VERSIONE agosto 2004 Mercoledì, 3 aprile 2002 Moqata’a Alcuni dei francesi, tra cui Marie e Jean-Paul, vanno a parlare con Claude e le espongono il problema: non vogliono restare lì ad vitam aeternam. Chiedono che si faccia in modo che la volontà di ognuno non sia soffocata dalla dinamica di gruppo e che coloro i quali vogliono partire possano esprimerlo. Il problema, però, è di trovare un modo per uscire: le ambulanze e i consoli sono respinti. Questo fa andare qualcuno in tilt. Allo stesso tempo ci si colpevolizza. Si sa di essere utili lì. Non ci si vuole dissociare dagli obiettivi del gruppo. Alcuni però sono nella logica della resistenza e della durata. Ce ne sono invece una decina a voler partire; e non vedono uscita a questo essere rinchiusi. Sofia, una delle tedesche che è nel gruppo, riesce ad entrare in contatto con il suo consolato. Nel pomeriggio annuncia che il suo consolato ha negoziato, e che degli israeliani verranno a prenderli a Ramallah. Si preparano. Sanno che José Bové era stato arrestato, dunque anche loro si preparano ad esserlo, i militanti più esperti li aiutano. La macchina non arriva. Aspettano finché non cade la notte. La macchina non verrà. Jean-Paul che ha scritto un diario molto dettagliato decide che potrebbe risultare pericoloso per qualcuno, se dovesse cadere nelle mani degli israeliani, e quindi fa a pezzi le quaranta pagine, se ne riempie le tasche e distribuisce i pezzi in tutti i bidoni per l’immondizia dell’edificio. Medical Relief, Trauma Center, hotel Ramallah Sono pochi quelli che riescono a muoversi con le autoambulanze oggi e soltanto dal Medical Relief. Alcuni ragazzi dei Disobbedienti e Alberto Z. della rete Lilliput sono andati là dal Trauma Center per dare un contributo. Il lavoro là consiste anche nel ripristinare la completa funzionalità degli uffici che avevano subito danni nell’attacco del lunedì pomeriggio e nel riordinare e sistemare in maniera razionale le scorte di medicinali che riescono man mano ad affluire. Nadia e Andrea, che hanno dormito e dormiranno le due notti seguenti nell’ufficio, assicurano una presenza protettiva, ma ci sono anche altri stranieri, ragazzi giovanissimi, che erano già a Ramallah o che sono arrivati con qualche amico palestinese nelle ultime ore per dare una mano, tra di loro una ragazzina statunitense. Un’autoambulanza riesce a partire e a fare il suo lavoro, subendo però due perquisizioni. “È strano guardare negli occhi un soldato israeliano, molti ti fissano spavaldamente, ma la maggior parte non regge lo sguardo e si guarda attorno; sono giovani, alcuni dei quali sicuramente spaventati, presi e mandati a combattere una guerra contro i civili, spacciata come lotta al terrorismo. Mi chiedo chi di questi ragazzi si guardi allo specchio ogni mattina; voglio sperare che non si riconosca, vorrei sperare in un rifiuto. Mi chiedo perché la società israeliana non riesce a capire che, continuando a tollerare la politica di occupazione e sopraffazione nei territori palestinesi, non solo non raggiungerà la pace, ma avrà una generazione distrutta, che avrà visto troppo per la sua età” (riflette AZ). All’ospedale le autoambulanze non sono arrivate. Si aspetta, in una giornata grigia e piovigginosa. Nel primo pomeriggio, mentre un gruppetto di ragazzini gioca a pallone davanti a casa malgrado il coprifuoco, improvvisamente, a metà strada tra l’ospedale e loro, dalla strada che fiancheggia l’ospedale governativo scende una pattuglia di soldati che appena in strada apre il fuoco sui bambini. Un militare si volta verso quelli che sono nello spazio antistante il Trauma Center e spara un colpo d’istinto, senza mirare. Tutti si riparano dietro il muro di cinta, continuando a sbirciare i movimenti dei soldati. Sparano altri colpi, il cortile si affolla, col megafono intimano di 56 VERSIONE agosto 2004 entrare tutti o spareranno loro addosso. Si tratta di un rastrellamento. Individuano un condominio, fanno uscire tutti, arrestano in maniera indiscriminata, devastano, usano l’esplosivo. Si sentiranno i botti fino a tarda sera e il crepitio delle armi leggere. Carri Merkava e blindati passano avanti e indietro per la strada dell’ospedale. Ore 18.30. Viene fatta saltare la porta di un ufficio di stato civile, che viene messo sottosopra. Pensiamo all’aspetto simbolico di questa azione, una cancellazione dell’esistenza anagrafica di questi cittadini, perché avremo conferma della distruzione di alcuni settori dell’archivio. Veniamo anche a sapere della devastazione di un altro edificio non molto distante dall’ospedale, il Ministero dell’Educazione. Per fortuna al Medical Relief sono arrivati quattro autocarri colmi di ogni ben di dio; è un convoglio umanitario organizzato dai gruppi pacifisti israeliani e palestinesi che hanno fatto una grossa manifestazione al check point di A’Rham (vedi più avanti), è riuscito a passare ed ora viene scaricato dai volontari che poi sistemano tutto con ordine. C’è il problema del ritorno a Gerusalemme per i conducenti degli autocarri, che sono anche senza insegne. Una donna americana, dai modi risoluti e un po’ stravagante, che vive a Ramallah e sta dando aiuto in questi giorni, è pronta a guidare un’ambulanza per scortare i quattro mezzi fino a Qalandiya. Salgono anche sette italiani dopo aver caricato su di essa cibo da portare al Trauma Center. Si supera un blocco in centro e poi a Qalandiya tutto bene, dopo una lunga trattativa per far passare gli autocarri. Ore 20.30. L’autoambulanza rientra in ospedale; sospiro di sollievo, perché i ragazzi erano andati senza preavvisare i coordinatori e suscitando una certa preoccupazione. Nel frattempo in ospedale è terminata l’acqua corrente e corre voce che si resterà presto anche senza luce. In compenso s’è scaricata una buona quantità di cibo. All’hotel Ramallah si è invece senza cibo e vengono consumate le ultime briciole; anche qui le ambulanze non sono arrivate; si aspetta invano Nasif. Trascorriamo la giornata approfondendo varie questioni con l’amico Mohammed, mentre sotto i nostri occhi, che guardano tra le fessure delle tapparelle abbassate dell’albergo, a circa duecento metri, viene effettuata un’operazione militare. I soldati dell’IDF circondano una casa (visibilmente disabitata a nostro giudizio) e ne fanno saltare la porta con una carica esplosiva per poi piazzarsi all’interno. Mohammed è molto preoccupato, è di Nablus e la sua famiglia è là, tranne la moglie che si è trasferita da poco con lui, che lavora a Ramallah. Da quando gli spostamenti sono diventati così difficili e pericolosi vivono precariamente nel piccolo albergo. Il motivo della preoccupazione di Mohammed è che ci sono tutti i segnali di un imminente attacco a Nablus (i movimenti delle truppe corazzate si sono visti in televisione, ma lui riceve costanti aggiornamenti al telefono cellulare dai fratelli) e lui sa che a Nablus ci sarà resistenza e questa scatenerà ulteriormente l’esercito israeliano. Il telefono viene utilizzato per rimanere in contatto con Vera Tamari e Adila Laïdi del Centro Culturale Khalil Sakakini. Vera è molto preoccupata per la madre malata e per una zia novantenne che vive da sola in un appartamento non lontano dalla Moqata’a, con la quale ha perso i contatti e quasi ci chiede di andare a trovarla con un’autoambulanza, come se avessimo la possibilità di decidere le mete (vedi la nota [40]). Sono tutti bloccati in casa e non osano mettere la testa fuori, né tanto meno hanno la possibilità di approvvigionarsi, i bambini sono terrorizzati.32 Il telefono squilla piuttosto spesso, ci capita di rispondere e si tratta di richieste di informazioni sugli internazionali presenti a Ramallah; anche una giornalista della rivista della sinistra americana “The Nation” chiama per una intervista.33 Alla TV si vedono le immagini dell’assedio alla chiesa della Natività a Bethlehem e l’uscita concordata, dalla città, dei giornalisti italiani in auto blindate. Il Tg della RAI, che è visibile al Trauma Center, offre il loro racconto: “con la morte nel cuore” hanno abbandonato frati, suore e palestinesi al loro destino. Un coro di improperi copre il commento di Marc Innaro. Michele Giorgio è dovuto ritornare nel primo pomeriggio a Gerusalemme (portando con sé una ragazza ventenne che era venuta a Ramallah lunedì sera, a piedi e da sola, intenzionata a visitare il 57 VERSIONE agosto 2004 suo Presidente in pericolo; ma non l’aveva potuto fare). Giorgio ha poi riportato l’appello pressante del portavoce della Custodia di Terra Santa, padre David Jaeger: “Giornalisti non abbandonate Betlemme. La vostra presenza costituisce una garanzia o almeno la possibilità di allertare subito l’opinione pubblica mondiale. Mi appello a nome dei miei confratelli assediati e minacciati; mi appello tanto alla professionalità quanto all’umanità degli amici giornalisti ”. Giungono notizie, dalla “centrale