Storia e guida all’ascolto della Musica
Lezione di martedì 14 febbraio 2012
L’opera del barocco maturo: Georg Friedrich Händel
Testi
Henry Purcell (1659-1695)
Dido and Aeneas
Londra, 1689
Libretto di Nahum Tate
Atto III - Finale
Dido
Thy hand, Belinda; darkness shades me.
On thy bosom let me rest.
More I would, but Death invades me;
Death is now a welcome guest.
When I am laid in earth,
May my wrongs create
No trouble in thy breast;
Remember me, but ah! forget my fate.
Didone
La tua mano, Belinda, le tenebre mi fan velo,
Lascia ch’io riposi sul tuo seno.
Di più vorrei, ma la Morte m’assale;
Ora la Morte è un’ospite gradita.
Quando distesa sarò nella terra,
I miei mali non suscitino
Alcun tormento nel tuo petto.
Ricordati di me, ma, ah!, dimentica la mia sorte!
Cupids appear in the clouds o’er her tomb
I Cupidi appaiono sulle nuvole al di sopra della sua
tomba
Chorus
Whith drooping wings ye Cupids come,
And scatter roses on her tomb,
Soft and gentle as her heart.
Keep here your watch, and never part.
Coro
Con ali abbassate, o Amori, venite,
E sulla sua tomba spargete rose
Morbide e delicate come il suo cuore.
Vegliate qui, e mai v’allontanate.
Jean-Philippe Rameau (1683-1764)
Castor et Pollux
Ottobre 1737
Libretto di Pierre Joseph Bernard
ACTE II
SCÈNE 1
CHŒUR DES SPARTIATES
Que tout gémisse, que tout s'unisse !
Préparons, élevons d'étemels monuments
Au plus malheureux des amants !
Que jamais notre amour ni son nom ne périsse !
SCÈNE 2
TÉLAIRE
(paraît dans le plus grand deuil)
Tristes apprêts, pâles flambeaux,
Jour plus affreux que les ténèbres
Astres lugubres des tombeaux,
Non, je ne verrai plus que vos clartés funèbres.
1
Toi, qui vois mon cœur éperdu,
Père du jour, ô soleil, ô mon pére !
Je ne veux plus d'un bien que Castor
Et je renonce à la lumière.
Georg Friedrich Händel (1685-1759)
Orlando
Londra, 1733
Libretto di autore ignoto tratto da Ludovico Ariosto e Carlo Sigismondo Capeci
Ouvertura
Quanto diletto (Arioso) – Dorinda
Io non so (Recitativo secco) – Dorinda
Itene pur fremendo (Recitativo accompagnato) – Orlando
Quegli è il famoso Orlando (Recitativo secco) – Dorinda
Ho un certo rossore (Aria col da capo) – Dorinda
Atto I
Dorinda
Dorinda
Quanto diletto avea tra questi boschi
Quegli è il famoso Orlando,
A rimirar quegli innocenti scherzi
Che vive, a quel ch’io vedo,
E di capri, e di cervi!
Anch’esso amando.
Nel serpeggiar dei limpidi ruscelli
Brillar i fior, ed ondeggiar le piante;
Ho un certo rossore
Nel garrir degli augelli,
Di dir quel che sento;
Nello spirar di zefiretto i fiati.
S’è gioia o tormento,
Oh giorni albor beati!
S’è gelo o un ardore,
Ora per me funesti.
S’è al fine — Noi so.
Io non so che sian questi
Pur picciolo meco
Moti, che sento adesso entro al mio core.
Bisogna che sia
Ho inteso dir, che ciò suol fare amore.
Piacere o dolore,
Se l’anima mia
(Si sente di dentro strepito d’anni; Orlando con
Rinchiuder lo può.
spada alla
mano conducendo seco una Principessa.)
Orlando
Itene pur fremendo anime vili,
Ite d’abisso a popolare i regni.
Tu illustre principessa
Libera sei, e reco più a mia gloria
Il tuo bello servir; ch’ogni vittoria.
(Partono.)
