VERSIONE agosto 2004
Mercoledì, 3 aprile 2002
Moqata’a
Alcuni dei francesi, tra cui Marie e Jean-Paul, vanno a parlare con Claude e le espongono il
problema: non vogliono restare lì ad vitam aeternam. Chiedono che si faccia in modo che la volontà
di ognuno non sia soffocata dalla dinamica di gruppo e che coloro i quali vogliono partire possano
esprimerlo.
Il problema, però, è di trovare un modo per uscire: le ambulanze e i consoli sono respinti.
Questo fa andare qualcuno in tilt. Allo stesso tempo ci si colpevolizza. Si sa di essere utili lì. Non ci
si vuole dissociare dagli obiettivi del gruppo. Alcuni però sono nella logica della resistenza e della
durata. Ce ne sono invece una decina a voler partire; e non vedono uscita a questo essere rinchiusi.
Sofia, una delle tedesche che è nel gruppo, riesce ad entrare in contatto con il suo consolato. Nel
pomeriggio annuncia che il suo consolato ha negoziato, e che degli israeliani verranno a prenderli a
Ramallah. Si preparano. Sanno che José Bové era stato arrestato, dunque anche loro si preparano ad
esserlo, i militanti più esperti li aiutano. La macchina non arriva. Aspettano finché non cade la
notte. La macchina non verrà. Jean-Paul che ha scritto un diario molto dettagliato decide che
potrebbe risultare pericoloso per qualcuno, se dovesse cadere nelle mani degli israeliani, e quindi fa
a pezzi le quaranta pagine, se ne riempie le tasche e distribuisce i pezzi in tutti i bidoni per
l’immondizia dell’edificio.
Medical Relief, Trauma Center, hotel Ramallah
Sono pochi quelli che riescono a muoversi con le autoambulanze oggi e soltanto dal Medical
Relief. Alcuni ragazzi dei Disobbedienti e Alberto Z. della rete Lilliput sono andati là dal Trauma
Center per dare un contributo. Il lavoro là consiste anche nel ripristinare la completa funzionalità
degli uffici che avevano subito danni nell’attacco del lunedì pomeriggio e nel riordinare e sistemare
in maniera razionale le scorte di medicinali che riescono man mano ad affluire. Nadia e Andrea, che
hanno dormito e dormiranno le due notti seguenti nell’ufficio, assicurano una presenza protettiva,
ma ci sono anche altri stranieri, ragazzi giovanissimi, che erano già a Ramallah o che sono arrivati
con qualche amico palestinese nelle ultime ore per dare una mano, tra di loro una ragazzina
statunitense.
Un’autoambulanza riesce a partire e a fare il suo lavoro, subendo però due perquisizioni.
“È strano guardare negli occhi un soldato israeliano, molti ti fissano spavaldamente,
ma la maggior parte non regge lo sguardo e si guarda attorno; sono giovani, alcuni dei
quali sicuramente spaventati, presi e mandati a combattere una guerra contro i civili,
spacciata come lotta al terrorismo. Mi chiedo chi di questi ragazzi si guardi allo
specchio ogni mattina; voglio sperare che non si riconosca, vorrei sperare in un rifiuto.
Mi chiedo perché la società israeliana non riesce a capire che, continuando a tollerare
la politica di occupazione e sopraffazione nei territori palestinesi, non solo non
raggiungerà la pace, ma avrà una generazione distrutta, che avrà visto troppo per la
sua età” (riflette AZ).
All’ospedale le autoambulanze non sono arrivate. Si aspetta, in una giornata grigia e
piovigginosa. Nel primo pomeriggio, mentre un gruppetto di ragazzini gioca a pallone davanti a
casa malgrado il coprifuoco, improvvisamente, a metà strada tra l’ospedale e loro, dalla strada che
fiancheggia l’ospedale governativo scende una pattuglia di soldati che appena in strada apre il fuoco
sui bambini. Un militare si volta verso quelli che sono nello spazio antistante il Trauma Center e
spara un colpo d’istinto, senza mirare. Tutti si riparano dietro il muro di cinta, continuando a
sbirciare i movimenti dei soldati. Sparano altri colpi, il cortile si affolla, col megafono intimano di
56
VERSIONE agosto 2004
entrare tutti o spareranno loro addosso. Si tratta di un rastrellamento. Individuano un condominio,
fanno uscire tutti, arrestano in maniera indiscriminata, devastano, usano l’esplosivo. Si sentiranno i
botti fino a tarda sera e il crepitio delle armi leggere. Carri Merkava e blindati passano avanti e
indietro per la strada dell’ospedale.
Ore 18.30. Viene fatta saltare la porta di un ufficio di stato civile, che viene messo sottosopra.
Pensiamo all’aspetto simbolico di questa azione, una cancellazione dell’esistenza anagrafica di
questi cittadini, perché avremo conferma della distruzione di alcuni settori dell’archivio. Veniamo
anche a sapere della devastazione di un altro edificio non molto distante dall’ospedale, il Ministero
dell’Educazione. Per fortuna al Medical Relief sono arrivati quattro autocarri colmi di ogni ben di
dio; è un convoglio umanitario organizzato dai gruppi pacifisti israeliani e palestinesi che hanno
fatto una grossa manifestazione al check point di A’Rham (vedi più avanti), è riuscito a passare ed
ora viene scaricato dai volontari che poi sistemano tutto con ordine. C’è il problema del ritorno a
Gerusalemme per i conducenti degli autocarri, che sono anche senza insegne. Una donna americana,
dai modi risoluti e un po’ stravagante, che vive a Ramallah e sta dando aiuto in questi giorni, è
pronta a guidare un’ambulanza per scortare i quattro mezzi fino a Qalandiya. Salgono anche sette
italiani dopo aver caricato su di essa cibo da portare al Trauma Center. Si supera un blocco in centro
e poi a Qalandiya tutto bene, dopo una lunga trattativa per far passare gli autocarri.
Ore 20.30. L’autoambulanza rientra in ospedale; sospiro di sollievo, perché i ragazzi erano
andati senza preavvisare i coordinatori e suscitando una certa preoccupazione. Nel frattempo in
ospedale è terminata l’acqua corrente e corre voce che si resterà presto anche senza luce. In
compenso s’è scaricata una buona quantità di cibo.
All’hotel Ramallah si è invece senza cibo e vengono consumate le ultime briciole; anche qui le
ambulanze non sono arrivate; si aspetta invano Nasif. Trascorriamo la giornata approfondendo varie
questioni con l’amico Mohammed, mentre sotto i nostri occhi, che guardano tra le fessure delle
tapparelle abbassate dell’albergo, a circa duecento metri, viene effettuata un’operazione militare. I
soldati dell’IDF circondano una casa (visibilmente disabitata a nostro giudizio) e ne fanno saltare la
porta con una carica esplosiva per poi piazzarsi all’interno. Mohammed è molto preoccupato, è di
Nablus e la sua famiglia è là, tranne la moglie che si è trasferita da poco con lui, che lavora a
Ramallah. Da quando gli spostamenti sono diventati così difficili e pericolosi vivono precariamente
nel piccolo albergo. Il motivo della preoccupazione di Mohammed è che ci sono tutti i segnali di un
imminente attacco a Nablus (i movimenti delle truppe corazzate si sono visti in televisione, ma lui
riceve costanti aggiornamenti al telefono cellulare dai fratelli) e lui sa che a Nablus ci sarà
resistenza e questa scatenerà ulteriormente l’esercito israeliano.
Il telefono viene utilizzato per rimanere in contatto con Vera Tamari e Adila Laïdi del Centro
Culturale Khalil Sakakini. Vera è molto preoccupata per la madre malata e per una zia novantenne
che vive da sola in un appartamento non lontano dalla Moqata’a, con la quale ha perso i contatti e
quasi ci chiede di andare a trovarla con un’autoambulanza, come se avessimo la possibilità di
decidere le mete (vedi la nota [40]). Sono tutti bloccati in casa e non osano mettere la testa fuori, né
tanto meno hanno la possibilità di approvvigionarsi, i bambini sono terrorizzati.32 Il telefono squilla
piuttosto spesso, ci capita di rispondere e si tratta di richieste di informazioni sugli internazionali
presenti a Ramallah; anche una giornalista della rivista della sinistra americana “The Nation”
chiama per una intervista.33
Alla TV si vedono le immagini dell’assedio alla chiesa della Natività a Bethlehem e l’uscita
concordata, dalla città, dei giornalisti italiani in auto blindate. Il Tg della RAI, che è visibile al
Trauma Center, offre il loro racconto: “con la morte nel cuore” hanno abbandonato frati, suore e
palestinesi al loro destino. Un coro di improperi copre il commento di Marc Innaro.
Michele Giorgio è dovuto ritornare nel primo pomeriggio a Gerusalemme (portando con sé una
ragazza ventenne che era venuta a Ramallah lunedì sera, a piedi e da sola, intenzionata a visitare il
57
VERSIONE agosto 2004
suo Presidente in pericolo; ma non l’aveva potuto fare). Giorgio ha poi riportato l’appello pressante
del portavoce della Custodia di Terra Santa, padre David Jaeger:
“Giornalisti non abbandonate Betlemme. La vostra presenza costituisce una
garanzia o almeno la possibilità di allertare subito l’opinione pubblica mondiale. Mi
appello a nome dei miei confratelli assediati e minacciati; mi appello tanto alla
professionalità quanto all’umanità degli amici giornalisti ”.
