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il futuro di persone sensibili La società ha bisogno
2 7 . 01 . 20 1 6 | 1 6 .04. 2016
a cura di
Angela Memola
Pascual Jordan
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Espoarte Digital è un progetto editoriale di Espoarte in
edizione esclusivamente digitale, tutto da sfogliare e da
leggere, con i migliori contenuti pubblicati sul sito
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AQUA AURA, THE NET n° 1, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone,
cm 90x120x10 (3 ed.) - cm 60x81x8 (3 ed.)
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INDICE / SU QUESTO NUMERO SI PARLA DI...
ESPOARTE
Registrazione del Tribunale di Savona
n. 517 del 15 febbraio 2001
Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito
dall’Associazione Culturale Arteam.
© Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche
parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della
Direzione e dell’Editore.
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vanno inviati all’indirizzo di redazione. Le opinioni degli autori
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necessariamente quelle della direzione della rivista. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non
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Editore
Ass. Cult. Arteam
Direttore Editoriale
Livia Savorelli
Publisher
Diego Santamaria
Direttore Web
Matteo Galbiati
Segreteria di Redazione
Francesca Di Giorgio
Direttore Responsabile
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Redazione
via Traversa dei Ceramisti 8/b
17012 Albissola Marina (SV)
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Art Director
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Ufficio Abbonamenti
[email protected]
Hanno collaborato a questo numero:
Giuseppe Alletto
Milena Becci
Stefano Bianchi
Antonio D’Amico
Francesca Di Giorgio
Tommaso Evangelista
Matteo Galbiati
Kevin McManus
Ilenia Moschini
Carlotta Petracci
Simone Rebora
Elena Sabattini
Livia Savorelli
Chiara Serri
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AQUA AURA. L’ESTASI DELL’ALTROVE
Intervista ad AQUA AURA di Chiara Serri
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ITERARS: IL PORTALE CHE TI GUIDA NEGLI STUDI D’ARTISTA
Intervista a Ronald L. Facchinetti (co-founder di Iterars) di Livia Savorelli
ARTUNER. LA STARTUP CHE DA LONDRA PARLA ITALIANO
Intervista a Eugenio Re Rebaudengo (founder di Artuner) di Francesca Di Giorgio
BEPART: LA GEOGRAFIA DELL’OLTRE E DELL’ARTE
Intervista a BePart di Carlotta Petracci
DEBOU.IT DESIGN, ARTE E MODA FANNO NETWORK
Intervista a Caroline Stante (founder di Debou) di Francesca Di Giorgio
CROWDARTS: UNA PIATTAFORMA DEDICATA ALLE ARTI PERFORMATIVE
Intervista a Serena Telesca (founder di Crowdarts) di Livia Savorelli
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IL LINGUAGGIO STRANIANTE DI MAURIZIO MOCHETTI
di Kevin McManus
THOMAS SCALCO: IL PROFUMO DELLA QUIETE TRA GLI OSSIMORI DELLA VITA
Intervista a THOMAS SCALCO di Antonio D’Amico
SCANDAGLIARE E FENDERE LO SPAZIO: IL SUONO PER ALBERTO TADIELLO
Intervista ad ALBERTO TADIELLO di Ilenia Moschini
OCCHIOMAGICO: QUARANT’ANNI DI “VISIONI” FOTOGRAFICHE
di Matteo Galbiati
UN NUOVO SPAZIO PER P420. L’INTERVISTA AI DIRETTORI
Intervista ad ALESSANDRO PASOTTI e FABRIZIO PADOVANI direttori di P420
di Milena Becci
CULTURA: LA GRANDE RISORSA PER IL MEZZOGIORNO
Intervista a GIUSEPPE DE MITA di Matteo Galbiati
L’ANTICO CHE SEDUCE… AL MAR DI RAVENNA
di Elena Sabattini
GÈRARD FROMANGER. DALLA FIGURATION NARRATIVE AL POSTMODERNO
di Stefano Bianchi
NUOVE DINAMICHE DEL TERMOLI TRA COSTRUZIONE, RICERCA E MEMORIA
di Tommaso Evangelista
SETA E MACCHINE, QUESTO È JAKOB TUGGENER AL MAST
di Ilenia Moschini
UNA MICROSTORIA DELLA POSTWAR ERA. CON QUALCHE MA…
di Simone Rebora
IL PARADISO PERDUTO DI RYAN MCGINLEY
di Carlotta Petracci
AGOSTINO ARRIVABENE, L’OLTRE-MODERNO PER LA PRIMA VOLTA A NEW YORK
di Giuseppe Alletto
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ARTE
AQUA AURA
L’ESTASI DELL’ALTROVE
Intervista ad AQUA AURA di Chiara Serri
Qual è la natura della nostra percezione?
Questa la domanda che anima la ricerca
di Aqua Aura, artista milanese le cui opere nascono da approfonditi studi di fisica,
biogenetica, filosofia e psicologia della
percezione. Dai lavori della serie Scintillation, che catturano l’impressione di entità altrimenti impercettibili, agli innesti
di The Graft, che ambiscono a costruire
una nuova biologia del visibile, sino alle
incursioni in nuovi ambiti linguistici –
scultura e video – e alla programmazione
di lunghi viaggi, per raggiungere l’estasi
dell’altrove...
Come sei arrivato alla definizione del titolo della mostra allestita da Riccardo
Costantini a Torino (fino al 19 marzo, ndr)?
Quali i significati sottesi?
Scintillation è un termine prevalentemente scientifico il cui significato, e in qualche
modo la cui traduzione, vanno cercati in
diversi campi della ricerca scientifica. Lo si
può trovare in uso in astronomia e nell’ambito della fisica delle particelle, nella rilevazione radar così come in medicina, fino
a studi nell’ambito della psicologia della
percezione. Scintillazione si riferisce, in larga misura, alle dinamiche dello sguardo e ai
fenomeni distorti della percezione di entità
labili o inconsistenti. È il confine instabile tra
realtà e illusione.
Rispetto alle opere della precedente produzione, nella mostra allestita da Riccardo Costantini la sublime grandezza della
natura sembra lasciare campo ad un’atmosfera magica, a paesaggi maggiormente onirici, dove la visione diventa stupore…
Questo nuovo ciclo di lavori parte da un assunto magrittiano, ovvero che la profonda
natura dell’arte sia quella di incarnare un
enigma che lo spettatore è chiamato a risolvere. Le domande che orientano la mia
ricerca sono sempre: quello che sto osservando cos’è? Quale il soggetto profondo
che traspare dalla superficie dell’immagine? Rispetto alla precedente produzione,
le nuove immagini mi sembrano caleidoscopiche “macchine della visione”. Continua
invece la riflessione sull’opera come “assoluto altrove”, un meta-luogo tanto veridico
e convincente quanto parossistico e paradossale. Usi i termini “stupore” e “onirico”
per definire i lavori. L’opera rimane per me
il luogo dell’estrema meraviglia, così come
in epoca barocca veniva concepita quale
“macchina delle meraviglie”. Per quanto riguarda il termine onirico… non so. Penso più
vicino alla mia visione l’idea di “ipnotico”.
Il progredire del lavoro ha comportato anche una rimodulazione degli aspetti tecnici? Alla composizione di frammenti fotografici autografi si aggiunge ora anche la
computer grafica 3D?
Il procedimento è rimasto sostanzialmente
inalterato. Scelta delle immagini da scatti di
base, progettazione e costruzione dell’immagine seguono le stesse dinamiche dei
precedenti lavori, anche se i tempi di costruzione digitale sono quasi raddoppiati. Il
contesto e, in qualche modo, il clima delle
immagini hanno invece subito un’evoluzione, nei termini di una maggiore sospensione
dell’atmosfera, di una riduzione delle componenti “drammatiche” e di una maggiore
lucidità del dettaglio allo scopo di ottenere
un iper-realismo che volevo straniante. Una
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Aqua Aura, MONEMA n° 2, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 100x150x10 (3 ed.) - cm 70x101x8 (3 ed.)
Aqua Aura, MONEMA n° 3, 2015, stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone, cm 105x178x10 (3 ed.) - cm 70x119x8 (3 ed.)
Nella pagina a fianco: Aqua Aura, LIQUID STILL LIFE #2, 2015, stampa digitale su carta cotone Hahnemuehle, montata su alluminio, cornice floccata, cm 150x130x8
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ESPOARTE DIGITAL
cura speciale, inoltre, è stata dedicata alla
scelta delle carte e degli inchiostri di stampa. La modellazione 3D è effettivamente
una novità per quel che mi riguarda. La trasformazione di immagini bidimensionali in
paesaggi a tre dimensioni, come ad esempio le gocce vetrificate, sta portando risultati interessanti.
Nelle opere della serie The Graft, che hai
presentato ad Arte Fiera e porterai al MIA,
troviamo, invece, una maggiore estensione cromatica… Come nasce il progetto?
È un lavoro sui confini della fotografia, nei
territori oltre la documentazione del reale o del “vissuto”, verso quel processo di
evoluzione dell’immagine che Fred Ritchin
chiama After Photography, ovvero PostFotografia. Tutte le serie recenti, ed in particolare The Graft, ambiscono a dare una
forma all’enigma della nostra percezione.
Oggi viviamo nell’“invisibile” di epoche passate, attraverso sofisticate “macchine della
documentazione”, quali possono essere i
microscopi elettronici e i telescopi spaziali. Attraverso queste estensioni dell’occhio,
vediamo il regno dell’infinitamente piccolo
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e dell’infinitamente distante, spesso lontano anche nel tempo. The Graft fa uso della
fotografia digitale con un taglio “tradizionale” – scatti di fiori o piante – così come di
immagini ottenute al microscopio elettronico: cellule umane, virus, microorganismi. Da
questi “corpi” separati ed autonomi lo sforzo
è quello di ottenere un unicum, una sintesi
nell’opera, fino ad arrivare ad un meta-mondo che sappia fondere realtà biologiche di
diversa natura, così come realtà dimensionali di scala differente, in una danza che
oscilla tra l’esperienza della retina umana e
i Byte o i Pixel della “macchina che guarda”.
Il risultato credo sia una “Biologia” del visibile e delle sue estensioni, traslata in un’opera-corpo di memoria barocca, ma anche
un’opera ad inganno, che sfrutta la seduzione impudica della sua superficie e del suo
cromatismo per introdurci ad una realtà silenziosa di micro-organismi, la cui natura è
a volte inquietante, altre volte apertamente
minacciosa. Per estensione, la gamma cromatica satura e continuamente sollecitata
deriva dalla “verità” stessa delle immagini
di origine. L’universo floreale ha come caratteristica fondamentale, oltre al profumo,
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Aqua Aura, THE NET n° 2, 2015, stampa ai
pigmenti di carbone su carta cotone,
cm 90x120x10 (3 ed.) - cm 60x81x8 (3 ed.)
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il colore. Il perpetuarsi delle sue famiglie,
le chance di sopravvivere in quanto specie,
sono affidate quasi per intero alla seduzione dei loro colori. Il microcosmo molecolare
letto attraverso il microscopio elettronico,
invece, è filtrato dal cervello sintetico del
computer che assegna ad ogni particolare
un determinato codice colore conservato
nel suo archivio. Esaltando le caratteristiche
di ogni segmento fino a renderlo “irreale”
non faccio altro che assecondare caratteristiche già presenti negli universi ai quali mi
rivolgo…
Progetti in cantiere?
Progetti in cantiere ce ne sono molti. La riflessione sul lavoro non si ferma mai, come
un flusso continuo di pensieri che a tratti si
concentra su particolari aree del magma
creativo. Nuovi lavori generano in continuazione nuove domande. In questo periodo,
dopo un lungo corteggiamento, sono molto attratto dal desiderio di misurarmi con la
scultura. Anche l’uso del video sta prenden-
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do piede nel mio immaginario, in questo
caso si tratta però di un vecchio amore. Per
quanto riguarda il capitolo mostre, si profila
un aprile intenso: a Reggio Emilia per Fotografia Europea, con una personale incentrata sul percorso che si snoda da Frozen
Frames a Scintillation, ed in Liguria, in uno
spazio istituzionale, con i lavori di The Graft.
Sarò a Bruxelles con Riccardo Costantini
in occasione della fiera, nella sezione Off
Course, poi a Milano per il MIA con due gallerie. In autunno, invece, inaugurerà la mostra da L’Ariete Arte Contemporanea di Bologna, concretizzazione del premio speciale
vinto durante l’Arteam Cup 2015 a Venezia. E
per il 2017 ci sono già alcuni progetti… Tra un
appuntamento e l’altro, però, spero di potermi ritagliare tempo e denaro per qualche
lungo viaggio. Comincia a mancarmi pesantemente l’estasi dell’altrove.
Aqua Aura vive e lavora tra Milano ed Akureyri (Islanda).
www.aquaaura.it
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Gallerie di riferimento:
VV8 artecontemporanea, Reggio Emilia
Costantini Art Gallery, Milano
Riccardo Costantini Contemporary, Torino
Galleria Kajaste, Helsinki – Oulu, Finlandia
Aqua Aura, WARPED PASSAGE, 2015, stampa
digitale su carta cotone Hahnemuehle, montata
su alluminio, cornice floccata, cm 100x123x8
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AnnA ConwAy
Purpose
6 marzo – 31 luglio 2016
giovedì – domenica
Via Fratelli Cervi 66 – Reggio Emilia
tel. +39 0522 382484
[email protected]
www.collezionemaramotti.org
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ITERARS ARTUNER BEPART DEBOU CROWDARTS
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SPECIALE STARTUP
ITERARS: IL PORTALE CHE TI GUIDA NEGLI
STUDI D’ARTISTA
Intervista a RONALD L. FACCHINETTI (co-founder di Iterars) di Livia Savorelli
La mostra? È in studio, nello spazio della
creazione dell’opera. Il tour? È curato, immaginato come una mostra dislocata sul
territorio, che si articola da uno studio all’altro alla scoperta di tendenze e talenti. L’happening, la cena, il ritratto: tutto si compie
nell’atelier. Ogni giorno, su appuntamento.
