44 — contemporanea Venezia, Biennale Musica 2009. Riflessioni contemporanea L di Dino Villatico e righe che seguono, più che un tentativo di esame critico delle musiche ascoltate, il che potrebbe forse interessare meno lettori dei 25 auspicati dal Manzoni per il suo romanzo, vogliono proporre alcune riflessioni sulla 53. Biennale Musica, che si è appena conclusa. Ho sempre pensato infatti che non esista una critica obiettiva, nel senso in cui la desidera l’ascoltatore benpensante: ma sì, i benpensanti sono ubiqui e dunque ci sono anche tra quelli che vanno ai concerti e sono quelli che amano il giudizio netto: questo è bello e questo è brutto, ma non come giudizio personale, mi piace, non mi piace, bensì appunto come giudizio obiettivo, definitivo, è così e basta, come fosse il giudizio della verità. Io ritengo, invece, che un simile insindacabile giudizio sia solo l’abbaglio di chi non vuole mettersi in gioco, in fondo equivale a un bisogno puramente commerciale: vale la pena comprare questo cd, posso comprare il biglietto del concerto, posso spendere parte del mio tempo per ascoltare queste musiche o sono robacce per le quali non vale la pena nemmeno di leggere il titolo? Fin dai tempi di Platone la riflessione sul bello, e sull’arte, è strettamente legata alla concezione del mondo, o più ristrettamente al ruolo che s’intende attribuire al bello, al piacere, all’arte nell’ambito sociale in cui si vive: in epoca di globalizzazione quest’ambito è diventato il mondo, ma già gli stati ellenistici e poi ancora di più l’Impero Romano andavano in questa direzione, attuata poi in modo quasi definivo dall’universalità cristiana e musulmana del medioevo, noi oggi ne siamo semplicemente gli eredi, e abbiamo solo allargato i confini. Platone sosteneva che l’arte distoglie dalla ricerca della verità, Aristotele invece, in maniera straordinariamente moderna (ma anche Platone a suo modo è modernissimo, per esempio nel sostenere la separatezza dei concetti dalla realtà), che l’arte, e in particolare la poesia, è uno dei modi con cui l’intelletto ricerca la verità: per questo la tragedia, e la poesia in genere, sono più «universali della storia», perché non si occupano dell’accindentale, ma dei caratteri perenni del comportamento umano o piuttosto, meglio, s’interroga- no sul senso dell’esistere. Aristotele riconosceva anche, anticipando Leonardo, la funzione cognitiva del disegno e della pittura. Tuttavia bisogna porre delle distinzioni. Se una critica oggettiva, imparziale non può essere né concepita né scritta, è però d’altra parte anche vero che nemmeno una critica prevenuta, vale a dire che già prefiguri i criteri con cui ascoltare un’opera, e ne giudichi pertanto il valore solo in base agli schemi prefigurati e in quanto l’opera si adegui o no ad essi, non è critica, ma appunto pregiudizio, vale a dire un giudizio pre-formulato, formulato cioè non già sull’analisi dell’opera, ma su come si vorrebbe che l’opera fosse, ed è pertanto un giudizio ideologico e non un giudizio critico, che solo può scaturire dall’analisi dell’opera. La prendo da lontano, ma spero di non annoiare il lettore. Può darsi che poi quando leggerà quanto verrò scrivendo sulle musiche ascoltate gli diverrà più chiaro l’intento di queste righe, proprio in base alle premesse metodologiche qui esposte. Già Aristotele, dunque, sosteneva che non esiste un metodo di analisi scientifico valido per qualunque oggetto d’indagine, ma che deve essere l’oggetto stesso dell’analisi a imporre il metodo di analisi più adatto. Non posso studiare la costituzione di uno stato con lo stesso metodo che adopero per studiare un teorema di geometria. Qualcosa d’analogo dicono i filologi quando affermano che un testo non può essere analizzato adoperando elementi estranei al testo. Con questo criterio, anzi, che era servito a Lorenzo Valla per dimostrare la falsità della Donatio Constantini, Spinoza demolì la presunta ispirazione divina della Bibbia e venne perciò scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam, guadagnandosi in aggiunta l’odio di tutte le chiese. Ma Spinoza aveva ragione. Che la Bibbia sia ispirata da Dio è tutt’al più un atto di fede, non una verifica che risulti dall’analisi filologica del testo. Su questi principi metodologici, introdotti per la prima volta da Aristotele, ma adottati in seguito da Galilei per esempio (che derideva gli ottusi aristotelici, non Aristotele), cerca di dimostrare come mentre le leggi della natura possono essere analizzate come eventi costanti, prevedibili e dunque formalizzati in equazioni matematiche, le azioni umane invece non sono soggette a ripetizione, e l’approccio cognitivo sarà naturalmente diverso da quella delle scienze esatte (matematica e geometria, astronomia, per Aristotele): l’induzione prevarrà dunque sulla deduzione. Perché questa premessa? Perché mi sembra una vecchia malattia della critica italiana, e non solo della critica, quella di non indagare la natura dell’oggetto studiato, ma di cercare solo se l’oggetto si adegui o no ai modelli già prefigurati di analisi. Dato ad esempio che il modello di melodramma sia quello italiano, e per tale s’intende quello che va da Bellini a Puccini (già Rossini, infatti, poneva e pone qualche problema) qualsiasi rappresentazione che segua altri modelli teatrali viene giudicata insoddisfacente, o addirittura liquidata come priva di drammaturgia e pertanto non teatro. Con simile metodo vennero liquidati nel secolo XIX il Fidelio di Beethoven e tutto Wagner. Salvo poi, una volta assunto come nuovo modello proprio Wagner, liquidare il primo Verdi come rozzo e primitivo, se non addirittura sbagliato drammaturgicamente, quando invece è ormai finalmente riconosciuto quasi da tutti (ma la madre degli ottusi è sempre incinta) che Verdi può comporre anche brutta musica, ma difficilmente