MASSIMO TOMÌO
Il Profumo del Repìnto
ROMANZO
Il profumo del Repìnto
© Massimo Tomìo 2011
[email protected]
[email protected]
Avvertenza
I fatti ed i personaggi di questo romanzo sono immaginari, con qualche riferimento
reale.
I luoghi sono reali, con qualche riferimento immaginario.
PARTE PRIMA
Venerdì 27 aprile 1945
A
l maggiore delle SS Ulrich Greifhügel non era mai capitato
di provare un simile stato di agitazione: sudava freddo, gli
tremavano le mani, il cuore gli batteva all‟impazzata e la
bocca dello stomaco era stretta da una morsa invisibile. Il
messaggio che aveva appena ricevuto da Berlino avrebbe
dato una svolta imponente alla sua vita, ma non aveva ancora ben compreso se in
positivo o in negativo. Il tono della voce di Wilhelm aveva contribuito ad aumentare
l‟ansia, trasferendogli parte della tensione dell‟amico.
Quale responsabile della sicurezza di Castel Labers aveva libero accesso alla sala
radio e comunicazioni. Vi si era recato pochi minuti prima delle ventitré ed aveva
mandato il caporale di turno a fumarsi una sigaretta. Non era stato facile convincerlo. Il caporale era appena arrivato a Merano ed era al suo primo incarico operativo;
inizialmente era rimasto alquanto sorpreso dalla richiesta del maggiore, poi, visto
che il turno era ancora lungo, aveva acconsentito e, data la stazza, si era rumorosamente alzato dalla sedia ed era finalmente uscito dalla sala radio.
Alle ventitré precise il maggiore aveva cambiato la frequenza della radio ed era
rimasto pazientemente in ascolto. Il venerdì prima non c‟era stata nessuna trasmissione, quindi si augurava che questa fosse la volta buona. Poco dopo una voce, che
riconobbe immediatamente essere quella del suo amico, il maggiore Wilhelm von
Rippenburg, gracchiò nell‟altoparlante. Il messaggio era composto da una serie apparentemente priva di significato di lettere che il maggiore si affrettò a trascrivere.
Wilhelm stava trasmettendo più velocemente del solito, come se avesse fretta di
concludere la comunicazione: ad un certo punto disse solamente fine, la comunicazione cessò e la radio tornò a gracchiare. Proprio mentre stava risintonizzando la radio sulla frequenza corretta si aprì la porta, ed il caporale rientrò. Il maggiore Greifhügel temette per un momento di essere stato scoperto, ma fortunatamente il caporale non si era accorto di nulla. Certo, se avesse fatto qualche domanda imbarazzante
lo avrebbe potuto zittire facilmente, ma si sentiva in colpa e avrebbe preferito non
avere discussioni con un sottoposto appena arrivato. Per quanto ne sapeva poteva es-
4
sere un infiltrato della Gestapo. Non sopportava quei boriosi spioni, che più di una
volta avevano cercato di interferire con il suo lavoro.
«Novità signor maggiore?» chiese rientrando.
«No, tutto a posto» rispose.
Uscì dalla sala radio in tutta fretta, cercando di non incrociare lo sguardo del caporale e, tentando di ricomporsi, attraversò il lungo corridoio, salì le scale che conducevano dal sotterraneo al piano terra sbucando finalmente nell‟atrio principale
senza incontrare nessuno. Nonostante non ne avesse la minima voglia - l‟unica cosa
che voleva era raggiungere al più presto la sua stanza al secondo piano - pensò fosse
meglio non cambiare le abitudini serali: doveva effettuare il solito giro d‟ispezione.
Il vice comandante delle guardie, il tenente Trimmel, da buon ufficiale delle SS si
sarebbe di certo insospettito se non lo avesse visto arrivare. Attraversò il salone al
piano terra, fece un cenno alla guardia che si affrettò ad aprire il portone e si ritrovò
nel cortile esterno del castello, dove lo accolsero una raffica di vento e la voce del
tenente che urlava «Heil Hitler!»
Ci mise un po‟ a capire quale delle due fosse la più gelida, poi rispose al saluto
tendendo, ma non troppo, il braccio destro verso l‟alto e biascicando un «Sieg Heil»
non troppo convinto.
L‟aria della notte era ancora invernale, nonostante fosse oramai la fine di aprile:
il tempo non prometteva niente di buono per i giorni successivi. Scambiò alcune parole di circostanza con il tenente, gli augurò una buona nottata e si congedò con un
«Heil Hitler!» decisamente più robusto del precedente.
Salendo le scale, fregandosi le mani l‟una con l‟altra per scaldarle, stava ripensando al messaggio di Wilhelm: il foglio con la trascrizione gli bruciava in tasca.
Avevano ideato un sistema di trasmissione durante un loro incontro avvenuto alla fine dell‟estate del ‟44 a Berlino. Wilhelm era il responsabile del servizio cifratura
al Ministero della Propaganda. Già a quel tempo l‟evolversi della guerra era incerto:
la Wehrmacht incominciava a cedere su vari fronti dopo gli sbarchi degli alleati,
prima in Sicilia nel ‟43 e poi in Normandia nel ‟44. Avevano pensato, potendo disporre entrambi di un apparecchio radiotrasmittente di dimensioni limitate ma di
grande potenza - l‟AFU - che consentiva di comunicare da ogni parte d‟Europa, di
creare un semplice codice ed un sistema di trasmissione che avrebbe loro permesso
di scambiarsi brevi messaggi sull‟evolversi della situazione senza correre il rischio
di essere additati come disfattisti o, peggio, come traditori. La trasmittente di Wilhelm aveva smesso di funzionare e non era stato in grado di farla riparare, così era
costretto ad utilizzare la radio del castello. Il tutto era però reso sicuro dal fatto che i
messaggi venivano crittografati con Enigma; solamente chi conosceva la giusta impostazione dei rotori era in grado di decodificare il messaggio.
5
Erano amici dai tempi dell‟Accademia militare di Bad Tölz ed in varie occasioni
si erano vicendevolmente tolti dai guai e dal rischio di una possibile espulsione; la
loro amicizia era superiore alla devozione verso il Reich e pensavano che non ci
fosse nulla di male a cercare di salvare la pelle se le cose si fossero messe veramente
male.
Ulrich Greifhügel si stava avvicinando ai trent‟anni, ed aveva ancora l‟aspetto di
un sano e robusto ragazzone biondo e ben piantato, cresciuto a patate e crauti.
Proveniva da una famiglia bavarese modesta e di sani principi, che alla sua nascita
conduceva un discreto tenore di vita grazie all‟impiego del padre, un funzionario
ministeriale. Con la grande crisi del ‟23 la situazione economica era però diventata
insostenibile, e la famiglia si era trovata sull‟orlo della povertà. Furono anni nei
quali era difficile persino procurarsi il pane, ma suo padre e sua madre erano riusciti,
pur con grossi sacrifici, a far studiare tutti e cinque i figli. Nonostante la situazione
precaria, suo padre era rimasto dell‟idea che tutti i suoi figli avrebbero dovuto avere
un‟istruzione adeguata se volevano sperare in un futuro migliore di quello che la
sorte gli aveva riservato sino a quel momento. Sua madre, una donna minuta che lui
ricordava da sempre con i capelli grigi, si era adattata a lavorare come sguattera
nelle cucine della tenuta del conte von Reheweide, un ricco possidente dell‟Alta
Baviera.
Nei periodi liberi dalla scuola Ulrich contribuiva alle esigue entrate della
famiglia prestando servizio come aiuto stalliere nelle scuderie della tenuta. Riusciva
a trattenere per sé qualche marco dal magro salario che gli passava il conte, ed il
sabato sera si recava con un gruppo d‟amici a Monaco. Andavano in una birreria del
centro per ascoltare i discorsi dei camerati delle SS, che parlavano della grandezza
di Hitler, di nazionalismo, di una nuova Germania, fondata sull‟affermazione del
primato razziale del popolo tedesco e sull‟antisemitismo. Spesso lo stesso Hitler
partecipava alle riunioni: allora non immaginava di certo che quell‟uomo, capace
con un gesto di ipnotizzare il pubblico, sarebbe stato sia il fautore dei suoi successi,
sia la causa della sua rovina.
Così era riuscito, tra crescenti difficoltà, ad ottenere un diploma di perito tecnico.
Poi nel ‟34 si era presentata quella che aveva considerato la più grande occasione
della sua vita: a Bad Tölz, proprio vicino a casa sua, sarebbe stata inaugurata una
scuola militare. Un‟Accademia che avrebbe formato i nuovi ufficiali delle SS.
Ulrich non aveva perso tempo e si era iscritto alle selezioni: avrebbe potuto far parte
di quel gruppo di soldati che aveva sempre ammirato. Non solo: li avrebbe
addirittura comandati. Poteva finalmente contribuire al futuro della Germania.
Aveva passato notti insonni sui libri per studiare per l‟esame e quando fu ammesso
era al settimo cielo. Finalmente aveva un‟occasione, e che occasione, per dimostrare
6
a tutti quanto valeva.
Quando arrivò a Bad Tölz si rese ben presto conto che tutti gli altri allievi, ad
esclusione di qualche rara eccezione, provenivano da un mondo che lui aveva visto
solo dalle cucine di una tenuta di campagna: la maggior parte non faceva altro che
lamentarsi della scarsa qualità del cibo, della scomodità dei letti e del fatto che al
mattino la sveglia suonava troppo presto. A lui sembrava invece di essere in un albergo a cinque stelle: riusciva a mangiare abbondantemente tre volte al giorno,
aveva un letto con un materasso di lana e vere lenzuola, e non un pagliericcio come
a casa, e dormiva almeno due ore in più ogni notte. La cosa che però lo
entusiasmava più di tutte era quella splendida divisa da cadetto delle SS che gli
avevano consegnato appena arrivato, insieme a tutto il corredo e all‟attrezzatura
militare. Gli calzava a pennello, tanto da sembrare fatta su misura da un sarto. La
domenica durante la libera uscita gli sguardi pieni d‟ammirazione delle giovani balie
al parco, che spingevano le carrozzine con dentro bambini urlanti, lo facevano
sentire già generale e non semplice allievo.
Legò quasi subito con un altro allievo che, pur provenendo da una nobile
famiglia d‟antiche tradizioni prussiane, aveva sempre frequentato, trovandoli più
divertenti e genuini dei figli delle amiche di sua madre, i contadini ed i lavoratori
della tenuta di famiglia, che era il più grande allevamento di bestiame di tutta la
Baviera. Si era dovuto arruolare, pur non avendone nessuna voglia, per via di una
faccenda che sembrava tratta da un feuilleton. Una sera dopo un paio di boccali di
birra Wilhelm si era confessato con Ulrich: era corso dietro alla sottana della figlia
quindicenne del fattore, ma giuro ne dimostrava almeno venti aveva detto alzando la
mano destra ed aveva avuto quello che, con un sorriso sornione sulle labbra, aveva
definito un piccolo incidente sul lavoro, con il risultato che la ragazzina si era
ritrovata incinta e senza più alcuna possibilità di trovare un lavoro ed un marito.
Fortunatamente il vecchio nonno aveva messo mano al portafogli ed era riuscito a
placare le intenzioni omicide del fattore nei confronti della figlia e del futuro duca.
Con un generoso intervento finanziario aveva chiuso la questione e si era impegnato,
quando la ragazza avesse avuto l‟età giusta, a trovarle un marito. A quel punto il
vecchio duca aveva deciso che per Wilhelm la cosa migliore era sparire per un po‟
dalla vista del fattore, e lasciare che le acque si calmassero. Aveva quindi scelto una
soluzione che, parole del duca Ti terrà lontano da quella sgualdrinella, forgerà il
tuo carattere turbolento e soprattutto t’insegnerà a mantenere le distanze dalla
plebaglia!
Arrivavano da educazioni e mondi completamente diversi, ma nello stesso tempo
avevano delle affinità che facevano sì che s‟intendessero all‟istante, e da subito
7
diventarono inseparabili, fra lo scherno degli altri, che li deridevano perché non
partecipavano alla vita sociale del gruppo, che si esauriva nella ricerca di qualche
attempata prostituta in paese durante le rare libere uscite del sabato sera dopo un
paio di boccali di birra sempre troppo calda e troppo annacquata.
Il momento più emozionante era venuto quando avevano giurato fedeltà a Hitler
ed alla patria nella Feldherrnhalle a Monaco la sera del 9 novembre 1934. Alle dieci
di sera precise - nell‟ora in cui in quello stesso luogo nel 1923 era iniziato il putsch
che aveva dato il via all‟avvento del nazionalsocialismo in Germania - alla luce delle
sole fiaccole che circondavano la piazza, avevano giurato fedeltà al Führer. Poi con
le lacrime agli occhi per l‟emozione, Wilhelm lo aveva abbracciato e gli aveva
giurato che mai avrebbe permesso a qualcuno di interferire nella loro amicizia, che
non sarebbe mai stata messa in discussione, neanche dagli interessi della patria o di
chicchessia. Ulrich aveva ricambiato la promessa, ed aveva capito che, per quanto
fosse convinto della validità degli insegnamenti che gli erano stati impartiti a Bad
Tölz, nulla valeva più dell‟amicizia con Wilhelm.
Ora Wilhelm stava tenendo fede al suo giuramento, doveva aver rischiato molto
per inviargli quel messaggio e Ulrich si stava augurando di poterlo riabbracciare al
più presto e di prendersi una colossale sbronza insieme, come ai vecchi tempi.
Ancora preso dai ricordi entrò nella stanza, accese la luce e prese dal comodino
la copia del Mein Kampf che il Führer gli aveva personalmente consegnato tre anni
prima. Aprì il libro e rilesse la dedica scritta di proprio pugno dal Führer “Meine Ehre
1
heisst Treue” , la firma di Hitler e sotto le parole “Sieg Heil”. Quel motto era stato
l‟orgoglio di tutte le SS e non solo degli ufficiali, che lo avevano inciso sulla daga
che portavano nelle cerimonie ufficiali e nelle parate. Lo stesso Hitler lo aveva
creato per loro, ed era stato motivo di immensa esaltazione per il Reichsführer
Himmler. Per molto tempo era stato fermamente convinto del significato di quelle
parole e del fatto che rispecchiassero in pieno il suo carattere: sarebbe stato pronto a
morire in qualsiasi momento se ciò fosse servito a salvare il Führer o la Germania,
ma ora nella sua mente incominciavano ad insinuarsi dei dubbi.
