Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata
“La Promessa”. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un
uccellino, o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo,
di controllare se sia davvero reale, sia inalterato, normale. Ma ovviamente...è
probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato “La Svolta”. L’illusionista
prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario.
Ora voi state cercando il segreto...ma non lo troverete, perché in realtà non state
davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora
non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla
riapparire.
Per questo ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che
chiamiamo “Il Prestigio”.
The Prestige, Christopher Nolan (2006)
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IL TERROIR.............................................4 IL MUSEO PER IL RACCONTO E IL RIDISEGNO APPROFONDIMENTI.............................78
DEL PAESAGGIO: ALCUNE RIFLESSIONI.........41
PROGRESSO E RIGENERAZIONE DELLE ZONE
LE MAPPE: UN RACCONTO POLIFONICO DEL
RURALI COME ELEMENTO CENTRALE DELLA RIFLESSIONI SUL RAPPORTO ARTE-NATURA..48 TERRITORIO..................................................79
CULTURA CONTEMPORANEA...........................5
EXPERIENCE........................................53 LA MAPPATURA NON VISIVA DI UN TERRITORIO
NUOVE STRATEGIE DI SVILUPPO DEL TERRITO...................................................................82
RIO TITERNINO................................................8 UNA CHIACCHIERATA CON BIANCO-VALENTE
....................................................................54 EXPERIENCE........................................86
CASTELVENERE IN SÉ BASTA A RENDERCI COMUNITÀ?......................................................11 I RIFLESSI............................................61 STRADE DI VINI LAB: DISEGNARE MAPPE INTERSEMIOTICHE DI CASTELVENERE....................87
EXPERIENCE........................................14 MAPPE POLITICHE, MAPPE ESTETICHE, MAPPE
RURALI: BIANCO-VALENTE E KULTIVATOR.......62 STRADE DI VINI LAB .....................................93
LA ZONAZIONE DEL PUC DI CASTELVENERE..15
STORYBOARD DELLA RESIDENZA ARTISTICA
CONCLUSIONI......................................96
LE DONNE DEL VINO: UNA COMUNITÀ CHE ....................................................................66
PRODUCE VALORE........................................18
Esperti........................................................101
TESSITURA...................................................71
L’INNOVAZIONE AGRICOLA: L’AGRICOLTORE 2.0
Partecipanti al worklab con Kultivator...........102
...................................................................20 KULTIVATOR: ARTE ED AGRICOLTURA TRA PRATICHE ESTETICHE ED ATTIVISMO TERRITORIALE
Partecipanti al workshop Strade di Vini.........91
IL METODO..........................................23 ....................................................................73
Gli artisti.....................................................103
RI/ATTIVARE: UN POSSIBILE FUTURO DA IMMA- A YEAR IN THE VINEYARD...............................76
Strade di Vini..............................................103
GINARE PER LE AREE INTERNE.....................24
IL TERROIR
Iain Chambers
Antropologo, sociologo, docente di Studi
Culturali e postcoloniali - Università degli
Studi di Napoli l’Orientale
Membro del gruppo diretto da Stuart Hall all’Università di Birmingham, Chambers è stato uno
dei principali esponenti del celebre Centro per
gli Studi della Cultura Contemporanea, che ha
dato vita a una fiorente branca della sociologia
anglosassone contemporanea. Insegna Studi
culturali e postcoloniali all’Università degli Studi
di Napoli “L’Orientale” e ha fondato il Centro per
gli Studi Postcoloniali. È autore di numerosi volumi di successo scritti in inglese e in italiano e
tradotti in diverse lingue. I suoi campi di studio
spaziano dall’urbanizzazione alla cultura popolare, la musica, la memoria, la modernità.
PROGRESSO E
RIGENERAZIONE
DELLE ZONE RURALI
COME ELEMENTO
CENTRALE
DELLA CULTURA
CONTEMPORANEA
Ridisegnare il “territorio”, utilizzando delle mappe
che la razionalità politica e amministrativa non è in
grado di vedere o recepire, significa entrare nella
labilità delle categorie ormai esposte in una fluidità eco-sistemica. Così possiamo liberare la categoria del “rurale” da un’impostazione che vede in
essa solamente il resto superato ed abbandonato dal “progresso” metropolitano. Non si tratta di
tornare a una nozione romantica di radici ed autenticità ma di rielaborare in modo radicale le circostanze e le condizioni attuali per fare emergere
un paesaggio diverso. Ormai gli spazi rurali, anche
nel profondo sud del mondo, sono tracciati anche
nelle mappe elettromagnetiche delle reti telefoniche e digitali. Se la metropoli è diffusa ovunque, il
rurale non è più distaccato ma, e in questo senso
diventa più significativo, esso diventa il potenziale
contrappeso critico in una serie di reti planetarie.
Nello smontare le logiche ereditate e rifiutare l’idea dello spazio rurale come un vuoto da riempire con progetti urbani e il suo “progresso”, sarebbe il caso di fermarci un attimo e riconsiderare
la costruzione storica, politica e culturale del rurale come proiezione subordinata della città. Per
liberare le sue possibilità è necessario spezzare la
catena di spiegazioni che lo ha fatto prigioniero.
Il territorio, che sappiamo non corrisponde alla
mappa, può essere attraversato in molti modi, su
molte scale, e può essere “tagliato” e configurato
secondo esigenze diverse. Partendo da quest’apertura, direi che è il caso di inserire nella questione
una serie di interrogazioni e percorsi critici che ci
permettono di sottrarre il territorio da una storia
già persa in partenza. Qui il territorio diventa un
laboratorio culturale dove diventa possibile immaginare e praticare un’economia politica diversa.
La novità entra per fa parte del territorio non come
una forza esterna, ma tramite un nuovo assemblaggio di elementi, pratiche e possibilità che sono già
in circolazione. Tramite lo smontaggio del concetto
di ruralità ereditata, spesso imposta da una visione
squisitamente economica e capitalistica dello sviluppo che ha profondamente danneggiato il Mezzogiorno e gli altri sud del mondo, il lavoro critico
consiste nel tirare fuori i fili per cucire un tessuto
politico e culturale diverso. Chiaramente la grammatica critica si sposta da un senso puramente
strumentale dell’economia rurale a una prospettiva
ecologica che sostiene una sfida complessa, tale da
investire perfino i progetti e le prospettive urbane.
Questa rivalutazione del rurale come elemento centrale della cultura contemporanea – dalla produzio-
ne agricola agli spazi del tempo libero – significa
liberare il discorso da una logica autoreferenziale
e inserirlo in una rete potenzialmente planetaria.
Il passaggio fisico e metafisico dal paese alla città, imposto dalla presunta linearità del tempo del
progresso, viene spezzato e ricomposto in una serie di possibilità multilaterali che sfuggono da tale
logica unilaterale per creare nodi e intrecci nuovi.
Nel ripensare il rurale con queste prospettive, i
linguaggi dell’arte – sia come configurazioni inaspettate dell’attualità del nostro tempo-spazio, sia
come operato e pratica che incide concettualmente e praticamente sull’ambiente – ci forniscono un
dispositivo critico. Qui, l’arte che prende forma aldilà delle mura bianche del museo e della galleria
ci invita non solamente a ripensare lo spazio-tem-
po del territorio, rendendolo problematico e perciò
aperto, ma fornisce un linguaggio critico in grado
di registrare e accogliere la complessità ambigua
con cui ridisegnare e abitare il territorio – sia rurale sia urbano – in maniera diversa: sebbene queste distinzioni iniziano a declinarsi in qualcos’altro come ci suggerisce il concetto di “rural city”.
Penso che queste brevi osservazioni siano essenziali per operare un taglio netto sulla logica che
ha ingabbiato il discorso, soprattutto nel meridione dell’Italia, sul progresso e la rigenerazione delle zone rurali. Pensare al sud non tanto come un
oggetto da gestire e curare, ma al sud come una
costellazione di pratiche e vite, significa adottare
una diversa bussola con cui navigare le sue storie,
le sue culture e le sue possibilità.
Elio Mendillo
amministratore delegato
GAL Titerno
Elio Mendillo, dottore commercialista, ha maturato specifiche e significative esperienze professionali e collaborazioni accademiche nelle
tematiche dello sviluppo locale e dell’assistenza tecnica a operatori pubblici e privati per la
programmazione dello sviluppo e la progettazione e valutazione di programmi di investimento.
è amministratore delegato del Gal Titerno s.c.a
r.l., agenzia di sviluppo locale attiva sul territorio
titernino-telesino che ha gestito programmi leader e progettazioni integrate territoriali.
NUOVE STRATEGIE
DI SVILUPPO
DEL TERRITORIO
TITERNINO
Il GAL Titerno ha operato affinché manifestazioni come “Strade di Vini” si svolgessero su tutto il
territorio di riferimento, in esecuzione di una delle
linee di azione progettate nell’ambito del Piano di
Sviluppo Locale per il ciclo 2007-2013 finanziato
dal PSR della Regione Campania.
È evidente che la strategia di sviluppo del territorio
è l’elemento centrale su cui il Gal Titerno esplica la
propria mission istituzionale fin dal ’97, nell’ambito
di attività di carattere sperimentale, essendo un soggetto misto pubblico-privato che fa dell’innovazione
territoriale l’elemento di indagine per ricercare nuove modalità di sviluppo e per individuare e affrontare le criticità dei territori marginali delle aree rurali. Il problema di fondo per i territori di riferimento è
quello di un continuo impoverimento demografico
delle comunità locali dei borghi della dorsale appenninica, un fenomeno che sta creando difficoltà
notevoli sia per la manutenzione che per la gestione del territorio ma, in qualche caso, anche per la
sopravvivenza stessa dei borghi che vengono progressivamente abbandonati nell’ambito di un tessuto sociale sempre più anemico e che invecchia
sempre più.
L’agricoltura e l’agroalimentare di qualità rappresentano sicuramente l’elemento di riferimento
principale che questi territori hanno per provare a invertire questa tendenza, mantenendo la
popolazione e ringiovanendola e legandola, con
modalità nuove, alla permanenza sul territorio. Solo l’agricoltura può svolgere questo ruolo e lo
può fare reinterpretando il suo ruolo con altissima
dose di innovazione non solo tecnologica, ma anche mediante l’approccio multifunzionale e integrato con tutti gli altri settori del territorio. Un’agricoltura utile a ricostruire e riprodurre paesaggi perché quello titernino è l’espressione artistica più alta che possiamo veicolare in termini
di immagine e su cui costruire brand territoriale,
visibilità e reputazione. Castelvenere è il paese
più vitato d’Italia e il paesaggio viti-vinicolo è stato per troppo tempo lasciato alla violenza della
cementificazione insensata, di una ricostruzione
secondo tipologie urbanistiche e architettoniche
estranee alla nostra tradizione, che hanno svilito
quella identità che ogni paesaggio rappresenta e
racconta. Castelvenere si sta intelligentemente ripensando e
riscoprendo pianificando lo sviluppo futuro e rappresenta un valido esempio per tutto il comprensorio. Il GAL sta aiutando il territorio a renderlo protagonista, partecipando alla sperimentazione nelle
aree interne con una strategia di carattere nazionale finalizzata alla ricerca di soluzioni per evitare che i giovani lascino il territorio e l’agricoltura
che insieme al turismo, può essere sicuramente
un driver di sviluppo. Un’agricoltura che incorpori
in maniera intelligente innovazione è sicuramente
un’ottima opportunità, ma non è sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è creare un senso forte di
comunità in termini di coesione: il territorio e le
comunità locali devono fare sistema, lavorare su
progetti collettivi che mettano insieme imprese
e municipalità e che possano comporre livelli di
massa critica utili a creare azioni e fenomeni economicamente sostenibili e profittevoli, su cui incanalare capitale, investimenti locali e della finanza
bancaria per creare sviluppo valore aggiunto sul
territorio.
Alex Giordano
docente di Marketing e social Innovation
Università degli Studi di Napoli Federico
II – IULM Milano Fondatore nel 2000 del collettivo NinjaMarketing, primo blog/osservatorio sul marketing
non-convenzionale ed i social media, è Chief
Digital Strategist di Ninjalab. Membro dello IADAS (Accademia di Arti e Scienze Digitali di New
York), co-autore di diversi libri sull’innovazione
tra cui “Marketing Non Convenzionale” e “Societing Reloaded”, è docente di Societing, Società
delle Reti e Social Innovation all’università Federico II di Napoli e all’ Università IULM di Milano.
Direttore del Centro Studi Etnografia Digitale e
direttore scientifico del progetto di ricerca Rural
Hub. È considerato tra i massimi esperti di social
innovation e di transmedia storytelling.
CASTELVENERE
IN SÉ BASTA
A RENDERCI
COMUNITÀ?
scontro tra uomo e natura, una sorta di peccato
originale che ha, progressivamente ma inesorabilmente, allontanato uomo e natura. Ai giovani dico
che non interessarsi della tecnologia e dell’innovazione, significa subire l’innovazione, diventare
“utenti di Internet”. I ragazzi devono apprendere
prima possibile strumenti utili a gestire le tecnologie, poiché esse possono diventare o un’arma per
indebolire un territorio o una possibilità di sviluppo
La prima grande tecnologia della modernità è per la comunità.
stata l’agricoltura, la scelta della stanzialità contrapposta al nomadismo, che ha determinato in- Internet non è “la” realtà, è una realtà mediata
nov-azioni utili a governare i processi della natura, da un algoritmo che decide che cosa farvi vedere
per garantire la sopravvivenza di un popolo in un prima, a cosa dare rilevanza e cosa “nascondere”.
Capire che qualcuno sta scegliendo per noi che
determinato luogo.
cosa è il reale vuol dire provare a emanciparsi, esFu allora che nacque il pensiero innovativo, nel Ne- sere liberi di scegliere, mentre i confini tra reale e
olitico. L’agricoltura fu un’innovazione dalle enor- virtuale sfumano.
mi implicazioni, perché coinvolgeva tutti, non solo
i produttori di cibo. Tutti abbiamo a che fare con Uno smartphone estende i nostri sensi in un modo
l’agricoltura e ogni qualvolta che ignoriamo il pro- mai vissuto prima: possiamo creare e processare
cesso che porta il cibo dalla terra al nostro piat- contenuti senza soluzione di continuità, possiamo
to, rinunciamo ad assumere consapevolezza e a comunicare ed essere connessi gli uni con gli altri
esercitare un controllo, come facciamo ormai con in tempo reale. Possiamo recuperare il senso di
la politica, lasciando ad altri, e spesso in mani pe- un’intelligenza collettiva o connettiva e, forse, abricolose, un immenso potere. Nel momento in cui bandonare il culto dell’ego in favore della colletl’uomo ha cominciato a governare i processi na- tività, della comunità: una parola molto abusata
turali, con la nascita dell’agricoltura, è iniziato lo perché spesso si confonde il pubblico con le coÈ proprio degli artisti ricercare una sintesi possibile degli accadimenti e fornirci una visione. Oggi,
spesso, ciò che manca è la capacità di un pensiero e di un’azione, di un sogno alla base di un
progetto. Quale vuole essere Castelvenere del futuro? Come ci immaginiamo tra vent’anni? Un luogo
fatto di industrie e palazzi? Una realtà connessa
con Napoli? Un territorio raccontato dal suo vino?
munità. Tre milioni di utenti di un blog sono una che abbiamo raccontato nel Manifesto per la Rucomunità? Forse sono solo un pubblico, perché ral Social Innovation.
non bastano i like per partecipare ai meccanismi
Un percorso locale e iperlocale, un discorso di docomunitari.
minio simbolico quindi politico e poetico anche atChe cosa determina una comunità, che cosa tiene traverso la rete (quel luogo dove lasciate le vostre
insieme una comunità, se non il valore di comu- narrazioni): pensate allo storytelling sulla rete che
nità: un’appartenenza quasi mai incarnata dalle lì rimane, una narrazione che prescinde dal luogo.
istituzioni, dal Comune o dai circoli istituzionalizzati. La domanda da porsi è “Castelvenere in sé Castelvenere non appartiene solo ai “venneresi” e
basta a renderci comunità?” Il territorio è il primo il dominio di questa poetica può stare anche in
elemento che stabilisce un valore di legame tra le mano ad altri. Noi viviamo in un Sud che è stato dominio simbolico di un Nord, continuiamo a
persone.
pensare a un modello di sviluppo di un Sud che
La “Crisi” sic et simpliciter è una bugia per come non è ancora Nord, convinti di essere un popolo
la raccontano: si tratta degli ultimi, violenti colpi arretrato.
di coda di un sistema economico e sociale che
ha attinto valore dalle comunità, dai territori, dal L’invito è di provare a restituirci il dominio simboprodotto stesso per valorizzare altre dimensioni im- lico, la poetica del nostro essere al sud di nessun
nord, di essere qui e ora. Nella globalizzazione, che
materiali: la logistica, il branding, la finanza.
ormai è un dato di fatto, l’unica moneta da giocare
Riappropriarsi della catena del valore (Value Chain) è quella della nostra identità: come scrisse Franco
e riorganizzarla su base comunitaria, coniugando il Cassano che amo sempre citare, bisogna “riguarrispetto degli equilibri ambientali di un territorio, la dare i propri territori”, farlo con occhi nuovi, ma
sostenibilità economica e le responsabilità sociali, averne anche (e soprattutto) riguardo.