sbaglia l’impianto drammaturgico di una scena e di un’opera ed è in ogni caso da dimostrare che una musica che funzioni drammaturgicamente possa essere brutta. Un esempio per tutti: la marcetta che accompagna l’ingresso del re Duncano (così lo ribatteza Piave) nel castello di Macbeth è davvero una marcetta volgare e brutta. Ma una marcia più nobile, magari contrappuntistica (come nell’Aida), avrebbe sortito lo stesso effetto di una vittima condotta al macello? Duncano è un maiale, o una pecora, che sarà sgozzato contemporanea — 45 1 Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, UTET. 2 Tornerà, Filippo, la condurremo insieme. Lascia che ricuperi le forze e la farò ritornare… Fuentes ha dichiarato di aver voluto raccontare la fragilità dell’amore. Ma è molto di più. È la fragilità del nostro rapporto col mondo, sulla realtà di ciò che percepiamo e sperimentiamo. Non a caso la ragazza si chiama Aura e sua nonna Consuelo, vale a dire Vírgen del Consuelo, Vergine della Consolazione, e tanto il sostantivo della specificazione che il soggetto che lo regge hanno senso, Consuelo è insieme una vergine, perché vecchissima, e pertanto inadatta alla copula, e un conforto, perché realizza e insieme disvela l’illusorietà dell’amore. L’amore può essere vissuto solo come sogno e la sua fine come incubo. Ma è già incubo il contatto: «No me toques…»3 dice Aura a Felipe, come Mélisande a Golaud o Brunilde a Sigfrido. Che cosa veramente accade? O che cosa si rompe perché il sogno diventi una perdita, un incubo? E chi è veramente Aura? E veramente esiste o non è piuttosto una proiezione di Consuelo, anzi la proiezione di Felipe che sogna la vecchia che sogna se stessa da ragazzina? Il tema dell’irrealtà del reale è un tema costante della letteratura spagnola, che negli scrittori del nuovo mondo diventa addirittura ossessivo. È il caso di ricordare Borges, Cortázar, Bioy Casares, Márquez, ma anche i più giovani Andrés Neuman e Ricardo Piglia, o Bolaño? Calderón de la Barca già nel secolo XVII scrive un dramma paradigmatico: La vita è sogno. ¿Qué es la vida? Un frenesí. ¿Qué es la vida? Una ilusión, Una sombra, una ficción, Y el mayor bien es pequeño; Que toda la vida es sueño, Y los sueños sueños son. 4 Ora, chi non si sia confrontato con tutta questa sterminata, e straordinaria, invenzione letteraria, come può permettersi di dire all’uscita del Teatro Goldoni, dopo avere visto l’opera di Sánchez-Verdú, che si tratta di una «bufala»? In fondo anche il Don Chisciotte è un sogno. Per Goethe il romanzo più bello mai scritto. Ma non è un sogno anche il suo Le affinità elettive? Il libretto dell’opera, dello stesso Sánchez-Verdú, non intesse le fila del romanzo, ma accosta scene tra loro apparentemente discontinue, staccate, senza relazione. Come appunto in un sogno, o in un racconto surrealistico. O come prodotto di scrittura automatica. Il senso non sta in ciò che si dice o si vede, ma nel corto circuito tra un evento e l’altro, nell’associazione tra un’immagine, un suono, una parola, e un’altra immagine, un altro suono, un’altra parola. La musica si avvale di pochissimi strumenti, del Kammerensemble Neue Musik Berlin (flauto basso in do, flauto contrabbasso in fa, tuba bassa in fa, due acordeones5, auraphon – strumento inventato apposta per l’opera –, quartetto d’archi e contrabbasso, il coro sono un tenore e un basso, bravissimi, dei Neue Vocalsolisten Stuttgart), e suggerisce, sussurra, raramente si espone in primo piano, come un fondale sonoro di un’azione che poi non accade mai. Si è parlato di Sciarrino. Ma che c’entra? Sciarrino è evanescente. Il compositore spagnolo non cerca l’evanescenza, non cerca di oltrepassare il liminare tra l’udibile e il non udibile, ben3 Non toccarmi. 4 Che cos’è la vita? Una frenesia. / Che cos’è la vita? Un’illusione, / un’ombra, una finzione (ma in spagnolo ficción significa anche invenzione, e in tal senso la usa per esempio Borges, in Ficciones, includendovi però anche il significato dell’inglese fiction), / e il bene più grande è piccolo, / perché tutta la vita è sogno, / e i sogni non sono che sogni. 5 Singolare acordeón, plurale acordeones. Noto di sfuggita che “murales” usato nei giornali italiani come singolare, “il murales”, è plurale di “mural”. Ma gli italiani che ignorano la lingua spagnola perché non usano allora il termine italiano “murale”, plurale “murali”? contemporanea nella sagra del paese. Verdi è preceduto da un esempio illustre: la marcetta che introduce Pizarro nel Fidelio di Beethoven. Un malvagio di quella sorta avrebbe richiesto una musica più solenne, eroica. Invece no: Beethoven scrive una marcetta scipita (ma scritta con mano maestra!). Sembra quasi una delle marcette di Mahler. La figura di Pizarro acquista così un connotato sinistro. Il male, sembra avvertirci Beethoven, che qui si dimostra un eccelso drammaturgo, non arriva gonfiando le gote, ma col suono corrivo della quotidianità. Come in un lager nazista. Lo stesso Rocco fa parte dei milioni di tedeschi che non videro e non vollero vedere. Beethoven non lo nasconde. Il carceriere (ma immaginatelo ufficiale del campo di concentramento) si ribella all’ordine di uccidere con le proprie mani un prigioniero innocente, ma non ha il coraggio o la volontà d’impedire che un altro, Pizarro, il suo superiore, lo uccida. Anche Beethoven venne e viene accusato (perfino, horribile dictu! nel DEUMM1) di non avere senso drammatico, lui! che fa teatro anche quando scrive una sinfonia. È un equivoco che percorre la storia della critica italiana si può dire dalle origini: da qui le condanne inappellabili di chi non si conforma ai modelli interpretativi di volta in volta prescelti. Ci cade anche il De Sanctis, anzi lui più di altri, perché anche lui è un ideologo intransigente. Si spiega solo così la sua incomprensione del Petrarca e dell’Ariosto, la