MASSIMO TOMÌO Il Profumo del Repìnto ROMANZO Il profumo del Repìnto © Massimo Tomìo 2011 [email protected] [email protected] Avvertenza I fatti ed i personaggi di questo romanzo sono immaginari, con qualche riferimento reale. I luoghi sono reali, con qualche riferimento immaginario. PARTE PRIMA Venerdì 27 aprile 1945 A l maggiore delle SS Ulrich Greifhügel non era mai capitato di provare un simile stato di agitazione: sudava freddo, gli tremavano le mani, il cuore gli batteva all‟impazzata e la bocca dello stomaco era stretta da una morsa invisibile. Il messaggio che aveva appena ricevuto da Berlino avrebbe dato una svolta imponente alla sua vita, ma non aveva ancora ben compreso se in positivo o in negativo. Il tono della voce di Wilhelm aveva contribuito ad aumentare l‟ansia, trasferendogli parte della tensione dell‟amico. Quale responsabile della sicurezza di Castel Labers aveva libero accesso alla sala radio e comunicazioni. Vi si era recato pochi minuti prima delle ventitré ed aveva mandato il caporale di turno a fumarsi una sigaretta. Non era stato facile convincerlo. Il caporale era appena arrivato a Merano ed era al suo primo incarico operativo; inizialmente era rimasto alquanto sorpreso dalla richiesta del maggiore, poi, visto che il turno era ancora lungo, aveva acconsentito e, data la stazza, si era rumorosamente alzato dalla sedia ed era finalmente uscito dalla sala radio. Alle ventitré precise il maggiore aveva cambiato la frequenza della radio ed era rimasto pazientemente in ascolto. Il venerdì prima non c‟era stata nessuna trasmissione, quindi si augurava che questa fosse la volta buona. Poco dopo una voce, che riconobbe immediatamente essere quella del suo amico, il maggiore Wilhelm von Rippenburg, gracchiò nell‟altoparlante. Il messaggio era composto da una serie apparentemente priva di significato di lettere che il maggiore si affrettò a trascrivere. Wilhelm stava trasmettendo più velocemente del solito, come se avesse fretta di concludere la comunicazione: ad un certo punto disse solamente fine, la comunicazione cessò e la radio tornò a gracchiare. Proprio mentre stava risintonizzando la radio sulla frequenza corretta si aprì la porta, ed il caporale rientrò. Il maggiore Greifhügel temette per un momento di essere stato scoperto, ma fortunatamente il caporale non si era accorto di nulla. Certo, se avesse fatto qualche domanda imbarazzante lo avrebbe potuto zittire facilmente, ma si sentiva in colpa e avrebbe preferito non avere discussioni con un sottoposto appena arrivato. Per quanto ne sapeva poteva es- 4 sere un infiltrato della Gestapo. Non sopportava quei boriosi spioni, che più di una volta avevano cercato di interferire con il suo lavoro. «Novità signor maggiore?» chiese rientrando. «No, tutto a posto» rispose. Uscì dalla sala radio in tutta fretta, cercando di non incrociare lo sguardo del caporale e, tentando di ricomporsi, attraversò il lungo corridoio, salì le scale che conducevano dal sotterraneo al piano terra sbucando finalmente nell‟atrio principale senza incontrare nessuno. Nonostante non ne avesse la minima voglia - l‟unica cosa che voleva era raggiungere al più presto la sua stanza al secondo piano - pensò fosse meglio non cambiare le abitudini serali: doveva effettuare il solito giro d‟ispezione. Il vice comandante delle guardie, il tenente Trimmel, da buon ufficiale delle SS si sarebbe di certo insospettito se non lo avesse visto arrivare. Attraversò il salone al piano terra, fece un cenno alla guardia che si affrettò ad aprire il portone e si ritrovò nel cortile esterno del castello, dove lo accolsero una raffica di vento e la voce del tenente che urlava «Heil Hitler!» Ci mise un po‟ a capire quale delle due fosse la più gelida, poi rispose al saluto tendendo, ma non troppo, il braccio destro verso l‟alto e biascicando un «Sieg Heil» non troppo convinto. L‟aria della notte era ancora invernale, nonostante fosse oramai la fine di aprile: il tempo non prometteva niente di buono per i giorni successivi. Scambiò alcune parole di circostanza con il tenente, gli augurò una buona nottata e si congedò con un «Heil Hitler!» decisamente più robusto del precedente. Salendo le scale, fregandosi le mani l‟una con l‟altra per scaldarle, stava ripensando al messaggio di Wilhelm: il foglio con la trascrizione gli bruciava in tasca. Avevano ideato un sistema di trasmissione durante un loro incontro avvenuto alla fine dell‟estate del ‟44 a Berlino. Wilhelm era il responsabile del servizio cifratura al Ministero della Propaganda. Già a quel tempo l‟evolversi della guerra era incerto: la Wehrmacht incominciava a cedere su vari fronti dopo gli sbarchi degli alleati, prima in Sicilia nel ‟43 e poi in Normandia nel ‟44. Avevano pensato, potendo disporre entrambi di un apparecchio radiotrasmittente di dimensioni limitate ma di grande potenza - l‟AFU - che consentiva di comunicare da ogni parte d‟Europa, di creare un semplice codice ed un sistema di trasmissione che avrebbe loro permesso di scambiarsi brevi messaggi sull‟evolversi della situazione senza correre il rischio di essere additati come disfattisti o, peggio, come traditori. La trasmittente di Wilhelm aveva smesso di funzionare e non era stato in grado di farla riparare, così era costretto ad utilizzare la radio del castello. Il tutto era però reso sicuro dal fatto che i messaggi venivano crittografati con Enigma; solamente chi conosceva la giusta impostazione dei rotori era in grado di decodificare il messaggio. 5 Erano amici dai tempi dell‟Accademia militare di Bad Tölz ed in varie occasioni si erano vicendevolmente tolti dai guai e dal rischio di una possibile espulsione; la loro amicizia era superiore alla devozione verso il Reich e pensavano che non ci fosse nulla di male a cercare di salvare la pelle se le cose si fossero messe veramente male. Ulrich Greifhügel si stava avvicinando ai trent‟anni, ed aveva ancora l‟aspetto di un sano e robusto ragazzone biondo e ben piantato, cresciuto a patate e crauti. Proveniva da una famiglia bavarese modesta e di sani principi, che alla sua nascita conduceva un discreto tenore di vita grazie all‟impiego del padre, un funzionario ministeriale. Con la grande crisi del ‟23 la situazione economica era però diventata insostenibile, e la famiglia si era trovata sull‟orlo della povertà. Furono anni nei quali era difficile persino procurarsi il pane, ma suo padre e sua madre erano riusciti, pur con grossi sacrifici, a far studiare tutti e cinque i figli. Nonostante la situazione precaria, suo padre era rimasto dell‟idea che tutti i suoi figli avrebbero dovuto avere un‟istruzione adeguata se volevano sperare in un futuro migliore di quello che la sorte gli aveva riservato sino a quel momento. Sua madre, una donna minuta che lui ricordava da sempre con i capelli grigi, si era adattata a lavorare come sguattera nelle cucine della tenuta del conte von Reheweide, un ricco possidente dell‟Alta Baviera. Nei periodi liberi dalla scuola Ulrich contribuiva alle esigue entrate della famiglia prestando servizio come aiuto stalliere nelle scuderie della tenuta. Riusciva a trattenere per sé qualche marco dal magro salario che gli passava il conte, ed il sabato sera si recava con un gruppo d‟amici a Monaco. Andavano in una birreria del centro per ascoltare i discorsi dei camerati delle SS, che parlavano della grandezza di Hitler, di nazionalismo, di una nuova Germania, fondata sull‟affermazione del primato razziale del popolo tedesco e sull‟antisemitismo. Spesso lo stesso Hitler partecipava alle riunioni: allora non immaginava di certo che quell‟uomo, capace con un gesto di ipnotizzare il pubblico, sarebbe stato sia il fautore dei suoi successi, sia la causa della sua rovina. Così era riuscito, tra crescenti difficoltà, ad ottenere un diploma di perito tecnico. Poi nel ‟34 si era presentata quella che aveva considerato la più grande occasione della sua vita: a Bad Tölz, proprio vicino a casa sua, sarebbe stata inaugurata una scuola militare. Un‟Accademia che avrebbe formato i nuovi ufficiali delle SS. Ulrich non aveva perso tempo e si era iscritto alle selezioni: avrebbe potuto far parte di quel gruppo di soldati che aveva sempre ammirato. Non solo: li avrebbe addirittura comandati. Poteva finalmente contribuire al futuro della Germania. Aveva passato notti insonni sui libri per studiare per l‟esame e quando fu ammesso era al settimo cielo. Finalmente aveva un‟occasione, e che occasione, per dimostrare 6 a tutti quanto valeva. Quando arrivò a Bad Tölz si rese ben presto conto che tutti gli altri allievi, ad esclusione di qualche rara eccezione, provenivano da un mondo che lui aveva visto solo dalle cucine di una tenuta di campagna: la maggior parte non faceva altro che lamentarsi della scarsa qualità del cibo, della scomodità dei letti e del fatto che al mattino la sveglia suonava troppo presto. A lui sembrava invece di essere in un albergo a cinque stelle: riusciva a mangiare abbondantemente tre volte al giorno, aveva un letto con un materasso di lana e vere lenzuola, e non un pagliericcio come a casa, e dormiva almeno due ore in più ogni notte. La cosa che però lo entusiasmava più di tutte era quella splendida divisa da cadetto delle SS che gli avevano consegnato appena arrivato, insieme a tutto il corredo e all‟attrezzatura militare. Gli calzava a pennello, tanto da sembrare fatta su misura da un sarto. La domenica durante la libera uscita gli sguardi pieni d‟ammirazione delle giovani balie al parco, che spingevano le carrozzine con dentro bambini urlanti, lo facevano sentire già generale e non semplice allievo. Legò quasi subito con un altro allievo che, pur provenendo da una nobile famiglia d‟antiche tradizioni prussiane, aveva sempre frequentato, trovandoli più divertenti e genuini dei figli delle amiche di sua madre, i contadini ed i lavoratori della tenuta di famiglia, che era il più grande allevamento di bestiame di tutta la Baviera. Si era dovuto arruolare, pur non avendone nessuna voglia, per via di una faccenda che sembrava tratta da un feuilleton. Una sera dopo un paio di boccali di birra Wilhelm si era confessato con Ulrich: era corso dietro alla sottana della figlia quindicenne del fattore, ma giuro ne dimostrava almeno venti aveva detto alzando la mano destra ed aveva avuto quello che, con un sorriso sornione sulle labbra, aveva definito un piccolo incidente sul lavoro, con il risultato che la ragazzina si era ritrovata incinta e senza più alcuna possibilità di trovare un lavoro ed un marito. Fortunatamente il vecchio nonno aveva messo mano al portafogli ed era riuscito a placare le intenzioni omicide del fattore nei confronti della figlia e del futuro duca. Con un generoso intervento finanziario aveva chiuso la questione e si era impegnato, quando la ragazza avesse avuto l‟età giusta, a trovarle un marito. A quel punto il vecchio duca aveva deciso che per Wilhelm la cosa migliore era sparire per un po‟ dalla vista del fattore, e lasciare che le acque si calmassero. Aveva quindi scelto una soluzione che, parole del duca Ti terrà lontano da quella sgualdrinella, forgerà il tuo carattere turbolento e soprattutto t’insegnerà a mantenere le distanze dalla plebaglia! Arrivavano da educazioni e mondi completamente diversi, ma nello stesso tempo avevano delle affinità che facevano sì che s‟intendessero all‟istante, e da subito 7 diventarono inseparabili, fra lo scherno degli altri, che li deridevano perché non partecipavano alla vita sociale del gruppo, che si esauriva nella ricerca di qualche attempata prostituta in paese durante le rare libere uscite del sabato sera dopo un paio di boccali di birra sempre troppo calda e troppo annacquata. Il momento più emozionante era venuto quando avevano giurato fedeltà a Hitler ed alla patria nella Feldherrnhalle a Monaco la sera del 9 novembre 1934. Alle dieci di sera precise - nell‟ora in cui in quello stesso luogo nel 1923 era iniziato il putsch che aveva dato il via all‟avvento del nazionalsocialismo in Germania - alla luce delle sole fiaccole che circondavano la piazza, avevano giurato fedeltà al Führer. Poi con le lacrime agli occhi per l‟emozione, Wilhelm lo aveva abbracciato e gli aveva giurato che mai avrebbe permesso a qualcuno di interferire nella loro amicizia, che non sarebbe mai stata messa in discussione, neanche dagli interessi della patria o di chicchessia. Ulrich aveva ricambiato la promessa, ed aveva capito che, per quanto fosse convinto della validità degli insegnamenti che gli erano stati impartiti a Bad Tölz, nulla valeva più dell‟amicizia con Wilhelm. Ora Wilhelm stava tenendo fede al suo giuramento, doveva aver rischiato molto per inviargli quel messaggio e Ulrich si stava augurando di poterlo riabbracciare al più presto e di prendersi una colossale sbronza insieme, come ai vecchi tempi. Ancora preso dai ricordi entrò nella stanza, accese la luce e prese dal comodino la copia del Mein Kampf che il Führer gli aveva personalmente consegnato tre anni prima. Aprì il libro e rilesse la dedica scritta di proprio pugno dal Führer “Meine Ehre 1 heisst Treue” , la firma di Hitler e sotto le parole “Sieg Heil”. Quel motto era stato l‟orgoglio di tutte le SS e non solo degli ufficiali, che lo avevano inciso