SVIZZERA Disubbidienze TEDESCA l a Chiesa raffreddata N egli ultimi mesi si sta manifestando in Svizzera una nuova ondata di insofferenza nei confronti del Vaticano. Il malcontento parte dal basso. E ha preso forma nella Pfarrei-Initiative Schweiz (Iniziativa delle parrocchie – Svizzera), ovvero in una presa di posizione scritta nel settembre scorso e firmata da quasi 500 operatori pastorali cattolici svizzeri (vedi il testo sul sito web www.pfarrei-initiative.ch) che – a partire dal portavoce, il diacono Markus Hell – si dicono «in comunione» con l’Appello alla disubbidienza austriaco lanciato nel giugno 2011 e siglato da quasi 400 parroci (Regno-doc. 15,2011,455). I fautori svizzeri dell’Iniziativa rivendicano il diritto di continuare a disobbedire ad alcune direttive ufficiali della Chiesa cattolica. L’idea non è tanto quella di ribellarsi alle autorità religiose locali, ma di spingerle a uscire da quella che costoro ritengono una palese situazione di ipocrisia. Vogliono, in altre parole, che i vertici della Chiesa riconoscano ufficialmente e legittimino ciò che è ormai prassi in numerose parrocchie della Svizzera tedesca: l’omelia domenicale tenuta da laici teologicamente formati, l’intercomunione con i riformati, la comunione ai divorziati risposati, la partecipazione degli omosessuali alla vita della Chiesa. Si prenda atto della prassi Al punto 3 del testo, per esempio, gli autori chiedono «per le coppie risposate una benedizione sulla loro relazione». «Consideriamo le persone con Le richieste degli operatori pastorali, la crisi a Coira. E l’abate di Einsiedeln dà l’allarme: «Manca il fuoco!». L’abate di Einsiedeln, Martin Werlen. i loro diversi orientamenti sessuali come nostre sorelle e fratelli – si legge invece al punto 4 – e ci impegniamo affinché siano parte della nostra Chiesa con tutti i diritti e i doveri». Al punto 5 si rivendica invece che nella «celebrazione dell’eucaristia e della Parola, la parola di Dio» venga «presentata nella predica (omelia) anche da donne e uomini battezzati e cresimati, formati teologicamente». D’accordo con i preti – hanno spiegato i promotori dell’iniziativa – «questi stessi laici, uomini e donne, dovrebbero poter pronunciare parti della Preghiera eucaristica». Il senso dell’operazione è tutto nell’ultima frase del testo: «Per questo – scrivono i firmatari – ci impegniamo affinché donne e uomini qualificati, indipendentemente dal loro stato di vita, siano consacrati a servizi di responsabilità nella Chiesa». Insomma, si chiede a una Chiesa a corto di preti e di vocazioni sacerdotali di affidare anche a semplici battezzati che abbiano una preparazione teologica la guida delle comunità cristiane. Il problema della carenza di personale ecclesiale, in realtà, è avvertito anche dai vescovi svizzeri. Monsignor Felix Gmür, vescovo di Basilea, davanti al Sinodo dei vescovi a Roma lo scorso mese di ottobre ricordava che «per la nostra situazione svizzera sarebbe importante ripensare se non ci sia un mandato ecclesiale che dia loro, a uomini e donne debitamente formati e preparati, una missione e un riconoscimento per l’attività pastorale che svolgono sulla base della loro dignità di battezzati. L’ascolto più profondo e un mandato ufficiale per i laici evangelizzatori sono due segni concreti che potrebbero renderci più credibili come Chiesa». L’imbarazzo dei vescovi Se però l’obiettivo dell’Iniziativa e dei vescovi su questo punto può essere lo stesso, i metodi per raggiungerlo divergono. La Conferenza dei vescovi è in imbarazzo. Da una parte non può ignorare richieste che non provengono da sparuti gruppuscoli di bastian contrari affetti da varie forme di complesso antiromano, bensì da numerosissimi «addetti ai lavori», uomini donne in prima linea nelle parrocchie e nella pa- Il Regno - 079-081_art_silini.indd 79 attualItà 4/2013 79 05/03/13 10.05 storale elvetica. Dall’altro non può riconoscere ai propri collaboratori pastorali permessi che Roma non concede a nessuno. Dopo aver inizialmente espresso stupore perché, invece di cercare un dialogo con i vescovi, gli operatori pastorali si erano presentati direttamente ai media, i vescovi svizzeri, per