Ripensò di colpo agli avvenimenti che l‟avevano portato a ricevere quel dono
prezioso dalle mani del Führer. Era il febbraio del 1942, all‟epoca si trovava a
Roma, all‟ambasciata germanica, con l‟incarico di attaché militare. Era anche
accreditato presso il quartier generale dell‟esercito italiano. Un incarico noioso ed
insignificante: fungeva da ufficiale di collegamento, ma gli italiani, pigri ed
indolenti, cercavano solamente di sfruttare la loro posizione per il proprio tornaconto
1
8
Motto delle SS, il cui significato è: Il mio onore è la fedeltà (N.d.A.).
lavorando il meno possibile.
Un giorno gli fu consegnato un ordine scritto proveniente da Berlino che gli
ingiungeva di recarsi immediatamente all‟aeroporto; lì si sarebbe imbarcato su un
aereo. L‟ordine non specificava altro. Uscì dal comando e salì su una macchina che
lo stava aspettando. Arrivato all‟aeroporto trovò ad attenderlo sulla pista, con i
motori accesi, uno Junkers 52/3m della Luftwaffe che aveva paralizzato il resto del
traffico aereo. Sembrava un grosso uccello pronto per spiccare il volo, con i tre
motori che rombavano all‟unisono, appoggiato sulla piccola ruota sotto al timone di
coda e con il muso puntato verso l‟alto.
Solo i generali avevano il privilegio di utilizzare un aereo per questioni di
servizio, ed in più scoprì, appena salito a bordo, di essere l‟unico passeggero.
Cominciò a pervaderlo una certa tensione, che continuò a crescere per tutto il volo,
che sarebbe durato tre ore e mezza. Da quando era salito non aveva percepito la
presenza di altre persone sull‟aereo, esclusa ovviamente quella del pilota e del suo
secondo, che lo aveva a malapena salutato quando si era arrampicato sulla scaletta
per entrare, sparendo subito nella cabina di pilotaggio. Non aveva potuto chiedere
dove erano diretti e la cosa gli dava fastidio: per quanto fosse sempre pronto ad
eseguire agli ordini che riceveva, non gli piaceva essere trattato come un pacco.
Lo Junkers 52/3m era il suo aereo preferito; i piloti lo avevano soprannomi nato
Tante Ju - zia Ju. Da lontano era bellissimo: il colore argenteo lo faceva scintillare al
sole come uno specchio ed il contrasto con i motori scuri appariva ancora più
marcato. Da vicino, almeno inizialmente, tradiva un po‟ le aspettative: l‟alluminio
ondulato della fusoliera e delle ali assomigliava a quello delle baracche ed il muso,
con il terzo motore centrale, gli aveva sempre ricordato quello di un‟anatra con il
becco mozzato. Ma erano particolari ai quali si era affezionato e che rendevano
l‟aereo unico nel suo genere, diverso dai banali bimotori e dagli esagerati ed
ingombranti quadrimotori americani. Vanto dell‟aviazione germanica, civile prima e
militare poi, era un apparecchio che si adattava a molteplici usi e scopi. Quello sul
quale era appena salito era la versione g8e, la più recente, equipaggiata con un
sistema di autopilota tra i più innovativi ed efficienti che l‟aviazione mondiale
avesse sino ad allora montato su un aereo. Il colore argento era stato ricoperto, per
ovvi motivi mimetici e tattici, da un fondo di verde scuro ed opaco, sul quale erano
state disegnate delle chiazze irregolari in varie tonalità di marrone. Pur essendo
chiaramente un aereo da trasporto e non da combattimento, per il quale era
sicuramente poco maneggevole, era dotato di un armamentario di tutto rispetto: una
mitragliatrice MG 131 era sistemata nella parte alta dorsale della fusoliera. In caso
d‟attacco poteva essere un ottimo deterrente per gli aerei nemici. L‟unico ad avere
qualche difficoltà poteva essere il mitragliere, costretto a volare all‟aperto riparato
9
solamente da un piccolo parabrezza, ma gli uomini della Luftwaffe erano temprati e
pronti ad ogni sacrificio per servire il Reich.
Si era seduto in seconda fila sul lato destro in modo da poter osservare il
panorama senza che l‟ala intralciasse la vista. Con l‟aereo fermo non vedeva assolutamente nulla, se non l‟azzurro del cielo. Appena seduto l‟aereo iniziò a rullare
pigramente sulla pista, poi il pilota diede tutta manetta, lanciando i motori al massimo. In breve la coda si sollevò in posizione orizzontale e l‟aereo prese dolcemente
quota. Uno dei grossi vantaggi della Tante Ju era quello di riuscire a decollare e,
soprattutto, ad atterrare su piste cortissime ad una velocità estremamente ridotta: a
parità di capacità di trasporto e di autonomia di volo non aveva rivali in questo
campo. Un capitano della Luftwaffe gli aveva spiegato, durante una bevuta di birra,
che erano sufficienti 400 metri di pista per decollare ad una velocità di 65 nodi e 350
metri per atterrare, ma che lui era riuscito ad atterrare in 225 metri con l‟aereo ad un
passo dallo stallo, ed a decollare in 375 metri, con un leggero vento contrario che lo
aveva aiutato. La velocità massima era di tutto rispetto: 130 nodi che si riducevano a
100 in crociera. Con una capacità dei serbatoi di 2.500 litri aveva un raggio d‟azione
di 1.200 chilometri in 6 ore di volo.
Aveva capito, subito dopo il decollo, che lo Junkers stava puntando verso nord.
Lo spettacolo era inebriante, almeno si sarebbe goduto quello. Conosceva
abbastanza bene l‟Italia, non solo dal punto di vista culinario - andava matto per tutti
primi, apprezzando in modo particolare i bucatini alla matriciana ed il risotto ai frutti
di mare - ma anche da quello geografico, per riconoscere molti dei luoghi che
stavano sorvolando. Ad un certo punto, dopo aver bucato un gruppo di nuvole, si era
trovato ad avere a destra il mare Adriatico, a sinistra il mare Tirreno, con la sagoma
montuosa della Sardegna riconoscibile all‟orizzonte, e l‟Appennino in basso. Dopo
aver sorvolato Firenze e Bologna, dalla cabina uscì il secondo pilota, che gli disse
con il tono che era più quello di un ordine, di indossare la maschera ad ossigeno. Ciò
stava ad indicare che sarebbero saliti di quota: l‟aereo era in grado di volare sino ad
altezze di oltre 5.000 metri, ma non essendo pressurizzato di solito si manteneva di
poco al di sopra dei 3.000. Quindi avrebbero oltrepassato le Alpi; pensò che forse
erano diretti a Berlino. L‟intervento del secondo pilota lo aveva distratto e non era
riuscito a capire se l‟aereo continuasse il volo in direzione nord, o piuttosto verso
nord-ovest o nord-est, cosicché quando sorvolarono le Alpi, non sapeva se stavano
navigando verso l‟Austria, la Svizzera o addirittura la Francia.
Dopo circa mezz‟ora, durante la quale la temperatura all‟interno dell‟aereo si era
abbassata vertiginosamente, riconobbe la vallata di Innsbruck ed individuò la città
quando furono sulla sua verticale. Continuarono a volare in direzione nord-est e
scendendo di quota gli apparvero paesaggi ancora più familiari, anche se dall‟alto
10
erano molto diversi che da terra. Ormai ne era sicuro: stavano sorvolando il Tegernsee. Dopo una decina di minuti scorse sulla destra il perimetro inconfondibile del
Chiemsee, con la Herreninsel, il castello di Ludwig - il Herrenchiemsee - ed i suoi
giardini che si ispiravano come il castello alla Reggia di Versailles. Sentì un nodo
alla gola. Era da molto, troppo tempo, che non faceva visita ai suoi genitori. Aveva
ricevuto alcune lettere da sua madre, che si diceva preoccupata per la sorte dei suoi
fratelli. Tre erano impegnati in prima linea sul fronte russo, dal quale per fortuna
giungevano notizie confortanti. Le aveva scritto nella risposta che per gli ufficiali la
guerra non era poi così pericolosa come per i militari di truppa.
Per quanto riguardava Hermann, non aveva di che preoccuparsi, oramai era
diventato un pilota esperto e quasi un eroe nazionale: il mese prima, a soli 22 anni,
era stato promosso tenente e decorato con la Croce di Cavaliere dell'Ordine della
Croce di Ferro per aver abbattuto il cinquantesimo aereo nemico. Si trovava da
qualche parte in Africa e le comunicazioni erano molto difficili, anche per lettera.
Ma Hermann era un vero asso dell‟aviazione; inoltre sapeva tutto sugli aerei, sulle
loro caratteristiche e prestazioni. Un po‟ lo invidiava: da quando aveva provato
l‟ebbrezza del volo aveva un leggero rimpianto, ma si era consolato con il fatto che
se fosse stato un pilota sarebbe stato probabilmente in prima linea a combattere. Non
che fosse un codardo, ma non era mai stato smanioso di partecipare attivamente alle
operazioni belliche agli ordini di qualche invasato. E poi anche lui contribuiva allo
sforzo del Reich, forse non in quel preciso periodo - al momento non vedeva alcuna
utilità nel suo lavoro all‟ambasciata a Roma - ma in fin dei conti era stato tra i
migliori del suo corso a Bad Tölz, e presto o tardi se ne sarebbero ricordati anche a
Berlino. I pensieri lo ricondussero a Hermann che gli aveva insegnato i primi
rudimenti del volo a bordo di uno Junkers 87, lo Stuka da combattimento. Lo aveva
portato in quota e poi gli aveva lasciato i comandi, dicendogli Vediamo cosa sai
fare. Ulrich si era spaventato a morte, ma con l‟aiuto del fratello era riuscito ad
atterrare. La sua passione per il volo non si era mai sopita, anche se non vi erano
state molte altre occasioni di salire a bordo di un aereo.
Tornò alla realtà quando l‟aereo effettuò una virata a destra. Si sarebbe aspettato
che proseguisse verso nord, atterrando eventualmente a Monaco per uno scalo
tecnico; se l‟aereo, com‟era logico immaginare, era diretto a Berlino, avrebbero
avuto bisogno di fare rifornimento. Era curioso di vedere Monaco dall‟alto, avrebbe
potuto riconoscere molti palazzi e strade, la visibilità era ottima. Nel frattempo
aveva chiaramente capito che l‟aereo aveva iniziato la manovra d‟avvicinamento ad
un aeroporto: il rombo dei tre motori era diminuito e la sensazione che il muso
stesse puntando verso il basso si era trasformata in certezza quando le strade e le
case erano diventate nuovamente ben distinguibili. Ogni tanto era necessaria una
11
breve correzione alle leggere imbardate che facevano vibrare tutta la struttura e gli
causavano un leggero mal d‟aria. Non trascorse molto tempo, forse una decina di
minuti, durante i quali il pilota picchiava per poi stabilizzare l‟aereo e farlo
rallentare dalla velocità che aveva acquisito, quando sotto l‟aereo comparve la
striscia grigia dell‟asfalto della pista: un impercettibile tocco, una leggera frenata e
l‟aereo abbassò docilmente la coda. Si sarebbe aspettato che l‟aereo liberasse al più
presto la pista e si dirigesse verso gli hangar o verso una zona parcheggio. Invece
l‟apparecchio rullò poco oltre la metà della pista per poi fermarsi. A quel punto vide
a bordo pista una macchina ferma. Il secondo pilota aprì il portellone, sistemò la
scaletta e lo invitò con il solito tono brusco a scendere. Un tenente delle SS gli
venne incontro, mentre lo Junkers era di nuovo in movimento.
Si chiedeva in che aeroporto fossero atterrati. Nonostante non avesse nulla da
temere, la sua fedeltà non era mai stata messa in discussione e non aveva mai agito
in contrasto con gli interessi del Reich, iniziò seriamente a preoccuparsi. L‟ufficiale
lo invitò a seguirlo ed a salire in macchina - una Volkswagen Kübelwagen Typ 82
senza contrassegni - con un‟autorità ed una fermezza che, essendo un suo
subalterno, si sarebbe potuto permettere solo agendo su ordine ed al servizio di
qualcuno veramente in alto. Si era seduto sul sedile posteriore della Volkswagen,
mentre il tenente, un giovane biondo, dai lineamenti spigolosi e con due occhi di un
azzurro liquido che lo avevano messo a disagio quando li aveva incrociati, aveva
preso posto davanti. Con un cenno del capo ed un “Los” secco che sembrava un
latrato, aveva ordinato all‟autista di partire. Questi non se l‟era fatto ripetere, e fra
l‟ordine e lo scatto della macchina era trascorsa solo una frazione di secondo, segno
che il motore era acceso, che la marcia era inserita ed il piede era pronto a premere
sull‟acceleratore. Non lo aveva sentito per via del rombo dello Junkers che in quel
momento stava passando proprio alle loro spalle ed aveva appena sollevato le ruote
da terra.
La Volkswagen si diresse a tutta velocità verso il cancello d‟uscita
dell‟aeroporto, oltrepassò un posto di blocco senza rallentare e, una volta al di fuori
dall‟area aeroportuale, svoltò a destra facendo fischiare le gomme sull‟asfalto. A
quel punto seppe dove si trovava. Dall‟alto non era riuscito ad individuare il luogo
esatto verso il quale l‟aereo stava puntando, ma la visione da terra gli aveva
permesso di riconoscere che erano atterrati a Salisburgo: dall‟aereo non aveva visto
la fortezza, che ora invece era apparsa alla sua sinistra, inconfondibile per colore,
forma e dimensioni. Conosceva discretamente la città per via di una giovane
austriaca, mora, soda e molto intraprendente, in compagnia della quale vi aveva
trascorso una breve licenza alcuni anni prima. Sapeva, pur non essendoci mai stato
prima di allora, dove era situato l‟aeroporto rispetto alla città.
