APPENDICE 8
3.2.8.
ARTICOLI DI CONTORNO
500
Eugenio Checchi, La musica e Santo Stefano, «Fanfulla della domenica», 29.12.1912
Chi domandasse agli artisti del teatro melodrammatico italiano quale sia il santo più allegro e più
bontempone del calendario gregoriano, sentirebbe rispondersi invariabilmente da tutti: “è Santo
Stefano”. E hanno ragione da vendere: non ostante che a quel povero santo mancassero i motivi di
una allegria soverchia perché finì, Dio ci liberi tutti, sotto una grandine di sassate che lo ridussero
cadavere informe.
Per quale motivo il celebre santo, che meritò dalla chiesa il titolo onorifico di protomartire, fosse
assunto all’onere, certamente da lui non ambito, di dare il proprio nome alla inaugurazione delle
stagioni invernali di musica, le cronache teatrali non dicono. Dicono soltanto che fin dal secolo
decimottavo l’uso di cotesta inaugurazione non fu mai interrotto, fino a pochi anni fa: fino a quando
cioè avidi speculatori e pubblici impazienti si provarono, e in parte riuscirono, ad alterare
quell’epoca classica, anticipando dove di otto giorni, dove di quindici, dove perfino di un mese, la
storica data se non che il pubblico, che pure aveva contribuito allo scandalo, se ne pentì, rimase
disorientato, desiderò, come diceva appunto il gran Verdi ai giovani maestri, di tornare all’antico. E
ora pare, dopo il non felice esperimento di quest’anno nel massimo teatro milanese, che inaugurò la
stagione musicale nei primi giorni di decembre, pare che le ravvedute imprese riprenderanno a poco
a poco le antiche consuetudini e rimetteranno in onore la data e il nome del santificato protomartire.
***
Certo, alle sue sventure e alla tragica fine non pensavano giovedì sera, neanche per sogno, quelle
parecchie centinaia di signore che dai palchi gramiti e dalla platea affollatissima del teatro Costanzi
di Roma assistevano alle mitiche vicende delle Walchirie wagneriane. La musica suggestiva della
più bella fra le quattro opere che s’intitolano dall’Anello del Nibelungo, assorbiva tutte le facoltà
intellettuali delle uditrici in splendide acconciature e degli uditori in frack e cravatta bianca: ma
tutti dicevano, negli intermezzi fra un atto e l’altro, nel diffuso splendore di mille lampade
elettriche, opportunamente riaccese dopo le fastidiose tenebre che obbligavano gli spettatori
ritardatarii a remar con le braccia a traverso il dedalo delle poltrone come se giocassero a mosca
cieca, tutti dicevano che fa benissimo Roma a mantenersi fedele al vecchio santo di musicale
memoria. Ed ecco perché il teatro non avrebbe potuto contenere uno spettatore di più, e i fortunati
che assistevano allo spettacolo poterono dire uscendo: “chi ben principia è alla metà dell’opera”.
E mentre ieri sera i recitativi e le melopee del secondo atto, il meno bello dei tre, si snodavano
sulla scena, e scendevano in orchestra, e s’intrecciavano ai suoni degli strumenti come per riceverne
la imbeccata, e poi risalivano per tornare a svolgersi dalle gole canore di Wotan e di Fricka, di
Brunilde, di Siglinda, di Sigmundo, io, rannicchiato nella comoda poltrona, risalivo all’indietro il
fiume degli anni, rivedevo altre celebri inaugurazioni delle sere di Santo Stefano. Il buio della sala,
impedendo agli occhi di scrutare in quali palchi si annidassero le più acclamate bellezze romane e
straniere, dava in compenso alla mia memoria una facoltà visiva più penetrante: rivedevo così i più
famosi Santi Stefani del medesimo Costanzi, o dell’Argentina, o del defunto Teatro Apollo, che una
inconsulta smania livellatrice condannò alla morte, quando si volle rinserrare lo storico Tevere in
una immeritata prigione.
Oggi troppe cose e un cumulo soverchio di preoccupazioni dànno agli spettacoli teatrali il
secondo e magari il terzo posto nei pubblici avvenimenti. Allora invece, negli anni del più quieto
vivere, il teatro era tutto: il “Santo Stefano” era aspettato con lieta ansia febbrile, assai maggiore di
quella con la quale un mese fa si attendevano la presa di Scutari o la caduta di Adrianopoli. Si
discutevano anticipatamente, con straordinaria vivacità, i titoli delle opere prescelte, i nomi dei
cantanti scritturati, la valentìa alata della prima ballerina di rango francese, e si facevano
3.2.8/1
prognostici, e si auguravano trionfi. La inamidata e ripicchiata musoneria dello spettatore odierno,
che fa il paio col lucido sparato della camicia marmorea, era cosa ignota affatto. Correvano per la
sala brividi di piacere, fremiti d’entusiasmo, applausi e grida, e gli artisti, dopo esser venuti a
ringraziare commossi al proscenio, rientrando fra le quinte si asciugavano una lacrima di
sodisfazione.
***
Ripensavo a tutto questo l’altra sera: e, con la complicità del buio, immaginavo di veder
volteggiare attorno a me i fuggitivi fantasmi di maestri immortali, di artisti di grido, di direttori
celebri. Guardavo in su, verso la Cupola del Brugnoli: e le figure dipintevi, raffiguranti persone
delle varie parti del mondo, in quella poca incertissima luce che vi si rifletteva dal palcoscenico, si
animavano stranamente, mi pareva che accompagnassero, con esagerati movimenti ritmici delle
teste e delle braccia, il canto semiliturgico dei personaggi, forse con la proterva intenzione di
prenderli in giro. E in quel mio dormiveglia in cui mi cullavo, rimanendo pur sempre a occhi aperti,
ripensavo a una certa inaugurazione del Santo Stefano di una trentina d’anni fa, seppure non è più
antica, quando per l’improvviso straripamento del Tevere gli accessi del teatro Apollo furono
inondati, e le signore, tutt’altro che atterrite, anzi prendendo gusto al gioco, scese dalle carrozze si
avventurarono sopra fragili ponti scricchiolanti che univano la strada al primo piano del teatro;
talune anzi, per mantenere la immacolata incolumità delle vesti e delle calzature elegantissime,
erano sollevate sulle braccia di cavalieri, premurosi di accorrere alla chiamata di qualche nota voce.
I superstiti di prima del settanta si sono compiaciuti più volte a narrarmi le gaie vicende di quelle
stagioni indimenticabili: quando nella sera di Santo Stefano, nei palchi di proscenio, assistevano
allo spettacolo i più mondani fra i monsignori di Curia, solleciti fra un atto e l’altro a far visita alle
più belle dame. Per inveterata consuetudine, in cotesta sera si distribuivano gratuitamente gelati e
pasticcini nei primi due ordini di palchi, e anche mazzi di fiori alle signore. L’impresario del teatro
doveva fin dall’autunno sottoporre al soprintendente degli spettacoli, che era un monsignore,
l’elenco delle opere e i nomi degli artisti. La disciplina sul palcoscenico era rigida, quasi ferrea, o,
per lo meno, tale si affermava che fosse: ma, come dice il proverbio, vi sono accomodamenti col
cielo, e, ad ogni modo, occhi indiscreti non seguivano mai i monsignori quando per avventura
sgattaiolassero da un camerino all’altro, negl’intervalli fra l’opera e il ballo.
***
Perché un gran ballo, e anche due, erano di prammatica nella stagione di carnevale: e a tutte le
prove, a cui naturalmente nessun profano era ammesso, assisteva sempre il monsignore
soprintendente, dal cui prudentissimo arbitrio dipendevano la onesta scollacciatura del petto e la
lunghezza delle sottanine di velo delle danzatrici.
Accadde questo una sera, durante la prova generale del ballo: che la prima ballerina, bellissima
ragazza dalle forme procaci, si presentò nel primo quadro in tutto lo splendore della bellezza
affascinante, ma col petto soverchiamente scoperto, anzi addirittura seminudo. L’accigliato
monsignore chiamò a sé, nel palco di proscenio, il povero impresario e, caricatolo di rimproveri,
disse di non potere ammettere che quella donna si presentasse al pubblico svestita in quel modo.
Corse l’impresario sul palcoscenico e ordinò all’allieva di Tersicore di coprirsi un po’ di più.
Ella infatti, nel secondo quadro, apparve sulla scena con un gran velo che le fasciava il
bianchissimo petto. E il monsignore, fatto cenno all’orchestra di sospendere, gridò dal palco alla
ballerina:
-Così va bene per le rappresentazioni al pubblico, ma stasera non importa: potete levare quel
velo.
Tutto sommato, e fatte le debite tare, anche quei tempi, non c’è che dire, avevano qualche cosa
di buono.
501
M[atteo] Incagliati, La grande stagione lirica al Costanzi - Opera italiana d’apertura: “Francesca
da Rimini” di Zandonai - Due opere di Wagner - Falstaff - La prima di “Giulietta e Romeo” - La
ripresa del “Piccolo Marat” e del “Trittico”, «Il Giornale d’Italia», 23.10.1921
3.2.8/2
Si era diffusa la voce che – mancata, o se più vi piace, naufragata la stagione autunnale per un
malinteso fra le masse e la direzione del teatro – il “Costanzi” non avrebbe svolto, durante l’inverno
la consueta stagione d’opera.
