ISSN 2039-6503
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 2 - aprile-giugno 2013
Anno VI - n. 2 - aprile-giugno 2013 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
Avvocatidifamiglia
Il diritto collaborativo
L’appello nelle controversie di famiglia
La giurisprudenza sul 709 ter cpc
Il risarcimento per danno endofamiliare
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno VI, n. 2 - aprile-giugno 2013
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
Sommario
L’avvocato familiarista
La pratica collaborativa. Un metodo nuovo
per risolvere il conflitto familiare 2
(Matilde Giammarco)
Interventi a sostegno dei genitori
ed il ruolo dei difensori 5
(Michela Labriola)
Dibattito
L’alienazione genitoriale. “Un figlio diviso a metà”
salomonicamente parlando! 53
(Corte d’Appello di Brescia, Sezione per i Minorenni
Decreto del 17 maggio 2013)
Il punto di vista (Maria Teresa De Scianni) 60
Documenti
Studi e ricerche
L’appello “Giano bifronte”. Note sulla riforma
dell’appello comune e l’appello nelle controversie
di famiglia 8
(Claudio Cecchella)
Il risarcimento del danno endofamiliare 24
(Mauro Paladini)
La giurisprudenza commentata
Il punto di vista della giurisprudenza in tema
di art. 709 ter c.p.c. 37
(Sara Maffei)
Giurisprudenza
Le sentenze più importanti negli ultimi due anni 44
Un decalogo sull’ascolto del minore 46
(Cass. Civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687)
L’obbligo di mantenere i figli perdura fino
alla loro autosufficienza economica 49
(Cass. civ. Sez. I, 9 maggio 2013, n. 11020)
Protocollo del Tribunale di Reggio Emilia per le
cause in materia di famiglia. Giudizi di separazione,
divorzio, affidamento dei minori nati fuori
dal matrimonio e relative modifiche. 64
In libreria
L’udienza presidenziale Analisi delle singole fasi
e strategie processuali 71
(a cura di Livia Pomodoro)
Aspetti fiscali della separazione e del divorzio 72
(Salvatore Dammacco)
Il processo penale minorile 72
(Armando Macrillò, Fulvio Filocamo, Guido Mussini,
Debora Tripiccione)
Infedeltà coniugale e risarcimento del danno 73
(Giovanni Iorio)
La riforma della filiazione Aspetti personali,
successori e processuali L. 10 dicembre 2012,
n. 219 74
(Maria Dossetti, Mimma Moretti, Carola Moretti
Introduzione di Francesco Delfini)
L’inadempimento all’obbligo di mantenimento.
Una sentenza tutta sull’art. 156 c.c. 50
(Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2013, n. 9671)
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 1
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
LA PRATICA
COLLABORATIVA:
UN METODO NUOVO
PER RISOLVERE IL
CONFLITTO FAMILIARE
AVV. MATILDE GIAMMARCO
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI CHIETI DELL’OSSERVATORIO
a pratica collaborativa o diritto collaborativo
è un metodo nuovo, una efficace alternativa
al procedimento giudiziario, per chi si trova
a dover affrontare un momento conflittuale
della propria vita familiare e di coppia.
Il paradigma del processo collaborativo è stato
elaborato nel 1989 da Stuart Webb, un avvocato familiarista americano, il quale aveva compreso che
la risoluzione giudiziaria del conflitto nella separazione e nel divorzio procura molti e gravi danni alla
famiglia a volte ben più gravi dello stesso processo
separativo1.
È lo stesso avvocato americano, infatti, a dare in
una lettera indirizzata al Giudice della Corte Suprema del Minnesota A.M. “Sandy” Keith alcune indicazioni fondamentali sul perché della pratica collaborativa: “Un punto debole della mediazione credo
sia il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato
fuori da tale processo ai suoi esordi (questo a volte
può essere un vantaggio!). In realtà si lascia fuori
non solo l’atteggiamento fazioso e conflittuale ma
anche la capacità analitica e l’abilità di trovare soluzioni ragionevoli ai problemi creando alternative
costruttive ed un ambiente favorevole al reperimento di un nuovo assetto”.2
L’avvocato americano definisce, quindi, la pratica
collaborativa come un metodo nel quale attori principali del percorso insieme alle parti sono gli avvocati, e questo sicuramente differenzia l’esperienza
dal procedimento di mediazione che invece è, per
definizione, un procedimento delle parti ed esclusivamente con le parti, alla presenza del mediatore,
terzo neutrale.3
Entrambi i soggetti, parti ed avvocati, si impegnano insieme a ricercare ogni soluzione efficace e
L
2 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
complessiva a tutte le problematiche, personali e
patrimoniali connesse al loro conflitto familiare, in
un clima positivo che consenta di far nascere alternative creative nell’ambito delle trattative per definire la situazione familiare.4
Il ruolo dell’avvocato, quindi, del “buon avvocato”
o dell’”avvocato collaborativo” come lo definisce
Webb, deve essere quello di fornire assistenza e consulenza nella ricerca della migliore soluzione possibile avvalendosi, però, esclusivamente delle tecniche di negoziazione per un approccio consensuale
alla “lite”, modalità, queste, che non vengono generalmente utilizzate nei processi giudiziari.
Si tratta, quindi, di una pratica, di un modo di assistere il proprio cliente molto distante dalla difesa
in senso “tecnico”, che trae ispirazione dalle altre
forme di contrattazione extragiudiziale quali la mediazione e la negoziazione e, per tale ragione, richiede una specifica formazione che segua degli
standard formativi. In particolare si fa riferimento a
quelli predisposti ed indicati dall’International Academy Of Collabarative Professionals (IACP) per i
quali “Il professionista collaborativo dovrà completare una formazione minima di 12 ore in diritto collaborativo/pratica collaborativa o in pratica collaborativa interdisciplinare conforme agli standard minimi IACP per professionisti collaborativi prima di
iniziare un caso collaborativo o impegnarsi in una
pratica collaborativa interdisciplinare”.5
Come viene sintetizzato nei principi dello IACP,
anche se la Pratica Collaborativa può atteggiarsi secondo diversi modelli, “il percorso collaborativo si
distingue dal tradizionale procedimento contenzioso per alcuni elementi imprescindibili ed inviolabili:
- Negoziare un accordo condiviso senza demandare al giudice la risoluzione della controversia
insorta tra le parti, o anche solo di un aspetto do
essa;
- Obbligo dei professionisti di non assistere il
cliente nell’eventuale giudizio contenzioso;
- Impegno delle parti e dei professionisti ad una
comunicazione aperta ed alla condivisione delle
informazioni;
- Creare soluzioni condivise che tengano conto
della più alta priorità di entrambi i clienti”.6
È un metodo di lavoro rigoroso centrato sul cliente
e controllato dal cliente che segue un percorso tecnico preciso.
Innanzitutto l’incontro dell’avvocato con il cliente
per la presentazione del metodo collaborativo “L’avvocato collaborativo informerà il cliente sull’intera
gamma di opzioni procedurali disponibili per risolvere le controversie legali proprie del suo caso. Fornirà una chiara spiegazione del procedimento collaborativo comprendendo gli obblighi del professionista e del cliente nel procedimento così che il cliente
possa assumere una decisione informata nella scelta
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
del procedimento. Assisterà il cliente nell’individuare aspettative realistiche nel procedimento collaborativo e rispetterà l’autodeterminazione del
cliente, nella consapevolezza che alla fine è responsabilità del cliente assumere le decisioni che portino
alla soluzione delle proprie controversie”.7
Per quanto concerne la pratica collaborativa l’avvocato renderà edotto il proprio cliente che riceverà
un incarico relativamente ed esclusivamente volto
al raggiungimento dell’accordo e non potrà prestare
la propria attività professionale nell’eventuale giudizio contenzioso tra le parti qualora il percorso collaborativo dovesse fallire.8
Questo, che apparentemente potrebbe sembrare
un eccessivo dispendio di energia sia in termini personali che in termini economici, soprattutto nell’ipotesi di fallimento, rappresenta, in realtà, il punto
di forza per qualsiasi modello di prassi collaborativa
e richiamato esplicitamente negli standard etici
IACP per i professionisti collaborativi.
Sia le parti che i professionisti sanno di avere,
come una squadra, l’unico scopo del raggiungimento dell’accordo soddisfacente per entrambe e
lavorano con competenza e convinzione per raggiungere tale obiettivo senza la minaccia del ricorso
alle vie giudiziarie ed il fallimento di tale percorso
rappresenta un fallimento di tutti. Tutti i membri del
team, avvocati e specialisti, sottoscrivono una sorta
di contratto “partecipation agreement” che costituisce il quadro entro il quale devono operare.
La parte sarà sempre presente agli incontri interagendo con l’altra parte e gli avvocati perché solo
attraverso questo continuo confronto sarà possibile
individuare le soluzioni che soddisfano gli interessi
di tutte le parti.
Il secondo passaggio fondamentale è l’incontro
con il cliente volto alla preparazione del procedimento attraverso, innanzitutto l’individuazione delle
aspettative realistiche, degli interessi delle parti in
gioco.
Il momento centrale del percorso è rappresentato
dall’incontro tra tutte le parti ed i loro avvocati che
attraverso la pratica di una attenta negoziazione dovranno andare verso un accordo soddisfacente per
entrambe le parti facendo sì che gli avvocati ed i
professionisti coinvolti non “contribuiscano” al conflitto del cliente.9
In tale modello di composizione, infatti, al pari di
quanto accade nel percorso di mediazione, rilevano
non solo i “diritti” delle parti suscettibili di tutela dal
punto di vista dell’ordinamento, ma anche e soprattutto gli “interessi” di ognuno di loro, che spesso
trovano la loro soddisfazione in modo diverso da
quanto previsto per i diritti e, che comunque, devono essere presi in considerazione non considerando l’altra parte come una “controparte”, ma assumendo il paradigma culturale “si vince solo se
vincono tutti” perché l’interesse dell’una parte è
strettamente interdipendente con l’interesse dell’altra parte.10
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 3
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
Altrettanto fondamentale, in tal senso, diviene la
individuazione delle ragioni sottese alle singole posizioni, comprensione anche questa necessaria per
superare la logica della trattativa basata sulla contrapposizione, caratterizzante qualsivoglia transazione “tradizionale” anche stragiudiziale, per entrare
invece in quella “collaborativa” centrata sulla soddisfazione degli interessi di entrambe le parti.
Tutto questo comporta che le parti e gli avvocati
che le assistono devono impegnarsi a fornire in
completa trasparenza tutte le informazioni poiché
“nessun partecipante ad un procedimento collaborativo sia professionista o cliente, può consapevolmente tacere o mentire su informazioni rilevanti
per il procedimento collaborativo o in altro modo
agire od omettere di agire così da consapevolmente
minare o trarre vantaggio dal procedimento collaborativo, pena la rinuncia del professionista collaborativo al mandato o la rimessione del mandato al
professionista e la chiusura del procedimento collaborativo”.11
A fronte di tale marcata e completa esposizione
delle parti, parimenti che nel procedimento di mediazione, tutte le informazioni ed i documenti forniti nel procedimento ed accessibili all’altra parte
sono coperti dalla riservatezza alla quale tutti si impegnano ed l’avvocato collaborativo “potrà rivelare
informazioni riservate solo con il permesso del
cliente in accordo con quanto pattuito nell’accordo
di partecipazione”.
E non solo. Al percorso di risoluzione del conflitto,
secondo la metodica collaborativa possono, essere
chiamati sempre su accordo delle parti professionisti esperti in singoli ambiti quali esperti di contabilità, commercialisti, notai, ingegneri, psicologi. Ovviamente tutti i professionisti che trattano un caso
secondo la “pratica collaborativa” devono ispirare il
loro operato ai medesimi principi e devono adottare
le medesime metodologie, questo per evitare, come
accade nei percorsi “tradizionali” di transazione, la
strumentalizzazione e l’eccessiva esposizione di
una parte rispetto ad un’altra.
Tutto questo evidenzia come la pratica collaborativa, che ha avuto un indubbio sviluppo in paesi nei
quali gli strumenti di risoluzione alternativi del conflitto hanno trovato da molto tempo una buona pratica, necessita, per operare efficacemente, innanzitutto dell’acquisizione di un nuovo paradigma culturale per quanto riguarda l’approccio alla “lite”, intesa come una “opportunità di confronto”, nonchè la
costruzione di una rete di professionisti “collaborativi”12 qualificati che assista le parti nel percorso di
costruzione della soluzione migliore al loro problema in un momento in cui, qual è quello della “disputa”, tutte le circostanze inducono ad aver paura
di subire una soluzione, per di più la “peggiore possibile”.13
Note
1
Stuart G. Webb - avvocato di Minneapolis - autore tra l’altro di The collaborative way to divorce - Plume Books, 2007 cfr.
con Pauline Tesler e Peggy Thomson entrambe avvocati di San Francisco - autrice tra l’altro di Collaborative Divorce.
2
Lettera da Stuart G. Webb all’On.le A.M. Sandy” Keith Giudice Suprema Corte del Minnesota 14 febbraio 1990.
3
Idem “un punto debole della mediazione credo sia il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato fuori da tale processo ai suoi esordi (questo a volte può essere un vantaggio! In realtà si lascia fuori non solo l’atteggiamento fazioso e conflittuale ma anche la capacità analitica e l’abilità di trovare soluzioni.
4
Ibidem.
5
IACP - International Accademy of Collaborative Professionals con sede a Phoenix Arizona composta da avvocati, commercialistici, psicologi che applicano la pratica collaborativa.
Formazione attraverso l’acquisizione di tecniche di negoziazione, ascolto attivo, conduzione del colloquio attraverso domande strutturate. tecnica del riassunto e della sottolineatura, brainstorming.
6
I principi della Pratica Collaborativa - IACP 24 gennaio 2005.
7
Gli standard etici IACP per i professionisti collaborativi.
8
Ibidem.
9
Standard etici per professionisti collaborativi dello IACP si dice che “il professionista collaborativo eviterà di contribuire
al conflitto del cliente”.
10
cfr - R. Fisher e W. Ury - L’arte del negoziato - Corbaccio Editore.
11
Standard etici dello IACP per professionisti collaborativi.
12
In Italia aderiscono ai principi della pratica collaborativa l’AIDAC Associazione Italiana Avvocati di Diritto Collaborativo con sede a Milano e l’IICL - Istituto Italiano di diritto collaborativo con sede a Roma.
13
R. Fisher e W. Ury - L’arte del negoziato - Corbaccio Editore.
4 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
INTERVENTI A SOSTEGNO
DEI GENITORI ED IL
RUOLO DEL DIFENSORE
AVV. MICHELA LABRIOLA
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI BARI DELL’OSSERVATORIO
uando un genitore in crisi coniugale
bussa alla porta dello studio legale ha
già attraversato le “forche caudine” della
consulenza con i parenti e gli amici e,
raramente, quello stesso genitore/coniuge
in crisi, si è già preventivamente rivolto alle strutture
di sostegno alla famiglia private o pubbliche esistenti sul territorio, o ad un ufficio di mediazione.
La prima difficoltà dell’avvocato familiarista, nell’approccio col cliente, sta nel creare quel trait
d’union tra le istanze emotive, che sono quasi sempre prevalenti, e quelle richieste di risoluzione del
problema tecnico giuridico, così fornendo le risposte
di tutela possibili nell’ambito della separazione o del
divorzio. Non vi sono problemi assolutamente irrisolvibili e la tutela del figli è il primo passo da cui
partire.
Talvolta il rapporto già esistente tra genitori e figli si presenta inadeguato a trovare quelle soluzioni
di benessere, successive alla rottura del rapporto coniugale, “È stato infatti dimostrato che è nella relazione
con i genitori che il bambino costruisce la propria visione
del mondo e di sé nel mondo, attribuendo significati alla
realtà e costruendo una propria identità personale. La tutela del minore non può quindi prescindere dalla tutela
del legame che questi ha con la sua famiglia d’origine.”
Relazione del Comune di Parma a sostegno della genitorialità.
È importante comprendere preliminarmente le
caratteristiche della famiglia. Le regole che hanno
equilibrato il rapporto coniugale ed i ruoli familiari
a cui i genitori si sono attenuti, nella crisi della famiglia sono sovvertite producendo una interruzione
della comunicazione e della condivisione delle
scelte educative, costringendo spesso i figli ad una
schizofrenica altalena tra un genitore e l’altro. Se
nella difesa e nelle decisioni processuali da intraprendere ci si muove spinti dal dolore che viene comunicato dal cliente, significa che è in atto un’identificazione con loro e con i loro sentimenti. Il rischio
di tale identificazione è quello che la tutela del minore sarà subordinata al “benessere apparente” di
uno dei due genitori.
La principale fonte normativa di tutela della famiglia e della prole è la Costituzione Italiana, infatti,
l’art. 29 prevede, al secondo comma, che “nei casi di
incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano
assolti i loro compiti”. Norma che contiene in sé una
ottimistica previsione prospettica che individua nello
Q
Stato e nella legge la tutela della inadeguatezza genitoriale. Quali strumenti vengono forniti dunque al
genitore “incapace” nel nostro ordinamento?
Un cattivo funzionamento familiare può dipendere da svantaggi materiali, mancanza di sintonia
nella coppia (insoddisfazione, conflittualità, trascuratezza nei rapporti reciproci), isolamento socio culturale, patologie fisiche o psichiche, violenze e dipendenze, incuria od ipercura dei minori.
Il compito, quali difensori nell’ambito del diritto
di famiglia, è quello di guardare tra le maglie di un
racconto familiare, per interpretare il disagio dei figli, al fine di indicare al cliente eventuali strumenti
di supporto alla genitorialià.
In alcune famiglie “multiproblematiche”, è presente il rischio di una interruzione o un condizionamento del processo di sviluppo del minore che,
se severo, richiede interventi per la sua maggior protezione.
L’adattamento dei figli alla situazione di crisi familiare è tanto più agevole qualora il dialogo tra i
genitori non sia interrotto da un livello di altissima
conflittualità. “La rottura coniugale, pertanto, può essere benefica o nociva per i minori, a seconda che riduce o aumenta la quantità di stress cui sono esposti.
In particolare, se la separazione viene percepita come
inaspettata, sgradita e incontrollabile, aumenta le situazioni stressanti (come il calo del tenore di vita, la
perdita di contatto con un genitore e lo spostamento
dell’abitazione) e può portare ad una serie di conseguenze come bassi risultati scolastici, problemi emotivi, comportamentali, perdita di affetto per i genitori,
difficoltà a formare, a lungo termine, rapporti intimi.”
(Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laura Migliorini Nadia Rania Editori Laterza).
La divisione della famiglia è un elemento di fragilità della stessa, segna un nuovo corso nella vita degli individui e sull’analisi di tale fragilità vanno individuati gli strumenti di tutela.
La separazione è un evento dinamico ed in evoluzione ed implica il passaggio attraverso più fasi,
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 5
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
quella iniziale della scelta/decisone e, in molti casi
dell’abbandono, quella del giudizio e quella della elaborazione più o meno consapevole del contenuto del
provvedimento del giudice. In quest’ultima fase il
compito dell’avvocato è quello di aiutare il cliente ad
accettare quelle dinamiche giudiziarie difficili da interpretare, ad accettare che la decisione del giudice
non è vincente o perdente, perché ciò significherebbe
avere la percezione di aver condotto una “battaglia”.
Nel 2006 la normativa sul c.d regime di affidamento condiviso - previsto quale regime primario
della modalità di affidamento dei figli ai sensi degli
artt. 155 e ss. cod.civ - ha introdotto il nuovo concetto
di “bigenitorilità”, a sostegno del rapporto paritario
tra entrambi i genitori ed i figli. Nella prassi di tutti i
tribunali italiani l’applicazione del principio della bigenitorialità, probabilmente, ha delineato un positivo
percorso verso una maggiore consapevolezza genitoriale, ma talvolta ha indotto, di contro, l’utilizzo strumentale del potere di “veto” su di una scelta relativa
al minore per bloccare il corretto sviluppo educativo
dello stesso. Nello stesso anno l’introduzione dell’art.
709 ter c.p.c. ha previsto un controllo giurisdizionale
sul regolare funzionamento della “bigenitorialità”.
L’art. 709 ter c.p.c. è previsto a tutela dei figli minori, anche se in esso è contenuta una espressa previsione risarcitoria nei confronti dell’altro genitore,
iure proprio.
6 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
La necessità di introdurre una norma che individui con precisione l’intervento del giudice a tutela
del pregiudizio dei figli (fornendo quasi una delega
al magistrato sulle modalità dell’affidamento e sottraendo alla libera determinazione dei genitori in
lite le decisioni) e che “congiuntamente” preveda
una misura sanzionatoria nei confronti del genitore
inadempiente, può essere spiegata, in linea di fatto,
dalla conflittualità che tende ad emergere a seguito
dell’emissione del provvedimento relativo ai figli in
sede di separazione e divorzio o nullità del matrimonio.
Quindi, nel corso di giudizio, al giudice di sovente
viene chiesto di intervenire sulle modalità di affidamento, e gli avvocati hanno il dovere di collaborare,
una decisione d’autorità non potrà fornire quelle risposte di tutela della serenità dovute ad un bambino.
La conflittualità esercita sul figlio uno stress che
solitamente i genitori non sono in grado di gestire,
perché troppo presi dalla loro lite, per condividere
con empatia il disagio del figlio. Il difensore della famiglia ha l’obbligo deontologico di favorire il mantenimento di un legame familiare, suggerendo le
modalità per la ripresa di una sana collaborazione e
comunicazione tra gli adulti. La reazione del figlio
di fronte alla separazione può implicare che gli equilibri familiari vengano fortemente condizionati a se-
L’AVVOCATO FAMILIARISTA
conda dei rapporti di forza e dalle alleanze dei figli
con un genitore, oppure da un “conflitto di lealtà”
nei confronti dei due genitori.
In corso di causa le dinamiche del disagio potranno essere affrontate e diagnosticate dal consulente tecnico d’ufficio, a cui, ormai sempre più, va
richiesto un intervento che vada nel senso della individuazione, altresì, del percorso familiare che ricostruisca, ove sia interrotta, la relazione genitoriale, anche accedendo a quei supporti sociali presenti sul territorio. “Ogni considerazione concernente il
miglior affidamento e luogo di abitazione del minore deve
essere fondata e sostenuta sulla base delle ricerche scientifiche più aggiornate, che indicano che il minore sviluppa
un legame di attaccamento verso entrambe le figure genitoriali e trae vantaggio, in termini evolutivi, dal mantenimento di una relazione continuativa ed equilibrata in
termini di tempo e suddivisione degli impegni educativi
con entrambi i genitori” (premessa alle Linee giuda per la
consulenza tecnica in materia di affidamento dei figli a
seguito di separazione dei genitori Prtocollo di intesa col
tribunale di Milano). Recentemente sono stati sottoscritti in diversi tribunali protocolli di intesa che recepiscono le Convenzioni ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, attraverso guide metodologiche relative alla consulenza tecnica in materia di affidamento dei minori.
Oltre alla consulenza tecnica d’ufficio “l’offerta di
risorse per la coppia o i componenti della famiglia separata è varia e comprende interventi di sostegno, tra i quali
la mediazione familiare, il counseling e/o la psicoterapia
dei singoli e delle coppie, i gruppi di auto-mutuo aiuto, ed
interventi di valutazione e controllo sociale finalizzati a
valutare i rischi e salvaguardare i legami, come la consulenza tecnica d’ufficio ed il servizio nello spazio neutro.
Recentemente si stanno diffondendo i gruppi di supporto
per i genitori ed i gruppi di parola destinati ai figli dei separati, che offrono uno spazio-tempo alternativo alla sede
giudiziaria in cui diventa possibile fermarsi, elaborare e
condividere l’esperienza della separazione all’interno dei
gruppi” (Psicologia e Giustizia anno 13 numero 2).
L’applicazione della bigenitorialità deve passare
attraverso una prospettiva culturale nuova, che
coinvolga anche altre figure professionali.
La nascita in alcune città d’Italia dei c.d. Gruppi di
Parola ha contribuito a riempire quei vuoti di supporto alla famiglia in crisi. I Gruppi di Parola “si possono definire un “luogo” e un “tempo” offerto ai figli
di genitori separati, affinché questi abbiano la possibilità di accedere ad una loro narrazione dei fatti
dolorosi legati al divorzio. Si tratta di un’esperienza
in cui il minore può costruire liberamente una rappresentazione verbale dell’esperienza del conflitto
vissuto quotidianamente, può dar voce ai suoi desideri e reperire con l’aiuto del gruppo di pari e con la
guida protettiva del conduttore, strategie possibili
per gestire le relazioni all’interno del suo sistema
familiare in cambiamento”.
Nei casi particolarmente problematici il giudice
può prevedere un invio del nucleo familiare al Servizio Sociale (Comune) o al Consultorio Familiare
(ASL) od ai c.d. Spazi Neutri (leggi di riferimento
sono: Legge 149 del 28 marzo 2001. Legge 328 dell’8
novembre 2000. Legge 285 del 28 agosto 1997 e Convenzione dei diritti dell’Infanzia art. 9).
La presa in carico però presenta degli aspetti di
problematicità, nel momento in cui gli operatori sociali tenderanno ad intervenire in maniera normativa, in quanto un componente della famiglia si potrà sentire tradito e si spezzerà la fidelizzazione necessaria al percorso. Anche lì la difficile ricucitura
del rapporto sarà compito dell’avvocato, senza però
derogare ai principi di tutela a cui è improntato il
suo mandato.
Un brevissimo cenno alla mediazione familiare va
fatto in quanto sempre più frequentemente sia gli
avvocati di famiglia sia i tribunali (art. 155 sexies II
comma cod.civ.) indicano il percorso mediativo
quale utile strumento di composizione del conflitto.
Sarebbe auspicabile una maggiore diffusione della
cultura della mediazione familiare. Al difensore familiarista corre l’obbligo di aggiornarsi professionalmente e quindi di conoscere, al fine di poterne
prospettare i vantaggi al cliente, le dinamiche che
intervengono nella “stanza di mediazione”.
Nelle more della attività di mediazione vanno deposte le armi ed interrotta ogni belligeranza, al fine
di consentire al mediatore lo svolgimento di una attività di composizione non inquinata oltremodo
dalla rabbia giudiziaria.
In conclusione risulta sempre più imprescindibile,
per le motivazioni su riportate, per l’avvocato familiarista coniugare, nello svolgimento della propria
attività, quelle istanze di tutela giurisdizionale con
contestuali sistemi di intervento nei confronti delle
famiglie in crisi nel prioritario benessere del bambino, con ciò attuando una forma sinergica di rete
delle varie competenze professionali.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 7
STUDI E RICERCHE
L’APPELLO “GIANO
BIFRONTE”: NOTE SULLA
RIFORMA DELL’APPELLO
COMUNE E L’APPELLO
NELLE CONTROVERSIE
DI FAMIGLIA
CLAUDIO CECCHELLA
ORDINARIO DIRITTO PROCESSUALE CIVILE UNIVERSITÀ DI PISA
RESPONSABILE SEZIONE PISA OSSERVATORIO
Sommario: 1. La storicità dell’appello: novum
iudicium. 2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio priori istantiae. 3. L’esasperazione
della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge. 4. L’epilogo: il merito
si converte in rito. 5. Il profilarsi di un appello
speciale. Il processo su situazioni indisponibili. 6. Segue. Il motivo di appello nel processo
sommario ex art. 702 - bis, c.p.c. 7. Le novità
difensive nell’appello del processo sommario
ex art. 702 - bis, c.p.c. 8. La espansione delle regole dell’appello speciale: i processi conclusi
con ordinanza. 9. Il rito camerale ibrido come
processo a cognizione piena di rito speciale e
la disciplina del reclamo-appello nelle controversie fallimentari. 10. Segue. Nelle controversie di famiglia.
1. La storicità dell’appello: novum iudicium.
L’appello non è stato concepito nella sua storicità
come espressione di un’impugnazione in senso
stretto, avente ad oggetto l’atto da impugnare, i suoi
errori, i suoi vizi.
È stato da sempre strumento di rinnovazione
piena del giudizio espresso dal giudice di prime
cure, in una piena identità di oggetto, nei limiti dell’effetto devolutivo voluto dall’impugnante1 il quale
era com’è libero di decidere se sottoporre alla rinnovazione del giudizio di secondo grado l’oggetto
corrispondente ad alcuni capi della sentenza piuttosto che altri nei quali è risultato soccombente, con
un giudizio finale che ha sempre effetto sostitutivo,
8 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
anche quando la sentenza di appello conferma la
sentenza di primo grado.
L’inquadramento dell’istituto, definito dalla dottrina processualistica come espressione di un mezzo
di gravame e non di una impugnazione mera2, discendeva da indici normativi inequivocabili, costituiti
dalla libertà dei motivi di critica, ma anche dagli oneri
imposti all’appellante ai fini della loro specificazione,
esclusivamente funzionali all’ambito di espressione
dell’effetto devolutivo (tenore originario dell’art. 342
c.p.c.). Ad essi si accompagnava la attribuzione alle
parti e al giudice degli stessi poteri esercitati nel corso
del giudizio di primo grado e rinnovabili senza preclusioni di sorta nel giudizio di secondo grado, con il
solo limite - connaturato al principio della domanda
- costituito dall’impossibilità di ampliare l’oggetto
dell’appello rispetto ai confini del grado che aveva
preceduto3. Si spiega - in un regime pienamente disponibile dell’oggetto del giudizio, non avendo l’esercizio della nuova domanda nel corso del procedimento di primo grado oltre gli atti introduttivi sub julo
rilievo officioso - così il tenore previgente dell’art. 345,
1° comma c.p.c. che sanciva l’inammissibilità rilevabile dal giudice della nuova domanda in appello (formula che, nel generale inasprimento, caratterizza anche l’attuale art. 345 c.p.c.).
Pertanto le parti avrebbero potuto formulare
nuove eccezioni e dare svolgimento a nuove iniziative probatorie, con la sola esclusione di nuove domande, e il giudice avrebbe potuto esprimere gli
stessi poteri istruttori che lo contraddistinguevano
nel giudizio di primo grado, con le note immancabili
accentuazioni in relazione al rito del lavoro.
La tecnica di stesura degli atti del giudizio di appello era perciò perfettamente identica alla tecnica
che ispira la parti nelle loro attività nel corso del giudizio di primo grado, senza soluzione di continuità
nei contenuti e nelle forme, quanto alla formulazione di domande, eccezioni e prove, sia dal lato dell’attore in appello, sia dal lato del convenuto, sia da
parte di un terzo interveniente (art. 344 c.p.c.). È certamente la particolare apertura del processo di secondo grado all’intervento innovativo di terzi ad evidenziare ancora una volta come il giudizio di appello avesse ad oggetto la fattispecie e il diritto, alla
pari del giudizio che lo aveva preceduto.
Su questo impianto originario, di un appello come
rinnovazione del giudizio di primo grado sullo
stesso oggetto, si è inserita un’inesorabile evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha condotto alla necessità di un nuovo inquadramento sistematico del mezzo di impugnazione in esame.
2. La novella dell’art. 345 c.p.c.: l’appello revisio
priori istantiae.
In occasione del primo intervento significativo di
riforma del processo civile, dopo la novella del 1950,
ovvero la legge n. 533 del 1973, introducente il no-
STUDI E RICERCHE
vellato rito delle controversie di lavoro, attraverso il
nuovo articolo 437 c.p.c. il legislatore altera per la
prima volta quel disegno.
In coerenza, non necessitata tuttavia4, con le caratteristiche del procedimento di primo grado, assoggettato com’è noto ex artt. 416, 418, 419 e 420, ad un rigido
regime di preclusioni in coincidenza con gli atti introduttivi, per domande, eccezioni e prove, con scarse
riaperture, regolate nell’art. 420 c.p.c., che letteralmente ricordano il solo esercizio della ius poenitendi,
soggetto all’autorizzazione del giudice, ai sensi dell’art. 420 c.p.c. (sul quale avrebbe presto dovuto esprimersi un particolare lavorio interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, per aprire il rito del lavoro alle garanzie5), il giudizio di appello si chiude ai
nova, esprimendo il divieto di nuove domande, di
nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova, tranne il
giuramento estimatorio (e deve ritenersi anche quello
decisorio) per la ben diversa funzione integrativa del
giudizio di fatto del primo e dispositiva del secondo.
La disposizione contiene per la prima volta l’introduzione del concetto di indispensabilità della
prova come discrimine tra le prove ammissibili o
non ammissibili in appello, soggetta ad una valutazione discrezionale del collegio. L’attenuazione al divieto di nuovi mezzi di prova aveva una sua precisa
giustificazione lavoristica, sulla quale innestare la
sua ragione di essere: si voleva consentire al giudice
dell’appello gli stessi poteri istruttori consentiti al
giudice di primo grado ex art. 421, 2° comma c.p.c. Il
disegno non poteva non apparire più coerente, come
anche il senso del concetto di “indispensabilità”: rinnovazione del potere discrezionale officioso del giudice nell’iniziativa probatoria in primo grado6.
L’appello per la prima volta si chiude alla pienezza
del novum iudicium, condotto prescindendo dal precedente giudizio confluito nella sentenza di primo
grado e dalle difese in esso dedotte, ma costituisce,
secondo la formula esplicativa della revisio priori
istantiae, il risultato di una rinnovazione di un giudizio sulla base di difese consolidate nel primo
grado, rectius negli atti introduttivi del giudizio di
primo grado, quanto a domande, eccezioni e prove,
con l’unica salvezza dei poteri di iniziativa officiosa,
sia quanto all’eccezione in senso lato (ex art. 112
c.p.c. rilevabile d’ufficio) e sia quanto ai poteri istruttori in senso stretto del giudice.
Quando il legislatore, nella riforma del rito ordinario dovuta alla legge n. 353 del 1990, sulla intensa
suggestione di un modello di processo a preclusioni,
introduce un sistema di decadenze anche nel procedimento assoggettato al rito comune, ne discende,
per automatica (e non meditata) conseguenza,
l’adozione di un modello di appello identico a quello
del rito lavoro.
Nella dinamica delle continue ondate di interventi
di riforma, che incidono sulle regole della trattazione
delle difese in senso lato delle parti, attraverso la sequela delle leggi n. 353 del 1990, n. 534 del 1995, n. 80
del 2005 e n. 69 del 2009, le regole dell’appello del laaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 9
STUDI E RICERCHE
voro vengono estese all’intero appello di diritto comune nella nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c.7
Ne segue l’inammissibilità delle domande nuove
e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e il regime di
chiusura in ordine ai nuovi mezzi di prova, che la
legge n. 69 del 2009 a seguito di un noto orientamento giurisprudenziale, estendeva anche alle
prove precostituite, come i documenti8.
La riapertura a nuovi mezzi di prova, se ritenuti
“indispensabili” dal collegio, pure riprodotto nell’art.
345, 3° comma c.p.c., trasferito nell’ambito del rito
ordinario, veniva privato della sua ragionevolezza,
giustificabile solo nel rito del lavoro, in funzione
della accentuazione dei poteri istruttori del giudice
di quel rito9.
Sulla indispensabilità si apriva un dibattito in dottrina e in giurisprudenza, con l’affermarsi anche di
un’ipotesi dottrinale per così dire liberale che avvicinava molto il concetto di prova indispensabile al
concetto di prova rilevante, di fatto riaprendo - sotto
l’auspicio di un appello che non perdesse le sue caratteristiche originarie - l’ingresso di nuove prove
nel mezzo di gravame10.
A tale indirizzo rispondeva un concetto più ristretto di indispensabilità, messo a fuoco in relazione agli esiti del giudizio di primo grado, essendo
ammesse le prove che sarebbero state di per sé in
grado di consentire la revoca o modifica della decisione di primo grado o di confermare su basi diverse
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la sentenza di primo grado, dunque un concetto di
rilevanza specifico dello strumento impugnatorio11
e che comunque sanciva un potere discrezionale del
giudice di appello.
Sino ad una lettura più rigida - ma che a mio parere si poteva accompagnare a quella poc’anzi evidenziata - che traduceva il concetto di indispensabilità in funzione delle nuove allegazioni consentite
in secondo grado: accessori alla domanda maturati
dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni di
primo grado e dovuti a sopravvenienze; domande
fondate su fatti nuovi, domande nascenti dall’intervento volontario di terzi in causa, allegazioni corrispondenti ad eccezioni rilevabili d’ufficio, allegazioni discendenti da una rimessione in termini, secondo la stessa previsione contenuta nel 3° comma
dell’articolo 345 c.p.c.12
Un dibattito che conduceva a soluzioni radicalmente diverse e che comprovavano nelle estremizzazioni dell’interpretazione la atecnicità della formula, laddove era stata trasportata tout court, senza
la ragionevolezza dal ben diverso contesto del rito
del lavoro.
Certamente la novellazione dell’art. 345 c.p.c. conduceva anche l’appello comune, nella stessa direzione impressa dalla riforma del processo del lavoro,
ad una mera revisio priori istantiae. Con la evidente
conseguenza di una speciale tecnica di formazione
degli atti introduttivi, i quali potevano esclusiva-
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mente riproporre difese in senso lato già formulate
nel giudizio di primo grado: l’appellante e l’appellato avrebbero dovuto comunque formulare domande, eccezioni e chiedere prove, secondo i contenuti degli atti del giudizio precedente, con il limite
delle difese già formulate in primo grado, salvo i poteri officiosi quanto ad eccezioni e prove e al contraddittorio che ne sarebbe derivato.
La rigidità del modello era poi contraddistinta dal
fatto che, ad eccezione delle riaperture consentite
dalle sopravvenienze, o dalle eccezioni rilevabili d’ufficio o dalle prove indispensabili, non era consentito
alcun mutamento dell’assetto difensivo contraddistinguente il giudizio di primo grado, neppure nel
contesto di un esercizio di uno ius poenitendi, inesorabilmente (e inspiegabilmente) esaurito con lo scambio delle memorie di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c.
quando sarebbe stato molto più utile consentirne
l’esercizio in udienza di precisazione delle conclusioni, dopo l’istruttoria, o, meglio ancora, in appello,
dopo il confronto con la sentenza di primo grado.
Con la introduzione, dovuta alla legge n. 69 del
2009, del procedimento semplificato di cognizione
piena ai sensi degli artt. 702 bis e ss. c.p.c., le diverse
scelte che hanno ispirato l’appello contro l’ordinanza conclusiva, idonea al giudicato, contenute
nell’art. 702 quater c.p.c., che aprivano alla deducibilità di prove nuove semplicemente se rilevanti,
non potevano non avere ricadute profonde sull’interpretazione dell’art. 345, 3° comma c.p.c., in
quanto la difformità letterali delle due disposizioni
erano all’origine di regole diverse. L’indispensabilità
è perciò concetto irriducibile al concetto di rilevanza, con buona pace delle teorie che avevano assimilato le due nozioni.
L’impostazione di un appello chiuso alle novità difensive, tuttavia, non incideva ancora sull’inquadramento generale dello strumento, costituiva piuttosto una scelta di un rito particolare e, pur avvilendo le attività difensive in appello e il raggiungimento della verità sostanziale certamente più favorita in un pieno ed illimitato svolgimento del contraddittorio e delle difese, non sradicava l’istituto
dall’inquadramento di mezzo di gravame, caratterizzato da effetto devolutivo e sostitutivo.
3. L’esasperazione della specificazione del motivo nella giurisprudenza e nella legge.
In tale contesto normativo viene ad inserirsi una
significativa evoluzione giurisprudenziale, assecondata, nella sua estremizzazione, dal più recente intervento legislativo.
La specificazione del motivo di appello, imposto
dell’art. 342 c.p.c. nel quadro della illimitatezza degli argomenti di critica, come espressione del principio dispositivo costituiva consacrazione positiva
della disponibilità dell’effetto devolutivo riservata
all’appellante13.