operativa” di Gerusalemme, dell’enorme manifestazione di oggi al check point di A’Rham. Inoltre una grossa delegazione (quella che dovrebbe dare il cambio a noi qui a Ramallah) è in volo da Roma per Tel Aviv, una quarantina di attivisti, parlamentari, personaggi politici, giornalisti. Saranno al Ben Gurion alle 2.30 del mattino di domani, quale sarà la decisione delle autorità israeliane? Gerusalemme Nella mattinata si radunano nuovamente i pullman delle varie delegazioni internazionali e di tutti i gruppi di Action for Peace, di fronte all’hotel Ambassador, per raggiungere nuovamente il check point di A’Rham; dove si stanno recando centinaia di pacifisti e militanti israeliani e palestinesi. In realtà una volta a destinazione, sotto una pioggia insistente, ci si rende conto che i dimostranti sono tantissimi (si dirà tra 3 e 5 mila, nelle varie testimonianze da parte dei gruppi pacifisti israeliani). Gli israeliani sono arrivati con una cinquantina di pullman e numerose auto private da tutto il paese, tutti i gruppi pacifisti sono rappresentati [foto35]; è veramente un grosso sforzo per manifestare tutta l’indignazione per quanto sta avvenendo a Ramallah, a Bethlehem, a Tulkarm, e si teme che da un momento all’altro possa avvenire altrove, soprattutto a Nablus e Jenin. Moltissime le donne, in prima fila, e lo striscione di Action for Peace con i circa 300 italiani, compresi quelli che sono tornati da Ramallah il giorno prima. Si attendono alcuni autocarri che portano cibo e medicine e che si vuole far proseguire per Ramallah. Polizia di frontiera e soldati più indietro bloccano il passaggio. Iniziano delle trattative, condotte da parlamentari della Knesset, mentre slogan vengono gridati contro l’occupazione, contro l’operazione militare in corso, per fermare i crimini di guerra, per la costituzione di due Stati e per una pacifica soluzione e coesistenza tra i due popoli basata sull’eguaglianza. Dopo una mezz’ora e senza che nulla di particolare sia accaduto, vengono sparati proprio nel centro della folla i primi candelotti lacrimogeni, poi granate assordanti e ancora lacrimogeni; il fumo ristagna, l’aria diventa irrespirabile, la folla si disperde ma non si allontana, molti cadono nel fango; solo un gruppo di uomini palestinesi resiste sventolando la bandiera avvolto dai gas, a poche decine di metri dai poliziotti che sono rimasti fermi a lanciare i loro ordigni; alcuni, con l’intenzione di ricompattarsi appena possibile, trovano rifugio nelle vicine case palestinesi e ricevono assistenza e poi fette di cipolla cruda. Alcuni degli italiani rimontano in pullman, perché devono partire per l’aeroporto, da dove rientreranno senza difficoltà in Italia. Gli altri hanno il volo di ritorno all’alba dell’indomani. Al check point, dopo un po’, si ricostituiscono le file, si rimane fermi e si ricominciano gli slogan; si ripete il fronteggiamento per altri venti minuti circa, sono arrivati nel frattempo i quattro autocarri diretti a Ramallah e si tratta per il loro passaggio [foto36]. All’improvviso parte il secondo attacco con i gas lacrimogeni [foto37], questa volta più violento, con un vero e proprio inseguimento e duri pestaggi. Si sospetta anche che venga sparata qualche pallottola di gomma (ne è sicuro Walter Z.) [foto38]. Tutti fuggono. Molti vengono spinti, picchiati, ci sono dei feriti: Mohammed Barakeh, parlamentare e segretario del Fronte democratico per la Pace e l’Eguaglianza (“Hadash”), viene ferito alla testa. Alcuni attivisti vengono fermati e poi rilasciati. Questa volta ci si allontana definitivamente. Le autorità diranno poi che si trattava di una dimostrazione violenta e provocatoria, ma non c’è stata alcuna azione violenta e nessuno ha lanciato pietre. Solo slogan, 58 VERSIONE agosto 2004 alquanto più duri dopo la prima carica: “stato di polizia”, “vergogna”, “siete la vergogna del popolo d’Israele”, “vi comportate come nazisti”.34 Gli autocarri invece ottengono il permesso di passare e supereranno anche il check point di Qalandiya. 59 VERSIONE agosto 2004 Giovedì, 4 aprile 2002 Aeroporto Ben Gurion Arriva intorno alle 3 del mattino, quasi puntuale, il volo Alitalia da Roma via Cipro con un primo gruppo di 21, tra i quali Claudio Sabattini e Alessandra Mecozzi della Fiom, Luciana Castellina, Gianfranco Benzi, segretario della Cgil internazionale, Gian Piero Rasimelli del Forum del terzo settore e due deputati Ds, Marina Sereni e Famiano Crucianelli. Vengono tutti fermati per controlli, vengono trattenuti i passaporti e inizia l’attesa snervante. Arriva il volo Olympic via Atene con il secondo gruppo di 21, tra cui un gruppetto di Disobbedienti, una deputata dei verdi, Luana Zanella, e due senatori, Francesco Martone (verde) e Gianfranco Pagliarulo (Comunisti italiani), qualche consigliere comunale del PRC, alcuni dei Forum sociali, soprattutto di Trento, Bologna e Roma, Anna Pizzo35 di Carta, Vittorio Agnoletto e Marco Revelli. Anche questo secondo gruppo viene bloccato ed i passaporti trattenuti. Alla partenza a Fiumicino, era stato preparato un documento comune, che annuncia con molta chiarezza gli intenti della staffetta: solidarietà e protezione della popolazione civile palestinese, pressione sulla Comunità internazionale per l’invio di forze di pace, ritiro dell’esercito israeliano, sostegno alle forze di pace israeliane, solidarietà per le vittime civili palestinesi e israeliane e le loro famiglie. Vengono chiesti i biglietti a quelli del primo gruppo e gli viene comunicato che verranno reimbarcati sul primo volo che riparte per l’Italia, quello via Atene. Sabattini viene convinto con la forza, Benzi lo strattonano fino all’uscita, Luciana Castellina sceglie la via della resistenza passiva e viene trascinata per terra lungo tutto il salone dell’aeroporto da due energumeni. Solo i parlamentari possono entrare in Israele. Stessa scena per il secondo gruppo: cercano di trattare, di coinvolgere più efficacemente il consolato, i parlamentari si espongono, alla fine si fa resistenza passiva sedendosi per terra e tenendosi per le braccia. Intervengono i poliziotti di frontiera e scelgono Agnoletto: il più grosso dei poliziotti lo afferra, lo solleva da terra, lo scaglia dentro la stanzetta delle perquisizioni, chiude la porta, si sentono grida, si sentono colpi. Tocca a Marco Revelli, lo trascinano dentro, lui resta steso, non fa un gesto, non dice una parola. A questo punto tutti si alzano in piedi, le mani alzate, si arrendono. Vengono perquisiti, i bagagli passati al setaccio, accompagnati al pullman e poi sull’aereo in attesa da ben due ore, due poliziotti salgono sull’aereo. Ci sono su di esso più di cento di Action for Peace, il secondo gruppo di ritorno, arrivati da Gerusalemme; valutano se rimanere tutti in piedi per non far decollare l’aereo, ma poi desistono perché si potrà raccontare gli avvenimenti ai giornalisti avvisati, ad Atene, e poi in una conferenza stampa, organizzata a Fiumicino all’arrivo. Anche Zanella, Martone36 e Pagliarulo si sono fatti espellere per protesta, mentre gli altri parlamentari sono entrati, così come sono entrati altri cinque arrivati separatamente. A Gerusalemme ci si prepara per portare un gruppetto a Ramallah, c’è Sirio pronto a guidarli con l’aiuto dell’infaticabile Tano D’Amico. Ramallah – Moqata’a L’auto attesa dal giorno precedente, concordata con il consolato tedesco, non arriva e non si riesce a comunicare perché i telefoni cellulari non hanno linea. Nella tarda mattinata Jean-Paul ha un malore e viene portato all’infermeria, per fortuna c’è un medico che gli fa una iniezione di valium e gli dà alcune compresse. Si potrebbe chiedere che venga un’ambulanza, che però non porterebbe tutti e dieci quelli che vogliono partire. L’unico altro modo per uscire è a piedi con le braccia alzate. Marie decide che si esca tutti insieme, c’è infatti una buona coesione nel gruppo: quelli che vogliono restare sono molto decisi a farlo e contano su quelli che andranno via, affinché 60 VERSIONE agosto 2004 diffondano nel miglior modo possibile la notizia della loro azione; quelli che vogliono andar via sono pronti a subire le conseguenze di un probabile arresto. Nel pomeriggio arrivano due ambulanze della Mezza Luna Rossa palestinese che portano cibo e medicine (queste ultime non vengono lasciate entrare dai soldati israeliani) e si decide di profittare per negoziare l’uscita. Julia, la figlia di Sofia (la tedesca), all’ultimo momento decide di restare affinché anche la Germania resti coinvolta. Ha 20 anni, sua madre la lascia. Sono così in nove, passano ad uno ad uno seguendo gli ordini urlati dai soldati e sotto il tiro dei cecchini. Salgono sulle ambulanze. Jean-Paul viene steso e tenuto sotto ossigeno, l’unico soldato francofono li tratta umanamente, sale Marie e la più anziana del gruppo, Éliane, che ha 68 anni. Tutti gli altri salgono nella seconda