È questo iterars.com, un portale che fa propria la logica curatoriale lavorando con ogni
artista a un’esperienza diversa in studio. Ne
abbiamo parlato con uno dei fondatori, Ronald Facchinetti – curatore dell’evento di
arte pubblica itinerante ContainerArt e di
Art Pod – da sempre interessato a sviluppare nuovi modelli di museologia a network.
Cosa accade sul portale iterArs?
Si possono prenotare visite a mostre in studio. Partecipare a tour curati, pensati come
mostre che si sviluppano da un atelier all’altro, o a eventi, happening o cene. Passare
un pomeriggio con un Art Advisor. Incontrare un artista per uno Studio Portrait.
Turisti, appassionati, collezionisti: a chi vi
rivolgete?
Stiamo cominciando un Beta Test su Milano
e i nostri primi clienti sono turisti o businessmen esteri, oltre a collezionisti nel nostro
database. Ad aprile attiviamo le nostre alleanze nel settore del turismo di lusso e partnership con portali di collezionismo.
Quali sono le mostre in corso?
Variano ogni mese. A Milano, nello studio di
Giovanni Manzoni c’è una mostra sul viaggio. L’atelier è aperto per le visite alla mostra
e per il tour “Roots”, di Michela Ongaretti, in-
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Lo studio di Fabio Giampietro
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sieme allo spazio Nour. In zona Maggiolina,
le città di Fabio Giampietro incontrano i ritratti di Alan Maglio. Ci sono Daniela e Patrizia Novello con due mostre nel loro grande
atelier in Bovisa. E ancora, lo straordinario
AtelierFORTE, le opere di Giacomo Spazio
nel suo nuovo studio. Queste mostre inaugurano venerdì 18 marzo con l’Art Night Out
di AAF e proseguono ad aprile. Altre sono
già in corso o inizieranno presto.
Dopo Milano?
Abbiamo deciso di crescere lentamente per
instaurare un rapporto di fiducia con artisti e
curatori in ogni città. Creiamo alleanze con
gallerie e Art Advisor per garantire trasparenza e un livello qualitativo di eccellenza. Stiamo facendo Studio Visit a Varese,
Como, Torino, Bologna e Genova, che sarà
la prossima città con tour curati.
Ritratto di Ronal L. Facchinetti
Come si accede al circuito?
Le informazioni su potenziali studi ci arrivano da curatori o artisti di fiducia; occasionalmente dal form sul sito. Non abbiamo
preconcetti sull’età o il punto di carriera,
ma siamo molto attenti alla professionalità.
Dedichiamo molte energie per presentare
visite qualificate in studio e molte altre per
garantire una buona esperienza estetica ai
AtelierFORTE
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visitatori.
Come nasce il progetto?
Nel 2014 insieme a Luisa Castellini e Duilio
Forte come mappa degli studi d’artista a Milano in vista dell’Expo. Da allora il progetto
è molto evoluto. Abbiamo capito che applicare modelli di sharing economy senza forti
filtri curatoriali sarebbe stato un errore. Non
è possibile fare un Airb&b degli studi senza far scadere la qualità. Abbiamo scelto di
crescere lentamente ma in modo curato, e
di focalizzarci sulle esperienze che da sempre avvengono nello studio d’artista, come
i ritratti.
Le visite e i servizi sono tutti a pagamento?
Preferiamo adottare onesti modelli di business piuttosto di fumosi crowdfunding per
dare continuità a iterArs. Appoggiamo anche gli Open Studio: alcuni atelier del circuito partecipano alla “notte bianca” di Affordable. Una bella iniziativa, che a differenza
di altre stimola l’acquisto di opere in studio
con attenzione al nuovo collezionismo. Non
dimentichiamo che l’arte contemporanea
per crescere ha bisogno anche di essere
acquistata.
www.iterars.com
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SPECIALE STARTUP
ARTUNER. LA STARTUP CHE DA LONDRA
PARLA ITALIANO
Intervista a EUGENIO RE REBAUDENGO (founder di Artuner) di Francesca Di Giorgio
Anche la vendita d’opere d’arte online inizia
ad avere una sua storia le cui regole sono
sempre più disposte ad essere riscritte e
reinterpretate. La scommessa di Eugenio
Re Rebaudengo con Artuner – galleria online “collectors and curators oriented” – è
quella di sintonizzare su un unico canale
figure diverse e complementari del mondo dell’arte creando un network che sia in
grado di mettere a disposizione strumenti.
Contenuti quindi al di là dell’aspetto commerciale che resta il fine ma non il mezzo.
Cosa di cui da tempo si sono accorte anche
le maggiori fiere internazionali che richiedono alle gallerie di portare progetti coerenti e
coraggiosi anche in momenti critici. In questa direzione l’apparato di approfondimento che supporta gli artisti, internazionali ed
ipercontemporanei, su cui punta Artuner, a
tre anni dal lancio del progetto a Londra, dal
25 febbraio scorso si può leggere anche in
italiano. D’altronde lo sguardo “in between”
Italia/estero è una prerogativa della famiglia Re Rebaudengo…
Con un cognome così conosciuto e importante per l’arte italiana e internazionale…
Non diamo nulla per scontato: qual è stata
la tua “formazione” e cos’hai fatto prima di
aprire Artuner?
Per quel che concerne la mia formazione
accademica, mi sono laureato in Economia a Torino e successivamente, trasferito a
Londra per frequentare un master in Management alla London School of Economics
and Political Science. Qui, durante l’ultimo
anno ho sviluppato quello che, inizialmente, era un progetto di start-up e che poi è
diventato Artuner.
Personalmente, ho avuto il privilegio di avvicinarmi molto presto al piacere dell’ arte
contemporanea, avendo potuto seguire da
vicino mia madre (Patrizia Re Rebaudengo,
ndr) che ha cominciato a collezionare all’inizio degli Anni Novanta e poi via via in maniera sempre più appassionata. Questo mi
ha permesso di vivere e crescere a contatto
con molti artisti e di rapportarmi presto con
curatori, galleristi, direttori di musei e collezionisti di tutto il mondo. Per questa ragione, è stato abbastanza naturale pensare di
poter dar vita a un progetto di start-up che
permettesse una duplice possibilità d’attenzione: una rivolta all’arte contemporanea
e l’altra all’aspetto economico, imprenditoriale.
Stephen Felton, Mythos, veduta dell’installazione, Sifnos (Grecia), 2015. Courtesy dell’artista e di Artuner
12
Un ritratto di Eugenio Re Rebaudengo.
Courtesy: Alessandro Vasapolli e Artuner
Scegliere Londra come base di lancio del
progetto quindi fa parte del tuo percorso…
Londra credo rappresenti ancora la capitale europea dell’arte contemporanea e con
New York è una fra le più dinamiche e interessanti città del mondo per l’arte.
Presenta una scena particolarmente vivace,
con un’estrema varietà di musei, gallerie e
spazi, oltre che le realtà Istituzionali più note
come la Tate, la Serpentine Gallery, la Whitechapel Gallery e più piccole ma altrettanto importanti come Chisenhale e South
London Gallery. Molte sono poi le gallerie,
le case d’asta e i collezionisti. Senza dubbio,
l’offerta culturale mi ha spinto a rimanere a
Londra dopo il master alla LSE e a fondare
qui Artuner. Ad ogni modo l’Italia e Torino in
particolare rappresentano le mie radici, la
mia casa dove torno regolarmente. Artuner
ha lanciato una versione italiana della piattaforma, anche con l’auspicio di affermare la
propria presenza sul tessuto italiano e sviluppare progetti e collaborazioni.
Commerciale e culturale spesso in Italia
non vanno a braccetto. Artuner mette in
dialogo questi due aspetti…
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Ogni attività deve ovviamente trovare dei
modi in cui finanziarsi e sviluppare i propri progetti. Artuner nasce da una grande
passione per l’arte contemporanea e dal
desiderio di presentare e promuovere gli
artisti più interessanti. Nel momento della
creazione del business model ho pensato
che fosse importante anche essere coinvolto nella parte commerciale, in modo da
avere del cash flow per sostenere i progetti,
ma anche per aiutare gli artisti ad entrare in
collezioni internazionali, siano esse molto
importanti o di nuovi appassionati.
Per tradizione familiare conosci da vicino
il mondo del collezionismo ma i collezionisti non sono gli unici interlocutori di Artuner… Giusto?
Certamente artisti e curatori sono interlocutori per noi altrettanto importanti come gli
artisti. Inoltre, Artuner, non si rivolge solo a
collezionisti esperti, ma a chiunque voglia
avvicinarsi e approfondire contenuti d’arte
contemporanea. Sulla piattaforma è presente una sezione Magazine o di Approfondimenti, in cui abbiamo il piacere di inserire
informazioni relative artisti e ai loro lavori,
ma anche a specifiche tematiche concernenti l’arte contemporanea in senso lato. Mi
pare sia un modo opportuno per avvicinare
le persone al collezionismo. Sono convinto
che ciò che si conosce diventa più desiderabile e l’arte è una passione contagiosa
che una volta entrata nel sangue non ti lascia più. Cosi s’impara a conoscere e valutare sia il valore economico di un’opera ma
anche una serie di fattori molto personali e
meno tangibili.
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gli artisti italiani?
Oggi è probabilmente un momento non tra
i più facili per le nuove generazioni di artisti
italiani. C’è una grande attenzione internazionale per l’Arte Povera e altri movimenti
storici, ma per un giovane italiano adesso
certamente non è facilissimo emergere.
Pur volendo mantenere un programma
spiccatamente internazionale mi fa molto
piacere quando riesco a presentare un artista del nostro Paese offrendo una vetrina
internazionale. Questa scelta è però sempre
il risultato dell’effettivo talento dell’artista e
non della nazionalità di provenienza.
dium d’elezione e l’oggetto, umile e banale,
è il principale referente della sua indagine
artistica e personale. La mostra sarà ospitata nelle sale dell’ICI sino al 12 maggio. È
un’occasione, questa, anche per ribadire
l’attenzione di Artuner al contesto italiano e
l’impegno nella divulgazione e promozione
di quello che riteniamo abbia particolare
valore estetico, artistico e culturale, più genericamente. Spero possiate tutti venire a
vedere i suoi lavori!
Artuner costruisce anche mostre “fisiche”
che chiami pop up. La prossima sarà di un
artista italiano…
Dal 2014 Artuner collabora con l’Istituto Italiano di Cultura a Londra nell’organizzazione
di mostre ed eventi. Nasce proprio nel contesto di questo sodalizio, e grazie al sostegno del nuovo Direttore dell’Istituto Marco
Delogu, l’idea di presentare alcune fra le più
significative ricerche artistiche del panorama italiano. Il prossimo 30 marzo avremo il
piacere di inaugurare Proprioception, la prima personale in Regno Unito, di Manuele
Cerutti. Manuele è un artista torinese, che
ha già un curriculum abbastanza denso di
esperienze e collaborazioni, anche in contesti internazionali. La pittura è il suo me-
Info: +44 (0)747029812
[email protected]
www.artuner.com
ARTUNER
36 Alie Street, E1 8DA, Londra (UK)
In programma:
Manuele Cerutti. Proprioception
a cura di Eugenio Re Rebaudengo
Istituto Italiano di Cultura – Londra
31 marzo – 12 maggio 2016
Inaugurazione 30 marzo ore 18.00 – 21.00
panel di discussione, intervengono: Gregor Muir, Executive Director dell’ICA – Institute of Contemporary Arts di Londra,
Eugenio Re Rebaudengo, fondatore di ARTUNER e l’artista Manuele Cerutti.
Al di là della sensibilità personale ci sono
dei parametri più o meno oggettivi che
guidano la scelta degli artisti e dei curatori da coinvolgere in Artuner? Dando uno
sguardo al sito si percepisce subito un
certa selettività…
I criteri nella scelta delle opere e degli artisti dipendono da una concomitanza di
fattori. Ho evidentemente un interesse appassionato per gli artisti e per le opere che
presentiamo con Artuner. La scelta però
non coinvolge solo il mio personale gusto
estetico. Gli artisti e le opere sono l’esito di
approfonditi confronti e lavoro di ricerca dei
curatori con cui collaboriamo e con il mio
team. Cerchiamo d’individuare gli artisti più
promettenti, supportando spesso la pratica
di talenti internazionali emergenti quando
ne hanno più bisogno.
Dopo tutti gli anni passati a Londra e i
viaggi che ti hanno portato all’estero che
idea ti sei fatto su come vengano recepiti
Manuele Cerutti, Esercizio, 2013, oil on linen, cm 50x55. Private collection, Vicenza. Foto: Cristina Leoncini
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SPECIALE STARTUP
BEPART: LA GEOGRAFIA DELL’OLTRE
E DELL’ARTE
Intervista a BePart di Carlotta Petracci
Bepart - (da sx) Giovanni Franchina, Lilia Haralampieva, Joris Jaccarino
Parafrasando e attualizzando l’affermazione
di Ludwig Wittgenstein, secondo cui i limiti
del nostro linguaggio sarebbero i limiti del
nostro mondo, ci domandiamo: che cosa
succederebbe se potessimo installare nel
cielo di una zona rossa della Siria una colomba bianca? Ci piace partire da qui per
raccontare la storia di BePart, una piccola
start app milanese che ha creato una app
che ripensa completamente il concetto di
spazio espositivo e di arte pubblica. Grazie
alla realtà aumentata non ci troviamo più di
fronte alla contrapposizione tra spazio fisico
e immateriale, bensì in un terzo spazio potenzialmente infinito che nasce dalla loro integrazione e che fa cadere completamente
il concetto di confine geografico, linguistico
e mentale, in nome dell’arte. O meglio, del-
la possibilità di disseminare simboli, suoni e
opere in ogni luogo della città e del pianeta,
creando un gigantesco museo in fieri, che le
persone possono esplorare semplicemente
attraverso uno smart phone.