A fronte di una tendenziale identità dell’oggetto
del giudizio di secondo grado rispetto all’oggetto del
giudizio di primo grado, era lasciata a chi promuoveva l’appello, attore o convenuto, mediante appello
incidentale, piena libertà di scelta dei capi di sentenza, corrispondenti ad altrettanti ambiti oggettivi14, giudicati in primo grado, sui quali far rinnovare il giudizio nel secondo grado, risultandone provocato il passaggio in giudicato del capo non espressamente impugnato, art. 329, 2° comma c.p.c.
La specificazione del motivo, misura dell’effetto
devolutivo lasciata alla disponibilità delle parti, integrava elemento di forma-contenuto dell’atto di
appello, a pena di invalidità del mezzo15.
Sotto questo particolare profilo il difetto di precisazione del motivo, in quanto assimilabile al difetto
di uno degli elementi della domanda, schiudeva all’interprete la prospettiva dell’applicazione analogica
dell’art. 164 c.p.c.16: in difetto della specificazione, il
giudice avrebbe potuto concedere un termine alla
parte per la rinnovazione dell’atto di appello, purché
fossero ancora aperti i termini per l’impugnazione,
non essendo il vizio dell’editio actionis sanabile retroattivamente (con un regime ben diverso da quello
della inammissibilità che ai sensi dell’art. 358 c.p.c.
ne avrebbe escluso la riproponibilità).
Su questo impianto, assecondato dalla giurisprudenza di legittimità, viene ad inserirsi nello scorcio
del passaggio tra il primo e il secondo millennio, un
mutato orientamento, che costituisce il primo “attacco” mortale al “cuore” della nozione giuridica e
positiva dell’appello come mezzo di gravame.
La Corte di cassazione17 esaspera gli oneri di specificazione del motivo di appello, non più concepito
come limite dell’effetto devolutivo, ma espressione
della critica alla sentenza, estrinsecazione dell’errore o del vizio lamentato nell’atto conclusivo del
giudice di primo grado, sino ad imporre all’appellante l’espressione di un giudizio prognostico difforme rispetto a quello reso in prime cure.
È evidente che se il motivo di appello fuoriesce
dall’ambito originario, quello della specificazione
del capo di sentenza impugnato, e diventa per necessità espressione di una critica alla sentenza di
primo grado, attraverso la individuazione dell’errore
o del vizio in cui è incorso il giudice, l’oggetto del
giudizio di appello tende inesorabilmente a spostarsi dalla fattispecie e dal diritto dedotto in primo
grado, al provvedimento del giudice. L’appello
prende le sembianze di uno strumento critico, che
ha esclusivamente ad oggetto la sentenza sulla
quale si appunta inesorabilmente la tensione dell’appellante e del giudice di secondo grado, nella
specificazione e verifica dell’errore o del vizio in cui
è incorsa18.
Ne discende, inesorabilmente secondo l’indicato
indirizzo della S.C., un regime di inammissibilità
dell’appello privo della specificazione del motivo
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 11
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nella nuova accezione, non più ricondotto ad un vizio di nullità sanabile mediante rinnovazione dell’atto di appello, ma fatto confluire nel ben diverso
regime della inammissibilità, che si traduce nella in
improponibilità del mezzo e dunque nella definizione in rito del giudizio di appello, con perdita di
uno strumento di tutela giurisdizionale.
A tale indirizzo, sulla cui scia si è inserita tutta la
giurisprudenza del giudice di legittimità successiva
e sino ad oggi, si radicano come estremizzazione di
un’evoluzione, le scelte del legislatore, non più
mosso da un’ispirazione rigoristica, che esaspera le
forme dell’atto introduttivo, ma ad una ben diversa
ratio, costituita dalla necessità di invertire il trand dei
carichi giudiziari verso la dissuasione d’autorità all’uso degli strumenti di tutela giurisdizionale. È il legislatore della contingenza che impone forme alternative alla giurisdizione (esperienza della conciliazione obbligatoria) o crea balzelli e ostacoli formali (incremento dei costi fiscali del processo ed
estremo formalismo nell’esercizio dell’azione giurisdizionale), rendendo necessario l’intervento correttivo del giudice della costituzionalità delle leggi.
Mediante la legge 7 agosto 2012 n. 134, conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, si fanno seguire
all’art. 348 due nuovi articoli, gli artt. 348 bis e 348
ter, e si impone la novellazione dell’art. 342 c.p.c.19.
Il processo di appello si arricchisce così di nuove
ipotesi di inammissibilità, nell’evidente disegno di
allontanare il merito della tutela, con trappole “mortali” elevate all’iniziativa.
L’art. 342 c.p.c. si allinea in tal modo agli orientamenti del giudice di legittimità con la precisazione
positiva che la specificazione del motivo non ha più
soltanto la funzione di limitare l’effetto devolutivo
(“indicazione delle parti del provvedimento che si intende
appellare”, art. 342 n. 1).
All’appellante è imposto l’onere di indicare le circostanze di fatto su cui ha erroneamente giudicato
il giudice di primo grado e la loro rilevanza, quanto
alle conseguenze giuridiche queste rientrano nelle
prerogative del giudice, il quale può trovare ostacolo
solo nel giudicato (art. 342 n. 2, c.p.c.). Infine, la necessità del giudizio prognostico: le “modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto” (art.
342 n. 1, c.p.c.), su cui deve misurarsi l’appellante.
Ne risulta la razionalizzazione positiva degli orientamenti giurisprudenziali dell’ultimo decennio, dove
il motivo è espressione: a) dei limiti all’effetto devolutivo, ovvero della dimensione dell’oggetto del giudizio di prime cure su cui deve rinnovarsi il giudizio
in appello; b) della critica alla sentenza di primo
grado, quanto all’accertamento dei fatti e alle sue
conseguenze giuridiche; c) di un giudizio prognostico
sull’esito dell’appello, tutti necessitati nella sua specificazione a pena di inammissibilità.
Il legislatore, infine, sanziona inesorabilmente il
difetto di specificazione del motivo con la triplice
12 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
estrinsecazione evidenziata, con l’inammissibilità
dell’appello, ovvero ex art. 358 c.p.c., la non riproponibilità del mezzo.
4. L’epilogo: il merito si converte in rito
Ma il legislatore va ben oltre e porta alle estreme
conseguenze l’estremizzazione della specificazione
del motivo, laddove non più un elemento formale
viene ad assurgere a motivo di inammissibilità, ma
è la stessa fondatezza nel merito del motivo a costituire, in una valutazione preliminare, motivo di
ammissibilità.
È la formulazione dell’art. 348-bis c.p.c., 1° comma,
laddove estende i casi di inammissibilità anche alla
“ragionevole probabilità” di non accoglimento dell’appello.
Il modello malamente recuperato è il “filtro” al ricorso innanzi alla Corte di cassazione per i motivi
dell’art. 360 c.p.c., ove “la manifesta infondatezza” “
della censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo” (art. 360 - bis, n. 2), c.p.c.)
o generalmente la manifesta infondatezza del motivo indicato nel ricorso principale e nel ricorso incidentale (art. 375, n. 5. c.p.c.), assurgono ad ostacolo rituale alla trattazione nel merito dell’impugnazione.
Non può non apparire evidente la diversità del potere discrezionale concesso al giudice dell’impugnazione nel caso di “manifesta infondatezza”, che
costituisce ipotesi evidente di grossolano abuso del
processo, rispetto al caso della “ragionevole probabilità”, ponendo l’appellante in balia degli umori del
collegio in limine litis, che è l’unico modo per tradurre
in concreto il concetto di diritto positivo.
La prudenza salutare di alcune Corti di appello ha
forzato la lettera della norma, riconducendo
la ragionevole probabilità di non accoglimento
alla manifesta infondatezza, ponendo entrambi gli
istituti sul solco dell’abuso del processo, con argomenti sistematici tutt’altro che trascurabili: non può
certo condursi una cognizione sommaria sulla fondatezza dell’appello dopo che si è svolto un giudizio di primo grado nel quale sono state espresse (e
in modo definitivo, in coerenza con il divieto dei
nova ex art. 345 c.p.c.) tutte le difese delle parti, in
termini di allegazioni e prove20.
Il tutto poi si estrinseca con modalità procedimentali insolite, prevedendosi quanto alla inammissibilità per ragioni “di merito” una decisione in
forma di ordinanza, in apertura all’udienza di trattazione ex art. 350 c.p.c., ordinanza “succintamente
motivata” mediante tecnica di”taglia/incolla” (“rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa
e il riferimento a precedenti conformi”). La norma ha
dato presto l’occasione alle Corti di appello, che già
esercitavano, con modalità che offendevano i limiti
comunitari all’esercizio della giurisdizione, i poteri
di differimento della udienza di trattazione (ex art.
168 - bis c.p.c.), di procedere a nuovi rinvii, nella ne-
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cessità di delibare il fondamento in udienza preliminare ad hoc.
Resta poi il problema del contraddittorio sulla
questione di inammissibilità sollevata ex officio: grazie all’art. 101, 2° comma, c.p.c., che fa comunque
salva la concessione di un termine alle parti per lo
scambio di una memoria sul punto.
Un avvilimento dunque dell’appello, già colpito
dalle prassi dilatorie delle Corti (“ de profundis” dell’istituto ben prima della sua definitiva sepoltura
grazie alle scelte del legislatore), che non ha alcuna
giustificazione, neppure in una logica deflattiva, per
l’immediata prassi della duplicazioni di udienze e
di ulteriore dilazione del procedimento, quando già
lo stesso legislatore aveva suggerito lo strumento
deflattivo, esercitabile sin dalla udienza preliminare
sulla istanza inibitoria (artt. 283 e 351 c.p.c.), costituito dalla sentenza a verbale, essendo stata estesa
l’applicazione dell’art. 281 - sexies, c.p.c. all’appello
dalla legge n. 183 del 2010. Il collegio - qualora fosse
almeno nella persona del relatore consapevole dei
contenuti del fascicolo - avrebbe potuto invitare le
parti all’immediata discussione, o concedere su richiesta un breve differimento della discussione
orale, quando fosse apparso evidente la manifesta
infondatezza del mezzo. Tutto ciò era già contenuto
nella disciplina dell’appello prima della riforma.
Viene quindi introdotto un nuovo motivo di inammissibilità e la questione percorre vie formali diverse, quella della sentenza quando l’inammissibi-
lità coincide con la mancata specificazione del motivo (art. 342 c.p.c.), nei termini voluti dalla giurisprudenza e tradotti in diritto positivo dal legislatore, quella della ordinanza quando è fondata sul
merito del motivo (“ragionevole probabilità di accoglimento”). Nel primo caso la sentenza è impugnabile
in sede di legittimità e quindi sindacabile, nel secondo caso costituisce un potere insindacabile del
giudice d’appello, perdendosi addirittura il controllo
di legittimità della pronuncia definitiva su questione di rito.
È il colpo finale all’inquadramento generale dell’istituto, che fuoriesce dall’alveo del gravame, con il
suo effetto integralmente devolutivo e, quanto alla
pronuncia finale sostitutivo, per rompere l’argine e
dilagare verso la impugnazione mera, dove la sentenza del giudice di prime cure diventa il vero obiettivo del giudizio del secondo giudice, quando si esaspera, come si è esasperato, il motivo di critica alla
sentenza, non solo sul piano formale ma anche di
merito, come ragione di ammissibilità del mezzo.
Sul piano della tecnica di impugnazione, l’appellante deve misurarsi con uno strumento che ha
poco in comune con i mezzi di primo grado (come
quando la difesa debba essere riproposta e non
semplicemente oggetto di impugnazione, secondo
il tenore dell’art. 346 c.p.c.), dovendosi misurare con
la sentenza di primo grado e la sua parte motiva, al
fine di individuarne non solo l’ambito di effettiva
devoluzione al secondo giudice, ma la critica e le
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 13
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conseguenze in termini di esito del giudizio di appello, con un serio impianto argomentativo sui fatti
e le regole applicabili, al fine di oltrepassare la trappola del previo vaglio di ragionevole probabilità di
accoglimento.
5. Il profilarsi di un appello speciale. Il processo
su situazioni indisponibili.
Se questa è la disciplina dell’appello di diritto comune, dopo l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa, di cui si sono cercato di tracciate le linee essenziali, non si può non evidenziare, e l’interprete
come l’operatore ne dovrà trarre tutte le conseguenze, l’esistenza di un diverso regime, per così
dire “speciale”, applicabile all’appello avverso alcuni
provvedimenti decisori, il quale tiene ben saldo
l’istituto ai suoi primordi.
È lo stesso legislatore del 2012 a tracciare la via
alla ricostruzione sistematica.
Il merito del motivo come questione di ammissibilità dell’appello non è applicabile ai processi su diritti indisponibili, nei quali interviene obbligatoriamente il p.m. e negli appelli su ordinanza decisoria
nel rito semplificato dell’art. 702 - bis, ai sensi dell’art. 702 - quater, c.p.c.
Nel primo caso evidentemente il legislatore non ripone a ragione troppe aspettative nella iniziativa del
p.m., preferendo un processo scevro da ostacoli al dispiegarsi della tutela dei diritti e che perciò goda della
piena prerogativa di una rinnovazione senza limiti o
14 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
filtri discendenti dal motivo di appello di un giudizio
di secondo grado. La previsione invero appare superflua, poiché è da tempo nota, ancorché lacunosa sul
piano legislativo, la impossibilità di un processo dispositivo ad offrire piena tutela a situazioni indisponibili, con la necessità sul piano interpretativo di un
ripensamento intorno all’iniziativa, alle preclusioni e
ai rimedi. Tutta l’esperienza delle controversie di famiglia offre un terreno di elezione per misurare il
processualista sulle caratteristiche del processo su situazioni indisponibili (ma vedi infra par. 8).
L’appello, normalmente ispirato alle forme del reclamo camerale (contro i decreti del Tribunale per i
minorenni, contro le sentenze di separazione e divorzio, contro i decreti del Tribunale ordinario
quando decide in camera di consiglio) è dunque
aperto a tutte le possibile novità sul piano del thema
decidendum e del thema probandum, e non si presta al
previo vaglio della ragionevole probabilità. Peraltro
assoggettato alle scarne forme imposte dall’art. 739
c.p.c., non impone tutto il rigore dettato dall’art. 342
alla specificazione del motivo.
Ma sulle controversie di famiglia dovremo ritornare in una più ampia accezione della specialità dell’appello.
6. Il motivo di appello nel processo sommario ex
art. 702 - bis, c.p.c.
Nel secondo caso si apre la prospettiva a cui è rivolta la presente analisi.
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È noto come il procedimento regolato negli artt.
702 - bis e ss., dovuto alla legge n. 69 del 2009, nonostante la denominazione di procedimento sommario di cognizione e la sua collocazione topografica
nel libro IV, dopo i procedimenti cautelari, sia tutt’altro che un processo sommario di cognizione21.
Con il procedimento in esame il legislatore, in relazione a controversie con questioni di fatto semplificate, perché non necessitanti di un’istruttoria
complessa, ha consentito nelle materie devolute al
rito monocratico in tribunale una tutela in forme
semplificate, nella quale il giudice, che si convince
della opportunità di seguire il rito prescelto dall’attore e quindi non lo converta in rito comune (art. 702
- ter, 2° comma c.p.c.), esauriti gli atti di istruzione
essenziali senza formalità particolari salvo la garanzia del contradditorio, offre la tutela finale, idonea al giudicato, con ordinanza (art. 702 - ter, 5°
comma c.p.c., sulla idoneità al giudicato, art. 702 quater c.p.c.).
La natura del procedimento, come modalità alternative alla trattazione, istruttoria e conclusione del
giudizio a cognizione piena di rito ordinario, nonostante il nomen, è ricavabile da numerosi indici normativi, come l’applicazione di preclusioni irriducibili all’esperienza della cognizione sommaria cautelare o latu sensu anticipatoria, le analogie profonde
di forma - contenuto degli atti introduttivi assimilati
alla citazione e la comparsa di risposta regolati dagli
artt. 164 e 166, 167 c.p.c., la convertibilità nel rito ordinario senza soluzione di continuità e a partire
dalla udienza dell’art. 183 c.p.c., con la conservazione
delle decadenze già maturate in coincidenza con gli
atti introduttivi, i rimedi alla decisione in forma di
ordinanza, coincidente appunto con l’appello.
Ma la particolarità, evidentemente per le forme
che contraddistinguono il nuovo rito e particolarmente l’atto conclusivo in cui è contenuto il giudizio, è offerta dalla disciplina dell’appello, difforme
dalla disciplina comune.
È stato possibile già cogliere, nell’esame dell’art.
348 - bis, c.p.c. come il motivo di inammissibilità costituito dalla non ragionevole probabilità di accoglimento non si applica e la ragione è da cercarsi nella
semplificazione della ordinanza con cui si conclude
il giudizio, che rende inevitabilmente meno severa
la formulazione del motivo specifico di gravame e
di conseguenza mantiene su basi più salde la natura
di gravame dell’appello.
La semplificazione delle forme del giudizio finale
reagisce inevitabilmente anche sul formalismo della
specificazione del motivo, ai sensi del precedente
art. 342 c.p.c., poiché la parte non deve misurarsi
con una motivazione che sorregge una sentenza, ma
con una motivazione che accompagna un’ordinanza. Quindi pur applicandosi il rigore della citata
disposizione esso in concreto non può che imporsi
meno severamente22.
L’appello si trasforma in tal modo nel vero e proprio primo grado, essendosi il giudizio sino a quel
momento condotto in forme semplificate e accelerate, nel quale può dispiegarsi secondo le regole comuni il vero e proprio judicium, con il pieno affermarsi del diritto alla prova della parte secondo il
giusto processo.
Ne risulta meno onerosa la specificazione del motivo, semplice misura dell’effetto devolutivo, come
si trattasse di una domanda introduttiva di un giudizio ove la parte può svolgere nella loro pienezza i
suoi mezzi difensivi, funzionali all’adempimento
dell’onere della prova, quale compensazione della
intesa deroga alle regole sulla prova e sulla sua assunzione del processo semplificato che aveva preceduto.
7. Le novità difensive nell’appello del processo
sommario ex art. 702 - bis, c.p.c.
L’appello speciale, quindi, si atteggia diversamente anche in relazione alle novità difensive proposte in appello, pur nella inopportuna e forse incostituzionale evoluzione normativa, dalla legge n.
69 del 2009 alla legge n. 134 del 2012.
Invero l’art. 669 - quater disciplina solo il profilo
della prova nuova, nulla dicendo in ordine alle
nuove domande e allegazioni. Il carattere speciale
della disciplina rende inevitabile il regime preclusivo dell’art. 345, 1° e 2° comma, c.p.c., il quale si
espande laddove non è regolato da legge speciale.
Infatti la norma nel suo tenore originario svelava
una liberalizzazione d’altri tempi, ammettendo
prove nuove purché rilevanti, ovvero tutti i mezzi di
prova che avessero ad oggetto fatti principali, costitutivi o che rilevassero come eccezione, o anche soltanto fatti secondari da cui risalire al fatto principale attraverso prova critica presuntiva. In tal modo
reagiva sulla stessa interpretazione che alcuni interpreti volevano offrire all’art. 345 c.p.c., il quale
usava la ben diversa nozione di mezzi “indispensabili” al discrezionale potere del giudice.
La disposizione era parsa corretta tecnicamente
ai primi interpreti, e non solo sul piano dell’opportunità, poiché la semplificazione delle forme non
doveva andare a detrimento delle forme del processo a cognizione piena, che avevano agio di dispiegarsi senza limiti in sede di appello, il quale assumeva i caratteri del vero e proprio procedimento
di primo grado e dunque di mezzo con il quale era
pienamente espresso secondo le regole comuni il
giudizio di primo grado.
Alla parte doveva essere offerta l’occasione, almeno in un grado del processo, di un pieno dispiegarsi del diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa.
La norma tuttavia appariva tecnicamente molto
discutibile ponendo sullo stesso piano il regime di libertà della prova, purché rilevante, con la rimessione
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in termine per decadenza incolpevole, nonostante si
trattasse di regimi irriducibili e non postulabili contemporaneamente. All’impasse letterale si doveva
reagire facendo prevalere la regola più liberale23.
Su questo impianto normativo si inserisce il legislatore del 2012 che anziché conservare la norma e
il suo senso profondo, si lascia trascinare nella modifica apportata all’art. 345 c.p.c. seppur conservando la diversità, ma attenuando la totale liberalità della originaria previsione. La prova nuova rilevante diventa la prova nuova indispensabile secondo la valutazione del collegio nell’art. 669 - quater c.p.c., la prova indispensabile è espulsa dall’art.
345 c.p.c., ove il divieto diventa assoluto, salvo la remissione in termini.
Ma la prova nuova in linea con il concetto di indispensabile, rispetto a quello originario di rilevante,
impegna oltre modo l’interprete.
Una lettura restrittiva, alla pari di quella che contraddistingueva il concetto quando era inserito nella
disciplina dell’appello comune, limitando l’indispensabilità alla prova dell’allegazione nuova consentita in appello (fatti sopravvenuti, eccezioni rilevabili d’ufficio, fatti costitutivi di domande formulate da terzi ex art. 344 c.p.c. ed esercizio del contraddittorio rispetto a tali novità), rischia di porre la
norma sulla china della incostituzionalità24. Nella
sommarietà e semplificazione dell’istruttoria è contratto in modo inaccettabile il diritto alla prova della
parte, come estrinsecazione del diritto di difesa, ed
irrimediabile in appello, per le angustie della sua
espressione anche in quel grado.
Peraltro vi è anche da aggiungere che pure se
estromessa ogni novità in relazione alla prova nel
rito comune, non è veramente pensabile che una
nuova prova non possa avversi in relazione a legittime acquisizioni di fatti sopravvenuti o meno in appello, se tali fatti posso essere dedotti per a prima
volta in sede di gravame dovranno essere necessariamente soggette a prova. Questo a valere anche
per il rito comune.
Si rischierebbe così di parificare i regimi, che invece - almeno nella lettera delle disposizioni - sono
diversificati.
La lettura è perciò necessariamente liberale.
Calato nel diverso contesto del processo sommario, la indispensabilità dovrà misurarsi al contrario
sul mancato svolgimento in primo grado del diritto
alla prova, dovuto alla semplificazione delle forme,
quando il giudice di appello dovesse contrariamente
a quello di prime cure, ritenere necessaria ovvero
indispensabile una istruttoria vera e propria secondo le regole comuni.
Si recuperebbe così la libertà del giudice di appello, debitamente stimolato dalle istanze di parte,
di dare svolgimento a quella istruttoria che era stata
negata in primo grado, come una sorta di conversione tardiva, perché effettuata in appello, al rito comune.
La diversità rispetto al recente passato è costituita
soltanto dalla motivazione a cui è soggetto l’esercizio del potere discrezionale del giudice di appello di
consentire l’ingresso alla prova nuova: mentre nella
formulazione meno recente la priva rilevante poteva
essere versata o raccolta senza limiti di sorta, ora
costituisce l’esercizio di un’autorizzazione del giudice, di un potere discrezionale in occasione del
quale la indispensabilità deve essere motivata.
Questa è l’unica interpretazione della norma che
sembra in linea con la garanzia costituzionale del
diritto di difesa, nella sua espressione di diritto alla
prova25.
8. La espansione delle regole dell’appello speciale: i processi conclusi con ordinanza.
Il fenomeno di un appello disciplinato da regole
speciali, potrebbe in via interpretativa avere
un’espansione ben oltre il caso della ordinanza conclusiva del processo semplificato, ogni qualvolta il
giudizio si concluda in forme semplificate coinvolgendo le regole applicabili al giudizio finale, particolarmente in relazione alla motivazione.
È evidente che ogni qual volta il giudizio finale si
esprima in forme assimilabili a quelle delle ordinanza, con la semplificazione della sua espressione
formale, particolarmente in relazione alla motivazione, il suo gravame si esprimerà con corrispon-
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denti minori oneri di specificazione dell’appellante,
in linea con la minore specificazione della motivazione da parte del giudice.
L’ipotesi è ad esempio quella della ordinanza a
chiusura della istruttoria26, nei giudizi su domanda
di condanna al pagamento di somme o alla consegna o rilascio di beni, giudizio a cognizione piena
(“nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova”, art 186
- quater, 1° comma, c.p.c.), cui può seguire una sentenza solo se il soccombente la richiede con ricorso
notificato all’altra parte entro trenta giorni dalla
pronuncia in udienza o dalla sua comunicazione (4°
comma della disposizione), in mancanza “acquista
l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto della
istanza”. Quindi è appellabile.
La semplificazione delle forme non potrà non
avere come conseguenza una semplificazione delle
forme dell’appello, la “succinta motivazione” della ordinanza corrisponde un minore onere di specificazione della motivazione e una inevitabile minore severità nel vaglio della “ragionevole probabilità”.
La stessa considerazione, nonostante il richiamo
alle forme della sentenza, deve essere compiuta in
relazione all’ipotesi della decisione a seguito di discussione orale, ex art. 281- sexies, c.p.c., la quale al
di là del richiamo formale è sostanzialmente un’ordinanza resa al termine della udienza a verbale, sorretta da “una concisa motivazione delle ragioni di fatto e
di diritto della decisione”. Ne consegue una minore
specificazione degli oneri a carico della parte.
In questi casi le peculiarità formali del giudizio finale influenzano gli oneri di specificazione della
motivazione imposti all’appellante, ma non derogano ai limiti imposti alle nuove difese, ai sensi dell’art. 345 c.p.c.
9. Il rito camerale ibrido come processo a cognizione piena di rito speciale e la disciplina del reclamo-appello, nelle controversie fallimentari.
La espansione delle forme camerali dal contesto
della volontaria giurisdizione, al cui servizio sono
state introdotte nel codice di rito, verso la giurisdizione contenziosa, ha imposto alla tutela giurisdizionale dei diritti le scarne regole degli artt. 737 e ss.
c.p.c., costringendo la giurisprudenza ad un’intensa
opera di adattamento del rito alle garanzie della difesa, del contraddittorio, della motivazione e del
controllo di legittimità, costituzionalmente imposte,
onde evitarne sicura declaratoria di incostituzionalità, denunciata da parte della dottrina27.
Ne è sorto un rito con regole dettate dalla casistica, che stavano strette alle forme alle quali erano
costrette.
Ma quando il legislatore nei tempi più recenti, ancora suggestionato dallo stesso progetto, ma questa
volta consapevole dell’elaborazione giurisprudenziale, ha disciplinato un rito camerale, tale solo nel
nomen, con caratteri e forme che celano nella sostanza un vero e proprio processo a cognizione
piena, regolato da un rito speciale, il regime speciale
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dell’appello è emerso senza mezzi termini o equivoci anche sul piano positivo.
Il riferimento va ai quei riti camerali contenziosi
fallimentari ove le regole sulla forma-contenuto degli atti introduttivi, l’adozione di preclusioni stringenti in limine litis, le forme di instaurazione del contraddittorio particolarmente regolate, l’adottabilità
di una tutela cautelare anche incidentale, lo svolgimento di un’istruttoria ampia preceduta da un giudizio di ammissibilità e rilevanza della prova e, all’esito del giudizio, la prospettiva di percorrere un
gravame nel senso pieno del termine, non consentono più un inquadramento sistematico nei termini
nominalistici adottati dal legislatore e impongono
un inevitabile richiamo alle forme ordinarie della
cognizione piena28.
Il fenomeno assume evidenze nitide quando il legislatore, come nella esperienza del diritto fallimentare, non si limita a recepire la disciplina comune del rito camerali, ma la disciplina ex novo introducendo modelli che nulla hanno più a che vedere invero con la camera di consiglio, di cui richiamano “nostalgicamente” il nome, ma che costituiscono veri e propri processi a cognizione piena di
rito speciale.
Per quanto il legislatore usi il termine reclamo, per
consentire l’appello avverso i provvedimenti di
prime cure, non è alla lacunosa disciplina dell’art.
739 c.p.c. che fa si richiamo, ma ad un procedimento
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di gravame integralmente regolato ex novo. Basti
muovere dall’art. 18 della legge fallimentare.
Il reclamo fallimentare è diverso dall’appello comune, in ordine all’onere della motivazione dell’impugnazione e al divieto di nuove difese in senso lato,
dovute all’ultimo episodio legislativo n. 134 del 2012,
in considerazione delle previsioni contenute nell’art.
18, 8° e 10° comma, l. fall., ove è più accentuato l’effetto devolutivo, nella tendenziale coincidenza dell’oggetto dell’appello con l’oggetto del primo grado
e liberalizzata l’iniziativa delle parti nell’allegazione
dei fatti e nelle deduzioni istruttorie.
Cionondimeno, sulla base della forma-contenuto
del ricorso per reclamo (art. 18, 2° comma, l. fall.), oltre all’indicazione dell’autorità e delle parti, è necessaria “3) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni”, ovvero resta la necessità di una specificazione dei motivi. Il carattere impugnatorio del reclamo non esclude infatti il filtro all’effetto devolutivo che discende dal motivo di impugnazione, il
quale offre la misura della devoluzione, in funzione
dei capi di sentenza e/o decreto effettivamente impugnati29.
Se dunque la specificità della motivazione si
rende necessaria per la validità del reclamo, per il
principio generale per cui è necessario indicare la
causa petendi e il petitum della domanda, che in un
giudizio di impugnazione coincidono con il capo di
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sentenza di cui si intende ottenere la riforma o l’annullamento, non è estensibile al reclamo fallimentare il rigore che discende oggi dalla specificazione
del motivo ex art. 342 c.p.c., e dalla sua fondatezza
ad un apprezzamento preliminare di ragionevole
probabilità di accoglimento ex art. 348-bis, c.p.c,
norme entrambe dovute alla legge n. 134 del 201230.
Infatti la esposizione di fatti e elementi di diritto,
con le relative conclusioni fa pensare piuttosto ai requisiti di una domanda in primo grado, piuttosto
che hai requisiti formali dell’appello di diritto comune.
Pertanto non sarà necessaria, oltre all’espressa indicazione delle parti del provvedimento appellato,
la tassativa espressione a pena di inammissibilità
in capi separati delle censure e dei vizi che si intendono fare valere, con l’indicazione dei contenuti sostitutivi richiesti al giudice del reclamo oppure, addirittura, un’espressione analitica e diffusa del motivo, tale da indurre il giudice dell’appello ad un giudizio prognostico di ragionevole probabilità di accoglimento.
Ne consegue che il reclamo dovrà contenere più
semplicemente l’indicazione dei capi della sentenza
e del decreto effettivamente impugnati e la riproposizione delle difese misconosciute dal giudice di
appello e di cui si chiede l’accoglimento nel giudizio riformatore reso in sede di reclamo.
Nel caso di violazione di tale canone, non deve
discenderne la diretta ed immediata inammissibilità dell’impugnazione, poiché in difetto di una previsione espressa di un tale tipo di sanzione è preferibile ricorrere all’art. 164 c.p.c., che consente al giudice d’appello di ordinare l’integrazione dell’atto
carente della parte in un termine perentorio fissato31.
Laddove non esista un vero e proprio capo di sentenza o decreto impugnabili, per mancanza di soccombenza vera e propria, in quanto risulti assorbita
la domanda o eccezione, il reclamante dovrà, ai
sensi dell’art. 346 c.p.c., limitarsi alla riproposizione
delle domande ed eccezioni non accolte, ma neanche rigettate, non potendosi supplire mediante poteri officiosi, che possono esprimersi sul piano dell’iniziativa istruttoria, ma non certo in relazione all’allegazione dei fatti 32.
L’ampiezza di previsione, priva dei limiti di cui all’art. 345, 2° e 3° comma, c.p.c., alle allegazioni e deduzioni istruttorie che si ricava dall’art. 18, 8° comma,
l. fall., fa ritenere l’insussistenza di preclusioni che
impediscono alle parti di introdurre difese nuove,
siano esse eccezioni riservate o mezzi istruttori.
La ragione è da rintracciarsi nella peculiarità della
materia, i cui effetti discendono da una fattispecie
che si vuole accertata giudizialmente, a prescindere
dall’iniziativa delle parti, con un’accentuazione dei
poteri istruttori del giudice esercitabile in ogni momento (art. 18, 11° comma, l. fall.), che male si giusti-
fica con il divieto dei nova all’iniziativa delle parti33.
Quindi sia il reclamante che il resistente non incontreranno il limite delle nuove deduzioni in fatto
e di un’iniziativa istruttoria diversa da quella svolta
in primo grado, con la possibilità di difese innovative soltanto se provocate dalla esigenza di contraddire all’intervento di un terzo interessato e/o
dalle iniziative dell’ufficio oppure soltanto dalla incolpevole decadenza in cui sono incorse ai sensi dell’art. 153 c.p.c. Sia il reclamante che il resistente
avranno agio di introdurre nuovi fatti e nuove prove,
senza limiti particolari34.
Neppure il limite della indispensabilità, già contenuto nella formula dell’art. 345, 3° comma, c.p.c.
limita l’iniziativa della parte sotto il profilo probatorio, non solo per il carattere nebuloso del concetto,
quanto per la totale liberalizzazione delle iniziative
consentite alle parti.
La unificazione di opposizione, impugnazione e
revocazione dello stato passivo in un unico rito disciplinato dalle stesse regole (artt. 98 e ss. l. fall.), differisce solo per aspetti secondari alla disciplina del
reclamo avverso la sentenza che dichiara il fallimento35.
Non può non essere più eloquente la disciplina
dei contenuti del ricorso (art. 99, 2° comma): “3)
l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si
basa l’impugnazione e le relative conclusioni”, che riproduce la dizione del reclamo avverso la sentenza
che dichiara il fallimento, ma soprattutto: “4) a pena
di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi
di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti”, ove deve essere colta la totale liberalizzazione all’ingresso di nuove difese. La posizione
del convenuto è regolata nello stesso modo: “una memoria difensiva contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti” (6° comma).
Si badi bene, se la diversità di regime dell’appello,
rectius reclamo, contro la sentenza che dichiara il
fallimento può essere astrattamente giustificata dal
rilievo di interessi non solo di natura privatistica o
particolare, questa ratio non può estendersi ai gravami regolati nell’ambito dell’accertamento del passivo, dove i crediti o i diritti reali dedotti sono situazioni private e individuali, deducibili in un processo
pienamente dispositivo.
Naturalmente a fronte di eccezioni e prove nuove,
all’udienza “il giudice.. provvede all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori”36.
La disciplina è identica in tutti i gravami regolati,
apparentemente nelle forme camerali, all’interno
della legge fallimentare, ad esempio i reclami avverso i decreti del tribunale, art. 26, 7° e 10° comma,
dove sono richiamate disposizioni dello stesso
tipo37.
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STUDI E RICERCHE
10. Segue. Nelle controversie di famiglia.
Il fenomeno è meno evidente ma pure presnete
nelle controversie di famiglia, dove ha grande rilievo
come nel diritto fallimentare l’espansione del rito
camerale, perché in questo contesto il rinvio agli
artt. 737 ss. c.p.c. è pieno e l’elaborazione è prevalentemente giurisprudenziale, tacendo il legislatore
sulle regole da applicare al processo.
Nel recente episodio normativo sulla filiazione
naturale, ad esempio, la legge. n 219 del 2012, con
la novellazione dell’art. 38 disp. att. c.p.c., ha preferito il richiamo tout court alle disposizioni degli
artt. 737 ss. c.p.c. (“in quanto compatibili”), piuttosto
che una nuova disciplina ad hoc del rito camerale
contenzioso, e previsto un reclamo camerale alla
corte di appello contro i decreti del tribunale specializzato.
Ugualmente nel caso dell’appello contro le sentenze di separazione e divrozio (peraltro disciplinato
solo in relazione alla sentenza non definitiva sulla
separazione, art. 709- bis c.p.c. e più ampiamente per
ogni tipo di sentenza nell’art. 4, 15° comma della
legge n. 898 del 1970, sul divorzio38) oppure del rito
della modifica ex art. 710 c.p.c. (o art. 9 legge n. 898,
cit.), si richiamano genericamente le forme del rito
in camera di consiglio.
A tali ipotesi, in occasione della trasmigrazione
delle materie dal tribunale per i minorenni al tribunale ordinario, dovuto ancora alla legge n. 219 del
2012, si aggiungono le nuove competenze, anche per
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ragioni di connessione, ereditate da quest’ultimo organo, regolate pure esse secondo il rito camerale e
dunque assoggettate, quando al gravame, al reclamo
camerale ex art. 739 c.p.c.
Si può così dire che l’intera materia delle controversie familiari, salvo poche eccezioni, affida al rito
camerale l’appello.
In questo ambito, a differenza della esperienza
normativa del diritto fallimentare, ove il richiamo
alle forme camerali e poco più che una vuota classificazione, ove si regolano analiticamente veri e
propri procedimenti a cognizione piena, esiste un
semplice rinvio alle forme degli artt. 737 e ss. c.p.c.
È noto, tuttavia, come il procedimento in camera
di consiglio, pur nella parsimonia di norme, non
possa essere colmato puramente e semplicemente
mediante il richiamo a disposizioni che regolano il
processo ordinario o sommario di cognizione, trattandosi di un rito autosufficiente, irriducibile a regole applicabili ad altri riti, salvo che esso non deroghi o non si presti al rispetto delle garanzie costituzionali del giusto processo39.
Ne consegue la inapplicabilità al reclamo camerale contro i decreti in materia di famiglia o le sentenze di separazione e divorzio delle disposizioni
dell’appello comune, ma esclusivamente delle regole dell’art. 739 c.p.c.40
La materia, peraltro come già veduto (cfr. par. 5)
colma di situazioni indisponibili, giustifica sotto
questo particolare profilo l’impossibilità di imporre
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limiti formali all’impugnativa o preclusioni alla allegazione e prova di fatti41, ma a tale risultato si può
giungere anche semplicemente attraverso l’applicazione dell’art. 739 c.p.c., che manca di ogni riferimento espresso a norme come quelle contenute negli artt. 342, 345 e 348-bis c.p.c., e la sua specificità rispetto all’appello di diritto comune42, perciò assolutamente inapplicabili.
Peraltro è da sottolineare come già si è detto (par.
5) che la presenza in molti procedimenti del p.m.,
che deve intervenire obbligatoriamente, impone
l’applicazione dell’art. 348 - bis, 2° comma, c.p.c., ovvero esclude il rilievo della ragionevole probabilità
di mancato accoglimento come profilo di inammissibilità, secondo il regime comune.
Il rito camerale, contro il quale si sono rovesciati gli
strali degli interpreti e degli operatori perché privo di
regolamentazione e quindi di garanzie giurisdizionali, per una sorta di paradosso, dopo la recente riforma dell’appello comune, diventa il luogo dove le
garanzie di un pieno dispiegamento dell’appello,
come gravame, senza limiti alle novità novità difensive e senza l’esasperazione dei tecnicismi della deduzione del motivo, ha modo di espandersi sena remore e recuperare le garanzie che invece ha irrimediabilmente perso il processo a cognizione piena.
Note
1
Il limite alla devoluzione impresso dalla domanda di appello (“tantum devolutum quantum appellatum”), costituisce espressione del principio dispositivo impresso al processo dalla codificazione napoleonica (cfr. Perrot, Le principe du double degré
de jurisdiction en droit judiciare privé francais, in Studi Liebman, III, Milano 1979, 1971), non si radica nella matrice storica dell’istituto, caratterizzato da un principio devolutivo automatico, che affidava al secondo giudice la cognizione piena, a prescindere dalla iniziativa (“communio appellationis”, Costituzione Ampliores del 530 di Giustiniano, cfr. Orestano, L’appello civile
in diritto romano, Torino, 1953, passim e Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, Milano, 1967-1970, passim).
