caosfera www.caosfera.it creativitoria 100% MADE IN ITALY Gabriella M. Ronchi con Diletta Zabaglio LA CASA DI SASSI Rifl e s s i o n i Gabriella M. Ronchi LA CASA DI SASSI ISBN 978-88-6628-303-4 copyright 2014 Caosfera Edizioni www.caosfera.it soluzioni grafiche e realizzazione A mia madre Elide e a mia figlia Sabrina. Dedico questo racconto a mia madre Elide e a mia figlia Sabrina perché nel passato sono presenti i semi che germoglieranno nel futuro e nel futuro riaffiorano le radici che ci legano al passato... “... In Africa i Dogon rappresentano il concetto del tempo che trascorre, collegato alla forza vitale cosmica e alla fertilità, con l’immagine di una donna forte e fiera che camminando porta sulle spalle la vecchia madre con la testa volta all’indietro e davanti una piccola figlia che guarda innanzi a sé. La vecchia madre rappresenta il passato, la piccola figlia rappresenta il futuro. La donna è il presente che procede, l’anello indispensabile che unisce passato e futuro nell’interminabile ciclo delle vite...” (pag. 22 “Enciclopedia delle Religioni” Garzanti Editore, 1989) 5 PREFAZIONE La casa di sassi, vera protagonista di questo lungo racconto, è un luogo reale, una vecchia casa dell’Appennino Tosco Emiliano che ospita e accoglie ben quattro generazioni di una stessa, allargata famiglia e dove si svolgono, si intrecciano e si dipanano le storie e i destini di tanti diversi personaggi. La voce narrante è quella di Camilla che, attraverso i suoi ricordi di bambina e di adolescente prima e di donna adulta poi, ricostruisce una storia che è sicuramente la sua personale ma che al tempo stesso è la storia di tante altre vite. Il racconto esce quindi da un registro strettamente intimista e diventa un racconto corale, dove tante voci riportano e conducono il lettore dagli anni del fascismo e della guerra fino ai nostri giorni. Riemergono così, pagina dopo pagina, tempi che sembrano irrimediabilmente persi e lontani, con usi, tradizioni e la memoria collettiva di tutto un territorio - quello appunto dell’Appennino Tosco Emiliano - che appare oggi dimenticato dalle giovani generazioni. Lo stile, in alcuni tratti più semplice e diretto, in altri più complesso e articolato è, a mio avviso, funzionale allo svolgersi del narrato e “... la salita alla chiesa lungo il sentiero dei ricordi...” che scandisce e apre i capitoli della prima parte del testo, diventa una metafora della fatica, degli intoppi e dei grovigli che ogni essere umano deve affrontare quando decide di ripercorrere la propria storia personale. Il linguaggio poetico e rievocativo ci porta, in certi passaggi del testo, a immaginare paesaggi, situazioni, emozioni e rappresenta una bella prova per chi, come Gabriella M. Ronchi - l’autrice - si è cimentata per la prima volta a scrivere un racconto. Diletta Zabaglio 7 DALL’AUTRICE AL LETTORE È una storia di vita vissuta: all’inizio con la serenità dell’innocenza, poi con sofferenza, infine con la speranza che in tutto ciò che accade e “ci accade” esista almeno un senso. In parte corrispondente a realtà, per luoghi e periodi. Ogni riferimento a fatti e personaggi è puramente casuale e frutto della mia fantasia, perché da ognuno di noi può evolversi un racconto di vita. Marzo 2012 Gabriella M. Ronchi 9 PARTE PRIMA “... Se potessi ricominciare o no questo viaggio, ricomincerei...” (N. Hikmet) PROLOGO A Camilla era stata offerta l’opportunità di acquistare una parte della vecchia casa di sassi, un antico casale immerso in una valle dell’Appennino Tosco Emiliano. Prospiciente alla casa, in un locale ricavato dal fienile, c’era la “camera nuova” la stanza nella quale lei era nata e dove aveva trascorso lunghi periodi di vacanza durante la sua infanzia e la sua adolescenza con sua sorella Isabella e con nonna Fe’. Dopo diversi ripensamenti, insieme a suo marito Alex, aveva deciso di non lasciarsi scappare quell’occasione, se non altro per motivi affettivi. Si erano presi quindi due giornate libere per recarsi all’appuntamento con il notaio per la firma del contratto che li avrebbe resi proprietari. Concluse le pratiche burocratiche, prima di tornare in città, Camilla si era concessa una passeggiata percorrendo il vecchio sentiero che portava alla chiesa. Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta che aveva camminato lungo quel sentiero con la nonna e sua sorella e ora quello stesso sentiero si presentava impervio e abbandonato. Strada facendo le riaffioravano tutti i ricordi dello spaccato di vita che aveva trascorso in quei luoghi e quanto poi le aveva riservato il destino. Il giorno seguente avrebbero richiuso la porta della casa di sassi, lasciandosi alle spalle quell’oasi di pace nell’attesa di farvi ritorno. 11 LA CASA DI SASSI I fari abbaglianti illuminavano l’ultimo tratto di strada sterrata dopo la svolta a destra della strada comunale. Era buio pesto nella stagione avanzata, ai bordi del viale il vento agitava le foglie degli alberi secolari formando ombre più scure. Camilla e Alex con la figlia Sara, che si era addormentata sul sedile posteriore vicino al gatto Charly chiuso nella sua gabbietta dove finalmente aveva smesso di miagolare, andavano a trascorrere il fine settimana nella casa di campagna immersa in una valle dell’Appennino Tosco-Emiliano. La frazione, dal nome strano del piccolo Comune di cui la casa faceva parte, non figurava nemmeno su tutte le carte geografiche. Era un’oasi lontana dalla città, senza rumori di clacson, di sirene, moto, motorini e automobili, senza lo smog che oscura il cielo. Lì regnavano la pace e il silenzio, interrotti solo dal cinguettare di qualche uccello o dal verso di qualche animale. Giunti in prossimità dello spiazzo davanti al fienile scesero dalla macchina per dirigersi verso la vecchia casa percorrendo la strada ghiaiosa dove Camilla, con il suo inseparabile bauletto contenente le creme e l’occorrente per il trucco, stentava sugli altrettanto inseparabili tacchi alti, Sara ancora un po’ assonnata portava la gabbietta con il suo gatto, guardandosi intorno. Proseguendo ancora pochi metri si girava l’angolo della stalla, dove si ergeva una pianta d’alloro che era cresciuta oltre all’altezza del tetto, mentre Alex le precedeva con le borse e una torcia per illuminare la strada verso la porta di casa. Il muro della facciata era scrostato e fatiscente e la porta di legno vecchia e verniciata di verde tempo addietro - perché si diceva che il verde tenesse lontano le vipere - lasciava filtrare l’aria che faceva volare le foglie secche sul pavimento di mattonelle di cotto, consumato e pieno di buchi. Dovevano trovarsi all’appuntamento il giorno seguente per la firma del contratto d’acquisto di quella casa che, dopo tanti ripensamenti e 13 pareri contrari o favorevoli, valutando l’offerta conveniente da parte del vecchio proprietario - un lontano parente di Camilla, figlio del fratello di suo nonno, da tempo residente in Francia - che l’aveva ereditata alla morte del padre. Non potendo più usufruirne, nemmeno per qualche breve periodo quando voleva tornare per ritrovare le sue radici e i suoi vecchi compagni, ora che la salute era divenuta troppo cagionevole e anche la distanza ormai rappresentava un viaggio troppo lungo da affrontare da solo, aveva deciso di venderla in quanto anche la sua seconda moglie gli aveva espresso chiaramente di non desiderare più tornarvi. Anche per lei quel viaggio era diventato troppo lungo e non se la sentiva più di doversi adattare in quella casa senza le sue comodità. La scaletta per giungere alla camera era troppo ripida per le sue gambe, il letto era diventato scomodo, mancava ogni mezzo pratico per le attività domestiche, il