ambulanza. Vengono fotografati e filmati per tutto il tempo dai militari. Vengono portati al campo (insediamento, propriamente militare) di Beit El, che non è distante e qui solo perquisiti, perché vengono poi consegnati agli agenti di polizia del ministero degli Interni. Questi li accompagnano all’hotel (il patriarcato greco cattolico) di Gerusalemme nella Città Vecchia a recuperare i loro bagagli, ma hanno solo venti minuti di tempo. Là ci sono alcuni compagni (a cui viene impedito di avvicinarli) e c’è la moglie di uno dei nove, con il figlioletto di cinque mesi: sorpresa e folle di gioia ha appena il tempo di abbracciarlo. Vengono poi portati in un campo della polizia, situato tra Gerusalemme e Tel Aviv e costituito da una decina di prefabbricati, e qui interrogati individualmente. Si rifiutano di dare le impronte digitali e di farsi fotografare, ma vengono costretti. Passeranno lì la notte. Al mattino seguente, venerdì, i poliziotti sono più gentili, ma non permettono di fare alcuna telefonata (né alle famiglie né al Console); uno dei poliziotti cerca un contatto e chiede, in inglese: “Come potete mai sostenere dei terroristi?” Si cerca di discutere serenamente con lui, ma un altro interviene e interrompe la conversazione. Si decide di distruggere la pellicola di un apparecchio fotografico usa-e-getta per timore di un’ulteriore perquisizione. Verso l’una del pomeriggio vengono trasferiti con un furgone cellulare a sirene spiegate al posto di polizia di frontiera dell’aeroporto. Qui gli viene concesso di acquistare qualcosa da mangiare e d’incontrare la Console di Francia a Tel Aviv, appena arrivata. Costei assicura che verranno imbarcati sul volo di ritorno già previsto e che all’arrivo a Roissy ci sarà un’autoambulanza ad attendere Jean-Paul; questi chiede di annullarne la richiesta. Tutti danno i numeri telefonici dei familiari chiedendole di rassicurarli. La salutano e vengono trasferiti, nuovamente con il furgone cellulare, fino all’aereo sul quale vengono accolti dagli altri compagni che erano rimasti a Gerusalemme. Sarà un’assemblea permanente nel corso dell’intero viaggio e all’arrivo a Roissy una folla calorosissima è ad attenderli, decine e decine di parenti, compagni ed amici li festeggiano. Il sabato 6 aprile partecipano ad una affollatissima manifestazione di solidarietà per il popolo palestinese a Denfert Rochereau. Nel pomeriggio Jean-Paul e Marie e gli altri di Marsiglia prenderanno il TGV per Marsiglia, dove una nuova manifestazione, à la marseillaise, li accoglierà alla stazione Saint Charles. Sul treno hanno redatto un comunicato che riportiamo in appendice. Hotel Ramallah A prima mattina, dopo una notte quasi silenziosa, valutiamo il da farsi, siamo rimasti in cinque, “adulti e vaccinati”; ci sentiamo relativamente tranquilli, quello a cui abbiamo assistito fino a quel momento e le emozioni provate hanno fatto nascere insospettate energie; Donatella è piuttosto critica riguardo alla fiducia da noi altri riposta nelle decisioni di quelli che coordinano il lavoro sulle ambulanze; concordiamo però sul fatto che il rimanere all’albergo ci taglia fuori da un possibile confronto su tali decisioni, le quali probabilmente nelle prossime ore si presenteranno assai ardue. Ne parliamo al telefono con Roberto, che per fortuna ci chiama (tra di noi non ci sono telefoni cellulari, funzionanti, e in un caso come questo è una grave mancanza). Roberto decide che è opportuno trasferirci al Trauma Center; non ci sono altre possibilità: dovrà venire lui a prenderci, 61 VERSIONE agosto 2004 non è saggio che si vada noi cinque, che non conosciamo la strada, da soli. Lo aspettiamo, ci accomiatiamo dal piccolo gruppo dell’hotel Ramallah con commozione, paghiamo le stanze nonostante le loro rimostranze, promettiamo di rivederci in tempi migliori (promessa fino ad ora parzialmente mantenuta). Mohammed ci comunica che un attacco massiccio è stato sferrato a Nablus nella notte, probabilmente i carri armati sono in città, lo abbracciamo. Roberto arriverà entro un’ora, la situazione è apparentemente tranquilla, ci muoviamo con la solita circospezione in assetto da coprifuoco e giungiamo al Trauma Center, dove di lì a poco partecipiamo parzialmente ad un’assemblea dei Disobbedienti per la stesura di un comunicato collettivo. MR, che non senza ironia si riferisce ai… senior usando il termine “pacifisti professionisti” (!?), racconta che “con questi, in occasione della stesura di quello che potrebbe essere l’ultimo comunicato collettivo, si apre una lunga discussione in ordine all’opportunità di usare il termine “nazista” per qualificare lo spessore culturale dell’intervento israeliano. Stendiamo un velo pietoso sul contenzioso storico-politico-filosofico per evitare che sopraggiunga la notte.” Il termine non verrà usato, ma la questione merita un approfondimento e non è il luogo qui per addentrarvisi. Trauma Center Intorno alle 2 del pomeriggio arrivano Sirio, Tano, un giornalista dell’Unità, Gabriel Bertinetto, e cinque deputati, Famiano Crucianelli (del gruppo respinto nella notte al Ben Gurion; gli altri sono rimasti a Gerusalemme), Claudio Fava, Marco Fumagalli e Roberta Pinotti, tutti diessini, e Luca Marcora della Margherita. Hanno percorso il solito sentiero sterrato attraverso il cantiere per aggirare il check point di Qalandiya e poi hanno proseguito parte in taxi parte a piedi. Tutti portano buste piene di viveri, che verranno consegnati all’ospedale, sono visibilmente scossi, catapultati per soli tre giorni (alla fine nessuno di loro rimarrà né a Ramallah né a Gerusalemme e ripartiranno per l’Italia sabato 6) in un posto e in una situazione che non potevano immaginare dalle sole cronache di giornali e TV in Italia. Ne discutono con noi nel corso del pomeriggio e, man mano che nella sala “degli internazionali” del centro traumatologico si ricrea un’atmosfera familiare, riacquistano la confidenza che si addice al loro ruolo e la discussione si fa più politica, a tratti interessante; ci colpisce Roberta Pinotti, genovese, semplice e schietta, con un passato da assessora comunale fuori schema, ha lasciato a casa una figlia appena nata e sabato c’è il battesimo. Il giornalista si dà molto da fare ad intervistare i medici e i pochi degenti, fa fatica anche lui a cogliere in che razza di situazione siamo tutti finiti. (MR)“I parlamentari vorrebbero fare anche loro l’esperienza del giro sulle ambulanze, ma quando esse si rendono finalmente disponibili, dopo essere state trattenute senza apparente motivo dai soldati, è troppo tardi, troppo pericoloso.” Crucianelli viene chiamato più volte al telefono cellulare e rilascia interviste ai giornali, racconterà poi quanto sta per accadere nel tardo pomeriggio; tra l’altro afferma: “I pacifisti e gli attivisti hanno avuto una funzione essenziale, è innegabile che dove ci sono loro c'è maggior timore da parte dell'esercito israeliano a intervenire.” Ci piace pensare, a posteriori, che sia stato veramente così, ma al momento non lo abbiamo pensato mai, nessuno della “delegazione italiana”. Con maggiore o minore enfasi abbiamo sentito soltanto il bisogno di condividere per un tratto insignificante la vita del popolo palestinese e di testimoniarne la realtà e l’assurdità. Solo al ritorno a casa leggeremo le parole dedicateci dal giornalista israeliano Zvi Schuldiner: “Gli italiani a Ramallah. Che buono sapere che tuttavia in queste condizioni, in questa situazione c'è chi lotta per la dignità umana. Sono lì non solo per proteggere i palestinesi. Sono lì anche per frenare gli israeliani nella loro scelleratezza. Sono lì anche per proteggere la pace, la pace possibile, sono lì in fondo anche per proteggere gli israeliani. Per salvarli da loro stessi. La presenza italiana a Ramallah e in altri luoghi dei territori occupati non è un atto anti-israeliano. È un flagrante atto pacifista e come tale è un atto pro-israeliano e pro- 62 VERSIONE agosto 2004 palestinese. In questi giorni in cui è urgente salvare le parti da se stesse, in cui è urgente l'invio di una forza internazionale che separi le parti accomunate in un infernale bagno di sangue, la presenza dei pacifisti italiani deve confortare tutti coloro che ancora conservano un minimo di speranza nel futuro.” da “il manifesto” del 3 aprile 2002 Sappiamo perfettamente che sono ben pochi che la pensano così in Israele e che non sono molti nemmeno in Italia. L’organizzazione nella sala “degli internazionali” è molto buona e accoglie con efficienza i nuovi arrivati. In totale sono presenti 56 italiani (lunedì e martedì ce ne sono stati, come già detto, più di novanta), così suddivisi: Nord-Est: 13; Ya Basta!: 22; Action for Peace: 13; per conto proprio: 3; parlamentari: 5. Facciamo un elenco di tutti e registriamo i numeri di passaporto. S’organizzano i compiti e i turni. Intorno alle 5 e mezza del pomeriggio un