Giungono notizie, dalla “centrale operativa” di Gerusalemme, dell’enorme manifestazione di
oggi al check point di A’Rham. Inoltre una grossa delegazione (quella che dovrebbe dare il cambio
a noi qui a Ramallah) è in volo da Roma per Tel Aviv, una quarantina di attivisti, parlamentari,
personaggi politici, giornalisti. Saranno al Ben Gurion alle 2.30 del mattino di domani, quale sarà la
decisione delle autorità israeliane?
Gerusalemme
Nella mattinata si radunano nuovamente i pullman delle varie delegazioni internazionali e di
tutti i gruppi di Action for Peace, di fronte all’hotel Ambassador, per raggiungere nuovamente il
check point di A’Rham; dove si stanno recando centinaia di pacifisti e militanti israeliani e
palestinesi. In realtà una volta a destinazione, sotto una pioggia insistente, ci si rende conto che i
dimostranti sono tantissimi (si dirà tra 3 e 5 mila, nelle varie testimonianze da parte dei gruppi
pacifisti israeliani). Gli israeliani sono arrivati con una cinquantina di pullman e numerose auto
private da tutto il paese, tutti i gruppi pacifisti sono rappresentati [foto35]; è veramente un grosso
sforzo per manifestare tutta l’indignazione per quanto sta avvenendo a Ramallah, a Bethlehem, a
Tulkarm, e si teme che da un momento all’altro possa avvenire altrove, soprattutto a Nablus e Jenin.
Moltissime le donne, in prima fila, e lo striscione di Action for Peace con i circa 300 italiani,
compresi quelli che sono tornati da Ramallah il giorno prima. Si attendono alcuni autocarri che
portano cibo e medicine e che si vuole far proseguire per Ramallah. Polizia di frontiera e soldati più
indietro bloccano il passaggio. Iniziano delle trattative, condotte da parlamentari della Knesset,
mentre slogan vengono gridati contro l’occupazione, contro l’operazione militare in corso, per
fermare i crimini di guerra, per la costituzione di due Stati e per una pacifica soluzione e coesistenza
tra i due popoli basata sull’eguaglianza.
Dopo una mezz’ora e senza che nulla di particolare sia accaduto, vengono sparati proprio nel
centro della folla i primi candelotti lacrimogeni, poi granate assordanti e ancora lacrimogeni; il
fumo ristagna, l’aria diventa irrespirabile, la folla si disperde ma non si allontana, molti cadono nel
fango; solo un gruppo di uomini palestinesi resiste sventolando la bandiera avvolto dai gas, a poche
decine di metri dai poliziotti che sono rimasti fermi a lanciare i loro ordigni; alcuni, con l’intenzione
di ricompattarsi appena possibile, trovano rifugio nelle vicine case palestinesi e ricevono assistenza
e poi fette di cipolla cruda. Alcuni degli italiani rimontano in pullman, perché devono partire per
l’aeroporto, da dove rientreranno senza difficoltà in Italia. Gli altri hanno il volo di ritorno all’alba
dell’indomani.
Al check point, dopo un po’, si ricostituiscono le file, si rimane fermi e si ricominciano gli
slogan; si ripete il fronteggiamento per altri venti minuti circa, sono arrivati nel frattempo i quattro
autocarri diretti a Ramallah e si tratta per il loro passaggio [foto36]. All’improvviso parte il secondo
attacco con i gas lacrimogeni [foto37], questa volta più violento, con un vero e proprio
inseguimento e duri pestaggi. Si sospetta anche che venga sparata qualche pallottola di gomma (ne è
sicuro Walter Z.) [foto38]. Tutti fuggono. Molti vengono spinti, picchiati, ci sono dei feriti:
Mohammed Barakeh, parlamentare e segretario del Fronte democratico per la Pace e l’Eguaglianza
(“Hadash”), viene ferito alla testa. Alcuni attivisti vengono fermati e poi rilasciati. Questa volta ci si
allontana definitivamente. Le autorità diranno poi che si trattava di una dimostrazione violenta e
provocatoria, ma non c’è stata alcuna azione violenta e nessuno ha lanciato pietre. Solo slogan,
58
VERSIONE agosto 2004
alquanto più duri dopo la prima carica: “stato di polizia”, “vergogna”, “siete la vergogna del popolo
d’Israele”, “vi comportate come nazisti”.34 Gli autocarri invece ottengono il permesso di passare e
supereranno anche il check point di Qalandiya.
59
VERSIONE agosto 2004
Giovedì, 4 aprile 2002
Aeroporto Ben Gurion
Arriva intorno alle 3 del mattino, quasi puntuale, il volo Alitalia da Roma via Cipro con un
primo gruppo di 21, tra i quali Claudio Sabattini e Alessandra Mecozzi della Fiom, Luciana
Castellina, Gianfranco Benzi, segretario della Cgil internazionale, Gian Piero Rasimelli del Forum
del terzo settore e due deputati Ds, Marina Sereni e Famiano Crucianelli. Vengono tutti fermati per
controlli, vengono trattenuti i passaporti e inizia l’attesa snervante. Arriva il volo Olympic via
Atene con il secondo gruppo di 21, tra cui un gruppetto di Disobbedienti, una deputata dei verdi,
Luana Zanella, e due senatori, Francesco Martone (verde) e Gianfranco Pagliarulo (Comunisti
italiani), qualche consigliere comunale del PRC, alcuni dei Forum sociali, soprattutto di Trento,
Bologna e Roma, Anna Pizzo35 di Carta, Vittorio Agnoletto e Marco Revelli. Anche questo secondo
gruppo viene bloccato ed i passaporti trattenuti.
Alla partenza a Fiumicino, era stato preparato un documento comune, che annuncia con molta
chiarezza gli intenti della staffetta: solidarietà e protezione della popolazione civile palestinese,
pressione sulla Comunità internazionale per l’invio di forze di pace, ritiro dell’esercito israeliano,
sostegno alle forze di pace israeliane, solidarietà per le vittime civili palestinesi e israeliane e le loro
famiglie.
Vengono chiesti i biglietti a quelli del primo gruppo e gli viene comunicato che verranno
reimbarcati sul primo volo che riparte per l’Italia, quello via Atene. Sabattini viene convinto con la
forza, Benzi lo strattonano fino all’uscita, Luciana Castellina sceglie la via della resistenza passiva e
viene trascinata per terra lungo tutto il salone dell’aeroporto da due energumeni. Solo i parlamentari
possono entrare in Israele. Stessa scena per il secondo gruppo: cercano di trattare, di coinvolgere
più efficacemente il consolato, i parlamentari si espongono, alla fine si fa resistenza passiva
sedendosi per terra e tenendosi per le braccia. Intervengono i poliziotti di frontiera e scelgono
Agnoletto: il più grosso dei poliziotti lo afferra, lo solleva da terra, lo scaglia dentro la stanzetta
delle perquisizioni, chiude la porta, si sentono grida, si sentono colpi. Tocca a Marco Revelli, lo
trascinano dentro, lui resta steso, non fa un gesto, non dice una parola. A questo punto tutti si alzano
in piedi, le mani alzate, si arrendono. Vengono perquisiti, i bagagli passati al setaccio,
accompagnati al pullman e poi sull’aereo in attesa da ben due ore, due poliziotti salgono sull’aereo.
Ci sono su di esso più di cento di Action for Peace, il secondo gruppo di ritorno, arrivati da
Gerusalemme; valutano se rimanere tutti in piedi per non far decollare l’aereo, ma poi desistono
perché si potrà raccontare gli avvenimenti ai giornalisti avvisati, ad Atene, e poi in una conferenza
stampa, organizzata a Fiumicino all’arrivo. Anche Zanella, Martone36 e Pagliarulo si sono fatti
espellere per protesta, mentre gli altri parlamentari sono entrati, così come sono entrati altri cinque
arrivati separatamente. A Gerusalemme ci si prepara per portare un gruppetto a Ramallah, c’è Sirio
pronto a guidarli con l’aiuto dell’infaticabile Tano D’Amico.
Ramallah – Moqata’a
L’auto attesa dal giorno precedente, concordata con il consolato tedesco, non arriva e non si
riesce a comunicare perché i telefoni cellulari non hanno linea. Nella tarda mattinata Jean-Paul ha
un malore e viene portato all’infermeria, per fortuna c’è un medico che gli fa una iniezione di
valium e gli dà alcune compresse. Si potrebbe chiedere che venga un’ambulanza, che però non
porterebbe tutti e dieci quelli che vogliono partire. L’unico altro modo per uscire è a piedi con le
braccia alzate. Marie decide che si esca tutti insieme, c’è infatti una buona coesione nel gruppo:
quelli che vogliono restare sono molto decisi a farlo e contano su quelli che andranno via, affinché
60
VERSIONE agosto 2004
diffondano nel miglior modo possibile la notizia della loro azione; quelli che vogliono andar via
sono pronti a subire le conseguenze di un probabile arresto.
Nel pomeriggio arrivano due ambulanze della Mezza Luna Rossa palestinese che portano cibo
e medicine (queste ultime non vengono lasciate entrare dai soldati israeliani) e si decide di profittare
per negoziare l’uscita. Julia, la figlia di Sofia (la tedesca), all’ultimo momento decide di restare
affinché anche la Germania resti coinvolta. Ha 20 anni, sua madre la lascia. Sono così in nove,
passano ad uno ad uno seguendo gli ordini urlati dai soldati e sotto il tiro dei cecchini. Salgono sulle
ambulanze. Jean-Paul viene steso e tenuto sotto ossigeno, l’unico soldato francofono li tratta
umanamente, sale Marie e la più anziana del gruppo, Éliane, che ha 68 anni. Tutti gli altri salgono
nella seconda ambulanza. Vengono fotografati e filmati per tutto il tempo dai militari.
