ISSN 2039-6503 OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA n. 2 - aprile-giugno 2013 Anno VI - n. 2 - aprile-giugno 2013 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Avvocatidifamiglia Il diritto collaborativo L’appello nelle controversie di famiglia La giurisprudenza sul 709 ter cpc Il risarcimento per danno endofamiliare Avvocatidifamiglia OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA Avvocati di famiglia Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Nuova serie, anno VI, n. 2 - aprile-giugno 2013 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Amministrazione Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Centro studi giuridici sulla persona Via Nomentana, 257 - 00161 Roma Tel. 06.44242164 - Fax 06.44236900 ([email protected]) Direttore responsabile avv. 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Un metodo nuovo per risolvere il conflitto familiare 2 (Matilde Giammarco) Interventi a sostegno dei genitori ed il ruolo dei difensori 5 (Michela Labriola) Dibattito L’alienazione genitoriale. “Un figlio diviso a metà” salomonicamente parlando! 53 (Corte d’Appello di Brescia, Sezione per i Minorenni Decreto del 17 maggio 2013) Il punto di vista (Maria Teresa De Scianni) 60 Documenti Studi e ricerche L’appello “Giano bifronte”. Note sulla riforma dell’appello comune e l’appello nelle controversie di famiglia 8 (Claudio Cecchella) Il risarcimento del danno endofamiliare 24 (Mauro Paladini) La giurisprudenza commentata Il punto di vista della giurisprudenza in tema di art. 709 ter c.p.c. 37 (Sara Maffei) Giurisprudenza Le sentenze più importanti negli ultimi due anni 44 Un decalogo sull’ascolto del minore 46 (Cass. Civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687) L’obbligo di mantenere i figli perdura fino alla loro autosufficienza economica 49 (Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2013, n. 11020) Protocollo del Tribunale di Reggio Emilia per le cause in materia di famiglia. Giudizi di separazione, divorzio, affidamento dei minori nati fuori dal matrimonio e relative modifiche. 64 In libreria L’udienza presidenziale Analisi delle singole fasi e strategie processuali 71 (a cura di Livia Pomodoro) Aspetti fiscali della separazione e del divorzio 72 (Salvatore Dammacco) Il processo penale minorile 72 (Armando Macrillò, Fulvio Filocamo, Guido Mussini, Debora Tripiccione) Infedeltà coniugale e risarcimento del danno 73 (Giovanni Iorio) La riforma della filiazione Aspetti personali, successori e processuali L. 10 dicembre 2012, n. 219 74 (Maria Dossetti, Mimma Moretti, Carola Moretti Introduzione di Francesco Delfini) L’inadempimento all’obbligo di mantenimento. Una sentenza tutta sull’art. 156 c.c. 50 (Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2013, n. 9671) aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 1 L’AVVOCATO FAMILIARISTA LA PRATICA COLLABORATIVA: UN METODO NUOVO PER RISOLVERE IL CONFLITTO FAMILIARE AVV. MATILDE GIAMMARCO RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI CHIETI DELL’OSSERVATORIO a pratica collaborativa o diritto collaborativo è un metodo nuovo, una efficace alternativa al procedimento giudiziario, per chi si trova a dover affrontare un momento conflittuale della propria vita familiare e di coppia. Il paradigma del processo collaborativo è stato elaborato nel 1989 da Stuart Webb, un avvocato familiarista americano, il quale aveva compreso che la risoluzione giudiziaria del conflitto nella separazione e nel divorzio procura molti e gravi danni alla famiglia a volte ben più gravi dello stesso processo separativo1. È lo stesso avvocato americano, infatti, a dare in una lettera indirizzata al Giudice della Corte Suprema del Minnesota A.M. “Sandy” Keith alcune indicazioni fondamentali sul perché della pratica collaborativa: “Un punto debole della mediazione credo sia il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato fuori da tale processo ai suoi esordi (questo a volte può essere un vantaggio!). In realtà si lascia fuori non solo l’atteggiamento fazioso e conflittuale ma anche la capacità analitica e l’abilità di trovare soluzioni ragionevoli ai problemi creando alternative costruttive ed un ambiente favorevole al reperimento di un nuovo assetto”.2 L’avvocato americano definisce, quindi, la pratica collaborativa come un metodo nel quale attori principali del percorso insieme alle parti sono gli avvocati, e questo sicuramente differenzia l’esperienza dal procedimento di mediazione che invece è, per definizione, un procedimento delle parti ed esclusivamente con le parti, alla presenza del mediatore, terzo neutrale.3 Entrambi i soggetti, parti ed avvocati, si impegnano insieme a ricercare ogni soluzione efficace e L 2 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 complessiva a tutte le problematiche, personali e patrimoniali connesse al loro conflitto familiare, in un clima positivo che consenta di far nascere alternative creative nell’ambito delle trattative per definire la situazione familiare.4 Il ruolo dell’avvocato, quindi, del “buon avvocato” o dell’”avvocato collaborativo” come lo definisce Webb, deve essere quello di fornire assistenza e consulenza nella ricerca della migliore soluzione possibile avvalendosi, però, esclusivamente delle tecniche di negoziazione per un approccio consensuale alla “lite”, modalità, queste, che non vengono generalmente utilizzate nei processi giudiziari. Si tratta, quindi, di una pratica, di un modo di assistere il proprio cliente molto distante dalla difesa in senso “tecnico”, che trae ispirazione dalle altre forme di contrattazione extragiudiziale quali la mediazione e la negoziazione e, per tale ragione, richiede una specifica formazione che segua degli standard formativi. In particolare si fa riferimento a quelli predisposti ed indicati dall’International Academy Of Collabarative Professionals (IACP) per i quali “Il professionista collaborativo dovrà completare una formazione minima di 12 ore in diritto collaborativo/pratica collaborativa o in pratica collaborativa interdisciplinare conforme agli standard minimi IACP per professionisti collaborativi prima di iniziare un caso collaborativo o impegnarsi in una pratica collaborativa interdisciplinare”.5 Come viene sintetizzato nei principi dello IACP, anche se la Pratica Collaborativa può atteggiarsi secondo diversi modelli, “il percorso collaborativo si distingue dal tradizionale procedimento contenzioso per alcuni elementi imprescindibili ed inviolabili: - Negoziare un accordo condiviso senza demandare al giudice la risoluzione della controversia insorta tra le parti, o anche solo di un aspetto do essa; - Obbligo dei professionisti di non assistere il cliente nell’eventuale giudizio contenzioso; - Impegno delle parti e dei professionisti ad una comunicazione aperta ed alla condivisione delle informazioni; - Creare soluzioni condivise che tengano conto della più alta priorità di entrambi i clienti”.6 È un metodo di lavoro rigoroso centrato sul cliente e controllato dal cliente che segue un percorso tecnico preciso. Innanzitutto l’incontro dell’avvocato con il cliente per la presentazione del metodo collaborativo “L’avvocato collaborativo informerà il cliente sull’intera gamma di opzioni procedurali disponibili per risolvere le controversie legali proprie del suo caso. Fornirà una chiara spiegazione del procedimento collaborativo comprendendo gli obblighi del professionista e del cliente nel procedimento così che il cliente possa assumere una decisione informata nella scelta L’AVVOCATO FAMILIARISTA del procedimento. Assisterà il cliente nell’individuare aspettative realistiche nel procedimento collaborativo e rispetterà l’autodeterminazione del cliente, nella consapevolezza che alla fine è responsabilità del cliente assumere le decisioni che portino alla soluzione delle proprie controversie”.7 Per quanto concerne la pratica collaborativa l’avvocato renderà edotto il proprio cliente che riceverà un incarico relativamente ed esclusivamente volto al raggiungimento dell’accordo e non potrà prestare la propria attività professionale nell’eventuale giudizio contenzioso tra le parti qualora il percorso collaborativo dovesse fallire.8 Questo, che apparentemente potrebbe sembrare un eccessivo dispendio di energia sia in termini personali che in termini economici, soprattutto nell’ipotesi di fallimento, rappresenta, in realtà, il punto di forza per qualsiasi modello di prassi collaborativa e richiamato esplicitamente negli standard etici IACP per i professionisti collaborativi. Sia le parti che i professionisti sanno di avere, come una squadra, l’unico scopo del raggiungimento dell’accordo soddisfacente per entrambe e lavorano con competenza e convinzione per raggiungere tale obiettivo senza la minaccia del ricorso alle vie giudiziarie ed il fallimento di tale percorso rappresenta un fallimento di tutti. Tutti i membri del team, avvocati e specialisti, sottoscrivono una sorta di contratto “partecipation agreement” che costituisce il quadro entro il quale devono operare. La parte sarà sempre presente agli incontri interagendo con l’altra parte e gli avvocati perché solo attraverso questo continuo confronto sarà possibile individuare le soluzioni che soddisfano gli interessi di tutte le parti. Il secondo passaggio fondamentale è l’incontro con il cliente volto alla preparazione del procedimento attraverso, innanzitutto l’individuazione delle aspettative realistiche, degli interessi delle parti in gioco. Il momento centrale del percorso è rappresentato dall’incontro tra tutte le parti ed i loro avvocati che attraverso la pratica di una attenta negoziazione dovranno andare verso un accordo soddisfacente per entrambe le parti facendo sì che gli avvocati ed i professionisti coinvolti non “contribuiscano” al conflitto del cliente.9 In tale modello di composizione, infatti, al pari di quanto accade nel percorso di mediazione, rilevano non solo i “diritti” delle parti suscettibili di tutela dal punto di vista dell’ordinamento, ma anche e soprattutto gli “interessi” di ognuno di loro, che spesso trovano la loro soddisfazione in modo diverso da quanto previsto per i diritti e, che comunque, devono essere presi in considerazione non considerando l’altra parte come una “controparte”, ma assumendo il paradigma culturale “si vince solo se vincono tutti” perché l’interesse dell’una parte è strettamente interdipendente con l’interesse dell’altra parte.10 aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 3 L’AVVOCATO FAMILIARISTA Altrettanto fondamentale, in tal senso, diviene la individuazione delle ragioni sottese alle singole posizioni, comprensione anche questa necessaria per superare la logica della trattativa basata sulla contrapposizione, caratterizzante qualsivoglia transazione “tradizionale” anche stragiudiziale, per entrare invece in quella “collaborativa” centrata sulla soddisfazione degli interessi di entrambe le parti. Tutto questo comporta che le parti e gli avvocati che le assistono devono impegnarsi a fornire in completa trasparenza tutte le informazioni poiché “nessun partecipante ad un procedimento collaborativo sia professionista o cliente, può consapevolmente tacere o mentire su informazioni rilevanti per il procedimento collaborativo o in altro modo agire od omettere di agire così da consapevolmente minare o trarre vantaggio dal procedimento collaborativo, pena la rinuncia del professionista collaborativo al mandato o la rimessione del mandato al professionista e la chiusura del procedimento collaborativo”.11 A fronte di tale marcata e completa esposizione delle parti, parimenti che nel procedimento di mediazione, tutte le informazioni ed i documenti forniti nel procedimento ed accessibili all’altra parte sono coperti dalla riservatezza alla quale tutti si impegnano ed l’avvocato collaborativo “potrà rivelare informazioni riservate solo con il permesso del cliente in accordo con quanto pattuito nell’accordo di partecipazione”. E non solo. Al percorso di risoluzione del conflitto, secondo la metodica collaborativa possono, essere chiamati sempre su accordo delle parti professionisti esperti in singoli ambiti quali esperti di contabilità, commercialisti, notai, ingegneri, psicologi. Ovviamente tutti i professionisti che trattano un caso secondo la “pratica collaborativa” devono ispirare il loro operato ai medesimi principi e devono adottare le medesime metodologie, questo per evitare, come accade nei percorsi “tradizionali” di transazione, la strumentalizzazione e l’eccessiva esposizione di una parte rispetto ad un’altra. Tutto questo evidenzia come la pratica collaborativa, che ha avuto un indubbio sviluppo in paesi nei quali gli strumenti di risoluzione alternativi del conflitto hanno trovato da molto tempo una buona pratica, necessita, per operare efficacemente, innanzitutto dell’acquisizione di un nuovo paradigma culturale per quanto riguarda l’approccio alla “lite”, intesa come una “opportunità di confronto”, nonchè la costruzione di una rete di professionisti “collaborativi”12 qualificati che assista le parti nel percorso di costruzione della soluzione migliore al loro problema in un momento in cui, qual è quello della “disputa”, tutte le circostanze inducono ad aver paura di subire una soluzione, per di più la “peggiore possibile”.13 Note 1 Stuart G. Webb - avvocato di Minneapolis - autore tra l’altro di The collaborative way to divorce - Plume Books, 2007 cfr. con Pauline Tesler e Peggy Thomson entrambe avvocati di San Francisco - autrice tra l’altro di Collaborative Divorce. 2 Lettera da Stuart G. Webb all’On.le A.M. Sandy” Keith Giudice Suprema Corte del Minnesota 14 febbraio 1990. 3 Idem “un punto debole della mediazione credo sia il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato fuori da tale processo ai suoi esordi (questo a volte può essere un vantaggio! In realtà si lascia fuori non solo l’atteggiamento fazioso e conflittuale ma anche la capacità analitica e l’abilità di trovare soluzioni. 4 Ibidem. 5 IACP - International Accademy of Collaborative Professionals con sede a Phoenix Arizona composta da avvocati, commercialistici, psicologi che applicano la pratica collaborativa. Formazione attraverso l’acquisizione di tecniche di negoziazione, ascolto attivo, conduzione del colloquio attraverso domande strutturate. tecnica del riassunto e della sottolineatura, brainstorming. 6 I principi della Pratica Collaborativa - IACP 24 gennaio 2005. 7 Gli standard etici IACP per i professionisti collaborativi. 8 Ibidem. 9 Standard etici per professionisti collaborativi dello IACP si dice che “il professionista collaborativo eviterà di contribuire al conflitto del cliente”. 10 cfr - R. Fisher e W. Ury - L’arte del negoziato - Corbaccio Editore. 11 Standard etici dello IACP per professionisti collaborativi. 12 In Italia aderiscono ai principi della pratica collaborativa l’AIDAC Associazione Italiana Avvocati di Diritto Collaborativo con sede a Milano e l’IICL - Istituto Italiano di diritto collaborativo con sede a Roma. 13 R. Fisher e W. Ury - L’arte del negoziato - Corbaccio Editore. 4 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 L’AVVOCATO FAMILIARISTA INTERVENTI A SOSTEGNO DEI GENITORI ED IL RUOLO DEL DIFENSORE AVV. MICHELA LABRIOLA RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI BARI DELL’OSSERVATORIO uando un genitore in crisi coniugale bussa alla porta dello studio legale ha già attraversato le “forche caudine” della consulenza con i parenti e gli amici e, raramente, quello stesso genitore/coniuge in crisi, si è già preventivamente rivolto alle strutture di sostegno alla famiglia private o pubbliche esistenti sul territorio, o ad un ufficio di mediazione. La prima difficoltà dell’avvocato familiarista, nell’approccio col cliente, sta nel creare quel trait d’union tra le istanze emotive, che sono quasi sempre prevalenti, e quelle richieste di risoluzione del problema tecnico giuridico, così fornendo le risposte di tutela possibili nell’ambito della separazione o del divorzio. Non vi sono problemi assolutamente irrisolvibili e la tutela del figli è il primo passo da cui partire. Talvolta il rapporto già esistente tra genitori e figli si presenta inadeguato a trovare quelle soluzioni di benessere, successive alla rottura del rapporto coniugale, “È stato infatti dimostrato che è nella relazione con i genitori che il bambino costruisce la propria visione del mondo e di sé nel mondo, attribuendo significati alla realtà e costruendo una propria identità personale. La tutela del minore non può quindi prescindere dalla tutela del legame che questi ha con la sua famiglia d’origine.” Relazione del Comune di Parma a sostegno della genitorialità. È importante comprendere preliminarmente le caratteristiche della famiglia. Le regole che hanno equilibrato il rapporto coniugale ed i ruoli familiari a cui i genitori si sono attenuti, nella crisi della famiglia sono sovvertite producendo una interruzione della comunicazione e della condivisione delle scelte educative, costringendo spesso i figli ad una schizofrenica altalena tra un genitore e l’altro. Se nella difesa e nelle decisioni processuali da intraprendere ci si muove spinti dal dolore che viene comunicato dal cliente, significa che è in atto un’identificazione con loro e con i loro sentimenti. Il rischio di tale identificazione è quello che la tutela del minore sarà subordinata al “benessere apparente” di uno dei due genitori. La principale fonte normativa di tutela della famiglia e della prole è la Costituzione Italiana, infatti, l’art. 29 prevede, al secondo comma, che “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”. Norma che contiene in sé una ottimistica previsione prospettica che individua nello Q Stato e nella legge la tutela della inadeguatezza genitoriale. Quali strumenti vengono forniti dunque al genitore “incapace” nel nostro ordinamento? Un cattivo funzionamento familiare può dipendere da svantaggi materiali, mancanza di sintonia nella coppia (insoddisfazione, conflittualità, trascuratezza nei rapporti reciproci), isolamento socio culturale, patologie fisiche o psichiche, violenze e dipendenze, incuria od ipercura dei minori. Il compito, quali difensori nell’ambito del diritto di famiglia, è quello di guardare tra le maglie di un racconto familiare, per interpretare il disagio dei figli, al fine di indicare al cliente eventuali strumenti di supporto alla genitorialià. In alcune famiglie “multiproblematiche”, è presente il rischio di una interruzione o un condizionamento del processo di sviluppo del minore che, se severo, richiede interventi per la sua maggior protezione. L’adattamento dei figli alla situazione di crisi familiare è tanto più agevole qualora il dialogo tra i genitori non sia interrotto da un livello di altissima conflittualità. “La rottura coniugale, pertanto, può essere benefica o nociva per i minori, a seconda che riduce o aumenta la quantità di stress cui sono esposti. In particolare, se la separazione viene percepita come inaspettata, sgradita e incontrollabile, aumenta le situazioni stressanti (come il calo del tenore di vita, la perdita di contatto con un genitore e lo spostamento dell’abitazione) e può portare ad una serie di conseguenze come bassi risultati scolastici, problemi emotivi, comportamentali, perdita di affetto per i genitori, difficoltà a formare, a lungo termine, rapporti intimi.” (Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laura Migliorini Nadia Rania Editori Laterza). La divisione della famiglia è un elemento di fragilità della stessa, segna un nuovo corso nella vita degli individui e sull’analisi di tale fragilità vanno individuati gli strumenti di tutela. La separazione è un evento dinamico ed in evoluzione ed implica il passaggio attraverso più fasi, aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 5 L’AVVOCATO FAMILIARISTA quella iniziale della scelta/decisone e, in molti casi dell’abbandono, quella del giudizio e quella della elaborazione più o meno consapevole del contenuto del provvedimento del giudice. In quest’ultima fase il compito dell’avvocato è quello di aiutare il cliente ad accettare quelle dinamiche giudiziarie difficili da interpretare, ad accettare che la decisione del giudice non è vincente o perdente, perché ciò significherebbe avere la percezione di aver condotto una “battaglia”. Nel 2006 la normativa sul c.d regime di affidamento condiviso - previsto quale regime primario della modalità di affidamento dei figli ai sensi degli artt. 155 e ss. cod.civ - ha introdotto il nuovo concetto di “bigenitorilità”, a sostegno del rapporto paritario tra entrambi i genitori ed i figli. Nella prassi di tutti i tribunali italiani l’applicazione del principio della bigenitorialità, probabilmente, ha delineato un positivo percorso verso una maggiore consapevolezza genitoriale, ma talvolta ha indotto, di contro, l’utilizzo strumentale del potere di “veto” su di una scelta relativa al minore per bloccare il corretto sviluppo educativo dello stesso. Nello stesso anno l’introduzione dell’art. 709 ter c.p.c. ha previsto un controllo giurisdizionale sul regolare funzionamento della “bigenitorialità”. L’art. 709 ter c.p.c. è previsto a tutela dei figli minori, anche se in esso è contenuta una espressa previsione risarcitoria nei confronti dell’altro genitore, iure proprio. 6 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 La necessità di introdurre una norma che individui con precisione l’intervento del giudice a tutela del pregiudizio dei figli (fornendo quasi una delega al magistrato sulle modalità dell’affidamento e sottraendo alla libera determinazione dei genitori in lite le decisioni) e che “congiuntamente” preveda una misura sanzionatoria nei confronti del genitore inadempiente, può essere spiegata, in linea di fatto, dalla conflittualità che tende ad emergere a seguito dell’emissione del provvedimento relativo ai figli in sede di separazione e divorzio o nullità del matrimonio. Quindi, nel corso di giudizio, al giudice di sovente viene chiesto di intervenire sulle modalità di affidamento, e gli avvocati hanno il dovere di collaborare, una decisione d’autorità non potrà fornire quelle risposte di tutela della serenità dovute ad un bambino. La conflittualità esercita sul figlio uno stress che solitamente i genitori non sono in grado di gestire, perché troppo presi dalla loro lite, per condividere con empatia il disagio del figlio. Il difensore della famiglia ha l’obbligo deontologico di favorire il mantenimento di un legame familiare, suggerendo le modalità per la ripresa di una sana collaborazione e comunicazione tra gli adulti. La reazione del figlio di fronte alla separazione può implicare che gli equilibri familiari vengano fortemente condizionati a se- L’AVVOCATO FAMILIARISTA conda dei rapporti di forza e dalle alleanze dei figli con un genitore, oppure da un “conflitto di lealtà” nei confronti dei due genitori. In corso di causa le dinamiche del disagio potranno essere affrontate e diagnosticate dal consulente tecnico d’ufficio, a cui, ormai sempre più, va richiesto un intervento che vada nel senso della individuazione, altresì, del percorso familiare che ricostruisca, ove sia interrotta, la relazione genitoriale, anche accedendo a quei supporti sociali presenti sul territorio. “Ogni considerazione concernente il miglior affidamento e luogo di abitazione del minore deve essere fondata e sostenuta sulla base delle ricerche scientifiche più aggiornate, che indicano che il minore sviluppa un legame di attaccamento verso entrambe le figure genitoriali e trae vantaggio, in termini evolutivi, dal mantenimento di una relazione continuativa ed equilibrata in termini di tempo e suddivisione degli impegni educativi con entrambi i genitori” (premessa alle Linee giuda per la consulenza tecnica in materia di affidamento dei figli a seguito di separazione dei genitori Prtocollo di intesa col tribunale di Milano). Recentemente sono stati sottoscritti in diversi tribunali protocolli di intesa che recepiscono le Convenzioni ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, attraverso guide metodologiche relative alla consulenza tecnica in materia di affidamento dei minori. Oltre alla consulenza tecnica d’ufficio “l’offerta di risorse per la coppia o i componenti della famiglia separata è varia e comprende interventi di sostegno, tra i quali la mediazione familiare, il counseling e/o la psicoterapia dei singoli e delle coppie, i gruppi di auto-mutuo aiuto, ed interventi di valutazione e controllo sociale finalizzati a valutare i rischi e salvaguardare i legami, come la consulenza tecnica d’ufficio ed il servizio nello spazio neutro. Recentemente si stanno diffondendo i gruppi di supporto per i genitori ed i gruppi di parola destinati ai figli dei separati, che offrono uno spazio-tempo alternativo alla sede giudiziaria in cui diventa possibile fermarsi, elaborare e condividere l’esperienza della separazione all’interno dei gruppi” (Psicologia e Giustizia anno 13 numero 2). L’applicazione della bigenitorialità deve passare attraverso una prospettiva culturale nuova, che coinvolga anche altre figure professionali. La nascita in alcune città d’Italia dei c.d. Gruppi di Parola ha contribuito a riempire quei vuoti di supporto alla famiglia in crisi. I Gruppi di Parola “si possono definire un “luogo” e un “tempo” offerto ai figli di genitori separati, affinché questi abbiano la possibilità di accedere ad una loro narrazione dei fatti dolorosi legati al divorzio. Si tratta di un’esperienza in cui il minore può costruire liberamente una rappresentazione verbale dell’esperienza del conflitto vissuto quotidianamente, può dar voce ai suoi desideri e reperire con l’aiuto del gruppo di pari e con la guida protettiva del conduttore, strategie possibili per gestire le relazioni all’interno del suo sistema familiare in cambiamento”. Nei casi particolarmente problematici il giudice può prevedere un invio del nucleo familiare al Servizio Sociale (Comune) o al Consultorio Familiare (ASL) od ai c.d. Spazi Neutri (leggi di riferimento sono: Legge 149 del 28 marzo 2001. Legge 328 dell’8 novembre 2000. Legge 285 del 28 agosto 1997 e Convenzione dei diritti dell’Infanzia art. 9). La presa in carico però presenta degli aspetti di problematicità, nel momento in cui gli operatori sociali tenderanno ad intervenire in maniera normativa, in quanto un componente della famiglia si potrà sentire tradito e si spezzerà la fidelizzazione necessaria al percorso. Anche lì la difficile ricucitura del rapporto sarà compito dell’avvocato, senza però derogare ai principi di tutela a cui è improntato il suo mandato. Un brevissimo cenno alla mediazione familiare va fatto in quanto sempre più frequentemente sia gli avvocati di famiglia sia i tribunali (art. 155 sexies II comma cod.civ.) indicano il percorso mediativo quale utile strumento di composizione del conflitto. Sarebbe auspicabile una maggiore diffusione della cultura della mediazione familiare. Al difensore familiarista corre l’obbligo di aggiornarsi professionalmente e quindi di conoscere, al fine di poterne prospettare i vantaggi al cliente, le dinamiche che intervengono nella “stanza di mediazione”. Nelle more della attività di mediazione vanno deposte le armi ed interrotta ogni belligeranza, al fine di consentire al mediatore lo svolgimento di una attività di composizione non inquinata oltremodo dalla rabbia giudiziaria. In conclusione risulta sempre più imprescindibile, per le motivazioni su riportate, per l’avvocato familiarista coniugare, nello svolgimento della propria attività, quelle istanze di tutela giurisdizionale con contestuali sistemi di intervento nei confronti delle famiglie in crisi nel prioritario benessere del bambino, con ciò attuando una forma sinergica di rete delle varie competenze professionali. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 7 STUDI E RICERCHE L’APPELLO “GIANO BIFRONTE”: NOTE SULLA RIFORMA DELL’APPELLO COMUNE E L’APPELLO NELLE CONTROVERSIE DI FAMIGLIA CLAUDIO CECCHELLA ORDINARIO DIRITTO PROCESSUALE CIVILE UNIVERSITÀ DI PISA RESPONSABILE SEZIONE PISA OSSERVATORIO Sommario: 1. La storicità dell’appello: novum iudicium. 2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio priori istantiae. 3. L’esasperazione della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge. 4. L’epilogo: il merito si converte in rito. 5. Il profilarsi di un appello speciale. Il processo su situazioni indisponibili. 6. Segue. Il motivo di appello nel processo sommario ex art. 702 - bis, c.p.c. 7. Le novità difensive nell’appello del processo sommario ex art. 702 - bis, c.p.c. 8. La espansione delle regole dell’appello speciale: i processi conclusi con ordinanza. 9. Il rito camerale ibrido come processo a cognizione piena di rito speciale e la disciplina del reclamo-appello nelle controversie fallimentari. 10. Segue. Nelle controversie di famiglia. 1. La storicità dell’appello: novum iudicium. L’appello non è stato concepito nella sua storicità come espressione di un’impugnazione in senso stretto, avente ad oggetto l’atto da impugnare, i suoi errori, i suoi vizi. È stato da sempre strumento di rinnovazione piena del giudizio espresso dal giudice di prime cure, in una piena identità di oggetto, nei limiti dell’effetto devolutivo voluto dall’impugnante1 il quale era com’è libero di decidere se sottoporre alla rinnovazione del giudizio di secondo grado l’oggetto corrispondente ad alcuni capi della sentenza piuttosto che altri nei quali è risultato soccombente, con un giudizio finale che ha sempre effetto sostitutivo, 8 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 anche quando la sentenza di appello conferma la sentenza di primo grado. L’inquadramento dell’istituto, definito dalla dottrina processualistica come espressione di un mezzo di gravame e non di una impugnazione mera2, discendeva da indici normativi inequivocabili, costituiti dalla libertà dei motivi di critica, ma anche dagli oneri imposti all’appellante ai fini della loro specificazione, esclusivamente funzionali all’ambito di espressione dell’effetto devolutivo (tenore originario dell’art. 342 c.p.c.). Ad essi si accompagnava la attribuzione alle parti e al giudice degli stessi poteri esercitati nel corso del giudizio di primo grado e rinnovabili senza preclusioni di sorta nel giudizio di secondo grado, con il solo limite - connaturato al principio della domanda - costituito dall’impossibilità di ampliare l’oggetto dell’appello rispetto ai confini del grado che aveva preceduto3. Si spiega - in un regime pienamente disponibile dell’oggetto del giudizio, non avendo l’esercizio della nuova domanda nel corso del procedimento di primo grado oltre gli atti introduttivi sub julo rilievo officioso - così il tenore previgente dell’art. 345, 1° comma c.p.c. che sanciva l’inammissibilità rilevabile dal giudice della nuova domanda in appello (formula che, nel generale inasprimento, caratterizza anche l’attuale art. 345 c.p.c.). Pertanto le parti avrebbero potuto formulare nuove eccezioni e dare svolgimento a nuove iniziative probatorie, con la sola esclusione di nuove domande, e il giudice avrebbe potuto esprimere gli stessi poteri istruttori che lo contraddistinguevano nel giudizio di primo grado, con le note immancabili accentuazioni in relazione al rito del lavoro. La tecnica di stesura degli atti del giudizio di appello era perciò perfettamente identica alla tecnica che ispira la parti nelle loro attività nel corso del giudizio di primo grado, senza soluzione di continuità nei contenuti e nelle forme, quanto alla formulazione di domande, eccezioni e prove, sia dal lato dell’attore in appello, sia dal lato del convenuto, sia da parte di un terzo interveniente (art. 344 c.p.c.). È certamente la particolare apertura del processo di secondo grado all’intervento innovativo di terzi ad evidenziare ancora una volta come il giudizio di appello avesse ad oggetto la fattispecie e il diritto, alla pari del giudizio che lo aveva preceduto. Su questo impianto originario, di un appello come rinnovazione del giudizio di primo grado sullo stesso oggetto, si è inserita un’inesorabile evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha condotto alla necessità di un nuovo inquadramento sistematico del mezzo di impugnazione in esame. 2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio priori istantiae. In occasione del primo intervento significativo di riforma del processo civile, dopo la novella del 1950, ovvero la legge n. 533 del 1973, introducente il no- STUDI E RICERCHE vellato rito delle controversie di lavoro, attraverso il nuovo articolo 437 c.p.c. il legislatore altera per la prima volta quel disegno. In coerenza, non necessitata tuttavia4, con le caratteristiche del procedimento di primo grado, assoggettato com’è noto ex artt. 416, 418, 419 e 420, ad un rigido regime di preclusioni in coincidenza con gli atti introduttivi, per domande, eccezioni e prove, con scarse riaperture, regolate nell’art. 420 c.p.c., che letteralmente ricordano il solo esercizio della ius poenitendi, soggetto all’autorizzazione del giudice, ai sensi dell’art. 420 c.p.c. (sul quale avrebbe presto dovuto esprimersi un particolare lavorio interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, per aprire il rito del lavoro alle garanzie5), il giudizio di appello si chiude ai nova, esprimendo il divieto di nuove domande, di nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio (e deve ritenersi anche quello decisorio) per la ben diversa funzione integrativa del giudizio di fatto del primo e dispositiva del secondo. La disposizione contiene per la prima volta l’introduzione del concetto di indispensabilità della prova come discrimine tra le prove ammissibili o non ammissibili in appello, soggetta ad una valutazione discrezionale del collegio. L’attenuazione al divieto di nuovi mezzi di prova aveva una sua precisa giustificazione lavoristica, sulla quale innestare la sua ragione di essere: si voleva consentire al giudice dell’appello gli stessi poteri istruttori consentiti al giudice di primo grado ex art. 421, 2° comma c.p.c. Il disegno non poteva non apparire più coerente, come anche il senso del concetto di “indispensabilità”: rinnovazione del potere discrezionale officioso del giudice nell’iniziativa probatoria in primo grado6. L’appello per la prima volta si chiude alla pienezza del novum iudicium, condotto prescindendo dal precedente giudizio confluito nella sentenza di primo grado e dalle difese in esso dedotte, ma costituisce, secondo la formula esplicativa della revisio priori istantiae, il risultato di una rinnovazione di un giudizio sulla base di difese consolidate nel primo grado, rectius negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, quanto a domande, eccezioni e prove, con l’unica salvezza dei poteri di iniziativa officiosa, sia quanto all’eccezione in senso lato (ex art. 112 c.p.c. rilevabile d’ufficio) e sia quanto ai poteri istruttori in senso stretto del giudice. Quando il legislatore, nella riforma del rito ordinario dovuta alla legge n. 353 del 1990, sulla intensa suggestione di un modello di processo a preclusioni, introduce un sistema di decadenze anche nel procedimento assoggettato al rito comune, ne discende, per automatica (e non meditata) conseguenza, l’adozione di un modello di appello identico a quello del rito lavoro. Nella dinamica delle continue ondate di interventi di riforma, che incidono sulle regole della trattazione delle difese in senso lato delle parti, attraverso la sequela delle leggi n. 353 del 1990, n. 534 del 1995, n. 80 del 2005 e n. 69 del 2009, le regole dell’appello del laaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 9 STUDI E RICERCHE voro vengono estese all’intero appello di diritto comune nella nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c.7 Ne segue l’inammissibilità delle domande nuove e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e il regime di chiusura in ordine ai nuovi mezzi di prova, che la legge n. 69 del 2009 a seguito di un noto orientamento giurisprudenziale, estendeva anche alle prove precostituite, come i documenti8. La riapertura a nuovi mezzi di prova, se ritenuti “indispensabili” dal collegio, pure riprodotto nell’art. 345, 3° comma c.p.c., trasferito nell’ambito del rito ordinario, veniva privato della sua ragionevolezza, giustificabile solo nel rito del lavoro, in funzione della accentuazione dei poteri istruttori del giudice di quel rito9. Sulla indispensabilità si apriva un dibattito in dottrina e in giurisprudenza, con l’affermarsi anche di un’ipotesi dottrinale per così dire liberale che avvicinava molto il concetto di prova indispensabile al concetto di prova rilevante, di fatto riaprendo - sotto l’auspicio di un appello che non perdesse le sue caratteristiche originarie - l’ingresso di nuove prove nel mezzo di gravame10. A tale indirizzo rispondeva un concetto più ristretto di indispensabilità, messo a fuoco in relazione agli esiti del giudizio di primo grado, essendo ammesse le prove che sarebbero state di per sé in grado di consentire la revoca o modifica della decisione di primo grado o di confermare su basi diverse 10 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 la sentenza di primo grado, dunque un concetto di rilevanza specifico dello strumento impugnatorio11 e che comunque sanciva un potere discrezionale del giudice di appello. Sino ad una lettura più rigida - ma che a mio parere si poteva accompagnare a quella poc’anzi evidenziata - che traduceva il concetto di indispensabilità in funzione delle nuove allegazioni consentite in secondo grado: accessori alla domanda maturati dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni di primo grado e dovuti a sopravvenienze; domande fondate su fatti nuovi, domande nascenti dall’intervento volontario di terzi in causa, allegazioni corrispondenti ad eccezioni rilevabili d’ufficio, allegazioni discendenti da una rimessione in termini, secondo la stessa previsione contenuta nel 3° comma dell’articolo 345 c.p.c.12 Un dibattito che conduceva a soluzioni radicalmente diverse e che comprovavano nelle estremizzazioni dell’interpretazione la atecnicità della formula, laddove era stata trasportata tout court, senza la ragionevolezza dal ben diverso contesto del rito del lavoro. Certamente la novellazione dell’art. 345 c.p.c. conduceva anche l’appello comune, nella stessa direzione impressa dalla riforma del processo del lavoro, ad una mera revisio priori istantiae. Con la evidente conseguenza di una speciale tecnica di formazione degli atti introduttivi, i quali potevano esclusiva- STUDI E RICERCHE mente riproporre difese in senso lato già formulate nel giudizio di primo grado: l’appellante e l’appellato avrebbero dovuto comunque formulare domande, eccezioni e chiedere prove, secondo i contenuti degli atti del giudizio precedente, con il limite delle difese già formulate in primo grado, salvo i poteri officiosi quanto ad eccezioni e prove e al contraddittorio che ne sarebbe derivato. La rigidità del modello era poi contraddistinta dal fatto che, ad eccezione delle riaperture consentite dalle sopravvenienze, o dalle eccezioni rilevabili d’ufficio o dalle prove indispensabili, non era consentito alcun mutamento dell’assetto difensivo contraddistinguente il giudizio di primo grado, neppure nel contesto di un esercizio di uno ius poenitendi, inesorabilmente (e inspiegabilmente) esaurito con lo scambio delle memorie di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. quando sarebbe stato molto più utile consentirne l’esercizio in udienza di precisazione delle conclusioni, dopo l’istruttoria, o, meglio ancora, in appello, dopo il confronto con la sentenza di primo grado. Con la introduzione, dovuta alla legge n. 69 del 2009, del procedimento semplificato di cognizione piena ai sensi degli artt. 702 bis e ss. c.p.c., le diverse scelte che hanno ispirato l’appello contro l’ordinanza conclusiva, idonea al giudicato, contenute nell’art. 702 quater c.p.c., che aprivano alla deducibilità di prove nuove semplicemente se rilevanti, non potevano non avere ricadute profonde sull’interpretazione dell’art. 345, 3° comma c.p.c., in quanto la difformità letterali delle due disposizioni erano all’origine di regole diverse. L’indispensabilità è perciò concetto irriducibile al concetto di rilevanza, con buona pace delle teorie che avevano assimilato le due nozioni. L’impostazione di un appello chiuso alle novità difensive, tuttavia, non incideva ancora sull’inquadramento generale dello strumento, costituiva piuttosto una scelta di un rito particolare e, pur avvilendo le attività difensive in appello e il raggiungimento della verità sostanziale certamente più favorita in un pieno ed illimitato svolgimento del contraddittorio e delle difese, non sradicava l’istituto dall’inquadramento di mezzo di gravame, caratterizzato da effetto devolutivo e sostitutivo. 