Ma la voce era erronea. Il “Costanzi”, che durante il periodo della guerra è stato il solo grande
teatro in Italia, mentre la “Scala” e il “Regio” e il “Carlo Felice” rimanevano chiusi, a tener alto il
prestigio dell’arte melodrammatica, non poteva chiudere i suoi battenti proprio ora che il pubblico
romano ha acquisito la benemerenza di essere divenuto il pubblico “più musicale d’Italia”.
basterebbe a darne prova luminosa, oltre la serie degli spettacoli lirici che si succedono di anno in
anno nel periodo di Carnevale-quaresima al “Costanzi”, la stagione di musica sinfonica
all’“Augusteo”, dove da Beethoven a Brukner [sic] e da Corelli a Rossini e a Respighi la cultura
artistica non si sa di quanto e come si sia proficuamente avvantaggiata.
È da augurarsi solo che il nuovo anno musicale sia degno della tradizione.
-Che cosa prepara, dunque, il Costanzi, per l’ormai imminente stagione lirica? – ho chiesto
stamani a Emma Carelli.
-Il cartellone di quest’anno mi è costato, a compilarlo, maggior fatica delle altre volte. Si agitano
tante e così diverse crisi che ho dovuto con sforzo armonizzare e le giuste esigenze del pubblico e le
talvolta non modeste pretese degli artisti. E mi pare di avere realizzato un mio vecchio sogno: di
esaltare come merita l’opera teatrale contemporanea. Ho associato nel cartellone le tre forze vivide
e geniali del melodramma: Mascagni, Puccini e Zandonai – e ho voluto ad un tempo non
dimenticare i giovani. Dei quali ho prescelto due opere che affidano per la valentia di chi le ha
ideate e per il bene che se ne dice negli ambienti musicali: la Grazia del maestro Vincenzo
Michetti, l’autore di Maria Magdala ch’ebbe il suo battesimo or sono pochi anni sulle scene del
Costanzi, e Isabella Orsini del maestro fiorentino Renato Brogi.
-E la stagione si inaugurerà?
-Ho voluto quest’anno rompere la consuetudine invalsa nei nostri grandi teatri di inaugurare le
stagioni con un’opera di Wagner – consuetudine che si giustificava con la grandiosità appropriata
dello spettacolo wagneriano e con la necessità di prepararlo con più agio nei giorni che precedono
l’apertura di un teatro. Ma il repertorio italiano si è recentemente arricchito di un’opera di larga
concezione e di larga linea, che ha avuto così entusiastico e popolare successo in tutta Italia ed
all’estero, la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai sul poema tragico di Gabriele d’Annunzio,
opera italianissima per il soggetto, la musica e gli autori, e che a Roma si desidera grandemente
risentire, dopo le prime applaudite esecuzioni del Costanzi. Perciò ho scelto questa opera per
l’inaugurazione, e sarà spettacolo degno e non privo di significazione. L’autore medesimo, che si è
affermato in questi anni come un vigoroso direttore, verrà a concertare e dirigere la sua opera, di
cui saranno interpreti Gilda Dalla Rizza, l’acclamata cantatrice, e il Fleta, un tenore che in breve
tempo ha acquistato giusta e meritata fama.
-Non solo risponde al generale desiderio una grande esecuzione della Francesca da Rimini, ma
risponde anche a un sentimento comune la bella affermazione di italianità musicale cui essa darà
occasione. E quando andrà in iscena la Giulietta e Romeo, la nuova opera dello stesso Zandonai
sulla azione drammatica di Arturo Rossato, così vivamente attesa in tutta Italia, e di cui il Costanzi
bene ha fatto ad assicurarsi la primizia?
-Io spero che la importante première possa aver luogo in febbraio. Il geniale maestro, nel suo
rifugio di Sacca [sic] presso Rovereto, sta terminando l’opera; ma già si lavora alla stampa della
partitura presso la Casa Ricordi, allo scenario, i cui bozzetti bellissimi sono stati ideati dal pittore
Stroppa e ai costumi. Riccardo Zandonai è stato da me invitato a concertare e dirigere la sua nuova
opera che, come la Francesca, avrà soggetto così italiano. Creerà la parte di Giulietta Gilda Dalla
Rizza.
-E dopo Zandonai, Mascagni e Puccini?
-Avremo di Pietro Mascagni una ripresa del Piccolo Marat, l’opera che nella stagione di
primavera si replicò per quindici sere dinanzi a sale affollate e plaudenti.
-Con il tenore Lazaro?
3.2.8/3
-Il tenore Lazaro anche questa volta ne sarà il protagonista. E avrà a compagni: nella parte di
Mariella la Viganò, che di recente all’Arena di Verona ha conseguito un successo veramente
caloroso, il baritono Parvis e il Rossi-Morelli... Inutile aggiungere che Pietro Mascagni dirigerà la
sua opera.
-Una edizione non meno insigne della prima. Ma di Mascagni verranno poste in scena altre
opere?
-Forse Lodoletta. Ma vedrò, se cioè sia possibile riprodurre questa o altre opere, quando avrò
modo ed opportunità di parlare col musicista illustre.
-E terzo fra cotanto senno?
-Puccini. Del quale riprodurrò il Trittico, che su queste scene ebbe il suo primo indimenticabile e
trionfale successo. Né credo che questa nuova riproduzione sia da meno di quella di due anni or
sono. Infatti del Tabarro saranno interpreti: Maria Carena, divenuta ormai una celebrità autentica, il
tenore Cortis e il baritono Segura-Talien; di Suor Angelica: la Carena e la Sadun; e di Gianni
Schicchi: il baritono Parvis, che sarà un protagonista senza dubbio singolare.
-Ma con Puccini non ci... fermeremo al Trittico...
-Tornerà la Tosca per la quale il pubblico non solo di Roma ma quello internazionale mostra una
speciale predilezione – e con la Lleopart, l’ammirata Elsa del Lohengrin del passato anno, col
tenore Minghetti e il baritono Parvis.
-E di Verdi?
-Verdi si presenterà con i suoi due capolavori: il Falstaff, con la Sadun, la Vitulli, il RossiMorelli, il Minghetti e il Dentale; e il Rigoletto, in una edizione che credo di poter prevedere
insigne, con la cooperazione cioè di artisti come il Galeffi, che ritorna al Costanzi dopo i trionfi
conseguiti nel Nord-America, la Toti Dal Monte e il valoroso tenore Smirnoff.
-Un programma, come pare, di schietta fervida italianità.
-Ma non basta. Porrò in scena l’Andrea Chénier col tenore Lazaro e il Barbiere di Siviglia con la
Toti Dal Monte, il baritono Galeffi e il tenore Smirnoff... E se aggiungiamo le due opere dei due
giovani musicisti nostri: la Grazia di Michetti, che avrà a protagonista Carmen Melis, e Isabella
Orsini con la Lleopart, il Cortis, Segura-Talien e Rossi-Morelli, il programma apparirà davvero
eclettico e notevole.
-Esaurito il repertorio di opere italiane, largo a Wagner...
-E di Wagner ho prescelto due delle sue opere più significative: I Maestri Cantori e il
Tännhauser [sic]. Della prima saranno interpreti: la Bugg, una affascinante e ammirata cantatrice
francese, il Cortis, il Parvis e il Rossi-Morelli; della seconda la Bugg, il Kirchoff, un tenore tedesco
che sarà pel pubblico italiano una rivelazione, e l’insigne baritono Montesanto.
Dopo Wagner, Riccardo Strauss, e con quel Cavaliere delle Rose [sic] che conseguì anni [or]
sono sulle scene del Costanzi uno schietto successo. E ne sarà protagonista Gilda Dalla Rizza, e
vestirà i panni della Marescialla Carmen Melis, e quelli del Barone Ochs il basso Cirino.
-Né mancherà, io credo, qualche opera del repertorio francese...
-Un capolavoro tornerà sulle scene del Costanzi, e cioè la Dannazione di Faust di Berlioz, con
Zalewski, l’ammirato protagonista del Boris Godunoff, con la Bugg, il Cortis e il Dentale. E inoltre
riprodurrò, dopo molti anni di ingiustificato oblio, il Sansone e Dalila, con due eletti artisti:
Gabriella Besanzoni e il tenore Fleta.
-Un cartellone di indiscusso interesse...
-E al quale accrescerà autorità la cooperazione, quali direttori d’orchestra, come vi ho detto, di
Pietro Mascagni e Riccardo Zandonai. Con i quali divideranno l’onere della direzione degli
spettacoli due giovani maestri: Vincenzo Bellezza, già affermatosi per la versatilità degli studî e per
la probità artistica, e il Paolantonio... Per le due opere tedesche sto in trattative con un valoroso
maestro. E aggiungete: a maestro del coro il Consoli, il cui nome è da solo garanzia per l’arduo
còmpito assegnatogli; a direttore del meccanismo Pericle Ansaldo, un artista del genere; e a
scenografia: il Rovescalli, Augusto Carelli, lo Stroppa e il Sala.
-E per i costumi?
-Un mago del colore e del buon gusto: Caramba, e oltre Caramba il Chiappa.
3.2.8/4
Il cartellone è così completo. Attendiamo che il sipario si alzi – e che alle buone intenzioni
seguano gli applausi del pubblico.
502
Vice, Il cartellone del Costanzi - I criteri artistici della nuova stagione (Nostra intervista con
Emma Carelli), «Il Tempo», 1.11.1921
Abbiamo aggredito la signora Carelli, ancor nera di fuliggine poich’era discesa proprio allora dal
diretto di Napoli e veniva ad ispezionare, col zelo proprio dei grandi generali, il suo numeroso ed
agguerrito esercito teatrale.