Vengono portati al campo (insediamento, propriamente militare) di Beit El, che non è distante
e qui solo perquisiti, perché vengono poi consegnati agli agenti di polizia del ministero degli
Interni. Questi li accompagnano all’hotel (il patriarcato greco cattolico) di Gerusalemme nella Città
Vecchia a recuperare i loro bagagli, ma hanno solo venti minuti di tempo. Là ci sono alcuni
compagni (a cui viene impedito di avvicinarli) e c’è la moglie di uno dei nove, con il figlioletto di
cinque mesi: sorpresa e folle di gioia ha appena il tempo di abbracciarlo. Vengono poi portati in un
campo della polizia, situato tra Gerusalemme e Tel Aviv e costituito da una decina di prefabbricati,
e qui interrogati individualmente. Si rifiutano di dare le impronte digitali e di farsi fotografare, ma
vengono costretti. Passeranno lì la notte.
Al mattino seguente, venerdì, i poliziotti sono più gentili, ma non permettono di fare alcuna
telefonata (né alle famiglie né al Console); uno dei poliziotti cerca un contatto e chiede, in inglese:
“Come potete mai sostenere dei terroristi?” Si cerca di discutere serenamente con lui, ma un altro
interviene e interrompe la conversazione. Si decide di distruggere la pellicola di un apparecchio
fotografico usa-e-getta per timore di un’ulteriore perquisizione. Verso l’una del pomeriggio
vengono trasferiti con un furgone cellulare a sirene spiegate al posto di polizia di frontiera
dell’aeroporto. Qui gli viene concesso di acquistare qualcosa da mangiare e d’incontrare la Console
di Francia a Tel Aviv, appena arrivata. Costei assicura che verranno imbarcati sul volo di ritorno già
previsto e che all’arrivo a Roissy ci sarà un’autoambulanza ad attendere Jean-Paul; questi chiede di
annullarne la richiesta. Tutti danno i numeri telefonici dei familiari chiedendole di rassicurarli. La
salutano e vengono trasferiti, nuovamente con il furgone cellulare, fino all’aereo sul quale vengono
accolti dagli altri compagni che erano rimasti a Gerusalemme. Sarà un’assemblea permanente nel
corso dell’intero viaggio e all’arrivo a Roissy una folla calorosissima è ad attenderli, decine e
decine di parenti, compagni ed amici li festeggiano.
Il sabato 6 aprile partecipano ad una affollatissima manifestazione di solidarietà per il popolo
palestinese a Denfert Rochereau. Nel pomeriggio Jean-Paul e Marie e gli altri di Marsiglia
prenderanno il TGV per Marsiglia, dove una nuova manifestazione, à la marseillaise, li accoglierà
alla stazione Saint Charles. Sul treno hanno redatto un comunicato che riportiamo in appendice.
Hotel Ramallah
A prima mattina, dopo una notte quasi silenziosa, valutiamo il da farsi, siamo rimasti in cinque,
“adulti e vaccinati”; ci sentiamo relativamente tranquilli, quello a cui abbiamo assistito fino a quel
momento e le emozioni provate hanno fatto nascere insospettate energie; Donatella è piuttosto
critica riguardo alla fiducia da noi altri riposta nelle decisioni di quelli che coordinano il lavoro sulle
ambulanze; concordiamo però sul fatto che il rimanere all’albergo ci taglia fuori da un possibile
confronto su tali decisioni, le quali probabilmente nelle prossime ore si presenteranno assai ardue.
Ne parliamo al telefono con Roberto, che per fortuna ci chiama (tra di noi non ci sono telefoni
cellulari, funzionanti, e in un caso come questo è una grave mancanza). Roberto decide che è
opportuno trasferirci al Trauma Center; non ci sono altre possibilità: dovrà venire lui a prenderci,
61
VERSIONE agosto 2004
non è saggio che si vada noi cinque, che non conosciamo la strada, da soli. Lo aspettiamo, ci
accomiatiamo dal piccolo gruppo dell’hotel Ramallah con commozione, paghiamo le stanze
nonostante le loro rimostranze, promettiamo di rivederci in tempi migliori (promessa fino ad ora
parzialmente mantenuta). Mohammed ci comunica che un attacco massiccio è stato sferrato a
Nablus nella notte, probabilmente i carri armati sono in città, lo abbracciamo.
Roberto arriverà entro un’ora, la situazione è apparentemente tranquilla, ci muoviamo con la
solita circospezione in assetto da coprifuoco e giungiamo al Trauma Center, dove di lì a poco
partecipiamo parzialmente ad un’assemblea dei Disobbedienti per la stesura di un comunicato
collettivo. MR, che non senza ironia si riferisce ai… senior usando il termine “pacifisti
professionisti” (!?), racconta che “con questi, in occasione della stesura di quello che potrebbe
essere l’ultimo comunicato collettivo, si apre una lunga discussione in ordine all’opportunità di
usare il termine “nazista” per qualificare lo spessore culturale dell’intervento israeliano.
Stendiamo un velo pietoso sul contenzioso storico-politico-filosofico per evitare che sopraggiunga
la notte.” Il termine non verrà usato, ma la questione merita un approfondimento e non è il luogo
qui per addentrarvisi.
Trauma Center
Intorno alle 2 del pomeriggio arrivano Sirio, Tano, un giornalista dell’Unità, Gabriel
Bertinetto, e cinque deputati, Famiano Crucianelli (del gruppo respinto nella notte al Ben Gurion;
gli altri sono rimasti a Gerusalemme), Claudio Fava, Marco Fumagalli e Roberta Pinotti, tutti
diessini, e Luca Marcora della Margherita. Hanno percorso il solito sentiero sterrato attraverso il
cantiere per aggirare il check point di Qalandiya e poi hanno proseguito parte in taxi parte a piedi.
Tutti portano buste piene di viveri, che verranno consegnati all’ospedale, sono visibilmente scossi,
catapultati per soli tre giorni (alla fine nessuno di loro rimarrà né a Ramallah né a Gerusalemme e
ripartiranno per l’Italia sabato 6) in un posto e in una situazione che non potevano immaginare dalle
sole cronache di giornali e TV in Italia. Ne discutono con noi nel corso del pomeriggio e, man mano
che nella sala “degli internazionali” del centro traumatologico si ricrea un’atmosfera familiare,
riacquistano la confidenza che si addice al loro ruolo e la discussione si fa più politica, a tratti
interessante; ci colpisce Roberta Pinotti, genovese, semplice e schietta, con un passato da assessora
comunale fuori schema, ha lasciato a casa una figlia appena nata e sabato c’è il battesimo. Il
giornalista si dà molto da fare ad intervistare i medici e i pochi degenti, fa fatica anche lui a cogliere
in che razza di situazione siamo tutti finiti.
(MR)“I parlamentari vorrebbero fare anche loro l’esperienza del giro sulle ambulanze, ma
quando esse si rendono finalmente disponibili, dopo essere state trattenute senza apparente motivo
dai soldati, è troppo tardi, troppo pericoloso.” Crucianelli viene chiamato più volte al telefono
cellulare e rilascia interviste ai giornali, racconterà poi quanto sta per accadere nel tardo
pomeriggio; tra l’altro afferma: “I pacifisti e gli attivisti hanno avuto una funzione essenziale, è
innegabile che dove ci sono loro c'è maggior timore da parte dell'esercito israeliano a intervenire.”
Ci piace pensare, a posteriori, che sia stato veramente così, ma al momento non lo abbiamo pensato
mai, nessuno della “delegazione italiana”. Con maggiore o minore enfasi abbiamo sentito soltanto il
bisogno di condividere per un tratto insignificante la vita del popolo palestinese e di testimoniarne
la realtà e l’assurdità. Solo al ritorno a casa leggeremo le parole dedicateci dal giornalista israeliano
Zvi Schuldiner:
“Gli italiani a Ramallah. Che buono sapere che tuttavia in queste condizioni, in
questa situazione c'è chi lotta per la dignità umana. Sono lì non solo per proteggere i
palestinesi. Sono lì anche per frenare gli israeliani nella loro scelleratezza. Sono lì
anche per proteggere la pace, la pace possibile, sono lì in fondo anche per proteggere
gli israeliani. Per salvarli da loro stessi.
La presenza italiana a Ramallah e in altri luoghi dei territori occupati non è un atto
anti-israeliano. È un flagrante atto pacifista e come tale è un atto pro-israeliano e pro-
62
VERSIONE agosto 2004
palestinese. In questi giorni in cui è urgente salvare le parti da se stesse, in cui è
urgente l'invio di una forza internazionale che separi le parti accomunate in un infernale
bagno di sangue, la presenza dei pacifisti italiani deve confortare tutti coloro che
ancora conservano un minimo di speranza nel futuro.”
da “il manifesto” del 3 aprile 2002
Sappiamo perfettamente che sono ben pochi che la pensano così in Israele e che non sono molti
nemmeno in Italia.
L’organizzazione nella sala “degli internazionali” è molto buona e accoglie con efficienza i
nuovi arrivati. In totale sono presenti 56 italiani (lunedì e martedì ce ne sono stati, come già detto,
più di novanta), così suddivisi: Nord-Est: 13; Ya Basta!: 22; Action for Peace: 13; per conto
proprio: 3; parlamentari: 5. Facciamo un elenco di tutti e registriamo i numeri di passaporto.