3. L’esasperazione della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge. In tale contesto normativo viene ad inserirsi una significativa evoluzione giurisprudenziale, assecondata, nella sua estremizzazione, dal più recente intervento legislativo. La specificazione del motivo di appello, imposto dell’art. 342 c.p.c. nel quadro della illimitatezza degli argomenti di critica, come espressione del principio dispositivo costituiva consacrazione positiva della disponibilità dell’effetto devolutivo riservata all’appellante13. A fronte di una tendenziale identità dell’oggetto del giudizio di secondo grado rispetto all’oggetto del giudizio di primo grado, era lasciata a chi promuoveva l’appello, attore o convenuto, mediante appello incidentale, piena libertà di scelta dei capi di sentenza, corrispondenti ad altrettanti ambiti oggettivi14, giudicati in primo grado, sui quali far rinnovare il giudizio nel secondo grado, risultandone provocato il passaggio in giudicato del capo non espressamente impugnato, art. 329, 2° comma c.p.c. La specificazione del motivo, misura dell’effetto devolutivo lasciata alla disponibilità delle parti, integrava elemento di forma-contenuto dell’atto di appello, a pena di invalidità del mezzo15. Sotto questo particolare profilo il difetto di precisazione del motivo, in quanto assimilabile al difetto di uno degli elementi della domanda, schiudeva all’interprete la prospettiva dell’applicazione analogica dell’art. 164 c.p.c.16: in difetto della specificazione, il giudice avrebbe potuto concedere un termine alla parte per la rinnovazione dell’atto di appello, purché fossero ancora aperti i termini per l’impugnazione, non essendo il vizio dell’editio actionis sanabile retroattivamente (con un regime ben diverso da quello della inammissibilità che ai sensi dell’art. 358 c.p.c. ne avrebbe escluso la riproponibilità). Su questo impianto, assecondato dalla giurisprudenza di legittimità, viene ad inserirsi nello scorcio del passaggio tra il primo e il secondo millennio, un mutato orientamento, che costituisce il primo “attacco” mortale al “cuore” della nozione giuridica e positiva dell’appello come mezzo di gravame. La Corte di cassazione17 esaspera gli oneri di specificazione del motivo di appello, non più concepito come limite dell’effetto devolutivo, ma espressione della critica alla sentenza, estrinsecazione dell’errore o del vizio lamentato nell’atto conclusivo del giudice di primo grado, sino ad imporre all’appellante l’espressione di un giudizio prognostico difforme rispetto a quello reso in prime cure. È evidente che se il motivo di appello fuoriesce dall’ambito originario, quello della specificazione del capo di sentenza impugnato, e diventa per necessità espressione di una critica alla sentenza di primo grado, attraverso la individuazione dell’errore o del vizio in cui è incorso il giudice, l’oggetto del giudizio di appello tende inesorabilmente a spostarsi dalla fattispecie e dal diritto dedotto in primo grado, al provvedimento del giudice. L’appello prende le sembianze di uno strumento critico, che ha esclusivamente ad oggetto la sentenza sulla quale si appunta inesorabilmente la tensione dell’appellante e del giudice di secondo grado, nella specificazione e verifica dell’errore o del vizio in cui è incorsa18. Ne discende, inesorabilmente secondo l’indicato indirizzo della S.C., un regime di inammissibilità dell’appello privo della specificazione del motivo aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 11 STUDI E RICERCHE nella nuova accezione, non più ricondotto ad un vizio di nullità sanabile mediante rinnovazione dell’atto di appello, ma fatto confluire nel ben diverso regime della inammissibilità, che si traduce nella in improponibilità del mezzo e dunque nella definizione in rito del giudizio di appello, con perdita di uno strumento di tutela giurisdizionale. A tale indirizzo, sulla cui scia si è inserita tutta la giurisprudenza del giudice di legittimità successiva e sino ad oggi, si radicano come estremizzazione di un’evoluzione, le scelte del legislatore, non più mosso da un’ispirazione rigoristica, che esaspera le forme dell’atto introduttivo, ma ad una ben diversa ratio, costituita dalla necessità di invertire il trand dei carichi giudiziari verso la dissuasione d’autorità all’uso degli strumenti di tutela giurisdizionale. È il legislatore della contingenza che impone forme alternative alla giurisdizione (esperienza della conciliazione obbligatoria) o crea balzelli e ostacoli formali (incremento dei costi fiscali del processo ed estremo formalismo nell’esercizio dell’azione giurisdizionale), rendendo necessario l’intervento correttivo del giudice della costituzionalità delle leggi. Mediante la legge 7 agosto 2012 n. 134, conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, si fanno seguire all’art. 348 due nuovi articoli, gli artt. 348 bis e 348 ter, e si impone la novellazione dell’art. 342 c.p.c.19. Il processo di appello si arricchisce così di nuove ipotesi di inammissibilità, nell’evidente disegno di allontanare il merito della tutela, con trappole “mortali” elevate all’iniziativa. L’art. 342 c.p.c. si allinea in tal modo agli orientamenti del giudice di legittimità con la precisazione positiva che la specificazione del motivo non ha più soltanto la funzione di limitare l’effetto devolutivo (“indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare”, art. 342 n. 1). All’appellante è imposto l’onere di indicare le circostanze di fatto su cui ha erroneamente giudicato il giudice di primo grado e la loro rilevanza, quanto alle conseguenze giuridiche queste rientrano nelle prerogative del giudice, il quale può trovare ostacolo solo nel giudicato (art. 342 n. 2, c.p.c.). Infine, la necessità del giudizio prognostico: le “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto” (art. 342 n. 1, c.p.c.), su cui deve misurarsi l’appellante. Ne risulta la razionalizzazione positiva degli orientamenti giurisprudenziali dell’ultimo decennio, dove il motivo è espressione: a) dei limiti all’effetto devolutivo, ovvero della dimensione dell’oggetto del giudizio di prime cure su cui deve rinnovarsi il giudizio in appello; b) della critica alla sentenza di primo grado, quanto all’accertamento dei fatti e alle sue conseguenze giuridiche; c) di un giudizio prognostico sull’esito dell’appello, tutti necessitati nella sua specificazione a pena di inammissibilità. Il legislatore, infine, sanziona inesorabilmente il difetto di specificazione del motivo con la triplice 12 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 estrinsecazione evidenziata, con l’inammissibilità dell’appello, ovvero ex art. 358 c.p.c., la non riproponibilità del mezzo. 4. L’epilogo: il merito si converte in rito Ma il legislatore va ben oltre e porta alle estreme conseguenze l’estremizzazione della specificazione del motivo, laddove non più un elemento formale viene ad assurgere a motivo di inammissibilità, ma è la stessa fondatezza nel merito del motivo a costituire, in una valutazione preliminare, motivo di ammissibilità. È la formulazione dell’art. 348-bis c.p.c., 1° comma, laddove estende i casi di inammissibilità anche alla “ragionevole probabilità” di non accoglimento dell’appello. Il modello malamente recuperato è il “filtro” al ricorso innanzi alla Corte di cassazione per i motivi dell’art. 360 c.p.c., ove “la manifesta infondatezza” “ della censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo” (art. 360 - bis, n. 2), c.p.c.) o generalmente la manifesta infondatezza del motivo indicato nel ricorso principale e nel ricorso incidentale (art. 375, n. 5. c.p.c.), assurgono ad ostacolo rituale alla trattazione nel merito dell’impugnazione. Non può non apparire evidente la diversità del potere discrezionale concesso al giudice dell’impugnazione nel caso di “manifesta infondatezza”, che costituisce ipotesi evidente di grossolano abuso del processo, rispetto al caso della “ragionevole probabilità”, ponendo l’appellante in balia degli umori del collegio in limine litis, che è l’unico modo per tradurre in concreto il concetto di diritto positivo. La prudenza salutare di alcune Corti di appello ha forzato la lettera della norma, riconducendo la ragionevole probabilità di non accoglimento alla manifesta infondatezza, ponendo entrambi gli istituti sul solco dell’abuso del processo, con argomenti sistematici tutt’altro che trascurabili: non può certo condursi una cognizione sommaria sulla fondatezza dell’appello dopo che si è svolto un giudizio di primo grado nel quale sono state espresse (e in modo definitivo, in coerenza con il divieto dei nova ex art. 345 c.p.c.) tutte le difese delle parti, in termini di allegazioni e prove20. Il tutto poi si estrinseca con modalità procedimentali insolite, prevedendosi quanto alla inammissibilità per ragioni “di merito” una decisione in forma di ordinanza, in apertura all’udienza di trattazione ex art. 350 c.p.c., ordinanza “succintamente motivata” mediante tecnica di”taglia/incolla” (“rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi”). La norma ha dato presto l’occasione alle Corti di appello, che già esercitavano, con modalità che offendevano i limiti comunitari all’esercizio della giurisdizione, i poteri di differimento della udienza di trattazione (ex art. 168 - bis c.p.c.), di procedere a nuovi rinvii, nella ne- STUDI E RICERCHE cessità di delibare il fondamento in udienza preliminare ad hoc. Resta poi il problema del contraddittorio sulla questione di inammissibilità sollevata ex officio: grazie all’art. 101, 2° comma, c.p.c., che fa comunque salva la concessione di un termine alle parti per lo scambio di una memoria sul punto. Un avvilimento dunque dell’appello, già colpito dalle prassi dilatorie delle Corti (“ de profundis” dell’istituto ben prima della sua definitiva sepoltura grazie alle scelte del legislatore), che non ha alcuna giustificazione, neppure in una logica deflattiva, per l’immediata prassi della duplicazioni di udienze e di ulteriore dilazione del procedimento, quando già lo stesso legislatore aveva suggerito lo strumento deflattivo, esercitabile sin dalla udienza preliminare sulla istanza inibitoria (artt. 283 e 351 c.p.c.), costituito dalla sentenza a verbale, essendo stata estesa l’applicazione dell’art. 281 - sexies, c.p.c. all’appello dalla legge n. 183 del 2010. Il collegio - qualora fosse almeno nella persona del relatore consapevole dei contenuti del fascicolo - avrebbe potuto invitare le parti all’immediata discussione, o concedere su richiesta un breve differimento della discussione orale, quando fosse apparso evidente la manifesta infondatezza del mezzo. Tutto ciò era già contenuto nella disciplina dell’appello prima della riforma. Viene quindi introdotto un nuovo motivo di inammissibilità e la questione percorre vie formali diverse, quella della sentenza quando l’inammissibi- lità coincide con la mancata specificazione del motivo (art. 342 c.p.c.), nei termini voluti dalla giurisprudenza e tradotti in diritto positivo dal legislatore, quella della ordinanza quando è fondata sul merito del motivo (“ragionevole probabilità di accoglimento”). Nel primo caso la sentenza è impugnabile in sede di legittimità e quindi sindacabile, nel secondo caso costituisce un potere insindacabile del giudice d’appello, perdendosi addirittura il controllo di legittimità della pronuncia definitiva su questione di rito. È il colpo finale all’inquadramento generale dell’istituto, che fuoriesce dall’alveo del gravame, con il suo effetto integralmente devolutivo e, quanto alla pronuncia finale sostitutivo, per rompere l’argine e dilagare verso la impugnazione mera, dove la sentenza del giudice di prime cure diventa il vero obiettivo del giudizio del secondo giudice, quando si esaspera, come si è esasperato, il motivo di critica alla sentenza, non solo sul piano formale ma anche di merito, come ragione di ammissibilità del mezzo. Sul piano della tecnica di impugnazione, l’appellante deve misurarsi con uno strumento che ha poco in comune con i mezzi di primo grado (come quando la difesa debba essere riproposta e non semplicemente oggetto di impugnazione, secondo il tenore dell’art. 346 c.p.c.), dovendosi misurare con la sentenza di primo grado e la sua parte motiva, al fine di individuarne non solo l’ambito di effettiva devoluzione al secondo giudice, ma la critica e le aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 13 STUDI E RICERCHE conseguenze in termini di esito del giudizio di appello, con un serio impianto argomentativo sui fatti e le regole applicabili, al fine di oltrepassare la trappola del previo vaglio di ragionevole probabilità di accoglimento. 5. Il profilarsi di un appello speciale. Il processo su situazioni indisponibili. Se questa è la disciplina dell’appello di diritto comune, dopo l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa, di cui si sono cercato di tracciate le linee essenziali, non si può non evidenziare, e l’interprete come l’operatore ne dovrà trarre tutte le conseguenze, l’esistenza di un diverso regime, per così dire “speciale”, applicabile all’appello avverso alcuni provvedimenti decisori, il quale tiene ben saldo l’istituto ai suoi primordi. È lo stesso legislatore del 2012 a tracciare la via alla ricostruzione sistematica. Il merito del motivo come questione di ammissibilità dell’appello non è applicabile ai processi su diritti indisponibili, nei quali interviene obbligatoriamente il p.m. e negli appelli su ordinanza decisoria nel rito semplificato dell’art. 702 - bis, ai sensi dell’art. 702 - quater, c.p.c. Nel primo caso evidentemente il legislatore non ripone a ragione troppe aspettative nella iniziativa del p.m., preferendo un processo scevro da ostacoli al dispiegarsi della tutela dei diritti e che perciò goda della piena prerogativa di una rinnovazione senza limiti o 14 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 filtri discendenti dal motivo di appello di un giudizio di secondo grado. La previsione invero appare superflua, poiché è da tempo nota, ancorché lacunosa sul piano legislativo, la impossibilità di un processo dispositivo ad offrire piena tutela a situazioni indisponibili, con la necessità sul piano interpretativo di un ripensamento intorno all’iniziativa, alle preclusioni e ai rimedi. Tutta l’esperienza delle controversie di famiglia offre un terreno di elezione per misurare il processualista sulle caratteristiche del processo su situazioni indisponibili (ma vedi infra par. 8). L’appello, normalmente ispirato alle forme del reclamo camerale (contro i decreti del Tribunale per i minorenni, contro le sentenze di separazione e divorzio, contro i decreti del Tribunale ordinario quando decide in camera di consiglio) è dunque aperto a tutte le possibile novità sul piano del thema decidendum e del thema probandum, e non si presta al previo vaglio della ragionevole probabilità. Peraltro assoggettato alle scarne forme imposte dall’art. 739 c.p.c., non impone tutto il rigore dettato dall’art. 342 alla specificazione del motivo. Ma sulle controversie di famiglia dovremo ritornare in una più ampia accezione della specialità dell’appello. 6. Il motivo di appello nel processo sommario ex art. 702 - bis, c.p.c. Nel secondo caso si apre la prospettiva a cui è rivolta la presente analisi. STUDI E RICERCHE È noto come il procedimento regolato negli artt. 702 - bis e ss., dovuto alla legge n. 69 del 2009, nonostante la denominazione di procedimento sommario di cognizione e la sua collocazione topografica nel libro IV, dopo i procedimenti cautelari, sia tutt’altro che un processo sommario di cognizione21. Con il procedimento in esame il legislatore, in relazione a controversie con questioni di fatto semplificate, perché non necessitanti di un’istruttoria complessa, ha consentito nelle materie devolute al rito monocratico in tribunale una tutela in forme semplificate, nella quale il giudice, che si convince della opportunità di seguire il rito prescelto dall’attore e quindi non lo converta in rito comune (art. 702 - ter, 2° comma c.p.c.), esauriti gli atti di istruzione essenziali senza formalità particolari salvo la garanzia del contradditorio, offre la tutela finale, idonea al giudicato, con ordinanza (art. 702 - ter, 5° comma c.p.c., sulla idoneità al giudicato, art. 702 quater c.p.c.). La natura del procedimento, come modalità alternative alla trattazione, istruttoria e conclusione del giudizio a cognizione piena di rito ordinario, nonostante il nomen, è ricavabile da numerosi indici normativi, come l’applicazione di preclusioni irriducibili all’esperienza della cognizione sommaria cautelare o latu sensu anticipatoria, le analogie profonde di forma - contenuto degli atti introduttivi assimilati alla citazione e la comparsa di risposta regolati dagli artt. 164 e 166, 167 c.p.c., la convertibilità nel rito ordinario senza soluzione di continuità e a partire dalla udienza dell’art. 183 c.p.c., con la conservazione delle decadenze già maturate in coincidenza con gli atti introduttivi, i rimedi alla decisione in forma di ordinanza, coincidente appunto con l’appello. Ma la particolarità, evidentemente per le forme che contraddistinguono il nuovo rito e particolarmente l’atto conclusivo in cui è contenuto il giudizio, è offerta dalla disciplina dell’appello, difforme dalla disciplina comune. È stato possibile già cogliere, nell’esame dell’art. 348 - bis, c.p.c. come il motivo di inammissibilità costituito dalla non ragionevole probabilità di accoglimento non si applica e la ragione è da cercarsi nella semplificazione della ordinanza con cui si conclude il giudizio, che rende inevitabilmente meno severa la formulazione del motivo specifico di gravame e di conseguenza mantiene su basi più salde la natura di gravame dell’appello. La semplificazione delle forme del giudizio finale reagisce inevitabilmente anche sul formalismo della specificazione del motivo, ai sensi del precedente art. 342 c.p.c., poiché la parte non deve misurarsi con una motivazione che sorregge una sentenza, ma con una motivazione che accompagna un’ordinanza. Quindi pur applicandosi il rigore della citata disposizione esso in concreto non può che imporsi meno severamente22. L’appello si trasforma in tal modo nel vero e proprio primo grado, essendosi il giudizio sino a quel momento condotto in forme semplificate e accelerate, nel quale può dispiegarsi secondo le regole comuni il vero e proprio judicium, con il pieno affermarsi del diritto alla prova della parte secondo il giusto processo. Ne risulta meno onerosa la specificazione del motivo, semplice misura dell’effetto devolutivo, come si trattasse di una domanda introduttiva di un giudizio ove la parte può svolgere nella loro pienezza i suoi mezzi difensivi, funzionali all’adempimento dell’onere della prova, quale compensazione della intesa deroga alle regole sulla prova e sulla sua assunzione del processo semplificato che aveva preceduto. 7. Le novità difensive nell’appello del processo sommario ex art. 702 - bis, c.p.c. L’appello speciale, quindi, si atteggia diversamente anche in relazione alle novità difensive proposte in appello, pur nella inopportuna e forse incostituzionale evoluzione normativa, dalla legge n. 69 del 2009 alla legge n. 134 del 2012. Invero l’art. 669 - quater disciplina solo il profilo della prova nuova, nulla dicendo in ordine alle nuove domande e allegazioni. Il carattere speciale della disciplina rende inevitabile il regime preclusivo dell’art. 345, 1° e 2° comma, c.p.c., il quale si espande laddove non è regolato da legge speciale. Infatti la norma nel suo tenore originario svelava una liberalizzazione d’altri tempi, ammettendo prove nuove purché rilevanti, ovvero tutti i mezzi di prova che avessero ad oggetto fatti principali, costitutivi o che rilevassero come eccezione, o anche soltanto fatti secondari da cui risalire al fatto principale attraverso prova critica presuntiva. In tal modo reagiva sulla stessa interpretazione che alcuni interpreti volevano offrire all’art. 345 c.p.c., il quale usava la ben diversa nozione di mezzi “indispensabili” al discrezionale potere del giudice. La disposizione era parsa corretta tecnicamente ai primi interpreti, e non solo sul piano dell’opportunità, poiché la semplificazione delle forme non doveva andare a detrimento delle forme del processo a cognizione piena, che avevano agio di dispiegarsi senza limiti in sede di appello, il quale assumeva i caratteri del vero e proprio procedimento di primo grado e dunque di mezzo con il quale era pienamente espresso secondo le regole comuni il giudizio di primo grado. Alla parte doveva essere offerta l’occasione, almeno in un grado del processo, di un pieno dispiegarsi del diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa. La norma tuttavia appariva tecnicamente molto discutibile ponendo sullo stesso piano il regime di libertà della prova, purché rilevante, con la rimessione aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 15 STUDI E RICERCHE in termine per decadenza incolpevole, nonostante si trattasse di regimi irriducibili e non postulabili contemporaneamente. All’impasse letterale si doveva reagire facendo prevalere la regola più liberale23. Su questo impianto normativo si inserisce il legislatore del 2012 che anziché conservare la norma e il suo senso profondo, si lascia trascinare nella modifica apportata all’art. 345 c.p.c. seppur conservando la diversità, ma attenuando la totale liberalità della originaria previsione. La prova nuova rilevante diventa la prova nuova indispensabile secondo la valutazione del collegio nell’art. 669 - quater c.p.c., la prova indispensabile è espulsa dall’art. 345 c.p.c., ove il divieto diventa assoluto, salvo la remissione in termini. Ma la prova nuova in linea con il concetto di indispensabile, rispetto a quello originario di rilevante, impegna oltre modo l’interprete. Una lettura restrittiva, alla pari di quella che contraddistingueva il concetto quando era inserito nella disciplina dell’appello comune, limitando l’indispensabilità alla prova dell’allegazione nuova consentita in appello (fatti sopravvenuti, eccezioni rilevabili d’ufficio, fatti costitutivi di domande formulate da terzi ex art. 344 c.p.c. ed esercizio del contraddittorio rispetto a tali novità), rischia di porre la norma sulla china della incostituzionalità24. Nella sommarietà e semplificazione dell’istruttoria è contratto in modo inaccettabile il diritto alla prova della parte, come estrinsecazione del diritto di difesa, ed irrimediabile in appello, per le angustie della sua espressione anche in quel grado. Peraltro vi è anche da aggiungere che pure se estromessa ogni novità in relazione alla prova nel rito comune, non è veramente pensabile che una nuova prova non possa avversi in relazione a legittime acquisizioni di fatti sopravvenuti o meno in appello, se tali fatti posso essere dedotti per a prima volta in sede di gravame dovranno essere necessariamente soggette a prova. Questo a valere anche per il rito comune. Si rischierebbe così di parificare i regimi, che invece - almeno nella lettera delle disposizioni - sono diversificati. La lettura è perciò necessariamente liberale. Calato nel diverso contesto del processo sommario, la indispensabilità dovrà misurarsi al contrario sul mancato svolgimento in primo grado del diritto alla prova, dovuto alla semplificazione delle forme, quando il giudice di appello dovesse contrariamente a quello di prime cure, ritenere necessaria ovvero indispensabile una istruttoria vera e propria secondo le regole comuni. Si recuperebbe così la libertà del giudice di appello, debitamente stimolato dalle istanze di parte, di dare svolgimento a quella istruttoria che era stata negata in primo grado, come una sorta di conversione tardiva, perché effettuata in appello, al rito comune. La diversità rispetto al recente passato è costituita soltanto dalla motivazione a cui è soggetto l’esercizio del potere discrezionale del giudice di appello di consentire l’ingresso alla prova nuova: mentre nella formulazione meno recente la priva rilevante poteva essere versata o raccolta senza limiti di sorta, ora costituisce l’esercizio di un’autorizzazione del giudice, di un potere discrezionale in occasione del quale la indispensabilità deve essere motivata. Questa è l’unica interpretazione della norma che sembra in linea con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, nella sua espressione di diritto alla prova25. 8. La espansione delle regole dell’appello speciale: i processi conclusi con ordinanza. Il fenomeno di un appello disciplinato da regole speciali, potrebbe in via interpretativa avere un’espansione ben oltre il caso della ordinanza conclusiva del processo semplificato, ogni qualvolta il giudizio si concluda in forme semplificate coinvolgendo le regole applicabili al giudizio finale, particolarmente in relazione alla motivazione. È evidente che ogni qual volta il giudizio finale si esprima in forme assimilabili a quelle delle ordinanza, con la semplificazione della sua espressione formale, particolarmente in relazione alla motivazione, il suo gravame si esprimerà con corrispon- 16 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 STUDI E RICERCHE denti minori oneri di specificazione dell’appellante, in linea con la minore specificazione della motivazione da parte del giudice. L’ipotesi è ad esempio quella della ordinanza a chiusura della istruttoria26, nei giudizi su domanda di condanna al pagamento di somme o alla consegna o rilascio di beni, giudizio a cognizione piena (“nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova”, art 186 - quater, 1° comma, c.p.c.), cui può seguire una sentenza solo se il soccombente la richiede con ricorso notificato all’altra parte entro trenta giorni dalla pronuncia in udienza o dalla sua comunicazione (4° comma della disposizione), in mancanza “acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto della istanza”. Quindi è appellabile. La semplificazione delle forme non potrà non avere come conseguenza una semplificazione delle forme dell’appello, la “succinta motivazione” della ordinanza corrisponde un minore onere di specificazione della motivazione e una inevitabile minore severità nel vaglio della “ragionevole probabilità”. La stessa considerazione, nonostante il richiamo alle forme della sentenza, deve essere compiuta in relazione all’ipotesi della decisione a seguito di discussione orale, ex art. 281- sexies, c.p.c., la quale al di là del richiamo formale è sostanzialmente un’ordinanza resa al termine della udienza a verbale, sorretta da “una concisa motivazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Ne consegue una minore specificazione degli oneri a carico della parte. In questi casi le peculiarità formali del giudizio finale influenzano gli oneri di specificazione della motivazione imposti all’appellante, ma non derogano ai limiti imposti alle nuove difese, ai sensi dell’art. 345 c.p.c. 9. Il rito camerale ibrido come processo a cognizione piena di rito speciale e la disciplina del reclamo-appello, nelle controversie fallimentari. La espansione delle forme camerali dal contesto della volontaria giurisdizione, al cui servizio sono state introdotte nel codice di rito, verso la giurisdizione contenziosa, ha imposto alla tutela giurisdizionale dei diritti le scarne regole degli artt. 737 e ss. c.p.c., costringendo la giurisprudenza ad un’intensa opera di adattamento del rito alle garanzie della difesa, del contraddittorio, della motivazione e del controllo di legittimità, costituzionalmente imposte, onde evitarne sicura declaratoria di incostituzionalità, denunciata da parte della dottrina27. Ne è sorto un rito con regole dettate dalla casistica, che stavano strette alle forme alle quali erano costrette. Ma quando il legislatore nei tempi più recenti, ancora suggestionato dallo stesso progetto, ma questa volta consapevole dell’elaborazione giurisprudenziale, ha disciplinato un rito camerale, tale solo nel nomen, con caratteri e forme che celano nella sostanza un vero e proprio processo a cognizione piena, regolato da un rito speciale, il regime speciale aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 17 STUDI E RICERCHE dell’appello è emerso senza mezzi termini o equivoci anche sul piano positivo. Il riferimento va ai quei riti camerali contenziosi fallimentari ove le regole sulla forma-contenuto degli atti introduttivi, l’adozione di preclusioni stringenti in limine litis, le forme di instaurazione del contraddittorio particolarmente regolate, l’adottabilità di una tutela cautelare anche incidentale, lo svolgimento di un’istruttoria ampia preceduta da un giudizio di ammissibilità e rilevanza della prova e, all’esito del giudizio, la prospettiva di percorrere un gravame nel senso pieno del termine, non consentono più un inquadramento sistematico nei termini nominalistici adottati dal legislatore e impongono un inevitabile richiamo alle forme ordinarie della cognizione piena28. Il fenomeno assume evidenze nitide quando il legislatore, come nella esperienza del diritto fallimentare, non si limita a recepire la disciplina comune del rito camerali, ma la disciplina ex novo introducendo modelli che nulla hanno più a che vedere invero con la camera di consiglio, di cui richiamano “nostalgicamente” il nome, ma che costituiscono veri e propri processi a cognizione piena di rito speciale. Per quanto il legislatore usi il termine reclamo, per consentire l’appello avverso i provvedimenti di prime cure, non è alla lacunosa disciplina dell’art. 739 c.p.c. che fa si richiamo, ma ad un procedimento 18 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 di gravame integralmente regolato ex novo. Basti muovere dall’art. 18 della legge fallimentare. Il reclamo fallimentare è diverso dall’appello comune, in ordine all’onere della motivazione dell’impugnazione e al divieto di nuove difese in senso lato, dovute all’ultimo episodio legislativo n. 134 del 2012, in considerazione delle previsioni contenute nell’art. 18, 8° e 10° comma, l. fall., ove è più accentuato l’effetto devolutivo, nella tendenziale coincidenza dell’oggetto dell’appello con l’oggetto del primo grado e liberalizzata l’iniziativa delle parti nell’allegazione dei fatti e nelle deduzioni istruttorie. Cionondimeno, sulla base della forma-contenuto del ricorso per reclamo (art. 18, 2° comma, l. fall.), oltre all’indicazione dell’autorità e delle parti, è necessaria “3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni”, ovvero resta la necessità di una specificazione dei motivi. Il carattere impugnatorio del reclamo non esclude infatti il filtro all’effetto devolutivo che discende dal motivo di impugnazione, il quale offre la misura della devoluzione, in funzione dei capi di sentenza e/o decreto effettivamente impugnati29. Se dunque la specificità della motivazione si rende necessaria per la validità del reclamo, per il principio generale per cui è necessario indicare la causa petendi e il petitum della domanda, che in un giudizio di impugnazione coincidono con il capo di STUDI E RICERCHE sentenza di cui si intende ottenere la riforma o l’annullamento, non è estensibile al reclamo fallimentare il rigore che discende oggi dalla specificazione del motivo ex art. 342 c.p.c., e dalla sua fondatezza ad un apprezzamento preliminare di ragionevole probabilità di accoglimento ex art. 348-bis, c.p.c, norme entrambe dovute alla legge n. 134 del 201230. Infatti la esposizione di fatti e elementi di diritto, con le relative conclusioni fa pensare piuttosto ai requisiti di una domanda in primo grado, piuttosto che hai requisiti formali dell’appello di diritto comune. Pertanto non sarà necessaria, oltre all’espressa indicazione delle parti del provvedimento appellato, la tassativa espressione a pena di inammissibilità in capi separati delle censure e dei vizi che si intendono fare valere, con l’indicazione dei contenuti sostitutivi richiesti al giudice del reclamo oppure, addirittura, un’espressione analitica e diffusa del motivo, tale da indurre il giudice dell’appello ad un giudizio prognostico di ragionevole probabilità di accoglimento. Ne consegue che il reclamo dovrà contenere più semplicemente l’indicazione dei capi della sentenza e del decreto effettivamente impugnati e la riproposizione delle difese misconosciute dal giudice di appello e di cui si chiede l’accoglimento nel giudizio riformatore reso in sede di reclamo. Nel caso di violazione di tale canone, non deve discenderne la diretta ed immediata inammissibilità dell’impugnazione, poiché in difetto di una previsione espressa di un tale tipo di sanzione è preferibile ricorrere all’art. 164 c.p.c., che consente al giudice d’appello di ordinare l’integrazione dell’atto carente della parte in un termine perentorio fissato31. Laddove non esista un vero e proprio capo di sentenza o decreto impugnabili, per mancanza di soccombenza vera e propria, in quanto risulti assorbita la domanda o eccezione, il reclamante dovrà, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., limitarsi alla riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte, ma neanche rigettate, non potendosi supplire mediante poteri officiosi, che possono esprimersi sul piano dell’iniziativa istruttoria, ma non certo in relazione all’allegazione dei fatti 32. L’ampiezza di previsione, priva dei limiti di cui all’art. 345, 2° e 3° comma, c.p.c., alle allegazioni e deduzioni istruttorie che si ricava dall’art. 18, 8° comma, l. fall., fa ritenere l’insussistenza di preclusioni che impediscono alle parti di introdurre difese nuove, siano esse eccezioni riservate o mezzi istruttori. La ragione è da rintracciarsi nella peculiarità della materia, i cui effetti discendono da una fattispecie che si vuole accertata giudizialmente, a prescindere dall’iniziativa delle parti, con un’accentuazione dei poteri istruttori del giudice esercitabile in ogni momento (art. 18, 11° comma, l. fall.), che male si giusti- fica con il divieto dei nova all’iniziativa delle parti33. Quindi sia il reclamante che il resistente non incontreranno il limite delle nuove deduzioni in fatto e di un’iniziativa istruttoria diversa da quella svolta in primo grado, con la possibilità di difese innovative soltanto se provocate dalla esigenza di contraddire all’intervento di un terzo interessato e/o dalle iniziative dell’ufficio oppure soltanto dalla incolpevole decadenza in cui sono incorse ai sensi dell’art. 153 c.p.c. Sia il reclamante che il resistente avranno agio di introdurre nuovi fatti e nuove prove, senza limiti particolari34. Neppure il limite della indispensabilità, già contenuto nella formula dell’art. 345, 3° comma, c.p.c. limita l’iniziativa della parte sotto il profilo probatorio, non solo per il carattere nebuloso del concetto, quanto per la totale liberalizzazione delle iniziative consentite alle parti. La unificazione di opposizione, impugnazione e revocazione dello stato passivo in un unico rito disciplinato dalle stesse regole (artt. 98 e ss. l. fall.), differisce solo per aspetti secondari alla disciplina del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento35. Non può non essere più eloquente la disciplina dei contenuti del ricorso (art. 99, 2° comma): “3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione e le relative conclusioni”, che riproduce la dizione del reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento, ma soprattutto: “4) a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti”, ove deve essere colta la totale liberalizzazione all’ingresso di nuove difese. La posizione del convenuto è regolata nello stesso modo: “una memoria difensiva contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti” (6° comma). Si badi bene, se la diversità di regime dell’appello, rectius reclamo, contro la sentenza che dichiara il fallimento può essere astrattamente giustificata dal rilievo di interessi non solo di natura privatistica o particolare, questa ratio non può estendersi ai gravami regolati nell’ambito dell’accertamento del passivo, dove i crediti o i diritti reali dedotti sono situazioni private e individuali, deducibili in un processo pienamente dispositivo. Naturalmente a fronte di eccezioni e prove nuove, all’udienza “il giudice.. provvede all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori”36. La disciplina è identica in tutti i gravami regolati, apparentemente nelle forme camerali, all’interno della legge fallimentare, ad esempio i reclami avverso i decreti del tribunale, art. 26, 7° e 10° comma, dove sono richiamate disposizioni dello stesso tipo37. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 19 STUDI E RICERCHE 10. Segue. Nelle controversie di famiglia. Il fenomeno è meno evidente ma pure presnete nelle controversie di famiglia, dove ha grande rilievo come nel diritto fallimentare l’espansione del rito camerale, perché in questo contesto il rinvio agli artt. 737 ss. c.p.c. è pieno e l’elaborazione è prevalentemente giurisprudenziale, tacendo il legislatore sulle regole da applicare al processo. Nel recente episodio normativo sulla filiazione naturale, ad esempio, la legge. n 219 del 2012, con la novellazione dell’art. 38 disp. att. c.p.c., ha preferito il richiamo tout court alle disposizioni degli artt. 737 ss. c.p.c. (“in quanto compatibili”), piuttosto che una nuova disciplina ad hoc del rito camerale contenzioso, e previsto un reclamo camerale alla corte di appello contro i decreti del tribunale specializzato. Ugualmente nel caso dell’appello contro le sentenze di separazione e divrozio (peraltro disciplinato solo in relazione alla sentenza non definitiva sulla separazione, art. 709- bis c.p.c. e più ampiamente per ogni tipo di sentenza nell’art. 4, 15° comma della legge n. 898 del 1970, sul divorzio38) oppure del rito della modifica ex art. 710 c.p.c. (o art. 9 legge n. 898, cit.), si richiamano genericamente le forme del rito in camera di consiglio. A tali ipotesi, in occasione della trasmigrazione delle materie dal tribunale per i minorenni al tribunale ordinario, dovuto ancora alla legge n. 219 del 2012, si aggiungono le nuove competenze, anche per 20 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 ragioni di connessione, ereditate da quest’ultimo organo, regolate pure esse secondo il rito camerale e dunque assoggettate, quando al gravame, al reclamo camerale ex art. 739 c.p.c. Si può così dire che l’intera materia delle controversie familiari, salvo poche eccezioni, affida al rito camerale l’appello. In questo ambito, a differenza della esperienza normativa del diritto fallimentare, ove il richiamo alle forme camerali e poco più che una vuota classificazione, ove si regolano analiticamente veri e propri procedimenti a cognizione piena, esiste un semplice rinvio alle forme degli artt. 737 e ss. c.p.c. È noto, tuttavia, come il procedimento in camera di consiglio, pur nella parsimonia di norme, non possa essere colmato puramente e semplicemente mediante il richiamo a disposizioni che regolano il processo ordinario o sommario di cognizione, trattandosi di un rito autosufficiente, irriducibile a regole applicabili ad altri riti, salvo che esso non deroghi o non si presti al rispetto delle garanzie costituzionali del giusto processo39. Ne consegue la inapplicabilità al reclamo camerale contro i decreti in materia di famiglia o le sentenze di separazione e divorzio delle disposizioni dell’appello comune, ma esclusivamente delle regole dell’art. 739 c.p.c.40 La materia, peraltro come già veduto (cfr. par. 5) colma di situazioni indisponibili, giustifica sotto questo particolare profilo l’impossibilità di imporre STUDI E RICERCHE limiti formali all’impugnativa o preclusioni alla allegazione e prova di fatti41, ma a tale risultato si può giungere anche semplicemente attraverso l’applicazione dell’art. 739 c.p.c., che manca di ogni riferimento espresso a norme come quelle contenute negli artt. 342, 345 e 348-bis c.p.c., e la sua specificità rispetto all’appello di diritto comune42, perciò assolutamente inapplicabili. Peraltro è da sottolineare come già si è detto (par. 5) che la presenza in molti procedimenti del p.m., che deve intervenire obbligatoriamente, impone l’applicazione dell’art. 348 - bis, 2° comma, c.p.c., ovvero esclude il rilievo della ragionevole probabilità di mancato accoglimento come profilo di inammissibilità, secondo il regime comune. Il rito camerale, contro il quale si sono rovesciati gli strali degli interpreti e degli operatori perché privo di regolamentazione e quindi di garanzie giurisdizionali, per una sorta di paradosso, dopo la recente riforma dell’appello comune, diventa il luogo dove le garanzie di un pieno dispiegamento dell’appello, come gravame, senza limiti alle novità novità difensive e senza l’esasperazione dei tecnicismi della deduzione del motivo, ha modo di espandersi sena remore e recuperare le garanzie che invece ha irrimediabilmente perso il processo a cognizione piena. Note 1 Il limite alla devoluzione impresso dalla domanda di appello (“tantum devolutum quantum appellatum”), costituisce espressione del principio dispositivo impresso al processo dalla codificazione napoleonica (cfr. Perrot, Le principe du double degré de jurisdiction en droit judiciare privé francais, in Studi Liebman, III, Milano 1979, 1971), non si radica nella matrice storica dell’istituto, caratterizzato da un principio devolutivo automatico, che affidava al secondo giudice la cognizione piena, a prescindere dalla iniziativa (“communio appellationis”, Costituzione Ampliores del 530 di Giustiniano, cfr. Orestano, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1953, passim e Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, Milano, 1967-1970, passim). 