sulla daga che portavano nelle cerimonie ufficiali e nelle parate. Lo stesso Hitler lo aveva creato per loro, ed era stato motivo di immensa esaltazione per il Reichsführer Himmler. Per molto tempo era stato fermamente convinto del significato di quelle parole e del fatto che rispecchiassero in pieno il suo carattere: sarebbe stato pronto a morire in qualsiasi momento se ciò fosse servito a salvare il Führer o la Germania, ma ora nella sua mente incominciavano ad insinuarsi dei dubbi. Ripensò di colpo agli avvenimenti che l‟avevano portato a ricevere quel dono prezioso dalle mani del Führer. Era il febbraio del 1942, all‟epoca si trovava a Roma, all‟ambasciata germanica, con l‟incarico di attaché militare. Era anche accreditato presso il quartier generale dell‟esercito italiano. Un incarico noioso ed insignificante: fungeva da ufficiale di collegamento, ma gli italiani, pigri ed indolenti, cercavano solamente di sfruttare la loro posizione per il proprio tornaconto 1 8 Motto delle SS, il cui significato è: Il mio onore è la fedeltà (N.d.A.). lavorando il meno possibile. Un giorno gli fu consegnato un ordine scritto proveniente da Berlino che gli ingiungeva di recarsi immediatamente all‟aeroporto; lì si sarebbe imbarcato su un aereo. L‟ordine non specificava altro. Uscì dal comando e salì su una macchina che lo stava aspettando. Arrivato all‟aeroporto trovò ad attenderlo sulla pista, con i motori accesi, uno Junkers 52/3m della Luftwaffe che aveva paralizzato il resto del traffico aereo. Sembrava un grosso uccello pronto per spiccare il volo, con i tre motori che rombavano all‟unisono, appoggiato sulla piccola ruota sotto al timone di coda e con il muso puntato verso l‟alto. Solo i generali avevano il privilegio di utilizzare un aereo per questioni di servizio, ed in più scoprì, appena salito a bordo, di essere l‟unico passeggero. Cominciò a pervaderlo una certa tensione, che continuò a crescere per tutto il volo, che sarebbe durato tre ore e mezza. Da quando era salito non aveva percepito la presenza di altre persone sull‟aereo, esclusa ovviamente quella del pilota e del suo secondo, che lo aveva a malapena salutato quando si era arrampicato sulla scaletta per entrare, sparendo subito nella cabina di pilotaggio. Non aveva potuto chiedere dove erano diretti e la cosa gli dava fastidio: per quanto fosse sempre pronto ad eseguire agli ordini che riceveva, non gli piaceva essere trattato come un pacco. Lo Junkers 52/3m era il suo aereo preferito; i piloti lo avevano soprannomi nato Tante Ju - zia Ju. Da lontano era bellissimo: il colore argenteo lo faceva scintillare al sole come uno specchio ed il contrasto con i motori scuri appariva ancora più marcato. Da vicino, almeno inizialmente, tradiva un po‟ le aspettative: l‟alluminio ondulato della fusoliera e delle ali assomigliava a quello delle baracche ed il muso, con il terzo motore centrale, gli aveva sempre ricordato quello di un‟anatra con il becco mozzato. Ma erano particolari ai quali si era affezionato e che rendevano l‟aereo unico nel suo genere, diverso dai banali bimotori e dagli esagerati ed ingombranti quadrimotori americani. Vanto dell‟aviazione germanica, civile prima e militare poi, era un apparecchio che si adattava a molteplici usi e scopi. Quello sul quale era appena salito era la versione g8e, la più recente, equipaggiata con un sistema di autopilota tra i più innovativi ed efficienti che l‟aviazione mondiale avesse sino ad allora montato su un aereo. Il colore argento era stato ricoperto, per ovvi motivi mimetici e tattici, da un fondo di verde scuro ed opaco, sul quale erano state disegnate delle chiazze irregolari in varie tonalità di marrone. Pur essendo chiaramente un aereo da trasporto e non da combattimento, per il quale era sicuramente poco maneggevole, era dotato di un armamentario di tutto rispetto: una mitragliatrice MG 131 era sistemata nella parte alta dorsale della fusoliera. In caso d‟attacco poteva essere un ottimo deterrente per gli aerei nemici. L‟unico ad avere qualche difficoltà poteva essere il mitragliere, costretto a volare all‟aperto riparato 9 solamente da un piccolo parabrezza, ma gli uomini della Luftwaffe erano temprati e pronti ad ogni sacrificio per servire il Reich. Si era seduto in seconda fila sul lato destro in modo da poter osservare il panorama senza che l‟ala intralciasse la vista. Con l‟aereo fermo non vedeva assolutamente nulla, se non l‟azzurro del cielo. Appena seduto l‟aereo iniziò a rullare pigramente sulla pista, poi il pilota diede tutta manetta, lanciando i motori al massimo. In breve la coda si sollevò in posizione orizzontale e l‟aereo prese dolcemente quota. Uno dei grossi vantaggi della Tante Ju era quello di riuscire a decollare e, soprattutto, ad atterrare su piste cortissime ad una velocità estremamente ridotta: a parità di capacità di trasporto e di autonomia di volo non aveva rivali in questo campo. Un capitano della Luftwaffe gli aveva spiegato, durante una bevuta di birra, che erano sufficienti 400 metri di pista per decollare ad una velocità di 65 nodi e 350 metri per atterrare, ma che lui era riuscito ad atterrare in 225 metri con l‟aereo ad un passo dallo stallo, ed a decollare in 375 metri, con un leggero vento contrario che lo aveva aiutato. La velocità massima era di tutto rispetto: 130 nodi che si riducevano a 100 in crociera. Con una capacità dei serbatoi di 2.500 litri aveva un raggio d‟azione di 1.200 chilometri in 6 ore di volo. Aveva capito, subito dopo il decollo, che lo Junkers stava puntando verso nord. Lo spettacolo era inebriante, almeno si sarebbe goduto quello. Conosceva abbastanza bene l‟Italia, non solo dal punto di vista culinario - andava matto per tutti primi, apprezzando in modo particolare i bucatini alla matriciana ed il risotto ai frutti di mare - ma anche da quello geografico, per riconoscere molti dei luoghi che stavano sorvolando. Ad un certo punto, dopo aver bucato un gruppo di nuvole, si era trovato ad avere a destra il mare Adriatico, a sinistra il mare Tirreno, con la sagoma montuosa della Sardegna riconoscibile all‟orizzonte, e l‟Appennino in basso. Dopo aver sorvolato Firenze e Bologna, dalla cabina uscì il secondo pilota, che gli disse con il tono che era più quello di un ordine, di indossare la maschera ad ossigeno. Ciò stava ad indicare che sarebbero saliti di quota: l‟aereo era in grado di volare sino ad altezze di oltre 5.000 metri, ma non essendo pressurizzato di solito si manteneva di poco al di sopra dei 3.000. Quindi avrebbero oltrepassato le Alpi; pensò che forse erano diretti a Berlino. L‟intervento del secondo pilota lo aveva distratto e non era riuscito a capire se l‟aereo continuasse il volo in direzione nord, o piuttosto verso nord-ovest o nord-est, cosicché quando sorvolarono le Alpi, non sapeva se stavano navigando verso l‟Austria, la Svizzera o addirittura la Francia. Dopo circa mezz‟ora, durante la quale la temperatura all‟interno dell‟aereo si era abbassata vertiginosamente, riconobbe la vallata di Innsbruck ed individuò la città quando furono sulla sua verticale. Continuarono a volare in direzione nord-est e scendendo di quota gli apparvero paesaggi ancora più familiari, anche se dall‟alto 10 erano molto diversi che da terra. Ormai ne era sicuro: stavano sorvolando il Tegernsee. Dopo una decina di minuti scorse sulla destra il perimetro inconfondibile del Chiemsee, con la Herreninsel, il castello di Ludwig - il Herrenchiemsee - ed i suoi giardini che si ispiravano come il castello alla Reggia di Versailles. Sentì un nodo alla gola. Era da molto, troppo tempo, che non faceva visita ai suoi genitori. Aveva ricevuto alcune lettere da sua madre, che si diceva preoccupata per la sorte dei suoi fratelli. Tre erano impegnati in prima linea sul fronte russo, dal quale per fortuna giungevano notizie confortanti. Le aveva scritto nella risposta che per gli ufficiali la guerra non era poi così pericolosa come per i militari di truppa. Per quanto riguardava Hermann, non aveva di che preoccuparsi, oramai era diventato un pilota esperto e quasi un eroe nazionale: il mese prima, a soli 22 anni, era stato promosso tenente e decorato con la Croce di Cavaliere dell'Ordine della Croce di Ferro per aver abbattuto il cinquantesimo aereo nemico. Si trovava da qualche parte in Africa e le comunicazioni erano molto difficili, anche per lettera. Ma Hermann era un vero asso dell‟aviazione; inoltre sapeva tutto sugli aerei, sulle loro caratteristiche e prestazioni. Un po‟ lo invidiava: da quando aveva provato l‟ebbrezza del volo aveva un leggero rimpianto, ma si era consolato con il fatto che se fosse stato un pilota sarebbe stato probabilmente in prima linea a combattere. Non che fosse un codardo, ma non era mai stato smanioso di partecipare attivamente alle operazioni belliche agli ordini di qualche invasato. E poi anche lui contribuiva allo sforzo del Reich, forse non in quel preciso periodo - al momento non vedeva alcuna utilità nel suo lavoro all‟ambasciata a Roma - ma in fin dei conti era stato tra i migliori del suo corso a Bad Tölz, e presto o tardi se ne sarebbero ricordati anche a Berlino. I pensieri lo ricondussero a Hermann che gli aveva insegnato i primi rudimenti del volo a bordo di uno Junkers 87, lo Stuka da combattimento. Lo aveva portato in quota e poi gli aveva lasciato i comandi, dicendogli Vediamo cosa sai fare. Ulrich si era spaventato a morte, ma con l‟aiuto del fratello era riuscito ad atterrare. La sua passione per il volo non si era mai sopita, anche se non vi erano state molte altre occasioni di salire a bordo di un aereo. Tornò alla realtà quando l‟aereo effettuò una virata a destra. Si sarebbe aspettato che proseguisse verso nord, atterrando eventualmente a Monaco per uno scalo tecnico; se l‟aereo, com‟era logico immaginare, era diretto a Berlino, avrebbero avuto bisogno di fare rifornimento. Era curioso di vedere Monaco dall‟alto, avrebbe potuto riconoscere molti palazzi e strade, la visibilità era ottima. Nel frattempo aveva chiaramente capito che l‟aereo aveva iniziato la manovra d‟avvicinamento ad un aeroporto: il rombo dei tre motori era diminuito e la sensazione che il muso stesse puntando verso il basso si era trasformata in certezza quando le strade e le case erano diventate nuovamente ben distinguibili. Ogni tanto era necessaria una 11 breve correzione alle leggere imbardate che facevano vibrare tutta la struttura e gli causavano un leggero mal d‟aria. Non trascorse molto tempo, forse una decina di minuti, durante i quali il pilota picchiava per poi stabilizzare l‟aereo e farlo rallentare dalla velocità che aveva acquisito, quando sotto l‟aereo comparve la striscia grigia dell‟asfalto della pista: un impercettibile tocco, una leggera frenata e l‟aereo abbassò docilmente la coda. Si sarebbe aspettato che l‟aereo liberasse al più presto la pista e si dirigesse verso gli hangar o verso una zona parcheggio. Invece l‟apparecchio rullò poco oltre la metà della pista per poi fermarsi. A quel punto vide a bordo pista una macchina ferma. Il secondo pilota aprì il portellone, sistemò la scaletta e lo invitò con il solito tono brusco a scendere. Un tenente delle SS gli venne incontro, mentre lo Junkers era di nuovo in movimento. Si chiedeva in che aeroporto fossero atterrati. Nonostante non avesse nulla da temere, la sua fedeltà non era mai stata messa in discussione e non aveva mai agito in contrasto con gli interessi del Reich, iniziò seriamente a preoccuparsi. L‟ufficiale lo invitò a seguirlo ed a salire in macchina - una Volkswagen Kübelwagen Typ 82 senza contrassegni - con un‟autorità ed una fermezza che, essendo un suo subalterno, si sarebbe potuto permettere solo agendo su ordine ed al servizio di qualcuno veramente in alto. Si era seduto sul sedile posteriore della Volkswagen, mentre il tenente, un giovane biondo, dai lineamenti spigolosi e con due occhi di un azzurro liquido che lo avevano messo a disagio quando li aveva incrociati, aveva preso posto davanti. Con un cenno del capo ed un “Los” secco che sembrava un latrato, aveva ordinato all‟autista di partire. Questi non se l‟era fatto ripetere, e fra l‟ordine e lo scatto della macchina era trascorsa solo una frazione di secondo, segno che il motore era acceso, che la marcia era inserita ed il piede era pronto a premere sull‟acceleratore. Non lo aveva sentito per via del rombo dello Junkers che in quel momento stava passando proprio alle loro spalle ed aveva appena sollevato le ruote da terra. La Volkswagen si diresse a tutta velocità verso il cancello d‟uscita dell‟aeroporto, oltrepassò un posto di blocco senza rallentare e, una volta al di fuori dall‟area aeroportuale, svoltò a destra facendo fischiare le gomme sull‟asfalto. A quel punto seppe dove si trovava. Dall‟alto non era riuscito ad individuare il luogo esatto verso il quale l‟aereo stava puntando, ma la visione da terra gli aveva permesso di riconoscere che erano atterrati a Salisburgo: dall‟aereo non aveva visto la fortezza, che ora invece era apparsa alla sua sinistra, inconfondibile per colore, forma e dimensioni. Conosceva discretamente la città per via di una giovane austriaca, mora, soda e molto intraprendente, in compagnia della quale vi aveva trascorso una breve licenza alcuni anni prima. Sapeva, pur non essendoci mai stato prima di allora, dove era situato l‟aeroporto rispetto alla città. 