2
Cfr. Mortara, Appello civile, in Digesto italiano, I, Torino, 1890, passim; Cerino Canova, Le impugnazioni civili, Struttura e funzione, Milano, 1973, passim.
3
Invero, sotto questo particolare profilo, è la novella del 1950 che intervenne sull’art. 345 c.p.c., con una formulazione in
vigore per quaranta anni, in quanto nell’impianto originario, coerente con l’introduzione di preclusioni al materiale cognitivo del giudizio di primo grado, pure esse eliminate dalla stessa novella, ammetteva nuove eccezioni e nuove prove solo
per “gravi motivi”, cfr., Ferri, Profili dell’appello limitato, Padova, 1979, 120. Per una ricostruzione storica vedi altresì Bonsignori, Il divieto di domande e di eccezioni nuove in appello, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1998, 66. Per un affermazione giurisprudenziale, Cass., 28 maggio 2003, n. 8501, in Gius, 2003, 2518.
4
Non sembra affatto incoerente un appello che riapra alle difese delle parti, ancorché preceduto da un giudizio di primo
grado sotto i rigori del principio di preclusione, la riprova positiva è l’esperienza del processo abbreviato dell’art. 702 - bis
c.p.c. assoggettato a severe preclusioni in primo grado, a fronte della liberalizzazione del giudizio di appello, almeno in relazione alle prove, secondo il tenore originario dell’art. 702 - quater c.p.c.
5
Cfr. Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 128; Montesano-Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro,
Napoli, 1984, 117; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 178; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, IV ed., Milano, 1999, 147.
6
Per cui le stesse Sezioni Unite hanno chiarito che attraverso tale impulso il giudice deve dissipare le incertezze sulla esistenza dei fatti rilevanti, anche supplendo all’inerzia delle parti e non applicando pedissequamente la regola dell’onere
della prova (non potendo essere la decadenza della parte un limite all’esercizio del potere istruttorio, quanto piuttosto la
ricerca della verità), cfr. Cass., sez. un., 17 maggio 2004, in Foro it., 2005, 1, 1135 nota di Fabiani,
7
Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, 2ª ed., Milano, 2002, 295; Balena, Il sistema delle impugnazioni civili nella
disciplina vigente e nell’esperienza applicativa: problemi e prospettive, in Foro it., 2001, V, 122; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 162; Consolo, Luiso, Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, 2ª ed., Milano, 1996, 382;
Proto Pisani, Note sulla struttura dell’appello civile e suoi riflessi sulla Cassazione, in FI, 1991, I, 109; Vaccarella, Le linee generali del
nuovo processo civile: a proposito dei «provvedimenti urgenti» approvati dal Senato, in Doc. Giust., 1990, 19; Olivieri, Verso la riforma
del processo civile, in Doc. Giust., 1990, 45.
8
Dopo il revirement della S.C. con le Sez. Un. Cass., 20 aprile 2005, n. 8203 e, quanto al rito del lavoro, Cass., 20 aprile 2005,
n. 8202, pubblicate in Foro it., 2005, 1690 con note di Dalfino, Barone e Proto Pisani; in riv. dir. proc., 2005, 1051, con nota di
Cavallone, in Corriere giur., 2005, 929, con nota di Ruffini e Cavallini.
9
Invero, qualche Autore ha autorevolmente adombrato che la norma legittimasse il giudice d’appello disporre d’ufficio i
mezzi di prova ritenuti indispensabili al fini della decisione, pur in difetto di espressa previsione al riguardo (Tarzia, Lineamenti, cit., 315), al fine di evitare di decidere la causa facendo ricorso alla regola dell’onere della prova. Ma la tesi non è da
tutti condivisa: vi è chi la reputa incomprensibile, a meno di dare alla legge un contenuto che altrove il legislatore ha espressamente specificato (Attardi, op. cit., 154); Consolo, Luiso, Sassani, op. cit., 389 notano che solo nel processo d’appello retto
dal rito del lavoro, diversamente che in quello ordinario, i mezzi di prova possono essere ammessi anche d’ufficio.
10
Quando la esistenza o inesistenza di un fatto sia stata accertata nella sentenza di primo grado sulla base della regola
dell’onere della prova (Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 213) o anche solo su un libero apprezzamento del giudice (Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 440)
11
Necessaria e decisiva per la pronuncia di conferma o riforma nel giudizio di secondo grado (Tarzia, Lineamenti, cit.,
316; Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997, 284; Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova,
2000, 188).
12
Riferita ai fatti per i quali è eccezionalmente ammessa la deducibilità oppure a fatti ricompresi in questioni esaminate
per la prima volta in appello, come accade quando la mancata assunzione della prova in primo grado è dipendente dall’avere
il giudice ritenuto assorbita la domanda o la questione cui la prova si riferiva (Consolo, Luiso, Sassani, op. cit., 391), cfr. anche Fornaciari, L’attività istruttoria nel rito civile ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice, in GI, 1999, 445; Vaccarella, Capponi, Cecchella, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 294.
13
Il riferimento ai motivi specifici dell’impugnazione era già presente fin dall’originaria formulazione della norma, ma
non nel codice del 1865; la sua introduzione nel 1942 era stata mutuata dall’appello nel processo penale (da ultimo Romano, Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d’appello civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000,
1208).
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STUDI E RICERCHE
14
Ai fini della specificazione dei motivi d’appello è sufficiente identificare i capi di sentenza che si vogliono sottoporre
a riesame per fare sì che al giudice di secondo grado siano automaticamente devolute tutte le questioni di fatto e di diritto
sollevate, o comunque conoscibili, in primo grado, che costituiscono antecedente logico necessario ai fini della pronuncia
sull’esistenza o sull’inesistenza della parte del rapporto sostanziale controverso devoluta al giudice d’appello (Liebman,
Manuale di diritto processuale civile, II, 4ª ed., Milano, 1984, 300, che parla di cognizione piena e aperta del giudice di secondo
grado sui capi di domanda investiti dall’impugnazione; Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 236; Cerino Canova,
Le impugnazioni civili, cit., 292, 584 e 590; Attardi, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it, 1961, IV, 153 e 160. In giurisprudenza sulla funzione del motivo in ordine all’effetto devolutivo, cfr. Cass., 2 febbraio 2005, n. 2041, in Arch. Giur. Circolaz., 2005, 1233.
15
In questo senso la giurisprudenza del secolo scorso, Cass. civ., 31 gennaio 1979, n. 703, mass.; Cass., 9 febbraio 1980, n.
911, mass.; Cass., 16 novembre1979, n. 5965, mass.;
16
Come aveva ritenuto Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro it, 1987, I, 3037 nota di Balena, dopo alcune oscillazioni, v. Cass., Sez. lav., 4 dicembre 1986, n. 7203, mass.; Cass., 27 giugno 1981, n. 4196, in Foro it., 1981, I, 2421.
17
Severità espressa in un noto revirement del giudice di legittimità, con Cass. sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro
it., 2006, 1436 e ss., che suscitò grande polemica in dottrina (si vedano le note ivi pubblicate di G. Balena, R. Oriani, A. Proto
Pisani, N. Rascio); v. anche Ronco, Appello e mancata (ri)produzione di un documento già prodotto in primo grado: onere della prova
sulla fondatezza del motivo di gravame od onere della prova sulla fondatezza della domanda devoluta al giudice dell’impugnazione?,
in Giur. it, 2007, 3, 672 ss.. Cfr. in senso conforme, Cass., 1 febbraio 2007, n. 2217, mass.; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2010, n. 7190,
mass.; Cass., 31 marzo 2010, n. 7786, mass. In dottrina vicini al mutamento di indirizzo della giurisprudenza, v. Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 220 ss.
18
Eloquente e suggestiva la parte motiva di App. Salerno, 1 febbraio 2013: “la suddetta norma obbliga l’appellante ad indicare
in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché è stato osservato che il lavoro
assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto - che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello - delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”… “la suddetta norma obbliga l’appellante
ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché è stato osservato che
il lavoro assegnato al giudice dell’appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di
cui si imponga l’emendamento, con conseguente innesto - che appare quasi automatico, giusta l’impostazione dell’atto di appello - delle
parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado”. Il giudice d’appello quindi come
un sarto “scuce e cuce” usando esclusivamente “la pezza” che deve fornirgli l’appellante.
19
Per i primi commenti largamente critici della dottrina processualistica, Caponi, Contro il nuovo filtro in appello e per un
filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it; Id, La riforma dell’appello civile, in Foro it., 2012, V, 292; Id, La riforma dei
mezzi di impugnazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012; Id, Rispetto all’obiettivo della crescita del paese gli interventi sul processo civile sono adeguati?, in Guida al diritto, 2012, 33- 34, 9; Consolo, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in www.judicum.it; Id, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a rischio di svaporamento, in Corriere giur.,
2012, 10; Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in www.treccani.it; De Cristofaro, Appello e cassazione
alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in
www.judicium.it; Dalfino, Premessa a L’appello e il ricorso per cassazione nella riforma del 2012 (d.l. 83/12, convertito con modificazioni in l. 134/12), in Foro it., 2012, V, 281; M. Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, in Foro it., 2012, V, 282; Galletto, “Doppio filtro” in appello, “doppia conforme”e danni collaterali, in www.judicium.it; Impigniatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle
impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l. 83/2012, in www.judicium.it; Id, Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, in Foro it., 2012,
V, 295; Monteleone, Il processo civile in mano al governo dei tecnici, in www.judicium.it; Pagni, Gli spazi per le impugnazioni dopo la
riforma estiva, in Foro it., 2012, V, 299; Panzarini, Commento agli artt. 348 bis, 348 ter, 382 bis, 383, 436 bis, 447 bis, comma 1, c.p.c.,
in AA.VV., Semplificazione dei procedimenti civili, nuovi riti speciali e modifiche alla disciplina delle impugnazioni in materia civile dopo
la riforma del mercato del lavoro e il decreto sviluppo, Torino, 2012; Russo, Dialoghi sulle impugnazioni civili al tempo della spending
review, in www.judicium.it; Sassani, Alla difficile ricerca di un “diritto” per il processo civile, in www.judicium.it; Scarselli, Sul nuovo
filtro per proporre appello, in Foro it., 2012, V, 287; Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it.
20
È quanto afferma in parte motiva App. Roma, 30 gennaio 2013, in Foro it., 2013, Anticipazione e novità, 35; conf. App. Bari,
18 febbraio 2013, ibidem; in senso contrario, invece, App. Palermo, 25 marzo 2013, in www.Il caso.it, in un caso in cui la ragionevole probabilità di rigetto era fondata sui precedenti della Corte in relazione ad una controversia seriale.
21
Conf, Balena, La nuova pseudo riforma della giustizia civile, in Il giusto proc. civ., 2009, 749 ss.; Biavati, Appunti introduttivi
sul nuovo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 121; Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it; Sassani, A.D. 2009: ennesima riforma al salvataggio del rito civile. Quadro sommario delle novità riguardanti il processo
di cognizione, in www.judicium.it.; Bove, Il procedimento sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ., 2010, 722 ss. In giurisprudenza, conf., Trib. Varese, 18 novembre 2009, in Il caso. it; Trib. Sulmona, 6 ottobre 2010, ibidem. In senso contrario invece,
per una qualificazione in termini di processo sommario di cognizione, Carratta, Nuovo procedimento sommario di cognizione
e presupposto dell’istruzione sommaria: prime applicazioni, in Giur. it., 2010, 902 ss.; Luiso, Il procedimento sommario di cognizione,
ivi, 2009, V, 1568; Menchini, Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici introdotto con la riforma del 2009,
in Il giusto proc. civ., 2009, 1100 ss.; Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura),
in Foro it., 2009, V, 223; Romano, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ., 2010, 165 ss. Cfr.
altresì gli atti del Convegno di Volterra del 2011, in Quaderni volterrani del diritto/1, Il processo sommario e la riforma dei riti, a
cura di C. Cecchella, Pisa, 2012, con relazioni di Mondini e Cecchella e una completa rassegna di giurisprudenza di Campione e Maffei.
22
In senso contrario, per una piena applicazione delle norme sull’appello, invece, anche quanto a specificità dei motivi,
App. Roma, 11 maggio 2011, in Il caso. it., la quale è giunta a ritenere la piena applicazione anche dell’art. 345 c.p.c. Per una
diversa interpretazione v. infra nel testo.
23
Si deve tuttavia dire che proprio la contraddittorietà della lettera ha spinto altra dottrina a cercare una razionalizzazione attraverso l’applicazione tout court dell’art. 345 c.p.c., seppure con una certa forzatura alla norma, così Diettrich, Il nuovo
procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1582 ss.; Bove, Il procedimento, cit., 431 ss. In senso contrario e condivisibilmente Mondini, Il nuovo giudizio sommario: ambito di applicazione e struttura del procedimento, potuto consultare dal dattiloscritto per la cortesia dell’Autore, 29-30, il quale richiama il rilievo costituzionale del diritto alla prova che deve avere attuazione almeno in una fase o grado del processo). Invece risolve la contraddittorietà attraverso la soluzione più liberale
anche Luiso, Diritto processale civile, IV, Milano, 2009, 121.
24
Cfr. Mondini citato nella nota che precede.
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25
Spunti già sotto il regime previdente in Balena, Il procedimento, cit., 332; Lombardi, Il procedimento sommario di cognizione
generale, in Il giusto proc. civ., 2010, 2, 492.
26
Sull’istituto, v. Attardi, Le ordinanze di condanna nel giudizio ordinario di cognizione di primo grado secondo la legge di riforma,
in GI, V, 1992, 211; Carratta, Ordinanze anticipatorie di condanna, in Enc. giur., XXII, Roma, 1995, 4; Cea, Ordinanze anticipatorie e
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in Foro it., 2004, Iv, 121; Cirulli, Le condanne anticipate nel processo civile di cognizione,
in Basilico, Cirulli, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1999, 460; Civinini, Le condanne anticipate, in Foro it., 1995, IV, 122;
Comoglio, I procedimenti anticipatori, in Taruffo (a cura di), Le riforme della giustizia civile, 2ª ed., Torino, 2000, 254.
27
Carratta, I procedimenti cameral-sommari in recenti sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1992, 1049 e
ss., esclusa dalla Corte cost., 23 dicembre 1989, n. 573, in Foro it., 1990, I, 365, per il generale dibattito, Allorio, Saggio polemico
sulla giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 487; Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento
camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 431 ss.; Lanfranchi, La cameralizzazione del giudizio sui diritti soggettivi, in Giur. it., 1987, IV, 34; Proto Pisani, Usi ed abuso della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c.. in Riv. dir. civ., 1990, I, 393 ss.
28
Come è stato colto immediatamente, fondandone l’intera ricostruzione dell’istituto, cfr. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Padova, 2012, 142 ss. e, se vuoi, Cecchella, Il processo per la dichiarazione di fallimento. Un rito camerale
ibrido, Padova, 2012, 93 ss.
29
Lo afferma Cass., 28 ottobre 2010, n. 22110, in Fall., 2011, 291 e ss., la quale ha cassato la sentenza della Corte di appello
che ha dato rilievo al mancato rispetto dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1, 2 comma, l. fall., a cui non aveva fatto riferimento nella sua prospettazione il reclamante. La sentenza è criticata da A. Tedoldi, Il rito cameral-fallimentare e l’efficacia
devolutiva del reclamo ex art. 18, l. fall., loc. ult. cit; ad essa aderisce, invece, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento,
cit., 318.
30
Sulla scia di tale giurisprudenza si pone invece, anche per il reclamo fallimentare, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 318 e ss.,
31
Conf., G. Minutoli, Sub art. 18, legge fallimentare. Commentario teorico-pratico a cura di M. Ferro, Padova, 2011, 254; contra,
sotto il regime previgente, Cass., 17 luglio 2007, n. 15952, mass.; contra, altresì, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di
fallimento, cit., 321, n. 71.
32
Contrariamente all’orientamento della giurisprudenza sotto il regime previgente, la quale sullo stimolo all’epoca di
un’iniziativa officiosa anche in relazione all’iniziativa introduttiva, assumeva il potere-dovere del giudice del reclamo di verificare, anche d’ufficio, la sussistenza dei presupposti, prescindendo dalla riproposizione della parte, v. ex plurimis, Cass.,
17 marzo 1997, n. 2323, in Fall., 1998, 29; conf., anche dopo la riforma, coerente con un’impostazione che ricostruisce caratteri
latu sensu inquisitori all’intero procedimento, v. G. Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo di fallimento, cit., 355; conf.,
invece, M. Fabiani, sub art. 18, Il nuovo diritto fallimentare a cura da A. Jorio e M. Fabiani, cit., 371 e ss.; F. De Santis, Il processo
per la dichiarazione di fallimento, cit., 324.
33
In tale direzione esattamente, Cass., 5 novembre 2010, n. 22546, in Fall., 2011, 22; non in linea sembrerebbe, Cass., 28 ottobre 2010, n. 22110, in Fall., 2011, 291 e ss.; in senso contrario v. F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit.,
324, l’Autore argomenta, portandolo alle estreme conseguenze, dalla pur condivisibile assimilazione dello strumento fallimentare alla cognizione piena dell’appello ordinario.
34
Conf. App. Torino, 21 ottobre 2008, in Fall., 2009, 239.
35
Per una consapevole qualificazione in termini di processo a cognizione piena anche dell’accertamento del passivo, cfr.
Fabiani, sub art. 99, in Aggiornamento al d. lgs. 169/2007, diretto da A. Jorio, Bologna, 2007, 42; Costantino, in La riforma della
legge fallimentare, Torino, 2006, 567.
36
Nonstante la chiara lettera della disposizione, su cui vedi Fabiani, Impugnazioni dello stato passivo, raccordo con il procedimento sommario e preclusioni, in Foro it., 2008, 633 ss.; Ferri, La formazione dello stato passivo nel fallimento: procedimento di primo
grado e impugnazioni, Riv. dir. proc., 2007, 1272; conf. in giurisprudenza, Trib. Milano, 4 marzo 2008, in Fall., 2008, 667; in senso
contrario, teorizzano un gravame chiuso secondo il regime comune, Scarselli, in Manuale di diritto fallimentare, Milano 2007,
300; Nardecchia, Opposizioni allo stato passivo, in Le insinuazioni allo stato passivo, a cura di M. Ferro, Padova 2006, 96; e in
giurisprudenza, Trib. Firenze 21 novembre 2007, in Fall., 2008, 581 e Trib. Treviso 16 novembre 2007, in Foro it. 2008, I, 634 con
nota critica di Fabiani; per una tesi intermedia che fonda la novità su di un’autorizzazione del giudice, sul modello dell’art.
420 c.p.c., Canale, La formazione dello Stato passivo e il sistema delle impugnazione, in La riforma della legge fallimentare, a cura di
Ambrosini, Torino, 2006, 207, ma anche questa testi non trova conforto nella lettera della norma.
37
Considerata la disciplina standard del rito camerale ibrido, Vitiello, L’accertamento del passivo nella riforma della legge fallimentare, in Atti Convegno C.i.s. (Valmadrera, 18 gennaio 2008), Milano 2008, 12.
38
Prima ancora si era dubitato che la camera di consiglio valesse solo per la fase decisoria, dovendo l’appello essere regolato dalle forme ordinarie nella fase introduttiva e di trattazione, ma il profilo è stato risolto nel senso della generalizzazione delle forme camerali, cfr. Cass., 4 gennaio 1991, n. 37, in Foro it., 1991, I, 1119, con nota critica di Cipriani; Cass., sez.
un., 3 maggio 1991, n. 4876, in Foro it., 1992, I, 473 ss. La tesi della non estensibilità del rito camerale all’appello contro la sentenza definitiva era sostenuta da Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 sul c.d. affidamento condiviso dei figli, in Dir.
fam. e pers., 2006, 1864; in senso contrario invece Tommaseo, La disciplina processuale della separazione e del divorzio dopo le riforme del 2005 (e del 2006), in Fam. e dir., 2006, I, 12; Danovi, Il procedimento di separazione e divorzio alla luce delle ultime normative, in Le prassi giudiziali nei procedimenti di separazione e divorzio, Torino, 2007, 156;
39
È significativo al riguardo come in relazione all’art. 9 della legge n. 898 del 1970 la Corte abbia pronunciato la sua incostituzionalità la dove non risulta un pieno svolgimento del diritto alla prova della parte, Corte cost., 10 luglio 1975, n. 202,
in Foro it., 1975, I, 1575. Si devono richiamare le numerose pronunce di incostituzionalità che hanno segnato la legge fallimentare prima della riforma.
40
In senso contrario, Carnevale, La fase a cognizione piena, in I processo di separazione e divorzio, a cura di Graziosi, Torino, 2011,
122, nota 128 che ritiene tout court applicabile l’art. 345 c.p.c. Sui dubbi interpretativi di un richiamo lacunoso vedi l’interessante scritto di Massetani, L’appello nel giudizio di separazione e divorzio, in Dal reclamo all’appello: le impugnazioni nei procedimenti per separazione e divorzio, a cura di C. Cecchella, Pisa, 2008, 95.
41
Cfr. in particolare il saggio sulle peculiarità del processo familiare quando ha ad oggetto situazioni indisponibili di
Luiso, Le tutele processuali, in La riforma del processo per separazione e divorzio, a cura di Claudio Cecchella, Pisa, 2007, 37 ss.
42
Tanto che la Consulta ha ammesso la costituzionalità del rinvio alle regole del rito camerale, nella disciplina dell’appello per le controversie di separazione e divorzio, purché - oltre al contraddittorio - fosse grantito in concreto il diritto alla
prova nella sua pienezza, come acquisizione della prova precostituita e assunzione della prova costituenda, la difesa tecnica, l’impugnativa incidentale, cfr. Corte cost, 14 dicembre 1989, n. 543 e Corte cost., 23 dicembre 1989, n. 573, in Foro it.,
1990, I, 365.
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IL RISARCIMENTO
DEL DANNO
ENDOFAMILIARE
MAURO PALADINI
ORDINARIO DI DIRITTO PRIVATO UNIVERSITÀ DI MILANO
Relazione tenuta al convegno organizzato dall’Osservatorio Nazionale del Diritto di Famiglia Sezione di Udine, il 22 marzo 2012
Sommario: 1. Premessa. 2. I precedenti accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità. 3. La svolta giurisprudenziale del 2005 e
i connessi profili problematici di carattere processuale. 4. Separazione consensuale e diritto
al risarcimento del danno. 5. L’esercizio abusivo del c.d. diritto “potestativo” alla separazione. 6. L’illecito nel rapporto tra genitori e figli: il rifiuto di assumere il ruolo di genitore.
7. Considerazioni critiche sugli orientamenti
giurisprudenziali. 8. I fatti illeciti connessi all’esercizio della potestà. 9. I fatti illeciti estranei alla funzione genitoriale. 10. Esclusione
dell’azione di regresso da parte del figlio. 11. Il
diritto del figlio al risarcimento del danno per
violazione degli obblighi coniugali. 12. Il diritto del genitore al risarcimento del danno
per fatto illecito del figlio. 13. Conclusioni.
1. Premessa
La previsione formulata da autorevole dottrina
dalle pagine della Rivista di Diritto Civile sin dal
1981 - secondo cui sarebbe stato «sempre più frequente il ricorso al giudice per il risarcimento dei danni
da parte del familiare che ha subito l’illecito» - ha trovato puntuale riscontro nel corso dei successivi decenni sia nell’ambito delle relazioni tra coniugi sia
con riferimento al rapporto tra genitori e figli.
Certamente superato un presunto principio generale di “immunità” - che, invero, a differenza di
quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America a partire dalla fine del XIX secolo, non risulta mai essere
stato né codificato né affermato negli ordinamenti
europei - anche le relazioni familiari si confrontano
oggi con l’espansione, talvolta prorompente, della
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responsabilità civile e impongono all’interprete il
delicato compito di delineare i limiti al rimedio risarcitorio connaturali alla peculiarità di una relazione interpersonale caratterizzata non soltanto da
diritti o doveri reciproci, ma soprattutto dal fondamento naturale del vincolo affettivo e/o biologico.
La giurisprudenza italiana manifesta sempre
maggiore consapevolezza della necessità di rendere
le condotte poste in essere in violazione degli obblighi coniugali e genitoriali oggetto di valutazioni giuridiche compiute sul piano dell’ “ingiustizia” del
danno e della necessità di garantire l’adeguato ristoro ai pregiudizi della personalità dei singoli componenti della famiglia. Con specifico riferimento ai
rapporti tra coniugi, la tassatività degli effetti dell’addebito fa sì, nella pratica, che il coniuge economicamente più debole (non obbligato, pertanto, al
mantenimento dell’altro), pur in presenza di gravi
violazioni degli obblighi coniugali, preferisca alla richiesta di addebito la domanda di risarcimento del
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.
2. I precedenti accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità
Timidi accenni di convergenza tra famiglia e responsabilità potevano essere rinvenuti già nell’ambito della Riforma del diritto della famiglia del 1975,
che - oltre alla significativa (e sempre attuale) figura
della responsabilità per rottura della promessa di
matrimonio, già prevista nel testo anteriore del Codice - introdusse l’art. 129 bis c.c., che, nel caso di
annullamento del matrimonio, riconosce il diritto
del coniuge in buona fede a una congrua indennità
a carico dell’altro coniuge o del terzo, cui sia imputabile la
nullità del matrimonio. Nella direzione della convergenza di istituti muove, invero, l’interpretazione
della norma adottata dalla Suprema Corte, secondo
la quale, ai fini della responsabilità ex art. 129 bis c.c.
del coniuge in mala fede cui sia imputabile la nullità
del matrimonio, non è sufficiente la riferibilità oggettiva della causa di invalidità e non basta neppure
la consapevolezza, certa o probabile, di essa, occorrendo altresì un comportamento ulteriore, commissivo od omissivo del responsabile, contrario al dovere generale di correttezza, che abbia contribuito
alla celebrazione del matrimonio nullo.
Nell’ipotesi di inadempimento della c.d. promessa
“solenne” di matrimonio, mentre la restituzione dei
doni consegue al mero fatto dalla mancata celebrazione del matrimonio, l’obbligo di risarcimento dei
danni sussiste soltanto a carico del promittente che
rifiuti di adempiere la promessa senza giusto motivo
ovvero che, con la propria colpa, offra giusto motivo al
rifiuto dell’altro. Rispetto al problema se l’obbligazione risarcitoria disciplinata dall’art. 81 configuri
un’ipotesi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, è prevalsa l’opinione secondo cui la norma lungi dal contenere un’ipotesi di responsabilità in
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senso tecnico - è una “particolare espressione del
principio, valevole in tema di contratti, secondo il
quale chi ha dato causa alla inoperatività del negozio deve rimborsare all’altra le spese inutilmente
erogate”. L’oggetto dell’obbligazione, pertanto, è costituito da un indennizzo commisurato ex lege a parametri predeterminati e circoscritto alle spese fatte
ed alle obbligazioni contratte dal promissario, con
esclusione del danno non patrimoniale.
Tuttavia superando un precedente orientamento
restrittivo della giurisprudenza di merito la Suprema Corte aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore della donna sedotta a
fine di matrimonio, affermando che il seduttore ha
l’obbligo del risarcimento del danno perché compie un’attività dolosa ....intesa a far credere alla serietà della promessa di matrimonio o a vincere la ritrosia o il pudore
della donna e a determinarne la volontà; e, inoltre, tale da
stabilire un nesso di causalità fra la promessa e la c.d.
traditio corporis, da parte della donna.
Ancora agli inizi degli anni ‘90, peraltro, la giurisprudenza ribadisce che, nell’ambito dei rapporti interni ai coniugi in sede di separazione personale, la
tutela risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, che presuppone la lesione di una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto, mentre, l’addebito della separazione ad un coniuge comporta solo gli effetti previsti
dalla legge, ma non realizza la violazione di un diritto dell’altro coniuge.
La separazione personale - si afferma - costituisce un
diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà
della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi, - proprio
in omaggio al principio secondo cui “inclusio unius, esclusio alterius”, - che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquilana ex
art. 2043 c.c.
Una prima apertura si riscontra nella sent. 26
maggio 1995 n. 5866, nella quale si afferma che l’addebito della separazione, di per sè considerato, non è fonte
di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., ma
…la risarcibilità dei danni ulteriori è configurabile solo se
i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli
estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di
responsabilità espressa dalla norma citata.
3. La svolta giurisprudenziale del 2005 e i connessi profili problematici di carattere processuale
La vera svolta è intervenuta - com’è noto - con
Cass., sez. I, 10 maggio 2005 n. 9801, che riconobbe
l’obbligo di risarcimento del danno a carico del coniuge che, prima della nozze, non aveva informato
la donna della sua impotenza a generale e, dopo le
nozze, aveva rifiutato di sottoporsi alle necessarie
cure. Richiamando l’orientamento in punto di
danno non patrimoniale inaugurato da Cass. nn.
8827-8828 del 2003, la pronuncia stabilisce che il riaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 25
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spetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di
un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro
componente costituisce il presupposto della responsabilità civile.
La circostanza che il comportamento del coniuge
costituisca causa della separazione o del divorzio
non esclude che esso possa integrare gli estremi di
un illecito civile, purché la condotta del coniuge, per
la sua intrinseca gravità, si ponga come un’aggressione a diritti fondamentali della persona.
La giurisprudenza di merito successiva si è conformata con immediatezza a tale apertura, fino a
rendere ius receptum che la condotta di un coniuge,
all’interno della relazione coniugale, può configurare un fatto lesivo della dignità, della libertà dell’altro, tale da essere qualificato alla stregua di fatto
illecito fonte di responsabilità extracontrattuale.
Non sono mancati, tuttavia, profili problematici
che hanno riempito i numerosi dibattiti dottrinali e
le riflessioni degli operatori con riguardo ai limiti, ai
presupposti e alle modalità per far valere la responsabilità da violazione dei doveri tra coniugi.
Un primo problema è di carattere strettamente
processuale, ma denso di significative ripercussioni
pratiche e in grado di condizionare l’ambito di rilevanza dei presupposti sostanziali: è il problema dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del
danno nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio.
26 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità ritiene la natura speciale del rito di separazione e divorzio e, pertanto, afferma l’inammissibilità di domande diverse nell’ambito di tali procedimenti. In
senso contrario, tuttavia, è stato osservato che i procedimenti di separazione e divorzio, sebbene introdotti con ricorso e caratterizzati da una prima fase
a cognizione sommaria dinanzi al Presidente del Tribunale, si sviluppano nella successiva fase a cognizione piena secondo il modulo procedimentale del
rito ordinario, di cui sono richiamate le relative disposizioni e di cui sono pertanto applicabili le relative decadenze e preclusioni.
In tale successiva fase le deroghe rispetto agli artt.
163ss. c.p.c. sono alquanto marginali e poco significative, tenuto conto, del resto, che:
1) la sentenza non definitiva sullo status è considerata non una deroga, ma un’applicazione dell’art. 277, comma 2, c.p.c.;
2) i poteri officiosi del giudice costituiscono la proiezione processuale della tutela sostanziale dei
minori e sono conferiti all’organo giudicante a
prescindere dal rito, come confermato dal
comma 2 dell’art. 4 della legge 8 febbraio 2006,
n. 54;
3) gli eventuali sub-procedimenti ex art. 709 ter
c.p.c., quali parentesi che attengono all’attuazione dei provvedimenti relativi alla potestà genitoriale ed all’affidamento dei minori, sono assimilabili a sub-procedimenti che caratteriz-
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zano altri giudizi a rito ordinario (si pensi, ad
esempio, ai procedimenti concernenti l’attuazione dei provvedimenti cautelari emessi nel
corso del giudizio di merito);
4) il giudice istruttore, nonostante l’inapplicabilità
dell’art. 183, comma 3, c.p.c., può sempre disporre la comparizione delle parti ai sensi dell’art. 117 c.p.c.
Neppure il rito camerale nel giudizio di appello
costituisce una significativa deviazione rispetto al
modello procedimentale del c.d. rito ordinario, posto
che esso è previsto con una finalità di agevolazione
e accelerazione del procedimento.
Pertanto, la qualificazione del rito dei procedimenti di separazione e divorzio in termini di rito ordinario, renderebbe ammissibile la contestuale proposizione di tutte le domande connesse, soggette a
rito ordinario e, per quanto qui rileva, della domanda di risarcimento del danno per violazione dei
doveri familiari.
La domanda di risarcimento del danno, peraltro,
introduce elementi storici di valutazioni che non
solo non possono ritenersi estranei ai fatti costitutivi della separazione o del divorzio, ma presentano
profili di coincidenza tali da far ritenere che la trattazione unitaria della domanda di addebito e di risarcimento del danno risponda, altresì, ad esigenze
di economia processuale.
Non sussiste, invece, una connessione tecnica tra
la domanda di risarcimento del danno e la domanda
di addebito: pur presentando la fattispecie di addebito e la fattispecie dell’illecito endofamiliare una
parziale identità di fatto storico, ovvero l’elemento
comune della violazione dei doveri coniugali, l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno
non appare dipendere dall’accoglimento della domanda di addebito.
La violazione dei doveri coniugali assume un diverso rilievo nelle due fattispecie:
- in quella di addebito si pone come causa della
intollerabilità della prosecuzione della convivenza;
- in quella di illecito come causa del danno ingiusto;
È quindi possibile che la domanda di addebito sia
rigettata nel caso in cui sia escluso o comunque non
sia dimostrato il nesso di causalità tra la violazione
dei doveri coniugali di un coniuge e la crisi familiare,
ed al contrario la domanda di risarcimento del
danno sia accolta, nel caso in cui sia provato che la
violazione dei doveri coniugali perpetrata da un coniuge, pur non essendo la causa della crisi familiare,
ha determinato un danno ingiusto all’altro coniuge.
Ciò consente di affermare che la domanda di risarcimento del danno possa essere proponibile nel
giudizio di separazione o divorzio, anche in assenza
della contestuale proposizione della domanda di addebito.
Un altro problema che si pone è quello del momento in cui debba essere proposta la domanda di
risarcimento del danno all’interno del giudizio di
separazione o divorzio.
A proposito della domanda di addebito, la SC
(Cass., sez. I, 7 dicembre 2007 n. 25618; Cass. 2818
del 2006) afferma che nel giudizio di separazione
personale dei coniugi la domanda di addebito:
- se proposta dall’attore, deve essere inserita nell’atto introduttivo del giudizio, esorbitando dalla
semplice “emendatio libelli” consentita in corso
di causa;
- se presa dalla parte convenuta, è soggetta ai
tempi ed ai modi della riconvenzionale;
- non è configurabile la “reconventio reconventionis”.
Non pare che le stesse affermazioni possano essere formulate anche con riguardo alla domanda di
risarcimento del danno.
4. Separazione consensuale e diritto al risarcimento del danno
L’intervento della Suprema Corte del settembre
2011 ribadisce che la violazione dei doveri che derivano dal matrimonio non trova sanzione unicamente nelle misure tipiche quale l’addebito della separazione, ma, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, integra gli estremi dell’illecito civile e dà luogo al risarcimento dei danni non
patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.
La sentenza si segnala per aver affermato che la
mancanza della pronuncia di addebito in sede di separazione non è preclusiva dell’azione di risarcimento dei danni, non solo allorché, nell’ambito
della separazione giudiziale, l’addebito non sia stato
richiesto, ma anche nel caso in cui sia stato scelto il
procedimento di separazione consensuale. Si può
affermare, in altri termini, che l’adesione volontaria
alla separazione personale non implica rinuncia all’accertamento delle cause della crisi del matrimonio, in quanto giudizialmente accertabili solo nel
giudizio di separazione con specifica domanda di
addebito. Anche in seguito a separazione consensuale, pertanto, il coniuge può a far valere i pregiudizi personali conseguenti alla violazione degli obblighi coniugali.
Allo stesso modo, ove nel giudizio di separazione
non sia stato domandato l’addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma
unicamente in relazione al “petitum” azionato e non
sussiste, pertanto, alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei
doveri nascenti dal matrimonio.
La violazione degli obblighi coniugali attribuisce
il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., in presenza delle seguenti
condizioni, così come stabiliti nelle sentenze delle
Sezioni Unite del 2008:
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 27
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- che la violazione del dovere di fedeltà abbia provocato la lesione di un diritto costituzionalmente
protetto, posto che il danno, per essere a tal fine
rilevante, non può consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e dalla percezione dell’offesa che ne deriva - obbiettivamente insita nella violazione dell’obbligo di fedeltà - di per sé non risarcibile costituendo pregiudizio derivante da violazione di legge ordinaria;
- la lesione dell’interesse costituzionalmente protetto può verificarsi, ove si dimostri - ad esempio
- che l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato
luogo (con prova del nesso di causalità) a lesione
della salute del coniuge o della dignità della sua
persona;
- che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso
che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, come impone il dovere di solidarietà di cui
all’art. 2 Cost. o che il danno non sia futile, ma
abbia una consistenza che possa considerarsi
giuridicamente rilevante.
La Suprema Corte accoglie, dunque, la tesi secondo cui l’offesa derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà non sarebbe di per sé risarcibile,
perché il diritto alla fedeltà sarebbe sancito esclusivamente nella legge ordinaria e non avrebbe tutela
costituzionale.
Proprio in applicazione di tali principi, in una successiva pronuncia, la Suprema Corte ha confermato
la sentenza di merito, che - nonostante l’addebito
della separazione al coniuge infedele - aveva negato
il risarcimento al coniuge vittima dell’infedeltà, in
difetto di prova di condotte specifiche, dotate d’intrinseca gravità e della conseguente ingiusta lesione
di un diritto costituzionalmente protetto dell’altro
coniuge.
Più recentemente, la Corte di Cassazione - continuando a negare che il diritto alla fedeltà coniugale
costituisca una situazione meritevole di autonoma
qualificazione e protezione risarcitoria - ha ribadito
la necessità che l’infedeltà, per essere causa di obblighi risarcitori, debba consistere in una condotta
lesiva di “altri” diritti della persona, quali “la salute,
la privacy, i rapporti relazionali, ...la reputazione”.
Può trarsi, quindi, dall’analisi giurisprudenziale
una duplice indicazione:
- il diritto alla fedeltà non ha tutela costituzionale
e, per tale ragione, non merita di essere tutelato
sul piano risarcitorio;
- la violazione del dovere di fedeltà costituisce un
illecito civile soltanto quando determini la lesione di altri diritti della persona.
Entrambe le affermazioni danno adito a perplessità.
In primo luogo, non si comprende per quale ragione non meriti tutela risarcitoria la violazione di
28 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
un obbligo espressamente sancito dal Codice Civile
e talmente solenne da prevedere la legge un rimedio
puramente sospensivo (come la separazione personale) prima di accedere all’unico strumento giudiziario-costitutivo costituito dal divorzio.
In secondo luogo, può dubitarsi che i diritti e i doveri coniugali non abbiano alcuna tutela costituzionale, tenuto conto dell’art. 29 Cost, che attribuisce
al matrimonio il ruolo di fondamento giuridico della
famiglia.
In definitiva, si può affermare che la giurisprudenza abbia accolto, in materia di risarcimento del
danno intrafamiliare una concezione compensativa
e del tutto aliena da logiche punitive, quali quelle
che paiono affermarsi, invece, in sede di interpretazione e applicazione dell’art. 709 ter cpc.
5. L’esercizio abusivo del c.d. diritto “potestativo”
alla separazione
Un approccio così rigoroso, specie in materia di
prova del nesso di causalità tra la condotta infedele
e il pregiudizio del diritto della persona del coniugevittima pare risentire, del resto, della concezione
“potestativa” accolta dalla Suprema Corte in materia di diritto alla separazione personale.