blindato ed un carro armato passano più volte nella strada. Subito dopo una Ford Escort scassata, sbucata da chissà dove, s’infila velocemente nel cortile del Trauma Center con due palestinesi a bordo. Immediatamente il blindato si affaccia alla porta carraia ed il soldato che sbuca dal portello superiore (ha una mitragliatrice montata davanti a sé, alcuni sacchetti di sabbia, in una mano un fucile M16) reclama i due dell’auto, sparando ripetutamente in aria, per far rientrare quanti di noi e dell’ospedale sono usciti nel cortile. Quasi nessuno si muove. I colpi in aria non impressionano più nessuno. Altri spari e i medici ci chiedono di rientrare. Rimangono in due che cercano di “comunicare” con il soldato, gli altri entrano all’interno e si cerca di capire chi siano i due. Non sono di Ramallah, uno dice di chiamarsi Hadir, giubbotto nero e fisico da pugile, l’altro un suo amico è in tuta da meccanico, sostengono di essere venuti a trovare dei parenti ricoverati. I medici non sembrano dare loro credito. Una trappola? Un incidente simulato dai militari per avere il pretesto di mettere piede nell’ospedale? Il blindato se ne va e poi ritorna ed entra nel cortile. Ci prepariamo ad un ingresso in forze dei soldati, i medici ci chiedono di fare resistenza passiva. Siamo tutti all’interno in attesa che succeda qualcosa. Ma nulla accade e il blindato ad un certo punto semplicemente se ne va. Solo parecchio più tardi i due misteriosi palestinesi usciranno dal cortile con l’auto a fari spenti, la parcheggeranno a qualche centinaio di metri e se ne andranno a piedi. Non sapremo più niente di loro. Discutiamo il programma per il giorno dopo, in mattinata faremo una conferenza stampa e per questo cerchiamo di metterci in contatto con gli altri giornalisti e le TV straniere presenti a Ramallah; poi tenteremo di raggiungere la Moqata’a, dovrebbe esserci una sospensione del coprifuoco per quattro ore; in realtà corre voce che Sharon abbia autorizzato per domani la visita ad Arafat da parte dell’inviato speciale statunitense Anthony Zinni; non sappiamo se questo potrebbe rendere non realizzabile la nostra azione. Oggi comunque la delegazione ufficiale dell’Unione Europea, con il ministro degli esteri spagnolo e il signor PESC (alto rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune) Javier Solana, non ha avuto il permesso di “rompere l’isolamento imposto ad Arafat” (secondo una precisazione di un membro del governo Sharon; e poi: “Gli europei hanno il solo scopo di fornire una scena pubblica ad Arafat e questo noi non lo permettiamo”). Si decide che dopo il tentativo alla Moqata’a torneremo a Gerusalemme. Hanno infatti comunicato dall’Ambassador che ci sono problemi con gli aerei, per i rientri, se non prendiamo quelli di sabato e domenica. Domani dovrebbero comunque arrivare greci, francesi e altri a tenere in piedi la staffetta. Riusciamo inoltre a parlare con quelli che in Italia stanno coordinando le iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su quanto sta avvenendo in Palestina: nel tardo pomeriggio di oggi, in alcune città italiane ci sono state manifestazioni, per lo più presidî delle Donne in Nero, e da uno di questi c’è stato un breve collegamento via cellulare con noi qui al Trauma Center. Gli sforzi si stanno concentrando sull’organizzazione di manifestazioni più ampie per sabato 6 aprile. In particolare a Roma dovrebbe realizzarsi una grossa manifestazione unitaria 63 VERSIONE agosto 2004 (quando saremo nuovamente in Italia e sapremo e leggeremo delle polemiche, delle discussioni sull’antisemitismo, sulla lettera di Gad Lerner, ecc., be’, con il dovuto rispetto, tutto ci sembrerà una commedia dell’assurdo, inevitabilmente infarcita di manipolazioni e strumentalizzazioni per meschino interesse personale o di bassa politica delle parti, sacrificando invece la semplice e terribile verità dei fatti). Al campo di Dheisheh, non lontano dal centro di Bethlehem, sono quasi cento persone ad essere asserragliate nel centro culturale IBDAA, tra le quali son diventati 35 gli italiani. I colpi di mitraglia sono continui tutt’intorno, a volte diretti contro l’edificio; all’ultimo piano, tutto vetrato e con una vista su tutto il campo, molti vetri sono andati in frantumi, ci si va perché solo lì prendono i cellulari, ma bisogna parlare stesi per terra. Il consolato italiano sta facendo qualcosa per aprire un corridoio di uscita, ma la delegazione internazionale non vuole abbandonare i palestinesi alla loro sorte e vorrebbe quindi che anche alcune ambulanze fossero fatte passare per soccorrere gli abitanti del campo. Sembra difficile, il consolato non trova mezzi blindati ma soprattutto ha bisogno del beneplacito del governo israeliano e poi… il venerdì (al tramonto) comincia lo shabbat e fino alla domenica è impossibile trovare interlocutori israeliani. Fuori dal campo, girano nelle strade solo carri armati; i palestinesi non possono uscire di casa, eppure si espongono ogni giorno per portare acqua e cibo al centro. Questa sera i milanesi prepareranno gli spaghetti. Si mangia al piano di sotto dov’è la sala computer con quindici macchine, frutto di un’esperienza che viene da lontano e che spiega perché tante persone si trovino nel campo di Dheisheh.37 Al Trauma Center, la sala “degli internazionali” si attrezza per la notte, siamo più numerosi, ci sono due coperte ogni tre persone da mettere per terra, i ragazzi assicurano i turni di guardia notturni. Per la prima volta il cielo è stellato. 64 VERSIONE agosto 2004 Venerdì, 5 aprile 2002 Ramallah – Trauma Center Nel pieno della notte, svegliati da un brusio, notiamo che alcuni lasciano il giaciglio e si avviano verso le scale che conducono al piano sotterraneo. Roberto accanto a noi dorme profondamente. Incuriositi li seguiamo: un dedalo di corridoi conduce a varie sale tra cui la camera “a gas” della televisione, ma infermieri, medici e internazionali inequivocabilmente si dirigono verso un’ulteriore rampa di gradini che immette in uno spazio da cui si può proseguire in una specie di garage, che dà verso l’esterno sul retro dell’edificio. Nello spazio c’è una tavola di legno poggiata su qualcosa di rimediato, di fianco una porta che dà in una specie di cucina. Da lì esce di tutto: ciotole con pomodori tagliati, cetrioli e peperoni tagliati, formaggini, vaschette con hummus e buste con il pane tondo schiacciato che si può aprire lateralmente a formare come una bustina nella quale inserire il cibo a piacere; inoltre escono in continuazione vassoi pieni di bicchieri con tè caldo. Una goduria. E l’atmosfera è impressionante, tutti parlano e godono visibilmente dello stare insieme e di quel momento così semplice. Gli infermieri e i medici sono finalmente rilassati, mangiano di gusto e poi fumano, scambiandosi le sigarette con i ragazzi italiani, è una gara a sorridersi e a tentare battute in un linguaggio che è un gran minestrone. Saranno le tre del mattino ed è il momento più bello che abbiamo vissuto. Pian piano le chiacchiere scemano, un cenno e quasi impercettibilmente, un po’ alla volta si torna su, ai turni di guardia e al sonno. Ma i pensieri si affollano per poi trasmutare e svanire. Al mattino c’è il sole e si riesce ad avere qualcosa di caldo per colazione, Alberta racconta dei famosi dolcetti portati da Verona per Arafat e che maldestramente sono stati mangiati due giorni prima da alcuni Disobbedienti che li avevano trovati incustoditi e troppo invitanti. Alcuni decidono di uscire finalmente fuori a godersi il sole, al riparo del recinto che separa dalla strada, altri riassettano e puliscono la sala. In un angolo accanto alla porta principale a vetri, che si apre automaticamente, Crucianelli è su una sedia, assorto in una seria lettura. Arriva una delegazione di greci, alcuni dei quali vengono riconosciuti e abbracciati, erano a Genova nelle giornate del controvertice del luglio 2001, non sanno ancora se si fermeranno a Ramallah per qualche giorno. Arriva inaspettato un altro parlamentare italiano, Giuliano Pisapia, e 5 europarlamentari, tra cui due greci e la francese del gruppo dei verdi Alima Boumédiene-Thiery; con loro il funzionario Stefano Squarcina. C’è gran movimento e si prepara la conferenza stampa, si aspettano i giornalisti, ma verranno dirottati tutti alla Moqata’a per l’arrivo dell’inviato speciale americano Anthony Zinni. Nel cortile compaiono 7 ragazzine, un po’ spaurite, quasi tutte in bianco e con grandi buste di cibo, sembra siano arrivate da sole, aiutate da palestinesi per aggirare il check point e poi in taxi fino all’ospedale. Parlano inglese con un marcato accento statunitense; parlano fitto tra di loro, proviamo a chiedere da dove vengano e ci nominano alcuni stati americani. In realtà, di lì a poco, rincuorate e acquistata confidenza riveleranno di essere israeliane, appartenenti al movimento pacifista Ta’ayush. Ci consegnano un volantino, eccolo: Documento 8 [volantino delle sette ragazze di Ta’ayush] Ramallah, 5 aprile 2002 (orig. in inglese) Noi, un gruppo di donne israeliane, siamo venute oggi a Ramallah per esprimere la completa opposizione alla guerra condotta dal governo d’Israele contro la popolazione palestinese. 