Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata “La Promessa”. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino, o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare se sia davvero reale, sia inalterato, normale. Ma ovviamente...è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato “La Svolta”. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto...ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire. Per questo ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo “Il Prestigio”. The Prestige, Christopher Nolan (2006) Guarda il documentario » IL TERROIR.............................................4 IL MUSEO PER IL RACCONTO E IL RIDISEGNO APPROFONDIMENTI.............................78 DEL PAESAGGIO: ALCUNE RIFLESSIONI.........41 PROGRESSO E RIGENERAZIONE DELLE ZONE LE MAPPE: UN RACCONTO POLIFONICO DEL RURALI COME ELEMENTO CENTRALE DELLA RIFLESSIONI SUL RAPPORTO ARTE-NATURA..48 TERRITORIO..................................................79 CULTURA CONTEMPORANEA...........................5 EXPERIENCE........................................53 LA MAPPATURA NON VISIVA DI UN TERRITORIO NUOVE STRATEGIE DI SVILUPPO DEL TERRITO...................................................................82 RIO TITERNINO................................................8 UNA CHIACCHIERATA CON BIANCO-VALENTE ....................................................................54 EXPERIENCE........................................86 CASTELVENERE IN SÉ BASTA A RENDERCI COMUNITÀ?......................................................11 I RIFLESSI............................................61 STRADE DI VINI LAB: DISEGNARE MAPPE INTERSEMIOTICHE DI CASTELVENERE....................87 EXPERIENCE........................................14 MAPPE POLITICHE, MAPPE ESTETICHE, MAPPE RURALI: BIANCO-VALENTE E KULTIVATOR.......62 STRADE DI VINI LAB .....................................93 LA ZONAZIONE DEL PUC DI CASTELVENERE..15 STORYBOARD DELLA RESIDENZA ARTISTICA CONCLUSIONI......................................96 LE DONNE DEL VINO: UNA COMUNITÀ CHE ....................................................................66 PRODUCE VALORE........................................18 Esperti........................................................101 TESSITURA...................................................71 L’INNOVAZIONE AGRICOLA: L’AGRICOLTORE 2.0 Partecipanti al worklab con Kultivator...........102 ...................................................................20 KULTIVATOR: ARTE ED AGRICOLTURA TRA PRATICHE ESTETICHE ED ATTIVISMO TERRITORIALE Partecipanti al workshop Strade di Vini.........91 IL METODO..........................................23 ....................................................................73 Gli artisti.....................................................103 RI/ATTIVARE: UN POSSIBILE FUTURO DA IMMA- A YEAR IN THE VINEYARD...............................76 Strade di Vini..............................................103 GINARE PER LE AREE INTERNE.....................24 IL TERROIR Iain Chambers Antropologo, sociologo, docente di Studi Culturali e postcoloniali - Università degli Studi di Napoli l’Orientale Membro del gruppo diretto da Stuart Hall all’Università di Birmingham, Chambers è stato uno dei principali esponenti del celebre Centro per gli Studi della Cultura Contemporanea, che ha dato vita a una fiorente branca della sociologia anglosassone contemporanea. Insegna Studi culturali e postcoloniali all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e ha fondato il Centro per gli Studi Postcoloniali. È autore di numerosi volumi di successo scritti in inglese e in italiano e tradotti in diverse lingue. I suoi campi di studio spaziano dall’urbanizzazione alla cultura popolare, la musica, la memoria, la modernità. PROGRESSO E RIGENERAZIONE DELLE ZONE RURALI COME ELEMENTO CENTRALE DELLA CULTURA CONTEMPORANEA Ridisegnare il “territorio”, utilizzando delle mappe che la razionalità politica e amministrativa non è in grado di vedere o recepire, significa entrare nella labilità delle categorie ormai esposte in una fluidità eco-sistemica. Così possiamo liberare la categoria del “rurale” da un’impostazione che vede in essa solamente il resto superato ed abbandonato dal “progresso” metropolitano. Non si tratta di tornare a una nozione romantica di radici ed autenticità ma di rielaborare in modo radicale le circostanze e le condizioni attuali per fare emergere un paesaggio diverso. Ormai gli spazi rurali, anche nel profondo sud del mondo, sono tracciati anche nelle mappe elettromagnetiche delle reti telefoniche e digitali. Se la metropoli è diffusa ovunque, il rurale non è più distaccato ma, e in questo senso diventa più significativo, esso diventa il potenziale contrappeso critico in una serie di reti planetarie. Nello smontare le logiche ereditate e rifiutare l’idea dello spazio rurale come un vuoto da riempire con progetti urbani e il suo “progresso”, sarebbe il caso di fermarci un attimo e riconsiderare la costruzione storica, politica e culturale del rurale come proiezione subordinata della città. Per liberare le sue possibilità è necessario spezzare la catena di spiegazioni che lo ha fatto prigioniero. Il territorio, che sappiamo non corrisponde alla mappa, può essere attraversato in molti modi, su molte scale, e può essere “tagliato” e configurato secondo esigenze diverse. Partendo da quest’apertura, direi che è il caso di inserire nella questione una serie di interrogazioni e percorsi critici che ci permettono di sottrarre il territorio da una storia già persa in partenza. Qui il territorio diventa un laboratorio culturale dove diventa possibile immaginare e praticare un’economia politica diversa. La novità entra per fa parte del territorio non come una forza esterna, ma tramite un nuovo assemblaggio di elementi, pratiche e possibilità che sono già in circolazione. Tramite lo smontaggio del concetto di ruralità ereditata, spesso imposta da una visione squisitamente economica e capitalistica dello sviluppo che ha profondamente danneggiato il Mezzogiorno e gli altri sud del mondo, il lavoro critico consiste nel tirare fuori i fili per cucire un tessuto politico e culturale diverso. Chiaramente la grammatica critica si sposta da un senso puramente strumentale dell’economia rurale a una prospettiva ecologica che sostiene una sfida complessa, tale da investire perfino i progetti e le prospettive urbane. Questa rivalutazione del rurale come elemento centrale della cultura contemporanea – dalla produzio- ne agricola agli spazi del tempo libero – significa liberare il discorso da una logica autoreferenziale e inserirlo in una rete potenzialmente planetaria. Il passaggio fisico e metafisico dal paese alla città, imposto dalla presunta linearità del tempo del progresso, viene spezzato e ricomposto in una serie di possibilità multilaterali che sfuggono da tale logica unilaterale per creare nodi e intrecci nuovi. Nel ripensare il rurale con queste prospettive, i linguaggi dell’arte – sia come configurazioni inaspettate dell’attualità del nostro tempo-spazio, sia come operato e pratica che incide concettualmente e praticamente sull’ambiente – ci forniscono un dispositivo critico. Qui, l’arte che prende forma aldilà delle mura bianche del museo e della galleria ci invita non solamente a ripensare lo spazio-tem- po del territorio, rendendolo problematico e perciò aperto, ma fornisce un linguaggio critico in grado di registrare e accogliere la complessità ambigua con cui ridisegnare e abitare il territorio – sia rurale sia urbano – in maniera diversa: sebbene queste distinzioni iniziano a declinarsi in qualcos’altro come ci suggerisce il concetto di “rural city”. Penso che queste brevi osservazioni siano essenziali per operare un taglio netto sulla logica che ha ingabbiato il discorso, soprattutto nel meridione dell’Italia, sul progresso e la rigenerazione delle zone rurali. Pensare al sud non tanto come un oggetto da gestire e curare, ma al sud come una costellazione di pratiche e vite, significa adottare una diversa bussola con cui navigare le sue storie, le sue culture e le sue possibilità. Elio Mendillo amministratore delegato GAL Titerno Elio Mendillo, dottore commercialista, ha maturato specifiche e significative esperienze professionali e collaborazioni accademiche nelle tematiche dello sviluppo locale e dell’assistenza tecnica a operatori pubblici e privati per la programmazione dello sviluppo e la progettazione e valutazione di programmi di investimento. è amministratore delegato del Gal Titerno s.c.a r.l., agenzia di sviluppo locale attiva sul territorio titernino-telesino che ha gestito programmi leader e progettazioni integrate territoriali. NUOVE STRATEGIE DI SVILUPPO DEL TERRITORIO TITERNINO Il GAL Titerno ha operato affinché manifestazioni come “Strade di Vini” si svolgessero su tutto il territorio di riferimento, in esecuzione di una delle linee di azione progettate nell’ambito del Piano di Sviluppo Locale per il ciclo 2007-2013 finanziato dal PSR della Regione Campania. È evidente che la strategia di sviluppo del territorio è l’elemento centrale su cui il Gal Titerno esplica la propria mission istituzionale fin dal ’97, nell’ambito di attività di carattere sperimentale, essendo un soggetto misto pubblico-privato che fa dell’innovazione territoriale l’elemento di indagine per ricercare nuove modalità di sviluppo e per individuare e affrontare le criticità dei territori marginali delle aree rurali. Il problema di fondo per i territori di riferimento è quello di un continuo impoverimento demografico delle comunità locali dei borghi della dorsale appenninica, un fenomeno che sta creando difficoltà notevoli sia per la manutenzione che per la gestione del territorio ma, in qualche caso, anche per la sopravvivenza stessa dei borghi che vengono progressivamente abbandonati nell’ambito di un tessuto sociale sempre più anemico e che invecchia sempre più. L’agricoltura e l’agroalimentare di qualità rappresentano sicuramente l’elemento di riferimento principale che questi territori hanno per provare a invertire questa tendenza, mantenendo la popolazione e ringiovanendola e legandola, con modalità nuove, alla permanenza sul territorio. Solo l’agricoltura può svolgere questo ruolo e lo può fare reinterpretando il suo ruolo con altissima dose di innovazione non solo tecnologica, ma anche mediante l’approccio multifunzionale e integrato con tutti gli altri settori del territorio. Un’agricoltura utile a ricostruire e riprodurre paesaggi perché quello titernino è l’espressione artistica più alta che possiamo veicolare in termini di immagine e su cui costruire brand territoriale, visibilità e reputazione. Castelvenere è il paese più vitato d’Italia e il paesaggio viti-vinicolo è stato per troppo tempo lasciato alla violenza della cementificazione insensata, di una ricostruzione secondo tipologie urbanistiche e architettoniche estranee alla nostra tradizione, che hanno svilito quella identità che ogni paesaggio rappresenta e racconta. Castelvenere si sta intelligentemente ripensando e riscoprendo pianificando lo sviluppo futuro e rappresenta un valido esempio per tutto il comprensorio. Il GAL sta aiutando il territorio a renderlo protagonista, partecipando alla sperimentazione nelle aree interne con una strategia di carattere nazionale finalizzata alla ricerca di soluzioni per evitare che i giovani lascino il territorio e l’agricoltura che insieme al turismo, può essere sicuramente un driver di sviluppo. Un’agricoltura che incorpori in maniera intelligente innovazione è sicuramente un’ottima opportunità, ma non è sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è creare un senso forte di comunità in termini di coesione: il territorio e le comunità locali devono fare sistema, lavorare su progetti collettivi che mettano insieme imprese e municipalità e che possano comporre livelli di massa critica utili a creare azioni e fenomeni economicamente sostenibili e profittevoli, su cui incanalare capitale, investimenti locali e della finanza bancaria per creare sviluppo valore aggiunto sul territorio. Alex Giordano docente di Marketing e social Innovation Università degli Studi di Napoli Federico II – IULM Milano Fondatore nel 2000 del collettivo NinjaMarketing, primo blog/osservatorio sul marketing non-convenzionale ed i social media, è Chief Digital Strategist di Ninjalab. Membro dello IADAS (Accademia di Arti e Scienze Digitali di New York), co-autore di diversi libri sull’innovazione tra cui “Marketing Non Convenzionale” e “Societing Reloaded”, è docente di Societing, Società delle Reti e Social Innovation all’università Federico II di Napoli e all’ Università IULM di Milano. Direttore del Centro Studi Etnografia Digitale e direttore scientifico del progetto di ricerca Rural Hub. È considerato tra i massimi esperti di social innovation e di transmedia storytelling. CASTELVENERE IN SÉ BASTA A RENDERCI COMUNITÀ? scontro tra uomo e natura, una sorta di peccato originale che ha, progressivamente ma inesorabilmente, allontanato uomo e natura. Ai giovani dico che non interessarsi della tecnologia e dell’innovazione, significa subire l’innovazione, diventare “utenti di Internet”. I ragazzi devono apprendere prima possibile strumenti utili a gestire le tecnologie, poiché esse possono diventare o un’arma per indebolire un territorio o una possibilità di sviluppo La prima grande tecnologia della modernità è per la comunità. stata l’agricoltura, la scelta della stanzialità contrapposta al nomadismo, che ha determinato in- Internet non è “la” realtà, è una realtà mediata nov-azioni utili a governare i processi della natura, da un algoritmo che decide che cosa farvi vedere per garantire la sopravvivenza di un popolo in un prima, a cosa dare rilevanza e cosa “nascondere”. Capire che qualcuno sta scegliendo per noi che determinato luogo. cosa è il reale vuol dire provare a emanciparsi, esFu allora che nacque il pensiero innovativo, nel Ne- sere liberi di scegliere, mentre i confini tra reale e olitico. L’agricoltura fu un’innovazione dalle enor- virtuale sfumano. mi implicazioni, perché coinvolgeva tutti, non solo i produttori di cibo. Tutti abbiamo a che fare con Uno smartphone estende i nostri sensi in un modo l’agricoltura e ogni qualvolta che ignoriamo il pro- mai vissuto prima: possiamo creare e processare cesso che porta il cibo dalla terra al nostro piat- contenuti senza soluzione di continuità, possiamo to, rinunciamo ad assumere consapevolezza e a comunicare ed essere connessi gli uni con gli altri esercitare un controllo, come facciamo ormai con in tempo reale. Possiamo recuperare il senso di la politica, lasciando ad altri, e spesso in mani pe- un’intelligenza collettiva o connettiva e, forse, abricolose, un immenso potere. Nel momento in cui bandonare il culto dell’ego in favore della colletl’uomo ha cominciato a governare i processi na- tività, della comunità: una parola molto abusata turali, con la nascita dell’agricoltura, è iniziato lo perché spesso si confonde il pubblico con le coÈ proprio degli artisti ricercare una sintesi possibile degli accadimenti e fornirci una visione. Oggi, spesso, ciò che manca è la capacità di un pensiero e di un’azione, di un sogno alla base di un progetto. Quale vuole essere Castelvenere del futuro? Come ci immaginiamo tra vent’anni? Un luogo fatto di industrie e palazzi? Una realtà connessa con Napoli? Un territorio raccontato dal suo vino? munità. Tre milioni di utenti di un blog sono una che abbiamo raccontato nel Manifesto per la Rucomunità? Forse sono solo un pubblico, perché ral Social Innovation. non bastano i like per partecipare ai meccanismi Un percorso locale e iperlocale, un discorso di docomunitari. minio simbolico quindi politico e poetico anche atChe cosa determina una comunità, che cosa tiene traverso la rete (quel luogo dove lasciate le vostre insieme una comunità, se non il valore di comu- narrazioni): pensate allo storytelling sulla rete che nità: un’appartenenza quasi mai incarnata dalle lì rimane, una narrazione che prescinde dal luogo. istituzioni, dal Comune o dai circoli istituzionalizzati. La domanda da porsi è “Castelvenere in sé Castelvenere non appartiene solo ai “venneresi” e basta a renderci comunità?” Il territorio è il primo il dominio di questa poetica può stare anche in elemento che stabilisce un valore di legame tra le mano ad altri. Noi viviamo in un Sud che è stato dominio simbolico di un Nord, continuiamo a persone. pensare a un modello di sviluppo di un Sud che La “Crisi” sic et simpliciter è una bugia per come non è ancora Nord, convinti di essere un popolo la raccontano: si tratta degli ultimi, violenti colpi arretrato. di coda di un sistema economico e sociale che ha attinto valore dalle comunità, dai territori, dal L’invito è di provare a restituirci il dominio simboprodotto stesso per valorizzare altre dimensioni im- lico, la poetica del nostro essere al sud di nessun nord, di essere qui e ora. Nella globalizzazione, che materiali: la logistica, il branding, la finanza. ormai è un dato di fatto, l’unica moneta da giocare Riappropriarsi della