Sul punto, la giurisprudenza non risparmia affermazioni “forti”, quando, ad esempio, proclama che,
“con il matrimonio, ... secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono
un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus”
...valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere
un “diritto inviolabile” di ognuno nei confronti dell’altro,
potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle
forme di legge”, ovvero quando eleva la domanda di
separazione a diritto soggettivo potestativo, sul presupposto che “in una visione evolutiva ...[i]l rapporto
coniugale [debba ritenersi] nello stadio attuale della
società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di
ciascun coniuge” al punto che “il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obbiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da
qualsivoglia elemento di addebitabilità, l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al
matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur
a prescindere da elementi di addebitabilità a carico dell’altro, la convivenza”.
Appare singolare, invero, che una tale concezione
sia ritenuta diretta emanazione di quello stesso art.
29 Cost., che - lungi dal “costituzionalizzare” il diritto alla separazione - sancisce, al contrario, la garanzia dell’unità familiare.
Ma anche a voler accogliere - si sarebbe tentati di
dire ...per absurdum - una tale prospettiva, occorrerebbe domandarsi se il diritto alla separazione personale, ove esercitato con modalità inopinate, tali
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da determinare uno squilibrio tra il vantaggio che si
propone il coniuge che lo esercita e il pregiudizio
che reca a carico del coniuge che riponeva legittimo
e incolpevole affidamento sulla prosecuzione del comune progetto esistenziale e familiare, non legittimi
quelle stesse valutazioni in termini di abuso del diritto, che la giurisprudenza da tempo compie in ambito di rapporti obbligatori e contrattuali.
Né si può ammettere che - come sostenuto da
qualche autore - la separazione o il divorzio non
possano costituire di per sé causa di un “danno” a
carico del coniuge che subisca la rottura del vincolo
coniugale. Come è stato acutamente replicato da autorevole dottrina, «una simile opinione, a prescindere dall’asprezza ideologica, finisce per descrivere
il vincolo matrimoniale come addirittura più lasco
di un contratto, con riguardo al quale peraltro nessuno osa invocare la libertà per escludere la responsabilità della parte infedele».
Deve ritenersi, pertanto, che il diritto alla separazione non possa prescindere, avuto riguardo alla liceità del suo esercizio, dal fondamento oggettivo, o
quanto meno soggettivamente plausibile e ragionevole, dell’effettiva intollerabilità della convivenza.
La richiesta di separazione (o di divorzio), motivata
esclusivamente dal “desiderio” di riacquistare lo
stato libero, dissimula un insussistente ius poenitendi
rispetto al vincolo matrimoniale, che non può restare immune da valutazioni sotto il profilo dell’illiceità endofamiliare.
6. L’illecito nel rapporto tra genitori e figli: il rifiuto di assumere il ruolo di genitore
Passando all’esame delle figure di illecito endofamiliare nel rapporto tra genitori e figli, un primo
problema consiste nel determinare se possa qualificarsi come fatto illecito l’indebito rifiuto di assumere il
ruolo genitoriale derivante dall’atto procreativo.
Il nostro ordinamento riconosce, allo stato attuale
della legislazione, sia la generale volontarietà dell’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.), sia la facoltà
della madre di non essere nominata nell’atto di nascita (art. 30, comma 1, DPR n. 396/2000) e il corrispondente divieto di rilasciare, prima che siano decorsi cento anni, copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata (art. 93, comma 2, D. Lvo n. 196/2003).
A ciò si aggiunga l’impossibilità giuridica del riconoscimento come figlio naturale di colui che risulti
figlio legittimo altrui.
Fatta eccezione per tale ultima ipotesi - nella
quale veramente non si comprende come possa essere anche astrattamente compatibile l’impossibilità del riconoscimento con un obbligo risarcitorio
per mancato riconoscimento - è controverso se il
mancato o ritardato esercizio della facoltà di riconoscimento possa essere considerato alla stregua di
una condotta lesiva del diritto del figlio a crescere e
formarsi nell’ambiente familiare e sociale in conaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 29
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formità allo status che sarebbe conforme al legame
biologico.
L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla
tesi dell’illiceità del mancato riconoscimento del figlio naturale è stato inaugurato dalla nota pronuncia della Suprema Corte, che era stata salutata come
il primo riconoscimento della figura del danno esistenziale da parte della giurisprudenza di legittimità. In questa pronuncia, la Corte di Cassazione riconobbe il diritto al risarcimento del danno al figlio
naturale in conseguenza della condotta del genitore
(riconosciuto giudizialmente tale), che per anni
aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza. La Corte affermò che
«poiché l’art. 2043 c.c., correlato agli artt. 2 ss. Cost., va
necessariamente esteso fino a ricomprendere non solo i
danni patrimoniali in senso stretto, ma tutti i danni che
almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici
della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il
fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente
dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa
comportare (danno conseguenza)».
Sono note alcune pronunce giurisprudenziali che
hanno affermato la medesima responsabilità. Il Tribunale di Venezia ha ritenuto che «il figlio mai riconosciuto, che non ha potuto beneficiare della figura del
padre naturale, subisce l’immotivata e dolorosa privazione di un apporto che la nostra Carta fondamentale garantisce pienamente all’art. 30 e, pertanto, egli ha di30 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
ritto al risarcimento del c.d. danno esistenziale ...anche se mancano segni evidenti sul piano psicopatologico
che potrebbero, invece, configurare il danno biologico, perché ad essere leso in questo caso è un diritto fondamentale del figlio all’educazione e all’assistenza non solo economica».
Secondo tale prospettiva, «il concepimento, che piaccia o meno, non si riduce a fatto meramente materiale,
come accade invece in buona parte del regno animale ...
ma implica inderogabilmente, anche per postulato costituzionale, il dovere di guidare la prole lungo il suo, peraltro non agevole, cammino di sviluppo psicofisico e di maturazione; conseguentemente, commette un fatto illecito il genitore naturale che non ha mai (fin dalla nascita del figlio) in alcun modo prestato a quest’ultimo una
benché minima assistenza materiale, morale, affettiva e
psicologica, rifiutandosi, malgrado i reiterati e sofferti tentativi del figlio di avere con lui anche sporadici rapporti
d’alcun genere e, perfino, di incontrarlo.
Secondo le due pronunce citate, dunque, sussisterebbe da un lato il diritto costituzionalmente tutelato del figlio al riconoscimento del proprio status
e all’affermazione dei conseguenti diritti della personalità conseguenti all’accertamento della filiazione, dall’altro il dovere del genitore naturale di
guidare la prole e di garantirle lo sviluppo psico-fisico in conformità al vincolo di sangue.
Il medesimo Tribunale di Venezia - in una successiva pronuncia - ha espressamente confutato la tesi
del contrasto logico-giuridico tra la volontarietà del
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riconoscimento e l’antigiuridicità della consapevole
omissione del riconoscimento stesso. Si è affermato,
infatti, che «appare difficile sostenere la non obbligatorietà di un comportamento che, se non tenuto, può essere
“sostituito” da una pronuncia giudiziale che ne produca
identici effetti. In ordine al riconoscimento del figlio naturale infatti il genitore naturale non vanta alcuna facoltà di
scelta: egli, se non intende spontaneamente riconoscere il
figlio naturale, soggiace alle conseguenze della sentenza
che detto status accerti; orbene, se il genitore non può sottrarsi agli effetti del riconoscimento dello status di filiazione, con ogni conseguenza non solo patrimoniale ma
prima ancora familiare, se cioè l’accertamento giudiziale
di detto status è una conseguenza obbligata dell’accertamento in fatto del rapporto di filiazione, appare doversene
desumere che il riconoscimento del figlio naturale, cui appunto il genitore non può sottrarsi, non può che configurarsi come comportamento doveroso».
Ma - secondo i giudici veneziani - anche a prescindere dal riconoscimento del figlio o dalla pronuncia della sentenza (dichiarativa) che accerti lo
status di filiazione, la fonte dell’obbligo di mantenimento del figlio naturale risiede nel fatto stesso
della filiazione, come si evincerebbe dal disposto
dell’art. 279 c.c., che dispone che il figlio naturale
possa agire nei confronti del padre per ottenere da
costui mantenimento, istruzione ed educazione anche in quelle ipotesi in cui non possa proporsi
l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità.
Posto, quindi, che l’elemento oggettivo dell’illecito
consisterebbe nella violazione dell’obbligo di mantenimento derivato dalla procreazione, l’elemento
soggettivo richiederebbe quanto meno la colpa, che
verrebbe a configurarsi nell’ipotesi di «una condotta
deficitaria di uno sforzo diligente ... inteso a salvaguardare l’interesse di colui [il figlio naturale] con cui sorga
un contatto sociale, cui deve riservarsi una forma di rispetto, entro i limiti delineati dai modelli di condotta tipici
del concreto tipo di contatto sociale verificatosi nella fattispecie».
Con riguardo alla quantificazione del danno sofferto, altra pronuncia ha ritenuto che il danno debba
essere valutato considerando “la proiezione, su un
piano probabilistico, delle possibilità esistenziali del figlio,
in senso lato, ma estremamente significative (attività professionale, inserimento sociale, livello di vita, capacità economiche), se avesse potuto giovarsi degli apporti, non solo
di natura finanziaria, del proprio genitore”. Nel caso di
specie, il Giudice ha quantificato in £ 4.000.000.000
il danno subito dal figlio, tenuto conto dei «...pregiudizi relativi alla perdita della prospettiva di un inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del padre, perdita direttamente
ricollegabile a quel deficit non solo di quegli apporti finanziari tali da consentire un livello d’istruzione di alto livello e l’intrapresa di attività professionali o imprenditoriali consone alla famiglia, ma anche di quei consigli, di
quei suggerimenti, di quel sostegno morale tali da favorire
- in assenza di fattori ostativi - la formazione di una personalità, di una cultura, di una capacità di intrattenere
relazioni sociali di alto livello, direttamente ricollegabili
al patrimonio morale e culturale della famiglia paterna».
7. Considerazioni critiche sugli orientamenti giurisprudenziali
L’orientamento giurisprudenziale sopra illustrato
si presta ad alcune considerazioni problematiche e
a valutazioni critiche.
In primo luogo, se fosse vera la tesi della obbligatorietà del riconoscimento del figlio naturale, non si
vede perché il Codice non l’abbia sancita espressamente e, anzi, abbia preferito un’espressione letterale chiaramente attributiva al genitore della mera
facoltà di riconoscimento.
In secondo luogo, appare difficile coordinare l’obbligo del riconoscimento con la previsione del “consenso” al riconoscimento stesso da parte del figlio
che abbia compiuto sedici anni ovvero, nel caso di
minore infrasedicenne, dell’altro genitore che abbia
già effettuato il riconoscimento, il quale non potrebbe negarlo, tuttavia, ove conforme all’interesse
del minore. È noto come la giurisprudenza ritenga il
difetto di interesse del figlio in presenza di un serio
rischio per lo sviluppo psicofisico del minore, potenzialmente derivante del riconoscimento. Ma si
tratta di un’affermazione poco coerente con la tesi
del diritto assoluto del figlio, e della conseguente responsabilità civile del genitore renitente, posto che,
a fronte del riconoscimento, nulla si frappone all’adozione di quelle misure limitative della potestà
o della convivenza col figlio (art. 333 c.c.; art. 155 c.c.,
ecc.).
La commistione degli orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati rischia di condurre al paradosso
di ritenere il diritto del figlio e l’obbligo del genitore
al riconoscimento soltanto nei casi in cui dall’accertamento del rapporto di filiazione possano derivare concrete chances di miglioramento della condizione economico-sociale del figlio stesso, con la perniciosa applicazione di una sorta di criterio cripticamente plutocratico nell’ambito delle relazioni familiari.
Inoltre, la tesi della obbligatorietà del riconoscimento è foriera di alcune implicazioni sistematiche,
di cui la stessa giurisprudenza non appare, allo
stato, pienamente consapevole. Se il genitore naturale è tenuto a riconoscere il figlio e, comunque, a
mantenerlo in conformità alle proprie condizioni
economiche e sociali, occorrerebbe per assurdo predicare una responsabilità in capo a tutti coloro che,
frapponendosi all’attuazione di tale obbligo, pregiudichino in concreto la realizzazione del corrispondente diritto del figlio. Tale ragionamento porterebbe ad ipotizzare addirittura un obbligo di esperimento delle azioni giudiziarie necessarie per la rimozione dello status di figlio legittimo (art. 235 c.c.:
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 31
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azione di disconoscimento della paternità) che si
frapponga alla realizzazione dell’asserito diritto del
figlio al riconoscimento del legale giuridico corrispondente al fatto procreativo e al corrispondente
obbligo del genitore di mantenimento ed educazione della prole derivato dagli procreativi al medesimo imputabili.
In definitiva, pare possibile affermare che la tesi
giurisprudenziale dell’illiceità del mancato riconoscimento derivi assai più dall’evoluzione della sensibilità culturale nei riguardi della responsabilità del
fatto procreativo che non da un’armonica lettura del
complessivo dato normativo che disciplina la materia della filiazione: una tesi de iure condendo, che preferisce “gettare il cuore oltre l’ostacolo” rappresentato da una legislazione ancora incentrata su una
concezione volontaristica dello status genitoriale.
8. I fatti illeciti connessi all’esercizio della potestà
Nel caso in cui sussista il rapporto genitoriale il
problema dell’illecito del genitore nei confronti del
figlio concerne, anzitutto, i limiti dell’esercizio della
potestà: limiti già noti sin dall’antichità se è vero
che Adriano dichiarava che patria potestas in pietate
debet non atrocitate consistere.
Pur senza alcun riconoscimento dogmatico di un
principio di immunità, analogo a quello sviluppatosi nel Stati Uniti di fine ‘800, prima della riforma
del diritto della famiglia fu affermato in dottrina un
ambito di esenzione da responsabilità per gli atti
dannosi compiuti dal genitore nell’esercizio dello ius
corrigendi corollario della potestas genitoriale. L’abrogato art. 319 c.c. - che riconosceva al genitore il potere di “frenare la cattiva condotta del figlio” - era
stato interpretato, infatti, nel senso che «il potere,
nei limiti di un esercizio legittimo, adeguato alle circostanze e al pregiudizio che il genitore vuole evitare al figlio, determina l’immunità per le conseguenze dannose dell’atto stesso».
La sostituzione della norma in seguito alla riforma
del 1975 ha tolto ogni fondamento all’idea della liceità degli atti anche abusivi o violenti del genitore
pur se finalizzati a reprimere la “cattiva condotta del
figlio”, e ha finito col consolidare il convincimento,
del tutto coerente col superamento della concezione
autoritaria dei rapporti familiari, secondo il quale
«un atto che determini un danno al figlio non può
essere normalmente inteso come esplicazione della
potestà».
Nell’ordinamento spagnolo si è voluto sancire legislativamente un identico mutamento della nozione di potestà nelle relazioni familiari e nel 2007 è
stato riformato l’art. 134 Codigo Civil, sul contenuto
della potestà, eliminando l’ultimo inciso, secondo
cui “[Los padres] ....podrán también corregir razonable y
moderadamente a los hijos”, limitando il testo della
norma alla previsione in virtù della quale Los padres
32 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
podrán, en el ejercicio de su potestad, recabar el auxilio de
la autoridad. Si è espunto, in tal modo, ogni appiglio
testuale allo ius corrigendi nell’educazione dei figli,
per il dichiarato intento di tutelare maggiormente
la sfera dei diritti della persona del minore, ma in
concreto la riforma non ha inciso né sulla prassi, già
di per sé improntata a un mutamento in tale direzione dell’evoluzione dei costumi, né sulle applicazioni di carattere giurisprudenziale.
Il profilo della responsabilità può sussistere in
presenza di condotte asseritamente assunte nell’esplicazione della potestà anche alla luce della
legge sulle violenze familiari, posto che - come è
stato puntualmente osservato - gli ordini di protezione non solo non escludono, ma sono pienamente
compatibili col rimedio risarcitorio.
Allo stesso modo, l’applicabilità delle misure giudiziali di revoca o limitazione della potestà genitoriale non preclude l’esperibilità del risarcimento del
danno, che si pone sul piano generale della tutela
della sfera minima dei diritti della persona.
L’attuale estraneità dello ius corrigendi all’esercizio
della potestà appare confermato dal rilievo per cui
rientra nel contenuto della potestà l’obbligo del genitore di tutelare l’integrità psicofisica dei figli minori, anche prevenendo e impedendo possibili pericoli e pregiudizi provenienti da terzi, sicché sarebbe
paradossale che la condotta violenza possa essere a
priori scriminata proprio ove l’autore ne sia il genitore.
In ambito penalistico, ad esempio, al genitore
esercente la potestà sui figli minori è stata riconosciuta dalla giurisprudenza una posizione di “garanzia” in ordine alla tutela dell’integrità psicofisica
degli stessi, con la conseguenza che egli risponde
penalmente, ex art. 40, comma 2, c.p., degli atti di
violenza sessuale compiuti, ad esempio, dal coniuge
(o dal convivente) sui figli, quando sussistano le seguenti condizioni:
a) la conoscenza o conoscibilità dell’evento;
b) la conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”;
c) la possibilità oggettiva di impedire l’evento.
La fonte di tale posizione di “garanzia” deve essere ravvisata nell’art. 147 c.c., che, nell’ambito dei
doveri che gravano sui genitori, prevede, in particolare, l’obbligo di tutelare la vita, l’incolumità e la moralità sessuale dei figli minori contro eventi naturali
o altrui aggressioni, anche endofamiliari, attraverso
l’adozione delle misure più drastiche in vista del
raggiungimento di tale scopo.
In tale prospettiva, tra i “doverosi” interventi che
il genitore è tenuto a porre in essere rientrano anche
i rimedi estremi, quali la denuncia dell’autore del
reato e il suo allontanamento dall’abitazione coniugale.
La violenza - afferma la Suprema Corte - risulta
incompatibile sia con la tutela della dignità del sog-
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getto minorenne che con l’esigenza di un equilibrato sviluppo della personalità dello stesso, sicché
non può mai considerarsi scriminata dall’esercizio
della potestà genitoriale.
La giurisprudenza è giunta, altresì, ad escludere
correttamente che anche l’ingiuria possa essere
scriminata dal presunto ius corrigendi «quando il tenore dell’espressione offensiva pronunciata, perentorio e rancoroso, oltre che di inusitata e brutale volgarità, sia tale da escludere ogni possibilità di ipotizzare un semplice rimprovero rivolto a fini educativi».
La definitiva estraneità dello ius corrigendi al contenuto della potestà è consacrata dalla recente legge
n. 219 del 2012, il cui art. 1, comma 7, introduce il
nuovo art. 315 bis c.c., secondo cui «Il figlio ha diritto
di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle
sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio
ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti
significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di
discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le
questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve
rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle
proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con
essa».
Profili di interesse - soprattutto sul piano dogmatico - presenta la configurazione della potestà
come situazione giuridica soggettiva caratterizzata
da doverosità in capo al genitore e alla quale corrisponde ora una situazione di pieno diritto soggettivo del figlio. Mentre, infatti, l’art. 147 c.c. indica
come “dovere” dei genitori quello di istruire, mantenere ed educare la prole, il nuovo art. 315 bis c.c. attribuisce al figlio il «diritto di essere mantenuto,
educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni». La norma
corrisponde non solo all’evoluzione dei costumi e
del sentire sociale, ma anche a quanto sancito nell’art. 155 c.c. in seguito alla riforma dell’affidamento condiviso del 2006, ove già era stato previsto
il diritto del figlio minore, anche in caso di separazione personale dei genitori, di mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere
cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Salva, quindi, l’importanza simbolica dell’attuale riconoscimento
normativo della posizione del minore, non è dato
ipotizzare, allo stato, significative o rivoluzionarie
innovazioni applicative, anche sotto il profilo della
responsabilità civile.
Naturalmente, l’estraneità dello ius corrigendi al
contenuto della potestà genitoriale non esclude la
necessità della valutazione di condotte, che si assumano inerenti all’esercizio del dovere di educazione, secondo parametri differenti da quelli che
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 33
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potrebbero essere adottati alla stregua del diritto
comune. A prescindere, infatti, dalle fattispecie di
maggiore gravità - che, non a caso, assurgono alla
rilevanza di casi giurisprudenziali - appare difficile
che la condotta illecita del “passante” possa essere
equiparata a quella del genitore, allorché l’incidenza sulla sfera psicofisica del minore risulti transitoria, debole e congiunta all’ammonimento educativo e morale.
9. I fatti illeciti estranei alla funzione genitoriale
La conclusione favorevole all’esperibilità del rimedio risarcitorio a fronte di condotte che rappresentino eccesso o deviazione dall’esercizio della potestà genitoriale deve essere a maggior ragione confermata in presenza di atti lesivi dell’integrità e dignità della persona che non siano commessi nell’esplicazione della funzione genitoriale. Si pensi, ad
esempio, agli esiti di reati compiuti dal genitore ai
danni del figlio e, con riguardo a illeciti colposi, al
sinistro stradale in cui subisca danni il figlio del conducente responsabile.
Dal primo punto di vista, è stata riconosciuta la
responsabilità, anche civile, del genitore conseguente alla consumazione del reato di violenza sessuale di gruppo ai danni del minore, affermando che
«ex art. 147 c.c. [alla madre] faceva capo un preciso obbligo giuridico, non solo morale di proteggere la crescita e
la stessa educazione sessuale dell[a] figlia minore».
Con riferimento agli illeciti colposi, da segnalare
che l’originaria esclusione dai benefici dell’assicurazione obbligatoria - prevista nel testo dell’art. 4,
legge n. 990/69 - è stata dapprima espunta con la
legge di riforma del 1992 e quindi ribadita nell’attuale Codice delle assicurazioni, il cui art. 129
esclude l’indennizzabilità dei soli danni alle cose subiti dal coniuge non legalmente separato, dal convivente more uxorio, dagli ascendenti e discendenti.
Appartiene, ormai, alla storia del pensiero giuridico la pur autorevole tesi dell’immunità dei genitori anche per simili illeciti, fondata sul dovere di
mantenimento, nel senso che «in pratica, normalmente, il risarcimento del danno si realizzerà nell’ambito del dovere di mantenimento (che si estenderà, per esempio, alle cure, all’assistenza, alla degenza clinica); un’altra sanzione a carico del patrimonio del marito, o del padre, sarà la perdita - per
un periodo più o meno lungo - dell’apporto di lavoro
e, in senso più lato, della collaborazione che la moglie o il figlio, prima di subire il danno, ricavano dalla
comunità familiare»
10. Esclusione dell’azione di regresso da parte
del figlio
Se è vero,dunque, che i genitori rispondono degli
illeciti civili consumati ai danni dei figli, deve tuttavia escludersi che i genitori possano essere destinatari dell’azione di regresso da parte del figlio in
34 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
seguito all’illecito da quest’ultimo commesso ai
danni di un terzo che abbia invocato la responsabilità solidale ex art. 2048 c.c.
Posto che il figlio risponde direttamente del
danno in ragione della propria capacità di intendere
e di volere, la propria responsabilità diretta assorbe
ogni possibilità di far valere, alla stregua del terzo
danneggiato, la violazione dell’obbligo di educare e
vigilare sulla prole. In tal caso, non è scindibile - ai
fini di cui all’art. 2055 c.c. - la colpa del minore nella
realizzazione dell’illecito dalla culpa in educando o
in vigilando del genitore. Conseguentemente, ove il
patrimonio del minore sia stato in grado di far
fronte alla pretesa risarcitoria del terzo, non sarebbe
ammissibile un’azione di regresso verso i genitori la
quale presupporrebbe la negazione di quella capacità di recepimento e rielaborazione dei precetti
educativi che nel minore imputabile deve necessariamente presumersi.
11. Il diritto del figlio al risarcimento del danno
per violazione degli obblighi coniugali
Un cenno riflessivo merita l’ipotesi della pretesa
risarcitoria del figlio per quegli stessi fatti che possono fondare l’azione di risarcimento da parte di altro membro della famiglia. Occorre interrogarsi,
cioè, se la violazione del diritto all’integrità delle relazioni familiari non possa legittimare l’azione del
figlio a fronte dell’inopinata decisione, ad esempio,
del padre di rompere l’unità familiare o in conseguenza di condotte lesive degli obblighi nei confronti del coniuge (e, quindi, dell’altro genitore) ovvero per il desiderio capriccioso di riacquistare lo
stato libero.
Posto che in altri ordinamenti è stato riconosciuto, sia pure nel rapporto tra coniugi, il c.d.
danno da divorzio, è giunto anche da noi il momento di chiedersi se sussista e sia esercitabile
senza alcun limite il diritto del coniuge di domandare la separazione o il divorzio, quando tale decisione rechi pregiudizio grave non solo al coniuge,
ma anche agli altri componenti della comunità familiare, quasi sempre descritti, con una retorica figurativa che non trova tuttavia riscontro in applicazioni giuridiche, come le “vittime incolpevoli” (e bisognerebbe aggiungere - “non risarcite”) della disgregazione della famiglia.
12. Il diritto del genitore al risarcimento del
danno per fatto illecito del figlio
Deve riconoscersi, parimenti, l’ammissibilità del
diritto del genitore al risarcimento del danno conseguente al fatto illecito commesso dal figlio. Una
tale acquisizione consentirebbe di superare anche
alcuni vetusti limiti, che ancora permangono nell’ambito del diritto penale, là dove non si è ancora ripensata la congruità della causa di non punibilità
dell’art. 649 c.p., che impedisce la punizione dei più
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diffusi reati contro il patrimonio se non commessi
con violenza alle persone. L’esperienza - specie
quella dei reati commessi per approvvigionarsi della
liquidità necessaria all’acquisto di sostanze stupefacenti - induce a qualche perplessità sulla permanente opportunità di tale soluzione, specie quando
il comportamento del figlio non risulti sussumibile
nella categoria degli abusi familiari e non consenta,
pertanto, neppure la misura (preventiva rispetto alla
reiterazione dell’illecito) dell’allontanamento dalla
casa familiare.
13. Conclusioni
Il quadro giurisprudenziale in tema di illecito endofamiliare e la pluralità delle opinioni dottrinali si
presentano, in definitiva, dati complessi e variegati,
al punto da non consentire oggi agevoli previsioni
circa l’evoluzione del sistema giuridico e del diritto
vivente. La stessa riconduzione dell’illecito familiare
nell’alveo della responsabilità civile potrebbe essere
confutata qualora la giurisprudenza ritenesse di
proseguire in alcune aperture riguardanti i cc.dd. obblighi di protezione che - se devono ritenersi sussistenti nelle relazioni contrattuali - possono essere
parimenti rinvenuti all’interno delle relazioni fami-
liari, intimamente caratterizzate da preesistenti doveri a contenuto ampio e senza una specifica prestazione predeterminata. Se, al contrario, la giurisprudenza dovesse continuare a preferire la dimensione della responsabilità civile, occorrerà approfondire, senza scorciatoie costituzionali, il profilo
dell’ingiustizia del danno, sia per evitare il rischio di
contraddizioni nel sistema (come, ad esempio, in
tema di danno da mancato riconoscimento), sia per
determinare il contenuto di situazioni giuridiche
che - come la potestà - risentono più di altre dei mutamenti culturali e del costume.
Alla giurisprudenza deve già essere riconosciuto,
peraltro, il merito (e il coraggio) di aver attribuito rilevanza giuridica alla responsabilità, in passato solo
morale, sia per la violazione dei obblighi coniugali
di fedeltà e assistenza, sia per il compimento dell’atto procreativo: intorno a questi principi di civiltà
è necessario ricomporre la coerenza del sistema,
nell’indomita speranza che anche il legislatore voglia, purché con prudenza e rigore tecnico, contribuire all’adeguamento delle norme ai valori morali
e sociali condivisi.
Note
1
S. PATTI, Il declino della immunity doctrine nei rapporti familiari, in Riv. Dir. Civ., 1981, 378 ss.
2
Cass. 13 gennaio 1993, n. 348
3
Cass. 2 gennaio 2012 n. 9. Anche recentemente il Trib. Bari, 28 settembre 2006 (Corriere Merito, 2007, 3, 295), ha escluso
il risarcimento dei danni non patrimoniali, affermando che “l’obbligazione risarcitoria di cui all’art. 81 cc è un obbligazione
ex lege che sfugge agli schemi di cui all’art. 2043 cc e resta regolato dal solo art. 81, che menziona unicamente le spese fatte
e le obbligazioni contratte” (nelle stesso senso restrittivo, Trib. Monza 6 giugno 2006; Trib. Reggio Calabria 12 agosto 2003,
Dir. Famiglia, 2004, 484)
4
Trib. Treviso 29 gennaio 1982, Dir. famiglia, 1982, 1313: non è fondata la richiesta di risarcimento del danno proposta, sotto
il profilo della violazione del suo diritto all’integritàmorale e di libertà, dalla donna nei confronti di chi l’abbia sedotta con
la promessa di matrimonio futuro, allorché il fatto non costituisca reato, data la maggiore età della donna, poiché non è possibile, nella specie, ravvisare alcuna violazione del generale precetto del “neminem laedere”, stante che non sussistono
norme di diritto che sanciscono, nei rapporti attinenti alla sfera sessuale, il rispetto dei comuni doveri di lealtà, buona fede,
correttezza e diligenza.
Trib. Verona 29 gennaio 1982, Giur it., 1983, I, 2, 118: La seduzione con promessa di matrimonio non costituisce illecito civile, secondo i principi della responsabilità extracontrattuale, ma dà luogo soltanto alle conseguenze giuridiche previste dagli art. 80 e 81 c.c.
5
Cass., sez. III, 8 luglio 1993 n. 7493, Foro it., 1994, I, 1878, secondo cui «l’accertamento del requisito del rapporto causale
tra la promessa e la traditio corporis involge una valutazione di fatto, ai fini della quale il giudice, atteso le difficoltà della
prova, può avvalersi di elementi indiziari e prove presuntive, occorrendo però che l’indagine presuntiva sia basata su elemento particolarmente gravi e concordanti, da valutarsi anche in relazione alle condizioni ambientali e culturali dei soggetti (cfr. sent. Cass. n. 510 del 1976)».
6
Cass., sez. I, 22 marzo 1993 n. 3367.
7
Cass., sez. I, 6 aprile 1993 n. 4108
8
4. Vedi in particolare Cass. 25 marzo 2003, n. 4367 “Le fattispecie di cumulo soggettivo (art. 33 c.p.c.) ed oggettivo (art.
104 stesso codice) di domande - espressioni della cd. connessione per coordinazione, in cui la trattazione simultanea dipende dalla sola volontà delle parti, e la separazione delle cause è sempre possibile, con l’unico rischio di una contraddizione tra giudicati - non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 40, comma terzo c.p.c., come introdotto dalla legge
353/1990, non essendo consentito che il mutamento del rito, imposto da detta norma, sia conseguenza di una mera scelta
dell’attore con riferimento a cause non connesse o non collegate da rapporti di evidente subordinazione, in caso opposto
restando vulnerato il principio del giudice naturale precostituito per legge, di cui all’art. 25 della Costituzione (si è così
esclusa la possibilità del “simultaneus processus”, nell’ambito dell’azione di divorzio soggetta al rito della camera di consiglio, con riferimento a domande riguardanti la proprietà di immobili ovvero l’incremento di valore degli stessi, per essersi
ritenuta inapplicabile la regola di cui al citato art. 40 c.p.c)”; Cass. 19 gennaio 2005, n. 1084 “La trattazione congiunta di
cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 353
del 1990, soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Pertanto, non è possibile il cumulo
in un unico processo della domanda di separazione giudiziale di coniugi, soggetta al rito camerale, e di quella di accertamento della proprietà della casa coniugale, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di con-
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nessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra”; Cass. 6 dicembre 2006, n. 26158 “La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990,
soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Pertanto, non è possibile il cumulo in un unico
processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra”. In questo
senso, per la giurisprudenza di merito, vedi, tra le altre, Trib. Bari, Sez. I, 19 aprile 2006; Trib. Monza, Sez. IV, 12 dicembre 2005;
Trib. Modena, Sez. II, 1° dicembre 2005.
9
Cass. 20 febbraio 1996, n. 1314, “la sentenza non definitiva sullo status, anche senza istanza di parte, nel caso in cui il
processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, configura non una deroga, ma un’ipotesi di applicazione del
principio generale di cui all’art. 277, secondo comma, c.p.c., con l’unico elemento distintivo della sostituzione all’istanza di
parte ed alla necessaria verifica della sussistenza di un apprezzabile interesse concreto di questa alla sollecita definizione
della domanda, di una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia non definitiva ad un interesse
siffatto”.
10
Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853
11
Cass., sez. VI, 17 gennaio 2012, n. 610
12
Cass., sez. I, 1 giugno 2012 n. 8862
13
Per una riflessione sul tema, G. FERRANDO, Responsabilità civile e rapporti familiari alla luce della l. n. 54/2006, in Fam.
Pers. Succ., 2007, p. 590 ss. Sull’incidenza del nuovo art. 709 ter c.p.c. sul tema della responsabilità civile in famiglia, A. D’ANGELO, Il risarcimento del danno come sanzione? alcune riflessioni sul nuovo art. 709 ter c.p.c., in Familia, 2006, pp. 10311051.
14
Cass., sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853
15
Così, espressamente, Cass., sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21099
16
Cass., sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3356
17
Così, ad esempio, FACCI, L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari, Contr. impr., 2005,, 1244, secondo cui «ciascun
coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia».
18
A. NICOLUSSI, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Europa e dir. priv., 2008,
19
Sui profili di criticità dell’attuale sistema di accertamento della maternità e sulle prospettive di evoluzione, si veda la
fondamentale monografia di A. RENDA, L’accertamento della maternità, Torino, 2008.
20
Sul punto, Tar Marche, sez. Ancona, 13 novembre 2008 n. 1914, in Giur. merito, 2009, 6, 1529, con nota di: Santarsiere,
secondo cui il divieto di rendere note le origini biologiche del figlio naturale abbandonato all’assistenza pubblica senza il
consenso della propria madre fu sancito da legge datata e in seguito si è affermato attraverso il diritto all’anonimato della
madre, che, in occasione del parto, dichiari di non voler essere nominata, consentendo, se vi fosse interesse, il rilascio in
copia del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica decorsi cento anni dalla formazione. Infra tale periodo i
documenti stessi possono rilasciarsi omettendo i dati che permettano di identificare la madre. Quindi, il divieto di accedere
agli atti amministrativi, ove rendessero identificabile la madre che voglia rimanere anonima, è posto da norma speciale, facente eccezione alle regole generali che disciplinano i limiti di tempo e le modalità per ottenere le informazioni, la cui finalità sarebbe elusa se l’identità della madre fosse accertabile anzitempo.
21
Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. e dir., 2001, p. 159, con nota di Dogliotti, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità
civile, danno biologico, danno esistenziale; in Corr. giur., 2000, p. 873, con nota di De Marzo, La cassazione e il danno esistenziale; in Danno e resp., 2000, p. 835, con note di MONATERI, Alle soglie: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata; in Resp. civ. prev., 2000, p.
923, con nota di Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale
22
Trib. Venezia, 30 giugno 2004, in Fam. e dir., 2005, p. 297
23
Trib. Venezia, 18 aprile 2006, in Fam. e dir., 2007, p. 927, con nota di Facci, La responsabilità del genitore che sceglie di
non riconoscere il figlio e non provvede al suo mantenimento: una sentenza importante.
24
App. Bologna, 10 febbraio 2004, in Fam. e dir., 2006, p. 511, con nota di Facci, L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa
e risarcimenti ultramilionari
25
Art- 250 c.c.: Il figlio naturale può essere riconosciuto, ...
26
Da ultimo, Cass., 5 giugno 2009, n. 12984, Giust. civ., 2010, I, 1442; Cass. 27 maggio 2008, n. 13830, Foro it., 2008, 9, I, 2457
27
P. RESCIGNO, Immunità e privilegio, in Riv. Dir. Civ., 1961, I, 439.
28
S. PATTI, op. cit., 403.
29
Disposizione Finale 1.2 della Legge sulla adozione internazionale, Legge 28 dicembre 2007 n. 54
30
S. PATTI, Violenza tra familiari: dall’immunità alla sanzione, Festschrift für Erik Jayme, Bd. 2 (München 2004), 1536.
31
Così già S. PATTI, Il declino, cit., 403
32
Cass. Pen. 5 marzo 2008; Cass. pen. 14 dicembre 2007; Cass. pen., 19 gennaio 2006.
33
Cass. pen., sez. V, 10 ottobre 2012 n. 45859.
34
Cass. Pen. 3 novembre 1994, Fioravanti: fattispecie nella quale il padre aveva apostrofato la figlia minore con le seguenti espressioni: sei ancora vergine? sei una p...., con quante persone sei andata a letto?
35
Per una tesi approfonditamente contraria alla generale applicazione delle regole di responsabilità civile nell’ambito della
famiglia, proprio in virtù di una concezione restrittiva dell’istituto della responsabilità aquiliana, A. NICOLUSSI, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Europa e dir. Priv., 2008.
36
In tal senso, non pare poter costituire un apprezzabile modello il sistema svedese che considera in ogni caso alla stregua di maltrattamento l’atto violento nei confronti del figlio. Per questa ragione, durante la scorsa estate, è stato arrestato
e incriminato un turista italiano che, per reprimere il capriccio del figlio dodicenne, gli aveva sferrato una sberla: www.cnrmedia.com
37
Cass. pen., 27 settembre 2011, n. 34900.
38
P. RESCIGNO, Immunità e privilegio, cit., 440.
39
Art. 266 code civile francese.
40
In questo senso, la tesi secondo cui «ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia» (FACCI, L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari, cit., 1244), è stata argutamente criticata da chi ha obiettato che «una simile opinione ... finisce per descrivere il vincolo matrimoniale come addirittura più lasco di un contratto, con riguardo al quale peraltro nessuno osa invocare la libertà per escludere la responsabilità della parte infedele» (NICOLUSSI, Obblighi di protezione, cit., nota 49).
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LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
IL PUNTO SULLA
GIURISPRUDENZA
IN TEMA DI
ART. 709TER C.P.C.
SARA MAFFEI
CULTORE DELLA MATERIA, DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
UNIVERSITÀ DI PISA
Art.709ter.
(Soluzione delle controversie e provvedimenti in
caso di inadempienze o violazioni)
Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale
o delle modalità dell’affidamento è competente il
giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito
del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i
provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio
al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle
modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno
dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno
dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di
5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
1. Introduzione. 2. Sulla natura delle misure di
cui all’art. 709ter c.p.c. 3. L’ambito di applicazione. 4. La competenza come problema. 5. Sull’applicabilità d’ufficio delle misure ex art. 709ter
c.p.c. 6. Il procedimento e le sue forme 7. Sulle
modalità d’individuazione della misura da applicare: in particolare la necessità della prova
del danno. 8. L’impugnabilità dei provvedimenti
ex art. 709ter c.p.c. come problema.
1. Introduzione
Con la volontà di garantire maggiormente la tutela del minore, in particolare con riferimento alle
possibili controversie tra genitori concernenti l’affidamento e l’esercizio della potestà, il legislatore, con
la legge 8 febbraio 2006 n. 54, ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova disposizione: l’art.
709ter c.p.c.. Il legislatore, compresa l’inadeguatezza
delle forme tradizionali dell’esecuzione forzata nell’ambito dei processi familiari, ha fornito il giudice
di strumenti maggiormente idonei qualora debba
fronteggiare l’attuazione concreta dei provvedimenti dettati in materia di affidamento e consegna
dei minori. Il dettato che ne discende traccia una disciplina di non semplice lettura, che ha permesso lo
sviluppo di diversi indirizzi giurisprudenziali e dottrinali sui punti che non chiarisce. La norma ha
un’ampia portata applicativa dato che può esser utilizzata: in caso di separazione personale dei coniugi
(anche in virtù della sua dislocazione nel codice),
nell’ipotesi di procedimenti di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (così come
nel caso della nullità dello stesso), ed infine nei procedimenti che si occupano di figli minori di genitori
non coniugati. Da ciò si possono desumere almeno
due conseguenze. In primis l’applicabilità dell’istituto alla presenza di qualsivoglia rapporto di filiazione, essendo sufficiente il riferimento alla prole
minore (o maggiorenne portatrice di handicap). Secondariamente, poi, il dato per cui tale procedimento è presentabile tanto in via principale autonoma secondo l’art. 710 c.p.c. e l’art. 9 della legge 1°
dicembre 1970, n. 898, quanto in via principale qualora sia utilizzato con la domanda volta a ottenere
una modifica delle condizioni di separazione o divorzio; infine, è possibile anche la presentazione in
via incidentale del procedimento qualora si versi in
un’ipotesi di crisi matrimoniale e altresì di procedimenti riguardanti figli di genitori non coniugati.