Realtà virtuale e realtà aumentata. Se diversi anni fa, con l’esplosione di Second
Life la riflessione sugli spazi di fruizione
dell’arte andava nella direzione dell’esplorazione della rete, intesa come luogo
completamente altro dove nuove politiche, dinamiche e sperimentazioni potevano esprimersi. Ora, grazie agli smart devices, si sta verificando un importante
ritorno alla realtà. Questo clima tecnologico ha influenzato in qualche modo la
nascita di BePart?
14
BePart nasce come un progetto visionario
orientato alla partecipazione della cittadinanza all’interno dello spazio urbano. Il punto di partenza non è stato: la realtà aumentata o quella virtuale, che rappresentano dei
mezzi o dei linguaggi molto funzionali. La
nostra idea era quella di creare un gigantesco database di contenuti che trovasse nella città, tanto quanto nel mondo, uno spazio
espositivo potenzialmente infinito. Lo sviluppo in una direzione tecnologica è arrivato dopo. Viviamo in un momento storico in
cui c’è un’evidente saturazione di hardware
e di contenuti, che corrisponde anche a un
loro utilizzo e fruizione piuttosto superficiali. Per cui affermare che le città sono delle
opere d’arte in continua evoluzione e cercare di tradurre questa visione in qualcosa
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di concreto, attraverso la partecipazione
collettiva e l’accessibilità, ci ha portato a
sviluppare una app e una piattaforma che
permettessero alle persone di riappropriarsi
dello spazio urbano: da un lato, producendo
opere d’arte che si integrassero nel suo paesaggio, dall’altro incontrando l’arte in maniera molto più immediata e interattiva.
Si tratta di una evoluzione dell’idea di arte
pubblica. Giusto?
Assolutamente sì. È una sorta di Keith Haring contemporaneo: un progetto che nasce
dal basso e che prevede la disseminazione
dell’arte nelle strade attraverso la tecnologia, creando una terza città che nasce dal
dialogo tra la città fisica e quella digitale.
Praticamente il concetto di smart city applicato a cultura e creatività.
Come dire: non guardiamo più semplicemente il mondo online ma arricchiamo,
letteralmente, aumentiamo la realtà con
contenuti site specific suggerendo un
viaggio. Siete partiti con opere d’arte visiva e video ma come può evolvere il progetto?
Se per evoluzione intendi, maggiore interazione, va detto che la prototipazione delle
idee quando c’è di mezzo la tecnologia richiede tempi molto lunghi, perché bisogna
far sì che quello che pensi possa essere
diffuso e supportato dai cellulari di tutti. Se
invece parli di altre forme d’arte, stiamo già
ampliando i confini della sperimentazione.
Uno degli ultimi progetti che stiamo portando avanti coinvolge un producer musicale, che sta creando un sistema di pattern
sonori, assimilabili a dei veri e propri quadri
emozionali, che cambiano a seconda dello
spostamento all’interno della città. Abbiamo inoltre recentemente realizzato una app
custom per il carnevale di Venezia cercando, attraverso la realtà aumentata, di far
incontrare tradizione e innovazione in una
digital masquerade animata. E potremmo
continuare oltre, perché le potenzialità sono
infinite nel momento in cui a contare è l’immaginazione.
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BePart come linguaggio artistico prima che
come applicazione digitale. È il concetto
di ponte che fa esplodere le opportunità
dell’immaginazione condivisa. Non solo
perché vengono realizzate delle installazioni in diverse città che, grazie ai contenuti
digitali, vengono messe in rete formando un
gigantesco museo in fieri ma anche perché
diversi artisti stanno manifestando l’esigenza di pensare le loro opere d’arte a partire
dalla realtà aumentata. Sono quindi i confini
dell’immaginazione e dello spazio espositivo che si ampliano e che viaggiano su altri canali, che non sono esclusivamente la
città fisica. Facciamo un esempio concreto:
pensiamo di installare una colomba bianca nel cielo di una zona rossa della Siria, a
cui nessuno ha accesso tranne i soldati e la
popolazione che la abita. Lo possiamo fare
grazie al Gps integrato nella app. In questo
modo noi consentiamo all’arte di scavalcare
qualsiasi tipo di barriera: fisica, concettuale,
geografica, sociale, attraverso un semplice
smart phone, che, puntato verso il cielo,
ci consente di vedere quell’opera. Proba-
È questo il senso che attribuite allo statement “The Public Imagination Movement”?
Come dicevamo prima, BePart è un progetto scalabile, che parte dalla città come
unità minima ma che può diventare globale, proprio attraverso l’immaginazione.
Oggi non siamo ancora nella direzione del
movimento, ma sicuramente è una tensione che ci accomuna. Stenderemo a breve
un manifesto, ma questo movimento nasce
dalla condivisione di una interpretazione di
15
bilmente è questo l’aspetto più innovativo
di BePart, l’idea di trasformare la realtà in
un’opera d’arte vivente eliminando completamente il concetto di confine.
Info: https://bepart.net
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DEBOU.IT DESIGN, ARTE E MODA FANNO
NETWORK
Intervista a CAROLINE STANTE (founder di Debou) di Francesca Di Giorgio
Debou: da e-commerce esclusivo di designers (“De” di design e “Bou” di boutique) a
luogo di scambio e sperimentazione di artisti contemporanei, torna ad Affordable Art
Fair Milano. È qui, durante la fiera che vuole
rendere accessibile l’arte ad un pubblico
vasto (valore massimo delle opere 6.000
euro) che il progetto, fondato da Caroline
Stante, ha lanciato un anno fa la sezione
arte e continua il suo percorso sulle tracce
del “saper fare”…
Dal marketing in Barilla alla comunicazione in Mondadori… Fino a lanciare un progetto molto personale. Ci racconti cosa ha
significato per te il lancio di Debou?
Debou rappresenta un sogno, un desiderio, forse un ideale che per anni ho coltivato collezionando riviste editoriali da tutti
i paesi che toccavo con i miei viaggi, spinta semplicemente dalla passione per quel
bello al confine tra creatività, arte e design
di eccellenza.
Strappavo pagine di giornale, prendevo ap-
punti, e osservavo gli stili dei diversi luoghi,
immaginando che un giorno tutto questo
sarebbe servito a dare forma ad un qualcosa di personale.
Ma solo dopo lunghi ed importanti anni di
esperienza lavorativa in grandi realtà aziendali, ha preso forma il desiderio di reinventarsi e rischiare. Così è nato Debou.
Non è stata una scelta semplice, e non lo è
tutt’ora. Le sfide sono quotidiane, l’impegno
è assoluto, l’incognita dei risultati regna sovrana, ma è il percorso più avvincente che
abbia mai intrapreso.
Chi lavora in Debou? Com’è composto il
vostro staff?
Il mio team è molto snello e fluido. Mi affiancano un architetto-exhibition designer,
co-founder del progetto, e una graphic
designer. L’agenzia web ci supporta invece
nella comunicazione online, dalle strategie
di indicizzazione alla gestione dei social.
All’incrocio tra moda arte e design cosa
gumdesign, Souvenir, sculture in metallo e campana in vetro
16
si trova? Come scegliete un artista, designer, maker con cui collaborare?
Una perfetta armonia di linguaggi ed
espressioni. Sono tre mondi che hanno in
comune la creatività e la sapienza artigiana.
Insieme, si completano.
Noi inseguiamo i talenti, che siano artisti,
designer, makers, o semplicemente creativi, li selezioniamo per il saper fare, la cura
progettuale e l’attenzione ai dettagli. Ci piace esplorare botteghe, laboratori e atelier
diffusi sul territorio, i luoghi dove nascono le
idee e i progetti, dove si sperimenta, si autoproduce, si crea.
Dopo il lancio della sezione arte, lo scorso
anno, tornate ad Affordable Art Fair Milano. Com’è cresciuto e cambiato il progetto
dai suoi inizi?
Il lancio della sezione arte in occasione di
Affordable Art Fair ci ha aperto nuove prospettive: da network esclusivo di designers
a luogo di scambio e sperimentazione anche di artisti contemporanei. Un incontro tra
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discipline che ha creato sinergie inedite e ci
ha spinto a partecipare, per il secondo anno,
ad Affordable Art Fair. Con una selezione di
opere tra pittura, scultura, tecnica mista, e
fotografia che testimoniano il dialogo tra
questi due mondi.
L’Italia al momento non sembra essere un
vero modello di innovazione. Cosa raccontano le storie dei makers con cui Debou
viene a contatto?
Le storie dei makers che presentiamo su
Debou sono l’espressione più autentica del
loro saper fare. E rappresentano per noi la
parte più bella ed emozionale di questo lavoro. Siamo incantati dal racconto dei loro
progetti, dai dettagli sulle tecniche e le
sperimentazioni che inseguono alla ricerca
dell’unicità. A volte penso “se fossi un cliente, mi basterebbe leggere queste interviste,
per innamorarmi dei loro prodotti, senza il
bisogno di vederli”.
Perché come i prodotti, le loro storie sono
“intime, silenziose, potenti”, “sono le esperienze del fare e delle mani che permettono ai nostri pensieri solidificati di diventare
concreti, pesanti o leggeri, utili o inutili funzionalmente ma sempre presenti con una
loro forza emozionale” per citare le espressioni dei nostri stessi artisti e designer.
Non c’è una sola storia degna di nota, ma
tutte, a loro modo, si distinguono per quel
pizzico di follia e genialità. Dall’importante
manager aziendale che ha abbandonato
una carriera ormai avviata per reinventarsi
designer con grandi riscontri, al fotografo di
noto talento che porta avanti il suo concetto di fotografia sostenibile, rifiutando tutte le
sovrastrutture economiche e culturali dettate dal mercato, dalle mode e dalle correnti di
vendita ufficiale della fotografia d’autore.
re di moda, per valorizzare la sinergia tra i
diversi mondi e stimolare nuovi interessi.
Progetti dopo Affordable Art Fair?
Proseguire in questo percorso di contaminazione tra arte e design, potenziando le attività territoriali, tra eventi e fiere di settore, e
ampliare i confini. Un’edizione Affordable Art
Fair internazionale? È tra le nostre ambizioni
più segrete.
Quali sono i passi per ritagliarsi un proprio
spazio nel mare magnum di e-commerce
in Italia? Su cosa ha puntato Debou?
Siamo una realtà ancora piccola, e sperare
di bucare il muro del rumore tra i grandi del
settore, sarebbe un’illusione. Non puntiamo sui volumi, ma sul valore, non seguiamo l’onda degli incentivi promozionali, ma
cerchiamo di costruire un’identità precisa, di
diffondere la cultura dell’alta manifattura, e
creare un nuovo modello di lifestyle, fatto di
qualità, ricerca, innovazione.
È un percorso lento e prudente, con un approccio “laterale”: siamo partiti dall’online
ma ci stiamo sviluppando anche sul territorio, in forme e modalità sempre nuove.
Dalle fiere d’arte e di design alle collaborazioni con realtà territoriali. Abbiamo da poco
inaugurato il nostro primo temporary corner
di arte&design all’interno di un concept sto-
17
debou
Via Galeazzo Alessi 2, Milano
Info: +39 335 6225610
[email protected]
www.debou.it
Dall’alto:
Ritratto di Caroline Stante
Vittorio Asteriti, Paesaggio, d-n3, tecnica mista su
tela, cm 30×30
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CROWDARTS: UNA PIATTAFORMA
DEDICATA ALLE ARTI PERFORMATIVE
Intervista a SERENA TELESCA (founder di Crowdarts) di Livia Savorelli
Tra gli obiettivi primari di Crowdarts c’è la
volontà di “costruire un network solido di
luoghi, persone e progetti, che abbiano voglia di scommettere su nuovi linguaggi performativi d’eccellenza e nuove modalità di
finanziamento”. Attraverso il racconto di una
delle fondatrici, Serena Telesca, conosciamo meglio il funzionamento di questa nuova startup che si muove nel mondo delle
arti performative…
La piattaforma a cui lei ha dato vita, insieme a Luigi Telesca, ha come centro di
interesse le arti performative e si basa sul
finanziamento partecipativo. Cos’è esat-
tamente Crowdarts, come nasce e quali
obiettivi si pone?
Crowdarts è la prima piattaforma di finanziamento partecipativo dedicato ai creativi
e ai professionisti che lavorano all’interno
dell’ampio panorama delle arti performative.
Crowdarts permette di raccogliere fondi e
finanziare non solo progetti ancora “in cantiere” ma anche progetti già realizzati (spettacoli, formati editoriali, progetti educativi,
film, video, festival, web e supporti tecnologici) con lo scopo di reinventare i codici
tradizionali di finanziamento e sviluppare
così nuovi spazi di sostenibilità artistica e di
divulgazione della cultura.
Cartolina manifesto Crowdarts
18
Crowdarts vuole costruire un network solido
di luoghi, persone e progetti, che abbiano
voglia di scommettere su nuovi linguaggi
performativi d’eccellenza e nuove modalità
di finanziamento.
Vi trovate nella fase di start-up del progetto, ci può spiegare in pratica come la
piattaforma opererà?
Oltre alla possibilità di facilitare la ricerca di
fondi per finanziare i propri progetti artistici attraverso una Campagna di Produzione,
Crowdarts ospita altre due sezioni dedicate
al Crowdshow e al Marketplace.
Il “Crowdshow” è la sezione dove un artista
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o uno spazio potranno attivare la comunità per ospitare un evento, finanziandone la
programmazione. Il pubblico e i sostenitori,
con il loro supporto, renderanno possibile
la pianificazione dell’evento, facendo una
donazione e prenotando così il proprio biglietto.
Gli aspetti positivi che ne conseguono sono
il supporto al proprio progetto, il test anticipato sull’interesse del pubblico e la promozione dell’evento stesso.