catena del valore (Value Chain) è quella della nostra identità: come scrisse Franco e riorganizzarla su base comunitaria, coniugando il Cassano che amo sempre citare, bisogna “riguarrispetto degli equilibri ambientali di un territorio, la dare i propri territori”, farlo con occhi nuovi, ma sostenibilità economica e le responsabilità sociali, averne anche (e soprattutto) riguardo. è il percorso tracciato della nuova economia rurale EXPERIENCE Antonio Leone Ricercatore del CNR e curatore della zonazione del PUC di Castelvenere. È primo ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo. Attualmente è responsabile di diversi progetti legati allo sviluppo sostenibile e all’innovazione del territorio. Ha insegnato presso l’Università degli Studi del Molise. È autore di oltre 130 lavori a stampa su riviste scientifiche. Per Castelvenere ha curato la zonazione del PUC. LA ZONAZIONE DEL PUC DI CASTELVENERE Il PUC di Castelvenere è stata un’occasione per acquisire importanti conoscenze sul paesaggio fisico, utilizzabili per la valorizzazione del territorio. La geologia, la fisiografia, il clima e il suolo rappresentano le risorse fisiche più importanti di un territorio. L’interazione di tali risorse con l’attività antropica determina l’aspetto estetico e produttivo del territorio stesso e, quindi, le sue potenzialità effettive. A fronte di tale premessa, un importante obiettivo da perseguire, ai fini della corretta pianificazione e della gestione di un territorio è la sua scomposizione in ambiti paesaggistici omogenei dal punto di vista dell’ambiente fisico e, di conseguenza, dal punto di vista dell’aspetto estetico, delle problematiche di gestione agrotecnica, della risposta all’uso agricolo (sostenibilità ambientale), della specificità/distintività delle produzioni agricole che essi esprimono. È questo, in modo molto semplice, il concetto di zonazione agricola. Tale concetto è stato considerato ai fini della realizzazione del PUC di Castelvenere. In particolare, il PUC ha considerato la zonazione viticola come elemento strutturale, tenuto conto che la superficie vitata, con i suoi 1018 ettari rappresenta circa il 67% dell’intero territorio comunale, costituendo, di fatto, la matrice agricola nella quale sono immersi le superfici urbanizzate. Punto di partenza per lo studio di zonazione è stata la realizzazione di una dettagliata Carta dell’uso agricolo del suolo, rilevata ad una scala < 1:3.000, in taluni casi < 1:1.000. Il passaggio successivo è stato la realizzazione di Carte morfometriche (quota, esposizione, pendenza), attraverso l’elaborazione di un modello digitale del terreno a grande risoluzione spaziale. È stato quindi suddiviso il territorio in unità di paesaggio omogenee dal punto di vista geologico, fisiografico e morfometrico e di ciascuna unità di paesaggio sono stati studiati i suoli che le caratterizzavano, per produrre una Carta dei suoli. Così concepita, la Carta dei suoli contiene informazioni non solo sulla natura e sulle proprietà dei suoli stessi, ma anche informazioni riguardanti gli altri elementi dell’ambiente fisico che ne influenzano la genesi e l’evoluzione. I contenuti informativi della Carta dei suoli sono stati “confrontati” con le esigenze della vite, utilizzando il metodo FAO – Framework For Land Evaluation per la realizzazione di una Carta delle attitudini del territorio comunale di Castelvenere alla viticoltura. Sono stati poi studiate le relazioni tra unità cartografiche della Carta dei suoli e caratteristiche compositive di mosti di uva Falanghina, utilizzando il metodo statistico multivariato della PLSR (Partial Least Squares Regression) per la realizzazione di questo è stata prodotta anche una Carta del vigore una Carta della zonazione viticola, relativa alla pre- vegetativo del territorio viticolo, attraverso l’elaborazione di immagini satellitari SPOT a media risodetta varietà. luzione spaziale. L’influenza del clima sulla vite è frequentemente riassunto impiegando opportuni indici bioclimatici, Tutti i dati raccolti sono stati organizzati in un capaci di differenziare e delimitare varie zone viti- GIS-DataBase, utilizzabile non solo per il PUC, ma cole. Per gli scopi del PUC di Castelvenere, in ag- anche come strumento di supporto per la programgiunta alle Carte sopra descritte, è stata realizzata mazione e la gestione di attività agricole ed exanche una Carta dell’Indice bioclimatico di Win- tra-agricole riguardanti il territorio di Castelvenere. kler, definito dalla sommatoria della temperatura media attiva (> 10°C) nel periodo 1 aprile – 31 La novità e la qualità del lavoro prodotto hanno consentito a Castelvenere di classificarsi al primo ottobre. posto nazionale del “Concorso per il migliore piaLa natura e le proprietà dei suoli, in combinazione no regolatore delle Città del Vino”, bandito dall’Isticon il clima, il portinnesto e le tecniche coltura- tuto Nazionale di Urbanistica” e dall’Associazione li influenzano fortemente il vigore vegetativo di un Nazionale delle Città del Vino. vigneto, che, a sua volta, influenza negativamente la qualità delle uve e dei vini che ne derivano. Per Elena Martusciello Presidente Nazionale Associazione Le Donne del Vino Siede nella stanza dei bottoni di “Grotta del Sole”, una delle realtà vinicole più conosciute dell’area flegrea, ed è un punto di riferimento per tutte le donne del sud, grazie alle sue doti umane e professionali. Imprenditrice e Presidente dell’Associazione Nazionale Donne del vino, è la prima ad aver scommesso sulle nuove esigenze del mercato del vino fatto sempre di più da intenditori. È riuscita a creare un’azienda all’avanguardia, che vende in tutto il mondo, partendo dal territorio e dall’esperienza maturata dalla sua famiglia nella vendita di vino. LE DONNE DEL VINO: UNA COMUNITÀ CHE PRODUCE VALORE Le Donne del Vino è un’associazione che nasce circa 27 anni fa e oggi conta quasi 700 donne, tutte provenienti dal mondo dell’enogastronomia. Già nel 1988, in tempi non sospetti, pensammo di fondare e formare da subito una comunità per rispondere al bisogno di “mettersi insieme” in un mondo così maschile come quello del vino. Alla fine degli anni ’80 la parola “rete” era una parola impensabile che noi adottammo da subito come imperativo per costruire qualcosa di nuovo e di solido. La nostra associazione oggi è rappresentata in ogni regione italiana, ed è un’associazione senza scopo di lucro: ci autofinanziamo e solo da qualche anno riusciamo, grazie ad alcune attività che abbiamo messo in campo, attraverso la valorizzazione e la diffusione dei prodotti di eccellenza, a supportare alcune attività istituzionali. Le donne del vino, nonostante le molte difficoltà, riescono ad organizzare numerosi eventi in tutte le regioni, non ultimo al Vinitaly che rappresenta un grande baluardo nel mondo del vino, dove ci presentiamo non solo per far conoscere i nostri vini, ma anche tutta la cultura gastronomica che siamo in grado di rappresentare. Le donne delle nostre aziende associate, hanno capito da subito l’importanza di legarsi al territorio e di salvaguardarlo, per cui oltre le grandi aziende che fanno parte dell’associazione, ci sono micro aziende che invece nei posti più marginali (Castelvenere potrebbe sembrare, rispetto ad altri territori, forse molto grande in termini di estensione) sono riuscite a valorizzare questi territori e a produrre economia. La donna è la prima che ha aperto la cantina ai visitatori, è la prima che ha fatto turismo in cantina e tutto un lavoro che, probabilmente grazie alla sensibilità data dalla differenza di genere, spesso apporta una nuova visione del mondo. Ignazio Gibiino Delegato provinciale Coldiretti Giovani Impresa Agrigento Già Delegato Provinciale Coldiretti Giovani Impresa Agrigento dal 6 febbraio 2013, Ignazio Gibiino è stato eletto anche Delegato Regionale Coldiretti Giovani Impresa Sicilia il 16 aprile scorso. L’azienda Agricola Gibiino si trova nel cuore della regione in territorio di Naro (AG) e rappresenta la tipicità dell’entroterra siciliano: i terreni a matrice argillosa sono dedicati alle colture annuali in rotazione, precisamente cereali e leguminose da granella. La restante parte dell’azienda è dedicata alle colture frutticole ovvero uva da tavola, uva da mosto, frutta in guscio, fruttiferi polposi e, ultimamente, anche melograno. Oggi si sta cercando di chiudere la filiera e giungere autonomamente sul mercato, lavorando anche in partnership con la Fondazione Campagna Amica. L’INNOVAZIONE AGRICOLA: L’AGRICOLTORE 2.0 Parlando di terra si può parlare solo con un agricoltore e io sono un agricoltore siciliano. Presiedevo prima i giovani di Agrigento, ora sono delegato regionale di Coldiretti Giovani Impresa Sicilia e da un anno mi occupo di legalità, agricoltura e lavoro giovanile. Questi sono temi delicati e importanti soprattutto in un momento di forte crisi sociale ed economica. Innanzitutto che cos’è Coldiretti giovani impresa? È la costola giovane di Coldiretti, uno dei movimenti che si sviluppa in Coldiretti e prende la sua massima identità. Cerchiamo di interpretare quelle che sono le esigenze dei giovani sui territori, di raggruppare le esperienze dei giovani che, probabilmente meglio degli adulti di un tempo, sanno interpretare un mercato in cui la globalizzazione la fa da padrona. Difficilmente cinquant’anni fa si poteva immaginare uno scenario di questo tipo, ma oggi siamo quelli che meglio interpretano le esigenze di un mercato fortemente in divenire e siamo quelli che quotidianamente sono presenti sui social, comunicano e fanno rete, cercando di mettere in piedi idee innovative. Noi oggi viviamo un’agricoltura completamente diversa rispetto a quella di cinquanta anni fa, dove l’agricoltore non è più il soggetto che si dedica alla mera attività produttiva. Oggi ci affacciamo alla moderna agri- coltura, un’agricoltura per lo più giovane che trasforma l’agricoltore da mero produttore a soggetto sociale a tutti gli effetti. L’agricoltore è una figura innovativa con un ruolo importante per il territorio. Oggi viviamo in un momento in cui il terziario è completamente saturo e gli altri settori producono cassa integrazione. L’unico settore che oggi produce PIL e posti di lavoro (si pensa che nei prossimi anni si possano creare 200.000 posti di lavoro) è proprio il settore agricolo. Si è creata la figura dell’agricoltore 2.0 di cui però si sa veramente poco. In questi anni mi è capitato di imbattermi in diverse figure di agricoltore che ad esempio gestiscono le stalle con gli iPad, i turni dell’irrigazione con l’iPhone oppure cominciano a produrre latte di cammello o cosmetici oppure, ancora, a praticare sul fuori suolo, riuscendo così a produrre anche su terreni stanchi dopo anni di produzione, regolando i ritmi fisiologici della pianta. Noi abbiamo creato un grosso box da cui tutti possono attingere e rappresenta uno stimolo importante per fare sempre innovazione legata alla distintività e soprattutto alla multifunzionalità, la giusta traiettoria da seguire affinché un’impresa sul territorio possa creare innanzitutto cicli virtuosi che generino posti di occupazione e permettano di fare impresa. A tal proposito, nove anni fa ci siamo inventati il premio “Oscar green”, attribuito agli imprenditori under 40 che si distinguono per l’innovazione, permettendo loro di rimanere sul territorio. Con l’agricoltura non ci si arricchisce, ma ci si può imbattere nella possibilità di fare tanto e mettere in gioco il proprio genio personale. L’“Oscar green” quest’anno avrà uno scenario importante, quello di EXPO 2015, dove non soltanto i giovani imprenditori avranno la possibilità di vincere un premio, ma allo stesso tempo avranno un panorama di portata mondiale, in cui molti stanno riponendo le proprie aspettative. L’expo ha uno slogan impegnativo e importante per il nostro settore “Nutrire il pianeta e ricevere la vita”, quindi vediamo come l’agroalimentare rappresenta il grande veicolo del Made in Italy nel mondo e che rappresenta la nostra identità e l’identità dei territori. Un soggetto compra Made in Italy perché è sinonimo di qualità e di eccellenza sul territorio e quindi c’è una disponibilità a pagare di più, grazie a una cultura del cibo che comincia a svilupparsi sempre di più. L’anno scorso siamo stati nel Brennero per chiedere a gran voce che sulle nostre etichette ci sia la massima chiarezza perché ogni consumatore deve poter scegliere un prodotto proveniente dalla propria terra e lasciare un quid sul proprio territorio, dando la possibilità all’azienda di sopravvivere e di creare dei cicli virtuosi. Negli ultimi anni il numero di chi si dedica al settore dell’agricoltura e al settore dell’agroalimentare è aumentato notevolmente. Sono molti i giovani che scelgono il mondo dell’agricoltura e dobbiamo riuscire a intercettarli perché questo settore viene ad incarnare sempre più l’innovazione, la possibilità di poter esprimere se stessi. Abbiamo una grande missione nelle mani, una grande responsabilità e non possiamo permetterci che i nostri territori falliscano, ma soprattutto, grazie all’opportunità che l’agricoltura ci offre, dobbiamo mettere le ali ai nostri territori. IL METODO Nicola Flora docente di Architettura degli interni Università degli Studi di Napoli Federico II Nel 1987 si laurea in architettura presso la Federico II di Napoli. Da allora affianca costantemente l’attività di progettista a una costante ricerca teorica e sperimentale, insegnando in seminari e workshop in diverse università italiane e straniere, oltre che presso la scuola napoletana. Dal dicembre 2012 è ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli, dove insegna Architettura degli interni. Ricerca e sperimenta sulle ri/attivazioni dei borghi italiani dismessi o in progressivo spopolamento. Su questo tema ha pubblicato per i tipi di Letteraventidue, nel 2013, il volume “I borghi dell’uomo”. Strategie e progetti di ri/attivazione” insieme a Eleonora Crucianelli. Dal 1998 è membro della redazione della rivista internazionale di architettura AREA. RI/ATTIVARE: UN POSSIBILE FUTURO DA IMMAGINARE PER LE AREE INTERNE La dismissione e “rottamazione”1 del “vecchio” edificato che innerva la dorsale appenninica italiana da qualche tempo mostra quanto miope sia stata questa strada di “sviluppo” che pianificatori, politici e architetti hanno perseguito per decenni, nella massima parte senza opposizioni, almeno interne a queste discipline. Negli ultimi anni solamente, dopo quasi un decennio di dura stasi economica e produttiva, di dismissioni violente e selvagge di grandi centri di produzione da parte di soggetti nazionali e internazionali, dopo il devastante processo di finanziarizzazione delle attività produttive, e il conseguente abbandono di molti comparti produttivi primari e secondari, si inizia a cogliere nel giusto modo il disastroso lascito. Di contro brilla ancor di più la lungimiranza di quei rari moniti delle poche voci che cercarono di porre una opposizione critica alla logica dello “sviluppo” che si era mostrata strada senza apparenti alternative2 e che, 1 Sull’intrinseco, negativo portato che dobbiamo consapevolmente considerare quando usiamo questa parola - negli ultimi decenni simbolo di positiva innovazione - rimando all’intenso scritto di Spinelli B. (2012), “La mala rottamazione”, in La Repubblica, 24 ottobre, pag 29. 2 Recentemente è stata riproposta la stampa di un libro “politico” che Adriano Olivetti scrisse proprio per opporsi al modello di consumo e dismissione di suoli, attività rurali e artigianali, oltre che di strutture sociali se ben valutati, sarebbero potuti essere alimento di una crescita più fisiologica ed armoniosa di un pensiero progettante a scala nazionale, piuttosto che essere considerati come anacronistici moniti di astratti conservatori schierati contro tutti i trasformatori, che alla fine rimasero sterili e poco incisivi protettori di storie e culture a volte millenarie. Oggi ci troviamo nella delicata situazione nella quale un numero enorme di piccoli centri delle aree interne (comunque distanti dalle poche città di media grande dimensione) sono semi abbandonati, e moltissimi borghi - piccoli o piccolissimi - sono parzialmente o totalmente diruti. Parallelamente viviamo in numerose periferie - dove per periferie qui ci si rifà al senso più ampio proposto da Augè3 che quindi possono essere aree anche centrali di città medie e grandi - devastate formalmente e nel senso sociale, con un livello di vita associata e di standard edilizi pessimi; con enormi infrastrutture, derivate dal tempo senza un immaginario positivo che guardasse con coraggio a quelle “comunità concrete” , democratiche, orizzontali, costruite per il vero interesse delle popolazioni; cfr Olivetti A. (1949), Democrazia senza partiti, ed. di Comunità (ultima ristampa 2013). 