La giurisprudenza, in questi primi otto anni dall’entrata in vigore della norma, ha avuto molteplici
occasioni per esprimersi circa le novità introdotte
dall’art. 709ter c.p.c. e generare dei filoni interpretativi sulle questioni applicative di maggiore interesse
e riscontro pratico.
2. Sulla natura delle misure di cui all’art. 709ter
c.p.c.
L’art. 709ter c.p.c. introduce una serie progressiva
di misure coercitive indirette finalizzate a garantire
l’attuazione dei provvedimenti in materia di esercizio della potestà genitoriale e di affidamento. In altre
parole, il Legislatore disciplina un sistema di sanzioni
che interviene qualora si verifichino “gravi inadempienze” o altri atti pregiudizievoli per il minore. Si
tratta, come noto, della possibilità per il giudice di
modificare i provvedimenti già in vigore, di ammonire il genitore inadempiente, di condannare il meaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 37
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
desimo a forme di risarcimento danni (nei confronti
del minore o dell’altro genitore) o ad una “sanzione
amministrativa.”Sin dalle primissime pronunce successive all’introduzione della norma, l’indirizzo giurisprudenziale dominante che si è creato, a proposito
della natura delle misure in oggetto, è stato proprio
quello dell’indole sanzionatoria. In particolare, con
riferimento ai nn. 1 e 4 della norma quasi all’unanimità è stato riconosciuto il carattere esclusivamente
sanzionatorio e volto a reprimere la mancata ottemperanza ai provvedimenti dati. Le maggiori discussioni si sono avute con riferimento ai nn. 2 e 3 ed in
particolare alla loro natura, risarcitoria o sanzionatoria. Fatta questa premessa, risulta interessante l’indirizzo costante del Tribunale di Messina,1il quale ha
sempre evidenziato l’appartenenza delle misure di
cui all’art. 709ter c.p.c. al novero degli strumenti sanzionatori.2 Il medesimo tribunale ha più volte specificato come i provvedimenti ex art. 709ter fanno parte
della categoria dei punitive damages (o danni punitivi)3. Nella lettura data da questo Tribunale, dunque,
il modello di riferimento dovrebbe essere quello per
cui, nei paesi di Common Law, al danneggiato è assegnato un risarcimento maggiore di quanto necessario per ristorare il danno così da affliggere il danneggiante.4Il Tribunale di Napoli,5pur riconoscendo la natura punitiva dei provvedimenti in oggetto, li ha invece ricondotti all’istituto franco-belga delle astreintes. In altre parole, si è dinanzi a strumenti volti a coartare la volontà del soggetto obbligato affinché non
38 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
perseveri nell’inadempimento. Sono strumenti che
esercitano forme di pressione psicologica sul soggetto tenuto ad un dato comportamento per vincerne la resistenza. Il funzionamento dell’astreinte è
basato sul fatto di irrogare una condanna pecuniaria
ulteriore a quella c.d. principale e crescente nel
tempo per portare il debitore ad adempiere (dato che
per ogni ritardo la sua posizione si aggrava). Ancora,
il Tribunale di Padova6qualifica come sanzionatorie
anche le misure di cui ai n.n. 2 e 3 (risarcimento dei
danni nei confronti del minore o dell’altro genitore).
Nella medesima direzione, il Tribunale di Reggio Emilia7si è espresso definendo sanzionatori i provvedimenti che il legislatore ha disciplinato al secondo
comma dell’art. 709ter del codice di rito, oltre che finalizzati a coartare, nel senso dell’adempimento, il
comportamento dei genitori. Anche pronunce più recenti8confermano che si è dinanzi all’applicazione di
sanzioni volte a fornire strumenti per la soluzione di
conflitti tra genitori in conseguenza all’affidamento
o comunque relativi ai figli. Infine, interessante evidenziare la posizione del Tribunale di Roma9che
compie l’ulteriore passo di specificare come le misure di cui all’articolo in oggetto siano “punitive e coercitive”.
3. L’ambito di applicazione
La giurisprudenza si è trovata altresì a prendere
posizione su una questione di grandissimo interesse, soprattutto pratico. Si tratta, in particolare,
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
dell’utilizzabilità dell’art. 709ter c.p.c. e degli strumenti che mette a disposizione rispetto a violazioni
relative ad aspetti economici. In altre parole, premesso che la norma è utile a fronte del comportamento inadempiente di uno dei genitori rispetto a
quanto è disciplinato nei provvedimenti riguardanti
la separazione o al divorzio, oltre che dinanzi ad atteggiamenti lesivi per gli interessi dei figli, la giurisprudenza si è chiesta se tali misure siano utilizzabili anche a fronte di violazioni riferite esclusivamente agli aspetti economici. Rispetto a tale questione può essere utile ricordare che, tradizionalmente, le posizioni tutelate nella crisi della famiglia
sono tripartite in personali, patrimoniali o miste.
Tale distinzione poggia sul contenuto principale del
diritto che si vuole garantire; ad esempio, alla luce di
tale ricostruzione è una situazione personale l’affidamento, patrimoniale il diritto al mantenimento e
mista l’assegnazione della casa familiare. Il punto,
però, si può mettere in discussione nei seguenti termini: è possibile fare una distinzione fondata su tale
criterio, il contenuto del diritto, o in un ambito come
il diritto di famiglia esistono solo situazioni latu
sensu personali? In particolare ci si può chiedere se,
in tale contesto, tutelare uno qualunque dei diritti
sopra menzionati, indirettamente, non significhi anche garantire il diritto alla vita, diritto personale per
eccellenza. Bisognerebbe, forse, giungere a un ripensamento delle categorie tradizionali alla luce
delle peculiarità dell’ambito nel quale ci troviamo
ad operare e ricondurre tutto, appunto, alle situazioni latu sensu personali. Chiusa questa parentesi,
non si può non riscontrare come il filone giurisprudenziale maggioritario10abbracci l’idea che si prospettava (supra), ritenendo applicabile l’art. 709ter
c.p.c. anche solamente dinanzi ad una violazione rispetto a situazioni patrimoniali. In particolare, è evidenziato lo stretto legame che intercorre tra l’inadempienza patrimoniale ed il corretto svolgimento
dell’affidamento.11In senso contrario si è espressa
quella parte di giurisprudenza12che ritiene utilizzabili le sanzioni di cui all’art. 709ter c.p.c. solo rispetto
ad inadempimenti a fronte di situazioni personali.Da segnalare a parte la posizione del Tribunale
di Ancona.13Infatti, il Tribunale dei minorenni di Ancona ha ritenuto non applicabile la sanzione amministrativa, ex art. 709ter, n.4, c.p.c. “se il genitore coobbligato al mantenimento della figlia si sia astenuto dall’erogare solo le somme legate alla rivalutazione annuale, in base agli indici Istat, dell’assegno originario.”
4. La competenza come problema
L’art. 709ter c.p.c. espressamente recita “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle
modalità dell’affidamento è competente il giudice
del procedimento in corso.” Il problema rispetto al
quale la giurisprudenza si è trovata a schierarsi concerne la determinazione del concetto di “giudice del
procedimento in corso.” In generale, sarà competente il giudice del procedimento di separazione, di
divorzio, di annullamento del matrimonio o di affidamento di figli di genitori non coniugati. La questione diviene più complessa qualora ci s’interroghi
sulla competenza del giudice istruttore o del Collegio all’interno di un procedimento di separazione (o
divorzio). In altre parole, può il giudice istruttore, durante un procedimento di separazione o di divorzio
non ancora in fase decisoria, essere ritenuto competente di emanare i provvedimenti ex art. 709ter
c.p.c.? In giurisprudenza prevale nettamente l’indirizzo che ritiene “giudice del procedimento in corso”
anche il giudice istruttore e non soltanto il Collegio.14Infatti, la norma oggetto di questa rassegna
prevede una serie di misure che rivelano la loro
massima utilità qualora siano utilizzate immediatamente a seguito del mancato adempimento; relegarne l’utilizzo alla fase finale della decisione significherebbe svuotare di molto la reale portata degli
strumenti di cui si discute. Nel ragionamento di
questo indirizzo giurisprudenziale15è interessante il
richiamo alle argomentazioni di cui alla sentenza 19
luglio 1996, n.258 della Corte Costituzionale.16Con
tale pronuncia il giudice delle leggi ha stabilito che
“È costituzionalmente illegittimo - per contrasto con
gli art. 3, 29 e 30 cost. - l’art. 156 comma 6 c.c., nella
parte in cui non prevede che il giudice istruttore
possa adottare, nel corso della causa di separazione,
il provvedimento di sequestro di parte dei beni del
coniuge obbligato al mantenimento.”In particolare,
dal momento in cui il Legislatore, ben comprendendo la necessità di forme di tutela privilegiate a
garanzia dei provvedimenti di tipo patrimoniale, ha
coniato questa specie particolare di sequestro, non
si vede perché non rendere disponibile il medesimo
istituto anche per i provvedimenti temporanei ed
urgenti stabiliti nell’ordinanza presidenziale. In questo modo, grazie alla pronuncia della Corte, è divenuto possibile richiedere il sequestro ex art.156 c.c.
anche al giudice istruttore, qualora si versi in
un’ipotesi d’inadempimento rispetto a quanto stabilito dall’ordinanza presidenziale. Sulla base del ragionamento appena ricostruito, il Tribunale di Messina17ritiene che “non si può certamente condividere l’opinione di chi ritiene che i provvedimenti ex
art. 709ter c.p.c. possono essere adottati solo dal Collegio, in quanto la competenza del giudice istruttore
sarebbe limitata ai provvedimenti temporanei ed urgenti, perché ad esempio il sequestro ex art. 156 c.c.
(è) di competenza del giudice istruttore per decisione del giudice delle leggi (..).” In senso contrario,
il Tribunale di Pisa18ha ritenuto ascrivibile al concetto di “giudice del procedimento in corso” esclusivamente il “giudice titolare del procedimento”, ovverosia il Collegio.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 39
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
5. Sull’applicabilità d’ufficio delle misure ex art.
709ter c.p.c.
La questione della possibilità di applicazione ex
officio delle misure di cui all’art. 709ter c.p.c. è strettamente connessa alla problematica della natura
degli strumenti in oggetto (supra, par.2). Dall’osservazione dell’andamento delle pronunce è dato, infatti, rilevare che la giurisprudenza che considera gli
strumenti ex art. 709ter c.p.c. come misure di tipo
punitivo-sanzionatorio tendenzialmente è la stessa
che ravvisa un potere d’ufficio del giudice nella loro
applicazione (quanto meno con riferimento ai numeri 1 e 4 dell’art. 709ter c.p.c.). L’indirizzo dominante pare ancora proprio quello che distingue tra le
misure puramente sanzionatorie (di cui ai nn. 1 e 4)
per le quali è possibile un’iniziativa d’ufficio, e
quelle di cui ai nn. 2 e 3 per le quali vale il principio
della domanda. Ciò nonostante vale la pena forse di
ricordare che il bene giuridico garantito dalla norma
in oggetto è il medesimo, e cioè l’esatta attuazione
dei provvedimenti relativi all’affidamento ed alla
potestà. Se questo è vero, e se la funzione coercitiva
e sanzionatoria investe tutti gli aspetti della norma,
forse non è negabile un intervento ex officio generalizzato. Ciò premesso, nella giurisprudenza di merito, sull’applicabilità d’ufficio delle misure di cui all’art. 709ter del codice di procedura, si riscontrano
posizioni diverse. Il Tribunale di Salerno19ha ritenuto
che “ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. (..) il giudice - anche d’ufficio - può modificare i provvedimenti in vigore.” Nella stessa direzione, avanzando, si muove
la pronuncia del Tribunale di Modena20che afferma
l’esistenza del potere d’ufficio del giudice nell’applicazione della misura di cui al numero 1 dell’art.
709ter del codice di rito (ovverosia l’ammonizione).
Il Tribunale di Palermo,21compiendo un ulteriore
passo, ritiene applicabili d’ufficio dal giudice anche
le misure previste dai numeri 2 e 3 dell’art. 709ter
c.p.c. Infine, va ricordata la pronuncia con cui il Tribunale di Roma22 sembrerebbe ritenere applicabili
d’ufficio tutti i provvedimenti di cui all’articolo in
oggetto.
6. Il procedimento e le sue forme
Rispetto alle forme del procedimento da seguire,
qualora si voglia richiedere una modifica dei provvedimenti in vigore rispetto a quanto stabilito nella
sentenza di separazione o cessazione degli effetti
del matrimonio (ex art. 709ter c.p.c.), o uno degli
strumenti di esecuzione indiretta di cui si discute,
la giurisprudenza di merito ha prospettato diverse
strade. Una prima possibilità23risiede nell’utilizzo
delle forme di cui all’art. 710 c.p.c. o dell’art. 9 della
legge n. 898 del 1970. Stando a questa ricostruzione
non è necessario andare a distinguere sulla base del
contenuto dell’istanza. In senso contrario alla possibilità appena prospettata, il Tribunale di Termini
Imerese24ha ritenuto che sia necessario operare una
40 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
bipartizione. In particolare, giacché la ratio che ha
condotto all’introduzione dell’art. 709ter c.p.c. risiede nella volontà di andare a fornire una risposta
ai problemi di attuazione di provvedimenti che sono
in vigore, è necessario ravvisare nell’istanza la presenza di tali problemi di attuazione. Viceversa, qualora la richiesta di modifica si radichi in problematiche di altra natura, sarà necessario utilizzare le
forme della domanda di modifica dei provvedimenti
temporanei ed urgenti. Infine, parte della giurisprudenza25ha specificato che qualora non vi sia un “procedimento in corso” le misure di cui all’art. 709ter
c.p.c. andranno richieste nelle forme del rito camerale, in linea con l’art. 710 del codice di rito.
7. Sulle modalità d’individuazione della misura
da applicare: in particolare la necessità della prova
del danno
Il secondo comma dell’art. 709ter c.p.c. individua
le effettive misure26che il Legislatore ha previsto per
le fattispecie di “gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento.” Il problema principale che investe questa
parte della norma risiede nel fatto che non è dato al
giudice alcun criterio pratico da applicare per la
scelta della misura da adottare. Allo stesso modo, rimangono piuttosto indefiniti tanto i contorni delle
fattispecie sanzionabili quanto le entità e la tipologia d’istruttoria necessaria per irrogare le condanne
risarcitorie. Si concentri l’attenzione sui numeri 2 e
3 del secondo comma della norma in oggetto e ci si
chieda se è possibile la pronuncia di tali forme di risarcimento dei danni senza un’istruttoria circa la
misura e la tipologia del danno sofferto. Ebbene,
proprio su questo punto si sono venuti a delineare
due contrapposti indirizzi nella giurisprudenza di
merito. Un primo filone27distingue la condanna irrogabile ex art. 709ter del codice di rito da quella
volta a riparare il danno che si è provocato a seguito
dell’illecito. Milita in questo senso la considerazione
per cui “l’indagine di cui all’art. 709ter c.p.c. si limita
ad accertare eventuali gravi inadempienze riguardanti provvedimenti già emessi e relative al procedimento in corso”28ma non a risolvere tutte quelle
questioni connesse alle azioni di risarcimento del
danno, per le quali è necessario rientrare nelle comuni forme processuali. Questo parte della giurisprudenza, ritenendo di essere dinanzi ad un danno
non patrimoniale,29non ritiene necessaria un’istruttoria concernente l’an ed il quantum del danno medesimo, appurata la “grave inadempienza” o gli altri
atti pregiudizievoli cui la norma fa riferimento. Il
medesimo indirizzo giurisprudenziale,30oltre a non
ritenere necessaria la prova di un danno effettivamente patito dal minore, ritiene idoneo operare una
valutazione equitativa del danno. Da segnalare la
posizione peculiare assunta inizialmente dal Tribu-
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
nale di Modena31nell’affermare che “in mancanza di
prova della volontarietà della violazione e, quindi,
in assenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, non
possono applicarsi le sanzioni previste dall’art.
709ter c.p.c.” Infine, in senso contrario all’indirizzo
maggioritario cui si faceva riferimento (supra), meritano attenzione le pronunce32che hanno negato le
misure di cui ai numeri 2 e 3 del secondo comma
della norma in oggetto quando non era stata dimostrato un effettivo danneggiamento del minore
come previsto dai principi generali vigenti in materia di azioni risarcitorie. In particolare, si ritiene che
“In tema di controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle
modalità di affidamento, la condanna al risarcimento del danno non può essere ascritta alla categoria del danno punitivo, o pena privata, in quanto,
avendo il legislatore differenziato la condanna in
considerazione del soggetto danneggiato prevedendo due ipotesi diverse ai nn. 2) e 3) dell’articolo
709ter del c.p.c., appare difficile sostenere che tale
condanna debba essere commisurata alla gravità
della condotta posta in essere dal genitore inadempiente, e non al pregiudizio arrecato, commè nei
principi generali dell’azione risarcitoria.”33
8. L’impugnabilità dei provvedimenti ex art.
709ter c.p.c. come problema
A seguito dell’entrata in vigore della norma de quo
in giurisprudenza si sono date diverse interpreta-
zioni circa la parte dell’art. 709ter c.p.c. che recita “I
provvedimenti assunti dal giudice del procedimento
sono impugnabili nei modi ordinari.” In particolare
il punctum dolens concerneva l’individuazione dei
c.d. “modi ordinari” d’impugnazione. L’espressione
“modi ordinari” deve essere intesa come mezzi ordinari previsti per impugnare le sentenze (dunque
appello e ricorso per Cassazione), o come mezzi ordinari rispetto al singolo provvedimento nel quale
è adottata una misura di cui all’art. 709ter c.p.c.? Il
Tribunale di Arezzo,34sulla questione dell’impugnabilità dei provvedimenti assunti ai sensi dell’art.
709ter c.p.c., aveva distinto tra quelli del giudice
istruttore (reclamabili alla Corte d’Appello ai sensi
dell’art.739 c.p.c.), quelli pronunciati a conclusione
del procedimento ex art.710 c.p.c. (reclamabili in
Corte d’Appello) e le sentenze (suscettibili di appello
ordinario ex art. 323 c.p.c.). Ancora, il Tribunale di
Bari35ha ritenuto che i provvedimenti del giudice
istruttore, seppure non impugnabili immediatamente ed in modo autonomo, sono sempre reclamabili e/o modificabili da parte dello stesso giudice
che li ha assunti. Il punto risulta oggi chiarito dall’intervento della Corte di Cassazione,36chiamata a
prendere posizione sul regime di impugnazione dei
provvedimenti assunti ai sensi dell’art. 709ter c.p.c.
Il giudice di legittimità si è espresso tanto sull’impugnabilità che sulla stabilità dei provvedimenti
adottabili sulla base di quanto disposto dalla norma
in oggetto. La Cassazione ha precisato che con
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 41
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
l’espressione “mezzi ordinari” il Legislatore ha inteso riferirsi agli strumenti classici che l’ordinamento processuale prevede per impugnare ogni diverso provvedimento nel quale potrà esplicarsi l’attività del giudice che si trovi ad applicare la norma
in oggetto. Pertanto, sarà d’uopo andare a distinguere tra i provvedimenti adottati ai sensi dell’art.
709ter c.p.c. nel contesto di una sentenza di separazione (o di divorzio), da quelli adottati in un decreto
di modifica. Nel primo caso si procederà all’appello
nelle forme del reclamo camerale in linea con
quanto stabilito dalla legge sul divorzio. Diversamente, nella seconda ipotesi cui ci si riferiva sarà
possibile il reclamo di cui all’art. 739 c.p.c. Anche rispetto a provvedimenti emanati con esclusivo riferimento alla norma in oggetto sarà possibile espe-
rire il reclamo di cui all’art. 739 del codice di rito. La
Suprema Corte ha negato la possibilità di un proprio
controllo di legittimità per i provvedimenti di cui all’art. 709ter c.p.c. in quanto mancanti tanto del carattere decisorio quanto di quello definitivo37.La
Cassazione è tornata sul punto38a novembre del
2011 mantenendosi conforme alla sua posizione.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che
“il provvedimento d’inammissibilità, emesso dalla
Corte d’appello in sede di reclamo avverso l’ordinanza del giudice istruttore che, nel corso del procedimento di separazione personale, abbia adottato
misure sanzionatorie ai sensi dell’art. 709ter c.p.c.,
non è ricorribile per cassazione, mutuando l’assenza di definitività e decisorietà dal provvedimento
reclamato”.
Note
1
Trib. Messina 5 aprile 2007, in Fam. e dir., 2008, 60; Trib. Messina 25 settembre 2007, in Giurisprudenza locale - Messina,
2008; Trib. Messina 8 ottobre 2012, in Diritto & Giustizia, 2012.
2
Da ultimo Trib. Messina 8 ottobre 2012 (cit.) “Le misure sanzionatorie ex art. 709ter c.p.c. appartengono alla categoria dei
danni punitivi aventi natura sanzionatoria.”Ma anche prima Trib. Messina 25 settembre 2007 (cit.) “I provvedimenti ex art.
709ter c.p.c. sono provvedimenti sanzionatori ed appartengono alla categoria dei danni punitivi, vale a dire strumenti di pressione psicologica sul soggetto obbligato che si adottano al fine di dissuaderlo dal perseverare nel comportamento illegittimo.”
3
In particolare, Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.) “Questo tribunale ritiene (..) non ostativa la osservazione che il nostro sistema giuridico non conosce la categoria dei danni punitivi, tipica invece del diritto anglosassone e nordamericano (esempio famoso di punitive damages è il caso di O.J. Simpson) perché l’art. 709ter c.p.c. è introdotto da una legge nuova (54/2006)
che in tema di affidamento recepisce largamente l’esperienza anglosassone e nordamericana.” Nello stesso senso, Trib. Palermo 2 novembre 2007, in Redazione Giuffrè, 2008. In senso contrario, Trib. Varese 7 maggio 2010, in Redazione Giuffrè, 2010.
42 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
LA GIURISPRUDENZA COMMENTATA
4
Sulle misure di esecuzione indiretta nei paesi di Common Law si veda G. Fanelli, L’esperienza straniera dell’esecuzione forzata indiretta, in L’esecuzione processuale indiretta (a cura di B. Capponi), IPSOA, 2011.
5
Trib. Napoli 27 febbraio 2007, in Foro it., 2007, I, 1610; Trib. Napoli 30 aprile 2008, in Fam.e dir., 2008, 1024.
6
Trib. Padova 3 ottobre 2008, in Iuris Data Giuffrè, 2008; conforme anche Trib. Verona 11 febbraio 2009, inedita.
7
Trib. Reggio Emilia 27 marzo 2008, in Fam. e dir., 2009, 189.
8
Trib. Modena 17 settembre 2012, in Giurisprudenza locale - Modena, 2012; Corte Appello Caltanissetta 3 maggio 2012, in
Guida al diritto, 2012, 25, dossier, 7.
9
Trib. Roma 10 giugno 2011, in Dir. famiglia, 2012, 1, 298.
10
Trib. Modena 29 gennaio 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Modena 7 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 1, 117; Trib. Modena 20 gennaio 2012, in Giur. merito, 2012, 3, 600; Trib. Modena 17 settembre 2012 (cit.); Trib. Bologna 19 giugno 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Bologna 15 ottobre 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Reggio Emilia 30 aprile 2007, in affidamentocondiviso.it; Trib. Padova 3 ottobre 2008 (cit.); Trib. Verona 11 febbraio 2009 (cit.); Trib. Firenze 7 maggio 2012, in Foro it., 6, I,
1941 con la particolarità che ritiene che “in difetto di prova di uno specifico pregiudizio derivante dall’inadempimento degli obblighi di mantenimento da parte del genitore, quest’ultimo può essere condannato al pagamento di una sanzione
amministrativa” n.4 dell’art.709ter c.p.c.; Trib. Roma 29 luglio 2010, in Il civilista, 2011, 4, 54; Trib. Roma 10 giugno 2011 (cit.).
11
A titolo di esempio si veda Trib. Roma 29 luglio 2010 (cit.)
12
Trib. Arezzo 28 ottobre 2010, inedita; Corte Appello Caltanissetta 3 maggio 2012 (cit.); Trib. Palermo 2 novembre 2007
(cit.)
13
Trib. Ancona 3 ottobre 2008, in Dir. famiglia, 2009, 1, 265.
14
Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.); Trib. Bologna 15 ottobre 2007 (cit.); Trib. Termini Imerese 12 luglio 2006 in Foro it., 2007,
I, 3243; Trib. Catania 29 settembre 2006, in affidamentocondiviso.it; Trib. Modena 29 gennaio 2007 (cit.)
15
A titolo di esempio si veda Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.)
16
Corte Costituzionale 19 luglio 1996, n.258, in Giust. civile, 1996, I, 2804.
17
Si fa riferimento a Trib. Messina 5 aprile 2007 (cit.)
18
Trib. Pisa 17 dicembre 2007, in affidamentocondiviso.it.
19
Trib. Salerno 3 maggio 2011, in Redazione Giuffrè, 2011
20
Trib. Modena 20 gennaio 2012 (cit.) il quale afferma che “la sanzione dell’ammonimento ex art. 709ter c.p.c. può essere
comminata, anche officiosamente, in ogni controversia sulle questioni economiche e sulle modalità del mantenimento
della prole.”
21
Trib. Palermo 2 novembre 2007 (cit.)
22
Trib. Roma 10 giugno 2011 (cit.) in cui si sostiene che “qualora per lunghi anni, fin dall’inizio della separazione personale dei coniugi/genitori, uno di essi si sia totalmente sempre astenuto dal versare qualsiasi contributo economico per il
mantenimento della prole, con la quale non ha mai, per sua esclusiva incuria, avuto contatti personali di sorta, al geniotre
sì gravemente inadempiente può il giudice applicare, anche d’ufficio, le misure punitive e coercitive previste dall’art. 709ter
c.p.c.”
23
In questo senso Trib. Bologna 19 giugno 2007 (cit.)
24
Trib. Termini Imerese (cit.)
25
Ufficio del giudice tutelare di Roma 13 luglio 2007, in Redazione Giuffrè, 2008; Trib. Arezzo 1 marzo 2007, inedita; Trib. Brindisi 17 ottobre 2007, inedita.
26
Trattasi dei provvedimenti attraverso i quali il giudice può: “1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di
uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”.
27
Trib. Modena 17 settembre 2012 (cit.); Corte Appello Firenze 29 agosto 2007, in Resp. civ., 2008, f. 4; Trib. Messina 5 aprile
2007 (cit.); Trib. Verona 11 febbraio 2009 (cit.); Trib. Reggio Emilia 27 marzo 2008 (cit.); Trib. Napoli 27 febbraio 2007 (cit.); Trib.
Napoli 30 aprile 2008 (cit.)
28
Così si è espresso il Tribunale di Reggio Emilia, 27 marzo 2008 (cit.)
29
In particolare, si veda il passaggio in cui Corte Appello Firenze 29 agosto 2007 (cit.) afferma: “Ritenuto che il danno, subito dal minore per la privazione della frequentazione paterna, può essere liquidato in euro 650,00, da depositarsi in un conto
corrente postale a nome di Corso I. T. con vincolo pupillare, senza necessità di specifica istruttoria sull’an e sul quantum trattandosi di danno da individuarsi in re ipsa e soggetto - in quanto danno non patrimoniale - a valutazione equitativa.”
30
In particolare sul punto Corte Appello Firenze 29 agosto 2007 (cit.); Trib. Napoli 27 febbraio 2007 (cit.); Trib. Napoli 30 aprile
2008 (cit.)
31
Trib. Modena 22 novembre 2007, in Giurisprudenza locale - Modena, 2008; si segnala, ad ogni modo, che il medesimo Tribunale si è espresso nei termini del filone maggioritario di cui alla nota n.27 nella più recente pronuncia del 17 settembre
2012 (cit.)
32
Trib. Brindisi 17 ottobre 2007 (cit.); Corte Appello Catania 18 febbraio 2010, in Il civilista 2011, 2, 61
33
Così si esprime Corte Appello Catania 18 febbraio 2010 (cit.)
34
Trib. Arezzo 3 febbraio 2009, in Redazione Giuffrè, 2009
35
Trib. Bari 15 dicembre 2009, in Giurisprudenzabarese.it, 2010; in particolare questo Tribunale ha ritenuto che “i provvedimenti pronunciati dal G.I. ai sensi dell’art. 709ter c.p.c. (..) hanno la medesima forma e natura (ed anzi non sono altro che
una particolare specie) dei provvedimenti pronunciati dallo stesso G.I. ai sensi degli artt. 708-709 c.p.c., ragion per cui l’unico
rimedio esperibile è, in linea col disposto dell’art. 177, comma II, c.p.c. l’istanza rivolta allo stesso G.I. per revoca e/o modifica della determinazione precedentemente assunta.”
36
Cass. Civ. sentenza n. 21718 del 22 ottobre 2010, in Guida al diritto, 2011, 2, 61; per una nota esaustiva sulla pronuncia si
veda F. Danovi, in Riv. dir. proc., n.6 Novembre - Dicembre 2011. Conformi anche Cass. Civ. sentenza n. 2753 del 5 febbraio 2008,
in Guida al diritto, 2008, 16, 93chiarisce come “le impugnazioni proponibili sono diverse a seconda della forma e della natura
del provvedimento”; Cass. Civ. sentenza 19094 dell’11 settembre 2007, in Il civilista 2008, 3, 6.
37
Conforme precedentemente anche Cass. 22 gennaio 2009 sent. n. 1611, in Giust. civ. Mass., 2009, 1, 99. In particolare si
afferma che il carattere della definitività manca quando si è dinanzi ad un provvedimento “modificabile e revocabile in
ogni tempo per motivi originari e sopravvenuti”. In senso implicitamente conforme anche Cass. 14 febbraio 2001 n. 2099,
in Giust. civ. Mass., 2001, 245
38
Cass. Civ 21 novembre 2011 sent. N.24423, in Giust. civ. Mass., 2011, 11, 1646
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 43
GIURISPRUDENZA
LE SENTENZE PIÙ
IMPORTANTI NEGLI
ULTIMI DUE ANNI
68
Cass. Civ. I, 15.5.2013, n. 11687
Ascolto del minore
67
Cass. Civ. I, 9.5.2013, n. 11020
Sull’obbligo mantenimento nei confronti dei
figli maggiorenni
66
Cass. Civ. I, 26.4.2013, n. 10064
Esecutività dei decreti ex art. 710 c.p.c. e 9 LD
65
Cass. Civ. I, 22.4.2013, n. 9671
Sull’art. 156 c.c.
64
Cass. Civ. I, 10.4.2013, n. 8677
Differenti tutele nel procedimento di adozione
e de potestate
63
Cass. Civ. I, 26.3.2013, n. 7581
Disconoscimento e termine di decadenza
62
Cass. civ. I, 20.03.2013, n. 7041
PAS
61
Cass. Civ. I, 14.3.2013, n. 6575
L’espropriazione di un bene in comunione
legale ha ad oggetto il bene per intero
60
Cass. Civ. I, 08.03.2013, n. 5847
Audizione del minore
59
Cass. Civ. I, ord. 27.02.2013, n. 4945
Competenze del Trib. minori e trib. ordinario
58
Cass. Civ. I, 27.2.2013, n. 4847
Sul diritto di abitazione del coniuge superstite
57
Cass. Civ. I, ord. 20.02.2013, n. 4178
Assegno di separazione
56
Cass. Civ. I, 12.02.2013, n. 3407
Nullità del matrimonio e errore
55
Cass. Civ. I, 13.02.2013, n. 3502
Assegno di separazione
54
Cass. Civ. I, 12.02.2013, n. 3398
Assegno divorzile e solidarietà postconiugale
53
Cass. Civ. I, 06.02.2013, n. 2780
Procedimento di adottabilità e contraddittorio
52
Cass. Civ. I, 05.02.2013, n. 2696
Passaporto al minore
51
Cass. Civ. Sez. I, 11.1.2013, n. 601
Affidamento di minori e omosessualità
50
Cass. Civ. I, 14.01.2013, 712
Nullità e lunga durata del matrimonio
49
Cass. Civ. I, 21.12.2012, n. 23713
Accordi prematrimoniali
48
Cass. Civ. I, 20.12.2012, n. 23707
Amministrazione di sostegno
47
Cass. Civ. I, 04.12.2012, n. 21675
Revoca assegno di mantenimento e
irripetibilità
46
Cass. Civ. I, 03.12.2012, n. 21591
Affido condiviso e conflittualità figli-padre
45
Cass. Civ. I, 20.11.2012, n. 20385
Nome “Andrea” ad una persona di sesso
femminile
44
Cass. Civ. I, 19.11.2012, n. 20235
Riconoscimento paternità e rifiuto di sottoporsi
ad esami genetici
43
Cass. Civ. I, 09.11.2012, n. 19454
Comunione legale e beni personali e
restituzioni
42 (17)
Cass. Civ. I, 29.10.2012, n. 18563
Adottabilità e nozione di abbandono morale e
materiale
44 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
GIURISPRUDENZA
41
Cass. Civ. I, 25.10.2012, n. 18320
Amministrazione di sostegno
40
Cass. Civ. I, 23.10.2012, n. 18175
Assegno e disparità economica dei coniugi
39
Cass. Civ. I, 16.10.2012, n. 17764
PM e potere di azione e di impugnazione
38
Cass. Civ. I, 15.10.2012, n. 17636
Cass. Civ. I, 21.09.2012, n. 16093
Ripartizione della pensione
di reversibilità
37
Cass. Civ. I, 02.10.2012, n. 16769
Assegnazione casa familiare e comodato
36
Cass. Civ. I, 01.10.2012, n. 16661
Riconciliazione
35
Cass. Civ. I, 21.09.2012, n. 16089
Addebito e infedeltà
34
Cass. Civ. I, 13.09.2012, n. 15341
Decreti de potestate e ricorso per cassazione
33
Cass. Civ. I, 11.09.2012, n. 15158
Interesse del minore e dichiarazione di
paternità
32
Cass. Civ. I, 09.08.2012, n. 14348
Revoca assegnazione casa familiare
31
Cass. Civ. I, 02.08.2012, n. 13917
Amministrazione di sostegno
30
Cass. Civ. I, 30.07.2012, n. 13556
Delibazione sentenza divorzio
29
Cass. Civ. I, 24.07.2012, n. 12977
Attualità dell’abitazione per l’assegnazione
della casa familiare
28
Corte Costituzionale, 19.07.2012, n. 196
Interruzione volontaria della gravidanza
27
Cass. Civ. III, 12.07.2012, n. 11812
Danno patrimoniale futuro per lesioni al figlio
26
T.M. Milano, 06.07.2012, ord.
Poteri del Giudice tutelare
25
Tribunale di Varese, I, 05.07.2012
709 ter e provvedimenti d’ufficio
24
Cass. Civ. I, 20.06.2012, n. 10177
Pensione di reversibilità
23
Corte costituzionale, 19.07.2012, n. 196
Interruzione gravidanza e minore di età
22
Cass. penale, 2 luglio 2012 n. 25596
Violazione obblighi di assistenza
21
Cass. Civ. I, 15.06.2012, n. 9845
Comunione legale e diritti di credito
20
Cass. Civ. I, 08.06.2012, n. 9372
Affidamento condiviso e assegno di
mantenimento
19
Cass. Civ. I, 04.06.2012, n. 8926
Nullità e lunga durata del matrimonio
18
Cass. Civ. I, 01.06.2012, n. 8862
Addebito e risarcimento del danno
17
Cass. Civ. VI, 26.03.2012, n. 4855
Adottabilità e nozione di abbandono
16
Cass. Civ. I, 19.03.2012, n. 4296
Intervento del figlio maggiorenne nella
separazione
15
Cass. Civ. I, 31.05.2012, n. 8773
Giusta causa di allontanamento dalla casa
familiare
14
Tribunale di Torino, VII, 20.04.2012
Accordi in vista del divorzio
13
Cass. Civ. I, 10.04.2012, n. 5654
Richiesta di TFR nella causa di divorzio
12
T.M. Trieste, 28.03.2012
Assegnazione casa e filiazione naturale
11
Corte Costituzionale, 16.02.2012, n. 26
Difensore all’udienza presidenziale
10
Cass. Civ. I, 14.02.2012, n. 2059
Addebito e allontanamento da casa
9
Cass. Civ. I, 08.02.2012, n. 1784
Disconoscimento e padre naturale
8
Cass. Civ. I, 08.02.2012, n. 1780
Nullità e lunga durata del matrimonio
7
Tribunale di Latina, II, 22.02.2012
Addebito e risarcimento
6
Cass. Civ. III, 31.01,2012, n. 1367
Revoca assegnazione casa (titolo esecutivo ?)
5
Cass. Civ. I, 27.01.2012, n. 1251
Adottabilità e audizione minore
4
Cass. Civ. I, 13.01.2012, n. 387
Accordi su assegnazione casa
3
Cass. Civ. I, 30.12.2011, n. 30196
Mantenimento figlio minore d’ufficio
2 bis
Tribunale di Roma, I, 13.09.2011
Violazione diritto di visita e risarcimento
2
Cass. Civ. I, 26.09.2011, n. 19607
Mantenimento e legittimazione del figlio
maggiorenne
1
Cass. Civ. VI, 10.05.2011, n. 10187
Amministrazione di sostegno e ricorso per
cassazione
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 45
GIURISPRUDENZA
elaborato, per altro, si evinceva come le valutazioni
operate dal Tribunale, nel senso della collocazione
del minore presso la madre e della regolazione degli incontri, corrispondessero all’interesse del minore.
1.2 - Avverso tale provvedimento il C. propone ricorso, affidato a due motivi.
La parte intimata non svolge attività difensiva.
Un decalogo sull’ascolto
del minore
Cassazione Civile, Sezione I,
15 maggio 2013, n. 11687
Presidente Gabriella Luccioli
Relatore Pietro Campanile
Svolgimento del processo
1 - La Corte di appello di Roma, pronunciando sul
reclamo proposto da C.A. nei confronti di E.E. avverso il provvedimento in data 3 dicembre 2010 con
il quale il Tribunale di Roma, a seguito di domanda
di revisione delle condizioni della separazione personale dei coniugi avanzata dal C., aveva confermato l’affidamento condiviso del minore C.R., collocato presso la madre, regolando gli incontri settimanali fra il padre e il figlio nonché la sua permanenza nei periodi di vacanza, ha parzialmente accolto il ricorso nel senso di stabilire le possibilità di
incontro fra padre e figlio durante i fine settimana,
così ovviando a un’omissione del Tribunale, rigettando, nel resto, il reclamo.
1.1 - In particolare, quanto alla censura concernente l’omessa audizione del minore, specificamente proposta dal C., si è rilevato che lo stesso era
stato esaminato dalla psicologa della ASL di ..., la cui
relazione era stata inviata in data 3..7.2010. Da tale
46 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
Motivi della decisione
2 - Con il primo motivo (il secondo, in base alla
numerazione contenuta nel ricorso: il precedente,
in realtà, è privo di censure e tende unicamente a
ribadire l’ammissibilità del ricorso, della quale, per
altro, non è dato di dubitare) si deduce violazione
dell’art. 12 della Convenzione di New York del 20
novembre 1989, dell’art. 6 Cedu, dell’art. 23 del Reg.
