Un capolavoro del Giapponismo europeo A Masterpiece of European Japonism Claude Monet dipinse questo Effetto di vento nel 1891. Tra la primavera e l’autunno di quell’anno concepì e realizzò ventidue tele analoghe, che insieme costituiscono la “serie dei pioppi”. Ventidue capolavori, un’orchestra di colori e luci per cogliere, penetrare e sublimare la segreta geometria di un filare di alberi sulle rive del fiume Epte, nei pressi di Giverny, luogo dal maestro prediletto. Questo dipinto, come gli altri della serie, è una delle innumerevoli espressioni del Giapponismo di Monet, che fu – per sua stessa ammissione – “emulo di Hokusai”. In quest’opera Monet sembra dialogare con certe invenzioni di Hokusai e Hiroshige, artisti campioni del paesaggio giapponese; a loro si ispirò per costruire visioni di natura di grande suggestione, combinando tagli inusuali con quella vibrazione atmosferica per cui rimane impareggiabile. Monet raccoglieva e studiava le immagini del cosiddetto “mondo fluttuante”. Proprio a Giverny, in quella che fu la sua casa ed è oggi un museo, mise insieme una vasta collezione di grafica giapponese, con opere di molti dei protagonisti di quell’entusiasmante genere artistico. Questo capolavoro di Monet, così legato alle gloriose vicende del Giapponismo parigino, può riassumere la storia della passione per l’arte giapponese sperimentata dai maggiori artisti dell’epoca, nata alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento, ben presto diffusasi in tutta Europa e capace di contagiare precocemente anche gli artisti italiani. This Wind Effect belongs to the “Poplars” series of canvases painted by Claude Monet between the spring and the autumn of 1891: twenty-two masterpieces, an orchestra of light and colour penetrating, capturing and sublimely expressing the secret geometry of a row of trees on the banks of the River Epte near the master’s beloved Giverny. Like the other paintings in the series, it is one of the countless expressions of Monet’s Japonism. An avowed admirer of Hokusai, he can be seen as establishing dialogue with certain inventions of the greatest practitioners of Japanese landscape in this work, drawing inspiration from Hokusai and Hiroshige to construct immensely evocative visions of nature, combining unusual viewpoints with his matchless ability to capture atmospheric vibration. Monet bought and studied the Japanese prints known as “pictures of the floating world”, and the vast collection he built up in his house at Giverny, which is today a museum, include works by many of the leading practitioners of that exciting artistic genre. This masterpiece of Monet, so closely linked to the glorious history of Parisian Japonisme, encapsulates the passion for Japanese art felt by the greatest painters of the time. Born in the late 1850s, it soon spread all over Europe and was taken up by Italian artists very early in the process. Utagawa Hiroshige, Le sessantanove stazioni di posta del Kisokaido: la quindicesima stazione, 1830 circa, xilografia policroma. Giverny, Musée Claude Monet Italiani ‘giapponisti’ a Parigi Italian “Japonistes” in Paris Negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento i più celebri artisti italiani trasferitisi a Parigi – Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini e Federico Zandomeneghi – hanno costituito un importante canale di diffusione del nuovo gusto giapponista. De Nittis, in particolare, prese parte con estrema precocità agli sviluppi del Giapponismo europeo, intrecciando relazioni con i protagonisti della prima grande ondata di passione per l’arte e la cultura giapponese: le sue opere, strapiene di riferimenti diretti o mediati alle arti dell’Estremo Oriente, e la sua collezione, visibile nella residenza parigina, colpirono gli artisti e i critici italiani invitati alle celebri serate del pittore barlettano. Nel frattempo collezionisti come Frederick Stibbert e Giuseppe Primoli facevano la spola tra la Francia, Firenze e Roma, per approntare, il primo, la vasta raccolta di opere giapponesi allestita nella villa di Montughi (l’attuale Museo Stibbert), il secondo, l’originale antologia di kakemono intesa come una sorta di diario intellettuale. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento giunsero a Parigi alcuni artisti toscani capaci di rilanciare, con le loro opere, la voga del Giapponismo: due artisti livornesi, Alfredo Müller e Leonetto Cappiello, saranno in grado di rinnovare le impostazioni della grafica e dei manifesti pubblicitari ispirandosi a soluzioni presenti nelle stampe giapponesi; il pittore fiorentino Alberto Magnelli saprà invece riproporre, nel 1914, il classico tema della fanciulla in kimono alla luce delle rivoluzionarie novità formali delle avanguardie. The most celebrated Italian artists resident in Paris, including Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini and Federico Zandomeneghi, constituted an important channel for dissemination of the new taste for all things Japanese during the 1860s and 1870s. De Nittis in particular became involved in the development of European Japonism very early and established close relations with the leading figures of the first great wave of passion for Japanese art and culture. The Italian artists and critics invited to the celebrated soirées in the Parisian home of the painter from Barletta were struck by his works, rife with direct and indirect references to the arts of the Far East, and by his collection on show there. In the meantime, collectors like Frederick Stibbert and Giuseppe Primoli travelled back and forth between France, Florence and Rome, the former intent on setting up an immense collection of Japanese works in his villa at Montughi (now the Stibbert Museum), the latter building up an original collection of kakemono hanging scrolls like a sort of intellectual diary. A number of Tuscan artists capable of fuelling the fashion for Japonism with their works arrived in Paris at the turn of the century. While Alfredo Müller and Leonetto Cappiello from Livorno drew on Japanese prints in a new approach to the graphic arts and advertising, the Florentine painter Alberto Magnelli reworked the classic theme of the maiden in a kimono in the light of the revolutionary innovation of the avantgarde in 1914. Leonetto Cappiello, Fleurs de Neiges. Biscuits Pernot, 1905. New York, Poster Auctions International, Inc @@dida ingl@@ Il Giappone sulla pelle: il kimono Japan on the skin: the kimono Il kimono è stato uno dei manufatti giapponesi che più ha influenzato il gusto della società europea e statunitense nella seconda metà dell’Ottocento. Allora era considerato come elemento di distinzione, immancabile accessorio per chi si facesse coinvolgere dalla moda delle japonaiseries. Inoltre, rispetto ad altri generi di manufatti, il kimono aveva allora una maggiore capacità di suggestionare i tanti devoti del Giappone, poiché chi l’acquistava finiva per indossarlo, entrando quindi ‘nei panni’ di quelle popolazioni tanto ammirate per le loro arti e la loro cultura. Moltissimi, tra gli artisti occidentali, non solo possedettero e indossarono kimono, ma li inserirono nelle loro opere, come segno di adesione al Giapponismo. Dai dipinti raffiguranti figure femminili, spesso traspare una fortissima, a volte esplicita carica erotica. L’abito esotico costituisce perciò il pretesto per ambientazioni sensuali, nelle quali le dame in déshabillé giapponesi solleticano la fantasia degli uomini, primi i pittori stessi. The kimono is one of the Japanese articles that most influenced the taste of European and American society in the second half of the 19th century, when it was considered an element of distinction, an absolute must for all those bitten by the bug of Japonism. Moreover, the kimono cast a stronger spell over the many worshippers of Japan than other japonaiseries because the purchaser ended up wearing it and hence identifying to some extent with a nation so greatly admired for its arts and culture. Many Western artists not only owned and wore kimono but also displayed their Japonism by including them in their works. The paintings of female figures are often markedly and sometimes explicitly erotic in character. The exotic garment thus offered a pretext for sensual settings with ladies in Japanese déshabillé as titillating subjects for male viewers and first of all for the painters themselves. Il Giapponismo in Toscana Japonism in Tuscany La Toscana è una delle regioni d’Italia dove più precocemente e più in profondità si è diffuso il gusto giapponista. Già le opere di Telemaco Signorini degli anni sessanta dell’Ottocento, quelle di Vito D’Ancona, tornato a Firenze nel 1874 dopo un lungo soggiorno