3 Cfr. Augè M. (2009), Pour une antropologie de la mobilitè, Parigi, trad. it. Augè M. (2010), Per una antropologia della mobilità, Milano. spesso non terminate o cadenti, che punteggiano tutta la penisola in stato di abbandono, mentre siamo nella impossibilità di convertirle vantaggiosamente in nuove strutture produttive - e men che meno in servizi per le popolazioni - data la stretta finanziaria che costringe la mano pubblica a ritirarsi, piuttosto che come sarebbe il caso ad intensificare la propria presenza. Le conseguenze sul piano della gestione e pianificazione delle azioni di contrasto a tale processo nazionale sono visibili, e per ora con scarso successo nell’inversione dei flussi migratori e nella stimolazione di nuove imprenditorialità e socialità nascenti dal basso. “È chiaro che vada necessariamente immaginato un processo inverso di valorizzazione e ri/ciclaggio virtuoso ossia di rimessa in circolo - di risorse territoriali e materiali, culturali e produttive, per troppo tempo dismesse, molte della quali fortunatamente ancora rintracciabili e ri-attivabili”4. In un quadro simile ci sembra impossibile immaginare che un solo soggetto - politico, finanziario, culturale, sociale - possa affrontare, e men che meno risolvere, l’intricato intreccio che sessanta anni di miope politica industriale e culturale senza 4 Ibidem. alternative ha prodotto. Sarà indispensabile che ciascuno degli attori che dovranno partecipare ai nuovi processi siano consapevoli del quadro d’insieme e allo stesso tempo lavorino e provino almeno a proporre un nuovo orizzonte di riferimento per indirizzare le scelte e l’agire concreto anche delle più piccole comunità o dei semplici cittadini. Dal nostro punto di osservazione, come diverse volte scritto negli ultimi anni, è fondamentale prevedere “un coinvolgimento delle comunità locali affinchè questa nuova fase, che parte da una crisi economica e imprenditoriale percepita come dura e recessiva, si trasformi in un movimento a forte impatto creativo ed innovativo, potenziale incubatore di opportunità non ancora esplorate”5. Pier Paolo Pasolini, sul rapporto centro/periferie ha scritto parole che riteniamo oggi facilmente estensibili al rapporto città/borghi minori: “molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro “cattivo” nelle periferie “buone” (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie 5 Flora N. (2013), I borghi dell’uomo. Strategie e progetti di ri/attivazione., Siracusa, pag. 68. si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali - appunto fino a pochi anni fa - era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili”6. In quanto progettisti certo non siamo demiurghi, ma potremmo essere generatori di “nuove sinapsi”, di collegamenti fisici o culturali che potrebbero ri/attivare rapporti interrotti tra territori e le più diverse periferie. Anticipando una conclusione riteniamo che larga parte di questo tessuto interno dovrebbe essere ripensato come una rete, un network di luoghi che, tra loro connessi – fisicamente e virtualmente, ma anche solo in senso di dinamiche culturali, sociali e di relazione – possa generare corridoi e canali di connessione tra le città principali legando le fasce tirrenica e adriatica, con benefiche ricadute sulla tutela e presidio fisico dei territori attraversati, nonché sul piano dell’integrazione e ricostituzione di quel senso di appartenenza a un unico corpo/nazione, cosa in fondo non ancora pienamente riuscita in 150 anni di storia nazionale. Flussi economici e turistici o 6 Pasolini P. P. (1975), 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Pasolini P. P., Scritti corsari, Milano, pag. 27. di nuove socialità (anche sperimentali, magari basate sull’accoglienza dei migranti attivi presenti e operanti nei nostri luoghi7) incentiverebbero nuovi residenti a cercare casa in contesti meno economicamente onerosi e complessi rispetto all’abitare nelle grandi città. Molte giovani coppie, single con basso reddito, adulti separati, se avessero un minimo di incentivo fiscale e di abbattimento dei costi di affitto delle case, oltre che una rete di micro-assistenze (asili nido, assistenza sanitaria di prima accoglienza e relazionata a centri primari più ampi) ben distribuita territorialmente, non avrebbero alcun rimpianto a lasciare città economicamente più care e che spesso non lasciano intravedere un futuro credibile, soprattutto sul piano della qualità della vita e delle relazioni sociali. Molte persone che in età avanzata perdono il lavoro, potrebbero trovare occasione di rigenerare antiche artigianalità e lavori in proprio che in contesti economicamente meno complessi, potrebbero essere viste non come sconfitte esistenziali ma ri/partenze. Gli anziani, che molte volte sono originari di questi piccoli centri, nelle grandi città raramente trovano quella rete relazionale capace di farli sentire inte7 Fabbricatti K. (2013), Le sfide della città interculturale, Milano, pagg.49-50 grati e attivi, e certo un sapiente coinvolgimento di questa fascia della nostra popolazione - peraltro in forte aumento sul piano percentuale - potrebbe generare processi virtuosi i cui benefici non credo si possano neanche facilmente valutare (si intende in positivo dal nostro punto di vista). Italo Calvino ci ha insegnato a vedere nella città le relazioni tra le persone, il loro immaginario e lo stratificarsi casuale di storie, materie, connessioni8. A trovarci persino appollaiati degli dei, degli spiriti, espressioni di quella energia vitale che chiede di fare, manipolare, muovere, innovare, ri/attivare9. Appunto: ri/attivare, mettere sempre e costante8 Si pensa particolarmente ai libri “Le città invisibili” e “Lezioni americane” di Italo Calvino, due testi diversissimi ma che si completano nella contemplazione su come narrare il senso delle cose utili alla vita (im)materiale dell’uomo. 9 Su questa parola\chiave si sono incentrate due esperienze di workshop e seminari in spazi dismessi del borgo di Alianello, in provincia di Matera, con un’azione congiunta tra i miei studenti del corso di “architettura di interni” della Scuola di Architettura SAD di Ascoli Piceno, il gruppo MOBILARCH ed il comune di Aliano (MT). Per un approfondimento vedi il sito www.mobilarch.it alla voce workshop\ “viteIMpossibili 2011” e “Il resto di niente 2012”. mente in moto azioni che generino flussi, spostamenti, modificazioni a servizio di una strategia per l’abitare contemporaneo che accolga le istanze che le persone propongono. Nel caso dei centri minori dell’Italia Appenninica continuiamo a pensare alla attivazione di nuove relazioni (fisiche, economiche e di senso) certi che una nuova rete di rapporti e quindi di significati per la contemporaneità si esprima nell’ordinare il sapere su una superficie, nuovo “luogo simbolico” che, in dichiarato contrasto con la tradizionale profondità, appare deputato (concettualmente) all’accumulo di valori in cui la maggior parte delle nuove generazioni, si riconosce. Questa onda di enormi spostamenti di senso, e quindi causa di nuovi assetti dei concetti di novità e bellezza, uno scrittore come Alessandro Baricco ce la racconta usando l’immagine, potentemente evocativa, di un’invasione barbarica10- devastante per chi si senta depositario di verità antichissime – profonde, appunto – ma benefica per chi ami davvero (e sopra ogni altra cosa la Vita e accolga la modificazione col sorriso della fiducia nelle sue spesso incomprensibili logiche. 10 Baricco A. (2006), I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano Nadia Barrella docente di Museologia - Seconda Università degli studi di Napoli Professore associato di Museologia presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Dal 1986 si occupa di storia delle istituzioni museali come spazio in cui è possibile riconoscere il progressivo affinarsi della coscienza storica dell’arte e delle capacità tecnico scientifiche dei protagonisti della conservazione. Si è occupata di problematiche relative: alla tutela dei monumenti tra Otto e Novecento; ai musei come “laboratori della storia”, alla nascita di alcuni istituti culturali e dei loro organi ufficiali (riviste e/o annali) nei primi decenni di vita unitaria. Da sempre affianca alla riflessione storica la ricerca sul museo contemporaneo e sulle peculiarità del sistema museale meridionale. è autrice di diversi studi e numerosi saggi tra i quali: La forma delle idee (Napoli , 2010); Principe e principi della tutela (Napoli,2004); la tutela dei monumenti nella Napoli postunitaria (Napoli, 1996) IL MUSEO PER IL RACCONTO E IL RIDISEGNO DEL PAESAGGIO: ALCUNE RIFLESSIONI Fare il punto sul rapporto tra museo e comunità, museo e territorio, museo e paesaggio umano, individuato come uno dei possibili obiettivi del mio contributo al progetto Strade di Vini. Le mie riflessioni, è opportuno precisarlo sono tutt’altro che conclusive, potrei in realtà definirle quasi un “brainstorming” nato dalla necessità di condividere i miei dubbi e confrontarmi su quelle che penso siano le notevoli contraddizioni di un Paese che presenta ancora troppe sacche di resistenza al nuovo e un’evidente permanenza di antichi approcci al paesaggio lontani dal dibattito più aggiornato e dalla molteplice domanda di servizi, di strumenti e tecniche per la corretta utilizzazione del patrimonio culturale nonché domanda di misure per la tutela, la salvaguardia preventiva e la valutazione dell’incidenza del patrimonio culturale sul riequilibrio economico del territorio. Occuparsi di paesaggio è molto problematico non solo per la complessità dei suoi fattori costituivi quanto per le finalità che spingono i tanti ad occuparsene e, quindi, per la molteplicità dei punti di vista che ne conseguono. Anche delimitando la riflessione al solo racconto del paesaggio nel museo, intendendolo come racconto del territorio di una specifica cultura, “scenario spazio-temporale dentro cui hanno agito e agiscono generazione di attori, individuali e collettivi”, ci si scontra con ciò che è – o almeno dovrebbe esserlo – oggetto se non di tutti, sicuramente della maggior parte dei musei italiani, depositi di elementi culturali, materiali e non, che si “accumulano” nel formare il patrimonio identitario dei luoghi. Difficile effettuare un’indagine sulla forma di questo racconto in tempi brevi, ma credo possa essere utile lavorare in questa direzione per il futuro perché il rapporto tra la mission dell’istituzione e la sua forma visibile, ciò che pensa di comunicare e il percorso concreto che mette a punto per i suoi pubblici, è non solo poco studiato, ma anche poco “valutato”. Eppure la divergenza tra teoria e prassi, appare in tanti casi, molto spiccata. Per entrare “nel paesaggio” ho concentrato l’attenzione, nella piena consapevolezza della parzialità dell’indagine, sui musei esplicitamente intitolati al paesaggio. Non sono molti, ne ho contati una decina: il più antico – quello di Verbania – è sorto nel 1909 altri sono recenti se non recentissimi. Sono tutti collocati al centro-nord (per lo più Toscana, Emilia, Piemonte e Veneto) ed è questo un primo e purtroppo noto aspetto del problema: il grande divario tra il centro-nord ed un sud Italia ancora molto lontano da tali tematiche. La conferma del divario, purtroppo, viene anche dal censimento ICOM 2014 “musei e paesaggi culturali” che ho utilizzato soprattutto per una verifica veloce su quanto realizzato su questi temi sull’intero territorio italiano. Su 199 schede raccolte con questo censimento 96 riguardano l’Italia settentrionale, 77 quella centrale (48 solo in Toscana), e 21 quella meridionale. Di queste 21 solo 9 sono quelle dell’Italia meridionale peninsulare dedicate ai pittori dell’Ottocento napoletano (il cui en plein air, tra l’altro, viene letto come dato stilistico e non come riflessione sul paesaggio storico), ad un ciclo di affreschi di una cappella calabrese e ad alcune feste tradizionali. Il nesso paesaggio e sua rappresentazione nell’arte è quello prevalente anche nelle iniziative di molte altre regioni ed è ricorrente in alcuni dei musei citati che si avvicinano non poco ai percorsi delle pinacoteche o dei musei d’arte più tradizionali. È il caso del Museo del Paesaggio di Torre Mosto (in provincia di Venezia) che interpreta il paesaggio come la “percezione” dei luoghi da parte degli artisti del novecento e, come si legge, il “senso superiore della loro indefinibilità”. Ricorda molto tradizionali percorsi espositivi orientati alla fruizione estetica di luoghi monumentali il Museo dedicato al paesaggio dell’Appennino faentino a Riolo Terme (Prov. di Ravenna) che supplisce con visite guidate esterne a pagamento all’assenza di un percorso museale attinente al complesso dei bisogni, delle risorse, delle attività e dei prodotti intellettuali e materiali degli individui e della comunità. L’attività sul territorio (escursioni/laboratori/didattica) è spesso l’alternativa scelta da queste istituzioni ad un allestimento abbastanza limitato fatto di qualche pannello e di poche altre indicazioni (si veda ad esempio il Museo del Paesaggio nell’Abbazia di Moscheta - Firenze o del Centro di educazione ambientale Casa Monti ad Alfonsine sempre in provincia di Ravenna). Sono scelte comprensibili ma diventa inevitabile il confronto con la maggiore coerenza alla problematica del paesaggio modernamente inteso del più antico Museo del paesaggio di Verbania (Verbano - Piemonte) che ha scelto la strada del museo come “presidio territoriale” attestata, più che dall’allestimento in sezioni tradizionali (pittura, scultura, archeologia e religiosità popolare), dall’organizzazione generale del sito. Interessante appare anche il museo del paesaggio di Castelnuovo Berardenga (Chianti) uno dei 40 e più musei della Fondazione Musei Senesi che gode sicuramente dell’ampio lavoro fatto dalla Fondazione in direzione dell’utilizzo delle nuove tecnologie e che si apre, più degli altri, all’idea di rete come strumento determinante per la tutela del paesaggio. È proprio guardando a questi musei e a quanto del loro percorso espositivo e della loro attività è percepibile da “una visitatrice a distanza” che nascono alcune domande. La tutela del paesaggio dovrebbe saper “guidare la sua inevitabile trasformazione”. Un grosso limite in tal senso – ha ragione Massimo Montella – nasce innanzitutto dalla nostra legislazione che affida al Codice (dei bb.cc. e del paesaggio e alla sua revisione tramite dlg 63/2008) la definizione di paesaggio come “territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”, ma lo fa attraverso “una legge settoriale, programmaticamente limitata ad una selezionata quota di beni paesaggistici che non può debitamente corrispondere all’esigenza postulata dalla Convenzione Europea di una radicale revisione di tutta la disciplina comunque attinente alla generalità del territorio”. Sottomette poi la valorizzazione alle esigenze di tutela, ma limita la sua forza prescrittiva anche nei ristretti ambiti cui andrebbe applicata perché, non “consente di conoscere l’ubicazione, il valore e tutte le caratteristiche e i significati dei beni da salvaguardare, nonché dei pericoli, dei metodi e delle tecniche, degli strumenti e delle abilità professionali con cui fronteggiarli”. Montella ha sempre sottolineato, rispetto al problema paesaggio in Italia, le potenzialità della minuziosa rete di musei radicata soprattutto nei medi e piccoli centri ma proprio di recente ha segnalato la necessità che questi istituti abbiano “una visione dilatata della propria missione nonché assetti di rete e di contracting out con fornitori individuabili nel mondo della ricerca per strategie proattive aperte su tutto lo spettro delle attività di creazione del valore in una prospettiva di multistakholders indirizzata a più aree di scambio di natura pubblica e privata”. Non mi sembra che questi musei, ma vorrei in futuro approfondire proprio questo aspetto, siano orientati in questa direzione. Ho notato con un certo dispiacere, ma è solo un piccolo esempio, che la stessa Fondazione dei musei Senesi non ha contribuito in alcun modo alla redazione del Piano Paesaggistico territoriale della Toscana. Musei di proprietà comunale – come quello di Biella o come quello di Rocca di Riolo che pure hanno carte dei servizi abbastanza dettagliate – non citano alcuna forma di collaborazione strutturata con l’amministrazione che ne è Conferma tutto ciò il censimento del 2014 dove solo in alcuni casi comune/provincia/regione o ministero (inteso come Soprintendenza) partecipano alle attività. La sensazione, molto forte, è anche il paesaggio nel museo continui ad essere “autoreferenziale” e non ci aiuta certo la presenza ormai abbastanza diffusa di ecomusei. Questi ultimi rappresentano forse un tentativo d’innovare anche in Italia la museologia classica” ma si sono orientati spesso alla “ricerca di una frequentazione turistica dolce, molto culturale o ecologica” o coDaniele Jalla, parlando del tema scelto per ICOM munque alla rivitalizzazione di territori rurali o peri2016 ribadiva che il tema museo paesaggio era urbani isolati a partire dalle loro risorse e dai loro una sfida complessa “museologica perché propo- abitanti”. ne una nuova forma di museo; museografica perché impone nuove forme d’interpretazione del pa- Eugenio Turri aveva suggerito un approccio al paetrimonio. E deontologica in quanto definisce nuove saggio molto interessante, per “iconemi”, elemenresponsabilità per i musei e per i professionisti