M’hai vinto al fin, m’hai vinto, o cieco Nume! (Recitativo) – Angelica
Ritornava al suo bel viso (Arioso) - Angelica
E il mio cor da me diviso (Arioso) – Medoro
Spera, mio ben, che presto (Recitativo) – Angelica e Medoro
Chi possessore è del mio core (Aria) – Angelica
Atto I
2
Angelica
M’hai vinto al fin, m’hai vinto, o cieco Nume!
L’alma mia non presume
Di riportar più i soliti trofei
E tu Orlando, ove sei?
Deh, mira al fin, che l’idolo mio, che adoro
È l’amabil Medoro
Io lo vidi ferito;
Angelica
Spera, mio ben, che presto
Con più tranquilla sorte
D’esser a me nel regno
Come già reso sei in amor, consorte.
(Medoro ascolta a parte)
Angelica
Chi possessore è del mio core
Può senza orgoglio chiamarsi Re.
Io ch’ho spezzato più d’un impero
Ho a te piagato l’animo altero
E più d’un soglio val la mia fe’.
(Parte)
Sanarlo procurai, ma le sue piaghe
Saldando nel suo petto: ah! Nel mio core
Per lui apriva Amor una maggiore.
Ritornava al suo bel viso
Fatto già bianco e vermiglio
Con la rosa unito il giglio
Dal pallor delle viole.
Medoro
Di tanto onor mi scorgo indegno
Medoro
(accostandosi)
E il mio cor da me diviso
Si struggeva in fiamma lieve
Come suol falda di neve
Discoperta ai rai del sole.
Ah Stigie larve! (Scena della Follia) - Orlando
Atto II
Ah! Proserpina piange!
Orlando
Vien meno il mio furore,
Ah Stigie larve! Ah scellerati spettri,
Se si piange all’inferno anco d’amore.
Che la perfida donna ora ascondete,
Perchè al mio amor offeso
Al mio giusto furor non la rendete?
Vaghe pupille, non piangete, no,
Che del pianto ancor nel regno
Ah misero e schernito!
Può in ognun destar pietà;
L’ingrata gia m’ha ucciso;
Sono lo spirto mio da me diviso;
Vaghe pupille, non piangete, no.
Sono un’ombra, e qual ombra adesso io voglio
Ma sì, pupille, sì piangete, si,
Che sordo al vostro incanto
Varcar là giù ne’ regni del cordoglio.
Ho un core d’adamanto,
Ecco la Stigia barca.
Di Caronte a dispetto
Ne calma il mio furor.
Ma sì, pupille, sì piangete, sì.
Già solco l’onde nere; ecco di Pluto
Le affumicate soglie, e l’arso tetto.
Già latra Cerbero
(Si getta furiosamente dentro alla grotta, che
E già dell’Erebo
scoppia,
vedendosi il Mago nel suo carro, che tiene fra le
Ogni terribile
Squallida furia
braccia
Orlando, e fugge per aria.)
Sen viene a me.
Ma la Furia, che sol mi diè martoro
Dov’è? Questi è Medoro.
A Proserpina in braccio
Vedo che fugge. Ora strapparla io corro.
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Appendice
L’organizzazione impresariale dei teatri veneziani: Cristoforo Ivanovich
Nel 1680 in Venezia sono attivi simultaneamente sette teatri dediti all’opera in musica. La concorrenza —
artistica e commerciale — è acuta; le leggi di mercato si ripercuotono sulla politica dei prezzi d’ingresso non
meno che sui criteri di programmazione; da tre anni è aperto un teatro d’opera “povero”, il S. Angelo, che
pratica prezzi accessibili al «popolo» oltre che ai «nobili e mercanti»; da due anni i fratelli Grimani —
nobiluomini dediti da lunga data alle iniziative teatrali — hanno inaugurato il più grande e suntuoso dei
teatri d’opera, un vero e proprio teatro di lusso, il S. Giovanni Grisostomo, dove — accompagnati da
un’orchestra teatrale numerosa come mai prima d’allora — compaiono in scena i migliori cantanti delle
corti europee. Intanto, nella sua villa di Piazzola sul Brenta, il procuratore Marco Contarini «con eroica
generosità e magnificenza » allestisce uno splendido teatro d’opera per la villeggiatura: un teatro privato di
corte in piena regola, proprio nel momento della maggior espansione dei teatri impresariali cittadini. I duchi
di Braunschweig — fornitori di milizie alla Serenissima — soggiornano lungamente in Venezia e patrocinano
compositori e cantanti d’opera. Per carnevale, altri sovrani (i duchi di Modena e Mantova con particolare
assiduità) frequentano i teatri. Il «Mercure galant» di Parigi riferisce le impressioni teatrali dei turisti di
rango.