Col calmo gesto dominatore, in lei così caratteristico, Donna Emma dava ordini a dritta e a
manca, parlando contemporaneamente con dieci persone e riuscendo perfettamente a raccapezzarsi
in quello spaventoso capharnaeum di attrezzi, di cordami e d’impedimenta d’ogni genere, tra quel
vociare confuso ed acuto che faceva veramente pensare al risveglio di un accampamento o, se più
vi piace, alla costruzione della Torre di Babele.
Eclettismo
-Riverita Signora – abbiamo detto alla gentile régisseuse del Costanzi –: conosciamo a memoria
il cartellone della prossima Season lirica; volevamo piuttosto sapere da lei quali criteri l’hanno
guidata alla scelta del programma di spettacoli, ormai noto lippis et tonsoribus.
-Vuol favorirmi in Direzione? La servo subito – ci ha risposto cortesemente la grande cantante e
la grande donna ch’è la signora Carelli; e abbiamo varcato la soglia del camerino della Direzione,
ove Donna Emma ci aveva preceduto.
-Il principio che mi ha guidata nella scelta delle opere da includere nel cartellone della prossima
stagione lirica d’inverno è quello del maggior possibile eclettismo. Il pubblico desidera ed ha il
diritto di divertirsi; e contentarlo non è la cosa più facile di questo mondo...
-Ma per Lei non esistono difficoltà...
-Così fosse, caro amico! Riconosco che non sia facile costituire un Gabinetto; ma mettere
assieme un cartellone è impresa ancor più ardua!... Non v’è opera, per quanto bella, che piaccia alla
generalità di un pubblico: v’è chi la vuol bianca e chi la vuol nera, chi la vuol cotta e chi la vuol
cruda; e conciliare tutte queste opposte tendenze è cosa da far venire i capelli bianchi...
-Non si direbbe... E come ha fatto, illustre Signora, a cavarsela con tanto onore?
-Molto semplicemente: costruendo un palazzo incantato di nuove musiche italiane sulle solide
palizzate delle nostre opere tradizionali, più o meno antiche; e adornando qua e là il mio giardino di
qualche fiore esotico. Il cartellone che ella ha innanzi agli occhi mi risparmia ogni ulteriore
commento.
I giovani: Zandonai, Barilli, Brogi
-E l’alto onore di inaugurare la stagione spetterà quest’anno a Riccardo Zandonai?
-Il pubblico di Roma desiderava riudire la ispirata Francesca da Rimini del giovane Maestro
trentino, la bella opera che ha ottenuto in questi ultimi tempi successi clamorosi. Francesca, come
sapete, sarà Gilda dalla Rizza e Paolo il tenore Fleta. L’opera sarà concertata e diretta dall’autore
medesimo ch’è notoriamente un ottimo Kapellmeister.
-E che cosa può dirmi di Giulietta e Romeo, la nuova attesa opera dello Zandonai?
-Che ascrivo a mio onore d’essere riuscita ad assicurare a Roma la rivelazione di questo
nuovissimo spartito dell’autore di Melenis, conteso dai maggiori teatri d’Italia. Anche quest’opera
avrà per protagonista Gilda dalla Rizza.
-E chi dirigerà la nuova opera?
-Lo stesso infaticabile autore.
[...]
3.2.8/5
503
Matteo Incagliati, Il burrascoso concerto di ieri all’Augusteo, «Il Giornale d’Italia», 7.2.1922 - p.
4, col. 3
Lezione esemplare quella di ieri all’Augusteo: è tempo ormai che i compositori della cosiddetta
giovane scuola sinfonica italiana si persuadano che sino a quando essi perseguiranno il vieto
formalismo e calcheranno le altrui orme, a danno della propria personalità e in ispregio dei caratteri
della razza, se non del nazionalismo, non compiranno che opera vana, vacua, atta solamente a fare
indispettire il pubblico.
La gran folla adunata nella vasta sala dell’anfiteatro di Via dei Pontefici non risparmiò neppure
un musicista della fama ben conquistata di Ottorino Respighi. Un vero e autentico naufragio: non si
trassero in salvataggio neppure le... buone intenzioni, se pur di queste gli egregi “giovani autori”
mostreranno di avvedersi, se non altro per giustificare e farsi condonare gli errori nei quali son
caduti con qualche attenuazione.
Ma quale attenuazione concedere a Ottorino Respighi, la cui notorietà e a buon conto, ha ormai
superato i confini d’Italia? Il Concerto gregoriano per violino e orchestra, eseguito ieri per la prima
volta, è l’ultima composizione, in ordine di tempo, del facondo e fecondo sinfonista, e giunge dopo
Le fontane di Roma e La ballata delle gnomidi. Un salto nel buio? No: un salto compiuto a... metà.
Perché questo concerto fu concepito non tenendo in nessun conto quello ormai divenuto
insuperabile e insuperato, e cioè il Concerto per violino e orchestra di Beethoven, dinanzi al quale
rimangono in ombra quelli che lo precedettero e che portano la firma di Mozart e appaiono scialbi
perfino quelli di Mendelssohn e di Brahms.
Nomi grandi che – a quanto pare – non fanno paura. Ma appunto per ciò, Ottorino Respighi
avrebbe dovuto seguire tutt’altra via da quella ch’egli prescelse. Costruire un Concerto su temi
gregoriani, distruggendo, annullando l’essenza intima di essi, il loro carattere peculiare, la loro
sostanza sentimentale, costituiva da solo un errore di concezione e di ideazione. I temi gregoriani
che nella composizione del Respighi avrebbero dovuto trovar sviluppo e respiro attraverso il volo
della fantasia, sono rimasti allo stato germinale, così come arida materia costruttiva. Al posto della
fantasia è subentrato l’arbitrio, la licenza; onde la composizione procede stentatamente, a
frammenti, e con tale prolissità da ingenerare monotonia: frammenti che non riescono mai a dar
fisionomia alla forma classica del Concerto, senza che si riesca mai a distinguere se il violino o
l’orchestra facciano da protagonisti o se tutti e due insieme procedano in libera e antitetica
concorrenza, e senza che alla fine si volga la sintesi per dar forma organica e geniale ai tre tempi,
quella sintesi che suole conferire vitalità all’opera d’arte.
[...]
N. 2: Impressioni pagane di Vincenzo Davico, musicista tra i più apprezzati, ma che in questa
stagione sinfonica ha smarrito il senso dell’originalità e invano ha chiesto soccorso alla fantasia.
[...]
N. 3: Tre canti d’amore per voce di soprano e orchestra di Francesco Mantica.
[...]
504
Il Teatro Reale dell’Opera, «Musica» XXII/3, 15.2.1928 - p. 1, col. 1-2-3
L’atteso avvenimento d’arte si approssima. La sera del 23 rivedremo il vecchio Costanzi sotto un
nuovo aspetto, un nuovo viso, un nuovo nome; lo rivedremo fulgente di una nuova giovinezza,
grazie alle sapienti cure di due illustri medici: S. E. il Principe Ludovico Spada Potenziani e
l’Architetto Marcello Piacentini.
Trasformare il vecchio Costanzi in ciò che è ormai il Teatro Reale dell’Opera, facendone sede
solenne, austera, elegante della scena lirica, fu tra i primi propositi cui ispirò la sua alacre e geniale
attività il Governatore di Roma.
3.2.8/6
L’illustre gentiluomo, di cui è nota la passione per la musica e l’alto patrocinio concesso alle
iniziative miranti a dare al popolo una educazione artistica consona allo spirito dei nuovi tempi,
intese tutta la bellezza dell’altissimo monito del Duce, che nella riconquista del primato artistico
italiano e nella rivalorizzazione del nostro Teatro Lirico additava una delle mete a cui doveva
attendere l’Italia nuova.
Di questa nobilissima idealità il Principe Potenziani si è fatto fedele interprete ed esecutore.
E Roma ha ormai un grande Teatro lirico, veramente degno della Capitale.
La Sala
Della vecchia sala non è rimasta che la cupola, con l’affresco del Brugnoli, che rappresenta la
storia della musica.
Sull’arco scenico è stata apposta una targa di bronzo che reca la seguente iscrizione:
VICTORIO EMANUELE III REGE
BENITO MUSSOLINI DUCE
LUDOVICUS SPADA POTENZIANI
ROMAE GUBERNATOR
RESTITUIT
MCMXXVIII - A. VI
Sotto la targa è un orologio elettrico senza sfere, simile a quello che è nella sala del Teatro alla
Scala di Milano e che cambia i numeri luminosi ogni cinque minuti.
Sotto la ribalta, si schiude il golfo mistico, che nasconde l’orchestra. Il golfo mistico già esisteva
nel vecchio Costanzi, allorché esso fu inaugurato nell’anno 1880, con l’opera Semiramide di
Rossini. Si era allora nel tempo della infatuazione wagneriana, e si volle quindi rendere
quell’omaggio al grande autore dell’Anello del Nibelungo, il quale nel suo teatro di Bayreuth aveva
appunto resa invisibile l’orchestra, inabissandola in quello che egli, con frase immaginosa, aveva
definito il golfo mistico. La innovazione sorprese i buoni quiriti e soddisfece mediocremente i
professori d’orchestra ed i maestri che si avvicendarono sul podio direttoriale, abituati come erano
ad una esibizione che la riforma rendeva impossibile. Così, dopo qualche anno, il golfo mistico fu
abolito, per essere ripristinato dopo qualche tempo e poi nuovamente abolito. Ora esso è stato
scavato nuovamente e speriamo definitivamente.