12 Ma l‟autista non si stava dirigendo verso la città. Aveva svoltato a destra e stava puntando verso Berchtesgaden. Come mai stavano andando in Germania? E come mai in quella parte della Germania che era nient‟altro che una sacca di territorio del Reich circondata dall‟Austria, per quanto ormai era dal 1938 che l‟Austria era stata annessa alla Germania e dal 1939 che non esisteva più come stato sovrano. Chiese conferma di quanto aveva intuito al tenente, ma questi non si degnò di rispondere alle sue domande. Lo aveva semplicemente azzittito con uno sguardo che era sembrato una saetta. La Volkswagen viaggiava ad una velocità sicuramente eccessiva per le condizioni della strada, ma l‟autista riusciva lo stesso a pennellare le curve dimostrando esperienza e perizia non comuni, dovute non solo alla conoscenza approfondita del tracciato. Erano ormai giunti alle porte di Berchtesgaden, di cui di tanto in tanto intravedeva la sagoma del campanile a cipolla fra i fitti abeti e larici del bosco che assediava la strada. Dietro una curva secca a sinistra l‟autista fece ricorso a tutta la sua abilità per evitare il carico di legname, che un carro trainato da due buoi aveva perso e che occupava gran parte della carreggiata. Dapprima frenò bruscamente girando il volante verso sinistra: le ruote anteriori della Volkswagen si bloccarono e la macchina proseguì per la tangente avvicinandosi pericolosamente al bordo della strada; poi liberò i freni, consentendo così alle gomme di recuperare aderenza sul terreno, e la macchina riprese a curvare verso sinistra. Nel frattempo aveva scalato marcia: improvvisamente premette a fondo l‟acceleratore ed altrettanto repentinamente frenò di nuovo. La macchina aveva compiuto mezzo giro su sé stessa e si era fermata senza danni. I freni della Volkswagen erano stati messi a dura prova e lo stridore delle gomme aveva fatto voltare i tre uomini che stavano recuperando i tronchi sparsi sulla strada. Nel trambusto della manovra Ulrich era riuscito ad aggrapparsi ai due sedili anteriori ed a puntellarsi con le braccia assorbendo la frenata ed il testacoda senza conseguenze; il tenente, invece, distratto da chissà cosa, non fu altrettanto pronto ed andò a sbattere violentemente con la fronte contro la maniglia fissata sul cruscotto, alla quale avrebbe fatto meglio a tenersi ben saldo. Poi tutto accadde in un attimo: l‟autista, un gigante di due metri abbondanti con due spalle che lo facevano sembrare un armadio, aveva imbracciato un fucile FG42 in dotazione ai soldati delle SS sbucato fuori da chissà dove ed il tenente era rotolato fuori dalla macchina impugnando una fiammante Walther P38 d‟ordinanza. Se non fosse stato per Ulrich, che aveva capito che erano solo dei contadini e lo stava urlando ai due con tutta la voce che aveva in gola, li avrebbero prima fatti secchi e poi verificato chi erano e cosa era successo. A quel punto il tenente fece un cenno 13 all‟autista che mise via la mitragliatrice; imprecando contro i tre malcapitati risalì nella macchina, che ripartì in tutta fretta. Si girò e, dopo aver lanciato un ultimo insulto ai tre ancora fermi impalati in mezzo alla strada, gli chiese se fosse tutto a posto. Fu a quel punto che vide che il tenente sbattendo contro la maniglia fissata sul cruscotto si era procurato un taglio sulla fronte, che sanguinava copiosamente. Annuendo con la testa pensò: Ben ti sta, brutto stronzo, così impari a fare l’esaltato. Dopo alcune centinaia di metri la macchina svoltò a destra abbandonando la strada per Berchtesgaden per imboccare una carrozzabile che saliva sul fianco della montagna. Dopo alcuni tornanti giunsero ad un posto di blocco, che oltrepassarono senza alcuna difficoltà rallentando appena l‟andatura. Erano usciti dal bosco e davanti a loro si era aperta una radura. Ulrich aveva notato che sulla sinistra la strada era delimitata da una recinzione elettrificata all‟interno della quale si intravedevano numerose pattuglie di soldati. Poco dopo l‟autista si fermò davanti ad un doppio cancello che permetteva di accedere all‟interno della recinzione. Lì i soldati erano molto più numerosi ed il tenente scambiò alcune frasi di circostanza con un capitano che gli stava chiedendo della sua ferita, esortandolo a farsi medicare subito al posto di guardia. Il tenente lo trattò con ancora più sufficienza e tracotanza di quella che aveva riservato ad Ulrich, a conferma del fatto che, nonostante il suo grado, contasse molto in quella situazione. L‟autista stava sollecitando i soldati ad aprire i cancelli con uno schnell, schnell perentorio; non appena intravide un varco sufficiente a far passare la macchina senza strisciarla, partì sgommando. La strada era diventata stretta e si arrampicava sulla montagna con una serie di curve e controcurve, tornanti e brevi rettilinei, ma la velocità continuava ad essere ancora, a suo parere, troppo elevata. L‟aria fresca dovuta alla presenza del fitto bosco dava una sensazione piacevole, ma non riusciva a contrastare il malessere che lo aveva pervaso per quanto stava accadendo. Aveva ubbidito come sempre agli ordini senza porre obiezioni ed ora si trovava con due pazzi su di una macchina che percorreva a velocità folle una strada di montagna per condurlo chissà dove e, soprattutto, chissà da chi. Alla sua destra, molto più in basso, intravedeva ancora il paese di Berchtesgaden e più a sud lo specchio Königssee, mentre a sinistra, alcune centinaia di metri sopra di loro, dopo una parete quasi verticale s‟intuiva la cima della montagna. La macchina percorse alcuni chilometri attraverso il bosco. Ad un certo punto l‟autista rallentò prima di un tornante a sinistra, ingranò la prima e si accinse a percorrere con il motore della Volkswagen che urlava quello che da lì a poco si sarebbe rivelato l‟ultimo e soprattutto il più spettacolare tratto di quel capolavoro di ingegneria stradale: dodici tornanti strappati alla roccia viva che sbucavano in un terrazzo naturale dal quale si godeva un panorama mozzafiato sulla vallata sottostante. 14 La Volkswagen si fermò davanti all‟imbocco di una galleria scavata nella roccia che conduceva all‟interno della montagna. Sull‟ingresso campeggiavano ai due lati una svastica ed un‟aquila ed al centro la scritta 1939, segno che la galleria era di recente costruzione. Subito a destra dell‟ingresso vi era una palazzina per metà scavata nel fianco della montagna che, dato l‟andirivieni, doveva essere la sede del corpo di guardia. Aveva contato almeno quaranta soldati che si muovevano a gruppi di due. Ogni pattuglia aveva un cane: un dobermann o un pastore tedesco. Alcuni gruppi si stavano incamminando lungo un sentiero a destra del corpo di guardia, altri scendevano lungo la strada che aveva appena percorso in macchina, altri ancora stavano dirigendosi verso il lato opposto del piazzale rispetto al quale si trovava ed alcuni ne pattugliavano il perimetro. Notò, inoltre, che lungo il fronte del terrazzo che dominava la vallata erano state allestite delle postazioni ben mimetizzate con cannoni antiaereo e mitragliatrici pesanti. Il tenente che lo aveva accompagnato fece un cenno al caporale di guardia alla galleria, che aprì lo sportello della macchina. Ulrich scese, mentre il tenente rimase seduto senza curarsi di salutarlo. S‟incamminò all‟interno del tunnel, ben illuminato, ma nel quale l‟aria era stagnante ed umida: percorse un centinaio di metri seguendo la guardia ed arrivò in fondo alla galleria. Di fronte a lui vi era una grossa porta di ferro con altri due soldati di guardia insieme ad un pastore tedesco. La bestia era completamente nera e lo fissava ringhiando senza perdere d‟occhio ogni suo movimento. Sulla destra un ampio passaggio immetteva in uno spazio circolare, una specie di grotta con il soffitto a volta, dove si apriva una porta. Era una porta del tutto particolare; misurava almeno due metri di larghezza per due d‟altezza ed era composta di un telaio d‟ottone lucido con il bordo finemente decorato, che sosteneva degli specchi. La porta si aprì scorrendo lateralmente e rivelando la cabina di un ascensore. Un sergente gli fece cenno di entrare. La cabina era di dimensioni notevoli, larga almeno il triplo della grandezza della porta e lunga altrettanto. Sui tre lati liberi vi era una panca imbottita, foderata di pelle verde, sormontata anch‟essa da specchi bordati d‟ottone. Al centro del soffitto era inserita una plafoniera circolare che distribuiva una luce soffusa che dava al tutto un‟atmosfera quasi romantica, non fosse stato per il fatto che tutto intorno non vi erano altro che soldati e cani. La porta si chiuse con un soffio e la cabina iniziò a muoversi. Stava sicuramente percorrendo una sorta di condotto verticale scavato nella roccia. Trascorse circa un minuto e la cabina finì dolcemente la sua corsa, la porta si riaprì e si trovò di fronte un capitano delle SS che lo salutò, finalmente, in maniera cordiale e gli fece cenno di seguirlo. Oltrepassarono un robusto portone di legno sulla destra, ed attraversarono una stanza lunga, stretta e bassa, in tipico stile alpino, con il 15 pavimento di legno, le pareti anch‟esse rivestite di legno d‟abete ed il soffitto a cassettoni. In fondo vi era una porta a vetri, mentre dal lato sinistro la luce entrava da una serie di finestre, oltre le quali facevano bella mostra di sé le cime innevate delle Alpi intorno a Berchtesgaden. Il capitano aprì la porta a vetri ed entrambi scesero una decina di gradini che immettevano in un salone di forma ottagonale. Lo stile era completamente cambiato. Il salone aveva le pareti in blocchi di porfido a vista ed il pavimento di marmo chiaro. Sopra ad un enorme tappeto, nel centro del salone, vi era un tavolo rotondo con intorno una dozzina di ampie poltrone. Tutto era sovradimensionato in quella stanza: dall‟imbottitura delle poltrone all‟altezza del tappeto fino allo spessore dei muri esterni, larghi almeno un metro. Sotto ad ogni finestra trovavano posto due poltrone ed un tavolino. Nel grande camino in marmo verde, a destra della scalinata, ardeva un fuoco che diffondeva un piacevole tepore in tutto il salone. In fondo alla scalinata il capitano che lo accompagnava gli fece cenno di fermarsi e proseguì verso un uomo seduto al tavolo ed intento leggere. Non appena questi si voltò lo riconobbe: si trattava di Heinrich Himmler. Il Reichsführer scambiò con il capitano qualche parola a bassa voce, poi lo congedò, si alzò e si diresse verso di lui. «Capitano Greifhügel, Le dò il benvenuto a Kehlstein. Ho sentito molto parlare di lei!» Ulrich scattò sull‟attenti e, sbattendo i tacchi come gli era stato insegnato all‟Accademia, salutò il Reichsführer con un Heil Hitler da manuale. «Venga, venga, accomodiamoci da questa parte.» Ulrich non riusciva a capire come mai un uomo del calibro di Himmler gli si rivolgesse in maniera tanto amichevole, come se fossero stati vecchi compagni di bevute. Si accomodarono alla finestra a sinistra dell‟entrata. «I suoi meriti e le sue capacità sono giunti sino alle nostre orecchie caro Greifhügel: lei si è distinto in più di un‟occasione dando prova di essere senza dubbio il migliore nel settore delle comunicazioni. No, non m‟interrompa. Si chiederà come mai l‟ho fatta venire sino a qui. A proposito, sa con esattezza dove ci troviamo? No, bene glielo spiegheremo più tardi. Ora veniamo al perché lei si trova qui. Si tratta di un progetto della massima segretezza, che ci permetterà di dare il colpo di grazia agli inglesi. Non si tratta di un‟operazione che richiederà la sua presenza al di fuori dei territori del Reich o dei suoi alleati, e ci serve un uomo che abbia capacità organizzative e conoscenze nel campo delle trasmissioni e che, ovviamente, abbia dimostrato assoluta lealtà verso il Führer! Ritengo, ed il Führer condivide in pieno la mia scelta, che lei sia la persona giusta! Del progetto sono a conoscenza solo cinque persone in tutto il Reich, compreso naturalmente il Führer, 16 al quale riferisco io soltanto. Non posso, anche per il suo bene, darle altre informazioni, prima che lei accetti l‟incarico, e la avviso sin d‟ora che non ci potranno essere ripensamenti da parte sua. L‟unica cosa della quale posso metterla al corrente è che non le sto chiedendo di uccidere nessuno, anche se so che se fosse necessario non si tirerebbe indietro! Perciò prima di proseguire le chiedo se accetta l‟incarico ancor prima di venire a conoscenza dei dettagli, altrimenti la nostra conversazione finisce qui e lei potrà tornare immediatamente a Roma!» Himmler aveva parlato senza dargli il tempo di intervenire, ma Ulrich conosceva già la risposta. «Sono pronto ad eseguire senza discutere qualsiasi ordine mi vorrà dare, mantenendo la più assoluta segretezza» rispose, con un tono ed una sicurezza degna dei migliori ufficiali delle SS. Le parole gli uscirono in quel modo non tanto perché aveva imparato a rispondere con quella fermezza e decisione ai superiori. Egli era veramente convinto di quanto diceva, avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere e difendere la Germania e soprattutto per portarla alla vittoria finale. Il fatto poi che Himmler non gli avesse ancora rivelato alcun dettaglio e che il suo discorso fosse stato criptico era un fattore del tutto trascurabile. Avrebbe eseguito qualsiasi ordine del Reichsführer senza discutere per il semplice fatto che così gli era stato insegnato: Himmler non aveva bisogno di chiedere il suo parere o permesso per dargli un ordine. Il fatto che lo avesse comunque interpellato lo riempiva d‟orgoglio. Ciò voleva dire che la sua grande occasione era infine arrivata e non se la sarebbe di certo fatta fuggire. «Bene» proseguì il Reichsführer «proprio come mi aspettavo.» «Come Lei certamente saprà, stiamo cercando da anni un piano efficace che ci permetta di invadere la Gran Bretagna. Quello che invece non sa è che, al contrario di quanto sta sbandierando ai quattro venti il Ministro della Propaganda, non abbiamo ancora trovato una soluzione. Non abbiamo di certo bisogno di una nuova battaglia d‟Inghilterra. Stiamo cercando un piano alternativo che ci faccia risparmiare tempo, denaro ed anche la vita di qualche soldato. Le nostre fatiche sono però state premiate e credo di aver trovato un espediente che ci consentirà di annientare gli inglesi.» Ulrich stava seguendo interessato quanto gli stava raccontando il Reichsführer e, da uomo pratico quale era, era curioso di ascoltare la parte operativa del piano, non riuscendo ancora a capire quale potesse essere il proprio ruolo. «Non si preoccupi» proseguì il Reichsführer, «come le ho detto non ho intenzione di inviarla al fronte a combattere, quello che abbiamo in mente è un‟altra cosa. Vogliamo indebolire e portare al tracollo l‟economia inglese immettendo sul mercato monetario grandi quantità di sterline.» 