bocca del loro nuovo presidente, mons. Markus Büchel vescovo di San Gallo, hanno corretto la rotta esprimendo, a parole, volontà di dialogo. Ma il rischio che restino solo parole è molto alto. I vertici della Chiesa elvetica, infatti, non accettano che l’iniziativa si presenti come «un catalogo di evidenze» ed esiga un «riconoscimento pratico». L’impasse è quindi un dato di fatto. E uno scontro ancora più duro può essere dietro l’angolo. Mons. Gmür, per esempio, obietta ai 159 firmatari della sua diocesi che le «evidenze» non possono essere considerate legittime sono perché sono state messe in pratica da molte persone. E li invita a riflettere sul fatto che essendo collaboratori pastorali hanno sottoscritto l’impegno a lavorare conformemente all’insegnamento della Chiesa (che l’iniziativa contraddice). Il caso Huonder L’iniziativa delle parrocchie non nasce dal nulla. È il frutto quasi inevitabile di una situazione ecclesiale schizofrenica. Nella Svizzera tedesca, infatti, la grande maggioranza delle realtà cattoliche professa idee e propone pratiche pastorali di stampo «progressista». I vescovi lo sanno e cercano di mediare fra le richieste vaticane di una maggiore fedeltà a Roma e le esigenze della base. Ma basta che uno di loro si impunti in senso disciplinare e scoppia il putiferio. Era già successo negli anni Novanta con il vescovo di Coira Wolfgang Haas e sta succedendo di nuovo con il suo secondo successore, mons. Vitus Huonder. Huonder siede sulla cattedra di Coira dal 2007 – dopo un episcopato, quello di Amédée Grab, che per qualche anno aveva pacificato gli animi dei fedeli grigionesi – e da subito si presenta come una sorta di «restauratore» cattolico. Prima ancora di entrare in carica, in un’intervista al quotidiano Tages-Anzeiger, spiega di essere contra- 80 Il Regno - 079-081_art_silini.indd 80 attualità rio alle omelie pronunciate dai laici e all’ordinazione sacerdotale delle donne. Sono posizioni che in Italia non farebbero scandalo, ma pronunciate a Coira mettono immediatamente in allarme alcuni gruppi di fedeli e sacerdoti. E le critiche nei suoi confronti si moltiplicano. Le Chiese cantonali della diocesi (Grigioni, Zurigo, Glarona, Svitto, Zugo, Obvaldo et Nidvaldo) nel 2011 arrivano a pensare di chiedere al Vaticano di revocare la sua nomina. Ma Benedetto XVI gli conferma la sua fiducia. A questo punto il conflitto avviene allo scoperto e conosce risvolti politici. Lo scorso mese di novembre, Vitus Huonder promuove addirittura un’azione legale contro il Corpus catholicum, il parlamento laico della Chiesa cantonale grigionese che riunisce i membri cattolici del Governo e del Gran consiglio, 60 delegati delle parrocchie e due rappresentanti nominati dalla curia episcopale. Il vescovo aveva chiesto ai suoi delegati di bocciare un sussidio di 15.000 franchi annui al centro di consulenza Adebar, che si occupa anche di aborto. Ma i delegati non l’avevano ascoltato, limitandosi a decidere che Adebar non utilizzasse la somma versata per consulenze sui metodi di interruzione della gravidanza. La concessione non basta a Huonder, che resta irremovibile e passa all’azione legale contro i suoi rappresentanti. La spaccatura è drammatica ed è la spia dell’incapacità di dialogo fra la curia di Coira e la società civile cattolica grigionese. L’abate e la brace sotto la cenere Se i vescovi svizzeri si limitano a seguire impotenti lo spettacolo della divisione intraecclesiale a Coira, un giovane abate approfitta della maggiore libertà d’azione rispetto al Vaticano per appoggiare «dall’alto» le rimostranze della base cattolica frustrata. E diventa, suo malgrado, la bandiera della protesta antiromana. L’«anti-Huonder» è il benedettino Martin Werlen, cinquantenne abate di Einsiedeln in carica dal 2001, appassionato di nuove tecnologie (è seguito da più di 7.000 persone sui social network) e noto per aver criticato senza giri di parole diverse decisioni vaticane. Nel 2009, per esempio, non ha esitato a definire «un errore» la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. L’anno successivo ha chiesto a Roma di creare un registro centralizzato per prevenire il rischio di