I palchi, non interamente chiusi lateralmente, sono decorati in velluto rosso a fiorami. La
decorazione della sala è a fregi d’oro verde. Il palco reale è stato rifatto con sobria magnificenza.
L’ingresso centrale della platea è stato abolito e sostituito con tre parterres. Un nuovo smagliante
lampadario in cristallo di Boemia pende nel centro della sala. Altri sedici lampadari più piccoli
dello stesso stile corrono lungo la cornice della cupola, e piccoli lampadari a gocce di cristallo sono
anche nei palchi.
Nella platea è stata abolita la differenza fra poltrone e poltroncine. Né ci sarà dato più di
assistere al movimentato spettacolo delle corse affannose su per le scale del loggione per la
conquista dei posti centrali, in quanto che, con provvido ed umanitario provvedimento, tutti i posti
della galleria sono stati numerati.
Il palcoscenico
Il palcoscenico del Teatro Reale dell’Opera sarà il più perfezionato del mondo.
Il palcoscenico del vecchio Costanzi, in fatto di impianti tecnici, non differiva molto da quelli
dei più modesti teatri di provincia.
Il non facile lavoro di trasformazione è stato compiuto sotto la direzione di Pericle Ansaldo, che
per la lunga pratica fattasi in Europa ed in America non ha oggi chi possa uguagliarlo in questo
genere di lavori. È noto a questo proposito che l’Ansaldo è stato incaricato anche recentemente
dell’ordinamento del palcoscenico del nuovo teatro di S. Francisco di California, che sarà il più
grande e il più moderno palcoscenico dell’America.
3.2.8/7
Il vecchio palcoscenico del Costanzi è stato rinnovato da cima a fondo, in base ai portati della
più moderna tecnica teatrale. È stato dotato di un panorama semirigido, invenzione dell’Ansaldo,
che darà un’impressione di maggiore vastità. Un ingegnoso sistema di luci ed un sapiente impiego
di lenti speciali renderanno possibile la visione di cieli stellati, di nuvole trasportate dal vento, di
albe liliali, di tramonti purpurei. I mutamenti di scena avverranno automaticamente. Trentadue
grandi riflettori a specchio renderanno possibile in alcune scene, come quelle del secondo atto
dell’Aida e del primo atto del Nerone, una impressione di piena luce solare. Il regolatore elettrico
sarà di duecentosessanta resistenze. E si noti che quello del palcoscenico del Teatro di Amburgo,
che è uno dei più perfezionati del mondo, non ha che centottanta resistenze.
Il largo spazio guadagnato ai lati del palcoscenico farà sì che questo, durante i mutamenti di
scena, possa rimanere totalmente sgombro. I camerini sono stati muniti di ogni più moderno
comfort, comprese le vasche da bagno.
La prima prova del «Nerone»
I nostri lettori già conoscono il programma della imminente stagione lirica, nella cui
preparazione si rivelerà la mano sicura di quel geniale organizzatore che è Ottavio Scotto.
Il programma è veramente imponente per il numero e per la felice scelta delle opere di repertorio
che in esso figurano, per le pregevoli esumazioni, per le interessanti novità promesse, per gl’illustri
artisti ai quali i vari spettacoli saranno affidati.
Giorni or sono Gino Marinuzzi ascese per la prima volta il podio direttoriale accolto con viva
simpatia dalla imponente massa orchestrale. Egli volle che l’orchestra in piedi eseguisse la Marcia
Reale e l’inno Giovinezza, a sottolineare l’importanza dell’avvenimento artistico cui egli è
chiamato a presiedere e che certamente assumerà i caratteri di un vero avvenimento nazionale.
Si iniziò quindi la prova del Nerone, l’opera postuma di Arrigo Boito, che è stata scelta come
spettacolo inaugurale e che, per le sue linee grandiose, varrà certamente a far rifulgere in tutta la
loro potenzialità le magnifiche risorse artistiche e tecniche del Teatro Reale dell’opera.
505
M[atteo] Incagliati, I teatri di musica nella terra di Spontini e di Rossini, «Il Giornale d’Italia»,
15.12.1923 - p. 3
Ancona, dicembre
In Ancona di questi giorni non si parla che di musica. Il manifesto affisso all’esterno del teatro
delle Muse annunzia intanto l’ultima rappresentazione di Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai,
diretta dall’autore. Al botteghino la folla fa la “coda”, come ai non lieti tempi della guerra, quando
per acquistare un pacchetto di “Macedonia” si doveva ricorrere a tutti gli strattagemmi. Nell’attesa
che la “buca” del botteghino sia raggiunta, qualcuno ammazza il tempo, durante la paziente attesa,
fischiettando la cavalcata di Romeo o la chiusa del duetto d’amore al primo atto; qualche altro
s’illude di non impazientirsi, discorrendo di estetica musicale, ponendo a raffronto la vecchia con
l’opera contemporanea. Tanta e così sensibile la passione per la musica in questa bella e operosa
città che la stagione lirica annuale assurge ad avvenimento cittadino. E guai se lo spettacolo non sia
degno della tradizione che, in virtù di un glorioso passato, il teatro delle Muse conta e di cui è
giustamente orgoglioso. Sono ormai circa cent’anni da che questo teatro scrive la sua storia, ed è
storia di fasti ben degni di ricordanza.
Il Ragazzini, che è tra gl’impresari d’Italia popolarissimo per la sua attività fortunata, volle a
buon conto che anche quest’anno Ancona avesse la sua stagione con spettacoli che raccogliessero
l’inanime consenso. E scritturò per la Giulietta Irma Viganò, una celebrità autentica, prescelta a
interpretare alla “Scala” di Milano fra giorni l’Iris; il tenore Cingolani, che in febbraio eseguirà la
stessa opera al “Costanzi”; e per la Manon di Puccini Maddalena Bugg, la valorosa squisita
cantatrice francese e ormai naturalizzata – teatralmente – italiana, e alla quale il pubblico, nello
spettacolo in onore di lei, rivolse cordiali feste. Dopo che ella cantò le romanze della Thaïs e della
Wally, la seducente artista rimase vivamente commossa scorgendo intorno a sé l’omaggio di otto o
3.2.8/8
dieci ceste di fiori. Ma dell’atto gentile da lei compiuto rimase, appena ebbe termine la
rappresentazione, a sua volta commosso il pubblico. La Bugg, chiusa nella sua pelliccia, raccoglie
tutti quei fiori, ne forma un trofeo e, uscita dal teatro, si reca a deporlo ai piedi del monumento dei
caduti in guerra.
***
Nessuna regione, ch’io sappia, e me ne accrebbe convinzione lo spettacolo di iersera durante il
quale il pubblico pareva adunato in un tempio e mostrò di intendere e apprezzare l’arte
zandonaiana, è pari alla marchigiana per l’amore quasi folle che essa nutre per la musica teatrale.
Il teatro è dunque una sua passione. Ed è una passione che risale a qualche secolo indietro e più
oltre.
Il teatro dell’Aquila di Fermo si inaugurò nel 1790 con la Morte di Abele del Giordanello. Ma
prima ancora di Fermo, Pesaro vantava il suo teatro – il Teatro del Sole, la cui storia, iniziata verso
la fine del Seicento, si svolse con fortuna per 153 anni, fino a che nel 1790 fu restaurato e poi
demolito. Allora si costruì il teatro Nuovo, inaugurato nel 1818 con la Gazza ladra di Rossini,
presente l’autore. Dal 1854 si chiamò teatro Rossini.
E di vecchia data è il teatro di Fano, come quello di Urbino e quello di Senigallia, e ognuno di
essi non è a dire quanto tributo insigne rechi alla storia dell’opera lirica. E quanta emulazione fra un
teatro e l’altro per allestire spettacoli di prim’ordine, così un tempo come adesso. Ne fornirono
l’occasione nel passato le famose fiere che in quelle città si avvicendavano ogni anno. Onde l’aver
cantato in una delle città delle Marche nella ricorrenza appunto della fiera costituiva per l’artista
titolo equivalente a quello che poteva derivargli dall’avere calcato le scene dei teatri massimi di
Milano, di Roma o di Napoli.
A Senigallia, ch’era allora una cittadina di poco più di diecimila abitanti, durante appunto il
periodo della fiera che cadeva in autunno, si aveva cura di porre in scena l’opera in voga, l’opera
nuova più rappresentativa del musicista vivente, e con uno sfarzo e con cantanti ritenuti fra i meglio
quotati e più acclamati, che lo spettacolo pareva emulasse quelli della Scala o dell’Apollo o del San
Carlo. E secondo era consuetudine delle grandi scene, come alla Scala e al San Carlo, all’opera
faceva seguito il ballo.
Accadeva spesso, ad ogni opra nuova, prima dello spettacolo questo singolare... evento: taluni
appassionati, esaltati della musica si riunivano in un caffè e, novelli “maestri cantori” sia pure senza
i consigli di Hans Sachs e le beffe di Beckmesser, si scambiavano la sfida di ripetere, dopo la prima
audizione, a memoria tutta l’opera. Chi dal cimento riusciva vittorioso, da un giorno all’altro
assurgeva a celebrità ed era segnato a dito dai passanti lungo le vie. I nomi di queste celebrità non si
ricordano tuttora invano, a provare quanta musicalità sia nell’anima delle popolazioni marchigiane.