17 Ulrich era allibito: Bella pensata, disse fra sé, regaliamo i nostri soldi agli inglesi che saranno ben felici di divertirsi alle nostre spalle. Fortunatamente trattenne per sé le sue perplessità e disse solamente «Non capisco come potrei rendermi utile, non m‟intendo d‟economia o di mercati monetari!» Il Reichsführer proseguì, facendo un cenno che lasciava intendere di non preoccuparsi. «Non le spiegherò ora i meccanismi economici che agiscono in questo particolare contesto, Le basti sapere che le sterline saranno false, ma ben fatte come le originali, e che le stamperemo noi. Lei si occuperà di ricevere le banconote, provvederà alla loro conservazione ed alla loro distribuzione secondo gli ordini che io ed il Führer le impartiremo personalmente. Tutto questo avverrà in una sede che abbiamo già individuato e della quale Lei sarà il solo ed unico responsabile sia dal punto di vista della sicurezza interna sia dell‟organizzazione generale e di tutto il personale, militare e civile!» «Sono pronto a prendere servizio immediatamente!» fu la risposta decisa di Ulrich, che non sapeva ancora perché, ma trovava il piano astuto. «Bravo Greifhügel!» disse il Reichsführer, «comincerà oggi, prendendo possesso della sede che abbiamo individuato per l‟operazione. Farà un sopralluogo e mi comunicherà direttamente di quanti uomini riterrà di avere bisogno per tutti i servizi. Tenga presente che la struttura dovrà essere organizzata in modo da essere autosufficiente e che l‟unica cosa che riceverete dall‟esterno con cadenza settimanale saranno i viveri. Ora sarà riaccompagnato all‟aeroporto di Salisburgo e da lì prenderà un aereo che la condurrà a Bolzano, da dove in automobile raggiungerà Merano. Domani mattina prenderà possesso di Castel Labers a Maia Alta e da quel momento inizierà ufficialmente l‟operazione. Renderà conto di tutto solo ed esclusivamente a me, e a nessun altro!» Dunque era Merano la sua destinazione. L‟idea di Merano era semplicemente geniale. Chi avrebbe mai immaginato che un luogo nel quale tutti gli alberghi, le scuole e soprattutto le caserme erano stati trasformati in ospedali militari, fosse stato scelto come base di un‟operazione destinata a cambiare il corso della guerra? A quel punto Himmler si alzò, subito imitato da Ulrich, e si diresse verso il lato opposto della stanza, facendogli cenno di seguirlo. «Venga, Le presento una persona.» Solo allora si accorse che non erano soli nel salone. Alla finestra opposta a quella dove erano seduti fino a quel momento un uomo stava guardando il panorama e gli voltava le spalle. Era in abiti borghesi, ma la bassa statura e la fisionomia non lasciavano dubbi: si trattava senza dubbio del Führer. In quel momento si voltò e 18 Ulrich, che era rimasto per un attimo impietrito, lo salutò con uno squillante Heil Hitler. Fu allora che il Führer gli consegnò il libro che teneva in mano. «Confidiamo nelle sue capacità maggiore, non ci deluda.» furono le sue parole. Ulrich, non voleva di certo contraddire il Führer e quanto meno fargli notare che aveva compiuto un errore, non riuscì però a trattenersi e rispose «Mein Führer, La ringrazio per la fiducia, ma non sono maggiore, sono capitano.» «Si sbaglia Greifhügel» fu la risposta secca del Führer, «da questo momento lei è un maggiore delle SS!» Himmler lo accompagnò personalmente sino all‟ascensore, raccontandogli in poche parole la storia di Kehlstein. Si trattava di un rifugio che il partito nazista aveva fatto costruire in soli tredici mesi e donato al Führer in occasione del suo cinquantesimo compleanno nell‟aprile del 1939. Il progetto era stato affidato a Bormann, dopo che era stata individuata la posizione del futuro rifugio: la cresta delle cime a sud-est di Berchtesgaden dalla quale si godeva un panorama incredibile che spaziava tutto intorno a 360 gradi, fin dove l‟occhio riusciva a vedere. Himmler avrebbe continuato a narrare delle magnificenze di Kehlstein per lungo tempo, ma il tragitto sino all‟ascensore non era lungo e vi giunsero dopo pochi minuti. Il Reichsführer lo accompagnò sino all‟entrata dove lo attendeva il tenente che lo aveva accompagnato dall‟aeroporto, ora con una vistosa fasciatura sulla fronte, e lo congedò calorosamente. Il tragitto sino all‟aeroporto fu meno movimentato che all‟andata ed in breve fu nuovamente in volo, con la copia del Mein Kampf tra le mani. Osservava il panorama sotto le ali argentee dello Junkers, che era tornato a Salisburgo per reimbarcarlo e che lo avrebbe portato a Bolzano, ancora come unico passeggero. Nella mente gli ronzava continuamente la stessa domanda: la sua promozione a maggiore era da considerarsi legata all‟operazione che era stato chiamato a dirigere, o ad una svista del Führer che aveva confuso il suo grado e vi aveva posto rimedio promuovendolo sul campo pur di non venire contraddetto? Da una parte era difficile pensare che il Führer avesse commesso un errore del genere, ma dall‟altra era anche vero che nessun ufficiale delle SS era stato promosso maggiore a venticinque anni, dopo neanche otto dal termine del corso a Bad Tölz. Era pur vero però che era stato il più giovane capitano del Reich, sia come età sia come anzianità di servizio. Se il Führer aveva deciso di promuoverlo nuovamente sul campo, la cosa a lui non dispiaceva per nulla, anzi lo rendeva euforico. Ora, tre anni dopo, aveva in mano lo stesso libro e pensava la medesima cosa. Probabilmente non avrebbe mai conosciuto la vera causa della sua promozione ma, 19 visto l‟evolversi degli eventi, la questione non aveva oramai più molta importanza. Aveva però capito che quello era stato l‟inizio della fine e che ora poteva confidare solo nelle sue forze e nella sua intelligenza se voleva tornare a casa vivo. Trasalì, i ricordi lo avevano distratto dal messaggio di Wilhelm. Aprì l‟armadio e ne estrasse una pesante valigia di legno che appoggiò sulla scrivania. La aprì delicatamente ed accese Enigma. Non lo sapeva ancora, ma averne una in dotazione sarebbe stata la sua salvezza e la sua maledizione. Doveva concentrarsi per decrittare il messaggio: il sistema che avevano ideato era di una banalità disarmante: sia Ulrich sia Wilhelm avevano una copia del Mein Kampf, e fin qui nulla di strano, tutti gli ufficiali delle SS ne possedevano una. Le loro appartenevano alla stessa edizione, quella che il Führer regalava personalmente, dal momento che anche Wilhelm era riuscito a procurarsene una uguale. Si erano innanzitutto accordati che, se fosse stato necessario, si sarebbero scambiati delle informazioni via radio ogni venerdì sera alle ventitré precise. Avevano concordato anche la frequenza radio sulla quale sarebbero avvenute le trasmissioni: avrebbero iniziato con quella riservata a Castel Labers incrementata di quindici gradi ed ogni settimana, per sei volte, avrebbero aumentato la frequenza di cinque gradi, per poi tornare a quella iniziale e da quella ripartire con gli incrementi. I messaggi sarebbero stati prima crittografati con la macchina Enigma e, per evitare che qualcuno individuasse anche solo casualmente la chiave del cifrario, avevano deciso che l‟avrebbero modificata ogni volta: erano partiti dal titolo del primo capitolo del Mein Kampf, poi il secondo e così via. La chiave di quella sera era quasi uno scherzo del destino: il titolo del capitolo era: Deutsche Bündnispolitik nach dem Kriege. In esso Hitler illustrava la linee politiche che la Germania avrebbe dovuto perseguire per riunificare tutte le popolazioni tedesche dei paesi confinanti dopo la prima guerra mondiale. Aveva letto quel capitolo molte volte, specialmente da quando era giunto a Merano. Hitler si era pronunciato anche sulla questione del Sudtirolo, ma poi aveva cambiato opinione quando cercava l‟alleanza di Mussolini, rinunciando all‟annessione del Sudtirolo al Reich e riconoscendo l‟intangibilità del confine del Brennero. Le Opzioni erano state solo demagogia, tanto che non si erano mai completamente realizzate secondo i piani originariamente previsti. Dopo l‟8 settembre 1943 i soldati del Reich avevano preso possesso dei territori delle province di Belluno, Bolzano e Trento, costituendo la zona di operazioni Alpenvorland. Lo stesso Mussolini aveva in qualche modo rinunciato a quei territori dopo la costituzione della Repubblica di Salò. Ulrich sapeva che la situazione politica era ben più complessa. Stava nuovamente divagando. Doveva concentrarsi sul messaggio di Wilhelm. Impostò i rotori dell‟apparecchio Enigma ed incominciò a digitare il messaggio. Era 20 un‟operazione laboriosa: ogniqualvolta digitava una lettera sulla tastiera si illuminava una lettera nella parte superiore dell‟apparecchio che doveva nuovamente trascrivere su un foglio. Le parole si formavano lentamente e le frasi prendevano forma senza punteggiatura. Dopo più di un‟ora di lavoro e molte correzioni dovute all‟agitazione il messaggio apparve in tutta la sua drammaticità: Truppe nemiche in avanzata senza freni verso nord. Partigiani in azione. Russi alle porte di Berlino. Esercito allo sbando. Abbandona posizione. Austria ancora sicura. Torna a casa. Il messaggio di Wilhelm si poteva tradurre quindi in un semplice scappa in fretta. Chiuse l‟apparecchio Enigma e lo ripose nell‟armadio. Bruciò i fogli con i messaggi e si sdraiò sul letto. Doveva pensare al più presto ad un piano di fuga. Sino ad allora aveva solo immaginato che un giorno avrebbe potuto dover lasciare quel posto magnifico, ma non aveva mai pensato che avrebbe dovuto farlo celermente. Una cosa era certa: avrebbe portato con sé tutto quello che sarebbe riuscito a prendere. Se tutti i sogni di grandezza del Reich erano falliti tanto valeva uscirne al meglio: meglio ricchi e sconfitti che poveri e sconfitti. Spense la luce e di lì a poco si addormentò vestito. 