Ce n. 2001/2003, dell’art. 155 sexies Cod. civ., nonché degli artt. 3, 21 e 111 Cost.. Si afferma che dopo
la presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 710
c.p.c. era stata più volte avanzata richiesta di audizione del minore, nato il 20 luglio 1997, nel corso
del procedimento di revisione, rigettata dal Tribunale con il richiamo alla completezza della relazione del servizio sociale, la cui psicologa aveva più
volte sentito il minore. Il motivo di impugnazione
introdotto con il reclamo circa la violazione del
principio che impone l’audizione del minore, non
risultando che i colloqui con il personale del Servizio sociale fossero avvenuti in virtù di una specifica delega da parte del giudice, era stato rigettato
dalla Corte di appello mediante il riferimento a una
relazione del 3 luglio 2010 dalla quale risultava che
il piccolo R. era stato sentito da una psicologa dell’Asl di XXXX.
Tanto premesso, si denuncia violazione della normativa sopra indicata, in quanto l’ascolto da parte
dei servizi, non essendovi stata una specifica delega
da parte del giudice, non poteva avere funzione sostitutiva, e, per altro verso, non risultava che il minore fosse stato informato delle istanze che lo riguardavano e che, quindi, le sue aspirazioni fossero
state adeguatamente valutate.
2.2 - Con il secondo motivo si denuncia vizio di
motivazione in relazione alla suindicata questione,
stante la natura meramente apparente delle ragioni
addotte dalla Corte per giustificare l’omessa audizione del minore, facendo anche riferimento a un
non meglio precisato carattere “controproducente”
di tale attività.
3 - Entrambi i motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per loro intima connessione, sono fondati.
3.1 - Questa Corte ha già affermato, anche a Sezioni unite, il valore fondamentale del principio dell’ascolto del minore, sancito nelle Convenzioni di
New York del 1989 sui diritti del fanciullo, art. 12, riferito ad “ogni procedura giudiziaria o amministra-
GIURISPRUDENZA
tiva” in quella di Strasburgo del 1996, art. 6, nell’art.
24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, e recepito, quindi, nell’art. 155 sexies Cod.
civ., introdotto con la l. 8 febbraio 2006, n. 54. In particolare, è stato rilevato che “l’audizione dei minori
nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione
di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo
del 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003 (Cass.
16 aprile 2007 n. 9094 e 18 marzo 2006 n. 6081), per
cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo
della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza
di questa Corte (la citata Cass. n. 16753 del 2007)”
(Cass. Sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238).
3.2 - L’ampiezza del riferimento a tutti i procedimenti che in qualche misura riguardano il minore
certamente impone di considerare tale principio applicabile ai procedimenti, come quello in esame, di
revisione delle condizioni di separazione, laddove
implichino valutazioni e statuizioni direttamente
incidenti sugli aspetti inerenti all’affidamento e alle
scelte che ineriscono alla valutazione dell’interesse
del minore.
3.3 - L’operatività, in linea generale, del principio
comporta l’insussistenza della necessità di motivare
specificamente le ragioni della disposta audizione
del minore; per converso, si ritiene che il giudice,
nelle ipotesi in cui ravvisi di escludere l’ascolto, vale
a dire solo quando esso sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo stesso
(Cass., 26 aprile 2007, n. 9094; Cass., 11 agosto 2011,
n. 17201), sia tenuto a fornire adeguata giustificazione.
3.4 - L’imprescindibilità dell’audizione, nei termini sopra delineati, non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in quanto
parti “sostanziali” del procedimento (Cfr. la citata
Cass., n. 22238 del 2009), ma impone certamente
che degli esiti di tale ascolto si tenga conto. Naturalmente le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare l’interesse del
minore, che può non coincidere con le opinioni
dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi (v. anche Cedu 9 agosto 2006, in ric. n.
18249/02): al riguardo si ritiene sussistente un onere
di motivazione direttamente proporzionale al grado
di discernimento attribuito al minore (Cass., 17
maggio 2012, n. 7773).
3.5 - Questa Corte ha altresì precisato, quanto alle
conseguenze dell’omessa audizione del minore, la
cui obbligatorietà è normalmente riferita al giudizio
di primo grado, che la nullità della sentenza per la
violazione dell’obbligo di audizione può essere fatta
valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’art.
161 c.p.c., e, dunque, è deducibile con l’appello (v.
Cass. 27 gennaio 2012, n. 1251). Tale evenienza si è
verificata nel caso di specie, avendo il ricorrente, nel
rispetto del principio di autosufficienza, espressaaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 47
GIURISPRUDENZA
mente richiamato le doglianze, prospettate con il reclamo, inerenti alla violazione dell’obbligo di audizione da parte del tribunale.
4 - Il ricorso in esame, validamente proposto in
base a quanto testé rilevato, investe la problematica
inerente alle modalità dell’ascolto, per altro particolarmente avvertita da parte dei giudici di merito,
che di regola, anche con la formulazione di appositi
protocolli, dimostrano una elevata sensibilità al riguardo.
Le modalità dell’audizione, che non costituisce un
atto istruttorio tipico, bensì un momento formale
del procedimento deputato a raccogliere le opinioni
ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla
vicenda in cui è coinvolto, sono affidate alla discrezionalità del giudice, il quale deve ispirarsi al principio secondo cui l’audizione stessa deve svolgersi
in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria
opinione (Cass., 26 gennaio 2011, n. 1838).
4.1 - Si ritiene in maniera quasi unanime, pur
esprimendosi da più parti, anche in dottrina, preferenza per l’audizione diretta, che il giudice, soprattutto quando particolari circostanze lo richiedano,
possa avvalersi di esperti, delegando agli stessi l’audizione del minore (v., quanto al più recente orientamento di questa Corte, Cass., 26 marzo 2010, n.
7282).
48 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
4.2 - Non è sufficiente, quindi, che, come sembra
ritenere la Corte territoriale, il minore sia stato in
qualche modo interpellato o esaminato da soggetti
(per altro nel caso di specie non si precisano le circostanze sottese alle relazioni dei servizi sociali che
avrebbero proceduto a un non meglio definito
esame) le cui relazioni siano state successivamente
acquisite al fascicolo processuale, essendo necessario che il soggetto che procede all’audizione sia investito di una specifica delega da parte del giudice
competente, inerente al dovere di informarlo di
tutte le istanze o scelte che lo riguardano, al fine di
acquisire la sua volontà.
4.3 - Il provvedimento impugnato, nella misura in
cui fa riferimento a non meglio precisati contatti fra
i servizi sociali e il minore, senza far alcun riferimento alla delega al riguardo rilasciata, non si è
conformata ai principi sopra indicati, ragion per cui
deve essere cassato, con rinvio alla Corte di appello
di Roma, che, in diversa composizione, provvederà
sul reclamo del C., applicando i principi richiamati
e provvedendo, altresì, in merito alle spese relative
al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnata e rinvia, anche per le spese, alla
Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
GIURISPRUDENZA
L’obbligo di mantenimento
dei figli perdura fino
alla loro autosufficienza
economica
Cass. civ. Sez. I,
9 maggio 2013, n. 11020
Presidente Maria Gabriella Luccioli
Relatori Rosa Maria Di Virgilio
L’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al
mantenimento dei figli, secondo le regole dell’art.
148 c.c., non cessa ipso facto con il raggiungimento
della maggiore età da parte di questi ultimi, ma
perdura, immutato, finché il genitore interessato
alla declaratoria della cessazione dell’obbligo
stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto
l’indipendenza economica, ovvero che il mancato
svolgimento di un’attività economica dipende da
un atteggiamento di inerzia o rifiuto ingiustificato
dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività.
(omissis)
Svolgimento del processo
Con decreto depositato in data 3 luglio 2008, il Tribunale di Roma ha respinto l’istanza di C.T., intesa
alla modifica delle condizioni di divorzio stabilite tra
le parti con sentenza del medesimo Tribunale del 21
ottobre 1996, ed in particolare alla riduzione del contributo di Euro 1136,00 mensili per il mantenimento
dei figli P. e L., nati rispettivamente nel 1978 e nel
1983, e dell’assegno divorzile di Euro 826,00 mensili,
ritenendo che la situazione economica complessiva
del ricorrente non aveva subito il dedotto peggioramento, ed ha altresì respinto la domanda della resìstente di aumento del contributo per i figli.
Il C. proponeva reclamo avverso detta pronuncia,
chiedendo la riduzione dell’assegno divorzile ad
Euro 600,00 mensili, la revoca del contributo per il
mantenimento del figlio P. e la riduzione ad Euro
325,00 di quello per il figlio L., con pagamento diretto a favore dello stesso.
Si costituiva A.F.G.M., eccependo l’inammissibilità
del reclamo, e nel merito l’infondatezza. La Corte
d’appello di Roma, con ordinanza in data 18 giugno
2008 - 3 luglio 2008, ha respinto sia il reclamo proposto dal C. che il reclamo incidentale proposto dall’
A.F., compensando integralmente tra le parti le
spese del grado.
Nello specifico, e per quanto qui ancora interessa,
la Corte d’appello ha ritenuto che dalle dichiarazioni
rese dal figlio P. emergeva che quest’ultimo, pur
avendo trent’anni, aveva lavorato solo per un breve
periodo di tempo con retribuzione irrilevante(sei
mesi di tirocinio in (OMISSIS), con rimborso spese
di complessivi Euro 3000,00, e tre mesi di collaborazione con cliniche private, con un compenso di Euro
7,00 per ora), e che doveva ancora frequentare la
scuola di specializzazione, per cui non aveva raggiunto una propria completa autosufficienza economica, senza che ciò fosse ascrivibile a proprio
comportamento colposo; ha rilevato che non si
erano verificate dall’epoca del divorzio alla data
della pronuncia modifiche idonee ad imporre un
cambiamento della valutazione operata in quella
sede, ed ha quindi confermato la misura dell’assegno divorzile e del contributo di mantenimento.
Ricorre avverso detta pronuncia il C. sulla base di
tre motivi. Si difende con controricorso A.F..
Motivi della decisione
1.1 - Con il primo motivo, il ricorrente denuncia
violazione degli artt. 147, 148 e 155 ter e quinquies
c.c., e dell’art. 30 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c.,
n. 3. Secondo il ricorrente, l’impugnata sentenza postula che solo la completa autosufficienza economica del figlio comporterebbe la cessazione dell’obbligo del mantenimento da parte del padre non convivente, mentre l’avere messo il figlio P. in condizione di studiare e di inserirsi nel mondo lavorativo
determina la cessazione dell’obbligo di mantenimento, che ha funzione educativa; non è solo la
completa autosufficienza economica del figlio a
comportare la cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte del padre non convivente ed il figlio,
avendo volontariamente cessato i rapporti di collaborazione con la clinica romana, versa quanto meno
in colpa per non essersi messo in condizione di procurarsi un reddito.
(omissis)
2.1 - Il primo motivo è infondato.
La Corte d’appello di Roma non ha violato le
norme di legge richiamate, e nel ritenere il perdurante obbligo del C. al mantenimento del figlio P. ha
seguito il principio espresso da questa Corte in materia, secondo cui l’obbligo dei genitori di concorrere
tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole
dell’art. 148 cod. civ. non cessa, “ipso facto”, con il
raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finchè il genitore
interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il
mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento
non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto
necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario
del soggetto ed alla situazione attuale del mercato
del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale
il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 49
GIURISPRUDENZA
la propria specializzazione (in tal senso, le pronunce
15756/2006, 22214/2004, 4765/2002).
Ed infatti, la Corte del merito, preso atto che C.P.,
laureato in medicina, dopo avere frequentato un periodo di sei mesi di tirocinio all’estero e avere svolto
nel 2006, per soli tre mesi, attività presso cliniche
private percependo la somma di Euro 7,00 ad ora, ha
ritenuto che lo stesso, pur avendo trent’anni, e dovendo ancora frequentare la scuola di specializzazione, non aveva raggiunto una propria completa
autosufficienza economica, senza che ciò potesse
ascriversi a colpa dello stesso.
Non corretta è pertanto la lettura della pronuncia
operata dal ricorrente, che postula nel figlio quell’autosufficienza economica che la Corte ha concretamente escluso alla stregua delle risultanze di
causa, considerate le somme percepite durante il tirocinio e nelle cliniche private, congruamente definite “risibili”, e nella valutazione dello specifico iter
professionale del settore, sì da non potersi ritenere
raggiunta un’adeguata capacità lavorativa e reddituale.
Né infine, per l’evidente irrisorietà delle somme
in concreto percepite, può ritenersi il figlio in colpa
per non avere proseguito l’attività di collaborazione
con le cliniche private.
Il giudizio della Corte del merito è stato infine
condotto avuto riguardo alla situazione economica
e patrimoniale del C., ex art. 148 c.c..
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
al pagamento dei compensi, liquidati in Euro
2500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori
di legge.
L’inadempimento
all’obbligo di
mantenimento:
una sentenza
tutta sull’art. 156 c.c.
Cass. civ. Sez. I,
22 aprile 2013, n. 9671
Presidente Giuseppe Salmè
Relatore Massimo Dogliotti
I mezzi di tutela ex art. 156 c.c., possono essere richiesti (e concessi) nel corso del procedimento, con
semplice istanza riportata nel processo verbale ovvero con ricorso separato, oppure, concluso il giudizio di merito, utilizzando il rito della camera di consiglio. È ammessa possibilità di revisione, prevista
dall’art. 156 c.c. che fa riferimento a tutti i provve50 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
dimenti “emessi ai sensi dei commi precedenti”. È
necessario, anche in tal caso, un mutamento delle
circostanze, una variazione della situazione di fatto
che ha costituito il presupposto della pronuncia. Può
trattarsi di un venir meno, un attenuarsi del pericolo di futuri inadempimenti, ad es. perché il disordine degli affari dell’obbligato è stato superato.
Pur in pendenza di procedimento di divorzio,
viene richiamato del tutto correttamente l’articolo
156 c.c., relativo alla separazione tra i coniugi. E infatti l’assegno divorzile presuppone necessariamente la pronuncia di divorzio, trattandosi ancora,
nella specie, di assegno di mantenimento del coniuge separato (al riguardo Cass. n. 8113 del 2009).
In merito agli strumenti di tutela apprestati dall’art. 156 c.c., quanto ai terzi cui si ordina di corrispondere al beneficiario somme di spettanza dell’obbligato, può trattarsi del suo datore di lavoro o
dell’ente erogatore della pensione, ma pure del conduttore di immobile di sua proprietà o addirittura
del debitore di una somma determinata, non necessariamente di prestazioni periodiche. Il terzo
deve comunque essere individuato esattamente
(non avrebbe valore una domanda di corresponsione diretta dell’assegno da parte del datore di lavoro, senza specificare chi egli sia). Egli non è comunque parte del procedimento e può rifiutarsi di
ottemperare all’ordine, eccependo ad esempio l’inesistenza del debito: in tal caso non resta al coniuge
che promuovere, nelle forme ordinarie, giudizio di
accertamento del debito, chiedendo eventualmente
la condanna del terzo debitore al risarcimento dei
danni.
L’art. 156 c.c. prevede varie garanzie in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento verso il
coniuge o i figli: l’ordine a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte venga direttamente versata all’avente diritto, ovvero il sequestro di beni del
coniuge obbligato. È da ritenere che i due mezzi possano essere concessi anche contemporaneamente, a
carico del medesimo obbligato.
L’ultimo comma dell’art. 739 c.p.c. esclude che,
nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio,
avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo,
possa proporsi ricorso per cassazione. Tale scelta legislativa veniva giustificata sostanzialmente con il
carattere stesso dei provvedimenti, non incidenti su
posizioni di diritto soggettivo, modificabili e revocabili in ogni tempo. L’uso sempre più diffuso del procedimento camerale, previsto dal Legislatore anche
per risolvere controversie afferenti diritti soggettivi
e status, ha condotto progressivamente la giurisprudenza ad ammettere il ricorso straordinario per
cassazione avverso decreti, emessi in sede di reclamo. Ciò in virtù del disposto dell’attuale comma
7 (in precedenza comma 2) dell’art. 111 Cost., e attribuendo rilevanza alla sostanza piuttosto che alla
GIURISPRUDENZA
forma del provvedimento. Si è pervenuti così ad affermare che l’ammissibilità del ricorso è subordinata alla presenza di vari requisiti: posizioni di diritto soggettivo o di status, decisorietà e definitività
(tra le altre, Cass., n. 21718/2010; Cass., S.U. n.
28873/2008). Quanto alla corresponsione diretta di
assegno, a carico del terzo debitore, ex art. 156 c.c.,
il provvedimento, all’evidenza, non risolve una controversia sulla esistenza del diritto del coniuge all’assegno, diritto che ne costituisce un presupposto,
ma piuttosto attiene alle modalità di attuazione del
diritto stesso, non ha dunque carattere di decisorietà, e non è definitivo, potendo essere modificato,
seppur a seguito di mutamento delle circostanze (al
riguardo, Cass. n. 23713 del 2004). Il provvedimento
in esame non può dunque essere impugnato con ricorso per cassazione.
In merito agli strumenti di tutela apprestati dall’art. 156 c.c., la corresponsione diretta, così come il
sequestro, non prevedono un generico pericolo nel
ritardo, ma un preciso inadempimento dell’obbligato: questi non avrà corrisposto una o più rate dell’assegno di mantenimento. Il pericolo nel ritardo
potrebbe avere qualche rilevanza, ma solo ad colorandum: l’obbligato potrebbe non aver pagato la rata
di assegno per pura dimenticanza, e allora il giudice
potrebbe non disporre immediatamente la misura
di garanzia, ma il mancato pagamento di una rata,
preceduto da ritardi nel pagamento delle precedenti
e accompagnato da un generale disordine negli affari dell’obbligato, potrebbe indurre il giudice ad accogliere la domanda (tra le altre, Cass. n. 11062 del
2011).
(omissis)
Svolgimento del processo
Nell’ambito di un procedimento di divorzio, in
fase presidenziale, veniva posto a carico di C.O. l’obbligo di corrispondere a N.M. assegno mensile di
Euro 600,00.
Con ricorso in data 08/07/2009, la N., affermando
che il marito non le aveva corrisposto quanto dovuto, chiedeva al Tribunale di Spoleto di disporre
che il predetto assegno venisse trattenuto dall’INPS
ente erogatore della pensione del C., e versato direttamente a lei, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 6.
Il C. compariva personalmente e si opponeva all’accoglimento del ricorso.
Con decreto in data 29/10/2009, il Tribunale ordinava all’INPS di trattenere dalla pensione corrisposta al C. la somma di Euro 600,00 e di versarla direttamente alla N..
Avverso tale provvedimento proponeva reclamo il
C..
Si costituiva il contraddittorio, e la N. chiedeva la
reiezione del reclamo.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 51
GIURISPRUDENZA
La Corte di Appello di Perugia con decreto in data
25/02 - 10/3/2010, rigettava il reclamo.
Ricorre per cassazione ex art. 111 Cost., sulla base
di cinque motivi il C..
Non svolge attività difensiva la N..
Motivi della decisione
È necessario preliminarmente accertare se il provvedimento in esame sia suscettibile di ricorribilità
per cassazione.
Come è noto, l’art. 156 c.c. prevede varie garanzie
in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento verso il coniuge o i figli: l’ordine a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme
di denaro all’obbligato, che una parte venga direttamente versata all’avente diritto, ovvero il sequestro
di beni del coniuge obbligato. È da ritenere che i due
mezzi possano essere concessi anche contemporaneamente, a carico del medesimo obbligato.
La corresponsione diretta, così come il sequestro,
non prevedono un generico pericolo nel ritardo, ma
un preciso inadempimento dell’obbligato: questi
non avrà corrisposto una o più rate dell’assegno di
mantenimento. Il pericolo nel ritardo potrebbe avere
qualche rilevanza, ma solo ad colorandum: l’obbligato potrebbe non aver pagato la rata di assegno per
pura dimenticanza, e allora il giudice potrebbe non
disporre immediatamente la misura di garanzia, ma
il mancato pagamento di una rata, preceduto da ritardi nel pagamento delle precedenti e accompagnato da un generale disordine negli affari dell’obbligato, potrebbe indurre il giudice ad accogliere la
domanda (tra le altre, Cass. n. 11062 del 2011).
Quanto ai terzi cui si ordina di corrispondere al
beneficiario somme di spettanza dell’obbligato, potrebbe trattarsi del suo datore di lavoro o - come
nella specie - dell’ente erogatore della pensione, ma
pure del conduttore di immobile di sua proprietà o
addirittura del debitore di una somma determinata,
non necessariamente di prestazioni periodiche. Il
terzo dovrà comunque essere individuato esattamente (non avrebbe valore una domanda di corresponsione di retta dell’assegno da parte del datore
di lavoro, senza specificare chi egli sia). Egli non è
comunque parte del procedimento e potrebbe rifiutarsi di ottemperare all’ordine, eccependo ad esempio l’inesistenza del debito: in tal caso non resterebbe al coniuge che promuovere, nelle forme ordinarie, giudizio di accertamento del debito, chiedendo eventualmente la condanna del terzo debitore al risarcimento dei danni.
I mezzi di tutela potrebbe pure darsi nel corso del
procedimento, con semplice istanza riportata nel
processo verbale ovvero come nella specie, con ricorso separato, oppure, concluso il giudizio di merito, utilizzando il rito della camera di consiglio.
È ammessa possibilità di revisione, prevista dall’art. 156 c.c. che fa riferimento a tutti i provvedi52 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
menti “emessi ai sensi dei commi precedenti”. Sarà
necessario, anche in tal caso, un mutamento delle
circostanze, una variazione della situazione di fatto
che ha costituito il presupposto della pronuncia. Potrebbe trattarsi di un venir meno, un attenuarsi del
pericolo di futuri inadempimenti, ad es. perchè il disordine degli affari dell’obbligato è stato superato.
È appena il caso di precisare che, pur in pendenza
di procedimento di divorzio, viene richiamato del
tutto correttamente l’art. 156 c.c., relativo alla separazione tra i coniugi. E infatti l’assegno divorzile presuppone necessariamente la pronuncia di divorzio,
trattandosi ancora, nella specie, di assegno di mantenimento del coniuge separato (al riguardo Cass. n.
8113 del 2009).
Venendo all’esame dell’ammissibilità del ricorso,
va precisato che l’u.c., art. 739 c.p.c. esclude che, nell’ambito dei procedimenti in camera di consiglio, avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo,
possa proporsi ricorso per cassazione. Tale scelta legislativa veniva giustificata sostanzialmente con il
carattere stesso dei provvedimenti, non incidenti su
posizioni di diritto soggettivo, modificabili e revocabili in ogni tempo.
L’uso sempre più diffuso del procedimento camerale, previsto dal Legislatore anche per risolvere controversie afferenti diritti soggettivi e status, ha condotto progressivamente la giurisprudenza ad ammettere il ricorso straordinario per cassazione avverso
decreti, emessi in sede di reclamo. Ciò in virtù del disposto dell’attuale comma 7 (in precedenza comma
2) dell’art. 111 Cost., e attribuendo rilevanza alla sostanza piuttosto che alla forma del provvedimento.
Si è pervenuti così ad affermare che l’ammissibilità del ricorso è subordinata alla presenza di vari requisiti: posizioni di diritto soggettivo o di status, decisorietà e definitività (tra le altre, Cass., n 21718/2010;
Cass., S.U. n. 28873/2008).
Quanto alla corresponsione diretta di assegno, a
carico del terzo debitore, il provvedimento, all’evidenza, non risolve una controversia sulla esistenza
del diritto del coniuge all’assegno, diritto che ne costituisce un presupposto, ma piuttosto attiene alle
modalità di attuazione del diritto stesso, non ha
dunque carattere di decisorietà, e non è definitivo,
potendo essere modificato, seppur a seguito di mutamento delle circostanze (al riguardo, Cass. N.
23713 del 2004).
Il provvedimento in esame non poteva dunque essere impugnato con ricorso per cassazione. Ne consegue l’inammissibilità del presente ricorso.
Il tenore della pronuncia esime dall’esaminare i
singoli motivi di gravame.
Nulla sulle spese, non essendosi costituita l’intimata.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
DIBATTITO
L’alienazione genitoriale
“UN FIGLIO DIVISO
A METÀ”
SALOMONICAMENTE
PARLANDO!
La Corte d’Appello di Brescia interviene e chiarisce che
“se pure non si chiama PAS” il comportamento alienante di un genitore verso l’altro, è sicuramente a
danno del figlio, può arrivare a rendergli la vita “impossibile” oltre che a dargli vera sofferenza, in totale dispregio del suo diritto ad una crescita sana ed equilibrata e come tale va individuato ed impedito, proprio
per la tutela del minore.
Corte d’Appello di Brescia, Sezione
per i Minorenni
Decreto del 17 maggio 2013
Svolgimento del processo
La - MADRE - premesso di essersi separata consensualmente dal marito - PADRE -;
che la separazione veniva omologata dal Tribunale di **** nel febbraio del 2****;
che le condizioni concordate dai coniugi prevedevano l’affidamento esclusivo del bambino alla madre con diritto di visita del padre secondo modalità
più estese al progredire dell’età del bambino;
che la frequentazione con il padre cessava completamente nel 2008;
che il - PADRE - presentava ricorso al Tribunale per
i Minorenni di Venezia chiedendo la decadenza della
madre dalla potestà sul figlio e provvedimenti diretti a favorire la ripresa della frequentazione del
predetto con il padre;
che la madre, pur ammettendo che - FIGLIO - si
rifiutava di vedere il padre, respingeva le accuse di
esserne la causa;
che veniva disposta CTU con nomina dello psichiatra e psicoterapeuta;
che il predetto ravvisava la sussistenza della sindrome di alienazione genitoriale (PAS);
che il tribunale adito con decreto22/12 ottobre
2009 dichiarava la decadenza della - MADRE - dalla
potestà genitoriale, affidando il bambino al Servizio
Sociale del Comune di **** per la predisposizione di
un progetto diretto alla riattivazione dei rapporti
dello stesso con il padre;
che successivamente con ricorso in data 6.7.2010
il - PADRE - presentava un altro ricorso al Tribunale
per i Minorenni di... chiedendo l’allontanamento del
figlio dal contesto familiare materno con collocamento dello stesso presso di sé o altri famigliari o
un ambiente terzo, nonché la sostituzione del Servizio Sociale di **** con altro servizio, lamentando
l’incapacità del primo di assolvere il compito assegnatoli con il precedente decreto;
che essa - MADRE - si era costituita anche in tale
procedura negando ogni sua responsabilità in ordine al rifiuto del figlio di vedere il padre e chiedendo da una parte i più opportuni provvedimenti
per proseguire nel percorso di riavvicinamento tra
il predetto e dall’altra la sua reintegra nella potestà
genitoriale;
che il tribunale per i Minorenni con decreto reso
in data 10.12.10 rigettava quest’ultima domanda,
nominava il Servizio Sociale del Comune di **** in
sostituzione di quello di **** al quale conferiva il preciso compito di sostenere i genitori ed il bambino
nel progetto di riavvicinamento padre-figlio, regolando nel contempo tempi e modalità di questi rapporti;
che questo secondo decreto veniva impugnato dal
-PADRE- avanti alla Corte d’appello di Venezia- sezione minorenni chiedendo che si disponesse altra
CTU sul bambino;
che questi venisse allontanato dalla madre e dalla
famiglia materna cui veniva addebitata l’aggravarsi
della PAS, venisse mantenuto l’affidamento al Servizio Sociale del Comune di **** per affidarlo successivamente al genitore ritenuto più idoneo, preferibilmente il padre;
che venisse nel frattempo disposto ogni più utile
provvedimento;
che essa -MADRE- si costituiva anche in questa
procedura e con reclamo incidentale chiedeva la
reintegra nella potestà, pur concordando nella necessità di attività di sostegno da parte del servizio
sociale incaricato ed autorizzando la valutazione
neuropsichiatria del figlio;
che i servizi sociali depositavano nel corso del giudizio tre relazioni di aggiornamento e la corte disponeva nuova CTU affidata al dott. **** per valutare
se il permanere nell’ambiente materno aggravasse
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 53
DIBATTITO
ulteriormente la salute del bambino e quale potesse
essere il pregiudizio conseguente ad una diversa sua
collocazione con indicazione delle più opportune
modalità di attuazione;
che in data 13.7.2012 veniva emesso il decreto
successivamente impugnato in cassazione con il
quale veniva revocato il collocamento del bambino
presso la madre, veniva disposto il suo allontanamento dalla stessa e dalla famiglia materna e lo
stesso veniva affidato al padre, con inserimento
temporaneo in struttura residenziale educativa;
che detto decreto veniva impugnato per violazione del contraddittorio ed omessa motivazione
sulla sussistenza della Sindrome di Alienazione Parentale, punto controverso e decisivo della causa;
che il - PADRE - in tale sede chiedeva la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ed il rigetto nel
merito;
che dopo l’annullamento con rinvio del provvedimento de quo in data 5.4.2013 veniva depositata
avanti la Corte di Brescia un’istanza urgente finalizzata ad ottenere inaudita altera parte l’ordine alla
scuola elementare di **** di nulla osta per l’iscrizione
di - FIGLIO - alla scuola elementare di ****;
che detta istanza veniva dichiarata inammissibile
per mancata riassunzione della causa principale;
che veniva comunque fissata l’udienza del
19.4.2013;
ciò premesso,
contestando il fondamento della diagnosi di PAS
attraverso le argomentazioni già svolte nel ricorso
per cassazione e fatto presente che il bambino è tornato a vivere con la madre, la predetta chiede oltre
al nulla osta per l’iscrizione presso la scuola elementare di **** (istanza decisa all’udienza del 19
aprile con il rigetto della medesima), la reintegra
nella potestà genitoriale nei confronti del figlio, il rigetto del reclamo del marito avverso il decreto del
Tribunale per i Minorenni di Venezia, la definizione
dei tempi e modalità degli incontri di - FIGLIO - con
54 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
il padre, incaricando i Servizi Sociali di **** per seguirne l’attuazione, vittoria di spese e competenze
dei gradi di giudizio.
Il - PADRE - si è costituito e ribadisce il contenuto
dei suoi scritti precedenti con i quali sosteneva che
l’atteggiamento di rifiuto nei suoi confronti espresso
dal figlio era addebitabile al comportamento materno ed alla famiglia della - MADRE - che ripetutamente frapponeva ostacoli alla frequentazione del
padre da parte del figlio sino al provvedimento della
corte d’appello veneziana che favoriva con l’allontanamento dello stesso dalla casa materna la ripresa del dialogo.
Il resistente richiama l’inserimento della PAS nel
DSM IV, sezione problemi relazionali, ne sottolinea
il carattere psicopatogenetico e sottolinea la gravità
del comportamento materno, rivelatosi ostruzionistico anche dopo la cassazione dl provvedimento
veneziano; atteggiamento contrario alle prescrizioni
dei Servizi Sociali, impeditivo dei rapporti con il figlio stabiliti dal programma, allontanamento del
medesimo dalla scuola di **** e tentativo improprio
di iscriverlo a quella di ****.
Conseguentemente chiede l’allontanamento del
minore dalla madre e dalla famiglia della predetta,
l’affidamento in via esclusiva al padre ed il collocamento presso di sé, la ripresa del sostegno psicologico interrotto, l’incarico del Servizio Sociale di **** di
regolamentare i rapporti madre-figlio, disposizione
di un assegno di mantenimento del figlio da porsi a
carico della madre, rigetto della domanda di reintegra della medesima nella potestà genitoriale, vittoria di spese.
Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo
una nuova consulenza, ed in attesa degli esiti della
stessa, che il minore rimanga collocato presso la
madre - MADRE - **** al fine di permettere la conclusione del corrente anno scolastico e rimanga affidato al servizio Sociale di **** per favorire il riavvicinamento al padre - PADRE - ****;
La Corte di Cassazione ha dichiarato l’ammissibilità del ricorso inquadrando le domande del - PADRE
- che aveva adito l’autorità giudiziaria dopo il provvedimento di decadenza della - MADRE - nei confronti del figlio (decreto del 2009) adducendo un inasprimento della sua condotta, responsabile dell’avversione del minore nei suoi confronti tanto da rendere necessario un cambiamento di collocamento
ed affidamento del predetto, nell’ambito del mutamento delle condizioni della separazione riguardanti la regolamentazione del regime di affidamento, del tutto svincolata dagli aspetti inerenti all’applicazione degli artt.330 e ss. cod. civ.
Il provvedimento della Corte territoriale veneziana è stato cassato per vizio di motivazione su di
un punto decisivo e controverso della causa, vale a
dire per non avere affrontato il tema dell’attendibilità scientifica della teoria posta alla base della dia-
DIBATTITO
gnosi di sindrome da alienazione parentale, pur
avendo posto la consulenza di cui richiama ampi
brani nella sua motivazione a fondamento della decisione.
La corte di legittimità, nel rinviare alla corte territoriale bresciana il procedimento richiama le critiche avanzate dal mondo scientifico e dalla stessa difesa della - MADRE - e prescrive di verificare il fondamento della teoria richiamata dalla ctu.
La difesa della ricorrente sostiene che la teoria
della PAS risalente a Gardner e seguita in Italia da
alcuni autori come il prof. Gulotta e le dott. Cavedon
e Liberatore richiama otto elementi significativi per
l’individuazione della ritenuta psicopatologia, dei
quali la Ctu **** ne individua sei in - FIGLIO -, pervenendo alla infausta diagnosi sulla quale si fonda il
provvedimento cassato
Dal riscontro di questi sigma l’esperto dimostra la
manipolazione materna in danno del minore, senza
alcun riferimento al comportamento della - MADRE -.
Inoltre dalla rilevazione di una malattia che viene
contestata sarebbe scaturito un atteggiamento salvifico paterno che avrebbe indotto il - PADRE - ad un
atteggiamento connotato da aggressività ed ossessività al punto da presentare oltre venti denunce penali nei confronti della moglie.
Pertanto sarebbe stata la errata diagnosi di PAS,
stato patologico inesistente, a scatenare il conflitto
tra i genitori e a diventare essa stessa causa del conflitto, moltiplicando la drammaticità della situazione in cui vi sarebbe, senza alcuna prova, un genitore vittima (genitore bersaglio) di un genitore criminale (genitore alienante) ed un figlio affetto da
psicopatologia.
Di conseguenza anche la terapia proposta, vale a
dire l’interruzione in maniera radicale di ogni rapporto del genitore alienante con il minore sarebbe
del tutto priva di fondamento scientifico e nel caso
in esame avrebbe prodotto grande frustrazione nel
bambino.
Secondo la parte resistente, - PADRE -, la comunità scientifica riconosce in modo pressoché unanime questo disturbo relazionale psicopatogenico.
Invero vi sono psicologi e psichiatri importanti
che hanno sottoscritto alcuni documenti in cui si dà
atto dell’esistenza di tale forma di alienazione,
come risulta dalla documentazione prodotta dal
convenuto.
La SINPIA, Società italiana di Neuro psichiatria Infantile la riconosce sin dal 2007; essa risulta essere
inserita nel DSM IV nella sezione problemi relazionali genitore-bambino; molte sono le pubblicazioni
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 55
DIBATTITO
che riguardano l’alienazione genitoriale (doc 8).
Si deve aggiungere che anche la corte di cassazione con la sentenza n.5847/12 pubblicata 1’8.3.13
non ha posto in discussione la diagnosi di PAS posta
a fondamento del provvedimento impugnato.
Il fatto che altri esperti neghino il fondamento
scientifico di tale sindrome non significa che essa
non possa essere utilizzata quanto meno per individuare un problema relazionale molto frequente in
situazione di separazione dei genitori, se non come
una propria e vera malattia.
Più volte è stato ritenuto in decisioni giurisprudenziali che l’atteggiamento del bambino che rifiuta
l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore
ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di
“invischiamento” capace di produrre nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti.
Il problema è verificare se i disturbi certamente
rilevati dal Ctu a carico del minore, riconosciuti
dalla stessa - MADRE -, siano riconducibili alla responsabilità della madre in quanto generati dal suo
comportamento nei confronti del padre.
Questi, la cui personalità è parimenti stata posta
in discussione dal consulente per la sua rigidità, ha
riconosciuto all’atto della separazione l’importanza
che il bambino crescesse con la madre, accettando
56 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
l’affidamento esclusivo alla medesima, come all’epoca era prassi, non essendo ancora stata attuata
la modifica dell’art.155 cod. civ. che presuppone di
regola l’affidamento condiviso, ma riservando a se
stesso la frequentazione con il figlio da attuarsi in
termini maggiormente ampi con la crescita del medesimo.
Nessuna colpa può ravvisarsi, né gli è stata addebitata da controparte per il comportamento del figlio che ad un certo punto ha manifestato un atteggiamento straordinariamente repulsivo e pervicace,
giungendo al punto da non volere nemmeno scendere dall’autovettura con la quale la madre lo portava agli appuntamenti programmati con il padre,
né voler entrare nella stanza dove questi si trovava
ed al punto anche di rivolgergli epiteti ingiuriosi e
manifestazioni gravi di avversione, come prenderlo
a calci e pugni.
L’uso degli epiteti utilizzati per offendere il padre
inoltre non è quello tipico di un bambino, ma sembra veramente suggerito dalle espressione degli
adulti.
La lettura delle relazioni dei servizi sociali, oltre
che degli esami del Ctu (dati obiettivamente rilevati
che non sono stati posti in discussione) lasciano veramente sbigottiti per la forza, la tenacia dell’aggressività e del rifiuto di fronte ad un padre che
DIBATTITO
aveva sempre cercato di svolgere il proprio ruolo.
Con il ricorso presentato dal - PADRE - in data
6.2.08, volto ad ottenere la decadenza dalla potestà
della - MADRE -, questi lamentava di non vedere il
figlio da dieci mesi e che la madre, nonostante fosse
stato previsto il pernotto del bambino presso il padre, consentiva che questi lo vedesse prima dell’interruzione definitiva solo nel garage della sua abitazione. Nel corso dell’audizione dei genitori la madre del minore ammetteva di avere rifiutato al padre
il pernotto presso di lui e di conseguenza anche il
trascorrere della vacanze perché il bambino non
l’aveva mai chiesto.
Il tribunale dava atto che l’atteggiamento della MADRE - non aveva in alcun modo favorito il rapporto del figlio con il padre, ma lo aveva ostacolato
al punto che, disposto dallo stesso ufficio giudiziario una specifica disciplina di visite, la madre aveva
violato tale programma portando con sé il bambino
per le vacanze estive alla fine delle quali si veniva a
verificare una regressione nei rapporti padre-figlio,
nonostante vi fosse stato un iniziale miglioramento
dovuto alla calendarizzazione degli incontri. Tale
comportamento proseguiva anche in seguito nonostante l’intervento dei Servizi Sociali di **** incaricati dal Tribunale per i Minorenni di attivarsi sia per
il sostegno al minore, sia per la predisposizione di
un programma quanto meno minimale degli incontri del figlio con il padre.
Era all’esito di tale procedimento che la madre veniva dichiarata decaduta dalla potestà con un provvedimento che, reclamato avanti alla Corte d’appello veneziana, veniva confermato.
Dalla relazione dei Servizi Sociali di **** del **** ****
2010 si apprende che il programma di incontri predisposto sulle indicazione del tribunale veniva accettato dai genitori, ma che l’atteggiamento del
bambino si rivelava quanto mai preoccupante tanto
che questi nel rifiutare ogni forma di comunicazione
con il padre giungeva al punto di scagliarli contro
un libro che questi gli aveva portato in dono; altra
volta mimava una sberla nei confronti dello stesso
e gli dava un calcio senza che la madre, presente,
desse segni di disapprovazione.