Il Marketplace invece è un’agorà virtuale
dove artisti, spazi, festivals, possono entrare in contatto per sviluppare partnership e
cercare sia nuove opportunità di distribuzione sia fare scouting di nuove produzioni da
programmare.
Parliamo di obiettivi a breve e lungo termine…
Sicuramente l’obiettivo a breve termine è di
proporre sulla nostra piattaforma campagne e progetti di qualità per permettere la
creazione di una community di appassionati
che comincino o continuino a seguire questo settore, sostenendone l’evoluzione.
Fra gli obiettivi di lungo termine c’è la volontà di creare un algoritmo di qualità che
attraverso il crowdfunding, sia capace di
ristabilire un dialogo fra “domanda” e “offerta” nel settore delle Arti performative e
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facilitarne la collaborazione in maniera più
orizzontale e trasparente, anche grazie al
coinvolgimento degli “art lovers” e della comunità.
Sabato 19 marzo Crowdarts sarà ufficialmente inaugurata e verrà presentata al
pubblico a Firenze, nello spazio di coworking Impact Hub la piattaforma, che già
ospita alcune campagne pronte ad essere
finanziate…. Può anticiparci qualcosa?
Il 19 marzo sarà il momento in cui Crowdarts
si presenterà al pubblico durante tutto un
pomeriggio. Un programma ricco di stimoli, progetti e sfide interessanti per il settore
delle Performing Arts.
A partire dalle ore 16 fino alle ore 22,
Crowdarts ospiterà un “laboratorio di esperienze” grazie anche all’intervento di operatori ed artisti di eccellenza che supportano
la nostra piattaforma.
Alle 18.30 infatti è previsto un incontro che
avrà come tematica “Nuovi modelli e processi sostenibili per le Imprese dello Spettacolo dal Vivo” a cui interverranno: Serena
Telesca, fondatrice e project manager di
Crowdarts, Alessandro Cacciato di Farm
Cultural Park Favara, Giulio Stumpo di Smart
It, Lorenza Soldani di Sociolab, Rodolfo Sacchettini dell’Associazione Teatrale Pistoiese,
Fernando Fanutti di Cultura e Impresa, Gior-
19
gia Turchetto – Fundraiser della Fondazione
Torino Musei, Marco Cavolcoli di E-production e . A moderare Massimo Bressan – presidente del Teatro Metastasio.
A concludere, ore 20.30, un estratto dello
spettacolo Friendly Feuer (una polifonia europea) del collettivo Isola Teatro, aperitivo e
Dj-set fino alle 22. Vi aspettiamo!
Presentazione ufficiale: sabato 19 marzo
2016, a partire dalle ore 16,00
Impact Hub
via Panciatichi 14, Edificio F, Firenze
Info: www.crowdarts.eu
[email protected]
Spettacolo “Tu me fais tourner la tête” di Mattatoio
Sospeso. Foto: Andrea Macchia
Gl a ssWal l , d i Fra ncesca Pa squa li, in a llestimento
FLUX-US
UN PERCORSO ARTISTICO
SPERIMENTALE E INTERATTIVO
S P A Z I O
A R T E
C U B O
27.01.2016 | 16.04.2016
B O LO G N A - P I A Z Z A V I E I R A D E M E L LO , 3
w w w. c u b o u n i p o l . i t | a r t e @ c u b o u n i p o l . i t
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D I M A RY B AU E R M E I ST E R
F R A N C E S C A PA S Q U A L I
FUSE*
a cura di Angela Memola
Pascual Jordan
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ARTE
IL LINGUAGGIO STRANIANTE
DI MAURIZIO MOCHETTI
MILANO | GALLERIA GIOVANNI BONELLI | 25 FEBBRAIO – 2 APRILE 2016
di KEVIN McMANUS
Maurizio Mochetti ha attraversato nella sua
totalità una delle epoche più problematiche
e intense dell’arte italiana. Non è solo una
questione anagrafica (per fortuna sono vivi
e attivi artisti ben più anziani di lui), ma di
tempismo: tra il suo debutto e la mostra qui
recensita, l’arte ha cambiato pelle più volte, e lo ha fatto in un contesto complicato
come quello della nostra epoca, in cui nulla
è stabile – questo almeno sembra il messaggio ricorrente – ma allo stesso tempo
nulla cambia fino in fondo.
La nostra è una temporalità liquida, o addirittura nebulosa, in cui le particelle del
passato si vedono a occhio nudo: le pratiche artistiche di cinquant’anni fa rimangono
a loro modo attuali come possibili ambiti di
ricerca, e al contempo ci sono stili, atteggiamenti, trovate che tornano a più riprese
di moda, quasi che la storia recente sia una
sorta di loop senza scampo.
Mi sembra che l’impatto della mostra di
Mochetti alla Galleria Giovanni Bonelli (realizzata in collaborazione con Nicola Furini),
dislocata in modo articolato, ma al tempo
stesso, almeno in parte, afferrabile con un
solo sguardo, agisca proprio su questa percezione del tempo storico recente.
C’è una coerenza di fondo che ci fa credere di trovarci in mezzo a un gruppo di opere
più o meno coeve; al tempo stesso questa
coerenza non funziona del tutto, ci porta a
cogliere una vicenda artistica senza raccontarcela esplicitamente. Il Cono del 1967, in
questo senso, racchiude emblematicamente il senso dell’intera mostra; il funzionamento è noto e tutto sommato semplice, con il
piccolo cono collegato da un filo di piombo
al centro di un cerchio sulla parete, e il nostro
cervello che, percependo questo insieme
destrutturato da un particolare punto di vista, lo struttura ricostruendo la prosecuzione
immaginaria delle pareti del cono.
Se la Gestalt ci consente di spiegare il “gioco”, il lavoro non si limita però ad esso, e
questo effetto percettivo ci arriva come un
pugno in faccia, con un senso della forma
Maurizio Mochetti, Perni con laser, 1988, 400 perni di diametro 2 cm e altezza 5 cm, bianchi in metallo
scultorea e della presenza fisica che apre il
discorso su questioni ben più ampie e profonde. Da qui in poi, non riusciamo più a “fidarci” dello spazio di Mochetti, e nemmeno
degli altri elementi con i quali costruisce le
sue forme.
Le riflessioni sull’oggetto-aeroplano, come
Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944, o
Camouflage Pinguini (1987), ad esempio, ci
attirano nella loro autoevidenza apparente,
per ingannarci con le loro soluzioni installative, lo specchio in un caso, che ci rende
vouyeur scornati e ironici obiettivi bellici, la
disposizione seriale nell’altro, che quasi si
prende gioco dei ritorni al colore semioticamente saturo degli anni ottanta, ridendo al
tempo stesso, forse con affetto, della rigidità degli schemi minimalisti di due decenni
prima.
Anche la luce oscilla tra la funzione di segno/segnale (la scelta del rosso è adeguata, in questo senso) e quella di simbolo
spirituale, senza prendere estremamente
sul serio nessuna delle due. È così nell’e-
21
nigmatico Elica infinita del 1991, ma soprattutto nella suggestiva Perni con laser, installazione a terra con proiezione di luce laser
mobile e 400 perni verticali: cimitero, città,
prato high-tech, o forse solo la proiezione
sul pavimento del senso attuale – distaccato ma al contempo desideroso di immersione – del termine “sublime”.
Maurizio Mochetti
progetto di Giovanni Bonelli e Nicola Furini
25 febbraio – 2 aprile 2016
Galleria Giovanni Bonelli
via Luigi Porro Lambertenghi 6, Milano
Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00
Ingresso libero
Info: +39 0287246945
[email protected]
www.galleriagiovannibonelli.it
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ARTE
THOMAS SCALCO: IL PROFUMO DELLA
QUIETE TRA GLI OSSIMORI DELLA VITA
MILANO | BANCA SISTEMA | 24 FEBBRAIO – 27 MAGGIO 2016
Intervista a THOMAS SCALCO di Antonio D’Amico
«Nella pittura di Thomas Scalco si legge un
peculiare equilibrio tra i due poli di questo
linguaggio: un’astrazione logico geometrica, e uno spunto di figurazione latente.
L’esito di questo legame porta ad acquisire
immaginari onirici e ambientazioni metafisiche in cui l’osservazione affina il grado più
forte della sua percezione sensibile. I punti di contatto tra le due sospese tendenze
riportano attenzione sul lato più inconscio
e sepolto dell’essenza della personalità
e dell’anima di cui l’artista diventa il primo
interprete ad esporsi in quest’analisi immaginifica».
Con questa motivazione, la giuria del premio Arteam Cup 2015 ha decretato Thomas
Scalco vincitore della categoria Under 30,
aggiudicandosi la mostra personale allestita presso la sede di Banca Sistema a Milano.
La mostra è un crescendo di fascino e misteri che si svelano in un silenzio assordante,
consentendo al visitatore di entrare in sintonia con la propria interiorità e di riscoprire
la chiave degli ossimori, racchiusi dietro le
immagini che Thomas esterna sulla tela. Il
percorso prende l’avvio da un segno lineare e rigido, disegnato su pane azimo, per
arrivare successivamente a scenari surreali
entro i quali sono sospese forme e strutture
che assomigliano a pensieri della mente in
costante evoluzione.
In occasione della pubblicazione del cata-
logo del premio, avevo incontrato Thomas
– in qualità di giurato – per rivolgergli qualche domanda sulla sua pittura e conoscere
meglio il suo mondo, costellato da ossimori,
specchio della sua personalità, in costante
mutamento e sempre alla ricerca di sé stesso.
Le tue opere sembrano orientate verso
una poetica surrealista, in cui vige la sospensione di forme geometriche entro
spazi a metà tra il reale e l’onirico. Si tratta
di opere la cui consistenza è affidata ad
una visionarietà latente. Che significato
ha per te collegare e trovare equilibrio fra
elementi con consistenze opposte?
Thomas Scalco, Monochrono, 2015, tecnica mista su tela, cm 70x70. Opera vincitrice Arteam Cup 2015 nella categoria Under 30
22
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Da sempre mi interessa un certo eclettismo
unito all’interesse per le contrapposizioni e
i rapporti tra gli opposti. Ho approfondito
questa oscillazione grazie alla lettura dei
saggi di Florenskij, specialmente Le porte
regali, in cui, analizzando l’arte ortodossa, il
filosofo affronta il limite tra veglia e sogno,
descrivendone tutta la complessità.
Florenskij parla di due tipologie di immagini
che si generano quando l’anima è al confine
tra i due stati. Le prime, in salita, sono legate alla quotidianità e ai sensi, le seconde,
in discesa, sono ancorate all’onirico ed evocative di realtà superiori. Rapportate all’arte, richiamano la distinzione tra figurazione
e astrazione. Il mio lavoro si situa a metà e
avvicinandomi a questo limes, le differenze
tra i due poli diminuiscono e si generano
numerosi punti di contatto. La mia speranza
è che questa contaminazione venga vissuta
come un invito a pensare in modo diverso la
realtà frammentata che percepiamo coi nostri sensi, in modo da evidenziarne le infinite
connessioni.
Hai dichiarato che nella tua formazione ti
sei dedicato ad esprimere l’ambito pubblico, inteso come “intimità esposta, in
relazione al lato comunicativo” dell’opera
d’arte. Nel tuo lavoro possiamo quindi tro-
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vare il tuo io?
È proprio così. La mia personalità e il mio io
influenzano notevolmente il mio lavoro, sia
nell’esecuzione sia nel contenuto. In ogni
opera si possono ritrovare i miei dubbi, le
mie certezze, il mio carattere e miei interessi. Le conclusioni a cui approdo nel mio lavoro mi spronano verso nuove riflessioni sul
chi sono io e sulla realtà che mi circonda. La
mia arte nutre la mia crescita personale e mi
consente di mettermi a nudo.
Guardando il tuo lavoro, si ha l’impressione che tu viva su un filo di sospensione tra
la figurazione e l’astrazione. Da quale dei
due linguaggi ti senti più attratto?
Li considero entrambi linguaggi intriganti. In
realtà, sono fortemente attratto dal confine
che li divide e dal sottile cortocircuito che si
genera dalla loro interazione. Evitando una
superficiale catalogazione, mi auguro di suscitare una riflessione nell’osservatore.
Nelle tue opere le forme geometriche costruiscono architetture in divenire, invece
in quella presentata al concorso c’è quasi
il desiderio di mostrare un gioco magico e
ritmico. Come nasce quest’opera?
Appartiene all’ultimo ciclo di lavori, in cui
la forma architettonica scompare, lascian-
23
do spazio a moduli semplici. Ero alla ricerca di qualcosa di più puro rispetto ai solidi
geometrici e alle architetture, per eliminare
possibili fraintendimenti, così ho ridotto la
forma al minimo per renderla più efficace
ed evocativa.
Spostando l’attenzione su una dimensione
più liminale, lo spazio tende a disfarsi in favore di un’atmosfera più avvolgente, onirica
e meno terrena. In questa direzione, c’è anche un richiamo alla Genesi, dove vengono
descritte le prime drastiche separazioni, la
contrapposizione tra luce e buio e tra cielo
e terra, in una visione ritmica.
Thomas Scalco. Ossimori
a cura di Antonio D’Amico
24 febbraio – 27 maggio 2016
Banca Sistema
Corso Monforte 20, Milano
Info: www.bancasistema.it
Veduta dell’allestimento
presso Banca Sistema, Sala Cerere
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ARTE
SCANDAGLIARE E FENDERE LO SPAZIO:
IL SUONO PER ALBERTO TADIELLO
BOLOGNA | MUSEO INTERNAZIONALE E BIBLIOTECA DELLA MUSICA | 27 GENNAIO – 10
APRILE 2016
Intervista ad ALBERTO TADIELLO di Ilenia Moschini
La particolare vocazione del suono all’impalpabilità, all’inappropriabilità e all’invisibilità ma anche, nello stesso tempo, la sua
capacità di scandagliare e fendere lo spazio e penetrare il corpo del fruitore. Così
Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1983) definisce il suono, elemento
cardine della sua ricerca poetica. Abbiamo
incontrato l’artista in occasione del suo intervento all’interno degli spazi del Museo
internazionale e biblioteca della musica di
Bologna dove, invitato dall’Istituzione Bologna Musei in occasione di Art City Bologna
2016, ha presentato il progetto Nenia, un’installazione audio composta da un megafono e da una sfera a led stroboscopica i quali
diffondono contemporaneamente la stessa
traccia sonora, accompagnata dalla fanzine
omonima…
Nenia è un’installazione incentrata sul
rapporto tra suono e visione. Da quali ele-
menti è composto questo lavoro? Che tipo
di alterazioni hai voluto generare nella
percezione e nell’esperienza dello spazio?