è il percorso tracciato della nuova economia rurale
EXPERIENCE
Antonio Leone
Ricercatore del CNR e curatore della zonazione del PUC di Castelvenere.
È primo ricercatore del Consiglio Nazionale delle
Ricerche - Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo. Attualmente è responsabile
di diversi progetti legati allo sviluppo sostenibile
e all’innovazione del territorio.
Ha insegnato presso l’Università degli Studi del
Molise. È autore di oltre 130 lavori a stampa su
riviste scientifiche. Per Castelvenere ha curato la
zonazione del PUC.
LA ZONAZIONE
DEL PUC DI
CASTELVENERE
Il PUC di Castelvenere è stata un’occasione per acquisire importanti conoscenze sul paesaggio fisico,
utilizzabili per la valorizzazione del territorio. La geologia, la fisiografia, il clima e il suolo rappresentano le risorse fisiche più importanti di un territorio.
L’interazione di tali risorse con l’attività antropica
determina l’aspetto estetico e produttivo del territorio stesso e, quindi, le sue potenzialità effettive.
A fronte di tale premessa, un importante obiettivo
da perseguire, ai fini della corretta pianificazione
e della gestione di un territorio è la sua scomposizione in ambiti paesaggistici omogenei dal punto
di vista dell’ambiente fisico e, di conseguenza, dal
punto di vista dell’aspetto estetico, delle problematiche di gestione agrotecnica, della risposta all’uso
agricolo (sostenibilità ambientale), della specificità/distintività delle produzioni agricole che essi
esprimono. È questo, in modo molto semplice, il
concetto di zonazione agricola. Tale concetto è stato considerato ai fini della realizzazione del PUC di
Castelvenere. In particolare, il PUC ha considerato
la zonazione viticola come elemento strutturale, tenuto conto che la superficie vitata, con i suoi 1018
ettari rappresenta circa il 67% dell’intero territorio
comunale, costituendo, di fatto, la matrice agricola
nella quale sono immersi le superfici urbanizzate.
Punto di partenza per lo studio di zonazione è stata
la realizzazione di una dettagliata Carta dell’uso
agricolo del suolo, rilevata ad una scala < 1:3.000,
in taluni casi < 1:1.000. Il passaggio successivo
è stato la realizzazione di Carte morfometriche
(quota, esposizione, pendenza), attraverso l’elaborazione di un modello digitale del terreno a grande risoluzione spaziale. È stato quindi suddiviso il
territorio in unità di paesaggio omogenee dal punto di vista geologico, fisiografico e morfometrico e
di ciascuna unità di paesaggio sono stati studiati i suoli che le caratterizzavano, per produrre una
Carta dei suoli. Così concepita, la Carta dei suoli
contiene informazioni non solo sulla natura e sulle
proprietà dei suoli stessi, ma anche informazioni
riguardanti gli altri elementi dell’ambiente fisico
che ne influenzano la genesi e l’evoluzione. I contenuti informativi della Carta dei suoli sono stati
“confrontati” con le esigenze della vite, utilizzando
il metodo FAO – Framework For Land Evaluation
per la realizzazione di una Carta delle attitudini del
territorio comunale di Castelvenere alla viticoltura.
Sono stati poi studiate le relazioni tra unità cartografiche della Carta dei suoli e caratteristiche compositive di mosti di uva Falanghina, utilizzando il
metodo statistico multivariato della PLSR (Partial
Least Squares Regression) per la realizzazione di questo è stata prodotta anche una Carta del vigore
una Carta della zonazione viticola, relativa alla pre- vegetativo del territorio viticolo, attraverso l’elaborazione di immagini satellitari SPOT a media risodetta varietà.
luzione spaziale.
L’influenza del clima sulla vite è frequentemente
riassunto impiegando opportuni indici bioclimatici, Tutti i dati raccolti sono stati organizzati in un
capaci di differenziare e delimitare varie zone viti- GIS-DataBase, utilizzabile non solo per il PUC, ma
cole. Per gli scopi del PUC di Castelvenere, in ag- anche come strumento di supporto per la programgiunta alle Carte sopra descritte, è stata realizzata mazione e la gestione di attività agricole ed exanche una Carta dell’Indice bioclimatico di Win- tra-agricole riguardanti il territorio di Castelvenere.
kler, definito dalla sommatoria della temperatura
media attiva (> 10°C) nel periodo 1 aprile – 31 La novità e la qualità del lavoro prodotto hanno
consentito a Castelvenere di classificarsi al primo
ottobre.
posto nazionale del “Concorso per il migliore piaLa natura e le proprietà dei suoli, in combinazione no regolatore delle Città del Vino”, bandito dall’Isticon il clima, il portinnesto e le tecniche coltura- tuto Nazionale di Urbanistica” e dall’Associazione
li influenzano fortemente il vigore vegetativo di un Nazionale delle Città del Vino.
vigneto, che, a sua volta, influenza negativamente
la qualità delle uve e dei vini che ne derivano. Per
Elena Martusciello
Presidente Nazionale Associazione Le
Donne del Vino
Siede nella stanza dei bottoni di “Grotta del
Sole”, una delle realtà vinicole più conosciute
dell’area flegrea, ed è un punto di riferimento
per tutte le donne del sud, grazie alle sue doti
umane e professionali. Imprenditrice e Presidente dell’Associazione Nazionale Donne del vino, è
la prima ad aver scommesso sulle nuove esigenze del mercato del vino fatto sempre di più da
intenditori. È riuscita a creare un’azienda all’avanguardia, che vende in tutto il mondo, partendo dal territorio e dall’esperienza maturata dalla
sua famiglia nella vendita di vino.
LE DONNE DEL
VINO: UNA
COMUNITÀ CHE
PRODUCE VALORE
Le Donne del Vino è un’associazione che nasce
circa 27 anni fa e oggi conta quasi 700 donne,
tutte provenienti dal mondo dell’enogastronomia.
Già nel 1988, in tempi non sospetti, pensammo
di fondare e formare da subito una comunità per
rispondere al bisogno di “mettersi insieme” in un
mondo così maschile come quello del vino. Alla
fine degli anni ’80 la parola “rete” era una parola
impensabile che noi adottammo da subito come
imperativo per costruire qualcosa di nuovo e di
solido. La nostra associazione oggi è rappresentata in ogni regione italiana, ed è un’associazione
senza scopo di lucro: ci autofinanziamo e solo da
qualche anno riusciamo, grazie ad alcune attività
che abbiamo messo in campo, attraverso la valorizzazione e la diffusione dei prodotti di eccellenza,
a supportare alcune attività istituzionali. Le donne
del vino, nonostante le molte difficoltà, riescono
ad organizzare numerosi eventi in tutte le regioni,
non ultimo al Vinitaly che rappresenta un grande
baluardo nel mondo del vino, dove ci presentiamo
non solo per far conoscere i nostri vini, ma anche
tutta la cultura gastronomica che siamo in grado
di rappresentare. Le donne delle nostre aziende
associate, hanno capito da subito l’importanza di
legarsi al territorio e di salvaguardarlo, per cui oltre
le grandi aziende che fanno parte dell’associazione, ci sono micro aziende che invece nei posti più
marginali (Castelvenere potrebbe sembrare, rispetto ad altri territori, forse molto grande in termini di
estensione) sono riuscite a valorizzare questi territori e a produrre economia. La donna è la prima
che ha aperto la cantina ai visitatori, è la prima
che ha fatto turismo in cantina e tutto un lavoro
che, probabilmente grazie alla sensibilità data dalla differenza di genere, spesso apporta una nuova
visione del mondo.
Ignazio Gibiino
Delegato provinciale Coldiretti Giovani
Impresa Agrigento
Già Delegato Provinciale Coldiretti Giovani Impresa Agrigento dal 6 febbraio 2013, Ignazio
Gibiino è stato eletto anche Delegato Regionale Coldiretti Giovani Impresa Sicilia il 16 aprile scorso. L’azienda Agricola Gibiino si trova nel
cuore della regione in territorio di Naro (AG) e
rappresenta la tipicità dell’entroterra siciliano: i
terreni a matrice argillosa sono dedicati alle colture annuali in rotazione, precisamente cereali e
leguminose da granella. La restante parte dell’azienda è dedicata alle colture frutticole ovvero
uva da tavola, uva da mosto, frutta in guscio,
fruttiferi polposi e, ultimamente, anche melograno. Oggi si sta cercando di chiudere la filiera
e giungere autonomamente sul mercato, lavorando anche in partnership con la Fondazione
Campagna Amica.
L’INNOVAZIONE
AGRICOLA:
L’AGRICOLTORE 2.0
Parlando di terra si può parlare solo con un agricoltore e io sono un agricoltore siciliano. Presiedevo prima i giovani di Agrigento, ora sono delegato
regionale di Coldiretti Giovani Impresa Sicilia e da
un anno mi occupo di legalità, agricoltura e lavoro giovanile. Questi sono temi delicati e importanti
soprattutto in un momento di forte crisi sociale ed
economica. Innanzitutto che cos’è Coldiretti giovani impresa? È la costola giovane di Coldiretti, uno
dei movimenti che si sviluppa in Coldiretti e prende
la sua massima identità. Cerchiamo di interpretare
quelle che sono le esigenze dei giovani sui territori,
di raggruppare le esperienze dei giovani che, probabilmente meglio degli adulti di un tempo, sanno
interpretare un mercato in cui la globalizzazione
la fa da padrona. Difficilmente cinquant’anni fa si
poteva immaginare uno scenario di questo tipo,
ma oggi siamo quelli che meglio interpretano le
esigenze di un mercato fortemente in divenire e
siamo quelli che quotidianamente sono presenti
sui social, comunicano e fanno rete, cercando di
mettere in piedi idee innovative. Noi oggi viviamo
un’agricoltura completamente diversa rispetto a
quella di cinquanta anni fa, dove l’agricoltore non
è più il soggetto che si dedica alla mera attività
produttiva. Oggi ci affacciamo alla moderna agri-
coltura, un’agricoltura per lo più giovane che trasforma l’agricoltore da mero produttore a soggetto
sociale a tutti gli effetti. L’agricoltore è una figura
innovativa con un ruolo importante per il territorio.
Oggi viviamo in un momento in cui il terziario è
completamente saturo e gli altri settori producono
cassa integrazione. L’unico settore che oggi produce PIL e posti di lavoro (si pensa che nei prossimi
anni si possano creare 200.000 posti di lavoro)
è proprio il settore agricolo. Si è creata la figura
dell’agricoltore 2.0 di cui però si sa veramente
poco. In questi anni mi è capitato di imbattermi in
diverse figure di agricoltore che ad esempio gestiscono le stalle con gli iPad, i turni dell’irrigazione
con l’iPhone oppure cominciano a produrre latte di
cammello o cosmetici oppure, ancora, a praticare
sul fuori suolo, riuscendo così a produrre anche su
terreni stanchi dopo anni di produzione, regolando
i ritmi fisiologici della pianta.
Noi abbiamo creato un grosso box da cui tutti
possono attingere e rappresenta uno stimolo importante per fare sempre innovazione legata alla
distintività e soprattutto alla multifunzionalità, la
giusta traiettoria da seguire affinché un’impresa
sul territorio possa creare innanzitutto cicli virtuosi
che generino posti di occupazione e permettano di
fare impresa. A tal proposito, nove anni fa ci siamo
inventati il premio “Oscar green”, attribuito agli imprenditori under 40 che si distinguono per l’innovazione, permettendo loro di rimanere sul territorio.
Con l’agricoltura non ci si arricchisce, ma ci si può
imbattere nella possibilità di fare tanto e mettere
in gioco il proprio genio personale. L’“Oscar green”
quest’anno avrà uno scenario importante, quello di
EXPO 2015, dove non soltanto i giovani imprenditori avranno la possibilità di vincere un premio, ma
allo stesso tempo avranno un panorama di portata
mondiale, in cui molti stanno riponendo le proprie
aspettative. L’expo ha uno slogan impegnativo e
importante per il nostro settore “Nutrire il pianeta
e ricevere la vita”, quindi vediamo come l’agroalimentare rappresenta il grande veicolo del Made in
Italy nel mondo e che rappresenta la nostra identità
e l’identità dei territori. Un soggetto compra Made
in Italy perché è sinonimo di qualità e di eccellenza
sul territorio e quindi c’è una disponibilità a pagare
di più, grazie a una cultura del cibo che comincia a
svilupparsi sempre di più. L’anno scorso siamo stati nel Brennero per chiedere a gran voce che sulle
nostre etichette ci sia la massima chiarezza perché
ogni consumatore deve poter scegliere un prodotto
proveniente dalla propria terra e lasciare un quid
sul proprio territorio, dando la possibilità all’azienda di sopravvivere e di creare dei cicli virtuosi. Negli ultimi anni il numero di chi si dedica al settore
dell’agricoltura e al settore dell’agroalimentare è
aumentato notevolmente. Sono molti i giovani che
scelgono il mondo dell’agricoltura e dobbiamo riuscire a intercettarli perché questo settore viene ad
incarnare sempre più l’innovazione, la possibilità
di poter esprimere se stessi. Abbiamo una grande
missione nelle mani, una grande responsabilità e
non possiamo permetterci che i nostri territori falliscano, ma soprattutto, grazie all’opportunità che
l’agricoltura ci offre, dobbiamo mettere le ali ai nostri territori.
IL METODO
Nicola Flora
docente di Architettura degli interni
Università degli Studi di Napoli
Federico II Nel 1987 si laurea in architettura presso la Federico II di Napoli. Da allora affianca costantemente l’attività di progettista a una costante
ricerca teorica e sperimentale, insegnando in
seminari e workshop in diverse università italiane e straniere, oltre che presso la scuola napoletana. Dal dicembre 2012 è ricercatore presso
il Dipartimento di Architettura dell’Università di
Napoli, dove insegna Architettura degli interni.
Ricerca e sperimenta sulle ri/attivazioni dei borghi italiani dismessi o in progressivo spopolamento. Su questo tema ha pubblicato per i tipi
di Letteraventidue, nel 2013, il volume “I borghi
dell’uomo”. Strategie e progetti di ri/attivazione” insieme a Eleonora Crucianelli. Dal 1998 è
membro della redazione della rivista internazionale di architettura AREA.
RI/ATTIVARE: UN
POSSIBILE FUTURO
DA IMMAGINARE
PER LE AREE
INTERNE
La dismissione e “rottamazione”1 del “vecchio” edificato che innerva la dorsale appenninica italiana
da qualche tempo mostra quanto miope sia stata
questa strada di “sviluppo” che pianificatori, politici e architetti hanno perseguito per decenni, nella
massima parte senza opposizioni, almeno interne
a queste discipline. Negli ultimi anni solamente,
dopo quasi un decennio di dura stasi economica e produttiva, di dismissioni violente e selvagge
di grandi centri di produzione da parte di soggetti
nazionali e internazionali, dopo il devastante processo di finanziarizzazione delle attività produttive,
e il conseguente abbandono di molti comparti produttivi primari e secondari, si inizia a cogliere nel
giusto modo il disastroso lascito. Di contro brilla
ancor di più la lungimiranza di quei rari moniti delle poche voci che cercarono di porre una opposizione critica alla logica dello “sviluppo” che si era
mostrata strada senza apparenti alternative2 e che,
1 Sull’intrinseco, negativo portato che dobbiamo
consapevolmente considerare quando usiamo questa
parola - negli ultimi decenni simbolo di positiva
innovazione - rimando all’intenso scritto di Spinelli B.
(2012), “La mala rottamazione”, in La Repubblica, 24
ottobre, pag 29.
2 Recentemente è stata riproposta la stampa di un
libro “politico” che Adriano Olivetti scrisse proprio per
opporsi al modello di consumo e dismissione di suoli,
attività rurali e artigianali, oltre che di strutture sociali
se ben valutati, sarebbero potuti essere alimento
di una crescita più fisiologica ed armoniosa di un
pensiero progettante a scala nazionale, piuttosto
che essere considerati come anacronistici moniti di
astratti conservatori schierati contro tutti i trasformatori, che alla fine rimasero sterili e poco incisivi
protettori di storie e culture a volte millenarie. Oggi
ci troviamo nella delicata situazione nella quale
un numero enorme di piccoli centri delle aree interne (comunque distanti dalle poche città di media grande dimensione) sono semi abbandonati,
e moltissimi borghi - piccoli o piccolissimi - sono
parzialmente o totalmente diruti. Parallelamente
viviamo in numerose periferie - dove per periferie
qui ci si rifà al senso più ampio proposto da Augè3
che quindi possono essere aree anche centrali di
città medie e grandi - devastate formalmente e nel
senso sociale, con un livello di vita associata e di
standard edilizi pessimi; con enormi infrastrutture,
derivate dal tempo senza un immaginario positivo
che guardasse con coraggio a quelle “comunità
concrete” , democratiche, orizzontali, costruite per il
vero interesse delle popolazioni; cfr Olivetti A. (1949),
Democrazia senza partiti, ed. di Comunità (ultima
ristampa 2013).