Lo psicologo dott. - PSICOLOGO - sottolineava il
fatto che - FIGLIO - si presentava come un bambino
normalissimo nelle relazioni con gli altri, salvo cambiare improvvisamente al solo parlargli del padre
che definiva come “ persona cattiva, un diavolo, persona sgradevole” e perdere il controllo ed il rispetto
delle più elementari relazioni con ricorso ad aggressività verbale ed agita, senza alcuna provocazione.
Dal punto di vista clinico lo psicologo segnalava
che - FIGLIO - risultava capace di controllare e tenere in scacco gli adulti e manifestava una strutturazione in un’area in cui si sentiva onnipotente, con
il rischio di estensione di tali modalità disfunzionali
ad altre aree di funzionamento.
Non migliore è stato il risultato ottenuto dal Servizio Sociale di ****, sostituito a quello di ****, nonostante il percorso di sostegno a cura della dott. N****,
psicologa, l’avvio di un percorso di sostegno alla genitorialità a cura del Consultorio Familiare iniziato
nel mese di marzo 2***, il sostegno dell’educatore
P*D*. L’equipe ha riscontrato in - FIGLIO - una sindrome o disturbo emozionale inquadrata nei criteri
diagnostici dell’ICD 10.
Il bambino non veniva portato dalla madre agli incontri con il padre nello spazio neutro individuato
dai servizi, fissati nel mese di giugno e di luglio, assenze giustificate dalla - MADRE - con uno stato di
malessere del figlio; per le stesse ragioni non sono
state effettuate le sedute fissate dal servizio di Neuropsichiatria infantile mentre sono stati effettuati
gli incontri con la psicologa N****.
Né si è potuta realizzare la frequentazione del minore al centro estivo in quanto la madre non lo ha
condotto, portando in vacanza il figlio senza tenere
conto del progetto del Servizio Sociale.
In sostanza da tutte le relazioni, informazioni e
non solo dalle due CTU del dott. **** emerge lo stato
di grave disagio del minore ed il suo invischiamento
in un conflitto coniugale in cui la madre ha avuto la
possibilità di qualificare in modo negativo il marito,
tanto da acquisire l’alleanza del figlio.
Il rifiuto del predetto non ha altra origine perché
non sono state nemmeno ipotizzate attività del padre che possano avere distolto il figlio da qualsiasi
forma di rapporto con lui.
La madre in molte circostanze si è manifestata
come un soggetto apparentemente collaborativo
con gli esperti che hanno seguito la vicenda, ma
nella sostanza non ha accompagnato psicologicamente il figlio alla ripresa dei rapporti con il padre,
predisponendo il suo comportamento quanto meno
ad una accettazione formale del genitore; lo ha lasciato solo nella sue difficoltà, non ha ripreso il suo
eloquio sconveniente, né gli agiti violenti. Inoltre ha
sacrificato il programma di sostegno predisposto dai
servizi Sociali alle vacanze.
Solo nel corso della prima consulenza tecnica il
bambino ha ripreso il contatto con il padre, regalandogli nel vero senso della parola alcune giornate
normali in cui si sono ritrovati per proseguire successivamente nel rifiuto.
Questo atteggiamento è molto sintomatico e strumentale ad ottenere una disamina favorevole dell’esperto incaricato dal giudice tenuto ad esprimere
un giudizio importante al fine di conseguire un
provvedimento favorevole e poiché questo atteggiamento non può essere frutto della determinazione
di un bambino di sette-otto anni, non può che essere stato dettato dalla madre.
Fortunatamente le cose sono radicalmente cambiate: il provvedimento della corte territoriale che è
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 57
DIBATTITO
stato cassato, comportante l’allontanamento del
minore dalla madre e dall’ambiente materno ha
consentito al bambino di liberarsi dalla sua condizione di avversione nei confronti del padre. Ne ha
accettato la compagnia e finanche di trascorrere la
notte con lui attraverso un graduale riavvicinamento.
Questo cambiamento di comportamento sta a dimostrare che i soggetti in età evolutiva sono dotati
di un alto grado di resilenzia, vale a dire sanno resistere alle condizioni della vita che li pone in difficoltà ed all’azione degli adulti che attraverso il loro
conflitto li possono spingere ad allearsi con uno di
loro e a rifiutare l’altro.
La - MADRE -, subito dopo la sentenza della corte
di cassazione, ha prelevato il figlio dalla casa paterna, gli ha impedito di frequentare la scuola in cui
era iscritto, ha tentato di ottenere l’iscrizione presso
la scuola di ****, ha disatteso il programma del servizio sociale affidatario, ha impedito al figlio di trascorrere parte dei giorni festivi pasquali con il padre portandolo con sé in Toscana da alcuni parenti.
In questa situazione i comportamenti che emergono da fatti obiettivi ed inconfutabili consentono di
corroborare la prova del suo comportamento alienante e possessivo, nonostante i limiti imposti dal
provvedimento del tribunale per i minorenni che ha
58 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
rigettato la sua reintegra nella potestà ed ha confermato l’affidamento del bambino al servizio sociale.
Dalle sue dichiarazioni orali rese in udienza la MADRE - risulta desiderosa di restituire al figlio “
tutta la sua vita” e non solo la metà che è costituita
nel suo rientro nella casa materna. L’altra metà a
suo dire è costituita dall’ambiente scolastico ed
amicale di ****.
Nessuno spazio nel suo concetto di vita del figlio
è riservato al rapporto con il padre, nonostante le
preoccupazioni che asserisce di avere avuto per il rifiuto nei confronti dello stesso.
Di fronte a tale pervicacia nel comportamento
materno non si ravvisano le garanzie che la predetta
sappia far proseguire il figlio nel rapporto con il padre e non ponga nuovamente in atto ostacoli alla
normalità del medesimo, facendo regredire il minore e ponendolo in posizione di grave rischio di disturbi della personalità, siano essi quelli che in
campo scientifico vengono da parte degli esperti
qualificati come PAS, siano gli agiti aggressivi che
derivano dallo stato d’ansia rilevati dagli esperti dei
Servizi Sociali. Indipendemente dalla loro qualificazione dal punto di vista medico, la descrizione dei
comportamenti del bambino sulla quale tutti hanno
concordato consente di ritenere che i suoi agiti, se
non ricomposti, porterebbero a disturbi che impedi-
DIBATTITO
rebbero a - FIGLIO - di crescere e sviluppare tutte le
sue notevoli capacità intellettuali ed espressive.
Non si tratta solo di conservare al bambino la bigenitorialità da intendersi come un patrimonio prezioso di cui i figli debbono poter disporre, ma di evitare che attraverso il rifiuto si vada strutturando una
personalità deviante.
Si tratta anche di preservare il bambino dal dolore
perché le gravi manifestazioni di rifiuto emerse nel
passato sono anche espressione di sofferenza.
Per tale ragione va confermato l’affidamento al
servizio sociale per la predisposizione di un progetto
di sostegno psicologico del bambino e di aiuto alla
genitorialità in quanto solo attraverso l’abbassamento del conflitto della coppia si può sperare che
il bambino acquisisca sicurezza e serenità.
Poiché la madre non lo ha garantito in questo percorso, ma al contrario lo ha ostacolato, la predetta
non può ritenersi essere il genitore più idoneo a favorire la crescita del bambino, per cui il collocamento principale dello stesso va disposto presso
il padre che ne esercita la potestà.
Va tuttavia garantito a - FIGLIO - anche la frequentazione dell’ambiente materno che certamente
ha costituito per anni il centro dei suoi affetti; affetti che non gli possono essere negati, salvo il rischio di porlo in situazione di grave sofferenza.
Pertanto va disposto un calendario di “visite” materne molto nutrito che consenta di conservargli
l’ambiente della prima infanzia: - FIGLIO - trascorrerà con la madre otto settimane all’anno di vacanze, ivi compreso una settimana a Natale o a Capodanno ed alcuni giorni a Pasqua; starà presso
l’abitazione materna dal venerdì pomeriggio all’uscita da scuola sino al lunedì mattina per due
volte al mese e per le altre due settimane dal martedì all’uscita della scuola sino al venerdì mattina.
Frequenterà la scuola a ****, salvo diversa decisione da parte del padre ed in ogni caso potrà frequentare un’attività sportiva, culturale o ludica
scelta della madre anche eventualmente in ****.
La - MADRE - non ha la potestà sul figlio, né questa corte può esaminare la sua domanda di reintegra dal momento che essa non è stata respinta, ma
rinviata nella decisione da parte della corte veneziana (in questo senso è stato inteso anche dalla
corte di cassazione che per altro non avrebbe potuto
prendere in esame la questione non soggetta a ricorso per cassazione), per cui il giudice di rinvio non
può considerarsi investito della questione. Tuttavia
si ritiene equo consentire che la madre possa assumere informazioni anche dirette dalla scuola in ordine al profitto ed al comportamento del figlio e parimenti possa avere informazioni dirette sulla sua
salute. Tutte le altre decisioni (gite scolastiche, attività all’interno della scuola, decisioni importanti
sulla salute del figlio ecc.) debbono avere l’avallo del
padre.
Il servizio sociale disporrà il calendario dei periodi
di vacanza che il bambino potrà trascorrere presso
la madre, sentiti previamente i genitori; potrà regolare ogni minuta esigenza del bambino che non risultasse dal provvedimento, come stabilire quale dei
due genitori debba portare o prendere da scuola il
figlio, dividendo equamente i compiti; dovrà monitorare la situazione e riferire alla Procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni nel caso
si verificasse qualche grave problema che renda non
praticabile il progetto di vita che questa corte ha
previsto per il minore.
Quanto alla richiesta del - PADRE - di contribuzione economica a carico della - MADRE - per il
mantenimento del figlio, tenuto conto che in sostanza il bambino trascorrerà periodi di tempi quasi
uguali nelle due case a sua disposizione, si ritiene
di non porre una contribuzione economica, salvo ribadire che i genitori sono tenuti a concorrere alle
spese straordinarie per il 50% ciascuno, apparendo
entrambi in condizioni di poter affrontare tale
esborso.
Quanto alle spese di lite in considerazione della
delicatezza del caso, della novità delle questioni
trattate e dell’esito del procedimento si ritiene equo
compensare le medesime tra le parti, ivi comprese
quelle del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Definitivamente decidendo nel procedimento di
cui in epigrafe conferma l’affidamento del minore PADRE - - FIGLIO - al Servizio Sociale di **** che continuerà nel sostegno alla genitorialità nei confronti
dei genitori e nel sostegno psicologico del minore,
effettuerà il monitoraggio e darà attuazione ai provvedimenti del giudice attraverso la calendarizzazione dei periodi di vacanza e per ogni disposizione
necessaria non prevista nel presente decreto; colloca il minore presso il padre; consente che il bambino stia presso la madre per otto settimane complessive nei periodi di vacanza, ivi compreso il Natale, il Capodanno e la Pasqua, nonché per due settimane al mese dal martedì pomeriggio al venerdì
mattina e per altre due settimane al mese dal venerdì pomeriggio (all’uscita della scuola) sino al lunedì mattina (rientro a scuola), disponendo che i genitori dividendo equamente gli oneri del viaggio.
Dispone che il bambino frequenti la scuola a **** o
a ****, se il padre lo consentirà; che la madre anche
se non esercente la potestà possa avere informazioni dirette dalla scuola e dai medici del figlio e
possa scegliere con lo stesso un’attività sportiva, ludica o culturale gradita al figlio da svolgersi a **** o
a **** nei giorni a sua disposizione.
Pone a carico dei genitori le spese di mantenimento e di abbigliamento necessari nei tempi di frequentazione del figlio e le spese straordinarie in ragione del 50% per ciascuno.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 59
DIBATTITO
Dichiara inammissibile in questa sede la domanda di reintegro nella potestà avanzata dalla MADRE-. Compensa tra le parti le spese di causa ivi
comprese quelle del giudizio di cassazione
Dichiara il decreto immediatamente esecutivo, disponendo che la cancelleria ne dia comunicazione
oltre che alle parti, al Servizio Sociale di ****.
Dispone che nel caso di diffusione dello stesso
siano cancellati tutti i dati identificativi del minore
e dei genitori e dei luoghi di residenza degli stessi.
IL PUNTO DI VISTA
di MARIA TERESA DE SCIANNI
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI SALERNO DELL’OSSERVATORIO
“Il fatto che altri esperti neghino il fondamento scientifico di tale sindrome non significa che essa non possa
essere utilizzata quanto meno per individuare un problema relazionale molto frequente in situazione di separazione dei genitori, se non come una propria e vera
malattia.”
Questa, in sostanza, la valutazione principale intorno a cui ruota l’intero decreto e tutti i ragionamenti attivati dalla Corte di Brescia.
Di fatto un’opinione del tutto condivisibile dal
momento che spesso, forse troppo, siamo abituati a
ragionamenti contorti che si perdono nei meandri
del diritto o delle decisioni giurisprudenziali, pur di
non vedere ciò che è lapalissiano, pur di non voler
considerare come “inammissibili” certi comportamenti per il solo fatto che qualcuno li ha definiti o
chiamati con un termine, di fatto inesistente o non
comunemente riconosciuto, arrivando, per ciò
stesso, a negarli.
Come la favola del re nudo… per convenzione, per
ossequio, per falsa piaggeria nei confronti del Re,
tutti erano indotti a Vedere ciò che non c’era… un
vestito! Solo chi, con disarmante senso della verità
e senza schermi o pudori o falsa rappresentazione
di ciò che poteva essere giusto o meno dire, ebbe il
coraggio o, secondo alcuni: “l’ardire” di dire la verità,
in realtà fu ricompensato per tale sua naturale purezza: il re era nudo e non aveva indosso alcun vestito!
La stessa serenità e lo stesso senso della “verità”
ha manifestato la Corte di Brescia che, di fatto, ha
detto quanto molti vedevano ma non avevano il coraggio di dire, cioè che, al di là delle definizioni
scientifiche di un certo comportamento, comunque
le reazioni di quel bambino, al limite dell’assurdo e
comunque non “naturali e serene”, rappresentavano
sicuramente una summa di problemi legati al rapporto con un genitore, il padre, e determinati dal
comportamento dell’altro genitore: la madre.
Non v’è chi non veda quanto “il plagio”, quello che
generalmente e volgarmente viene definito “lavag60 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
gio del cervello”, scientificamente detto “indottrinamento” possa, di fatto, essere lesivo della libertà
di pensiero e di autodeterminazione e quanto
danno comporti nelle relazioni tra un genitore ed
un figlio.
Un bambino che viva la maggior parte del tempo
con uno dei due genitori ma che, al di là della quantità di tempo con questi vissuto, sia particolarmente
legato e condizionato dalle parole e dall’affetto,
spesso morboso, di tale genitore, solo difficilmente
potrà elaborare una propria opinione sul modo di
essere e di fare dell’altro genitore dal momento che,
per forza di cose, sarà condizionato ed influenzato
da quello che sarà stato detto e dal comportamento
avuto dal genitore convivente rispetto all’altro.
Come diceva Aristotele, la mente di un bambino è,
all’origine, una “tabula rasa” sulla quale si imprimono le informazioni che diventano “esperienze”
che rimarranno stampate “a fuoco” come sulla cera
e andranno a costituire, nel corso degli anni, il proprio bagaglio di conoscenza e di ricordi.
Questo è quello che può fare il comportamento di
un genitore, anche in buona fede, ma fortemente
condizionante, nella mente del figlio quando, magari senza dolo, parli del “padre” come di una persona negativa, o peggio quando lo descriva come un
uomo inaffidabile o cattivo o violento o quant’altro
si possa dire contro l’ex compagno, padre (o madre)
del proprio figlio.
Ciò che si otterrà, indipendentemente dalla volontà precisa di ottenerlo, sarà la “demolizione”
della figura paterna (o materna) agli occhi del bambino il quale, pur non volendo, sarà condizionato da
quanto ha sentito o visto e non potrà fare a meno
di attivare una serie di “difese” sia nel suo interesse
sia rispetto al genitore solo apparentemente “più
debole” perché ritenuto tale.
Chiunque si dovesse trovare nelle condizioni di
quel bambino agirebbe proprio come il bambino di
Cittadella, sarebbe sicuramente indotto a salvare innanzitutto se stesso dalla presunta, minacciata, violenza dell’altro genitore, e poi a salvare anche lo
stesso genitore “prevalente” o che ha il maggior controllo della sua vita, dal momento che istintivamente, sapendo quanto “dolore” o “dispiacere” questi, almeno apparentemente, sia costretto a subire,
troverebbe naturale la più logica delle reazioni cioè
il rifiuto di qualsiasi forma di contatto con l’altro genitore… “il cattivo” per intenderci.
Le figure genitoriali non sono “parole” o “concetti”
astratti ma, al contrario, padre e madre sono sostantivi polivalenti dal significato complesso e articolato e nient’affatto rappresentativi della stessa
funzione!
Per un bambino che abbia viventi i due genitori
non è affatto naturale dover rinunciare all’uno o all’altro dal momento che nessuno dei due si può considerare “di troppo”…
DIBATTITO
Un padre così come una madre danno, ognuno
per quello che istintivamente e naturalmente sono
portati ad essere e rappresentare, una ricchezza di
contenuti, di vita, di esperienze e di modi di vedere
le cose in maniera diversa, entrambi necessari, insostituibili e non intercambiabili. Ciò che può trasferire un padre in termini di sicurezza, di regole di
vita, di superficialità… quella giusta però, intesa
come “leggerezza” nell’affrontare certe esperienze o
nel vivere certi momenti anche di svago, è sicuramente diverso da ciò che dà e garantisce una madre più attenta ai doveri, alla moralità e alla sollecitazione al senso di responsabilità.
La visione della vita è ambivalente, nel senso che
i due genitori si completano a vicenda e insieme,
anche se non contemporaneamente o sotto lo
stesso tetto, trasmettono al figlio valori e forza e capacità di saper affrontare la vita e scegliere il giusto
mezzo, per garantirgli equilibrio e coraggio al tempo
stesso, di cui un figlio cresciuto da un solo genitore
più difficilmente potrebbe beneficiare visto che, per
quanto si possa tentare di compensare il vuoto, l’assenza dell’altro è un vuoto difficilmente colmabile.
Detto questo è appena il caso di far notare come,
dopo un gran discutere, contestare o condividere la
sentenza della Corte di Cassazione sul caso di specie, e dopo aver riconsiderato quanto in essa scritto
sul punto PAS e sulla sua attendibilità e cioè che:
“…sarebbe stata la errata diagnosi di PAS, stato patologico inesistente, a scatenare il conflitto tra i genitori e a diventare essa stessa causa del conflitto, moltiplicando la
drammaticità della situazione in cui vi sarebbe, senza alcuna prova, un genitore vittima (genitore bersaglio) di un
genitore criminale (genitore alienante) ed un figlio affetto
da psicopatologia” un dubbio sorge spontaneo: e se il
re fosse nudo?
Si ha la netta sensazione che a furia di motivare,
spiegare, giustificare o colpevolizzare questa o
quella opinione, di fatto si stia tralasciando il punto
più importante di tutta la vicenda, cioè: il bene del
bambino, diventato “oggetto” ed “arma” nelle mani
(e nei telefonini!) di questo o quell’adulto, di cui
sembra quasi che nessuno si interessi a fondo.
Soprattutto sembra che le condizioni di vita e le
decisioni, anche nell’ambito delle proprie esperienze scolastiche, non sia lui ad assumerle, ma
piuttosto che lui, nonostante la sua tenera età, sia
costretto a subìre le scelte spesso “scellerate” degli
adulti, per dimostrare a se stessi e al mondo di essere “i più forti”, i “vincenti” senza alcun riguardo
per quello che al bambino interessa o piace fare o
preferisca vivere.
Eppure non sembra chiedere molto se si sollecita
una riflessione su quelle che sono le conseguenze
delle decisioni dei genitori rispetto a questo bambino.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 61
DIBATTITO
È stato diverse volte ascoltato dai Servizi Sociali,
ha visto un padre ed una madre litigare e quasi con
violenza affermare la propria priorità educativa su
di lui, ha subìto diversi trasferimenti da un istituto
scolastico ad un altro, quindi ha cambiato amici, insegnanti di riferimento, sport, giochi e soprattutto
“COMPAGNI DI GIOCHI”…Ha dovuto adattarsi a dormire in letti diversi non potendo dire di avere una
sua camera, l’angolo di mondo fuori dal quale si ha
bisogno di lasciare “il mondo intero”, anche i genitori in alcuni momenti di crescita interiore. Ebbene
a questo bambino, nella corsa affannosa al traguardo del “più forte”, i genitori e tutti coloro che
sono stati da questi interpellati o che sono intervenuti per causa loro, ebbene tutti costoro gli hanno
stravolto la vita.
Ci si domanda, poi, se questo bambino possa aver
avuto conseguenze dalle scelte di coloro che, solo “a
parole”, hanno inteso fare il suo bene???
Com’è possibile che si dubiti di ciò?
Proviamo a saperne di più sull’oggetto del contendere che poi, si è confermata esistere indipendentemente dalla sua definizione o dal suo riconoscimento
in sede scientifica, per il solo fatto di ESISTERE come
concause scatenanti determinate reazioni: la P.A.S.
o Sindrome da Alienazione Parentale.
Il dr. Marco Casonato, psicologo intervenuto nel
mese di Aprile 2013 ad una giornata formativa or62 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
ganizzata dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di
Famiglia, Sezione di Salerno, è stato consulente in
vari procedimenti che ne hanno trattato, e la definisce partendo dalla disamina del concetto di Mobbing per dimostrare come, a suo avviso, escludere la
PAS dal DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali) non vuole significare necessariamente che essa non esista, in quanto negarle la valenza di “patologia” non equivale a “negarne l’esistenza” come manifestazione di un grave disturbo
del comportamento.
Egli scrive: “Pare di poter iniziare questa disamina
dalla tesi di Giordano… che introduce la nozione di Mobbing genitoriale… la nozione di mobbing infatti comprende almeno quattro parti: un contesto ambientale, un
attore, dei veicoli, una vittima….
Altrettanto vale per il mobbing sul lavoro: un ambiente di lavoro malsano, un dirigente ostile e paranoide, degli alleati tra impiegati e colleghi, un lavoratore vittima.
La Sindrome di alienazione parentale parrebbe in effetti sovrapponibile con le condizioni citate: un contesto
giudiziario malsano, un genitore ostile e paranoide, un
branco di alleati (tra cui il bambino), un oggetto dell’attacco (un ex coniuge).
Ha senso “ridurre” la PAS al mobbing?
Concordiamo in parte: la PAS come sindrome non
è una malattia psichiatrica che “sta nella testa” e
DIBATTITO
deve essere valutata sia nelle dinamiche intrafamiliari che in quello che viene chiamato esosistema
(rapporti tra l’individuo e l’ordinamento) e macrosistema (tempo, storia, leggi e cultura).
Per rispondere al quesito lasciateci considerare una
terza condizione: lo Stalking o molestie persecutorie come
da novella del Codice penale.
Lo stalking prevede un persecutore ed un perseguitato, un contesto socio-familiare, delle dinamiche di coppia (anche se talora la vittima non conosce il suo persecutore).
Anche lo stalking non è una “malattia che sta
nella testa” ne’ della vittima, ne’ del persecutore.
Le tre condizioni non compaiono come tali in
nessun DSM degli ultimi 20 anni, la ragione è semplice, nessuna delle tre condizioni è “una malattia
che sta nella testa” e i DSM considerano invece tendenzialmente solo ed esclusivamente “malattie che
stanno nella testa” che si possono trattare con una
sostanza medicamentosa che si introduce nel corpo
all’uopo.
Dovrebbero avere un posto tutte nel DSM 6?
Se la concettualizzazione sottostante ai DSM non
cambierà nei prossimi 10-20 anni probabilmente
non vi troveranno posto, perché appunto nessuna
condizione delle citate è una “malattia che sta nella
testa”.
Ciò implica che Stalking, PAS, Mobbing non esistano?
Evidentemente no: semplicemente il DSM 5 non elenca
compiutamente queste condizioni perchè non sono “malattie che stanno nella testa”.
Concludendo sulla proposta di Giordano (2012):
non ci pare opportuno “ridurre” la PAS a Mobbing,
ne’ più ne’ meno che ridurre il Mobbing allo Stalking, …ne’ d’altra parte si può affermare che le due
condizioni siano la medesima condizione.
La evidente somiglianza (da cui il ragionamento
per analogia) deriva dal fatto che le citate condizioni
paiono appartenere ad una medesima ampia categoria di cui esse sono semmai sottocategorie e pertanto condividono diverse caratteristiche tra loro tra
cui il fatto rilevante ai fini dei criteri di inclusione
dei DSM attuali di “non essere nella testa”.
Senza esaminare ulteriormente la Sentenza della
Cassazione, prima, che ha negato l’opportunità di
una decisione fondata su una Sindrome inesistente,
e il Decreto della Corte d’Appello di Brescia, poi, che
chiarisce l’importanza di un provvedimento articolato di tutela del figlio, indipendentemente dalle definizioni scientifiche del suo disturbo, si sente la necessità di ricordare, innanzitutto alla scrivente, che
la famiglia è nel contempo il luogo più sicuro e accogliente possibile ma, in situazioni patologiche o
conflittuali, diventa la trappola peggiore e più pericolosa nella quale poter costringere chi in essa cresce e ad essa si affida: il figlio.
È cronaca del nostro tempo la violenza intrafamiliare che, statisticamente (pur non amando le stati-
stiche) è la sede più frequente della violenza a
danno delle donne e, in genere, dei soggetti più deboli.
È sicuramente il soggetto debole per eccellenza, il
figlio, colui che cresce in una famiglia e aspetta di
ricevere, avendone il diritto, gli strumenti per diventare adulto e per spiccare il volo e guadagnarsi il
proprio ruolo e la propria dignità sociale in una società che lo riconosca parte di se.
Non consentire ad un bambino di sviluppare la
propria autonomia e la propria capacità critica e negargli il diritto agli affetti naturali, cioè a quelli che
più e prima di tutti gli altri lo aiuteranno a diventare un uomo (o una donna) maturo e realizzato oltre che un soggetto capace di dare amore avendolo
ricevuto in maniera sana, equivale a negargli un’esistenza serena e soprattutto un’infanzia a cui fare riferimento in termini di ricordi piacevoli, nei momenti di sconforto, e in termini di esperienza, per
quando anche lui sarà genitore e avrà bisogno di trasferire insegnamenti attingendo ai ricordi del passato.
In parole povere gli avremo rubato “un futuro sereno” e rovinato per sempre il “passato” che, seppure fosse cancellato dalla sua mente, rimarrà
stampato a fuoco nella sua anima.
Un figlio non si divide, Salomonicamente, a metà
né può essere privato, avendoli entrambi, di uno dei
genitori per motivi che prescindono dal suo reale interesse o diritto.
Un figlio si “condivide” nel suo interesse, nonostante ogni rancore, per aiutarlo a crescere e per
dargli la forza di vivere!
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 63
DOCUMENTI
PROTOCOLLO DEL
TRIBUNALE DI REGGIO
EMILIA PER LE CAUSE
IN MATERIA DI FAMIGLIA.
GIUDIZI DI SEPARAZIONE,
DIVORZIO, AFFIDAMENTO
DEI MINORI NATI FUORI
DAL MATRIMONIO
E RELATIVE MODIFICHE
PARTE PRIMA
Sezione Prima
Norme di carattere generale
Art. 1. Riservatezza
Nello svolgimento delle udienze è assicurata la
massima riservatezza.
A tal fine, in occasione delle udienze presidenziali
e, ove possibile, anche di trattazione avanti il Giudice Istruttore, i fascicoli delle cause in materia di
famiglia dovranno essere resi disponibili ai soli difensori delle parti.
Per ciascuna causa in materia di famiglia verrà fissato un orario di trattazione che riservi ad ogni procedimento un tempo sufficiente al suo ordinato
svolgimento.
Gli elenchi esposti nei locali del Palazzo di Giustizia relativi alle cause di famiglia chiamate davanti al
Giudice dovranno individuare la controversia mediante il numero di ruolo, l’orario di trattazione, e il
nome dei difensori, omettendo il nome delle parti.
Il Giudice procurerà che la trattazione delle singole cause in materia di famiglia avvenga alla sola
presenza dei difensori, delle parti ove comparse, e
dei praticanti e dei soggetti a ciò abilitati dalla legge
forense.
Fermo quanto sopra, il Giudice e i difensori delle
parti si impegnano a favorire le condizioni perché si
realizzi in concreto la tutela della riservatezza nella
trattazione delle cause di famiglia.
Art. 2. Cortesie tra difensori e Cancelleria
I difensori delle parti cureranno di trasmettersi reciprocamente e tempestivamente copia degli atti e
dei documenti depositati in cancelleria nel corso
della causa, provvedendo all’inserimento delle copie nella cassetta personale del Collega avversario
ovvero tramite invio via e mail all’indirizzo di posta
elettronica certificata comunicato dal Collega.
In caso di produzione di documenti nel corso della
udienza, i difensori delle parti consegneranno contestualmente al Collega avversario copia delle produzioni effettuate.
64 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
Art. 3. Fascicoli di parte e di ufficio
Il fascicolo di parte andrà predisposto secondo
quanto previsto dall’art. 74 disp. att. c.p.c., con sezioni separate per “Atti” e “Documenti”, questi ultimi con distinta e progressiva numerazione.
I difensori provvederanno ad aggiornare l’indice
dei documenti prodotti in causa ad ogni ulteriore
produzione successiva alla costituzione in giudizio,
numerando i documenti in ordine progressivo a partire da quelli offerti in comunicazione nella fase presidenziale.
Si auspica che i difensori, il Giudice e il personale
di Cancelleria, nel consultare i fascicoli d’ufficio,
mantengano in ordine gli stessi che dovranno contenere, separati tra loro: verbali e provvedimenti, copie ufficio degli atti delle parti, fascicoli di parte, fascicolo della eventuale consulenza tecnica, fascicolo
delle eventuali comunicazioni dei Servizi Sociali, fascicolo delle comunicazioni di cancelleria ai difensori e a terzi).
Art. 4. Numero di cause
Il Presidente del Tribunale curerà di tenere le
udienze dei procedimenti di separazione consensuale e divorzi congiunti in giorni distinti dalle
udienze presidenziali dei procedimenti di separazione giudiziale e dei divorzi contenziosi e di fissarne l’apposito orario di chiamata progressivo che
renda possibile la compiuta trattazione di ogni procedimento.
Sezione Seconda
Fase presidenziale
Art. 5. Il ricorso introduttivo
Con il ricorso introduttivo il ricorrente dovrà depositare le ultime tre dichiarazioni dei redditi (730
o Modello Unico) presentate all’amministrazione fiscale, complete in ogni loro parte con la prova dell’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle Entrate. Il
Modello Unico deve essere completo della dichiarazione della persona, dell’IVA, dell’IRAP e auspicabilmente anche degli studi di settore.
La produzione del solo CUD sarà consentita nel
caso in cui il ricorrente non abbia presentato dichiarazione dei redditi per uno o più anni, relativamente ai quali dovrà allegare al ricorso con dichiarazione sostitutiva di atto notorio che attesti la circostanza, sotto la propria responsabilità, come da
facsimile allegato al presente protocollo.
Il ricorrente dovrà comunque produrre alla udienza
presidenziale anche la dichiarazione dei redditi presentata successivamente al deposito del ricorso.
Nel caso in cui il ricorrente abbia recentemente
iniziato nuova attività lavorativa dovrà produrre anche copia del contratto di lavoro e le buste paga sino
a quel momento maturate.
Nelle cause in cui il Giudice deve adottare provvedimenti economici relativi al mantenimento di fi-
DOCUMENTI
gli minori, è auspicabile che il ricorrente dichiari nel
ricorso i beni mobili (compresi veicoli e partecipazioni societarie) e immobili di cui è proprietario.
Ove il ricorrente chieda l’applicazione di una legge
straniera, avrà cura di allegare al ricorso copia del
testo normativo aggiornato e la traduzione in lingua
italiana. Parimenti allorchè alleghi al ricorso documenti in lingua straniera, dovrà corredarli di traduzione in lingua italiana. La traduzione dovrà essere
asseverata nei casi previsti dalla legge.
È auspicabile che il ricorso che contenga la domanda di assegnazione della casa coniugale riporti
i dati di identificazione catastale dell’immobile ai
fini della trascrizione del ricorso e/o del successivo
provvedimento di assegnazione.
Art. 6. Il decreto di fissazione di udienza presidenziale
Il decreto di fissazione di udienza presidenziale
conterrà:
- la fissazione di udienza di comparizione entro
90 giorni dal deposito del ricorso;
- la fissazione al resistente del termine di 10 giorni
prima della udienza presidenziale per depositare
propria memoria difensiva e la documentazione fiscale di cui al precedente art. 5;
- la fissazione al ricorrente del termine per la notifica al resistente del ricorso e del decreto di fissazione
di udienza almeno 30 giorni prima della stessa;
- l’informazione alla parte resistente che è necessario il patrocinio di un avvocato, anche nella fase
presidenziale;
- l’informazione alla parte resistente che potrà avvalersi del patrocinio a spese dello Stato ove ne abbia i requisiti;
- l’obbligo di produrre le tre ultime dichiarazioni
dei redditi.
Art. 7. La memoria difensiva
È auspicabile che il resistente depositi memoria
difensiva nel termine indicato dal Presidente nel decreto di fissazione di udienza, per consentire la razionalizzazione dei tempi di udienza e la celerità del
processo.
Nel caso in cui il resistente si costituisca successivamente al predetto termine è cortesia del difensore del resistente avvertire tempestivamente di ciò
il difensore del ricorrente.
Con la memoria difensiva il resistente dovrà depositare le ultime tre dichiarazioni dei redditi (730
o Modello Unico) presentate all’amministrazione fiscale, complete in ogni loro parte con la prova dell’avvenuta trasmissione all’Agenzia delle Entrate. Il
Modello Unico deve essere completo della dichiarazione della persona, dell’IVA, dell’IRAP e auspicabilmente anche degli studi di settore.
La produzione del solo CUD sarà consentita nel
caso in cui il resistente non abbia presentato di-
chiarazione dei redditi per uno o più anni, relativamente ai quali dovrà allegare alla memoria difensiva una propria dichiarazione sostitutiva di atto notorio che attesti la circostanza, sotto la propria responsabilità, come da facsimile allegato al presente
protocollo.
Nel caso in cui il resistente abbia recentemente
iniziato nuova attività lavorativa dovrà produrre anche copia del contratto di lavoro e le buste paga sino
a quel momento maturate.
Nelle cause in cui il Giudice deve adottare provvedimenti economici relativi al mantenimento di figli minori, è auspicabile che il resistente dichiari nel
ricorso i beni mobili (compresi veicoli e partecipazioni societarie) e immobili di cui è proprietario.
Ove il resistente chieda l’applicazione di una legge
straniera, avrà cura di allegare alla propria memoria
difensiva copia del testo normativo aggiornato e la
traduzione in lingua italiana. Parimenti allorchè alleghi alla memoria difensiva documenti in lingua
straniera, dovrà corredarli di traduzione in lingua
italiana. La traduzione dovrà essere asseverata nei
casi previsti dalla legge.
È auspicabile che la memoria difensiva che contenga la domanda di assegnazione della casa coniugale riporti i dati di identificazione catastale dell’immobile ai fini della trascrizione del ricorso e/o
del successivo provvedimento di assegnazione.
Art. 8. Verbale delle udienze di separazione consensuale
Nei procedimenti di separazione consensuale il
difensore predispone per l’udienza presidenziale il
relativo verbale, che dovrà riportare tutte le condizioni concordate tra i coniugi, nonché la istanza di
omologa, entrambi secondo il modello allegato al
presente protocollo, disponibile sul sito www.ordineforense.re.it.
Art. 9. Svolgimento delle udienze di separazione
giudiziale e divorzi contenziosi
Il Presidente in primo luogo procede all’audizione
dei coniugi separatamente, verbalizzando le dichiarazioni della parte.
Il Presidente, quindi, avuta la presenza di entrambi i coniugi e dei rispettivi difensori, prima di
interrogarle liberamente e di esperire il tentativo di
conciliazione, leggerà la verbalizzazione precedente
e metterà a conoscenza i coniugi di quando dichiarato dall’uno e dall’altro separatamente.
Nel caso in cui fallisca il tentativo di conciliazione,
seguirà la trattazione orale della causa da parte dei
difensori i quali dovranno attenersi alle regole di rispetto e cortesia reciproche che il Presidente farà rispettare, non consentendo che si verifichino interruzioni e/o sovrapposizioni e/o che il difensore si rivolga direttamente alla controparte o che la parte si
rivolga direttamente al difensore avversario.
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DOCUMENTI
Al fine di emettere provvedimenti più opportuni
in ordine alla prole, il Presidente potrà disporre accertamenti tramite i Servizi Sociali territorialmente
competenti o avvalersi di una Consulenza Tecnica
d’Ufficio che potrà essere disposta con immediatezza in caso di sua necessità.
All’udienza presidenziale è di regola concessa al
ricorrente una replica solo verbale alla costituzione
avversaria, a meno che il resistente non abbia svolto
domande riconvenzionali o prodotto documenti che
richiedano una compiuta replica scritta e la produzione di altri documenti. In tal caso il Presidente potrà concedere alle parti termini differenziati per repliche e riservare la adozione dei provvedimenti
provvisori ed urgenti all’esito.
Art. 10. Mancata costituzione del resistente nel termine indicato dal decreto presidenziale
Nel caso in cui il resistente non si costituisca nel
termine stabilito dal Presidente con il decreto di fissazione di udienza, il Presidente, sentite le parti personalmente e separatamente, sentiti i difensori, può
concedere, al ricorrente, se da questo richiesto, un
termine per replicare e produrre documenti, rinviando la procedura ad udienza successiva per
l’adozione dei provvedimenti provvisori.
Art. 11. Comparizione personale del resistente
senza l’assistenza del difensore
Nel caso in cui il resistente compaia all’udienza
presidenziale senza l’assistenza del difensore, il Presidente lo avverte della possibilità di munirsi di difensore e se la parte vi rinuncia procede alla sua audizione.
Nell’eventualità che il resistente comparso personalmente aderisca alla domanda giudiziale del ricorrente e concordi sulle condizioni di separazione
o di divorzio, il Presidente, verbalizzate le dichiarazioni delle parti, fisserà altra udienza per consentire
al resistente di munirsi di difensore, per procedere
al mutamento di rito. E’ auspicabile che in questo
caso che il difensore del ricorrente non assuma, seduta stante, in udienza, la rappresentanza e l’assistenza anche del resistente perché tale ipotesi configurerebbe una difesa meramente apparente,
tranne casi particolari.
Art. 12. L’ordinanza presidenziale e fissazione di
udienza istruttoria ex art. 709 c.p.c.
Con l’ordinanza ex art. 709 c.p.c. il Presidente, tenuto conto degli accordi tra i coniugi, stabilisce in
dettaglio i periodi di permanenza dei figli minori
presso ciascuno dei genitori, con l’indicazione del
giorno e dell’orario di inizio e del giorno e dell’orario di fine della permanenza stessa, senza che necessiti un successivo accordo tra i coniugi in fase attuativa, che spesso può mancare specie nella prima
fase separativa.
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Inoltre, il Presidente stabilendo la misura del contributo economico avrà cura di indicare la data di
decorrenza dello stesso.
Infine con la predetta ordinanza il Presidente:
- fissa l’udienza avanti il Giudice Istruttore non
prima di 45 giorni liberi dalla udienza presidenziale;
- fissa il termine al ricorrente per il deposito di
memoria integrativa non oltre 30 giorni prima della
udienza avanti il Giudice Istruttore;
- fissa il termine al resistente per la costituzione
avanti il Giudice Istruttore non oltre 10 giorni prima
della udienza avanti a lui;
- avverte le parti delle decadenze in cui incorrono per
il mancato rispetto del termine per ciascuna stabiliti;
- avverte il resistente che ha facoltà di prendere
visione in cancelleria della memoria integrativa del
ricorrente.