E in questo clima d’euforia teatrale che il canonico di S. Marco Cristoforo Ivanovich (un dalmata residente in
Venezia dal 1657) dedica nel 1681 ai fratelli Grimani le Memorie teatrali di Venezia, un «trascorso istorico »
(ossia una cronistoria) sull’origine, le funzioni e l’organizzazione dei teatri d’opera veneziani che — a meno
di mezzo secolo dalla loro istituzione — ne sancisce per la prima volta la storia ormai già illustre. Librettista
in proprio, l’Ivanovich pare però interessato a descrivere più la configurazione impresariale dei teatri e il loro
significato ideologico e civile — frequenti i richiami all’importanza politica del teatro, strumento d’autorità e
di controllo sociale — che non la loro organizzazione artistica. I teatri sono un vanto repubblicano di Venezia
(che si considera legittima discendente della repubblica romana: un tema che — ricondotto alle origini
troiane di Roma — appare con frequenza nei soggetti operistici veneziani dei primi decenni; cfr. § 21): ma in
essi si realizza altresì quel venezianissimo connubio di arte e negozio, profitto estetico e investimento
finanziario che l’Ivanovich illustra partitamente (acquisizione del capitale iniziale e entrate annuali garantite
mediante assegnazione ed affitto dei palchetti; spese fisse e spese di gestione per l’allestimento e la
rappresentazione dei drammi; entrate serali condizionate dal successo).
Oltre i capitoli riprodotti qui, le Memorie teatrali — che si concludono con una tavola cronologica dei
drammi per musica (poco meno di duecento) rappresentati a Venezia tra il 1637 e il 1681 — trattano pure
delle vicende che condussero all’apertura del primo teatro nel 1637 (cap. V), della storia dei teatri di Venezia
prima del 1637 (VIII), delle procedure per l’assegnazione dei palchi agli ambasciatori (problema
diplomaticamente delicato! XI), delle magistrature proposte ai teatri (XII), dell’utile che ne ricava il
librettista (XVI), del gran teatro Contarini di Piazzola (XVII), dell’utilità della cronologia degli spettacoli (XIXXX).
Capitolo I: La Repubblica di Venezia imitando la grandezza della romana rinnovò la magnificenza de’ teatri.
Non vi fu mai alcuna repubblica nel mondo che meglio superasse tutte le altre repubbliche che quella di
Roma, né alcun’altra che meglio imitasse questa che la Repubblica di Venezia. [...] E infatti dalle ruine di
quella trasse i suoi natali questa, succedendo non meno al posto d’una gran repubblica che all’eredità di
genio a lei tutto uniforme nella magnificenza. [...] Qui però non è mio pensiero di formar istorie o panegirici
in lode di Venezia, che da sé stessa si loda. Solo per fiancheggiar il presente mio assunto delle Memorie
teatrali dirò di passaggio come il Tempo nella solita circolazione delle cose umane vide trasportati dalle rive
del Tevere a quelle dell’Adria i giuochi teatrali, perché neanco in questo cedesse Venezia a Roma l’antica.
Non v’è alcuno pratico dell’istoria che non confessi i trattenimenti carnovaleschi di Venezia al pari curiosi di
quelli degli antichi baccanali di Roma, per cui e allora e adesso se ne facea e se fa pellegrino il mondo, per
osservar le pompe.
Sono oggetti di sopraffina politica, da’ quali dipende la felicità del governo, l’abbondanza ed i giuochi,
mediante i quali, usati a misura dell’onesto, s’acquista il principe l’amore de’ popoli, che mai meglio si
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scordano del giogo che satollati o trattenuti ne’ piaceri. La plebe, quando non ha che da rodere, rode la
fama del principe, e quando non ha trattenimenti può coll’ozio facilmente degenerare ne’ disegni di
pessime conseguenze.