parigino e londinese, e gli spunti in alcuni dipinti di Giovanni Fattori, a Parigi nel 1875, rappresentano emblematicamente il momento in cui anche la cultura figurativa toscana comincia ad accogliere queste nuove suggestioni dall’arte dell’Estremo Oriente. Suggestioni che si possono apprezzare non solo nelle opere degli artisti più innovativi, ma anche in quelle di certi ‘pittori alla moda’, che cominciano a riempirsi di paraventi, kimono, ceramiche, ventagli e ombrellini giapponesi. Dagli anni ottanta dell’Ottocento la voga del Giapponismo incontrerà una particolare fortuna a Livorno: vari artisti labronici (da Ulvi Liegi a Plinio Nomellini, da Renato Natali a Gastone Razzaguta) sapranno riflettere in profondità sulle originali soluzioni formali presenti nelle stampe del “mondo fluttuante”. La vitalità del Giapponismo in terra toscana, negli anni Venti e Trenta del Novecento, può essere testimoniata anche da varie opere di Oscar Ghiglia e Llewelyn Lloyd, due artisti livornesi trapiantati a Firenze. Tuscany is one of the regions in Italy where Japonism spread earliest and most deeply. The works of Telemaco Signorini in the 1860s, those of Vito D’Ancona, who returned to Florence in 1874 after a long stay in Paris and London, and elements in some paintings by Giovanni Fattori, who was in Paris in 1875, emblematically represent the moment when the figurative culture of Tuscany also began to feel the influence of the art of the Far East. This can be seen in the works not only of the most innovative artists but also of certain fashionable painters, which begin to fill up with Japanese screens, kimono, porcelain, fans and parasols. The vogue for Japan enjoyed particular popularity as from the 1880s in Livorno, where Ulvi Liegi, Plinio Nomellini, Renato Natali Gastone Razzaguta and other local artists developed the original formal solutions found in the “floating world” prints. Evidence of the continuing vitality of Japonism in Tuscany during the 1920s and 1930s is also provided by various works of Oscar Ghiglia and Llewelyn Lloyd, two artists from Livorno settled in Florence. Pavimento a mosaico della Terrazza giapponese di Villa Rodocanacchi, 1886 Un soffio di Giappone: il ventaglio A breath of Japan: the fan La quantità di ventagli giunti in Europa dal Giappone nella seconda metà del XIX secolo fu notevole, nell’ordine dei milioni di pezzi. Solo così si poteva soddisfare la smania diffusissima di possederne almeno uno, per ostentarlo durante una passeggiata, oppure per sistemarlo su una parete, magari in una composizione con più esemplari. L’introduzione in pittura di questo vezzo esotico fu recepita subito dagli artisti italiani, che lo associavano a un’idea di seduzione tutta femminile. Le dame più alla moda, ma anche quelle un po’ meno aggiornate, se ne servivano per velare gli ammiccamenti e per svelare provocanti décolletés. Venne in auge anche in Europa un linguaggio del ventaglio, che tuttavia nulla aveva a che fare con la gestualità simbolica legata a questo oggetto come si era sviluppata in Giappone nei secoli passati. Inoltre, il formato del ventaglio suggestionò moltissimo gli artisti che lo usarono frequentemente per le loro innovative opere di gusto giapponista, sperimentando soluzioni compositive e coloristiche del tutto inedite. Millions of fans arrived in Europe from Japan during the second half of the 19th century to meet the widespread demand of customers longing to possess at least one to show off while out walking or display on a wall, preferably in an arrangement with others. The introduction of this exotic accessory into painting was taken up immediately by Italian artists, who associated it with a wholly female form of seduction. The most fashionable ladies, but also those slightly less up-to-date, used fans to offer tantalizing glimpses of provocative plunging necklines and enticing glances. Europe too developed a language of the fan, a mode that had, however, nothing to do with the symbolism built up around the object for centuries in Japan. The shape of the fan also made a great impression on artists, who frequently used it for innovative Japonistic works in unprecedented experiments with colour and composition. Frederick Stibbert Frederick Stibbert Grande collezionista e generoso mecenate, l’anglo-fiorentino Frederick Stibbert – nato a Firenze nel 