Art. 13. Verbale delle udienze di divorzio congiunto
Nei procedimenti di divorzio congiunto il difensore predisporrà il verbale di udienza, inserendo in
esso tutti i dati anagrafici delle parti e riportando integralmente le conclusioni secondo il modello allegato al presente protocollo, disponibile sul sito
www.ordineforense.re.it. Invierà via e mail in formato word il predetto verbale al Presidente del Collegio successivamente al giorno dell’udienza.
Art. 14. I trasferimenti immobiliari nel verbale di
separazione consensuali e nelle condizioni dei divorzi congiunti
Allo scopo di consentire la regolare esecuzione degli atti di trasferimento immobiliari tra coniugi contenuti nei verbali di separazione consensuale e di
divorzio congiunto nonché nelle conclusioni congiunte dei procedimenti giudiziali, si propone di:
1. inserire il codice fiscale e la residenza anagrafica delle parti;
2. inserire la chiara e inequivoca manifestazione
di volontà ex art. 1376 c.c. di procedere al trasferimento e conseguentemente all’accettazione;
3. inserire i dati dell’atto di provenienza dell’immobile, con la specificazione del notaio, della data dell’atto e degli estremi di registrazione e di trascrizione;
4. indicare il diritto reale che viene trasferito, la
sua quota e la precisa identificazione attuale degli
immobili, con specificazione della natura o categoria, del foglio, del mappale, del subalterno, la rendita catastale e con l’indicazione di almeno tre confini; per i fabbricati in corso di accatastamento e per
quelli privi del codice di identificazione catastale,
bisogna specificare il numero e l’anno del protocollo
della denuncia di accatastamento, della scheda o
della variazione; per gli immobili in corso di costruzione, devono essere indicati i dati di identificazione
catastale del terreno su cui insistono;
5. specificare se l’immobile sia gravato o meno da
ipoteca e/o da altro peso;
DOCUMENTI
6. indicare l’eventuale rinuncia all’iscrizione di
ipoteca legale;
7. produrre la copia dell’ultimo atto tra vivi di provenienza dell’immobile oggetto del trasferimento;
8. produrre la visura catastale aggiornata relativa
a tutti gli immobili oggetto del trasferimento nonché la visura storica;
9. in caso di cessione di terreno, produrre certificato di destinazione urbanistica aggiornato (il certificato ha una validità fino a un anno dal rilascio, se
per dichiarazione dell’alienante non siano intervenute modificazioni degli strumenti urbanistici); se
il terreno ceduto è inferiore a 5.000 mq. non è necessario produrre certificato di destinazione urbanistica, se è di pertinenza dell’immobile ceduto e
censito nel Nuovo Catasto Edilizio Urbano;
10. far rendere alla parte cedente dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in ordine alla regolarità
della concessione edilizia. In caso di fabbricati la cui
costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, l’alienante indicherà gli estremi del permesso di costruire
o del permesso in sanatoria; in caso di fabbricati anteriori, gli estremi della licenza o della concessione a
edificare o della concessione in sanatoria; per le
opere iniziate anteriormente al 1° settembre 1967, in
luogo degli estremi della licenza edilizia può essere
prodotta dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
attestante che trattasi di immobili edificati anteriormente al 1° settembre 1967; se risultano, indicare gli
estremi dell’abitabilità o agibilità; la dichiarazione
sostituiva di atto di notorietà, nell’ipotesi in cui siano
state apportate all’immobile delle modifiche per le
quali è stata richiesta la concessione edilizia o autorizzazioni o condoni o infine inviate comunicazioni
presso gli Uffici Comunali, dovrà essere integrata anche da tali dati; rendere, inoltre, dichiarazione sostituiva di atto di notorietà relativamente ai terreni inferiori a 5.000 mq., quando sono di pertinenza di fabbricato ceduto censito al Catasto Fabbricati (le suddette dichiarazioni possono essere contenute nel
verbale di comparizione delle parti);
11. rendere gli attestati di certificazione energetica ai sensi dell’art. 6 co. 2 ter del d.lgs. n. 192/2005,
come modificato, con decorrenza dal 29 marzo 2011,
dal d.lgs. n. 28/2011;
12. far rendere alla parte cedente la dichiarazione
ex art. 19 co. 14 del d.l. n. 78/2010 convertito nella
legge n. 122/2010 nei seguenti termini, in merito alla
conformità oggettiva: “si precisa che i dati di identificazione catastale, come sopra riportati e documentati dalla visura catastale allegata, riguardano
l’unità immobiliare raffigurata nella planimetria depositata in Catasto a corredo della dichiarazione
prot. n. ______ del______; la parte alienante, attuale
intestataria dell’unità immobiliare in oggetto, dichiara che i dati catastali e la planimetria sono conformi allo stato di fatto”. In difetto di detta dichiarazione di conformità oggettiva da parte del ce-
dente, dovrà essere prodotta, in sostituzione, l’attestazione da parte di tecnico abilitato;
13. in merito alla conformità soggettiva, far rendere alla parte cedente la dichiarazione, ex art. 19
co. 14 del d.l. n. 78/2010 convertito nella legge n.
122/2010, della conformità degli intestatari catastali
alle risultanze dei registri immobiliari;
14. indicare che la parte cedente si dichiara edotta
dell’obbligo di comunicare la cessione all’autorità
locale di Pubblica Sicurezza.
I difensori delle parti provvederanno ad effettuare
la trascrizione del trasferimento e depositeranno in
cancelleria il duplo della nota di trascrizione entro 7
giorni dal rilascio della stessa dalla Agenzia del Territorio.
In caso di complessità del trasferimento immobiliare il giudice si riserva di nominare un consulente
tecnico per verificare le condizioni urbanistiche di
alienabilità del bene e ogni altro elemento cui sia
subordinata l’efficacia e validità del trasferimento.
Art. 15. Spese straordinarie
È auspicabile che il Presidente nell’adottare i provvedimenti provvisori ed urgenti, nonché i difensori
delle parti in caso di separazione consensuale o divorzio congiunto, indichino espressamente quali
spese per i figli devono ritenersi non comprese nel
contributo fisso mensile eventualmente stabilito per il
mantenimento degli stessi a carico di uno dei genitori,
in quale misura devono gravare su ciascun genitore e
quando devono essere oggetto di specifico accordo,
utilizzando il seguente schema che potrà essere variato per adeguarlo al caso concreto da regolare:
spese mediche (da documentare e che non richiedono il preventivo accordo): a) visite specialistiche prescritte dal medico curante; b) cure dentistiche presso strutture pubbliche; c) tickets per trattamenti sanitari erogati dal Servizio Sanitario Nazionale e per medicinali prescritti dal medico curante
spese mediche (da documentare e che richiedono
il preventivo accordo): a) cure dentistiche, ortodontiche e oculistiche; b) cure termali e fisioterapiche; c)
trattamenti sanitari specialistici in libera professione e interventi chirurgici.
spese scolastiche (da documentare che non richiedono il preventivo accordo): a) tasse scolastiche
sino alle scuole di secondo grado imposte da istituti
pubblici; b) libri di testo e materiale di corredo scolastico di inizio anno; c) gite scolastiche senza pernottamento; d) trasporto pubblico.
spese scolastiche (da documentare e che richiedono il preventivo accordo): a) tasse scolastiche imposte da istituti privati e corsi universitari; b) corsi
di specializzazione; c) gite scolastiche con pernottamento; d) corsi di recupero e lezioni private.
spese extrascolastiche (da documentare e che
non richiedono il preventivo accordo): a) tempo prolungato, dopo scuola; b) centro ricreativo estivo.
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DOCUMENTI
spese extrascolastiche (da documentare e che richiedono il preventivo accordo): a) attività sportive
e pertinenti abbigliamento e attrezzatura; b) spese
di custodia (baby sitter) c) viaggi e vacanze senza i
genitori.
Sezione terza
La fase di trattazione
Art. 16. Notifiche dell’ordinanza ex art. 709 c.p.c.
Qualora l’ordinanza ex art. 709 c.p.c. è destinata
alla parte residente all’estero la notificazione dovrà
essere eseguita nel rispetto delle norme di diritto internazionale processuale privato e delle convenzioni
internazionali vigenti in materia, sia con riferimento
ai paesi UE, sia con riferimento ai paesi extra UE (per
un riepilogo della normativa potrà essere utile “Guida
alla notifica all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari
in materia civile e commerciale” elaborata dal Ministero
degli Esteri consultabile sul sito www.esteri.it).
Art. 17. Costituzione delle parti innanzi al Giudice
Istruttore.
Con riferimento alla costituzione in giudizio innanzi al Giudice Istruttore, il deposito della memoria
integrativa del ricorrente e il deposito della memoria
di costituzione del resistente entro i termini di cui all’art. 709 c.p.c. costituiscono formalità essenziali ed
imprescindibili per evitare la decadenza dal diritto
delle parti di proporre domande nuove e/o riconvenzionali, ivi incluse le domande di addebito, nonché
eccezioni non rilevabili d’ufficio. Conseguentemente,
qualora le parti intendano riproporre innanzi al Giudice Istruttore le domande ed eccezioni di cui agli atti
già depositati nella fase Presidenziale, il mancato deposito della memoria integrativa e della memoria di
costituzione, almeno sino ad un cambiamento della
giurisprudenza in materia, non determinerà alcuna
decadenza processuale e sostanziale.
Art. 18. Udienza di comparizione delle parti innanzi al Giudice Istruttore.
Al fine di garantire tempi e modalità adeguate all’ascolto delle parti a cura del Giudice Istruttore è
preferibile che la comparizione personale delle parti
non avvenga in sede di prima udienza, ma ad altra
successiva udienza concordata tra i difensori ed il
Giudice Istruttore al quale sarà rappresentata la necessità e/o l’opportunità della convocazione personale dei coniugi. In caso di necessità di comparizione delle parti alla prima udienza è opportuno che
la circostanza sia comunicata al Giudice istruttore
con adeguato anticipo.
Art. 19. Sentenza parziale di scioglimento del vincolo matrimoniale.
In ipotesi di istanza di sentenza parziale di scioglimento del vincolo matrimoniale, il Giudice Istruttore, verificati i presupposti di legge, invierà la causa
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al Collegio per la decisione e le parti, fatto salvo il
caso di effettiva necessità, rinunceranno alla concessione dei termini per il deposito di comparse
conclusionali e memorie di replica.
A tutela del principio di economia processuale,
nei procedimenti di separazione, i difensori e le
parti valuteranno con particolare scrupolo l’opportunità dell’istanza di sentenza parziale di separazione, evitando di proporla, salvo effettiva necessità
ed urgenza, con modalità tali da pregiudicare l’attività istruttoria del giudizio e/o l’inutile allungamento dei tempi processuali.
Art. 20. Attività istruttoria - aspetti patrimoniali ed
economici
Fermo quanto previsto in ordine alla documentazione relativa alle condizioni economiche di cui all’art. 5 del presente Protocollo, le parti si impegnano
ad aggiornare la produzione delle dichiarazioni dei
redditi lungo il corso della causa.
Art. 21. Indagini Tributarie e CTU volte anche alla
determinazione del tenore di vita.
L’istanza di indagini tributarie rivolta al Giudice
dalle parti non dovrà essere motivata con generiche
contestazioni di veridicità delle dichiarazioni di controparte riguardanti la propria condizione reddituale e patrimoniale, ma, al contrario, dovrà fondarsi su contestazioni chiare, specifiche e fondate
su elementi il più possibile concreti, idonei a giustificare, sia la richiesta che il provvedimento.
Il Giudice, qualora disponga gli accertamenti di
Polizia Tributaria potrà richiedere di eseguire accessi
ed ispezioni, esibire atti o documenti detenuti da
pubbliche amministrazioni e da privati. In ogni caso
il Giudice potrà richiedere alla polizia tributaria di
effettuare indagini ex art. 32 ss. D.P.R. 600/1973.
Nelle situazioni più complesse, il Giudice potrà disporre CTU volta all’accertamento della reale situazione reddituale e patrimoniale delle parti, devolvendo al Consulente Tecnico i più ampi poteri di indagine rispetto agli accertamenti da effettuarsi in
ambito di procedimenti di separazione e divorzio
Art. 22. La prova dell’addebito della separazione
Rispetto alla prova testimoniale dell’addebito
della separazione è auspicabile che le parti limitino
il numero dei testimoni e dei capitoli di prova alle
sole circostanze più significative, riscontrabili oggettivamente dal testimone, anche con riferimento
al nesso di causalità tra violazione dei doveri coniugali e la separazione stessa.
Art. 23. Produzione di atti e documenti formati all’estero.
Gli atti e i documenti formati all’estero dovranno
essere prodotti nel rispetto delle formalità previste
dalle norme vigenti.
DOCUMENTI
In particolare i documenti formati all’estero dovranno essere validati mediante apostille se provenienti dai paesi aderenti alla Convenzione dell’Aja del
1961 e successive convenzioni interne alla UE, tra le
quali la recente “Roma 3”, mentre i documenti provenienti da stati esteri non aderenti alla Convenzione
dovranno essere prodotti in copia tradotta in lingua
italiana e legalizzata presso l’Ambasciata/Consolato
Italiani nel paese straniero interessato.1
Il rispetto delle predette formalità sarà richiesto
per tutti gli atti e documenti provenienti da uno
stato estero, ivi incluso il certificato di matrimonio
da produrre con il ricorso per separazione e divorzio
qualora il matrimonio celebrato all’estero non sia
stato trascritto nei registri dello Stato Civile italiano.
PARTE SECONDA
L’ascolto del minore
Considerando quanto segue
- ai sensi dell’art. 155 sexies, 1° comma c.c., come
novellato dalla legge n. 54/2006, “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti
di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad
istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice
dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore
ove capace di discernimento”.
- la disposizione appena ricordata deve essere interpretata come attuazione dei principi affermati
dalle norme convenzionali ratificate dall’Italia: con
L. 27.05.1991 Ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il
20.11.1989 e con L. 20.03.2003 n. 77 Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’ esercizio
dei diritti dei fanciulli fatta a Strasburgo il 25.01.1996
e come attuazione anche dei principi stabiliti dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
scritta a Nizza il 07.12.2000;
- l’art. 12 della Convenzione di New York “ 1. Gli
Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la
sua opinione su ogni questione che lo interessa, le
opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in
considerazione tenendo conto della sua età e del
suo grado di maturità. 2. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato
in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che
lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera
compatibile con le regole della procedura della legislazione nazionale”;
- l’art. 3 (Diritto di essere informato e di esprimere
la propria opinione nei procedimento) della Convenzione di Strasburgo “Nei procedimenti che lo riguardano dinanzi a un ‘autorità giudiziaria, al minore che è considerato dal diritto interno come
avente una capacità di discernimento vengono riconosciuti i seguenti diritti, di cui egli stesso può
chiedere di beneficiare:
a) ricevere ogni informazione pertinente;
b) essere consultato ed esprimere la propria opinione
c) essere informato delle eventuali conseguenze
che tale opinione comporterebbe nella pratica e delle
eventuali conseguenze di qualunque decisione”;
- che per l’art. 6 (processo decisionale) della predetta Convenzione di Strasburgo “Nei procedimenti
che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria,
prima di giungere a qualunque decisione, deve:
a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere
informazioni supplementari, in particolare da parte
dei detentori delle responsabilità genitoriali;
b) quando il diritto interno ritiene che il minore
abbia una capacità di discernimento sufficiente: assicurarsi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti - nei casi che lo richiedono,
consultare il minore personalmente, se necessario
in privato, direttamente o tramite altre persone od
organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a
meno che ciò non sia manifestamente contrario agli
interessi superiori del minore, permettere al minore
di esprimere la propria opinione;
c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa”;
- che in virtù dell’art. 23 lettera b) del Regolamento
CE n.220I/2003 del Consiglio del 27.11.2003 (cd. Bruxelles II bis) le decisioni relative alla responsabilità
genitoriale non sono riconosciute “se, salvo i casi
d’urgenza, la decisione é stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in
violazione dei principi fondamentali dì procedura
dello Stato membro richiesto “.
- in virtù del punto 1) dell’art. 24 (diritti del bambino) della predetta Carta di Nizza : “1. I bambini
hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie
per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in
considerazione sulle questioni che li riguardano in
funzione della loro età e della loro maturità “.
- ai sensi dell’art. 315 bis c.c. “il figlio minore che
abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure
che lo riguardano”.
- che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con
sentenza in data 6-21 ottobre 2009 n. 22238, ha ritenuto che la mancata audizione di soggetto che ha
compiuto dodici anni, o anche di età minore, se capace di discernimento, in un giudizio contenzioso
di modifica delle condizioni di separazione relativamente al suo affidamento debba essere motivata dal
danno che tale ascolto possa arrecare al minore
stesso, pena, in difetto, la censurabilità della decisione per violazione del principio del contraddittorio e del giusto processo.
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DOCUMENTI
Ritenendo quanto considerato parte integrante
del presente protocollo, viene altresì recepito
quanto segue:
1. Limiti dell’ascolto
Il bambino e in genere la persona minore di età
dovranno essere ascoltati dal giudice solo nei procedimenti civili contenziosi (separazioni, divorzi e
relative modifiche nonché nei procedimenti contenziosi ex art. 317 bis c.c.) e non nei giudizi di separazione consensuali e divorzi congiunti, loro modifiche su domanda congiunta e nei giudizi su domanda congiunta ex art. 317 bis c.c..
Nei giudizi non contenziosi appena ricordati si
procederà all’ascolto solo laddove particolari circostanze del caso lo facciano ritenere opportuno.
Nei giudizi contenziosi la non audizione del bambino che ha compiuto dodici anni dovrà essere adeguatamente motivata dal giudice, con specifico riferimento al caso concreto e non con mera clausola
di stile (non con semplice riferimento al fatto che si
ritiene l’audizione contraria all’interesse del minore
o addirittura dannosa ma esplicitando i motivi per
cui la si ritiene tale).
Qualora debba essere disposta dal giudice l’audizione di un bambino di età inferiore ai dodici anni il
giudice potrà nominare un ausiliario ex art. 68 c.p.c.
per valutare preventivamente la “capacità di discernimento”del bambino stesso, come pure per farsi
assistere durante (o delegare) l’ascolto sia dell’infradodicenne che dell’ultradodicenne.
L’audizione del minore non è un mezzo di prova,
ma un momento delicato ed importante dedicato al
fanciullo finalizzato a far acquisire al giudice elementi utili ai fini della realizzazione del suo interesse. E’, inoltre, uno strumento che consente di dar
voce al minore, consentendo a quest’ultimo di esprimere i propri bisogni e la propria opinione e di “partecipare”, in questo modo, alla sua tutela, tant’è che
prima ancora che un obbligo per l’Autorità Giudiziaria, è un diritto del minore stesso attraverso il
quale si realizza la sua tutela.
2. Informazione
Prima dell’audizione il minore dovrà essere adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad
essere ascoltato nel processo, dei motivi del suo
coinvolgimento nello stesso, nonché dello scopo
dell’ascolto, precisando che le decisioni saranno
prese anche tenendo conto delle sue dichiarazioni.
3. Tempi dell’ascolto
Il momento dell’ascolto dovrà essere individuato
dal giudice tenendo prioritariamente conto delle
esigenze della persona minorenne.
Pertanto l’udienza dovrà essere fissata in orari in
cui possano essere garantiti: riservatezza e tranquillità dell’udienza nonché la disponibilità di tempo per70 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
ché il minorenne possa essere messo a suo agio.
L’udienza dedicata all’ascolto della persona minorenne sarà fissata tenendo conto dei suoi impegni
scolastici e comunque possibilmente nelle ore pomeridiane.
4. Luogo
Il luogo sarà quello stabilito dal giudice che, tenuto conto delle circostanze, dell’età del minore,
delle sue esigenze, deciderà se tenere la audizione
nella saletta al terzo piano già adeguatamente attrezzata ogni qualvolta le condizioni concrete ne richiedano o ne suggeriscano l’utilizzo, oppure se procedere all’ascolto del minore nel proprio ufficio, o in
altro luogo attrezzato, garantendo comunque la riservatezza e la adeguatezza delle condizioni affinché il minore si senta il più possibile a suo agio.
Nei casi in cui è necessario procedere all’ascolto
del minore all’estero tramite videoconferenza è
bene rivolgersi all’Autorità Centrale che per il Regolamento Bruxelles bis (n. 2201/ 2003) è il Dipartimento Giustizia Minorile.
5. Presenza delle parti
Non essendo emersa una soluzione condivisa,
viene rimessa al Giudice la decisione circa la presenza delle parti e/o dei difensori a seconda delle
circostanze.
6. Verbalizzazione
In ogni caso, dell’audizione sarà redatto verbale in
forma scritta e sintetica, il più possibile corrispondente
alle espressioni verbali e non verbali del minore.
In caso di disponibilità di mezzi di audio-video registrazione,questi potranno essere utilizzati dal Giudice durante l’ascolto del minore e consegnati successivamente ai legali per il relativo ascolto ed
esame.
7. Audizione di due o più fratelli
Qualora venga disposta l’audizione di più fratelli,
essi saranno ascoltati separatamente, salvo l’opportunità di ascoltarli insieme.
8. Esclusione dell’audizione del minore
Qualora il minore sia già stato ascoltato anche in
altre sedi giudiziarie, l’audizione potrà essere
esclusa se dall’acquisizione degli atti si rilevi che la
ripetizione sarebbe superflua o dannosa perché l’attuale opinione del minore rispetto all’oggetto del
procedimento è già emersa.
Note
1
La Convenzione di Bruxelles 1987, cui si rinvia, prevede alcune esenzioni in materia di legalizzazione dei
documenti vigenti tra i paesi firmatari.
IN LIBRERIA
In libreria
a cura dell’avv. MARIA LIMONGI
LIVIA POMODORO (a cura di)
L’udienza presidenziale
Analisi delle singole fasi
e strategie processuali
Maggioli Editore, 2012
L’opera affronta ed approfondisce
gli aspetti processuali propri della
fase presidenziale dei procedimenti di separazione e divorzio.
Nel primo capitolo sono posti in
rilievo i caratteri comuni e l’identità strutturale dei due procedimenti, la natura della fase presidenziale se di giurisdizione
volontaria o di cognizione, i criteri
per l’individuazione della giurisdizione e competenza, i tempi e
modalità di proposizione della domanda accessoria di addebito, il
cumulo delle domande connesse
alla separazione e divorzio. Il secondo capitolo prosegue nella descrizione analitica dell’udienza
presidenziale in tutti i suoi
aspetti: l’assistenza tecnica del di-
fensore, gli adempimenti e formalità preliminari attinenti la
forma, contenuto, requisiti ed allegazioni della domanda introduttiva con riferimento alle preclusioni derivanti dal termine di
costituzione del convenuto in relazione alla monofasicità o bifasicità del giudizio. Tematica quest’ultima ancora trattata nel terzo
capitolo mediante il raffronto
delle varie teorie ed orientamenti
al riguardo insieme agli altri temi
associati della legittimazione ad
agire e processuale e della legittimazione ad intervenire nei giudizi di separazione e divorzio atteso il coinvolgimento di diversi
soggetti (nonni, figli minorenni attraverso la rappresentanza di un
curatore speciale e figli maggiorenni) ai procedimenti in commento.
La funzione principale dell’udienza presidenziale incentrata
sulla conciliazione dei coniugi ovvero sul ripristino e ricostruzione
dell’affectio coniugalis è messa in
luce nel quarto capitolo che discute circa l’interpretazione in
termini di obbligatorietà, di utilità ed opportunità del suo esperimento e circa le modalità di
svolgimento dell’audizione dei coniugi, il senso della partecipazione dei legali al tentativo di conciliazione come obbligatoria o
meno, il valore, gli effetti della
conciliazione.
Gli ulteriori compiti presidenziali,
ove la conciliazione non riesca,
come fase propedeutica all’emanazione dei provvedimenti interinali è argomento affrontato nel
quinto capitolo. Il Presidente potrà, prima di assumere anche in
via provvisoria i provvedimenti
inerenti all’affido e mantenimento della prole, sentiti i coniugi
ed acquisito il loro consenso e ove
ne ravvisi l’opportunità, avviare
un procedimento di mediazione
familiare; potrà o dovrà ascoltare
il minore che abbia adeguata capacità di discernimento; potrà assumere mezzi di prova e disporre
indagini tributarie anche in difetto di istanze di parte al solo
fine però di tutelare il preminente
interesse della prole.
All’esito e quindi in caso di mancato accordo tra i coniugi, sarà
emessa l’ordinanza presidenziale
contenente i provvedimenti personali e patrimoniali dei coniugi e
di affidamento e mantenimento
dei figli. Il contenuto di tali provvedimenti è analizzato nel sesto
capitolo. L’autorizzazione a vivere
separati costituisce la prima determinazione contenuta nel provvedimento presidenziale quale risposta principale a quello che è il
tema d’accertamento primario del
giudizio di separazione. Altra statuizione, salvo il controllo e recepimento da parte del Presidente
degli accordi presi dai genitori, è
quella relativa all’affidamento,
alla “collocazione” dei figli come
determinazione dei tempi e dei
modi di presenza del minore
presso ciascun genitore ed al loro
mantenimento anche in relazione
ai figli maggiorenni non economicamente autosufficienti. L’ordinanza potrà ancora contenere
una statuizione di condanna al
coniuge onerato agli obblighi di
mantenimento disposti di prestare idonea garanzia personale
(cauzione o fideiussione) o reale
(pegno o ipoteca) se sussistente il
pericolo che possa rendersi inadempiente ovvero contenere un
ordine di pagamento diretto a favore del coniuge avente diretto disposto a carico del terzo che sia
debitore del coniuge onerato o ancora disporre un sequestro conservativo sui beni del coniuge obbligato qualora già inadempiente.
L’ultimo capitolo riguarda i rimedi
impugnatori dei provvedimenti in
esame con particolare attenzione
al raffronto del regime della revocabilità e modificabilità dell’ordinanza ad opera del giudice istruttore con quello della sua
reclamabilità dinanzi alla Corte di
Appello.
Il testo è corredato di quesiti risolti dalle novità legislative e dalla
giurisprudenza più recente che ne
esemplificano per il fruitore la lettura e comprensione.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 71
IN LIBRERIA
SALVATORE DAMMACCO
Aspetti fiscali della separazione
e del divorzio
Maggioli Editore, 2013
Un antico detto popolare avverte
di… non mettere il dito tra moglie
e marito; ma quando si verificano
situazioni tali da rendere insostenibile la convivenza ed il rapporto
con il proprio partner, è opportuno
indirizzare gli assistiti verso un
percorso valutativo che tenga
conto non solo delle regole del
contenzioso della separazione o
del divorzio, ma anche delle problematiche fiscali connesse alle
richieste, agli accordi, alle reciproche attribuzioni così da fornire
loro una corretta e completa informativa rispetto ai riflessi ed
agli effetti tributari di tali procedimenti.
Salvatore Dammacco che è Dottore Commercialista e Revisore
Contabile, consulente tecnico,
nonché scrittore di numerose
pubblicazioni specializzate, è autore del testo in questione che si
propone come uno strumento
chiaro, di facile comprensione e
che permette un’immediata risposta ai quesiti propri delle dinamiche fiscali connesse alle vicende della fine del rapporto di
coniugio. Il volume si articola e
sviluppa seguendo un ragionamento e passaggi serrati tra domande pratiche e risposte concrete corredate di riferimenti nor72 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
mativi, giurisprudenziali e di
stralci e/o passaggi delle determinazioni dell’Agenzia delle Entrate
(nonché delle precedenti Autorità
e/o Uffici) che permettono di valutare in modo efficace gli effetti
fiscali degli accordi patrimoniali
raggiunti nelle varie sedi. La
struttura del testo è chiara e lineare mentre è sviscerato ed analizzato l’impatto delle imposte
per tipologia e - in seno ad essa gli effetti fiscali rispetto al soggetto che percepisce il quantum
stabilito nell’accordo economico
ed il soggetto erogante. Particolarmente interessante è l’insieme
di informazioni relative alla possibilità o meno della deducibilità
e detraibilità degli assegni di
mantenimento erogati in favore
del coniuge e/o dei figli nonché
circa l’obbligatorietà o meno dell’assoggettamento a tassazione di
dette somme, tanto, per il soggetto percipiente le stesse,
quanto, ai fini delle possibilità
impositive indirette. Così come è
interessante l’insieme di informazioni relative all’applicazione
dell’imposta di registro relativamente agli atti del giudizio per la
separazione personale dei coniugi - a prescindere che si tratti
di separazione personale giudiziale o consensuale - ovvero di
cessazione degli effetti civili del
matrimonio. In ogni caso il lettore
potrà avere maggiore chiarezza
mediante l’utilizzo dei riquadri
nei quali sono riportati i principali orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità oltre che della Corte Costituzionale.
Inoltre apparirà sicuramente utile
al Professionista la parte del testo
relativa alla separazione e all’attività d’impresa laddove viene
messa chiaramente in luce la necessità di valutare anche quale
impatto possa produrre la separazione o il divorzio rispetto
l’azienda e/o l’impresa familiare
tanto in termini di determinazione degli accordi economici
quanto in tema di deducibilità di
oneri e costi nonché in relazione
alla determinazione delle quote
degli utili spettanti all’ex coniuge,
nonché le modalità di salvaguardia e/o di esercizio del diritto di
prelazione in caso di cessione
dell’azienda o quote dell’azienda
familiare in favore del coniuge separato. Lo studio prosegue nell’analizzare e valutare la casistica
afferente ad altre problematiche
che hanno formato oggetto di riflessione e di determina da parte
dell’Agenzia delle Entrate relativamente alla notificazione di cartelle esattoriali nei confronti del
coniuge separato nonché in relazione agli aspetti fiscali e tributari
- e relative problematiche - del
fondo patrimoniale e del trust in
Italia. Un libro chiaro e semplice
nella sua impostazione e di
grande utilità atteso che permette
di ottenere immediate risposte
per il successivo approfondimento della problematica da
parte del Professionista.
ARMANDO MACRILLÒ, FULVIO
FILOCAMO, GUIDO MUSSINI,
DEBORA TRIPICCIONE
Il processo penale minorile
Maggioli Editore, 2013
Il volume pubblicato nella sua seconda edizione affronta il processo penale a carico di imputati
minorenni che tiene conto compiutamente delle peculiarità proprie del minore, della sua personalità, delle sue condizioni psico-
IN LIBRERIA
logiche, della sua maturità e delle
esigenze della sua educazione.
Una attenta illustrazione della disciplina, soprattutto sovranazionale, che introduce un sistema
differenziato, responsabilizzante
ed educativo del rito processuale
penale minorile, fa da preludio
alla descrizione delle singole fasi
del processo penale minorile studiato da ogni punto di vista: i soggetti, le misure precautelari, le
misure cautelari, l’incidente probatorio e l’esame del minore, le
definizioni alternative del procedimento e l’udienza preliminare,
il dibattimento, le impugnazioni,
l’esecuzione e le misure di sicurezza.
Attorno alla figura del minore è
stata costruito tutto il processo
minorile connotato dai caratteri
dell’esclusività proprio perché riservato ai minori e della specializzazione perché la giurisdizione
minorile è esercitata da giudici
(ed altri soggetti come il P.M., la
Polizia Giudiziaria, i Servizi minorili, il Difensore) forniti di specifiche competenze sulle problematiche dell’età evolutiva che tende
alla rieducazione del minore imputato o condannato.
Molte ed opportune sono le cautele sancite per proteggere i minorenni. Una disciplina particolareggiata riguarda ad esempio
tanto i presupposti per l’applicazione delle misure precautelari e
cautelari quale potere il più delle
volte (come ad esempio l’arresto
in flagranza) facoltativo e riferito
solo ai più gravi delitti, quanto le
modalità di esecuzione delle
stesse misure al fine di ridurre
per il minorenne i possibili disagi
e sofferenze materiali e psicologiche e di proteggerlo da processi di
auto ed etero- svalutazione così
evitandogli, nei limiti del possibile, il pericolo di “etichettamento” quale delinquente e di
ogni altro pregiudizio che potrebbe influire negativamente sul
suo sviluppo psicofisico. O ancora, nei confronti dei minori, le
forme di esercizio dell’azione penale sono più limitate rispetto a
quelle previste per gli adulti,
l’udienza dibattimentale rappresenta un evento residuale e solo
se non inutile ed ancor di più
l’esecuzione della pena non potrà
non essere modulata in modo che
la funzione rieducativa propria
possa risultare quanto più efficace possibile e comunque tesa a
garantire al minore un trattamento tale da favorire il senso di
dignità e la crescita del proprio
valore personale e che tenga
conto della necessità di dover aiutare il suo inserimento nella società per consentirgli la possibilità di svolgere un ruolo positivo
essendo peculiare interesse-dovere dello Stato quello del recupero del minore, secondo i principi costituzionali e convenzioni
internazionali esistenti.
A fronte delle ultime novità legislative come la promulgazione
della legge 1 ottobre 2012 n. 172
che ha recepito nel nostro ordinamento la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori
contro lo sfruttamento e l’abuso
sessuale, il testo in commento dedica prontamente un apposito capitolo all’incidente probatorio, all’ascolto ed all’esame del minore
operando al riguardo una giusta
distinzione con l’istituto della testimonianza, questo invece diretto all’accertamento dei fatti.
Il taglio operativo del volume è ottimizzato dalla presenza di apposite questioni giuridiche mediante la forma di quesiti che trovano risposta attraverso le recenti
pronunce giurisprudenziali a
maggiore comprensione e a completamento degli argomenti trattati da ciascun capitolo nonchè
dalla presenza di formulario relativamente agli atti propri del processo penale minorile.
GIOVANNI IORIO
Infedeltà coniugale
e risarcimento del danno
Giuffrè Editore, 2013
Nella collana Officina del Diritto
dedicata alla famiglia, il contri-
buto del professor Giovanni Iorio
associato alla cattedra di Istituzioni di Diritto Privato all’università di Milano Bicocca, è utile ed
efficace riferimento di lavoro per
l’approfondimento della tematica
della responsabilità civile in correlazione alla famiglia ed in particolare alla possibilità per il coniuge e per il figlio lesi di domandare il risarcimento dei danni subiti a seguito della violazione degli obblighi coniugali e genitoriali
qualora tale violazione abbia provocato un danno ingiusto.
A fronte di chi nega il rimedio
della responsabilità risarcitoria
all’interno della famiglia per l’esistenza, tra l’altro, di sanzioni specifiche derivanti dall’addebito
della separazione, l’Autore dimostra come nel nostro sistema di
diritto positivo non vi sia alcuna
incompatibilità tra le relazioni familiari e la responsabilità risarcitoria. Valida è la ricognizione di
interventi legislativi, non solo recenti, che contemplano singole
ipotesi di risarcimento dei danni
endofamiliari, così come il richiamo alle pronunce giurisprudenziali di legittimità e di merito
che decretano la consapevolezza
della strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia
con la tutela generale dei diritti
costituzionalmente protetti, previa la sussistenza dell’accertamento del nesso causale. Il confronto riguarda maggiormente
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 73
IN LIBRERIA
l’obbligo di fedeltà che investe
l’ampia nozione di tradimento
nella quale far rientrare il sentimento di dedizione fisica e spirituale che un coniuge attende dall’altro: il tentativo di tradimento,
il plausibile sospetto di tradimento, il tradimento omosessuale, l’infedeltà affettiva, l’infedeltà apparente e l’infedeltà dopo
la separazione ogni qual volta pur
non sostanziandosi in adulterio
finisca per offendere la dignità,
l’onore dell’altro coniuge e la solidarietà familiare.
Sono affrontate innumerevoli
questioni: è possibile da un punto
di vista squisitamente processuale domandare il risarcimento
dei danni nell’ambito del giudizio
promosso per ottenere la separazione con addebito? Si può ottenere il risarcimento per violazione dell’obbligo di fedeltà qualora i coniugi siano giunti ad una
separazione consensuale ed ottenuto l’omologazione da parte del
tribunale e soprattutto, i coniugi
potranno prevedere in occasione
della separazione consensuale
accordi transattivi (art. 1965 c.c.)
aventi ad oggetto il giudizio di risarcimento? E l’amante è immune o potrà essere coinvolto nel
giudizio di responsabilità civile?
Altresì, l’Autore non tralascia di
trattare il tema dell’infedeltà e
della rilevanza della ottenuta sentenza di risarcimento per violazione di detto obbligo ai fini della
determinazione dell’assegno di
divorzio mentre conclude il lavoro con una analisi dei profili risarcitori nella famiglia di fatto.
Molteplici e complesse le questioni affrontate come le soluzioni e gli orientamenti relativi,
che trovano però facile comprensione in questa pubblicazione arricchita anche di opportuni ed efficaci schemi esemplificativi e
riassuntivi.
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MARIA DOSSETTI, MIMMA
MORETTI, CAROLA MORETTI
introduzione di
FRANCESCO DELFINI
La riforma della filiazione
aspetti personali,
successori e processuali
L. 10 dicembre 2012, n. 219
Zanichelli Editore, 2013
Un testo scritto a più mani che
valuta ed analizza gli aspetti e gli
effetti immediati della Legge che
ha riformato la filiazione in Italia
così definitivamente essendo
stata abbandonata la vecchia impiantistica codicistica che vincolava la legittimità del figlio alla
sua nascita nel vincolo coniugale
con tutte le riserve riconosciute e
derivanti da tale status anche se,
sin dal primo paragrafo del testo,
le Autrici precisano come la riforma in materia di filiazione non
innovi direttamente il diritto successorio che è invece oggetto di
delegazione legislativa. Il ragionamento prende le mosse dalla riforma dell’art. 74 del Codice civile
laddove è adesso specificato che
la parentela è il vincolo tra le persone discendenti dallo stesso stipite anche nel caso in cui la filiazione sia venuta al di fuori del
matrimonio o nel caso in cui sia
adottiva per proseguire in una disamina degli istituti abrogati
dalla novella legislativa tra i quali
quello della legittimazione dei figli naturali - con particolare attenzione agli effetti delle modifiche con riferimento alla materia
successoria ovvero agli artt. 536,
comma 2, 567, comma 1 e 578 del
Codice civile - nonché alcune
norme dell’ordinamento dello
stato civile tra cui l’art. 33,
comma 1, sul cognome del figlio
legittimato e l’art. 49, comma 1,
lett. n), e comma 2 e comma 3.
A ciò si aggiunga l’elencazione di
pronunce giurisprudenziali attra-
verso le quali vengono esplicati
concretamente gli effetti delle novelle legislative mediante un percorso di casi pre e post riforma
basando il tutto sul principio
della piena parificazione tra i figli
avente anche lo scopo di promuovere i loro diritti partendo dal diritto “a riconoscere” e ad “essere
riconosciuto” laddove è espressamente previsto che l’accertamento della filiazione in sede giudiziale debba intervenire con ogni
mezzo idoneo.
Il testo ripercorre e segue l’impianto della riforma con particolare attenzione relativamente alle
modifiche apportate all’art. 38
delle disposizioni di attuazione al
Codice civile ove è stata ridisegnata la geografia della competenza del Tribunale per i minorenni e del Tribunale Ordinario
con riferimento anche al regime
transitorio previsto nel testo della
Legge. Inoltre utili appaino i riferimenti giurisprudenziali allegati
al testo così come lo sono i lavori
preparatori ed i disegni di legge
presentati ai due rami del Parlamento al fine di permettere all’operatore del diritto di comprendere gli effetti voluti dal Legislatore.
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Avvocati di Famiglia 2/2013