sua preferenza per il tumultuoso Inferno, e la sostanziale svalutazione del troppo astratto e metafisico Paradiso, la meno «umana» e passionale delle tre cantiche (basterebbe il canto del furore di San Pietro a smentirlo! «Quelli che usurpa in terra il luogo mio» ecc.). Ebbene, sembra che a Venezia, da parte di alcuni critici e musicisti, si sia caduti proprio in questo equivoco. Segno che in gran parte la cultura italiana risulta ancora provincialmente autoreferenziale e ai modelli di analisi si preferiscono gli schemi, più facili e più comodi, del già conosciuto e approvato. Una critica molto più provinciale e sciovinistica di quella francese e di quella americana, che tacciamo invece di scioviniste: e non lo sono! Il neorealismo del cinema italiano, per esempio, è stato capito e accettato prima in Francia e negli Usa che da noi. A capire la grandezza di uno Svevo sono stati per primi uno scrittore irlandese, Joyce, e due francesi, Gide e Proust. L’elenco potrebbe continuare. Del resto già Madame de Staël incitava gli italiani a leggere gli scrittori moderni, Byron, Shelley, Goethe. Le risposero che avevamo Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso. Ribatté che non li avevamo più. Manzoni e Leopardi, non a caso, le diedero ragione. Ma erano degli isolati nel coro conformista e classicista dei letterati italiani. Ma torniamo a Venezia. Il coro, di letterati, critici, musicisti e oggi anche di radiofonisti è rimasto lo stesso. L’oggetto del contendere è l’opera da camera di José María Sánchez Verdú Aura, tratta dal romanzo omonimo di Carlos Fuentes. L’azione del romanzo è concentrata in poco meno di un’ora e mezzo di spettacolo. Il compositore è anche autore del libretto. La storia, se di storia si può parlare, è presto detta: un giovane ricercatore, Felipe, viene assunto da una vecchia di 109 anni, Consuelo, per completare le memorie del marito generale Llorente (e l’affinità sonora col participio del verbo llorar che in spagnolo significa piangere, llorante, non è casuale). Ma Felipe finisce per innamorarsi della nipote, Aura. La quale però a un certo punto scompare e Felipe entrando nella sua stanza trova la vecchia che gli dice: «Volverá, Felipe, la traeremos juntos. Deja que recupere fuerzas y la haré regresar…»2. Che significa tutto ciò? In un’intervista al telegiornale regionale veneto di Rai3 contemporanea 46 — contemporanea sì si aggrappa, e con forza, al corpo sonoro del sogno, il corpo che sfugge nel momento in cui lo si tocca, il corpo della vita che non si afferra mai, il corpo della donna che sfugge nel momento stesso in cui si crede di possederla6. «Ein jeder Engel ist schrecklich»7, dice a un certo punto, intonando un verso delle Elegie Duinesi di Rilke. Sanchez-Verdú è sciarriniano come per i critici francesi del 1875 la Carmen di Bizet era wagneriana. L’invenzione più straordinaria dell’opera, però, non sta tanto nella scrittura strumentale, quanto nell’impostazione del canto. L’ultimo Sciarrino, tanto per chiarire le differenze, insegue l’eventualità che, affondati i parametri della ripetizione, sia ancora possibile il modello di un moderno tematismo, proprio usando la ripetizione di moduli melodici minimi. Da qui una vocalità che ripete conati melodici in genere discendenti, che hanno l’aspetto di una risentita confessione. Sánchez-Verdú va per tutt’altra strada. Cerca d’impostare una sorta di moderno recitar cantando atematico. O piuttosto, di monteverdiano parlar cantando. Monteverdi è perfino citato: «Incenerite spoglie», il bellissimo madrigale in morte della Romanina (allusione ad Aura?). Ma a differenza dell’intonazione monteverdiana, esasperatamente espressiva, Sánchez-Verdú fa intonare ai personaggi una recitazione inespressiva, senza connotazioni psicologiche, come se i discorsi fossero memorie sbiadite di discorsi, o piuttosto frammenti di discorsi uditi negli interstizi di un sogno, pallide ombre di un dialogo immaginario, senza sussulti del cuore. Gli insiemi acquistano poi l’aspetto di moderni madrigali. Una lezione stupenda di stile teatrale. Si pensa al ghiaccio di certi dialoghi o monologhi beckettiani. Mi meraviglio che i musicisti e i critici in sala non l’abbiano colto. Eppure frequentano da anni le sale di teatro, sia come autori che come spettatori. Evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Susanne Øglænd, la regista, ha immaginato uno spettacolo visionario che ricorda i primi film surrealisti di Buñuel, ma anche certi film espressionisti di Hitchcock, agli inizi della sua carriera. La scena (di Mascha Mazur) asseconda la visione, la scala bianca, la lunga scala che potrebbe essere quella del sogno di Giacobbe, le apparizioni intermittenti delle donne, il sangue del sacrificio («Aura sacrifica un macho cabrío», Aura sacrifica un capro, scena VII, che non ha nulla di un sacrificio reale, ma è il sangue di un sogno, la visione di un incubo oppure il sangue di ogni tragedia umana: a nessuno sfuggirà il senso rituale dell’atto di uccidere un capro, che sta alla fondazione della tragedia greca). Splendide le luci di Andreas Fuchs. Irrequieti e inquietanti i video di Jan Speckenbach. Al di sopra di ogni elogio i tre solisti: Sara Sun, Aura; Truike van der Poel, Consuelo; e Andreas Fischer, Felipe. Dirigeva lo stesso compositore. Tutto lo spettacolo ha certo un aspetto molto tedesco, del nuovo, straordinario teatro tedesco, che solo gli italiani sembrano non capire e non apprezzare. Del resto Sanchez-Verdú vive a Berlino e i contatti della cultura spagnola con la cultura tedesca e fiamminga sono secolari, prima dei Borboni sulla Spagna hanno regnato gli Asburgo. E nei secoli XVI e XVII le Fiandre erano spagnole. Sulle altre manifestazioni del festival spenderò poche parole, che comunque confermano le impressioni e le conseguenti riflessioni suggerite dall’opera di Sánchez-Verdú. Inutile soffermarsi sui classici del Novecento, Varèse, Xenakis, Berio, Bartók, Ligeti, Stravinsky, Kagel, Webern, Zappa (sì, è ormai un 6 In un altro bellissimo dramma di Calderón, El mágico prodigioso, il mago miracoloso, Cipriano ottiene dal diavolo di possedere la donna di cui ha una selvaggia brama, ma nel momento di possederla il corpo della donna diventa uno scheletro, che fuggendo via gli dice «Así, Cipriano son / todas las glorias del mundo», così sono, Cipriano / tutte le glorie del mondo. 