S’organizzano i compiti e i turni.
Intorno alle 5 e mezza del pomeriggio un blindato ed un carro armato passano più volte nella
strada. Subito dopo una Ford Escort scassata, sbucata da chissà dove, s’infila velocemente nel
cortile del Trauma Center con due palestinesi a bordo. Immediatamente il blindato si affaccia alla
porta carraia ed il soldato che sbuca dal portello superiore (ha una mitragliatrice montata davanti a
sé, alcuni sacchetti di sabbia, in una mano un fucile M16) reclama i due dell’auto, sparando
ripetutamente in aria, per far rientrare quanti di noi e dell’ospedale sono usciti nel cortile. Quasi
nessuno si muove. I colpi in aria non impressionano più nessuno. Altri spari e i medici ci chiedono
di rientrare. Rimangono in due che cercano di “comunicare” con il soldato, gli altri entrano
all’interno e si cerca di capire chi siano i due. Non sono di Ramallah, uno dice di chiamarsi Hadir,
giubbotto nero e fisico da pugile, l’altro un suo amico è in tuta da meccanico, sostengono di essere
venuti a trovare dei parenti ricoverati. I medici non sembrano dare loro credito. Una trappola? Un
incidente simulato dai militari per avere il pretesto di mettere piede nell’ospedale? Il blindato se ne
va e poi ritorna ed entra nel cortile. Ci prepariamo ad un ingresso in forze dei soldati, i medici ci
chiedono di fare resistenza passiva. Siamo tutti all’interno in attesa che succeda qualcosa. Ma nulla
accade e il blindato ad un certo punto semplicemente se ne va. Solo parecchio più tardi i due
misteriosi palestinesi usciranno dal cortile con l’auto a fari spenti, la parcheggeranno a qualche
centinaio di metri e se ne andranno a piedi. Non sapremo più niente di loro.
Discutiamo il programma per il giorno dopo, in mattinata faremo una conferenza stampa e per
questo cerchiamo di metterci in contatto con gli altri giornalisti e le TV straniere presenti a
Ramallah; poi tenteremo di raggiungere la Moqata’a, dovrebbe esserci una sospensione del
coprifuoco per quattro ore; in realtà corre voce che Sharon abbia autorizzato per domani la visita ad
Arafat da parte dell’inviato speciale statunitense Anthony Zinni; non sappiamo se questo potrebbe
rendere non realizzabile la nostra azione. Oggi comunque la delegazione ufficiale dell’Unione
Europea, con il ministro degli esteri spagnolo e il signor PESC (alto rappresentante per la Politica
Estera e di Sicurezza Comune) Javier Solana, non ha avuto il permesso di “rompere l’isolamento
imposto ad Arafat” (secondo una precisazione di un membro del governo Sharon; e poi: “Gli
europei hanno il solo scopo di fornire una scena pubblica ad Arafat e questo noi non lo
permettiamo”).
Si decide che dopo il tentativo alla Moqata’a torneremo a Gerusalemme. Hanno infatti
comunicato dall’Ambassador che ci sono problemi con gli aerei, per i rientri, se non prendiamo
quelli di sabato e domenica. Domani dovrebbero comunque arrivare greci, francesi e altri a tenere in
piedi la staffetta. Riusciamo inoltre a parlare con quelli che in Italia stanno coordinando le iniziative
di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su quanto sta avvenendo in Palestina: nel tardo
pomeriggio di oggi, in alcune città italiane ci sono state manifestazioni, per lo più presidî delle
Donne in Nero, e da uno di questi c’è stato un breve collegamento via cellulare con noi qui al
Trauma Center. Gli sforzi si stanno concentrando sull’organizzazione di manifestazioni più ampie
per sabato 6 aprile. In particolare a Roma dovrebbe realizzarsi una grossa manifestazione unitaria
63
VERSIONE agosto 2004
(quando saremo nuovamente in Italia e sapremo e leggeremo delle polemiche, delle discussioni
sull’antisemitismo, sulla lettera di Gad Lerner, ecc., be’, con il dovuto rispetto, tutto ci sembrerà
una commedia dell’assurdo, inevitabilmente infarcita di manipolazioni e strumentalizzazioni per
meschino interesse personale o di bassa politica delle parti, sacrificando invece la semplice e
terribile verità dei fatti).
Al campo di Dheisheh, non lontano dal centro di Bethlehem, sono quasi cento persone ad
essere asserragliate nel centro culturale IBDAA, tra le quali son diventati 35 gli italiani. I colpi di
mitraglia sono continui tutt’intorno, a volte diretti contro l’edificio; all’ultimo piano, tutto vetrato e
con una vista su tutto il campo, molti vetri sono andati in frantumi, ci si va perché solo lì prendono i
cellulari, ma bisogna parlare stesi per terra. Il consolato italiano sta facendo qualcosa per aprire un
corridoio di uscita, ma la delegazione internazionale non vuole abbandonare i palestinesi alla loro
sorte e vorrebbe quindi che anche alcune ambulanze fossero fatte passare per soccorrere gli abitanti
del campo. Sembra difficile, il consolato non trova mezzi blindati ma soprattutto ha bisogno del
beneplacito del governo israeliano e poi… il venerdì (al tramonto) comincia lo shabbat e fino alla
domenica è impossibile trovare interlocutori israeliani. Fuori dal campo, girano nelle strade solo
carri armati; i palestinesi non possono uscire di casa, eppure si espongono ogni giorno per portare
acqua e cibo al centro. Questa sera i milanesi prepareranno gli spaghetti. Si mangia al piano di sotto
dov’è la sala computer con quindici macchine, frutto di un’esperienza che viene da lontano e che
spiega perché tante persone si trovino nel campo di Dheisheh.37
Al Trauma Center, la sala “degli internazionali” si attrezza per la notte, siamo più numerosi, ci
sono due coperte ogni tre persone da mettere per terra, i ragazzi assicurano i turni di guardia
notturni.
Per la prima volta il cielo è stellato.
64
VERSIONE agosto 2004
Venerdì, 5 aprile 2002
Ramallah – Trauma Center
Nel pieno della notte, svegliati da un brusio, notiamo che alcuni lasciano il giaciglio e si
avviano verso le scale che conducono al piano sotterraneo. Roberto accanto a noi dorme
profondamente. Incuriositi li seguiamo: un dedalo di corridoi conduce a varie sale tra cui la camera
“a gas” della televisione, ma infermieri, medici e internazionali inequivocabilmente si dirigono
verso un’ulteriore rampa di gradini che immette in uno spazio da cui si può proseguire in una specie
di garage, che dà verso l’esterno sul retro dell’edificio. Nello spazio c’è una tavola di legno
poggiata su qualcosa di rimediato, di fianco una porta che dà in una specie di cucina. Da lì esce di
tutto: ciotole con pomodori tagliati, cetrioli e peperoni tagliati, formaggini, vaschette con hummus e
buste con il pane tondo schiacciato che si può aprire lateralmente a formare come una bustina nella
quale inserire il cibo a piacere; inoltre escono in continuazione vassoi pieni di bicchieri con tè
caldo. Una goduria. E l’atmosfera è impressionante, tutti parlano e godono visibilmente dello stare
insieme e di quel momento così semplice. Gli infermieri e i medici sono finalmente rilassati,
mangiano di gusto e poi fumano, scambiandosi le sigarette con i ragazzi italiani, è una gara a
sorridersi e a tentare battute in un linguaggio che è un gran minestrone. Saranno le tre del mattino
ed è il momento più bello che abbiamo vissuto. Pian piano le chiacchiere scemano, un cenno e quasi
impercettibilmente, un po’ alla volta si torna su, ai turni di guardia e al sonno. Ma i pensieri si
affollano per poi trasmutare e svanire.
Al mattino c’è il sole e si riesce ad avere qualcosa di caldo per colazione, Alberta racconta dei
famosi dolcetti portati da Verona per Arafat e che maldestramente sono stati mangiati due giorni
prima da alcuni Disobbedienti che li avevano trovati incustoditi e troppo invitanti. Alcuni decidono
di uscire finalmente fuori a godersi il sole, al riparo del recinto che separa dalla strada, altri
riassettano e puliscono la sala. In un angolo accanto alla porta principale a vetri, che si apre
automaticamente, Crucianelli è su una sedia, assorto in una seria lettura. Arriva una delegazione di
greci, alcuni dei quali vengono riconosciuti e abbracciati, erano a Genova nelle giornate del
controvertice del luglio 2001, non sanno ancora se si fermeranno a Ramallah per qualche giorno.
Arriva inaspettato un altro parlamentare italiano, Giuliano Pisapia, e 5 europarlamentari, tra cui due
greci e la francese del gruppo dei verdi Alima Boumédiene-Thiery; con loro il funzionario Stefano
Squarcina.
C’è gran movimento e si prepara la conferenza stampa, si aspettano i giornalisti, ma verranno
dirottati tutti alla Moqata’a per l’arrivo dell’inviato speciale americano Anthony Zinni.
Nel cortile compaiono 7 ragazzine, un po’ spaurite, quasi tutte in bianco e con grandi buste di
cibo, sembra siano arrivate da sole, aiutate da palestinesi per aggirare il check point e poi in taxi
fino all’ospedale. Parlano inglese con un marcato accento statunitense; parlano fitto tra di loro,
proviamo a chiedere da dove vengano e ci nominano alcuni stati americani. In realtà, di lì a poco,
rincuorate e acquistata confidenza riveleranno di essere israeliane, appartenenti al movimento
pacifista Ta’ayush. Ci consegnano un volantino, eccolo:
Documento 8 [volantino delle sette ragazze di Ta’ayush]
Ramallah, 5 aprile 2002 (orig. in inglese)
Noi, un gruppo di donne israeliane, siamo venute oggi a Ramallah per esprimere la
completa opposizione alla guerra condotta dal governo d’Israele contro la popolazione
palestinese.