3 Cfr. Augè M. (2009), Pour une antropologie de
la mobilitè, Parigi, trad. it. Augè M. (2010), Per una
antropologia della mobilità, Milano.
spesso non terminate o cadenti, che punteggiano tutta la penisola in stato di abbandono, mentre
siamo nella impossibilità di convertirle vantaggiosamente in nuove strutture produttive - e men che
meno in servizi per le popolazioni - data la stretta
finanziaria che costringe la mano pubblica a ritirarsi, piuttosto che come sarebbe il caso ad intensificare la propria presenza. Le conseguenze sul piano
della gestione e pianificazione delle azioni di contrasto a tale processo nazionale sono visibili, e per
ora con scarso successo nell’inversione dei flussi
migratori e nella stimolazione di nuove imprenditorialità e socialità nascenti dal basso. “È chiaro che
vada necessariamente immaginato un processo
inverso di valorizzazione e ri/ciclaggio virtuoso ossia di rimessa in circolo - di risorse territoriali e
materiali, culturali e produttive, per troppo tempo
dismesse, molte della quali fortunatamente ancora rintracciabili e ri-attivabili”4.
In un quadro simile ci sembra impossibile immaginare che un solo soggetto - politico, finanziario,
culturale, sociale - possa affrontare, e men che
meno risolvere, l’intricato intreccio che sessanta
anni di miope politica industriale e culturale senza
4 Ibidem.
alternative ha prodotto. Sarà indispensabile che
ciascuno degli attori che dovranno partecipare ai
nuovi processi siano consapevoli del quadro d’insieme e allo stesso tempo lavorino e provino almeno a proporre un nuovo orizzonte di riferimento per
indirizzare le scelte e l’agire concreto anche delle
più piccole comunità o dei semplici cittadini. Dal
nostro punto di osservazione, come diverse volte
scritto negli ultimi anni, è fondamentale prevedere
“un coinvolgimento delle comunità locali affinchè
questa nuova fase, che parte da una crisi economica e imprenditoriale percepita come dura e recessiva, si trasformi in un movimento a forte impatto creativo ed innovativo, potenziale incubatore
di opportunità non ancora esplorate”5. Pier Paolo
Pasolini, sul rapporto centro/periferie ha scritto
parole che riteniamo oggi facilmente estensibili al
rapporto città/borghi minori: “molti lamentano (in
questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla
mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro “cattivo” nelle periferie “buone”
(viste come dormitori senza verde, senza servizi,
senza autonomia, senza più reali rapporti umani).
Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie
5 Flora N. (2013), I borghi dell’uomo. Strategie e
progetti di ri/attivazione., Siracusa, pag. 68.
si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture
periferiche dalle quali - appunto fino a pochi anni
fa - era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili”6. In quanto progettisti certo non
siamo demiurghi, ma potremmo essere generatori
di “nuove sinapsi”, di collegamenti fisici o culturali che potrebbero ri/attivare rapporti interrotti tra
territori e le più diverse periferie. Anticipando una
conclusione riteniamo che larga parte di questo
tessuto interno dovrebbe essere ripensato come
una rete, un network di luoghi che, tra loro connessi – fisicamente e virtualmente, ma anche solo in
senso di dinamiche culturali, sociali e di relazione
– possa generare corridoi e canali di connessione
tra le città principali legando le fasce tirrenica e
adriatica, con benefiche ricadute sulla tutela e presidio fisico dei territori attraversati, nonché sul piano dell’integrazione e ricostituzione di quel senso
di appartenenza a un unico corpo/nazione, cosa in
fondo non ancora pienamente riuscita in 150 anni
di storia nazionale. Flussi economici e turistici o
6 Pasolini P. P. (1975), 9 dicembre 1973.
Acculturazione e acculturazione, in Pasolini P. P., Scritti
corsari, Milano, pag. 27.
di nuove socialità (anche sperimentali, magari basate sull’accoglienza dei migranti attivi presenti e
operanti nei nostri luoghi7) incentiverebbero nuovi
residenti a cercare casa in contesti meno economicamente onerosi e complessi rispetto all’abitare
nelle grandi città. Molte giovani coppie, single con
basso reddito, adulti separati, se avessero un minimo di incentivo fiscale e di abbattimento dei costi
di affitto delle case, oltre che una rete di micro-assistenze (asili nido, assistenza sanitaria di prima
accoglienza e relazionata a centri primari più ampi)
ben distribuita territorialmente, non avrebbero alcun rimpianto a lasciare città economicamente più
care e che spesso non lasciano intravedere un futuro credibile, soprattutto sul piano della qualità
della vita e delle relazioni sociali. Molte persone
che in età avanzata perdono il lavoro, potrebbero
trovare occasione di rigenerare antiche artigianalità e lavori in proprio che in contesti economicamente meno complessi, potrebbero essere viste
non come sconfitte esistenziali ma ri/partenze. Gli
anziani, che molte volte sono originari di questi
piccoli centri, nelle grandi città raramente trovano
quella rete relazionale capace di farli sentire inte7 Fabbricatti K. (2013), Le sfide della città
interculturale, Milano, pagg.49-50
grati e attivi, e certo un sapiente coinvolgimento di
questa fascia della nostra popolazione - peraltro
in forte aumento sul piano percentuale - potrebbe
generare processi virtuosi i cui benefici non credo
si possano neanche facilmente valutare (si intende
in positivo dal nostro punto di vista).
Italo Calvino ci ha insegnato a vedere nella città
le relazioni tra le persone, il loro immaginario e lo
stratificarsi casuale di storie, materie, connessioni8.
A trovarci persino appollaiati degli dei, degli spiriti, espressioni di quella energia vitale che chiede
di fare, manipolare, muovere, innovare, ri/attivare9.
Appunto: ri/attivare, mettere sempre e costante8 Si pensa particolarmente ai libri “Le città
invisibili” e “Lezioni americane” di Italo Calvino,
due testi diversissimi ma che si completano nella
contemplazione su come narrare il senso delle cose
utili alla vita (im)materiale dell’uomo.
9 Su questa parola\chiave si sono incentrate due
esperienze di workshop e seminari in spazi dismessi
del borgo di Alianello, in provincia di Matera, con
un’azione congiunta tra i miei studenti del corso di
“architettura di interni” della Scuola di Architettura
SAD di Ascoli Piceno, il gruppo MOBILARCH ed il
comune di Aliano (MT). Per un approfondimento
vedi il sito www.mobilarch.it alla voce workshop\
“viteIMpossibili 2011” e “Il resto di niente 2012”.
mente in moto azioni che generino flussi, spostamenti, modificazioni a servizio di una strategia per
l’abitare contemporaneo che accolga le istanze che
le persone propongono. Nel caso dei centri minori
dell’Italia Appenninica continuiamo a pensare alla
attivazione di nuove relazioni (fisiche, economiche
e di senso) certi che una nuova rete di rapporti e quindi di significati per la contemporaneità si
esprima nell’ordinare il sapere su una superficie,
nuovo “luogo simbolico” che, in dichiarato contrasto con la tradizionale profondità, appare deputato
(concettualmente) all’accumulo di valori in cui la
maggior parte delle nuove generazioni, si riconosce. Questa onda di enormi spostamenti di senso,
e quindi causa di nuovi assetti dei concetti di novità
e bellezza, uno scrittore come Alessandro Baricco
ce la racconta usando l’immagine, potentemente
evocativa, di un’invasione barbarica10- devastante
per chi si senta depositario di verità antichissime
– profonde, appunto – ma benefica per chi ami
davvero (e sopra ogni altra cosa la Vita e accolga
la modificazione col sorriso della fiducia nelle sue
spesso incomprensibili logiche.
10 Baricco A. (2006), I barbari. Saggio sulla
mutazione, Milano
Nadia Barrella
docente di Museologia - Seconda Università degli studi di Napoli
Professore associato di Museologia presso la
Seconda Università degli Studi di Napoli. Dal
1986 si occupa di storia delle istituzioni museali come spazio in cui è possibile riconoscere
il progressivo affinarsi della coscienza storica
dell’arte e delle capacità tecnico scientifiche dei
protagonisti della conservazione. Si è occupata di problematiche relative: alla tutela dei monumenti tra Otto e Novecento; ai musei come
“laboratori della storia”, alla nascita di alcuni
istituti culturali e dei loro organi ufficiali (riviste
e/o annali) nei primi decenni di vita unitaria. Da
sempre affianca alla riflessione storica la ricerca
sul museo contemporaneo e sulle peculiarità del
sistema museale meridionale. è autrice di diversi studi e numerosi saggi tra i quali: La forma
delle idee (Napoli , 2010); Principe e principi
della tutela (Napoli,2004); la tutela dei monumenti nella Napoli postunitaria (Napoli, 1996)
IL MUSEO PER
IL RACCONTO E
IL RIDISEGNO
DEL PAESAGGIO:
ALCUNE
RIFLESSIONI
Fare il punto sul rapporto tra museo e comunità,
museo e territorio, museo e paesaggio umano,
individuato come uno dei possibili obiettivi del
mio contributo al progetto Strade di Vini. Le mie
riflessioni, è opportuno precisarlo sono tutt’altro
che conclusive, potrei in realtà definirle quasi un
“brainstorming” nato dalla necessità di condividere i miei dubbi e confrontarmi su quelle che
penso siano le notevoli contraddizioni di un Paese
che presenta ancora troppe sacche di resistenza
al nuovo e un’evidente permanenza di antichi approcci al paesaggio lontani dal dibattito più aggiornato e dalla molteplice domanda di servizi, di
strumenti e tecniche per la corretta utilizzazione
del patrimonio culturale nonché domanda di misure per la tutela, la salvaguardia preventiva e la
valutazione dell’incidenza del patrimonio culturale
sul riequilibrio economico del territorio. Occuparsi
di paesaggio è molto problematico non solo per la
complessità dei suoi fattori costituivi quanto per
le finalità che spingono i tanti ad occuparsene e,
quindi, per la molteplicità dei punti di vista che
ne conseguono. Anche delimitando la riflessione
al solo racconto del paesaggio nel museo, intendendolo come racconto del territorio di una specifica cultura, “scenario spazio-temporale dentro cui
hanno agito e agiscono generazione di attori, individuali e collettivi”, ci si scontra con ciò che è – o
almeno dovrebbe esserlo – oggetto se non di tutti,
sicuramente della maggior parte dei musei italiani,
depositi di elementi culturali, materiali e non, che
si “accumulano” nel formare il patrimonio identitario dei luoghi. Difficile effettuare un’indagine sulla
forma di questo racconto in tempi brevi, ma credo
possa essere utile lavorare in questa direzione per
il futuro perché il rapporto tra la mission dell’istituzione e la sua forma visibile, ciò che pensa di comunicare e il percorso concreto che mette a punto
per i suoi pubblici, è non solo poco studiato, ma
anche poco “valutato”. Eppure la divergenza tra teoria e prassi, appare in tanti casi, molto spiccata.
Per entrare “nel paesaggio” ho concentrato l’attenzione, nella piena consapevolezza della parzialità
dell’indagine, sui musei esplicitamente intitolati al
paesaggio. Non sono molti, ne ho contati una decina: il più antico – quello di Verbania – è sorto nel
1909 altri sono recenti se non recentissimi. Sono
tutti collocati al centro-nord (per lo più Toscana,
Emilia, Piemonte e Veneto) ed è questo un primo
e purtroppo noto aspetto del problema: il grande
divario tra il centro-nord ed un sud Italia ancora
molto lontano da tali tematiche. La conferma del
divario, purtroppo, viene anche dal censimento
ICOM 2014 “musei e paesaggi culturali” che
ho utilizzato soprattutto per una verifica veloce su
quanto realizzato su questi temi sull’intero territorio italiano. Su 199 schede raccolte con questo
censimento 96 riguardano l’Italia settentrionale,
77 quella centrale (48 solo in Toscana), e 21 quella meridionale. Di queste 21 solo 9 sono quelle
dell’Italia meridionale peninsulare dedicate ai pittori dell’Ottocento napoletano (il cui en plein air, tra
l’altro, viene letto come dato stilistico e non come
riflessione sul paesaggio storico), ad un ciclo di affreschi di una cappella calabrese e ad alcune feste
tradizionali. Il nesso paesaggio e sua rappresentazione nell’arte è quello prevalente anche nelle
iniziative di molte altre regioni ed è ricorrente in alcuni dei musei citati che si avvicinano non poco ai
percorsi delle pinacoteche o dei musei d’arte più
tradizionali. È il caso del Museo del Paesaggio di
Torre Mosto (in provincia di Venezia) che interpreta il paesaggio come la “percezione” dei luoghi da
parte degli artisti del novecento e, come si legge, il
“senso superiore della loro indefinibilità”. Ricorda
molto tradizionali percorsi espositivi orientati alla
fruizione estetica di luoghi monumentali il Museo
dedicato al paesaggio dell’Appennino faentino
a Riolo Terme (Prov. di Ravenna) che supplisce
con visite guidate esterne a pagamento all’assenza di un percorso museale attinente al complesso
dei bisogni, delle risorse, delle attività e dei prodotti intellettuali e materiali degli individui e della
comunità. L’attività sul territorio (escursioni/laboratori/didattica) è spesso l’alternativa scelta da
queste istituzioni ad un allestimento abbastanza
limitato fatto di qualche pannello e di poche altre
indicazioni (si veda ad esempio il Museo del Paesaggio nell’Abbazia di Moscheta - Firenze o del
Centro di educazione ambientale Casa Monti ad
Alfonsine sempre in provincia di Ravenna). Sono
scelte comprensibili ma diventa inevitabile il confronto con la maggiore coerenza alla problematica
del paesaggio modernamente inteso del più antico
Museo del paesaggio di Verbania (Verbano - Piemonte) che ha scelto la strada del museo come
“presidio territoriale” attestata, più che dall’allestimento in sezioni tradizionali (pittura, scultura, archeologia e religiosità popolare), dall’organizzazione generale del sito. Interessante appare anche il
museo del paesaggio di Castelnuovo Berardenga
(Chianti) uno dei 40 e più musei della Fondazione Musei Senesi che gode sicuramente dell’ampio
lavoro fatto dalla Fondazione in direzione dell’utilizzo delle nuove tecnologie e che si apre, più degli
altri, all’idea di rete come strumento determinante
per la tutela del paesaggio. È proprio guardando a
questi musei e a quanto del loro percorso espositivo e della loro attività è percepibile da “una visitatrice a distanza” che nascono alcune domande.
La tutela del paesaggio dovrebbe saper “guidare la
sua inevitabile trasformazione”. Un grosso limite in
tal senso – ha ragione Massimo Montella – nasce
innanzitutto dalla nostra legislazione che affida al
Codice (dei bb.cc. e del paesaggio e alla sua revisione tramite dlg 63/2008) la definizione di paesaggio come “territorio espressivo di identità, il cui
carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”, ma lo fa attraverso
“una legge settoriale, programmaticamente limitata ad una selezionata quota di beni paesaggistici
che non può debitamente corrispondere all’esigenza postulata dalla Convenzione Europea di una
radicale revisione di tutta la disciplina comunque
attinente alla generalità del territorio”. Sottomette poi la valorizzazione alle esigenze di tutela, ma
limita la sua forza prescrittiva anche nei ristretti
ambiti cui andrebbe applicata perché, non “consente di conoscere l’ubicazione, il valore e tutte le
caratteristiche e i significati dei beni da salvaguardare, nonché dei pericoli, dei metodi e delle tecniche, degli strumenti e delle abilità professionali
con cui fronteggiarli”. Montella ha sempre sottolineato, rispetto al problema paesaggio in Italia, le
potenzialità della minuziosa rete di musei radicata
soprattutto nei medi e piccoli centri ma proprio di
recente ha segnalato la necessità che questi istituti
abbiano “una visione dilatata della propria missione nonché assetti di rete e di contracting out con
fornitori individuabili nel mondo della ricerca per
strategie proattive aperte su tutto lo spettro delle
attività di creazione del valore in una prospettiva
di multistakholders indirizzata a più aree di scambio di natura pubblica e privata”. Non mi sembra
che questi musei, ma vorrei in futuro approfondire
proprio questo aspetto, siano orientati in questa
direzione. Ho notato con un certo dispiacere, ma
è solo un piccolo esempio, che la stessa Fondazione dei musei Senesi non ha contribuito in alcun
modo alla redazione del Piano Paesaggistico territoriale della Toscana. Musei di proprietà comunale
– come quello di Biella o come quello di Rocca di
Riolo che pure hanno carte dei servizi abbastanza
dettagliate – non citano alcuna forma di collaborazione strutturata con l’amministrazione che ne è
Conferma tutto ciò il censimento del 2014 dove
solo in alcuni casi comune/provincia/regione o
ministero (inteso come Soprintendenza) partecipano alle attività. La sensazione, molto forte, è
anche il paesaggio nel museo continui ad essere
“autoreferenziale” e non ci aiuta certo la presenza ormai abbastanza diffusa di ecomusei. Questi
ultimi rappresentano forse un tentativo d’innovare
anche in Italia la museologia classica” ma si sono
orientati spesso alla “ricerca di una frequentazione
turistica dolce, molto culturale o ecologica” o coDaniele Jalla, parlando del tema scelto per ICOM munque alla rivitalizzazione di territori rurali o peri2016 ribadiva che il tema museo paesaggio era urbani isolati a partire dalle loro risorse e dai loro
una sfida complessa “museologica perché propo- abitanti”.
ne una nuova forma di museo; museografica perché impone nuove forme d’interpretazione del pa- Eugenio Turri aveva suggerito un approccio al paetrimonio. E deontologica in quanto definisce nuove saggio molto interessante, per “iconemi”, elemenresponsabilità per i musei e per i professionisti del ti emergenti da cui solitamente comincia la sua
lettura, quelli che danno identità a un paese o a
patrimonio.”
una regione di cui rappresentano generalmente le
Museologicamente (e quindi anche museografica- strutture portanti dell’organizzazione territoriale.
mente) non mi sembra di aver trovato significative è un buon suggerimento anche per un percorso
innovazioni ma quel che più mi preoccupa è che espositivo ma non ho trovato questa impostazione
sia ancora scarso il livello di interazione dei pro- in nessuno dei musei citati né nei tanti ecomusei
fessionisti del musei con gli altri attori protagonisti sorti nell’ultimo decennio in Italia.
riconosciuti dello sviluppo del territorio.
proprietaria. Nella carta del Museo di Riolo – parte
di un sistema museale intelligente e attento che è
quello della Provincia di Ravenna – ci si ferma allo
standard 6. Ho la sensazione, ma non escludo l’errore dovuto alla superficialità della mia indagine,
che quando si parla di museo come presidio di
tutela del paesaggio, almeno per il momento, parole come “progetti condivisi, processi territoriale e
dinamica partecipativa” siano più slogan che dati
di fatto.
