ILLUMINISMO (la luce della ragione) Prof. Michele de Pasquale “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità… la minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro… Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza… fai pubblico uso della tua ragione in tutti i campi…” (Kant 1784) “… si è diffuso uno spirito filosofico, una luce che non aveva illuminato i nostri antenati…” (Fontenelle 1732) l’artefice di questa luce è la ragione nella sua doppia valenza critica: giudizio sulla legittimità, fondatezza, utilità della filosofia, istituzioni, dogmi, tradizioni battaglia contro il pregiudizio, la superstizione, il fanatismo critica delle religioni positive alle quali si oppone una religione razionale che crede in un essere superiore, tollerante… lotta ai privilegi e disuguaglianze sociali fondate sulla nascita; contro l’ingerenza del clero; … normativa: prescrizione di leggi e criteri in base ai quali regolare la vita dell’uomo stante la funzione normativa della ragione essa è autonoma: non esistono criteri superiori alla ragione (trascendenza, autorità) tutto ciò favorisce un processo di laicizzazione e secolarizzazione la battaglia contro il pregiudizio, la superstizione, il fanatismo “ Verso la fine di marzo del 1762 un viaggiatore m’informò del supplizio di Calas e mi assicurò che era innocente. Io gli risposi che il suo crimine non pareva verosimile, ma che era meno verosimile ancora che dei giudici, senza alcun interesse, facessero perire un innocente con il supplizio della ruota. Appresi il giorno dopo che uno dei figli di quel disgraziato padre si era rifugiato in Svizzera, piuttosto vicino a casa mia. La sua fuga mi fece pensare che la sua famiglia fosse colpevole. Intanto però riflettevo sul fatto che il padre era stato condannato al supplizio per aver da solo assassinato il figlio per motivi religiosi e che questo padre fosse morto all’età di sessantanove anni. Non mi ricordo di aver mai letto di una persona anziana posseduta dal fanatismo fino a questo punto. Io avevo sempre osservato che questo furore non si attacca di solito che alla giovinezza, di cui l’immaginazione ardente, tumultuosa e debole, s’infiamma per la superstizione [...] Feci venire il giovane Calas a casa mia. Mi aspettavo di vedere un energumeno di quelli che il suo paese ha prodotti qualche volta. Vidi un ragazzo semplice, ingenuo, dalla fisionomia la piú dolce ed interessante, il quale parlandomi, faceva degli sforzi inutili per trattenere le lacrime. Mi raccontò che stava a Nimes a fare l’apprendista presso un artigiano quando la voce pubblica lo aveva informato che si stava per condannare a Tolosa tutta la sua famiglia al supplizio; che tutta la Linguadoca lo riteneva colpevole e che per evitare una sorte cosí spaventosa si era venuto a nascondere in Svizzera. % Gli chiesi se suo padre e sua madre fossero di carattere violento ed egli mi rispose che non avevano messo le mani addosso ad uno solo dei loro figli e che non vi erano genitori piú indulgenti ed affettuosi. Non ci fu bisogno di molto altro per farmi sospettare fortemente dell’innocenza della famiglia. Presi altre informazioni da due negozianti di Ginevra, di nota probità, che avevano abitato a Tolosa presso i Calas. Essi mi confermarono nella mia opinione. Lontano dal credere la famiglia Calas fanatica e parricida, io credetti di vedere che c’erano dei fanatici che lo avevano accusato e perduto. Sapevo da molto tempo di che cosa lo spirito di parte e la calunnia sono capaci! Ma quale fu la mia sorpresa quando, avendo scritto in Linguadoca su questa strana avventura, sia cattolici che protestanti mi risposero che non si poteva dubitare del crimine dei Calas. Non mi diedi per vinto. Mi presi la libertà di scrivere a certuni che avevano governato la provincia, a comandanti di province vicine, a dei ministri di Stato. Tutti mi consigliarono unanimemente di non immischiarmi in un affare cosí malvagio. Se avessi persistito tutti mi sarebbero stati contro. Allora presi questa decisione: la vedova Calas, a cui per il colmo di sfortuna e di oltraggio, avevano tolto i figli, si era ritirata nella solitudine, dove si nutriva delle sue lacrime e dove attendeva la morte. Non m’informai se ella era stata attaccata alla religione protestante, ma solo se ella credeva in un Dio remuneratore della virtú e vendicatore dei crimini. Le chiesi se era disposta a dichiarare in nome di quel Dio che suo marito era morto innocente; ella non esitò. Ed io pregai il signor Mariette di