Nenia è un file audio, creato attraverso la rielaborazione digitale di una campionatura e
diffuso contemporaneamente da un megafono rovesciato verso terra e da una sfera a
led stroboscopica fissata al suo fianco. È un
cigolio soffocato, uno stridio sgozzato, una
nenia. Si mostra come una scatola nera con
un ventaglio di bolli colorati, sviliti, acquerellati che si muovono roteando in loop tra
ritratti e smorfie.
Libretto d’opera è la fanzine Nenia, che
apre con un testo di Daniela Zangrando
– curatrice della mostra – e si cadenza in
una successione di volti accesi ed eccesivi, “personaggi succulenti” esposti al “vizio
del suono”, che fanno il verso ai dipinti e agli
sguardi che spuntano alle pareti.
È un doveroso pensiero sonoro e un “sortilegio” per additare e animare i contenuti già
presenti nel museo.
Come ti sei posto nei confronti di un luogo così fortemente connotato e saturo di
immagini, colori e oggetti come il Museo
della musica di Bologna? In generale,
quanto è importante per te e per la riuscita delle tue opere lo spazio dove installi i
lavori e il momento dell’allestimento?
Il Museo della musica di Bologna è uno
spazio difficile, carico di un pesante impianto allestitivo e illuminotecnico.
La relazione che un lavoro instaura con lo
spazio è sempre molto importante. Simbiotica, reversibile, generativa.
Il momento dell’allestimento è un tempo
impreciso e solitario, di assoluta severità.
La sonorità è l’elemento cardine sul quale
si sviluppa la tua ricerca. Spesso hai utilizzato il suono per rivelare gli aspetti della
natura e della realtà celati alla vista come
la frequenza della marea a Venezia (RMN,
2005), la tensione di un impianto elettrico
(SHIFT, 2008), il trascorrere del tempo e
quindi il decadimento che porta alla degenerazione di un sistema (EPROM, 2008),
oppure il calore che si irradia (Taraxacum,
2012). Puoi spiegarci la scelta di questo
linguaggio?
Il suono ha una particolare vocazione all’impalpabilità, all’inappropriabilità, all’invisibilità. Nel caso di particolari frequenze può
fisicamente scolpire lo spazio e il corpo del
fruitore. È capace di una presenza esponenziale. Può trasfigurare, rivelare, tradurre. È
possibilità in potenza.
L’aspetto visivo delle tue opere è sempre
pulito e lineare, composto da forme essenziali e sobrie. I materiali invece sono
oggetti come casse acustiche, motorini
elettrici, trasformatori, cavi e scarti di metallo. Da dove deriva questa scelta stilistica? Qual è il processo di ideazione e realizzazione dell’opera?
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Casse acustiche, motorini elettrici, trasformatori, cavi e scarti di metallo… sono materiali che hanno abbracciato un’estetica e un
filone di ricerca parabolico, non esaurito né
decaduto, ma spinto verso nuovi interessi.
Gli ultimi lavori sono portatori di una distanza
e di un’evoluzione rispetto a quel linguaggio.
Di volta in volta la progettualità urge di piena libertà e disponibilità al futuro.
L’altra parte fondamentale della tua ricerca è il disegno…
Il disegno è un linguaggio basico, primitivo,
universale.
Entra nella lista della spesa, tanto quanto
negli appunti e negli studi sui quaderni. Mi
interessa come grafismo, come registrazione, come funzione.
È sempre asciutto, essenziale. Estremamente versatile.
Chi, o che cosa, ha influito maggiormente sul tuo percorso artistico o continua a
farlo?
Sono ossessionato dalla Natura.
Progetti in cantiere?
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Da quasi un anno ho preso uno spazio come
studio, un ex panificio ai piedi delle Dolomiti. E questo è propriamente un cantiere, in
continuo divenire ed assestamento.
Ora sto lavorando ad un progetto per l’Università di Fisica di Trento, per la realizzazione di un’opera che verrà installata nell’area
esterna. Si tratta di una rielaborazione di un
vecchio acceleratore di particelle atomiche.
Un intervento muscolare a livello scultoreo
e altrettanto complesso a livello logistico.
In autunno avrò una personale a Roma al
Palazzo delle Esposizioni, dove probabilmente presenterò un nuovo ciclo di lavori.
Su altri fronti sto lavorando al mio sito web,
che raccoglierà la ricerca svolta in questi
anni,… un lavoro ciclopico di riorganizzazione e di archivio.
Poi ci sono nuovi progetti, libri, idee, concorsi, viaggi…
Non ultimo punto in programma – e in sogno – la salita della via Soldà sulla parete
nord del Sassolungo.
Alberto Tadiello. Nenia
a cura di Daniela Zangrando
promosso da Istituzione Bologna Musei
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nell’ambito di Art City Bologna 2016
27 gennaio – 10 aprile 2016
Museo internazionale e biblioteca della
musica
Strada Maggiore 34, Bologna
Orari: da martedì a venerdì h 09.30 – 16.00
sabato, domenica e festivi h 10.00 – 18.30
Info: www.bolognagendacultura.it
www.comune.bologna.it/cultura/
www.museibologna.it/musica
In queste pagine:
Vedute dell’installazione Nenia di Andrea Tadiello al
Museo Internazionale della Musica. Courtesy: l’artista
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FOTOGRAFIA
OCCHIOMAGICO: QUARANT’ANNI DI
“VISIONI” FOTOGRAFICHE
MILANO | SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA | 18 FEBBRAIO – 31 MARZO 2016
di MATTEO GALBIATI
Ci sono mostre che, nella scelta antologica
della proposta, si perdono nelle variegate
sfumature e nelle numerose derivazioni che
la ricerca di un artista, nel tempo sa toccare o conquistare, perdendo spesso di vista
la coerenza evolutiva della storia artistica
di cui vuole raccontare la testimonianza.
Avviene, quindi, che le stesse opere scelte si disperdano in una narrazione confusa,
rapida o lenta, senza dare merito dei contenuti specifici che le caratterizzano come
linguaggio, come eventi, come poetiche.
La mostra di Occhiomagico, pseudonimo
dietro al quale, dal 1971 si firma Giancarlo
Maiocchi (1949), in corso nelle sale di Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea, centra
proprio, invece, l’obiettivo che una personale antologica dovrebbe avere: lo sguardo
raccoglie in modo esaustivo la testimonianza della sperimentazione fotografica che
l’artista va conducendo da oltre quarant’anni, rendendone efficacemente gli spunti, le
idee e i contenuti.
Col Fiato Sospeso – titolo particolarmente
significativo rispetto alla vertigine visiva che
genera l’insieme delle opere – riassume
l’essenza dello spirito che pervade l’espressione e l’esperienza visiva di Occhiomagico
che, proprio dagli anni Settanta, introduce il
suo singolare metodo espressivo: ogni intervento, ogni opera, nella coerente risoluzione della sua epoca, ci descrive un animo
vivace e frizzante, attento a cogliere aspetti
e sentori che dalla realtà sconfinano nella
dimensione onirica quasi a voler ricercare
la concretezza stessa dell’intuizione che
genera un’elaborata istantanea, spontanea
quanto precisamente controllata e definita,
di quello che la mente sviluppa e “vede” nel
territorio vasto del pensiero e dell’immaginazione.
L’artista ci ha accompagnati nella lettura
di queste opere che, passo dopo passo,
segnano i decenni, descrivendone e indicandone il gusto, il clima culturale, i sentori, le mode, le frenesie e le manie. Gli anni
Settanta, gli Ottanta, i Novanta, i Duemila…
come in un album si inseguono alle pareti
della galleria; gli ambienti si riempiono di lavori che, sfogliandosi quasi come le pagine
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di un volume illustrato, rendono conto dello spirito di epoche diverse senza perdere
il filo rosso della maestria poetica del loro
esecutore. Lui resta davvero il coerente interprete dei diversi periodi e delle diverse
serie di lavori che parlano di una vicenda
unica.
Occhiomagico diventa un menestrello lirico dell’immagine, un narratore addentro al
suo tempo e per questo frizzante aruspice
capace di vedere ben oltre le contingenze,
anticipando lo sguardo, prevedendo i tempi.
Come un rabdomante guida le sue immagini sentendo qualcosa, cogliendo un’idea
che ci resta sconosciuta e, inseguendo l’estro del suo genio, la restituisce nella freschezza della sua fotografia, capace di cogliere l’invisibile delle emozioni.
Il percorso della mostra si fa davvero emotivo, ci proietta nell’espressione eterogenea
e poliglotta di Occhiomagico che, sognatore, spezza la veridicità della fotografia e,
prima ancora di photoshop, sulla scorta degli esempi di alcuni grandi maestri del Novecento, che lui ben ha presenti, scardina il
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codice precostituito di questo linguaggio.
Fotografo? Forse non del tutto, o non completamente, dal momento che la tecnica
fotografia (conosciuta in modo alchemico,
quasi da antica bottega) in lui cede alla
pittura, al disegno, alla scultura, all’installazione. Diventa ciascuna di queste cose contemporaneamente.
La fotografia apre ad una lettura meta-linguistica la cui complessa verità sa trovare
in questi lavori il vertice di una massima
espressività. Unendo simbolismo, surrealismo, metafisica, pop e molto altro, Occhiomagico acquisisce lo strumento vero di quel
suo linguaggio “multimediale” che definisce
come “Nuova Fotografia”.
Il metodo compositivo, stratificante e contaminante, della sua fotografia, colma di
rimandi e allusioni, che non chiudono mai
una storia esaurendola in modo definitivo,
Occhiomagico, Bagnante, 1982, Domus Cover,
stampa Cibacrome ed.5+1 pda vintage, copia unica.
Courtesy: Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
Nella pagina a fianco:
Occhiomagico, Un pò di silenzio per piacere, 2006,
light box led, cm 120x60x4, ed.3.
Courtesy: Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
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spalanca all’orizzonte della visione nuove
rotte e nuovi altri racconti che, nel percorso antologico qui raccolto, lo sguardo riesce a cogliere in modo circolare: laddove
si incontra una fine si ha già il passo per un
nuovo inizio.
Occhiomagico. Col Fiato Sospeso
18 febbraio – 31 marzo 2016
Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
via Gorani 7, Milano
Orari: tutti i giorni 11.00-19.00, il sabato su
appuntamento
Info: +39 02 39831137
[email protected]
www.sabrinaraffaghello.com
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SPAZI
UN NUOVO SPAZIO PER P420.
L’INTERVISTA AI DIRETTORI
BOLOGNA | GALLERIA P420 | NUOVA SEDE
Intervista ad ALESSANDRO PASOTTI e FABRIZIO PADOVANI direttori di P420 di Milena Becci
Il 30 gennaio scorso, durante le giornate
dell’arte bolognesi, ha aperto le porte la
nuova sede della galleria P420, fondata nel
2010 da Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani. Il nuovo spazio, in via Azzo Gardino 9,
è stato condiviso da due mostre, curate da
Cecilia Canziani e Davide Ferri, con un solo
titolo, Teoria Ingenua degli Insiemi: un progetto espositivo di Paolo Icaro che avvia un
dialogo con le opere di Bettina Buck, Marie Lund e David Shutter. I direttori ci hanno
raccontato qualcosa di più, partendo dalla
genesi per arrivare al domani…
degli anni ’60 e ’70 a fondare una galleria
d’arte? Quali erano le aspettative e quali
sono state soddisfatte o deluse?
Tutto è iniziato con quella serietà tipica del
gioco, come potrebbe dire il nostro amato
Paolo Icaro: due ragazzi che dai mercatini
dei libri rari si avvicinano all’arte contemporanea con passione e curiosità, potendo
basarsi solo sull’esperienza fatta sulla propria pelle. È stata un’avventura che è diventata, giorno dopo giorno, una scelta di vita di
cui siamo orgogliosi nonostante i rischi che
comporta un’attività di questo tipo.
Vorrei iniziare dalle origini. Come è nata
la P420? Cosa ha spinto due ingegneri
appassionati delle avanguardie artistiche
Tornando al presente, dopo sei anni di attività, lo spostamento di sede rappresenta
di sicuro un accadimento importante nel-
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Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani
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la vita di una galleria. Cosa vi ha spinto a
farlo? Quali sono state le motivazioni che
vi hanno portato a scegliere questo luogo
e quanto è importante per voi il rapporto
spazio/opera d’arte?
Dopo sei anni abbiamo sentito che era arrivato il momento di ingrandirci e di avere uno
spazio espositivo che potesse diventare un
elemento di dialogo all’interno della mostra. Nelle stanze, quasi da boutique, della
galleria al primo piano di Piazza dei Martiri,
abbiamo mosso i primi passi mostrando i
lavori, senza però poter giocare con installazioni o sculture di grandi dimensioni. Oggi
questo spostamento rappresenta un regalo che abbiamo fatto a noi stessi e ai nostri
artisti che potranno relazionarsi con questa
nuova sede immaginando progetti e opere
prima “proibite”.
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mo e abbiamo sempre creduto.
Termino rivolgendomi al futuro. Cosa pensa manchi ancora nel vostro percorso e
verso cosa vi state proiettando?