7 Ogni angelo è terribile. classico anche lui), e Kurtág, al quale è stato consegnato, finalmente, il Leone d’Oro alla carriera. Li cito non a caso alla rinfusa. Perché appartengono alla prima o alla seconda metà del secolo breve, e giganteggiano sugli annaspamenti dei compositori successivi. Un esempio tra tutti: il brano di Andriessen, d’imbarazzante banalità, che si misura addirittura con l’Inferno dantesco, sprofondava semplicemente nel niente da cui è nato, e il confronto con la pagina successiva, ch’era la Suite dal balletto Il madarino miracoloso (e non meraviglioso come in Italia si continua a tradurre, perfino nei programmi della Biennale) ne metteva impietosamente in luce l’inconsistenza. I primi dieci minuti della partitura batorkiana, infatti, superano per la complessità dell’articolazione ritmica quasi tutte le pagine presentate in prima esecuzione. Il problema non sta nell’estrema semplicità della scrittura di Andriessen, anche Glass e Adams ricercano un’apparente semplicità. Ma Andriessen contrabbanda per semplicità la mancanza di idee e il ricorso a moduli melodici di una banalità irredimibile. George Crumb potrebbe insegnargli molto. Ma lo stesso Adams: deliziosa la sua Son of Chamber Symphony del 2007. La semplicità qui è solo apparente, e invece, come nelle migliori pagine dello Stravinskij neoclassico, la sapienza contrappuntistica della scrittura rende nitide le combinazioni ritmiche e melodiche. E lo stesso potrebbe dirsi per il senso che della materialità del suono ha uno Xenakis, rispetto all’asfittica e timida esplorazione dei più giovani musicisti: come, per esempio Michael Jarrel, Instantanés, del 1985, che sembra proporre invenzioni interessanti, ma le disperde e diluisce in un continuum privo di forma, e dove sono allora gli istanti del titolo? M’è sembrato però d’individuare tre splendide eccezioni. Sono tre compositori tra i 52 e i 37 anni, del più giovane risentiremo parlare sempre più spesso, me lo auguro. Uno, il cileno Marco Antonio Pérez-Ramírez, nato nel 1964, col suo Du Corps…, del 2003, ci mostra come si possa essere irruenti, focosi, rompere gli argini, senza rompere la forma, anche nel terzo millennio. La spessa materia sonora è screziata all’interno da molteplici incastri ritmici e contrappuntistici. Fabio Nieder, nato nel 1957, triestino, e quindi a cavallo tra più culture, ci regala con i suoi Lieder von der Liebe zur Erde, canti dell’amore per la terra, 1996-2009, una pagina concentrata e intensa, la lunga gestazione si sente, conferisce spessore alla musica, uno struggimento di sapore mahleriano, ma forse ancora più berghiano, senza tuttavia cadere nella trappola del recupero espressivo, o neo-espressionismo che dir si voglia. I testi di Hölderlin e di Rilke (anche lui! come Sánchez-Verdú, evidentemente il poeta di riferimento di questa generazione di musicisti: un poeta della perdita) sono sminuzzati, polverizzati, ne resta l’eco insondabile e terribile, ma tuttavia dolcissima, quasi un amore della morte senza paura della morte. Musicalmente ciò si risolve in una sorta di clonazione di reperti tardoromantici, che perdono qualsiasi carattere espressivo romantico, per suggerire invece una sinistra prefigurazione della scomparsa del canto, che si concede sconfitto all’afasia di un mondo che sembra non averne bisogno: la «morte dell’arte», così cara a certe datatissime avanguardie qui sembra risolversi piuttosto nell’evocazione dolcissima di ciò che si perderebbe se l’arte non ci fosse. Ma le pagine più nuove le ha scritte, credo, Filippo Perocco, nato nel 1972. Altri corti, del 2007, chiede in prestito al cinema il suggerimento di una forma che concentra in breve spazio la propria idea. Sono brani di un’intensità quasi insostenibile (Webern o Kurtág potrebbero esserne i modelli, ma non è così, non ci sono modelli, è un’invenzione personale originalissima). Perocco sembra avere filtrato tutta l’esperienza dell’avanguardia storica per sbarazzarsene e serbarne solo poche indicazioni di scrittura, di procedimenti di scrittura, più che di poetica. È una musica che fa del «levare» michelangio- contemporanea — 47 2009, per contro, illude che il gioco formale basti da sé. Anche se il gioco è affascinante, si cade nell’eccesso opposto a quello di Mancuso. Insomma, è spiacevole richiamare, ancora, la dialettica di forma e contenuto. Ma l’insistenza su uno solo dei due poli produce l’asfissia. Concludo pertanto ricordando un aforisma di Nietzsche, dai frammenti postumi: «Si è artisti a prezzo di considerare come contenuto ciò che i non artisti chiamano forma. Certo, in tal modo si vive in un mondo capovolto, nel senso che tutto diventa formale, anche la propria vita». Ma il punto sta proprio qui: che la propria vita, e dunque il proprio pensiero, per assurgere all’arte, devono farsi oggetto del pensare, più che del sentire, e concretarsi in una forma. L’Eroica di Beethoven resta un esempio inimitabile8. ◼ 8 Sugli esecutori, salvo l’opera di Sánchez-Verdú, non dico niente per il semplice fatto che le riflessioni riguardano le musiche e non gli interpreti, mi dispiace per loro. In un’opera teatrale invece gli interpreti fanno parte del progetto dell’opera. Per la cronaca, comunque, va fatto un elogio alla scelta dei complessi musicali: le esecuzioni erano tutte di buon livello, qualcuna