenza territoriale attraverso un sistema
che preveda l’ambulanza infermieristica (INDIA), con
susseguente possibilità di
riassorbire ulteriori risorse
mediche attualmente dedicate all’emergenza territoriale
in ambito ospedaliero, con
evidenti risparmi di gestione
e nuove strategie ipotizzabili.
l ute
Sa
e
400 Territorio
La formazione per sostenere il cambiamento organizzativo
Un progetto formativo coerente e condiviso è necessario
per sostenere il cambiamento
organizzativo ipotizzato e
rappresenta la linfa vitale del
progetto stesso.
Obiettivo prioritario è promuovere la qualità assistenziale ed assicurare l’adeguatezza e l’uniformità delle cure
garantendo ai pazienti i mi-
Esperienze dal territorio
gliori e i più appropriati interventi sanitari in un contesto di integrazione tra le varie figure professionali.
Il progetto si propone altresì
di fornire informazioni utili
riguardo alla continua evoluzione delle evidenze in area
critica, raccogliere esperienze
di “buone pratiche” dalle
realtà più avanzate, sensibilizzare i partecipanti ad elaborare protocolli operativi,
incrementare la fiducia nella
Bibliografia
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Council guidelines for adult Advanced Life Support, Resuscitation.
European Resuscitation Council (2005), 2005 International Consensus
Conference on Cardipulmonary Resuscitation, Emergency Cardiovascular Care Science with Treatment Reccomendations.
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l’emergenza territoriale, Mc Graw Hill, Milano.
Posner K., Applegarth M., Manuale di project management, Edicart,
Zurich RE.
Pessina E., Cantù E., L’aziendalizzazione della sanità in Italia: rapporto
OASI 2000, CERGAS Università Bocconi.
comunicazione efficace in
ambito dell’equipe.
Un progetto infine si conclude quando gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti o
quando si comprende che gli
stessi non sono realisticamente raggiungibili.
2007 Versilia Soccorso non
intende rappresentare altro
se non uno stimolo al cambiamento, al mettersi costantemente in gioco attraverso
la forza delle idee, la passione
N. 165 - 2007
per il proprio lavoro e ciò che
rappresenta, la tenacia organizzativa.
In fase conclusiva risulta infine assolutamente necessario
documentare i risultati raggiunti, sia perché il progetto
possa essere correttamente
valutato, sia perché dall’esperienza fatta si possano ricavare suggerimenti ed informazioni utili per la pianificazione e lo svolgimento di progetti futuri.
Grant H.D., Murray R.H., Ber J.D. (1999), Interventi di emergenza, Mc
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Benci L. (1999), Professioni sanitarie non più ausiliarie, Rivista di diritto sanitario delle professioni sanitarie, n. 1, Lauri Edizioni.
Azienda USL Versilia, Regolamento del servizio territoriale di emergenza - Urgenza, Dipartimento Emergenza -Urgenza - Centrale Operativa
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Azienda USL Versilia (2006), Bilancio sociale Azienda USL 12 Viareggio.
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Loiudice M. (1997), La gestione del cambiamento in sanità Manuale
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Salute eTerritorio Maccacaro, lo stratega del SSN