La nuova sfida, appena cominciata con l’apertura del nuovo spazio ovviamente, ci stimola molto e speriamo di fare bene per la
scena artistica bolognese e non solo. L’impegno che dedichiamo alle fiere testimonia
la volontà di creare sempre più contatti supportando l’arte italiana all’estero.
Teoria Ingenua degli Insiemi
un progetto espositivo di Paolo Icaro
in dialogo con le opere di Bettina Buck,
Marie Lund, David Schutter
a cura di Cecilia Canziani e Davide Ferri
30 gennaio – 26 marzo 2016
La sede in via Azzo Gardino è stata inaugurata presentando al pubblico due mostre
che vivono una accanto all’altra, dialogano. C’è un legame tra questo tipo di scelta
curatoriale e l’apertura del nuovo spazio?
Assolutamente sì. Lo spirito curatoriale riflette totalmente la nostra volontà di instaurare nuove collaborazioni con giovani artisti
internazionali, non tradendo il nostro interesse, sempre vivo, per la ricerca degli anni
’60 e ‘70 e per gli artisti italiani a cui credia-
P420
Via Azzo Gardino, 9, angolo Largo Caduti
del lavoro, Bologna
Orari: da martedì a sabato 10.30-13.30 e
15-19.30
Altri giorni solo su appuntamento
Info: +39 051 4847957
[email protected] | www.p420.it
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Teoria ingenua degli insiemi, installation view.
Courtesy: P420, Bologna. Foto: Michele Sereni
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ARTE
CULTURA: LA GRANDE RISORSA
PER IL MEZZOGIORNO
LUOGHI VARI | GENNAIO – MAGGIO 2016
Intervista a GIUSEPPE DE MITA di Matteo Galbiati
Dopo i primi due appuntamenti ad Ercolano
e Benevento, proseguirà a Sorrento (in aprile) e a Napoli (in maggio) il ciclo di incontri Il
capitale culturale: sfida per un nuovo Mezzogiorno che vuole promuovere un intenso
e fitto dibattito tra le voci diverse di chi, nel
Sud, è attivamente impegnato nel settore
culturale, svolgendo un’importante azione
di promozione e rilancio di risorse inesauribili come quelle legate alla cultura e al
turismo.
Un capitale spesso inespresso, mal gestito, oppure sfruttato senza le opportuni reti
che ne aumenterebbero la valorizzazione, questi appuntamenti voglio creare un
movimento di idee e persone che diventi
propositivo proprio nel generare un coordinamento capace di rendere funzionale e
produttivo l’ingente patrimonio di cultura
che caratterizza il nostro Mezzogiorno. In
tempi di crisi, di difficoltà, di generale sfiducia rispetto le occupazioni tradizionali,
partire di nuovo dal territorio per il territorio
esaltandone i patrimoni presenti potrebbe
essere un’intuizione vincente.
La cultura potrebbe diventare, quindi, un
potente motore propulsivo di risveglio non
solo culturale, ma anche economico, sociale e istituzionale che rivitalizzerebbe intere
collettività.
Ideatore e promotore di questa serie di iniziative è l’onorevole Giuseppe De Mita che
abbiamo intervistato per avere un report sui
primi incontri e sui contenuti di questa iniziativa:
strutture, la nostra cassetta degli attrezzi
culturali sia esigua e sia fatta soprattutto di
strumenti per rompere e di pochissimi utili
per costruire. Quest’idea di dare vita ad appuntamenti di discussione nasce, perciò,
dalla considerazione che c’è la necessità di
elaborare, sulla scorta dei grandi filoni culturali del nostro Paese, un’attrezzatura culturale adeguata ai problemi del presente.
Come è nata l’idea di questo ciclo di appuntamenti e di discussioni?
L’idea di questo ciclo di incontri è nata da
una considerazione che non so quanto sia
scontata o elementare: sulla crisi o sulle
fratture, che stiamo vivendo dal punto di
vista sociale, economico, istituzionale e politico, sta emergendo un’opinione che inizia
ad essere diffusa, e cioè che siamo di fronte
ad una modifica strutturale dell’architettura
delle nostre comunità, una modifica che implica, come premessa, una risposta ed una
riflessione di tipo culturale. È curioso, e per
certi versi esplicativo della difficoltà a venir
fuori da una condizione immobile, verificare come, essendo crollate le vecchie infra-
Mezzogiorno e cultura un binomio davvero possibile – aldilà delle ricchissime
risorse culturali che innegabilmente contraddistinguono le regioni del Sud – è
concretamente realizzabile per il rilancio
di queste aree? Facendo conto con scarsi
investimenti, problematicità croniche, tagli, spending review…
Per intenderci: i termini del rapporto non dovrebbero essere Mezzogiorno e cultura. La
questione non è il rapporto tra la cultura ed
un luogo, quanto il rapporto tra la cultura e
l’agire, laddove la riflessione culturale sia il
retroterra in termini di motivazione di un’azione. La questione centrale è questa: recuperare la cultura come retroterra dell’agire.
Se è questo il rapporto, allora può avere una
sua rappresentazione anche in un luogo ed
in un luogo come il Mezzogiorno. Perché si
potrebbe dire che, in un ribaltamento totale
degli schemi abituali, il ragionamento non
dovrebbe essere più basato sulla logica del
divario, ma sulla logica delle opportunità.
Se il ribaltamento è così radicale, allora non
ci sarà una questione di tagli o di spending
review, perché avremo un ragionamento
che si colloca tutto dentro una prospettiva
totalmente nuova.
Avete già proposto due incontri a Ercolano
e a Benevento, quali sono i primi risultati e
le prime idee concrete emerse?
Siamo partiti da Ercolano un po’ simbolicamente. Quando si è svolta la nostra iniziativa, eravamo a pochi giorni dalla designazione della Città Capitale Italiana della
Cultura per il 2017 e c’era la candidatura di
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Ercolano che ha fatto seguito a quella di
qualche mese prima a Capitale Europea. Ci
siamo posti la domanda se questo insistere
sulla candidatura di Ercolano fosse dentro
uno scherma che vedesse la cultura come
un bene di consumo o se questa operazione non potesse essere declinata in termini
eversivi: vivere la cultura non come qualcosa da utilizzare, ma come qualcosa della
quale noi potessimo diventare strumento.
Poi c’è stato il confronto di Benevento come
il passante di una cucitura che legasse aree
geografiche diverse dentro uno stesso ragionamento per dare respiro ed omogeneità a questo percorso che in questa fase è
soprattutto di discussione. Il primo risultato
è stato quello di aver avviato la discussione
ed aver raccolto una serie di disponibilità a
ribaltare uno schema. È prematuro parlare
di idee già definite: c’è una gestazione in
corso e che è evidente che debba maturare.
Chi partecipa agli incontri, quali esperti si
confrontano e a che pubblico si rivolgono?
Non partecipano esperti, partecipano persone che si mettono in discussione, che
mettono in discussione la propria esperienza e che sono animate da questa voglia di
essere eversivi, dove l’eversione non è sul
crinale della rottura intesa nei termini noti,
quelli della rottamazione per intenderci, ma
è sul piano del recupero della prospettiva
storica e della costruzione di una sfida verso
il futuro che sappia recuperare la memoria.
Su che tipo di risorse culturali puntate?
Quali progetti pensate e auspicate?
Non immagino una risorsa culturale in termini materiali ma una risorsa culturale in
termini politici come attenzione alla comunità, alla città in senso etimologico. I progetti
ed il percorso, che ha certo necessità di una
sua dimensione concreta, possono essere
solo la naturale conseguenza di come questa gestazione vada a compimento. Dobbiamo avere la pazienza di lasciare che le cose
maturino in maniera naturale. Oggi c’è un’esigenza che ha la necessità di tradursi in un
pensiero condiviso sulle sue ragioni e sulle
prospettive. Solo allora potrà diventare progetto e quindi fatto. È chiaro come non sarebbe più un progetto così come l’abbiamo
conosciuto finora, ma rappresenterebbe più
che altro una prospettiva.
Quali sono, invece, le criticità? Quali sono
gli ostacoli e le difficoltà da superare e
vincere?
Le criticità sono rappresentate da noi, dalla rigidità involontaria a cambiare le nostre
abitudini. E la difficoltà più grande è coltivare la memoria, non come ricordo nostalgico,
ma come radicamento storico del futuro. La
difficoltà vera non sta nelle cose, ma abita
dentro di noi.
Come sta reagendo il territorio alle vostre
sollecitazioni?
C’è curiosità e c’è diffidenza. Perché dobbiamo essere tutti consapevoli del fatto che un
percorso come questo non è di certo agevole. Non ha una soluzione immediata, non
è un modello di gestione di un museo, ma è
il recupero della centralità della questione
antropologica. Abbiamo, però, questa ambizione: vogliamo parlare al mondo dell’arte
o ci proviamo come l’interlocuzione con un
mondo che è fatto di possibili avanguardie,
di un mondo a cui si vorrebbe dare uno spazio di libertà di espressione perché la libera
manifestazione di queste avanguardie possa profeticamente aiutarci ad individuare
una via d’uscita.
culturale che, ad oggi, resta inespresso,
sommerso o “maltrattato”?
Più che un sogno, il mio è un desiderio e
cioè che questo tentativo diventi un fatto
politico nell’accezione più ampia del termine, diventi un motore di cambiamento.
Possa, cioè, innescare una competizione o
anche conflitti tra punti di vista diversi, tra
diversi modi di interpretare questa questione affinché il fisiologico attrito generi una
novità. Mi augurerei che il patrimonio culturale inteso come pensiero possa generare
un fatto politico di rilievo.
Il capitale culturale: sfida per un nuovo
Mezzogiorno
ciclo di incontri da un’idea di Giuseppe De
Mita
gennaio – maggio 2016
Info: www.giuseppedemita.it
Vi state muovendo pensando alla regione
del Sannio, ma pensate si possa estendere
il vostro progetto anche ad altre realtà regionali? Non pensa sia importante creare
una rete virtuosa?
In questa fase è come se volessimo accendere dei fuochi per illuminare la notte. Non
c’è, perciò, un punto specifico del territorio
da cui partire.
Quali sono i prossimi appuntamenti?
Stiamo pensando ai prossimi appuntamenti.
Immagino un prossimo incontro in Penisola
Sorrentina e immagino ovviamente a Napoli
così come penso ad un confronto in Irpinia.
Credo che ci muoveremo dove ci sono le
condizioni per farlo.
Il capitale culturale: sfida per un nuovo
Mezzogiorno, intervento di Pierpaolo Forte
presidente della Fondazione Donnaregina per le arti
contemporanee, Museo del Sannio, Benevento
Il suo grande sogno rispetto al patrimonio
Nella pagina a fianco:
Giuseppe De Mita
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ARTE
L’ANTICO CHE SEDUCE…
AL MAR DI RAVENNA
RAVENNA | MUSEO D’ARTE DELLA CITTÀ DI RAVENNA | 21 FEBBRAIO – 26 GIUGNO 2016
di ELENA SABATTINI
Iniziamo dalla fine. Al termine della mostra,
sullo scalone che riporta ai piani inferiori, ci si ferma qualche secondo a riflettere
sull’antico e sul contemporaneo, su cosa sia
debitore dell’altro e se possa essere considerato debitore. Forse è una lotta in cui non
ci sono vincitori o vinti. Forse non si può decretare uno sconfitto tra la Nascita di Venere
di Botticelli di Andy Warhol e l’opera originale, se ancora così abbiamo intenzione di
chiamarla.
Al Museo d’Arte di Ravenna le oltre 120
opere esposte per la nuova mostra La seduzione dell’Antico attraversano tutta la
grande pittura del Novecento con il richiamo all’Antico come filo conduttore e con
la descrizione di anni intensi che vanno dal
1919 al 1930, fino tutta la seconda metà del
Novecento, dalle neoavanguardie alla stagione del “postmoderno”. La mostra, a cura
di Claudio Spadoni, sarà visitabile fino al 26
giugno 2016.
Gli insegnamenti dei maestri del passato e
la loro rielaborazione sono resi ancora più
espliciti da un aiuto visivo complice durante l’esposizione. Così a lato delle opere
moderne vengono esposte piccole riproduzioni dell’“originale”. Un aiuto doveroso e
da non sottovalutare se si considera Emilio
Vedova e la sua Natività che vuole fare i
conti con L’Adorazione dei pastori di Jacopo
Tintoretto.
Passano gli anni ma un nudo di donna, e in
particolare una Venere, ha ancora molto da
raccontare. Ecco allora che le Veneri non risorgono più dalle acque ma lottano con gli
stracci e danno le spalle al pubblico come
la famosa Venere degli stracci di Pistoletto
o sono aggrovigliate da corde come la Venus restaurée di Man Ray o diventano blu
per Yves Klein. Figure mitizzate del passato,
icone contemporanee, operazioni ironiche
o addirittura dissacratorie di un racconto
che fa parte del nostro modello visivo ma
che attraverso questo gioco rinascono con
più forza.
Questa in fondo è la storia che vuole esserci narrata attraverso le sette sezioni tematiche della mostra ravennate. Ma è nelle
ultime sale che questo gioco viene svelato
ed è alle volte iconico come la Venere con i
baffi di Duchamp, altre volte riflessivo come
Mimesi di Paolini e i suoi due figuri di gesso che si osservano interrogativi, e infine
rilevatore come nella video installazione Il
quintetto del ricordo di Bill Viola che seduce nella sua lentezza e nella sua profonda
analisi dell’umano. Il ricordo e la memoria
diventano il racconto negli occhi dei protagonisti del video.
Così l’antico ci rapisce e mai parola come
seduzione è stata più adatta per descrivere una esposizione in cui siamo tutti schiavi
della memoria, sedotti dal già visto.
La seduzione dell’antico.
Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto
a cura di Claudio Spadoni
Organizzazione: Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura, MAR , Ravenna
21 febbraio – 26 giugno 2016
Mar – Museo d’Arte della città di Ravenna
via di Roma 13, Ravenna
Orari: fino al 31 marzo
martedì – venerdì 9.00 – 18.00
sabato e domenica 9.00 – 19.00
dal 1° aprile:
martedì – giovedì 9-18
venerdì 9-21
sabato e domenica 9-19
aperture festive 9-19
Pasqua, Lunedì dell’Angelo, 25 aprile,
1° maggio, 2 giugno
Giorni di Chiusura: Lunedì
Info: + 39 0544 482477/482356
[email protected]
www.mar.ra.it
Giulio Paolini, Mimesi, 1975, calchi in gesso, cm
48×23.5×25.5 (calchi), cm 120×35×35 (basi), Torino,
Fondazione Giulio e Anna Paolini
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ARTE
GÈRARD FROMANGER. DALLA FIGURATION
NARRATIVE AL POSTMODERNO
PARIGI | CENTRE POMPIDOU | 17 FEBBRAIO – 16 MAGGIO 2016
di STEFANO BIANCHI
Nel 1964, a Parigi, viene tracciato il senso di
una “nuova figurazione” liberamente ispirata
a fumetti, cinema, fotografia, pubblicità. Il
critico d’arte Gérald Gassiot-Talabot e i pittori Hervé Télémaque e Bernard Rancillac
mettono in scena al Musée d’Art Moderne
de la Ville de Paris con altri 32 artisti (fra cui
i nostri Gianni Bertini, Leonardo Cremonini,
Antonio Recalcati e Michelangelo Pistoletto) la collettiva Mythologies Quotidiennes. A
imporsi è la Figuration Narrative, che mette
a nudo le contraddizioni della società contemporanea opponendosi all’egemonica
Pop Art americana, indifferente alle problematiche politiche e tutt’altro che critica verso il consumismo.
A questa Pop Art d’Europa da contrapporre
al Nouveau Réalisme, si aggiungono pittori
dal graffio sovversivo quali l’antifranchista
Eduardo Arroyo, l’islandese Erró e in particolare il transalpino Gérard Fromanger, classe
1939, quadri giovanili ispirati ad Alberto Giacometti, studi all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts parigina, protagonista di
un dipingere inteso come testimonianza
del “qui e ora” più bruciante – sulle orme
della Nouvelle Vague cinematografica di
Jean-Luc Godard e del pensiero filosofico
di Gilles Deleuze e Michel Foucault – e di
un’attitudine talentuosa nel registrare ogni
profonda mutazione sociale.
Una cinquantina di opere eseguite dal 1957
al 2015, perlopiù donate al Centre Pompidou, raccontano il rosso come colore chiave
dell’arte di Fromanger: non solo monocromo che riempie le “silhouettes” di uomini
e donne impegnati a passeggiare lungo il
Boulevard des Italiens sotto il manifesto del
film Le cercle rouge e davanti alle vetrine
dei negozi che espongono abiti in saldo, ma
simbolo indiscusso della contestazione studentesca del Maggio ’68. Tant’è che ad aprire e a chiudere la retrospettiva ci sono due
fra le tante Souffles – semisfere di plastica,
trasparenti, su piedistalli metallici, all’epoca
in gran parte distrutte dalla polizia – che l’artista posiziona nell’autunno sessantottino in
varie zone di Parigi come estemporanee
Hommage à Topino-Lebrun, 1975-1977, Centre Pompidou, Paris, © Gérard Fromanger 2016, © Collection Centre
Pompidou/Dist. RMN-GP. Foto: Philippe Migeat
visioni rosse, rivoluzionarie di quel mondo
che pochi mesi prima aveva imprigionato
dentro Le Rouge facendo sgocciolare il colore, come fosse sangue, su 10 bandiere.
Nella serie Annoncez la couleur (1973-‘74)
è invece la Pop Art a soggiogarlo: sottoforma di colori codificati che delineano volti e
corpi di un’umanità in perpetuo movimento
che divora la strada (e la vita) fra cartelloni pubblicitari e automobili in sosta, fino a
stopparsi all’improvviso davanti a un’edicola
per metabolizzare la politica sulle prime pagine di Libération e di France-Soir. È su questi oli su tela che l’arte di Gérard Fromanger
si tramuta in cronaca. E il pittore, diventato
fotorealista, nella serie Questions (1976-77)
dialoga paradossalmente coi massmedia
ritraendo cameramen e reporter armati di
macchine fotografiche e microfoni mentre
filmano e intervistano forme astratte contrarie alla logica dei mezzi d’informazione.
E infine, utilizzando ogni cromatismo possibile, nel 1991 e ‘92 Fromanger dà vita a De
toutes les couleurs, peinture d’Histoire, monumentale capolavoro in esposizione che
33
visualizza aerei da guerra, missili, carrarmati, piramidi egiziane, donne tribali, creature
animali… A trent’anni dalla Figuration Narrative e a venti da quei passanti dei grands
boulevards che sfioravano le vetrine, c’è la
società postmoderna in questi schizzi di colore che invadono i circuiti elettronici.
Gérard Fromanger
a cura di Michel Gauthier
catalogo Éditions du Centre Pompidou
con testi di Michel Gauthier e Olivier Zahm
17 febbraio – 16 maggio 2016
Centre Pompidou, Galerie du Musée, Niveau 4
Place Georges Pompidou, Parigi
Orari: tutti i giorni tranne il martedì, 11.0021.00, la biglietteria chiude alle 20.00
ingresso intero € 14, ridotto € 11
Info: 0033 1 44781233
www.centrepompidou.fr
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PREMI
NUOVE DINAMICHE DEL TERMOLI TRA
COSTRUZIONE, RICERCA E MEMORIA
TERMOLI (CB) | MACTE MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA TERMOLI | 21 FEBBRAIO – 30
APRILE 2016
di TOMMASO EVANGELISTA
Lo scorso 20 febbraio si è inaugurata presso il MACTE (Museo d’Arte Contemporanea
Termoli) la sessantesima edizione del Premio Termoli a cura di Anna Daneri. La giuria
composta dall’artista Stefano Arienti, dal critico Lorenzo Canova e dal curatore Simone
Menegoi ha selezionato l’opera di Riccardo
Baruzzi, Porta pittura dei riccioli (2015), quale vincitrice della rassegna e nuovo tassello
della collezione storica la quale da questa
edizione, con l’istituzione della sede museale, avrà una collocazione permanente
e permetterà uno sguardo sulle dinamiche
dell’arte italiana del secondo dopoguerra.
Il Termoli nasce, infatti, dalla volontà e ricerca dell’artista molisano Achille Pace, attualmente soprintendente del Premio, il quale
nel corso degli anni, grazie all’ausilio di storici e critici d’arte di spessore (nelle prime
edizioni ricordiamo Argan, Bucarelli, Calvesi,
Ponente), ha dato vita ad uno degli eventi
artistici più significativi del meridione e di
certo oggi tra i più longevi del panorama
nazionale. Proprio a Termoli, durante i periodi del Premio, Pace aveva fatto nascere tra
l’altro il celebre Gruppo Uno coinvolgendo
prima Frascà e Santoro e in seguito, a Roma,
Biggi, Carrino e Uncini. Quella spinta analiti-
Riccardo Baruzzi, Porta pittura dei riccioli, 2015. Opera vincitrice del 60. Premio Termoli
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ca e di ricerca, e il tentativo di superamento
dell’informale per rifondare il linguaggio visivo in termini sia razionali che lirici, fattori
che avevano caratterizzato i primi decenni
del premio e che si erano andati affievolendo dagli anni Novanta, ritrovano con questa
edizione nuova linfa e fanno ben sperare
per gli svolgimenti futuri. IN CANTIERE, il
titolo della rassegna, presenta i lavori di Riccardo Baruzzi, Gabriella Ciancimino (menzione speciale della giuria e ideatrice di un
workshop in città), Sara Enrico, Tony Fiorentino, Elena Mazzi, Santo Tolone, e lo fa
attraverso un dialogo coerente e di grande
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compostezza formale.
La curatrice, focalizzandosi sull’idea di
“cantiere”, ha creato una struttura espositiva compatta e dinamica allo stesso tempo,
nella quale si percepisce il senso di un luogo “in costruzione” e l’idea di un’arte che si
evolve in continua osmosi tra linguaggi dissimili. L’idea, come chiarisce Daneri, è stata
quella di «ripensare il Premio e collegare l’idea del cantiere alla costruzione del museo
permanente, ovvero unire il museo a un’idea
di mostra che esemplifichi una buona pratica curatoriale nei limiti di tempo, dato che
era mancata ricerca negli ultimi anni». La visione di una pratica della pittura “espansa”,
che si evolve attraverso soluzioni di carattere sia formale sia “temporale”, e che indaga
le stesse modalità della rappresentazione,
è il concetto di fondo della rassegna: «ho
preso come punto di partenza il dialogo tra
pittura e scultura, proprio di molte ricerche
odierne, riqualificando lo spazio con un’idea
di costruzione».
Si percepisce la solidità e validità della proposta espositiva capace di reggersi su sole
sei opere ma estremamente stratificate e di
complessa lettura, tanto da essere capaci di dialogare e narrare anche il territorio,
dal merletto ricco di contaminazioni lin-
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guistiche e segniche di Ciancimino, pratica
artigianale comune in Molise, alla pietra di
Apricena usata da Fiorentino, tipica della cattedrale di Termoli, evocativa di “zone
d’ombra”, all’idea stessa di cantiere di Mazzi,
capace di poetizzare il senso della fabbricazione. Sul confine tra analogico e digitale
corre l’opera di Enrico basata su una superfice cromatica scannerizzata mentre Tolone
evoca con rigore formale e spirito minimale gli elementi architettonici dismessi di un
arredo, per riflettere sulle forme. Baruzzi,
infine, con l’opera vincitrice, richiamandosi
alle ricerche informali degli anni Sessanta,
lavora con un segno libero, quasi gestuale,
e dinamico che serializza e mette in tensione attraverso un dispositivo di rappresentazione e narrazione. La coerenza dell’evento,
la riuscita formula curatoriale e la complessità percettiva delle opere presentate fanno
pertanto ben sperare per una rinascita del
Premio, che non deve comunque dimenticare la figura e la ricerca del maestro Pace,
ancor oggi oltremodo da riscoprire.
60. Premio Termoli. In Cantiere
a cura di: Anna Daneri, co-fondatrice e
curatrice di Peep-Hole, centro d’arte indipendente a Milano
I premiati con la curatrice Daneri e il presidente di giuria Arienti
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artisti: Riccardo Baruzzi, Gabriella Ciancimino, Sara Enrico, Antonio Fiorentino, Elena Mazzi, Santo Tolone
21 febbraio – 30 aprile 2016
MACTE
Museo d’Arte Contemporanea Termoli
Via Giappone, Termoli (CB)
Orari: da lunedì a domenica: 10.00 – 12.30
martedì e giovedì: anche il pomeriggio
dalle 16.00 alle 18.00. Ingresso libero
Info: www.premiotermoli.it
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FOTOGRAFIA
SETA E MACCHINE, QUESTO È
JAKOB TUGGENER AL MAST
BOLOGNA | FONDAZIONE MAST | 27 GENNAIO – 17 APRILE 2016
di ILENIA MOSCHINI
Jakob Tuggener, Senza titolo, Geigy, Basilea, 1953.
Courtesy Jakob Tuggener Foundation, Uster
La Fondazione MAST presenta, per la prima
volta in Italia, una mostra antologica dedicata al fotografo svizzero Jakob Tuggener
(1904 – 1988). Il progetto espositivo, promosso dalla Fondazione bolognese in collaborazione con la Fondazione Jakob Tuggener di Uster e la Fondazione Svizzera per
la fotografia di Winterthur, con la curatela
di Urs Stahel (direttore della PhotoGallery
del MAST) e di Martin Gasser, si compone di
due mostre che illustrano le tematiche principali con le quali Tuggener si è confrontato;
il lavoro in fabbrica e le notti di festa dell’alta
società.
“Seta e macchine, questo è Tuggener”, così il
fotografo definiva il suo lavoro collocandosi
tra i due estremi; egli amava intensamente
questi due mondi opposti e li considerava
degni dello stesso valore artistico. Grazie al
suo sguardo acuto e attento anche ai dettagli che solitamente passano inosservati,
Jakob Tuggener ha dato nuova espressività a entrambe queste realtà, in immagini
dinamiche e che risaltano con grande forza
sullo sfondo nero-argento della pellicola
fotografica.
Il primo nucleo dell’esposizione, Fabrik
1933-1953, presenta le stampe originali
dell’autore svizzero tratte dal suo libro FABRIK, un’opera unica nel genere dell’editoria
fotografica che documenta con approccio
critico e umano le implicazioni dell’industrializzazione e del progresso tecnico. La
sequenza delle immagini del libro è ricostruita lungo le pareti del percorso espositivo, dando vita a una narrazione di grande
impatto visivo che ritrae paesaggi industriali, gli sguardi dei lavoratori e i segni della
loro fatica, i fumi e i vapori di un ambiente
logorante come la fabbrica, gli armamenti
destinati alla Seconda guerra mondiale, ma
anche i particolari più nascosti, evocativi
e poetici di una giornata lavorativa o di un
momento di pausa, che emergono grazie
al sapiente uso del gioco di luci e di ombre
che caratterizza l’opera del fotoartista svizzero.
Al piano terra del MAST invece, le proiezioni Nuits de bal 1934-1950 mostrano le
fotografie scattate da Tuggener durante gli
eventi mondani del jet-set elvetico. Affascinato dall’atmosfera festosa e sensuale delle
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serate di gala, Tuggener ha saputo cogliere
con il suo obiettivo le sfumature cangianti
degli abiti da sera, i volti, i gesti e gli atteggiamenti seducenti degli uomini e delle
donne, ma anche le movenze dei camerieri,
dei baristi e dei musicisti durante il loro lavoro al servizio degli ospiti.