del ti emergenti da cui solitamente comincia la sua lettura, quelli che danno identità a un paese o a patrimonio.” una regione di cui rappresentano generalmente le Museologicamente (e quindi anche museografica- strutture portanti dell’organizzazione territoriale. mente) non mi sembra di aver trovato significative è un buon suggerimento anche per un percorso innovazioni ma quel che più mi preoccupa è che espositivo ma non ho trovato questa impostazione sia ancora scarso il livello di interazione dei pro- in nessuno dei musei citati né nei tanti ecomusei fessionisti del musei con gli altri attori protagonisti sorti nell’ultimo decennio in Italia. riconosciuti dello sviluppo del territorio. proprietaria. Nella carta del Museo di Riolo – parte di un sistema museale intelligente e attento che è quello della Provincia di Ravenna – ci si ferma allo standard 6. Ho la sensazione, ma non escludo l’errore dovuto alla superficialità della mia indagine, che quando si parla di museo come presidio di tutela del paesaggio, almeno per il momento, parole come “progetti condivisi, processi territoriale e dinamica partecipativa” siano più slogan che dati di fatto. Nel procedere per “idee generate” altri interrogativi sono sorti dallo sguardo alla diffusione territoriale, ai luoghi di riferimento e alla numerosità delle comunità di riferimento. La ricca bibliografia sul paesaggio italiano ha lavorato molto sulla sua varietà. Uno sguardo ai nostri musei e ci si accorge che troppa parte di questo paesaggio ne è rimasto fuori. Il più escluso in assoluto è quello urbano e, in particolare quello urbano contemporaneo fatto di paesaggi dell’abbandono, di paesaggi a forte frequentazione, di paesaggi dell’emergenza e di ordinari. Di quello che oggi spesso si esprime come “nuova domanda di paesaggio” intesa come attenzione alla qualità dei contesti ed ai problemi posti dallo snaturamento delle immagini e delle forme fisiche ereditate dal passato e che chiama a “ricontestualizzare i valori delle preesistenze e a immetterli in una nuova rete di significati in grado di coniugare in modo fertile gli opposti principi di radicamento al locale e di appartenenza alle molteplici reti materiali e immateriali che configurano i territori della contemporaneità” (A. Clementi). Nessun museo del paesaggio, nessun ecomuseo (ci ha tentato solo l’EUT a Torino) e quasi nessun museo della città italiana ha scelto di porsi su questa strada. I musei civici, giusto per fare qualche altro riscontro, sono quasi del tutto assenti dal censimento 2014. Il nostro Paese ha tentato anche, negli anni passati, di rispondere a questa domanda attraverso una rete di urban centers ma sono pochi quelli che funzionano e raramente dialogano con le strutture museali del territorio. Come più volte ribadito da tanti è più che mai necessario per il nostro Paese un nuovo modello e un nuovo sistema di tutela che ricomponga valorizzazione e gestione, ma i musei “presidi territoriali” di tutela non sono solo un problema di modelli e di norme ad hoc. Nella carta di Siena redatta da ICOM si inviata a “favorire la creazione di comunità di paesaggi”, adottare un approccio interculturale e sollecitando “reti museali di diverse tipologie”. Se è giusto parlare di una vocazione naturale del museo italiano al territorio e ribadire la potenzialità di questa vocazione “impedita – secondo ICOM – dall’insufficienza delle risorse economiche e umane, ostacolata dal quadro normativo, perché ha finito per divenire estranea alla stessa cultura degli operatori” io mi chiedo se “l’estraneità di questa vocazione alla cultura degli operatori” sia un esito oppure – se si guarda ai percorsi formativi della maggior parte degli operatori – un solido “presup- posto” cui i limiti sopraindicati attecchiscono facil- quella rappresentazione del paesaggio italiano che ci faccia scoprire il guasto che riteniamo sia stato mente. prodotto e il grande valore che, nonostante tutto, Per concludere, vorrei tornare al non esposto, al ancora permane. Fintanto che questa rappresennon raccontato e al non comunicato. Si è detto che tazione non viene fornita, il guasto e il valore non è la “memoria individuale e collettiva a generare possono essere visti e se guasti e valori non vengoil testo narrativo che è il paesaggio della nostra no resi visibili, è stato giustamente osservato, non identità culturale e della inevitabile valorizzazione si può neppure configurare una linea d’azione per emotiva che dall’interazione tra identità e mondo affermare quel nuovo mito che va di moda chiamaconsegue”. Sarebbe utile, pertanto, dar forma a re “sostenibilità”. Gaia Salvatori docente di Storia dell’arte contemporanea – Seconda Università degli Studi di Napoli Professore associato di Storia dell’arte contemporanea presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali della Seconda Università degli Studi di Napoli. La sua attività di ricerca si è affiancata alla didattica nell’ambito della Storia della critica d’arte e della Storia dell’arte contemporanea intrecciando i suoi interessi con la storia dell’illustrazione e delle arti applicate. Recenti filoni di ricerca vertono sulla storia della scultura e dell’arte pubblica nell’800 e nel 900. È autrice di numerosi saggi e volumi fra cui Nelle maglie della storia. Produzione artistico-industriale, illustrazione e fotografia a Napoli nel XX secolo (2003), (con Nadia Barrella) Le Aule dell’Arte. Arte contemporanea e Università (2012) e Isole d’utopia. Da De Stijl all’arte per lo spazio pubblico (2013). RIFLESSIONI SUL RAPPORTO ARTENATURA Dead Tree, interviene sul tema della natura andando a mettere a fuoco una problematica di fondo, ossia quanto la natura sia fertilità, crescita, sviluppo, ma può anche essere mortificazione e inaridimento della stessa se non la si alimenta nel modo giusto. Egli sceglie, quindi, di sradicare un albero secco e reinserirlo nel terreno a testa in giù, lasciando le radici allo scoperto e i rami incavati nel terreno. È un’operazione fortemente provocatoria, espressione di un piglio tendenzialmente polemico ereditato dalle avanguardie e proprio anche delle Nel primo ‘900 si è parlato di Modernismo natura- neoavanguardie degli anni ’60 e ’70. lista laddove il rapporto degli artisti con la natura era, per quanto ispirato ad elementi di polemica, Altra importante opera di Smithson è sicuramendi provocazione e contrasto, comunque inestrica- te Spiral Jetty, una vera e propria opera di Land bilmente ad essa correlata. Tutto questo è andato Art, termine che nasce laddove l’artista interviene mutando successivamente, in seguito alle trasfor- sul territorio direttamente, anche con una trasformazioni che si sono avute nel corso soprattutto de- mazione della forma dei luoghi: in questo caso il gli anni ’60, trasformazioni che hanno interessato Great Salt Lake nello Utah in America. Con essa si vari filoni della cultura, tra cui l’arte. Da questi anni sperimenta una forma importante di volontà di imin poi si parla di arte in rapporto con la società, porre il senso umano sulle cose della natura, una l’economia, come anche con i problemi di gene- sorta di sfida nei confronti della natura. re (vedi il femminismo), ma anche in rapporto al territorio e alla natura. Di Land Art si comincerà a Sempre Robert Smithson, negli anni ’70, realizza la parlare, appunto, proprio negli anni ’60 con artisti Floating Isand To Travel Around Manhattan Islancome Robert Smithson che nel 1969, con l’opera d,una sorta di isola galleggiante che girava intorL’interesse nei confronti della natura è sempre stato centrale nell’arte; il rapporto tra natura e arte è consustanziale e strutturato all’arte stessa. Non può sorprendere, pertanto, che ci siano molti esempi di artisti contemporanei che si sono occupati, e si interessano ogni giorno, di natura in ambito internazionale. Oggi tuttavia, e almeno a partire dalla seconda metà del ‘900, il rapporto con la natura da parte degli artisti è diventato più complesso, conflittuale e contraddittorio. no all’isola di Manhattan a New York sradicando, quindi, un pezzetto di natura catapultata, poi, letteralmente nella città con questa modalità mobile. È un modo di intendere la Land Art in cui l’artista ha ancora una forte centralità di scelta e forte della propria capacità creativa può stravolgere anche il rapporto con la natura. Un altro artista della Land Art americana che ricorderei è Alan Sonfist, autore anche di molti testi come “Nature, the end of art”, un titolo questo che suggeriva come la natura stessa avesse già le sue potenzialità, le sue capacità e le sue dinamiche di fronte alle quali l’uomo e l’arte non possono che incidere molto limitatamente. Tuttavia in queste manifestazioni e prese di posizione in rapporto alla natura non viene meno l’aspetto di ‘autorialità’ dell’artista, aspetto che persiste anche nella cosiddetta Arte povera. Di questo movimento, che si sviluppa in Italia tra gli anni 1968 e 1972. Giovanni Anselmo è un artista molto noto. Nel 1968 Anselmo ha realizzato un’opera “senza titolo” che ha come elemento centrale una lattuga fresca collocata su di un piedistallo come una sorta di scultura che di per sé ha una sua vita e una sua entità. La lattuga andrà rinnovata oppure lasciata deperire per il tempo biologico che le è consentito. Allo stesso tempo si è giocato con la natura anche utilizzandola come modello per inventare delle forme assolutamente artificiali che si avvicinano al design, come nel caso di un altro famosissimo esponente dell’Arte povera, Piero Gilardi, che realizzò una serie di Tappeti natura. Dei tappeti è disponible anche un video nel quale lo stesso Gilardi descrive il suo lavoro. In essi, a differenza della lattuga deperibile di Anselmo, viene usata la resina poliuretanica, quindi un materiale assolutamente opposto alla natura, per mostrare una natura bella, edulcorata e immacolata, e come tale vendibile. Arte Povera e Land Art sono state molto oggetto d’attenzione della critica, ma anche hanno spesso parlato attraverso la parola degli artisti stessi: soprattutto in ambito americano uno dei testi più significativi in tal senso è “Art in the Land” del 1983 a cura di Alan Sonfist, nel quale l’artista – scrittore mette a fuoco le caratteristiche dell’arte ambientale. In quegli anni ’80, tuttavia, Arte Ambientale e Land art cominciavano già ad entrare in crisi: in quel periodo, infatti, soprattutto dagli studi di tipo sociologico emergono delle nuove consape- volezze e si comincia a parlare di biofilia, come anche di biopolitica. Tutte le diverse ramificazioni della cultura, da allora, hanno fatto i conti con il “bio”, e quindi con la realtà minacciata della natura, e si è creata una sorta di co-dipendenza tra gli essere umani e il mondo naturale. Si è cominciato a capire, sostanzialmente, che non si può fare gli uni a meno degli altri, che i mondi delle natura e i mondi dell’umano sono strettamente correlati e che l’uomo ha nei confronti della natura forti responsabilità. In questi anni si comincia a teorizzare e a cogliere sul piano sociologico, ma anche storico-artistico, un nuovo nesso arte-natura e comincia ad essere messa in crisi persino la nozione di ecologia. sperimentazioni in grado di instaurare una sorta di dialogo soprattutto sulle differenze e sulle potenzialità comuni del mondo antropizzato e del mondo naturale. Con gli anni 2000, dunque, si è aperta una nuova frontiera di indagine del rapporto dell’arte con la natura. L’artista Mona Hatoum, una donna palestinese, ha realizzato nel 2008 un Hanging garden (giardino sospeso) costituito da sacchetti di iuta contenenti semi, realizzando dunque un’opera che se esposta all’esterno è un’opera che cresce e si sviluppa perché i semi vengono alimentati dall’acqua e le piante fuoriescono dai sacchetti. La stessa cosa può avvenire provocatoriamente anche all’interno del museo se si fa in modo di innaffiare Fra i tanti esempi possibili di attenzione a que- regolarmente i sacchetti. sto nuovo corso, cito le attività della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino. Questa nel Sempre nell’ondata di rivisitazione del problema 2008 mostrò una serie di artisti sotto l’insegna di naturale, al di là dell’ecologismo e del naturalismo, una nuova definizione, la Green Washing, ossia il si è mossa anche l’ artista giapponese Aki Nagatentativo di presentare in termini ambiguamente saka, di nuovo con un Hanging garden, in questo ambientalisti politiche di fatto aziendalistiche e in- caso costituito da piantine secche che pendono dustriali. Secondo i curatori della mostra, uscendo dal soffitto di una distilleria, in relazione all’ aspetdalla semplice contrapposizione fra arte e natu- to anche mistico del fare vino. ra oppure città e campagna, bisognava segnalare Questa attitudine riflessiva e a tratti mistica del rapporto con la natura, non ha escluso, anzi ha a volte sollecitato, lucidi rapporti virtuosi con le risorse del territorio. In merito al tema del vino, in particolar modo, molte aziende proprio sulla base della consapevolezza di un rinnovato rapporto tra arte e natura, ma anche, in certi casi, ancora in ascolto degli sviluppi della Land Art (che continua ad avere proseliti), hanno intrapreso una serie di iniziative degne d’attenzione. Tra queste citerei, per il casertano. la tenuta delle Terre del Principe, con Manuela Piancastelli, che ha lavorato con artisti, non tanto spingendoli ad interagire con il paesaggio, quanto piuttosto invitandoli ad esprimersi con e per le etichette del vino di loro produzione: un esempio può essere l’etichetta realizzata dall’artista Sergio Fermariello nella quale egli riprende alcuni temi a lui congeniali come quelli del guerriero, dello scudo e del rapporto con la natura in senso anche ancestrale. Voglio concludere con un’immagine provocatoria ma che può essere un monito e una domanda aperta. Bruce Nauman, artista americano, nel 1969 realizzò un’opera che spazzava via la tendenza in voga in quegli anni di intervenire in maniera anche invasiva nella natura (comune a molta Land Art, soprattutto americana). Nauman, dunque, realizzò una striscia di fumo nel cielo, grazie ad un lavoro fatto con degli aviatori, con la scritta Leave Land Alone (lascia stare la terra o lascia sola la terra). Pur nell’ambiguità del monito, Nauman non voleva dire certamente di non occuparci più della natura ma al contrario di lasciare che la natura e il territorio nella sua integrità coltivino le proprie potenzialità rigettando interventi aggressivi e invasivi: qualcosa che anticipa, mi sembra, quella che è la tendenza attuale di intervenire e lavorare con la natura nella formula della sostenibilità, che è la nuova parola chiave andata a sostituire quella dell’ecologismo e dell’ambientalismo, che ha una sua storia importante ma non è più al passo della problematiche attuali. Bisogna, insomma, sviluppare una cultura dei territori e per fare questo bisogna creare una sedimentazione di saperi che nasce soprattutto da un’interazione con i luoghi che permetta di mettere in moto dei meccanismi virtuosi, e ciò anche grazie anche all’aiuto di artisti quando questi riescano a mettere in evidenza le caratteristiche territoriali come stimolo che porti ad altro, conduca a nuove iniziative, e non come azione puramente performativa. EXPERIENCE UNA CHIACCHIERATA CON BIANCOVALENTE D: Secondo voi il paesaggio di una località, in particolar modo quello vitivinicolo di Castelvenere, può essere un mezzo anche artistico attraverso cui dare un nuovo input allo sviluppo locale? E se si come? B.V. Si tratta di un paesaggio legato al vino e, lasciando il discorso artistico da parte, già questo può favorire il nome di una località e far sviluppare in parallelo un turismo di qualità. Il paesaggio, il vino e il buon cibo sono attrattori in grado di far muovere le persone e sicuramente una buona conformazione architettonica del luogo può aiutare lo sviluppo locale e favorire la nascita di alberghi diffusi, bed and breakfast e altre attività: in tal senso la comunicazione e il racconto di un territorio possono essere vitali. L’arte, sicuramente, può incidere in maniera indiretta in questo processo innovativo e di comunicazione di un territorio. L’artista che lavora a stretto contatto con le comunità, quando arriva in un luogo, si lascia ispirare ascoltando le persone e vivendo il territorio per restituire una propria visione che può essere emblematica, poetica o di qualsiasi altro tipo. L’artista, con il suo lavoro, può dare nuove idee a una comunità impegnata ad innovarsi. Noi abbiamo già partecipato a progetti analoghi e abbiamo avuto modo di vedere come la comunità sia stata influenzata dall’operazione fatta. Normalmente tendiamo a coinvolgere le persone della località in cui lavoriamo e la partecipazione dei cittadini rende l’opera e il processo di realizzazione della stessa una cosa che coinvolge tutti. A Latronico, paese che per grandezza è simile a Castelvenere, da diversi anni portiamo avanti un progetto in cui la residenza artistica ha come obiettivo l’inserimento delle opere prodotte nel contesto urbano. Il progetto si chiama “a cielo aperto” perché le opere sono