1838 da Thomas Stibbert, colonnello in congedo, e Giulia Cafaggi – perseguì con costanza e dedizione il progetto di realizzare un museo da lasciare alla collettività nella sua villa di Montughi sulle colline di Firenze. Dotato di ampi mezzi, grazie alla fortuna accumulata dal nonno paterno Giles, generale in capo per la Compagnia delle Indie Orientali in Bengala, Frederick condusse una vita agiata come si conveniva ad un giovane facoltoso, dall’educazione cosmopolita e con la passione per i viaggi. La collezione Stibbert, caratterizzata da un allestimento fortemente evocativo, vuole coronare il sogno romantico di illustrare, attraverso l’armeria europea, islamica e giapponese, la collezioni di costumi e la quadreria, una storia per immagini del costume civile e militare attraverso i secoli ed attraverso i luoghi. L’imponente raccolta di oggetti nipponici, costituita da oltre 3.000 pezzi fra armi, armature, porcellane ed elementi d’arredo, fu acquisita a partire dal 1869 fra Firenze, l’Italia, la Francia e l’Inghilterra, e rappresenta una delle più importanti testimonianze della divulgazione dell’interesse per l’arte e la cultura giapponesi in Italia. Salone da Ballo di Villa Stibbert, 1900 circa @@dida inglese Born in Florence in 1838 to Colonel Thomas Stibbert and Giulia Cafaggi, the great Anglo-Florentine collector and generous patron of the arts Frederick Stibbert pursued with great perseverance and dedication his plans to create a museum in his villa at Montughi in the hills around Florence and leave it to the nation. A man of means due to the fortune accumulated by his paternal grandfather Giles, the commander-in-chief of the British East India Company in Bengal, Frederick led the life of a wealthy young man with a cosmopolitan education and a passion for travel. Characterized by a highly evocative setting, the Stibbert collection of European, Muslim and Japanese weapons, costumes and artworks is the fruit of his romantic dream to illustrate civilian and military history over the centuries in images. The impressive collection of over 3,000 Japanese items, including weapons, armour, porcelain and furnishings, was built up as from 1869 in Florence, Italy, France and England, and constitutes one of the most important examples of the spread of interest in Japanese art and culture in Italy. ‘A volo d’uccello’ sul Giapponismo italiano A bird’s-eye view of Italian Japonism La diffusione del Giapponismo al di fuori della Toscana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fu capillare poichè coinvolse tutte le regioni della penisola, dalle Alpi alla Sicilia: un viaggio storico-artistico che potrebbe iniziare dalla Torino di Antonio Fontanesi e concludersi nella Palermo di Vincenzo Ragusa, i due artisti che nel 1876 erano stati inviati in Giappone per insegnare i fondamenti della tradizione figurativa occidentale ai giovani artisti giapponesi desiderosi di imparare nuove vie alternative ai loro canoni classici. Una ‘rivoluzione’ nel segno del Giappone che ha i suoi esordi nei primissimi anni anni sessanta dell’Ottocento, quando a Milano Tranquillo Cremona concepisce il suo grande Marco Polo come un omaggio a tanti diversi esotismi (dalla morente cineseria alla nuovissima moda giapponista), fino agli anni tra le due guerre, quando Filippo De Pisis, a Parigi, fa il suo omaggio a Hiroshige, il maestro giapponese che – insieme a Hokusai e Utamaro – più ha solleticato la fantasia degli artisti europei. Da questa sintetica panoramica emerge come, in realtà, nessuna scuola regionale della penisola in quest’epoca sia rimasta immune dal contagio con l’arte nipponica, non diversamente da quanto in quegli stessi anni accadeva in tutta Europa. The spread of Japonism outside Tuscany in the late 19th and early 20th century involved all the regions of the peninsula from the Alps to Sicily. This art-historical exploration could begin in the Turin of Antonio Fontanesi and end in the Palermo of Vincenzo Ragusa, the two artists sent to Japan in 1876 to teach the basics of the Western figurative tradition to young Japanese artists seeking alternatives to the canons of their classical tradition. The “revolution” inspired by Japan began in the early 1860s, when Tranquillo Cremona in Milan conceived his huge painting Marco Polo as a tribute to many different forms of exoticism (from the moribund