65
VERSIONE agosto 2004
Sparatorie indiscriminate, privazione dell’assistenza medica e distruzione delle
infrastrutture municipali primarie sono solo alcuni dei possibili esempi di aggressione
intrapresi per la nostra presunta protezione.
Noi siamo qui in quanto espressione di una lotta continua, di cui siamo una piccola
parte, all’interno della società israeliana, contro la guerra e l’occupazione. Noi siamo
qui per vedere. Per vedere la distruzione, la paura e la gente di Ramallah. Noi
chiediamo di mostrare una solidarietà alla popolazione palestinese che vada al di là
della semplice comprensione del fatto che l’escalation degli attacchi rappresenti una
reale minaccia per la vita e il benessere di un’ampia comunità.
La nostra presenza qui è il modo più diretto attraverso il quale noi possiamo
esprimere la nostra fiducia nella possibilità di costruire un futuro insieme.
Ringraziamo la popolazione palestinese di Ramallah e l’International Solidarity
Movement per averci invitato qui, oggi, a distribuire medicine e cibo alla popolazione.
Aheret – Israeli/Palestinian Communication Center
Ci daranno anche i loro nomi e alcuni numeri di telefoni cellulari, che abbiamo provveduto
però a distruggere prima di passare i controlli dell’aeroporto Ben Gurion.
Arrivano dal Medical Relief Nadia e Andrea e il dott. Mashal. La conferenza stampa si fa
all’aperto nel cortile, alcuni brevi interventi, tutti molto sentiti; parla il direttore sanitario del
Trauma Center e le sue parole non sono di semplice ringraziamento.38 Abbiamo anche fatto una
colletta, si avvicina ai tre milioni delle vecchie lire e verrà distribuita tra gli ospedali. È confermata
la sospensione del coprifuoco, ma c’è la solita incertezza sull’orario, comunque gli zainetti sono
preparati rapidamente. Tre del nostro gruppo hanno deciso di rimanere a Ramallah: Alberta,
Donatella e Stefano “piccolo” con l’inseparabile video-camera, ciascuno con motivazioni
specifiche, ma sentiamo che è quello che anche altri di noi vorrebbero fare. Andrea pure rimarrà in
Palestina ma andrà a Gaza.
Da una certa animazione che comincia a serpeggiare nella strada intuiamo che si può
considerare sospeso il coprifuoco. Salutiamo con molta commozione ad uno ad uno gli infermieri, i
medici, i volontari, i degenti, Khaled, Amjad, Faris; in qualche caso avviene uno scambio di regali,
oggetti personali, un cappello, un fazzoletto, una scatola di legno. Si forma un corteo di oltre ottanta
persone, pettorine, asciugamani, bandiere, buste piene di viveri, si uniscono i ragazzini lungo la via,
si fanno fotografare. Man mano la gente esce per strada, ci saluta affettuosamente, i vecchi
sorridono, ma ai nostri Salam scuotono la testa, come a dire “ma che pace e pace…”; e una piccola
e ossuta vecchia ci guarda con gli occhi acquosi e riconoscibilmente impreca contro Sharon,
agitando la mano come se lo volesse fulminare là e subito. Dietro i volti di donne e bambini,
vediamo strade piene di rovine, camminiamo su tappeti di vetri e calcinacci. Arriviamo nella piazza
Al Manara con al centro i leoni di pietra: all’inizio della strada principale che conduce alla parte
vecchia c’è il solito drappello di soldati, con gli M16 imbracciati, con jeep e blindati poco più
indietro; ma ci guardano impassibili, solo qualcuno mostra nervosismo per il gran numero di
videocamere e macchine fotografiche. Compaiono le automobili, svoltiamo a destra per la strada
principale che conduce alla Moqata’a. Fa piuttosto caldo ora e il fango s’è seccato; c’è un centro
commerciale molto danneggiato, vetri in frantumi, le insegne contorte o divelte, piani anneriti dal
fuoco. La strada torna a farsi deserta, polvere e folate di vento che ce la portano negli occhi. Due o
tre automobili ridotte letteralmente a sogliole.39
Giungiamo sul limitare di quello che era come un quartiere con vari edifici, militari e civili,
strade interne e pista di atterraggio per elicotteri e che ora ci si presenta come un ammasso di detriti
più o meno spianato con le ruspe, in leggera salita alla nostra destra. In fondo alla spianata alcuni
edifici sono in piedi, davanti ad essi un certo numero di carri armati. Prendiamo a salire sulla destra
dopo esserci ricompattati, ci fermiamo, Roberto prova ad avanzare per un sentiero percorribile a
66
VERSIONE agosto 2004
bracce larghe. Quando è a circa metà strada tra noi e i carri una jeep si sposta e urla qualcosa al
megafono, Roberto prova una replica, ma è chiaro che non ci sono margini (sapremo che anche tutti
i giornalisti, con sei auto blindate, che hanno provato ad avvicinarsi al momento dell’arrivo di
Zinni, sono stati respinti con bombe assordanti, lacrimogeni e qualche colpo di M16). Torniamo
indietro e proviamo ad avanzare per la strada principale, sulla quale più avanti ci sono degli operai
al lavoro. Nuovamente una jeep e un mezzo blindato intimano l’alt. Gli operai ci comunicano che
hanno avuto il permesso di ripristinare la rete elettrica, ma se non ce ne andiamo i militari
impediscono loro di lavorare. C’è una rapida ed accesa discussione nel nostro gruppo che si
conclude con la scelta sofferta di rinunciare. Torniamo indietro e qui lasciamo la parola a Marco
con il racconto del resto della giornata, racconto che chiude il suo diario di viaggio:
“Di nuovo la città in movimento euforico e nervoso come se la gente stesse
riprendendosi con la massima energia possibile il tempo che è stato rubato dal
coprifuoco. Mercati improvvisati o forse ripristinati di frutta e verdura appaiono sui
marciapiedi. Venditori di banane quasi rabbiosi nel richiamare i clienti. Un
tamponamento di automobili mi sembra particolarmente irreale. Imbocchiamo la lunga
strada verso il check point di Qalandiya. Dopo qualche chilometro prendiamo dei taxi
collettivi.
Ore 15.30. Ci siamo tutti. In fila per attraversare il check point, la procedura è lunga, i
soldati sono scrupolosi. Dopo che sono passati una ventina di compagni,
improvvisamente, inspiegabilmente, viene chiuso il transito. Alle nostre rimostranze
sparano in aria. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Non si riesce a capire il motivo,
assieme a noi ci sono molti mezzi e molti palestinesi. Vado a esplorare con Roberto
due vie alternative, ma sono entrambe sbarrate dai militari. Nel frattempo è stato
avvertito il consolato; la presenza dei parlamentari – che mostrano grande tranquillità –
induce a sperare in una soluzione comunque positiva. I compagni dall’altra parte del
check sono a loro volta impossibilitati a muoversi perché la strada è chiusa dai militari.
Una chiamata di Susanna mi dà la misura della preoccupazione di chi ci ha seguito da
lontano tutti questi giorni e notti. Veniamo a sapere che il blocco è causato da
un’operazione di guerra improvvisa, sentiamo infatti sparare in lontananza. Attesa.
Telefonate. Bottiglie d’acqua. Un gruppetto di pacifiste israeliane che avevo scambiato
per americane è piuttosto preoccupato e scarica a terra numerosi bossoli di
mitragliatrice, grossi come barattoli di succo di frutta.
Ore 17.30. Riaprono. Di nuovo tutti in fila. Cristiano non dimentica le buone maniere
e si attarda per aiutare una donna palestinese a portare il suo carico. C’è qualcosa di
schizofrenico nel sentire lo stesso soldato che prima minacciava di spararci quando ci
dice “good mornig sir, may I see your bag, please?”. Esco per ultimo e percorro il lungo
corridoio fino al secondo check. Siamo fuori. Tutti. Abbracci stretti, qualche lacrima,
tensione che scende. Bello ritrovarsi. L’autista del nostro bus inverte la rotta dopo aver
visto la coda al check di Aram e si va a infilare in una situazione peggiore. A un altro
posto di blocco restiamo fermi a lungo e assistiamo ad un’allucinante aggressione, di
quello che sembra il responsabile del blocco, contro il funzionario del consolato,
Petruzzella, che è in un fuoristrada poco più avanti. Dopo averlo strattonato e
spintonato, fa più volte il gesto di sgonfiargli le gomme. Federico riprende tutto. Sento
salirmi dentro tutta l’incazzatura che ho represso per dieci giorni. Termina anche
questa storia che è buio, Gerusalemme mi sembra diversa, comunque una città
affascinante e ferita. Arrivati al Christmas due birre in sequenza rapida, 50 minuti per
ritrovare il bagaglio e fare una doccia prima di andare con Luca alla sede Rai.