che richiedeva un maggior sforzo ed elasticità che non sentiva più di avere. Per quelle ragioni lui si era rassegnato a venderla dando loro la priorità perché, da anni, vi avevano soggiornato per i loro periodi di vacanza i genitori di Camilla, Ester e Dino. Alex e Camilla, ormai convinti, avevano deciso di non lasciarsi scappare l’occasione. In casa faceva freddo perché nelle mura si aprivano grosse crepe dalle quali entrava l’aria. Dalle fessure che solcavano le pareti uscivano correndo animaletti che, per la loro forma e velocità, la gente del posto chiamava millepiedi e altri ragnetti neri. Dai soffitti scrostati pendevano brandelli di intonaco ingiallito e gli angoli erano velati da grosse ragnatele, ai bordi del pavimento mancavano addirittura alcune mattonelle e si potevano intravvedere solchi di terra nuda. Mentre Camilla cercava di dare una ripulita, Alex aveva acceso la vecchia stufa a legna, anche se il calore rimaneva circoscritto nell’area vicina. Sara aveva liberato il gatto dal suo trasportino. Charly-Mao si era guardato intorno incuriosito e aveva corso per la casa infilandosi in tutti gli angoli dai quali usciva col pelo imbiancato dalle ragnatele finché, una volta presa confidenza con il nuovo territorio, era andato a raggomitolarsi su un morbido cuscino vicino al calore. Charly era il nome ufficiale del gatto ma poi lo si chiamava “Mao” o semplicemente “Gatto”. Era stato il regalo tanto agognato da Sara per la promozione del secondo anno al liceo scientifico in seguito divenuto per lei, figlia unica, un amico, un fratello con cui giocare e da coccolare quando tornava a casa da scuola e “Charly Gatto” l’accoglieva sempre sulla porta strofinandole le gambe e facendole le fusa. L’unico locale decente di quella casa era il bagno che, per necessità, era stato fatto costruire abbastanza di recente riducendo il soggiorno per evitare, in caso di bisogno, di dover uscire da casa per andare nella stalla o la notte soprattutto non dover usare i vasi quando, in alcune occasioni, si andava in campagna per trascorrervi qualche giorno di vacanza, come ad esempio a Pasqua o in estate. Le camere da letto erano al piano superiore al quale si saliva da una scala ripida ricoperta da una moquette grigia e polverosa, la stessa che si trovava sui pavimenti di assi un po’ sconnesse delle camere. Era stata posata qualche anno prima da Isabella, la sorella di Camilla e da Francesco suo futuro marito, quando per trascorrere un po’ di tempo insieme da soli avevano scelto la casa di sassi. Francesco era pratico in restaurazioni così aveva piastrellato la cucina, insieme poi avevano collaborato per rimediare alle scrostature del legno consumato dal tempo delle travi, degli infissi, delle finestre, e degli armadi a muro, ricoprendo il tutto con una vernice molto spessa. Per ravvivare la casa, avevano usato diversi colori: rosso per le finestre, marrone e verde per gli armadi e per le travi del soffitto, senza però rendersi conto che era un vero e proprio scempio ricoprire quel legno antico. Nel soffitto della camera più grande c’era una botola che dava accesso al solaio rimasto inutilizzato da anni e ormai abitato soltanto dai topi che a volte la notte si sentivano correre e rosicchiare. I mobili erano quelli riciclati dalle case di città fatta eccezione per un vecchio comò e uno specchio antico. Alle pareti erano appesi grandi poster e quadri senza cornice, alcuni dipinti da Isabella, che servivano per coprire qualche buco o qualche grossa crepa. Le camere al piano superiore erano ancora così fredde che a ogni respiro o sussurro, dal naso e dalla bocca uscivano nuvolette di vapore. Negli anni passati, in quelle campagne per riscaldare il letto si usava “il prete”. Consisteva in un attrezzo di forma ovale costruito con assicelle di legno, chiuse sul fondo e nella parte