Capitolo II: Breve descrizione di Venezia e de’ piacevoli trattenimenti che godea prima che s’introducessero
i teatri e che tuttavia gode in tutte le quattro stagioni dell’anno ed in particolare in tempo di carnovale.
[...] La primavera. Talvolta nel principio di questa novella stagione si gode qualche esercizio cavalleresco alla
cavallerizza. E situata questa vicino a’ Mendicanti, capace per settanta e più cavalli, [...] mantenuta da
un’accademia di patrizi. [...] Gli altri passatempi che succedono per l’ordinario sono di dame e cavalieri col
piacere della città, poiché dal principio di quaresima comincia il giuoco del calcio, praticato da’ soli
gentiluomini nel luogo del bersaglio a S. Bonaventura con molto concorso di nobiltà e d’altre persone. [...] Il
secondo giorno poi di pasqua principiano i freschi, dove ogni sera di festa dal Palazzo Pesaro sino al Ponte
della Croce [...] si fa il corso di gondole piene di dame e cavalieri, di ministri de’ principi e d’altri forestieri
che ivi concorrono. [...] Arrivano per lo più al fin di questa lieta stagione i trattenimenti dell’Ascensa,
riguardevoli prima per la famosa comparsa del Bucintoro, [...] secondariamente per la fiera in Piazza di S.
Marco, che dura giorni 15, frequentata mattina e sera dal numero infinito di dame e cavalieri e di
maschere, allettato dalla pompa preziosa di merci che qui si veggono esposte, particolarmente sul Listone,
che sembrano un Perù pendente, e per gli ori ed argenti e per le pietre di valore. In Piazza s’aprono più
casotti di figurine che ballano [= marionette e burattini] per continuo trattenimento della plebe e de’
forestieri.
L’estate. In questa calorosa estiva stagione continuano i freschi nel solito corso. [...] Spesso girano il Canale
[Grande] barcheggi armoniosi di bellissime serenate, che allettano con l’isquisitezza delle voci un séguito
d’infinite gondole. [...] Ogni festa si fanno le guerre de’ pugni da’ Castellani e Nicolotti, sopra diversi ponti,
tra’ quali è famoso quello di S. Barnaba. [...]
L’autunno. Benché sia solita questa temprata stagione di far cittadine le ville, per la nobiltà e cittadinanza
che in quelle si porta per godere la campagna, ad ogni modo in Venezia s’apre qualche teatro di comedia,
trattenimento di sera assai curioso e piacevole. [...] Principiano le prove dell’opere in musica prima nelle
case de’ cavalieri protettori, o [co]interessati de’ teatri, e poi sulle scene con curiosità delle voci novelle,
che poi si godono con genio in tempo di pubblica comparsa ecc.
L’inverno. Ecco la stagione di quel carnovale che fa correre i forestieri e rende in continuo moto i cittadini
avvezzi a goderlo ogni anno, doppo l’annua occupazione o negli affari politici o domestici. Primi sono i teatri
di musica a dar principio con una pompa e splendore incredibile, punto non inferiore a quanto si pratica in
diversi luoghi dalla magnificenza de’ principi, con questo solo divario che, dove questi lo fanno godere con
generosità, in Venezia è fatto negozio, e non può correre con quel decoro che corre nell’occasioni in cui da’
medemi principi si celebrano spesso le nascite e gli sposalizi a maggior ostentamento della propria
grandezza. Continua la recita de’ drami sino all’ultimo giorno del carnovale, come anco delle commedie,
così che ogni sera v’è trattenimento di più ore in più teatri con varietà di opere, che per allettar
maggiormente sogliono comparire due per [stagione in ciascun] teatro. [...] Il giorno di san Stefano 26
decembre principia il carnovale con le maschere, quando non siano proibite con preciso proclama.
[Segue qui una lunga descrizione dei divertimenti di carnevale.]
Capitolo IV: De’ teatri romani, e della differenza che v’è tra quelli e questi di Venezia.