Ore 21. L’aria è tiepida e i vestiti puliti sono pura libidine. Passiamo a prendere
Roberto e ci facciamo portare a Jaffa Road, la strada degli attentati suicidi, al palazzo
delle televisioni. Il collegamento è con Santoro, sappiamo che in studio da lui ci sono
Bettin, Bulgarelli e Morgantini. Ci ricevono Innaro e Longo. Piazziamo Luca e Roberto
in una stanza microscopica davanti alla telecamera e andiamo a seguire sui monitor di
67
VERSIONE agosto 2004
un altro locale. Mi chiama dopo un’ora Telenordest e la corrispondenza telefonica va in
rissa quando sento uno degli ospiti in studio insinuare che il cecchino che ha
assassinato una donna davanti ai nostri occhi potrebbe essere benissimo palestinese.
Una sequenza di insulti che mi sembra riscuota simpatia tra il personale dello studio.
Ore 24.30. Il tassista israeliano non conosce la parte araba della sua città e fatica a
trovare il nostro albergo. Mangiamo avidamente cotolette impanate e verdure mentre
Momo e Vilma si occupano di noi. Momo alle libagioni e Vilma alle informazioni.
Parliamo parliamo parliamo. Abbiamo fatto centro un’altra volta. Stanchi ma soddisfatti.
L’intervento di Luca è stato molto efficace per tono e contenuti.
Non c’è tempo per dormire. Siamo già sui bus con l’adrenalina che comincia a
calare. L’aria è addirittura calda. All’aeroporto di Tel Aviv tre ore di controlli
meticolosissimi e nessuna provocazione. Gli addetti sono tutti molto giovani,
prevalentemente ragazze. L’aereo decolla in orario alla volta di Atene. Sono le 6.40
israeliane. Gerusalemme scompare nel buio.” (MR)
L’incontro tra Arafat, il consigliere Nabil Abu Rudeineh, il ministro Saeb Erekat e Anthony
Zinni è durato circa un’ora e mezza, è stato piuttosto animato, ma non ha dato risultati; del resto
Zinni era latore di una proposta di attuazione dei precedenti piani Tenet e Mitchell, contenente
soltanto richieste relative alla “sicurezza” di Israele senza alcuna contropartita o alcuno sbocco
politico verso la ripresa di reali trattative.
Gli internazionali rimasti rinchiusi nella Moqata’a hanno preparato una lettera da consegnare a
Zinni, ma non hanno potuto dargliela di persona e non si sa se sia mai giunta a destinazione.
Comunque alle 4 del pomeriggio hanno trasmesso per telefono un appello, diffuso poi dalla rete di
coordinamento francese (oltre ai francesi di cui ci siamo occupati, sono presenti altri internazionali,
probabilmente arrivati in precedenza, in tutto ben 40 di 8 paesi differenti, che continueranno nei
giorni seguenti, circa venti, in cui rimarranno rinchiusi nell’edificio, ad inviare messaggi ed appelli
al mondo):
Documento 9 [appello degli internazionali dalla Moqata’a]
Ramallah, 5 aprile 2002 (orig. in francese)
“Siamo diverse centinaia di internazionali, impegnati in una campagna civile per la
difesa del popolo palestinese. Siamo presenti in Palestina, a Ramallah, nel palazzo
presidenziale, negli ospedali, a Gerusalemme e nei campi profughi di Betlemme e
Gaza. Sin dal nostro arrivo abbiamo voluto proteggere la popolazione palestinese
contro i massacri, perpetrati sotto i nostri occhi, dalle forze di occupazione del governo
Sharon: bombardamenti delle città, dei campi, degli ospedali, delle abitazioni e delle
infrastrutture, la totale impossibilità di rifornirsi di acqua, cibo, medicinali, l'esecuzione
di cittadini e attivisti della resistenza, arresti di massa e arbitrari, attacchi sistematici
alle ambulanze, al personale medico e ai luoghi sacri, espulsione dei giornalisti e degli
osservatori internazionali dalle zone occupate, spesso usando la forza.
“A fronte del totale fallimento degli Stati uniti e delle istituzioni internazionali, ci
appelliamo ai milioni di persone che in tutto il mondo si mobilitano affinché presidino le
sedi diplomatiche di Israele, quelle di tutte le autorità coinvolte e quelle dei governi,
affinché:
1) finisca l'occupazione israeliana dei territori palestinesi;
2) vengano immediatamente applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite e del quarto
articolo della Convenzione di Ginevra;
68
VERSIONE agosto 2004
3) venga inviata una forza internazionale in protezione del popolo palestinese.
“Ci appelliamo ai cittadini israeliani perché protestino contro la politica criminale del
loro governo. Ci appelliamo a ciascuno, nel mondo intero, perché venga in Palestina
per prendere parte alle azioni di protezione del popolo palestinese, fino alla sua
liberazione. Resistere all'occupazione e all'oppressione è un diritto e un dovere
universale.”
Firmato: i 40 cittadini internazionali presenti nella residenza del presidente Arafat.
Dal campo di Dheisheh, nel corso di questa stessa giornata, sono potuti partire quasi tutti gli
internazionali. Prima di lasciare il campo, accompagnati da un convoglio diplomatico composto da
15 auto blindate, gli attivisti hanno dovuto assistere alla morte di un bambino palestinese appena
nato. Venuto alla luce nella scorsa notte, soffriva di problemi respiratori, ma non s’è riuscito a far
arrivare in tempo un’ambulanza. La trattativa ingaggiata dagli attivisti con le autorità consolari e
con i rappresentanti delle Nazioni Unite per avere un’autoambulanza nel campo, in occasione della
loro partenza, alla fine è stata vinta. Altri bambini del campo così hanno ricevuto dei medicinali. A
prima mattina, prima che arrivasse il convoglio, dai carri armati appostati immediatamente fuori del
campo son partite delle raffiche di mitragliatrice pesante che hanno colpito il centro IBDAA
spaccando alcune finestre. Quando poi è arrivato il convoglio diplomatico c’è stata la lunga
trattativa per ottenere che non ci fossero blindati a scortarlo fuori del campo e che potesse entrare
l’autoambulanza; viene raggiunto l’accordo, “Stavamo salutando i nostri amici palestinesi –
racconterà Mary – quando dai vicoli sono usciti alcuni soldati che hanno iniziato a sparare,
sparavano anche dai tank. È stato allucinante, ci siamo buttati nelle macchine blindate, abbiamo
fatto salire anche i palestinesi. Qualcun altro si è rifugiato nei portoni delle case”. Alla fine,
quando i soldati ed anche i carri armati si sono allontanati, il convoglio parte. Una ragazza italiana,
che si era rifugiata in una casa, non riesce a salire e rimane a Dheisheh. Dal consolato italiano di
Gerusalemme hanno riferito di aver portato fuori 31 italiani. Una delegazione di sei persone è
rimasta comunque al centro IBDAA.
L’arrivo dei senior superstiti all’hotel Ambassador non è molto diverso da quello descritto da
Marco. È buio ormai, c’è comunque un’affettuosissima accoglienza da parte di tutti quelli (Nilla,
Farshid, Fabio…) che erano rimasti a Gerusalemme a garantire l’organizzazione per il rientro in
Italia e i contatti con i mezzi di comunicazione. Infatti c’informano che quella sera c’è un
collegamento in diretta con la trasmissione di Santoro della RAI, andranno soltanto Roberto e
Casarini, perché lo studio televisivo di Gerusalemme dal quale operano Innaro e Longo è molto
piccolo. Buon per noi. Trovati i nostri bagagli, possiamo concederci una doccia nel lusso
francamente eccessivo dell’Ambassador. La cena pure ci farà piacere, ma rimaniamo a discutere
tutta la sera… Incontriamo una famiglia di Ramallah, l’anziana madre, profuga del ’48, le ha
passate di tutti i colori e ad un certo punto si è stabilita a Ramallah con l’intera famiglia. Il figlio
ingegnere idraulico ha studiato negli Stati Uniti ed è indeciso se ritornarci per lavoro; due settimane
fa è arrivata dagli Stati Uniti una coppia di amici americani (con tutta la famiglia) per trascorrere
insieme le vacanze di Pasqua, ma all’inizio della settimana scorsa, alle prime voci di una nuova
invasione della città di Ramallah, hanno deciso di venire tutti a Gerusalemme Est, in albergo.
L’ingegnere e un amico ci spiegano l’incredibile “storia dell’acqua” riportata nella nota [14], di cui
ben pochi sanno (e noi al momento non la sapevamo e ci sembrava francamente un’esagerazione). E
poi ci ragguaglia sullo stato delle cose in questo momento a Ramallah: le pompe e il centro di
distribuzione dell’acqua sono a Beituniya, i recenti attacchi dell’IDF hanno seriamente danneggiato
3 delle 4 condotte principali e il computer che controlla la distribuzione; al momento non si sa se
sarà possibile fare degli interventi provvisori (in realtà ci sarà un ripristino effettivo solo dopo il 21
aprile). A Jenin una sola grossa sorgente dà acqua a 80 mila persone, essa è stata occupata
dall’esercito e non si sa più precisamente che cosa sia successo.
69
VERSIONE agosto 2004
Le notizie da Nablus e da Jenin sono molto preoccupanti, i palestinesi con cui riusciamo a
parlare temono il peggio. Quella è veramente un’altra terribile storia, che qualcuno però provvederà
a ricostruire, ne siamo certi, anche se ci vorrà tempo.