superiore da due piastre di ferro. Al suo interno vi si appoggiava una pentola con 14 15 il manico lungo nella quale si mettevano delle braci ardenti ricoperte da cenere. In mancanza del “prete” ormai disperso nei tempi, Alex aveva fatto scaldare sulla stufa due mattoni e, quando erano diventati belli caldi, li aveva ricoperti con stracci e inseriti tra le lenzuola per riscaldarle almeno un po’. Questo espediente era servito a intiepidire il letto ma di contro anche a inumidirlo. Alla fine però il silenzio e la stanchezza avevano avuto il sopravvento sulle scomodità. Il giorno seguente aprendo la porta Camilla, Alex e Sara furono accolti da una limpida giornata di sole, l’aria era tiepida e i colori autunnali erano uno spettacolo di tonalità di giallo e rossastro. Davanti alla casa, dietro la pianta di un grosso fico, c’era un vecchio muretto oltre il quale, fino al limite di un fossato, si allungava un prato con piante di mele, susine e ciliegi. Tutt’intorno si udiva solo il cinguettare degli uccellini. Quella casa che stavano per acquistare era parte di un casolare di sassi dove avevano vissuto quattro famiglie, compresa quella di nonna Fe’, la nonna materna di Camilla e Isabella. Due entrate si trovavano sul lato frontale, quello che dava sulla strada sterrata, altre due invece si aprivano sul retro in un cortile aperto che proseguiva fino a un terreno erboso un tempo lavorato a vigneto. Sempre di pietra, di fianco al casolare, c’era ancora la grande stalla, con il soffitto di mattoni rossi e l’interno suddiviso in campate sorrette da vecchie colonne di legno ormai consumato. Alle pareti di sassi si appoggiavano le mangiatoie delle mucche. Il pavimento era ricoperto da grosse pietre, ma alcune mancavano da quando era andata in disuso così come mancavano al pavimento della cantina antistante. Qui, dalla terra umida, emergevano disparati e stravaganti oggetti come un paio di vecchie scarpe, qualche collo di bottiglia, il manico di una scopa rotta. In un angolo era appoggiato un grosso giogo, nell’altro, un pezzo di legno che era appartenuto a un aratro. Un piccolo finestrino senza vetri lasciava filtrare solo un tenue fascio di luce e nel contempo permetteva libero accesso ai pipistrelli. Anche nella stalla tutto ormai era ricoperto da grosse ragnatele e la cantina abbandonata aveva l’aspetto inquietante di un tetro tugurio. Il piano superiore era formato da un grande fienile che era servito un tempo per contenere il fieno e i sacchi di grano e poi era diventato il deposito di vari attrezzi. L’alto soffitto era ricoperto da tegole bucate, tutte le pareti esterne e interne erano di sassi molto spessi. Due ampie finestre ad arco e senza vetri lasciavano entrare, portate dal vento, le foglie secche delle grandi querce che andavano a posarsi e ad ammucchiarsi sul pavimento con gli escrementi degli uccelli che avevano costruito i loro nidi al riparo sotto il tetto. L’entrata del fienile era stata chiusa da una provvisoria rete di ferro che fungeva da cancellata. Subito fuori si estendeva il porticato e l’aia antistante che arrivava sino al bordo della strada. La prima abitazione del casale era quella di nonna Fe’, e anche quella aveva annessa la sua stalla con la cantina. Al piano superiore una parte di questo secondo fienile era stata trasformata anni addietro in una stanza detta “la camera nuova” perché improvvisata in occasione del matrimonio di Ester con Dino. Camilla aveva deciso di comprare quella casa di sassi perché era attigua a quella di nonna Fe’ che per lei e sua sorella Isabella era stata come una madre. Con lei, infatti, avevano trascorso i giorni più spensierati della loro infanzia e adolescenza. Ora la nonna giaceva nel piccolo cimitero vicino alla chiesa del paese e dopo la divisione della proprietà tra gli eredi seguita alla sua morte, la casa di nonna