istallante, appunto, a cielo aperto e non c’è un museo in cui andare a vederle. Le opere sono veramente integrate nel luogo, nella quotidianità della comunità e chiunque può trovarle in maniera spontanea. Questo nostro progetto è stato di stimolo anche da un punto di vista economico, infatti sono nati dei bed and breakfast. Il sindaco di Latronico ha cercato di veicolare l’idea dell’arte contemporanea includendola in un discorso più ampio puntando sugli elementi di forza del territorio come le terme, i boschi, il borgo antico attivando una serie di percorsi e coniando il logo “Latronico città del benessere”. Si è comunicato a sviluppare, quindi, un discorso a lungo termine. D: In che modo la comunità locale sarà coinvolta nel processo creativo? D: Che tipo di relazioni sperate di poter instaurare in una comunità come B.V. Sicuramente sarà coinvolta la cittadinanza at- Castelvenere? traverso incontri e ascoltando le storie delle persone. Cercheremo di mettere in relazione i pensieri delle persone. Ultimamente ci interessa lavorare sulle storie anche se all’inizio ci vantavamo di realizzare opere che non raccontavano una storia. Il nostro lavoro era incentrato sul corpo, la mente, l’immagine mentale e di conseguenza abbiamo cominciato a studiare l’evoluzione biologica che aveva portato l’uomo a sviluppare il cervello in un certo modo. In questo nostro studio abbiamo capito che la storia delle persone è importante perché il tessuto di una comunità è l’unione di storie. Questo è il motivo che ci spinge ad ascoltare le storie, rielaborarle in qualche modo per poi restituirle, vivendole dall’esterno, alle persone che ce le hanno raccontate. Noi abbiamo sempre in mente la scena di una prima comunità di nomadi, dove i cacciatori si allontanano per portare il cibo alla comunità, ma al loro ritorno portano anche il racconto delle esperienze vissute che si intrecciano con quelle delle persone rimaste al villaggio. I cacciatori non portano solo cibo per il corpo, ma anche per la mente. È un po’ quello che noi facciamo oggi quando invitiamo una persona a cena e il cibo diviene il tramite per potersi raccontare le storie. Tutto questo serve a legare le persone. B.V. Resta sempre un legame con le persone con cui sviluppi un discorso anche quando il tempo a disposizione è poco. Ad esempio dopo un lavoro che abbiamo fatto in Libano alcune persone, che abbiamo conosciuto li, sono venute a trovarci. Come concetto di vita quando andiamo in un posto ci interessa sempre conoscere le persone del luogo, instaurare con loro un legame e coinvolgerle nel lavoro che portiamo avanti. Si tratta di una legame fatto di tracce che rimangono dentro di te. D: Come vi rapportate con l’idea di conservazione delle opere? B.V. è un aspetto a cui non siamo molto interessati. Le persone vanno via, le idee si trasformano continuamente e anche le opere vanno vissute. Alcune opere sono fatte proprio per essere consumate dal tempo e anche questa può essere una componente artistica. La conservazione è una componente che non si può controllare perché possono venire fuori sempre delle problematiche che portano all’autodistruzione delle opere. Noi abbiamo realizzato opere fatte di un nastro di carta sottilissimo a cui abbiamo affidato le esperienze che ci avevano formato come persone perché, come tutti, non ci saremo per sempre. Abbiamo affidato le nostre esperienze, però, a un nastro così sottile che forse si degraderà più velocemente di una persona: si innesta questo gioco continuo e paradossalmente sono le storie che si trasformano, si intrecciano, ma si degradano di meno. Abbiamo realizzato una serie di lavori intitolati “come il vento” perché abbiamo immaginato come l’uomo si è propagato sulla terra e quindi come le storie delle persone, la lingua, le idee si incontrano con altre storie, altre lingue e altre idee per dare vita a un qualcosa di nuovo. Quando produciamo le opere la conservazione non è oggetto di riflessione per noi. D: Che cosa vi aspettate di trovare a Castelvenere? E quali risultati sperate di ottenere? B.V. Speriamo di poter istaurare dei bei rapporti con le persone e che ci venga in mente una buona opera. A volte si istaurano relazioni così importanti che l’opera finale è meno importante del processo che l’ha generata, altre invece viene fuori un lavoro che ti affascina. Sono degli aspetti non controllabili. Ora stiamo vivendo quel momento di tensione che vivi prima di vedere un luogo, di viverlo e di immaginare l’opera. È una bella tensione e speriamo che ci porti a fare un bel lavoro. La residenza a Castelvenere sarà breve, ma a volte le residenze succinte hanno generato un lavoro molto bello e che noi abbiamo sentito in maniera particolare. Tuttavia non vogliamo arrivare sul posto con un’idea prestabilita perché quello che ci interessa è fare il lavoro a Castelvenere e stabilire un contatto con le persone. D: Intervenire in contesti urbani e ambienti rurali: due realtà differenti. Cosa cambia nel vostro approccio? B.V. Abbiamo già fatto esperienze del genere e sostanzialmente non cambia niente. Il nostro approccio è lo stesso e il lavoro si sviluppa partendo dalle caratteriste del luogo e dalle persone che ci guidano. È questo che sostanzialmente può fare la differenza. D: Perché il vostro lavoro, ultimamente, è così legato al concetto di mappa, di confine, di territorialità definita o non definita, inclusiva ed esclusiva? B.V. Perché in realtà guardando una mappa si notano dei confini tra i territori che sono del tutto arbitrari poiché sono stati creati dall’uomo. Sulla terra non sono visibili questi segni. Questa linea definita in maniera arbitraria è un atto gravissimo che genera delle differenze (linguistiche, economiche, sociali, religiose) che con l’aumentare sfociano in conflitti. Noi lavoriamo proprio su questa idea di confine che genera un flusso inarrestabile. Lavoriamo sulle mappe anche per il legame che le persone hanno con il territorio. Quando si viaggia si intrecciano relazioni con altri luoghi e altre persone e alla fine una mappa che rappresenta te e i luoghi che hai attraversato è l’intreccio di tutti questi posti. A volte tagliamo delle strisce da mappe di luoghi dove siamo stati e intrecciandole viene fuori una cartografia che ti lega a quei posti. Il lavoro sulla linea di costa, invece abbiamo cominciato a farlo dopo aver letto il Mare non bagna Napoli, ci ha colpito molto la storia, ancora attuale, e proprio il titolo ci ha dato l’idea. La prima volta che abbiamo fatto un’operazione del genere abbiamo preso una cartina nautica dove è ben segnata la linea di costa, l’abbiamo incisa e abbiamo fatto questo gesto simbolico di ricucire il mare alla terra rendendoci conto che questo ci legava al territorio. D: Quindi se i confini sono costruzioni artificiali e politiche, non esiste neanche confine tra urbano e rurale? B.V. In realtà no. L’architettura a volte definisce un luogo urbano rispetto a un ambiente rurale, ma in realtà non si può dire che ci sono dei confini. Le persone che vivono in questi luoghi sono sempre le stesse anche se cambiano le dinamiche con cui si approcciano alla vita quotidiana. Non c’è questa differenza netta, è sfumata D: E invece i confini di potere e politici esistono tra urbano e rurale? B.V. Non c’è differenza, il potere esercitato può essere lo stesso in un territorio urbano e in uno rurale. Non ci sono perché mezzi di comunicazione come la televisione e la radio uniformano le dinamiche che potrebbero forse essere diverse in assenza di questi media. D: Quale segno volete lasciare sul territorio e nella comunità di Castelvenere? B.V. Più che lasciare un segno spero di riuscire ad intrecciare rapporti con le persone, perché si tratta di uno scambio in cui diamo qualcosa, ma al tempo stesso riceviamo anche. Il segno importante che spero di lasciare è il ricordo di questa esperienza aldilà dell’opera stessa che testimonierà la nostra presenza a Castelvenere. del luogo da parte della comunità. D: Rileggere un territorio rurale e la sua comunità in chiave artistica può portare alla riscoperta e alla riappropriazione dei luoghi, della storia e delle tradizioni locali? D: Quale ruolo può avere la ricerca artistica nell’ambito degli studi e delle pratiche legate alla ruralità? E quale può essere il valore aggiunto di artisti, come voi, che lavorano a stretto B.V. La nostra visione in un certo qual modo può contatto con la collettività, in questo cambiare le dinamiche di quel luogo e a portare a ambito? una maggiore consapevolezza. Ad esempio a Roccagloriosa abbiamo raccolto, in forma anonima, le risposte alla domanda “Che cosa manca?” e le abbiamo trascritte su vecchie lenzuola e tovaglie. Poi abbiamo chiesto alle persone che hanno partecipato al progetto di appendere al proprio balcone, la domenica mattina, una frase specificando che non sarebbe stata la loro frase ad essere appesa, ma quella di un’altra persona. In questo modo ogni persona coinvolta è diventata il veicolo per diffondere il messaggio di qualcun altro, magari anche del vicino con cui non era in buoni rapporti e anche questo è un modo per intrecciarsi in maniera del tutto casuale. In genere il nostro lavoro parte dalle storie delle persone, ma anche le tradizioni di un luogo possono ispirarci. La rilettura in chiave artistica può essere un modo per far cooperare le persone anche quando ci sono dei conflitti e lavorare sul territorio può portare alla riappropriazione B.V. Alla prima parte della domanda sicuramente può rispondere Leandro Pisano, curatore della residenza di Strade di Vini. Leandro, nonostante tutte le difficoltà, ha portato avanti vari progetti sviluppati sull’idea di rurale coinvolgendo le comunità e gli artisti. Per noi la partecipazione a questi progetti ha significato arricchire il nostro bagaglio culturale. L’idea di base rimane sempre quella di arrivare a uno scambio di visioni e la nostra visione sarà sicuramente diversa da quella di chi vive la comunità dall’interno. Quando saremo a Castelvenere avremo la prospettiva di chi viene da fuori e cercheremo di intrecciare le nostre esperienze con quelle della comunità. D: L’artista che viene da fuori e che vuole dare voce alle persone locali in qualche modo si pone in una posizione di potere che può diventare anche autoritativo, voi come cercate di lavorare per mitigare questo tipo di pericolo?e quanto è difficile il lavoro di traduzione delle storie delle persone? B.V. É una domanda interessante questa. Sicuramente la cosa più importante è la presenza di qualcuno del posto che faccia da tramite con la comunità e possa favorire l’incontro con le persone. In Libano, ad esempio, abbiamo condiviso con una famiglia tutta la vita quotidiana. Il nostro lavoro è partito dall’ascolto delle storie delle persone e le abbiamo restituite con il loro stesso linguaggio perché abbiamo deciso di riprodurle in arabo, ma al tempo stesso si sono intrecciate con la nostra cultura. All’inizio avevamo timore di essere visti come gli estranei che scrivono sui muri, ma le persone del luogo piano piano hanno iniziato a prendere confidenza con noi fino al punto di chiederci di scrivere una frase sul muro del proprio palazzo. È sempre una questione delicata. É una questione di sensibilità dell’artista che si confronta con le persone. Dipende dalla capacità delle persone di calarsi in un luogo, di avere l’umiltà di fare uno scambio reale e di non avere in mente solo il proprio percorso. Portare avanti solo il proprio lavoro implica una mancanza di capacità di ascolto e in questo caso non riesci ad intrecciare le tue storie con quelle di altre persone indipendentemente dal luogo. A Latronico noi abbiamo avuto modo di vedere come il processo che porta alla realizzazione dell’opera è ogni volta differente e ci sono artisti che riescono a coinvolgere di più le persone e altri che lo fanno meno. I RIFLESSI Leandro Pisano Curatore residenza Strade di Vini È un critico e curatore che si occupa di estetica del suono e delle nuove tecnologie, con focus specifico sullo studio dei territori rurali e delle aree marginali. Dottorando di ricerca in studi culturali e postcoloniali presso l›Università «L›Orientale» di Napoli, è direttore del festival di new arts Interferenze. Ha tenuto presentazioni, conferenze e workshop nel corso di eventi legati all’estetica dei nuovi media, al design ed alla sostenibilità in Brasile, Cina, Corea, Giappone, India, Islanda, USA, Germania, Inghilterra, Portogallo, Finlandia, Turchia. È giornalista, collabora con Blow-Up ed ha collaborato con il Corriere della Sera, Doppiozero e Neural MAPPE POLITICHE, MAPPE ESTETICHE, MAPPE RURALI: BIANCO-VALENTE E KULTIVATOR dominio di appartenenza trasformandosi in rappresentazioni, proiezioni, figurazioni del mondo che consentono di andare in profondità, di aprire spazi critici per portare alla luce le dinamiche ed i processi culturali, sociali, economici, geografici, storici e politici della realtà. Le cartografie posseggono una valenza politica, che a partire almeno dal Rinascimento le configura come strumenti della rappresentazione del potere e che nel globo contemporaneo emerge nelle dimensioni della rimozione, del non riconoscimento, dell’esclusività delle frontiere: Gibilterra, Tijuana, la frontiera del Mediterraneo o l’elusione della rappresentazione dei centri di sfruttamento, l’invisibilità dell’umanità in eccedenza sono elementi di una narrazione altra inespressa dalle mappe. Una cartografia costruita sull’opposizione tra inclusività ed esclusività, su tutto ciò che separa dal mondo esterno, su tutto ciò che divide la rappresentazione del mondo occidentale da ciò che sta fuori da esso, secondo la retorica della modernità che segna un confine tra civilizzazione e non civilizzazione, tra interno ed esterno, tra la sicurezza e tutto quello che fa paura Non più e non solo utensili del mestiere per stori- perché è all’esterno della frontiera. ci e geografici, le cartografie estendono il proprio Mappe, atlanti, topografie e dispositivi cartografici sono ormai parte costituente dell’immaginario visivo della contemporaneità. Sono tanti gli specialisti che oggi si servono di questi strumenti di rappresentazione: non solo geografi, topografi, architetti o urbanisti, ma anche artisti, designer, giornalisti e agenzie non governative. Gli ultimi decenni hanno registrato una vera e propria ipertrofia narrativa legata alle mappe, che impone un ripensamento della nozione di cartografia, in un senso che la riconfigura come un dispositivo multidisciplinare, multidimensionale e persino plastico. È per questo motivo che per costruire discorsi intorno alle mappe si sconfina in domini linguistici e metodologici che ad esse sono stati estranei fino a qualche decennio fa: l’arte, la filosofia, l’economia o l’architettura, per esempio. Le mappe, come afferma il geografo John Brian Harley, sono troppo importanti per essere lasciate solo ai cartografi, e c’è chi, come Karl Schlager, si spinge fino ad affermare che esse costituiscono l’humus di una nuova fenomenologia dello spirito, quella della cartografia, appunto. Confini politici e geografici che possono essere “ricuciti” attraverso pratiche estetiche, come avviene in “Linea di costa” (2013) serie di lavori di Bianco-Valente in cui i due artisti tracciano in rosso le frontiere geografiche di cultura, nazionalità ed accidentalità, lasciando allo spettatore il compito di partecipare ad un vero e proprio processo poetico di ricucitura del mare alla terra. L’arte consente di interrogare il senso del mondo, come suggerisce Iain Chambers, aprendo spazi critici e di discussione e riconfigurando i territori periferici, marginali come luoghi altri, eterotopici. Castelvenere, il borgo che ospita il progetto di residenza di “Strade di Vini”, diventa così uno dei luoghi in cui le pratiche estetiche consentono di ri-disegnare il senso di appartenenza al territorio rurale, ripensare la riconfigurazione storico-culturale del mondo rurale ed interrogarsi sugli ambiti semantici di termini come “comunità” o “identità”. Ha senso ancorare questi concetti ad una prospettiva che guarda al passato come a un patrimonio concluso di tradizioni statiche alle quali far riferimento con guardo nostalgico, oppure possiamo metterli in discussione nell’ambito dei processi che investono i movimenti e le migrazioni dai territori verso gli spazi esterni e da qui di nuovo verso l’interno, in dinamiche complesse che non investono solo corpi, ma anche culture ed idee? L’arte consente di rimettere in discussione categorie, termini e concetti spesso considerati come ovvi, dati per scontati, che possono trasformarsi nella percezione della realtà in veri e propri stereotipi. Permette di interrompere il flusso, il filo delle narrazioni lineari per trovarne e portarne alla luce altre dimenticate e rimosse. Per ricucire i vuoti, le separazioni nei fragili tessuti relazionali all’interno delle comunità, come avviene nei territori rurali in cui è ambientata la residenza di “Strade di Vini”. Castelvenere così si trasforma in uno spazio fisico interno al sistema dei media, il suo territorio diventa un medium in cui si realizza l’incontro inatteso tra gli