12
Ma l‟autista non si stava dirigendo verso la città. Aveva svoltato a destra e stava
puntando verso Berchtesgaden. Come mai stavano andando in Germania? E come
mai in quella parte della Germania che era nient‟altro che una sacca di territorio del
Reich circondata dall‟Austria, per quanto ormai era dal 1938 che l‟Austria era stata
annessa alla Germania e dal 1939 che non esisteva più come stato sovrano. Chiese
conferma di quanto aveva intuito al tenente, ma questi non si degnò di rispondere
alle sue domande. Lo aveva semplicemente azzittito con uno sguardo che era
sembrato una saetta.
La Volkswagen viaggiava ad una velocità sicuramente eccessiva per le condizioni della strada, ma l‟autista riusciva lo stesso a pennellare le curve dimostrando
esperienza e perizia non comuni, dovute non solo alla conoscenza approfondita del
tracciato.
Erano ormai giunti alle porte di Berchtesgaden, di cui di tanto in tanto
intravedeva la sagoma del campanile a cipolla fra i fitti abeti e larici del bosco che
assediava la strada. Dietro una curva secca a sinistra l‟autista fece ricorso a tutta la
sua abilità per evitare il carico di legname, che un carro trainato da due buoi aveva
perso e che occupava gran parte della carreggiata. Dapprima frenò bruscamente
girando il volante verso sinistra: le ruote anteriori della Volkswagen si bloccarono e
la macchina proseguì per la tangente avvicinandosi pericolosamente al bordo della
strada; poi liberò i freni, consentendo così alle gomme di recuperare aderenza sul
terreno, e la macchina riprese a curvare verso sinistra. Nel frattempo aveva scalato
marcia: improvvisamente premette a fondo l‟acceleratore ed altrettanto
repentinamente frenò di nuovo. La macchina aveva compiuto mezzo giro su sé
stessa e si era fermata senza danni. I freni della Volkswagen erano stati messi a dura
prova e lo stridore delle gomme aveva fatto voltare i tre uomini che stavano
recuperando i tronchi sparsi sulla strada. Nel trambusto della manovra Ulrich era
riuscito ad aggrapparsi ai due sedili anteriori ed a puntellarsi con le braccia
assorbendo la frenata ed il testacoda senza conseguenze; il tenente, invece, distratto
da chissà cosa, non fu altrettanto pronto ed andò a sbattere violentemente con la
fronte contro la maniglia fissata sul cruscotto, alla quale avrebbe fatto meglio a
tenersi ben saldo.
Poi tutto accadde in un attimo: l‟autista, un gigante di due metri abbondanti con
due spalle che lo facevano sembrare un armadio, aveva imbracciato un fucile FG42
in dotazione ai soldati delle SS sbucato fuori da chissà dove ed il tenente era rotolato
fuori dalla macchina impugnando una fiammante Walther P38 d‟ordinanza. Se non
fosse stato per Ulrich, che aveva capito che erano solo dei contadini e lo stava
urlando ai due con tutta la voce che aveva in gola, li avrebbero prima fatti secchi e
poi verificato chi erano e cosa era successo. A quel punto il tenente fece un cenno
13
all‟autista che mise via la mitragliatrice; imprecando contro i tre malcapitati risalì
nella macchina, che ripartì in tutta fretta. Si girò e, dopo aver lanciato un ultimo
insulto ai tre ancora fermi impalati in mezzo alla strada, gli chiese se fosse tutto a
posto. Fu a quel punto che vide che il tenente sbattendo contro la maniglia fissata sul
cruscotto si era procurato un taglio sulla fronte, che sanguinava copiosamente.
Annuendo con la testa pensò: Ben ti sta, brutto stronzo, così impari a fare l’esaltato.
Dopo alcune centinaia di metri la macchina svoltò a destra abbandonando la
strada per Berchtesgaden per imboccare una carrozzabile che saliva sul fianco della
montagna. Dopo alcuni tornanti giunsero ad un posto di blocco, che oltrepassarono
senza alcuna difficoltà rallentando appena l‟andatura.
Erano usciti dal bosco e davanti a loro si era aperta una radura. Ulrich aveva
notato che sulla sinistra la strada era delimitata da una recinzione elettrificata
all‟interno della quale si intravedevano numerose pattuglie di soldati. Poco dopo
l‟autista si fermò davanti ad un doppio cancello che permetteva di accedere
all‟interno della recinzione. Lì i soldati erano molto più numerosi ed il tenente
scambiò alcune frasi di circostanza con un capitano che gli stava chiedendo della sua
ferita, esortandolo a farsi medicare subito al posto di guardia. Il tenente lo trattò con
ancora più sufficienza e tracotanza di quella che aveva riservato ad Ulrich, a
conferma del fatto che, nonostante il suo grado, contasse molto in quella situazione.
L‟autista stava sollecitando i soldati ad aprire i cancelli con uno schnell, schnell
perentorio; non appena intravide un varco sufficiente a far passare la macchina senza
strisciarla, partì sgommando. La strada era diventata stretta e si arrampicava sulla
montagna con una serie di curve e controcurve, tornanti e brevi rettilinei, ma la
velocità continuava ad essere ancora, a suo parere, troppo elevata. L‟aria fresca
dovuta alla presenza del fitto bosco dava una sensazione piacevole, ma non riusciva
a contrastare il malessere che lo aveva pervaso per quanto stava accadendo. Aveva
ubbidito come sempre agli ordini senza porre obiezioni ed ora si trovava con due
pazzi su di una macchina che percorreva a velocità folle una strada di montagna per
condurlo chissà dove e, soprattutto, chissà da chi.
Alla sua destra, molto più in basso, intravedeva ancora il paese di Berchtesgaden
e più a sud lo specchio Königssee, mentre a sinistra, alcune centinaia di metri sopra
di loro, dopo una parete quasi verticale s‟intuiva la cima della montagna. La
macchina percorse alcuni chilometri attraverso il bosco. Ad un certo punto l‟autista
rallentò prima di un tornante a sinistra, ingranò la prima e si accinse a percorrere con
il motore della Volkswagen che urlava quello che da lì a poco si sarebbe rivelato
l‟ultimo e soprattutto il più spettacolare tratto di quel capolavoro di ingegneria
stradale: dodici tornanti strappati alla roccia viva che sbucavano in un terrazzo
naturale dal quale si godeva un panorama mozzafiato sulla vallata sottostante.
14
La Volkswagen si fermò davanti all‟imbocco di una galleria scavata nella roccia
che conduceva all‟interno della montagna. Sull‟ingresso campeggiavano ai due lati
una svastica ed un‟aquila ed al centro la scritta 1939, segno che la galleria era di
recente costruzione. Subito a destra dell‟ingresso vi era una palazzina per metà
scavata nel fianco della montagna che, dato l‟andirivieni, doveva essere la sede del
corpo di guardia. Aveva contato almeno quaranta soldati che si muovevano a gruppi
di due. Ogni pattuglia aveva un cane: un dobermann o un pastore tedesco. Alcuni
gruppi si stavano incamminando lungo un sentiero a destra del corpo di guardia, altri
scendevano lungo la strada che aveva appena percorso in macchina, altri ancora
stavano dirigendosi verso il lato opposto del piazzale rispetto al quale si trovava ed
alcuni ne pattugliavano il perimetro. Notò, inoltre, che lungo il fronte del terrazzo
che dominava la vallata erano state allestite delle postazioni ben mimetizzate con
cannoni antiaereo e mitragliatrici pesanti.
Il tenente che lo aveva accompagnato fece un cenno al caporale di guardia alla
galleria, che aprì lo sportello della macchina. Ulrich scese, mentre il tenente rimase
seduto senza curarsi di salutarlo. S‟incamminò all‟interno del tunnel, ben illuminato,
ma nel quale l‟aria era stagnante ed umida: percorse un centinaio di metri seguendo
la guardia ed arrivò in fondo alla galleria. Di fronte a lui vi era una grossa porta di
ferro con altri due soldati di guardia insieme ad un pastore tedesco.
La bestia era completamente nera e lo fissava ringhiando senza perdere d‟occhio
ogni suo movimento. Sulla destra un ampio passaggio immetteva in uno spazio
circolare, una specie di grotta con il soffitto a volta, dove si apriva una porta. Era
una porta del tutto particolare; misurava almeno due metri di larghezza per due
d‟altezza ed era composta di un telaio d‟ottone lucido con il bordo finemente
decorato, che sosteneva degli specchi. La porta si aprì scorrendo lateralmente e
rivelando la cabina di un ascensore. Un sergente gli fece cenno di entrare. La cabina
era di dimensioni notevoli, larga almeno il triplo della grandezza della porta e lunga
altrettanto. Sui tre lati liberi vi era una panca imbottita, foderata di pelle verde,
sormontata anch‟essa da specchi bordati d‟ottone. Al centro del soffitto era inserita
una plafoniera circolare che distribuiva una luce soffusa che dava al tutto un‟atmosfera quasi romantica, non fosse stato per il fatto che tutto intorno non vi erano altro
che soldati e cani.
La porta si chiuse con un soffio e la cabina iniziò a muoversi. Stava sicuramente
percorrendo una sorta di condotto verticale scavato nella roccia. Trascorse circa un
minuto e la cabina finì dolcemente la sua corsa, la porta si riaprì e si trovò di fronte
un capitano delle SS che lo salutò, finalmente, in maniera cordiale e gli fece cenno
di seguirlo. Oltrepassarono un robusto portone di legno sulla destra, ed
attraversarono una stanza lunga, stretta e bassa, in tipico stile alpino, con il
15
pavimento di legno, le pareti anch‟esse rivestite di legno d‟abete ed il soffitto a
cassettoni. In fondo vi era una porta a vetri, mentre dal lato sinistro la luce entrava
da una serie di finestre, oltre le quali facevano bella mostra di sé le cime innevate
delle Alpi intorno a Berchtesgaden. Il capitano aprì la porta a vetri ed entrambi
scesero una decina di gradini che immettevano in un salone di forma ottagonale. Lo
stile era completamente cambiato. Il salone aveva le pareti in blocchi di porfido a
vista ed il pavimento di marmo chiaro.
Sopra ad un enorme tappeto, nel centro del salone, vi era un tavolo rotondo con
intorno una dozzina di ampie poltrone. Tutto era sovradimensionato in quella stanza:
dall‟imbottitura delle poltrone all‟altezza del tappeto fino allo spessore dei muri
esterni, larghi almeno un metro. Sotto ad ogni finestra trovavano posto due poltrone
ed un tavolino. Nel grande camino in marmo verde, a destra della scalinata, ardeva
un fuoco che diffondeva un piacevole tepore in tutto il salone.
In fondo alla scalinata il capitano che lo accompagnava gli fece cenno di
fermarsi e proseguì verso un uomo seduto al tavolo ed intento leggere. Non appena
questi si voltò lo riconobbe: si trattava di Heinrich Himmler. Il Reichsführer
scambiò con il capitano qualche parola a bassa voce, poi lo congedò, si alzò e si
diresse verso di lui.
«Capitano Greifhügel, Le dò il benvenuto a Kehlstein. Ho sentito molto parlare
di lei!»
Ulrich scattò sull‟attenti e, sbattendo i tacchi come gli era stato insegnato
all‟Accademia, salutò il Reichsführer con un Heil Hitler da manuale.
«Venga, venga, accomodiamoci da questa parte.»
Ulrich non riusciva a capire come mai un uomo del calibro di Himmler gli si
rivolgesse in maniera tanto amichevole, come se fossero stati vecchi compagni di
bevute. Si accomodarono alla finestra a sinistra dell‟entrata.
«I suoi meriti e le sue capacità sono giunti sino alle nostre orecchie caro
Greifhügel: lei si è distinto in più di un‟occasione dando prova di essere senza
dubbio il migliore nel settore delle comunicazioni. No, non m‟interrompa. Si
chiederà come mai l‟ho fatta venire sino a qui. A proposito, sa con esattezza dove ci
troviamo? No, bene glielo spiegheremo più tardi. Ora veniamo al perché lei si trova
qui. Si tratta di un progetto della massima segretezza, che ci permetterà di dare il
colpo di grazia agli inglesi. Non si tratta di un‟operazione che richiederà la sua
presenza al di fuori dei territori del Reich o dei suoi alleati, e ci serve un uomo che
abbia capacità organizzative e conoscenze nel campo delle trasmissioni e che,
ovviamente, abbia dimostrato assoluta lealtà verso il Führer! Ritengo, ed il Führer
condivide in pieno la mia scelta, che lei sia la persona giusta! Del progetto sono a
conoscenza solo cinque persone in tutto il Reich, compreso naturalmente il Führer,
16
al quale riferisco io soltanto. Non posso, anche per il suo bene, darle altre informazioni, prima che lei accetti l‟incarico, e la avviso sin d‟ora che non ci potranno essere ripensamenti da parte sua. L‟unica cosa della quale posso metterla al corrente è
che non le sto chiedendo di uccidere nessuno, anche se so che se fosse necessario
non si tirerebbe indietro! Perciò prima di proseguire le chiedo se accetta l‟incarico
ancor prima di venire a conoscenza dei dettagli, altrimenti la nostra conversazione
finisce qui e lei potrà tornare immediatamente a Roma!»
Himmler aveva parlato senza dargli il tempo di intervenire, ma Ulrich conosceva
già la risposta.
«Sono pronto ad eseguire senza discutere qualsiasi ordine mi vorrà dare,
mantenendo la più assoluta segretezza» rispose, con un tono ed una sicurezza degna
dei migliori ufficiali delle SS.
Le parole gli uscirono in quel modo non tanto perché aveva imparato a
rispondere con quella fermezza e decisione ai superiori. Egli era veramente convinto
di quanto diceva, avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere e difendere la
Germania e soprattutto per portarla alla vittoria finale. Il fatto poi che Himmler non
gli avesse ancora rivelato alcun dettaglio e che il suo discorso fosse stato criptico era
un fattore del tutto trascurabile. Avrebbe eseguito qualsiasi ordine del Reichsführer
senza discutere per il semplice fatto che così gli era stato insegnato: Himmler non
aveva bisogno di chiedere il suo parere o permesso per dargli un ordine. Il fatto che
lo avesse comunque interpellato lo riempiva d‟orgoglio. Ciò voleva dire che la sua
grande occasione era infine arrivata e non se la sarebbe di certo fatta fuggire.
