Senago 2011 «VATTENE DALLA TUA TERRA» In cammino verso la fraternità Luca Moscatelli introduzione Dio parla… Ma come si fa parola? E soprattutto: come questa parola arriva a riguardare ciascuno di noi? Nella rivelazione biblica Dio parla attraverso l’esistenza concreta di persone che hanno saputo ascoltare la sua «voce invisibile, annidata nel più segreto di ogni creatura» (Catherine Charlier, Le matriarche). Se queste esistenze ci parlano ancora oggi è perché in esse, se lo vogliamo, riconosciamo qualcosa di quella «voce» che si annida anche in noi. Ma la sorpresa è che per rivelarsi Dio non ha scelto «luoghi» eccelsi, per noi inarrivabili: gli eletti attraverso i quali Egli ha parlato sono state assai spesso persone normali, a volte perfino mediocri o addirittura scadenti. E la loro esperienza viene narrata proprio perché essa possa diventare anche la nostra esperienza. La grandezza di questi testimoni è stata soprattutto quella di aver saputo ascoltare e accogliere il Dio che, nonostante le loro pochezze, li chiamava e affidava loro un compito (per lo più quasi incredibile, almeno all’inizio). Condotti dal Signore, hanno anche capito che quanto nel frattempo accadeva non era qualcosa che riguardava soltanto la loro esistenza, ma serviva alla benedizione di molti altri. Accosteremo, sia pure assai brevemente, alcune di queste figure grati per la misericordiosa condiscendenza di Dio che si manifesta nella loro vicenda. «Dio [infatti] – scrive Enzo Bianchi – è sempre il Dio di qualcuno. Il nostro Dio, il Signore al quale aderiamo e che amiamo senza averlo visto e senza poter adesso fissare lo sguardo in lui (1 Pietro 1,8), è anzitutto il Dio di altri: il Dio di Abramo, di Mosè, di Elia, di Giovanni il Battezzatore, di Maria, di Pietro, di Paolo… E’ il Dio dei nostri padri e delle nostre madri…, il Dio che assume un nome in riferimento a coloro che egli chiama fino a quasi nascondersi dietro il nome dei suoi eletti… Allora prima di essere il “mio Dio” è il Dio di altri e io non posso conoscerlo senza ascoltare le parole già rivolte agli eletti, senza ascoltare ciò che questi hanno raccontato di lui avendolo ascoltato». La promessa del nostro itinerario, che è davvero una «buona notizia», è questa: leggendo di questi testimoni potremo fare un po’ nostra la loro intimità con il Signore. Due rapide premesse, importanti per capire il senso dei nostri incontri. La prima riguarda le caratteristiche delle narrazioni bibliche. In generale la narrativa antica rispetto a quella moderna è meno psicologica (più attenta all’azione) e più tipizzante (meno attenta alla singolarità dell’esperienza). Nella bibbia, tuttavia, per esempio rispetto a Omero, la caratterizzazione del personaggio è piuttosto opaca, meno diffusa, molto concentrata, reticente, non fissa (Ulisse non cambia, Giacobbe sì; Ulisse ritorna a casa, Giacobbe è nomade…), con il risultato di fornirci ritratti tendenzialmente molto più complessi. Il modo in cui viene narrato il personaggio biblico, insomma, rispetto alla letteratura greca è inferiore in accuratezza ma assai superiore in realismo. Perciò è più fedele alla complessità della storia e della persona. Proprio per questa fedeltà alla realtà la tensione drammatica della narrazione si fa enorme: una storia singolare eleva una pretesa inaudita verso il lettore, per quello che esige da lui (conversione) e insieme e soprattutto perché narra una vicenda che potrebbe essere la sua. Io potrei addirittura essere Abramo, Elia, Pietro, ecc… Il risultato è l’offerta del sublime nel quotidiano, o addirittura l’esaltazione a sublime del quotidiano (che resta tale). La caratterizzazione antieroica del personaggio biblico è visibile ovunque nel testo. La costituzione di questi personaggi è «modesta»; ma proprio per questo essi sono archetipi della fede per tutti. 