2 Cfr. Mortara, Appello civile, in Digesto italiano, I, Torino, 1890, passim; Cerino Canova, Le impugnazioni civili, Struttura e funzione, Milano, 1973, passim. 3 Invero, sotto questo particolare profilo, è la novella del 1950 che intervenne sull’art. 345 c.p.c., con una formulazione in vigore per quaranta anni, in quanto nell’impianto originario, coerente con l’introduzione di preclusioni al materiale cognitivo del giudizio di primo grado, pure esse eliminate dalla stessa novella, ammetteva nuove eccezioni e nuove prove solo per “gravi motivi”, cfr., Ferri, Profili dell’appello limitato, Padova, 1979, 120. Per una ricostruzione storica vedi altresì Bonsignori, Il divieto di domande e di eccezioni nuove in appello, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1998, 66. Per un affermazione giurisprudenziale, Cass., 28 maggio 2003, n. 8501, in Gius, 2003, 2518. 4 Non sembra affatto incoerente un appello che riapra alle difese delle parti, ancorché preceduto da un giudizio di primo grado sotto i rigori del principio di preclusione, la riprova positiva è l’esperienza del processo abbreviato dell’art. 702 - bis c.p.c. assoggettato a severe preclusioni in primo grado, a fronte della liberalizzazione del giudizio di appello, almeno in relazione alle prove, secondo il tenore originario dell’art. 702 - quater c.p.c. 5 Cfr. Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 128; Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1984, 117; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 178; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, IV ed., Milano, 1999, 147. 6 Per cui le stesse Sezioni Unite hanno chiarito che attraverso tale impulso il giudice deve dissipare le incertezze sulla esistenza dei fatti rilevanti, anche supplendo all’inerzia delle parti e non applicando pedissequamente la regola dell’onere della prova (non potendo essere la decadenza della parte un limite all’esercizio del potere istruttorio, quanto piuttosto la ricerca della verità), cfr. Cass., sez. un., 17 maggio 2004, in Foro it., 2005, 1, 1135 nota di Fabiani, 7 Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, 2ª ed., Milano, 2002, 295; Balena, Il sistema delle impugnazioni civili nella disciplina vigente e nell’esperienza applicativa: problemi e prospettive, in Foro it., 2001, V, 122; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 162; Consolo, Luiso, Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, 2ª ed., Milano, 1996, 382; Proto Pisani, Note sulla struttura dell’appello civile e suoi riflessi sulla Cassazione, in FI, 1991, I, 109; Vaccarella, Le linee generali del nuovo processo civile: a proposito dei «provvedimenti urgenti» approvati dal Senato, in Doc. Giust., 1990, 19; Olivieri, Verso la riforma del processo civile, in Doc. Giust., 1990, 45. 8 Dopo il revirement della S.C. con le Sez. Un. Cass., 20 aprile 2005, n. 8203 e, quanto al rito del lavoro, Cass., 20 aprile 2005, n. 8202, pubblicate in Foro it., 2005, 1690 con note di Dalfino, Barone e Proto Pisani; in riv. dir. proc., 2005, 1051, con nota di Cavallone, in Corriere giur., 2005, 929, con nota di Ruffini e Cavallini. 9 Invero, qualche Autore ha autorevolmente adombrato che la norma legittimasse il giudice d’appello disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti indispensabili al fini della decisione, pur in difetto di espressa previsione al riguardo (Tarzia, Lineamenti, cit., 315), al fine di evitare di decidere la causa facendo ricorso alla regola dell’onere della prova. Ma la tesi non è da tutti condivisa: vi è chi la reputa incomprensibile, a meno di dare alla legge un contenuto che altrove il legislatore ha espressamente specificato (Attardi, op. cit., 154); Consolo, Luiso, Sassani, op. cit., 389 notano che solo nel processo d’appello retto dal rito del lavoro, diversamente che in quello ordinario, i mezzi di prova possono essere ammessi anche d’ufficio. 10 Quando la esistenza o inesistenza di un fatto sia stata accertata nella sentenza di primo grado sulla base della regola dell’onere della prova (Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 213) o anche solo su un libero apprezzamento del giudice (Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 440) 11 Necessaria e decisiva per la pronuncia di conferma o riforma nel giudizio di secondo grado (Tarzia, Lineamenti, cit., 316; Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997, 284; Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova, 2000, 188). 12 Riferita ai fatti per i quali è eccezionalmente ammessa la deducibilità oppure a fatti ricompresi in questioni esaminate per la prima volta in appello, come accade quando la mancata assunzione della prova in primo grado è dipendente dall’avere il giudice ritenuto assorbita la domanda o la questione cui la prova si riferiva (Consolo, Luiso, Sassani, op. cit., 391), cfr. anche Fornaciari, L’attività istruttoria nel rito civile ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice, in GI, 1999, 445; Vaccarella, Capponi, Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 294. 13 Il riferimento ai motivi specifici dell’impugnazione era già presente fin dall’originaria formulazione della norma, ma non nel codice del 1865; la sua introduzione nel 1942 era stata mutuata dall’appello nel processo penale (da ultimo Romano, Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d’appello civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, 1208). aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 21 STUDI E RICERCHE 14 Ai fini della specificazione dei motivi d’appello è sufficiente identificare i capi di sentenza che si vogliono sottoporre a riesame per fare sì che al giudice di secondo grado siano automaticamente devolute tutte le questioni di fatto e di diritto sollevate, o comunque conoscibili, in primo grado, che costituiscono antecedente logico necessario ai fini della pronuncia sull’esistenza o sull’inesistenza della parte del rapporto sostanziale controverso devoluta al giudice d’appello (Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, 4ª ed., Milano, 1984, 300, che parla di cognizione piena e aperta del giudice di secondo grado sui capi di domanda investiti dall’impugnazione; Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 236; Cerino Canova, Le impugnazioni civili, cit., 292, 584 e 590; Attardi, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it, 1961, IV, 153 e 160. In giurisprudenza sulla funzione del motivo in ordine all’effetto devolutivo, cfr. Cass., 2 febbraio 2005, n. 2041, in Arch. Giur. Circolaz., 2005, 1233. 15 In questo senso la giurisprudenza del secolo scorso, Cass. civ., 31 gennaio 1979, n. 703, mass.; Cass., 9 febbraio 1980, n. 911, mass.; Cass., 16 novembre1979, n. 5965, mass.; 16 Come aveva ritenuto Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro it, 1987, I, 3037 nota di Balena, dopo alcune oscillazioni, v. Cass., Sez. lav., 4 dicembre 1986, n. 7203, mass.; Cass., 27 giugno 1981, n. 4196, in Foro it., 1981, I, 2421. 17 Severità espressa in un noto revirement del giudice di legittimità, con Cass. sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it., 2006, 1436 e ss., che suscitò grande polemica in dottrina (si vedano le note ivi pubblicate di G. Balena, R. Oriani, A. Proto Pisani, N. Rascio); v. anche Ronco, Appello e mancata (ri)produzione di un documento già prodotto in primo grado: onere della prova sulla fondatezza del motivo di gravame od onere della prova sulla fondatezza della domanda devoluta al giudice dell’impugnazione?, in Giur. it, 2007, 3, 672 ss.. Cfr. in senso conforme, Cass., 1 febbraio 2007, n. 2217, mass.; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2010, n. 7190, mass.; Cass., 31 marzo 2010, n. 7786, mass. In dottrina vicini al mutamento di indirizzo della giurisprudenza, v. Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 220 ss. 18 Eloquente e suggestiva la parte motiva di App. Salerno, 1 febbraio 2013: “la suddetta norma obbliga l’appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché è stato osservato che il lavoro assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto - che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello - delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”… “la suddetta norma obbliga l’appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché è stato osservato che il lavoro assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto - che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello - delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”. Il giudice d’appello quindi come un sarto “scuce e cuce” usando esclusivamente “la pezza” che deve fornirgli l’appellante. 19 Per i primi commenti largamente critici della dottrina processualistica, Caponi, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it; Id, La riforma dell’appello civile, in Foro it., 2012, V, 292; Id, La riforma dei mezzi di impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012; Id, Rispetto all’obiettivo della crescita del paese gli interventi sul processo civile sono adeguati?, in Guida al diritto, 2012, 33- 34, 9; Consolo, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in www.judicum.it; Id, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di svaporamento, in Corriere giur., 2012, 10; Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in www.treccani.it; De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it; Dalfino, Premessa a L’appello e il ricorso per cassazione nella riforma del 2012 (d.l. 83/12, convertito con modificazioni in l. 134/12), in Foro it., 2012, V, 281; M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, in Foro it., 2012, V, 282; Galletto, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme”e danni collaterali, in www.judicium.it; Impigniatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it; Id, Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, in Foro it., 2012, V, 295; Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it; Pagni, Gli spazi per le impugnazioni dopo la riforma estiva, in Foro it., 2012, V, 299; Panzarini, Commento agli artt. 348 bis, 348 ter, 382 bis, 383, 436 bis, 447 bis, comma 1, c.p.c., in AA.VV., Semplificazione dei procedimenti civili, nuovi riti speciali e modifiche alla disciplina delle impugnazioni in materia civile dopo la riforma del mercato del lavoro e il decreto sviluppo, Torino, 2012; Russo, Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending review, in www.judicium.it; Sassani, Alla difficile ricerca di un “diritto” per il processo civile, in www.judicium.it; Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it., 2012, V, 287; Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it. 20 È quanto afferma in parte motiva App. Roma, 30 gennaio 2013, in Foro it., 2013, Anticipazione e novità, 35; conf. App. Bari, 18 febbraio 2013, ibidem; in senso contrario, invece, App. Palermo, 25 marzo 2013, in www.Il caso.it, in un caso in cui la ragionevole probabilità di rigetto era fondata sui precedenti della Corte in relazione ad una controversia seriale. 21 Conf, Balena, La nuova pseudo riforma della giustizia civile, in Il giusto proc. civ., 2009, 749 ss.; Biavati, Appunti introduttivi sul nuovo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 121; Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it; Sassani, A.D. 2009: ennesima riforma al salvataggio del rito civile. Quadro sommario delle novità riguardanti il processo di cognizione, in www.judicium.it.; Bove, Il procedimento sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ., 2010, 722 ss. In giurisprudenza, conf., Trib. Varese, 18 novembre 2009, in Il caso. it; Trib. Sulmona, 6 ottobre 2010, ibidem. In senso contrario invece, per una qualificazione in termini di processo sommario di cognizione, Carratta, Nuovo procedimento sommario di cognizione e presupposto dell’istruzione sommaria: prime applicazioni, in Giur. it., 2010, 902 ss.; Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, ivi, 2009, V, 1568; Menchini, Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici introdotto con la riforma del 2009, in Il giusto proc. civ., 2009, 1100 ss.; Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 223; Romano, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ., 2010, 165 ss. Cfr. altresì gli atti del Convegno di Volterra del 2011, in Quaderni volterrani del diritto/1, Il processo sommario e la riforma dei riti, a cura di C. Cecchella, Pisa, 2012, con relazioni di Mondini e Cecchella e una completa rassegna di giurisprudenza di Campione e Maffei. 22 In senso contrario, per una piena applicazione delle norme sull’appello, invece, anche quanto a specificità dei motivi, App. Roma, 11 maggio 2011, in Il caso. it., la quale è giunta a ritenere la piena applicazione anche dell’art. 345 c.p.c. Per una diversa interpretazione v. infra nel testo. 23 Si deve tuttavia dire che proprio la contraddittorietà della lettera ha spinto altra dottrina a cercare una razionalizzazione attraverso l’applicazione tout court dell’art. 345 c.p.c., seppure con una certa forzatura alla norma, così Diettrich, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1582 ss.; Bove, Il procedimento, cit., 431 ss. In senso contrario e condivisibilmente Mondini, Il nuovo giudizio sommario: ambito di applicazione e struttura del procedimento, potuto consultare dal dattiloscritto per la cortesia dell’Autore, 29-30, il quale richiama il rilievo costituzionale del diritto alla prova che deve avere attuazione almeno in una fase o grado del processo). Invece risolve la contraddittorietà attraverso la soluzione più liberale anche Luiso, Diritto processale civile, IV, Milano, 2009, 121. 24 Cfr. Mondini citato nella nota che precede. 22 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 STUDI E RICERCHE 25 Spunti già sotto il regime previdente in Balena, Il procedimento, cit., 332; Lombardi, Il procedimento sommario di cognizione generale, in Il giusto proc. civ., 2010, 2, 492. 26 Sull’istituto, v. Attardi, Le ordinanze di condanna nel giudizio ordinario di cognizione di primo grado secondo la legge di riforma, in GI, V, 1992, 211; Carratta, Ordinanze anticipatorie di condanna, in Enc. giur., XXII, Roma, 1995, 4; Cea, Ordinanze anticipatorie e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in Foro it., 2004, Iv, 121; Cirulli, Le condanne anticipate nel processo civile di cognizione, in Basilico, Cirulli, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1999, 460; Civinini, Le condanne anticipate, in Foro it., 1995, IV, 122; Comoglio, I procedimenti anticipatori, in Taruffo (a cura di), Le riforme della giustizia civile, 2ª ed., Torino, 2000, 254. 27 Carratta, I procedimenti cameral-sommari in recenti sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1992, 1049 e ss., esclusa dalla Corte cost., 23 dicembre 1989, n. 573, in Foro it., 1990, I, 365, per il generale dibattito, Allorio, Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 487; Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 431 ss.; Lanfranchi, La cameralizzazione del giudizio sui diritti soggettivi, in Giur. it., 1987, IV, 34; Proto Pisani, Usi ed abuso della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c.. in Riv. dir. civ., 1990, I, 393 ss. 28 Come è stato colto immediatamente, fondandone l’intera ricostruzione dell’istituto, cfr. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, 142 ss. e, se vuoi, Cecchella, Il processo per la dichiarazione di fallimento. Un rito camerale ibrido, Padova, 2012, 93 ss. 29 Lo afferma Cass., 28 ottobre 2010, n. 22110, in Fall., 2011, 291 e ss., la quale ha cassato la sentenza della Corte di appello che ha dato rilievo al mancato rispetto dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1, 2 comma, l. fall., a cui non aveva fatto riferimento nella sua prospettazione il reclamante. La sentenza è criticata da A. Tedoldi, Il rito cameral-fallimentare e l’efficacia devolutiva del reclamo ex art. 18, l. fall., loc. ult. cit; ad essa aderisce, invece, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 318. 30 Sulla scia di tale giurisprudenza si pone invece, anche per il reclamo fallimentare, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 318 e ss., 31 Conf., G. Minutoli, Sub art. 18, legge fallimentare. Commentario teorico-pratico a cura di M. Ferro, Padova, 2011, 254; contra, sotto il regime previgente, Cass., 17 luglio 2007, n. 15952, mass.; contra, altresì, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 321, n. 71. 32 Contrariamente all’orientamento della giurisprudenza sotto il regime previgente, la quale sullo stimolo all’epoca di un’iniziativa officiosa anche in relazione all’iniziativa introduttiva, assumeva il potere-dovere del giudice del reclamo di verificare, anche d’ufficio, la sussistenza dei presupposti, prescindendo dalla riproposizione della parte, v. ex plurimis, Cass., 17 marzo 1997, n. 2323, in Fall., 1998, 29; conf., anche dopo la riforma, coerente con un’impostazione che ricostruisce caratteri latu sensu inquisitori all’intero procedimento, v. G. Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo di fallimento, cit., 355; conf., invece, M. Fabiani, sub art. 18, Il nuovo diritto fallimentare a cura da A. Jorio e M. Fabiani, cit., 371 e ss.; F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 324. 33 In tale direzione esattamente, Cass., 5 novembre 2010, n. 22546, in Fall., 2011, 22; non in linea sembrerebbe, Cass., 28 ottobre 2010, n. 22110, in Fall., 2011, 291 e ss.; in senso contrario v. F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 324, l’Autore argomenta, portandolo alle estreme conseguenze, dalla pur condivisibile assimilazione dello strumento fallimentare alla cognizione piena dell’appello ordinario. 34 Conf. App. Torino, 21 ottobre 2008, in Fall., 2009, 239. 35 Per una consapevole qualificazione in termini di processo a cognizione piena anche dell’accertamento del passivo, cfr. Fabiani, sub art. 99, in Aggiornamento al d. lgs. 169/2007, diretto da A. Jorio, Bologna, 2007, 42; Costantino, in La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 567. 36 Nonstante la chiara lettera della disposizione, su cui vedi Fabiani, Impugnazioni dello stato passivo, raccordo con il procedimento sommario e preclusioni, in Foro it., 2008, 633 ss.; Ferri, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo grado e impugnazioni, Riv. dir. proc., 2007, 1272; conf. in giurisprudenza, Trib. Milano, 4 marzo 2008, in Fall., 2008, 667; in senso contrario, teorizzano un gravame chiuso secondo il regime comune, Scarselli, in Manuale di diritto fallimentare, Milano 2007, 300; Nardecchia, Opposizioni allo stato passivo, in Le insinuazioni allo stato passivo, a cura di M. Ferro, Padova 2006, 96; e in giurisprudenza, Trib. Firenze 21 novembre 2007, in Fall., 2008, 581 e Trib. Treviso 16 novembre 2007, in Foro it. 2008, I, 634 con nota critica di Fabiani; per una tesi intermedia che fonda la novità su di un’autorizzazione del giudice, sul modello dell’art. 420 c.p.c., Canale, La formazione dello Stato passivo e il sistema delle impugnazione, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Ambrosini, Torino, 2006, 207, ma anche questa testi non trova conforto nella lettera della norma. 37 Considerata la disciplina standard del rito camerale ibrido, Vitiello, L’accertamento del passivo nella riforma della legge fallimentare, in Atti Convegno C.i.s. (Valmadrera, 18 gennaio 2008), Milano 2008, 12. 38 Prima ancora si era dubitato che la camera di consiglio valesse solo per la fase decisoria, dovendo l’appello essere regolato dalle forme ordinarie nella fase introduttiva e di trattazione, ma il profilo è stato risolto nel senso della generalizzazione delle forme camerali, cfr. Cass., 4 gennaio 1991, n. 37, in Foro it., 1991, I, 1119, con nota critica di Cipriani; Cass., sez. un., 3 maggio 1991, n. 4876, in Foro it., 1992, I, 473 ss. La tesi della non estensibilità del rito camerale all’appello contro la sentenza definitiva era sostenuta da Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 sul c.d. affidamento condiviso dei figli, in Dir. fam. e pers., 2006, 1864; in senso contrario invece Tommaseo, La disciplina processuale della separazione e del divorzio dopo le riforme del 2005 (e del 2006), in Fam. e dir., 2006, I, 12; Danovi, Il procedimento di separazione e divorzio alla luce delle ultime normative, in Le prassi giudiziali nei procedimenti di separazione e divorzio, Torino, 2007, 156; 39 È significativo al riguardo come in relazione all’art. 9 della legge n. 898 del 1970 la Corte abbia pronunciato la sua incostituzionalità la dove non risulta un pieno svolgimento del diritto alla prova della parte, Corte cost., 10 luglio 1975, n. 202, in Foro it., 1975, I, 1575. Si devono richiamare le numerose pronunce di incostituzionalità che hanno segnato la legge fallimentare prima della riforma. 40 In senso contrario, Carnevale, La fase a cognizione piena, in I processo di separazione e divorzio, a cura di Graziosi, Torino, 2011, 122, nota 128 che ritiene tout court applicabile l’art. 345 c.p.c. Sui dubbi interpretativi di un richiamo lacunoso vedi l’interessante scritto di Massetani, L’appello nel giudizio di separazione e divorzio, in Dal reclamo all’appello: le impugnazioni nei procedimenti per separazione e divorzio, a cura di C. Cecchella, Pisa, 2008, 95. 41 Cfr. in particolare il saggio sulle peculiarità del processo familiare quando ha ad oggetto situazioni indisponibili di Luiso, Le tutele processuali, in La riforma del processo per separazione e divorzio, a cura di Claudio Cecchella, Pisa, 2007, 37 ss. 42 Tanto che la Consulta ha ammesso la costituzionalità del rinvio alle regole del rito camerale, nella disciplina dell’appello per le controversie di separazione e divorzio, purché - oltre al contraddittorio - fosse grantito in concreto il diritto alla prova nella sua pienezza, come acquisizione della prova precostituita e assunzione della prova costituenda, la difesa tecnica, l’impugnativa incidentale, cfr. Corte cost, 14 dicembre 1989, n. 543 e Corte cost., 23 dicembre 1989, n. 573, in Foro it., 1990, I, 365. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 23 STUDI E RICERCHE IL RISARCIMENTO DEL DANNO ENDOFAMILIARE MAURO PALADINI ORDINARIO DI DIRITTO PRIVATO UNIVERSITÀ DI MILANO Relazione tenuta al convegno organizzato dall’Osservatorio Nazionale del Diritto di Famiglia Sezione di Udine, il 22 marzo 2012 Sommario: 1. Premessa. 2. I precedenti accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità. 3. La svolta giurisprudenziale del 2005 e i connessi profili problematici di carattere processuale. 4. Separazione consensuale e diritto al risarcimento del danno. 5. L’esercizio abusivo del c.d. diritto “potestativo” alla separazione. 6. L’illecito nel rapporto tra genitori e figli: il rifiuto di assumere il ruolo di genitore. 7. Considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali. 8. I fatti illeciti connessi all’esercizio della potestà. 9. I fatti illeciti estranei alla funzione genitoriale. 10. Esclusione dell’azione di regresso da parte del figlio. 11. Il diritto del figlio al risarcimento del danno per violazione degli obblighi coniugali. 12. Il diritto del genitore al risarcimento del danno per fatto illecito del figlio. 13. Conclusioni. 1. Premessa La previsione formulata da autorevole dottrina dalle pagine della Rivista di Diritto Civile sin dal 1981 - secondo cui sarebbe stato «sempre più frequente il ricorso al giudice per il risarcimento dei danni da parte del familiare che ha subito l’illecito» - ha trovato puntuale riscontro nel corso dei successivi decenni sia nell’ambito delle relazioni tra coniugi sia con riferimento al rapporto tra genitori e figli. Certamente superato un presunto principio generale di “immunità” - che, invero, a differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America a partire dalla fine del XIX secolo, non risulta mai essere stato né codificato né affermato negli ordinamenti europei - anche le relazioni familiari si confrontano oggi con l’espansione, talvolta prorompente, della 24 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 responsabilità civile e impongono all’interprete il delicato compito di delineare i limiti al rimedio risarcitorio connaturali alla peculiarità di una relazione interpersonale caratterizzata non soltanto da diritti o doveri reciproci, ma soprattutto dal fondamento naturale del vincolo affettivo e/o biologico. La giurisprudenza italiana manifesta sempre maggiore consapevolezza della necessità di rendere le condotte poste in essere in violazione degli obblighi coniugali e genitoriali oggetto di valutazioni giuridiche compiute sul piano dell’ “ingiustizia” del danno e della necessità di garantire l’adeguato ristoro ai pregiudizi della personalità dei singoli componenti della famiglia. Con specifico riferimento ai rapporti tra coniugi, la tassatività degli effetti dell’addebito fa sì, nella pratica, che il coniuge economicamente più debole (non obbligato, pertanto, al mantenimento dell’altro), pur in presenza di gravi violazioni degli obblighi coniugali, preferisca alla richiesta di addebito la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. 2. I precedenti accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità Timidi accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità potevano essere rinvenuti già nell’ambito della Riforma del diritto della famiglia del 1975, che - oltre alla significativa (e sempre attuale) figura della responsabilità per rottura della promessa di matrimonio, già prevista nel testo anteriore del Codice - introdusse l’art. 129 bis c.c., che, nel caso di annullamento del matrimonio, riconosce il diritto del coniuge in buona fede a una congrua indennità a carico dell’altro coniuge o del terzo, cui sia imputabile la nullità del matrimonio. Nella direzione della convergenza di istituti muove, invero, l’interpretazione della norma adottata dalla Suprema Corte, secondo la quale, ai fini della responsabilità ex art. 129 bis c.c. del coniuge in mala fede cui sia imputabile la nullità del matrimonio, non è sufficiente la riferibilità oggettiva della causa di invalidità e non basta neppure la consapevolezza, certa o probabile, di essa, occorrendo altresì un comportamento ulteriore, commissivo od omissivo del responsabile, contrario al dovere generale di correttezza, che abbia contribuito alla celebrazione del matrimonio nullo. Nell’ipotesi di inadempimento della c.d. promessa “solenne” di matrimonio, mentre la restituzione dei doni consegue al mero fatto dalla mancata celebrazione del matrimonio, l’obbligo di risarcimento dei danni sussiste soltanto a carico del promittente che rifiuti di adempiere la promessa senza giusto motivo ovvero che, con la propria colpa, offra giusto motivo al rifiuto dell’altro. Rispetto al problema se l’obbligazione risarcitoria disciplinata dall’art. 81 configuri un’ipotesi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, è prevalsa l’opinione secondo cui la norma lungi dal contenere un’ipotesi di responsabilità in STUDI E RICERCHE senso tecnico - è una “particolare espressione del principio, valevole in tema di contratti, secondo il quale chi ha dato causa alla inoperatività del negozio deve rimborsare all’altra le spese inutilmente erogate”. L’oggetto dell’obbligazione, pertanto, è costituito da un indennizzo commisurato ex lege a parametri predeterminati e circoscritto alle spese fatte ed alle obbligazioni contratte dal promissario, con esclusione del danno non patrimoniale. Tuttavia superando un precedente orientamento restrittivo della giurisprudenza di merito la Suprema Corte aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore della donna sedotta a fine di matrimonio, affermando che il seduttore ha l’obbligo del risarcimento del danno perché compie un’attività dolosa ....intesa a far credere alla serietà della promessa di matrimonio o a vincere la ritrosia o il pudore della donna e a determinarne la volontà; e, inoltre, tale da stabilire un nesso di causalità fra la promessa e la c.d. traditio corporis, da parte della donna. Ancora agli inizi degli anni ‘90, peraltro, la giurisprudenza ribadisce che, nell’ambito dei rapporti interni ai coniugi in sede di separazione personale, la tutela risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, che presuppone la lesione di una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto, mentre, l’addebito della separazione ad un coniuge comporta solo gli effetti previsti dalla legge, ma non realizza la violazione di un diritto dell’altro coniuge. La separazione personale - si afferma - costituisce un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi, - proprio in omaggio al principio secondo cui “inclusio unius, esclusio alterius”, - che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquilana ex art. 2043 c.c. Una prima apertura si riscontra nella sent. 26 maggio 1995 n. 5866, nella quale si afferma che l’addebito della separazione, di per sè considerato, non è fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., ma …la risarcibilità dei danni ulteriori è configurabile solo se i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma citata. 3. La svolta giurisprudenziale del 2005 e i connessi profili problematici di carattere processuale La vera svolta è intervenuta - com’è noto - con Cass., sez. I, 10 maggio 2005 n. 9801, che riconobbe l’obbligo di risarcimento del danno a carico del coniuge che, prima della nozze, non aveva informato la donna della sua impotenza a generale e, dopo le nozze, aveva rifiutato di sottoporsi alle necessarie cure. Richiamando l’orientamento in punto di danno non patrimoniale inaugurato da Cass. nn. 8827-8828 del 2003, la pronuncia stabilisce che il riaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 25 STUDI E RICERCHE spetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente costituisce il presupposto della responsabilità civile. La circostanza che il comportamento del coniuge costituisca causa della separazione o del divorzio non esclude che esso possa integrare gli estremi di un illecito civile, purché la condotta del coniuge, per la sua intrinseca gravità, si ponga come un’aggressione a diritti fondamentali della persona. La giurisprudenza di merito successiva si è conformata con immediatezza a tale apertura, fino a rendere ius receptum che la condotta di un coniuge, all’interno della relazione coniugale, può configurare un fatto lesivo della dignità, della libertà dell’altro, tale da essere qualificato alla stregua di fatto illecito fonte di responsabilità extracontrattuale. Non sono mancati, tuttavia, profili problematici che hanno riempito i numerosi dibattiti dottrinali e le riflessioni degli operatori con riguardo ai limiti, ai presupposti e alle modalità per far valere la responsabilità da violazione dei doveri tra coniugi. Un primo problema è di carattere strettamente processuale, ma denso di significative ripercussioni pratiche e in grado di condizionare l’ambito di rilevanza dei presupposti sostanziali: è il problema dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio. 26 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità ritiene la natura speciale del rito di separazione e divorzio e, pertanto, afferma l’inammissibilità di domande diverse nell’ambito di tali procedimenti. In senso contrario, tuttavia, è stato osservato che i procedimenti di separazione e divorzio, sebbene introdotti con ricorso e caratterizzati da una prima fase a cognizione sommaria dinanzi al Presidente del Tribunale, si sviluppano nella successiva fase a cognizione piena secondo il modulo procedimentale del rito ordinario, di cui sono richiamate le relative disposizioni e di cui sono pertanto applicabili le relative decadenze e preclusioni. In tale successiva fase le deroghe rispetto agli artt. 163ss. c.p.c. sono alquanto marginali e poco significative, tenuto conto, del resto, che: 1) la sentenza non definitiva sullo status è considerata non una deroga, ma un’applicazione dell’art. 277, comma 2, c.p.c.; 2) i poteri officiosi del giudice costituiscono la proiezione processuale della tutela sostanziale dei minori e sono conferiti all’organo giudicante a prescindere dal rito, come confermato dal comma 2 dell’art. 4 della legge 8 febbraio 2006, n. 54; 3) gli eventuali sub-procedimenti ex art. 709 ter c.p.c., quali parentesi che attengono all’attuazione dei provvedimenti relativi alla potestà genitoriale ed all’affidamento dei minori, sono assimilabili a sub-procedimenti che caratteriz- STUDI E RICERCHE zano altri giudizi a rito ordinario (si pensi, ad esempio, ai procedimenti concernenti l’attuazione dei provvedimenti cautelari emessi nel corso del giudizio di merito); 4) il giudice istruttore, nonostante l’inapplicabilità dell’art. 183, comma 3, c.p.c., può sempre disporre la comparizione delle parti ai sensi dell’art. 117 c.p.c. Neppure il rito camerale nel giudizio di appello costituisce una significativa deviazione rispetto al modello procedimentale del c.d. rito ordinario, posto che esso è previsto con una finalità di agevolazione e accelerazione del procedimento. Pertanto, la qualificazione del rito dei procedimenti di separazione e divorzio in termini di rito ordinario, renderebbe ammissibile la contestuale proposizione di tutte le domande connesse, soggette a rito ordinario e, per quanto qui rileva, della domanda di risarcimento del danno per violazione dei doveri familiari. La domanda di risarcimento del danno, peraltro, introduce elementi storici di valutazioni che non solo non possono ritenersi estranei ai fatti costitutivi della separazione o del divorzio, ma presentano profili di coincidenza tali da far ritenere che la trattazione unitaria della domanda di addebito e di risarcimento del danno risponda, altresì, ad esigenze di economia processuale. Non sussiste, invece, una connessione tecnica tra la domanda di risarcimento del danno e la domanda di addebito: pur presentando la fattispecie di addebito e la fattispecie dell’illecito endofamiliare una parziale identità di fatto storico, ovvero l’elemento comune della violazione dei doveri coniugali, l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno non appare dipendere dall’accoglimento della domanda di addebito. La violazione dei doveri coniugali assume un diverso rilievo nelle due fattispecie: - in quella di addebito si pone come causa della intollerabilità della prosecuzione della convivenza; - in quella di illecito come causa del danno ingiusto; È quindi possibile che la domanda di addebito sia rigettata nel caso in cui sia escluso o comunque non sia dimostrato il nesso di causalità tra la violazione dei doveri coniugali di un coniuge e la crisi familiare, ed al contrario la domanda di risarcimento del danno sia accolta, nel caso in cui sia provato che la violazione dei doveri coniugali perpetrata da un coniuge, pur non essendo la causa della crisi familiare, ha determinato un danno ingiusto all’altro coniuge. Ciò consente di affermare che la domanda di risarcimento del danno possa essere proponibile nel giudizio di separazione o divorzio, anche in assenza della contestuale proposizione della domanda di addebito. Un altro problema che si pone è quello del momento in cui debba essere proposta la domanda di risarcimento del danno all’interno del giudizio di separazione o divorzio. A proposito della domanda di addebito, la SC (Cass., sez. I, 7 dicembre 2007 n. 25618; Cass. 2818 del 2006) afferma che nel giudizio di separazione personale dei coniugi la domanda di addebito: - se proposta dall’attore, deve essere inserita nell’atto introduttivo del giudizio, esorbitando dalla semplice “emendatio libelli” consentita in corso di causa; - se presa dalla parte convenuta, è soggetta ai tempi ed ai modi della riconvenzionale; - non è configurabile la “reconventio reconventionis”. Non pare che le stesse affermazioni possano essere formulate anche con riguardo alla domanda di risarcimento del danno. 