addirittura eccelsa. Immagini da Aura di José-Maria Sanchéz-Verdú (foto di Claudio de Casas). contemporanea lesco la sua cifra, una musica che procede per sottrazioni invece che per accumulazioni. Basta una cellula ritmica (l’ostinato dell’ultimo corto è impressionante), un impercettibile modulo melodico, magari di sole due note, un intervallo che si ripete e si lascia riconoscere (non è il caso di parlare di melodia né tanto meno di tema per questa musica ossessivamente e ostinatamente atematica). Non conta, insomma, come per l’antica poesia indiana, ciò che si dice, ma tutto il non detto che soggiace sotto ciò che si ascolta. Il trattato sanscrito dhvanyāloka ne definisce mirabilmente il campo di azione: ne consiglio caldamente la lettura a tutti i patiti, soprattutto italiani, di contenutismo e di realismo psicologico, per guarirne una volta per tutte. È come se questa musica lottasse con il silenzio. Perocco sembra avere colto il suggerimento del trattatista indiano e il suo invito a incrementare la tensione dell’immagine verso il nulla e del suono verso il silenzio. C’è un furore terribile, una disperazione senza appello, una coscienza senza illusioni, che urge sotto questa musica dalle strutture cristalline: alla superficie, tuttavia, il suono racconta solo la sconfitta delle emozioni, il deserto della perdita delle illusioni, un sentimento che i suoi coetanei nel feroce mondo di oggi conoscono assai bene. È una musica al quadrato, ancora più di quella di Stravinskij e di Webern. Non voglio azzardare che sia più grande, non si può ancora dire. Ma è solo, se mai, più disillusa, anzi la musica del disinganno, del futuro sottratto, della perdita definitiva del tempo, che nessuna memoria riuscirà più a ritrovare. Il corto si arresta all’attimo della perdita. Ciò che si registra è un vuoto, il nulla dell’oggi. Il nulla che si vedono davanti i giovani di oggi. A Perocco, e a questi compositori il merito di raccontarlo. Magari bloccandosi nella regolarità di un ritmo, che invano il tentativo di una melodia cerca d’interrompere e disturbare, come nell’ultimo dei Corti, bellissimo, e si resta inchiodati all’insensatezza del vivere, perfino all’insensatezza forse dell’arte o almeno dell’arte che vuole raccontare l’insensatezza di essere, prima ancora che di vivere. Non so spiegarlo diversamente. E non è questa la sede per un’analisi musicale, che pure sarebbe necessaria per confortare la mia interpretazione. Ma questi Corti sono tra le pagine più interessanti ascoltate negli ultimi anni. Non esagero. Ascoltare per credere. Sulle altre musiche ascoltate meglio stendere un velo di silenzio. Il tema suggerito da Luca Francesconi per questa Biennale era il corpo del suono. Se n’è ascoltati pochi di veri corpi sonori. I più si sono accontentati di carezzarlo, il suono. O di aggirarlo. Né può salvare dal disastro l’impegno civile, come per il pezzo di Giovanni Mancuso July 19th or How to Establish a Second Republic Founded on the Blood of a State Massacre, del 2009. La generosità dell’intento, ricordare la strage di via D’Amelio, in cui morì il giudice Paolo Borsellino, non salva la povertà dell’invenzione musicale. Né meno fragile appare la sostanza musicale nella Suite da concerto tratta dall’opera Singin in the Brain di Paolo Furlani, classe 1964: l’intento descrittivo sembra prevalere sulla coerenza musicale. Ma forse una musica che funziona bene per la scena, e quella di Furlani funziona, perde qualcosa quando è ristretta al puro ascolto musicale. Insomma: attraversiamo un momento di crisi (ma non lo sono tutte le epoche?). Il modo peggiore per uscirne è aggrapparsi alle regole consolidate, come fanno gli epigoni delle avanguardie storiche, o illudersi che l’interesse del contenuto possa salvare la forma. Il contenuto è la forma. Vale a dire una materia anche emotiva, autobiografica, una idea, un sogno, una storia, che prendono una forma e s’impongono per la coerenza della forma e non per l’interesse della materia o dell’intento ideologico, poetico, civile. Mi sembra appunto che Pérez-Ramírez, Nieder e Perocco abbiano tentato di andare verso questa direzione. L’eleganza rarefatta di un Gervasoni, Gramigna, del 48 — contemporanea Ernesto de Martino La pizzica magica di sbarca alla Biennale Anna Cinzia Villani U contemporanea no dei percorsi più suggestivi della Biennale Musica C hi volesse avvicinardi quest’anno è stato senz’altro quello definito «Il Paesi al cangiante mondo se senza memoria», su cui, tra il 30 settembre e il 3 otdella musica popolare Anna Cinzia Villani, Ninnamorella, tobre, si sono incentrate quattro giornate di studio e ascolto salentina dovrebbe senza alcucurate dal direttore artistico Luca Francesconi insieme a Mauna esitazione ascoltare Ninna- Anima Mundi Edizioni, Otranto 2008. rizio Agamennone (cfr. VMeD 30, pp. 16-17). In particolamorella di Anna Cinzia Villani, re il primo di questi appuntamenti ha giustamente ricordato un piccolo gioiello solo appauno degli intellettuali più rilevanti a cavallo tra primo e seconrentemente impervio al neofita. Nell’agevole confezione deldo Novecento, Ernesto de Martino. A lui infatti è stata dedile edizioni Anima Mundi di Otranto (leader incontrastato nel cata la prima lectio magistralis, tenuta da Paolo Apolito dell’Unigenere) si incontrano tutte le coordinate per gustare al meglio versità di Roma III e intitolata «Ernesto de Martino: tarantiquesta musica fatta di voci aspre e percussioni incalzanti, a cosmo, religione e storia culturale a cinquanta anni dalla “mitiminciare dai testi corredati di traduzione. Ma a condurre denca” estate del 1959». Il docente, nell’ora a tro quel mondo lui concessa, ha tracciato con invidiabile archetipico e afchiarezza la parabola intellettuale, umana fascinante è soe politica dell’antropologo napoletano, sofprattutto la strafermandosi, prima