2 La seconda premessa riguarda la pista di ricerca che cercheremo di esplorare. Il modo in cui questi personaggi vengono «configurati» fa emergere tratti comuni. In particolare, l’incontro che essi fanno con Dio li fa uscire (esodo) e li colloca in una situazione di itineranza (cammino). L’abbandono del padre e della madre (che vale da Adamo ai discepoli di Gesù), il nomadismo, l’esperienza di essere stranieri e il confronto con genti straniere, accomuna praticamente tutte le figure bibliche e rappresenta insieme l’effetto dell’incontro con Dio e il luogo della rivelazione di tratti sempre sorprendenti del volto del Padre. Per questo cammino – durante il quale viene a loro donato un nuovo sguardo sugli altri, su Dio e su se stessi – giungono alla consapevolezza sempre più profonda di essere figli di un unico Padre, e così fratelli di tutti, anche di coloro che appaiono lontani, segnati come sono da una grande distanza rispetto alla loro esperienza. E’ questa la condizione affinché da essi «passi» la benedizione di Dio su tutti coloro che incontrano e che in molti modi ricordano agli eletti il loro privilegio e insieme il loro compito. Sempre l’itineranza in Dio è anche e strutturalmente scuola di solidarietà. Nei due sensi della relazione: solidarietà ricevuta e solidarietà offerta. Con una precisazione però: la resistenza degli eletti a riconoscere la fraternità che li pone in relazione con tutti viene superata anche e non marginalmente grazie all’offerta gratuita della solidarietà da parte di alcuni di questi «stranieri». E’ questa offerta a condurli a comprendere ciò che il Dio Creatore e Padre di tutti voleva da loro fin dal suo primo incontro, cioè che i suoi eletti diventassero occasione di benedizione per «tutte le famiglie della terra» ovvero rivelazione di una «parentela» universale. 3 1. ABRAMO A GERAR 1 Abramo levò le tende, dirigendosi nella regione del Negheb, e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò 2 come straniero a Gerar. Siccome Abramo aveva detto della moglie Sara: "È mia sorella", Abimèlec, re 3 di Gerar, mandò a prendere Sara. Ma Dio venne da Abimèlec di notte, in sogno, e gli disse: "Ecco, 4 stai per morire a causa della donna che tu hai preso; lei appartiene a suo marito". Abimèlec, che non 5 si era ancora accostato a lei, disse: "Mio Signore, vuoi far morire una nazione, anche se giusta? Non è stato forse lui a dirmi: "È mia sorella"? E anche lei ha detto: "È mio fratello". Con cuore retto e mani 6 innocenti mi sono comportato in questo modo". Gli rispose Dio nel sogno: "So bene che hai agito così con cuore retto e ti ho anche impedito di peccare contro di me: perciò non ho permesso che tu la 7 toccassi. Ora restituisci la donna di quest'uomo, perché è un profeta: pregherà per te e tu vivrai. Ma se tu non la restituisci, sappi che meriterai la morte con tutti i tuoi". 8 Allora Abimèlec si alzò di mattina presto e chiamò tutti i suoi servi, ai quali riferì tutte queste cose, e 9 quegli uomini si impaurirono molto. Poi Abimèlec chiamò Abramo e gli disse: "Che cosa ci hai fatto? E che colpa ho commesso contro di te, perché tu abbia esposto me e il mio regno a un peccato tanto 10 grande? Tu hai fatto a mio riguardo azioni che non si fanno". Poi Abimèlec disse ad Abramo: "A che 11 cosa miravi agendo in tal modo?". Rispose Abramo: "Io mi sono detto: certo non vi sarà timor di Dio 12 in questo luogo e mi uccideranno a causa di mia moglie. Inoltre ella è veramente mia sorella, figlia di 13 mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è divenuta mia moglie. Quando Dio mi ha fatto andare errando lungi dalla casa di mio padre, io le dissi: "Questo è il favore che tu mi farai: in ogni luogo dove noi arriveremo dirai di me: è mio fratello"". 