Infine, a testimoniare l’eclettismo e la versatilità di Jakob Tuggener, la rassegna è arricchita da una raccolta di menabò di libri
fotografici impaginati e rilegati dallo stesso
autore e da quattro brevi filmati muti girati
da Tuggener con il regista Max Wydler.
Jakob Tuggener
a cura di Martin Gasser e Urs Stahel
MAST
Via Speranza 40 – 42, Bologna
27 gennaio – 17 aprile 2016
Orari: dal martedì alla domenica dalle
10.00 alle 19.00
Info: www.mast.org
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ARTE
UNA MICROSTORIA DELLA POSTWAR ERA.
CON QUALCHE MA…
VENEZIA | COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM | 23 GENNAIO – 4 APRILE 2016
di SIMONE REBORA
Il progetto curato da Luca Massimo Barbero mette in luce le potenzialità pressoché inesauribili della collezione veneziana,
offrendo ai visitatori una “microstoria” della
Postwar Era.
Novanta opere diffuse lungo undici sale
espositive, artisti celebri e nomi meno noti
in un ritaglio d’anni che va dal secondo dopoguerra fino al 1979, con due “omaggi” a
Jack Tworkov e Claire Falkenstein. L’operazione riesce a convincere proprio per la
scelta di percorrere sentieri secondari, che
confermano infine quelle dinamiche svoltesi sulla grande scena dell’arte contemporanea, ma, allo stesso tempo, lascia alquanto
insoddisfatti di fronte ad apparenti trascuratezze e disomogeneità. Le si potrebbe
giustificare con l’intenzione di lasciare un
ampio margine di libertà al visitatore, che
può percorrere ad estro le già allentate maglie della cronologia, ma il risultato finale è
quanto mai altalenante.
Si parte in grande stile dal secondo dopoguerra americano, e agli immancabili grandi
nomi (Willem de Kooning, William Baziotes,
Robert Motherwell e Richard Pousette-Dart)
si affianca un approfondimento che non è
solo su un autore meno noto (Jack Tworkov),
ma su una specifica, brevissima fase della
sua produzione, entro la quale si può cogliere in tutta la sua rilevanza il graduale passaggio da un figurativo di matrice cubo-espressionista ai primi margini dell’astrazione.
Nelle sale successive, si possono rilevare le
tracce dell’influsso di queste opere in Europa, e soprattutto in Italia e in Inghilterra.
Di particolare interesse è l’approfondimento dedicato a Carlo Ciussi, che ancora una
volta seleziona una ristretta fase creativa
(le variazioni geometrico-emotive datate
1965), dando intensità e coerenza estetica
alla sala. Ma la sezione più felice è senza
dubbio l’ultima, dove le espansioni reticolari, le fluttuazioni cosmiche e, inevitabilmente, i cancelli veneziani di Claire Falkenstein
si offrono tanto all’indagine quanto alla contemplazione.
Questa doppia anima della mostra ne rivela
però anche i difetti più sostanziali. Pare soprattutto che il progetto sia stato sviluppato
in maniera quasi frettolosa, celando dietro
l’innegabile buon gusto delle scelte allestitive una certa carenza d’impegno scientifico. Alle scarse didascalie generali, si
accompagnano rapsodicamente quelle accostate alle singole opere, che però paiono
piuttosto un riciclo di materiali già in archivio (senza alcun riferimento al discorso d’insieme, e con i costanti richiami ai rapporti
degli artisti con Peggy Guggenheim). Lo
stesso alternarsi delle sale monografiche
(che pure risulta la parte più riuscita della
mostra) pare piuttosto guidato da motivi
“d’occasione”, e non sempre riesce a giustificarsi nell’ambito del percorso. Tantomeno
quando (come nel caso di Mirko Basaldella)
l’approccio monografico non è neppure dichiarato. Considerate insomma le ambizioni
storiografiche del progetto, la peculiare impostazione scelta da Luca Massimo Barbero (che non avrebbe affatto guastato in un
percorso di natura più concettuale) resta
quantomeno discutibile.
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Postwar Era. Una storia recente. Omaggi a
Jack Tworkov e Claire Falkenstein
a cura di Luca Massimo Barbero
Collezione Peggy Guggenheim
Dorsoduro 701, Venezia
23 gennaio – 4 aprile 2016
Orari: 10.00 – 18.00
chiuso il martedì
Info: +39 041 2405440/419
[email protected]
www.guggenheim-venice.it
Veduta della mostra Postwar Era: una storia recente.
Omaggi a Jack Tworkov e Claire Falkenstein, 23.01 –
04.04. 2016 Peggy Guggenheim Collection, a cura di
Luca Massimo Barbero. Foto: Matteo De Fina
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FOTOGRAFIA
IL PARADISO PERDUTO DI RYAN MCGINLEY
BERGAMO | GAMEC | 18 FEBBRAIO – 15 MAGGIO 2016
di CARLOTTA PETRACCI
Iconizzato come il fotografo dell’adolescenza è uno dei protagonisti indiscussi della
nuova fotografia americana. A venticinque
anni il Whitney Museum gli dedica una mostra assolutamente fuori dal comune. Occhi
neri, nasi sanguinanti, ragazzi tatuati, corpi
nudi, capelli bagnati. È questo l’immaginario di un ragazzo nato e cresciuto nel New
Jersey alla scoperta di New York, tra la fine
degli anni Novanta e i primi Duemila. Un curioso errare nel downtown tra utopia e giovinezza e una registrazione appassionata di
una generazione edonista e spensierata.
Pochi anni più tardi questo intenso desiderio di raccontare il proprio mondo si traduce
nell’incontenibile bisogno di esplorare l’America e il suo paesaggio. Cominciano così
innumerevoli viaggi, attraverso i confini e le
stagioni, alla scoperta del naturale perduto
e di uno sguardo squisitamente romantico.
È questo il percorso che propone The Four
Seasons, la prima personale italiana di Ryan
McGinley, alla GAMeC di Bergamo. Una lettura che segue, come in un componimento
melodico, il fluire del tempo attraversando
in cinque sale l’emozione di una fotografia
che da antropologica diventa sempre più
pittorica.
“Sono cresciuto con Easy Rider, American
Pictures e Terrence Malick” e “ho sempre
amato i pittori romantici come Caspar David Friedrich”. Bastano poche battute per inquadrare il percorso che Ryan McGinley ha
intrapreso alla ricerca del suo paradiso perduto, attraverso i paesaggi e l’immaginario
americano e una sensibilità dichiaratamente europea. Da un lato riecheggia lo spirito
della Beat Generation, dall’altro ci troviamo
di fronte a delle fotografie che parlano un
linguaggio fatto di palette, composizione e
Natura. Sottotraccia è sempre l’innocenza a
guidarci, quella che in un primo McGinley
coglievamo negli eccessi della gioventù e
che ora diventa più spirituale. Da Russeau
a Thoureau fino a Vivaldi, in The Four Seasons, il “mito del buon selvaggio” rinasce
nella musicalità visiva di un racconto, in
cui si alternano cave glaciali, fuochi d’artificio nella notte, primavere in fiore e tinte
giallo-rosse. Stiamo parlando di dieci anni di
viaggi in camper in compagnia di modelli,
coreografi e assistenti alla ricerca della wilderness e del silenzio: di quella traccia primordiale disseminata nella neve come un
corpo nudo.
“Ricorda, è romantico come l’inferno, ciò
che facciamo”. La storia della New Photography è disseminata di bella fotografia e di
paesaggi estivi dalla forte intensità emotiva. Un’estetica molto presente in McGinley,
alla quale però lui alterna un’energia, una
volumetria e una sensibilità nel cogliere il
momento decisivo di una schiena insanguinata, che lo allontanano da questa visione
confortevole della fotografia e della Natura.
Lo stesso si può dire per il colore, saturo e
compatto, e per il dinamismo che percorre
le sue opere, che suggerisce sempre un
percorso di liberazione.
“Unisciti al circo e scappa lontano da casa”.
Una fuga, che si rivela attraverso quarantuno fotografie di medio e grande formato,
disposte in una progressione che va dalla
monumentalità delle stalattiti invernali, alla
delicatezza dei toni primaverili, all’esplosione violenta del gioco e dei colori estivi fino
alla nostalgia e alla pace dell’autunno, che
trae ispirazione dal lavoro di Frederic Edwin
Church e del gruppo della Hudson River
School. Tra mimetismo e scontro dialettico
tra Uomo e Natura ad emergere è un bisogno di riappropriazione del mito dell’Eden e
una sorta di viaggio fantastico e avventuroso che si sovrappone all’esperienza reale:
tumultuosa come un salto nel vuoto, lieve
come un ballo in un bosco.
Ryan McGinley, The Four Seasons
a cura di Stefano Raimondi
18 febbraio – 15 maggio 2016
GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo
Via San Tomaso 53, Bergamo
Info: www.gamec.it
Ryan McGinley, Crimson & Clover, 2015.
Courtesy: GAMeC, Bergamo
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ARTE
AGOSTINO ARRIVABENE, L’OLTRE-MODERNO
PER LA PRIMA VOLTA A NEW YORK
NEW YORK | CARA GALLERY | 2 MARZO – 16 APRILE 2016
di GIUSEPPE ALLETTO
Agostino Arrivabene porta per la prima volta
negli Stati Uniti la sua alta riflessione su temi
quali morte, rinascita e metamorfosi. La sua
arte, in mostra alla Cara Gallery di New York,
affronta quel nodo fondamentale che appartiene tanto alla filosofia quanto alla religione,
così come all’alchimia e alla pratica pittorica
stessa. Il suo corpus di opere costituisce una
sorta di wunderkammer colma di oggetti dalla preziosità estenuata e costellata da finestre
magiche che ci permettono di spiare eventi
miracolosi fuori da ogni tempo, oltre il Tempo.
Ierogamia come unione degli opposti, come
sintesi totalizzante di vita e morte, di luce e
tenebra, di maschile e femminile. Arrivabene
supera il rovello dell’arte contemporanea, che
è l’indagine sul Concetto, per giungere direttamente all’Archetipo. L’archetipo come modello di comprensione di atavismi altrimenti
indecifrabili e come chiave di volta per svelare il senso delle nostre pulsioni più oscure
e indicibili.
In questo Arrivabene non è “antimoderno” ma
piuttosto Oltre-moderno.
L’incontro erotico letto come sintesi sublime
di opposti diventa nella tela Sacrum Facere il
punto di arrivo di un percorso, quello dell’artista italiano, votato da sempre a sondare i
misteri del nascere e del disfarsi di ogni cosa.
All’acme di questa tensione conoscitiva non
può che seguire una tregua che opera nello
spazio archetipico del mito e che viene trasfigurata nel simbolo dell’ermafrodito.
A differenza di quanto è stato scritto con insistenza in diversi magazines l’arte di Arrivabene, più che raccogliere suggestioni della
pittura americana dell’800, si presenta come
profondamente italiana. Non tanto per l’intervento dell’artista sulle iconografie della tradizione o per il complesso trattamento a cui
sottopone la materia pittorica quanto per il
fatto che, come nella grande pittura antica del
nostro Paese, l’oggetto della ricerca dell’artista nativo di Rivolta d’Adda è la dimensione
spazio-temporale. In lui la ricerca sullo Spazio
diventa ricerca “nello” spazio, funzionale alla
creazione un cronotipo idillico alla Bachtin
che, in senso pittorico, aspira a distruggere
ogni legame consueto, sia visivo che poetico,
creando metafore inattese tali da dissolvere i
confini del tempo. Lo spazio, più che essere
rappresentato, viene evocato sulla tela che
diventa così una “tabula rasa” dove a fondersi
sono culla e tomba, infanzia e vecchiaia, eternità e futuro.
La ricerca nello spazio, condotta dall’artista,
può essere letta come indagine sul Tempo,
nel tentativo di trascrivere in forma simbolica
l’indagine sulla Storia, tanto quella psicoanalitica del singolo quanto quella antropologica del gruppo. In Arrivabene l’itinerario dello
sguardo diventa itinerario della storia e si può
ben dire che, a una “spazializzazione dell’immagine”, si aggiunge una “temporalizzazione”
della stessa.
Dalla Nigredo, che è confronto con l’Ombra
junghiana, all’Albedo, che è raggiungimento
della luce dopo il percorso attraverso l’oscurita del “ventre del drago”, il percorso espositivo/iniziatico proposto dall’artista si gioca tra
i due poli estremi segnati da opere quali EAExit e Cauda Pavonis. L’oscurità di cui si veste
la dea greca protagonista del primo dipinto
viene superata da un apparizione multicolore
che anticipa benigne teofanìe.
In Sacrum Facere è lo slancio verso il principio
ordinatore della luce a fare la sua comparsa
e a essere sintetizzato nell’amplesso mistico
tra maschile e femminile, tra bianco e nero, tra
unità e dispersione. L’opera chiude una fase
di contemplazione da parte di Arrivabene del
mistero della resurrezione pagana configurandosi essa stessa, nel suo farsi, come riduzione microcosmica del ciclo vita-morte-rinascita: l’artista infatti, non contento in un primo
momento del risultato raggiunto, ha gettato
nel fuoco la tela, per poi trovare, improvvisa,
l’ispirazione nel ribollire della pellicola pittorica devastata dalle fiamme. Arrivabene ha così
ripreso in mano il supporto e, l’opera, come
una fenice, è stata pronta a risorgere e ad
accogliere la rivelazione dello ερὸςἱ μ
γά ,ος il “matrimonio sacro” tra “sponsa” e “sponsus” alchemici,
pronti a presenziare alla genesi ierogamica.
Agostino Arrivabene. Hierogamy
2 marzo – 16 aprile 2016
Cara Gallery (508 W 24th Street – New York,
NY 10011)
Orari: lunedì – venerdì dalle 10.00 alle 18.00
Info: +1 (212) 242-0444
[email protected]
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Agostino Arrivabene, Hierogamy, veduta dell’allestimento alla Cara Gallery di New York
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