21 Oktoberfest C apitava tutti gli anni di stupirsi che settembre fosse senza dubbio il mese più piacevole da trascorrere a Monaco. La frenesia dei monacensi per le vacanze estive e la ricerca del caldo a tutti i costi si acquietava e lasciava il posto ad una pacata voglia di tepore, soddisfatta da una Maß di birra all‟ombra dei castagni nei Biergarten del centro. La sera prima il Borgomastro aveva inaugurato ufficialmente l‟Oktoberfest spillando personalmente il primo boccale di birra tra gli applausi della folla tormentata dalla sete e tutti i cittadini si preparavano a partecipare all‟evento, che consideravano la vera festa della città e non un semplice episodio di folclore ad uso e consumo dei turisti. Durante il fine settimana, appena i cancelli aprivano i battenti, allegre famigliole con al seguito bambini e nonni si preparavano ad invadere Theresienwiese per una passeggiata lungo i viali, seguita dall‟immancabile visita alle giostre, per poi assieparsi sotto i tendoni per il pranzo e l‟inevitabile bevuta di birra. Per le signore della Monaco bene l‟Oktoberfest era sicuramente l‟occasione migliore per sfoggiare i completini appena acquistati nei negozi più chic della Maximilianstraße. Si trattava nella maggior parte dei casi di costumi tipici, in particolare Dirndl, ai quali gli stilisti davano un‟impronta personale adattandoli alla moda del momento. Le camicette attillate e scollate e le gonne o i pantaloncini corti di cuoio mettevano in risalto le curve delle giovani e, a volte con risultati esteticamente assai dubbi, anche delle non più giovani che, tenendo per mano i rispettivi fidanzati e mariti in Lederhosen e bretelle d‟ordinanza, si gettavano nella bagarre mattutina. Vittoria e Dioniso avevano deciso solo la sera prima, insieme ad alcuni amici, di trascorrere la domenica alla festa. Dioniso aveva delle conoscenze che gli avevano permesso di riservare all‟ultimo momento un tavolo sotto al großes Zelt - la grande tenda - di una delle birrerie presenti alla festa. La cosa era praticamente impossibile per i comuni visitatori, che riuscivano a malapena ad avere un numero di telefono da chiamare l‟anno successivo per poi sentirsi rispondere che tutti i tavoli erano già occupati, con l‟unica alternativa di lanciarsi nella bolgia e sperare di ottenere un posto per un paio d‟ore, corrompendo con generose mance cameriere pettorute senza pietà per gli assetati. Con Elisabeth e Matthias Decker erano amici da quando sei anni prima Vittoria si era innamorata di una splendida villa jugendstil nella zona di Schwabing. Loro ne erano i proprietari, e ne possedevano una gemella a fianco. Un pomeriggio di maggio Vittoria stava passeggiando nel quartiere durante un breve soggiorno a Monaco e si era diretta, come faceva spesso nel corso delle sue camminate, davanti a quella splendida costruzione che non si stancava mai di ammirare. Era un edificio a tre piani degli inizi del „900, all‟apparenza in perfetto stato di conservazione, con ampie finestre che lasciavano intuire stanze spaziose e luminose. Inoltre, dettaglio non trascurabile per una città come Monaco, la facciata principale era esposta a sud. Un ampio e rigoglioso giardino la teneva distante e ben protetta dalla strada. Inaspettatamente quel giorno sul cancello del giardino era comparso un piccolo e discreto cartello che annunciava la vendita dell‟immobile. Vittoria non aveva perso tempo ed aveva chiamato subito il numero di telefono indicato sull‟annuncio. Le aveva risposto l‟agenzia DEM Immobilien e mezz‟ora dopo era già nel loro studio. L‟aveva ricevuta Elisabeth Decker, titolare dell‟agenzia insieme al marito. Dopo una breve chiacchierata esplorativa, durante la quale aveva stabilito che la persona che aveva di fronte non era una perditempo, ma che era realmente interessata alla villa, aveva iniziato a descriverne le caratteristiche. A quel punto Vittoria non aveva indugiato, aveva estratto il libretto degli assegni dalla borsetta, e le aveva semplicemente chiesto «Ritiene che un acconto del trenta percento del prezzo richiesto sia sufficiente per dimostrare le mie intenzioni?» Finalmente la cliente che ogni agente immobiliare avrebbe sognato entrasse un giorno nel proprio ufficio! «Penso proprio di sì, Frau Manqvist!» «Non vuole sentire i proprietari prima di impegnarsi?» «Non ce n‟è bisogno, la villa è per metà mia e per metà di mio marito, e lui non avrà nulla da eccepire!» «Allora mi dica quale cifra devo scrivere sull‟assegno!» Da lì ad una settimana avrebbe preso possesso dell‟edificio, che non aveva bisogno d‟alcuna ristrutturazione e nel quale Elisabeth e Matthias avrebbero lasciato anche una pregiata collezione di mobili. Ora avrebbe dovuto solo convincere Dioniso della validità della spesa: lui non aveva mai voluto tuffarsi in un investimento immobiliare a Monaco. «I prezzi sono lievitati in maniera ingiustificata negli ultimi anni e nessuna di queste case vale la metà del prezzo richiesto!» aveva sentenziato un pomeriggio che Vittoria lo aveva condotto, durante una passeggiata a Schwabing, proprio davanti a quella stessa villa. Quella volta aveva distrattamente accennato che le sarebbe piaciuto abitare in quel quartiere, giusto per vedere come la pensava Dioniso, ma lui aveva visto l‟argomento unicamente dal punto di vista dell‟investimento finanziario, ed aveva fatto uno dei suoi soliti calcoli dettati dal cervello e non dal cuore. «Con quello che ci costerebbe all‟anno mantenere una casa di quelle dimensioni, potremmo soggiornare almeno un mese all‟anno in una suite di un qualsiasi albergo a cinque stelle tra Promenadeplatz e la Maximilianstraße, dove saremmo, in ogni caso, anche serviti e riveriti!» Non che non avesse la possibilità di affrontare una spesa del genere, semplicemente lasciava che le sue decisioni in campo finanziario fossero dettate da motivi di convenienza. Quando spendeva i suoi soldi voleva prima di ogni cosa essere convinto che fosse un buon affare, soprattutto per lui. Vittoria lo sapeva e quindi non era certo il caso di insistere in quel momento, avrebbe provocato un‟inutile discussione. Quindi aveva fatto buon viso a cattivo gioco glissando sull‟argomento e continuando la passeggiata. Uscita dall‟agenzia DEM Immobilien si era incamminata verso Marienplatz, dove si sarebbe incontrata con Dioniso per bere un aperitivo in uno dei tanti locali con i tavolini all‟aperto. Lì avrebbe sfoderato le sue armi migliori per blandirlo. Si erano conosciuti anni prima, durante una festa di laurea, quando entrambi frequentavano l‟Università a Ginevra: lei la scuola per interpreti e traduttori e lui la facoltà d‟economia e scienze sociali. Vittoria era stata convinta ad andare alla festa da una sua amica e compagna di corso, che aveva preso una sbandata clamorosa per Dioniso senza esserne minimamente ricambiata. In quel periodo Dioniso aveva una concezione strana del mondo femminile, ovviamente mai confessata a nessuna delle ragazze che gli ronzavano intorno. Alle ragazze di solito piaceva molto ed in più era di famiglia più che benestante. Il padre, friulano, era emigrato in Svizzera in cerca di fortuna ed oltre a quella aveva trovato anche una splendida moglie durante un viaggio di lavoro a Parigi. A Dioniso non piaceva avere legami né fissi né impegnativi; aveva sì ogni tanto qualche ragazza che frequentava più assiduamente delle altre, ma solo perché anche i suoi amici erano accompagnati e non gli piaceva reggere il moccolo a nessuno. Il suo comportamento faceva sì che le ragazze si sentissero trascurate e di solito finiva tutto dopo pochi mesi, con la vittima di turno in lacrime che, dopo una cena durante la quale lui si era dedicato per gran parte della serata agli amici e non a lei, lo accusava di trattarla peggio di una pezza da piedi, dicendogli che lo amava, ma non sop- portava più di soffrire e non poteva più andare avanti in quel modo. Lui aspettava che la poverina finisse di sfogarsi, poi la riaccompagnava fin sotto casa, le raccontava una storia del tipo che lui non la meritava, che era incapace d‟amare, che era tutta colpa sua, che lei era una persona speciale che aveva tutto il diritto d‟essere furiosa con lui e che presto avrebbe trovato un uomo degno del suo amore. A quel punto la missione era quasi compiuta, ancora qualche lacrima e la malcapitata, dopo un ultimo bacio, scendeva come ipnotizzata dalla macchina e tornava a casa senza farsi più sentire. A Dioniso dispiaceva far soffrire quelle ragazze, ma non riusciva mai a farsi capire: non era pronto per legami seri e duraturi. Dopo un po‟ le aspettative delle sue partner venivano disattese e si arrivava alla rottura. Quella sera voleva solo divertirsi e non voleva imbarcarsi in una nuova avventura. L‟ultima era terminata da appena tre giorni. Quando vide Vittoria entrare fu come colpito da una mazzata in piena fronte. Sapeva che la ragazza che era con lei lo stava puntando già da qualche tempo e sicuramente le era giunta notizia del fatto che era di nuovo libero, quindi in un ultimo sprazzo di lucidità si avvicinò. «Michelle, che piacere vederti qui!» La baciò tre volte sulle guance, come si usava a Parigi, era una cosa che colpiva sempre molto le ragazze. Distolse subito lo sguardo da Michelle e lo posò sull‟amica. Fu il colpo di grazia: gli occhi della ragazza erano di un colore tra il verde ed il nocciola, che più tardi avrebbe definito, strappandole il suo primo sorriso, color sottobosco. «Ba… Ba… Ba… Bascanni, Dioniso Bascanni» balbettò tendendole la mano, non riuscendo a dire altro. «Vittoria Manqvist. Spero che tu sia anche felice, o lieto, o contento, o qualsiasi altra cosa di conoscermi, caro il mio bel Ba… Ba… Ba… Bascanni, Dioniso Bascanni!» gli rispose facendogli il verso. Era consapevole dell‟impatto che il proprio aspetto produceva ed era abituata a scene di smarrimento da parte degli uomini che la incontravano per la prima volta rimanendo incantati davanti a lei. Ciò era sicuramente colpa, o merito, secondo i punti di vista, del suo aspetto: aveva ereditato dal padre, norvegese, gli occhi verdi con lievi sfumature castano, ed il colore dei capelli, di un biondo oro, al quale aveva aggiunto delle mèche color bronzo, mentre aveva ricevuto in dono dalla madre, romana da generazioni, una carnagione di tipo decisamente mediterraneo. Come se non bastasse Vittoria aveva un fisico statuario, alta, ben proporzionata e formosa al punto giusto. Il commento della maggior parte degli uomini era che sicuramente la natura aveva compensato tanta bellezza con una scarsa intelligenza, ma in realtà si comportavano come la volpe davanti all‟uva che non potevano avere. Vittoria, parlava corren- temente sei lingue: italiano, norvegese, inglese, tedesco, francese e spagnolo. In più aveva una cultura di tipo enciclopedico: in ogni lingua riusciva a sostenere una conversazione su qualsiasi argomento con cognizione di causa e proprietà di linguaggio. Il loro primo incontro terminò così, con Dioniso imbambolato e Vittoria che si divertiva a metterlo in imbarazzo. Ma ora le cose erano mutate, ci sarebbe voluto ben altro per convincerlo del suo acquisto pomeridiano. «Dioniso, tesoro, è molto che aspetti?» gli chiese radiosa, dopo averlo castamente baciato sulle guance. «Non più del solito!» Vittoria aveva la prerogativa di essere puntualmente in ritardo, ma ormai Dioniso ci aveva fatto l‟abitudine e quando fissavano un appuntamento considerava che aveva sempre un quarto d‟ora preciso di margine. «Ho combinato un guaio! Molto grosso credo...» disse con una vocina infantile dopo essersi seduta ed aver accavallato le gambe, che facevano capolino dallo spacco di una gonna verde smeraldo, mentre un cameriere che si era avvicinato per prendere l‟ordinazione stava strabuzzando gli occhi. «Cos‟ha da guardare quel levantino?» bofonchiò Vittoria dopo aver ordinato. Dioniso le sorrise come per giustificarlo: qualsiasi uomo non sarebbe rimasto indifferente alla vista delle sue gambe. Si meravigliò del fatto che solitamente a Vittoria faceva piacere essere ammirata. Quando si dava un‟ultima occhiata davanti allo specchio prima di uscire di casa e Dioniso la canzonava lei gli rispondeva candidamente «Voglio che tu faccia una bella figura con i tuoi amici» poi aggiungeva con un tono acido, «non sia mai che pensino che ti accompagni ad una zingara o peggio ad una beduina.» Dioniso sapeva che quando Vittoria si comportava in quel modo aveva fatto qualche spesa che lei stessa riteneva eccessiva ma che non era riuscita ad evitare, quindi si preparò al solito gioco che avrebbero fatto. Aveva dato a Vittoria ampia disponibilità del suo patrimonio anche perché, se era pur vero che il grosso lo aveva ereditato da suo padre, lei aveva contribuito con idee all‟avanguardia e con il proprio buon senso ad incrementarlo in maniera considerevole ed era senz‟altro merito suo se il gruppo d‟aziende che ora dirigevano era il primo in Europa nel campo della consulenza finanziaria. «Nulla d‟irreparabile, spero!» «Non credo, ma so già che non ti piacerà. Ho visto una cosina alla quale non ho saputo resistere!» «E quanto ci sarebbe costata la cosina alla quale non hai saputo resistere?» «Oh Dioniso, pensi sempre e solo ai soldi; perché non provi a rilassarti una volta tanto ed a goderti i piaceri della vita?» «Va bene, ti prometto che non mi arrabbierò, anche perché sai che non resisto ai tuoi begli occhioni, ma ora sono curioso di sapere che cosa hai combinato!» «A dire la verità, che è sempre la cosa migliore, piuttosto che di una “cosina”, si tratta di una “casina”.» «Non dirmi che sei ancora alla ricerca di una casa a Schwabing? Ti ho già spiegato che non ci serve e che non è conveniente!» Dioniso fece una pausa, come per riordinare le idee, poi capì. «Un momento, prima hai detto che non hai saputo resistere! Quindi vuol dire che sei già andata a vederla! Spero che tu non sia stata tanto … tanto insensata da dare un acconto senza consultarmi!» Vittoria era pronta a far valere le sue ragioni, ma non era disposta a farsi insultare. Dioniso aveva detto che era stata insensata, ma sapeva che aveva pensato stupida. Sapeva anche che non era il caso di prenderlo di petto, doveva cambiare tattica. Grosse lacrime le stavano rigando il viso, mentre fissava Dioniso dritto negli occhi. «Sei riuscito a rovinare tutto! Passiamo a Monaco tre mesi all‟anno, e sono stufa di scendere ogni volta in un albergo diverso; e sai benissimo che non si tratta del servizio o della dimensione delle stanze, o dell‟arredamento. Mi sento a disagio a non avere mai nulla di nostro, a riempire e svuotare armadi, a non avere un quadro che mi piace alle pareti e a trascorrere le giornate nell‟anonimato delle camere!» Dioniso non sopportava di vedere una donna piangere, tanto meno Vittoria. Sicuramente aveva fatto una stupidaggine, ma non aveva tutti i torti, anche lui era stufo d‟alberghi e ristoranti. Vivevano la maggior parte dell‟anno tra Monaco, Ginevra, Siviglia e Parigi, e solo in