65 VERSIONE agosto 2004 Sparatorie indiscriminate, privazione dell’assistenza medica e distruzione delle infrastrutture municipali primarie sono solo alcuni dei possibili esempi di aggressione intrapresi per la nostra presunta protezione. Noi siamo qui in quanto espressione di una lotta continua, di cui siamo una piccola parte, all’interno della società israeliana, contro la guerra e l’occupazione. Noi siamo qui per vedere. Per vedere la distruzione, la paura e la gente di Ramallah. Noi chiediamo di mostrare una solidarietà alla popolazione palestinese che vada al di là della semplice comprensione del fatto che l’escalation degli attacchi rappresenti una reale minaccia per la vita e il benessere di un’ampia comunità. La nostra presenza qui è il modo più diretto attraverso il quale noi possiamo esprimere la nostra fiducia nella possibilità di costruire un futuro insieme. Ringraziamo la popolazione palestinese di Ramallah e l’International Solidarity Movement per averci invitato qui, oggi, a distribuire medicine e cibo alla popolazione. Aheret – Israeli/Palestinian Communication Center Ci daranno anche i loro nomi e alcuni numeri di telefoni cellulari, che abbiamo provveduto però a distruggere prima di passare i controlli dell’aeroporto Ben Gurion. Arrivano dal Medical Relief Nadia e Andrea e il dott. Mashal. La conferenza stampa si fa all’aperto nel cortile, alcuni brevi interventi, tutti molto sentiti; parla il direttore sanitario del Trauma Center e le sue parole non sono di semplice ringraziamento.38 Abbiamo anche fatto una colletta, si avvicina ai tre milioni delle vecchie lire e verrà distribuita tra gli ospedali. È confermata la sospensione del coprifuoco, ma c’è la solita incertezza sull’orario, comunque gli zainetti sono preparati rapidamente. Tre del nostro gruppo hanno deciso di rimanere a Ramallah: Alberta, Donatella e Stefano “piccolo” con l’inseparabile video-camera, ciascuno con motivazioni specifiche, ma sentiamo che è quello che anche altri di noi vorrebbero fare. Andrea pure rimarrà in Palestina ma andrà a Gaza. Da una certa animazione che comincia a serpeggiare nella strada intuiamo che si può considerare sospeso il coprifuoco. Salutiamo con molta commozione ad uno ad uno gli infermieri, i medici, i volontari, i degenti, Khaled, Amjad, Faris; in qualche caso avviene uno scambio di regali, oggetti personali, un cappello, un fazzoletto, una scatola di legno. Si forma un corteo di oltre ottanta persone, pettorine, asciugamani, bandiere, buste piene di viveri, si uniscono i ragazzini lungo la via, si fanno fotografare. Man mano la gente esce per strada, ci saluta affettuosamente, i vecchi sorridono, ma ai nostri Salam scuotono la testa, come a dire “ma che pace e pace…”; e una piccola e ossuta vecchia ci guarda con gli occhi acquosi e riconoscibilmente impreca contro Sharon, agitando la mano come se lo volesse fulminare là e subito. Dietro i volti di donne e bambini, vediamo strade piene di rovine, camminiamo su tappeti di vetri e calcinacci. Arriviamo nella piazza Al Manara con al centro i leoni di pietra: all’inizio della strada principale che conduce alla parte vecchia c’è il solito drappello di soldati, con gli M16 imbracciati, con jeep e blindati poco più indietro; ma ci guardano impassibili, solo qualcuno mostra nervosismo per il gran numero di videocamere e macchine fotografiche. Compaiono le automobili, svoltiamo a destra per la strada principale che conduce alla Moqata’a. Fa piuttosto caldo ora e il fango s’è seccato; c’è un centro commerciale molto danneggiato, vetri in frantumi, le insegne contorte o divelte, piani anneriti dal fuoco. La strada torna a farsi deserta, polvere e folate di vento che ce la portano negli occhi. Due o tre automobili ridotte letteralmente a sogliole.39 Giungiamo sul limitare di quello che era come un quartiere con vari edifici, militari e civili, strade interne e pista di atterraggio per elicotteri e che ora ci si presenta come un ammasso di detriti più o meno spianato con le ruspe, in leggera salita alla nostra destra. In fondo alla spianata alcuni edifici sono in piedi, davanti ad essi un certo numero di carri armati. Prendiamo a salire sulla destra dopo esserci ricompattati, ci fermiamo, Roberto prova ad avanzare per un sentiero percorribile a 66 VERSIONE agosto 2004 bracce larghe. Quando è a circa metà strada tra noi e i carri una jeep si sposta e urla qualcosa al megafono, Roberto prova una replica, ma è chiaro che non ci sono margini (sapremo che anche tutti i giornalisti, con sei auto blindate, che hanno provato ad avvicinarsi al momento dell’arrivo di Zinni, sono stati respinti con bombe assordanti, lacrimogeni e qualche colpo di M16). Torniamo indietro e proviamo ad avanzare per la strada principale, sulla quale più avanti ci sono degli operai al lavoro. Nuovamente una jeep e un mezzo blindato intimano l’alt. Gli operai ci comunicano che hanno avuto il permesso di ripristinare la rete elettrica, ma se non ce ne andiamo i militari impediscono loro di lavorare. C’è una rapida ed accesa discussione nel nostro gruppo che si conclude con la scelta sofferta di rinunciare. Torniamo indietro e qui lasciamo la parola a Marco con il racconto del resto della giornata, racconto che chiude il suo diario di viaggio: “Di nuovo la città in movimento euforico e nervoso come se la gente stesse riprendendosi con la massima energia possibile il tempo che è stato rubato dal coprifuoco. Mercati improvvisati o forse ripristinati di frutta e verdura appaiono sui marciapiedi. Venditori di banane quasi rabbiosi nel richiamare i clienti. Un tamponamento di automobili mi sembra particolarmente irreale. Imbocchiamo la lunga strada verso il check point di Qalandiya. Dopo qualche chilometro prendiamo dei taxi collettivi. Ore 15.30. Ci siamo tutti. In fila per attraversare il check point, la procedura è lunga, i soldati sono scrupolosi. Dopo che sono passati una ventina di compagni, improvvisamente, inspiegabilmente, viene chiuso il transito. Alle nostre rimostranze sparano in aria. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Non si riesce a capire il motivo, assieme a noi ci sono molti mezzi e molti palestinesi. Vado a esplorare con Roberto due vie alternative, ma sono entrambe sbarrate dai militari. Nel frattempo è stato avvertito il consolato; la presenza dei parlamentari – che mostrano grande tranquillità – induce a sperare in una soluzione comunque positiva. I compagni dall’altra parte del check sono a loro volta impossibilitati a muoversi perché la strada è chiusa dai militari. Una chiamata di Susanna mi dà la misura della preoccupazione di chi ci ha seguito da lontano tutti questi giorni e notti. Veniamo a sapere che il blocco è causato da un’operazione di guerra improvvisa, sentiamo infatti sparare in lontananza. Attesa. Telefonate. Bottiglie d’acqua. Un gruppetto di pacifiste israeliane che avevo scambiato per americane è piuttosto preoccupato e scarica a terra numerosi bossoli di mitragliatrice, grossi come barattoli di succo di frutta. Ore 17.30. Riaprono. Di nuovo tutti in fila. Cristiano non dimentica le buone maniere e si attarda per aiutare una donna palestinese a portare il suo carico. C’è qualcosa di schizofrenico nel sentire lo stesso soldato che prima minacciava di spararci quando ci dice “good mornig sir, may I see your bag, please?”