4. Separazione consensuale e diritto al risarcimento del danno L’intervento della Suprema Corte del settembre 2011 ribadisce che la violazione dei doveri che derivano dal matrimonio non trova sanzione unicamente nelle misure tipiche quale l’addebito della separazione, ma, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, integra gli estremi dell’illecito civile e dà luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. La sentenza si segnala per aver affermato che la mancanza della pronuncia di addebito in sede di separazione non è preclusiva dell’azione di risarcimento dei danni, non solo allorché, nell’ambito della separazione giudiziale, l’addebito non sia stato richiesto, ma anche nel caso in cui sia stato scelto il procedimento di separazione consensuale. Si può affermare, in altri termini, che l’adesione volontaria alla separazione personale non implica rinuncia all’accertamento delle cause della crisi del matrimonio, in quanto giudizialmente accertabili solo nel giudizio di separazione con specifica domanda di addebito. Anche in seguito a separazione consensuale, pertanto, il coniuge può a far valere i pregiudizi personali conseguenti alla violazione degli obblighi coniugali. Allo stesso modo, ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma unicamente in relazione al “petitum” azionato e non sussiste, pertanto, alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio. La violazione degli obblighi coniugali attribuisce il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., in presenza delle seguenti condizioni, così come stabiliti nelle sentenze delle Sezioni Unite del 2008: aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 27 STUDI E RICERCHE - che la violazione del dovere di fedeltà abbia provocato la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, posto che il danno, per essere a tal fine rilevante, non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà - di per sé non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria; - la lesione dell’interesse costituzionalmente protetto può verificarsi, ove si dimostri - ad esempio - che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo (con prova del nesso di causalità) a lesione della salute del coniuge o della dignità della sua persona; - che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. o che il danno non sia futile, ma abbia una consistenza che possa considerarsi giuridicamente rilevante. La Suprema Corte accoglie, dunque, la tesi secondo cui l’offesa derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà non sarebbe di per sé risarcibile, perché il diritto alla fedeltà sarebbe sancito esclusivamente nella legge ordinaria e non avrebbe tutela costituzionale. Proprio in applicazione di tali principi, in una successiva pronuncia, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito, che - nonostante l’addebito della separazione al coniuge infedele - aveva negato il risarcimento al coniuge vittima dell’infedeltà, in difetto di prova di condotte specifiche, dotate d’intrinseca gravità e della conseguente ingiusta lesione di un diritto costituzionalmente protetto dell’altro coniuge. Più recentemente, la Corte di Cassazione - continuando a negare che il diritto alla fedeltà coniugale costituisca una situazione meritevole di autonoma qualificazione e protezione risarcitoria - ha ribadito la necessità che l’infedeltà, per essere causa di obblighi risarcitori, debba consistere in una condotta lesiva di “altri” diritti della persona, quali “la salute, la privacy, i rapporti relazionali, ...la reputazione”. Può trarsi, quindi, dall’analisi giurisprudenziale una duplice indicazione: - il diritto alla fedeltà non ha tutela costituzionale e, per tale ragione, non merita di essere tutelato sul piano risarcitorio; - la violazione del dovere di fedeltà costituisce un illecito civile soltanto quando determini la lesione di altri diritti della persona. Entrambe le affermazioni danno adito a perplessità. In primo luogo, non si comprende per quale ragione non meriti tutela risarcitoria la violazione di 28 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 un obbligo espressamente sancito dal Codice Civile e talmente solenne da prevedere la legge un rimedio puramente sospensivo (come la separazione personale) prima di accedere all’unico strumento giudiziario-costitutivo costituito dal divorzio. In secondo luogo, può dubitarsi che i diritti e i doveri coniugali non abbiano alcuna tutela costituzionale, tenuto conto dell’art. 29 Cost, che attribuisce al matrimonio il ruolo di fondamento giuridico della famiglia. In definitiva, si può affermare che la giurisprudenza abbia accolto, in materia di risarcimento del danno intrafamiliare una concezione compensativa e del tutto aliena da logiche punitive, quali quelle che paiono affermarsi, invece, in sede di interpretazione e applicazione dell’art. 709 ter cpc. 5. L’esercizio abusivo del c.d. diritto “potestativo” alla separazione Un approccio così rigoroso, specie in materia di prova del nesso di causalità tra la condotta infedele e il pregiudizio del diritto della persona del coniugevittima pare risentire, del resto, della concezione “potestativa” accolta dalla Suprema Corte in materia di diritto alla separazione personale. Sul punto, la giurisprudenza non risparmia affermazioni “forti”, quando, ad esempio, proclama che, “con il matrimonio, ... secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus” ...valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un “diritto inviolabile” di ognuno nei confronti dell’altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge”, ovvero quando eleva la domanda di separazione a diritto soggettivo potestativo, sul presupposto che “in una visione evolutiva ...[i]l rapporto coniugale [debba ritenersi] nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge” al punto che “il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obbiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità a carico dell’altro, la convivenza”. Appare singolare, invero, che una tale concezione sia ritenuta diretta emanazione di quello stesso art. 29 Cost., che - lungi dal “costituzionalizzare” il diritto alla separazione - sancisce, al contrario, la garanzia dell’unità familiare. Ma anche a voler accogliere - si sarebbe tentati di dire ...per absurdum - una tale prospettiva, occorrerebbe domandarsi se il diritto alla separazione personale, ove esercitato con modalità inopinate, tali STUDI E RICERCHE da determinare uno squilibrio tra il vantaggio che si propone il coniuge che lo esercita e il pregiudizio che reca a carico del coniuge che riponeva legittimo e incolpevole affidamento sulla prosecuzione del comune progetto esistenziale e familiare, non legittimi quelle stesse valutazioni in termini di abuso del diritto, che la giurisprudenza da tempo compie in ambito di rapporti obbligatori e contrattuali. Né si può ammettere che - come sostenuto da qualche autore - la separazione o il divorzio non possano costituire di per sé causa di un “danno” a carico del coniuge che subisca la rottura del vincolo coniugale. Come è stato acutamente replicato da autorevole dottrina, «una simile opinione, a prescindere dall’asprezza ideologica, finisce per descrivere il vincolo matrimoniale come addirittura più lasco di un contratto, con riguardo al quale peraltro nessuno osa invocare la libertà per escludere la responsabilità della parte infedele». Deve ritenersi, pertanto, che il diritto alla separazione non possa prescindere, avuto riguardo alla liceità del suo esercizio, dal fondamento oggettivo, o quanto meno soggettivamente plausibile e ragionevole, dell’effettiva intollerabilità della convivenza. La richiesta di separazione (o di divorzio), motivata esclusivamente dal “desiderio” di riacquistare lo stato libero, dissimula un insussistente ius poenitendi rispetto al vincolo matrimoniale, che non può restare immune da valutazioni sotto il profilo dell’illiceità endofamiliare. 6. L’illecito nel rapporto tra genitori e figli: il rifiuto di assumere il ruolo di genitore Passando all’esame delle figure di illecito endofamiliare nel rapporto tra genitori e figli, un primo problema consiste nel determinare se possa qualificarsi come fatto illecito l’indebito rifiuto di assumere il ruolo genitoriale derivante dall’atto procreativo. Il nostro ordinamento riconosce, allo stato attuale della legislazione, sia la generale volontarietà dell’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.), sia la facoltà della madre di non essere nominata nell’atto di nascita (art. 30, comma 1, DPR n. 396/2000) e il corrispondente divieto di rilasciare, prima che siano decorsi cento anni, copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata (art. 93, comma 2, D. Lvo n. 196/2003). A ciò si aggiunga l’impossibilità giuridica del riconoscimento come figlio naturale di colui che risulti figlio legittimo altrui. Fatta eccezione per tale ultima ipotesi - nella quale veramente non si comprende come possa essere anche astrattamente compatibile l’impossibilità del riconoscimento con un obbligo risarcitorio per mancato riconoscimento - è controverso se il mancato o ritardato esercizio della facoltà di riconoscimento possa essere considerato alla stregua di una condotta lesiva del diritto del figlio a crescere e formarsi nell’ambiente familiare e sociale in conaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 29 STUDI E RICERCHE formità allo status che sarebbe conforme al legame biologico. L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla tesi dell’illiceità del mancato riconoscimento del figlio naturale è stato inaugurato dalla nota pronuncia della Suprema Corte, che era stata salutata come il primo riconoscimento della figura del danno esistenziale da parte della giurisprudenza di legittimità. In questa pronuncia, la Corte di Cassazione riconobbe il diritto al risarcimento del danno al figlio naturale in conseguenza della condotta del genitore (riconosciuto giudizialmente tale), che per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza. La Corte affermò che «poiché l’art. 2043 c.c., correlato agli artt. 2 ss. Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere non solo i danni patrimoniali in senso stretto, ma tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza)». Sono note alcune pronunce giurisprudenziali che hanno affermato la medesima responsabilità. Il Tribunale di Venezia ha ritenuto che «il figlio mai riconosciuto, che non ha potuto beneficiare della figura del padre naturale, subisce l’immotivata e dolorosa privazione di un apporto che la nostra Carta fondamentale garantisce pienamente all’art. 30 e, pertanto, egli ha di30 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 ritto al risarcimento del c.d. danno esistenziale ...anche se mancano segni evidenti sul piano psicopatologico che potrebbero, invece, configurare il danno biologico, perché ad essere leso in questo caso è un diritto fondamentale del figlio all’educazione e all’assistenza non solo economica». Secondo tale prospettiva, «il concepimento, che piaccia o meno, non si riduce a fatto meramente materiale, come accade invece in buona parte del regno animale ... ma implica inderogabilmente, anche per postulato costituzionale, il dovere di guidare la prole lungo il suo, peraltro non agevole, cammino di sviluppo psicofisico e di maturazione; conseguentemente, commette un fatto illecito il genitore naturale che non ha mai (fin dalla nascita del figlio) in alcun modo prestato a quest’ultimo una benché minima assistenza materiale, morale, affettiva e psicologica, rifiutandosi, malgrado i reiterati e sofferti tentativi del figlio di avere con lui anche sporadici rapporti d’alcun genere e, perfino, di incontrarlo. Secondo le due pronunce citate, dunque, sussisterebbe da un lato il diritto costituzionalmente tutelato del figlio al riconoscimento del proprio status e all’affermazione dei conseguenti diritti della personalità conseguenti all’accertamento della filiazione, dall’altro il dovere del genitore naturale di guidare la prole e di garantirle lo sviluppo psico-fisico in conformità al vincolo di sangue. Il medesimo Tribunale di Venezia - in una successiva pronuncia - ha espressamente confutato la tesi del contrasto logico-giuridico tra la volontarietà del STUDI E RICERCHE riconoscimento e l’antigiuridicità della consapevole omissione del riconoscimento stesso. Si è affermato, infatti, che «appare difficile sostenere la non obbligatorietà di un comportamento che, se non tenuto, può essere “sostituito” da una pronuncia giudiziale che ne produca identici effetti. In ordine al riconoscimento del figlio naturale infatti il genitore naturale non vanta alcuna facoltà di scelta: egli, se non intende spontaneamente riconoscere il figlio naturale, soggiace alle conseguenze della sentenza che detto status accerti; orbene, se il genitore non può sottrarsi agli effetti del riconoscimento dello status di filiazione, con ogni conseguenza non solo patrimoniale ma prima ancora familiare, se cioè l’accertamento giudiziale di detto status è una conseguenza obbligata dell’accertamento in fatto del rapporto di filiazione, appare doversene desumere che il riconoscimento del figlio naturale, cui appunto il genitore non può sottrarsi, non può che configurarsi come comportamento doveroso». Ma - secondo i giudici veneziani - anche a prescindere dal riconoscimento del figlio o dalla pronuncia della sentenza (dichiarativa) che accerti lo status di filiazione, la fonte dell’obbligo di mantenimento del figlio naturale risiede nel fatto stesso della filiazione, come si evincerebbe dal disposto dell’art. 279 c.c., che dispone che il figlio naturale possa agire nei confronti del padre per ottenere da costui mantenimento, istruzione ed educazione anche in quelle ipotesi in cui non possa proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità. Posto, quindi, che l’elemento oggettivo dell’illecito consisterebbe nella violazione dell’obbligo di mantenimento derivato dalla procreazione, l’elemento soggettivo richiederebbe quanto meno la colpa, che verrebbe a configurarsi nell’ipotesi di «una condotta deficitaria di uno sforzo diligente ... inteso a salvaguardare l’interesse di colui [il figlio naturale] con cui sorga un contatto sociale, cui deve riservarsi una forma di rispetto, entro i limiti delineati dai modelli di condotta tipici del concreto tipo di contatto sociale verificatosi nella fattispecie». Con riguardo alla quantificazione del danno sofferto, altra pronuncia ha ritenuto che il danno debba essere valutato considerando “la proiezione, su un piano probabilistico, delle possibilità esistenziali del figlio, in senso lato, ma estremamente significative (attività professionale, inserimento sociale, livello di vita, capacità economiche), se avesse potuto giovarsi degli apporti, non solo di natura finanziaria, del proprio genitore”. Nel caso di specie, il Giudice ha quantificato in £ 4.000.000.000 il danno subito dal figlio, tenuto conto dei «...pregiudizi relativi alla perdita della prospettiva di un inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del padre, perdita direttamente ricollegabile a quel deficit non solo di quegli apporti finanziari tali da consentire un livello d’istruzione di alto livello e l’intrapresa di attività professionali o imprenditoriali consone alla famiglia, ma anche di quei consigli, di quei suggerimenti, di quel sostegno morale tali da favorire - in assenza di fattori ostativi - la formazione di una personalità, di una cultura, di una capacità di intrattenere relazioni sociali di alto livello, direttamente ricollegabili al patrimonio morale e culturale della famiglia paterna». 7. Considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali L’orientamento giurisprudenziale sopra illustrato si presta ad alcune considerazioni problematiche e a valutazioni critiche. In primo luogo, se fosse vera la tesi della obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, non si vede perché il Codice non l’abbia sancita espressamente e, anzi, abbia preferito un’espressione letterale chiaramente attributiva al genitore della mera facoltà di riconoscimento. In secondo luogo, appare difficile coordinare l’obbligo del riconoscimento con la previsione del “consenso” al riconoscimento stesso da parte del figlio che abbia compiuto sedici anni ovvero, nel caso di minore infrasedicenne, dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, il quale non potrebbe negarlo, tuttavia, ove conforme all’interesse del minore. È noto come la giurisprudenza ritenga il difetto di interesse del figlio in presenza di un serio rischio per lo sviluppo psicofisico del minore, potenzialmente derivante del riconoscimento. Ma si tratta di un’affermazione poco coerente con la tesi del diritto assoluto del figlio, e della conseguente responsabilità civile del genitore renitente, posto che, a fronte del riconoscimento, nulla si frappone all’adozione di quelle misure limitative della potestà o della convivenza col figlio (art. 333 c.c.; art. 155 c.c., ecc.). La commistione degli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati rischia di condurre al paradosso di ritenere il diritto del figlio e l’obbligo del genitore al riconoscimento soltanto nei casi in cui dall’accertamento del rapporto di filiazione possano derivare concrete chances di miglioramento della condizione economico-sociale del figlio stesso, con la perniciosa applicazione di una sorta di criterio cripticamente plutocratico nell’ambito delle relazioni familiari. Inoltre, la tesi della obbligatorietà del riconoscimento è foriera di alcune implicazioni sistematiche, di cui la stessa giurisprudenza non appare, allo stato, pienamente consapevole. Se il genitore naturale è tenuto a riconoscere il figlio e, comunque, a mantenerlo in conformità alle proprie condizioni economiche e sociali, occorrerebbe per assurdo predicare una responsabilità in capo a tutti coloro che, frapponendosi all’attuazione di tale obbligo, pregiudichino in concreto la realizzazione del corrispondente diritto del figlio. Tale ragionamento porterebbe ad ipotizzare addirittura un obbligo di esperimento delle azioni giudiziarie necessarie per la rimozione dello status di figlio legittimo (art. 235 c.c.: aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 31 STUDI E RICERCHE azione di disconoscimento della paternità) che si frapponga alla realizzazione dell’asserito diritto del figlio al riconoscimento del legale giuridico corrispondente al fatto procreativo e al corrispondente obbligo del genitore di mantenimento ed educazione della prole derivato dagli procreativi al medesimo imputabili. In definitiva, pare possibile affermare che la tesi giurisprudenziale dell’illiceità del mancato riconoscimento derivi assai più dall’evoluzione della sensibilità culturale nei riguardi della responsabilità del fatto procreativo che non da un’armonica lettura del complessivo dato normativo che disciplina la materia della filiazione: una tesi de iure condendo, che preferisce “gettare il cuore oltre l’ostacolo” rappresentato da una legislazione ancora incentrata su una concezione volontaristica dello status genitoriale. 8. I fatti illeciti connessi all’esercizio della potestà Nel caso in cui sussista il rapporto genitoriale il problema dell’illecito del genitore nei confronti del figlio concerne, anzitutto, i limiti dell’esercizio della potestà: limiti già noti sin dall’antichità se è vero che Adriano dichiarava che patria potestas in pietate debet non atrocitate consistere. Pur senza alcun riconoscimento dogmatico di un principio di immunità, analogo a quello sviluppatosi nel Stati Uniti di fine ‘800, prima della riforma del diritto della famiglia fu affermato in dottrina un ambito di esenzione da responsabilità per gli atti dannosi compiuti dal genitore nell’esercizio dello ius corrigendi corollario della potestas genitoriale. L’abrogato art. 319 c.c. - che riconosceva al genitore il potere di “frenare la cattiva condotta del figlio” - era stato interpretato, infatti, nel senso che «il potere, nei limiti di un esercizio legittimo, adeguato alle circostanze e al pregiudizio che il genitore vuole evitare al figlio, determina l’immunità per le conseguenze dannose dell’atto stesso». La sostituzione della norma in seguito alla riforma del 1975 ha tolto ogni fondamento all’idea della liceità degli atti anche abusivi o violenti del genitore pur se finalizzati a reprimere la “cattiva condotta del figlio”, e ha finito col consolidare il convincimento, del tutto coerente col superamento della concezione autoritaria dei rapporti familiari, secondo il quale «un atto che determini un danno al figlio non può essere normalmente inteso come esplicazione della potestà». Nell’ordinamento spagnolo si è voluto sancire legislativamente un identico mutamento della nozione di potestà nelle relazioni familiari e nel 2007 è stato riformato l’art. 134 Codigo Civil, sul contenuto della potestà, eliminando l’ultimo inciso, secondo cui “[Los padres] ....podrán también corregir razonable y moderadamente a los hijos”, limitando il testo della norma alla previsione in virtù della quale Los padres 32 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 podrán, en el ejercicio de su potestad, recabar el auxilio de la autoridad. Si è espunto, in tal modo, ogni appiglio testuale allo ius corrigendi nell’educazione dei figli, per il dichiarato intento di tutelare maggiormente la sfera dei diritti della persona del minore, ma in concreto la riforma non ha inciso né sulla prassi, già di per sé improntata a un mutamento in tale direzione dell’evoluzione dei costumi, né sulle applicazioni di carattere giurisprudenziale. Il profilo della responsabilità può sussistere in presenza di condotte asseritamente assunte nell’esplicazione della potestà anche alla luce della legge sulle violenze familiari, posto che - come è stato puntualmente osservato - gli ordini di protezione non solo non escludono, ma sono pienamente compatibili col rimedio risarcitorio. Allo stesso modo, l’applicabilità delle misure giudiziali di revoca o limitazione della potestà genitoriale non preclude l’esperibilità del risarcimento del danno, che si pone sul piano generale della tutela della sfera minima dei diritti della persona. L’attuale estraneità dello ius corrigendi all’esercizio della potestà appare confermato dal rilievo per cui rientra nel contenuto della potestà l’obbligo del genitore di tutelare l’integrità psicofisica dei figli minori, anche prevenendo e impedendo possibili pericoli e pregiudizi provenienti da terzi, sicché sarebbe paradossale che la condotta violenza possa essere a priori scriminata proprio ove l’autore ne sia il genitore. In ambito penalistico, ad esempio, al genitore esercente la potestà sui figli minori è stata riconosciuta dalla giurisprudenza una posizione di “garanzia” in ordine alla tutela dell’integrità psicofisica degli stessi, con la conseguenza che egli risponde penalmente, ex art. 40, comma 2, c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti, ad esempio, dal coniuge (o dal convivente) sui figli, quando sussistano le seguenti condizioni: a) la conoscenza o conoscibilità dell’evento; b) la conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”; c) la possibilità oggettiva di impedire l’evento. La fonte di tale posizione di “garanzia” deve essere ravvisata nell’art. 147 c.c., che, nell’ambito dei doveri che gravano sui genitori, prevede, in particolare, l’obbligo di tutelare la vita, l’incolumità e la moralità sessuale dei figli minori contro eventi naturali o altrui aggressioni, anche endofamiliari, attraverso l’adozione delle misure più drastiche in vista del raggiungimento di tale scopo. In tale prospettiva, tra i “doverosi” interventi che il genitore è tenuto a porre in essere rientrano anche i rimedi estremi, quali la denuncia dell’autore del reato e il suo allontanamento dall’abitazione coniugale. La violenza - afferma la Suprema Corte - risulta incompatibile sia con la tutela della dignità del sog- STUDI E RICERCHE getto minorenne che con l’esigenza di un equilibrato sviluppo della personalità dello stesso, sicché non può mai considerarsi scriminata dall’esercizio della potestà genitoriale. La giurisprudenza è giunta, altresì, ad escludere correttamente che anche l’ingiuria possa essere scriminata dal presunto ius corrigendi «quando il tenore dell’espressione offensiva pronunciata, perentorio e rancoroso, oltre che di inusitata e brutale volgarità, sia tale da escludere ogni possibilità di ipotizzare un semplice rimprovero rivolto a fini educativi». La definitiva estraneità dello ius corrigendi al contenuto della potestà è consacrata dalla recente legge n. 219 del 2012, il cui art. 1, comma 7, introduce il nuovo art. 315 bis c.c., secondo cui «Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa». Profili di interesse - soprattutto sul piano dogmatico - presenta la configurazione della potestà come situazione giuridica soggettiva caratterizzata da doverosità in capo al genitore e alla quale corrisponde ora una situazione di pieno diritto soggettivo del figlio. Mentre, infatti, l’art. 147 c.c. indica come “dovere” dei genitori quello di istruire, mantenere ed educare la prole, il nuovo art. 315 bis c.c. attribuisce al figlio il «diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni». La norma corrisponde non solo all’evoluzione dei costumi e del sentire sociale, ma anche a quanto sancito nell’art. 155 c.c. in seguito alla riforma dell’affidamento condiviso del 2006, ove già era stato previsto il diritto del figlio minore, anche in caso di separazione personale dei genitori, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Salva, quindi, l’importanza simbolica dell’attuale riconoscimento normativo della posizione del minore, non è dato ipotizzare, allo stato, significative o rivoluzionarie innovazioni applicative, anche sotto il profilo della responsabilità civile. Naturalmente, l’estraneità dello ius corrigendi al contenuto della potestà genitoriale non esclude la necessità della valutazione di condotte, che si assumano inerenti all’esercizio del dovere di educazione, secondo parametri differenti da quelli che aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 33 STUDI E RICERCHE potrebbero essere adottati alla stregua del diritto comune. A prescindere, infatti, dalle fattispecie di maggiore gravità - che, non a caso, assurgono alla rilevanza di casi giurisprudenziali - appare difficile che la condotta illecita del “passante” possa essere equiparata a quella del genitore, allorché l’incidenza sulla sfera psicofisica del minore risulti transitoria, debole e congiunta all’ammonimento educativo e morale. 9. I fatti illeciti estranei alla funzione genitoriale La conclusione favorevole all’esperibilità del rimedio risarcitorio a fronte di condotte che rappresentino eccesso o deviazione dall’esercizio della potestà genitoriale deve essere a maggior ragione confermata in presenza di atti lesivi dell’integrità e dignità della persona che non siano commessi nell’esplicazione della funzione genitoriale. Si pensi, ad esempio, agli esiti di reati compiuti dal genitore ai danni del figlio e, con riguardo a illeciti colposi, al sinistro stradale in cui subisca danni il figlio del conducente responsabile. Dal primo punto di vista, è stata riconosciuta la responsabilità, anche civile, del genitore conseguente alla consumazione del reato di violenza sessuale di gruppo ai danni del minore, affermando che «ex art. 147 c.c. [alla madre] faceva capo un preciso obbligo giuridico, non solo morale di proteggere la crescita e la stessa educazione sessuale dell[a] figlia minore». Con riferimento agli illeciti colposi, da segnalare che l’originaria esclusione dai benefici dell’assicurazione obbligatoria - prevista nel testo dell’art. 4, legge n. 990/69 - è stata dapprima espunta con la legge di riforma del 1992 e quindi ribadita nell’attuale Codice delle assicurazioni, il cui art. 129 esclude l’indennizzabilità dei soli danni alle cose subiti dal coniuge non legalmente separato, dal convivente more uxorio, dagli ascendenti e discendenti. Appartiene, ormai, alla storia del pensiero giuridico la pur autorevole tesi dell’immunità dei genitori anche per simili illeciti, fondata sul dovere di mantenimento, nel senso che «in pratica, normalmente, il risarcimento del danno si realizzerà nell’ambito del dovere di mantenimento (che si estenderà, per esempio, alle cure, all’assistenza, alla degenza clinica); un’altra sanzione a carico del patrimonio del marito, o del padre, sarà la perdita - per un periodo più o meno lungo - dell’apporto di lavoro e, in senso più lato, della collaborazione che la moglie o il figlio, prima di subire il danno, ricavano dalla comunità familiare» 10. Esclusione dell’azione di regresso da parte del figlio Se è vero,dunque, che i genitori rispondono degli illeciti civili consumati ai danni dei figli, deve tuttavia escludersi che i genitori possano essere destinatari dell’azione di regresso da parte del figlio in 34 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 seguito all’illecito da quest’ultimo commesso ai danni di un terzo che abbia invocato la responsabilità solidale ex art. 2048 c.c. Posto che il figlio risponde direttamente del danno in ragione della propria capacità di intendere e di volere, la propria responsabilità diretta assorbe ogni possibilità di far valere, alla stregua del terzo danneggiato, la violazione dell’obbligo di educare e vigilare sulla prole. In tal caso, non è scindibile - ai fini di cui all’art. 2055 c.c. - la colpa del minore nella realizzazione dell’illecito dalla culpa in educando o in vigilando del genitore. Conseguentemente, ove il patrimonio del minore sia stato in grado di far fronte alla pretesa risarcitoria del terzo, non sarebbe ammissibile un’azione di regresso verso i genitori la quale presupporrebbe la negazione di quella capacità di recepimento e rielaborazione dei precetti educativi che nel minore imputabile deve necessariamente presumersi. 11. Il diritto del figlio al risarcimento del danno per violazione degli obblighi coniugali Un cenno riflessivo merita l’ipotesi della pretesa risarcitoria del figlio per quegli stessi fatti che possono fondare l’azione di risarcimento da parte di altro membro della famiglia. Occorre interrogarsi, cioè, se la violazione del diritto all’integrità delle relazioni familiari non possa legittimare l’azione del figlio a fronte dell’inopinata decisione, ad esempio, del padre di rompere l’unità familiare o in conseguenza di condotte lesive degli obblighi nei confronti del coniuge (e, quindi, dell’altro genitore) ovvero per il desiderio capriccioso di riacquistare lo stato libero. Posto che in altri ordinamenti è stato riconosciuto, sia pure nel rapporto tra coniugi, il c.d. danno da divorzio, è giunto anche da noi il momento di chiedersi se sussista e sia esercitabile senza alcun limite il diritto del coniuge di domandare la separazione o il divorzio, quando tale decisione rechi pregiudizio grave non solo al coniuge, ma anche agli altri componenti della comunità familiare, quasi sempre descritti, con una retorica figurativa che non trova tuttavia riscontro in applicazioni giuridiche, come le “vittime incolpevoli” (e bisognerebbe aggiungere - “non risarcite”) della disgregazione della famiglia. 12. Il diritto del genitore al risarcimento del danno per fatto illecito del figlio Deve riconoscersi, parimenti, l’ammissibilità del diritto del genitore al risarcimento del danno conseguente al fatto illecito commesso dal figlio. Una tale acquisizione consentirebbe di superare anche alcuni vetusti limiti, che ancora permangono nell’ambito del diritto penale, là dove non si è ancora ripensata la congruità della causa di non punibilità dell’art. 649 c.p., che impedisce la punizione dei più STUDI E RICERCHE diffusi reati contro il patrimonio se non commessi con violenza alle persone. L’esperienza - specie quella dei reati commessi per approvvigionarsi della liquidità necessaria all’acquisto di sostanze stupefacenti - induce a qualche perplessità sulla permanente opportunità di tale soluzione, specie quando il comportamento del figlio non risulti sussumibile nella categoria degli abusi familiari e non consenta, pertanto, neppure la misura (preventiva rispetto alla reiterazione dell’illecito) dell’allontanamento dalla casa familiare. 13. Conclusioni Il quadro giurisprudenziale in tema di illecito endofamiliare e la pluralità delle opinioni dottrinali si presentano, in definitiva, dati complessi e variegati, al punto da non consentire oggi agevoli previsioni circa l’evoluzione del sistema giuridico e del diritto vivente. La stessa riconduzione dell’illecito familiare nell’alveo della responsabilità civile potrebbe essere confutata qualora la giurisprudenza ritenesse di proseguire in alcune aperture riguardanti i cc.dd. obblighi di protezione che - se devono ritenersi sussistenti nelle relazioni contrattuali - possono essere parimenti rinvenuti all’interno delle relazioni fami- liari, intimamente caratterizzate da preesistenti doveri a contenuto ampio e senza una specifica prestazione predeterminata. Se, al contrario, la giurisprudenza dovesse continuare a preferire la dimensione della responsabilità civile, occorrerà approfondire, senza scorciatoie costituzionali, il profilo dell’ingiustizia del danno, sia per evitare il rischio di contraddizioni nel sistema (come, ad esempio, in tema di danno da mancato riconoscimento), sia per determinare il contenuto di situazioni giuridiche che - come la potestà - risentono più di altre dei mutamenti culturali e del costume. Alla giurisprudenza deve già essere riconosciuto, peraltro, il merito (e il coraggio) di aver attribuito rilevanza giuridica alla responsabilità, in passato solo morale, sia per la violazione dei obblighi coniugali di fedeltà e assistenza, sia per il compimento dell’atto procreativo: intorno a questi principi di civiltà è necessario ricomporre la coerenza del sistema, nell’indomita speranza che anche il legislatore voglia, purché con prudenza e rigore tecnico, contribuire all’adeguamento delle norme ai valori morali e sociali condivisi. Note 1 S. PATTI, Il declino della immunity doctrine nei rapporti familiari, in Riv. Dir. Civ., 1981, 378 ss. 2 Cass. 13 gennaio 1993, n. 348 3 Cass. 2 gennaio 2012 n. 9. Anche recentemente il Trib. Bari, 28 settembre 2006 (Corriere Merito, 2007, 3, 295), ha escluso il risarcimento dei danni non patrimoniali, affermando che “l’obbligazione risarcitoria di cui all’art. 81 cc è un obbligazione ex lege che sfugge agli schemi di cui all’art. 2043 cc e resta regolato dal solo art. 81, che menziona unicamente le spese fatte e le obbligazioni contratte” (nelle stesso senso restrittivo, Trib. Monza 6 giugno 2006; Trib. Reggio Calabria 12 agosto 2003, Dir. Famiglia, 2004, 484) 4 Trib. Treviso 29 gennaio 1982, Dir. famiglia, 1982, 1313: non è fondata la richiesta di risarcimento del danno proposta, sotto il profilo della violazione del suo diritto all’integritàmorale e di libertà, dalla donna nei confronti di chi l’abbia sedotta con la promessa di matrimonio futuro, allorché il fatto non costituisca reato, data la maggiore età della donna, poiché non è possibile, nella specie, ravvisare alcuna violazione del generale precetto del “neminem laedere”, stante che non sussistono norme di diritto che sanciscono, nei rapporti attinenti alla sfera sessuale, il rispetto dei comuni doveri di lealtà, buona fede, correttezza e diligenza. Trib. Verona 29 gennaio 1982, Giur it., 1983, I, 2, 118: La seduzione con promessa di matrimonio non costituisce illecito civile, secondo i principi della responsabilità extracontrattuale, ma dà luogo soltanto alle conseguenze giuridiche previste dagli art. 80 e 81 c.c. 5 Cass., sez. III, 8 luglio 1993 n. 7493, Foro it., 1994, I, 1878, secondo cui «l’accertamento del requisito del rapporto causale tra la promessa e la traditio corporis involge una valutazione di fatto, ai fini della quale il giudice, atteso le difficoltà della prova, può avvalersi di elementi indiziari e prove presuntive, occorrendo però che l’indagine presuntiva sia basata su elemento particolarmente gravi e concordanti, da valutarsi anche in relazione alle condizioni ambientali e culturali dei soggetti (cfr. sent. Cass. n. 510 del 1976)». 6 Cass., sez. I, 22 marzo 1993 n. 3367. 7 Cass., sez. I, 6 aprile 1993 n. 4108 8 4. Vedi in particolare Cass. 25 marzo 2003, n. 4367 “Le fattispecie di cumulo soggettivo (art. 33 c.p.c.) ed oggettivo (art. 104 stesso codice) di domande - espressioni della cd. connessione per coordinazione, in cui la trattazione simultanea dipende dalla sola volontà delle parti, e la separazione delle cause è sempre possibile, con l’unico rischio di una contraddizione tra giudicati - non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 40, comma terzo c.p.c., come introdotto dalla legge 353/1990, non essendo consentito che il mutamento del rito, imposto da detta norma, sia conseguenza di una mera scelta dell’attore con riferimento a cause non connesse o non collegate da rapporti di evidente subordinazione, in caso opposto restando vulnerato il principio del giudice naturale precostituito per legge, di cui all’art. 25 della Costituzione (si è così esclusa la possibilità del “simultaneus processus”, nell’ambito dell’azione di divorzio soggetta al rito della camera di consiglio, con riferimento a domande riguardanti la proprietà di immobili ovvero l’incremento di valore degli stessi, per essersi ritenuta inapplicabile la regola di cui al citato art. 40 c.p.c)”; Cass. 19 gennaio 2005, n. 1084 “La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990, soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di separazione giudiziale di coniugi, soggetta al rito camerale, e di quella di accertamento della proprietà della casa coniugale, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di con- aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 35 STUDI E RICERCHE nessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra”; Cass. 6 dicembre 2006, n. 26158 “La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990, soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra”. In questo senso, per la giurisprudenza di merito, vedi, tra le altre, Trib. Bari, Sez. I, 19 aprile 2006; Trib. Monza, Sez. IV, 12 dicembre 2005; Trib. Modena, Sez. II, 1° dicembre 2005. 9 Cass. 20 febbraio 1996, n. 1314, “la sentenza non definitiva sullo status, anche senza istanza di parte, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, configura non una deroga, ma un’ipotesi di applicazione del principio generale di cui all’art. 277, secondo comma, c.p.c., con l’unico elemento distintivo della sostituzione all’istanza di parte ed alla necessaria verifica della sussistenza di un apprezzabile interesse concreto di questa alla sollecita definizione della domanda, di una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia non definitiva ad un interesse siffatto”. 10 Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 11 Cass., sez. VI, 17 gennaio 2012, n. 610 12 Cass., sez. I, 1 giugno 2012 n. 8862 13 Per una riflessione sul tema, G. FERRANDO, Responsabilità civile e rapporti familiari alla luce della l. n. 54/2006, in Fam. Pers. Succ., 2007, p. 590 ss. Sull’incidenza del nuovo art. 709 ter c.p.c. sul tema della responsabilità civile in famiglia, A. D’ANGELO, Il risarcimento del danno come sanzione? alcune riflessioni sul nuovo art. 709 ter c.p.c., in Familia, 2006, pp. 10311051. 14 Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853 15 Così, espressamente, Cass., sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21099 16 Cass., sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3356 17 Così, ad esempio, FACCI, L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari, Contr. impr., 2005,, 1244, secondo cui «ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia». 18 A. NICOLUSSI, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Europa e dir. priv., 2008, 19 Sui profili di criticità dell’attuale sistema di accertamento della maternità e sulle prospettive di evoluzione, si veda la fondamentale monografia di A. RENDA, L’accertamento della maternità, Torino, 2008. 20 Sul punto, Tar Marche, sez. Ancona, 13 novembre 2008 n. 1914, in Giur. merito, 2009, 6, 1529, con nota di: Santarsiere, secondo cui il divieto di rendere note le origini biologiche del figlio naturale abbandonato all’assistenza pubblica senza il consenso della propria madre fu sancito da legge datata e in seguito si è affermato attraverso il diritto all’anonimato della madre, che, in occasione del parto, dichiari di non voler essere nominata, consentendo, se vi fosse interesse, il rilascio in copia del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica decorsi cento anni dalla formazione. Infra tale periodo i documenti stessi possono rilasciarsi omettendo i dati che permettano di identificare la madre. Quindi, il divieto di accedere agli atti amministrativi, ove rendessero identificabile la madre che voglia rimanere anonima, è posto da norma speciale, facente eccezione alle regole generali che disciplinano i limiti di tempo e le modalità per ottenere le informazioni, la cui finalità sarebbe elusa se l’identità della madre fosse accertabile anzitempo. 21 Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. e dir., 2001, p. 159, con nota di Dogliotti, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale; in Corr. giur., 2000, p. 873, con nota di De Marzo, La cassazione e il danno esistenziale; in Danno e resp., 2000, p. 835, con note di MONATERI, Alle soglie: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata; in Resp. civ. prev., 2000, p. 923, con nota di Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale 22 Trib. Venezia, 30 giugno 2004, in Fam. e dir., 2005, p. 297 23 Trib. Venezia, 18 aprile 2006, in Fam. e dir., 2007, p. 927, con nota di Facci, La responsabilità del genitore che sceglie di non riconoscere il figlio e non provvede al suo mantenimento: una sentenza importante. 24 App. Bologna, 10 febbraio 2004, in Fam. e dir., 2006, p. 511, con nota di Facci, L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa e risarcimenti ultramilionari 25 Art- 250 c.c.: Il figlio naturale può essere riconosciuto, ... 26 Da ultimo, Cass., 5 giugno 2009, n. 12984, Giust. civ., 2010, I, 1442; Cass. 27 maggio 2008, n. 13830, Foro it., 2008, 9, I, 2457 27 P. RESCIGNO, Immunità e privilegio, in Riv. Dir. Civ., 1961, I, 439. 28 S. PATTI, op. cit., 403. 29 Disposizione Finale 1.2 della Legge sulla adozione internazionale, Legge 28 dicembre 2007 n. 54 30 S. PATTI, Violenza tra familiari: dall’immunità alla sanzione, Festschrift für Erik Jayme, Bd. 2 (München 2004), 1536. 