vogue for China to the nascent cult of Japan), and continued until the period between the two world wars, when Filippo De Pisis paid tribute in Paris to Hiroshige, the Japanese master who most stimulated the imagination of European artists together with Hokusai and Utamaro. This brief overview shows that, as happened all over Europe in the period, no regional school in Italy remained immune to the appeal of Japanese art. Oltre le cortine del Giappone: il paravento Beyond the curtains of Japan: the screen In Giappone il paravento – soprattutto quello pieghevole – prima di tutto assolve funzioni pratiche, usato come séparé, una sorta di parete mobile. Così esso si è integrato dalla metà dell’Ottocento nelle abitazioni occidentali. Tuttavia, in Europa il paravento fu prediletto più come ampia superficie pittorica, di grandissimo effetto decorativo, che come elemento d’arredo. Con questa connotazione di tipo ornamentale si situa anche nei moltissimi dipinti di gusto giapponista in cui compare, fornendo, con le sue ampie @superfici@sinonimo: parti?@ campite di inchiostro e colori, delle ideali scenografie di tipo esotico. Inoltre, il formato del paravento quale superficie pittorica interessò notevolmente gli artisti occidentali in vena di sperimentazioni tecniche. Carlo Bugatti rielaborò in maniera del tutto personale sia la costruzione architettonica della pannellatura sia il delicato ornato pittorico, creando oggetti privi di citazioni ma sempre evocativi nel loro eclatante eclettismo. Screens, above all those of the folding kind, perform primarily practical functions in Japan as moveable partitions of living space. Thus it was that they became part of Western homes too in the second half of the 19th century. They were, however, appreciated in Europe more as large pictorial surfaces of great decorative impact than as elements of furnishing. It is with this ornamental connotation that they also appear in countless Japonistic paintings, where their vast expanses of ink or colour provide ideal exotic settings. The format of the screen as a pictorial surface was also of great interest to Western artists intent on technical experimentation. Carlo Bugatti reworked both the architectural construction of the panelling and its delicate pictorial decoration in highly personal terms to create objects free of citation but always evocative in their striking eclecticism. Il Giappone a teatro Japan in the theatre Il Giapponismo ebbe un influsso importante anche nel teatro. In Italia, come all’estero, fiorivano spettacoli teatrali con tematiche di gusto giapponista: rimangono ancora tracce nelle cronache giornalistiche delle rappresentazioni avvenute, dagli anni ottanta dell’Ottocento, a Milano, Genova, Firenze, Livorno, Roma, Palermo. Ma le due opere che meglio incarnano la voga giapponista in Italia sono Iris di Pietro Mascagni, presentata a Roma nel 1898, e Madama Butterfly di Giacomo Puccini, messa in scena a Milano nel 1904. Già dal 1896 Mascagni aveva cominciato a lavorare al libretto di Luigi Illica: si documentò sugli strumenti giapponesi visitando la collezione dei baroni fiorentini Kraus, tentò di imitare le sonorità giapponesi utilizzando strumenti originali. Anche le scenografie di Alfred Hohenstein contribuivano alla veridicità delle ambientazioni, curando con attenzione gli oggetti di scena, gli abiti e gli sfondi. Il materiale pubblicitario, le cartoline e i manifesti di Giovanni Mataloni e Leopoldo Metlicovitz, ancora oggi sono icone del Giapponismo. Per Madama Butterfly Giacomo Puccini e Luigi Illica si basarono sul romanzo dello scrittore John Luter Long (1898). Il compositore lucchese, nel tentativo di trovare un’appropriata musica giapponese, studiò la musica ed i costumi sociali; si fece aiutare dalla moglie dell’ambasciatore nipponico in Italia, Isako Oyama, facendosi cantare alcune canzoni tradizionali e ordinando dischi direttamente da Tokyo; inoltre nel 1902 a Milano potè assistere ad uno degli spettacoli messi in scena dalla celebre attrice nipponica Sada Yacco. Japonism also had a major impact in the theatre. Like other countries, Italy saw countless productions on Japanese themes, evidence of which still survives in the newspaper reports on performances staged from the 1880s on in Milan, Genoa, Florence, Livorno, Rome and Palermo. The two works that best exemplify