prendere la sua difesa al Consiglio di Stato. Bisognava far uscire la signora Calas dal suo ritiro e farle intraprendere il viaggio per Parigi. Allora si vide che se ci sono dei grandi crimini sulla terra, ci sono anche delle virtú e che se la superstizione produce orribili malvagità, la filosofia porta rimedio. Una signora, la cui generosità eguaglia gli alti natali, che allora abitava a Ginevra per far vaccinare le sue figlie, [la duchessa d’Enville] fu la prima a soccorrere quella famiglia sfortunata. Altri francesi, che si erano ritirati in quel paese, seguirono il suo esempio e cosí pure degli inglesi. Ci fu come una gara di generosità fra due nazioni a chi soccorreva meglio la virtú cosí crudelmente oppressa. % Il resto chi lo sa meglio di Lei? chi a servito l’innocente con uno zelo piú costante e piú intrepido? non è stata Lei ad incoraggiare la voce degli oratori, che è stata intesa in tutta la Francia e in tutta Europa? Noi abbiamo visto ritornare i tempi quando Cicerone giustificava, davanti ad un’assemblea di legislatori, Amerino accusato di parricidio. Alcuni, che passano per devoti, si sono levati contro i Calas. Ma per la prima volta dopo l’affermarsi del fanatismo, la voce dei saggi li ha fatti tacere. La ragione riporta dunque delle grandi vittorie dalle nostre parti!…. Il compito di un filosofo non è di compiangere gli infelici, è di servirli. Io so con quale furore il fanatismo si alza contro la filosofia. Essa ha due figli che i fanatici vorrebbero far perire come il signor Calas, esse sono la Verità e la Tolleranza; invece la filosofia non vuole che disarmare i figli del fanatismo, la Menzogna e la Persecuzione. Gente che non ragiona ha voluto discreditare chi ragiona; essi hanno voluto confondere la filosofia con la sofistica; ma si sono sbagliati di molto. Il vero filosofo può qualche volta irritarsi contro le calunnie che lo perseguitano, egli può coprire di un eterno disprezzo il vile mercenario che oltraggia due volte al mese la ragione, il buon gusto e la virtú, egli può anche rendere ridicoli coloro che insultano la letteratura nel santuario dove avrebbero dovuto onorarla: ma egli non conosce né la cabala, né le pratiche ignobili, né la vendetta. Egli sa, come Buffon ed Helvetius, rendere la terra piú fertile e gli abitanti piú felici. La vera filosofia dissoda i campi incolti, aumenta il numero degli aratri, e per conseguenza degli abitanti, tiene occupato il povero e il ricco, incoraggia i matrimoni, dà una sistemazione agli orfani, non mormora contro le imposte necessarie e mette il coltivatore nella situazione di pagarle con allegria. Egli non si aspetta nulla dagli uomini e fa loro tutto il bene di cui è capace. Egli ha in orrore l’ipocrita e compiange il superstizioso; infine egli sa essere amico.” (Voltaire, Lettera a Damilaville) “ Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi sostiene la propria follia con l'omicidio è un fanatico. Juan Diaz, ritiratosi a Norimberga, fermamente convinto che il papa fosse l'Anticristo dell'Apocalisse e che avesse addosso il segno della Bestia, era soltanto un entusiasta; suo fratello Bartolomeo Diaz, che partì da Roma per andare ad assassinare santamente il proprio fratello, e lo uccise per amore di Dio, era uno dei più abominevoli fanatici che mai la superstizione abbia potuto produrre. Poliuto, che va al tempio, in un giorno di solennità, per rovesciare e infrangere le statue e i paramenti, è un fanatico meno orribile di Diaz, ma non meno sciocco. Gli assassini del duca Francesco di Guisa, di Guglielmo principe d'Orange, del re Enrico III, del re Enrico IV, e tanti altri, erano energumeni malati della stessa rabbia di Diaz. Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa. Esistono fanatici di sangue freddo: sono i giudici che condannano a morte coloro che non hanno commesso altro crimine che quello di non pensarla come loro; e questi giudici sono tanto più colpevoli, tanto più degni dell'esecrazione del genere umano, in quanto, non trovandosi in un accesso di furore come i Clément, i Châtel, i Ravaillac, i Gérard, i Damiens, potrebbero, ci sembra, ascoltare la ragione. Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile. Ho visto certi epilettici che, parlando dei miracoli di san Paride, a poco a poco, loro malgrado, prendevano fuoco; gli occhi si infiammavano, le loro membra tremavano, il furore sfigurava loro il viso, e avrebbero ammazzato chiunque li avesse contraddetti. % A questa malattia epidemica non c'è altro rimedio che lo spirito filosofico, il quale, man mano diffondendosi, addolcirà finalmente i costumi degli uomini, prevenendo gli accessi del male: perché, non appena questo male fa dei progressi, bisogna correr via, e aspettare che l'aria si sia purificata. Le leggi e la religione non bastano contro questa peste degli animi; la religione, invece di essere per loro un alimento salutare, si tramuta in veleno nei cervelli infetti. Questi miserabili hanno continuamente fitto in capo l'esempio di Aod, che assassina re Eglon; di Giuditta, che taglia la testa di Oloferne, dopo aver giaciuto con lui; di Samuele, che fa a pezzi re Agag. Non vedono che questi esempi, rispettabili nell'antichità, sono abominevoli oggi; essi attingono il loro furore nella stessa religione che lo condanna. Le leggi sono ancora impotenti contro questi accessi di furore; è come se leggeste un decreto del consiglio a un frenetico. Quella gente è persuasa che lo spirito santo che li pervade stia al di sopra delle leggi, e che il loro fanatismo sia la sola legge cui debbano ubbidire. Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, e sicuro di meritare il cielo sgozzandovi? Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un'eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato. C'è stata al mondo una sola religione che non sia stata insozzata da fanatismo: quella dei letterati cinesi. Le sette dei filosofi non solo erano esenti da questa peste, ma ne erano il rimedio: perché l'effetto della filosofia è di rendere tranquillo l'animo, e il fanatismo è incompatibile con la tranquillità. Se la nostra santa religione è stata tanto spesso corrotta da questo furore infernale, bisogna prendersela con la pazzia degli uomini.” (Voltaire, Dizionario filosofico, voce fanatismo) la critica delle religioni positive alle quali si oppone una religione razionale che crede in un essere superiore, tollerante “ Ma come! sarà dunque permesso a chiunque di credere soltanto alla propria ragione, e di pensare soltanto ciò che questa, illuminata o errante, gli suggerirà? Certo che sí, purché costui non turbi l’ordine: infatti, se non dipende dall’uomo il credere o il non credere, dipende certamente da lui il rispettare gli usi della patria; chi poi affermasse che il non credere nella religione dominante costituisce un crimine, si farebbe egli stesso accusatore dei primi cristiani suoi padri, e giustificherebbe proprio coloro che egli accusa come persecutori. Si risponderà che c’è una grande differenza, che tutte le altre religioni sono opera degli uomini, e che la Chiesa cattolica apostolica romana è, sola, opera di Dio. Ma, ragionando in buona fede, la nostra religione, per il fatto che è divina, dovrebbe forse imporsi con l’odio, con la persecuzione, l’esilio, la confisca dei beni, la prigione, la tortura, il delitto e per giunta rendere grazie a Dio per tali delitti? % Quanto piú la religione cristiana è divina, tanto meno toccherà all’uomo imporla. Se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà anche senza di voi. Ricordate che l’intolleranza non produce che ipocriti o ribelli: quale funesta alternativa! Infine, vorreste far difendere dal boia la religione di un Dio che dal boia è stato ucciso, e che non ha predicato se non la dolcezza e la pazienza? Considerate, vi prego, le spaventose conseguenze del diritto di intolleranza. Se fosse permesso spogliare dei suoi beni, gettare in prigione, uccidere un cittadino il quale, in un certo grado di latitudine, non professasse la religione ivi ammessa, in forza di quali eccezioni potrebbero essere esentati dalle stesse pene i capi dello Stato? La religione impegna ugualmente il monarca come il mendicante: cosí, piú di cinquanta fra dottori e monaci, sono giunti ad affermare l’orribile mostruosità secondo cui sarebbe lecito deporre, uccidere i sovrani che non professano la religione della Chiesa dominante: ma i parlamentari del regno hanno costantemente cassato queste abominevoli decisioni di abominevoli teologi [...]