Nel procedere per “idee generate” altri interrogativi sono sorti dallo sguardo alla diffusione territoriale, ai luoghi di riferimento e alla numerosità
delle comunità di riferimento. La ricca bibliografia
sul paesaggio italiano ha lavorato molto sulla sua
varietà. Uno sguardo ai nostri musei e ci si accorge
che troppa parte di questo paesaggio ne è rimasto fuori. Il più escluso in assoluto è quello urbano e, in particolare quello urbano contemporaneo
fatto di paesaggi dell’abbandono, di paesaggi a
forte frequentazione, di paesaggi dell’emergenza
e di ordinari. Di quello che oggi spesso si esprime
come “nuova domanda di paesaggio” intesa come
attenzione alla qualità dei contesti ed ai problemi
posti dallo snaturamento delle immagini e delle
forme fisiche ereditate dal passato e che chiama
a “ricontestualizzare i valori delle preesistenze e a
immetterli in una nuova rete di significati in grado
di coniugare in modo fertile gli opposti principi di
radicamento al locale e di appartenenza alle molteplici reti materiali e immateriali che configurano i
territori della contemporaneità” (A. Clementi). Nessun museo del paesaggio, nessun ecomuseo (ci
ha tentato solo l’EUT a Torino) e quasi nessun museo della città italiana ha scelto di porsi su questa
strada. I musei civici, giusto per fare qualche altro
riscontro, sono quasi del tutto assenti dal censimento 2014. Il nostro Paese ha tentato anche, negli anni passati, di rispondere a questa domanda
attraverso una rete di urban centers ma sono pochi
quelli che funzionano e raramente dialogano con
le strutture museali del territorio.
Come più volte ribadito da tanti è più che mai necessario per il nostro Paese un nuovo modello e
un nuovo sistema di tutela che ricomponga valorizzazione e gestione, ma i musei “presidi territoriali”
di tutela non sono solo un problema di modelli e
di norme ad hoc. Nella carta di Siena redatta da
ICOM si inviata a “favorire la creazione di comunità
di paesaggi”, adottare un approccio interculturale
e sollecitando “reti museali di diverse tipologie”.
Se è giusto parlare di una vocazione naturale del
museo italiano al territorio e ribadire la potenzialità
di questa vocazione “impedita – secondo ICOM –
dall’insufficienza delle risorse economiche e umane, ostacolata dal quadro normativo, perché ha finito per divenire estranea alla stessa cultura degli
operatori” io mi chiedo se “l’estraneità di questa
vocazione alla cultura degli operatori” sia un esito
oppure – se si guarda ai percorsi formativi della
maggior parte degli operatori – un solido “presup-
posto” cui i limiti sopraindicati attecchiscono facil- quella rappresentazione del paesaggio italiano che
ci faccia scoprire il guasto che riteniamo sia stato
mente.
prodotto e il grande valore che, nonostante tutto,
Per concludere, vorrei tornare al non esposto, al ancora permane. Fintanto che questa rappresennon raccontato e al non comunicato. Si è detto che tazione non viene fornita, il guasto e il valore non
è la “memoria individuale e collettiva a generare possono essere visti e se guasti e valori non vengoil testo narrativo che è il paesaggio della nostra no resi visibili, è stato giustamente osservato, non
identità culturale e della inevitabile valorizzazione si può neppure configurare una linea d’azione per
emotiva che dall’interazione tra identità e mondo affermare quel nuovo mito che va di moda chiamaconsegue”. Sarebbe utile, pertanto, dar forma a re “sostenibilità”.
Gaia Salvatori
docente di Storia dell’arte contemporanea – Seconda Università degli Studi di
Napoli
Professore associato di Storia dell’arte contemporanea presso il Dipartimento di Lettere e Beni
Culturali della Seconda Università degli Studi di
Napoli. La sua attività di ricerca si è affiancata
alla didattica nell’ambito della Storia della critica d’arte e della Storia dell’arte contemporanea
intrecciando i suoi interessi con la storia dell’illustrazione e delle arti applicate. Recenti filoni
di ricerca vertono sulla storia della scultura e
dell’arte pubblica nell’800 e nel 900. È autrice
di numerosi saggi e volumi fra cui Nelle maglie
della storia. Produzione artistico-industriale, illustrazione e fotografia a Napoli nel XX secolo
(2003), (con Nadia Barrella) Le Aule dell’Arte.
Arte contemporanea e Università (2012) e Isole
d’utopia. Da De Stijl all’arte per lo spazio pubblico (2013).
RIFLESSIONI SUL
RAPPORTO ARTENATURA
Dead Tree, interviene sul tema della natura andando a mettere a fuoco una problematica di fondo,
ossia quanto la natura sia fertilità, crescita, sviluppo, ma può anche essere mortificazione e inaridimento della stessa se non la si alimenta nel modo
giusto. Egli sceglie, quindi, di sradicare un albero
secco e reinserirlo nel terreno a testa in giù, lasciando le radici allo scoperto e i rami incavati nel
terreno. È un’operazione fortemente provocatoria,
espressione di un piglio tendenzialmente polemico
ereditato dalle avanguardie e proprio anche delle
Nel primo ‘900 si è parlato di Modernismo natura- neoavanguardie degli anni ’60 e ’70.
lista laddove il rapporto degli artisti con la natura
era, per quanto ispirato ad elementi di polemica, Altra importante opera di Smithson è sicuramendi provocazione e contrasto, comunque inestrica- te Spiral Jetty, una vera e propria opera di Land
bilmente ad essa correlata. Tutto questo è andato Art, termine che nasce laddove l’artista interviene
mutando successivamente, in seguito alle trasfor- sul territorio direttamente, anche con una trasformazioni che si sono avute nel corso soprattutto de- mazione della forma dei luoghi: in questo caso il
gli anni ’60, trasformazioni che hanno interessato Great Salt Lake nello Utah in America. Con essa si
vari filoni della cultura, tra cui l’arte. Da questi anni sperimenta una forma importante di volontà di imin poi si parla di arte in rapporto con la società, porre il senso umano sulle cose della natura, una
l’economia, come anche con i problemi di gene- sorta di sfida nei confronti della natura.
re (vedi il femminismo), ma anche in rapporto al
territorio e alla natura. Di Land Art si comincerà a Sempre Robert Smithson, negli anni ’70, realizza la
parlare, appunto, proprio negli anni ’60 con artisti Floating Isand To Travel Around Manhattan Islancome Robert Smithson che nel 1969, con l’opera d,una sorta di isola galleggiante che girava intorL’interesse nei confronti della natura è sempre
stato centrale nell’arte; il rapporto tra natura e
arte è consustanziale e strutturato all’arte stessa.
Non può sorprendere, pertanto, che ci siano molti
esempi di artisti contemporanei che si sono occupati, e si interessano ogni giorno, di natura in
ambito internazionale. Oggi tuttavia, e almeno a
partire dalla seconda metà del ‘900, il rapporto
con la natura da parte degli artisti è diventato più
complesso, conflittuale e contraddittorio.
no all’isola di Manhattan a New York sradicando,
quindi, un pezzetto di natura catapultata, poi, letteralmente nella città con questa modalità mobile. È
un modo di intendere la Land Art in cui l’artista ha
ancora una forte centralità di scelta e forte della
propria capacità creativa può stravolgere anche il
rapporto con la natura.
Un altro artista della Land Art americana che ricorderei è Alan Sonfist, autore anche di molti testi
come “Nature, the end of art”, un titolo questo che
suggeriva come la natura stessa avesse già le sue
potenzialità, le sue capacità e le sue dinamiche
di fronte alle quali l’uomo e l’arte non possono
che incidere molto limitatamente. Tuttavia in queste manifestazioni e prese di posizione in rapporto
alla natura non viene meno l’aspetto di ‘autorialità’ dell’artista, aspetto che persiste anche nella
cosiddetta Arte povera. Di questo movimento, che
si sviluppa in Italia tra gli anni 1968 e 1972. Giovanni Anselmo è un artista molto noto. Nel 1968
Anselmo ha realizzato un’opera “senza titolo”
che ha come elemento centrale una lattuga fresca
collocata su di un piedistallo come una sorta di
scultura che di per sé ha una sua vita e una sua
entità. La lattuga andrà rinnovata oppure lasciata
deperire per il tempo biologico che le è consentito.
Allo stesso tempo si è giocato con la natura anche utilizzandola come modello per inventare delle
forme assolutamente artificiali che si avvicinano
al design, come nel caso di un altro famosissimo
esponente dell’Arte povera, Piero Gilardi, che realizzò una serie di Tappeti natura. Dei tappeti è disponible anche un video nel quale lo stesso Gilardi descrive il suo lavoro. In essi, a differenza della
lattuga deperibile di Anselmo, viene usata la resina
poliuretanica, quindi un materiale assolutamente
opposto alla natura, per mostrare una natura bella,
edulcorata e immacolata, e come tale vendibile.
Arte Povera e Land Art sono state molto oggetto
d’attenzione della critica, ma anche hanno spesso
parlato attraverso la parola degli artisti stessi: soprattutto in ambito americano uno dei testi più significativi in tal senso è “Art in the Land” del 1983
a cura di Alan Sonfist, nel quale l’artista – scrittore
mette a fuoco le caratteristiche dell’arte ambientale. In quegli anni ’80, tuttavia, Arte Ambientale
e Land art cominciavano già ad entrare in crisi:
in quel periodo, infatti, soprattutto dagli studi di
tipo sociologico emergono delle nuove consape-
volezze e si comincia a parlare di biofilia, come
anche di biopolitica. Tutte le diverse ramificazioni
della cultura, da allora, hanno fatto i conti con il
“bio”, e quindi con la realtà minacciata della natura, e si è creata una sorta di co-dipendenza tra gli
essere umani e il mondo naturale. Si è cominciato
a capire, sostanzialmente, che non si può fare gli
uni a meno degli altri, che i mondi delle natura e
i mondi dell’umano sono strettamente correlati e
che l’uomo ha nei confronti della natura forti responsabilità. In questi anni si comincia a teorizzare
e a cogliere sul piano sociologico, ma anche storico-artistico, un nuovo nesso arte-natura e comincia ad essere messa in crisi persino la nozione di
ecologia.
sperimentazioni in grado di instaurare una sorta di
dialogo soprattutto sulle differenze e sulle potenzialità comuni del mondo antropizzato e del mondo naturale.
Con gli anni 2000, dunque, si è aperta una nuova
frontiera di indagine del rapporto dell’arte con la
natura. L’artista Mona Hatoum, una donna palestinese, ha realizzato nel 2008 un Hanging garden
(giardino sospeso) costituito da sacchetti di iuta
contenenti semi, realizzando dunque un’opera che
se esposta all’esterno è un’opera che cresce e si
sviluppa perché i semi vengono alimentati dall’acqua e le piante fuoriescono dai sacchetti. La stessa cosa può avvenire provocatoriamente anche
all’interno del museo se si fa in modo di innaffiare
Fra i tanti esempi possibili di attenzione a que- regolarmente i sacchetti.
sto nuovo corso, cito le attività della Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo a Torino. Questa nel Sempre nell’ondata di rivisitazione del problema
2008 mostrò una serie di artisti sotto l’insegna di naturale, al di là dell’ecologismo e del naturalismo,
una nuova definizione, la Green Washing, ossia il si è mossa anche l’ artista giapponese Aki Nagatentativo di presentare in termini ambiguamente saka, di nuovo con un Hanging garden, in questo
ambientalisti politiche di fatto aziendalistiche e in- caso costituito da piantine secche che pendono
dustriali. Secondo i curatori della mostra, uscendo dal soffitto di una distilleria, in relazione all’ aspetdalla semplice contrapposizione fra arte e natu- to anche mistico del fare vino.
ra oppure città e campagna, bisognava segnalare
Questa attitudine riflessiva e a tratti mistica del
rapporto con la natura, non ha escluso, anzi ha a
volte sollecitato, lucidi rapporti virtuosi con le risorse del territorio.
In merito al tema del vino, in particolar modo, molte
aziende proprio sulla base della consapevolezza di
un rinnovato rapporto tra arte e natura, ma anche,
in certi casi, ancora in ascolto degli sviluppi della
Land Art (che continua ad avere proseliti), hanno
intrapreso una serie di iniziative degne d’attenzione. Tra queste citerei, per il casertano. la tenuta
delle Terre del Principe, con Manuela Piancastelli,
che ha lavorato con artisti, non tanto spingendoli ad interagire con il paesaggio, quanto piuttosto
invitandoli ad esprimersi con e per le etichette del
vino di loro produzione: un esempio può essere
l’etichetta realizzata dall’artista Sergio Fermariello
nella quale egli riprende alcuni temi a lui congeniali come quelli del guerriero, dello scudo e del
rapporto con la natura in senso anche ancestrale.
Voglio concludere con un’immagine provocatoria ma che può essere un monito e una domanda aperta. Bruce Nauman, artista americano, nel
1969 realizzò un’opera che spazzava via la tendenza in voga in quegli anni di intervenire in maniera
anche invasiva nella natura (comune a molta Land
Art, soprattutto americana). Nauman, dunque, realizzò una striscia di fumo nel cielo, grazie ad un
lavoro fatto con degli aviatori, con la scritta Leave
Land Alone (lascia stare la terra o lascia sola la
terra). Pur nell’ambiguità del monito, Nauman non
voleva dire certamente di non occuparci più della
natura ma al contrario di lasciare che la natura e
il territorio nella sua integrità coltivino le proprie
potenzialità rigettando interventi aggressivi e invasivi: qualcosa che anticipa, mi sembra, quella che
è la tendenza attuale di intervenire e lavorare con
la natura nella formula della sostenibilità, che è
la nuova parola chiave andata a sostituire quella
dell’ecologismo e dell’ambientalismo, che ha una
sua storia importante ma non è più al passo della
problematiche attuali.
Bisogna, insomma, sviluppare una cultura dei territori e per fare questo bisogna creare una sedimentazione di saperi che nasce soprattutto da un’interazione con i luoghi che permetta di mettere in
moto dei meccanismi virtuosi, e ciò anche grazie
anche all’aiuto di artisti quando questi riescano
a mettere in evidenza le caratteristiche territoriali
come stimolo che porti ad altro, conduca a nuove
iniziative, e non come azione puramente performativa.
EXPERIENCE
UNA
CHIACCHIERATA
CON BIANCOVALENTE
D: Secondo voi il paesaggio di una
località, in particolar modo quello
vitivinicolo di Castelvenere, può essere
un mezzo anche artistico attraverso
cui dare un nuovo input allo sviluppo
locale? E se si come?
B.V. Si tratta di un paesaggio legato al vino e, lasciando il discorso artistico da parte, già questo
può favorire il nome di una località e far sviluppare
in parallelo un turismo di qualità. Il paesaggio, il
vino e il buon cibo sono attrattori in grado di far
muovere le persone e sicuramente una buona conformazione architettonica del luogo può aiutare lo
sviluppo locale e favorire la nascita di alberghi diffusi, bed and breakfast e altre attività: in tal senso
la comunicazione e il racconto di un territorio possono essere vitali. L’arte, sicuramente, può incidere
in maniera indiretta in questo processo innovativo
e di comunicazione di un territorio. L’artista che lavora a stretto contatto con le comunità, quando
arriva in un luogo, si lascia ispirare ascoltando le
persone e vivendo il territorio per restituire una propria visione che può essere emblematica, poetica
o di qualsiasi altro tipo. L’artista, con il suo lavoro,
può dare nuove idee a una comunità impegnata
ad innovarsi.
Noi abbiamo già partecipato a progetti analoghi e
abbiamo avuto modo di vedere come la comunità sia stata influenzata dall’operazione fatta. Normalmente tendiamo a coinvolgere le persone della
località in cui lavoriamo e la partecipazione dei cittadini rende l’opera e il processo di realizzazione
della stessa una cosa che coinvolge tutti. A Latronico, paese che per grandezza è simile a Castelvenere, da diversi anni portiamo avanti un progetto in
cui la residenza artistica ha come obiettivo l’inserimento delle opere prodotte nel contesto urbano. Il
progetto si chiama “a cielo aperto” perché le opere
sono istallante, appunto, a cielo aperto e non c’è
un museo in cui andare a vederle. Le opere sono
veramente integrate nel luogo, nella quotidianità
della comunità e chiunque può trovarle in maniera
spontanea. Questo nostro progetto è stato di stimolo anche da un punto di vista economico, infatti
sono nati dei bed and breakfast.