di descrivere la famosa ordinaria vocalità indagine sul tarantismo raccolta nella Terdella Villani – sia ra del rimorso. Contributo a una storia religiosa in assolo che nei del Sud (1961), su opere meno conosciute e duetti con candi grande importanza come Il mondo magitanti «tradizionaco (1948), Morte e pianto rituale nel mondo antili» –, che prende co: dal lamento pagano al pianto di Maria (1958) per mano l’ascole Sud e magia (1959). tatore proponenA lezione conclusa la musica è tornata do però versioprotagonista. E in un contesto come quelni sempre rispetlo evocato da de Martino non poteva essetose dell’originare che musica del sud, più specificamente le. Come ricorpugliese. Con la denominazione di «Suoda lei stessa inni rurali» ha dunque occupato il palcoscefatti, «tutto poAnna Cinzia Villani nico del Piccolo Arsenale una compagine tevo aspettarmi formata per metà da artisti salentini e per tranne che, prol’altra provenienti da una zona leggermenprio nel momente più a nord, nei pressi di Ostuni. A capitanare il quartetto era to di massima Anna Cinzia Villani, una delle più interessanti esponenti del diffusione delcosiddetto «movimento della pizzica», che prima dell’avvenla nostra musica to di manifestazioni kolossal come la «Notte della taranta» già in Italia, sarebbe aveva iniziato a studiare e riscoprire gli antichi canti restituennato un dibattidoli in versione «filologica» grazie all’assidua freto tuttora acceso, quentazione degli ultimi «testimoni» di questo quello tra “puriprezioso patrimonio e attraverso una sti” e “innovatovoce straordinaria e dai tratti prori”, il cui nocciolo fondamente «antichi» (cfr. l’artiè il rapporto con colo a fianco). Il breve concerto, le fonti orali che alla presenza di pochi appassioda sempre ci donati, si è rivelato di grandissimo nano repertori di livello sia nelle interpretazioni grande bellezza. vocali che in quelle strumentaNell’arco di queli, suscitando l’entusiasmo del sti dieci anni di lavoro ho avuto la possibilità di collaborare pubblico, anche se i musicisti, con tanti musicisti, tutti di alto livello, e con affermati gruppi abituati a più affollate e rumodi riproposta, confrontandomi quindi con vari modi di penrose piazze, sembravano un sare ad arrangiamenti per i brani della tradizione, da queltantino intimiditi dalla corli più estremi e “invasivi” a quelli più minimali e rispettosi. nice istituzionale. A tutt’alL’opinione che ho sviluppato pian piano è che, se la creativitra atmosfera hanno dato poi tà non è supportata da buon gusto e soprattutto da una covita le vibranti contaminanoscenza profonda del repertorio, un arrangiamento piuttozioni del gruppo sasto che valorizzare un canto, può appiattirlo o addirittura balentino Mascanalizzarlo». Tra le perle del disco si citano almeno «La tabrimirì. (l.m.) ◼ baccara», «Pizzica pizzica di Nardò» e «’Ntunucciu». (l.m.) ◼ Ernesto de Martino contemporanea — 49 I primi trent’anni «Risonanze Fall 2009» dell’Ex Novo Ensemble e «danzedautunno» « Ex Novo Ensemble decorano il “medagliere”, eppure credo che, al di là della bravura musicale, la forza di un gruppo come questo risieda nelle qualità umane e intellettuali dei suoi componenti: quando abbiamo cominciato l’atmosfera era a metà tra quella di un laboratorio sperimentale e quella di un cenacolo. L’intento principale era – e mi auguro sempre sarà – far musica, dando a queste parole il significato di cercare, scoprire, migliorare… insieme». Con queste parole Claudio Ambrosini ricorda il trentennio del suo Ex Novo Ensemble, celebrato con un festival dislocato tra le Sale Apollinee della Fenice e la Sala degli Arazzi della Fondazione Giorgio Cini. All’interno di un programma estremamente fitto e variegato, che spazia dall’antico al moderno ed è difficile condensare in poche righe, si ricordano alcuni appuntamenti che sembrano particolarmente degni di nota, a cominciare dall’omaggio a due compositrici russe come Galina Ustwolskaja e Sofia Gubaidulina, che propongono una musica dalle istanze mistico-religiose e sospesa tra Oriente e Occidente (La Fenice, 5 novembre, ore 20.00). A seguire la serata intitolata «Suoni e Spazi immaginari», che raccoglie le composizioni di Claudio Ambrosini, Ivan Fedele, Luca Francesconi e Alvin Lucier con la regia sonora e i live electronics di Alvise Vidolin e Simone Conforti (Fondazione Cini, 11 novembre, ore 18.00). Si prosegue con altri due omaggi, rispettivamente allo scomparso Mauricio Kagel, (brani di Kagel, Stefano Bulfon, Emanuele Casale, Roberto Doati, Michele Tadini, Fondazione Cini, 14 novembre, ore 18.00) e a Salvatore Sciarrino, per il quale è previsto un incontro con il maestro palermitano insieme a Sandro Cappelletto e Pietro Bria, cui si affianca un concerto che collega Sciarrino a Bach e Mozart (La Fenice, 17 novembre, ore 19.00). Per il programma completo degli eventi cfr. www.exnovoensemble.it. (l.m.) ◼ H a preso il via lo scorso 30 Venezia ottobre «RisoTeatro Fondamenta Nuove nanze Fall 2009», la ras«Risonanze Fall 2009» segna di nuove musiche 15 novembre, ore 18.00 e ore 21.00 contemporanee del Te3 dicembre, ore 21.00 30 gennaio, ore 21.00 atro Fondamenta Nuove di Venezia, che trac«danzedautunno» cia nel cuore della cit27, 28 novembre, ore 21.00 tà lagunare un intenso 14 novembre, ore 21.00 21 novembre, ore 21.00 percorso attraverso il 5 dicembre, ore 21.00 jazz, la multimedialità, 9 gennaio, ore 21.00 il blues e la ricerca. 