quest‟ultima avevano un piccolo appartamento, nel quartiere del Marais, che Vittoria aveva arredato con molto gusto. Forse era giunto il momento di avere una dimora stabile e sicura, un punto di riferimento da poter chiamare casa, e Monaco poteva essere un‟ottima base per le loro attività. Avvicinò la sedia alla sua, le prese la mano e, dopo averle offerto il suo fazzoletto, le sussurrò in un orecchio «Credo tu sia stata saggia come sempre, e che abbia fatto la cosa giusta! Hai già le chiavi?» «Sì! Ma dovrai chiedermi scusa in ginocchio prima che io ti porti a casa mia!» disse sorridendo con gli occhi ancora rossi. «Vicki tesoro, non esagerare, non posso mettermi in ginocchio qui davanti a tutti!» «Oh certo che lo farai, altrimenti ricomincerò a piangere, e questa volta mi metterò anche ad urlare!» Vittoria stava nuovamente parlando con la voce da bambina, ed il peggio era che Dioniso sapeva che sarebbe stata capace di fare veramente una sceneggiata. Si era abituato ai suoi capricci, anche se ogni volta lei riusciva a sorprenderlo con nuove trovate. Era un gioco fra loro, che presupponeva una complicità ed un affiatamento considerevoli. Vittoria mandava un chiaro segnale che voleva essere corteggiata, lui doveva essere pronto a raccoglierlo, anche se delle volte si chiedeva se fosse burattinaio o burattino. S‟inginocchiò davanti a lei ed incominciò ad accarezzarle le caviglie, salendo pericolosamente verso ginocchio. «Vicki, tesoro, perché non mi porti a vedere il tuo ultimo acquisto?» «Mi piacerebbe molto lasciarti inginocchiato ai miei piedi, ma credo che per il momento sia sufficiente.» Vittoria sorrideva, e nella sua mano destra era comparso un mazzo di chiavi che stava dondolando davanti agli occhi di Dioniso. Non appena vide la villa, ogni dubbio scomparve. Vittoria aveva avuto buon gusto, come sempre del resto. Oltre che di pregevole fattura la casa era in perfetto stato di conservazione, ed era arredata con gusto ed eleganza. Fecero una prima ispezione di tutto il fabbricato mano nella mano, come due innamorati alla scoperta del loro futuro nido d‟amore, con Vittoria visibilmente soddisfatta della propria scelta. «Dopo tutti questi anni riesci ancora a stupirmi, per questo sono ancora innamorato di te come la prima volta che ti ho visto!» le sussurrò all‟orecchio, stringendola con trasporto nel mezzo del grande salone al piano terra dopo un bacio appassionato. Nel corso degli anni seguenti la casa era diventata la loro residenza preferita ed avevano deciso di non darle nessun nome, ma di chiamarla semplicemente La Villa. Non appena gli impegni di lavoro glielo consentivano o, secondo le circostanze, glielo imponevano, si recavano a Monaco per approfittare di tanto splendore ed agio. Avevano subito legato con i vecchi proprietari, Elisabeth e Matthias, con i quali erano in seguito diventati buoni amici. Li frequentavano spesso ed avevano conosciuto anche altri loro amici, tra i quali apprezzavano in modo particolare la compagnia di Margareth ed Engelbert Falken, due simpaticissimi bavaresi doc. Engelbert era il proprietario di una fabbrica d‟arredamenti d‟acciaio per stalle, con un mercato in continua espansione, specialmente nei paesi dell‟est europeo e Margareth si divertiva, insieme al marito, a spendere i soldi che lui guadagnava. Engelbert aveva adottato una filosofia di vita del tutto particolare: la fabbrica era stata una sua invenzione anni prima ed aveva avuto un successo che andava ben oltre le più rosee aspettative: le commesse in corso avrebbero assorbito la produzione per i due anni a seguire. Aveva deciso che non valeva la pena ammazzarsi di lavoro, se non si aveva poi il tempo di goderne i frutti. Si era quindi circondato di persone fida- te, alle quali aveva delegato gran parte dei propri compiti, mantenendo solo una supervisione generale sulla struttura e seguendo personalmente solo alcuni grossi clienti. Ciò gli permetteva di occuparsi ugualmente dell‟azienda e di prendersi lunghi periodi di vacanza insieme a Margareth, viaggiando in tutto il mondo. Sotto la grande tenda l‟aria incominciava a diventare pesante e la temperatura si era già alzata sensibilmente. Era da poco passato mezzogiorno, ma per molti la festa era ormai finita: avrebbero trascorso il resto della giornata dormendo buttati in qualche angolo all‟aperto, dopo essersi abbondantemente vomitati addosso quanto avevano mangiato e per lo più bevuto. Troppi visitatori dell‟Oktoberfest non avevano il senso della misura e, colti dalla frenesia della prima volta, ingurgitavano boccali di birra troppo fredda e con troppa schiuma, che in breve causavano congestioni dagli effetti deleteri. La maggior parte però riusciva a contenersi e la festa stava procedendo come ogni anno senza intoppi, a parte quel gruppo d‟italiani appena entrato. Erano circa una dozzina e si erano seduti attorno ad un tavolo vicino a quello di Dioniso e dei suoi amici, oltre al recinto che delimitava la zona riservata ai clienti vip, togliendo dal tavolo il cartellino con la scritta Reserviert. Stavano discutendo con la cameriera, subito intervenuta per farli sgombrare, e sostenevano che sul tavolo non c‟era mai stato nessun cartellino. Lei non si era minimamente persa d‟animo e non aveva atteso un secondo di più: con un cenno della mano aveva chiamato la sorveglianza ed erano subito intervenuti sei energumeni che avevano traslocato i ragazzi al di fuori dal capannone. Dioniso era alle prese con un mezzo pollo allo spiedo, cotto con troppa sollecitudine e troppo speziato, che del resto era una delle poche cose che si azzardava ad ordinare. Era risaputo che la cucina dell‟Oktoberfest non fosse tra quelle stellate della città: era tutt‟altro che a buon prezzo e di qualità non certo sopra la media. Una delle poche cose che apprezzava erano i Radi - ravanelli bianchi, tagliati sottilmente e conditi con abbondante sale, che servivano ad incrementare la sete degli avventori ed i Brezn, che oltre a fungere da pane, avevano un benefico effetto spugna sulla birra tracannata. Vittoria, al contrario si ostinava ad ordinare un piatto tipico della festa, il Bifflamott: carne di manzo cotta in una salsa agrodolce, il cui nome deriva dalla storpiatura bavarese di boeuf à la mode, che poi assaggiava appena dimenticandosi da un anno all‟altro che la porzione era sempre troppo abbondante, troppo acida e troppo dolce. Engelbert stava raccontando agli amici delle loro ultime vacanze a Kiribati, un atollo sperduto nell‟oceano Pacifico. Condiva il tutto con particolari piccanti sulle procaci abitanti del luogo, che a suo dire si prodigavano in tutti i modi per circuirlo, mentre Margareth scrollava la testa divertita. Era una delle solite storie di Engelbert, che negli ultimi tempi difettava di fantasia e si ripeteva spesso, adattando il contenuto al luogo visitato; oramai Dioniso le conosceva a menadito, ma non volendo essere scortese con l‟amico fingeva di ascoltarlo. Stava giocherellando con la mollica di pane quando intravide con la coda dell‟occhio una figura non del tutto ignota: un campanello d‟allarme era suonato. In un primo momento aveva fatto fatica a collocare esattamente il personaggio, per via dell‟abbigliamento, ma dopo un controllo più attento lo aveva riconosciuto. L‟uomo indossava un paio di Lederhosen color cuoio chiaro, una camicia bianca con motivi di caccia ricamati sul davanti, calzettoni di lana grossa ed un cappello di feltro grigio con un pennacchio di peli di tasso. Alois Rebensberger era un uomo che si poteva definire anziano, poiché aveva largamente oltrepassato la soglia degli ottant‟anni, ma si muoveva ancora con una disinvoltura ed una sicurezza non comuni. Lo aveva conosciuto alcuni anni dopo la caduta del Muro di Berlino quando, per conto di una non meglio precisata organizzazione, lo aveva avvicinato allo scopo di istituire, tramite una sua società d‟intermediazione finanziaria, un fondo fiduciario a favore dei familiari sopravvissuti dei perseguitati politici dell‟ex Germania dell‟est. Dioniso aveva assunto informazioni tramite la sua solita rete capillare di conoscenze ed aveva ben presto scoperto che il passato dell‟uomo non era cristallino. Era stato tra gli ultimi tedeschi a frequentare la Junkerschule al castello di Braunschweig a Bad Tölz nel 1945. Aveva fatto appena in tempo a diventare sottotenente delle SS che la guerra era finita. Ufficialmente non era mai stato destinato a nessun reparto, o almeno non erano state trovate tracce di un suo coinvolgimento nelle malefatte naziste. A quanto era emerso, però, il vecchio era ancora un nazista convinto e, soprattutto, era attivo nel finanziamento dei gruppi neonazisti che all‟epoca stavano tornando a farsi sentire in Germania. Era molto abile ad operare nell‟ombra, senza esporsi. Dioniso aveva rinunciato all‟operazione finanziaria e lo aveva fatto tenere discretamente sotto controllo da uno dei suoi uomini di fiducia, Silvestro Busetto, un capitano dei carabinieri, assurto agli onori della cronaca per una malaugurata faccenda di presunti pestaggi durante una manifestazione d‟autonomi a Milano, dalla quale l‟ormai ex appartenente all‟Arma era uscito poi completamente scagionato. Ciò nonostante aveva deciso di abbandonare la carriera militare. Dioniso gli aveva offerto un impiego ed inizialmente lo aveva incaricato di riorganizzare la sicurezza interna di tutte le società del gruppo. La scelta si era rivelata vincente: Silvestro aveva assolto il suo compito alla perfezione, mostrando una competenza non comune anche in campo informatico e Dioniso lo aveva voluto con sé in qualità di guardia del corpo. In principio Silvestro non era stato particolarmente entusiasta della cosa, ma poi aveva apprezzato la tranquillità del lavoro. Inoltre lo stile di vita di Dioniso gli permetteva di frequentare luoghi che altrimenti sarebbero stati al di fuori della sua portata. Anche quella volta Silvestro si era mostrato efficiente e fidato, ma non aveva scoperto molto sul vecchio nazista. Rebensberger, almeno il nome era vero abitava in una villetta isolata nei dintorni di Garmisch-Partenkirchen, aveva una piccola libreria, specializzata in testi esoterici e non aveva mai dato adito ad alcun sospetto. Anche le notizie raccolte riguardo ad un suo eventuale coinvolgimento con gruppi neonazisti non avevano trovato alcuna conferma. Dioniso sapeva che le sue fonti erano più che attendibili: evidentemente l‟uomo aveva preso delle ottime precauzioni. Anche dei trascorsi di Rebensberger nelle SS non era rimasto molto: nell‟aprile del 1945 il giovane ufficiale era stato inviato nel nord Italia, probabilmente per cercare di fronteggiare l‟avanzata degli alleati, ma non c‟era traccia del reparto nel quale aveva prestato servizio. In ogni caso doveva aver combattuto ben poco. Dopo la guerra era, come molti, tornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. Alla fine Dioniso aveva rinunciato a farlo tenere d‟occhio. Rebensberger stava parlando con un uomo tra i venticinque ed i trent‟anni, abbastanza alto, biondo, con il profilo arrotondato da una dieta abbondante di grassi e birra. I due erano seduti uno di fianco all‟altro e non ci sarebbe stato nulla di strano nel fatto che stessero parlando; capitava sempre durante la festa, anche tra chi non si conosceva affatto. Lo strano era che l‟uomo continuava guardarsi intorno come per accertarsi che nessuno li stesse osservando, mentre Rebensberger cercava di farsi notare il meno possibile e, guardando verso il basso, copriva la bocca con la mano ogni volta che si rivolgeva al suo vicino. Decise che era doveroso un controllo; forse Rebensberger era di nuovo in azione. Prese il cellulare e nella bolgia infernale tra cori, urla e musica riuscì a mettersi in contatto con Silvestro. Brevemente lo informò del fatto che Rebensberger era a Monaco e gli chiese di arrivare in macchina sin davanti alla St. Paul Kirche, a poca distanza dall‟ingresso principale della festa, appena oltre Bavaria Ring, e di aspettare lì. Terminata la conversazione Dioniso incrociò lo sguardo di Vittoria, che non prometteva nulla di buono. Non tollerava interferenze lavorative durante il fine settimana; secondo lei non vi era problema che non avrebbe potuto aspettare il lunedì successivo per essere risolto: non erano né chirurghi, né idraulici. Dioniso avrebbe dovuto trovare un‟ottima scusa per allontanarsi senza che Vittoria s‟infuriasse. Non poteva certo dirle che stava dando la caccia a vecchi nazisti incartapecoriti. A pensarci bene si stava chiedendo lui stesso il perché di questo coinvolgimento. Si era improvvisamente sentito come Poirot: avrebbe ficcato il naso in quella faccenda a tutti i costi, puzzava troppo per lasciar correre. Si augurava solo di non fare la figura dell‟ispettore Clouseau. «Con chi stavi parlando?!» Per un attimo temette che la voce di Vittoria lo avrebbe morsicato. «Era Silvestro, Vicki.» «E cosa vuole il signor Silvestro da te? Non è mica la tua fidanzata, che non resiste un attimo senza il suo tesorino!» «Non era per lavoro, o almeno non per il nostro lavoro, piuttosto per il suo!» «Spiegati meglio, prima che perda la pazienza!» Vittoria non si era evidentemente accorta che era stato lui a telefonare, aveva creduto che fosse stato