«Bene» proseguì il Reichsführer «proprio come mi aspettavo.»
«Come Lei certamente saprà, stiamo cercando da anni un piano efficace che ci
permetta di invadere la Gran Bretagna. Quello che invece non sa è che, al contrario
di quanto sta sbandierando ai quattro venti il Ministro della Propaganda, non
abbiamo ancora trovato una soluzione. Non abbiamo di certo bisogno di una nuova
battaglia d‟Inghilterra. Stiamo cercando un piano alternativo che ci faccia
risparmiare tempo, denaro ed anche la vita di qualche soldato. Le nostre fatiche sono
però state premiate e credo di aver trovato un espediente che ci consentirà di annientare gli inglesi.»
Ulrich stava seguendo interessato quanto gli stava raccontando il Reichsführer e,
da uomo pratico quale era, era curioso di ascoltare la parte operativa del piano, non
riuscendo ancora a capire quale potesse essere il proprio ruolo.
«Non si preoccupi» proseguì il Reichsführer, «come le ho detto non ho
intenzione di inviarla al fronte a combattere, quello che abbiamo in mente è un‟altra
cosa. Vogliamo indebolire e portare al tracollo l‟economia inglese immettendo sul
mercato monetario grandi quantità di sterline.»
17
Ulrich era allibito: Bella pensata, disse fra sé, regaliamo i nostri soldi agli
inglesi che saranno ben felici di divertirsi alle nostre spalle.
Fortunatamente trattenne per sé le sue perplessità e disse solamente «Non
capisco come potrei rendermi utile, non m‟intendo d‟economia o di mercati
monetari!»
Il Reichsführer proseguì, facendo un cenno che lasciava intendere di non
preoccuparsi.
«Non le spiegherò ora i meccanismi economici che agiscono in questo
particolare contesto, Le basti sapere che le sterline saranno false, ma ben fatte come
le originali, e che le stamperemo noi. Lei si occuperà di ricevere le banconote,
provvederà alla loro conservazione ed alla loro distribuzione secondo gli ordini che
io ed il Führer le impartiremo personalmente. Tutto questo avverrà in una sede che
abbiamo già individuato e della quale Lei sarà il solo ed unico responsabile sia dal
punto di vista della sicurezza interna sia dell‟organizzazione generale e di tutto il
personale, militare e civile!»
«Sono pronto a prendere servizio immediatamente!» fu la risposta decisa di
Ulrich, che non sapeva ancora perché, ma trovava il piano astuto.
«Bravo Greifhügel!» disse il Reichsführer, «comincerà oggi, prendendo possesso
della sede che abbiamo individuato per l‟operazione. Farà un sopralluogo e mi
comunicherà direttamente di quanti uomini riterrà di avere bisogno per tutti i servizi.
Tenga presente che la struttura dovrà essere organizzata in modo da essere
autosufficiente e che l‟unica cosa che riceverete dall‟esterno con cadenza
settimanale saranno i viveri. Ora sarà riaccompagnato all‟aeroporto di Salisburgo e
da lì prenderà un aereo che la condurrà a Bolzano, da dove in automobile raggiungerà Merano. Domani mattina prenderà possesso di Castel Labers a Maia Alta e da
quel momento inizierà ufficialmente l‟operazione. Renderà conto di tutto solo ed
esclusivamente a me, e a nessun altro!»
Dunque era Merano la sua destinazione. L‟idea di Merano era semplicemente
geniale. Chi avrebbe mai immaginato che un luogo nel quale tutti gli alberghi, le
scuole e soprattutto le caserme erano stati trasformati in ospedali militari, fosse stato
scelto come base di un‟operazione destinata a cambiare il corso della guerra?
A quel punto Himmler si alzò, subito imitato da Ulrich, e si diresse verso il lato
opposto della stanza, facendogli cenno di seguirlo. «Venga, Le presento una
persona.»
Solo allora si accorse che non erano soli nel salone. Alla finestra opposta a quella
dove erano seduti fino a quel momento un uomo stava guardando il panorama e gli
voltava le spalle. Era in abiti borghesi, ma la bassa statura e la fisionomia non
lasciavano dubbi: si trattava senza dubbio del Führer. In quel momento si voltò e
18
Ulrich, che era rimasto per un attimo impietrito, lo salutò con uno squillante Heil
Hitler.
Fu allora che il Führer gli consegnò il libro che teneva in mano.
«Confidiamo nelle sue capacità maggiore, non ci deluda.» furono le sue parole.
Ulrich, non voleva di certo contraddire il Führer e quanto meno fargli notare che
aveva compiuto un errore, non riuscì però a trattenersi e rispose «Mein Führer, La
ringrazio per la fiducia, ma non sono maggiore, sono capitano.»
«Si sbaglia Greifhügel» fu la risposta secca del Führer, «da questo momento lei è
un maggiore delle SS!»
Himmler lo accompagnò personalmente sino all‟ascensore, raccontandogli in
poche parole la storia di Kehlstein. Si trattava di un rifugio che il partito nazista
aveva fatto costruire in soli tredici mesi e donato al Führer in occasione del suo
cinquantesimo compleanno nell‟aprile del 1939. Il progetto era stato affidato a
Bormann, dopo che era stata individuata la posizione del futuro rifugio: la cresta
delle cime a sud-est di Berchtesgaden dalla quale si godeva un panorama incredibile
che spaziava tutto intorno a 360 gradi, fin dove l‟occhio riusciva a vedere. Himmler
avrebbe continuato a narrare delle magnificenze di Kehlstein per lungo tempo, ma il
tragitto sino all‟ascensore non era lungo e vi giunsero dopo pochi minuti. Il
Reichsführer lo accompagnò sino all‟entrata dove lo attendeva il tenente che lo
aveva accompagnato dall‟aeroporto, ora con una vistosa fasciatura sulla fronte, e lo
congedò calorosamente.
Il tragitto sino all‟aeroporto fu meno movimentato che all‟andata ed in breve fu
nuovamente in volo, con la copia del Mein Kampf tra le mani. Osservava il
panorama sotto le ali argentee dello Junkers, che era tornato a Salisburgo per
reimbarcarlo e che lo avrebbe portato a Bolzano, ancora come unico passeggero.
Nella mente gli ronzava continuamente la stessa domanda: la sua promozione a
maggiore era da considerarsi legata all‟operazione che era stato chiamato a dirigere,
o ad una svista del Führer che aveva confuso il suo grado e vi aveva posto rimedio
promuovendolo sul campo pur di non venire contraddetto? Da una parte era difficile
pensare che il Führer avesse commesso un errore del genere, ma dall‟altra era anche
vero che nessun ufficiale delle SS era stato promosso maggiore a venticinque anni,
dopo neanche otto dal termine del corso a Bad Tölz. Era pur vero però che era stato
il più giovane capitano del Reich, sia come età sia come anzianità di servizio. Se il
Führer aveva deciso di promuoverlo nuovamente sul campo, la cosa a lui non
dispiaceva per nulla, anzi lo rendeva euforico.
Ora, tre anni dopo, aveva in mano lo stesso libro e pensava la medesima cosa.
Probabilmente non avrebbe mai conosciuto la vera causa della sua promozione ma,
19
visto l‟evolversi degli eventi, la questione non aveva oramai più molta importanza.
Aveva però capito che quello era stato l‟inizio della fine e che ora poteva confidare
solo nelle sue forze e nella sua intelligenza se voleva tornare a casa vivo.
Trasalì, i ricordi lo avevano distratto dal messaggio di Wilhelm. Aprì l‟armadio e
ne estrasse una pesante valigia di legno che appoggiò sulla scrivania. La aprì
delicatamente ed accese Enigma. Non lo sapeva ancora, ma averne una in dotazione
sarebbe stata la sua salvezza e la sua maledizione.
Doveva concentrarsi per decrittare il messaggio: il sistema che avevano ideato
era di una banalità disarmante: sia Ulrich sia Wilhelm avevano una copia del Mein
Kampf, e fin qui nulla di strano, tutti gli ufficiali delle SS ne possedevano una. Le
loro appartenevano alla stessa edizione, quella che il Führer regalava personalmente,
dal momento che anche Wilhelm era riuscito a procurarsene una uguale. Si erano
innanzitutto accordati che, se fosse stato necessario, si sarebbero scambiati delle
informazioni via radio ogni venerdì sera alle ventitré precise. Avevano concordato
anche la frequenza radio sulla quale sarebbero avvenute le trasmissioni: avrebbero
iniziato con quella riservata a Castel Labers incrementata di quindici gradi ed ogni
settimana, per sei volte, avrebbero aumentato la frequenza di cinque gradi, per poi
tornare a quella iniziale e da quella ripartire con gli incrementi. I messaggi sarebbero
stati prima crittografati con la macchina Enigma e, per evitare che qualcuno
individuasse anche solo casualmente la chiave del cifrario, avevano deciso che
l‟avrebbero modificata ogni volta: erano partiti dal titolo del primo capitolo del Mein
Kampf, poi il secondo e così via. La chiave di quella sera era quasi uno scherzo del
destino: il titolo del capitolo era: Deutsche Bündnispolitik nach dem Kriege. In esso
Hitler illustrava la linee politiche che la Germania avrebbe dovuto perseguire per
riunificare tutte le popolazioni tedesche dei paesi confinanti dopo la prima guerra
mondiale. Aveva letto quel capitolo molte volte, specialmente da quando era giunto
a Merano. Hitler si era pronunciato anche sulla questione del Sudtirolo, ma poi
aveva cambiato opinione quando cercava l‟alleanza di Mussolini, rinunciando
all‟annessione del Sudtirolo al Reich e riconoscendo l‟intangibilità del confine del
Brennero. Le Opzioni erano state solo demagogia, tanto che non si erano mai
completamente realizzate secondo i piani originariamente previsti.
Dopo l‟8 settembre 1943 i soldati del Reich avevano preso possesso dei territori
delle province di Belluno, Bolzano e Trento, costituendo la zona di operazioni
Alpenvorland. Lo stesso Mussolini aveva in qualche modo rinunciato a quei territori
dopo la costituzione della Repubblica di Salò. Ulrich sapeva che la situazione
politica era ben più complessa.
Stava nuovamente divagando. Doveva concentrarsi sul messaggio di Wilhelm.
Impostò i rotori dell‟apparecchio Enigma ed incominciò a digitare il messaggio. Era
20
un‟operazione laboriosa: ogniqualvolta digitava una lettera sulla tastiera si
illuminava una lettera nella parte superiore dell‟apparecchio che doveva nuovamente
trascrivere su un foglio. Le parole si formavano lentamente e le frasi prendevano
forma senza punteggiatura. Dopo più di un‟ora di lavoro e molte correzioni dovute
all‟agitazione il messaggio apparve in tutta la sua drammaticità: Truppe nemiche in
avanzata senza freni verso nord. Partigiani in azione. Russi alle porte di Berlino.
Esercito allo sbando. Abbandona posizione. Austria ancora sicura. Torna a casa.
Il messaggio di Wilhelm si poteva tradurre quindi in un semplice scappa in
fretta. Chiuse l‟apparecchio Enigma e lo ripose nell‟armadio. Bruciò i fogli con i
messaggi e si sdraiò sul letto. Doveva pensare al più presto ad un piano di fuga. Sino
ad allora aveva solo immaginato che un giorno avrebbe potuto dover lasciare quel
posto magnifico, ma non aveva mai pensato che avrebbe dovuto farlo celermente.
Una cosa era certa: avrebbe portato con sé tutto quello che sarebbe riuscito a
prendere. Se tutti i sogni di grandezza del Reich erano falliti tanto valeva uscirne al
meglio: meglio ricchi e sconfitti che poveri e sconfitti. Spense la luce e di lì a poco
si addormentò vestito.
21
Oktoberfest
C
apitava tutti gli anni di stupirsi che settembre fosse senza
dubbio il mese più piacevole da trascorrere a Monaco. La frenesia dei monacensi per le vacanze estive e la ricerca del caldo a tutti i costi si acquietava e lasciava il posto ad una pacata
voglia di tepore, soddisfatta da una Maß di birra all‟ombra dei
castagni nei Biergarten del centro. La sera prima il Borgomastro aveva inaugurato
ufficialmente l‟Oktoberfest spillando personalmente il primo boccale di birra tra gli
applausi della folla tormentata dalla sete e tutti i cittadini si preparavano a partecipare all‟evento, che consideravano la vera festa della città e non un semplice episodio
di folclore ad uso e consumo dei turisti.
Durante il fine settimana, appena i cancelli aprivano i battenti, allegre famigliole
con al seguito bambini e nonni si preparavano ad invadere Theresienwiese per una
passeggiata lungo i viali, seguita dall‟immancabile visita alle giostre, per poi assieparsi sotto i tendoni per il pranzo e l‟inevitabile bevuta di birra.
Per le signore della Monaco bene l‟Oktoberfest era sicuramente l‟occasione migliore per sfoggiare i completini appena acquistati nei negozi più chic della Maximilianstraße. Si trattava nella maggior parte dei casi di costumi tipici, in particolare
Dirndl, ai quali gli stilisti davano un‟impronta personale adattandoli alla moda del
momento. Le camicette attillate e scollate e le gonne o i pantaloncini corti di cuoio
mettevano in risalto le curve delle giovani e, a volte con risultati esteticamente assai
dubbi, anche delle non più giovani che, tenendo per mano i rispettivi fidanzati e mariti in Lederhosen e bretelle d‟ordinanza, si gettavano nella bagarre mattutina.