Andiamo a dormire sfiniti, dopo qualche veloce telefonata in Italia e a Vera a Ramallah con la
quale, nonostante la sospensione del coprifuoco, non è stato possibile incontrarci.40
70
VERSIONE agosto 2004
NOTE
32
Scene analoghe devono esser state girate con la sua videocamera dal regista Sobhi al Zobaidi, che ha presentato il suo
film al festival di Locarno 2002.Ci sembra interessante riportare l’articolo da “il manifesto” dell’11 agosto 2002:
Filmati «domestici» da Ramallah
Il drammatico racconto per immagini del palestinese Sobhi al Zobaidi. Incontro con il regista a Locarno
Antonello Catacchio
LOCARNO
Milioni di persone nel mondo comprano una videocamera per fare filmati famigliari. Lo ha fatto anche Sobhi al Zobaidi,
per riprendere sua moglie e suo figlio. Solo che Sobhi abita a Ramallah, a poche centinaia di metri dal quartier generale
di Arafat. I suoi materiali «domestici» acquistano così un valore completamente diverso, intorno è occupazione e guerra,
le immagini ogni tanto sobbalzano per le esplosioni. «Ho preso la videocamera - racconta Sobhi - per liberarmi dalla
paura, perché ho un figlio e non c'è nessuno che possa proteggerci. Forse perché questa camera potesse essere
testimone. Invece siamo rimasti vivi. Ho girato molto materiale e la camera ha documentato non la nostra morte, ma la
distruzione che regna intorno a noi, e si è rivelata un'opportunità per mostrare quel che succede visto dall'interno».
Questo materiale è stato assemblato e inviato, avventurosamente, a Locarno «utilizzando le ambulanze per passare dai
check point» sottolinea Sobhi.
Titolo Obor Kalandia, ossia il check point che la famiglia deve attraversare, tra le difficoltà che si possono immaginare e
che qui si vedono. Un lavoro forte nella sua semplicità, acquistato dall'Italia da Mikado. Se lo scenario di fondo è quello
che le tv ci rimandano quotidianamente, diverso è il contesto del vivere quotidiano, «regna l'insicurezza, è un po' come
se Israele avesse deciso di condannare a morte ognuno di noi, e ogni attentato suicida finisce per rafforzare questa
impressione».
Accompagnato dalla moglie e dal figlio, Sobhi parla come un fiume in piena, inarrestabile: «non è più possibile vivere, ci
hanno tagliato l'acqua, l'elettricità, non ci si può spostare, da un anno non riesco a vedere mia sorella che abita a dieci
minuti. Io vivevo qui prima che i territori fossero restituiti, sono cresciuto sotto l'occupazione, ma era una situazione
diversa, ora veniamo trattati come se fossimo di un altro pianeta, il livello di distruzione è diventato tremendo, ogni
attacco ti fa sentire sempre peggio per il vuoto politico che regna, le nostre autorità non sanno fare quello che devono,
non sanno come rapportarsi agli oppositori, siamo anche divisi e ognuno crede di essere il rappresentante della
Palestina, ci sono solo vecchi partiti con vecchi slogan, non esiste più la cultura di una resistenza popolare.
Certo, l'occupazione è la ragione principale di questo disastro, ma anche noi abbiamo responsabilità. Noi abbiamo una
cultura ricca, dobbiamo combattere con questi mezzi, la musica, la poesia, il cinema, per questo ho imbracciato una
videocamera e non un fucile». E il discorso scivola sui pacifisti israeliani indeboliti dagli attacchi suicidi che alla fine
rafforzano la prepotenza di Sharon supportato da Bush, sugli altri paesi arabi con governi spesso illiberali, «regimi
autocratici che ci fanno più danno di quanto ci aiutino».
Una situazione invivibile. Eppure il terzetto famigliare che abbiamo visto nel film e che ora è a Locarno tra poco tornerà
in quella situazione invivibile «con un po' di rabbia in più, dopo avere visto come si potrebbe vivere una vita normale».
33
L’articolo relativo è “Internationals on the Front Lines” di Charmaine Seitz, probabilmente ancora reperibile
all’indirizzo http://www.thenation.com/doc.mhtml?i=20020422&s=seitz20020407 .
34
Testimonianze tratte da una lettera circolare della militante pacifista israeliana Yehudith Harel, del 4 aprile 2002,
diffusa da Daniel Amit (fisico, Università di Roma e di Gerusalemme).
35
La ricostruzione che segue è tratta da un suo articolo per “il manifesto”, “Noi, picchiati e cacciati da Tel Aviv ”, del 5
aprile 2002.
36
Riportiamo alcune sue riflessioni (pubblicate nel n.14-2002 della rivista “Carta”):
« Guardando gli occhi dei poliziotti di frontiera dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la loro durezza, non ho potuto non
interrogarmi su cosa sia successo al popolo israeliano. Riesco a capire, forse solo in parte, cosa sta succedendo a
quello palestinese e i soprusi e le grandi ingiustizie che quel popolo soffre da decenni, cacciato dalla sua terra, obbligato
a mendicare per un secchio d'acqua. Ma la crepa che si sta allargando nel tessuto sociale, nella cultura ebraica, non
necessariamente sionista, di quello troppo poco si sa. Non capisco cosa sentano i cittadini israeliani, al di là della
comprensibile paranoia causata dai kamikaze, come si declini nella loro storia, nel loro immaginario, la parola pace,
sperando che quel popolo sappia, insieme a quello palestinese, ancora declinarla. Sappiamo, noi, cosa si sente ad
andare in discoteca o al mare con l'Uzi a tracolla? (…)
Mi domando perché il popolo israeliano non possa ascoltare il destino del popolo palestinese, e mi affatico a cercare, in
queste ore di guerra e devastazioni, quell'ora di buone azioni che il Talmud dice essere "meglio in questo mondo di tutta
l'eternità nel mondo a venire". Il mio cuore ha anche questo grande peso, quello di vedere uomini in armi che si
accaniscono contro la storia di quelle terre, cancellano secoli di memoria, polverizzano il dialogo interreligioso,
71
VERSIONE agosto 2004
bombardando la moschea di Omar e la chiesa della Natività. "State distruggendo il vostro paese!", cosi' ho gridato ai
poliziotti mentre ero costretto a salire sull'aereo per Atene. (…) ».
37
« I trentacinque italiani fanno parte del Coordinamento Nazionale di Sostegno all’Intifada e di Indymedia. Il
Coordinamento collabora con il campo di Dheisheh dalla prima Intifada: “Abbiamo iniziato a conoscere le persone del
campo, che sono profughi del ’48 – racconta Mary – Abbiamo iniziato a viverci insieme, a conoscere e collaborare con i
comitati popolari. Da allora sono nati tantissimi progetti”. E questo viaggio, anche in un momento come questo, doveva
servire a costruire qualcosa, un asilo per i bambini del campo. Anche gli attivisti di Indymedia avevano in tasca un
progetto, quello di creare una radio web nel media center che si è costituito da pochissimo a Betlemme, e che ha messo
in piedi il nuovo nodo www.jerusalem.indymedia.org (in inglese e arabo). Un’esperienza straordinaria, per niente
scontata, e che doveva allargarsi, proprio in un momento come questo. C’è un video operatore a Dheisheh, racconta
Manolo, si chiama Khaled ed è un po’ il “mito” del campo. La sua telecamera è stata distrutta: “Gli lascio la mia”.
La situazione è tesa, ma non mancano le “battute”. A Pasqua si sono fatti gli auguri di “buona Apachqua”. (…) I bambini
al piano di sotto imparano rapidamente a “chattare” e comunicano così con i loro amici dei campi vicini. Il centro culturale
IBDAA, racconta Mary, “è stato un lavoro bellissimo, qui è nata una scuola di danza tradizionale palestinese. Qui c’era
un corso di informatica. Era un centro aperto a uomini e donne, un’esperienza che andava al di là delle forme classiche
di aggregazione”. (…) ».
Cinzia Gubbini da “ il manifesto” del 5-4-02.
L’edificio nuovo del centro IBDAA, il 1° gennaio 2003, era in perfetta efficienza e all’ultimo piano si mangiava
gustosamente in un’atmosfera molto accogliente, tutti i progetti sono stati ripresi e quello più importante nell’immediato
futuro è l’apertura di uno “Science and Technology Center” con un laboratorio scientifico virtuale per i ragazzi. Il sito
web è www.dheisheh-ibdaa.net.
38
Questa scena, così come anche altre della “carovana” (per usare il termine usato da tutti i gruppi dei centri sociali), è
visibile nel video “Stop Occupation” di Max Valenti et all., durata: 30 min., Visual Communication Project
(www.inventati.org/vcp ), Bologna 2002.
39
Al momento abbiamo pensato ad una possibile reinterpretazione alla maniera della pop-art, ma Vera Tamari lo ha
fatto davvero, allestendo nel campo-giochi della “Friends Boys School” di el-Bireh, il 23 giugno 2002, con alcune
automobili schiacciate fornitele dall’amministrazione comunale, un’esposizione all’aperto dal titolo “Mashyeen?”
(“Going for a Ride?”). Dalla brochure dell’esposizione: “In the recent Israeli incursions into Ramallah and el-Bireh an
estimated 500-600 cars were damaged. The cars belonging mostly to private citizens but some to public services and
companies, were aggressively crushed by the Israeli tanks as they rumbled through the streets and neighbourhoods of
the two towns. The art installation “Going for a ride?” is a statement on only one aspect of the senseless brutalty and acts
of destruction perpetrated by the Israeli army. The focus is on crushed cars because cars carry powerful meanings:
freedom, the open road, travel and movement. The exhibition of crushed cars affirms that despite the destruction of
objects by the occupation, it cannot destroy our will to travel in our minds and feelings and to have joy in our dreams.”