[...] Vero è che in molti luoghi dell’Italia si vedono piantati teatri superbissimi prima che si piantassero in
Venezia; ma è anco vero che non si rappresenta ne’ medemi che all’occasioni segnalate o di maritaggi o di
nascite di principi, come in Parma, in Firenze eccetera. Da che furono introdotti in Venezia, continuano le
recite publiche ogni carnovale, con cui esempio in molte parti dell’Europa si pratica lo stesso. E per toccare
la differenza che v’è tra questi [teatri] e quelli che erano in Roma convien esaminare le circostanze tutte.
[...] La differenza [principale] dunque si è che ora i teatri sono capaci di poco numero di persone, in
riguardo agli antichi; di più, che in vece di scalinate sono fabricati più ordini di palchetti, la maggior parte a
comodo de’ nobili, mentre le dame vogliono stare smascherate in quelli e godere tutta la libertà. Nel campo
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di mezzo [ossia la platea] s’affittano di sera in sera scagni, senza distinzione di persone, poiché l’uso delle
maschere leva la necessità del rispetto che s’usava a’ senatori e alle matrone di Roma che comparivano con
maestà, volendo anco in questo Venezia, come nata libera, conservar a tutti la libertà. Non sono poi da
paragonarsi le pompe, poiché Roma profondeva gran tesori negli spettacoli, già annoverati tra le sue
maggiori grandezze, e le loro machine erano le maraviglie del mondo. Se v’era figurato il precipizio di
Fetonte, si facea piombar dal carro qualche misero condannato fra gli applausi popolari. Lo stesso si facea
introducendosj Muzio Scevola che abbruciasse la mano, e altre simili rappresentazioni, volendo assuefare
quel popolo alle stragi e agli orrori. Oggi però è introdotto il teatro con la musica, per sollievo dell’animo e
per una virtuosa ricreazione, vedendosi comparire machine spiritose, suggerite dal drama, che allettano
molto fra le pompe di scene ed abiti, ch’appagano al sommo la curiosità universale. Si sono perciò veduti
elefanti al naturale, cameli vivi, carri maestosissimi condotti dalle fiere, da’ cavalli, cavalli pure per aria,
cavalli che ballano, machine superbissime figurate in aria, in terra, in mare con artifici stravaganti e con
applausibile invenzione, fino a fare scender dall’aria saloni regi con tutti i personaggi e suonatori, illuminate
di nottetempo, e a farle risalire di nuovo con somma ammirazione, e mille altre forme. [...]
Capitolo VII: L’introduzione de’ drami in musica ha levato il concorso [ossia l’affluenza di pubblico] alle
comedie, omrai ridotte al niente.
Prima che s’introducessero i drami in musica in Venezia, era molto gradita la comedia. Le compagnie de’
comici erano famosissime, e il fine de’ medemi era d’allettare con la virtù un concorso nobile, che fuori di
questi non avea altri trattenimenti teatrali. Le [loro] fatiche riportavano e l’utile e l’onore. [...] Ma questi
[comici], vedendo diminuirsi qui il concetto a’ loro virtuosi impieghi da che ha principiato la poesia vestita
di musica di caminare col fasto sui teatri, schivano al più non posso l’esercizio in Venezia, dove in mancanza
del primiero nobile concorso non risulta loro quel decoro e quell’utile che gli valeva d’allettamento allo
studio e all’applicazione così dilettevole e proficua. Restano dunque a questa causa essi comici esposti più
alle perdite ch’a’ guadagni per le spese che necessariamente impiegano per mantenersi nel posto, e se i
teatri musicali non prenderanno qualche alterazione dal tempo, quelli delle comedie anderanno
deteriorando la condizione, con evidente pericolo [...] di svanire. [...]
Capitolo IX: Quanti teatri siano stati e sono al presente in Venezia e il tempo della loro comparsa.
[Segue qui una storia sommaria dei dodici teatri d’opera attivi in continuità o a intermittenza tra il 1637 e il
1681 a Venezia: S. Cassiano, aperto all’opera in musica nel 1637; S. Salvatore, 1661; SS. Giovanni e Paolo,
1639; S. Moisè, 1640; Novissimo, 1641; SS. Apostoli, 1649; S. Apollinare, 1651; Teatro ai Saloni, 1670; S.