violenze sessuali nella Chiesa cattolica. I vescovi, in qualsiasi parte del mondo – aveva spiegato – avrebbero così la possibilità di raccogliere informazioni sui sacerdoti oggetto di denuncia, soprattutto in caso di trasferimento da una diocesi all’altra. Dopo avere subito un grave incidente che l’ha costretto, in convalescenza, a imparare di nuovo a leggere e a scrivere, l’abate, ormai a fine mandato, si è infine imposto all’opinione pubblica per l’uscita di un libretto esplosivo. S’intitola Miteinander die Glut unter der Asche entdecken, cioè «Scoprire insieme la brace sotto la cenere». In ottobre, inaugurando l’Anno della fede nella sua abbazia, Werlen ha fatto propria, un’espressione del card. Carlo Maria Martini nell’ultima intervista rilasciata poco prima di morire: «Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza». Quel discorso dell’abate è stato poi rielaborato nel libriccino citato. Ma cosa dice, in sintesi, Werlen? Sostanzialmente che la situazione della Chiesa cattolica oggi è «drammatica» e non solo in Svizzera o nei paesi di lingua tedesca. A suo modo di vedere continua ad aggravarsi la mancanza di preti e religiosi, mentre cala costantemente la pratica domenicale... Eppure, dice, il vero problema è altrove: «Manca il fuoco!», scrive. Circa il 20% della popolazione svizzera non appartiene ad alcuna comunità di fede e questa tendenza è in aumento. «Se le cose proseguono così – osserva Werlen – la nostra fredda Chiesa, a queste latitudini, può effettivamente scomparire, con le sue istituzioni». Werlen si pronuncia anche a favore dell’Iniziativa delle parrocchie. La disobbedienza, sostiene, consiste nel non prendere sul serio persone e situazioni. «Poiché coloro che hanno la responsabilità non si rendono conto della situazione e sono quindi disobbedienti, nascono iniziative che sono grida d’aiuto, interventi d’emergenza, che sono sì comprensibili, ma che possono anche condurre alla spaccatura o all’abban- 4/2013 05/03/13 10.05 dono dell’istituzione». Più in generale, l’abate benedettino alza la voce contro la mancanza di dialogo dentro la Chiesa: «Se i problemi non vengono affrontati o se neppure è lecito parlarne, con questo comportamento ci si gioca la credibilità – e con essa però anche la fede. È in gioco l’essenziale!». Lo scorso 22 gennaio l’abate di Einsiedeln ha divulgato su Twitter la notizia delle sue dimissioni con il commento: «Good news ;-)», aggiungendo il link a un comunicato dell’abbazia. L’abate vuole esercitare le sue funzioni fino al termine dell’anno per poi ritornare nelle file dei confratelli. Può darsi che non se ne senta più parlare per un po’, ma nel frattempo il suo volumetto va a ruba e continua ad alimentare le discussioni e a fornire delle motivazioni ai cattolici critici svizzeri. Chiese vuote In conclusione, il momento di generale impasse della Chiesa elvetica, sia al suo interno sia nei confronti di Roma, è innegabile. E anche se la tensione non è ovunque così acuta come nella diocesi di Coira (c’è più calma nella Svizzera francese e in quella italiana), l’assenza di soluzioni immediate a portata di mano rischia di esacerbare ulteriormente gli animi. Di fatto la crisi mette sotto gli occhi di tutti un forte scollamento fra le indicazioni teoriche del Vaticano e la pastorale pratica sul campo. Ma, più profondamente, non sono tanto o solo le divergenze dottrinali a fare problema, bensì lo scontro fra due culture difficili da conciliare: quella centralista e verticistica romana e quella profondamente democratica svizzera. È un fatto: fino a quando i vescovi accettano di discutere a viso aperto coi propri fedeli, le ferite non sono quasi mai insanabili. Se però scelgono la via dei diktat, la spaccatura diventa inevitabile. Con due sbocchi egualmente discutibili, la disobbedienza o l’abbandono. Non è una boutade. L’anno scorso, secondo un studio zurighese, il numero di cattolici che hanno lasciato la Chiesa a Coira era più alto del 24% rispetto alle altre diocesi svizzere. I ricercatori non hanno dubbi: la colpa è dei problemi interni alla comunità cattolica grigionese. Carlo Silini Germania Ve scov i a cui si ispira l’ospedale. Gli