the vogue for Japan in Italy are Pietro Mascagni’s Iris, presented in Rome in 1898, and Madama Butterfly by Giacomo Puccini, first staged in Milan in 1904. Mascagni started work on the libretto by Luigi Illica in 1896, visiting the collection of the Florentine barons Kraus to find out about Japanese instruments and attempting to imitate their sounds by means of original instruments. The stage design by Alfred Hohenstein also contributed to the realism of the settings with meticulous attention to objects, clothing and background. The advertising material, postcards and posters by Giovanni Mataloni and Leopoldo Metlicovitz are still icons of Japonism today. Giacomo Puccini and Luigi Illica took the story by John Luter Long (1898) as the basis for Madama Butterfly. The composer from Lucca studied Japanese music and customs in the attempt to devise something appropriate. With help from Isako Oyama, the wife of the Japanese ambassador in Italy, he had traditional songs sung to him and ordered records direct from Tokyo. He also attended one of the productions presented by the renowned Japanese actress Sada Yacco in Milan in 1902. Alfredo Müller, Sada Yacco, 1900, litografia a colori, cm 219×76,5. Berlino, Staatliche Museen (Kunstbibliothek) @@dida inglese@@ Un capolavoro del Giapponismo italiano A masterpiece of Italian Japonism Mario Cavaglieri, già nella fase giovanile del suo percorso, durante i cosiddetti ‘Anni Brillanti’ (anni Dieci e Venti del Novecento), aveva mostrato un’evidente adesione al gusto giapponista, in opere nelle quali i rimandi alla cultura estremo-orientale sono molto sofisticati, altra cosa rispetto alla semplice citazione ‘alla moda’. Dipinse Paravent doré et potiches molto più tardi, nel 1955, sul finire di una carriera lunga e ricchissima di soddisfazioni. In quel periodo soggiornava spesso nella sua amata Parigi, eseguendo opere e partecipando a esposizioni. Prese allora l’abitudine di lavorare in alcuni musei, raffigurandone nel suo modo vibrante gli interni. Tra gli altri, si recò anche al Museo Guimet, uno dei templi dell’arte estremo-orientale. Lì il Maestro selezionò oggetti che meglio assecondavano il suo gusto di fine conoscitore e che muovevano le corde della sua memoria: un paravento a fondo dorato come quinta, davanti al quale si dispongono manufatti antichi di vario genere, tutti riconoscibili tra quelli nelle collezioni del museo parigino. Rispetto ai dipinti di gusto giapponista della sua giovinezza, magmatici per impasti coloristici di inusitata vivacità e brillantezza, il pittore veneto sembra ora aver appiattito la visione dei volumi, ritrovando l’autonomia dei contorni delle cose, come se l’Oriente a lungo evocato fosse riemerso nelle sue tinte più autentiche. Quest’opera di Cavaglieri si può quindi considerare il suo omaggio all’Oriente, la sua ammissione di Giapponismo, come un biglietto con ringraziamenti sinceri per profonda gratitudine. Mario Cavaglieri clearly displayed his interest in Japan in the early stage of his career, during the 1910s and 1920s, with works in which the references to Far Eastern culture are highly sophisticated, a far cry from the simple citations then in fashion. He painted Paravent doré et potiches much later, in 1955, at the end of a long and immensely successful career. In that period he often stayed in his beloved Paris, producing works and taking part in exhibitions, and developed the habit of working in certain museums, whose interiors he depicted in his vibrant style. One of these was the Musée Guimet, a shrine of Far Eastern art, where he selected objects that found favour with his finely honed taste and struck the chords of his memory. Various clearly recognizable ancient items from the museum’s collections were arranged before the backdrop of a gilded screen. With respect to the Japonistic paintings of his youth, distinguished by magma-like impastos of unusually bright and glowing colour, Cavaglieri now appears to develop a flattened handling of volume and rediscover the autonomy of the outlines of things, as though the long-evoked East had resurfaced in its most authentic form. This work by Cavaglieri can therefore be regarded as his tribute to the Orient and avowal of Japonism, an expression of deep and sincere gratitude. Mario Cavaglieri, Hommage à Hokusaï, 1956, olio su tela @@dida inglese@@