E che sia così non v’è chi possa dubitare. Percorrete questa felice e ospitale terra e sostate sia
pure per poche ore in ciascuna delle città dove esiste un teatro, e provatevi ad osservare come ogni
conversazione finisca in una brillante piacevole chiacchierata intorno al teatro d’opera. Così ad
Ancona adesso ha fatto le spese della critica dei... molti critici la nuova opera di Zandonai,
giudicata qui prima ad esempio di Genova, dove al Carlo Felice andrà in iscena durante la prossima
stagione. È una corsa, questa del pubblico delle Marche, ad accaparrarsi le primizie. Come per il
passato, così è adesso: a Pesaro infatti in estate si è data la Grazia di Vincenzo Michetti, subito
dopo il lieto battesimo avuto al Costanzi, e così a Fano, a Iesi, a Macerata, a Fabriano, a Recanati,
dove si conoscono ormai tutte le opere di Puccini, di Mascagni. A Pesaro prima che a Roma, al
Costanzi, è stata data la Via della finestra di Zandonai.
Ovunque, in ognuna di queste città, si mena giusto vanto di poter dire di non essere indietro in
fatto di musica teatrale, a Roma o a Milano. E i Comuni o i palchettisti, che intendono come il
teatro lirico compia officio di educazione per le masse e sia strumento di coltura, non lesinano le
doti, che superano spesso le centomila lire per un corso di sole dodici o quindici rappresentazioni, e
talvolta di sei.
Ma volle la buona ventura che, senza alcuna dote, quest’anno a Recanati il tenore Gigli
partecipasse ad uno spettacolo lirico, senza pretendere compenso alcuno. E così anche questo
giovane tenore, divenuto in breve tempo una celebrità anche perché ci è stato tolto dai miliardari
americani, volle nei giorni delle sue brevi vacanze donare ai suoi concittadini un po’ del tesoro
3.2.8/9
della sua voce d’oro. Così come una volta, nella chiesa di Loreto, poté Alessandro Bonci stupire i
suoi concittadini con il suo canto paradisiaco.
***
È questa dunque una terra musicale per eccellenza e pare quasi che il genio di Spontini e di
Rossini vi aleggi e orienti il popolo verso gli orizzonti dell’arte dei suoni. Ed è in questa terra, a
Pesaro, che Pietro Mascagni trovò la mirabile inspirazione per quell’Iris che degnamente può
ritenersi del musicista illustre e popolare l’opera migliore venuta dopo Cavalleria. Ed è in ognuna
di queste piccole o grandi città che può osservarsi la partecipazione dei contadini al teatro di
musica, trattivi quasi da una necessità spirituale. Ed è in questa terra che nelle campagne o lungo le
marine il canto pare debba rallegrare chiunque muova in pellegrinaggio di fatica o per diletto verso
una meta qualsiasi. Ed è qui ad Ancona che la musica ha un culto così profondo che per sole dodici
rappresentazioni si è riusciti a dotare l’impresa di ben centodiecimila lire: precisamente quante ne
dà il Comune di Roma al Costanzi per 90 rappresentazioni... Perché Ancona, a differenza di tante
metropoli non esclusa Roma, mostra d’intendere quale missione educatrice abbia la musica e come
essa non voglia rimanere indietro nel movimento musicale, così che ogni opera nuova prima che in
alcuni grandi teatri è qui rappresentata e giudicata. E ne fa fede, ultima in ordine di tempo, la
Giulietta di Zandonai, accolta trionfalmente.
Si ricorda che, ora è circa un secolo fa, a Senigallia fu tale e tanto il fanatismo che suscitò la
bella e affascinante Fanny Essler, una silfide meravigliosa, che i suoi ammiratori si quotarono una
sera per una determinata somma da servire all’acquisto – indovinate un po’ – di un... vaso non da
giorno. Un dono senza dubbio per lo meno bizzarro, da porre ai piedi della danzatrice. E quando
questa mostrò di gradirlo, quei mattacchioni pretesero che ella lo buttasse in terra perché andasse in
frantumi. Ella obbedì. Per ogni piccolo pezzo del vaso... infranto credete voi si escogitasse di
formare un quadro in mosaico di stile avvenirista? Ohibò! Di ogni minuscolo pezzo di terracotta si
pensò a formare una spilla per cravatta, della quale si adornò ognuno di quegli erotici spasimanti.
Sicché toccò a un vaso, trasmigrato dalla stanza da letto al camerino della Essler, tanta e così
insperata fortuna da mutare posto di... destinazione e attraverso la danzatrice di finire ridotto in
pezzi, su molte fiammanti cravatte...
Adesso non si arriva neppure a concepire tanta bizzarria. Il popolo non ama la musica che per la
musica – e lascia che i vasi si portino a Samo, non a teatro...
506
Alessandro Benedetti, Un “libretto” di G. Pascoli sul “Mefistofele” - Sue lettere inedite a
Zandonai, «Il Giornale d’Italia», 7.11.1924 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con la riproduzione della lettera di
Pascoli del 28.1.1902)
Può parer quasi inverosimile, per un malinteso criterio delle attività di un poeta, che Giovanni
Pascoli, asserragliato fra molti libri e curvo in studi severi e, di natura, schivo e ritirato dai traffici
della mondanità letteraria ed artistica, dovesse con molto fervore proporsi di scrivere per il teatro
lirico, ammannire, come suol dirsi, dei libretti. Apparente deviazione in cui c’è, forse, il puro
desiderio di chiedere alla musica aiuto per una maggiore irradiazione della propria poesia, un più
sensibile mezzo di comunicazione spirituale.
Se, d’altra parte, nell’opera di Giovanni Pascoli si avvertono convergenze ed imprestiti di altre
arti, come per esempio della musica, certo provengono dalle incoscienti, imponderabili fusioni della
fantasia che confermano, ancora una volta, la già formulata, venerabile unità che regola ogni
superiore espressione estetica: il miracolo dell’anima e dei sensi.
Tuttavia, più efficace del sofisticare è trascrivere talune lettere inedite che il Poeta inviava a
Riccardo Zandonai.
Costituiscono un curioso documento che ci fa partecipi della segreta passione di Pascoli per il
teatro ed, in particolare, di certe intenzioni e orditure di intrighi e peripezie melodrammatiche a cui
lavorava.
3.2.8/10
Queste lettere furono scritte al giovanissimo e allora ignoto maestro trentino nell’anno 1902.
Riccardo Zandonai in quello scorcio di tempo aveva musicato Il ritorno di Odisseo, Il sogno di
Rosetta ed alcune Myricæ.
Con il Ritorno di Odisseo, poema sinfonico per soli, cori ed orchestra, che rivelarono uno
strumentatore già espertissimo ed un colorista ricco ed impetuoso, Zandonai si licenziava
brillantemente da allievo del Liceo musicale “Rossini” di Pesaro, di cui allora era a capo Pietro
Mascagni.
Pascoli si commosse per avere trovato in uno sconosciuto il primo interprete musicale della sua
poesia e di saperne come completata la inespressa indicibile interiorità; e carezzò questa simpatia
rustica, umile e lontana, in quel tempo in cui la gloria dormiva o gli resisteva ostile.
Sollecitazioni, proposte, richieste corsero fra il poeta ed il musicista giovinetto. Il 28 gennaio del
1902, da Messina, scriveva a Zandonai:
«Carissimo, sto passando in rassegna diversi temi di libretto in un atto. Se balenano dei soggetti
anche a Lei me li comunichi. Fermo il soggetto, in una settimana i versi sono fatti. È lavoro che mi
piace: una abbreviata tragedia greca».
In un poscritto alla lettera, che dovremo rileggere poiché contiene una [pre]mura per Mascagni
riguardo ad un [lavo]ro per la Corda fratres, accenna ra[pi]do: «ho pensato a “La Principessa
lontana”, tornando però alla fonte; ho pensato a una specie di “fiaba” piena di profondità e
commozione, ecc. ecc. Mi dica qualche cosa».
Roba al telaio e progetti per le scene dunque ne aveva Pascoli; e fra l’altro a Zandonai
preannunziava un Paolo e Francesca. C’è quindi da credere che i manoscritti e le carte del Poeta
serbino, informe o definitivo, altro materiale melodrammatico.
Una distesa trama di libretto la ritroviamo, qui, in quest’altra lettera allo stesso Zandonai:
«... Mi dica lei che è certo molto più pratico di teatro lirico e prosastico e di drammi e di libretti
e di romanzi e di novelle, se ha mai trovato questo soggetto qui che prima Le espongo, senza
ornamento di sorta.
«Mefistofele, dopo la morte del dott. Faust, continuando a bazzicare la terra, trova... la figlia di
Margherita (mettiamo che la madre non l’abbia uccisa): una povera bimba povera, povera,
povera, bella come un sole, innocente come l’acqua. (Può anche non essere la figlia di Ghita se Lei
vuole).
«La tenta come è il suo mestiere. La bimba che vive con una vecchia zia, nonna, che so io? –
con la comare di Mefistofele mettiamo (non ho qui il Faust e domani lo prenderò) – dà retta al bel
tenebroso; ma è così confidente, così innamorata, così carina che... il diavolo ne ha pietà. Egli
ricusa di andar più oltre... e vuol aprir gli occhi alla piccina. Il suo sentimento così nuovo e poco
diabolico commuove Dio che, intervenendo con la sua gran voce, nota agli ascoltatori del
Mefistofele, (veramente non ricordo), una voce composta di cori angelici e di arpe; di voci di
preghiera, di osanna, di alleluia, perdona al buon diavolo...
Angelo non puoi riessere
diavolo non sei più:
sii uomo!
«Mefistofele uomo retto, presso la fanciulla cui amava, ed essere riamato non è più peccato, sì
gioia grande ed infinita... e mortale.
«Egli ora è uomo: morrà ma amerà! Amore e morte!