40
Scopriremo più di un anno dopo che esattamente mentre ci recavamo in corteo verso la Moqata’a, la nostra amica
Vera Tamari aveva tentato di raggiungere la zia novantenne, Maria Tamari, isolata nel suo appartamento non lontano
dal quartier generale di Arafat. Il racconto di questa difficile impresa è contenuto nell’interessante libretto di Suad
Amiri “Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina”, Feltrinelli, ottobre 2003 (pagg. 41 e seguenti).
Suad Amiri, architetta, è moglie dello storico Salim Tamari e la suocera del titolo non è altri che Maria Tamari, la zia di
Vera, detta secondo l’usanza palestinese Umm Salim. La lettura del libro, agile e assai piacevole, è forse più efficace
dei saggi storici che verranno scritti su questo periodo della storia della Palestina. Riportiamo alcuni brani del racconto
del tentativo di visita alla zia Maria:
“Oggi, 5 aprile, è l’ottavo giorno della rioccupazione israeliana dei Territori già occupati. Dal 29 marzo 2002, giorno in
cui sono cominciate le incursioni militari, è la seconda volta che sospendono il coprifuoco.
Durante la guerra del Golfo, nel 1991, noi – gli oltre tre milioni di palestinesi – abbiamo subito il coprifuoco per
quarantadue giorni. In attesa dell’ignoto o, come l’esercito israeliano sosteneva, per “motivi di sicurezza”.
Ogni pochi giorni toglievano il coprifuoco per “ragioni umanitarie” di modo che i civili potessero uscire a comprare cibo
e medicine. Ramallah diventava una città assolutamente frenetica. Tutti correvano di qua e di là come pazzi per fare
acquisti prima che la tregua di tre ore finisse. A volte mi rifiutavo di uscire di casa in segno di sfida nei confronti della
decisione presa dagli israeliani: “Adesso potete uscire dalle vostre case e correre come pazzi, mentre noi vi sorvegliamo
tenendovi il fucile puntato addosso, non si sa mai”.
La prima volta che hanno tolto il coprifuoco, il 2 aprile scorso, l’ho saputo dalla televisione quando già la tregua era
finita. Nessuno dei miei amici era riuscito a mettersi in contatto con me, visto che nel nostro rione, che dista soltanto un
chilometro dal quartier generale assediato del presidente Arafat, le linee telefoniche sono fuori uso. Grazie a dio,
l’elettricità non manca. La zona immediatamente intorno a noi, dove vive mia suocera Umm Salim, che ha novantun
anni, è senza elettricità, telefono e acqua, come lei stessa mi ha raccontato la prima volta che sono riuscita a rivederla,
l’8 aprile successivo.
72
VERSIONE agosto 2004
Mi sono sentita così frustrata e in collera, perché aspettavo quell’occasione per andare a trovare Umm Salim e
Zakiyyeh, la signora che si prende cura di lei. Volevo provare a raggiungerle per accertarmi che fosse tutto in ordine. Va
be’, immagino che dovrò aspettare la prossima sospensione del coprifuoco. Come si è poi scoperto, mia suocera
aspettava con prudente ansia di vedermi comparire per portare via lei e Zakiyyeh dalla loro casa, che è proprio in prima
linea. Ha aspettato e aspettato, finché non ha sentito i soldati israeliani gridare mamnu il tajawwul per annunciare la fine
della tregua. Tre ore di attesa hanno lasciato mia suocera e Zakiyyeh in preda alla disperazione. Umm Salim piangeva,
mentre Zakiyyeh cercava di confortarla. Esauste – come mi hanno poi raccontato – si sono addormentate entrambe alle
sei.
Tre giorni dopo, il 5 appunto, il telefono cellulare datomi da Sari, il mio vicino tredicenne, ha preso a suonare. Era
Vera: “Yalla Suad, preparati, tra cinque minuti toglieranno il coprifuoco. Tania e io verremo con te a prendere Tante
Marie (Umm Salim)”. Sono salita in macchina e ho imboccato la via principale, Nablus road, sventrata dai carri armati e
dai bulldozer israeliani. Polverosa com’è, sembra la strada per l’inferno. La polvere era tale che riuscivo a malapena a
distinguere le macchine che cercavano di aprirsi un varco tra fossi e macerie. Mi ci è voluta mezz’ora per arrivare, dato
che gran parte delle strade era bloccata dalle macerie o trivellata di grossi buchi. Per tre volte mi sono trovata faccia a
faccia con i carri armati israeliani. Sono rabbrividita di paura e ho fatto dietro front provocando un ingorgo, visto che
molte macchine facevano la stessa manovra. Ramallah e el-Bireh sembravano zone di guerra: pali della luce divelti; in
mezzo alla strada, ai bordi dell’aiuola spartitraffico, dozzine di automobili spiaccicate; dappertutto vetri e macerie.
Facendomi strada in una città tramutata in labirinto, sono finalmente riuscita ad arrivare a casa di Vera. Lì ci siamo
abbracciate, piangendo e parlando tutte insieme. (…) Ho guardato Vera e ho detto: “Yalla, su, Vera e Tania, andiamo”.
Siamo salite in macchina. Proprio accanto alla casa di Vera c’erano tre auto, due completamente schiacciate, e una
terza fracassata e utilizzata a mo’ di barricata per sbarrare la strada. Ho fatto marcia indietro e mi sono rimessa in
cammino. Quando siamo passate davanti alla casa di Islah, ho fermato la macchina e sono scesa di corsa. (…) e sono
tornata di corsa alla macchina. Dopo neanche cento metri la strada era bloccata. Ho girato a sinistra ma anche lì c’era
un blocco. Ho invertito la direzione di marcia e sono andata a destra. Bloccate un’altra volta. Abbiamo parcheggiato e ci
siamo avviate a piedi lungo la collina che porta alla casa di Umm Salim.
Girato l’angolo, ci siamo trovate un carro armato e una jeep militare israeliani. Ci siamo immobilizzate, guardandoci
l’un l’altra e chiedendoci “e adesso!?”. Disperata, ho detto: “Maledetti bastardi”. E Tania: “Al diavolo, attraverserò i campi
e passerò dai cortili sul retro della casa”. E Vera e io: “No Tania, è pericoloso”. Siamo rimaste lì senza sapere che cosa
fare, finché Vera ha detto: “Khalas yikhrub beithum, che vadano al diavolo, mi incamminerò verso il carro armato e la
jeep e, se mi fermeranno, spiegherò loro che sto solo cercando di andare a vedere come sta una mia zia di novantun
anni”. Tania le si è messa dietro e io mi sono accodata a loro strascicando i piedi. Il mio cuore tremava al pensiero della
donna che gli israeliani avevano colpito e ucciso tre giorni prima, mentre usciva dall’ospedale di Ramallah. Ne frattempo
borbottavo tra me e me: “Dai Suad, un po’ di coraggio, è vero che Umm Salim è la zia di Tania e di Vera, ma è anche tua
suocera, hamati !”. Mi vergognavo di me stessa, a essere l’ultima della fila.
Mentre tutti questi pensieri mi attraversavano rapidamente la mente, abbiamo sentito i soldati israeliani gridare al
megafono in un arabo stentato, “erja’ ” tornate indietro. Siamo rimaste lì come tre statue di sale, poi abbiamo fatto dietro
front, girando le spalle ai soldati. Questa volta la prima della fila ero io! Trascinando i piedi, abbiamo pensato a una
strategia alternativa per raggiungere Tante Marie/Umm Salim. Ho cominciato a pensare che forse, se mi fossi
concentrata e avessi fatto uno sforzo di telepatia, sarei riuscita a far affacciare Zakiyyeh al balcone sul retro, che era
proprio di fronte a noi, a una distanza di non più di duecento metri. Tutta presa da quel pensiero, sento la voce da
soprano di Tania gridare: “Zakiyyeh… Zakiyyeh… Zakiyyeh”. Vera e io ci uniamo a lei e cominciamo a gridare
“Zakiyyeh”. E proprio quando stavamo per arrenderci, Zakiyyeh è apparsa al balcone. Eravamo così eccitate e felici, che
quasi saltavamo.
“Keefek, come stai Zakiyyeh? Keef, come sta Umm Salim? Wheenha, dov’è?” Zakiyyeh continuava ad agitare la
mano in segno di saluto, ma non eravamo sicure che ci avesse sentite. Siamo andate avanti così per qualche minuto,
poi Zakiyyeh si è voltata ed è rientrata in casa! Abbiamo aspettato in preda all’ansia e dopo qualche minuto, quando
accanto a Zakiyyeh è apparsa Umm Salim, ci siamo messe di nuovo a gridare tutte insieme: “Umm Salim, Tante Marie,
keefek, come stai?”. Nessuna risposta. Zakiyyeh, infatti sventolava la mano nella nostra direzione cercando di spiegare
la situazione a Umm Salim, che non è in grado di vedere da lontano. Umm Salim ha aspettato al balcone per qualche
istante, poi è rientrata in casa. Con gli occhi pieni di lacrime ce ne siamo andate anche noi, senza sapere se eravamo
riuscite a darle conforto o se invece le avevamo fatto apparire ancora più angoscioso il suo assedio.
Abbiamo passato le due ore successive correndo da una parte all’altra a procurarci qualche genere alimentare. Solo
per comprare il pane abbiamo dovuto fare mezz’ora di fila nella sovraffollata panetteria al-Sha’b. Erano quasi le quattro,
e la sospensione del coprifuoco stava per finire. Mentre le strade si andavano lentamente spopolando, ho dato un
passaggio a Tania e Vera, poi sono rientrata a casa, esausta, impolverata, arrugginita e frustrata. Pronta ad andare a
letto. (…)”
73
Scarica

Parte 5