Il sindaco di Latronico ha cercato di veicolare l’idea dell’arte contemporanea includendola in un
discorso più ampio puntando sugli elementi di forza del territorio come le terme, i boschi, il borgo
antico attivando una serie di percorsi e coniando il
logo “Latronico città del benessere”. Si è comunicato a sviluppare, quindi, un discorso a lungo termine.
D: In che modo la comunità locale sarà
coinvolta nel processo creativo?
D: Che tipo di relazioni sperate di
poter instaurare in una comunità come
B.V. Sicuramente sarà coinvolta la cittadinanza at- Castelvenere?
traverso incontri e ascoltando le storie delle persone. Cercheremo di mettere in relazione i pensieri
delle persone. Ultimamente ci interessa lavorare
sulle storie anche se all’inizio ci vantavamo di realizzare opere che non raccontavano una storia. Il
nostro lavoro era incentrato sul corpo, la mente,
l’immagine mentale e di conseguenza abbiamo
cominciato a studiare l’evoluzione biologica che
aveva portato l’uomo a sviluppare il cervello in un
certo modo. In questo nostro studio abbiamo capito che la storia delle persone è importante perché il tessuto di una comunità è l’unione di storie.
Questo è il motivo che ci spinge ad ascoltare le
storie, rielaborarle in qualche modo per poi restituirle, vivendole dall’esterno, alle persone che ce le
hanno raccontate. Noi abbiamo sempre in mente
la scena di una prima comunità di nomadi, dove
i cacciatori si allontanano per portare il cibo alla
comunità, ma al loro ritorno portano anche il racconto delle esperienze vissute che si intrecciano
con quelle delle persone rimaste al villaggio. I cacciatori non portano solo cibo per il corpo, ma anche per la mente. È un po’ quello che noi facciamo
oggi quando invitiamo una persona a cena e il cibo
diviene il tramite per potersi raccontare le storie.
Tutto questo serve a legare le persone.
B.V. Resta sempre un legame con le persone con
cui sviluppi un discorso anche quando il tempo
a disposizione è poco. Ad esempio dopo un lavoro che abbiamo fatto in Libano alcune persone,
che abbiamo conosciuto li, sono venute a trovarci.
Come concetto di vita quando andiamo in un posto ci interessa sempre conoscere le persone del
luogo, instaurare con loro un legame e coinvolgerle
nel lavoro che portiamo avanti. Si tratta di una legame fatto di tracce che rimangono dentro di te.
D: Come vi rapportate con l’idea di
conservazione delle opere?
B.V. è un aspetto a cui non siamo molto interessati.
Le persone vanno via, le idee si trasformano continuamente e anche le opere vanno vissute. Alcune
opere sono fatte proprio per essere consumate dal
tempo e anche questa può essere una componente artistica. La conservazione è una componente
che non si può controllare perché possono venire fuori sempre delle problematiche che portano
all’autodistruzione delle opere. Noi abbiamo realizzato opere fatte di un nastro di carta sottilissimo
a cui abbiamo affidato le esperienze che ci avevano formato come persone perché, come tutti, non
ci saremo per sempre. Abbiamo affidato le nostre
esperienze, però, a un nastro così sottile che forse
si degraderà più velocemente di una persona: si
innesta questo gioco continuo e paradossalmente sono le storie che si trasformano, si intrecciano, ma si degradano di meno. Abbiamo realizzato
una serie di lavori intitolati “come il vento” perché
abbiamo immaginato come l’uomo si è propagato
sulla terra e quindi come le storie delle persone, la
lingua, le idee si incontrano con altre storie, altre
lingue e altre idee per dare vita a un qualcosa di
nuovo. Quando produciamo le opere la conservazione non è oggetto di riflessione per noi.
D: Che cosa vi aspettate di trovare a
Castelvenere? E quali risultati sperate di
ottenere?
B.V. Speriamo di poter istaurare dei bei rapporti
con le persone e che ci venga in mente una buona
opera. A volte si istaurano relazioni così importanti
che l’opera finale è meno importante del processo
che l’ha generata, altre invece viene fuori un lavoro
che ti affascina. Sono degli aspetti non controllabili. Ora stiamo vivendo quel momento di tensione
che vivi prima di vedere un luogo, di viverlo e di
immaginare l’opera. È una bella tensione e speriamo che ci porti a fare un bel lavoro. La residenza
a Castelvenere sarà breve, ma a volte le residenze succinte hanno generato un lavoro molto bello
e che noi abbiamo sentito in maniera particolare.
Tuttavia non vogliamo arrivare sul posto con un’idea prestabilita perché quello che ci interessa è
fare il lavoro a Castelvenere e stabilire un contatto
con le persone.
D: Intervenire in contesti urbani e
ambienti rurali: due realtà differenti.
Cosa cambia nel vostro approccio?
B.V. Abbiamo già fatto esperienze del genere e
sostanzialmente non cambia niente. Il nostro approccio è lo stesso e il lavoro si sviluppa partendo
dalle caratteriste del luogo e dalle persone che ci
guidano. È questo che sostanzialmente può fare la
differenza.
D: Perché il vostro lavoro, ultimamente,
è così legato al concetto di mappa, di
confine, di territorialità definita o non
definita, inclusiva ed esclusiva?
B.V. Perché in realtà guardando una mappa si notano dei confini tra i territori che sono del tutto
arbitrari poiché sono stati creati dall’uomo. Sulla
terra non sono visibili questi segni. Questa linea
definita in maniera arbitraria è un atto gravissimo
che genera delle differenze (linguistiche, economiche, sociali, religiose) che con l’aumentare sfociano in conflitti. Noi lavoriamo proprio su questa
idea di confine che genera un flusso inarrestabile.
Lavoriamo sulle mappe anche per il legame che le
persone hanno con il territorio. Quando si viaggia
si intrecciano relazioni con altri luoghi e altre persone e alla fine una mappa che rappresenta te e i
luoghi che hai attraversato è l’intreccio di tutti questi posti. A volte tagliamo delle strisce da mappe di
luoghi dove siamo stati e intrecciandole viene fuori
una cartografia che ti lega a quei posti. Il lavoro
sulla linea di costa, invece abbiamo cominciato a
farlo dopo aver letto il Mare non bagna Napoli, ci
ha colpito molto la storia, ancora attuale, e proprio il titolo ci ha dato l’idea. La prima volta che
abbiamo fatto un’operazione del genere abbiamo
preso una cartina nautica dove è ben segnata la
linea di costa, l’abbiamo incisa e abbiamo fatto
questo gesto simbolico di ricucire il mare alla terra
rendendoci conto che questo ci legava al territorio.
D: Quindi se i confini sono costruzioni
artificiali e politiche, non esiste neanche
confine tra urbano e rurale?
B.V. In realtà no. L’architettura a volte definisce un
luogo urbano rispetto a un ambiente rurale, ma in
realtà non si può dire che ci sono dei confini. Le
persone che vivono in questi luoghi sono sempre
le stesse anche se cambiano le dinamiche con cui
si approcciano alla vita quotidiana. Non c’è questa
differenza netta, è sfumata
D: E invece i confini di potere e politici
esistono tra urbano e rurale?
B.V. Non c’è differenza, il potere esercitato può
essere lo stesso in un territorio urbano e in uno
rurale. Non ci sono perché mezzi di comunicazione come la televisione e la radio uniformano le
dinamiche che potrebbero forse essere diverse in
assenza di questi media.
D: Quale segno volete lasciare
sul territorio e nella comunità di
Castelvenere?
B.V. Più che lasciare un segno spero di riuscire ad
intrecciare rapporti con le persone, perché si tratta di uno scambio in cui diamo qualcosa, ma al
tempo stesso riceviamo anche. Il segno importante
che spero di lasciare è il ricordo di questa esperienza aldilà dell’opera stessa che testimonierà la
nostra presenza a Castelvenere.
del luogo da parte della comunità.
D: Rileggere un territorio rurale e la sua
comunità in chiave artistica può portare
alla riscoperta e alla riappropriazione
dei luoghi, della storia e delle tradizioni
locali?
D: Quale ruolo può avere la ricerca
artistica nell’ambito degli studi e
delle pratiche legate alla ruralità? E
quale può essere il valore aggiunto di
artisti, come voi, che lavorano a stretto
B.V. La nostra visione in un certo qual modo può contatto con la collettività, in questo
cambiare le dinamiche di quel luogo e a portare a
ambito?
una maggiore consapevolezza. Ad esempio a Roccagloriosa abbiamo raccolto, in forma anonima, le
risposte alla domanda “Che cosa manca?” e le abbiamo trascritte su vecchie lenzuola e tovaglie. Poi
abbiamo chiesto alle persone che hanno partecipato al progetto di appendere al proprio balcone,
la domenica mattina, una frase specificando che
non sarebbe stata la loro frase ad essere appesa,
ma quella di un’altra persona. In questo modo ogni
persona coinvolta è diventata il veicolo per diffondere il messaggio di qualcun altro, magari anche
del vicino con cui non era in buoni rapporti e anche questo è un modo per intrecciarsi in maniera
del tutto casuale. In genere il nostro lavoro parte
dalle storie delle persone, ma anche le tradizioni
di un luogo possono ispirarci. La rilettura in chiave
artistica può essere un modo per far cooperare le
persone anche quando ci sono dei conflitti e lavorare sul territorio può portare alla riappropriazione
B.V. Alla prima parte della domanda sicuramente può rispondere Leandro Pisano, curatore della
residenza di Strade di Vini. Leandro, nonostante
tutte le difficoltà, ha portato avanti vari progetti sviluppati sull’idea di rurale coinvolgendo le comunità e gli artisti. Per noi la partecipazione a questi
progetti ha significato arricchire il nostro bagaglio
culturale. L’idea di base rimane sempre quella di
arrivare a uno scambio di visioni e la nostra visione
sarà sicuramente diversa da quella di chi vive la
comunità dall’interno. Quando saremo a Castelvenere avremo la prospettiva di chi viene da fuori e
cercheremo di intrecciare le nostre esperienze con
quelle della comunità.
D: L’artista che viene da fuori e che
vuole dare voce alle persone locali
in qualche modo si pone in una
posizione di potere che può diventare
anche autoritativo, voi come cercate
di lavorare per mitigare questo tipo di
pericolo?e quanto è difficile il lavoro di
traduzione delle storie delle persone?
B.V. É una domanda interessante questa. Sicuramente la cosa più importante è la presenza di
qualcuno del posto che faccia da tramite con la
comunità e possa favorire l’incontro con le persone. In Libano, ad esempio, abbiamo condiviso con
una famiglia tutta la vita quotidiana. Il nostro lavoro è partito dall’ascolto delle storie delle persone e
le abbiamo restituite con il loro stesso linguaggio
perché abbiamo deciso di riprodurle in arabo, ma
al tempo stesso si sono intrecciate con la nostra
cultura. All’inizio avevamo timore di essere visti
come gli estranei che scrivono sui muri, ma le persone del luogo piano piano hanno iniziato a prendere confidenza con noi fino al punto di chiederci
di scrivere una frase sul muro del proprio palazzo.
È sempre una questione delicata. É una questione di sensibilità dell’artista che si confronta con
le persone. Dipende dalla capacità delle persone
di calarsi in un luogo, di avere l’umiltà di fare uno
scambio reale e di non avere in mente solo il proprio percorso. Portare avanti solo il proprio lavoro
implica una mancanza di capacità di ascolto e in
questo caso non riesci ad intrecciare le tue storie
con quelle di altre persone indipendentemente dal
luogo. A Latronico noi abbiamo avuto modo di vedere come il processo che porta alla realizzazione
dell’opera è ogni volta differente e ci sono artisti
che riescono a coinvolgere di più le persone e altri
che lo fanno meno.
I RIFLESSI
Leandro Pisano
Curatore residenza Strade di Vini
È un critico e curatore che si occupa di estetica
del suono e delle nuove tecnologie, con focus
specifico sullo studio dei territori rurali e delle aree marginali. Dottorando di ricerca in studi culturali e postcoloniali presso l›Università
«L›Orientale» di Napoli, è direttore del festival di
new arts Interferenze. Ha tenuto presentazioni,
conferenze e workshop nel corso di eventi legati
all’estetica dei nuovi media, al design ed alla
sostenibilità in Brasile, Cina, Corea, Giappone,
India, Islanda, USA, Germania, Inghilterra, Portogallo, Finlandia, Turchia. È giornalista, collabora
con Blow-Up ed ha collaborato con il Corriere
della Sera, Doppiozero e Neural
MAPPE POLITICHE,
MAPPE ESTETICHE,
MAPPE RURALI:
BIANCO-VALENTE E
KULTIVATOR
dominio di appartenenza trasformandosi in rappresentazioni, proiezioni, figurazioni del mondo
che consentono di andare in profondità, di aprire
spazi critici per portare alla luce le dinamiche ed
i processi culturali, sociali, economici, geografici,
storici e politici della realtà. Le cartografie posseggono una valenza politica, che a partire almeno dal Rinascimento le configura come strumenti
della rappresentazione del potere e che nel globo
contemporaneo emerge nelle dimensioni della rimozione, del non riconoscimento, dell’esclusività
delle frontiere: Gibilterra, Tijuana, la frontiera del
Mediterraneo o l’elusione della rappresentazione
dei centri di sfruttamento, l’invisibilità dell’umanità
in eccedenza sono elementi di una narrazione altra
inespressa dalle mappe. Una cartografia costruita sull’opposizione tra inclusività ed esclusività, su
tutto ciò che separa dal mondo esterno, su tutto
ciò che divide la rappresentazione del mondo occidentale da ciò che sta fuori da esso, secondo
la retorica della modernità che segna un confine
tra civilizzazione e non civilizzazione, tra interno ed
esterno, tra la sicurezza e tutto quello che fa paura
Non più e non solo utensili del mestiere per stori- perché è all’esterno della frontiera.
ci e geografici, le cartografie estendono il proprio
Mappe, atlanti, topografie e dispositivi cartografici
sono ormai parte costituente dell’immaginario visivo della contemporaneità. Sono tanti gli specialisti
che oggi si servono di questi strumenti di rappresentazione: non solo geografi, topografi, architetti
o urbanisti, ma anche artisti, designer, giornalisti
e agenzie non governative. Gli ultimi decenni hanno registrato una vera e propria ipertrofia narrativa
legata alle mappe, che impone un ripensamento
della nozione di cartografia, in un senso che la
riconfigura come un dispositivo multidisciplinare,
multidimensionale e persino plastico. È per questo
motivo che per costruire discorsi intorno alle mappe si sconfina in domini linguistici e metodologici
che ad esse sono stati estranei fino a qualche decennio fa: l’arte, la filosofia, l’economia o l’architettura, per esempio. Le mappe, come afferma il geografo John Brian Harley, sono troppo importanti per
essere lasciate solo ai cartografi, e c’è chi, come
Karl Schlager, si spinge fino ad affermare che esse
costituiscono l’humus di una nuova fenomenologia
dello spirito, quella della cartografia, appunto.
Confini politici e geografici che possono essere “ricuciti” attraverso pratiche estetiche, come avviene
in “Linea di costa” (2013) serie di lavori di Bianco-Valente in cui i due artisti tracciano in rosso le
frontiere geografiche di cultura, nazionalità ed accidentalità, lasciando allo spettatore il compito di
partecipare ad un vero e proprio processo poetico
di ricucitura del mare alla terra.
L’arte consente di interrogare il senso del mondo,
come suggerisce Iain Chambers, aprendo spazi
critici e di discussione e riconfigurando i territori
periferici, marginali come luoghi altri, eterotopici.
Castelvenere, il borgo che ospita il progetto di residenza di “Strade di Vini”, diventa così uno dei
luoghi in cui le pratiche estetiche consentono di
ri-disegnare il senso di appartenenza al territorio
rurale, ripensare la riconfigurazione storico-culturale del mondo rurale ed interrogarsi sugli ambiti semantici di termini come “comunità” o “identità”. Ha
senso ancorare questi concetti ad una prospettiva
che guarda al passato come a un patrimonio concluso di tradizioni statiche alle quali far riferimento
con guardo nostalgico, oppure possiamo metterli
in discussione nell’ambito dei processi che investono i movimenti e le migrazioni dai territori verso
gli spazi esterni e da qui di nuovo verso l’interno,
in dinamiche complesse che non investono solo
corpi, ma anche culture ed idee?
L’arte consente di rimettere in discussione categorie, termini e concetti spesso considerati come
ovvi, dati per scontati, che possono trasformarsi
nella percezione della realtà in veri e propri stereotipi. Permette di interrompere il flusso, il filo delle
narrazioni lineari per trovarne e portarne alla luce
altre dimenticate e rimosse. Per ricucire i vuoti, le
separazioni nei fragili tessuti relazionali all’interno
delle comunità, come avviene nei territori rurali in
cui è ambientata la residenza di “Strade di Vini”.
Castelvenere così si trasforma in uno spazio fisico
interno al sistema dei media, il suo territorio diventa
un medium in cui si realizza l’incontro inatteso tra
gli artisti e la comunità locale. Così il collettivo svedese Kultivator può costruire insieme agli studenti
locali uno spazio immaginario in cui confluiscono
i desideri, le visioni, le percezioni di una Castelvenere futura ed utopica, riprogettata e ridisegnata come una proiezione onirica che incrocia tradizioni, tecnologie e miti dell’era contemporanea.