23, 24 gennaio, ore 21.00 Dopo il primo appuntamento, che ha visto protagonista assoluta la vocalist e performer Jennifer Walshe, il mese di novembre apre il sipario domenica 15 con una serata dedicata alla città di Berlino, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro. Si parte alle 18.00 con la proiezione del documentario Die Mauer (Il Muro) di Jürgen Böttcher, per proseguire poi alle 21.00 con una Berlin Night illuminata dalle sonorità elettroniche dei dj-set di Gudrun Gut (Einstürzende Neubauten) e Thomas Fehlmann (Orb), due fra gli artsiti più rappresentativi della scena berlinese. Giovedì 3 dicembre, sempre alle 21.00, sarà la volta di Chase the Devil: la chitarra di Gary Lucas (Captain Beefheart, Jeff Buckley) accompagnerà il cantante Dean Bowman in un sodalizio basato su gospel, blues, musica liturgica ebraica, canto qawwali e originale songwriting. La rassegna proseguirà quindi sabato 30 gennaio con uno degli eventi jazz più attesi dagli appassionati: fa ritorno infatti a Venezia il violoncellista Erik Friedlander, storico collaboratore di John Zorn, alla testa del suo Broken Arm Trio. Completata da Trevor Dunn e Mike Sarin, la formazione realizza una sintesi tra la tradizione e le traiettorie più innovative della musica jazz. E sempre al Fondamenta Nuove prende il via a novembre la nuova edizione di «danzedautunno», rassegna di danza contemporanea, che presenterà nuove proposte di spettacolo con giovani coreografi e danzatori e consolidate compagnie professionali. Il nuovo programma prevede al suo interno la continuazione del progetto dedicato a Tanzelarija (27 e 28 novembre), organizzazione non governativa bosniaca il cui statuto prevede la promozione e la diffusione della danza contemporanea in Bosnia-Erzegovina. Prima e dopo Tanzelarija, tre compagnie italiane presenteranno nuovi lavori: il 14 novembre il Balletto Civile di Michela Lucenti con Animali vivi; il 21 novembre l’Officina Zerogrammi di Stefano Mazzotta ed Emanuele Sciannamea con Inri; il 5 dicembre Virgilio Sieni con Suites Bach. Due gli appuntamenti per l’anno nuovo: quello del 9 gennaio è interamente dedicato al progetto «Anticorpi Explò», mentre il 23 gennaio, con replica il 24, sarà la volta dell’ultima creazione di Ersiliadanza diretta da Laura Corradi, Top secret. (i.p.) ◼ Jennifer Walshe contemporanea T rent’anni! Mi sembrano trecento se penso alle migliaia di cose che ci abbiamo messo dentro; mi sembrano trenta, ma minuti, se penso alla voglia che c’è ancora di fare, di andare avanti. Nel 1979, con alcune importanti occasioni, tra cui la Biennale di Venezia, la “barca” Ex Novo è stata varata e il viaggio è iniziato. Come in tutte le navigazioni, abbiamo dovuto superare tempeste e croste di ghiacci e gorghi di sargassi, potendo contare quasi sempre solo sul nostro “vento” e sul rimboccarsi le maniche e mettersi ai remi. Centinaia di concerti, decine di registrazioni radiofoniche e cd e molti lavori dedicati all’Ex Novo dai compositori più diversi I nuovi percorsi del Fondamenta Nuove 50 — contemporanea La tragedia di Bohpal tra immagini e note Si conclude ai Frari il World Venice Forum C contemporanea ome preannunciato il numero scorso (cfr. VMeD 30, pp. 44), il World Venice Forum – svoltosi in laguna all’inizio di ottobre – ha avuto il suo imponente momento finale nella serata del 3, durante il concerto conclusivo presso la basilica dei Frari. Alla presenza di Premi Nobel Ma il punto certamente più emozionante è stato raggiunto con Of Flowers and Flames, la partitura videosonora ideata da Andrea Molino (cfr. VMeD 30, p. 45): la composizione ha toccato l’uditorio per la forza con cui suoni, immagini e movimenti (gli stessi strumentisti si spostavano per tutta la chiesa, creando negli ascoltatori momenti di autentico straniamento) hanno comunicato la tragedia dimenticata di Bhopal. Le melodie prodotte dal vivo si sono mescolate al Sarangi videoregistrato di Sarwar Hussein, alle inquadrature antinarrative di Federica Palmarin, alle parole che scorrevano veloci sui due schermi in cui era articolata la visione. Il tutto in un crescendo parallelo che mescolava il senso della vista a quello dell’udito, provocando un contraccolpo emotivo che non si esauriva – fortunata- Il concerto ai Frari (foto di Gabriela Morales e Shirin Amini) mente – nell’autocompiacimento così frequente nello spettae personalità della cultura e della politica provenienti da tuttore. Molino ha infatti mantenuto le promesse della vigilia, rito il mondo – qui si citano almeno Adolfo Pérez Esquivel, uscendo a costruire un insieme dove le diverse forme espressipresidente dell’Accademia di Scienze ambientali, e il presidenve non si «accompagnavano» vicendevolmente, ma al contrate vicario della stessa Accademia Antonino Abrami, che hanrio si compenetravano e si fondevano in una creazione autono preso la parola in quella circostanza – l’Orchestra del Teanoma e indistinta. A introdurre il lavoro sono state poche, sentro La Fenice, ottimamente diretta da Andrea Molino, ha dato tite parole di Niccolò Fabi, che ha voluto essere presente nella vita a un programma molto variegato, che ha accostato in più veste di voce narrante: con alcuni stilizzati riferimenti storici casi sonorità antiche e cadenze contemporanee. Dopo il sugha ricordato il felice scorrere dei giorni nell’Occidente dei prigestivo esordio con The Unanswered Question di Charles Ives, il mi anni ottanta, tra partite di calcio e avvento del pop, menpubblico ha potuto apprezzare la Canzone a tre cori di Giovanni tre a molti chilometri di distanza duemila persone perdevano Gabrieli nella trascrizione di un maestro come Bruno Maderla vita in pochi minuti per la fuga na, seguita da un altro componidi un agente chimico portato fin mento di Gabrieli e dalla prima lì dallo stesso Occidente. Dopo esecuzione assoluta dell’Adagio Of Flowers and Flames questa concisa premessa, il dramn. 