artisti e la comunità locale. Così il collettivo svedese Kultivator può costruire insieme agli studenti locali uno spazio immaginario in cui confluiscono i desideri, le visioni, le percezioni di una Castelvenere futura ed utopica, riprogettata e ridisegnata come una proiezione onirica che incrocia tradizioni, tecnologie e miti dell’era contemporanea. Si tratta di mappe del desiderio che partono dal tera comunità, in un lavoro prodotto insieme agli abitanti stessi, invitati a scrivere di proprio pugno della relazione con i luoghi e con le persone con cui condividono gli spazi vissuti. Mani che intessono sottili strisce bianche di carta impresse ad inchiostro, che si incrociano nel fading ricorsivo dello schermo e poi svaniscono lentamente nel biancore Allo stesso tempo, ridisegnare i luoghi fisici e di una luminescenza diafana ed immateriale. dell’immaginario di una comunità significa dare voce e forma alle infinite tessiture, alle multiformi Mappe calligrafiche che costruiscono una narrapieghe di storie ed esperienze che si incrociano zione frammentata, che danno voce a storie inanello spazio limitato di un borgo come quello di scoltate, che definiscono il territorio rurale come Castelvenere. Narrazioni che vengono continua- uno spazio narrativo “aumentato”, come ambito mente scambiate, plasmate, trasformate da chi performativo e di sperimentazione di risultati inatabita questi luoghi. Così Bianco-Valente rendono tesi nell’incontro tra gli artisti e le voci dei paesagvisibile il tessuto di fili invisibili che sostiene l’in- gi, dei luoghi, degli abitanti della comunità locale. territorio locale per sradicarsi verso l’immaginario frammentato alimentato dalle visioni estetizzanti e remixate del web. Mappe che raccontano vite, storie, desideri futuri e che si sovrappongono a quelle fisiche di un luogo che si frantuma in un’infinità di mondi possibili da abitare. Roxana Adina Toma Irina Anca Toma laureanda corso di laurea magistrale in Archeologia e Storia dell’Arte – Seconda Università degli Studi di Napoli laureanda corso di laurea magistrale in Archeologia e Storia dell’Arte – Seconda Università degli Studi di Napoli È iscritta al corso di laurea magistrale in Archeologia e Storia dell’Arte presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Da sempre si è interessata di turismo e di beni culturali concentrando i suoi studi in questo ambito con particolare attenzione per l’arte, l’archeologia, il territorio, i sistemi museali e i nuovi mezzi di comunicazione. Collabora attivamente con l’artista sannita Aniello Saravo curando i testi critici e biografici e confrontandosi con le principali realtà italiane ed estere legate al settore dell’arte contemporanea. Laureata in Scienze del Turismo per i Beni culturali alla Seconda Università degli Studi di Napoli con una tesi sull’uso e sull’efficacia dei nuovi media digitali nell’ambito della diffusione e della comunicazione culturale. Appassionata di arte, storia, turismo e marketing culturale, ha indirizzato i propri studi in tal senso con un particolare riguardo per i beni culturali e la loro fruizione. Attualmente è iscritta al Corso di Laurea Magistrale in Archeologia e Storia dell’arte presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. STORYBOARD DELLA RESIDENZA ARTISTICA La settimana di residenza – 16/21 Febbraio – per noi è iniziata con l’incontro di Giovanna Bianco e Pino Valente alla stazione ferroviaria di Caserta, ma non era la prima volta che li vedevamo. Qualche settimana prima siamo andate nel loro studio a Napoli per una breve, ma interessante intervista. La voglia di rivederli era tanta e durante il tragitto per raggiungere Castelvenere abbiamo avuto modo di percepire la loro tensione e la loro curiosità di conoscere finalmente il luogo e le persone che avrebbero ispirato e generato la loro opera. Arrivati nel piccolo borgo vennerese abbiamo incontrato anche il collettivo svedese Kultivator: Mathieu Vrijman, Malin Lindmark Vrijman e i loro splendidi figli Moa e Ivar ci hanno raccontato del loro viaggio in macchina e dell’arrivo rocambolesco in tarda notte. Tutti insieme guidati dal curatore della residenza Leandro Pisano, siamo partiti alla volta di una prima e veloce scoperta di Castelvenere. Abbiamo concluso la giornata con una serata in cui gli artisti hanno avuto modo di conoscere i locali e lasciarsi coinvolgere dai brani della tradizione popolare riproposti dal complesso bandistico di Castelvenere. “Anche il paesaggio è memoria collettiva, oltre che scrigno di identità culturale e di tradizione. Il paesaggio, alla fine, siamo noi”. (Camilla Madinelli) La prima parte della residenza ha visto noi e gli artisti impegnati nella scoperta del piccolo borgo sannita. Fondamentali in questo percorso relazionale e di conoscenza sono stati gli storytellers locali Angelo Raffaele Scetta e Michele Pacelli. Le loro voci narranti ci hanno raccontato la storia del borgo medievale e dei suoi edifici storici, le tradizioni linguistiche, le peculiarità delle cantine tufacee, il paesaggio naturale di straordinaria bellezza, la cultura vitivinicola e l’impegno delle persone per mantenere vive le tradizioni, le usanze e i mestieri. Con la visita all’azienda vitivinicola I Pentri abbiamo avuto modo, insieme agli artisti e a tutto i gruppo di lavoro, di approfondire la vocazione stessa del paese. Dionisio Meola e sua moglie Lia Falato ci hanno mostrato e raccontato il processo di spremitura del passito, ci hanno guidato in un’ incantevole passeggiata tra i vigneti e ci hanno insegnato a riconoscere e raccogliere le erbe spontanee. Di certo non poteva mancare l’assaggio dei vini ed è stato così che abbiamo concluso la visita per poi rilassarci tutti insieme con un pranzo sociale dove i piatti della tradizione, rigorosamente preparati per noi dalla signora Lia, sono stati i protagonisti. Durante questa prima parte di residenza abbiamo avuto modo di vedere come Castelvenere è un luogo dove gastronomia e festività sono un bagaglio di ricchezza che si conserva grazie all’amore e all’orgoglio dei cittadini, fieri di tramandare feste, usanze e tradizioni in quanto valore preziosissimo della memoria familiare. Altrettanto interessante è stato scoprire come gli artisti hanno cercato l’ispirazione per le opere vivendo il paese e coinvolgendo le persone nel processo creativo delle stesse. La seconda parte della residenza è stata dedicata completamente alla realizzazione delle opere da parte degli artisti. Gli svedesi Mathieu Vrijman e Malin Lindmark Vrijman hanno lavorato fin dal primo giorno con un gruppo di ragazzi desiderosi di immergersi in un percorso artistico unico nel suo genere e che non si sono lasciati scoraggiare neanche dalle distanze: hanno risposto all’appello ragazzi originari di Benevento, Caiazzo, Telese Terme, Amorosi, ma anche di Castelvenere. È stata davvero un’esperienza straordinaria supportare i ragazzi e gli artisti che nei primi giorni di residenza hanno dato spazio alla creatività di gruppo: seduti tutti insieme intorno ad un tavolo o in giro per il paese l’obiettivo è stato quello di tirar fuori le idee che prontamente Malin inseriva in una mappa – Castelvenere, a nicer version of home – e che hanno portato alla co-creazione dell’opera. Ma da cosa abbiamo preso spunto? Dal uso del mascheramento durante il Carnevale! La festa, molto sentita dai locali, prevede la tradizionale rappresentazione de “I dodici mesi” e il corteo funebre di Carnevale che termina con il rituale falò e ha spinto tutto il gruppo di lavoro a realizzare delle maschere: cosa ci serviva? Gesso, garze, colla, colori, pennelli! Recuperato tutto il materiale necessario abbiamo dato il via alla produzione delle maschere: esilarante è stata la reazione dei ragazzi, un po’ tesi all’idea di dover utilizzare il gesso ma al tempo stesso anche curiosi di vedere la forma della propria maschera. Ispirati dal tema del vino e dei vigneti abbiamo decorato le maschere che, una volta ultimate, sono state esposte in un’istallazione realizzata attraverso l’uso di tralci di vite. Alla fine della settimana è stato meraviglioso vedere l’espressione soddisfatta e orgogliosa dei ragazzi che hanno contribuito e sono stati i principali attori dell’opera “Developing a new masque for Castelvenere – Into the vigne”. Certo le maschere di carnevale non sono una novità per Castelvenere, ma non c’è una produzione artigianale in tal senso e Malin ha lasciato i ragazzi e noi con un auspicio e con un’idea: dare inizio ad una nuova attività artigianale. “Io non catturo momenti, catturo idee” (Erik Johansson) saggio attraverso la manipolazione fotografica. Il tutto è cominciato con una passeggiata per le strade di Castelvenere e, armati di macchina fotografica, con un gruppo di lavoro che ha iniziato a “catturare” alcuni scorci del paese. Il passo successivo è stato quello di creare scenari surreali a metà tra realtà e immaginazione: ecco così che a Castelvenere abbiamo potuto incontrare personaggi politici come Angela Merkel, Vladimir Putin e François Hollande o ancora attori come Johnny Depp e Will Smith; abbiamo frequentato la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts e incontrato, tra una magia fotografica e l’altra, Harry Potter, Ron Weasley e Hermione Granger; abbiamo studiato in una biblioteca collocata in una splendida cantina tufacea; siamo andati al mare, abbiamo ammirato un nuovo skyline e ci siamo divertiti sulle montagne russe. Abbiamo giocato con la fantasia, le fotografie e i programmi di grafica per dare voce alle nostre idee e ai nostri desideri. Con il duo napoletano Bianco-Valente, invece, per la realizzazione dell’opera, abbiamo lavorato sulla Mathieu e Malin hanno lavorato molto sulla crea- modalità di lettura dei luoghi e sull’intreccio delle tività anche nell’ottica della cosiddetta digital art relazioni umane. Giovanna Bianco e Pino Valente utilizzandola per ridisegnare e rivitalizzare il pae- hanno voluto coinvolgere la cittadinanza nel pro- cesso di realizzazione. Ma per partire di cosa avevamo bisogno? Un tavolino, una sedia, delle strisce rigorosamente di carta velina, le penne scelte con estrema cura da Giovanna e Pino, una videocamera ed eccoci pronti per dare inizio all’opera! Abbiamo coinvolto bambini e adulti chiedendo loro di condividere con noi, scrivendo su una striscia di carta velina, un pensiero, un ricordo, un’esperienza o semplicemente raccontare Castelvenere. Sono state tante le strisce di carta velina raccolte! L’opera però non era ancora completa, dovevamo continuare con le riprese. Pino, con la sua videocamera, inquadrava le nostre mani e quelle delle altre ragazze mentre muovevamo le strisce e le intrecciavamo lottando con il vento che tentava di portarcele via. mente alla creazione di un’opera artistica in cui è racchiusa l’essenza di Castelvenere. Oltremodo affascinante è stato scoprire come Giovanna e Pino si sono lasciati ispirare delle storie, dai luoghi, ma soprattutto dalle relazioni intessute con le persone che hanno incontrato in questa breve esperienza di residenza. L’esperienza artistica si è conclusa con il finissage in una delle cantine tufacee, dove il curatore della residenza – Leandro Pisano – ha potuto raccontare la residenza, gli artisti hanno raccontato se stessi e le loro opere e noi abbiamo avuto l’occasione di raccontare la nostra esperienza anche con una serie di fotografie protagoniste assolute di tutta l’attività di storytelling che abbiamo portato avanti per tutta la durata della residenza. In questa occaÈ stato unico e veramente emozionante vedere le sione abbiamo anche avuto modo di incontrare il nostre mani protagoniste di un racconto fatto di sound artist Raffaele Mariconte e ascoltare i suoi immagini, gesti, frammenti di pensieri e ricordi e suoni del vino: “A Year in the Vineyard”. al tempo stesso sapere di aver contribuito attiva- BiancoValente Artisti in residenza Coppia nella vita e nell’arte Giovanna Bianco e Pino Valente http://www.bianco-valente. com/ hanno scelto il video e la sua installazione nell’ambiente come forma privilegiata di un racconto per immagini e suoni in cui si intrecciano la memoria, la percezione, il tempo e la visione. Conosciuti ormai nel panorama internazionale dell’arte contemporanea, hanno partecipato a numerose mostre collettive in Italia e all’estero, tra le quali Paris Photo nel 2007, Vesuvius curata da Gigiotto Del Vecchio a Pechino nel 2006, il progetto Artesto-Nokia Connect to Art presso la Triennale di Milano nel 2006, la Biennale di Venezia nel 2004, Cine y Casi Cine curata da Berta Sichel a Madrid nel 2004, Reisefreiheit curata da Kersting nel 2003 ad Amburgo e De gustibus curata da Achille Bonito Oliva presso il Palazzo delle Papesse di Siena nel 2002. Alcune delle opere sono entrate a far parte di prestigiose collezioni museali. TESSITURA Durante la nostra residenza a Castelvenere per la manifestazione Strade di Vini abbiamo riflettuto molto sull’idea che ogni luogo abitato (e in particolare i piccoli centri), sia assimilabile ad un tessuto di storie ed esperienze che vengono continuamente scambiate, plasmate, modificate dai suoi abitanti. Ed è questo tessuto di fili invisibili che tiene insieme tutta la comunità. Abbiamo quindi invitato diversi abitanti di Castelvenere a scrivere per noi alcune considerazioni sul loro rapporto con il luogo e la comunità in cui vivono su alcune sottilissime strisce di carta che nella seconda parte del video molte mani hanno iniziato a tessere insieme. Kultivator Artisti in residenza Fondato nel 2005 dagli artisti Mathieu Vrijman, Malin Lindmark Vrijman e Marlene Lindmark e dagli agricoltori Henric Stigeborn e Maria Lindmark, oggi è un progetto open di collaborazione sperimentale tra l’agricoltura biologica e l’arte visiva, situato nel villaggio rurale di Dyestad, sull’isola Öland sulla costa sud della Svezia. Con l’installazione di alcune attrezzature in una fattoria abbandonata, vicino alla popolazione agricola attiva, Kultivator http://kultivator.org/ offre uno spazio per la sperimentazione e la contaminazione tra arte e produzione agricola. Kultivator organizza progetti, mostre e laboratori che esplorano possibili narrazioni alternative all’interno delle pratiche artistiche e dell’agricoltura, con i membri del progetto e/o gli ospiti della fattoria. Sull’isola Kultivator ha una residenza, uno spazio espositivo e un caseificio con 30 mucche, polli, anatre, pecore e cavalli. Dall’inizio del 2005, circa 80 artisti, ricercatori e agricoltori ha visitato e ha lavorato sul posto. KULTIVATOR: ARTE ED AGRICOLTURA TRA PRATICHE ESTETICHE ED ATTIVISMO TERRITORIALE Una cooperativa di lavoro e pratica delle arti visua- declinato come “un matrimonio fruttuoso, serio, li, ma anche un luogo di residenze e mostre, perso tradizionale, che genera la domanda che riguarda l’amore ed il bisogno: cosa viene prima?” nell’entroterra rurale della Svezia meridionale. Nel corso di una conversazione Malin Vrijman, cofondatrice del collettivo Kultivator, ci guida alla scoperta di questo progetto che fonde arte, agricoltura ed attivismo territoriale. Malin si sofferma anzitutto sugli aspetti comuni che legano il lavoro di un normale contadino e l’opera di un artista, con specifico riferimento alla loro fattoria. Entrambi hanno, nella visione espressa da Malin, molte più cose in comune di quanto potremmo attenderci. L’uso della fattoria come studio per gli artisti non costituisce affatto un problema, ma rappresenta anzi una fonte di beneficio per il lavoro di gruppo. Kultivator si propone come un’organizzazione di mediazione anche rispetto agli studenti delle scuole, che vengono invitati ad avvicinarsi alla natura attraverso una serie di workshop che uniscono le pratiche estetiche ad una visione aperta e critica del territorio rurale. Kultivator è un’iniziativa che nasce dal desiderio di qualcosa di “meno catastrofico della società odierna”, che cerca di ipotizzare giorno dopo giorno soluzioni per promuovere o discutere possibili modalità di esistenza sostenibili, creativi, collettivi. È su questo desiderio che è stato costruito l’intervento di Kultivator in occasione del progetto “Strade di Vini” a Castelvenere: nel corso di una residenza di una settimana nel piccolo borgo sannita, il collettivo svedese ha proposto la collaborazione con un gruppo di studenti locali di età compresa tra i 14 e i 16 anni, per realizzare un lavoro di indagine del territori in cui ciascuno di essi è cresciuto. In questa presentazione, gli studenti “hanno mostrato a noi ed al resto del mondo qual è la percezione dei loro luoghi, ciò che è nascosto ai loro occhi, ciò che risulta ad essi strano e cosa li rende orgogliosi di questi posti”. Quali luoghi sono imMalin ci racconta del “matrimonio” tra arte ed agri- portanti dal punto di vista storico per questi giovacoltura che segna l’inizio di Kultivator nel 2010, ni, ma soprattutto: cosa accadrà in futuro quando cresceranno e vivranno a Castelvenere e, se deci- all’immaginazione di una possibile Castelvenere deranno di rimanerci, cosa faranno e come saran- futura. L’idea alla base di questo complesso ed affascinante racconto metamediale è che questo