«Questo schema mi par così semplice e (perdoni!) così bello che mi pare impossibile non sia
stato tracciato ed eseguito da altri. Quindi la mia prima domanda. Ora una seconda: se fosse
originale, le piacerebbe? un atto solo, solo uno scenario, un piccolo dramma dal significato
profondo, un piccolo dramma che fruirebbe di tutta la poesia del Faust, un piccolo dramma con
tutte le risorse dei grandi (ad es. la voce di Dio)... Le piacerebbe?
3.2.8/11
«La prego (specialmente nel caso che la risposta al primo quesito sia negativa) di tener
segretissimo il soggetto e di non parlarne in caso se non al caro nostro Cino (Cino Chiarini, allora
insegnante al Regio Liceo classico in Pesaro)1 e sotto suggello di segreto.
«È superfluo che Le aggiunga che la vivezza, l’interesse del piccolo dramma dipende dai
particolari che in parte non Le ho detto, in parte non so ancora nemmeno io. Ma, per esempio!,
Mefistofele che inizia la sua umanità... col pianto...».
Una postilla marginale suggerisce:
«Mef. dovrebbe però essere tenore! Nella prima parte del dramma si dovrebbe far cantare
sempre su registro basso (ah! ah! purtroppo di codesto non m’intendo!)».
Candida ignoranza, innocentemente dichiarata, che comprova come siano misteriose certe
evidenti rispondenze fra le varie arti. In un poeta di così suggestiva musicalità come Pascoli, nelle
cui liriche si possono cogliere, beninteso nel senso relativo, temi rapportabili a veri e propri
elementi musicali, come nel riecheggiare di armonie imitative, nel gioco e nei ritorni di
allitterazioni, e di ritmi che raggiungono effetti analoghi alla musica; in poeta di così viva
sensibilità musicale si riafferma la incompetenza, la ingenuità, per non dir altro, anche dei grandi,
fuori della loro arte.
Ritornando al soggetto che Pascoli offriva a Riccardo Zandonai, si suppone che il Poeta
intendesse fare una continuazione del Faust. Nel Mefistofele, prendete anche per punto di
riferimento l’opera di Boito, il bel tenebroso insinua a Faust l’insegnamento diabolico che la
felicità e la conoscenza è raggiunta soltanto attraverso le forme più piacevoli e suggestive del male.
Ma Faust si concede, avvinto e purificato, ai canti angelici, alla bellezza e purezza celestiale dei
superni cori, trasumanato dalla visione paradisiaca si persuade che solo lassù e di lassù sia e
provenga il perfetto bene. Nel soggetto pascoliano invece Mefistofele è commosso dalla grazia e
dalla bontà della figlia del dottore ed è, umanamente, indotto a credere, a negarsi quasi nel bene, a
redimervisi. Rientra e si umanizza così Mefistofele nel dominio morale e ideale del Poeta.
Una caratteristica di tali lettere del Pascoli a Zandonai è l’impazienza. In esse è ripetuto l’invito
di - pronta risposta - che però contrasta colla lentezza che poi assunse ed in cui si spense questo
sodalizio di arte. Infatti, dopo qualche mese, toccò a Zandonai di sollecitare il Poeta che così
rassicurava da Barga:
«Carissimo, si lavora. Presto avrà da Messina il lavoro bello e fatto. Ha virtù di commuovermi.
Mi pare bello se nella mia esecuzione non mi si sciupa. Speriamo bene!».
Ma poi gl’intervalli di tempo si ampliano e poche, evasive, enigmatiche parole, tracciate
febbrilmente in una cartolina, chiudono la corrispondenza, lasciano propositi e promesse per
sempre in sospeso.
In un certo momento le lettere a Zandonai furono anche motivate dal desiderio del Poeta che
Mascagni gli musicasse un suo inno in latino per la Corda Fratres. Si serviva del giovanissimo
amico che a Pesaro avvicinava Mascagni, perché persuadesse il maestro ad accontentarlo. Pascoli,
insieme alle promesse, di rimando pregava: «Favore per favore. Faccia il piacere di solleticare per
me il suo grande Maestro Pietro Mascagni a musicare l’inno della Corda Fratres per cui le accludo
un esemplare corretto ed accentato».
È qui da notare che Mascagni, in un primo tempo, si rifiutò adducendo il - non legitur - e di non
sentirsi troppo sicuro del movimento metrico dell’inno.
Ed allora Pascoli provvide subito a mandarglielo, com’egli scrive, accentuato. Ma non bastò,
poiché ritorna ad insistere così: «Carissimo Zandonai, prima di tutto che fa il Maestro? Musica o
non musica quelle quattro parole così impropriamente chiamate inno? Corda Fratres: che le sue
parole lo ispirino!».
Ed in fine alla stessa lettera affida questo squillante messaggio:
«Maestro Mascagni, su mi faccia la gioconda e profonda fanfara della gioventù umana che non
ha il solo motivo, che ora si presta alla collettività operaia manuale, dell’interesse! Su! La fanfara
dell’idealità fraterna!».
1
Nota del giornalista.
3.2.8/12
Ma il Maestro non si decideva, richiedendo sempre che l’inno fosse dettato in volgare. Ed ancora
Pascoli incalza e pur consiglia, così scrivendo a Zandonai:
«Carissimo, è inutile; si tratta di un inno internazionale e gli studenti l’hanno voluto e vogliono
nella vera lingua internazionale che è il latino. D’inni italiani ne hanno già uno per la Federazione
Italiana. Ma pensi il nostro Maestro che un inno di tal genere si confà benissimo alla melodia un
po’ lenta, solenne, grave, quasi chiesastica com’è il tipo degli inni di guerra, della nazioni
germaniche!
«Faccia il Maestro questo piacere agli studenti di tutto il mondo!».
Ma le insistenze non sortirono l’effetto e l’inno latino, al pari del libretto sul Mefistofele,
rimasero senza musica.
507
Gianna Pederzini, «L’Impero», 21.1.1933 - p. 3, col. 2
Essere bella e gradevole di aspetto è per l’artista in genere e per la cantante in ispecie un’arma a
doppio taglio, un’arma che se si presta a far spuntare talvolta anche gli strali della critica più severa,
è anche facilmente reversibile sulle qualità intrinseche dell’artista stessa e destinata a oscurare con
la violenza del pregio esteriore quello più intimo e più difficile a valutare, della sensibilità e della
bravura.
È un po’ per la bella donna artista quello che avviene per il figlio del genio. Se la personalità di
questi non lanciasse aloni accecanti sulla sua creatura, questa potrebbe trovare la sua strada al
difuori della via paterna; così se la bellezza non ottenebrasse lo spirito di chi giudica l’artista, essa
potrebbe apparire qual è, in tutto lo splendore della sua pienezza artistica.
Dobbiamo quindi gridare al miracolo, quando l’arte, superando la bellezza o marciandole
accanto di pari passo, può far scindere le due personalità: fisica e spirituale, e farle l’una il
complemento dell’altra, in dipendenza perfetta e reciproca, aspetti ben definiti del medesimo
capolavoro.
Questo avviene per Gianna Pederzini, per questa delicatissima e appassionante interprete di tante
e tante figure, nate dalle profondità musicali del genio, per questa creatura espressa e rinnovata in
ogni attimo dalle varietà dei ritmi in cui la sua personalità si adagia e aderisce come in una forma
perfetta.
Ella, tra le architetture sonore che inquadrano il pensiero musicale, foggia volta per volta la sua
anima e la più bella parte di sé, abbandona alla canorità del fiume che trabocca dall’arco scenico
sugli spiriti attenti degli ascoltatori. In lei il canto si libera come una vibrazione, che dall’aria
pervenutale all’aria ritorni, trasformata in suono, propagantesi intorno a lei, a onde infinite e
armoniose, salienti a piramide, a cuneo, a globi iridescenti.
E questo senza perdere di vista il dramma, senza essere virtuosa fine a se stessa, senza che
l’interpretazione pecchi di umanità.
Sì che la bellezza della sua persona non soverchi né si lasci soverchiare.
Non si debbono chiudere gli occhi per guardarla, come molte, troppe volte avviene. Né per
sentirla bisogna guardarla. Al difuori delle linee del suo corpo ella costruisce la sua anima, la fa
varia e infinita, ardente e insinuante, camminante sui fili di metallo dei suoni, sulla rete dei bassi,
nei trapezi altissimi degli acuti.
E quando l’impeto si fa più tormentoso, e i violini accorrono galoppando a sostenerla
nell’immensità dello spazio e l’ascoltatore chiude gli occhi come per vertigine, ecco che riaprendoli
sulla serenità del suo bel volto nulla è distratto dalla sensazione sorvolata, essa rimane intera nel
suo spirito, come la più armoniosa delle realtà dopo i più pericolosi acrobatismi del sogno.
Così questa cantatrice e attrice eletta, per la sua arte non abbassa la bellezza e per la sua bellezza
non diminuisce la sua arte.
E quando ella scompare nel vortice dei suoni, ringoiata dagli ottoni o rimbalzata dagli archi fino
a sommità paradossali, ecco che soltanto allora il desiderio frenetico di rivederla fisicamente si fa
più forte e spasmodico, come se una compiuta armonia si fosse involata al nostro sguardo.
3.2.8/13
Questo è il ritratto della perfetta cantatrice come la sognammo negli anni in cui tale perfezione ci
parve irraggiungibile.
Questa è la realtà che ci riappare ora e che veramente può avere la fisionomia d’un miracolo.
508
Mario Rinaldi, La grande stagione estiva alle Terme di Caracalla, «La Tribuna», 9.1.1938 - p. 3,
col. 5-6
[...]