2 per flauto e orchestra di Salvatoconcerto multimediale di Andrea Molino ma di queste persone, e di chi è re Sciarrino. Il programma è poi creato in occasione del XXV anniversario in qualche modo sopravvissuto, continuato senza altre interruziodel disastro di Bhopal ha preso la forma di quei volti e la ni, lasciando forse un po’ spiazesecutori Sarwar Hussein, solo Sarangi (video); sostanza di quelle note pungenti. zata la maggioranza degli spettaOrchestra del Teatro La Fenice di Venezia; Andrea Molino, direttore La chiusura ha visto protatori, e ha spaziato dal Libris Solar video Andrea Molino, concezione e direzione artistica; gonista la Toccata monteverdiaper voce e orchestra di Jennifer WalFederica Palmarin, regia e direzione della fotografia; na cui si accennava poc’anzi, she alla libera (e magnifica) traGiuseppe Drago, camera; degna conclusione di un evenscrizione della Toccata d’apertura Veronica Velasquez, montaggio e postproduzione; to musicale di rilievo, cui è sedell’Orfeo di Monteverdi firmata Raoul Girotto, produttore esecutivo guita la cena a inviti offerta dal da uno dei più affermati compoIl video di Of Flowers and Flames è stato realizzato Casinò di Venezia nella sede di sitori italiani, il veneziano Claucon il sostegno della Nazionale Italiana Cantanti Ca’ Vendramin Calergi. (l.m.) ◼ dio Ambrosini. e dell’Associazione Umanità senza Confini. La perenne novità del mito di Prometeo Intitolato al titano il progetto dell’Agimus Venezia P di Marco Del Monte rometeo torna a Venezia con il suo dono. Questa volta tutto avviene in forma di progetto per iniziativa della sezione veneziana dell’Agimus (Associazione Giovani Musicisti) che ha inaugurato martedì 20 ottobre la sua stagione con il primo degli incontri di un denso palinsesto che prevede esecuzioni di opere prime di giovani compositori ma, anche, proposizione di brani noti, performance ed estratti di pièce per poi concludere il 7 dicembre con un convegno internazionale di Filosofia della Musica presso l’Ateneo Veneto dal titolo Harmonia mundi. Anima, spazio e corpo sonoro nella musica del XX e XXI secolo. La serata del 20 ottobre (foto di Marco Del Monte) Prometeo torna dopo che Luigi Nono lo aveva evocato nella sua omonima “tragedia dell’ascolto” del 1984. E torna riportando le arti a quel dialogo originario, al magmatico entusiasmo di compresenza delle diverse tecniche di espressione. Il Progetto Prometeo si rivolge ai giovani musicisti, un po’ perché è la finalità stessa dell’Agimus, un po’ perché, semplicemente, non potrebbe essere altrimenti; da loro riceve freschezza, slancio sperimentale, libertà compositiva. E a loro Prometeo dona la possibilità di un’esperienza diretta di lavoro con esecutori di affermata professionalità, palcoscenici prestigiosi – le Sale Apollinee della Fenice e il Centro Candiani di Mestre –, l’incontro e il confronto con giovani venuti dai conservatori di Vienna, Varsavia e New York e l’esperienza di un corso di preparazione tenuto dal maestro Riccardo Vaglini propedeutico a metabolizzare quel presupposto capace di rappresentare al contempo continuità e nutrimento alla sperimentazione pluridisciplinare: l’esperienza, appunto, del sodalizio tra Luigi Nono ed Emilio Vedova. Il progetto iniziale che Letizia Michielon, direttore artistico dell’Agimus, perseguiva era quello di irradiarsi fino a oltreoceano, di far vivere ai ragazzi selezionati nei conservatori del Veneto un confronto internazionale e proporre nuovamente Venezia quale punto di partenza di un viaggio formativo. «Ma, proprio come quando si crea un’opera, è stato bellissimo veder crescere ed arricchirsi spontaneamente la partecipazione fino a permetterci di presentare un programma simile» dice la Michielon. L’iniziativa non solo ha raccolto la lusinghiera adesione di ottimi esecutori, della soprano Livia Rado e di Paolo Puppa come interprete delle sue stesse pièce teatrali, ma anche quella della Fondazione Vedova e della Fondazione Nono, che ha inoltre curato la mostra «Nono –Vedova: immagini dell’archivio Luigi Nono». Il primo appuntamento, ha già dimostrato la validità del progetto interessando per la varietà e qualità delle opere. Sono state atmosfere di attesa e momenti di furori espressivi, dialoghi con voci fuori scena, suoni estratti ai ponti degli strumenti oppure ottenuti dalle percussioni più impreviste; il tutto a conferma di una «officina Nono» che offre alle ultime generazioni la sua perenne contemporaneità. Da questa prima esperienza, e da quello che si può immaginare dal programma, sono molti gli argomenti che si potrebbero affrontare per costruire rif lessioni a cominciare dal rapporto suono-immagine. Il rapporto parolamusica, invece, è già stato delineato con chiarezza dall’intervento di Paolo Puppa. Sappiamo come Nono affrontasse l’Opera con l’intenzione di dare alla musica un ruolo di assoluta centralità. Ne è prova l’esperienza di Intolleranza 1960, presentata alla Biennale Musica del 1961, e l’incomprensione con Angelo Maria Ripellino, librettista dell’opera, che vedendo il proprio lavoro stravolto dai tagli e scomposizioni apportate dal maestro il 28 febbraio scriveva al direttore del Festival: «Ho avuto modo di costatare con somma amarezza che del libretto da me scritto per l’opera di Luigi Nono è rimasto solo qualche verso sparuto che, isolato dal suo contesto, non ha ormai alcun valore verbale». Precedente raccolto da Massimo Cacciari, che nel comporre il libretto per il Prometeo ricorrerà a una selezione dalla costellazione di testi attorno al tema. Testi di Eschilo, Goethe e di Cacciari stesso secondo un processo rinnovato in Vision, contributo di Letizia Michielon eseguito il 20 ottobre. Così Paolo Puppa, oltre a partecipare al brano della Michielon, propone il suo dittico di Maria e Giuseppe estratto da Parole di Giuda e altri frammenti che si legano sapientemente al tema di Prometeo nell’evocare l’idea dell’amore per l’uomo fino al sacrificio di se stesso ma, anche, il costo di un dono carico di conseguenze. Un palinsesto di avvenimenti che stimolano la partecipazione e dai quali ci auguriamo di veder nascere l’imprevedibile. (Per informazioni: www.agimusvenezia.it) ◼ contemporanea contemporanea — 51