31 Così già S. PATTI, Il declino, cit., 403 32 Cass. Pen. 5 marzo 2008; Cass. pen. 14 dicembre 2007; Cass. pen., 19 gennaio 2006. 33 Cass. pen., sez. V, 10 ottobre 2012 n. 45859. 34 Cass. Pen. 3 novembre 1994, Fioravanti: fattispecie nella quale il padre aveva apostrofato la figlia minore con le seguenti espressioni: sei ancora vergine? sei una p...., con quante persone sei andata a letto? 35 Per una tesi approfonditamente contraria alla generale applicazione delle regole di responsabilità civile nell’ambito della famiglia, proprio in virtù di una concezione restrittiva dell’istituto della responsabilità aquiliana, A. NICOLUSSI, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Europa e dir. Priv., 2008. 36 In tal senso, non pare poter costituire un apprezzabile modello il sistema svedese che considera in ogni caso alla stregua di maltrattamento l’atto violento nei confronti del figlio. Per questa ragione, durante la scorsa estate, è stato arrestato e incriminato un turista italiano che, per reprimere il capriccio del figlio dodicenne, gli aveva sferrato una sberla: www.cnrmedia.com 37 Cass. pen., 27 settembre 2011, n. 34900. 38 P. RESCIGNO, Immunità e privilegio, cit., 440. 39 Art. 266 code civile francese. 40 In questo senso, la tesi secondo cui «ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia» (FACCI, L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari, cit., 1244), è stata argutamente criticata da chi ha obiettato che «una simile opinione ... finisce per descrivere il vincolo matrimoniale come addirittura più lasco di un contratto, con riguardo al quale peraltro nessuno osa invocare la libertà per escludere la responsabilità della parte infedele» (NICOLUSSI, Obblighi di protezione, cit., nota 49). 36 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA IL PUNTO SULLA GIURISPRUDENZA IN TEMA DI ART. 709TER C.P.C. SARA MAFFEI CULTORE DELLA MATERIA, DIRITTO PROCESSUALE CIVILE UNIVERSITÀ DI PISA Art.709ter. (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni) Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende. I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari. 1. Introduzione. 2. Sulla natura delle misure di cui all’art. 709ter c.p.c. 3. L’ambito di applicazione. 4. La competenza come problema. 5. Sull’applicabilità d’ufficio delle misure ex art. 709ter c.p.c. 6. Il procedimento e le sue forme 7. Sulle modalità d’individuazione della misura da applicare: in particolare la necessità della prova del danno. 8. L’impugnabilità dei provvedimenti ex art. 709ter c.p.c. come problema. 1. Introduzione Con la volontà di garantire maggiormente la tutela del minore, in particolare con riferimento alle possibili controversie tra genitori concernenti l’affidamento e l’esercizio della potestà, il legislatore, con la legge 8 febbraio 2006 n. 54, ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova disposizione: l’art. 709ter c.p.c.. Il legislatore, compresa l’inadeguatezza delle forme tradizionali dell’esecuzione forzata nell’ambito dei processi familiari, ha fornito il giudice di strumenti maggiormente idonei qualora debba fronteggiare l’attuazione concreta dei provvedimenti dettati in materia di affidamento e consegna dei minori. Il dettato che ne discende traccia una disciplina di non semplice lettura, che ha permesso lo sviluppo di diversi indirizzi giurisprudenziali e dottrinali sui punti che non chiarisce. La norma ha un’ampia portata applicativa dato che può esser utilizzata: in caso di separazione personale dei coniugi (anche in virtù della sua dislocazione nel codice), nell’ipotesi di procedimenti di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (così come nel caso della nullità dello stesso), ed infine nei procedimenti che si occupano di figli minori di genitori non coniugati. Da ciò si possono desumere almeno due conseguenze. In primis l’applicabilità dell’istituto alla presenza di qualsivoglia rapporto di filiazione, essendo sufficiente il riferimento alla prole minore (o maggiorenne portatrice di handicap). Secondariamente, poi, il dato per cui tale procedimento è presentabile tanto in via principale autonoma secondo l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, quanto in via principale qualora sia utilizzato con la domanda volta a ottenere una modifica delle condizioni di separazione o divorzio; infine, è possibile anche la presentazione in via incidentale del procedimento qualora si versi in un’ipotesi di crisi matrimoniale e altresì di procedimenti riguardanti figli di genitori non coniugati. La giurisprudenza, in questi primi otto anni dall’entrata in vigore della norma, ha avuto molteplici occasioni per esprimersi circa le novità introdotte dall’art. 709ter c.p.c. e generare dei filoni interpretativi sulle questioni applicative di maggiore interesse e riscontro pratico. 2. Sulla natura delle misure di cui all’art. 709ter c.p.c. L’art. 709ter c.p.c. introduce una serie progressiva di misure coercitive indirette finalizzate a garantire l’attuazione dei provvedimenti in materia di esercizio della potestà genitoriale e di affidamento. In altre parole, il Legislatore disciplina un sistema di sanzioni che interviene qualora si verifichino “gravi inadempienze” o altri atti pregiudizievoli per il minore. Si tratta, come noto, della possibilità per il giudice di modificare i provvedimenti già in vigore, di ammonire il genitore inadempiente, di condannare il meaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 37 LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA desimo a forme di risarcimento danni (nei confronti del minore o dell’altro genitore) o ad una “sanzione amministrativa.”Sin dalle primissime pronunce successive all’introduzione della norma, l’indirizzo giurisprudenziale dominante che si è creato, a proposito della natura delle misure in oggetto, è stato proprio quello dell’indole sanzionatoria. In particolare, con riferimento ai nn. 1 e 4 della norma quasi all’unanimità è stato riconosciuto il carattere esclusivamente sanzionatorio e volto a reprimere la mancata ottemperanza ai provvedimenti dati. Le maggiori discussioni si sono avute con riferimento ai nn. 2 e 3 ed in particolare alla loro natura, risarcitoria o sanzionatoria. Fatta questa premessa, risulta interessante l’indirizzo costante del Tribunale di Messina,1il quale ha sempre evidenziato l’appartenenza delle misure di cui all’art. 709ter c.p.c. al novero degli strumenti sanzionatori.2 Il medesimo tribunale ha più volte specificato come i provvedimenti ex art. 709ter fanno parte della categoria dei punitive damages (o danni punitivi)3. Nella lettura data da questo Tribunale, dunque, il modello di riferimento dovrebbe essere quello per cui, nei paesi di Common Law, al danneggiato è assegnato un risarcimento maggiore di quanto necessario per ristorare il danno così da affliggere il danneggiante.4Il Tribunale di Napoli,5pur riconoscendo la natura punitiva dei provvedimenti in oggetto, li ha invece ricondotti all’istituto franco-belga delle astreintes. In altre parole, si è dinanzi a strumenti volti a coartare la volontà del soggetto obbligato affinché non 38 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 perseveri nell’inadempimento. Sono strumenti che esercitano forme di pressione psicologica sul soggetto tenuto ad un dato comportamento per vincerne la resistenza. Il funzionamento dell’astreinte è basato sul fatto di irrogare una condanna pecuniaria ulteriore a quella c.d. principale e crescente nel tempo per portare il debitore ad adempiere (dato che per ogni ritardo la sua posizione si aggrava). Ancora, il Tribunale di Padova6qualifica come sanzionatorie anche le misure di cui ai n.n. 2 e 3 (risarcimento dei danni nei confronti del minore o dell’altro genitore). Nella medesima direzione, il Tribunale di Reggio Emilia7si è espresso definendo sanzionatori i provvedimenti che il legislatore ha disciplinato al secondo comma dell’art. 709ter del codice di rito, oltre che finalizzati a coartare, nel senso dell’adempimento, il comportamento dei genitori. Anche pronunce più recenti8confermano che si è dinanzi all’applicazione di sanzioni volte a fornire strumenti per la soluzione di conflitti tra genitori in conseguenza all’affidamento o comunque relativi ai figli. Infine, interessante evidenziare la posizione del Tribunale di Roma9che compie l’ulteriore passo di specificare come le misure di cui all’articolo in oggetto siano “punitive e coercitive”. 3. L’ambito di applicazione La giurisprudenza si è trovata altresì a prendere posizione su una questione di grandissimo interesse, soprattutto pratico. Si tratta, in particolare, LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA dell’utilizzabilità dell’art. 709ter c.p.c. e degli strumenti che mette a disposizione rispetto a violazioni relative ad aspetti economici. In altre parole, premesso che la norma è utile a fronte del comportamento inadempiente di uno dei genitori rispetto a quanto è disciplinato nei provvedimenti riguardanti la separazione o al divorzio, oltre che dinanzi ad atteggiamenti lesivi per gli interessi dei figli, la giurisprudenza si è chiesta se tali misure siano utilizzabili anche a fronte di violazioni riferite esclusivamente agli aspetti economici. Rispetto a tale questione può essere utile ricordare che, tradizionalmente, le posizioni tutelate nella crisi della famiglia sono tripartite in personali, patrimoniali o miste. Tale distinzione poggia sul contenuto principale del diritto che si vuole garantire; ad esempio, alla luce di tale ricostruzione è una situazione personale l’affidamento, patrimoniale il diritto al mantenimento e mista l’assegnazione della casa familiare. Il punto, però, si può mettere in discussione nei seguenti termini: è possibile fare una distinzione fondata su tale criterio, il contenuto del diritto, o in un ambito come il diritto di famiglia esistono solo situazioni latu sensu personali? In particolare ci si può chiedere se, in tale contesto, tutelare uno qualunque dei diritti sopra menzionati, indirettamente, non significhi anche garantire il diritto alla vita, diritto personale per eccellenza. Bisognerebbe, forse, giungere a un ripensamento delle categorie tradizionali alla luce delle peculiarità dell’ambito nel quale ci troviamo ad operare e ricondurre tutto, appunto, alle situazioni latu sensu personali. Chiusa questa parentesi, non si può non riscontrare come il filone giurisprudenziale maggioritario10abbracci l’idea che si prospettava (supra), ritenendo applicabile l’art. 709ter c.p.c. anche solamente dinanzi ad una violazione rispetto a situazioni patrimoniali. In particolare, è evidenziato lo stretto legame che intercorre tra l’inadempienza patrimoniale ed il corretto svolgimento dell’affidamento.11In senso contrario si è espressa quella parte di giurisprudenza12che ritiene utilizzabili le sanzioni di cui all’art. 709ter c.p.c. solo rispetto ad inadempimenti a fronte di situazioni personali.Da segnalare a parte la posizione del Tribunale di Ancona.13Infatti, il Tribunale dei minorenni di Ancona ha ritenuto non applicabile la sanzione amministrativa, ex art. 709ter, n.4, c.p.c. “se il genitore coobbligato al mantenimento della figlia si sia astenuto dall’erogare solo le somme legate alla rivalutazione annuale, in base agli indici Istat, dell’assegno originario.” 4. La competenza come problema L’art. 709ter c.p.c. espressamente recita “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso.” Il problema rispetto al quale la giurisprudenza si è trovata a schierarsi concerne la determinazione del concetto di “giudice del procedimento in corso.” In generale, sarà competente il giudice del procedimento di separazione, di divorzio, di annullamento del matrimonio o di affidamento di figli di genitori non coniugati. La questione diviene più complessa qualora ci s’interroghi sulla competenza del giudice istruttore o del Collegio all’interno di un procedimento di separazione (o divorzio). In altre parole, può il giudice istruttore, durante un procedimento di separazione o di divorzio non ancora in fase decisoria, essere ritenuto competente di emanare i provvedimenti ex art. 709ter c.p.c.? In giurisprudenza prevale nettamente l’indirizzo che ritiene “giudice del procedimento in corso” anche il giudice istruttore e non soltanto il Collegio.14Infatti, la norma oggetto di questa rassegna prevede una serie di misure che rivelano la loro massima utilità qualora siano utilizzate immediatamente a seguito del mancato adempimento; relegarne l’utilizzo alla fase finale della decisione significherebbe svuotare di molto la reale portata degli strumenti di cui si discute. Nel ragionamento di questo indirizzo giurisprudenziale15è interessante il richiamo alle argomentazioni di cui alla sentenza 19 luglio 1996, n.258 della Corte Costituzionale.16Con tale pronuncia il giudice delle leggi ha stabilito che “È costituzionalmente illegittimo - per contrasto con gli art. 3, 29 e 30 cost. - l’art. 156 comma 6 c.c., nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa adottare, nel corso della causa di separazione, il provvedimento di sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato al mantenimento.”In particolare, dal momento in cui il Legislatore, ben comprendendo la necessità di forme di tutela privilegiate a garanzia dei provvedimenti di tipo patrimoniale, ha coniato questa specie particolare di sequestro, non si vede perché non rendere disponibile il medesimo istituto anche per i provvedimenti temporanei ed urgenti stabiliti nell’ordinanza presidenziale. In questo modo, grazie alla pronuncia della Corte, è divenuto possibile richiedere il sequestro ex art.156 c.c. anche al giudice istruttore, qualora si versi in un’ipotesi d’inadempimento rispetto a quanto stabilito dall’ordinanza presidenziale. Sulla base del ragionamento appena ricostruito, il Tribunale di Messina17ritiene che “non si può certamente condividere l’opinione di chi ritiene che i provvedimenti ex art. 709ter c.p.c. possono essere adottati solo dal Collegio, in quanto la competenza del giudice istruttore sarebbe limitata ai provvedimenti temporanei ed urgenti, perché ad esempio il sequestro ex art. 156 c.c. (è) di competenza del giudice istruttore per decisione del giudice delle leggi (..).” In senso contrario, il Tribunale di Pisa18ha ritenuto ascrivibile al concetto di “giudice del procedimento in corso” esclusivamente il “giudice titolare del procedimento”, ovverosia il Collegio. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 39 LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA 5. Sull’applicabilità d’ufficio delle misure ex art. 709ter c.p.c. La questione della possibilità di applicazione ex officio delle misure di cui all’art. 709ter c.p.c. è strettamente connessa alla problematica della natura degli strumenti in oggetto (supra, par.2). Dall’osservazione dell’andamento delle pronunce è dato, infatti, rilevare che la giurisprudenza che considera gli strumenti ex art. 709ter c.p.c. come misure di tipo punitivo-sanzionatorio tendenzialmente è la stessa che ravvisa un potere d’ufficio del giudice nella loro applicazione (quanto meno con riferimento ai numeri 1 e 4 dell’art. 709ter c.p.c.). L’indirizzo dominante pare ancora proprio quello che distingue tra le misure puramente sanzionatorie (di cui ai nn. 1 e 4) per le quali è possibile un’iniziativa d’ufficio, e quelle di cui ai nn. 2 e 3 per le quali vale il principio della domanda. Ciò nonostante vale la pena forse di ricordare che il bene giuridico garantito dalla norma in oggetto è il medesimo, e cioè l’esatta attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento ed alla potestà. Se questo è vero, e se la funzione coercitiva e sanzionatoria investe tutti gli aspetti della norma, forse non è negabile un intervento ex officio generalizzato. Ciò premesso, nella giurisprudenza di merito, sull’applicabilità d’ufficio delle misure di cui all’art. 709ter del codice di procedura, si riscontrano posizioni diverse. Il Tribunale di Salerno19ha ritenuto che “ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. (..) il giudice - anche d’ufficio - può modificare i provvedimenti in vigore.” Nella stessa direzione, avanzando, si muove la pronuncia del Tribunale di Modena20che afferma l’esistenza del potere d’ufficio del giudice nell’applicazione della misura di cui al numero 1 dell’art. 709ter del codice di rito (ovverosia l’ammonizione). Il Tribunale di Palermo,21compiendo un ulteriore passo, ritiene applicabili d’ufficio dal giudice anche le misure previste dai numeri 2 e 3 dell’art. 709ter c.p.c. Infine, va ricordata la pronuncia con cui il Tribunale di Roma22 sembrerebbe ritenere applicabili d’ufficio tutti i provvedimenti di cui all’articolo in oggetto. 6. Il procedimento e le sue forme Rispetto alle forme del procedimento da seguire, qualora si voglia richiedere una modifica dei provvedimenti in vigore rispetto a quanto stabilito nella sentenza di separazione o cessazione degli effetti del matrimonio (ex art. 709ter c.p.c.), o uno degli strumenti di esecuzione indiretta di cui si discute, la giurisprudenza di merito ha prospettato diverse strade. Una prima possibilità23risiede nell’utilizzo delle forme di cui all’art. 710 c.p.c. o dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970. Stando a questa ricostruzione non è necessario andare a distinguere sulla base del contenuto dell’istanza. In senso contrario alla possibilità appena prospettata, il Tribunale di Termini Imerese24ha ritenuto che sia necessario operare una 40 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 bipartizione. In particolare, giacché la ratio che ha condotto all’introduzione dell’art. 709ter c.p.c. risiede nella volontà di andare a fornire una risposta ai problemi di attuazione di provvedimenti che sono in vigore, è necessario ravvisare nell’istanza la presenza di tali problemi di attuazione. Viceversa, qualora la richiesta di modifica si radichi in problematiche di altra natura, sarà necessario utilizzare le forme della domanda di modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti. Infine, parte della giurisprudenza25ha specificato che qualora non vi sia un “procedimento in corso” le misure di cui all’art. 709ter c.p.c. andranno richieste nelle forme del rito camerale, in linea con l’art. 710 del codice di rito. 7. Sulle modalità d’individuazione della misura da applicare: in particolare la necessità della prova del danno Il secondo comma dell’art. 709ter c.p.c. individua le effettive misure26che il Legislatore ha previsto per le fattispecie di “gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento.” Il problema principale che investe questa parte della norma risiede nel fatto che non è dato al giudice alcun criterio pratico da applicare per la scelta della misura da adottare. Allo stesso modo, rimangono piuttosto indefiniti tanto i contorni delle fattispecie sanzionabili quanto le entità e la tipologia d’istruttoria necessaria per irrogare le condanne risarcitorie. Si concentri l’attenzione sui numeri 2 e 3 del secondo comma della norma in oggetto e ci si chieda se è possibile la pronuncia di tali forme di risarcimento dei danni senza un’istruttoria circa la misura e la tipologia del danno sofferto. Ebbene, proprio su questo punto si sono venuti a delineare due contrapposti indirizzi nella giurisprudenza di merito. Un primo filone27distingue la condanna irrogabile ex art. 709ter del codice di rito da quella volta a riparare il danno che si è provocato a seguito dell’illecito. Milita in questo senso la considerazione per cui “l’indagine di cui all’art. 709ter c.p.c. si limita ad accertare eventuali gravi inadempienze riguardanti provvedimenti già emessi e relative al procedimento in corso”28ma non a risolvere tutte quelle questioni connesse alle azioni di risarcimento del danno, per le quali è necessario rientrare nelle comuni forme processuali. Questo parte della giurisprudenza, ritenendo di essere dinanzi ad un danno non patrimoniale,29non ritiene necessaria un’istruttoria concernente l’an ed il quantum del danno medesimo, appurata la “grave inadempienza” o gli altri atti pregiudizievoli cui la norma fa riferimento. Il medesimo indirizzo giurisprudenziale,30oltre a non ritenere necessaria la prova di un danno effettivamente patito dal minore, ritiene idoneo operare una valutazione equitativa del danno. Da segnalare la posizione peculiare assunta inizialmente dal Tribu- LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA nale di Modena31nell’affermare che “in mancanza di prova della volontarietà della violazione e, quindi, in assenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, non possono applicarsi le sanzioni previste dall’art. 709ter c.p.c.” Infine, in senso contrario all’indirizzo maggioritario cui si faceva riferimento (supra), meritano attenzione le pronunce32che hanno negato le misure di cui ai numeri 2 e 3 del secondo comma della norma in oggetto quando non era stata dimostrato un effettivo danneggiamento del minore come previsto dai principi generali vigenti in materia di azioni risarcitorie. In particolare, si ritiene che “In tema di controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, la condanna al risarcimento del danno non può essere ascritta alla categoria del danno punitivo, o pena privata, in quanto, avendo il legislatore differenziato la condanna in considerazione del soggetto danneggiato prevedendo due ipotesi diverse ai nn. 2) e 3) dell’articolo 709ter del c.p.c., appare difficile sostenere che tale condanna debba essere commisurata alla gravità della condotta posta in essere dal genitore inadempiente, e non al pregiudizio arrecato, commè nei principi generali dell’azione risarcitoria.”33 8. L’impugnabilità dei provvedimenti ex art. 709ter c.p.c. come problema A seguito dell’entrata in vigore della norma de quo in giurisprudenza si sono date diverse interpreta- zioni circa la parte dell’art. 709ter c.p.c. che recita “I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.” In particolare il punctum dolens concerneva l’individuazione dei c.d. “modi ordinari” d’impugnazione. L’espressione “modi ordinari” deve essere intesa come mezzi ordinari previsti per impugnare le sentenze (dunque appello e ricorso per Cassazione), o come mezzi ordinari rispetto al singolo provvedimento nel quale è adottata una misura di cui all’art. 709ter c.p.c.? Il Tribunale di Arezzo,34sulla questione dell’impugnabilità dei provvedimenti assunti ai sensi dell’art. 709ter c.p.c., aveva distinto tra quelli del giudice istruttore (reclamabili alla Corte d’Appello ai sensi dell’art.739 c.p.c.), quelli pronunciati a conclusione del procedimento ex art.710 c.p.c. (reclamabili in Corte d’Appello) e le sentenze (suscettibili di appello ordinario ex art. 323 c.p.c.). Ancora, il Tribunale di Bari35ha ritenuto che i provvedimenti del giudice istruttore, seppure non impugnabili immediatamente ed in modo autonomo, sono sempre reclamabili e/o modificabili da parte dello stesso giudice che li ha assunti. Il punto risulta oggi chiarito dall’intervento della Corte di Cassazione,36chiamata a prendere posizione sul regime di impugnazione dei provvedimenti assunti ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. Il giudice di legittimità si è espresso tanto sull’impugnabilità che sulla stabilità dei provvedimenti adottabili sulla base di quanto disposto dalla norma in oggetto. La Cassazione ha precisato che con aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 41 LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA l’espressione “mezzi ordinari” il Legislatore ha inteso riferirsi agli strumenti classici che l’ordinamento processuale prevede per impugnare ogni diverso provvedimento nel quale potrà esplicarsi l’attività del giudice che si trovi ad applicare la norma in oggetto. Pertanto, sarà d’uopo andare a distinguere tra i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. nel contesto di una sentenza di separazione (o di divorzio), da quelli adottati in un decreto di modifica. Nel primo caso si procederà all’appello nelle forme del reclamo camerale in linea con quanto stabilito dalla legge sul divorzio. Diversamente, nella seconda ipotesi cui ci si riferiva sarà possibile il reclamo di cui all’art. 739 c.p.c. Anche rispetto a provvedimenti emanati con esclusivo riferimento alla norma in oggetto sarà possibile espe- rire il reclamo di cui all’art. 739 del codice di rito. La Suprema Corte ha negato la possibilità di un proprio controllo di legittimità per i provvedimenti di cui all’art. 709ter c.p.c. in quanto mancanti tanto del carattere decisorio quanto di quello definitivo37.La Cassazione è tornata sul punto38a novembre del 2011 mantenendosi conforme alla sua posizione. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che “il provvedimento d’inammissibilità, emesso dalla Corte d’appello in sede di reclamo avverso l’ordinanza del giudice istruttore che, nel corso del procedimento di separazione personale, abbia adottato misure sanzionatorie ai sensi dell’art. 709ter c.p.c., non è ricorribile per cassazione, mutuando l’assenza di definitività e decisorietà dal provvedimento reclamato”. Note 1 Trib. Messina 5 aprile 2007, in Fam. e dir., 2008, 60; Trib. Messina 25 settembre 2007, in Giurisprudenza locale - Messina, 2008; Trib. Messina 8 ottobre 2012, in Diritto & Giustizia, 2012. 2 Da ultimo Trib. Messina 8 ottobre 2012 (cit.) “Le misure sanzionatorie ex art. 709ter c.p.c. appartengono alla categoria dei danni punitivi aventi natura sanzionatoria.”Ma anche prima Trib. Messina 25 settembre 2007 (cit.) “I provvedimenti ex art. 709ter c.p.c. sono provvedimenti sanzionatori ed appartengono alla categoria dei danni punitivi, vale a dire strumenti di pressione psicologica sul soggetto obbligato che si adottano al fine di dissuaderlo dal perseverare nel comportamento illegittimo.” 3 In particolare, Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.) “Questo tribunale ritiene (..) non ostativa la osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, tipica invece del diritto anglosassone e nordamericano (esempio famoso di punitive damages è il caso di O.J. Simpson) perché l’art. 709ter c.p.c. è introdotto da una legge nuova (54/2006) che in tema di affidamento recepisce largamente l’esperienza anglosassone e nordamericana.” Nello stesso senso, Trib. Palermo 2 novembre 2007, in Redazione Giuffrè, 2008. In senso contrario, Trib. Varese 7 maggio 2010, in Redazione Giuffrè, 2010. 42 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA 4 Sulle misure di esecuzione indiretta nei paesi di Common Law si veda G. Fanelli, L’esperienza straniera dell’esecuzione forzata indiretta, in L’esecuzione processuale indiretta (a cura di B. Capponi), IPSOA, 2011. 5 Trib. Napoli 27 febbraio 2007, in Foro it., 2007, I, 1610; Trib. Napoli 30 aprile 2008, in Fam.e dir., 2008, 1024. 6 Trib. Padova 3 ottobre 2008, in Iuris Data Giuffrè, 2008; conforme anche Trib. Verona 11 febbraio 2009, inedita. 7 Trib. Reggio Emilia 27 marzo 2008, in Fam. e dir., 2009, 189. 8 Trib. Modena 17 settembre 2012, in Giurisprudenza locale - Modena, 2012; Corte Appello Caltanissetta 3 maggio 2012, in Guida al diritto, 2012, 25, dossier, 7. 9 Trib. Roma 10 giugno 2011, in Dir. famiglia, 2012, 1, 298. 10 Trib. Modena 29 gennaio 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Modena 7 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 1, 117; Trib. Modena 20 gennaio 2012, in Giur. merito, 2012, 3, 600; Trib. Modena 17 settembre 2012 (cit.); Trib. Bologna 19 giugno 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Bologna 15 ottobre 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Reggio Emilia 30 aprile 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Padova 3 ottobre 2008 (cit.); Trib. Verona 11 febbraio 2009 (cit.); Trib. Firenze 7 maggio 2012, in Foro it., 6, I, 1941 con la particolarità che ritiene che “in difetto di prova di uno specifico pregiudizio derivante dall’inadempimento degli obblighi di mantenimento da parte del genitore, quest’ultimo può essere condannato al pagamento di una sanzione amministrativa” n.4 dell’art.709ter c.p.c.; Trib. Roma 29 luglio 2010, in Il civilista, 2011, 4, 54; Trib. Roma 10 giugno 2011 (cit.). 11 A titolo di esempio si veda Trib. Roma 29 luglio 2010 (cit.) 12 Trib. Arezzo 28 ottobre 2010, inedita; Corte Appello Caltanissetta 3 maggio 2012 (cit.); Trib. Palermo 2 novembre 2007 (cit.) 13 Trib. Ancona 3 ottobre 2008, in Dir. famiglia, 2009, 1, 265. 14 Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.); Trib. Bologna 15 ottobre 2007 (cit.); Trib. Termini Imerese 12 luglio 2006 in Foro it., 2007, I, 3243; Trib. Catania 29 settembre 2006, in affidamentocondiviso.it; Trib. Modena 29 gennaio 2007 (cit.) 15 A titolo di esempio si veda Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.) 16 Corte Costituzionale 19 luglio 1996, n.258, in Giust. civile, 1996, I, 2804. 17 Si fa riferimento a Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.) 18 Trib. Pisa 17 dicembre 2007, in affidamentocondiviso.it. 19 Trib. Salerno 3 maggio 2011, in Redazione Giuffrè, 2011 20 Trib. Modena 20 gennaio 2012 (cit.) il quale afferma che “la sanzione dell’ammonimento ex art. 709ter c.p.c. può essere comminata, anche officiosamente, in ogni controversia sulle questioni economiche e sulle modalità del mantenimento della prole.” 21 Trib. Palermo 2 novembre 2007 (cit.) 22 Trib. Roma 10 giugno 2011 (cit.) in cui si sostiene che “qualora per lunghi anni, fin dall’inizio della separazione personale dei coniugi/genitori, uno di essi si sia totalmente sempre astenuto dal versare qualsiasi contributo economico per il mantenimento della prole, con la quale non ha mai, per sua esclusiva incuria, avuto contatti personali di sorta, al geniotre sì gravemente inadempiente può il giudice applicare, anche d’ufficio, le misure punitive e coercitive previste dall’art. 709ter c.p.c.” 23 In questo senso Trib. Bologna 19 giugno 2007 (cit.) 24 Trib. Termini Imerese (cit.) 25 Ufficio del giudice tutelare di Roma 13 luglio 2007, in Redazione Giuffrè, 2008; Trib. Arezzo 1 marzo 2007, inedita; Trib. Brindisi 17 ottobre 2007, inedita. 26 Trattasi dei provvedimenti attraverso i quali il giudice può: “1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”. 27 Trib. Modena 17 settembre 2012 (cit.); Corte Appello Firenze 29 agosto 2007, in Resp. civ., 2008, f. 4; Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.); Trib. Verona 11 febbraio 2009 (cit.); Trib. Reggio Emilia 27 marzo 2008 (cit.); Trib. Napoli 27 febbraio 2007 (cit.); Trib. Napoli 30 aprile 2008 (cit.) 28 Così si è espresso il Tribunale di Reggio Emilia, 27 marzo 2008 (cit.) 29 In particolare, si veda il passaggio in cui Corte Appello Firenze 29 agosto 2007 (cit.) afferma: “Ritenuto che il danno, subito dal minore per la privazione della frequentazione paterna, può essere liquidato in euro 650,00, da depositarsi in un conto corrente postale a nome di Corso I. T. con vincolo pupillare, senza necessità di specifica istruttoria sull’an e sul quantum trattandosi di danno da individuarsi in re ipsa e soggetto - in quanto danno non patrimoniale - a valutazione equitativa.” 30 In particolare sul punto Corte Appello Firenze 29 agosto 2007 (cit.); Trib. Napoli 27 febbraio 2007 (cit.); Trib. Napoli 30 aprile 2008 (cit.) 31 Trib. Modena 22 novembre 2007, in Giurisprudenza locale - Modena, 2008; si segnala, ad ogni modo, che il medesimo Tribunale si è espresso nei termini del filone maggioritario di cui alla nota n.27 nella più recente pronuncia del 17 settembre 2012 (cit.) 32 Trib. Brindisi 17 ottobre 2007 (cit.); Corte Appello Catania 18 febbraio 2010, in Il civilista 2011, 2, 61 33 Così si esprime Corte Appello Catania 18 febbraio 2010 (cit.) 34 Trib. Arezzo 3 febbraio 2009, in Redazione Giuffrè, 2009 35 Trib. Bari 15 dicembre 2009, in Giurisprudenzabarese.it, 2010; in particolare questo Tribunale ha ritenuto che “i provvedimenti pronunciati dal G.I. ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. (..) hanno la medesima forma e natura (ed anzi non sono altro che una particolare specie) dei provvedimenti pronunciati dallo stesso G.I. ai sensi degli artt. 708-709 c.p.c., ragion per cui l’unico rimedio esperibile è, in linea col disposto dell’art. 177, comma II, c.p.c. l’istanza rivolta allo stesso G.I. per revoca e/o modifica della determinazione precedentemente assunta.” 36 Cass. Civ. sentenza n. 21718 del 22 ottobre 2010, in Guida al diritto, 2011, 2, 61; per una nota esaustiva sulla pronuncia si veda F. Danovi, in Riv. dir. proc., n.6 Novembre - Dicembre 2011. Conformi anche Cass. Civ. sentenza n. 2753 del 5 febbraio 2008, in Guida al diritto, 2008, 16, 93chiarisce come “le impugnazioni proponibili sono diverse a seconda della forma e della natura del provvedimento”; Cass. Civ. sentenza 19094 dell’11 settembre 2007, in Il civilista 2008, 3, 6. 37 Conforme precedentemente anche Cass. 22 gennaio 2009 sent. n. 1611, in Giust. civ. Mass., 2009, 1, 99. In particolare si afferma che il carattere della definitività manca quando si è dinanzi ad un provvedimento “modificabile e revocabile in ogni tempo per motivi originari e sopravvenuti”. In senso implicitamente conforme anche Cass. 14 febbraio 2001 n. 2099, in Giust. civ. Mass., 2001, 245 38 Cass. Civ 21 novembre 2011 sent. N.24423, in Giust. civ. Mass., 2011, 11, 1646 aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 43 GIURISPRUDENZA LE SENTENZE PIÙ IMPORTANTI NEGLI ULTIMI DUE ANNI 68 Cass. Civ. I, 15.5.2013, n. 11687 Ascolto del minore 67 Cass. Civ. I, 9.5.2013, n. 11020 Sull’obbligo mantenimento nei confronti dei figli maggiorenni 66 Cass. Civ. I, 26.4.2013, n. 10064 Esecutività dei decreti ex art. 710 c.p.c. e 9 LD 65 Cass. Civ. I, 22.4.2013, n. 9671 Sull’art. 156 c.c. 64 Cass. Civ. I, 10.4.2013, n. 8677 Differenti tutele nel procedimento di adozione e de potestate 63 Cass. Civ. I, 26.3.2013, n. 7581 Disconoscimento e termine di decadenza 62 Cass. civ. I, 20.03.2013, n. 7041 PAS 61 Cass. Civ. I, 14.3.2013, n. 6575 L’espropriazione di un bene in comunione legale ha ad oggetto il bene per intero 60 Cass. Civ. I, 08.03.2013, n. 5847 Audizione del minore 59 Cass. Civ. I, ord. 27.02.2013, n. 4945 Competenze del Trib. minori e trib. ordinario 58 Cass. Civ. I, 27.2.2013, n. 4847 Sul diritto di abitazione del coniuge superstite 57 Cass. Civ. I, ord. 20.02.2013, n. 4178 Assegno di separazione 56 Cass. Civ. I, 12.02.2013, n. 3407 Nullità del matrimonio e errore 55 Cass. Civ. I, 13.02.2013, n. 3502 Assegno di separazione 54 Cass. Civ. I, 12.02.2013, n. 3398 Assegno divorzile e solidarietà postconiugale 53 Cass. Civ. I, 06.02.2013, n. 2780 Procedimento di adottabilità e contraddittorio 52 Cass. Civ. I, 05.02.2013, n. 2696 Passaporto al minore 51 Cass. Civ. Sez. I, 11.1.2013, n. 601 Affidamento di minori e omosessualità 50 Cass. Civ. I, 14.01.2013, 712 Nullità e lunga durata del matrimonio 49 Cass. Civ. I, 21.12.2012, n. 23713 Accordi prematrimoniali 48 Cass. Civ. I, 20.12.2012, n. 23707 Amministrazione di sostegno 47 Cass. Civ. I, 04.12.2012, n. 21675 Revoca assegno di mantenimento e irripetibilità 46 Cass. Civ. I, 03.12.2012, n. 21591 Affido condiviso e conflittualità figli-padre 45 Cass. Civ. I, 20.11.2012, n. 20385 Nome “Andrea” ad una persona di sesso femminile 44 Cass. Civ. I, 19.11.2012, n. 20235 Riconoscimento paternità e rifiuto di sottoporsi ad esami genetici 43 Cass. Civ. I, 09.11.2012, n. 19454 Comunione legale e beni personali e restituzioni 42 (17) Cass. Civ. I, 29.10.2012, n. 18563 Adottabilità e nozione di abbandono morale e materiale 44 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 GIURISPRUDENZA 41 Cass. Civ. I, 25.10.2012, n. 18320 Amministrazione di sostegno 40 Cass. Civ. I, 23.10.2012, n. 18175 Assegno e disparità economica dei coniugi 39 Cass. Civ. I, 16.10.2012, n. 17764 PM e potere di azione e di impugnazione 38 Cass. Civ. I, 15.10.2012, n. 17636 Cass. Civ. I, 21.09.2012, n. 16093 Ripartizione della pensione di reversibilità 37 Cass. Civ. I, 02.10.2012, n. 16769 Assegnazione casa familiare e comodato 36 Cass. Civ. I, 01.10.2012, n. 16661 Riconciliazione 35 Cass. Civ. I, 21.09.2012, n. 16089 Addebito e infedeltà 34 Cass. Civ. I, 13.09.2012, n. 15341 Decreti de potestate e ricorso per cassazione 33 Cass. Civ. I, 11.09.2012, n. 15158 Interesse del minore e dichiarazione di paternità 32 Cass. Civ. I, 09.08.2012, n. 14348 Revoca assegnazione casa familiare 31 Cass. Civ. I, 02.08.2012, n. 13917 Amministrazione di sostegno 30 Cass. Civ. I, 30.07.2012, n. 13556 Delibazione sentenza divorzio 29 Cass. Civ. I, 24.07.2012, n. 12977 Attualità dell’abitazione per l’assegnazione della casa familiare 28 Corte Costituzionale, 19.07.2012, n. 196 Interruzione volontaria della gravidanza 27 Cass. Civ. III, 12.07.2012, n. 11812 Danno patrimoniale futuro per lesioni al figlio 26 T.M. Milano, 06.07.2012, ord. Poteri del Giudice tutelare 25 Tribunale di Varese, I, 05.07.2012 709 ter e provvedimenti d’ufficio 24 Cass. Civ. I, 20.06.2012, n. 10177 Pensione di reversibilità 23 Corte costituzionale, 19.07.2012, n. 196 Interruzione gravidanza e minore di età 22 Cass. penale, 2 luglio 2012 n. 25596 Violazione obblighi di assistenza 21 Cass. Civ. I, 15.06.2012, n. 9845 Comunione legale e diritti di credito 20 Cass. Civ. I, 08.06.2012, n. 9372 Affidamento condiviso e assegno di mantenimento 19 Cass. Civ. I, 04.06.2012, n. 8926 Nullità e lunga durata del matrimonio 18 Cass. Civ. I, 01.06.2012, n. 8862 Addebito e risarcimento del danno 17 Cass. Civ. VI, 26.03.2012, n. 4855 Adottabilità e nozione di abbandono 16 Cass. Civ. I, 19.03.2012, n. 4296 Intervento del figlio maggiorenne nella separazione 15 Cass. Civ. I, 31.05.2012, n. 8773 Giusta causa di allontanamento dalla casa familiare 14 Tribunale di Torino, VII, 20.04.2012 Accordi in vista del divorzio 13 Cass. Civ. I, 10.04.2012, n. 5654 Richiesta di TFR nella causa di divorzio 12 T.M. Trieste, 28.03.2012 Assegnazione casa e filiazione naturale 11 Corte Costituzionale, 16.02.2012, n. 26 Difensore all’udienza presidenziale 10 Cass. Civ. I, 14.02.2012, n. 2059 Addebito e allontanamento da casa 9 Cass. Civ. I, 08.02.2012, n. 1784 Disconoscimento e padre naturale 8 Cass. Civ. I, 08.02.2012, n. 1780 Nullità e lunga durata del matrimonio 7 Tribunale di Latina, II, 22.02.2012 Addebito e risarcimento 6 Cass. Civ. III, 31.01,2012, n. 1367 Revoca assegnazione casa (titolo esecutivo ?) 5 Cass. Civ. I, 27.01.2012, n. 1251 Adottabilità e audizione minore 4 Cass. Civ. I, 13.01.2012, n. 387 Accordi su assegnazione casa 3 Cass. Civ. I, 30.12.2011, n. 30196 Mantenimento figlio minore d’ufficio 2 bis Tribunale di Roma, I, 13.09.2011 Violazione diritto di visita e risarcimento 2 Cass. Civ. I, 26.09.2011, n. 19607 Mantenimento e legittimazione del figlio maggiorenne 1 Cass. Civ. VI, 10.05.2011, n. 10187 Amministrazione di sostegno e ricorso per cassazione aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 45 GIURISPRUDENZA elaborato, per altro, si evinceva come le valutazioni operate dal Tribunale, nel senso della collocazione del minore presso la madre e della regolazione degli incontri, corrispondessero all’interesse del minore. 1.2 - Avverso tale provvedimento il C. propone ricorso, affidato a due motivi. La parte intimata non svolge attività difensiva. Un decalogo sull’ascolto del minore Cassazione Civile, Sezione I, 15 maggio 2013, n. 11687 Presidente Gabriella Luccioli Relatore Pietro Campanile Svolgimento del processo 1 - La Corte di appello di Roma, pronunciando sul reclamo proposto da C.A. nei confronti di E.E. avverso il provvedimento in data 3 dicembre 2010 con il quale il Tribunale di Roma, a seguito di domanda di revisione delle condizioni della separazione personale dei coniugi avanzata dal C., aveva confermato l’affidamento condiviso del minore C.R., collocato presso la madre, regolando gli incontri settimanali fra il padre e il figlio nonché la sua permanenza nei periodi di vacanza, ha parzialmente accolto il ricorso nel senso di stabilire le possibilità di incontro fra padre e figlio durante i fine settimana, così ovviando a un’omissione del Tribunale, rigettando, nel resto, il reclamo. 