Vittoria e Dioniso avevano deciso solo la sera prima, insieme ad alcuni amici, di
trascorrere la domenica alla festa. Dioniso aveva delle conoscenze che gli avevano
permesso di riservare all‟ultimo momento un tavolo sotto al großes Zelt - la grande
tenda - di una delle birrerie presenti alla festa. La cosa era praticamente impossibile
per i comuni visitatori, che riuscivano a malapena ad avere un numero di telefono da
chiamare l‟anno successivo per poi sentirsi rispondere che tutti i tavoli erano già occupati, con l‟unica alternativa di lanciarsi nella bolgia e sperare di ottenere un posto
per un paio d‟ore, corrompendo con generose mance cameriere pettorute senza pietà
per gli assetati.
Con Elisabeth e Matthias Decker erano amici da quando sei anni prima Vittoria
si era innamorata di una splendida villa jugendstil nella zona di Schwabing. Loro ne
erano i proprietari, e ne possedevano una gemella a fianco.
Un pomeriggio di maggio Vittoria stava passeggiando nel quartiere durante un
breve soggiorno a Monaco e si era diretta, come faceva spesso nel corso delle sue
camminate, davanti a quella splendida costruzione che non si stancava mai di ammirare.
Era un edificio a tre piani degli inizi del „900, all‟apparenza in perfetto stato di
conservazione, con ampie finestre che lasciavano intuire stanze spaziose e luminose.
Inoltre, dettaglio non trascurabile per una città come Monaco, la facciata principale
era esposta a sud. Un ampio e rigoglioso giardino la teneva distante e ben protetta
dalla strada.
Inaspettatamente quel giorno sul cancello del giardino era comparso un piccolo e
discreto cartello che annunciava la vendita dell‟immobile. Vittoria non aveva perso
tempo ed aveva chiamato subito il numero di telefono indicato sull‟annuncio. Le aveva risposto l‟agenzia DEM Immobilien e mezz‟ora dopo era già nel loro studio.
L‟aveva ricevuta Elisabeth Decker, titolare dell‟agenzia insieme al marito. Dopo
una breve chiacchierata esplorativa, durante la quale aveva stabilito che la persona
che aveva di fronte non era una perditempo, ma che era realmente interessata alla
villa, aveva iniziato a descriverne le caratteristiche.
A quel punto Vittoria non aveva indugiato, aveva estratto il libretto degli assegni
dalla borsetta, e le aveva semplicemente chiesto «Ritiene che un acconto del trenta
percento del prezzo richiesto sia sufficiente per dimostrare le mie intenzioni?»
Finalmente la cliente che ogni agente immobiliare avrebbe sognato entrasse un
giorno nel proprio ufficio! «Penso proprio di sì, Frau Manqvist!»
«Non vuole sentire i proprietari prima di impegnarsi?»
«Non ce n‟è bisogno, la villa è per metà mia e per metà di mio marito, e lui non
avrà nulla da eccepire!»
«Allora mi dica quale cifra devo scrivere sull‟assegno!»
Da lì ad una settimana avrebbe preso possesso dell‟edificio, che non aveva bisogno d‟alcuna ristrutturazione e nel quale Elisabeth e Matthias avrebbero lasciato anche una pregiata collezione di mobili. Ora avrebbe dovuto solo convincere Dioniso
della validità della spesa: lui non aveva mai voluto tuffarsi in un investimento immobiliare a Monaco.
«I prezzi sono lievitati in maniera ingiustificata negli ultimi anni e nessuna di
queste case vale la metà del prezzo richiesto!» aveva sentenziato un pomeriggio che
Vittoria lo aveva condotto, durante una passeggiata a Schwabing, proprio davanti a
quella stessa villa.
Quella volta aveva distrattamente accennato che le sarebbe piaciuto abitare in
quel quartiere, giusto per vedere come la pensava Dioniso, ma lui aveva visto
l‟argomento unicamente dal punto di vista dell‟investimento finanziario, ed aveva
fatto uno dei suoi soliti calcoli dettati dal cervello e non dal cuore.
«Con quello che ci costerebbe all‟anno mantenere una casa di quelle dimensioni,
potremmo soggiornare almeno un mese all‟anno in una suite di un qualsiasi albergo
a cinque stelle tra Promenadeplatz e la Maximilianstraße, dove saremmo, in ogni caso, anche serviti e riveriti!»
Non che non avesse la possibilità di affrontare una spesa del genere, semplicemente lasciava che le sue decisioni in campo finanziario fossero dettate da motivi di
convenienza. Quando spendeva i suoi soldi voleva prima di ogni cosa essere convinto che fosse un buon affare, soprattutto per lui. Vittoria lo sapeva e quindi non era
certo il caso di insistere in quel momento, avrebbe provocato un‟inutile discussione.
Quindi aveva fatto buon viso a cattivo gioco glissando sull‟argomento e continuando
la passeggiata.
Uscita dall‟agenzia DEM Immobilien si era incamminata verso Marienplatz, dove si sarebbe incontrata con Dioniso per bere un aperitivo in uno dei tanti locali con
i tavolini all‟aperto. Lì avrebbe sfoderato le sue armi migliori per blandirlo.
Si erano conosciuti anni prima, durante una festa di laurea, quando entrambi frequentavano l‟Università a Ginevra: lei la scuola per interpreti e traduttori e lui la facoltà d‟economia e scienze sociali.
Vittoria era stata convinta ad andare alla festa da una sua amica e compagna di
corso, che aveva preso una sbandata clamorosa per Dioniso senza esserne minimamente ricambiata.
In quel periodo Dioniso aveva una concezione strana del mondo femminile, ovviamente mai confessata a nessuna delle ragazze che gli ronzavano intorno. Alle ragazze di solito piaceva molto ed in più era di famiglia più che benestante. Il padre,
friulano, era emigrato in Svizzera in cerca di fortuna ed oltre a quella aveva trovato
anche una splendida moglie durante un viaggio di lavoro a Parigi.
A Dioniso non piaceva avere legami né fissi né impegnativi; aveva sì ogni tanto
qualche ragazza che frequentava più assiduamente delle altre, ma solo perché anche
i suoi amici erano accompagnati e non gli piaceva reggere il moccolo a nessuno. Il
suo comportamento faceva sì che le ragazze si sentissero trascurate e di solito finiva
tutto dopo pochi mesi, con la vittima di turno in lacrime che, dopo una cena durante
la quale lui si era dedicato per gran parte della serata agli amici e non a lei, lo accusava di trattarla peggio di una pezza da piedi, dicendogli che lo amava, ma non sop-
portava più di soffrire e non poteva più andare avanti in quel modo. Lui aspettava
che la poverina finisse di sfogarsi, poi la riaccompagnava fin sotto casa, le raccontava una storia del tipo che lui non la meritava, che era incapace d‟amare, che era tutta
colpa sua, che lei era una persona speciale che aveva tutto il diritto d‟essere furiosa
con lui e che presto avrebbe trovato un uomo degno del suo amore.
A quel punto la missione era quasi compiuta, ancora qualche lacrima e la malcapitata, dopo un ultimo bacio, scendeva come ipnotizzata dalla macchina e tornava a
casa senza farsi più sentire. A Dioniso dispiaceva far soffrire quelle ragazze, ma non
riusciva mai a farsi capire: non era pronto per legami seri e duraturi. Dopo un po‟ le
aspettative delle sue partner venivano disattese e si arrivava alla rottura.
Quella sera voleva solo divertirsi e non voleva imbarcarsi in una nuova avventura. L‟ultima era terminata da appena tre giorni. Quando vide Vittoria entrare fu come
colpito da una mazzata in piena fronte. Sapeva che la ragazza che era con lei lo stava
puntando già da qualche tempo e sicuramente le era giunta notizia del fatto che era
di nuovo libero, quindi in un ultimo sprazzo di lucidità si avvicinò.
«Michelle, che piacere vederti qui!»
La baciò tre volte sulle guance, come si usava a Parigi, era una cosa che colpiva
sempre molto le ragazze. Distolse subito lo sguardo da Michelle e lo posò
sull‟amica. Fu il colpo di grazia: gli occhi della ragazza erano di un colore tra il verde ed il nocciola, che più tardi avrebbe definito, strappandole il suo primo sorriso,
color sottobosco.
«Ba… Ba… Ba… Bascanni, Dioniso Bascanni» balbettò tendendole la mano,
non riuscendo a dire altro.
«Vittoria Manqvist. Spero che tu sia anche felice, o lieto, o contento, o qualsiasi
altra cosa di conoscermi, caro il mio bel Ba… Ba… Ba… Bascanni, Dioniso Bascanni!» gli rispose facendogli il verso.
Era consapevole dell‟impatto che il proprio aspetto produceva ed era abituata a
scene di smarrimento da parte degli uomini che la incontravano per la prima volta
rimanendo incantati davanti a lei. Ciò era sicuramente colpa, o merito, secondo i
punti di vista, del suo aspetto: aveva ereditato dal padre, norvegese, gli occhi verdi
con lievi sfumature castano, ed il colore dei capelli, di un biondo oro, al quale aveva
aggiunto delle mèche color bronzo, mentre aveva ricevuto in dono dalla madre, romana da generazioni, una carnagione di tipo decisamente mediterraneo. Come se
non bastasse Vittoria aveva un fisico statuario, alta, ben proporzionata e formosa al
punto giusto.
Il commento della maggior parte degli uomini era che sicuramente la natura aveva compensato tanta bellezza con una scarsa intelligenza, ma in realtà si comportavano come la volpe davanti all‟uva che non potevano avere. Vittoria, parlava corren-
temente sei lingue: italiano, norvegese, inglese, tedesco, francese e spagnolo. In più
aveva una cultura di tipo enciclopedico: in ogni lingua riusciva a sostenere una conversazione su qualsiasi argomento con cognizione di causa e proprietà di linguaggio.
Il loro primo incontro terminò così, con Dioniso imbambolato e Vittoria che si
divertiva a metterlo in imbarazzo. Ma ora le cose erano mutate, ci sarebbe voluto
ben altro per convincerlo del suo acquisto pomeridiano.
«Dioniso, tesoro, è molto che aspetti?» gli chiese radiosa, dopo averlo castamente baciato sulle guance.
«Non più del solito!»
Vittoria aveva la prerogativa di essere puntualmente in ritardo, ma ormai Dioniso
ci aveva fatto l‟abitudine e quando fissavano un appuntamento considerava che aveva sempre un quarto d‟ora preciso di margine.
«Ho combinato un guaio! Molto grosso credo...» disse con una vocina infantile
dopo essersi seduta ed aver accavallato le gambe, che facevano capolino dallo spacco di una gonna verde smeraldo, mentre un cameriere che si era avvicinato per prendere l‟ordinazione stava strabuzzando gli occhi.
«Cos‟ha da guardare quel levantino?» bofonchiò Vittoria dopo aver ordinato.
Dioniso le sorrise come per giustificarlo: qualsiasi uomo non sarebbe rimasto indifferente alla vista delle sue gambe. Si meravigliò del fatto che solitamente a Vittoria
faceva piacere essere ammirata. Quando si dava un‟ultima occhiata davanti allo
specchio prima di uscire di casa e Dioniso la canzonava lei gli rispondeva candidamente «Voglio che tu faccia una bella figura con i tuoi amici» poi aggiungeva con
un tono acido, «non sia mai che pensino che ti accompagni ad una zingara o peggio
ad una beduina.»
Dioniso sapeva che quando Vittoria si comportava in quel modo aveva fatto
qualche spesa che lei stessa riteneva eccessiva ma che non era riuscita ad evitare,
quindi si preparò al solito gioco che avrebbero fatto. Aveva dato a Vittoria ampia disponibilità del suo patrimonio anche perché, se era pur vero che il grosso lo aveva
ereditato da suo padre, lei aveva contribuito con idee all‟avanguardia e con il proprio
buon senso ad incrementarlo in maniera considerevole ed era senz‟altro merito suo
se il gruppo d‟aziende che ora dirigevano era il primo in Europa nel campo della
consulenza finanziaria.
«Nulla d‟irreparabile, spero!»
«Non credo, ma so già che non ti piacerà. Ho visto una cosina alla quale non ho
saputo resistere!»
«E quanto ci sarebbe costata la cosina alla quale non hai saputo resistere?»
«Oh Dioniso, pensi sempre e solo ai soldi; perché non provi a rilassarti una volta
tanto ed a goderti i piaceri della vita?»
«Va bene, ti prometto che non mi arrabbierò, anche perché sai che non resisto ai
tuoi begli occhioni, ma ora sono curioso di sapere che cosa hai combinato!»
«A dire la verità, che è sempre la cosa migliore, piuttosto che di una “cosina”, si
tratta di una “casina”.»
«Non dirmi che sei ancora alla ricerca di una casa a Schwabing? Ti ho già spiegato che non ci serve e che non è conveniente!»
Dioniso fece una pausa, come per riordinare le idee, poi capì.
«Un momento, prima hai detto che non hai saputo resistere! Quindi vuol dire che
sei già andata a vederla! Spero che tu non sia stata tanto … tanto insensata da dare
un acconto senza consultarmi!»
Vittoria era pronta a far valere le sue ragioni, ma non era disposta a farsi insultare. Dioniso aveva detto che era stata insensata, ma sapeva che aveva pensato stupida. Sapeva anche che non era il caso di prenderlo di petto, doveva cambiare tattica.
Grosse lacrime le stavano rigando il viso, mentre fissava Dioniso dritto negli occhi. «Sei riuscito a rovinare tutto! Passiamo a Monaco tre mesi all‟anno, e sono stufa
di scendere ogni volta in un albergo diverso; e sai benissimo che non si tratta del
servizio o della dimensione delle stanze, o dell‟arredamento. Mi sento a disagio a
non avere mai nulla di nostro, a riempire e svuotare armadi, a non avere un quadro
che mi piace alle pareti e a trascorrere le giornate nell‟anonimato delle camere!»
Dioniso non sopportava di vedere una donna piangere, tanto meno Vittoria. Sicuramente aveva fatto una stupidaggine, ma non aveva tutti i torti, anche lui era stufo
d‟alberghi e ristoranti. Vivevano la maggior parte dell‟anno tra Monaco, Ginevra,
Siviglia e Parigi, e solo in quest‟ultima avevano un piccolo appartamento, nel quartiere del Marais, che Vittoria aveva arredato con molto gusto. Forse era giunto il
momento di avere una dimora stabile e sicura, un punto di riferimento da poter
chiamare casa, e Monaco poteva essere un‟ottima base per le loro attività.