Ma la ventura stagione avrà un’altra grande attrattiva. L’anno scorso fu sperimentato, con grande
successo, il teatro “per” masse2 , quest’anno si tenterà invece il teatro “di” masse (senza venir
meno, come si è visto – ma anzi insistendo – sulla riuscita del primo esperimento). Il musicista
prescelto per sostenere una così ardua prova sarà Riccardo Zandonai il quale presenterà al giudizio
del pubblico romano un’opera nuovissima in un atto – della durata di circa un’ora –, ardita e ricca
di significati. Alludiamo agli Orazi e Curiazi su libretto del poeta Claudio Guastalla [...]3.
[...]
509
Renzo Rossellini, D’Annunzio in musica, «Il Messaggero», 27.3.1963 - p. 3, col. 1-2
Non metto il naso nelle cose di cui non ho stretta competenza, ma le seguo comunque con il
massimo dell’attenzione e dell’interesse nell’ansia di allargare quel patrimonio di idee generali che
è l’alimento primo di una coscienza umana. Seguo da semplice spettatore, dunque, nel caso
specifico, come si sta celebrando il centenario della nascita di Gabriele d’Annunzio. Mi sembra, da
quel che capisco, che quella odierna non sia una stagione felice per il poeta, un dì dominatore della
nostra società: quel tanto dei discorsi ufficiali in clima di celebrazione che ho letto o udito,
contenevano, per il vero, nonostante la precisa finalità di onorare il poeta in occasione di una
significativa data, più riserve che lodi: quando non riserve palesi, prudenti ma chiari accenni, un
modo di dire, in tutti i sensi, circospetto. Non me ne meraviglio, conoscendo, per vecchia
esperienza degli uomini e della storia, quanti elementi concorrano ineluttabilmente a condizionare i
giudizi critici, o addirittura i sentimenti, ad un particolare momento in cui si vive, e quindi si opera
o si agisce. So anche, perché è stato sempre così, che anche i valori dell’arte subiscono alternative,
nella evoluzione o involuzione dei tempi, che arrivano persino all’eccesso della negazione o della
affermazione. E per talune espressioni d’arte, a causa delle loro pronunziate caratteristiche,
l’alternativa dei giudizi e dei gusti è una regola fissa, fatale.
Ma credo di poter parlare, senza esorbitare dai limiti di una specifica competenza, di
D’Annunzio, in quanto poeta sempre ispiratore di musicisti e musiche, della sua presenza, dal punto
di vista critico e storico, nel mondo del pentagramma. È interessante osservare come e quanto la
poesia dannunziana abbia inciso nell’animo dei compositori del nostro secolo. Non v’è dubbio che
il teatro d’opera italiano, dopo la grande stagione verdiana e quella successiva – provvida di
successi che ancora oggi si mantengono – la cosiddetta “veristica” e che io ho sempre preferito
chiamare naturalistica, dando alla parola, si intende, un valore meramente convenzionale e di ordine
tecnico, non certo estetico, quel teatro d’opera italiano, volevo dire, guardò a D’Annunzio come ad
un “librettista” ideale per un grande rilancio di ordine poetico. Pizzetti, Zandonai, Montemezzi,
Malipiero, già preceduti da Franchetti, musicarono opere del teatro dannunziano. Mascagni si ebbe,
addirittura, un libretto originale: «Parisina». Uguale offerta fu fatta a Puccini, ma la cosa non trovò
seguito pratico. Sono anzi curiose le sollecitazioni di D’Annunzio a Puccini perché il compositore
informasse finalmente il suo teatro a più elevata poetica, mentre il musicista, pur così aperto e
2
3
La stagione ufficiale degli spettacoli estivi alle Terme di Caracalla si era aperta l'anno precedente.
v. sopra, Appendice 5, nota 14.
3.2.8/14
sensibile alle possibili evoluzioni di un linguaggio, ripudiò ogni offerta come non congeniale alla
sua Musa. E non ebbe torto, davvero.
Tre opere liriche, derivate dal teatro dannunziano, sono rimaste in primo piano nella nostra
recente storia della musica: «Fedra» e «La figlia di Jorio» di Pizzetti, «Francesca da Rimini» di
Zandonai. Non molto in quantità: ma questa è considerazione di scarsa importanza. Uno dei lavori,
ossia, che anche i critici avversi al D’Annunzio riconoscono forte, originale, genuino e, nel senso
pieno della parola, poetico: «La figlia di Jorio». Mentre della «Francesca da Rimini», opera lirica
vivissima e rivelatrice di un geniale talento musicale, non ho sentito parlare, da qualche decennio
ormai, come di lavoro significativo della produzione dannunziana. Mi pare che in senso negativo, a
torto o a ragione non voglio dire, si esprima su questa pagina teatrale, per lo più, la critica odierna.
Curioso, ma D’Annunzio non ha mai amato Zandonai, come ha altrimenti amato sopratutto
Pizzetti e poi Malipiero, Casella e Respighi. Credo che, addirittura, non abbia mai ascoltato l’opera
musicata da Zandonai: peggio sarebbe se l’avesse ascoltata, cosa che non posso escludere, perché
ciò vorrebbe dire non aver capito proprio niente. Io che fui in dimestichezza con Zandonai, uno dei
suoi intimi amici, non ho mai cercato di conoscere, per ragioni di delicatezza, quali furono i reali
rapporti tra il poeta ed il musicista. Mi parve di capire sempre, anche senza aver posto uno specifico
interrogativo, che c’era in Zandonai un’amarezza, qualcosa che doveva aver ferito l’animo suo,
dolce, generoso e nobilissimo. Certo la “disattenzione” di D’Annunzio verso Zandonai sarebbe già
bastata a ferire l’amor proprio di un autentico grande artista, artefice di un successo davvero
indiscutibile.
In questi giorni, quasi sollecitato dalle tante riserve espresse verso l’opera di Gabriele
d’Annunzio, mi sono appassionato a stabilire un diretto raffronto tra l’“originale” della «Francesca
da Rimini», la riduzione librettistica, infine il dramma musicale nella sua unità espressiva. Ne ho
tratto conclusioni interessanti. Il libretto dell’opera zandonaiana nient’altro è che un’edizione
sfrondata ed alleggerita di molti versi del dramma, anzi della tragedia originale. Sono rimaste le
parole essenziali all’azione, le situazioni stesse nella loro pura e semplice successione. Tutto
l’aulico, il decorativo, il virtuosismo prestigioso della dialettica dannunziana è scomparso. Ma non
la poesia che, anzi, se n’è avvantaggiata. Da questa poesia, così scarnita, semplice e direttamente
comunicativa, i personaggi, gli avvenimenti, la preziosa ambientazione, sono vivificati. La musica,
con il suo miracoloso potere di trasfigurazione, con la sua forza evocativa, ha colto della poesia il
profumo e la umanità, ha creato un mondo nuovo. Mi pare che senza la musica di Zandonai la
«Francesca da Rimini» non abbia ragione d’essere e la storia, in questo senso, ce ne dà piena
conferma: da cinquanta anni l’opera di D’Annunzio-Zandonai si rappresenta e si seguita a
rappresentare, mentre il dramma “originale” non appare più sulle scene.
Ho detto “profumo e umanità” della poesia dannunziana e non sembra quasi possibile che si
possa porre l’accento su questi due elementi, e sul secondo sovrattutto, che sono primariamente
caratteristiche di altri mondi poetici. Eppure la “tragedia” nella sua espressione “librettistica” risulta
proprio così. Cito i pochi esempi che possono essere, per questo verso, significativi. Il coro delle
donne: «Oimè che adesso io provo/che cosa è troppo amore». Le parole di Francesca: «Come
l’acqua corrente/che va, che va, e l’occhio non s’avvede/così l’anima mia...». E quelle di
Samaritana alla sorella: «Non te ne andare! Non m’abbandonare/ch’io faccia ancora/il mio piccolo
letto accanto al tuo/che la notte io ti senta!». E l’interrogativo di Donella: «Oh, piange! Perché
piange?», al quale Biancofiore risponde: «Perché il cuore le duole d’allegrezza».
Siamo nel clima, davvero, di un’umana, profumata poesia. L’occhio scorre ancora altri versi, che
sono un prodigio di sintesi, addirittura di semplicità. le parole di Francesca: «Chi mi possiede? un
demone mi tiene./Non so pregare, non so più pregare...». E l’invocazione della donna amante e
smarrita: «Paolo, datemi pace!/È dolce cosa vivere obliando,/almeno un’ora, fuor della
tempesta/che ci affatica./Non richiamate, prego,/l’ombra del tempo in questa fresca luce/che alfine
mi disseta./Pace in questo mare/che tanto era selvaggio/ieri, et oggi è come la perla. Datemi,/datemi
pace!». D’Annunzio, per le necessità librettistiche, scrisse solo pochi versi, che non sono nel testo
originale. Mi sembra che siano tra i più belli dell’intera “tragedia”. Si dice Paolo: «Nemica ebbi la
luce,/amica ebbi la notte,/ove su dal silenzio di me stesso/nata e dal fondo dell’eterna doglia,/simile
alla sorgente che disseta/e simile alla fiamma che riarde,/freschezza e incendio, lenimento e
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piaga,/or torbida, ruggente come fiaccola, or mite come lampada,/una visitatrice/si chinava su me,
quasi a nudrirsi/dell’assidua mia veglia;/e, quando si partiva/al tremar delle stelle,/non più foco né
fonte,/era, ma il vostro viso...».