ospedali si sono comunque scusati, dopo l’accaduto, per non aver accolto la ragazza. A favore il card. Meisner La pillola dopo la violenza è «fuori discussione che negli ospedali cattolici si aiutano le donne vittime di stupri a livello umano, medico, psicologico e spirituale. È da comprendersi in questa chiave anche l’eventuale somministrazione di una “pillola del giorno dopo”, nella misura in cui questa sia preventiva del concepimento e non abortiva. I metodi farmacologici e medici che hanno come effetto la morte dell’embrione non possono essere utilizzati». Così, nella conferenza stampa del 21 febbraio scorso a Treviri, mons. Robert Zollitsch, arcivescovo di Friburgo e presidente della Conferenza episcopale tedesca (DBK), ha sintetizzato l’esito della discussione avvenuta nella plenaria dei vescovi tedeschi. A introdurre nell’ordine del giorno questo tema è stato il fatto avvenuto a metà dicembre: a una ragazza di 25 anni, violentata in stato di incoscienza per la somministrazione delle gocce «K.o.», che si era recata al pronto soccorso dove aveva ricevuto i primi aiuti e la prescrizione della pillola del giorno dopo, era stato consigliato di compiere immediatamente gli accertamenti necessari per rinvenire eventuali tracce genetiche che potessero condurre all’identificazione di chi l’aveva violentata. La ragazza si era quindi rivolta a due cliniche cattoliche a Colonia, in cui non avrebbe ricevuto accoglienza, e quindi ha sporto denuncia. Secondo quando scritto da una delle due cliniche, parrebbe che la ragazza avesse telefonicamente chiesto di poter effettuare gli accertamenti e la somministrazione della pillola, già prescritta. In ogni caso, l’ospedale aveva invitato la ragazza a rivolgersi altrove, dal momento che la pillola non avrebbe potuto esserle somministrata, sulla base dei principi etici «Ciò che è avvenuto nel dicembre scorso, alla giovane donna che si era rivolta a due cliniche cattoliche, non sarebbe mai dovuto accadere: ha cercato aiuto in un momento di grande bisogno e non ha trovato accoglienza». Così si è espresso il card. Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, in una dichiarazione del 22 gennaio. «Questo fatto ci umilia profondamente, poiché contraddice il nostro dovere cristiano e la nostra auto-comprensione», ha detto l’arcivescovo, mentre ha chiarito che «non c’è nessuna indicazione dal punto di vista ecclesiale di trattare in maniera differente, o addirittura ricusare le vittime di una violenza». Allo stesso tempo, il cardinale ha ribadito con estrema chiarezza la posizione cattolica per cui si rifiuta «qualsiasi provvedimento che significhi la morte di un bimbo probabilmente già concepito». Per l’arciovescovo di Colonia «la difesa della vita è un limite invalicabile», pur nella consapevolezza che ciò porta a «decisioni difficili da sostenere». Ad esempio in caso di violenza sessuale. Se si relativizza la posizione della difesa della vita a tutti i costi e in qualsiasi situazione, si relativizza in generale la dignità umana. Il 31 gennaio il card. Meisner è tornato sulla questione precisando che «se dopo una violenza sessuale, viene somministrato un preparato, il cui principio attivo impedisce la fecondazione, onde evitare la riproduzione, dal mio punto di vista è accettabile». Resta quindi il divieto per l’utilizzo delle pillole che agiscono per impedire l’impianto di un embrione già fecondato: «La natura che pone fine a una vita umana è evento naturale. L’imitazione intenzionale di ciò è omicidio», scrive Meisner. Di fronte ai vescovi riuniti a Trier in assemblea plenaria, il cardinale Karl Lehmann, presidente della Commissione per la dottrina della fede della DBK, ha esposto le valutazioni morali sull’utilizzo di questi preparati farmacologici, in uso da un paio di anni. Ha chiarito Zollitsch ai giornalisti: «È comunque necessario che, dopo le prime prese di posizione sulla “pillola del giorno dopo”, si approfondiscano – anche in contatto con i responsabili di Roma – le ulteriori implicazioni della questione e che vengano fatti i necessari distinguo». Sarah Numico Il Regno - 079-081_art_silini.indd 81 attualità 4/2013 81 05/03/13 10.05