Si tratta di mappe del desiderio che partono dal
tera comunità, in un lavoro prodotto insieme agli
abitanti stessi, invitati a scrivere di proprio pugno
della relazione con i luoghi e con le persone con
cui condividono gli spazi vissuti. Mani che intessono sottili strisce bianche di carta impresse ad inchiostro, che si incrociano nel fading ricorsivo dello
schermo e poi svaniscono lentamente nel biancore
Allo stesso tempo, ridisegnare i luoghi fisici e di una luminescenza diafana ed immateriale.
dell’immaginario di una comunità significa dare
voce e forma alle infinite tessiture, alle multiformi Mappe calligrafiche che costruiscono una narrapieghe di storie ed esperienze che si incrociano zione frammentata, che danno voce a storie inanello spazio limitato di un borgo come quello di scoltate, che definiscono il territorio rurale come
Castelvenere. Narrazioni che vengono continua- uno spazio narrativo “aumentato”, come ambito
mente scambiate, plasmate, trasformate da chi performativo e di sperimentazione di risultati inatabita questi luoghi. Così Bianco-Valente rendono tesi nell’incontro tra gli artisti e le voci dei paesagvisibile il tessuto di fili invisibili che sostiene l’in- gi, dei luoghi, degli abitanti della comunità locale.
territorio locale per sradicarsi verso l’immaginario
frammentato alimentato dalle visioni estetizzanti e
remixate del web. Mappe che raccontano vite, storie, desideri futuri e che si sovrappongono a quelle
fisiche di un luogo che si frantuma in un’infinità di
mondi possibili da abitare.
Roxana Adina Toma
Irina Anca Toma
laureanda corso di laurea magistrale
in Archeologia e Storia dell’Arte – Seconda Università degli Studi di Napoli
laureanda corso di laurea magistrale in
Archeologia e Storia dell’Arte – Seconda
Università degli Studi di Napoli
È iscritta al corso di laurea magistrale in
Archeologia e Storia dell’Arte presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Da
sempre si è interessata di turismo e di beni
culturali concentrando i suoi studi in questo
ambito con particolare attenzione per l’arte,
l’archeologia, il territorio, i sistemi museali e
i nuovi mezzi di comunicazione. Collabora attivamente con l’artista sannita Aniello Saravo
curando i testi critici e biografici e confrontandosi con le principali realtà italiane ed
estere legate al settore dell’arte contemporanea.
Laureata in Scienze del Turismo per i Beni culturali alla Seconda Università degli Studi di Napoli
con una tesi sull’uso e sull’efficacia dei nuovi
media digitali nell’ambito della diffusione e della
comunicazione culturale. Appassionata di arte,
storia, turismo e marketing culturale, ha indirizzato i propri studi in tal senso con un particolare
riguardo per i beni culturali e la loro fruizione.
Attualmente è iscritta al Corso di Laurea Magistrale in Archeologia e Storia dell’arte presso la
Seconda Università degli Studi di Napoli.
STORYBOARD
DELLA RESIDENZA
ARTISTICA
La settimana di residenza – 16/21 Febbraio – per
noi è iniziata con l’incontro di Giovanna Bianco e
Pino Valente alla stazione ferroviaria di Caserta,
ma non era la prima volta che li vedevamo. Qualche settimana prima siamo andate nel loro studio
a Napoli per una breve, ma interessante intervista.
La voglia di rivederli era tanta e durante il tragitto
per raggiungere Castelvenere abbiamo avuto modo
di percepire la loro tensione e la loro curiosità di
conoscere finalmente il luogo e le persone che
avrebbero ispirato e generato la loro opera. Arrivati
nel piccolo borgo vennerese abbiamo incontrato
anche il collettivo svedese Kultivator: Mathieu Vrijman, Malin Lindmark Vrijman e i loro splendidi figli
Moa e Ivar ci hanno raccontato del loro viaggio in
macchina e dell’arrivo rocambolesco in tarda notte. Tutti insieme guidati dal curatore della residenza Leandro Pisano, siamo partiti alla volta di una
prima e veloce scoperta di Castelvenere. Abbiamo
concluso la giornata con una serata in cui gli artisti
hanno avuto modo di conoscere i locali e lasciarsi
coinvolgere dai brani della tradizione popolare riproposti dal complesso bandistico di Castelvenere.
“Anche il paesaggio è memoria
collettiva, oltre che scrigno di identità
culturale e di tradizione. Il paesaggio,
alla fine, siamo noi”.
(Camilla Madinelli)
La prima parte della residenza ha visto noi e gli
artisti impegnati nella scoperta del piccolo borgo
sannita. Fondamentali in questo percorso relazionale e di conoscenza sono stati gli storytellers locali Angelo Raffaele Scetta e Michele Pacelli. Le
loro voci narranti ci hanno raccontato la storia del
borgo medievale e dei suoi edifici storici, le tradizioni linguistiche, le peculiarità delle cantine tufacee, il paesaggio naturale di straordinaria bellezza,
la cultura vitivinicola e l’impegno delle persone per
mantenere vive le tradizioni, le usanze e i mestieri.
Con la visita all’azienda vitivinicola I Pentri abbiamo avuto modo, insieme agli artisti e a tutto i gruppo di lavoro, di approfondire la vocazione stessa
del paese. Dionisio Meola e sua moglie Lia Falato
ci hanno mostrato e raccontato il processo di spremitura del passito, ci hanno guidato in un’ incantevole passeggiata tra i vigneti e ci hanno insegnato
a riconoscere e raccogliere le erbe spontanee. Di
certo non poteva mancare l’assaggio dei vini ed è
stato così che abbiamo concluso la visita per poi
rilassarci tutti insieme con un pranzo sociale dove i
piatti della tradizione, rigorosamente preparati per
noi dalla signora Lia, sono stati i protagonisti.
Durante questa prima parte di residenza abbiamo avuto modo di vedere come Castelvenere è un
luogo dove gastronomia e festività sono un bagaglio di ricchezza che si conserva grazie all’amore e
all’orgoglio dei cittadini, fieri di tramandare feste,
usanze e tradizioni in quanto valore preziosissimo
della memoria familiare. Altrettanto interessante è
stato scoprire come gli artisti hanno cercato l’ispirazione per le opere vivendo il paese e coinvolgendo le persone nel processo creativo delle stesse.
La seconda parte della residenza è stata dedicata
completamente alla realizzazione delle opere da
parte degli artisti.
Gli svedesi Mathieu Vrijman e Malin Lindmark Vrijman hanno lavorato fin dal primo giorno con un
gruppo di ragazzi desiderosi di immergersi in un
percorso artistico unico nel suo genere e che non
si sono lasciati scoraggiare neanche dalle distanze: hanno risposto all’appello ragazzi originari di
Benevento, Caiazzo, Telese Terme, Amorosi, ma anche di Castelvenere. È stata davvero un’esperienza
straordinaria supportare i ragazzi e gli artisti che
nei primi giorni di residenza hanno dato spazio
alla creatività di gruppo: seduti tutti insieme intorno ad un tavolo o in giro per il paese l’obiettivo è
stato quello di tirar fuori le idee che prontamente
Malin inseriva in una mappa – Castelvenere, a nicer version of home – e che hanno portato alla
co-creazione dell’opera. Ma da cosa abbiamo preso spunto? Dal uso del mascheramento durante il
Carnevale! La festa, molto sentita dai locali, prevede la tradizionale rappresentazione de “I dodici
mesi” e il corteo funebre di Carnevale che termina
con il rituale falò e ha spinto tutto il gruppo di lavoro a realizzare delle maschere: cosa ci serviva?
Gesso, garze, colla, colori, pennelli! Recuperato
tutto il materiale necessario abbiamo dato il via
alla produzione delle maschere: esilarante è stata
la reazione dei ragazzi, un po’ tesi all’idea di dover
utilizzare il gesso ma al tempo stesso anche curiosi
di vedere la forma della propria maschera. Ispirati
dal tema del vino e dei vigneti abbiamo decorato le maschere che, una volta ultimate, sono state
esposte in un’istallazione realizzata attraverso l’uso di tralci di vite.
Alla fine della settimana è stato meraviglioso vedere l’espressione soddisfatta e orgogliosa dei ragazzi che hanno contribuito e sono stati i principali
attori dell’opera “Developing a new masque for
Castelvenere – Into the vigne”. Certo le maschere
di carnevale non sono una novità per Castelvenere,
ma non c’è una produzione artigianale in tal senso
e Malin ha lasciato i ragazzi e noi con un auspicio
e con un’idea: dare inizio ad una nuova attività artigianale.
“Io non catturo momenti, catturo idee”
(Erik Johansson)
saggio attraverso la manipolazione fotografica.
Il tutto è cominciato con una passeggiata per le
strade di Castelvenere e, armati di macchina fotografica, con un gruppo di lavoro che ha iniziato
a “catturare” alcuni scorci del paese. Il passo successivo è stato quello di creare scenari surreali a
metà tra realtà e immaginazione: ecco così che
a Castelvenere abbiamo potuto incontrare personaggi politici come Angela Merkel, Vladimir Putin
e François Hollande o ancora attori come Johnny
Depp e Will Smith; abbiamo frequentato la Scuola
di Magia e Stregoneria di Hogwarts e incontrato,
tra una magia fotografica e l’altra, Harry Potter,
Ron Weasley e Hermione Granger; abbiamo studiato in una biblioteca collocata in una splendida
cantina tufacea; siamo andati al mare, abbiamo
ammirato un nuovo skyline e ci siamo divertiti sulle
montagne russe. Abbiamo giocato con la fantasia,
le fotografie e i programmi di grafica per dare voce
alle nostre idee e ai nostri desideri.
Con il duo napoletano Bianco-Valente, invece, per
la realizzazione dell’opera, abbiamo lavorato sulla
Mathieu e Malin hanno lavorato molto sulla crea- modalità di lettura dei luoghi e sull’intreccio delle
tività anche nell’ottica della cosiddetta digital art relazioni umane. Giovanna Bianco e Pino Valente
utilizzandola per ridisegnare e rivitalizzare il pae- hanno voluto coinvolgere la cittadinanza nel pro-
cesso di realizzazione. Ma per partire di cosa avevamo bisogno? Un tavolino, una sedia, delle strisce
rigorosamente di carta velina, le penne scelte con
estrema cura da Giovanna e Pino, una videocamera ed eccoci pronti per dare inizio all’opera! Abbiamo coinvolto bambini e adulti chiedendo loro
di condividere con noi, scrivendo su una striscia
di carta velina, un pensiero, un ricordo, un’esperienza o semplicemente raccontare Castelvenere.
Sono state tante le strisce di carta velina raccolte!
L’opera però non era ancora completa, dovevamo
continuare con le riprese. Pino, con la sua videocamera, inquadrava le nostre mani e quelle delle
altre ragazze mentre muovevamo le strisce e le intrecciavamo lottando con il vento che tentava di
portarcele via.
mente alla creazione di un’opera artistica in cui è
racchiusa l’essenza di Castelvenere. Oltremodo affascinante è stato scoprire come Giovanna e Pino
si sono lasciati ispirare delle storie, dai luoghi, ma
soprattutto dalle relazioni intessute con le persone
che hanno incontrato in questa breve esperienza
di residenza.
L’esperienza artistica si è conclusa con il finissage
in una delle cantine tufacee, dove il curatore della
residenza – Leandro Pisano – ha potuto raccontare la residenza, gli artisti hanno raccontato se stessi e le loro opere e noi abbiamo avuto l’occasione
di raccontare la nostra esperienza anche con una
serie di fotografie protagoniste assolute di tutta
l’attività di storytelling che abbiamo portato avanti
per tutta la durata della residenza. In questa occaÈ stato unico e veramente emozionante vedere le sione abbiamo anche avuto modo di incontrare il
nostre mani protagoniste di un racconto fatto di sound artist Raffaele Mariconte e ascoltare i suoi
immagini, gesti, frammenti di pensieri e ricordi e suoni del vino: “A Year in the Vineyard”.
al tempo stesso sapere di aver contribuito attiva-
BiancoValente
Artisti in residenza
Coppia nella vita e nell’arte Giovanna Bianco e Pino Valente http://www.bianco-valente.
com/ hanno scelto il video e la sua installazione
nell’ambiente come forma privilegiata di un racconto per immagini e suoni in cui si intrecciano
la memoria, la percezione, il tempo e la visione.
Conosciuti ormai nel panorama internazionale
dell’arte contemporanea, hanno partecipato a
numerose mostre collettive in Italia e all’estero,
tra le quali Paris Photo nel 2007, Vesuvius curata da Gigiotto Del Vecchio a Pechino nel 2006, il
progetto Artesto-Nokia Connect to Art presso la
Triennale di Milano nel 2006, la Biennale di Venezia nel 2004, Cine y Casi Cine curata da Berta
Sichel a Madrid nel 2004, Reisefreiheit curata
da Kersting nel 2003 ad Amburgo e De gustibus
curata da Achille Bonito Oliva presso il Palazzo
delle Papesse di Siena nel 2002. Alcune delle
opere sono entrate a far parte di prestigiose collezioni museali.
TESSITURA
Durante la nostra residenza a Castelvenere per la
manifestazione Strade di Vini abbiamo riflettuto
molto sull’idea che ogni luogo abitato (e in particolare i piccoli centri), sia assimilabile ad un tessuto
di storie ed esperienze che vengono continuamente
scambiate, plasmate, modificate dai suoi abitanti.
Ed è questo tessuto di fili invisibili che tiene insieme tutta la comunità.
Abbiamo quindi invitato diversi abitanti di Castelvenere a scrivere per noi alcune considerazioni sul
loro rapporto con il luogo e la comunità in cui vivono su alcune sottilissime strisce di carta che nella
seconda parte del video molte mani hanno iniziato
a tessere insieme.
Kultivator
Artisti in residenza
Fondato nel 2005 dagli artisti Mathieu Vrijman,
Malin Lindmark Vrijman e Marlene Lindmark e
dagli agricoltori Henric Stigeborn e Maria Lindmark, oggi è un progetto open di collaborazione
sperimentale tra l’agricoltura biologica e l’arte
visiva, situato nel villaggio rurale di Dyestad,
sull’isola Öland sulla costa sud della Svezia. Con
l’installazione di alcune attrezzature in una fattoria abbandonata, vicino alla popolazione agricola attiva, Kultivator http://kultivator.org/
offre uno spazio per la sperimentazione e la contaminazione tra arte e produzione agricola. Kultivator organizza progetti, mostre e laboratori che
esplorano possibili narrazioni alternative all’interno delle pratiche artistiche e dell’agricoltura,
con i membri del progetto e/o gli ospiti della fattoria. Sull’isola Kultivator ha una residenza, uno
spazio espositivo e un caseificio con 30 mucche, polli, anatre, pecore e cavalli. Dall’inizio del
2005, circa 80 artisti, ricercatori e agricoltori ha
visitato e ha lavorato sul posto.
KULTIVATOR: ARTE
ED AGRICOLTURA
TRA PRATICHE
ESTETICHE ED
ATTIVISMO
TERRITORIALE
Una cooperativa di lavoro e pratica delle arti visua- declinato come “un matrimonio fruttuoso, serio,
li, ma anche un luogo di residenze e mostre, perso tradizionale, che genera la domanda che riguarda
l’amore ed il bisogno: cosa viene prima?”
nell’entroterra rurale della Svezia meridionale.
Nel corso di una conversazione Malin Vrijman, cofondatrice del collettivo Kultivator, ci guida alla
scoperta di questo progetto che fonde arte, agricoltura ed attivismo territoriale. Malin si sofferma
anzitutto sugli aspetti comuni che legano il lavoro
di un normale contadino e l’opera di un artista,
con specifico riferimento alla loro fattoria.
Entrambi hanno, nella visione espressa da Malin,
molte più cose in comune di quanto potremmo
attenderci. L’uso della fattoria come studio per gli
artisti non costituisce affatto un problema, ma rappresenta anzi una fonte di beneficio per il lavoro
di gruppo. Kultivator si propone come un’organizzazione di mediazione anche rispetto agli studenti
delle scuole, che vengono invitati ad avvicinarsi alla
natura attraverso una serie di workshop che uniscono le pratiche estetiche ad una visione aperta
e critica del territorio rurale.
Kultivator è un’iniziativa che nasce dal desiderio
di qualcosa di “meno catastrofico della società
odierna”, che cerca di ipotizzare giorno dopo giorno soluzioni per promuovere o discutere possibili
modalità di esistenza sostenibili, creativi, collettivi.
È su questo desiderio che è stato costruito l’intervento di Kultivator in occasione del progetto “Strade di Vini” a Castelvenere: nel corso di una residenza di una settimana nel piccolo borgo sannita,
il collettivo svedese ha proposto la collaborazione
con un gruppo di studenti locali di età compresa
tra i 14 e i 16 anni, per realizzare un lavoro di indagine del territori in cui ciascuno di essi è cresciuto.