Sarnuele, 1656 (dedito in realtà soltanto alle commedie); S. Angelo, 1677; S. Giovanni Grisostorno, 1678;
teatro a Cannaregio, 1679.]
Capitolo X: L’uso d’affittar palchetti, e la ragione che acquista chi li prende ad affitto.
Il più certo utile che ha ogni teatro consiste negli affitti de’ palchetti. Questi sono almeno in numero di
cento, oltre le soffitte compartite in più ordini, e non tutti hanno lo stesso prezzo, mentre questo si
considera dall’ordine e dal numero, che migliora il sito de’ medemi. [...] Sogliono dal principio che si vuol
fabricare un teatro praticarsi due capi d’utilità, il primo un regalo in denaro per cadaun palchetto (e questo
serve in gran parte alla spesa della fabrica, e questa è stata la causa principale che si siano fabricati più
teatri con tanta facilità e prestezza), il secondo si conviene in un affitto annuale, e si paga ogni volta che in
quell’anno fa recitar il teatro, non altrimenti venendo fatto questo pagamento in riguardo della spesa che
impiega il teatro e del comodo che riceve chi lo tiene ad affitto. Il jus poi che acquista il possessore d’esso
palchetto si è di tenerlo per sua propria ragione, senza facoltà di cederlo ad altri, di più d’adoprarlo per uso
suo, e d’imprestano a beneplacito. [...] Vi sono poi diversi palchetti posti al piano e nelle soffitte, che per
esser ne’ siti incomodi ed inferiori non sono affittati tutti dal principio, ma si vanno affittando di sera in sera
o pure d’anno in anno a disposizione libera del padrone del teatro medemo, che procura di ricavar il più
possibile a suo maggior beneficio.
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Capitolo XIII: La spesa ch’è tenuto a fare il teatro.
Il teatro, prima di ricever utilità alcuna, ricerca molte spese, che tutte riguardano la recita de’ drami, senza
la quale cesserebbe assolutamente ogni suo interesse. La prima [spesa] dunque, e più considerabile, si è
quella della condotta d’uomini e di donne che cantano, essendo ridotte le pretensionj all’eccesso (dove
prima si contentavano o di recitar a parte del guadagno, o d’un onesto riconoscimento). Si paga il mastro
che mette in musica il drama, e segue poi la spesa degli abiti, del far le mutazioni di scena, di fabricar
machine, di convenir col mastro de’ balli, di riconoscer di sera in sera gli operari ed i suonatori
dell’orchestra, e di mantenere illuminato il teatro. [...] Dal principio bastavano due voci isquisite, poco
numero d’arie per dilettare, poche mutazioni di scena per appagare la curiosità; ora più si osserva una voce
che non corrisponda che molte delle migliori ch’abbia l’Europa. Si vorrebbe ch’ogni scena del drama
caminasse con la mutazione [di scena], e che l’invenzioni delle machine si andassero a ritrovare fuori del
mondo. Queste sono le cause per le quali cresce ogni anno più la spesa, ma non cresce di già, anzi si
diminuisce il pagamento alla porta, che pone a rischio d’impossibilitar la continuazione, se non si dà regola
migliore alle cose correnti.
Capitolo XIV: L’utile che ricava il teatro che rappresenta drami in musica.