Silvestro a chiamare. Dioniso doveva trovare una scusa plausibile, ed in fretta! «È scattato l‟allarme nel nostro ufficio e pare che sia scoppiato un incendio nel palazzo. Ho detto a Silvestro di andare a vedere!» «Scusa, ma non sarebbe il caso che andassimo a dare un‟occhiata anche noi? Non vorrei rovinarti la festa, ma in quell‟ufficio abbiamo tantissime cose di valore!» «Non credo sia necessario, ma se la cosa ti farà sentire più tranquilla andrò io.» Era riuscito a rigirare abilmente la frittata, facendo intendere d‟essere lui a fare un piacere a Vittoria. Non gli piaceva mentirle, ma sarebbe stato troppo complicato spiegarle tutto e lei non era del tutto entusiasta che s‟impicciasse d‟affari che non lo riguardavano giocando a fare il detective. Una cosa sola gli era sembrata strana: Vicki era stata particolarmente acida, non era da lei. Pensò che fosse per via del frastuono che regnava sotto al capannone, in fin dei conti a lei quella festa non era mai particolarmente piaciuta. L‟uomo in compagnia di Rebensberger si era alzato proprio in quel momento e si stava facendo largo tra la folla per raggiungere l‟uscita. Dioniso baciò Vittoria e la pregò di scusarlo con gli amici, che si stavano cimentando in un Oans, zwoa gsuffa, incitati dall‟orchestra che suonava sul palco al centro del tendone. Non aveva tempo di dare spiegazioni e di accomiatarsi con una serie di brindisi che Matthias ed Engelbert avrebbero sicuramente voluto fare. Uscire da un capannone dell‟Oktoberfest dopo aver bevuto un paio di litri di birra era un‟esperienza estremamente piacevole. All‟interno si raggiungevano temperature tropicali ed il fumo rendeva l‟aria pesante. Non appena si attraversava la porta d‟uscita si era investiti da una sensazione di fresco, anche quando all‟esterno splendeva un sole caldo, come quel giorno e, respirando a pieni polmoni, si cercava di contrastare l‟effetto della birra. Dioniso stava cercando di non perdere di vista l‟uomo. La cosa era facilitata dal fatto che l‟individuo indossava un‟orrida camicia fantasia su sfondo giallo che lo rendeva facilmente riconoscibile tra la folla. Un paio di volte temette di averlo perso, ma la camicia ricompariva sempre poco distante. Appena fuori del capannone l‟uomo aveva girato a destra e dopo aver percorso parte della Wirtsbudenstraße, aveva svoltato a sinistra nella Matthias Pschorr-Straße dirigendosi verso l‟uscita dall‟area della festa su Esperantoplatz. Dioniso decise di chiamare Silvestro per accertarsi se fosse già sul posto e per avvisarlo che non si stavano avviando verso di lui. «Sono di fronte alla chiesa, ma non trovo parcheggio!» «Non ti preoccupare, sono uscito dal capannone e sto seguendo l‟uomo che era con Rebensberger. Sta andando verso Esperantoplatz, raggiungici lì!» L‟uomo proseguiva lentamente, fermandosi di tanto in tanto ad osservare la merce esposta sulle bancarelle e voltandosi nella direzione dalla quale era venuto: evidentemente si aspettava di essere seguito. Nel timore di essere notato Dioniso decise di proseguire e gli passò accanto senza guardarlo: con quella camicia non sarebbe stato difficile individuarlo nei pressi dell‟uscita, dove poteva fermarsi facendo finta di aspettare qualcuno. Rudolf von Rippenburg voleva accertarsi che nessuno lo stesso seguendo. Dal momento in cui aveva parlato con Rebensberger gli sembrava di essere costantemente sotto controllo. Forse aveva fatto troppe domande in giro, ma nonostante fosse il comandante della sezione bavarese degli Himmlerssöhne - i figli di Himmler nessuno si era mai preso la briga di informarlo che Rebensberger era una sorta d‟eminenza grigia all‟interno dell‟organizzazione. Ufficialmente il loro gruppo era solamente un circolo culturale conosciuto come Kulturzentrum Isar, ma dietro tale copertura si celava un gruppo di neonazisti organizzati secondo la più ferrea disciplina delle SS. Scopo principale dell‟organizzazione era di raggiungere i punti chiave della politica e dell‟economia, impadronirsi delle poltrone di comando e portare la Germania agli antichi splendori del Terzo Reich. Per fare ciò avevano costante bisogno di nuovi adepti, meglio se finanziariamente ben disposti, visto che i fondi non bastavano mai. Il progetto era ambizioso, ma era sicuro che sarebbero riusciti a raggiungere il traguardo che si erano prefissati, in particolar modo dopo l‟allargamento dell‟Unione europea a 25 Stati. Era inammissibile che milioni di pezzenti avessero gli stessi diritti degli ariani e che potessero liberamente circolare sul territorio germanico come fossero a casa propria. Il malcontento fra la crescente massa di disoccupati tedeschi, che si era vista soffiare il posto di lavoro dai disperati giunti dall‟est europeo, disposti a lavorare per un salario inferiore al minimo sindacale ed alcune volte anche senza assicurazione e contributi, era lievitato in maniera tale che i tempi erano oramai maturi per un cambiamento radicale. Per questo aveva preso contatto con Rebensberger, che gli era stato descritto come una persona con conoscenze che potevano giovare alla loro causa e che avrebbe sicuramente potuto indicargli nuovi contatti. Lo aveva raggiunto telefonicamente e si erano dati appuntamento all‟Oktoberfest dove, secondo il vecchio, non avrebbero dato nell‟occhio. A partire da quella telefonata, avvenuta una settimana prima, si sentiva osservato; inoltre era sicuro di avere visto più di una volta una Volkswagen grigia seguirlo. Ora era quasi sicuro che nessuno lo stesse pedinando, ma la prudenza non era mai troppa. Aveva indossato apposta una bruttissima camicia gialla, facilmente riconoscibile, di modo che se qualcuno avesse voluto sorvegliarlo si sarebbe tenuto abbastanza distante, sapendo che lo avrebbe facilmente individuato. Visto che i suoi sospetti erano iniziati dopo la telefonata con Rebensberger, doveva per forza essere stato lui stesso a farlo tenere sotto controllo, quindi non rischiava di compromettere nulla se i suoi segugi lo avessero visto in sua compagnia; ma ora era giunto il momento di liberarsene. Rebensberger non gli era stato di molto aiuto, almeno per il momento: nonostante le sue credenziali aveva solo detto che si sarebbe informato e che gli avrebbe fatto sapere se qualcuno era interessato alla loro attività. Ciò voleva probabilmente dire che avrebbe avuto molto presto notizie dal vecchio nazista. «Quanto costa la maglietta con i boccali?» chiese al venditore che stava sistemando alcuni cappelli sullo scaffale. «Dodici e cinquanta. Ma se prende anche il cappellino le faccio diciannove invece di venticinque» rispose l‟uomo con un marcato accento turco. Rudolf pensò che lo avrebbe mandato volentieri a spaccare pietre in qualche campo di concentramento, ma si trattenne e gli diede una banconota da venti. Il turco sorrise sotto i due baffoni neri e prese un sacchetto per infilare la maglietta ed il cappellino. «No! Non mi serve il sacchetto» disse Rudolf, sfilandosi la camicia senza aprire i bottoni, «la metto subito.» In un attimo si era cambiato, ed aveva buttato la camicia sotto la bancarella. «Dammi anche il cappellino, e soprattutto un euro! Non vorrai mica farmi lo sconto per poi fregarmi sul resto!» Dioniso era arrivato già da qualche minuto all‟incrocio con Esperantoplatz, ma l‟uomo non era ancora ricomparso e all‟orizzonte non vi era traccia della camicia gialla. Nel frattempo Silvestro aveva trovato un parcheggio e lo aveva raggiunto. «Sembra sparito, non vorrei che fosse tornato indietro. Con questa folla dubito che riusciremo a trovarlo!» «Prova a descrivermelo, forse cercando in due riusciamo ad individuarlo.» «È presto detto: altezza 1,85 o poco più, biondo, corpulento, pancia da bevitore di birra ed indossa una orripilante camicia gialla sgargiante con dei disegni fantasia, che se la vedi non ti puoi sbagliare! Pensavo bastasse quella per riconoscerlo.» «I casi sono due: o è tornato indietro, e con questa folla dubito che riusciremo a raggiungerlo, oppure si è cambiato e stiamo cercando il particolare sbagliato!» «Non perdi mai il tuo fiuto da segugio! Ma potresti avere ragione, solo che a questo punto potrebbe essere uno qualsiasi di quelli che mi sono passati davanti fino adesso.» «Non è detto. Se si è cambiato ha perso sicuramente del tempo e potrebbe non essere arrivato fin qui. Concentrati su un altro particolare, ad esempio il taglio dei capelli, o la pancia: con un po‟ di fortuna lo troveremo!» Dioniso stava concentrandosi come gli aveva suggerito Silvestro, ma a parte qualche spintone non aveva rimediato altro. Improvvisamente se lo trovò davanti! Se non gli fosse passato così vicino probabilmente non lo avrebbe riconosciuto. Aveva un cappellino in testa ed una maglietta uguale a quella indossata da un‟infinità di altri uomini alla festa. Ma era sicuramente lui, non aveva dubbi, lo aveva individuato. Aspettò che proseguisse ancora di qualche metro e richiamò l‟attenzione di Silvestro, che nel frattempo si era spostato dall‟altra parte della strada. Questi capì al volo e gli si avvicinò facendosi largo tra la folla. «È quello con la maglietta rossa e con il cappellino nero. Sono sicuro!» «Quale?» chiese Silvestro: c‟erano almeno cinque persone nel raggio di pochi metri vestite in quel modo. «Quello di fronte a noi, con i pantaloni grigi di tela e le scarpe da trekking marroni. Quello di fianco alla cabina del telefono.» Silvestro lo individuò subito «Solo un tedesco può vestirsi in quel modo! Vuoi che lo segua?» «Si, ma vengo con te, è meglio se stiamo insieme. Vediamo se s‟incontra con qualcun altro.» Rudolf era quasi certo di aver seminato eventuali inseguitori, ma voleva esserne sicuro, e per farlo c‟era un solo modo. Attraversò la piazza ed imboccò Schubertstraße con passo sostenuto. Aveva deciso di non voltarsi indietro per far credere di non essere sospettoso e di proseguire senza fermarsi. Arrivato in Kaiser Ludwig Platz svoltò a sinistra e percorse il lato lungo della piazza sino all‟incrocio con Bee- thovenstraße. Nonostante l‟ora e la vicinanza della festa non c‟erano molte persone per la strada. Invece di andare verso destra, o di proseguire diritto come sarebbe stato logico per chiunque avesse lasciato la festa, svoltò a sinistra nel tratto di Beethovenstraße che sboccava nuovamente in Bavaria Ring, e dopo aver percorso qualche decina di metri si voltò improvvisamente. Nel caso in cui qualcuno fosse stato dietro di lui lo avrebbe visto sicuramente. Non c‟era nessuno, a parte due uomini già abbastanza alticci, che si sorreggevano l‟uno con l‟altro discutendo su quale strada prendere per arrivare più velocemente a Theresienwiese. Attese un attimo ed i due decisero di attraversare la piazza. Ora si sentiva più tranquillo e procedette verso il Ring. Ormai era certo di non essere seguito; i sospetti dei giorni precedenti si erano rivelati assolutamente infondati. Avrebbe fatto un‟ultima verifica prima di tornare in albergo, ma un senso di tranquillità incominciava a pervaderlo. L‟idea di fingersi ubriachi era venuta a Silvestro, che aveva capito lo stratagemma dell‟uomo non appena questi aveva girato l‟angolo di Beethovenstraße. «Sta solo facendo il giro dell‟isolato. Se torniamo indietro lo incrociamo di nuovo su Bavaria Ring. Mischiati tra la folla non ci riconoscerà!» In quel momento l‟uomo si era voltato di scatto e Silvestro si era buttato addosso a Dioniso che gli aveva detto: «Va bene, ma tu vai alla macchina, non vorrei che tentasse qualche altro trucco!» Sul Ring c‟era di nuovo movimento ed era facile nascondersi tra i gruppi che si dirigevano alla festa. Dioniso fece appena in tempo a svoltare l‟angolo per vedere l‟uomo salire su un taxi tra quelli in attesa al parcheggio: per essere già lì aveva sicuramente corso, probabilmente non ancora del tutto convinto di essere al sicuro. Dioniso non perse tempo e tornò indietro verso Esperantoplatz, dove Silvestro aveva parcheggiato, raggiungendo la macchina proprio mentre il taxi passava davanti a loro. «È su quel taxi che sta andando verso Kapuzinerstraße, cerca di non stargli troppo vicino, non vorrei che si accorgesse di noi, è ancora molto sospettoso.» Silvestro non se lo fece ripetere e s‟infilò tra due autobus prima che si fermassero per far scendere il loro carico di bevitori. Il taxi aveva guadagnato solo un centinaio di metri, ma Silvestro non se lo sarebbe fatto sfuggire. La macchina proseguì percorrendo tutta la via sino a Baldeplatz, dove svoltò a sinistra prima del ponte per proseguire costeggiando l‟Isar. La strada era larga e diritta, ed il taxi viaggiava spedito, facilitato dalla scarsità di traffico; Silvestro riusciva a mantenersi ad una distanza adeguata. «Come mai stiamo seguendo quel tipo?» Dioniso gli riassunse brevemente quanto aveva osservato sotto il tendone, raccontandogli di come aveva notato il conciliabolo tra i due e dei sospetti mai sopiti sul vecchio nazista. Silvestro convenne che poteva essere interessante verificare chi fosse l‟uomo e cercare di scoprire se il vecchio fosse tornato in attività. Il suo spirito da detective, mai spento sotto la cenere, si era improvvisamente riacceso ed era pronto a tornare in azione come ai vecchi tempi. Il taxi era giunto all‟altezza del Deutsches Museum, che occupava un esteso