Avvicinò la sedia alla sua, le prese la mano e, dopo averle offerto il suo fazzoletto, le sussurrò in un orecchio «Credo tu sia stata saggia come sempre, e che abbia
fatto la cosa giusta! Hai già le chiavi?»
«Sì! Ma dovrai chiedermi scusa in ginocchio prima che io ti porti a casa mia!»
disse sorridendo con gli occhi ancora rossi.
«Vicki tesoro, non esagerare, non posso mettermi in ginocchio qui davanti a tutti!»
«Oh certo che lo farai, altrimenti ricomincerò a piangere, e questa volta mi metterò anche ad urlare!»
Vittoria stava nuovamente parlando con la voce da bambina, ed il peggio era che
Dioniso sapeva che sarebbe stata capace di fare veramente una sceneggiata.
Si era abituato ai suoi capricci, anche se ogni volta lei riusciva a sorprenderlo
con nuove trovate. Era un gioco fra loro, che presupponeva una complicità ed un affiatamento considerevoli. Vittoria mandava un chiaro segnale che voleva essere corteggiata, lui doveva essere pronto a raccoglierlo, anche se delle volte si chiedeva se
fosse burattinaio o burattino.
S‟inginocchiò davanti a lei ed incominciò ad accarezzarle le caviglie, salendo pericolosamente verso ginocchio. «Vicki, tesoro, perché non mi porti a vedere il tuo
ultimo acquisto?»
«Mi piacerebbe molto lasciarti inginocchiato ai miei piedi, ma credo che per il
momento sia sufficiente.»
Vittoria sorrideva, e nella sua mano destra era comparso un mazzo di chiavi che
stava dondolando davanti agli occhi di Dioniso.
Non appena vide la villa, ogni dubbio scomparve. Vittoria aveva avuto buon gusto, come sempre del resto. Oltre che di pregevole fattura la casa era in perfetto stato
di conservazione, ed era arredata con gusto ed eleganza. Fecero una prima ispezione
di tutto il fabbricato mano nella mano, come due innamorati alla scoperta del loro
futuro nido d‟amore, con Vittoria visibilmente soddisfatta della propria scelta.
«Dopo tutti questi anni riesci ancora a stupirmi, per questo sono ancora innamorato di te come la prima volta che ti ho visto!» le sussurrò all‟orecchio, stringendola
con trasporto nel mezzo del grande salone al piano terra dopo un bacio appassionato.
Nel corso degli anni seguenti la casa era diventata la loro residenza preferita ed
avevano deciso di non darle nessun nome, ma di chiamarla semplicemente La Villa.
Non appena gli impegni di lavoro glielo consentivano o, secondo le circostanze,
glielo imponevano, si recavano a Monaco per approfittare di tanto splendore ed agio.
Avevano subito legato con i vecchi proprietari, Elisabeth e Matthias, con i quali
erano in seguito diventati buoni amici. Li frequentavano spesso ed avevano conosciuto anche altri loro amici, tra i quali apprezzavano in modo particolare la compagnia di Margareth ed Engelbert Falken, due simpaticissimi bavaresi doc.
Engelbert era il proprietario di una fabbrica d‟arredamenti d‟acciaio per stalle,
con un mercato in continua espansione, specialmente nei paesi dell‟est europeo e
Margareth si divertiva, insieme al marito, a spendere i soldi che lui guadagnava. Engelbert aveva adottato una filosofia di vita del tutto particolare: la fabbrica era stata
una sua invenzione anni prima ed aveva avuto un successo che andava ben oltre le
più rosee aspettative: le commesse in corso avrebbero assorbito la produzione per i
due anni a seguire. Aveva deciso che non valeva la pena ammazzarsi di lavoro, se
non si aveva poi il tempo di goderne i frutti. Si era quindi circondato di persone fida-
te, alle quali aveva delegato gran parte dei propri compiti, mantenendo solo una supervisione generale sulla struttura e seguendo personalmente solo alcuni grossi
clienti. Ciò gli permetteva di occuparsi ugualmente dell‟azienda e di prendersi lunghi periodi di vacanza insieme a Margareth, viaggiando in tutto il mondo.
Sotto la grande tenda l‟aria incominciava a diventare pesante e la temperatura si
era già alzata sensibilmente. Era da poco passato mezzogiorno, ma per molti la festa
era ormai finita: avrebbero trascorso il resto della giornata dormendo buttati in qualche angolo all‟aperto, dopo essersi abbondantemente vomitati addosso quanto avevano mangiato e per lo più bevuto. Troppi visitatori dell‟Oktoberfest non avevano il
senso della misura e, colti dalla frenesia della prima volta, ingurgitavano boccali di
birra troppo fredda e con troppa schiuma, che in breve causavano congestioni dagli
effetti deleteri. La maggior parte però riusciva a contenersi e la festa stava procedendo come ogni anno senza intoppi, a parte quel gruppo d‟italiani appena entrato.
Erano circa una dozzina e si erano seduti attorno ad un tavolo vicino a quello di
Dioniso e dei suoi amici, oltre al recinto che delimitava la zona riservata ai clienti
vip, togliendo dal tavolo il cartellino con la scritta Reserviert. Stavano discutendo
con la cameriera, subito intervenuta per farli sgombrare, e sostenevano che sul tavolo non c‟era mai stato nessun cartellino. Lei non si era minimamente persa d‟animo
e non aveva atteso un secondo di più: con un cenno della mano aveva chiamato la
sorveglianza ed erano subito intervenuti sei energumeni che avevano traslocato i ragazzi al di fuori dal capannone.
Dioniso era alle prese con un mezzo pollo allo spiedo, cotto con troppa sollecitudine e troppo speziato, che del resto era una delle poche cose che si azzardava ad ordinare. Era risaputo che la cucina dell‟Oktoberfest non fosse tra quelle stellate della
città: era tutt‟altro che a buon prezzo e di qualità non certo sopra la media. Una delle
poche cose che apprezzava erano i Radi - ravanelli bianchi, tagliati sottilmente e
conditi con abbondante sale, che servivano ad incrementare la sete degli avventori ed i Brezn, che oltre a fungere da pane, avevano un benefico effetto spugna sulla birra tracannata. Vittoria, al contrario si ostinava ad ordinare un piatto tipico della festa,
il Bifflamott: carne di manzo cotta in una salsa agrodolce, il cui nome deriva dalla
storpiatura bavarese di boeuf à la mode, che poi assaggiava appena dimenticandosi
da un anno all‟altro che la porzione era sempre troppo abbondante, troppo acida e
troppo dolce.
Engelbert stava raccontando agli amici delle loro ultime vacanze a Kiribati, un
atollo sperduto nell‟oceano Pacifico. Condiva il tutto con particolari piccanti sulle
procaci abitanti del luogo, che a suo dire si prodigavano in tutti i modi per circuirlo,
mentre Margareth scrollava la testa divertita.
Era una delle solite storie di Engelbert, che negli ultimi tempi difettava di fantasia e si ripeteva spesso, adattando il contenuto al luogo visitato; oramai Dioniso le
conosceva a menadito, ma non volendo essere scortese con l‟amico fingeva di ascoltarlo.
Stava giocherellando con la mollica di pane quando intravide con la coda
dell‟occhio una figura non del tutto ignota: un campanello d‟allarme era suonato. In
un primo momento aveva fatto fatica a collocare esattamente il personaggio, per via
dell‟abbigliamento, ma dopo un controllo più attento lo aveva riconosciuto. L‟uomo
indossava un paio di Lederhosen color cuoio chiaro, una camicia bianca con motivi
di caccia ricamati sul davanti, calzettoni di lana grossa ed un cappello di feltro grigio
con un pennacchio di peli di tasso. Alois Rebensberger era un uomo che si poteva
definire anziano, poiché aveva largamente oltrepassato la soglia degli ottant‟anni,
ma si muoveva ancora con una disinvoltura ed una sicurezza non comuni.
Lo aveva conosciuto alcuni anni dopo la caduta del Muro di Berlino quando, per
conto di una non meglio precisata organizzazione, lo aveva avvicinato allo scopo di
istituire, tramite una sua società d‟intermediazione finanziaria, un fondo fiduciario a
favore dei familiari sopravvissuti dei perseguitati politici dell‟ex Germania dell‟est.
Dioniso aveva assunto informazioni tramite la sua solita rete capillare di conoscenze ed aveva ben presto scoperto che il passato dell‟uomo non era cristallino. Era
stato tra gli ultimi tedeschi a frequentare la Junkerschule al castello di Braunschweig
a Bad Tölz nel 1945. Aveva fatto appena in tempo a diventare sottotenente delle SS
che la guerra era finita. Ufficialmente non era mai stato destinato a nessun reparto, o
almeno non erano state trovate tracce di un suo coinvolgimento nelle malefatte naziste.
A quanto era emerso, però, il vecchio era ancora un nazista convinto e, soprattutto, era attivo nel finanziamento dei gruppi neonazisti che all‟epoca stavano tornando
a farsi sentire in Germania. Era molto abile ad operare nell‟ombra, senza esporsi.
Dioniso aveva rinunciato all‟operazione finanziaria e lo aveva fatto tenere discretamente sotto controllo da uno dei suoi uomini di fiducia, Silvestro Busetto, un
capitano dei carabinieri, assurto agli onori della cronaca per una malaugurata faccenda di presunti pestaggi durante una manifestazione d‟autonomi a Milano, dalla
quale l‟ormai ex appartenente all‟Arma era uscito poi completamente scagionato.
Ciò nonostante aveva deciso di abbandonare la carriera militare. Dioniso gli aveva
offerto un impiego ed inizialmente lo aveva incaricato di riorganizzare la sicurezza
interna di tutte le società del gruppo. La scelta si era rivelata vincente: Silvestro aveva assolto il suo compito alla perfezione, mostrando una competenza non comune
anche in campo informatico e Dioniso lo aveva voluto con sé in qualità di guardia
del corpo. In principio Silvestro non era stato particolarmente entusiasta della cosa,
ma poi aveva apprezzato la tranquillità del lavoro. Inoltre lo stile di vita di Dioniso
gli permetteva di frequentare luoghi che altrimenti sarebbero stati al di fuori della
sua portata.
Anche quella volta Silvestro si era mostrato efficiente e fidato, ma non aveva
scoperto molto sul vecchio nazista. Rebensberger, almeno il nome era vero abitava
in una villetta isolata nei dintorni di Garmisch-Partenkirchen, aveva una piccola libreria, specializzata in testi esoterici e non aveva mai dato adito ad alcun sospetto.
Anche le notizie raccolte riguardo ad un suo eventuale coinvolgimento con gruppi
neonazisti non avevano trovato alcuna conferma. Dioniso sapeva che le sue fonti erano più che attendibili: evidentemente l‟uomo aveva preso delle ottime precauzioni.
Anche dei trascorsi di Rebensberger nelle SS non era rimasto molto: nell‟aprile
del 1945 il giovane ufficiale era stato inviato nel nord Italia, probabilmente per cercare di fronteggiare l‟avanzata degli alleati, ma non c‟era traccia del reparto nel quale aveva prestato servizio. In ogni caso doveva aver combattuto ben poco. Dopo la
guerra era, come molti, tornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto.
Alla fine Dioniso aveva rinunciato a farlo tenere d‟occhio.
Rebensberger stava parlando con un uomo tra i venticinque ed i trent‟anni, abbastanza alto, biondo, con il profilo arrotondato da una dieta abbondante di grassi e
birra. I due erano seduti uno di fianco all‟altro e non ci sarebbe stato nulla di strano
nel fatto che stessero parlando; capitava sempre durante la festa, anche tra chi non si
conosceva affatto. Lo strano era che l‟uomo continuava guardarsi intorno come per
accertarsi che nessuno li stesse osservando, mentre Rebensberger cercava di farsi
notare il meno possibile e, guardando verso il basso, copriva la bocca con la mano
ogni volta che si rivolgeva al suo vicino.
Decise che era doveroso un controllo; forse Rebensberger era di nuovo in azione.
Prese il cellulare e nella bolgia infernale tra cori, urla e musica riuscì a mettersi in
contatto con Silvestro. Brevemente lo informò del fatto che Rebensberger era a Monaco e gli chiese di arrivare in macchina sin davanti alla St. Paul Kirche, a poca distanza dall‟ingresso principale della festa, appena oltre Bavaria Ring, e di aspettare
lì.
Terminata la conversazione Dioniso incrociò lo sguardo di Vittoria, che non
prometteva nulla di buono. Non tollerava interferenze lavorative durante il fine settimana; secondo lei non vi era problema che non avrebbe potuto aspettare il lunedì
successivo per essere risolto: non erano né chirurghi, né idraulici. Dioniso avrebbe
dovuto trovare un‟ottima scusa per allontanarsi senza che Vittoria s‟infuriasse. Non
poteva certo dirle che stava dando la caccia a vecchi nazisti incartapecoriti. A pensarci bene si stava chiedendo lui stesso il perché di questo coinvolgimento. Si era
improvvisamente sentito come Poirot: avrebbe ficcato il naso in quella faccenda a
tutti i costi, puzzava troppo per lasciar correre. Si augurava solo di non fare la figura
dell‟ispettore Clouseau.
«Con chi stavi parlando?!» Per un attimo temette che la voce di Vittoria lo avrebbe morsicato.
«Era Silvestro, Vicki.»
«E cosa vuole il signor Silvestro da te? Non è mica la tua fidanzata, che non resiste un attimo senza il suo tesorino!»
«Non era per lavoro, o almeno non per il nostro lavoro, piuttosto per il suo!»
«Spiegati meglio, prima che perda la pazienza!»
Vittoria non si era evidentemente accorta che era stato lui a telefonare, aveva
creduto che fosse stato Silvestro a chiamare. Dioniso doveva trovare una scusa plausibile, ed in fretta!
«È scattato l‟allarme nel nostro ufficio e pare che sia scoppiato un incendio nel
palazzo. Ho detto a Silvestro di andare a vedere!»
«Scusa, ma non sarebbe il caso che andassimo a dare un‟occhiata anche noi?