. Esco per ultimo e percorro il lungo corridoio fino al secondo check. Siamo fuori. Tutti. Abbracci stretti, qualche lacrima, tensione che scende. Bello ritrovarsi. L’autista del nostro bus inverte la rotta dopo aver visto la coda al check di Aram e si va a infilare in una situazione peggiore. A un altro posto di blocco restiamo fermi a lungo e assistiamo ad un’allucinante aggressione, di quello che sembra il responsabile del blocco, contro il funzionario del consolato, Petruzzella, che è in un fuoristrada poco più avanti. Dopo averlo strattonato e spintonato, fa più volte il gesto di sgonfiargli le gomme. Federico riprende tutto. Sento salirmi dentro tutta l’incazzatura che ho represso per dieci giorni. Termina anche questa storia che è buio, Gerusalemme mi sembra diversa, comunque una città affascinante e ferita. Arrivati al Christmas due birre in sequenza rapida, 50 minuti per ritrovare il bagaglio e fare una doccia prima di andare con Luca alla sede Rai. Ore 21. L’aria è tiepida e i vestiti puliti sono pura libidine. Passiamo a prendere Roberto e ci facciamo portare a Jaffa Road, la strada degli attentati suicidi, al palazzo delle televisioni. Il collegamento è con Santoro, sappiamo che in studio da lui ci sono Bettin, Bulgarelli e Morgantini. Ci ricevono Innaro e Longo. Piazziamo Luca e Roberto in una stanza microscopica davanti alla telecamera e andiamo a seguire sui monitor di 67 VERSIONE agosto 2004 un altro locale. Mi chiama dopo un’ora Telenordest e la corrispondenza telefonica va in rissa quando sento uno degli ospiti in studio insinuare che il cecchino che ha assassinato una donna davanti ai nostri occhi potrebbe essere benissimo palestinese. Una sequenza di insulti che mi sembra riscuota simpatia tra il personale dello studio. Ore 24.30. Il tassista israeliano non conosce la parte araba della sua città e fatica a trovare il nostro albergo. Mangiamo avidamente cotolette impanate e verdure mentre Momo e Vilma si occupano di noi. Momo alle libagioni e Vilma alle informazioni. Parliamo parliamo parliamo. Abbiamo fatto centro un’altra volta. Stanchi ma soddisfatti. L’intervento di Luca è stato molto efficace per tono e contenuti. Non c’è tempo per dormire. Siamo già sui bus con l’adrenalina che comincia a calare. L’aria è addirittura calda. All’aeroporto di Tel Aviv tre ore di controlli meticolosissimi e nessuna provocazione. Gli addetti sono tutti molto giovani, prevalentemente ragazze. L’aereo decolla in orario alla volta di Atene. Sono le 6.40 israeliane. Gerusalemme scompare nel buio.” (MR) L’incontro tra Arafat, il consigliere Nabil Abu Rudeineh, il ministro Saeb Erekat e Anthony Zinni è durato circa un’ora e mezza, è stato piuttosto animato, ma non ha dato risultati; del resto Zinni era latore di una proposta di attuazione dei precedenti piani Tenet e Mitchell, contenente soltanto richieste relative alla “sicurezza” di Israele senza alcuna contropartita o alcuno sbocco politico verso la ripresa di reali trattative. Gli internazionali rimasti rinchiusi nella Moqata’a hanno preparato una lettera da consegnare a Zinni, ma non hanno potuto dargliela di persona e non si sa se sia mai giunta a destinazione. Comunque alle 4 del pomeriggio hanno trasmesso per telefono un appello, diffuso poi dalla rete di coordinamento francese (oltre ai francesi di cui ci siamo occupati, sono presenti altri internazionali, probabilmente arrivati in precedenza, in tutto ben 40 di 8 paesi differenti, che continueranno nei giorni seguenti, circa venti, in cui rimarranno rinchiusi nell’edificio, ad inviare messaggi ed appelli al mondo): Documento 9 [appello degli internazionali dalla Moqata’a] Ramallah, 5 aprile 2002 (orig. in francese) “Siamo diverse centinaia di internazionali, impegnati in una campagna civile per la difesa del popolo palestinese. Siamo presenti in Palestina, a Ramallah, nel palazzo presidenziale, negli ospedali, a Gerusalemme e nei campi profughi di Betlemme e Gaza. Sin dal nostro arrivo abbiamo voluto proteggere la popolazione palestinese contro i massacri, perpetrati sotto i nostri occhi, dalle forze di occupazione del governo Sharon: bombardamenti delle città, dei campi, degli ospedali, delle abitazioni e delle infrastrutture, la totale impossibilità di rifornirsi di acqua, cibo, medicinali, l'esecuzione di cittadini e attivisti della resistenza, arresti di massa e arbitrari, attacchi sistematici alle ambulanze, al personale medico e ai luoghi sacri, espulsione dei giornalisti e degli osservatori internazionali dalle zone occupate, spesso usando la forza. “A fronte del totale fallimento degli Stati uniti e delle istituzioni internazionali, ci appelliamo ai milioni di persone che in tutto il mondo si mobilitano affinché presidino le sedi diplomatiche di Israele, quelle di tutte le autorità coinvolte e quelle dei governi, affinché: 1) finisca l'occupazione israeliana dei territori palestinesi; 2) vengano immediatamente applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite e del quarto articolo della Convenzione di Ginevra; 68 VERSIONE agosto 2004 3) venga inviata una forza internazionale in protezione del popolo palestinese. “Ci appelliamo ai cittadini israeliani perché protestino contro la politica criminale del loro governo. Ci appelliamo a ciascuno, nel mondo intero, perché venga in Palestina per prendere parte alle azioni di protezione del popolo palestinese, fino alla sua liberazione. Resistere all'occupazione e all'oppressione è un diritto e un dovere universale.” Firmato: i 40 cittadini internazionali presenti nella residenza del presidente Arafat. Dal campo di Dheisheh, nel corso di questa stessa giornata, sono potuti partire quasi tutti gli internazionali. Prima di lasciare il campo, accompagnati da un convoglio diplomatico composto da 15 auto blindate, gli attivisti hanno dovuto assistere alla morte di un bambino palestinese appena nato. Venuto alla luce nella scorsa notte, soffriva di problemi respiratori, ma non s’è riuscito a far arrivare in tempo un’ambulanza. La trattativa ingaggiata dagli attivisti con le autorità consolari e con i rappresentanti delle Nazioni Unite per avere un’autoambulanza nel campo, in occasione della loro partenza, alla fine è stata vinta. Altri bambini del campo così hanno ricevuto dei medicinali. A prima mattina, prima che arrivasse il convoglio, dai carri armati appostati immediatamente fuori del campo son partite delle raffiche di mitragliatrice pesante che hanno colpito il centro IBDAA spaccando alcune finestre. Quando poi è arrivato il convoglio diplomatico c’è stata la lunga trattativa per ottenere che non ci fossero blindati a scortarlo fuori del campo e che potesse entrare l’autoambulanza; viene raggiunto l’accordo, “Stavamo salutando i nostri amici palestinesi – racconterà Mary – quando dai vicoli sono usciti alcuni soldati che hanno iniziato a sparare, sparavano anche dai tank. È stato allucinante, ci siamo buttati nelle macchine blindate, abbiamo fatto salire anche i palestinesi. Qualcun altro si è rifugiato nei portoni delle case”. Alla fine, quando i soldati ed anche i carri armati si sono allontanati, il convoglio parte. Una ragazza italiana, che si era rifugiata in una casa, non riesce a salire e rimane a Dheisheh. Dal consolato italiano di Gerusalemme hanno riferito di aver portato fuori 31 italiani. Una delegazione di sei persone è rimasta comunque al centro IBDAA. L’arrivo dei senior superstiti all’hotel Ambassador non è molto diverso da quello descritto da Marco. È buio ormai, c’è comunque un’affettuosissima accoglienza da parte di tutti quelli (Nilla, Farshid, Fabio…) che erano rimasti a Gerusalemme a garantire l’organizzazione per il rientro in Italia e i contatti con i mezzi di comunicazione. Infatti c’informano che quella sera c’è un collegamento in diretta con la trasmissione di Santoro della RAI, andranno soltanto Roberto e Casarini, perché lo studio televisivo di Gerusalemme dal quale operano Innaro e Longo è molto piccolo. Buon per noi. Trovati i nostri bagagli, possiamo concederci una doccia nel lusso francamente eccessivo dell’Ambassador. La cena pure ci farà piacere, ma rimaniamo a discutere tutta la sera… Incontriamo una famiglia di Ramallah, l’anziana madre, profuga del ’48, le ha passate di tutti i colori e ad un certo punto si è stabilita a Ramallah con l’intera famiglia. Il figlio ingegnere idraulico ha studiato negli Stati Uniti ed è indeciso se ritornarci per lavoro; due settimane fa è arrivata dagli Stati Uniti una coppia di amici americani (con tutta la famiglia) per trascorrere insieme le vacanze di Pasqua, ma all’inizio della settimana scorsa, alle prime voci di una nuova invasione della città di Ramallah, hanno deciso di venire tutti a Gerusalemme Est, in albergo. L’ingegnere e un amico ci spiegano l’incredibile “storia dell’acqua” riportata nella nota [14], di cui ben pochi sanno (e noi al momento non la sapevamo e ci sembrava francamente un’esagerazione). E poi ci ragguaglia sullo stato delle cose in questo momento a Ramallah: le pompe e il centro di distribuzione dell’acqua sono a Beituniya, i recenti attacchi dell’IDF hanno seriamente danneggiato 3 delle 4 condotte principali e il computer che controlla la distribuzione; al momento non si sa se sarà possibile fare degli interventi provvisori (in realtà ci sarà un ripristino effettivo solo dopo il 21 aprile). A Jenin una sola grossa sorgente dà acqua a 80 mila persone, essa è stata occupata dall’esercito e non si sa più precisamente che cosa sia successo. 