Forse si può concludere che il teatro di D’Annunzio deve a due musicisti italiani, a Zandonai ed
a Pizzetti, la forza di essere oggi e di proiettarsi nel futuro. E sono i musicisti che hanno saputo più
profondamente penetrare, possedere, comprendere una ragione poetica, una poesia in quanto tale:
come c’insegna la lirica «I pastori», che è al culmine dell’estro creativo di Ildebrando Pizzetti.
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O. Cavara, Panorama di Roma musicale, «Il Corriere della sera» (Milano), 10.2.1922
Roma, 9 febbraio.
La prima rappresentazione di Giulietta e Romeo, fissata per martedì prossimo, offrirà occasione
ai vari mondi musicali di Roma di comporre, al Costanzi, sia pure per una sera, un mondo solo.
L’opera nuova di Zandonai e di Rossato passerà traverso diverse sensibilità, culture di vario
spessore, ognuna corrispondente alle istituzioni che diffondono a razioni la musica, in alcuni giorni
della settimana: al lunedì la Filarmonica romana; al martedì la Sala Back [!]; al giovedì la Sala
Sgambati; al venerdì l’Accademia Santa Cecilia – tutte e quattro specializzate nella musica da
camera –; e alla domenica, di mattina la banda Vessella e nel pomeriggio l’Augusteum.
Sicuro, anche la banda Vessella va annoverata. Essa ha avuto una influenza sensibile nella
passione musicale del popolo romano, passione che del resto è antica. Palestrina fondò
l’Accademia, Stendhal ebbe l’impressione che Roma fosse il centro musicale del tempo. Tuttavia
Vessella, in gioventù, dovette combattere qualche battaglia. Erano celebri i suoi concerti in piazza
Colonna, al mercoledì e al sabato. La piazza risuonava, come un tempio dell’arte, di Bach,
Beethoven e Chopin, traverso le riduzioni per banda del popolare direttore. Quando ancora non
esistevano le attuali sale da concerto, Vessella peregrinava con una sua orchestra dall’Argentina
all’Adriano. E intorno a lui, sia in teatro che all’aperto, due partiti ingaggiavano contese artistiche
imperniate su due evviva opposti: uno alla musica italiana e l’altro alla musica tedesca.
Tre gironi...
Con l’apertura, avvenuta dieci anni or sono, dell’Augusteum – creazione dell’Accademia
palestriniana – la vita musicale di Roma assunse un tono più solenne ed il gran pubblico dei
concerti si colorì di cosmopolitismo. Non v’è forestiero, ormai, che nell’elenco delle visite
d’obbligo non metta, accanto a S. Pietro ed al Pantheon, l’Augusteum, il vasto anfiteatro capace di
accogliere 4000 spettatori, con in fondo il grande organo e intorno vari... gironi: quello degli
ipercritici, un altro dei romantici, un terzo dei curiosi... Gl’ipercritici sfoggiano la loro personalità
in occasione della musica inedita e dei direttori non ancora battezzati a Roma. I romantici si
riconoscono per il loro atteggiamento: la testa fra i pugni chiusi, gli occhi sognanti, meditazione e
immobilità durante gl’intervalli. Ricordano le figure del Balestrieri.
I curiosi – la maggioranza – sofisticano poco e applaudono molto, ammirano persino la
ginnastica dei professori alle prese con gli archetti e i direttori che si sbracciano e si scompongono
la chioma. Ogni maestro, celebre o no, gradisce dirigere all’Augusteum. Però i dirigenti vogliono
conservare all’istituzione l’importanza di traguardo della fama e di palestra dei più quotati valori
internazionali. Quest’anno i grandi nomi sono meno fitti. Toscanini è alla Scala, Mengelberg è in
America, Strauss è impegnato a Vienna.
All’Augusteum ed alle altre sale da concerto si dedica un gruppo di critici – riservato all’arte
pura –; un altro gruppo si occupa della musica meno pura, quella di teatro, e un terzo non fa
distinzioni tra l’una e l’altra. Così Roma ha la fortuna di possedere la maggiore collezione di
musicofili: una ventina circa, di cui in maggior parte anche compositori. I critici romani
rappresentano i più svariati punti di vista, le tendenze di ogni graduazione: il pubblico trova in essi
tutto quanto desidera. Tuttavia non mancano gl’insoddisfatti. Una volta incontrò serie opposizioni
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Matteo Incagliati che per censure rivolte ad una esecuzione beethoveniana si sentì dire,
all’Augusteum, appena giunto alla sua poltrona: -Fuori dalla sala!
Incagliati, che è il più francescano dei critici, rimase a sentire la musica: quella del gruppo che
urlava in galleria e quella dell’orchestra. Al successivo concerto egli, avendo riconfermato le sue
osservazioni, fu di nuovo attaccato con tanto di “fuori”. E lui dentro. L’episodio fu l’unico caso di
martirio che la cronaca musicale registri. Ma almeno Roma non è afflitta come Milano da
premières contemporanee. Se Milano ha tre teatri d’opera aperti d’inverno, Roma ne possiede uno
solo: il Costanzi. Chi va alle prove del Costanzi può sentire in palcoscenico, o nel botteghino, o
lungo i corridoi, i discorsi di Walter Mocchi, il capo dell’azienda, il quale parla sempre – con
facondia e paradossi – benché sia permanentemente afono. La sua oratoria è un postumo del suo
periodo sindacalista quando, con Monicelli, organizzò, nel 1904, lo sciopero generale a Milano.
Per fortuna egli si innamorò poi di Emma Carelli, che allora cantava e adesso fa cantare gli altri
essendo essa la sola donna in Italia che diriga un teatro: il Costanzi. Poiché al matrimonio MocchiCarelli si opponevano diversi ostacoli, i fidanzati ruppero gli indugi a Perugia, trascinando innanzi
al sindaco, in qualità di testimoni, due uscieri del Municipio, scelti all’ultimo momento. E dagli
sponsali nacque l’alleanza fra i teatri Costanzi e Colón i quali, non tenendo conto dell’Atlantico, si
scambiano ogni anno gli spettacoli: a Buenos Aires sfilano d’estate le opere e gli artisti che Roma
ha sentito d’inverno. Walter Mocchi fa l’italiano in America e l’americano in Italia. Per il Costanzi
i rapporti intimi con teatri lontani sono una tradizione. Nel 1887 l’Otello della Scala vi fu
trasportato in treno speciale e vi si replicò quindici sere.
Ma la data di cui va sopra tutto orgoglioso il Costanzi è il 1890: rivelazione della Cavalleria. E
ancora oggi il mito mascagnano è quanto mai prospero. Se qualche maligno osasse insinuare che un
coefficiente della “cotta” romana per Mascagni è rappresentato dalla pittoresca estetica del maestro
livornese, ecco che la leggenda viene distrutta – oltre che dalle predilezioni per Puccini – da un
altro compositore-direttore il quale dall’estetica non ricava alcun effetto: Riccardo Zandonai, che si
è insediato al Costanzi, ne ha inaugurato la stagione con Francesca, ve l’ha diretta dieci sere ed ora
vi mette in iscena la Giulietta.
Alle prove di «Giulietta»
Zandonai intorno alla primizia non fa mistero – non fa conclave, dicono i romani – e le prove si
svolgono a porte aperte, nel senso che un indiscreto può arrivare fino alla sala e scoprire l’autore
mentre dal podio è alle prese coi Capuleti e coi Montecchi. In poltrona sono due zandonaiani per
eccellenza: il dott. Tancredi Pizzini di Milano e Nicola d’Atri. Pizzini conobbe Zandonai presso una
famiglia milanese, quando l’autore di Francesca era persino più basso di adesso, diciassettenne,
squattrinato, suonatore d’orchestra, con una faccia lunga lunga, mezzo famelica e mezzo ispirata.
Pizzini, benché medico e mondo di musica, si promosse al grado di mecenate dell’arte zandonaiana.
Da quando le opere del suo prediletto hanno preso il volo, egli pianta in asso i suoi ammalati e
viaggia per l’Italia per sentirle. E intanto i clienti – dice Zandonai – guariscono.
A un certo punto della biografia zandonaiana, ecco Nicola d’Atri, il quale, in articoli e in
conferenze, in discussioni e in confidenze, auspicò per anni l’avvento di un nuovo maestro italiano,
sensibile alle varie correnti nuove, capace di fondere armoniosamente la melodia con la sinfonia, il
colore con la linea, il substrato tematico con l’estro generoso. Ed al suo sogno Nicola d’Atri ha
visto accostarsi Riccardo Zandonai. D’Atri si è battuto per lui, in iscritto e a voce, come fece per la
fondazione dell’Augusteum, per la valorizzazione di compositori, di concertisti; per la divulgazione
in Italia di interessanti innovazioni estere.
Ora egli si definisce un critico in pensione. Scrive poco e agisce assai. Tutta la sua giornata è
essenzialmente musicale. Alla mattina è sul palcoscenico che controlla – spartito alla mano – le
prove di scena e Zandonai che batte il tempo. Al pomeriggio Nicola d’Atri è in commissione con
innanzi venticinque spartiti inediti. Si tratta della Commissione permanente di lettura, istituita dallo
Stato per la scoperta del genio ignoto. Alla sera D’Atri è all’Augusteum per disporre, con gli altri
della Commissione, il programma. Oh, i programmi! Il pubblico, a forza di propaganda, è diventato
difficile e mette in imbarazzo i propagandisti dell’arte bella. Ecco quello che succede a far del bene.
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3.2.8. Articoli di contorno - Biblioteca civica di Rovereto