Non vorrei rovinarti la festa, ma in quell‟ufficio abbiamo tantissime cose di valore!»
«Non credo sia necessario, ma se la cosa ti farà sentire più tranquilla andrò io.»
Era riuscito a rigirare abilmente la frittata, facendo intendere d‟essere lui a fare
un piacere a Vittoria. Non gli piaceva mentirle, ma sarebbe stato troppo complicato
spiegarle tutto e lei non era del tutto entusiasta che s‟impicciasse d‟affari che non lo
riguardavano giocando a fare il detective. Una cosa sola gli era sembrata strana: Vicki era stata particolarmente acida, non era da lei. Pensò che fosse per via del frastuono che regnava sotto al capannone, in fin dei conti a lei quella festa non era mai
particolarmente piaciuta.
L‟uomo in compagnia di Rebensberger si era alzato proprio in quel momento e si
stava facendo largo tra la folla per raggiungere l‟uscita. Dioniso baciò Vittoria e la
pregò di scusarlo con gli amici, che si stavano cimentando in un Oans, zwoa gsuffa,
incitati dall‟orchestra che suonava sul palco al centro del tendone. Non aveva tempo
di dare spiegazioni e di accomiatarsi con una serie di brindisi che Matthias ed Engelbert avrebbero sicuramente voluto fare.
Uscire da un capannone dell‟Oktoberfest dopo aver bevuto un paio di litri di birra era un‟esperienza estremamente piacevole. All‟interno si raggiungevano temperature tropicali ed il fumo rendeva l‟aria pesante. Non appena si attraversava la porta
d‟uscita si era investiti da una sensazione di fresco, anche quando all‟esterno splendeva un sole caldo, come quel giorno e, respirando a pieni polmoni, si cercava di
contrastare l‟effetto della birra.
Dioniso stava cercando di non perdere di vista l‟uomo. La cosa era facilitata dal
fatto che l‟individuo indossava un‟orrida camicia fantasia su sfondo giallo che lo
rendeva facilmente riconoscibile tra la folla. Un paio di volte temette di averlo perso,
ma la camicia ricompariva sempre poco distante.
Appena fuori del capannone l‟uomo aveva girato a destra e dopo aver percorso
parte della Wirtsbudenstraße, aveva svoltato a sinistra nella Matthias Pschorr-Straße
dirigendosi verso l‟uscita dall‟area della festa su Esperantoplatz. Dioniso decise di
chiamare Silvestro per accertarsi se fosse già sul posto e per avvisarlo che non si
stavano avviando verso di lui.
«Sono di fronte alla chiesa, ma non trovo parcheggio!»
«Non ti preoccupare, sono uscito dal capannone e sto seguendo l‟uomo che era
con Rebensberger. Sta andando verso Esperantoplatz, raggiungici lì!»
L‟uomo proseguiva lentamente, fermandosi di tanto in tanto ad osservare la merce esposta sulle bancarelle e voltandosi nella direzione dalla quale era venuto: evidentemente si aspettava di essere seguito. Nel timore di essere notato Dioniso decise
di proseguire e gli passò accanto senza guardarlo: con quella camicia non sarebbe
stato difficile individuarlo nei pressi dell‟uscita, dove poteva fermarsi facendo finta
di aspettare qualcuno.
Rudolf von Rippenburg voleva accertarsi che nessuno lo stesso seguendo. Dal
momento in cui aveva parlato con Rebensberger gli sembrava di essere costantemente sotto controllo. Forse aveva fatto troppe domande in giro, ma nonostante fosse il comandante della sezione bavarese degli Himmlerssöhne - i figli di Himmler nessuno si era mai preso la briga di informarlo che Rebensberger era una sorta
d‟eminenza grigia all‟interno dell‟organizzazione. Ufficialmente il loro gruppo era
solamente un circolo culturale conosciuto come Kulturzentrum Isar, ma dietro tale
copertura si celava un gruppo di neonazisti organizzati secondo la più ferrea disciplina delle SS. Scopo principale dell‟organizzazione era di raggiungere i punti chiave della politica e dell‟economia, impadronirsi delle poltrone di comando e portare
la Germania agli antichi splendori del Terzo Reich. Per fare ciò avevano costante bisogno di nuovi adepti, meglio se finanziariamente ben disposti, visto che i fondi non
bastavano mai. Il progetto era ambizioso, ma era sicuro che sarebbero riusciti a raggiungere il traguardo che si erano prefissati, in particolar modo dopo l‟allargamento
dell‟Unione europea a 25 Stati.
Era inammissibile che milioni di pezzenti avessero gli stessi diritti degli ariani e
che potessero liberamente circolare sul territorio germanico come fossero a casa
propria. Il malcontento fra la crescente massa di disoccupati tedeschi, che si era vista
soffiare il posto di lavoro dai disperati giunti dall‟est europeo, disposti a lavorare per
un salario inferiore al minimo sindacale ed alcune volte anche senza assicurazione e
contributi, era lievitato in maniera tale che i tempi erano oramai maturi per un cambiamento radicale.
Per questo aveva preso contatto con Rebensberger, che gli era stato descritto come una persona con conoscenze che potevano giovare alla loro causa e che avrebbe
sicuramente potuto indicargli nuovi contatti. Lo aveva raggiunto telefonicamente e
si erano dati appuntamento all‟Oktoberfest dove, secondo il vecchio, non avrebbero
dato nell‟occhio. A partire da quella telefonata, avvenuta una settimana prima, si
sentiva osservato; inoltre era sicuro di avere visto più di una volta una Volkswagen
grigia seguirlo.
Ora era quasi sicuro che nessuno lo stesse pedinando, ma la prudenza non era
mai troppa. Aveva indossato apposta una bruttissima camicia gialla, facilmente riconoscibile, di modo che se qualcuno avesse voluto sorvegliarlo si sarebbe tenuto abbastanza distante, sapendo che lo avrebbe facilmente individuato. Visto che i suoi
sospetti erano iniziati dopo la telefonata con Rebensberger, doveva per forza essere
stato lui stesso a farlo tenere sotto controllo, quindi non rischiava di compromettere
nulla se i suoi segugi lo avessero visto in sua compagnia; ma ora era giunto il momento di liberarsene. Rebensberger non gli era stato di molto aiuto, almeno per il
momento: nonostante le sue credenziali aveva solo detto che si sarebbe informato e
che gli avrebbe fatto sapere se qualcuno era interessato alla loro attività. Ciò voleva
probabilmente dire che avrebbe avuto molto presto notizie dal vecchio nazista.
«Quanto costa la maglietta con i boccali?» chiese al venditore che stava sistemando alcuni cappelli sullo scaffale.
«Dodici e cinquanta. Ma se prende anche il cappellino le faccio diciannove invece di venticinque» rispose l‟uomo con un marcato accento turco.
Rudolf pensò che lo avrebbe mandato volentieri a spaccare pietre in qualche
campo di concentramento, ma si trattenne e gli diede una banconota da venti.
Il turco sorrise sotto i due baffoni neri e prese un sacchetto per infilare la maglietta ed il cappellino.
«No! Non mi serve il sacchetto» disse Rudolf, sfilandosi la camicia senza aprire i
bottoni, «la metto subito.» In un attimo si era cambiato, ed aveva buttato la camicia
sotto la bancarella.
«Dammi anche il cappellino, e soprattutto un euro! Non vorrai mica farmi lo
sconto per poi fregarmi sul resto!»
Dioniso era arrivato già da qualche minuto all‟incrocio con Esperantoplatz, ma
l‟uomo non era ancora ricomparso e all‟orizzonte non vi era traccia della camicia
gialla. Nel frattempo Silvestro aveva trovato un parcheggio e lo aveva raggiunto.
«Sembra sparito, non vorrei che fosse tornato indietro. Con questa folla dubito
che riusciremo a trovarlo!»
«Prova a descrivermelo, forse cercando in due riusciamo ad individuarlo.»
«È presto detto: altezza 1,85 o poco più, biondo, corpulento, pancia da bevitore
di birra ed indossa una orripilante camicia gialla sgargiante con dei disegni fantasia,
che se la vedi non ti puoi sbagliare! Pensavo bastasse quella per riconoscerlo.»
«I casi sono due: o è tornato indietro, e con questa folla dubito che riusciremo a
raggiungerlo, oppure si è cambiato e stiamo cercando il particolare sbagliato!»
«Non perdi mai il tuo fiuto da segugio! Ma potresti avere ragione, solo che a
questo punto potrebbe essere uno qualsiasi di quelli che mi sono passati davanti fino
adesso.»
«Non è detto. Se si è cambiato ha perso sicuramente del tempo e potrebbe non
essere arrivato fin qui. Concentrati su un altro particolare, ad esempio il taglio dei
capelli, o la pancia: con un po‟ di fortuna lo troveremo!»
Dioniso stava concentrandosi come gli aveva suggerito Silvestro, ma a parte
qualche spintone non aveva rimediato altro.
Improvvisamente se lo trovò davanti! Se non gli fosse passato così vicino probabilmente non lo avrebbe riconosciuto. Aveva un cappellino in testa ed una maglietta
uguale a quella indossata da un‟infinità di altri uomini alla festa. Ma era sicuramente
lui, non aveva dubbi, lo aveva individuato. Aspettò che proseguisse ancora di qualche metro e richiamò l‟attenzione di Silvestro, che nel frattempo si era spostato
dall‟altra parte della strada. Questi capì al volo e gli si avvicinò facendosi largo tra la
folla.
«È quello con la maglietta rossa e con il cappellino nero. Sono sicuro!»
«Quale?» chiese Silvestro: c‟erano almeno cinque persone nel raggio di pochi
metri vestite in quel modo.
«Quello di fronte a noi, con i pantaloni grigi di tela e le scarpe da trekking marroni. Quello di fianco alla cabina del telefono.»
Silvestro lo individuò subito «Solo un tedesco può vestirsi in quel modo! Vuoi
che lo segua?»
«Si, ma vengo con te, è meglio se stiamo insieme. Vediamo se s‟incontra con
qualcun altro.»
Rudolf era quasi certo di aver seminato eventuali inseguitori, ma voleva esserne
sicuro, e per farlo c‟era un solo modo. Attraversò la piazza ed imboccò Schubertstraße con passo sostenuto. Aveva deciso di non voltarsi indietro per far credere di
non essere sospettoso e di proseguire senza fermarsi. Arrivato in Kaiser Ludwig
Platz svoltò a sinistra e percorse il lato lungo della piazza sino all‟incrocio con Bee-
thovenstraße. Nonostante l‟ora e la vicinanza della festa non c‟erano molte persone
per la strada. Invece di andare verso destra, o di proseguire diritto come sarebbe stato logico per chiunque avesse lasciato la festa, svoltò a sinistra nel tratto di Beethovenstraße che sboccava nuovamente in Bavaria Ring, e dopo aver percorso qualche
decina di metri si voltò improvvisamente. Nel caso in cui qualcuno fosse stato dietro
di lui lo avrebbe visto sicuramente. Non c‟era nessuno, a parte due uomini già abbastanza alticci, che si sorreggevano l‟uno con l‟altro discutendo su quale strada prendere per arrivare più velocemente a Theresienwiese. Attese un attimo ed i due decisero di attraversare la piazza. Ora si sentiva più tranquillo e procedette verso il Ring.
Ormai era certo di non essere seguito; i sospetti dei giorni precedenti si erano rivelati
assolutamente infondati. Avrebbe fatto un‟ultima verifica prima di tornare in albergo, ma un senso di tranquillità incominciava a pervaderlo.
L‟idea di fingersi ubriachi era venuta a Silvestro, che aveva capito lo stratagemma dell‟uomo non appena questi aveva girato l‟angolo di Beethovenstraße.
«Sta solo facendo il giro dell‟isolato. Se torniamo indietro lo incrociamo di nuovo su Bavaria Ring. Mischiati tra la folla non ci riconoscerà!»
In quel momento l‟uomo si era voltato di scatto e Silvestro si era buttato addosso
a Dioniso che gli aveva detto: «Va bene, ma tu vai alla macchina, non vorrei che
tentasse qualche altro trucco!»
Sul Ring c‟era di nuovo movimento ed era facile nascondersi tra i gruppi che si
dirigevano alla festa. Dioniso fece appena in tempo a svoltare l‟angolo per vedere
l‟uomo salire su un taxi tra quelli in attesa al parcheggio: per essere già lì aveva sicuramente corso, probabilmente non ancora del tutto convinto di essere al sicuro.
Dioniso non perse tempo e tornò indietro verso Esperantoplatz, dove Silvestro aveva
parcheggiato, raggiungendo la macchina proprio mentre il taxi passava davanti a loro.
«È su quel taxi che sta andando verso Kapuzinerstraße, cerca di non stargli troppo vicino, non vorrei che si accorgesse di noi, è ancora molto sospettoso.»
Silvestro non se lo fece ripetere e s‟infilò tra due autobus prima che si fermassero per far scendere il loro carico di bevitori. Il taxi aveva guadagnato solo un centinaio di metri, ma Silvestro non se lo sarebbe fatto sfuggire. La macchina proseguì
percorrendo tutta la via sino a Baldeplatz, dove svoltò a sinistra prima del ponte per
proseguire costeggiando l‟Isar. La strada era larga e diritta, ed il taxi viaggiava spedito, facilitato dalla scarsità di traffico; Silvestro riusciva a mantenersi ad una distanza adeguata.
«Come mai stiamo seguendo quel tipo?»
Dioniso gli riassunse brevemente quanto aveva osservato sotto il tendone, raccontandogli di come aveva notato il conciliabolo tra i due e dei sospetti mai sopiti
sul vecchio nazista. Silvestro convenne che poteva essere interessante verificare chi
fosse l‟uomo e cercare di scoprire se il vecchio fosse tornato in attività. Il suo spirito
da detective, mai spento sotto la cenere, si era improvvisamente riacceso ed era
pronto a tornare in azione come ai vecchi tempi.
Il taxi era giunto all‟altezza del Deutsches Museum, che occupava un esteso palazzo di mattoni scuri sulla Museumsinsel, un‟oblunga isola circondata dall‟Isar.