Tre furono, a mio credere, gli oggetti che fecero introdurre i teatri nel mondo, e sono appunto quei tre fini
assegnati dal retorico, cioè l’onesto, il giocondo e l’utile. E infatti qual trattenimento può esser più onesto
di quello che vien suggerito agli uomini dalla stessa Virtù? [...] Il giocondo poi non può esser maggiore di
quello che nasce dall’armonie insegnate sino dal moto delle sfere: onde, aggiunte queste all’altre
circostanze del teatro, lo rendono in tre forme godibile, all’occhio per la pompa, all’orecchio per la musica,
e all’ingegno per la poesia. [...] L’utile, finalmente, come necessario stromento a sostenere il concetto del
teatro con le spese toccate nell’antecedente capo e ad inanimire la volontà all’operazioni virtuose, di cui
l’interesse è un caro allettamento. Diversi sono gli utili che si cavano dal teatro: il primo, dei bollettini [ossia
biglietti] che servono di passaporta ogni sera; il secondo, degli scagni che s’affittano pure di sera in sera; il
terzo, la contribuzione convenuta per botteghini che servono di rinfreschi. Tutti questi utili si fanno
considerabili quando incontra [buon successo] l’opera, la cui riuscita o buona o cattiva dipende da mille
accidenti per lo più originati da’ giuochi stravaganti d’una ridicola fortuna, che ordinariamente suole
sposarsi col giudicio del volgo. L’ultimo utile che si ricava è quello degli affitti de’ palchetti, che per esser in
numero quasi di cento diviene considerabile: e questo, o riesca o no il dramma, sempre è lo stesso, né può
mancare annualmente ogni volta che recita il teatro in quel carnovale. L’utile poi che si cava dal teatro della
comedia consiste [unicamente] negli affitti de’ palchetti, mentre ogni altro utile è de’ comici: a’ quali è
tenuto il padrone del teatro a far un regalo di quello che si cava da essi palchetti.
Capitolo XV: Il prezzo che si è praticato dal principio e che ora si pratica di dar alla porta del teatro.
Le spese del teatro sono più che certe; ma gli utili, derivando (come s’è detto) dagli scherzi di fortuna, sono
incerti. Pure il teatro studia sempre più d’accrescer i suoi aggravii; ma l’utile della porta, ch’è fondamento
principale dell’interesse, invece di crescere si va diminuendo, con evidente pregiudizio e pericolo di
tralasciarsi la continuazione di questo nobilissimo trattenimento. Il poco prezzo lieva il modo alla spesa
considerabile delle pompe, introduce più facilmente il volgo ignorante e tumultuario, e fa perder il decoro a
quella virtù che comparisce non meno per diletto che per profitto. L’anno primo che comparì in Venezia il
drama in musica (fu del 1637) si limitò come onesta contribuzione il pagamento di lire quattro per
bollettino [ossia biglietto] che serve di passaporta nel teatro. Durò l’uso della medema inalterabile,
nonostante qual si sia fortuna sinistra incontrassero le recite, sino l’anno 1674, e durerebbe ancora se
Francesco Santurini quell’anno, col comodo del teatro di S. Moisè preso ad affitto vantaggiosamente, con le
scene e materiali che servirono l’anno innanzi ad una generosità accademica e con una mediocre
compagnia de’ cantanti, non violava l’integrità dell’uso suddetto, con un quarto di ducato [ossia meno di
due lire] alla porta. Questa novità vantaggiosa piacque all’universale, ond’egli allettato dal profitto,
venendogli contrastata la continuazione del teatro di S. Moisè suddetto, pensò e gli sortì di fabricar il teatro
di 5. Angelo, coi beneficio del regalo di palchetti, ed aprirlo col prezzo medemo alla porta l’anno 1677 [...].
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Un calo eccedente la metà [nel prezzo del biglietto] allettò il concorso col pregiudicio de’ teatri soliti a
ricever le lire quattro suddette, facendo che il famoso teatro di SS. Giovanni e Paolo si riducesse dopo
quaranta anni di così decorosa contribuzione al suddetto quarto [di ducato] l’anno 1679, e coll’esempio di
lui l’anno 1680 quelli di 5. Salvatore e di 5. Cassiano, non rimanendo altro [teatro] al prezzo primiero che il
novissimo di S. Giovanni Grisostomo, dove si vede impiegata tutta la magnificenza maggiore da’ [...] fratelli
Grimani.
Capitolo XVIII: Se sia di bene o di male l’introduzione de’ teatri nel mondo.
Se questo problema si proponesse in un’accademia, darebbe certamente a due grandi ingegni gran campo
di sostenere il pro ed il contra. [...] Si concluderebbe alfine che il teatro è stato prima e sarebbe ancora
[oggi] di gran bene se si conservasse il decoro della sua prima origine, se l’abuso non avesse luogo, e se i
geni si temprassero di miglior sentimento. Pure questo problema pare a me più politico che accademico, e
come tale da decidersi più dall’autorità di chi comanda che dalla penna di chi scrive.
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