69 VERSIONE agosto 2004 Le notizie da Nablus e da Jenin sono molto preoccupanti, i palestinesi con cui riusciamo a parlare temono il peggio. Quella è veramente un’altra terribile storia, che qualcuno però provvederà a ricostruire, ne siamo certi, anche se ci vorrà tempo. Andiamo a dormire sfiniti, dopo qualche veloce telefonata in Italia e a Vera a Ramallah con la quale, nonostante la sospensione del coprifuoco, non è stato possibile incontrarci.40 70 VERSIONE agosto 2004 NOTE 32 Scene analoghe devono esser state girate con la sua videocamera dal regista Sobhi al Zobaidi, che ha presentato il suo film al festival di Locarno 2002.Ci sembra interessante riportare l’articolo da “il manifesto” dell’11 agosto 2002: Filmati «domestici» da Ramallah Il drammatico racconto per immagini del palestinese Sobhi al Zobaidi. Incontro con il regista a Locarno Antonello Catacchio LOCARNO Milioni di persone nel mondo comprano una videocamera per fare filmati famigliari. Lo ha fatto anche Sobhi al Zobaidi, per riprendere sua moglie e suo figlio. Solo che Sobhi abita a Ramallah, a poche centinaia di metri dal quartier generale di Arafat. I suoi materiali «domestici» acquistano così un valore completamente diverso, intorno è occupazione e guerra, le immagini ogni tanto sobbalzano per le esplosioni. «Ho preso la videocamera - racconta Sobhi - per liberarmi dalla paura, perché ho un figlio e non c'è nessuno che possa proteggerci. Forse perché questa camera potesse essere testimone. Invece siamo rimasti vivi. Ho girato molto materiale e la camera ha documentato non la nostra morte, ma la distruzione che regna intorno a noi, e si è rivelata un'opportunità per mostrare quel che succede visto dall'interno». Questo materiale è stato assemblato e inviato, avventurosamente, a Locarno «utilizzando le ambulanze per passare dai check point» sottolinea Sobhi. Titolo Obor Kalandia, ossia il check point che la famiglia deve attraversare, tra le difficoltà che si possono immaginare e che qui si vedono. Un lavoro forte nella sua semplicità, acquistato dall'Italia da Mikado. Se lo scenario di fondo è quello che le tv ci rimandano quotidianamente, diverso è il contesto del vivere quotidiano, «regna l'insicurezza, è un po' come se Israele avesse deciso di condannare a morte ognuno di noi, e ogni attentato suicida finisce per rafforzare questa impressione». Accompagnato dalla moglie e dal figlio, Sobhi parla come un fiume in piena, inarrestabile: «non è più possibile vivere, ci hanno tagliato l'acqua, l'elettricità, non ci si può spostare, da un anno non riesco a vedere mia sorella che abita a dieci minuti. Io vivevo qui prima che i territori fossero restituiti, sono cresciuto sotto l'occupazione, ma era una situazione diversa, ora veniamo trattati come se fossimo di un altro pianeta, il livello di distruzione è diventato tremendo, ogni attacco ti fa sentire sempre peggio per il vuoto politico che regna, le nostre autorità non sanno fare quello che devono, non sanno come rapportarsi agli oppositori, siamo anche divisi e ognuno crede di essere il rappresentante della Palestina, ci sono solo vecchi partiti con vecchi slogan, non esiste più la cultura di una resistenza popolare. Certo, l'occupazione è la ragione principale di questo disastro, ma anche noi abbiamo responsabilità. Noi abbiamo una cultura ricca, dobbiamo combattere con questi mezzi, la musica, la poesia, il cinema, per questo ho imbracciato una videocamera e non un fucile». E il discorso scivola sui pacifisti israeliani indeboliti dagli attacchi suicidi che alla fine rafforzano la prepotenza di Sharon supportato da Bush, sugli altri paesi arabi con governi spesso illiberali, «regimi autocratici che ci fanno più danno di quanto ci aiutino». Una situazione invivibile. Eppure il terzetto famigliare che abbiamo visto nel film e che ora è a Locarno tra poco tornerà in quella situazione invivibile «con un po' di rabbia in più, dopo avere visto come si potrebbe vivere una vita normale». 33 L’articolo relativo è “Internationals on the Front Lines” di Charmaine Seitz, probabilmente ancora reperibile all’indirizzo http://www.thenation.com/doc.mhtml?i=20020422&s=seitz20020407 . 34 Testimonianze tratte da una lettera circolare della militante pacifista israeliana Yehudith Harel, del 4 aprile 2002, diffusa da Daniel Amit (fisico, Università di Roma e di Gerusalemme). 35 La ricostruzione che segue è tratta da un suo articolo per “il manifesto”, “Noi, picchiati e cacciati da Tel Aviv ”, del 5 aprile 2002. 36 Riportiamo alcune sue riflessioni (pubblicate nel n.14-2002 della rivista “Carta”): « Guardando gli occhi dei poliziotti di frontiera dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la loro durezza, non ho potuto non interrogarmi su cosa sia successo al popolo israeliano. Riesco a capire, forse solo in parte, cosa sta succedendo a quello palestinese e i soprusi e le grandi ingiustizie che quel popolo soffre da decenni, cacciato dalla sua terra, obbligato a mendicare per un secchio d'acqua. Ma la crepa che si sta allargando nel tessuto sociale, nella cultura ebraica, non necessariamente sionista, di quello troppo poco si sa. Non capisco cosa sentano i cittadini israeliani, al di là della comprensibile paranoia causata dai kamikaze, come si declini nella loro storia, nel loro immaginario, la parola pace, sperando che quel popolo sappia, insieme a quello palestinese, ancora declinarla. Sappiamo, noi, cosa si sente ad andare in discoteca o al mare con l'Uzi a tracolla? (…) Mi domando perché il popolo israeliano non possa ascoltare il destino del popolo palestinese, e mi affatico a cercare, in queste ore di guerra e devastazioni, quell'ora di buone azioni che il Talmud dice essere "meglio in questo mondo di tutta l'eternità nel mondo a venire". Il mio cuore ha anche questo grande peso, quello di vedere uomini in armi che si accaniscono contro la storia di quelle terre, cancellano secoli di memoria, polverizzano il dialogo interreligioso, 71 VERSIONE agosto 2004 bombardando la moschea di Omar e la chiesa della Natività. "State distruggendo il vostro paese!", cosi' ho gridato ai poliziotti mentre ero costretto a salire sull'aereo per Atene. (…) ». 37 « I trentacinque italiani fanno parte del Coordinamento Nazionale di Sostegno all’Intifada e di Indymedia. Il Coordinamento collabora con il campo di Dheisheh dalla prima Intifada: “Abbiamo iniziato a conoscere le persone del campo, che sono profughi del ’48 – racconta Mary – Abbiamo iniziato a viverci insieme, a conoscere e collaborare con i comitati popolari. Da allora sono nati tantissimi progetti”. E questo viaggio, anche in un momento come questo, doveva servire a costruire qualcosa, un asilo per i bambini del campo. Anche gli attivisti di Indymedia avevano in tasca un progetto, quello di creare una radio web nel media center che si è costituito da pochissimo a Betlemme, e che ha messo in piedi il nuovo nodo www.jerusalem.indymedia.org (in inglese e arabo). Un’esperienza straordinaria, per niente scontata, e che doveva allargarsi, proprio in un momento come questo. C’è un video operatore a Dheisheh, racconta Manolo, si chiama Khaled ed è un po’ il “mito” del campo. La sua telecamera è stata distrutta: “Gli lascio la mia”. La situazione è tesa, ma non mancano le “battute”. A Pasqua si sono fatti gli auguri di “buona Apachqua”. (…) I bambini al piano di sotto imparano rapidamente a “chattare” e comunicano così con i loro amici dei campi vicini. Il centro culturale IBDAA, racconta Mary, “è stato un lavoro bellissimo, qui è nata una scuola di danza tradizionale palestinese. Qui c’era un corso di informatica. Era un centro aperto a uomini e donne, un’esperienza che andava al di là delle forme classiche di aggregazione”. (…) ». Cinzia Gubbini da “ il manifesto” del 5-4-02. L’edificio nuovo del centro IBDAA, il 1° gennaio 2003, era in perfetta efficienza e all’ultimo piano si mangiava gustosamente in un’atmosfera molto accogliente, tutti i progetti sono stati ripresi e quello più importante nell’immediato futuro è l’apertura di uno “Science and Technology Center” con un laboratorio scientifico virtuale per i ragazzi. Il sito web è www.dheisheh-ibdaa.net. 38 Questa scena, così come anche altre della “carovana” (per usare il termine usato da tutti i gruppi dei centri sociali), è visibile nel video “Stop Occupation” di Max Valenti et all., durata: 30 min., Visual Communication Project (www.inventati.org/vcp ), Bologna 2002. 39 Al momento abbiamo pensato ad una possibile reinterpretazione alla maniera della pop-art, ma Vera Tamari lo ha fatto davvero, allestendo nel campo-giochi della “Friends Boys School” di el-Bireh, il 23 giugno 2002, con alcune automobili schiacciate fornitele dall’amministrazione comunale, un’esposizione all’aperto dal titolo “Mashyeen?” (“Going for a Ride?”). Dalla brochure dell’esposizione: “In the recent Israeli incursions into Ramallah and el-Bireh an estimated 500-600 cars were damaged. The cars belonging mostly to private citizens but some to public services and companies, were aggressively crushed by the Israeli tanks as they rumbled through the streets and neighbourhoods of the two towns. The art installation “Going for a ride?” is a statement on only one aspect of the senseless brutalty and acts of destruction perpetrated by the Israeli army. The focus is on crushed cars because cars carry powerful meanings: freedom, the open road, travel and movement. The exhibition of crushed cars affirms that despite the destruction of objects by the occupation, it cannot destroy our will to travel in our minds and feelings and to have joy in our dreams.” 