1.1 - In particolare, quanto alla censura concernente l’omessa audizione del minore, specificamente proposta dal C., si è rilevato che lo stesso era stato esaminato dalla psicologa della ASL di ..., la cui relazione era stata inviata in data 3..7.2010. Da tale 46 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 Motivi della decisione 2 - Con il primo motivo (il secondo, in base alla numerazione contenuta nel ricorso: il precedente, in realtà, è privo di censure e tende unicamente a ribadire l’ammissibilità del ricorso, della quale, per altro, non è dato di dubitare) si deduce violazione dell’art. 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, dell’art. 6 Cedu, dell’art. 23 del Reg. Ce n. 2001/2003, dell’art. 155 sexies Cod. civ., nonché degli artt. 3, 21 e 111 Cost.. Si afferma che dopo la presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 710 c.p.c. era stata più volte avanzata richiesta di audizione del minore, nato il 20 luglio 1997, nel corso del procedimento di revisione, rigettata dal Tribunale con il richiamo alla completezza della relazione del servizio sociale, la cui psicologa aveva più volte sentito il minore. Il motivo di impugnazione introdotto con il reclamo circa la violazione del principio che impone l’audizione del minore, non risultando che i colloqui con il personale del Servizio sociale fossero avvenuti in virtù di una specifica delega da parte del giudice, era stato rigettato dalla Corte di appello mediante il riferimento a una relazione del 3 luglio 2010 dalla quale risultava che il piccolo R. era stato sentito da una psicologa dell’Asl di XXXX. Tanto premesso, si denuncia violazione della normativa sopra indicata, in quanto l’ascolto da parte dei servizi, non essendovi stata una specifica delega da parte del giudice, non poteva avere funzione sostitutiva, e, per altro verso, non risultava che il minore fosse stato informato delle istanze che lo riguardavano e che, quindi, le sue aspirazioni fossero state adeguatamente valutate. 2.2 - Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione alla suindicata questione, stante la natura meramente apparente delle ragioni addotte dalla Corte per giustificare l’omessa audizione del minore, facendo anche riferimento a un non meglio precisato carattere “controproducente” di tale attività. 3 - Entrambi i motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per loro intima connessione, sono fondati. 3.1 - Questa Corte ha già affermato, anche a Sezioni unite, il valore fondamentale del principio dell’ascolto del minore, sancito nelle Convenzioni di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, art. 12, riferito ad “ogni procedura giudiziaria o amministra- GIURISPRUDENZA tiva” in quella di Strasburgo del 1996, art. 6, nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e recepito, quindi, nell’art. 155 sexies Cod. civ., introdotto con la l. 8 febbraio 2006, n. 54. In particolare, è stato rilevato che “l’audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003 (Cass. 16 aprile 2007 n. 9094 e 18 marzo 2006 n. 6081), per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (la citata Cass. n. 16753 del 2007)” (Cass. Sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238). 3.2 - L’ampiezza del riferimento a tutti i procedimenti che in qualche misura riguardano il minore certamente impone di considerare tale principio applicabile ai procedimenti, come quello in esame, di revisione delle condizioni di separazione, laddove implichino valutazioni e statuizioni direttamente incidenti sugli aspetti inerenti all’affidamento e alle scelte che ineriscono alla valutazione dell’interesse del minore. 3.3 - L’operatività, in linea generale, del principio comporta l’insussistenza della necessità di motivare specificamente le ragioni della disposta audizione del minore; per converso, si ritiene che il giudice, nelle ipotesi in cui ravvisi di escludere l’ascolto, vale a dire solo quando esso sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso (Cass., 26 aprile 2007, n. 9094; Cass., 11 agosto 2011, n. 17201), sia tenuto a fornire adeguata giustificazione. 3.4 - L’imprescindibilità dell’audizione, nei termini sopra delineati, non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in quanto parti “sostanziali” del procedimento (Cfr. la citata Cass., n. 22238 del 2009), ma impone certamente che degli esiti di tale ascolto si tenga conto. Naturalmente le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi (v. anche Cedu 9 agosto 2006, in ric. n. 18249/02): al riguardo si ritiene sussistente un onere di motivazione direttamente proporzionale al grado di discernimento attribuito al minore (Cass., 17 maggio 2012, n. 7773). 3.5 - Questa Corte ha altresì precisato, quanto alle conseguenze dell’omessa audizione del minore, la cui obbligatorietà è normalmente riferita al giudizio di primo grado, che la nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo di audizione può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’art. 161 c.p.c., e, dunque, è deducibile con l’appello (v. Cass. 27 gennaio 2012, n. 1251). Tale evenienza si è verificata nel caso di specie, avendo il ricorrente, nel rispetto del principio di autosufficienza, espressaaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 47 GIURISPRUDENZA mente richiamato le doglianze, prospettate con il reclamo, inerenti alla violazione dell’obbligo di audizione da parte del tribunale. 4 - Il ricorso in esame, validamente proposto in base a quanto testé rilevato, investe la problematica inerente alle modalità dell’ascolto, per altro particolarmente avvertita da parte dei giudici di merito, che di regola, anche con la formulazione di appositi protocolli, dimostrano una elevata sensibilità al riguardo. Le modalità dell’audizione, che non costituisce un atto istruttorio tipico, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto, sono affidate alla discrezionalità del giudice, il quale deve ispirarsi al principio secondo cui l’audizione stessa deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione (Cass., 26 gennaio 2011, n. 1838). 4.1 - Si ritiene in maniera quasi unanime, pur esprimendosi da più parti, anche in dottrina, preferenza per l’audizione diretta, che il giudice, soprattutto quando particolari circostanze lo richiedano, possa avvalersi di esperti, delegando agli stessi l’audizione del minore (v., quanto al più recente orientamento di questa Corte, Cass., 26 marzo 2010, n. 7282). 48 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 4.2 - Non è sufficiente, quindi, che, come sembra ritenere la Corte territoriale, il minore sia stato in qualche modo interpellato o esaminato da soggetti (per altro nel caso di specie non si precisano le circostanze sottese alle relazioni dei servizi sociali che avrebbero proceduto a un non meglio definito esame) le cui relazioni siano state successivamente acquisite al fascicolo processuale, essendo necessario che il soggetto che procede all’audizione sia investito di una specifica delega da parte del giudice competente, inerente al dovere di informarlo di tutte le istanze o scelte che lo riguardano, al fine di acquisire la sua volontà. 4.3 - Il provvedimento impugnato, nella misura in cui fa riferimento a non meglio precisati contatti fra i servizi sociali e il minore, senza far alcun riferimento alla delega al riguardo rilasciata, non si è conformata ai principi sopra indicati, ragion per cui deve essere cassato, con rinvio alla Corte di appello di Roma, che, in diversa composizione, provvederà sul reclamo del C., applicando i principi richiamati e provvedendo, altresì, in merito alle spese relative al presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione. GIURISPRUDENZA L’obbligo di mantenimento dei figli perdura fino alla loro autosufficienza economica Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2013, n. 11020 Presidente Maria Gabriella Luccioli Relatori Rosa Maria Di Virgilio L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli, secondo le regole dell’art. 148 c.c., non cessa ipso facto con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia o rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività. (omissis) Svolgimento del processo Con decreto depositato in data 3 luglio 2008, il Tribunale di Roma ha respinto l’istanza di C.T., intesa alla modifica delle condizioni di divorzio stabilite tra le parti con sentenza del medesimo Tribunale del 21 ottobre 1996, ed in particolare alla riduzione del contributo di Euro 1136,00 mensili per il mantenimento dei figli P. e L., nati rispettivamente nel 1978 e nel 1983, e dell’assegno divorzile di Euro 826,00 mensili, ritenendo che la situazione economica complessiva del ricorrente non aveva subito il dedotto peggioramento, ed ha altresì respinto la domanda della resìstente di aumento del contributo per i figli. Il C. proponeva reclamo avverso detta pronuncia, chiedendo la riduzione dell’assegno divorzile ad Euro 600,00 mensili, la revoca del contributo per il mantenimento del figlio P. e la riduzione ad Euro 325,00 di quello per il figlio L., con pagamento diretto a favore dello stesso. Si costituiva A.F.G.M., eccependo l’inammissibilità del reclamo, e nel merito l’infondatezza. La Corte d’appello di Roma, con ordinanza in data 18 giugno 2008 - 3 luglio 2008, ha respinto sia il reclamo proposto dal C. che il reclamo incidentale proposto dall’ A.F., compensando integralmente tra le parti le spese del grado. Nello specifico, e per quanto qui ancora interessa, la Corte d’appello ha ritenuto che dalle dichiarazioni rese dal figlio P. emergeva che quest’ultimo, pur avendo trent’anni, aveva lavorato solo per un breve periodo di tempo con retribuzione irrilevante(sei mesi di tirocinio in (OMISSIS), con rimborso spese di complessivi Euro 3000,00, e tre mesi di collaborazione con cliniche private, con un compenso di Euro 7,00 per ora), e che doveva ancora frequentare la scuola di specializzazione, per cui non aveva raggiunto una propria completa autosufficienza economica, senza che ciò fosse ascrivibile a proprio comportamento colposo; ha rilevato che non si erano verificate dall’epoca del divorzio alla data della pronuncia modifiche idonee ad imporre un cambiamento della valutazione operata in quella sede, ed ha quindi confermato la misura dell’assegno divorzile e del contributo di mantenimento. Ricorre avverso detta pronuncia il C. sulla base di tre motivi. Si difende con controricorso A.F.. Motivi della decisione 1.1 - Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione degli artt. 147, 148 e 155 ter e quinquies c.c., e dell’art. 30 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Secondo il ricorrente, l’impugnata sentenza postula che solo la completa autosufficienza economica del figlio comporterebbe la cessazione dell’obbligo del mantenimento da parte del padre non convivente, mentre l’avere messo il figlio P. in condizione di studiare e di inserirsi nel mondo lavorativo determina la cessazione dell’obbligo di mantenimento, che ha funzione educativa; non è solo la completa autosufficienza economica del figlio a comportare la cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte del padre non convivente ed il figlio, avendo volontariamente cessato i rapporti di collaborazione con la clinica romana, versa quanto meno in colpa per non essersi messo in condizione di procurarsi un reddito. (omissis) 2.1 - Il primo motivo è infondato. La Corte d’appello di Roma non ha violato le norme di legge richiamate, e nel ritenere il perdurante obbligo del C. al mantenimento del figlio P. ha seguito il principio espresso da questa Corte in materia, secondo cui l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finchè il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 49 GIURISPRUDENZA la propria specializzazione (in tal senso, le pronunce 15756/2006, 22214/2004, 4765/2002). Ed infatti, la Corte del merito, preso atto che C.P., laureato in medicina, dopo avere frequentato un periodo di sei mesi di tirocinio all’estero e avere svolto nel 2006, per soli tre mesi, attività presso cliniche private percependo la somma di Euro 7,00 ad ora, ha ritenuto che lo stesso, pur avendo trent’anni, e dovendo ancora frequentare la scuola di specializzazione, non aveva raggiunto una propria completa autosufficienza economica, senza che ciò potesse ascriversi a colpa dello stesso. Non corretta è pertanto la lettura della pronuncia operata dal ricorrente, che postula nel figlio quell’autosufficienza economica che la Corte ha concretamente escluso alla stregua delle risultanze di causa, considerate le somme percepite durante il tirocinio e nelle cliniche private, congruamente definite “risibili”, e nella valutazione dello specifico iter professionale del settore, sì da non potersi ritenere raggiunta un’adeguata capacità lavorativa e reddituale. Né infine, per l’evidente irrisorietà delle somme in concreto percepite, può ritenersi il figlio in colpa per non avere proseguito l’attività di collaborazione con le cliniche private. Il giudizio della Corte del merito è stato infine condotto avuto riguardo alla situazione economica e patrimoniale del C., ex art. 148 c.c.. PQM La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dei compensi, liquidati in Euro 2500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge. L’inadempimento all’obbligo di mantenimento: una sentenza tutta sull’art. 156 c.c. Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2013, n. 9671 Presidente Giuseppe Salmè Relatore Massimo Dogliotti I mezzi di tutela ex art. 156 c.c., possono essere richiesti (e concessi) nel corso del procedimento, con semplice istanza riportata nel processo verbale ovvero con ricorso separato, oppure, concluso il giudizio di merito, utilizzando il rito della camera di consiglio. È ammessa possibilità di revisione, prevista dall’art. 156 c.c. che fa riferimento a tutti i provve50 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 dimenti “emessi ai sensi dei commi precedenti”. È necessario, anche in tal caso, un mutamento delle circostanze, una variazione della situazione di fatto che ha costituito il presupposto della pronuncia. Può trattarsi di un venir meno, un attenuarsi del pericolo di futuri inadempimenti, ad es. perché il disordine degli affari dell’obbligato è stato superato. Pur in pendenza di procedimento di divorzio, viene richiamato del tutto correttamente l’articolo 156 c.c., relativo alla separazione tra i coniugi. E infatti l’assegno divorzile presuppone necessariamente la pronuncia di divorzio, trattandosi ancora, nella specie, di assegno di mantenimento del coniuge separato (al riguardo Cass. n. 8113 del 2009). In merito agli strumenti di tutela apprestati dall’art. 156 c.c., quanto ai terzi cui si ordina di corrispondere al beneficiario somme di spettanza dell’obbligato, può trattarsi del suo datore di lavoro o dell’ente erogatore della pensione, ma pure del conduttore di immobile di sua proprietà o addirittura del debitore di una somma determinata, non necessariamente di prestazioni periodiche. Il terzo deve comunque essere individuato esattamente (non avrebbe valore una domanda di corresponsione diretta dell’assegno da parte del datore di lavoro, senza specificare chi egli sia). Egli non è comunque parte del procedimento e può rifiutarsi di ottemperare all’ordine, eccependo ad esempio l’inesistenza del debito: in tal caso non resta al coniuge che promuovere, nelle forme ordinarie, giudizio di accertamento del debito, chiedendo eventualmente la condanna del terzo debitore al risarcimento dei danni. L’art. 156 c.c. prevede varie garanzie in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento verso il coniuge o i figli: l’ordine a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte venga direttamente versata all’avente diritto, ovvero il sequestro di beni del coniuge obbligato. È da ritenere che i due mezzi possano essere concessi anche contemporaneamente, a carico del medesimo obbligato. L’ultimo comma dell’art. 739 c.p.c. esclude che, nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo, possa proporsi ricorso per cassazione. Tale scelta legislativa veniva giustificata sostanzialmente con il carattere stesso dei provvedimenti, non incidenti su posizioni di diritto soggettivo, modificabili e revocabili in ogni tempo. L’uso sempre più diffuso del procedimento camerale, previsto dal Legislatore anche per risolvere controversie afferenti diritti soggettivi e status, ha condotto progressivamente la giurisprudenza ad ammettere il ricorso straordinario per cassazione avverso decreti, emessi in sede di reclamo. Ciò in virtù del disposto dell’attuale comma 7 (in precedenza comma 2) dell’art. 111 Cost., e attribuendo rilevanza alla sostanza piuttosto che alla GIURISPRUDENZA forma del provvedimento. Si è pervenuti così ad affermare che l’ammissibilità del ricorso è subordinata alla presenza di vari requisiti: posizioni di diritto soggettivo o di status, decisorietà e definitività (tra le altre, Cass., n. 21718/2010; Cass., S.U. n. 28873/2008). Quanto alla corresponsione diretta di assegno, a carico del terzo debitore, ex art. 156 c.c., il provvedimento, all’evidenza, non risolve una controversia sulla esistenza del diritto del coniuge all’assegno, diritto che ne costituisce un presupposto, ma piuttosto attiene alle modalità di attuazione del diritto stesso, non ha dunque carattere di decisorietà, e non è definitivo, potendo essere modificato, seppur a seguito di mutamento delle circostanze (al riguardo, Cass. n. 23713 del 2004). Il provvedimento in esame non può dunque essere impugnato con ricorso per cassazione. In merito agli strumenti di tutela apprestati dall’art. 156 c.c., la corresponsione diretta, così come il sequestro, non prevedono un generico pericolo nel ritardo, ma un preciso inadempimento dell’obbligato: questi non avrà corrisposto una o più rate dell’assegno di mantenimento. Il pericolo nel ritardo potrebbe avere qualche rilevanza, ma solo ad colorandum: l’obbligato potrebbe non aver pagato la rata di assegno per pura dimenticanza, e allora il giudice potrebbe non disporre immediatamente la misura di garanzia, ma il mancato pagamento di una rata, preceduto da ritardi nel pagamento delle precedenti e accompagnato da un generale disordine negli affari dell’obbligato, potrebbe indurre il giudice ad accogliere la domanda (tra le altre, Cass. n. 11062 del 2011). (omissis) Svolgimento del processo Nell’ambito di un procedimento di divorzio, in fase presidenziale, veniva posto a carico di C.O. l’obbligo di corrispondere a N.M. assegno mensile di Euro 600,00. Con ricorso in data 08/07/2009, la N., affermando che il marito non le aveva corrisposto quanto dovuto, chiedeva al Tribunale di Spoleto di disporre che il predetto assegno venisse trattenuto dall’INPS ente erogatore della pensione del C., e versato direttamente a lei, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 6. Il C. compariva personalmente e si opponeva all’accoglimento del ricorso. Con decreto in data 29/10/2009, il Tribunale ordinava all’INPS di trattenere dalla pensione corrisposta al C. la somma di Euro 600,00 e di versarla direttamente alla N.. Avverso tale provvedimento proponeva reclamo il C.. Si costituiva il contraddittorio, e la N. chiedeva la reiezione del reclamo. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 51 GIURISPRUDENZA La Corte di Appello di Perugia con decreto in data 25/02 - 10/3/2010, rigettava il reclamo. Ricorre per cassazione ex art. 111 Cost., sulla base di cinque motivi il C.. Non svolge attività difensiva la N.. Motivi della decisione È necessario preliminarmente accertare se il provvedimento in esame sia suscettibile di ricorribilità per cassazione. Come è noto, l’art. 156 c.c. prevede varie garanzie in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento verso il coniuge o i figli: l’ordine a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte venga direttamente versata all’avente diritto, ovvero il sequestro di beni del coniuge obbligato. È da ritenere che i due mezzi possano essere concessi anche contemporaneamente, a carico del medesimo obbligato. La corresponsione diretta, così come il sequestro, non prevedono un generico pericolo nel ritardo, ma un preciso inadempimento dell’obbligato: questi non avrà corrisposto una o più rate dell’assegno di mantenimento. Il pericolo nel ritardo potrebbe avere qualche rilevanza, ma solo ad colorandum: l’obbligato potrebbe non aver pagato la rata di assegno per pura dimenticanza, e allora il giudice potrebbe non disporre immediatamente la misura di garanzia, ma il mancato pagamento di una rata, preceduto da ritardi nel pagamento delle precedenti e accompagnato da un generale disordine negli affari dell’obbligato, potrebbe indurre il giudice ad accogliere la domanda (tra le altre, Cass. n. 11062 del 2011). Quanto ai terzi cui si ordina di corrispondere al beneficiario somme di spettanza dell’obbligato, potrebbe trattarsi del suo datore di lavoro o - come nella specie - dell’ente erogatore della pensione, ma pure del conduttore di immobile di sua proprietà o addirittura del debitore di una somma determinata, non necessariamente di prestazioni periodiche. Il terzo dovrà comunque essere individuato esattamente (non avrebbe valore una domanda di corresponsione di retta dell’assegno da parte del datore di lavoro, senza specificare chi egli sia). Egli non è comunque parte del procedimento e potrebbe rifiutarsi di ottemperare all’ordine, eccependo ad esempio l’inesistenza del debito: in tal caso non resterebbe al coniuge che promuovere, nelle forme ordinarie, giudizio di accertamento del debito, chiedendo eventualmente la condanna del terzo debitore al risarcimento dei danni. I mezzi di tutela potrebbe pure darsi nel corso del procedimento, con semplice istanza riportata nel processo verbale ovvero come nella specie, con ricorso separato, oppure, concluso il giudizio di merito, utilizzando il rito della camera di consiglio. È ammessa possibilità di revisione, prevista dall’art. 156 c.c. che fa riferimento a tutti i provvedi52 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 menti “emessi ai sensi dei commi precedenti”. Sarà necessario, anche in tal caso, un mutamento delle circostanze, una variazione della situazione di fatto che ha costituito il presupposto della pronuncia. Potrebbe trattarsi di un venir meno, un attenuarsi del pericolo di futuri inadempimenti, ad es. perchè il disordine degli affari dell’obbligato è stato superato. È appena il caso di precisare che, pur in pendenza di procedimento di divorzio, viene richiamato del tutto correttamente l’art. 156 c.c., relativo alla separazione tra i coniugi. E infatti l’assegno divorzile presuppone necessariamente la pronuncia di divorzio, trattandosi ancora, nella specie, di assegno di mantenimento del coniuge separato (al riguardo Cass. n. 8113 del 2009). Venendo all’esame dell’ammissibilità del ricorso, va precisato che l’u.c., art. 739 c.p.c. esclude che, nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo, possa proporsi ricorso per cassazione. Tale scelta legislativa veniva giustificata sostanzialmente con il carattere stesso dei provvedimenti, non incidenti su posizioni di diritto soggettivo, modificabili e revocabili in ogni tempo. L’uso sempre più diffuso del procedimento camerale, previsto dal Legislatore anche per risolvere controversie afferenti diritti soggettivi e status, ha condotto progressivamente la giurisprudenza ad ammettere il ricorso straordinario per cassazione avverso decreti, emessi in sede di reclamo. Ciò in virtù del disposto dell’attuale comma 7 (in precedenza comma 2) dell’art. 111 Cost., e attribuendo rilevanza alla sostanza piuttosto che alla forma del provvedimento. Si è pervenuti così ad affermare che l’ammissibilità del ricorso è subordinata alla presenza di vari requisiti: posizioni di diritto soggettivo o di status, decisorietà e definitività (tra le altre, Cass., n 21718/2010; Cass., S.U. n. 28873/2008). Quanto alla corresponsione diretta di assegno, a carico del terzo debitore, il provvedimento, all’evidenza, non risolve una controversia sulla esistenza del diritto del coniuge all’assegno, diritto che ne costituisce un presupposto, ma piuttosto attiene alle modalità di attuazione del diritto stesso, non ha dunque carattere di decisorietà, e non è definitivo, potendo essere modificato, seppur a seguito di mutamento delle circostanze (al riguardo, Cass. N. 23713 del 2004). Il provvedimento in esame non poteva dunque essere impugnato con ricorso per cassazione. Ne consegue l’inammissibilità del presente ricorso. Il tenore della pronuncia esime dall’esaminare i singoli motivi di gravame. Nulla sulle spese, non essendosi costituita l’intimata. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. DIBATTITO L’alienazione genitoriale “UN FIGLIO DIVISO A METÀ” SALOMONICAMENTE PARLANDO! La Corte d’Appello di Brescia interviene e chiarisce che “se pure non si chiama PAS” il comportamento alienante di un genitore verso l’altro, è sicuramente a danno del figlio, può arrivare a rendergli la vita “impossibile” oltre che a dargli vera sofferenza, in totale dispregio del suo diritto ad una crescita sana ed equilibrata e come tale va individuato ed impedito, proprio per la tutela del minore. Corte d’Appello di Brescia, Sezione per i Minorenni Decreto del 17 maggio 2013 Svolgimento del processo La - MADRE - premesso di essersi separata consensualmente dal marito - PADRE -; che la separazione veniva omologata dal Tribunale di **** nel febbraio del 2****; che le condizioni concordate dai coniugi prevedevano l’affidamento esclusivo del bambino alla madre con diritto di visita del padre secondo modalità più estese al progredire dell’età del bambino; che la frequentazione con il padre cessava completamente nel 2008; che il - PADRE - presentava ricorso al Tribunale per i Minorenni di Venezia chiedendo la decadenza della madre dalla potestà sul figlio e provvedimenti diretti a favorire la ripresa della frequentazione del predetto con il padre; che la madre, pur ammettendo che - FIGLIO - si rifiutava di vedere il padre, respingeva le accuse di esserne la causa; che veniva disposta CTU con nomina dello psichiatra e psicoterapeuta; che il predetto ravvisava la sussistenza della sindrome di alienazione genitoriale (PAS); che il tribunale adito con decreto22/12 ottobre 2009 dichiarava la decadenza della - MADRE - dalla potestà genitoriale, affidando il bambino al Servizio Sociale del Comune di **** per la predisposizione di un progetto diretto alla riattivazione dei rapporti dello stesso con il padre; che successivamente con ricorso in data 6.7.2010 il - PADRE - presentava un altro ricorso al Tribunale per i Minorenni di... chiedendo l’allontanamento del figlio dal contesto familiare materno con collocamento dello stesso presso di sé o altri famigliari o un ambiente terzo, nonché la sostituzione del Servizio Sociale di **** con altro servizio, lamentando l’incapacità del primo di assolvere il compito assegnatoli con il precedente decreto; che essa - MADRE - si era costituita anche in tale procedura negando ogni sua responsabilità in ordine al rifiuto del figlio di vedere il padre e chiedendo da una parte i più opportuni provvedimenti per proseguire nel percorso di riavvicinamento tra il predetto e dall’altra la sua reintegra nella potestà genitoriale; che il tribunale per i Minorenni con decreto reso in data 10.12.10 rigettava quest’ultima domanda, nominava il Servizio Sociale del Comune di **** in sostituzione di quello di **** al quale conferiva il preciso compito di sostenere i genitori ed il bambino nel progetto di riavvicinamento padre-figlio, regolando nel contempo tempi e modalità di questi rapporti; che questo secondo decreto veniva impugnato dal -PADRE- avanti alla Corte d’appello di Venezia- sezione minorenni chiedendo che si disponesse altra CTU sul bambino; che questi venisse allontanato dalla madre e dalla famiglia materna cui veniva addebitata l’aggravarsi della PAS, venisse mantenuto l’affidamento al Servizio Sociale del Comune di **** per affidarlo successivamente al genitore ritenuto più idoneo, preferibilmente il padre; che venisse nel frattempo disposto ogni più utile provvedimento; che essa -MADRE- si costituiva anche in questa procedura e con reclamo incidentale chiedeva la reintegra nella potestà, pur concordando nella necessità di attività di sostegno da parte del servizio sociale incaricato ed autorizzando la valutazione neuropsichiatria del figlio; che i servizi sociali depositavano nel corso del giudizio tre relazioni di aggiornamento e la corte disponeva nuova CTU affidata al dott. **** per valutare se il permanere nell’ambiente materno aggravasse aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 53 DIBATTITO ulteriormente la salute del bambino e quale potesse essere il pregiudizio conseguente ad una diversa sua collocazione con indicazione delle più opportune modalità di attuazione; che in data 13.7.2012 veniva emesso il decreto successivamente impugnato in cassazione con il quale veniva revocato il collocamento del bambino presso la madre, veniva disposto il suo allontanamento dalla stessa e dalla famiglia materna e lo stesso veniva affidato al padre, con inserimento temporaneo in struttura residenziale educativa; che detto decreto veniva impugnato per violazione del contraddittorio ed omessa motivazione sulla sussistenza della Sindrome di Alienazione Parentale, punto controverso e decisivo della causa; che il - PADRE - in tale sede chiedeva la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ed il rigetto nel merito; che dopo l’annullamento con rinvio del provvedimento de quo in data 5.4.2013 veniva depositata avanti la Corte di Brescia un’istanza urgente finalizzata ad ottenere inaudita altera parte l’ordine alla scuola elementare di **** di nulla osta per l’iscrizione di - FIGLIO - alla scuola elementare di ****; che detta istanza veniva dichiarata inammissibile per mancata riassunzione della causa principale; che veniva comunque fissata l’udienza del 19.4.2013; ciò premesso, contestando il fondamento della diagnosi di PAS attraverso le argomentazioni già svolte nel ricorso per cassazione e fatto presente che il bambino è tornato a vivere con la madre, la predetta chiede oltre al nulla osta per l’iscrizione presso la scuola elementare di **** (istanza decisa all’udienza del 19 aprile con il rigetto della medesima), la reintegra nella potestà genitoriale nei confronti del figlio, il rigetto del reclamo del marito avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia, la definizione dei tempi e modalità degli incontri di - FIGLIO - con 54 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 il padre, incaricando i Servizi Sociali di **** per seguirne l’attuazione, vittoria di spese e competenze dei gradi di giudizio. Il - PADRE - si è costituito e ribadisce il contenuto dei suoi scritti precedenti con i quali sosteneva che l’atteggiamento di rifiuto nei suoi confronti espresso dal figlio era addebitabile al comportamento materno ed alla famiglia della - MADRE - che ripetutamente frapponeva ostacoli alla frequentazione del padre da parte del figlio sino al provvedimento della corte d’appello veneziana che favoriva con l’allontanamento dello stesso dalla casa materna la ripresa del dialogo. Il resistente richiama l’inserimento della PAS nel DSM IV, sezione problemi relazionali, ne sottolinea il carattere psicopatogenetico e sottolinea la gravità del comportamento materno, rivelatosi ostruzionistico anche dopo la cassazione dl provvedimento veneziano; atteggiamento contrario alle prescrizioni dei Servizi Sociali, impeditivo dei rapporti con il figlio stabiliti dal programma, allontanamento del medesimo dalla scuola di **** e tentativo improprio di iscriverlo a quella di ****. Conseguentemente chiede l’allontanamento del minore dalla madre e dalla famiglia della predetta, l’affidamento in via esclusiva al padre ed il collocamento presso di sé, la ripresa del sostegno psicologico interrotto, l’incarico del Servizio Sociale di **** di regolamentare i rapporti madre-figlio, disposizione di un assegno di mantenimento del figlio da porsi a carico della madre, rigetto della domanda di reintegra della medesima nella potestà genitoriale, vittoria di spese. Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo una nuova consulenza, ed in attesa degli esiti della stessa, che il minore rimanga collocato presso la madre - MADRE - **** al fine di permettere la conclusione del corrente anno scolastico e rimanga affidato al servizio Sociale di **** per favorire il riavvicinamento al padre - PADRE - ****; La Corte di Cassazione ha dichiarato l’ammissibilità del ricorso inquadrando le domande del - PADRE - che aveva adito l’autorità giudiziaria dopo il provvedimento di decadenza della - MADRE - nei confronti del figlio (decreto del 2009) adducendo un inasprimento della sua condotta, responsabile dell’avversione del minore nei suoi confronti tanto da rendere necessario un cambiamento di collocamento ed affidamento del predetto, nell’ambito del mutamento delle condizioni della separazione riguardanti la regolamentazione del regime di affidamento, del tutto svincolata dagli aspetti inerenti all’applicazione degli artt.330 e ss. cod. civ. Il provvedimento della Corte territoriale veneziana è stato cassato per vizio di motivazione su di un punto decisivo e controverso della causa, vale a dire per non avere affrontato il tema dell’attendibilità scientifica della teoria posta alla base della dia- DIBATTITO gnosi di sindrome da alienazione parentale, pur avendo posto la consulenza di cui richiama ampi brani nella sua motivazione a fondamento della decisione. La corte di legittimità, nel rinviare alla corte territoriale bresciana il procedimento richiama le critiche avanzate dal mondo scientifico e dalla stessa difesa della - MADRE - e prescrive di verificare il fondamento della teoria richiamata dalla ctu. La difesa della ricorrente sostiene che la teoria della PAS risalente a Gardner e seguita in Italia da alcuni autori come il prof. Gulotta e le dott. Cavedon e Liberatore richiama otto elementi significativi per l’individuazione della ritenuta psicopatologia, dei quali la Ctu **** ne individua sei in - FIGLIO -, pervenendo alla infausta diagnosi sulla quale si fonda il provvedimento cassato Dal riscontro di questi sigma l’esperto dimostra la manipolazione materna in danno del minore, senza alcun riferimento al comportamento della - MADRE -. Inoltre dalla rilevazione di una malattia che viene contestata sarebbe scaturito un atteggiamento salvifico paterno che avrebbe indotto il - PADRE - ad un atteggiamento connotato da aggressività ed ossessività al punto da presentare oltre venti denunce penali nei confronti della moglie. Pertanto sarebbe stata la errata diagnosi di PAS, stato patologico inesistente, a scatenare il conflitto tra i genitori e a diventare essa stessa causa del conflitto, moltiplicando la drammaticità della situazione in cui vi sarebbe, senza alcuna prova, un genitore vittima (genitore bersaglio) di un genitore criminale (genitore alienante) ed un figlio affetto da psicopatologia. Di conseguenza anche la terapia proposta, vale a dire l’interruzione in maniera radicale di ogni rapporto del genitore alienante con il minore sarebbe del tutto priva di fondamento scientifico e nel caso in esame avrebbe prodotto grande frustrazione nel bambino. Secondo la parte resistente, - PADRE -, la comunità scientifica riconosce in modo pressoché unanime questo disturbo relazionale psicopatogenico. Invero vi sono psicologi e psichiatri importanti che hanno sottoscritto alcuni documenti in cui si dà atto dell’esistenza di tale forma di alienazione, come risulta dalla documentazione prodotta dal convenuto. La SINPIA, Società italiana di Neuro psichiatria Infantile la riconosce sin dal 2007; essa risulta essere inserita nel DSM IV nella sezione problemi relazionali genitore-bambino; molte sono le pubblicazioni aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 55 DIBATTITO che riguardano l’alienazione genitoriale (doc 8). Si deve aggiungere che anche la corte di cassazione con la sentenza n.5847/12 pubblicata 1’8.3.13 non ha posto in discussione la diagnosi di PAS posta a fondamento del provvedimento impugnato. Il fatto che altri esperti neghino il fondamento scientifico di tale sindrome non significa che essa non possa essere utilizzata quanto meno per individuare un problema relazionale molto frequente in situazione di separazione dei genitori, se non come una propria e vera malattia. Più volte è stato ritenuto in decisioni giurisprudenziali che l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di “invischiamento” capace di produrre nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il problema è verificare se i disturbi certamente rilevati dal Ctu a carico del minore, riconosciuti dalla stessa - MADRE -, siano riconducibili alla responsabilità della madre in quanto generati dal suo comportamento nei confronti del padre. Questi, la cui personalità è parimenti stata posta in discussione dal consulente per la sua rigidità, ha riconosciuto all’atto della separazione l’importanza che il bambino crescesse con la madre, accettando 56 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 l’affidamento esclusivo alla medesima, come all’epoca era prassi, non essendo ancora stata attuata la modifica dell’art.155 cod. civ. che presuppone di regola l’affidamento condiviso, ma riservando a se stesso la frequentazione con il figlio da attuarsi in termini maggiormente ampi con la crescita del medesimo. Nessuna colpa può ravvisarsi, né gli è stata addebitata da controparte per il comportamento del figlio che ad un certo punto ha manifestato un atteggiamento straordinariamente repulsivo e pervicace, giungendo al punto da non volere nemmeno scendere dall’autovettura con la quale la madre lo portava agli appuntamenti programmati con il padre, né voler entrare nella stanza dove questi si trovava ed al punto anche di rivolgergli epiteti ingiuriosi e manifestazioni gravi di avversione, come prenderlo a calci e pugni. L’uso degli epiteti utilizzati per offendere il padre inoltre non è quello tipico di un bambino, ma sembra veramente suggerito dalle espressione degli adulti. La lettura delle relazioni dei servizi sociali, oltre che degli esami del Ctu (dati obiettivamente rilevati che non sono stati posti in discussione) lasciano veramente sbigottiti per la forza, la tenacia dell’aggressività e del rifiuto di fronte ad un padre che DIBATTITO aveva sempre cercato di svolgere il proprio ruolo. Con il ricorso presentato dal - PADRE - in data 6.2.08, volto ad ottenere la decadenza dalla potestà della - MADRE -, questi lamentava di non vedere il figlio da dieci mesi e che la madre, nonostante fosse stato previsto il pernotto del bambino presso il padre, consentiva che questi lo vedesse prima dell’interruzione definitiva solo nel garage della sua abitazione. Nel corso dell’audizione dei genitori la madre del minore ammetteva di avere rifiutato al padre il pernotto presso di lui e di conseguenza anche il trascorrere della vacanze perché il bambino non l’aveva mai chiesto. Il tribunale dava atto che l’atteggiamento della MADRE - non aveva in alcun modo favorito il rapporto del figlio con il padre, ma lo aveva ostacolato al punto che, disposto dallo stesso ufficio giudiziario una specifica disciplina di visite, la madre aveva violato tale programma portando con sé il bambino per le vacanze estive alla fine delle quali si veniva a verificare una regressione nei rapporti padre-figlio, nonostante vi fosse stato un iniziale miglioramento dovuto alla calendarizzazione degli incontri. Tale comportamento proseguiva anche in seguito nonostante l’intervento dei Servizi Sociali di **** incaricati dal Tribunale per i Minorenni di attivarsi sia per il sostegno al minore, sia per la predisposizione di un programma quanto meno minimale degli incontri del figlio con il padre. Era all’esito di tale procedimento che la madre veniva dichiarata decaduta dalla potestà con un provvedimento che, reclamato avanti alla Corte d’appello veneziana, veniva confermato. Dalla relazione dei Servizi Sociali di **** del **** **** 2010 si apprende che il programma di incontri predisposto sulle indicazione del tribunale veniva accettato dai genitori, ma che l’atteggiamento del bambino si rivelava quanto mai preoccupante tanto che questi nel rifiutare ogni forma di comunicazione con il padre giungeva al punto di scagliarli contro un libro che questi gli