palazzo di mattoni scuri sulla Museumsinsel, un‟oblunga isola circondata dall‟Isar. All‟altezza di Ludwigsbrücke svoltò a sinistra, verso la Isartor. In prossimità del centro il traffico stava aumentando e Silvestro dovette avvicinarsi. «Non stargli troppo sotto, se ha fatto tutto questo giro per arrivare sino a qui è ancora sospettoso. Se fosse passato da Sendlinger Tor ci avrebbe impiegato molto meno!» «Rischiamo di perderlo se rimango troppo indietro. Se al prossimo semaforo imbocca l‟Altstadtring e non riesco a passare non lo raggiungiamo più!» Effettivamente, giunti in piazza davanti alla Isartor, il taxi imboccò il Ring; non svoltò a destra come si sarebbe aspettato Silvestro, ma a sinistra, e si tuffò nel traffico, che, nonostante fosse abbastanza sostenuto, era ancora scorrevole e permetteva di procedere ad una discreta andatura. «Che idea ti sei fatto dell‟incontro fra quei due?» «Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma da quello che sappiamo sul vecchio ci sono solo due possibilità: la prima è che stia cercando di ottenere dei finanziamenti per qualche attività e la seconda che glieli stia offrendo. Però visto che Rebensberger si è scomodato per arrivare sino a Monaco propenderei per la seconda ipotesi.» «In fin dei conti però Garmisch non è poi così distante e Rebensberger avrebbe potuto voler fare solamente una gita alla festa!» «Non credo che un uomo della sua età abbia voglia di imbarcarsi in una gita sino a Monaco per bersi da solo una birra sotto ad un tendone caldo e puzzolente. Se aveva sete a Garmisch ci sono un mucchio di birrerie dove non devi sgomitare con un branco d‟ubriachi per sederti ad un tavolo! E poi quei due non volevano dare nell‟occhio e soprattutto fingevano di non conoscersi e di essere allo stesso tavolo per caso, come capita spesso all‟Oktoberfest.» «Sì, il tuo ragionamento fila. E poi una volta uscito dal tendone non si sarebbe comportato in quel modo se non avesse qualcosa di losco in mente: cambiare la camicia vistosa con una maglietta anonima e fare il giro dell‟isolato per prendere il taxi sono state due mosse studiate con anticipo. Credo anch‟io che valga la pena investire un po‟ di tempo su quell‟uomo!» Mentre parlava Silvestro non si era distratto e aveva continuato a seguire il taxi, che procedeva sulla corsia di sinistra un paio di macchine davanti alla loro. «Sta tornando in direzione di Theresienwiese, a meno che all‟altezza di Sendlinger Tor non decida di proseguire diritto, nel qual caso ha solo fatto fare all‟autista un giro lungo per scrollarsi di dosso chi lo seguiva, ma non credo che sospetti di noi, si deve essere concentrato su qualche altra macchina. A questo punto si sarà tranquillizzato, sono sicuro che nessun‟altra macchina stia seguendo il taxi o noi, sai che me ne sarei accorto!» «Spero che il tuo intuito non sbagli e che quello non finisca con l‟accorgersi di noi!» Il traffico aumentò ancora e nelle vicinanze di Sendlingertor dovettero rallentare notevolmente. Il taxi si era incanalato sulla corsia di destra per poi procedere diritto come aveva previsto Silvestro. Sino a Karlsplatz proseguirono lentamente, ad ogni incrocio le macchine che volevano svoltare a sinistra intralciavano il traffico. Qualcuno iniziava a spazientirsi ed il suono dei clacson accompagnava la fila che procedeva oramai a passo d‟uomo. A Karlsplatz successe quello che Silvestro temeva: il taxi passò mentre il semaforo era appena scattato sull‟arancione, e la macchina davanti a loro, ligia al codice della strada, si fermò costringendo Silvestro ad una brusca frenata. Silvestro imprecò a voce alta, scusandosi subito dopo per il linguaggio utilizzato. «Non hai tutti i torti, rischiamo di perderlo per colpa della precisione teutonica!» Trascorsero alcuni minuti, che ad entrambi parvero un‟eternità, quando finalmente il semaforo tornò verde. «Se non si sbriga a partire la tampono!» esclamò Silvestro rabbioso, ma non ve ne fu bisogno, perché la macchina davanti svoltò subito a destra verso la zona pedonale e liberò la strada permettendogli di proseguire senza altri intralci. Ora si trattava di indovinare quale direzione poteva aver imboccato il taxi. Sicuramente non era andato verso la stazione, perché in tal caso lo avrebbero visto; in ogni modo sarebbe stato sulla corsia sbagliata e un taxista di Monaco non si sarebbe neppure sognato di commettere un‟infrazione del genere. «Se non è andato verso la stazione, non ha svoltato a sinistra neppure alla prossima, ma ha proseguito lungo il Ring; fai la stessa cosa, e speriamo di avere indovinato!» Silvestro attraversò velocemente la piazza e proseguì tenendosi sulla destra. Da lì si sarebbero immessi nella Maximiliansplatz, ma appena prima dell‟inizio della piazza, Silvestro frenò bruscamente, rischiando di farsi tamponare dalla macchina che li seguiva. «Il taxi!» urlò «è appena uscito dalla Pacellistraße, ma il passeggero non era più a bordo!» «Come fai ad affermare che fosse proprio il taxi che stavamo seguendo? Ce ne saranno centinaia uguali a Monaco!» «Avevo preso mentalmente nota del numero del taxi e del numero di targa, sono sicuro che è lo stesso di prima.» «Allora non perdiamo tempo, a quest‟ora non sarà andato lontano!» Silvestro fece una retromarcia da ritiro patente, schivando alcune macchine che stavano giungendo nella loro direzione, suonando il clacson, con i guidatori allibiti per quanto stava accadendo. S‟infilò nella Pacellistraße, imboccando contromano il tratto che consentiva l‟uscita sul Ring. Non incrociarono altre vetture ed in breve si trovarono sul lato giusto della carreggiata, procedendo verso Promenadeplatz. Se il taxi era già tornato indietro doveva per forza aver lasciato il suo passeggero nella piazza, e in quel breve lasso di tempo poteva essersi già diretto nella zona pedonale. La piazza aveva la forma di un esagono molto allungato, e la strada correva lungo il perimetro, circondando un parco posto al centro. Appena giunsero al vertice opposto Silvestro fermò la macchina e Dioniso scese per verificare se riusciva ad identificare l‟uomo tra le persone che camminavano nella piazza. Non vide nulla: poteva aver imboccato una qualsiasi delle strade che sbucavano in Promenadeplatz, nel qual caso non avrebbe avuto nessuna possibilità di individuarlo. Salendo in macchina diede un‟ultima occhiata in giro, mentre grosse nuvole nere cariche di pioggia correvano velocemente dietro ai due campanili gemelli della Frauenkirche. Dioniso era seccato, ma non avrebbe incolpato Silvestro di essersi fatto sfuggire il taxi, sapeva bene che lui non aveva alcuna responsabilità. «Lo abbiamo perso, non ci resta che tornare alla festa e tenere sotto controllo Rebensberger, per vedere se l‟uomo si mette di nuovo in contatto con lui! Riportami a Theresienwiese.» Silvestro non era entusiasta di dover andare a Garmisch per controllare il vecchio Rebensberger: era un lavoro noioso, che lo avrebbe costretto a passare notti in macchina e lunghe giornate a bighellonare davanti al negozio di libri, facendo finta di essere un turista, in un paese che richiedeva non più di mezza giornata per essere visitato. «Va bene» rispose di malavoglia e ripartì in direzione del Ring. Rudolf von Rippenburg era ormai sicuro che nessuno lo avesse seguito. Aveva fatto compiere al taxi un lungo giro, prima di scendere in Promenadeplatz, ma la Volkswagen che aveva notato nei giorni precedenti non li aveva tallonati. Forse era stato veramente un caso e quelle che aveva visto erano solamente macchine dello stesso modello, come ce n‟erano a migliaia a Monaco. Aveva deciso di tornare in albergo e come ultima precauzione, una volta entrato nella hall del Bayerischerhof, si era fermato appena oltrepassata la porta ed aveva controllato che fuori non vi fossero movimenti sospetti. Non aveva notato nulla ed ora si sentiva più rilassato. Decise di concedersi una sauna purificatrice e, se il tempo fosse rimasto bello, anche un bagno nella piscina sul tetto dell‟albergo. «Ferma la macchina!» Silvestro eseguì immediatamente l‟ordine e accostò sulla destra. «Perché mi hai fatto fermare, cosa hai visto?» «Non ne sono del tutto sicuro, ma credo di averlo visto riflesso in uno dei vetri della porta dell‟albergo. Se è entrato lì dentro non ci scapperà. Aspettiamo un momento per esseri sicuri che non esca e poi vado a controllare!» Attesero alcuni minuti, ma nessuno uscì dall‟albergo. Dioniso scese dalla macchina e s‟incamminò verso l‟entrata. Una volta dentro si guardò intorno. A destra erano sedute due anziane signore che chiacchieravano sorseggiando una tazza di tè e più avanti un uomo di mezza età stava leggendo un giornale gustando una birra. Per il resto l‟ampio salone era vuoto, a parte due facchini che stavano portando dei bagagli di una giovane coppia che si stava sbaciucchiando davanti al banco della reception sotto gli occhi severi del portiere, che dava chiari segni d‟impazienza. Si avvicinò al banco ed attese pazientemente il suo turno, mentre i due freschi sposini - le fedi lucide e splendenti gli avevano rivelato che dalla celebrazione del matrimonio non erano passate molte ore - finivano di compilare il modulo di registrazione. «Herr Bascanni, che piacere riaverla nel nostro albergo! Come posso esserle utile?» Thomas, il portiere, era cordiale e disponibile come sempre, segno che le mance di Dioniso durante i suoi soggiorni avevano lasciato un ottimo ricordo. Dioniso inventò la scusa che gli era sembrato di vedere un vecchio amico che non incontrava da molto tempo entrare nell‟albergo e descrisse l‟uomo che stava cercando al portiere. Se l‟uomo fosse stato un ospite Thomas lo avrebbe certamente identificato, non gli sfuggiva nulla. «Si tratta certamente di Rudolf von Rippenburg, che quando viene a Monaco ci onora della sua presenza. Avremo il piacere di averlo nostro ospite ancora per una settimana! Vuole che la metta in contatto con lui?» e così dicendo prese il telefono. Il portiere era stato loquace come il solito, ma non era il caso che telefonasse. «No grazie Thomas! Non è il caso di disturbarlo. Piuttosto vorrei organizzare un piccolo scherzo all‟amico Rudolf. Potrebbe aiutarmi?» «Sempre a sua disposizione Herr Bascanni!», rispose prontamente il portiere «Conti pure sul mio aiuto e sulla mia discrezione.» «Bene! Per prima cosa mi serve una stanza attigua a quella di Rudolf. Ne ha una libera?» «Nessun problema, la stanza è già sua per tutto il tempo che riterrà opportuno. Si tratta di una stanza comunicante con quella del suo amico attraverso una doppia porta, che è ovviamente chiusa. Ma se desidera posso fornirle un passepartout!» Dioniso lo avrebbe baciato sulla fronte. Thomas era uno di quei portieri che facevano parte delle leggende metropolitane: capiva immediatamente quali erano i bisogni e le necessità di un cliente e riusciva a risolverli in un batter d‟occhio, in maniera discreta e senza fare domande inopportune. «Efficiente come sempre, Thomas. Verrà un mio collaboratore nel tardo pomeriggio e prenderà possesso della stanza e di tutto il resto: vorrei che lo trattasse come ha sempre trattato me, gliene sarei oltremodo grato.» Nel stringergli la mano Dioniso gli allungò un biglietto da cento euro. Al contatto con la carta frusciante della banconota, il volto del portiere s‟illuminò in un sorriso. «Sarà un vero piacere. Le auguro un ottimo proseguimento di giornata, Herr Bascanni! A presto.» Nel frattempo Silvestro aveva trovato un parcheggio nel quale era riuscito a sistemare la macchina e stava aspettando davanti all‟albergo. «Era il nostro uomo! Si chiama Rudolf von Rippenburg e si ferma ancora tutta la settimana. Ti ho fatto riservare una stanza comunicante con la sua. In tal modo non avremo difficoltà a tenerlo sotto controllo.» «Allora sarà il caso di passare dalla villa a prendere la mia attrezzatura. Avrò bisogno anche di qualche vestito di ricambio.» «Per il momento non abbiamo fretta, come ti ho già detto il portiere mi ha confermato che si ferma anche la prossima settimana, ma vorrei lo stesso non perdere tempo: m‟interessa sapere al più presto con chi si metterà in contatto, e soprattutto l‟oggetto delle sue conversazioni. Ricordati di registrare tutto quello che avviene nella stanza, ogni dialogo che farà, sia di persona sia al telefono, e di non perderlo di vista un solo istante!» «Non temere, avrai un resoconto completo d‟ogni suo passo e d‟ogni suo respiro!» «Allora andiamo. Tu vai subito alla villa, io prenderò un taxi. Ti chiamerò più tardi!» Dioniso salì su un taxi che aveva appena fatto scendere alcune persone davanti all‟albergo. Mentre la macchina si tuffava nel traffico del Ring pensò che il mattino seguente avrebbe dovuto cercare di raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni su Rudolf von Rippenburg. Se c‟era di mezzo Rebensberger era opportuno muoversi con i piedi di piombo. Improvvisamente gli venne in mente Vittoria: l‟eccitazione per l‟inseguimento era oramai scomparsa ed ora doveva trovare una buona scusa per lei. Decise di dirle che si era trattato di falso allarme, dovuto ad un calo di tensione nella zona, e che ci aveva messo parecchio perché i pompieri avevano voluto controllare l‟impianto antincendio prima di dichiarare la zona sicura.