Fe’ era stata destinata a zia Emma. Erano emozionati, anche Alex era rimasto affascinato da quel luogo e quel giorno finalmente avrebbero firmato davanti al notaio divenendo i proprietari di quella casa, del fienile e della stalla, la stessa stalla dove da piccole Camilla e Isabella andavano con la nonna quando le famiglie dei contadini si radunavano la sera a spannocchiare. In perfetto orario si erano diretti in paese, dove li attendeva il notaio, dopo aver lasciato il gatto Mao in casa con la sua ciotola piena. Dovevano trovarsi all’appuntamento insieme con il parente francese e i vicini per definire i confini, con il loro compromesso per le firme del contratto e il libretto degli assegni da versare. Camilla era ancora quasi incredula e infinitamente orgogliosa per quell’acquisto ricordando quanto sua madre e suo padre l’avrebbero approvato. Ora lei andava a compiere quel passo e non le importava che la casa non fosse di grande valore economico o non rappresentasse un importante investimento. La sua soddisfazione consisteva soprattutto nel fatto che in quella casa sarebbe rimasto sempre impresso il ricordo dei suoi genitori. La segretaria li aveva 16 17 annunciati e dopo breve tempo li aveva fatti accomodare nello studio. In quegli ultimi anni era già la terza volta che le capitava di doversi rivolgere a un notaio. Ricordando una precedente esperienza Camilla era ormai quasi “curiosa” di conoscerne un altro, e non tanto per il suo aspetto fisico, quanto per sentire come avrebbe esposto il contratto. Camilla e Isabella erano, infatti, già state convocate per il rogito di un piccolo appezzamento di terreno e della metà di un bosco - la loro parte di eredità in quel luogo. Quella volta il notaio era stato un signore di mezza età con una testa grossa, liscia e lucida e con una leggera protuberanza nel mezzo. L’uomo aveva letto una decina di pagine tutte di fila con il tipico accento emiliano, citando norme e leggi catastali, nomi di defunti di viventi e di eredi diretti e indiretti con date di nascita che non corrispondevano. Anche i loro nomi erano stati sbagliati: Camilla e Isabella, perplesse e divertite da quella lettura che sembrava una farsa, avevano dovuto coprirsi la bocca per non scoppiare a ridere. Terminata la procedura e firmato i documenti si erano ritrovate proprietarie di un pezzetto di terreno e di un mezzo bosco che, insieme, non valevano quanto il costo del rogito e della parcella del notaio. Questo notaio, pensava ora Camilla, era almeno un signore di bell’aspetto: abbronzato e con affascinanti occhi verdi. Li aveva fatti accomodare intorno al lungo tavolo di noce sul quale, oltre ai documenti, c’era un portaritratti d’argento con la fotografia della sua famiglia. La lettura era stata seria e precisa e l’atto d’acquisto si era chiuso in brevissimo tempo. Definiti gli accordi e concluse le pratiche burocratiche, Alex, Camilla e Sara erano rientrati in quella che ora finalmente era, e sarebbe stata in futuro, la “loro” casa di campagna. Prima di tornare in città, dove dovevano riprendere il lavoro e Sara la scuola, avevano ancora a disposizione l’intero pomeriggio e parte del giorno successivo. Alex poteva così concedersi un sonnellino sul vecchio divano ai piedi del quale stava raggomitolato il gatto, Sara doveva finire i compiti e Camilla poteva approfittarne per fare una passeggiata nei dintorni. Fermarsi e scoprire quale potere può avere per la mente il ritrovarsi, da soli e nel silenzio, lungo un antico sentiero per far riemergere tanti ricordi di un percorso passato. Fermati a guardare un fiore, una foglia, un sasso, un filo d’erba... ad ascoltare il rumore del mare, del vento o soltanto il silenzio... Fermati a pensare come il tempo può arricchirti... Se puoi fermati, cogli quest’attimo meraviglioso di divina armonia. (poesia Sufi) 18 19