In questa presentazione, gli studenti “hanno mostrato a noi ed al resto del mondo qual è la percezione dei loro luoghi, ciò che è nascosto ai loro
occhi, ciò che risulta ad essi strano e cosa li rende
orgogliosi di questi posti”. Quali luoghi sono imMalin ci racconta del “matrimonio” tra arte ed agri- portanti dal punto di vista storico per questi giovacoltura che segna l’inizio di Kultivator nel 2010, ni, ma soprattutto: cosa accadrà in futuro quando
cresceranno e vivranno a Castelvenere e, se deci- all’immaginazione di una possibile Castelvenere
deranno di rimanerci, cosa faranno e come saran- futura. L’idea alla base di questo complesso ed
affascinante racconto metamediale è che questo
no?
breve ed intenso workshop non “abbia costituito
In questo lavoro di autonarrazione, Kultivator e semplicemente un evento singolo finalizzato alla
gli studenti hanno utilizzato il format fotografico creazione di un lavoro, ma anche l’inizio di un ine quello video, scattando immagini e girando fil- ventario dei temi/delle questioni dell’area su cui
mati focalizzati su una serie di temi scelti, legati concentrarsi anche per progetti futuri”.
Raffaele Mariconte
Ingegnere acustico
Si occupa per professione e per passione di diverse tematiche inerenti il suono: sound e acoustic design, sonic branding, sonification, paesaggi sonori, field recording, architettura aurale
e archeologia acustica sono alcuni dei temi di
interesse e di studio. È soundengineer e dj in
diversi eventi e festival nazionali. Fa parte della
crew di Interferenze New Arts Festival e dei vari
progetti collaterali (Farm, In Limina Orbis, Barsento Mediascape) nella figura di soundengineer/stage manager. Collabora con Flussi Media
Arts Festival (AV) e nelle varie edizioni è stato relatore e coordinatore di talk su tematiche legate
al suono e soundengineer. Altri progetti legati al
suono che lo hanno visto coinvolto sono: Calitri Temporary Orchestra (Calitri AV), Suonabene
(BN), Cultivar (BN), Reveil Soundcamp, Liminaria (San Marco dei Cavoti BN). Fa parte del gruppo nazionale dell’International Noise Awareness
Day (INAD), con cui organizza progetti di educazione acustica nelle scuole.
A YEAR IN THE
VINEYARD
A Year In The Vineyard è un progetto di esplorazione Il suono invece il protagonista di questa narrazione.
delle attitudini soniche della produzione vitivinico- Paesaggi sonori naturali ed antropici, le impronte
la, in particolare dell’area Sannita (Valle Telesina). sonore dei luoghi, le voci della tradizione, le narrazioni, i microsuoni organici dei processi chimici,
Attraverso il suono si vuole raccontare un arco bilogici e fisici delle trasformazioni del mosto in
temporale di un anno che racchiude tutte le fasi vino, i suoni delle macchine e degli impianti delle
della produzione del vino. L’area geografica della cantine e le risonanze dei serbatoi in acciaio coValle Telesina, territorio a forte vocazione vinicola, stituiscono la biodiversità acustica alla base del
esplorato in lungo e in largo a caccia di suoni.
progetto.
Microfoni, trasduttori a contatto e idrofoni costitui- Un’anteprima del progetto sulla pagina di sounscono l’interfaccia tra il mondo reale e la narraziocloud A Year In The Vineyard.
ne.
APPROFONDIMENTI
Antonio Izzo
Co-founder Festival Interferenze/Ufficio
Bifolco
Avvocato civilista, da quasi venti anni organizza
eventi culturali. Socio di Ufficio Bifolco, è tra i
fondatori del Festival Interferenze, per il quale
segue in particolare degli aspetti tecnici della
produzionee dell’allestimento, oltre che i profili
legali dell’organizzazione. Si occupa di sviluppo
e promozione delle aree rurali, nonché della valorizzazione delle produzioni locali. Appassionato di scienze e tecnologia, si dedica nel tempo
libero alla lettura, alla grafica 3d ed alla musica.
LE MAPPE: UN
RACCONTO
POLIFONICO DEL
TERRITORIO
La famosa mappa della metropolitana di Londra,
disegnata da Harry Beck nel 1931, è una mappa
topologica, non topografica. Le stazioni non sono
rappresentate in esatta corrispondenza alla propria posizione nello spazio (sulla superficie), ma in
base all’appartenenza alle varie linee del servizio
sotterraneo. Tutte le mappe raccontano il territorio
non solo elencando gli elementi che vi si possono
riconoscere, ma anche chiarendo le relazioni che
intercorrono tra questi elementi.
re raccontato efficacemente soltanto ricorrendo a
una pluralità di mappe, a un racconto polifonico in
cui ciascuna linea contribuisce, anche a costo di
contraddizioni, al risultato generale. Progetti di narrazione del territorio come Interferenze o, più recentemente, Liminaria, rappresentano proprio un
tentativo di esplorare approcci non convenzionali
alla narrazione dei territori, secondo prospettive
inedite e spesso trascurate, per raggiungere quella
pluralità di temi, punti di vista, proiezioni che permette di realizzare un racconto corale e organico
Disegnare una mappa significa riconoscere, sco- del territorio.
prire e, talora, istituire relazioni tra luoghi o, più in
generale, tra dati. Nel mondo digitale tutti noi la- In questa ricerca è importante conservare l’autensciamo una miriade di tracce, di dati. Capire come ticità della narrazione. In teoria, è possibile applimetterli in relazione tra loro, disegnare una mappa care ad un territorio le stesse tecniche di narraziosulla quale collocare tali dati comporta potere e ne che vengono utilizzate per creare e mantenere
in vita quel sottobosco di “celebrità” che animano,
possibilità di profitto.
ma il termine è eccessivo e fuorviante, i media che
Disegnare una mappa significa descrivere una si occupano di gossip. Ma tali soggetti vivono, per
serie di relazioni, raccontare storie. Disegnare la definizione, in mondo “altro”, costruito e validamappa di un territorio significa, in una parola, rac- to unicamente attraverso l’esercizio costante dei
contare quel territorio. Ci sono moltissimi modi per meccanismi comunicativi che ne attestano la rilenarrare un territorio: ogni versione, ogni “mappa” vanza, senza necessità (anzi, senza neppure il deha pregi e difetti e, inevitabilmente, presenta lacu- siderio) di un reale incontro con i destinatari delle
ne e distorsioni. Per questo, il territorio può esse- operazioni di marketing. Al contrario, la narrazione
del territorio ha lo scopo di invitare i destinatari
a interagire con il territorio narrato, a vistarlo, ad
esplorarlo di persona. E quindi l’autenticità della
narrazione (che non significa adesione ad un improbabile criterio di verità oggettiva, quanto tentativo di rendere onestamente, anche attraverso una
narrazione dichiaratamente soggettiva e parziale,
la propria visione del territorio) diventa un tratto
essenziale, poiché rappresenta il rispetto di un
patto, di un impegno alla buona fede che costituisce il nucleo fondante del rapporto tra chi offre e
chi riceve la narrazione del territorio.
Occorre, in definitiva, che le mappe che disegniamo, pur senza ridursi a meri esercizi di topografia, pur con tutte le licenze concesse al narratore
di una storia, facciano emergere alcuni tratti della fisionomia del territorio e ci dicano su di esso
qualcosa di utile, anche se parziale o addirittura
opinabile, permettendoci di compiere la nostra
personale esplorazione. Proprio come la mappa
della metropolitana di Londra di Harry Beck, che è
infedele ma ci porta a destinazione.
Alessandro Ludovico
Fondatore di Neural e docente all’ Accademia delle Belle Arti di Carrara
Artista, critico dei media e ideatore e fondatore
della rivista Neural. Ha pubblicato e curato diversi libri e ha tenuto conferenze in tutto il mondo.
È uno dei fondatori del network Mag.Net(Elettronic Cultural Publisher). Ha inoltre insegnato Design multimediale, Humanistic Computer Science, Post-digital publishing e Post-digital print
presso l’Università degli studi di Bari, la NABA
Academy di Milano, il Royal College of Arts di
Londra, la Willem De Kooning Academy of Art di
Rotterdam, il National College of Art and Design
di Dublino. Recentemente ha conseguito il PhD
alla Anglia Ruskin University di Cambridge (UK).
È l’ideatore e direttore della storica rivista «Neural», oltre che uno dei fondatori del network di
editori Mag.Net (Electronic Cultural Publishers).
Attualmente insegna presso l’Accademia delle
Arti di Carrara.
LA MAPPATURA
NON VISIVA DI UN
TERRITORIO
La mappatura non visiva di un territorio è un aspetto affascinante, esteso e analizzato in molti settori degli studi musicali e sonori, ma ci sono una
serie di riflessioni fatte che cercherò di sintetizzare raccontando brevemente da dove arrivo. Oggi
arrivo da Bari dove vivo ormai da 25 anni circa,
ma la mia storia inizia in un paese della provincia
di Taranto di 17.000 abitanti (Castellaneta), un’esperienza fondamentale che mi ha fatto fruire il
territorio in maniera simile al luogo in cui mi trovo
oggi. Quello che è venuto dopo, la fondazione della
rivista Neural, che parla di arte e nuove tecnologie,
fondata 22 anni fa, nel 1993, deriva da quell’esperienza, perché nei luoghi più piccoli la percezione
che si ha di sé rispetto al resto del territorio, delle
comunità, della nazione, delle grandi città è più
particolare, ristretta, soffocata in qualche maniera.
Si riesce a fare una propria mappa delle relazioni
locali, ma stabilire una relazione con il resto del
mondo è molto più complicato. Coloro che di solito
vanno all’estero, invece, vivono l’eterna dimensione dell’emigrato, cioè quella di stare in due posti
contemporaneamente: hanno ancora le radici forti con il loro territorio, ma vivono in un altro con
la tensione ad appartenere a un luogo che non è
quello in cui risiedono, ma è quello in cui decidono
di costruire la propria storia, la propria narrazione.
Io l’ho fatto a Bari, creando questa rivista, il compimento di un principio che in realtà ho imparato
da Stewart Brand, direttore della rivista ‘The Whole
Earth Catalog’. Famosa la frase con cui Brand chiuse formalmente le sue pubblicazioni, attribuita poi
a Steve Jobs, “Stay hungry, stay foolish” (restate
affamati, ma restate anche bizzarri). La frase era,
appunto, di Stewart Brand e la sua rivista si poneva
l’obiettivo di fornire a ciascuno l’occasione e l’opportunità di rendersi completamente indipendenti,
per costruire le proprie modalità di comunicazione
con il resto del mondo, la propria comunità locale,
in poche parole per scrivere la propria narrazione.
Arrivato a Bari sono entrato in contatto con l’unica
etichetta musicale di elettronica sperimentale che
esisteva sul territorio e fortunatamente sono riuscito ad assecondare la mia passione (ossessione)
originaria: fare una pubblicazione, cosa non semplice per un’etichetta musicale! L’idea era quella di
fare come Stewart Brand: collegare le persone, far
percepire la propria presenza, creare delle mappe
astratte e delle narrazioni personali e individuali,
dare l’opportunità non solo di dire “ne sappiamo
anche noi di questa cosa”, ma che ciascuno potesse saperne di più e quindi accedere a tutto quello
che si diceva sull’argomento. Abbiamo pubblicato
quindi nel 1992 un libretto italiano/inglese chiamato Virtual Reality Handbook, con un cd allegato
di musica ispirata al tema, che è andato esaurito
in meno di un anno. A quel punto quasi in modo
naturale e spontaneo è nata Neural.
Neural doveva diventare un nodo nella rete, per il
quale i lettori volevano passare, sapendo di trovare delle informazioni importanti perché selezionate
da editor appassionati. Le reti sono dappertutto,
assolutamente necessarie al nostro vivere quotidiano, ma quello che manca è un approccio critico. Come sarebbe diverso se tutte le foto, i commenti
critici su Strade di Vini fossero stati raccolti invece che su Facebook e gli altri social network, su
una piattaforma di proprietà locale, dove fossero
ricercabili e dove fosse conservata la memoria
narrativa, per dare l’idea di riappropriazione delle reti e cioè di quanto sia importante costruire
il proprio network. Non ci sono reti solo nell’aere, ma rete è anche quella che noi costruiamo!
La linea guida seguita nella mia vita lavorativa è
stata quella degli attivisti politici delle reti, in particolare dell’Electronic Frontier Foundation di San
Francisco che cominciava a parlare di reti da un
punto di vista critico e rivendicava i diritti del cittadino digitale sostenendo il principio “think globally, act locally”, pensare in termini globali, ma
agire in maniera assolutamente locale perché
è nel piccolo che si riesce ad avere un riscontro
efficace. È significativo ribadire la centralità del
proprio territorio in relazione agli altri per costruire la propria prospettiva, ma sempre in relazione
con gli altri e quindi costruirsi il proprio network.
Le reti danno possibilità incredibili rispetto al passato, soprattutto le reti telematiche, quelle che ci
mettono in comunicazione istantanea con un posto all’altro lato del mondo. Uno degli obiettivi di
Neural era proprio quello di non restare soli, di andare a costruire un network, una rete con le altre
riviste affini. Questo si è tradotto, nel maggio del
2002, in un incontro a Siviglia di 11 riviste internazionali stampate che trattavano di arte e new
media e abbiamo fondato un network chiamato
mag.net. Il nostro principio è stato di collaborazione reale e il nostro slogan “collaboration is better
than competition”, cioè la collaborazione è meglio
della competizione. Questo non significa appiattire
tutto nel senso che ogni cosa fatta ha il suo valore assoluto e insindacabile; al contrario, dovrebbe
servire da stimolo comune a migliorare, ad avvici-
narsi sempre di più alle eccellenze, ma in un’ottica
fortemente collaborativa. Che cosa abbiamo fatto
in pratica? Condivisione delle conoscenze, un percorso in cui tutti i partecipanti e a distanza di 12
anni da quell’incontro, si continua a fare editoria
con il loro piccolo e discreto successo di nicchia.
Organizzare i propri network e quindi costruire la
propria narrazione è assolutamente necessario,
per riappropriarsi dei network e condividere le conoscenze, per esaltare le proprie peculiarità e creare un sistema non esclusivo, ma inclusivo, in cui
la competizione diventa virtuosa. EXPERIENCE
Gennaro Fontanarosa
Strategic planner & Storyteller
Nato e cresciuto nella provincia napoletana da
cui ha ereditato il temperamento e l’amore per
la semplicità e per la cultura tradizionale. Fellowship member del gruppo di ricerca informale
Accademia Mediterranea di Societing di cui è
editor & media executive e si occupa della progettazione di eventi formativi. In passato si è
occupato di progetti di rigenerazione degli spazi
urbani abbandonati nella provincia napoletana. Esperto di tecnologie digitali e di narrazioni
crossmediali si occupa di strategie digitali per
progetti di innovazione culturale. Esperto di Service Design for Rural Social Innovation è tra i
fondatori di Rural Hub.
STRADE DI VINI LAB:
DISEGNARE MAPPE
INTERSEMIOTICHE
DI CASTELVENERE
Lo studio della contemporaneità interconnessa ci
mostra una struttura della società contemporanea (e delle relazioni tra i cittadini) che assume
sempre di più la forma di una network society11,
i cui cittadini risultano essere dei nodi connessi
in forme istantanee di comunicazione nella quale
la convergenza tecnologica, unita alla centralità ed
immediatezza delle informazioni, ha effetto sulle
dinamiche collettive ed individuali delle società. Il
rapido sviluppo della multimedialità e delle tecnologie ipermediali ha tracciato nuovi percorsi per
raccontare storie che nascono da gruppi comunitari. Queste tecnologie ci permettono di creare
nuove forme di narrazione, frutto del missaggio di
elementi digitali (immagini, suoni, video, testi), che
consentono di raccontare storie utilizzando differenti piattaforme digitali coerenti con un progetto
editoriale pre-organizzato, che oggi viene definito
come Digital Storytelling.
focalizzano su uno specifico argomento e contengono un particolare punto di vista. Le storie alla
base del digital storytelling possono essere varie
e vanno dalle storie personali al racconto di eventi
storici fino alla possibilità di esplorare la vita della
propria comunità attraverso forme narrative diversificate e innovative.
Indagare queste forme narrative è stato l’animo del
workshop Strade di Vini Lab, un’esperienza laboratoriale progettata per esplorare assieme a studenti
del territorio della valle telesina le storie della comunità che vive il territorio di Castelvenere e della
sua relazione con la produzione vitivinicola. Al laboratorio sono stati invitati a partecipare ventitre
studenti selezionati da cinque istituti scolastici:
Istituto d’Istruzione Superiore Telesi@ di Telese
Terme;
Il digital storytelling, nella sua forma più semplice, Istituto Tecnico Agrario Galilei-Vetrone di Guarè la pratica di usare strumenti informatici differenti dia Sanframondi;
per raccontare storie. Come con le forme narrative
tradizionali, la maggior parte delle storie digitali si Istituto d’Istruzione Superiore di Faicchio indirizzo Turistico e Castelvenere indirizzo Alberghiero;
11 Castells M. (1996), The rise of the Network Society,
Blackwell, Oxford; trad. it. (2002), La nascita della
società in rete, Milano, EGEA, pp. 75-77.
Istituto d’Istruzione Superiore Carafa-Giustinia- L’approccio didattico è stato sviluppato seguendo
tre fasi di lavoro.
ni - Istituto d’Arte di Cerreto Sannita.