All‟altezza di Ludwigsbrücke svoltò a sinistra, verso la Isartor. In prossimità del
centro il traffico stava aumentando e Silvestro dovette avvicinarsi.
«Non stargli troppo sotto, se ha fatto tutto questo giro per arrivare sino a qui è
ancora sospettoso. Se fosse passato da Sendlinger Tor ci avrebbe impiegato molto
meno!»
«Rischiamo di perderlo se rimango troppo indietro. Se al prossimo semaforo imbocca l‟Altstadtring e non riesco a passare non lo raggiungiamo più!»
Effettivamente, giunti in piazza davanti alla Isartor, il taxi imboccò il Ring; non
svoltò a destra come si sarebbe aspettato Silvestro, ma a sinistra, e si tuffò nel traffico, che, nonostante fosse abbastanza sostenuto, era ancora scorrevole e permetteva
di procedere ad una discreta andatura.
«Che idea ti sei fatto dell‟incontro fra quei due?»
«Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma da quello che sappiamo sul vecchio
ci sono solo due possibilità: la prima è che stia cercando di ottenere dei finanziamenti per qualche attività e la seconda che glieli stia offrendo. Però visto che Rebensberger si è scomodato per arrivare sino a Monaco propenderei per la seconda ipotesi.»
«In fin dei conti però Garmisch non è poi così distante e Rebensberger avrebbe
potuto voler fare solamente una gita alla festa!»
«Non credo che un uomo della sua età abbia voglia di imbarcarsi in una gita sino
a Monaco per bersi da solo una birra sotto ad un tendone caldo e puzzolente. Se aveva sete a Garmisch ci sono un mucchio di birrerie dove non devi sgomitare con un
branco d‟ubriachi per sederti ad un tavolo! E poi quei due non volevano dare
nell‟occhio e soprattutto fingevano di non conoscersi e di essere allo stesso tavolo
per caso, come capita spesso all‟Oktoberfest.»
«Sì, il tuo ragionamento fila. E poi una volta uscito dal tendone non si sarebbe
comportato in quel modo se non avesse qualcosa di losco in mente: cambiare la camicia vistosa con una maglietta anonima e fare il giro dell‟isolato per prendere il taxi sono state due mosse studiate con anticipo. Credo anch‟io che valga la pena investire un po‟ di tempo su quell‟uomo!»
Mentre parlava Silvestro non si era distratto e aveva continuato a seguire il taxi,
che procedeva sulla corsia di sinistra un paio di macchine davanti alla loro.
«Sta tornando in direzione di Theresienwiese, a meno che all‟altezza di Sendlinger Tor non decida di proseguire diritto, nel qual caso ha solo fatto fare all‟autista un
giro lungo per scrollarsi di dosso chi lo seguiva, ma non credo che sospetti di noi, si
deve essere concentrato su qualche altra macchina. A questo punto si sarà tranquillizzato, sono sicuro che nessun‟altra macchina stia seguendo il taxi o noi, sai che me
ne sarei accorto!»
«Spero che il tuo intuito non sbagli e che quello non finisca con l‟accorgersi di
noi!»
Il traffico aumentò ancora e nelle vicinanze di Sendlingertor dovettero rallentare
notevolmente. Il taxi si era incanalato sulla corsia di destra per poi procedere diritto
come aveva previsto Silvestro.
Sino a Karlsplatz proseguirono lentamente, ad ogni incrocio le macchine che volevano svoltare a sinistra intralciavano il traffico. Qualcuno iniziava a spazientirsi ed
il suono dei clacson accompagnava la fila che procedeva oramai a passo d‟uomo.
A Karlsplatz successe quello che Silvestro temeva: il taxi passò mentre il semaforo era appena scattato sull‟arancione, e la macchina davanti a loro, ligia al codice
della strada, si fermò costringendo Silvestro ad una brusca frenata.
Silvestro imprecò a voce alta, scusandosi subito dopo per il linguaggio utilizzato.
«Non hai tutti i torti, rischiamo di perderlo per colpa della precisione teutonica!»
Trascorsero alcuni minuti, che ad entrambi parvero un‟eternità, quando finalmente il semaforo tornò verde.
«Se non si sbriga a partire la tampono!» esclamò Silvestro rabbioso, ma non ve
ne fu bisogno, perché la macchina davanti svoltò subito a destra verso la zona pedonale e liberò la strada permettendogli di proseguire senza altri intralci.
Ora si trattava di indovinare quale direzione poteva aver imboccato il taxi. Sicuramente non era andato verso la stazione, perché in tal caso lo avrebbero visto; in
ogni modo sarebbe stato sulla corsia sbagliata e un taxista di Monaco non si sarebbe
neppure sognato di commettere un‟infrazione del genere.
«Se non è andato verso la stazione, non ha svoltato a sinistra neppure alla prossima, ma ha proseguito lungo il Ring; fai la stessa cosa, e speriamo di avere indovinato!»
Silvestro attraversò velocemente la piazza e proseguì tenendosi sulla destra. Da lì
si sarebbero immessi nella Maximiliansplatz, ma appena prima dell‟inizio della
piazza, Silvestro frenò bruscamente, rischiando di farsi tamponare dalla macchina
che li seguiva.
«Il taxi!» urlò «è appena uscito dalla Pacellistraße, ma il passeggero non era più
a bordo!»
«Come fai ad affermare che fosse proprio il taxi che stavamo seguendo? Ce ne
saranno centinaia uguali a Monaco!»
«Avevo preso mentalmente nota del numero del taxi e del numero di targa, sono
sicuro che è lo stesso di prima.»
«Allora non perdiamo tempo, a quest‟ora non sarà andato lontano!»
Silvestro fece una retromarcia da ritiro patente, schivando alcune macchine che
stavano giungendo nella loro direzione, suonando il clacson, con i guidatori allibiti
per quanto stava accadendo.
S‟infilò nella Pacellistraße, imboccando contromano il tratto che consentiva
l‟uscita sul Ring. Non incrociarono altre vetture ed in breve si trovarono sul lato giusto della carreggiata, procedendo verso Promenadeplatz. Se il taxi era già tornato indietro doveva per forza aver lasciato il suo passeggero nella piazza, e in quel breve
lasso di tempo poteva essersi già diretto nella zona pedonale.
La piazza aveva la forma di un esagono molto allungato, e la strada correva lungo il perimetro, circondando un parco posto al centro. Appena giunsero al vertice
opposto Silvestro fermò la macchina e Dioniso scese per verificare se riusciva ad identificare l‟uomo tra le persone che camminavano nella piazza. Non vide nulla: poteva aver imboccato una qualsiasi delle strade che sbucavano in Promenadeplatz, nel
qual caso non avrebbe avuto nessuna possibilità di individuarlo. Salendo in macchina diede un‟ultima occhiata in giro, mentre grosse nuvole nere cariche di pioggia
correvano velocemente dietro ai due campanili gemelli della Frauenkirche.
Dioniso era seccato, ma non avrebbe incolpato Silvestro di essersi fatto sfuggire
il taxi, sapeva bene che lui non aveva alcuna responsabilità.
«Lo abbiamo perso, non ci resta che tornare alla festa e tenere sotto controllo
Rebensberger, per vedere se l‟uomo si mette di nuovo in contatto con lui! Riportami
a Theresienwiese.»
Silvestro non era entusiasta di dover andare a Garmisch per controllare il vecchio
Rebensberger: era un lavoro noioso, che lo avrebbe costretto a passare notti in macchina e lunghe giornate a bighellonare davanti al negozio di libri, facendo finta di
essere un turista, in un paese che richiedeva non più di mezza giornata per essere visitato.
«Va bene» rispose di malavoglia e ripartì in direzione del Ring.
Rudolf von Rippenburg era ormai sicuro che nessuno lo avesse seguito. Aveva
fatto compiere al taxi un lungo giro, prima di scendere in Promenadeplatz, ma la
Volkswagen che aveva notato nei giorni precedenti non li aveva tallonati. Forse era
stato veramente un caso e quelle che aveva visto erano solamente macchine dello
stesso modello, come ce n‟erano a migliaia a Monaco. Aveva deciso di tornare in albergo e come ultima precauzione, una volta entrato nella hall del Bayerischerhof, si
era fermato appena oltrepassata la porta ed aveva controllato che fuori non vi fossero
movimenti sospetti. Non aveva notato nulla ed ora si sentiva più rilassato. Decise di
concedersi una sauna purificatrice e, se il tempo fosse rimasto bello, anche un bagno
nella piscina sul tetto dell‟albergo.
«Ferma la macchina!»
Silvestro eseguì immediatamente l‟ordine e accostò sulla destra.
«Perché mi hai fatto fermare, cosa hai visto?»
«Non ne sono del tutto sicuro, ma credo di averlo visto riflesso in uno dei vetri
della porta dell‟albergo. Se è entrato lì dentro non ci scapperà. Aspettiamo un momento per esseri sicuri che non esca e poi vado a controllare!»
Attesero alcuni minuti, ma nessuno uscì dall‟albergo. Dioniso scese dalla macchina e s‟incamminò verso l‟entrata. Una volta dentro si guardò intorno. A destra erano sedute due anziane signore che chiacchieravano sorseggiando una tazza di tè e
più avanti un uomo di mezza età stava leggendo un giornale gustando una birra. Per
il resto l‟ampio salone era vuoto, a parte due facchini che stavano portando dei bagagli di una giovane coppia che si stava sbaciucchiando davanti al banco della reception sotto gli occhi severi del portiere, che dava chiari segni d‟impazienza.
Si avvicinò al banco ed attese pazientemente il suo turno, mentre i due freschi
sposini - le fedi lucide e splendenti gli avevano rivelato che dalla celebrazione del
matrimonio non erano passate molte ore - finivano di compilare il modulo di registrazione.
«Herr Bascanni, che piacere riaverla nel nostro albergo! Come posso esserle utile?»
Thomas, il portiere, era cordiale e disponibile come sempre, segno che le mance
di Dioniso durante i suoi soggiorni avevano lasciato un ottimo ricordo.
Dioniso inventò la scusa che gli era sembrato di vedere un vecchio amico che
non incontrava da molto tempo entrare nell‟albergo e descrisse l‟uomo che stava
cercando al portiere. Se l‟uomo fosse stato un ospite Thomas lo avrebbe certamente
identificato, non gli sfuggiva nulla.
«Si tratta certamente di Rudolf von Rippenburg, che quando viene a Monaco ci
onora della sua presenza. Avremo il piacere di averlo nostro ospite ancora per una
settimana! Vuole che la metta in contatto con lui?» e così dicendo prese il telefono.
Il portiere era stato loquace come il solito, ma non era il caso che telefonasse.
«No grazie Thomas! Non è il caso di disturbarlo. Piuttosto vorrei organizzare un
piccolo scherzo all‟amico Rudolf. Potrebbe aiutarmi?»
«Sempre a sua disposizione Herr Bascanni!», rispose prontamente il portiere
«Conti pure sul mio aiuto e sulla mia discrezione.»
«Bene! Per prima cosa mi serve una stanza attigua a quella di Rudolf. Ne ha una
libera?»
«Nessun problema, la stanza è già sua per tutto il tempo che riterrà opportuno. Si
tratta di una stanza comunicante con quella del suo amico attraverso una doppia porta, che è ovviamente chiusa. Ma se desidera posso fornirle un passepartout!»
Dioniso lo avrebbe baciato sulla fronte. Thomas era uno di quei portieri che facevano parte delle leggende metropolitane: capiva immediatamente quali erano i bisogni e le necessità di un cliente e riusciva a risolverli in un batter d‟occhio, in maniera discreta e senza fare domande inopportune.
«Efficiente come sempre, Thomas. Verrà un mio collaboratore nel tardo pomeriggio e prenderà possesso della stanza e di tutto il resto: vorrei che lo trattasse come
ha sempre trattato me, gliene sarei oltremodo grato.»
Nel stringergli la mano Dioniso gli allungò un biglietto da cento euro. Al contatto con la carta frusciante della banconota, il volto del portiere s‟illuminò in un sorriso.
«Sarà un vero piacere. Le auguro un ottimo proseguimento di giornata, Herr Bascanni! A presto.»
Nel frattempo Silvestro aveva trovato un parcheggio nel quale era riuscito a sistemare la macchina e stava aspettando davanti all‟albergo.
«Era il nostro uomo! Si chiama Rudolf von Rippenburg e si ferma ancora tutta la
settimana. Ti ho fatto riservare una stanza comunicante con la sua. In tal modo non
avremo difficoltà a tenerlo sotto controllo.»
«Allora sarà il caso di passare dalla villa a prendere la mia attrezzatura. Avrò bisogno anche di qualche vestito di ricambio.»
«Per il momento non abbiamo fretta, come ti ho già detto il portiere mi ha confermato che si ferma anche la prossima settimana, ma vorrei lo stesso non perdere
tempo: m‟interessa sapere al più presto con chi si metterà in contatto, e soprattutto
l‟oggetto delle sue conversazioni. Ricordati di registrare tutto quello che avviene
nella stanza, ogni dialogo che farà, sia di persona sia al telefono, e di non perderlo di
vista un solo istante!»
«Non temere, avrai un resoconto completo d‟ogni suo passo e d‟ogni suo respiro!»
«Allora andiamo. Tu vai subito alla villa, io prenderò un taxi. Ti chiamerò più
tardi!»
Dioniso salì su un taxi che aveva appena fatto scendere alcune persone davanti
all‟albergo. Mentre la macchina si tuffava nel traffico del Ring pensò che il mattino
seguente avrebbe dovuto cercare di raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni su Rudolf von Rippenburg. Se c‟era di mezzo Rebensberger era opportuno muoversi con i piedi di piombo.
Improvvisamente gli venne in mente Vittoria: l‟eccitazione per l‟inseguimento
era oramai scomparsa ed ora doveva trovare una buona scusa per lei. Decise di dirle
che si era trattato di falso allarme, dovuto ad un calo di tensione nella zona, e che ci
aveva messo parecchio perché i pompieri avevano voluto controllare l‟impianto antincendio prima di dichiarare la zona sicura.
Scarica

Il Profumo del repinto