. Non mi rivolgerò dunque piú agli uomini; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi: se è permesso a deboli creature perdute nell’immensità e impercettibili al resto dell’Universo, osare di domandarti qualcosa, a te che tutto hai donato, a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni, dégnati di considerare pietosamente gli errori connessi alla nostra natura; che questi errori non siano per noi fonte perenne di calamità. Tu non ci hai dato un cuore perché ci odiassimo, mani perché ci sgozzassimo; fa’ che sappiamo aiutarci vicendevolmente a sopportare il fardello d’una vita penosa e breve; % che le piccole differenze intercorrenti fra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, fra i nostri imperfetti linguaggi, fra tutte le nostre ridicole usanze, fra tutte le nostre leggi imperfette, fra tutte le nostre opinioni insensate, fra tutte le nostre condizioni cosí disparate agli occhi nostri e cosí uguali ai tuoi; che tutte le lievi sfumature distinguenti quegli atomi chiamati uomini, non siano segnacoli di odio e di persecuzione. Che coloro i quali accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si contentano della luce del tuo Sole; che coloro i quali ricoprono le loro tonache con una tela bianca per significare che bisogna amarti, non odino coloro i quali affermano la stessa cosa ricoperti da un mantello di lana nera; che sia considerata la stessa cosa l’adorarti servendosi di un’antica lingua, o adoperandone una piú recente; che gli uomini rivestiti di abiti rossi o violetti, che dominano su una piccola parte del piccolo ammasso di fango di questo mondo, che posseggono qualche tondeggiante frammento di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò ch’essi chiamano grandezza e ricchezza; e che gli altri uomini li sopportino senza invidia: tu sai infatti che in tali vanità non c’è nulla da invidiare né di cui inorgoglirsi. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Aborrire la tirannia esercitata sulle anime, cosí come hanno in esecrazione il brigantaggio, che sottrae con la violenza il frutto del lavoro e della pacifica industria! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, almeno non odiamoci, non straziamoci a vicenda nei tempi di pace, e impieghiamo l’istante della nostra esistenza a benedire ugualmente in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato quest’istante! “ (Voltaire, Trattato sulla tolleranza) la critica della guerra “ La carestia, la peste e la guerra sono i tre più famosi ingredienti di questo basso mondo. Si possono collocare nella classe della carestia tutti i cattivi nutrimenti cui la penuria ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla. Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che sono in numero di due o tremila. Questi due presenti ci vengono dalla provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall'inventiva di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di governanti; è forse per questo motivo che costoro, in molte dediche, vengono chiamati «immagini viventi della divinità». L'ottimista più risoluto ammetterà senza fatica che la guerra trascina sempre con sé la peste e la fame, per poco che abbia visto gli ospedali degli eserciti in Germania, o che sia passato in qualche villaggio dove è stata compiuta qualche impresa bellica. Non c'è dubbio che non sia una bellissima arte, quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un anno, quarantamila uomini su centomila. Quest'invenzione fu dapprima coltivata da nazioni che s'erano riunite per il bene comune; per esempio la dieta dei greci dichiarò alla dieta della Frigia e dei popoli vicini che sarebbe partita su un migliaio di barche da pesca per andare a sterminarli, se poteva. Il popolo romano adunato in assemblea giudicava che era suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o contro i volsci. E qualche anno dopo tutti i romani, avendocela a morte contro tutti i cartaginesi, combatterono a lungo per mare e per terra. Oggi le cose vanno altrimenti. % Un genealogista prova a un principe che egli discende in linea diretta da un conte i cui parenti, tre o quattrocent'anni prima, avevano fatto un patto di famiglia con un casato di cui non rimane nemmeno la memoria. Quel casato aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è morto di apoplessia: il principe e il suo consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino. La provincia in questione, che si trova a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha nessuna voglia di essere governata da lui; che, per dar leggi alla gente, bisogna almeno avere il loro consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno agli orecchi del principe, il cui diritto è incontestabile. Egli trova di botto una quantità di uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere; li veste d'un grosso panno turchino a cento soldi il braccio, orla il loro cappello d'un cordoncino bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia verso la gloria. Gli altri principi, che sentono parlare di questa spedizione, vi prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e coprono pochi palmi di terra di più mercenari omicidi di quanti ne trascinassero al loro seguito Gengis-Khân, Tamerlano, o Bâyazîd. Popoli lontani sentono dire che qualcuno sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare se vogliono essere della partita: subito si dividono in due schiere come i mietitori, e vanno a vendere i loro servizi a chiunque voglia assoldarli. Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre non soltanto senza avere alcun interesse nella faccenda, ma senza neppure sapere di che si tratti. E così si trovano contemporaneamente cinque o sei potenze belligeranti, ora tre contro tre, ora due contro quattro, ora una contro cinque; e tutte si detestano allo stesso modo, e di volta in volta si alleano e s'attaccano; tutte d'accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile. % La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all'ultima pietra qualche città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua ignota a tutti coloro che hanno combattuto, e per di più infarcita di barbarismi. La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile, soprattutto nel paese più famoso per le canzoni nuove che inventa a getto continuo. La religione naturale ha innumerevoli volte impedito ai cittadini di commettere crimini. Un'anima bennata non ne ha la volontà; un'anima tenera ne ha orrore; essa si figura un dio giusto e vendicativo. Invece la religione artificiale incoraggia tutte le crudeltà che si commettono in gruppo: congiure, rivolte, rapine, imboscate, assalti alle città, saccheggi, stragi. Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera del proprio santo. Ovunque viene pagato un certo numero d'oratori per celebrare quelle giornate di sangue; gli uni sono vestiti di un lungo giustacuore nero e di mantelluccio; gli altri indossano una camicia sopra una veste; alcuni portano sopra la camicia due strisce penzolanti di stoffa screziata. Tutti parlano a non finire: citano quel che si è fatto un giorno in Palestina a proposito di un combattimento in Veteravia. Il resto dell'anno, questi tali declamano contro i vizi. Provano in tre punti e per antitesi che le dame che stendono un lieve strato di carminio sulle loro guance fresche saranno oggetto eterno delle eterne vendette dell'Eterno; che Polyeucte e Athalie sono opere del demonio; che un uomo che si fa servire in tavola duecento scudi di merluzzo in un giorno di quaresima ottiene immancabilmente il premio del paradiso, e che un pover'uomo che mangia due soldi e mezzo di montone è dannato per sempre all'inferno. % Su cinque o seimila declamazioni di questa specie, ce ne sono al massimo tre o quattro, composte da un gallo di nome Massillon, che un uomo retto può leggere senza disgusto; ma in tutti quei discorsi, non ce n'è uno in cui l'oratore osi ergersi contro quel flagello e quel crimine che è la guerra, la quale comprende in sé tutti i flagelli e tutti i crimini. Quegli sciagurati oratori parlano continuamente contro l'amore, che è la sola consolazione del genere umano e il solo modo di ridargli vita; non dicono niente degli sforzi esecrandi che facciamo per distruggerlo. Hai fatto un gran brutto sermone sull'impurità, o Bourdaloue! ma non hai fiatato contro quegli omicidi compiuti in mille modi diversi, quelle rapine, quei brigantaggi, quella rabbia universale che devasta il mondo. Tutti i vizi riuniti di tutte le età e di tutti i luoghi non eguaglieranno mai i mali che produce una sola campagna di guerra. Miserabili medici delle anime, state a gridare per cinque quarti d'ora su qualche puntura di spillo, e non dite niente sulla malattia che ci lacera in mille pezzi! Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri! Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura. Che diventano e che m'importano l'umanità, la beneficenza, la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la pietà, mentre mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a vent'anni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, che s'aprono per l'ultima volta, vedono la città dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo? E il peggio è che la guerra è un flagello inevitabile. A guardar bene, tutti gli uomini hanno adorato il dio Marte: Sabaoth, per gli ebrei, significa il dio degli eserciti; ma Minerva, in Omero, chiama Marte un dio furioso, insensato, infernale.” (Voltaire, Dizionario filosofico, voce guerra)