no? breve ed intenso workshop non “abbia costituito In questo lavoro di autonarrazione, Kultivator e semplicemente un evento singolo finalizzato alla gli studenti hanno utilizzato il format fotografico creazione di un lavoro, ma anche l’inizio di un ine quello video, scattando immagini e girando fil- ventario dei temi/delle questioni dell’area su cui mati focalizzati su una serie di temi scelti, legati concentrarsi anche per progetti futuri”. Raffaele Mariconte Ingegnere acustico Si occupa per professione e per passione di diverse tematiche inerenti il suono: sound e acoustic design, sonic branding, sonification, paesaggi sonori, field recording, architettura aurale e archeologia acustica sono alcuni dei temi di interesse e di studio. È soundengineer e dj in diversi eventi e festival nazionali. Fa parte della crew di Interferenze New Arts Festival e dei vari progetti collaterali (Farm, In Limina Orbis, Barsento Mediascape) nella figura di soundengineer/stage manager. Collabora con Flussi Media Arts Festival (AV) e nelle varie edizioni è stato relatore e coordinatore di talk su tematiche legate al suono e soundengineer. Altri progetti legati al suono che lo hanno visto coinvolto sono: Calitri Temporary Orchestra (Calitri AV), Suonabene (BN), Cultivar (BN), Reveil Soundcamp, Liminaria (San Marco dei Cavoti BN). Fa parte del gruppo nazionale dell’International Noise Awareness Day (INAD), con cui organizza progetti di educazione acustica nelle scuole. A YEAR IN THE VINEYARD A Year In The Vineyard è un progetto di esplorazione Il suono invece il protagonista di questa narrazione. delle attitudini soniche della produzione vitivinico- Paesaggi sonori naturali ed antropici, le impronte la, in particolare dell’area Sannita (Valle Telesina). sonore dei luoghi, le voci della tradizione, le narrazioni, i microsuoni organici dei processi chimici, Attraverso il suono si vuole raccontare un arco bilogici e fisici delle trasformazioni del mosto in temporale di un anno che racchiude tutte le fasi vino, i suoni delle macchine e degli impianti delle della produzione del vino. L’area geografica della cantine e le risonanze dei serbatoi in acciaio coValle Telesina, territorio a forte vocazione vinicola, stituiscono la biodiversità acustica alla base del esplorato in lungo e in largo a caccia di suoni. progetto. Microfoni, trasduttori a contatto e idrofoni costitui- Un’anteprima del progetto sulla pagina di sounscono l’interfaccia tra il mondo reale e la narraziocloud A Year In The Vineyard. ne. APPROFONDIMENTI Antonio Izzo Co-founder Festival Interferenze/Ufficio Bifolco Avvocato civilista, da quasi venti anni organizza eventi culturali. Socio di Ufficio Bifolco, è tra i fondatori del Festival Interferenze, per il quale segue in particolare degli aspetti tecnici della produzionee dell’allestimento, oltre che i profili legali dell’organizzazione. Si occupa di sviluppo e promozione delle aree rurali, nonché della valorizzazione delle produzioni locali. Appassionato di scienze e tecnologia, si dedica nel tempo libero alla lettura, alla grafica 3d ed alla musica. LE MAPPE: UN RACCONTO POLIFONICO DEL TERRITORIO La famosa mappa della metropolitana di Londra, disegnata da Harry Beck nel 1931, è una mappa topologica, non topografica. Le stazioni non sono rappresentate in esatta corrispondenza alla propria posizione nello spazio (sulla superficie), ma in base all’appartenenza alle varie linee del servizio sotterraneo. Tutte le mappe raccontano il territorio non solo elencando gli elementi che vi si possono riconoscere, ma anche chiarendo le relazioni che intercorrono tra questi elementi. re raccontato efficacemente soltanto ricorrendo a una pluralità di mappe, a un racconto polifonico in cui ciascuna linea contribuisce, anche a costo di contraddizioni, al risultato generale. Progetti di narrazione del territorio come Interferenze o, più recentemente, Liminaria, rappresentano proprio un tentativo di esplorare approcci non convenzionali alla narrazione dei territori, secondo prospettive inedite e spesso trascurate, per raggiungere quella pluralità di temi, punti di vista, proiezioni che permette di realizzare un racconto corale e organico Disegnare una mappa significa riconoscere, sco- del territorio. prire e, talora, istituire relazioni tra luoghi o, più in generale, tra dati. Nel mondo digitale tutti noi la- In questa ricerca è importante conservare l’autensciamo una miriade di tracce, di dati. Capire come ticità della narrazione. In teoria, è possibile applimetterli in relazione tra loro, disegnare una mappa care ad un territorio le stesse tecniche di narraziosulla quale collocare tali dati comporta potere e ne che vengono utilizzate per creare e mantenere in vita quel sottobosco di “celebrità” che animano, possibilità di profitto. ma il termine è eccessivo e fuorviante, i media che Disegnare una mappa significa descrivere una si occupano di gossip. Ma tali soggetti vivono, per serie di relazioni, raccontare storie. Disegnare la definizione, in mondo “altro”, costruito e validamappa di un territorio significa, in una parola, rac- to unicamente attraverso l’esercizio costante dei contare quel territorio. Ci sono moltissimi modi per meccanismi comunicativi che ne attestano la rilenarrare un territorio: ogni versione, ogni “mappa” vanza, senza necessità (anzi, senza neppure il deha pregi e difetti e, inevitabilmente, presenta lacu- siderio) di un reale incontro con i destinatari delle ne e distorsioni. Per questo, il territorio può esse- operazioni di marketing. Al contrario, la narrazione del territorio ha lo scopo di invitare i destinatari a interagire con il territorio narrato, a vistarlo, ad esplorarlo di persona. E quindi l’autenticità della narrazione (che non significa adesione ad un improbabile criterio di verità oggettiva, quanto tentativo di rendere onestamente, anche attraverso una narrazione dichiaratamente soggettiva e parziale, la propria visione del territorio) diventa un tratto essenziale, poiché rappresenta il rispetto di un patto, di un impegno alla buona fede che costituisce il nucleo fondante del rapporto tra chi offre e chi riceve la narrazione del territorio. Occorre, in definitiva, che le mappe che disegniamo, pur senza ridursi a meri esercizi di topografia, pur con tutte le licenze concesse al narratore di una storia, facciano emergere alcuni tratti della fisionomia del territorio e ci dicano su di esso qualcosa di utile, anche se parziale o addirittura opinabile, permettendoci di compiere la nostra personale esplorazione. Proprio come la mappa della metropolitana di Londra di Harry Beck, che è infedele ma ci porta a destinazione. Alessandro Ludovico Fondatore di Neural e docente all’ Accademia delle Belle Arti di Carrara Artista, critico dei media e ideatore e fondatore della rivista Neural. Ha pubblicato e curato diversi libri e ha tenuto conferenze in tutto il mondo. È uno dei fondatori del network Mag.Net(Elettronic Cultural Publisher). Ha inoltre insegnato Design multimediale, Humanistic Computer Science, Post-digital publishing e Post-digital print presso l’Università degli studi di Bari, la NABA Academy di Milano, il Royal College of Arts di Londra, la Willem De Kooning Academy of Art di Rotterdam, il National College of Art and Design di Dublino. Recentemente ha conseguito il PhD alla Anglia Ruskin University di Cambridge (UK). È l’ideatore e direttore della storica rivista «Neural», oltre che uno dei fondatori del network di editori Mag.Net (Electronic Cultural Publishers). Attualmente insegna presso l’Accademia delle Arti di Carrara. LA MAPPATURA NON VISIVA DI UN TERRITORIO La mappatura non visiva di un territorio è un aspetto affascinante, esteso e analizzato in molti settori degli studi musicali e sonori, ma ci sono una serie di riflessioni fatte che cercherò di sintetizzare raccontando brevemente da dove arrivo. Oggi arrivo da Bari dove vivo ormai da 25 anni circa, ma la mia storia inizia in un paese della provincia di Taranto di 17.000 abitanti (Castellaneta), un’esperienza fondamentale che mi ha fatto fruire il territorio in maniera simile al luogo in cui mi trovo oggi. Quello che è venuto dopo, la fondazione della rivista Neural, che parla di arte e nuove tecnologie, fondata 22 anni fa, nel 1993, deriva da quell’esperienza, perché nei luoghi più piccoli la percezione che si ha di sé rispetto al resto del territorio, delle comunità, della nazione, delle grandi città è più particolare, ristretta, soffocata in qualche maniera. Si riesce a fare una propria mappa delle relazioni locali, ma stabilire una relazione con il resto del mondo è molto più complicato. Coloro che di solito vanno all’estero, invece, vivono l’eterna dimensione dell’emigrato, cioè quella di stare in due posti contemporaneamente: hanno ancora le radici forti con il loro territorio, ma vivono in un altro con la tensione ad appartenere a un luogo che non è quello in cui risiedono, ma è quello in cui decidono di costruire la propria storia, la propria narrazione. Io l’ho fatto a Bari, creando questa rivista, il compimento di un principio che in realtà ho imparato da Stewart Brand, direttore della rivista ‘The Whole Earth Catalog’. Famosa la frase con cui Brand chiuse formalmente le sue pubblicazioni, attribuita poi a Steve Jobs, “Stay hungry, stay foolish” (restate affamati, ma restate anche bizzarri). La frase era, appunto, di Stewart Brand e la sua rivista si poneva l’obiettivo di fornire a ciascuno l’occasione e l’opportunità di rendersi completamente indipendenti, per costruire le proprie modalità di comunicazione con il resto del mondo, la propria comunità locale, in poche parole per scrivere la propria narrazione. Arrivato a Bari sono entrato in contatto con l’unica etichetta musicale di elettronica sperimentale che esisteva sul territorio e fortunatamente sono riuscito ad assecondare la mia passione (ossessione) originaria: fare una pubblicazione, cosa non semplice per un’etichetta musicale! L’idea era quella di fare come Stewart Brand: collegare le persone, far percepire la propria presenza, creare delle mappe astratte e delle narrazioni personali e individuali, dare l’opportunità non solo di dire “ne sappiamo anche noi di questa cosa”, ma che ciascuno potesse saperne di più e quindi accedere a tutto quello che si diceva sull’argomento. Abbiamo pubblicato quindi nel 1992 un libretto italiano/inglese chiamato Virtual Reality Handbook, con un cd allegato di musica ispirata al tema, che è andato esaurito in meno di un anno. A quel punto quasi in modo naturale e spontaneo è nata Neural. Neural doveva diventare un nodo nella rete, per il quale i lettori volevano passare, sapendo di trovare delle informazioni importanti perché selezionate da editor appassionati. Le reti sono dappertutto, assolutamente necessarie al nostro vivere quotidiano, ma quello che manca è un approccio critico. Come sarebbe diverso se tutte le foto, i commenti critici su Strade di Vini fossero stati raccolti invece che su Facebook e gli altri social network, su una piattaforma di proprietà locale, dove fossero ricercabili e dove fosse conservata la memoria narrativa, per dare l’idea di riappropriazione delle reti e cioè di quanto sia importante costruire il proprio network. Non ci sono reti solo nell’aere, ma rete è anche quella che noi costruiamo! La linea guida seguita nella mia vita lavorativa è stata quella degli attivisti politici delle reti, in particolare dell’Electronic Frontier Foundation di San Francisco che cominciava a parlare di reti da un punto di vista critico e rivendicava i diritti del cittadino digitale sostenendo il principio “think globally, act locally”, pensare in termini globali, ma agire in maniera assolutamente locale perché è nel piccolo che si riesce ad avere un riscontro efficace. È significativo ribadire la centralità del proprio territorio in relazione agli altri per costruire la propria prospettiva, ma sempre in relazione con gli altri e quindi costruirsi il proprio network. Le reti danno possibilità incredibili rispetto al passato, soprattutto le reti telematiche, quelle che ci mettono in comunicazione istantanea con un posto all’altro lato del mondo. Uno degli obiettivi di Neural era proprio quello di non restare soli, di andare a costruire un network, una rete con le altre riviste affini. Questo si è tradotto, nel maggio del 2002, in un incontro a Siviglia di 11 riviste internazionali stampate che trattavano di arte e new media e abbiamo fondato un network chiamato mag.net. Il nostro principio è stato di collaborazione reale e il nostro slogan “collaboration is better than competition”, cioè la collaborazione è meglio della competizione. Questo non significa appiattire tutto nel senso che ogni cosa fatta ha il suo valore assoluto e insindacabile; al contrario, dovrebbe servire da stimolo comune a migliorare, ad avvici- narsi sempre di più alle eccellenze, ma in un’ottica fortemente collaborativa. Che cosa abbiamo fatto in pratica? Condivisione delle conoscenze, un percorso in cui tutti i partecipanti e a distanza di 12 anni da quell’incontro, si continua a fare editoria con il loro piccolo e discreto successo di nicchia. Organizzare i propri network e quindi costruire la propria narrazione è assolutamente necessario, per riappropriarsi dei network e condividere le conoscenze, per esaltare le proprie peculiarità e creare un sistema non esclusivo, ma inclusivo, in cui la competizione diventa virtuosa. EXPERIENCE Gennaro Fontanarosa Strategic planner & Storyteller Nato e cresciuto nella provincia napoletana da cui ha ereditato il temperamento e l’amore per la semplicità e per la cultura tradizionale. Fellowship member del gruppo di ricerca informale Accademia Mediterranea di Societing di cui è editor & media executive e si occupa della progettazione di eventi formativi. In passato si è occupato di progetti di rigenerazione degli spazi urbani abbandonati nella provincia napoletana. Esperto di tecnologie digitali e di narrazioni crossmediali si occupa di strategie digitali per progetti di innovazione culturale. Esperto di Service Design for Rural Social Innovation è tra i fondatori di Rural Hub. STRADE DI VINI LAB: DISEGNARE MAPPE INTERSEMIOTICHE DI CASTELVENERE Lo studio della contemporaneità interconnessa ci mostra una struttura della società contemporanea (e delle relazioni tra i cittadini) che assume sempre di più la forma di una network society11, i cui cittadini risultano essere dei nodi connessi in forme istantanee di comunicazione nella quale la convergenza tecnologica, unita alla centralità ed immediatezza delle informazioni, ha effetto sulle dinamiche collettive ed individuali delle società. Il rapido sviluppo della multimedialità e delle tecnologie ipermediali ha tracciato nuovi percorsi per raccontare storie che nascono da gruppi comunitari. Queste tecnologie ci permettono di creare nuove forme di narrazione, frutto del missaggio di elementi digitali (immagini, suoni, video, testi), che consentono di raccontare storie utilizzando differenti piattaforme digitali coerenti con un progetto editoriale pre-organizzato, che oggi viene definito come Digital Storytelling. focalizzano su uno specifico argomento e contengono un particolare punto di vista. Le storie alla base del digital storytelling possono essere varie e vanno dalle storie personali al racconto di eventi storici fino alla possibilità di esplorare la vita della propria comunità attraverso forme narrative diversificate e innovative. Indagare queste forme narrative è stato l’animo del workshop Strade di Vini Lab, un’esperienza laboratoriale progettata per esplorare assieme a studenti del territorio della valle telesina le storie della comunità che vive il territorio di Castelvenere e della sua relazione con la produzione vitivinicola. Al laboratorio sono stati invitati a partecipare ventitre studenti selezionati da cinque istituti scolastici: Istituto d’Istruzione Superiore Telesi@ di Telese Terme; Il digital storytelling, nella sua forma più semplice, Istituto Tecnico Agrario Galilei-Vetrone di Guarè la pratica di usare strumenti informatici differenti dia Sanframondi; per raccontare storie. Come con le forme narrative tradizionali, la maggior parte delle storie digitali si Istituto d’Istruzione Superiore di Faicchio indirizzo Turistico e Castelvenere indirizzo Alberghiero; 11 Castells M. (1996), The rise of the Network Society, Blackwell, Oxford; trad. it. (2002), La nascita della società in rete, Milano, EGEA, pp. 75-77. Istituto d’Istruzione Superiore Carafa-Giustinia- L’approccio didattico è stato sviluppato seguendo tre fasi di lavoro. ni - Istituto d’Arte di Cerreto Sannita. Il workshop ha visto gli studenti incontrare esperti durante quattro giornate formative nelle quali hanno potuto confrontarsi con gli esperti ed apprendere tematiche quali la landart, il design, i nuovi media, la transmedialità. La prima fase è stata focalizzata sulla formazione teorico-pratica dei ragazzi, su cosa si intende per digital storytelling, sull’idea che ha spinto la realizzazione del laboratorio mostrando la strategia comunicativa progettata per condividere i contenuti nella rete. L’idea