aveva portato in dono; altra volta mimava una sberla nei confronti dello stesso e gli dava un calcio senza che la madre, presente, desse segni di disapprovazione. Lo psicologo dott. - PSICOLOGO - sottolineava il fatto che - FIGLIO - si presentava come un bambino normalissimo nelle relazioni con gli altri, salvo cambiare improvvisamente al solo parlargli del padre che definiva come “ persona cattiva, un diavolo, persona sgradevole” e perdere il controllo ed il rispetto delle più elementari relazioni con ricorso ad aggressività verbale ed agita, senza alcuna provocazione. Dal punto di vista clinico lo psicologo segnalava che - FIGLIO - risultava capace di controllare e tenere in scacco gli adulti e manifestava una strutturazione in un’area in cui si sentiva onnipotente, con il rischio di estensione di tali modalità disfunzionali ad altre aree di funzionamento. Non migliore è stato il risultato ottenuto dal Servizio Sociale di ****, sostituito a quello di ****, nonostante il percorso di sostegno a cura della dott. N****, psicologa, l’avvio di un percorso di sostegno alla genitorialità a cura del Consultorio Familiare iniziato nel mese di marzo 2***, il sostegno dell’educatore P*D*. L’equipe ha riscontrato in - FIGLIO - una sindrome o disturbo emozionale inquadrata nei criteri diagnostici dell’ICD 10. Il bambino non veniva portato dalla madre agli incontri con il padre nello spazio neutro individuato dai servizi, fissati nel mese di giugno e di luglio, assenze giustificate dalla - MADRE - con uno stato di malessere del figlio; per le stesse ragioni non sono state effettuate le sedute fissate dal servizio di Neuropsichiatria infantile mentre sono stati effettuati gli incontri con la psicologa N****. Né si è potuta realizzare la frequentazione del minore al centro estivo in quanto la madre non lo ha condotto, portando in vacanza il figlio senza tenere conto del progetto del Servizio Sociale. In sostanza da tutte le relazioni, informazioni e non solo dalle due CTU del dott. **** emerge lo stato di grave disagio del minore ed il suo invischiamento in un conflitto coniugale in cui la madre ha avuto la possibilità di qualificare in modo negativo il marito, tanto da acquisire l’alleanza del figlio. Il rifiuto del predetto non ha altra origine perché non sono state nemmeno ipotizzate attività del padre che possano avere distolto il figlio da qualsiasi forma di rapporto con lui. La madre in molte circostanze si è manifestata come un soggetto apparentemente collaborativo con gli esperti che hanno seguito la vicenda, ma nella sostanza non ha accompagnato psicologicamente il figlio alla ripresa dei rapporti con il padre, predisponendo il suo comportamento quanto meno ad una accettazione formale del genitore; lo ha lasciato solo nella sue difficoltà, non ha ripreso il suo eloquio sconveniente, né gli agiti violenti. Inoltre ha sacrificato il programma di sostegno predisposto dai servizi Sociali alle vacanze. Solo nel corso della prima consulenza tecnica il bambino ha ripreso il contatto con il padre, regalandogli nel vero senso della parola alcune giornate normali in cui si sono ritrovati per proseguire successivamente nel rifiuto. Questo atteggiamento è molto sintomatico e strumentale ad ottenere una disamina favorevole dell’esperto incaricato dal giudice tenuto ad esprimere un giudizio importante al fine di conseguire un provvedimento favorevole e poiché questo atteggiamento non può essere frutto della determinazione di un bambino di sette-otto anni, non può che essere stato dettato dalla madre. Fortunatamente le cose sono radicalmente cambiate: il provvedimento della corte territoriale che è aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 57 DIBATTITO stato cassato, comportante l’allontanamento del minore dalla madre e dall’ambiente materno ha consentito al bambino di liberarsi dalla sua condizione di avversione nei confronti del padre. Ne ha accettato la compagnia e finanche di trascorrere la notte con lui attraverso un graduale riavvicinamento. Questo cambiamento di comportamento sta a dimostrare che i soggetti in età evolutiva sono dotati di un alto grado di resilenzia, vale a dire sanno resistere alle condizioni della vita che li pone in difficoltà ed all’azione degli adulti che attraverso il loro conflitto li possono spingere ad allearsi con uno di loro e a rifiutare l’altro. La - MADRE -, subito dopo la sentenza della corte di cassazione, ha prelevato il figlio dalla casa paterna, gli ha impedito di frequentare la scuola in cui era iscritto, ha tentato di ottenere l’iscrizione presso la scuola di ****, ha disatteso il programma del servizio sociale affidatario, ha impedito al figlio di trascorrere parte dei giorni festivi pasquali con il padre portandolo con sé in Toscana da alcuni parenti. In questa situazione i comportamenti che emergono da fatti obiettivi ed inconfutabili consentono di corroborare la prova del suo comportamento alienante e possessivo, nonostante i limiti imposti dal provvedimento del tribunale per i minorenni che ha 58 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 rigettato la sua reintegra nella potestà ed ha confermato l’affidamento del bambino al servizio sociale. Dalle sue dichiarazioni orali rese in udienza la MADRE - risulta desiderosa di restituire al figlio “ tutta la sua vita” e non solo la metà che è costituita nel suo rientro nella casa materna. L’altra metà a suo dire è costituita dall’ambiente scolastico ed amicale di ****. Nessuno spazio nel suo concetto di vita del figlio è riservato al rapporto con il padre, nonostante le preoccupazioni che asserisce di avere avuto per il rifiuto nei confronti dello stesso. Di fronte a tale pervicacia nel comportamento materno non si ravvisano le garanzie che la predetta sappia far proseguire il figlio nel rapporto con il padre e non ponga nuovamente in atto ostacoli alla normalità del medesimo, facendo regredire il minore e ponendolo in posizione di grave rischio di disturbi della personalità, siano essi quelli che in campo scientifico vengono da parte degli esperti qualificati come PAS, siano gli agiti aggressivi che derivano dallo stato d’ansia rilevati dagli esperti dei Servizi Sociali. Indipendemente dalla loro qualificazione dal punto di vista medico, la descrizione dei comportamenti del bambino sulla quale tutti hanno concordato consente di ritenere che i suoi agiti, se non ricomposti, porterebbero a disturbi che impedi- DIBATTITO rebbero a - FIGLIO - di crescere e sviluppare tutte le sue notevoli capacità intellettuali ed espressive. Non si tratta solo di conservare al bambino la bigenitorialità da intendersi come un patrimonio prezioso di cui i figli debbono poter disporre, ma di evitare che attraverso il rifiuto si vada strutturando una personalità deviante. Si tratta anche di preservare il bambino dal dolore perché le gravi manifestazioni di rifiuto emerse nel passato sono anche espressione di sofferenza. Per tale ragione va confermato l’affidamento al servizio sociale per la predisposizione di un progetto di sostegno psicologico del bambino e di aiuto alla genitorialità in quanto solo attraverso l’abbassamento del conflitto della coppia si può sperare che il bambino acquisisca sicurezza e serenità. Poiché la madre non lo ha garantito in questo percorso, ma al contrario lo ha ostacolato, la predetta non può ritenersi essere il genitore più idoneo a favorire la crescita del bambino, per cui il collocamento principale dello stesso va disposto presso il padre che ne esercita la potestà. Va tuttavia garantito a - FIGLIO - anche la frequentazione dell’ambiente materno che certamente ha costituito per anni il centro dei suoi affetti; affetti che non gli possono essere negati, salvo il rischio di porlo in situazione di grave sofferenza. Pertanto va disposto un calendario di “visite” materne molto nutrito che consenta di conservargli l’ambiente della prima infanzia: - FIGLIO - trascorrerà con la madre otto settimane all’anno di vacanze, ivi compreso una settimana a Natale o a Capodanno ed alcuni giorni a Pasqua; starà presso l’abitazione materna dal venerdì pomeriggio all’uscita da scuola sino al lunedì mattina per due volte al mese e per le altre due settimane dal martedì all’uscita della scuola sino al venerdì mattina. Frequenterà la scuola a ****, salvo diversa decisione da parte del padre ed in ogni caso potrà frequentare un’attività sportiva, culturale o ludica scelta della madre anche eventualmente in ****. La - MADRE - non ha la potestà sul figlio, né questa corte può esaminare la sua domanda di reintegra dal momento che essa non è stata respinta, ma rinviata nella decisione da parte della corte veneziana (in questo senso è stato inteso anche dalla corte di cassazione che per altro non avrebbe potuto prendere in esame la questione non soggetta a ricorso per cassazione), per cui il giudice di rinvio non può considerarsi investito della questione. Tuttavia si ritiene equo consentire che la madre possa assumere informazioni anche dirette dalla scuola in ordine al profitto ed al comportamento del figlio e parimenti possa avere informazioni dirette sulla sua salute. Tutte le altre decisioni (gite scolastiche, attività all’interno della scuola, decisioni importanti sulla salute del figlio ecc.) debbono avere l’avallo del padre. Il servizio sociale disporrà il calendario dei periodi di vacanza che il bambino potrà trascorrere presso la madre, sentiti previamente i genitori; potrà regolare ogni minuta esigenza del bambino che non risultasse dal provvedimento, come stabilire quale dei due genitori debba portare o prendere da scuola il figlio, dividendo equamente i compiti; dovrà monitorare la situazione e riferire alla Procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni nel caso si verificasse qualche grave problema che renda non praticabile il progetto di vita che questa corte ha previsto per il minore. Quanto alla richiesta del - PADRE - di contribuzione economica a carico della - MADRE - per il mantenimento del figlio, tenuto conto che in sostanza il bambino trascorrerà periodi di tempi quasi uguali nelle due case a sua disposizione, si ritiene di non porre una contribuzione economica, salvo ribadire che i genitori sono tenuti a concorrere alle spese straordinarie per il 50% ciascuno, apparendo entrambi in condizioni di poter affrontare tale esborso. Quanto alle spese di lite in considerazione della delicatezza del caso, della novità delle questioni trattate e dell’esito del procedimento si ritiene equo compensare le medesime tra le parti, ivi comprese quelle del giudizio di cassazione. P.Q.M. Definitivamente decidendo nel procedimento di cui in epigrafe conferma l’affidamento del minore PADRE - - FIGLIO - al Servizio Sociale di **** che continuerà nel sostegno alla genitorialità nei confronti dei genitori e nel sostegno psicologico del minore, effettuerà il monitoraggio e darà attuazione ai provvedimenti del giudice attraverso la calendarizzazione dei periodi di vacanza e per ogni disposizione necessaria non prevista nel presente decreto; colloca il minore presso il padre; consente che il bambino stia presso la madre per otto settimane complessive nei periodi di vacanza, ivi compreso il Natale, il Capodanno e la Pasqua, nonché per due settimane al mese dal martedì pomeriggio al venerdì mattina e per altre due settimane al mese dal venerdì pomeriggio (all’uscita della scuola) sino al lunedì mattina (rientro a scuola), disponendo che i genitori dividendo equamente gli oneri del viaggio. Dispone che il bambino frequenti la scuola a **** o a ****, se il padre lo consentirà; che la madre anche se non esercente la potestà possa avere informazioni dirette dalla scuola e dai medici del figlio e possa scegliere con lo stesso un’attività sportiva, ludica o culturale gradita al figlio da svolgersi a **** o a **** nei giorni a sua disposizione. Pone a carico dei genitori le spese di mantenimento e di abbigliamento necessari nei tempi di frequentazione del figlio e le spese straordinarie in ragione del 50% per ciascuno. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 59 DIBATTITO Dichiara inammissibile in questa sede la domanda di reintegro nella potestà avanzata dalla MADRE-. Compensa tra le parti le spese di causa ivi comprese quelle del giudizio di cassazione Dichiara il decreto immediatamente esecutivo, disponendo che la cancelleria ne dia comunicazione oltre che alle parti, al Servizio Sociale di ****. Dispone che nel caso di diffusione dello stesso siano cancellati tutti i dati identificativi del minore e dei genitori e dei luoghi di residenza degli stessi. IL PUNTO DI VISTA di MARIA TERESA DE SCIANNI RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI SALERNO DELL’OSSERVATORIO “Il fatto che altri esperti neghino il fondamento scientifico di tale sindrome non significa che essa non possa essere utilizzata quanto meno per individuare un problema relazionale molto frequente in situazione di separazione dei genitori, se non come una propria e vera malattia.” Questa, in sostanza, la valutazione principale intorno a cui ruota l’intero decreto e tutti i ragionamenti attivati dalla Corte di Brescia. Di fatto un’opinione del tutto condivisibile dal momento che spesso, forse troppo, siamo abituati a ragionamenti contorti che si perdono nei meandri del diritto o delle decisioni giurisprudenziali, pur di non vedere ciò che è lapalissiano, pur di non voler considerare come “inammissibili” certi comportamenti per il solo fatto che qualcuno li ha definiti o chiamati con un termine, di fatto inesistente o non comunemente riconosciuto, arrivando, per ciò stesso, a negarli. Come la favola del re nudo… per convenzione, per ossequio, per falsa piaggeria nei confronti del Re, tutti erano indotti a Vedere ciò che non c’era… un vestito! Solo chi, con disarmante senso della verità e senza schermi o pudori o falsa rappresentazione di ciò che poteva essere giusto o meno dire, ebbe il coraggio o, secondo alcuni: “l’ardire” di dire la verità, in realtà fu ricompensato per tale sua naturale purezza: il re era nudo e non aveva indosso alcun vestito! La stessa serenità e lo stesso senso della “verità” ha manifestato la Corte di Brescia che, di fatto, ha detto quanto molti vedevano ma non avevano il coraggio di dire, cioè che, al di là delle definizioni scientifiche di un certo comportamento, comunque le reazioni di quel bambino, al limite dell’assurdo e comunque non “naturali e serene”, rappresentavano sicuramente una summa di problemi legati al rapporto con un genitore, il padre, e determinati dal comportamento dell’altro genitore: la madre. Non v’è chi non veda quanto “il plagio”, quello che generalmente e volgarmente viene definito “lavag60 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 gio del cervello”, scientificamente detto “indottrinamento” possa, di fatto, essere lesivo della libertà di pensiero e di autodeterminazione e quanto danno comporti nelle relazioni tra un genitore ed un figlio. Un bambino che viva la maggior parte del tempo con uno dei due genitori ma che, al di là della quantità di tempo con questi vissuto, sia particolarmente legato e condizionato dalle parole e dall’affetto, spesso morboso, di tale genitore, solo difficilmente potrà elaborare una propria opinione sul modo di essere e di fare dell’altro genitore dal momento che, per forza di cose, sarà condizionato ed influenzato da quello che sarà stato detto e dal comportamento avuto dal genitore convivente rispetto all’altro. Come diceva Aristotele, la mente di un bambino è, all’origine, una “tabula rasa” sulla quale si imprimono le informazioni che diventano “esperienze” che rimarranno stampate “a fuoco” come sulla cera e andranno a costituire, nel corso degli anni, il proprio bagaglio di conoscenza e di ricordi. Questo è quello che può fare il comportamento di un genitore, anche in buona fede, ma fortemente condizionante, nella mente del figlio quando, magari senza dolo, parli del “padre” come di una persona negativa, o peggio quando lo descriva come un uomo inaffidabile o cattivo o violento o quant’altro si possa dire contro l’ex compagno, padre (o madre) del proprio figlio. Ciò che si otterrà, indipendentemente dalla volontà precisa di ottenerlo, sarà la “demolizione” della figura paterna (o materna) agli occhi del bambino il quale, pur non volendo, sarà condizionato da quanto ha sentito o visto e non potrà fare a meno di attivare una serie di “difese” sia nel suo interesse sia rispetto al genitore solo apparentemente “più debole” perché ritenuto tale. Chiunque si dovesse trovare nelle condizioni di quel bambino agirebbe proprio come il bambino di Cittadella, sarebbe sicuramente indotto a salvare innanzitutto se stesso dalla presunta, minacciata, violenza dell’altro genitore, e poi a salvare anche lo stesso genitore “prevalente” o che ha il maggior controllo della sua vita, dal momento che istintivamente, sapendo quanto “dolore” o “dispiacere” questi, almeno apparentemente, sia costretto a subire, troverebbe naturale la più logica delle reazioni cioè il rifiuto di qualsiasi forma di contatto con l’altro genitore… “il cattivo” per intenderci. Le figure genitoriali non sono “parole” o “concetti” astratti ma, al contrario, padre e madre sono sostantivi polivalenti dal significato complesso e articolato e nient’affatto rappresentativi della stessa funzione! Per un bambino che abbia viventi i due genitori non è affatto naturale dover rinunciare all’uno o all’altro dal momento che nessuno dei due si può considerare “di troppo”… DIBATTITO Un padre così come una madre danno, ognuno per quello che istintivamente e naturalmente sono portati ad essere e rappresentare, una ricchezza di contenuti, di vita, di esperienze e di modi di vedere le cose in maniera diversa, entrambi necessari, insostituibili e non intercambiabili. Ciò che può trasferire un padre in termini di sicurezza, di regole di vita, di superficialità… quella giusta però, intesa come “leggerezza” nell’affrontare certe esperienze o nel vivere certi momenti anche di svago, è sicuramente diverso da ciò che dà e garantisce una madre più attenta ai doveri, alla moralità e alla sollecitazione al senso di responsabilità. La visione della vita è ambivalente, nel senso che i due genitori si completano a vicenda e insieme, anche se non contemporaneamente o sotto lo stesso tetto, trasmettono al figlio valori e forza e capacità di saper affrontare la vita e scegliere il giusto mezzo, per garantirgli equilibrio e coraggio al tempo stesso, di cui un figlio cresciuto da un solo genitore più difficilmente potrebbe beneficiare visto che, per quanto si possa tentare di compensare il vuoto, l’assenza dell’altro è un vuoto difficilmente colmabile. Detto questo è appena il caso di far notare come, dopo un gran discutere, contestare o condividere la sentenza della Corte di Cassazione sul caso di specie, e dopo aver riconsiderato quanto in essa scritto sul punto PAS e sulla sua attendibilità e cioè che: “…sarebbe stata la errata diagnosi di PAS, stato patologico inesistente, a scatenare il conflitto tra i genitori e a diventare essa stessa causa del conflitto, moltiplicando la drammaticità della situazione in cui vi sarebbe, senza alcuna prova, un genitore vittima (genitore bersaglio) di un genitore criminale (genitore alienante) ed un figlio affetto da psicopatologia” un dubbio sorge spontaneo: e se il re fosse nudo? Si ha la netta sensazione che a furia di motivare, spiegare, giustificare o colpevolizzare questa o quella opinione, di fatto si stia tralasciando il punto più importante di tutta la vicenda, cioè: il bene del bambino, diventato “oggetto” ed “arma” nelle mani (e nei telefonini!) di questo o quell’adulto, di cui sembra quasi che nessuno si interessi a fondo. Soprattutto sembra che le condizioni di vita e le decisioni, anche nell’ambito delle proprie esperienze scolastiche, non sia lui ad assumerle, ma piuttosto che lui, nonostante la sua tenera età, sia costretto a subìre le scelte spesso “scellerate” degli adulti, per dimostrare a se stessi e al mondo di essere “i più forti”, i “vincenti” senza alcun riguardo per quello che al bambino interessa o piace fare o preferisca vivere. Eppure non sembra chiedere molto se si sollecita una riflessione su quelle che sono le conseguenze delle decisioni dei genitori rispetto a questo bambino. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 61 DIBATTITO È stato diverse volte ascoltato dai Servizi Sociali, ha visto un padre ed una madre litigare e quasi con violenza affermare la propria priorità educativa su di lui, ha subìto diversi trasferimenti da un istituto scolastico ad un altro, quindi ha cambiato amici, insegnanti di riferimento, sport, giochi e soprattutto “COMPAGNI DI GIOCHI”…Ha dovuto adattarsi a dormire in letti diversi non potendo dire di avere una sua camera, l’angolo di mondo fuori dal quale si ha bisogno di lasciare “il mondo intero”, anche i genitori in alcuni momenti di crescita interiore. Ebbene a questo bambino, nella corsa affannosa al traguardo del “più forte”, i genitori e tutti coloro che sono stati da questi interpellati o che sono intervenuti per causa loro, ebbene tutti costoro gli hanno stravolto la vita. Ci si domanda, poi, se questo bambino possa aver avuto conseguenze dalle scelte di coloro che, solo “a parole”, hanno inteso fare il suo bene??? Com’è possibile che si dubiti di ciò? Proviamo a saperne di più sull’oggetto del contendere che poi, si è confermata esistere indipendentemente dalla sua definizione o dal suo riconoscimento in sede scientifica, per il solo fatto di ESISTERE come concause scatenanti determinate reazioni: la P.A.S. o Sindrome da Alienazione Parentale. Il dr. Marco Casonato, psicologo intervenuto nel mese di Aprile 2013 ad una giornata formativa or62 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 ganizzata dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia, Sezione di Salerno, è stato consulente in vari procedimenti che ne hanno trattato, e la definisce partendo dalla disamina del concetto di Mobbing per dimostrare come, a suo avviso, escludere la PAS dal DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) non vuole significare necessariamente che essa non esista, in quanto negarle la valenza di “patologia” non equivale a “negarne l’esistenza” come manifestazione di un grave disturbo del comportamento. Egli scrive: “Pare di poter iniziare questa disamina dalla tesi di Giordano… che introduce la nozione di Mobbing genitoriale… la nozione di mobbing infatti comprende almeno quattro parti: un contesto ambientale, un attore, dei veicoli, una vittima…. Altrettanto vale per il mobbing sul lavoro: un ambiente di lavoro malsano, un dirigente ostile e paranoide, degli alleati tra impiegati e colleghi, un lavoratore vittima. La Sindrome di alienazione parentale parrebbe in effetti sovrapponibile con le condizioni citate: un contesto giudiziario malsano, un genitore ostile e paranoide, un branco di alleati (tra cui il bambino), un oggetto dell’attacco (un ex coniuge). Ha senso “ridurre” la PAS al mobbing? Concordiamo in parte: la PAS come sindrome non è una malattia psichiatrica che “sta nella testa” e DIBATTITO deve essere valutata sia nelle dinamiche intrafamiliari che in quello che viene chiamato esosistema (rapporti tra l’individuo e l’ordinamento) e macrosistema (tempo, storia, leggi e cultura). Per rispondere al quesito lasciateci considerare una terza condizione: lo Stalking o molestie persecutorie come da novella del Codice penale. Lo stalking prevede un persecutore ed un perseguitato, un contesto socio-familiare, delle dinamiche di coppia (anche se talora la vittima non conosce il suo persecutore). Anche lo stalking non è una “malattia che sta nella testa” ne’ della vittima, ne’ del persecutore. Le tre condizioni non compaiono come tali in nessun DSM degli ultimi 20 anni, la ragione è semplice, nessuna delle tre condizioni è “una malattia che sta nella testa” e i DSM considerano invece tendenzialmente solo ed esclusivamente “malattie che stanno nella testa” che si possono trattare con una sostanza medicamentosa che si introduce nel corpo all’uopo. Dovrebbero avere un posto tutte nel DSM 6? Se la concettualizzazione sottostante ai DSM non cambierà nei prossimi 10-20 anni probabilmente non vi troveranno posto, perché appunto nessuna condizione delle citate è una “malattia che sta nella testa”. Ciò implica che Stalking, PAS, Mobbing non esistano? Evidentemente no: semplicemente il DSM 5 non elenca compiutamente queste condizioni perchè non sono “malattie che stanno nella testa”. Concludendo sulla proposta di Giordano (2012): non ci pare opportuno “ridurre” la PAS a Mobbing, ne’ più ne’ meno che ridurre il Mobbing allo Stalking, …ne’ d’altra parte si può affermare che le due condizioni siano la medesima condizione. La evidente somiglianza (da cui il ragionamento per analogia) deriva dal fatto che le citate condizioni paiono appartenere ad una medesima ampia categoria di cui esse sono semmai sottocategorie e pertanto condividono diverse caratteristiche tra loro tra cui il fatto rilevante ai fini dei criteri di inclusione dei DSM attuali di “non essere nella testa”. Senza esaminare ulteriormente la Sentenza della Cassazione, prima, che ha negato l’opportunità di una decisione fondata su una Sindrome inesistente, e il Decreto della Corte d’Appello di Brescia, poi, che chiarisce l’importanza di un provvedimento articolato di tutela del figlio, indipendentemente dalle definizioni scientifiche del suo disturbo, si sente la necessità di ricordare, innanzitutto alla scrivente, che la famiglia è nel contempo il luogo più sicuro e accogliente possibile ma, in situazioni patologiche o conflittuali, diventa la trappola peggiore e più pericolosa nella quale poter costringere chi in essa cresce e ad essa si affida: il figlio. È cronaca del nostro tempo la violenza intrafamiliare che, statisticamente (pur non amando le stati- stiche) è la sede più frequente della violenza a danno delle donne e, in genere, dei soggetti più deboli. È sicuramente il soggetto debole per eccellenza, il figlio, colui che cresce in una famiglia e aspetta di ricevere, avendone il diritto, gli strumenti per diventare adulto e per spiccare il volo e guadagnarsi il proprio ruolo e la propria dignità sociale in una società che lo riconosca parte di se. Non consentire ad un bambino di sviluppare la propria autonomia e la propria capacità critica e negargli il diritto agli affetti naturali, cioè a quelli che più e prima di tutti gli altri lo aiuteranno a diventare un uomo (o una donna) maturo e realizzato oltre che un soggetto capace di dare amore avendolo ricevuto in maniera sana, equivale a negargli un’esistenza serena e soprattutto un’infanzia a cui fare riferimento in termini di ricordi piacevoli, nei momenti di sconforto, e in termini di esperienza, per quando anche lui sarà genitore e avrà bisogno di trasferire insegnamenti attingendo ai ricordi del passato. In parole povere gli avremo rubato “un futuro sereno” e rovinato per sempre il “passato” che, seppure fosse cancellato dalla sua mente, rimarrà stampato a fuoco nella sua anima. Un figlio non si divide, Salomonicamente, a metà né può essere privato, avendoli entrambi, di uno dei genitori per motivi che prescindono dal suo reale interesse o diritto. Un figlio si “condivide” nel suo interesse, nonostante ogni rancore, per aiutarlo a crescere e per dargli la forza di vivere! aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 63 DOCUMENTI PROTOCOLLO DEL TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA PER LE CAUSE IN MATERIA DI FAMIGLIA. GIUDIZI DI SEPARAZIONE, DIVORZIO, AFFIDAMENTO DEI MINORI NATI FUORI DAL MATRIMONIO E RELATIVE MODIFICHE PARTE PRIMA Sezione Prima Norme di carattere generale Art. 1. Riservatezza Nello svolgimento delle udienze è assicurata la massima riservatezza. A tal fine, in occasione delle udienze presidenziali e, ove possibile, anche di trattazione avanti il Giudice Istruttore, i fascicoli delle cause in materia di famiglia dovranno essere resi disponibili ai soli difensori delle parti. Per ciascuna causa in materia di famiglia verrà fissato un orario di trattazione che riservi ad ogni procedimento un tempo sufficiente al suo ordinato svolgimento. Gli elenchi esposti nei locali del Palazzo di Giustizia relativi alle cause di famiglia chiamate davanti al Giudice dovranno individuare la controversia mediante il numero di ruolo, l’orario di trattazione, e il nome dei difensori, omettendo il nome delle parti. Il Giudice procurerà che la trattazione delle singole cause in materia di famiglia avvenga alla sola presenza dei difensori, delle parti ove comparse, e dei praticanti e dei soggetti a ciò abilitati dalla legge forense. Fermo quanto sopra, il Giudice e i difensori delle parti si impegnano a favorire le condizioni perché si realizzi in concreto la tutela della riservatezza nella trattazione delle cause di famiglia. Art. 2. Cortesie tra difensori e Cancelleria I difensori delle parti cureranno di trasmettersi reciprocamente e tempestivamente copia degli atti e dei documenti depositati in cancelleria nel corso della causa, provvedendo all’inserimento delle copie nella cassetta personale del Collega avversario ovvero tramite invio via e mail all’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato dal Collega. In caso di produzione di documenti nel corso della udienza, i difensori delle parti consegneranno contestualmente al Collega avversario copia delle produzioni effettuate. 64 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 Art. 3. Fascicoli di parte e di ufficio Il fascicolo di parte andrà predisposto secondo quanto previsto dall’art. 74 disp. att. c.p.c., con sezioni separate per “Atti” e “Documenti”, questi ultimi con distinta e progressiva numerazione. I difensori provvederanno ad aggiornare l’indice dei documenti prodotti in causa ad ogni ulteriore produzione successiva alla costituzione in giudizio, numerando i documenti in ordine progressivo a partire da quelli offerti in comunicazione nella fase presidenziale. Si auspica che i difensori, il Giudice e il personale di Cancelleria, nel consultare i fascicoli d’ufficio, mantengano in ordine gli stessi che dovranno contenere, separati tra loro: verbali e provvedimenti, copie ufficio degli atti delle parti, fascicoli di parte, fascicolo della eventuale consulenza tecnica, fascicolo delle eventuali comunicazioni dei Servizi Sociali, fascicolo delle comunicazioni di cancelleria ai difensori e a terzi). Art. 4. Numero di cause Il Presidente del Tribunale curerà di tenere le udienze dei procedimenti di separazione consensuale e divorzi congiunti in giorni distinti dalle udienze presidenziali dei procedimenti di separazione giudiziale e dei divorzi contenziosi e di fissarne l’apposito orario di chiamata progressivo che renda possibile la compiuta trattazione di ogni procedimento. Sezione Seconda Fase presidenziale Art. 5. Il ricorso introduttivo Con il ricorso introduttivo il ricorrente dovrà depositare le ultime tre dichiarazioni dei redditi (730 o Modello Unico) presentate all’amministrazione fiscale, complete in ogni loro parte con la prova dell’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle Entrate. Il Modello Unico deve essere completo della dichiarazione della persona, dell’IVA, dell’IRAP e auspicabilmente anche degli studi di settore. La produzione del solo CUD sarà consentita nel caso in cui il ricorrente non abbia presentato dichiarazione dei redditi per uno o più anni, relativamente ai quali dovrà allegare al ricorso con dichiarazione sostitutiva di atto notorio che attesti la circostanza, sotto la propria responsabilità, come da facsimile allegato al presente protocollo. Il ricorrente dovrà comunque produrre alla udienza presidenziale anche la dichiarazione dei redditi presentata successivamente al deposito del ricorso. Nel caso in cui il ricorrente abbia recentemente iniziato nuova attività lavorativa dovrà produrre anche copia del contratto di lavoro e le buste paga sino a quel momento maturate. Nelle cause in cui il Giudice deve adottare provvedimenti economici relativi al mantenimento di fi- DOCUMENTI gli minori, è auspicabile che il ricorrente dichiari nel ricorso i beni mobili (compresi veicoli e partecipazioni societarie) e immobili di cui è proprietario. Ove il ricorrente chieda l’applicazione di una legge straniera, avrà cura di allegare al ricorso copia del testo normativo aggiornato e la traduzione in lingua italiana. Parimenti allorchè alleghi al ricorso documenti in lingua straniera, dovrà corredarli di traduzione in lingua italiana. La traduzione dovrà essere asseverata nei casi previsti dalla legge. È auspicabile che il ricorso che contenga la domanda di assegnazione della casa coniugale riporti i dati di identificazione catastale dell’immobile ai fini della trascrizione del ricorso e/o del successivo provvedimento di assegnazione. Art. 6. Il decreto di fissazione di udienza presidenziale Il decreto di fissazione di udienza presidenziale conterrà: - la fissazione di udienza di comparizione entro 90 giorni dal deposito del ricorso; - la fissazione al resistente del termine di 10 giorni prima della udienza presidenziale per depositare propria memoria difensiva e la documentazione fiscale di cui al precedente art. 5; - la fissazione al ricorrente del termine per la notifica al resistente del ricorso e del decreto di fissazione di udienza almeno 30 giorni prima della stessa; - l’informazione alla parte resistente che è necessario il patrocinio di un avvocato, anche nella fase presidenziale; - l’informazione alla parte resistente che potrà avvalersi del patrocinio a spese dello Stato ove ne abbia i requisiti; - l’obbligo di produrre le tre ultime dichiarazioni dei redditi. Art. 7. La memoria difensiva È auspicabile che il resistente depositi memoria difensiva nel termine indicato dal Presidente nel decreto di fissazione di udienza, per consentire la razionalizzazione dei tempi di udienza e la celerità del processo. Nel caso in cui il resistente si costituisca successivamente al predetto termine è cortesia del difensore del resistente avvertire tempestivamente di ciò il difensore del ricorrente. Con la memoria difensiva il resistente dovrà depositare le ultime tre dichiarazioni dei redditi (730 o Modello Unico) presentate all’amministrazione fiscale, complete in ogni loro parte con la prova dell’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle Entrate. Il Modello Unico deve essere completo della dichiarazione della persona, dell’IVA, dell’IRAP e auspicabilmente anche degli studi di settore. La produzione del solo CUD sarà consentita nel caso in cui il resistente non abbia presentato di- chiarazione dei redditi per uno o più anni, relativamente ai quali dovrà allegare alla memoria difensiva una propria dichiarazione sostitutiva di atto notorio che attesti la circostanza, sotto la propria responsabilità, come da facsimile allegato al presente protocollo. Nel caso in cui il resistente abbia recentemente iniziato nuova attività lavorativa dovrà produrre anche copia del contratto di lavoro e le buste paga sino a quel momento maturate. Nelle cause in cui il Giudice deve adottare provvedimenti economici relativi al mantenimento di figli minori, è auspicabile che il resistente dichiari nel ricorso i beni mobili (compresi veicoli e partecipazioni societarie) e immobili di cui è proprietario. Ove il resistente chieda l’applicazione di una legge straniera, avrà cura di allegare alla propria memoria difensiva copia del testo normativo aggiornato e la traduzione in lingua italiana. Parimenti allorchè alleghi alla memoria difensiva documenti in lingua straniera, dovrà corredarli di traduzione in lingua italiana. La traduzione dovrà essere asseverata nei casi previsti dalla legge. È auspicabile che la memoria difensiva che contenga la domanda di assegnazione della casa coniugale riporti i dati di identificazione catastale dell’immobile ai fini della trascrizione del ricorso e/o del successivo provvedimento di assegnazione. Art. 8. Verbale delle udienze di separazione consensuale Nei procedimenti di separazione consensuale il difensore predispone per l’udienza presidenziale il relativo verbale, che dovrà riportare tutte le condizioni concordate tra i coniugi, nonché la istanza di omologa, entrambi secondo il modello allegato al presente protocollo, disponibile sul sito www.ordineforense.re.it. Art. 9. Svolgimento delle udienze di separazione giudiziale e divorzi contenziosi Il Presidente in primo luogo procede all’audizione dei coniugi separatamente, verbalizzando le dichiarazioni della parte. Il Presidente, quindi, avuta la presenza di entrambi i coniugi e dei rispettivi difensori, prima di interrogarle liberamente e di esperire il tentativo di conciliazione, leggerà la verbalizzazione precedente e metterà a conoscenza i coniugi di quando dichiarato dall’uno e dall’altro separatamente. Nel caso in cui fallisca il tentativo di conciliazione, seguirà la trattazione orale della causa da parte dei difensori i quali dovranno attenersi alle regole di rispetto e cortesia reciproche che il Presidente farà rispettare, non consentendo che si verifichino interruzioni e/o sovrapposizioni e/o che il difensore si rivolga direttamente alla controparte o che la parte si rivolga direttamente al difensore avversario. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 65 DOCUMENTI Al fine di emettere provvedimenti più opportuni in ordine alla prole, il Presidente potrà disporre accertamenti tramite i Servizi Sociali territorialmente competenti o avvalersi di una Consulenza Tecnica d’Ufficio che potrà essere disposta con immediatezza in caso di sua necessità. All’udienza presidenziale è di regola concessa al ricorrente una replica solo verbale alla costituzione avversaria, a meno che il resistente non abbia svolto domande riconvenzionali o prodotto documenti che richiedano una compiuta replica scritta e la produzione di altri documenti. In tal caso il Presidente potrà concedere alle parti termini differenziati per repliche e riservare la adozione dei provvedimenti provvisori ed urgenti all’esito. Art. 10. Mancata costituzione del resistente nel termine indicato dal decreto presidenziale Nel caso in cui il resistente non si costituisca nel termine stabilito dal Presidente con il decreto di fissazione di udienza, il Presidente, sentite le parti personalmente e separatamente, sentiti i difensori, può concedere, al ricorrente, se da questo richiesto, un termine per replicare e produrre documenti, rinviando la procedura ad udienza successiva per l’adozione dei provvedimenti provvisori. Art. 11. Comparizione personale del resistente senza l’assistenza del difensore Nel caso in cui il resistente compaia all’udienza presidenziale senza l’assistenza del difensore, il Presidente lo avverte della possibilità di munirsi di difensore e se la parte vi rinuncia procede alla sua audizione. Nell’eventualità che il resistente comparso personalmente aderisca alla domanda giudiziale del ricorrente e concordi sulle condizioni di separazione o di divorzio, il Presidente, verbalizzate le dichiarazioni delle parti, fisserà altra udienza per consentire al resistente di munirsi di difensore, per procedere al mutamento di rito. E’ auspicabile che in questo caso che il difensore del ricorrente non assuma, seduta stante, in udienza, la rappresentanza e l’assistenza anche del resistente perché tale ipotesi configurerebbe una difesa meramente apparente, tranne casi particolari. Art. 12. L’ordinanza presidenziale e fissazione di udienza istruttoria ex art. 709 c.p.c. Con l’ordinanza ex art. 709 c.p.c. il Presidente, tenuto conto degli accordi tra i coniugi, stabilisce in dettaglio i periodi di permanenza dei figli minori presso ciascuno dei genitori, con l’indicazione del giorno e dell’orario di inizio e del giorno e dell’orario di fine della permanenza stessa, senza che necessiti un successivo accordo tra i coniugi in fase attuativa, che spesso può mancare specie nella prima fase separativa. 