40 Scopriremo più di un anno dopo che esattamente mentre ci recavamo in corteo verso la Moqata’a, la nostra amica Vera Tamari aveva tentato di raggiungere la zia novantenne, Maria Tamari, isolata nel suo appartamento non lontano dal quartier generale di Arafat. Il racconto di questa difficile impresa è contenuto nell’interessante libretto di Suad Amiri “Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina”, Feltrinelli, ottobre 2003 (pagg. 41 e seguenti). Suad Amiri, architetta, è moglie dello storico Salim Tamari e la suocera del titolo non è altri che Maria Tamari, la zia di Vera, detta secondo l’usanza palestinese Umm Salim. La lettura del libro, agile e assai piacevole, è forse più efficace dei saggi storici che verranno scritti su questo periodo della storia della Palestina. Riportiamo alcuni brani del racconto del tentativo di visita alla zia Maria: “Oggi, 5 aprile, è l’ottavo giorno della rioccupazione israeliana dei Territori già occupati. Dal 29 marzo 2002, giorno in cui sono cominciate le incursioni militari, è la seconda volta che sospendono il coprifuoco. Durante la guerra del Golfo, nel 1991, noi – gli oltre tre milioni di palestinesi – abbiamo subito il coprifuoco per quarantadue giorni. In attesa dell’ignoto o, come l’esercito israeliano sosteneva, per “motivi di sicurezza”. Ogni pochi giorni toglievano il coprifuoco per “ragioni umanitarie” di modo che i civili potessero uscire a comprare cibo e medicine. Ramallah diventava una città assolutamente frenetica. Tutti correvano di qua e di là come pazzi per fare acquisti prima che la tregua di tre ore finisse. A volte mi rifiutavo di uscire di casa in segno di sfida nei confronti della decisione presa dagli israeliani: “Adesso potete uscire dalle vostre case e correre come pazzi, mentre noi vi sorvegliamo tenendovi il fucile puntato addosso, non si sa mai”. La prima volta che hanno tolto il coprifuoco, il 2 aprile scorso, l’ho saputo dalla televisione quando già la tregua era finita. Nessuno dei miei amici era riuscito a mettersi in contatto con me, visto che nel nostro rione, che dista soltanto un chilometro dal quartier generale assediato del presidente Arafat, le linee telefoniche sono fuori uso. Grazie a dio, l’elettricità non manca. La zona immediatamente intorno a noi, dove vive mia suocera Umm Salim, che ha novantun anni, è senza elettricità, telefono e acqua, come lei stessa mi ha raccontato la prima volta che sono riuscita a rivederla, l’8 aprile successivo. 72 VERSIONE agosto 2004 Mi sono sentita così frustrata e in collera, perché aspettavo quell’occasione per andare a trovare Umm Salim e Zakiyyeh, la signora che si prende cura di lei. Volevo provare a raggiungerle per accertarmi che fosse tutto in ordine. Va be’, immagino che dovrò aspettare la prossima sospensione del coprifuoco. Come si è poi scoperto, mia suocera aspettava con prudente ansia di vedermi comparire per portare via lei e Zakiyyeh dalla loro casa, che è proprio in prima linea. Ha aspettato e aspettato, finché non ha sentito i soldati israeliani gridare mamnu il tajawwul per annunciare la fine della tregua. Tre ore di attesa hanno lasciato mia suocera e Zakiyyeh in preda alla disperazione. Umm Salim piangeva, mentre Zakiyyeh cercava di confortarla. Esauste – come mi hanno poi raccontato – si sono addormentate entrambe alle sei. Tre giorni dopo, il 5 appunto, il telefono cellulare datomi da Sari, il mio vicino tredicenne, ha preso a suonare. Era Vera: “Yalla Suad, preparati, tra cinque minuti toglieranno il coprifuoco. Tania e io verremo con te a prendere Tante Marie (Umm Salim)”. Sono salita in macchina e ho imboccato la via principale, Nablus road, sventrata dai carri armati e dai bulldozer israeliani. Polverosa com’è, sembra la strada per l’inferno. La polvere era tale che riuscivo a malapena a distinguere le macchine che cercavano di aprirsi un varco tra fossi e macerie. Mi ci è voluta mezz’ora per arrivare, dato che gran parte delle strade era bloccata dalle macerie o trivellata di grossi buchi. Per tre volte mi sono trovata faccia a faccia con i carri armati israeliani. Sono rabbrividita di paura e ho fatto dietro front provocando un ingorgo, visto che molte macchine facevano la stessa manovra. Ramallah e el-Bireh sembravano zone di guerra: pali della luce divelti; in mezzo alla strada, ai bordi dell’aiuola spartitraffico, dozzine di automobili spiaccicate; dappertutto vetri e macerie. Facendomi strada in una città tramutata in labirinto, sono finalmente riuscita ad arrivare a casa di Vera. Lì ci siamo abbracciate, piangendo e parlando tutte insieme. (…) Ho guardato Vera e ho detto: “Yalla, su, Vera e Tania, andiamo”. Siamo salite in macchina. Proprio accanto alla casa di Vera c’erano tre auto, due completamente schiacciate, e una terza fracassata e utilizzata a mo’ di barricata per sbarrare la strada. Ho fatto marcia indietro e mi sono rimessa in cammino. Quando siamo passate davanti alla casa di Islah, ho fermato la macchina e sono scesa di corsa. (…) e sono tornata di corsa alla macchina. Dopo neanche cento metri la strada era bloccata. Ho girato a sinistra ma anche lì c’era un blocco. Ho invertito la direzione di marcia e sono andata a destra. Bloccate un’altra volta. Abbiamo parcheggiato e ci siamo avviate a piedi lungo la collina che porta alla casa di Umm Salim. Girato l’angolo, ci siamo trovate un carro armato e una jeep militare israeliani. Ci siamo immobilizzate, guardandoci l’un l’altra e chiedendoci “e adesso!?”. Disperata, ho detto: “Maledetti bastardi”. E Tania: “Al diavolo, attraverserò i campi e passerò dai cortili sul retro della casa”. E Vera e io: “No Tania, è pericoloso”. Siamo rimaste lì senza sapere che cosa fare, finché Vera ha detto: “Khalas yikhrub beithum, che vadano al diavolo, mi incamminerò verso il carro armato e la jeep e, se mi fermeranno, spiegherò loro che sto solo cercando di andare a vedere come sta una mia zia di novantun anni”. Tania le si è messa dietro e io mi sono accodata a loro strascicando i piedi. Il mio cuore tremava al pensiero della donna che gli israeliani avevano colpito e ucciso tre giorni prima, mentre usciva dall’ospedale di Ramallah. Ne frattempo borbottavo tra me e me: “Dai Suad, un po’ di coraggio, è vero che Umm Salim è la zia di Tania e di Vera, ma è anche tua suocera, hamati !”. Mi vergognavo di me stessa, a essere l’ultima della fila. Mentre tutti questi pensieri mi attraversavano rapidamente la mente, abbiamo sentito i soldati israeliani gridare al megafono in un arabo stentato, “erja’ ” tornate indietro. Siamo rimaste lì come tre statue di sale, poi abbiamo fatto dietro front, girando le spalle ai soldati. Questa volta la prima della fila ero io! Trascinando i piedi, abbiamo pensato a una strategia alternativa per raggiungere Tante Marie/Umm Salim. Ho cominciato a pensare che forse, se mi fossi concentrata e avessi fatto uno sforzo di telepatia, sarei riuscita a far affacciare Zakiyyeh al balcone sul retro, che era proprio di fronte a noi, a una distanza di non più di duecento metri. Tutta presa da quel pensiero, sento la voce da soprano di Tania gridare: “Zakiyyeh… Zakiyyeh… Zakiyyeh”. Vera e io ci uniamo a lei e cominciamo a gridare “Zakiyyeh”. E proprio quando stavamo per arrenderci, Zakiyyeh è apparsa al balcone. Eravamo così eccitate e felici, che quasi saltavamo. “Keefek, come stai Zakiyyeh? Keef, come sta Umm Salim? Wheenha, dov’è?” Zakiyyeh continuava ad agitare la mano in segno di saluto, ma non eravamo sicure che ci avesse sentite. Siamo andate avanti così per qualche minuto, poi Zakiyyeh si è voltata ed è rientrata in casa! Abbiamo aspettato in preda all’ansia e dopo qualche minuto, quando accanto a Zakiyyeh è apparsa Umm Salim, ci siamo messe di nuovo a gridare tutte insieme: “Umm Salim, Tante Marie, keefek, come stai?”. Nessuna risposta. Zakiyyeh, infatti sventolava la mano nella nostra direzione cercando di spiegare la situazione a Umm Salim, che non è in grado di vedere da lontano. Umm Salim ha aspettato al balcone per qualche istante, poi è rientrata in casa. Con gli occhi pieni di lacrime ce ne siamo andate anche noi, senza sapere se eravamo riuscite a darle conforto o se invece le avevamo fatto apparire ancora più angoscioso il suo assedio. Abbiamo passato le due ore successive correndo da una parte all’altra a procurarci qualche genere alimentare. Solo per comprare il pane abbiamo dovuto fare mezz’ora di fila nella sovraffollata panetteria al-Sha’b. Erano quasi le quattro, e la sospensione del coprifuoco stava per finire. Mentre le strade si andavano lentamente spopolando, ho dato un passaggio a Tania e Vera, poi sono rientrata a casa, esausta, impolverata, arrugginita e frustrata. Pronta ad andare a letto. (…)” 73