epistemologica che ha guidato questo esperimento è molto semplice: follow the medium (Rogers, 2009), imparare dal medium, ovvero sfruttare le tecniche che naturalmente utenti utilizzano per organizzare lo spazio digitale nel quale sono immersi. Twitter ed Instagram sono state le piattaforme preferite per questo esperimento in quanto offrono sintesi concettuale (un tweet può contenere al massimo 140 caratteri mentre Instagram permette di postare un’immagine o un video di pochi secondi) e attraverso gli #hashtag (dei meta-tag che fungono da collegamenti ipertestuali) vi è la possibilità di cercare e essere attore in un flusso discorsivo legato ad un particolare argomento, magari già attivo in rete. In questa ottica si è scelto di lavorare su gli hashtag #stradedivini, circoscrivendo il flusso relativo all’evento; #Castelvenere, ad indicare il territorio; #Wine e #Winelovers per dialogare con una community online degli amanti del vino. Qui un grafico che rappresenta le occorrenze degli hashtag utilizzati con le relative correlazioni. La seconda fase è stata caratterizzata dalla divisione in quattro gruppi di lavoro eterogenei a cui è stato assegnato il compito di studiare, registrare e catalogare quattro aspetti caratteristici del «paesaggio» castelvenerese, utilizzando gli strumenti che il digitale offre. Specificatamente agli alunni è stato chiesto di indagare: Gli studenti durante l’esperienza full immersion di learnig by doing hanno sperimentato tecniche e approccio allo storytelling del territorio attraverso gli strumenti digitali per narrare gli aspetti culturali del territorio di Castelvenere tramite un uso consapevole ed innovativo delle piattaforme offerte dal contemporaneo. Muniti di smartphone, tablet e fotocamere digitali gli studenti si sono immersi Il paesaggio storico: le fasi storiche del territorio di Castelvenre dalla nascita del nella conoscenza del territorio attraverso i volti, i suoni e le immagini di chi quel territorio lo abita e borgo sannita; ne accresce il valore attraverso il proprio lavoro. Le Il paesaggio vitivinicolo: come la coltura (e metodologie di ricerca sono state molteplici, prila cultura) vinicola influenza la vita e l’eco- vilegiando l’intervista con i cittadini/utenti di Canomia del territorio e come ne modifica la stelvenere registrando con immagini, suoni e video i contributi degli intervistati. morfologia e di come conserva i caratteri rurali e biodiversi; La terza parte è stata dedicata alla raccolta e orIl paesaggio culturale: l’insieme delle tradi- ganizzazione del materiale prodotto durante il lazioni religiose e folkloristiche, delle creden- boratorio e sviluppato una narrazione del paesaggio di Castelvenere utilizzando linguaggi, forme e ze popolari; strutture narrative proprio degli strumenti digitali Il paesaggio antropico: come l’azione ponendo attenzione alle strutture narrative, che umana sul territorio abbia modificato la potremmo definire. struttura fisica di un territorio e di come si immagina una riconfigurazione dello stesso Le esperienze raccontate con il lavoro degli stuin chiave contemporanea. denti attraverso linguaggi e metodologie proprie dell’infosfera esaltano la naturalezza delle storie in quanto il digital storytelling delle aree rurali non sottende a metodologie convenzionali, non vi è una costruzione di copioni preconfezionati ne i linguaggi utilizzati sono costruiti artificialmente, bensì lo storytelling nelle aree rurali restituisce storie autentiche e giacimenti di tipicità. gna una visione nuova del paesaggio vitivinicolo, non più distante, arretrato e privo di possibilità culturali ed economiche, ma una visione innovativa e un territorio ricco di opportunità imprenditoriali e culturali ancora da esplorare. La contemporaneità interconnessa riduce gli spazi e annulla la differenza tra la modernità metropolitana e le aree rurali ancorate al passato, proiettando prepotentemente le esperienze innovative rurali come elemento critico per ripensare nuove forme di sviluppo economico del territorio. Nel contesto culturale sopra descritto la finalità del laboratorio è stata quella di disegnare una (nuova) mappa digitale del territorio, che tenga conto delle relazioni umane esistenti e insistenti nel territorio legata alla pratica della produzione vitivinicola e che potesse inspirare la creazione di nuove In questa prospettiva dobbiamo re-immaginarci il geografie del racconto e universi immaginativi più web con un ambiente di conoscenza e narrazione complessi di quello originario (Giovagnoli, 2013). delle «relazioni sociali, delle vite delle persone e dell’appartenenza di queste vite a territori reali e Questa mappa (digitale), frutto della narrazione non immaginari». dei cittadini di Castelvenere, non ha pretese di oggettività, ma può essere interpretata come una traduzione intersemiotica (Jacobson) in quanto il laboratorio ha spinto gli studenti a intraprendere un’azione conoscitiva di Castelvenere, attraverso gli occhi dei cittadini, e successivamente un’interpretazione e una collocazione in un paesaggio «aumentato» delle storie in una mappa che dise- Aldo Colucciello Antropologo Antropologo dedito alla ricerca di campo in Italia ed all’estero si sta dedicando alle espressioni ed alla grammatica del visivo. È impegnato con l’associazione B.R.I.O. e organizza il Festival di “Visual Ethnography” Intima Lente. Dottore di ricerca in discipline etnoantropologiche, ha avuto diverse esperienze d’insegnamento universitario e collabora con diversi servizi educativi di varie sovrintendenze campane. STRADE DI VINI LAB Le esperienze servono a conoscere e la presenza su di un territorio, in un mondo globale, non può che essere una rilettura del territorio ed è esattamente quello che è successo in quel di Castelvenere attraverso il dipanarsi del workshop organizzato in occasione di “Strade di Vini”. I partecipanti attraverso i linguaggi dell’arte che rappresentano degli eccellenti strumenti atti a rileggere in senso critico un determinato territorio, sono stati la base dell’esperienza; i ragazzi sono stati spinti a confrontarsi con forme di espressione altre che hanno generato la giusta criticità; in questo modo la comunità, il contesto paesaggio, le micro-storie di Castelvenere, profondamente influenzato dall’esperienza vitivinicola, sono state il terreno di confronto aperto tra gli artisti ed i partecipanti che, attraverso la tecnica dello storytelling hanno provato a raccontare la cultura rurale in modo dinamico, intrecciando la tradizione del genius loci, sostenibile e condiviso per sua natura, con nuovi orizzonti che si ‘scontrati-incontrati’ con identità culturale e la sensibilità degli artisti. sina s’è creata quella situazione dove il territorio interpreta il territorio come una risorsa e finisce per collocarsi in un contesto più ampio che lo ha portato ad acquisire i caratteri di quello che i nuovi media chiamano paesaggio culturale. Da questo punto di vista partecipare all’arte è stato un momento di apertura in grado di raccogliere le emozioni ed i mutamenti che le sfumature del confronto generato tra arte e territorio in modo da esplorare orizzonti nuovi in questo contesto, che vanno ad intrecciarsi e a creare una nuova identità potenziale che nasce tra lo scambio culturale del luogo verso un mondo esterno rappresentato dell’altro come artista. Strade di Vini è stato un progetto di restauro scenografico per raccontare la realtà contadina in modo condiviso e sostenibile con l’intento di aprire uno spazio comunicativo in cui, da un lato, mettere in esperimento modelli culturali ed armoniosi che vadano ad aggregarsi alle risorse territoriali locali e che guardino a quei processi complessi propri della liquidità culturale e che dall’altro possano leggere in senso esplicativo concetti come “comuVista la partecipazione al workshorp di studenti nità”, “identità” e “genere”, pianificando le morfodelle scuole presenti sul territorio della Valle Tele- logie culturali delle aree interne legate ai cicli della terra con un fare attivo, attraverso l’eliminazione in chiave baumaniana come una serie di declinadi un’incertezza storico-culturale del mondo rurale zioni fluide che fanno della tradizione un luogo di che ne ha condizionato l’essere nei tempi passati. transito, quindi vivo rendendola un’opportunità per il paesaggio locale. Per questo in passato c’è stata In questo modo si dovrebbe attivare la trasforma- troppe volte l’urgenza di operare un taglio sulla trazione del paesaggio esteriore che deve gioco forza dizione in modo di tagliare i ponti col passato per fare leva sulla costruzione del paesaggio interiore. creare un’opportunità e per ripensarla in un’imLa vera sfida è quella di far crescere la conoscen- magine culturale emergente che generi un’energia za attraverso forme identitarie che non escludano propria che possano derivare da un altrove prossil’altro, vedendolo come un nemico, ma che matu- mo che possano essere rese concrete in pratiche rino e che coinvolgano relazioni e lascino matu- locali e non sfociare in nuovi colonialismi culturali. rare quei lasciti provenienti dalle culture materiali antecedenti, per conservare la percezione del loro Tutto ciò, alla fine, non fa altro che innescare le valore che è proprio del passato. È per questa ra- dinamicità culturali che sono sempre esistite e che gione che l’altro e l’ambiente devono essere co- hanno contribuito a creare il sistema mondo in una stantemente messi in discussione e che devono costellazione mobile, instabile ed andante. essere letti come elementi dinamici ma declinati CONCLUSIONI Alessandro Di Santo sindaco di Castelvenere La valorizzazione e la promozione del paesaggio credo debbano sposarsi con gli interessi economici di una comunità. Come avviene in altre zone vitivinicole italiane, ma anche in Francia e negli altri paesi europei, i terreni agricoli di pregio hanno un valore anche più alto rispetto a quelli urbani. Guidare la comunità verso l’acquisizione di questa consapevolezza e favorire progetti culturali come Strade di Vini nato con l’obiettivo di rileggere il paesaggio vitivinicolo per stimolare una riscoperta dei luoghi anche in chiave artistica, penso sia la direzione verso la quale orientare tutto il nostro lavoro politico e amministrativo. Spingere verso forme economiche sostenibili e innovative, valorizzare i giovani e il loro talento, attirare nuove risorse sviluppando progetti di ricerca come abbiamo già fatto in passato, deve tradursi in realtà per offrire un’opportunità reale agli studenti, principali attori di questa esperienza e del nostro futuro. Un invito a loro, ai ragazzi e ai giovani, che però deve riguardare tutti noi: bisogna crescere e puntare all’eccellenza perché non è più possibile fermare la competizione globale. Antonio Ciabrelli presidente GAL Titerno Come presidente del Gal Titerno , ma pure come cittadino e imprenditore di questo paese, vorrei esprimere la mia grande preoccupazione in tema di risorse e di gestione delle stesse se non riusciamo a comprendere le dinamiche che sono alla base dello sviluppo di un territorio. Abbiamo bellissimi paesaggi, grandi produzioni e anche capacità progettuali che però non riusciamo a rendere comuni e a concretizzare. Qualcosa blocca la normale evoluzione delle cose e spesso ci ritroviamo a dover rimuovere prima gli ostacoli culturali che ci impediscono anche una programmazione organica degli eventi sul territorio. Una prima e significativa acquisizione è: la presa di coscienza che ognuno di noi, sia come individuo che come componente di una comunità e ancora di più come rappresentante istituzionale, deve impegnarsi per immaginare una possibilità reale di cambiamento che passa attraverso nuove visioni di futuro, come avviene con il progetto Strade di Vini: una grande e bella intuizione per creare una diversa mappatura del territorio che sarà attraversato da un’esperienza culturale e artistica unica e singolare. Tabula Rasa Eventi STRADE DI VINI: RICREAZIONE DEL PAESAGGIO RURALE Come ricreare, o meglio ridisegnare il paesaggio rurale, partendo dai luoghi e dallo spazio fisico, attraversando quello umano per poi proiettarli in una dimensione culturale, artistica, estetica, fortemente orientata all’antropologia e ai nuovi media? Raccontare la ruralità in modo dinamico, condiviso e sostenibile è stato uno dei principali compiti cui sono stati chiamati sia gli artisti che gli esperti di Strade di Vini. I linguaggi dell’arte rappresentano dei potenti dispositivi per rileggere in senso critico il territorio rurale, fornendo strumenti e metodi “in grado di registrare ed accogliere la complessità ambigua con cui ridisegnare e abitare il territorio [...] in maniera diversa” (I. Chambers). Se lo scopo di tutto il progetto Strade di Vini era quello di generare una narrazione immersiva e completa del territorio, attraverso il coinvolgimento della comunità locale e, soprattutto dei vignaioli e delle loro famiglie, allora l’attività di storytelling ha svelato molte facce e tanti luoghi “non comuni” che in questo piccolo comune sannita, noto per essere La sfida più significativa? Aprire uno spazio relail “paese più vitato” d’Italia, convivono e danno forzionale in cui, da un lato, sperimentare modelli ma alla vita e al presente dei suoi abitanti. culturali ed estetici per reinterpretare le risorse rurali locali guardando a questi processi complessi; dall’altro, rileggere in senso critico concetti come “comunità”, “identità”, “tradizione”, riconfigurando i paesaggi della ruralità in senso attivo, attraverso un ripensamento della visione storico-culturale del mondo rurale. È questo il perimetro concettuale e pratico in cui si è realizzato il progetto di Residenza di Strade di Vini. La comunità, i paesaggi e le storie del piccolo borgo sannita di Castelvenere, fortemente ancorato da un’esperienza plurisecolare all’economia e alla cultura vitivinicola, sono diventati un territorio di un confronto aperto tra gli artisti e le voci dei luoghi. Questo progetto di ricreazione del paesaggio rurale è stato promosso dal Comune di Castelvenere e finanziato con una misura attivata sui fondi europei dal GAL Titerno, operativo da lungo tempo su un piano di riqualificazione dell’area del Titerno attraverso l’attuazione di un piano di sviluppo mirato. ESPERTI Iain Chambers Lidia Curti Gaia Salvatori Alessandro Ludovico Nadia Barrella Nicola Flora Antonio Izzo Francesco Martusciello Elena Martusciello Ignazio Gibbiino Aldo Colucciello Raffaele Mariconte Antonio Leone Alex Giordano Elio Mendillo Michele Pacelli Antonio Ciabrelli PARTECIPANTI AL WORKLAB CON KULTIVATOR Teresa Verrillo Floriana Cesare Brayan D’Aloia Alessia Cusano Moa Vrijman Ivar Vrijman Jessica Bucci PARTECIPANTI AL WORKSHOP STRADE DI VINI Istituto d’Istruzione Superiore Telesi@ di Telese Terme Elvira Trebisondi Floriana Cesare Jessica Bucci Nada Belhseine Istituto Tecnico Agrario Galilei-Vetrone di Guardia Sanframondi Giovanni Benevento Alfonso Scetta Pio Egidio Giuseppe Forgione Alfredo di Mezza Serena Di Lonardo Gregory Mazzarelli Istituto d’Istruzione Superiore di Faicchio indirizzo Turistico e Castelvenere indirizzo Alberghiero Immacolata Mancini Matteo Marinelli Gaia Di Muraglia Valentina Barone Valentina Carrubba Lorella Coletta Elena Rinaldi Giusy Grillo Istituto d’Istruzione Superiore CarafaGiustiniani - Istituto d’Arte di Cerreto Sannita Teresa Verrillo Cinzia Carlo Giulia Macolino Maria Chiara Moccia Andrea Fragola GLI ARTISTI Kultivator Bianco Valente Raffaele Mariconte STRADE DI VINI Curatore Residenza Leandro Pisano Direzione generale Raffaella Vitelli Guido Lavorgna Comunicazione e web Gennaro Fontanarosa Serena Giugliano Paolo Di Cerbo Ricerca Irina Anca Toma Roxana Adina Toma Segreteria Giulia D’Aloia Mariagianna Rossi Sara Bucci Riprese e montaggio Antonello Carbone Si ringraziano per la collaborazione la Cantina I Pentri la Cantina Torre Venere lo storyteller locale Angelo Raffaele Scetta lo storyteller locale Raffaele Simone la Proloco, il Forum dei Giovani, l’associazione musicale e la banda il sindaco e l’amministrazione comunale e tutta la comunità di Castelvenere per averci aperto la casa e anche il cuore. Bibliografia Ludovico, A. (2014). Post - digital print. La mutazione dell’editoria dal 1894 . Caratteri Mobili. Chambers, I. (2012). Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi. Bollati Boringhieri. Arvidsson, A.; Giordano, A. (2013). Societing Reloaded. Pubblici produttivi e innovazione sociale . Egea. Cerreta M., Flora N., Petrucci E. (2012), From complex values to situated microactions, in Gregori G.L., Marcone M.R. Le opportunità oltre la crisi. Prospettive manageriali e strategie pubbliche dei Paesi dell’Europa del Sud, Società editrice Escupalio, Bologna. Griseri P. (2014), “Vado a vivere in provincia”, in La Repubblica 7 ottobre 2014. Fabbricatti K. (2013), Le sfide della città interculturale, Franco Angeli, Milano. Flora N. (2013), I borghi dell’uomo. Strategie e progetti di ri/attivazione., Lettera Ventidue, Siracusa. Hillman J. (2004), Il senso dei luoghi, Bompiani, Milano. Castells M. 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