66 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 Inoltre, il Presidente stabilendo la misura del contributo economico avrà cura di indicare la data di decorrenza dello stesso. Infine con la predetta ordinanza il Presidente: - fissa l’udienza avanti il Giudice Istruttore non prima di 45 giorni liberi dalla udienza presidenziale; - fissa il termine al ricorrente per il deposito di memoria integrativa non oltre 30 giorni prima della udienza avanti il Giudice Istruttore; - fissa il termine al resistente per la costituzione avanti il Giudice Istruttore non oltre 10 giorni prima della udienza avanti a lui; - avverte le parti delle decadenze in cui incorrono per il mancato rispetto del termine per ciascuna stabiliti; - avverte il resistente che ha facoltà di prendere visione in cancelleria della memoria integrativa del ricorrente. Art. 13. Verbale delle udienze di divorzio congiunto Nei procedimenti di divorzio congiunto il difensore predisporrà il verbale di udienza, inserendo in esso tutti i dati anagrafici delle parti e riportando integralmente le conclusioni secondo il modello allegato al presente protocollo, disponibile sul sito www.ordineforense.re.it. Invierà via e mail in formato word il predetto verbale al Presidente del Collegio successivamente al giorno dell’udienza. Art. 14. I trasferimenti immobiliari nel verbale di separazione consensuali e nelle condizioni dei divorzi congiunti Allo scopo di consentire la regolare esecuzione degli atti di trasferimento immobiliari tra coniugi contenuti nei verbali di separazione consensuale e di divorzio congiunto nonché nelle conclusioni congiunte dei procedimenti giudiziali, si propone di: 1. inserire il codice fiscale e la residenza anagrafica delle parti; 2. inserire la chiara e inequivoca manifestazione di volontà ex art. 1376 c.c. di procedere al trasferimento e conseguentemente all’accettazione; 3. inserire i dati dell’atto di provenienza dell’immobile, con la specificazione del notaio, della data dell’atto e degli estremi di registrazione e di trascrizione; 4. indicare il diritto reale che viene trasferito, la sua quota e la precisa identificazione attuale degli immobili, con specificazione della natura o categoria, del foglio, del mappale, del subalterno, la rendita catastale e con l’indicazione di almeno tre confini; per i fabbricati in corso di accatastamento e per quelli privi del codice di identificazione catastale, bisogna specificare il numero e l’anno del protocollo della denuncia di accatastamento, della scheda o della variazione; per gli immobili in corso di costruzione, devono essere indicati i dati di identificazione catastale del terreno su cui insistono; 5. specificare se l’immobile sia gravato o meno da ipoteca e/o da altro peso; DOCUMENTI 6. indicare l’eventuale rinuncia all’iscrizione di ipoteca legale; 7. produrre la copia dell’ultimo atto tra vivi di provenienza dell’immobile oggetto del trasferimento; 8. produrre la visura catastale aggiornata relativa a tutti gli immobili oggetto del trasferimento nonché la visura storica; 9. in caso di cessione di terreno, produrre certificato di destinazione urbanistica aggiornato (il certificato ha una validità fino a un anno dal rilascio, se per dichiarazione dell’alienante non siano intervenute modificazioni degli strumenti urbanistici); se il terreno ceduto è inferiore a 5.000 mq. non è necessario produrre certificato di destinazione urbanistica, se è di pertinenza dell’immobile ceduto e censito nel Nuovo Catasto Edilizio Urbano; 10. far rendere alla parte cedente dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in ordine alla regolarità della concessione edilizia. In caso di fabbricati la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, l’alienante indicherà gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria; in caso di fabbricati anteriori, gli estremi della licenza o della concessione a edificare o della concessione in sanatoria; per le opere iniziate anteriormente al 1° settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante che trattasi di immobili edificati anteriormente al 1° settembre 1967; se risultano, indicare gli estremi dell’abitabilità o agibilità; la dichiarazione sostituiva di atto di notorietà, nell’ipotesi in cui siano state apportate all’immobile delle modifiche per le quali è stata richiesta la concessione edilizia o autorizzazioni o condoni o infine inviate comunicazioni presso gli Uffici Comunali, dovrà essere integrata anche da tali dati; rendere, inoltre, dichiarazione sostituiva di atto di notorietà relativamente ai terreni inferiori a 5.000 mq., quando sono di pertinenza di fabbricato ceduto censito al Catasto Fabbricati (le suddette dichiarazioni possono essere contenute nel verbale di comparizione delle parti); 11. rendere gli attestati di certificazione energetica ai sensi dell’art. 6 co. 2 ter del d.lgs. n. 192/2005, come modificato, con decorrenza dal 29 marzo 2011, dal d.lgs. n. 28/2011; 12. far rendere alla parte cedente la dichiarazione ex art. 19 co. 14 del d.l. n. 78/2010 convertito nella legge n. 122/2010 nei seguenti termini, in merito alla conformità oggettiva: “si precisa che i dati di identificazione catastale, come sopra riportati e documentati dalla visura catastale allegata, riguardano l’unità immobiliare raffigurata nella planimetria depositata in Catasto a corredo della dichiarazione prot. n. ______ del______; la parte alienante, attuale intestataria dell’unità immobiliare in oggetto, dichiara che i dati catastali e la planimetria sono conformi allo stato di fatto”. In difetto di detta dichiarazione di conformità oggettiva da parte del ce- dente, dovrà essere prodotta, in sostituzione, l’attestazione da parte di tecnico abilitato; 13. in merito alla conformità soggettiva, far rendere alla parte cedente la dichiarazione, ex art. 19 co. 14 del d.l. n. 78/2010 convertito nella legge n. 122/2010, della conformità degli intestatari catastali alle risultanze dei registri immobiliari; 14. indicare che la parte cedente si dichiara edotta dell’obbligo di comunicare la cessione all’autorità locale di Pubblica Sicurezza. I difensori delle parti provvederanno ad effettuare la trascrizione del trasferimento e depositeranno in cancelleria il duplo della nota di trascrizione entro 7 giorni dal rilascio della stessa dalla Agenzia del Territorio. In caso di complessità del trasferimento immobiliare il giudice si riserva di nominare un consulente tecnico per verificare le condizioni urbanistiche di alienabilità del bene e ogni altro elemento cui sia subordinata l’efficacia e validità del trasferimento. Art. 15. Spese straordinarie È auspicabile che il Presidente nell’adottare i provvedimenti provvisori ed urgenti, nonché i difensori delle parti in caso di separazione consensuale o divorzio congiunto, indichino espressamente quali spese per i figli devono ritenersi non comprese nel contributo fisso mensile eventualmente stabilito per il mantenimento degli stessi a carico di uno dei genitori, in quale misura devono gravare su ciascun genitore e quando devono essere oggetto di specifico accordo, utilizzando il seguente schema che potrà essere variato per adeguarlo al caso concreto da regolare: spese mediche (da documentare e che non richiedono il preventivo accordo): a) visite specialistiche prescritte dal medico curante; b) cure dentistiche presso strutture pubbliche; c) tickets per trattamenti sanitari erogati dal Servizio Sanitario Nazionale e per medicinali prescritti dal medico curante spese mediche (da documentare e che richiedono il preventivo accordo): a) cure dentistiche, ortodontiche e oculistiche; b) cure termali e fisioterapiche; c) trattamenti sanitari specialistici in libera professione e interventi chirurgici. spese scolastiche (da documentare che non richiedono il preventivo accordo): a) tasse scolastiche sino alle scuole di secondo grado imposte da istituti pubblici; b) libri di testo e materiale di corredo scolastico di inizio anno; c) gite scolastiche senza pernottamento; d) trasporto pubblico. spese scolastiche (da documentare e che richiedono il preventivo accordo): a) tasse scolastiche imposte da istituti privati e corsi universitari; b) corsi di specializzazione; c) gite scolastiche con pernottamento; d) corsi di recupero e lezioni private. spese extrascolastiche (da documentare e che non richiedono il preventivo accordo): a) tempo prolungato, dopo scuola; b) centro ricreativo estivo. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 67 DOCUMENTI spese extrascolastiche (da documentare e che richiedono il preventivo accordo): a) attività sportive e pertinenti abbigliamento e attrezzatura; b) spese di custodia (baby sitter) c) viaggi e vacanze senza i genitori. Sezione terza La fase di trattazione Art. 16. Notifiche dell’ordinanza ex art. 709 c.p.c. Qualora l’ordinanza ex art. 709 c.p.c. è destinata alla parte residente all’estero la notificazione dovrà essere eseguita nel rispetto delle norme di diritto internazionale processuale privato e delle convenzioni internazionali vigenti in materia, sia con riferimento ai paesi UE, sia con riferimento ai paesi extra UE (per un riepilogo della normativa potrà essere utile “Guida alla notifica all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale” elaborata dal Ministero degli Esteri consultabile sul sito www.esteri.it). Art. 17. Costituzione delle parti innanzi al Giudice Istruttore. Con riferimento alla costituzione in giudizio innanzi al Giudice Istruttore, il deposito della memoria integrativa del ricorrente e il deposito della memoria di costituzione del resistente entro i termini di cui all’art. 709 c.p.c. costituiscono formalità essenziali ed imprescindibili per evitare la decadenza dal diritto delle parti di proporre domande nuove e/o riconvenzionali, ivi incluse le domande di addebito, nonché eccezioni non rilevabili d’ufficio. Conseguentemente, qualora le parti intendano riproporre innanzi al Giudice Istruttore le domande ed eccezioni di cui agli atti già depositati nella fase Presidenziale, il mancato deposito della memoria integrativa e della memoria di costituzione, almeno sino ad un cambiamento della giurisprudenza in materia, non determinerà alcuna decadenza processuale e sostanziale. Art. 18. Udienza di comparizione delle parti innanzi al Giudice Istruttore. Al fine di garantire tempi e modalità adeguate all’ascolto delle parti a cura del Giudice Istruttore è preferibile che la comparizione personale delle parti non avvenga in sede di prima udienza, ma ad altra successiva udienza concordata tra i difensori ed il Giudice Istruttore al quale sarà rappresentata la necessità e/o l’opportunità della convocazione personale dei coniugi. In caso di necessità di comparizione delle parti alla prima udienza è opportuno che la circostanza sia comunicata al Giudice istruttore con adeguato anticipo. Art. 19. Sentenza parziale di scioglimento del vincolo matrimoniale. In ipotesi di istanza di sentenza parziale di scioglimento del vincolo matrimoniale, il Giudice Istruttore, verificati i presupposti di legge, invierà la causa 68 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 al Collegio per la decisione e le parti, fatto salvo il caso di effettiva necessità, rinunceranno alla concessione dei termini per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. A tutela del principio di economia processuale, nei procedimenti di separazione, i difensori e le parti valuteranno con particolare scrupolo l’opportunità dell’istanza di sentenza parziale di separazione, evitando di proporla, salvo effettiva necessità ed urgenza, con modalità tali da pregiudicare l’attività istruttoria del giudizio e/o l’inutile allungamento dei tempi processuali. Art. 20. Attività istruttoria - aspetti patrimoniali ed economici Fermo quanto previsto in ordine alla documentazione relativa alle condizioni economiche di cui all’art. 5 del presente Protocollo, le parti si impegnano ad aggiornare la produzione delle dichiarazioni dei redditi lungo il corso della causa. Art. 21. Indagini Tributarie e CTU volte anche alla determinazione del tenore di vita. L’istanza di indagini tributarie rivolta al Giudice dalle parti non dovrà essere motivata con generiche contestazioni di veridicità delle dichiarazioni di controparte riguardanti la propria condizione reddituale e patrimoniale, ma, al contrario, dovrà fondarsi su contestazioni chiare, specifiche e fondate su elementi il più possibile concreti, idonei a giustificare, sia la richiesta che il provvedimento. Il Giudice, qualora disponga gli accertamenti di Polizia Tributaria potrà richiedere di eseguire accessi ed ispezioni, esibire atti o documenti detenuti da pubbliche amministrazioni e da privati. In ogni caso il Giudice potrà richiedere alla polizia tributaria di effettuare indagini ex art. 32 ss. D.P.R. 600/1973. Nelle situazioni più complesse, il Giudice potrà disporre CTU volta all’accertamento della reale situazione reddituale e patrimoniale delle parti, devolvendo al Consulente Tecnico i più ampi poteri di indagine rispetto agli accertamenti da effettuarsi in ambito di procedimenti di separazione e divorzio Art. 22. La prova dell’addebito della separazione Rispetto alla prova testimoniale dell’addebito della separazione è auspicabile che le parti limitino il numero dei testimoni e dei capitoli di prova alle sole circostanze più significative, riscontrabili oggettivamente dal testimone, anche con riferimento al nesso di causalità tra violazione dei doveri coniugali e la separazione stessa. Art. 23. Produzione di atti e documenti formati all’estero. Gli atti e i documenti formati all’estero dovranno essere prodotti nel rispetto delle formalità previste dalle norme vigenti. DOCUMENTI In particolare i documenti formati all’estero dovranno essere validati mediante apostille se provenienti dai paesi aderenti alla Convenzione dell’Aja del 1961 e successive convenzioni interne alla UE, tra le quali la recente “Roma 3”, mentre i documenti provenienti da stati esteri non aderenti alla Convenzione dovranno essere prodotti in copia tradotta in lingua italiana e legalizzata presso l’Ambasciata/Consolato Italiani nel paese straniero interessato.1 Il rispetto delle predette formalità sarà richiesto per tutti gli atti e documenti provenienti da uno stato estero, ivi incluso il certificato di matrimonio da produrre con il ricorso per separazione e divorzio qualora il matrimonio celebrato all’estero non sia stato trascritto nei registri dello Stato Civile italiano. PARTE SECONDA L’ascolto del minore Considerando quanto segue - ai sensi dell’art. 155 sexies, 1° comma c.c., come novellato dalla legge n. 54/2006, “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. - la disposizione appena ricordata deve essere interpretata come attuazione dei principi affermati dalle norme convenzionali ratificate dall’Italia: con L. 27.05.1991 Ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20.11.1989 e con L. 20.03.2003 n. 77 Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’ esercizio dei diritti dei fanciulli fatta a Strasburgo il 25.01.1996 e come attuazione anche dei principi stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, scritta a Nizza il 07.12.2000; - l’art. 12 della Convenzione di New York “ 1. Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. 2. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole della procedura della legislazione nazionale”; - l’art. 3 (Diritto di essere informato e di esprimere la propria opinione nei procedimento) della Convenzione di Strasburgo “Nei procedimenti che lo riguardano dinanzi a un ‘autorità giudiziaria, al minore che è considerato dal diritto interno come avente una capacità di discernimento vengono riconosciuti i seguenti diritti, di cui egli stesso può chiedere di beneficiare: a) ricevere ogni informazione pertinente; b) essere consultato ed esprimere la propria opinione c) essere informato delle eventuali conseguenze che tale opinione comporterebbe nella pratica e delle eventuali conseguenze di qualunque decisione”; - che per l’art. 6 (processo decisionale) della predetta Convenzione di Strasburgo “Nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente: assicurarsi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti - nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettere al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa”; - che in virtù dell’art. 23 lettera b) del Regolamento CE n.220I/2003 del Consiglio del 27.11.2003 (cd. Bruxelles II bis) le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute “se, salvo i casi d’urgenza, la decisione é stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali dì procedura dello Stato membro richiesto “. - in virtù del punto 1) dell’art. 24 (diritti del bambino) della predetta Carta di Nizza : “1. I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità “. - ai sensi dell’art. 315 bis c.c. “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. - che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza in data 6-21 ottobre 2009 n. 22238, ha ritenuto che la mancata audizione di soggetto che ha compiuto dodici anni, o anche di età minore, se capace di discernimento, in un giudizio contenzioso di modifica delle condizioni di separazione relativamente al suo affidamento debba essere motivata dal danno che tale ascolto possa arrecare al minore stesso, pena, in difetto, la censurabilità della decisione per violazione del principio del contraddittorio e del giusto processo. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 69 DOCUMENTI Ritenendo quanto considerato parte integrante del presente protocollo, viene altresì recepito quanto segue: 1. Limiti dell’ascolto Il bambino e in genere la persona minore di età dovranno essere ascoltati dal giudice solo nei procedimenti civili contenziosi (separazioni, divorzi e relative modifiche nonché nei procedimenti contenziosi ex art. 317 bis c.c.) e non nei giudizi di separazione consensuali e divorzi congiunti, loro modifiche su domanda congiunta e nei giudizi su domanda congiunta ex art. 317 bis c.c.. Nei giudizi non contenziosi appena ricordati si procederà all’ascolto solo laddove particolari circostanze del caso lo facciano ritenere opportuno. Nei giudizi contenziosi la non audizione del bambino che ha compiuto dodici anni dovrà essere adeguatamente motivata dal giudice, con specifico riferimento al caso concreto e non con mera clausola di stile (non con semplice riferimento al fatto che si ritiene l’audizione contraria all’interesse del minore o addirittura dannosa ma esplicitando i motivi per cui la si ritiene tale). Qualora debba essere disposta dal giudice l’audizione di un bambino di età inferiore ai dodici anni il giudice potrà nominare un ausiliario ex art. 68 c.p.c. per valutare preventivamente la “capacità di discernimento”del bambino stesso, come pure per farsi assistere durante (o delegare) l’ascolto sia dell’infradodicenne che dell’ultradodicenne. L’audizione del minore non è un mezzo di prova, ma un momento delicato ed importante dedicato al fanciullo finalizzato a far acquisire al giudice elementi utili ai fini della realizzazione del suo interesse. E’, inoltre, uno strumento che consente di dar voce al minore, consentendo a quest’ultimo di esprimere i propri bisogni e la propria opinione e di “partecipare”, in questo modo, alla sua tutela, tant’è che prima ancora che un obbligo per l’Autorità Giudiziaria, è un diritto del minore stesso attraverso il quale si realizza la sua tutela. 2. Informazione Prima dell’audizione il minore dovrà essere adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad essere ascoltato nel processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dello scopo dell’ascolto, precisando che le decisioni saranno prese anche tenendo conto delle sue dichiarazioni. 3. Tempi dell’ascolto Il momento dell’ascolto dovrà essere individuato dal giudice tenendo prioritariamente conto delle esigenze della persona minorenne. Pertanto l’udienza dovrà essere fissata in orari in cui possano essere garantiti: riservatezza e tranquillità dell’udienza nonché la disponibilità di tempo per70 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 ché il minorenne possa essere messo a suo agio. L’udienza dedicata all’ascolto della persona minorenne sarà fissata tenendo conto dei suoi impegni scolastici e comunque possibilmente nelle ore pomeridiane. 4. Luogo Il luogo sarà quello stabilito dal giudice che, tenuto conto delle circostanze, dell’età del minore, delle sue esigenze, deciderà se tenere la audizione nella saletta al terzo piano già adeguatamente attrezzata ogni qualvolta le condizioni concrete ne richiedano o ne suggeriscano l’utilizzo, oppure se procedere all’ascolto del minore nel proprio ufficio, o in altro luogo attrezzato, garantendo comunque la riservatezza e la adeguatezza delle condizioni affinché il minore si senta il più possibile a suo agio. Nei casi in cui è necessario procedere all’ascolto del minore all’estero tramite videoconferenza è bene rivolgersi all’Autorità Centrale che per il Regolamento Bruxelles bis (n. 2201/ 2003) è il Dipartimento Giustizia Minorile. 5. Presenza delle parti Non essendo emersa una soluzione condivisa, viene rimessa al Giudice la decisione circa la presenza delle parti e/o dei difensori a seconda delle circostanze. 6. Verbalizzazione In ogni caso, dell’audizione sarà redatto verbale in forma scritta e sintetica, il più possibile corrispondente alle espressioni verbali e non verbali del minore. In caso di disponibilità di mezzi di audio-video registrazione,questi potranno essere utilizzati dal Giudice durante l’ascolto del minore e consegnati successivamente ai legali per il relativo ascolto ed esame. 7. Audizione di due o più fratelli Qualora venga disposta l’audizione di più fratelli, essi saranno ascoltati separatamente, salvo l’opportunità di ascoltarli insieme. 8. Esclusione dell’audizione del minore Qualora il minore sia già stato ascoltato anche in altre sedi giudiziarie, l’audizione potrà essere esclusa se dall’acquisizione degli atti si rilevi che la ripetizione sarebbe superflua o dannosa perché l’attuale opinione del minore rispetto all’oggetto del procedimento è già emersa. Note 1 La Convenzione di Bruxelles 1987, cui si rinvia, prevede alcune esenzioni in materia di legalizzazione dei documenti vigenti tra i paesi firmatari. IN LIBRERIA In libreria a cura dell’avv. MARIA LIMONGI LIVIA POMODORO (a cura di) L’udienza presidenziale Analisi delle singole fasi e strategie processuali Maggioli Editore, 2012 L’opera affronta ed approfondisce gli aspetti processuali propri della fase presidenziale dei procedimenti di separazione e divorzio. Nel primo capitolo sono posti in rilievo i caratteri comuni e l’identità strutturale dei due procedimenti, la natura della fase presidenziale se di giurisdizione volontaria o di cognizione, i criteri per l’individuazione della giurisdizione e competenza, i tempi e modalità di proposizione della domanda accessoria di addebito, il cumulo delle domande connesse alla separazione e divorzio. Il secondo capitolo prosegue nella descrizione analitica dell’udienza presidenziale in tutti i suoi aspetti: l’assistenza tecnica del di- fensore, gli adempimenti e formalità preliminari attinenti la forma, contenuto, requisiti ed allegazioni della domanda introduttiva con riferimento alle preclusioni derivanti dal termine di costituzione del convenuto in relazione alla monofasicità o bifasicità del giudizio. Tematica quest’ultima ancora trattata nel terzo capitolo mediante il raffronto delle varie teorie ed orientamenti al riguardo insieme agli altri temi associati della legittimazione ad agire e processuale e della legittimazione ad intervenire nei giudizi di separazione e divorzio atteso il coinvolgimento di diversi soggetti (nonni, figli minorenni attraverso la rappresentanza di un curatore speciale e figli maggiorenni) ai procedimenti in commento. La funzione principale dell’udienza presidenziale incentrata sulla conciliazione dei coniugi ovvero sul ripristino e ricostruzione dell’affectio coniugalis è messa in luce nel quarto capitolo che discute circa l’interpretazione in termini di obbligatorietà, di utilità ed opportunità del suo esperimento e circa le modalità di svolgimento dell’audizione dei coniugi, il senso della partecipazione dei legali al tentativo di conciliazione come obbligatoria o meno, il valore, gli effetti della conciliazione. Gli ulteriori compiti presidenziali, ove la conciliazione non riesca, come fase propedeutica all’emanazione dei provvedimenti interinali è argomento affrontato nel quinto capitolo. Il Presidente potrà, prima di assumere anche in via provvisoria i provvedimenti inerenti all’affido e mantenimento della prole, sentiti i coniugi ed acquisito il loro consenso e ove ne ravvisi l’opportunità, avviare un procedimento di mediazione familiare; potrà o dovrà ascoltare il minore che abbia adeguata capacità di discernimento; potrà assumere mezzi di prova e disporre indagini tributarie anche in difetto di istanze di parte al solo fine però di tutelare il preminente interesse della prole. All’esito e quindi in caso di mancato accordo tra i coniugi, sarà emessa l’ordinanza presidenziale contenente i provvedimenti personali e patrimoniali dei coniugi e di affidamento e mantenimento dei figli. Il contenuto di tali provvedimenti è analizzato nel sesto capitolo. L’autorizzazione a vivere separati costituisce la prima determinazione contenuta nel provvedimento presidenziale quale risposta principale a quello che è il tema d’accertamento primario del giudizio di separazione. Altra statuizione, salvo il controllo e recepimento da parte del Presidente degli accordi presi dai genitori, è quella relativa all’affidamento, alla “collocazione” dei figli come determinazione dei tempi e dei modi di presenza del minore presso ciascun genitore ed al loro mantenimento anche in relazione ai figli maggiorenni non economicamente autosufficienti. L’ordinanza potrà ancora contenere una statuizione di condanna al coniuge onerato agli obblighi di mantenimento disposti di prestare idonea garanzia personale (cauzione o fideiussione) o reale (pegno o ipoteca) se sussistente il pericolo che possa rendersi inadempiente ovvero contenere un ordine di pagamento diretto a favore del coniuge avente diretto disposto a carico del terzo che sia debitore del coniuge onerato o ancora disporre un sequestro conservativo sui beni del coniuge obbligato qualora già inadempiente. L’ultimo capitolo riguarda i rimedi impugnatori dei provvedimenti in esame con particolare attenzione al raffronto del regime della revocabilità e modificabilità dell’ordinanza ad opera del giudice istruttore con quello della sua reclamabilità dinanzi alla Corte di Appello. Il testo è corredato di quesiti risolti dalle novità legislative e dalla giurisprudenza più recente che ne esemplificano per il fruitore la lettura e comprensione. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 71 IN LIBRERIA SALVATORE DAMMACCO Aspetti fiscali della separazione e del divorzio Maggioli Editore, 2013 Un antico detto popolare avverte di… non mettere il dito tra moglie e marito; ma quando si verificano situazioni tali da rendere insostenibile la convivenza ed il rapporto con il proprio partner, è opportuno indirizzare gli assistiti verso un percorso valutativo che tenga conto non solo delle regole del contenzioso della separazione o del divorzio, ma anche delle problematiche fiscali connesse alle richieste, agli accordi, alle reciproche attribuzioni così da fornire loro una corretta e completa informativa rispetto ai riflessi ed agli effetti tributari di tali procedimenti. Salvatore Dammacco che è Dottore Commercialista e Revisore Contabile, consulente tecnico, nonché scrittore di numerose pubblicazioni specializzate, è autore del testo in questione che si propone come uno strumento chiaro, di facile comprensione e che permette un’immediata risposta ai quesiti propri delle dinamiche fiscali connesse alle vicende della fine del rapporto di coniugio. Il volume si articola e sviluppa seguendo un ragionamento e passaggi serrati tra domande pratiche e risposte concrete corredate di riferimenti nor72 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 mativi, giurisprudenziali e di stralci e/o passaggi delle determinazioni dell’Agenzia delle Entrate (nonché delle precedenti Autorità e/o Uffici) che permettono di valutare in modo efficace gli effetti fiscali degli accordi patrimoniali raggiunti nelle varie sedi. La struttura del testo è chiara e lineare mentre è sviscerato ed analizzato l’impatto delle imposte per tipologia e - in seno ad essa gli effetti fiscali rispetto al soggetto che percepisce il quantum stabilito nell’accordo economico ed il soggetto erogante. Particolarmente interessante è l’insieme di informazioni relative alla possibilità o meno della deducibilità e detraibilità degli assegni di mantenimento erogati in favore del coniuge e/o dei figli nonché circa l’obbligatorietà o meno dell’assoggettamento a tassazione di dette somme, tanto, per il soggetto percipiente le stesse, quanto, ai fini delle possibilità impositive indirette. Così come è interessante l’insieme di informazioni relative all’applicazione dell’imposta di registro relativamente agli atti del giudizio per la separazione personale dei coniugi - a prescindere che si tratti di separazione personale giudiziale o consensuale - ovvero di cessazione degli effetti civili del matrimonio. In ogni caso il lettore potrà avere maggiore chiarezza mediante l’utilizzo dei riquadri nei quali sono riportati i principali orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità oltre che della Corte Costituzionale. Inoltre apparirà sicuramente utile al Professionista la parte del testo relativa alla separazione e all’attività d’impresa laddove viene messa chiaramente in luce la necessità di valutare anche quale impatto possa produrre la separazione o il divorzio rispetto l’azienda e/o l’impresa familiare tanto in termini di determinazione degli accordi economici quanto in tema di deducibilità di oneri e costi nonché in relazione alla determinazione delle quote degli utili spettanti all’ex coniuge, nonché le modalità di salvaguardia e/o di esercizio del diritto di prelazione in caso di cessione dell’azienda o quote dell’azienda familiare in favore del coniuge separato. Lo studio prosegue nell’analizzare e valutare la casistica afferente ad altre problematiche che hanno formato oggetto di riflessione e di determina da parte dell’Agenzia delle Entrate relativamente alla notificazione di cartelle esattoriali nei confronti del coniuge separato nonché in relazione agli aspetti fiscali e tributari - e relative problematiche - del fondo patrimoniale e del trust in Italia. Un libro chiaro e semplice nella sua impostazione e di grande utilità atteso che permette di ottenere immediate risposte per il successivo approfondimento della problematica da parte del Professionista. ARMANDO MACRILLÒ, FULVIO FILOCAMO, GUIDO MUSSINI, DEBORA TRIPICCIONE Il processo penale minorile Maggioli Editore, 2013 Il volume pubblicato nella sua seconda edizione affronta il processo penale a carico di imputati minorenni che tiene conto compiutamente delle peculiarità proprie del minore, della sua personalità, delle sue condizioni psico- IN LIBRERIA logiche, della sua maturità e delle esigenze della sua educazione. Una attenta illustrazione della disciplina, soprattutto sovranazionale, che introduce un sistema differenziato, responsabilizzante ed educativo del rito processuale penale minorile, fa da preludio alla descrizione delle singole fasi del processo penale minorile studiato da ogni punto di vista: i soggetti, le misure precautelari, le misure cautelari, l’incidente probatorio e l’esame del minore, le definizioni alternative del procedimento e l’udienza preliminare, il dibattimento, le impugnazioni, l’esecuzione e le misure di sicurezza. Attorno alla figura del minore è stata costruito tutto il processo minorile connotato dai caratteri dell’esclusività proprio perché riservato ai minori e della specializzazione perché la giurisdizione minorile è esercitata da giudici (ed altri soggetti come il P.M., la Polizia Giudiziaria, i Servizi minorili, il Difensore) forniti di specifiche competenze sulle problematiche dell’età evolutiva che tende alla rieducazione del minore imputato o condannato. Molte ed opportune sono le cautele sancite per proteggere i minorenni. Una disciplina particolareggiata riguarda ad esempio tanto i presupposti per l’applicazione delle misure precautelari e cautelari quale potere il più delle volte (come ad esempio l’arresto in flagranza) facoltativo e riferito solo ai più gravi delitti, quanto le modalità di esecuzione delle stesse misure al fine di ridurre per il minorenne i possibili disagi e sofferenze materiali e psicologiche e di proteggerlo da processi di auto ed etero- svalutazione così evitandogli, nei limiti del possibile, il pericolo di “etichettamento” quale delinquente e di ogni altro pregiudizio che potrebbe influire negativamente sul suo sviluppo psicofisico. O ancora, nei confronti dei minori, le forme di esercizio dell’azione penale sono più limitate rispetto a quelle previste per gli adulti, l’udienza dibattimentale rappresenta un evento residuale e solo se non inutile ed ancor di più l’esecuzione della pena non potrà non essere modulata in modo che la funzione rieducativa propria possa risultare quanto più efficace possibile e comunque tesa a garantire al minore un trattamento tale da favorire il senso di dignità e la crescita del proprio valore personale e che tenga conto della necessità di dover aiutare il suo inserimento nella società per consentirgli la possibilità di svolgere un ruolo positivo essendo peculiare interesse-dovere dello Stato quello del recupero del minore, secondo i principi costituzionali e convenzioni internazionali esistenti. A fronte delle ultime novità legislative come la promulgazione della legge 1 ottobre 2012 n. 172 che ha recepito nel nostro ordinamento la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, il testo in commento dedica prontamente un apposito capitolo all’incidente probatorio, all’ascolto ed all’esame del minore operando al riguardo una giusta distinzione con l’istituto della testimonianza, questo invece diretto all’accertamento dei fatti. Il taglio operativo del volume è ottimizzato dalla presenza di apposite questioni giuridiche mediante la forma di quesiti che trovano risposta attraverso le recenti pronunce giurisprudenziali a maggiore comprensione e a completamento degli argomenti trattati da ciascun capitolo nonchè dalla presenza di formulario relativamente agli atti propri del processo penale minorile. GIOVANNI IORIO Infedeltà coniugale e risarcimento del danno Giuffrè Editore, 2013 Nella collana Officina del Diritto dedicata alla famiglia, il contri- buto del professor Giovanni Iorio associato alla cattedra di Istituzioni di Diritto Privato all’università di Milano Bicocca, è utile ed efficace riferimento di lavoro per l’approfondimento della tematica della responsabilità civile in correlazione alla famiglia ed in particolare alla possibilità per il coniuge e per il figlio lesi di domandare il risarcimento dei danni subiti a seguito della violazione degli obblighi coniugali e genitoriali qualora tale violazione abbia provocato un danno ingiusto. A fronte di chi nega il rimedio della responsabilità risarcitoria all’interno della famiglia per l’esistenza, tra l’altro, di sanzioni specifiche derivanti dall’addebito della separazione, l’Autore dimostra come nel nostro sistema di diritto positivo non vi sia alcuna incompatibilità tra le relazioni familiari e la responsabilità risarcitoria. Valida è la ricognizione di interventi legislativi, non solo recenti, che contemplano singole ipotesi di risarcimento dei danni endofamiliari, così come il richiamo alle pronunce giurisprudenziali di legittimità e di merito che decretano la consapevolezza della strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente protetti, previa la sussistenza dell’accertamento del nesso causale. Il confronto riguarda maggiormente aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 73 IN LIBRERIA l’obbligo di fedeltà che investe l’ampia nozione di tradimento nella quale far rientrare il sentimento di dedizione fisica e spirituale che un coniuge attende dall’altro: il tentativo di tradimento, il plausibile sospetto di tradimento, il tradimento omosessuale, l’infedeltà affettiva, l’infedeltà apparente e l’infedeltà dopo la separazione ogni qual volta pur non sostanziandosi in adulterio finisca per offendere la dignità, l’onore dell’altro coniuge e la solidarietà familiare. Sono affrontate innumerevoli questioni: è possibile da un punto di vista squisitamente processuale domandare il risarcimento dei danni nell’ambito del giudizio promosso per ottenere la separazione con addebito? Si può ottenere il risarcimento per violazione dell’obbligo di fedeltà qualora i coniugi siano giunti ad una separazione consensuale ed ottenuto l’omologazione da parte del tribunale e soprattutto, i coniugi potranno prevedere in occasione della separazione consensuale accordi transattivi (art. 1965 c.c.) aventi ad oggetto il giudizio di risarcimento? E l’amante è immune o potrà essere coinvolto nel giudizio di responsabilità civile? Altresì, l’Autore non tralascia di trattare il tema dell’infedeltà e della rilevanza della ottenuta sentenza di risarcimento per violazione di detto obbligo ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio mentre conclude il lavoro con una analisi dei profili risarcitori nella famiglia di fatto. Molteplici e complesse le questioni affrontate come le soluzioni e gli orientamenti relativi, che trovano però facile comprensione in questa pubblicazione arricchita anche di opportuni ed efficaci schemi esemplificativi e riassuntivi. 74 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 MARIA DOSSETTI, MIMMA MORETTI, CAROLA MORETTI introduzione di FRANCESCO DELFINI La riforma della filiazione aspetti personali, successori e processuali L. 10 dicembre 2012, n. 219 Zanichelli Editore, 2013 Un testo scritto a più mani che valuta ed analizza gli aspetti e gli effetti immediati della Legge che ha riformato la filiazione in Italia così definitivamente essendo stata abbandonata la vecchia impiantistica codicistica che vincolava la legittimità del figlio alla sua nascita nel vincolo coniugale con tutte le riserve riconosciute e derivanti da tale status anche se, sin dal primo paragrafo del testo, le Autrici precisano come la riforma in materia di filiazione non innovi direttamente il diritto successorio che è invece oggetto di delegazione legislativa. Il ragionamento prende le mosse dalla riforma dell’art. 74 del Codice civile laddove è adesso specificato che la parentela è il vincolo tra le persone discendenti dallo stesso stipite anche nel caso in cui la filiazione sia venuta al di fuori del matrimonio o nel caso in cui sia adottiva per proseguire in una disamina degli istituti abrogati dalla novella legislativa tra i quali quello della legittimazione dei figli naturali - con particolare attenzione agli effetti delle modifiche con riferimento alla materia successoria ovvero agli artt. 536, comma 2, 567, comma 1 e 578 del Codice civile - nonché alcune norme dell’ordinamento dello stato civile tra cui l’art. 33, comma 1, sul cognome del figlio legittimato e l’art. 49, comma 1, lett. n), e comma 2 e comma 3. A ciò si aggiunga l’elencazione di pronunce giurisprudenziali attra- verso le quali vengono esplicati concretamente gli effetti delle novelle legislative mediante un percorso di casi pre e post riforma basando il tutto sul principio della piena parificazione tra i figli avente anche lo scopo di promuovere i loro diritti partendo dal diritto “a riconoscere” e ad “essere riconosciuto” laddove è espressamente previsto che l’accertamento della filiazione in sede giudiziale debba intervenire con ogni mezzo idoneo. Il testo ripercorre e segue l’impianto della riforma con particolare attenzione relativamente alle modifiche apportate all’art. 38 delle disposizioni di attuazione al Codice civile ove è stata ridisegnata la geografia della competenza del Tribunale per i minorenni e del Tribunale Ordinario con riferimento anche al regime transitorio previsto nel testo della Legge. Inoltre utili appaino i riferimenti giurisprudenziali allegati al testo così come lo sono i lavori preparatori ed i disegni di legge presentati ai due rami del Parlamento al fine di permettere all’operatore del diritto di comprendere gli effetti voluti dal Legislatore.