Il workshop ha visto gli studenti incontrare esperti
durante quattro giornate formative nelle quali hanno potuto confrontarsi con gli esperti ed apprendere tematiche quali la landart, il design, i nuovi
media, la transmedialità.
La prima fase è stata focalizzata sulla formazione
teorico-pratica dei ragazzi, su cosa si intende per
digital storytelling, sull’idea che ha spinto la realizzazione del laboratorio mostrando la strategia comunicativa progettata per condividere i contenuti
nella rete.
L’idea epistemologica che ha guidato questo esperimento è molto semplice: follow the medium (Rogers, 2009), imparare dal medium, ovvero sfruttare le tecniche che naturalmente utenti utilizzano
per organizzare lo spazio digitale nel quale sono
immersi. Twitter ed Instagram sono state le piattaforme preferite per questo esperimento in quanto
offrono sintesi concettuale (un tweet può contenere al massimo 140 caratteri mentre Instagram permette di postare un’immagine o un video di pochi
secondi) e attraverso gli #hashtag (dei meta-tag
che fungono da collegamenti ipertestuali) vi è la
possibilità di cercare e essere attore in un flusso
discorsivo legato ad un particolare argomento, magari già attivo in rete. In questa ottica si è scelto
di lavorare su gli hashtag #stradedivini, circoscrivendo il flusso relativo all’evento; #Castelvenere,
ad indicare il territorio; #Wine e #Winelovers per
dialogare con una community online degli amanti
del vino.
Qui un grafico che rappresenta le occorrenze degli
hashtag utilizzati con le relative correlazioni.
La seconda fase è stata caratterizzata dalla divisione in quattro gruppi di lavoro eterogenei a cui
è stato assegnato il compito di studiare, registrare
e catalogare quattro aspetti caratteristici del «paesaggio» castelvenerese, utilizzando gli strumenti
che il digitale offre. Specificatamente agli alunni è
stato chiesto di indagare:
Gli studenti durante l’esperienza full immersion di
learnig by doing hanno sperimentato tecniche e
approccio allo storytelling del territorio attraverso
gli strumenti digitali per narrare gli aspetti culturali
del territorio di Castelvenere tramite un uso consapevole ed innovativo delle piattaforme offerte
dal contemporaneo. Muniti di smartphone, tablet
e fotocamere digitali gli studenti si sono immersi
Il paesaggio storico: le fasi storiche del
territorio di Castelvenre dalla nascita del nella conoscenza del territorio attraverso i volti, i
suoni e le immagini di chi quel territorio lo abita e
borgo sannita;
ne accresce il valore attraverso il proprio lavoro. Le
Il paesaggio vitivinicolo: come la coltura (e metodologie di ricerca sono state molteplici, prila cultura) vinicola influenza la vita e l’eco- vilegiando l’intervista con i cittadini/utenti di Canomia del territorio e come ne modifica la stelvenere registrando con immagini, suoni e video
i contributi degli intervistati.
morfologia e di come conserva i caratteri
rurali e biodiversi;
La terza parte è stata dedicata alla raccolta e orIl paesaggio culturale: l’insieme delle tradi- ganizzazione del materiale prodotto durante il lazioni religiose e folkloristiche, delle creden- boratorio e sviluppato una narrazione del paesaggio di Castelvenere utilizzando linguaggi, forme e
ze popolari;
strutture narrative proprio degli strumenti digitali
Il paesaggio antropico: come l’azione
ponendo attenzione alle strutture narrative, che
umana sul territorio abbia modificato la
potremmo definire.
struttura fisica di un territorio e di come si
immagina una riconfigurazione dello stesso Le esperienze raccontate con il lavoro degli stuin chiave contemporanea.
denti attraverso linguaggi e metodologie proprie
dell’infosfera esaltano la naturalezza delle storie in
quanto il digital storytelling delle aree rurali non
sottende a metodologie convenzionali, non vi è
una costruzione di copioni preconfezionati ne i linguaggi utilizzati sono costruiti artificialmente, bensì
lo storytelling nelle aree rurali restituisce storie autentiche e giacimenti di tipicità.
gna una visione nuova del paesaggio vitivinicolo,
non più distante, arretrato e privo di possibilità culturali ed economiche, ma una visione innovativa e
un territorio ricco di opportunità imprenditoriali e
culturali ancora da esplorare.
La contemporaneità interconnessa riduce gli spazi
e annulla la differenza tra la modernità metropolitana e le aree rurali ancorate al passato, proiettando prepotentemente le esperienze innovative rurali
come elemento critico per ripensare nuove forme
di sviluppo economico del territorio.
Nel contesto culturale sopra descritto la finalità del
laboratorio è stata quella di disegnare una (nuova) mappa digitale del territorio, che tenga conto
delle relazioni umane esistenti e insistenti nel territorio legata alla pratica della produzione vitivinicola e che potesse inspirare la creazione di nuove In questa prospettiva dobbiamo re-immaginarci il
geografie del racconto e universi immaginativi più web con un ambiente di conoscenza e narrazione
complessi di quello originario (Giovagnoli, 2013). delle «relazioni sociali, delle vite delle persone e
dell’appartenenza di queste vite a territori reali e
Questa mappa (digitale), frutto della narrazione non immaginari».
dei cittadini di Castelvenere, non ha pretese di
oggettività, ma può essere interpretata come una
traduzione intersemiotica (Jacobson) in quanto il
laboratorio ha spinto gli studenti a intraprendere
un’azione conoscitiva di Castelvenere, attraverso
gli occhi dei cittadini, e successivamente un’interpretazione e una collocazione in un paesaggio
«aumentato» delle storie in una mappa che dise-
Aldo Colucciello
Antropologo
Antropologo dedito alla ricerca di campo in Italia ed all’estero si sta dedicando alle espressioni
ed alla grammatica del visivo. È impegnato con
l’associazione B.R.I.O. e organizza il Festival di
“Visual Ethnography” Intima Lente. Dottore di ricerca in discipline etnoantropologiche, ha avuto
diverse esperienze d’insegnamento universitario
e collabora con diversi servizi educativi di varie
sovrintendenze campane.
STRADE DI VINI LAB
Le esperienze servono a conoscere e la presenza
su di un territorio, in un mondo globale, non può
che essere una rilettura del territorio ed è esattamente quello che è successo in quel di Castelvenere attraverso il dipanarsi del workshop organizzato in occasione di “Strade di Vini”.
I partecipanti attraverso i linguaggi dell’arte che
rappresentano degli eccellenti strumenti atti a rileggere in senso critico un determinato territorio,
sono stati la base dell’esperienza; i ragazzi sono
stati spinti a confrontarsi con forme di espressione altre che hanno generato la giusta criticità; in
questo modo la comunità, il contesto paesaggio,
le micro-storie di Castelvenere, profondamente influenzato dall’esperienza vitivinicola, sono state il
terreno di confronto aperto tra gli artisti ed i partecipanti che, attraverso la tecnica dello storytelling hanno provato a raccontare la cultura rurale
in modo dinamico, intrecciando la tradizione del
genius loci, sostenibile e condiviso per sua natura,
con nuovi orizzonti che si ‘scontrati-incontrati’ con
identità culturale e la sensibilità degli artisti.
sina s’è creata quella situazione dove il territorio
interpreta il territorio come una risorsa e finisce
per collocarsi in un contesto più ampio che lo
ha portato ad acquisire i caratteri di quello che
i nuovi media chiamano paesaggio culturale. Da
questo punto di vista partecipare all’arte è stato
un momento di apertura in grado di raccogliere
le emozioni ed i mutamenti che le sfumature del
confronto generato tra arte e territorio in modo da
esplorare orizzonti nuovi in questo contesto, che
vanno ad intrecciarsi e a creare una nuova identità potenziale che nasce tra lo scambio culturale
del luogo verso un mondo esterno rappresentato
dell’altro come artista.
Strade di Vini è stato un progetto di restauro scenografico per raccontare la realtà contadina in
modo condiviso e sostenibile con l’intento di aprire
uno spazio comunicativo in cui, da un lato, mettere
in esperimento modelli culturali ed armoniosi che
vadano ad aggregarsi alle risorse territoriali locali
e che guardino a quei processi complessi propri
della liquidità culturale e che dall’altro possano
leggere in senso esplicativo concetti come “comuVista la partecipazione al workshorp di studenti nità”, “identità” e “genere”, pianificando le morfodelle scuole presenti sul territorio della Valle Tele- logie culturali delle aree interne legate ai cicli della
terra con un fare attivo, attraverso l’eliminazione in chiave baumaniana come una serie di declinadi un’incertezza storico-culturale del mondo rurale zioni fluide che fanno della tradizione un luogo di
che ne ha condizionato l’essere nei tempi passati. transito, quindi vivo rendendola un’opportunità per
il paesaggio locale. Per questo in passato c’è stata
In questo modo si dovrebbe attivare la trasforma- troppe volte l’urgenza di operare un taglio sulla trazione del paesaggio esteriore che deve gioco forza dizione in modo di tagliare i ponti col passato per
fare leva sulla costruzione del paesaggio interiore. creare un’opportunità e per ripensarla in un’imLa vera sfida è quella di far crescere la conoscen- magine culturale emergente che generi un’energia
za attraverso forme identitarie che non escludano propria che possano derivare da un altrove prossil’altro, vedendolo come un nemico, ma che matu- mo che possano essere rese concrete in pratiche
rino e che coinvolgano relazioni e lascino matu- locali e non sfociare in nuovi colonialismi culturali.
rare quei lasciti provenienti dalle culture materiali
antecedenti, per conservare la percezione del loro Tutto ciò, alla fine, non fa altro che innescare le
valore che è proprio del passato. È per questa ra- dinamicità culturali che sono sempre esistite e che
gione che l’altro e l’ambiente devono essere co- hanno contribuito a creare il sistema mondo in una
stantemente messi in discussione e che devono costellazione mobile, instabile ed andante.
essere letti come elementi dinamici ma declinati
CONCLUSIONI
Alessandro Di Santo
sindaco di Castelvenere
La valorizzazione e la promozione del paesaggio
credo debbano sposarsi con gli interessi economici
di una comunità. Come avviene in altre zone vitivinicole italiane, ma anche in Francia e negli altri
paesi europei, i terreni agricoli di pregio hanno un
valore anche più alto rispetto a quelli urbani. Guidare la comunità verso l’acquisizione di questa consapevolezza e favorire progetti culturali come Strade
di Vini nato con l’obiettivo di rileggere il paesaggio
vitivinicolo per stimolare una riscoperta dei luoghi
anche in chiave artistica, penso sia la direzione verso la quale orientare tutto il nostro lavoro politico e
amministrativo. Spingere verso forme economiche
sostenibili e innovative, valorizzare i giovani e il loro
talento, attirare nuove risorse sviluppando progetti
di ricerca come abbiamo già fatto in passato, deve
tradursi in realtà per offrire un’opportunità reale agli
studenti, principali attori di questa esperienza e del
nostro futuro.
Un invito a loro, ai ragazzi e ai giovani, che però
deve riguardare tutti noi: bisogna crescere e puntare all’eccellenza perché non è più possibile fermare
la competizione globale.
Antonio Ciabrelli
presidente GAL Titerno
Come presidente del Gal Titerno , ma pure come
cittadino e imprenditore di questo paese, vorrei
esprimere la mia grande preoccupazione in tema di
risorse e di gestione delle stesse se non riusciamo
a comprendere le dinamiche che sono alla base
dello sviluppo di un territorio. Abbiamo bellissimi
paesaggi, grandi produzioni e anche capacità progettuali che però non riusciamo a rendere comuni
e a concretizzare. Qualcosa blocca la normale evoluzione delle cose e spesso ci ritroviamo a dover
rimuovere prima gli ostacoli culturali che ci impediscono anche una programmazione organica degli
eventi sul territorio. Una prima e significativa acquisizione è: la presa di coscienza che ognuno di
noi, sia come individuo che come componente di
una comunità e ancora di più come rappresentante
istituzionale, deve impegnarsi per immaginare una
possibilità reale di cambiamento che passa attraverso nuove visioni di futuro, come avviene con il
progetto Strade di Vini: una grande e bella intuizione per creare una diversa mappatura del territorio
che sarà attraversato da un’esperienza culturale e
artistica unica e singolare.
Tabula Rasa Eventi
STRADE DI VINI:
RICREAZIONE
DEL PAESAGGIO
RURALE
Come ricreare, o meglio ridisegnare il paesaggio
rurale, partendo dai luoghi e dallo spazio fisico,
attraversando quello umano per poi proiettarli in
una dimensione culturale, artistica, estetica, fortemente orientata all’antropologia e ai nuovi media?
Raccontare la ruralità in modo dinamico, condiviso
e sostenibile è stato uno dei principali compiti cui
sono stati chiamati sia gli artisti che gli esperti di
Strade di Vini. I linguaggi dell’arte rappresentano
dei potenti dispositivi per rileggere in senso critico
il territorio rurale, fornendo strumenti e metodi “in
grado di registrare ed accogliere la complessità
ambigua con cui ridisegnare e abitare il territorio
[...] in maniera diversa” (I. Chambers).
Se lo scopo di tutto il progetto Strade di Vini era
quello di generare una narrazione immersiva e
completa del territorio, attraverso il coinvolgimento
della comunità locale e, soprattutto dei vignaioli e
delle loro famiglie, allora l’attività di storytelling ha
svelato molte facce e tanti luoghi “non comuni” che
in questo piccolo comune sannita, noto per essere
La sfida più significativa? Aprire uno spazio relail “paese più vitato” d’Italia, convivono e danno forzionale in cui, da un lato, sperimentare modelli
ma alla vita e al presente dei suoi abitanti.
culturali ed estetici per reinterpretare le risorse rurali locali guardando a questi processi complessi;
dall’altro, rileggere in senso critico concetti come
“comunità”, “identità”, “tradizione”, riconfigurando
i paesaggi della ruralità in senso attivo, attraverso
un ripensamento della visione storico-culturale del
mondo rurale.
È questo il perimetro concettuale e pratico in cui
si è realizzato il progetto di Residenza di Strade di
Vini. La comunità, i paesaggi e le storie del piccolo
borgo sannita di Castelvenere, fortemente ancorato da un’esperienza plurisecolare all’economia e
alla cultura vitivinicola, sono diventati un territorio
di un confronto aperto tra gli artisti e le voci dei
luoghi.
Questo progetto di ricreazione del paesaggio rurale è stato promosso dal Comune di Castelvenere
e finanziato con una misura attivata sui fondi europei dal GAL Titerno, operativo da lungo tempo su
un piano di riqualificazione dell’area del Titerno attraverso l’attuazione di un piano di sviluppo mirato.
ESPERTI
Iain Chambers
Lidia Curti
Gaia Salvatori
Alessandro Ludovico
Nadia Barrella
Nicola Flora
Antonio Izzo
Francesco Martusciello
Elena Martusciello
Ignazio Gibbiino
Aldo Colucciello
Raffaele Mariconte
Antonio Leone
Alex Giordano
Elio Mendillo
Michele Pacelli
Antonio Ciabrelli
PARTECIPANTI AL
WORKLAB CON
KULTIVATOR
Teresa Verrillo
Floriana Cesare
Brayan D’Aloia
Alessia Cusano
Moa Vrijman
Ivar Vrijman
Jessica Bucci
PARTECIPANTI
AL WORKSHOP
STRADE DI VINI
Istituto d’Istruzione Superiore Telesi@ di
Telese Terme
Elvira Trebisondi
Floriana Cesare
Jessica Bucci
Nada Belhseine
Istituto Tecnico Agrario Galilei-Vetrone
di Guardia Sanframondi
Giovanni Benevento
Alfonso Scetta
Pio Egidio Giuseppe Forgione
Alfredo di Mezza
Serena Di Lonardo
Gregory Mazzarelli
Istituto d’Istruzione Superiore
di Faicchio indirizzo Turistico e
Castelvenere indirizzo Alberghiero
Immacolata Mancini
Matteo Marinelli
Gaia Di Muraglia
Valentina Barone
Valentina Carrubba
Lorella Coletta
Elena Rinaldi
Giusy Grillo
Istituto d’Istruzione Superiore CarafaGiustiniani - Istituto d’Arte di Cerreto
Sannita
Teresa Verrillo
Cinzia Carlo
Giulia Macolino
Maria Chiara Moccia
Andrea Fragola
GLI ARTISTI
Kultivator
Bianco Valente
Raffaele Mariconte
STRADE DI VINI
Curatore Residenza
Leandro Pisano
Direzione generale
Raffaella Vitelli
Guido Lavorgna
Comunicazione e web
Gennaro Fontanarosa
Serena Giugliano
Paolo Di Cerbo
Ricerca
Irina Anca Toma
Roxana Adina Toma
Segreteria
Giulia D’Aloia
Mariagianna Rossi
Sara Bucci
Riprese e montaggio
Antonello Carbone
Si ringraziano per la collaborazione
la Cantina I Pentri
la Cantina Torre Venere
lo storyteller locale Angelo Raffaele Scetta
lo storyteller locale Raffaele Simone
la Proloco, il Forum dei Giovani, l’associazione musicale e la banda
il sindaco e l’amministrazione comunale
e tutta la comunità di Castelvenere per
averci aperto la casa e anche il cuore.
Bibliografia
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La mutazione dell’editoria dal 1894 .
Caratteri Mobili.
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Le opportunità oltre la crisi. Prospettive
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