14 Allora Abimèlec prese greggi e armenti, schiavi e schiave, li diede ad Abramo e gli restituì la moglie 15 16 Sara. Inoltre Abimèlec disse: "Ecco davanti a te il mio territorio: va' ad abitare dove ti piace!". A Sara disse: "Ecco, ho dato mille pezzi d'argento a tuo fratello: sarà per te come un risarcimento di 17 fronte a quanti sono con te. Così tu sei in tutto riabilitata". Abramo pregò Dio e Dio guarì Abimèlec, 18 sua moglie e le sue serve, sì che poterono ancora aver figli. Il Signore, infatti, aveva reso sterili tutte le donne della casa di Abimèlec, per il fatto di Sara, moglie di Abramo. (Genesi 20) Itineranza L’itineranza caratterizza molte delle grandi figure bibliche. Tutte? Sembrerebbe di sì e sarebbe assai interessante eseguire una verifica. In ogni caso il dato è talmente macroscopico che si impone come elemento necessario per la riflessione. Verrebbe da pensare che si tratta di un elemento strutturale della fede. Se così fosse, non si darebbe esperienza credente senza una qualche forma di itineranza. Questa constatazione sembra possa valere anche per la vita umana in generale: quando incontriamo la realtà (degli altri, del mondo, di Dio…) essa interpella, chiama fuori, spinge, mette in movimento. Inevitabilmente. Uscire, muoversi, itinerare, cercare, sono dunque modi fondamentali dell’umanizzazione. La rivelazione di Dio nella storia di Israele, e poi soprattutto nella vicenda di Gesù e della sequela dei suoi discepoli, mostra come il Signore stesso sia itinerante, in movimento verso di noi e con noi. E’ quello che chiamiamo struttura «esodica» (o «esodale») della vita e della fede, una struttura che non riguarda solo noi in quanto uomini, ma che appunto riguarda anche Dio in quanto «persona». Diventare persona, cioè esistere come relazione, 4 presuppone l’uscita da sé per incontrare l’altro. E questo vale per gli uomini non solo né soprattutto perché sono esseri limitati, ma in quanto sono «immagine» di Dio. E’ Lui il primo che – se così si può dire – per incontrare l’altro esce da se stesso. Il vivere autentico è dunque esperienza (esperire = andare da e attraverso, viaggiare) e quindi al suo inizio, e poi ancora molte volte lungo il cammino, la vita è caratterizzata appunto dall’uscire, dall’attraversare, dall’oltrepassare. Uscire da cosa? L’evento fondatore dell’esodo dice «uscita dalla schiavitù», dal peccato, dall’ignoranza di Dio e degli altri… Tuttavia, più a monte, uno dei tratti che emerge dalle figure che prenderemo in considerazione mostra una sorprendente costante: l’incontro con Dio chiede l’emancipazione (l’«abbandono») del «padre» (e della «madre»), chiede di prendere le distanze dal proprio ideale di paternità (di maternità) come movimento necessario alla libertà di sé e degli altri. Chiede insomma una presa di distanza dai legami che ci hanno dato un inizio, in un certo senso anche dal legame con il Creatore, come movimento necessario alla verità dell’incontro / degli incontri che assegnano un senso (una direzione) alla vita. Questo movimento è necessario per poter incontrare davvero altre persone, ma anche per riuscire a ritrovare nuovamente quelle che ci hanno generato. L’itineranza non assume il suo carattere peculiare nel tempo senza passare anche attraverso momenti di «erranza». E’ una ricerca, e come tale essa ha momenti di blocco, smarrimento e anche regressione. Soprattutto in questi momenti sono le «presenze fraterne» che incontriamo (sorta di «angeli», spesso inconsapevoli della loro «missione») a riorientare il nostro cammino: 12 13 I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: "Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro". Gli rispose: 14 "Eccomi!". Gli disse: "Va' a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a 15 darmi notizie". Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli si 16 aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: "Che cosa cerchi?". Rispose: "Sono 17 in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare". Quell'uomo disse: "Hanno tolto le tende di qui; li ho sentiti dire: "Andiamo a Dotan!"". Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. (Genesi 37) Sempre l’itineranza è in qualche modo allontanamento dalla paternità e ricerca / cura della fraternità. Un allontanamento necessario anche, e forse soprattutto, per comprendere Dio; o quanto meno per equivocare il meno possibile il suo volto. E’ facile per noi pensare male di Dio. Il sospetto che Egli ci tenga sottomessi impedendoci di prendere quello che pure appare a portata delle nostre mani, e addirittura il desiderio di prendere il suo posto emancipandoci dalla nostra «minorità» (cf Genesi 3: «sarete come Dio» suggerisce il serpente), costituisce il nostro «peccato originale». Che consiste nell’«uccidere» Dio: o perché cerchiamo di prendere il suo posto; oppure perché gli assegniamo il posto di un Padre-padrone (dove Lui, il Dio vero, non c’è). In entrambi i casi consegniamo il volto di Dio alle peggiori immagini della paternità e il nostro prossimo alla figura di avversario, giacché ci ritroviamo a fare una gara «mortale» per conquistarci il favore del Padrepadrone. Allontanarsi da questa paternità (che però è quella che abbiamo in cuore da sempre) è il cammino da fare per ritrovare i tratti sorprendenti della autentica paternità di Dio. La possibilità di vedere finalmente nell’altro un «fratello» dipende strettamente da questo cammino. E d’altra parte trovare qualcuno che ci offre la sua fraternità pur non essendo dei nostri è la indispensabile occasione per riavviare la nostra itineranza. Nelle figure bibliche l’itineranza si attiva / si riattiva, o più spesso c’è già e allora prende il suo orientamento decisivo – senza che questo comporti automaticamente da quel momento in avanti alcuna continuità lineare – a partire da un particolare incontro con Dio o 5 con un suo mediatore. Tale momento può collocarsi all’inizio di una vicenda. Ma per quello che si legge nella Bibbia quasi sempre si dà in età adulta, a volte addirittura verso la fine di un’esistenza (vedi per esempio l’incontro tra Simeone e il neonato Gesù al Tempio: Luca 2,25ss). Sempre implica «uscite» (separazioni e liberazioni) che, ora più ora meno, suscitano resistenze. In radice l’itineranza è allora «luogo» (più propriamente movimento) di rivelazione: di Dio, degli altri, di sé. Personaggi diversi realizzano itineranze diverse. L’elemento personale è sempre decisivo. La mediazione della libertà infatti è indispensabile e sempre rispettata, anche se questo non comporta necessariamente, a fronte delle resistenze umane, la mancanza assoluta di qualche insistenza / forzatura da parte di Dio. In ogni caso è l’autorizzazione di Dio a imprimerle la sua peculiarità storico-salvifica. 13 Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. (Ebrei 11) E’ determinante per l’itineranza che se ne colga la «figura» dietro la narrazione. In altri termini essa potrà istruire la nostra esperienza di vita e di fede solo se se ne coglie la valenza spirituale. «Spirituale» non vuol dire però disincarnato, astratto. Tanto meno indica qualcosa di vago. Anzi, secondo la peculiarità ebraico-cristiana dell’esperienza dello Spirito l’itineranza non potrà mai prescindere da un qualche muoversi effettivo. Abramo e l’incontro con Dio 1 Il Signore disse ad Abram: "Vattene dalla tua terra [Vai a te stesso, via dalla tua terra], dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. 2 Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. 3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". (Genesi 12) Abramo è il primo ad essere chiamato a una storia personale di alleanza con Dio e la sua esistenza, dal momento della chiamata, prende la forma dell’itineranza. Tuttavia in un altro senso, che si mostra se siamo attenti al contesto e poi alla narrazione stessa della sua vicenda, egli non rappresenta un inizio assoluto né della fede né dell’itineranza. Da una parte i racconti che precedono il ciclo di Abramo (Genesi 1-11) attestano infatti che la fede di Israele vedeva con molta chiarezza la possibilità di una relazione con il Signore nella forma di un cammino anche prima e al di fuori dell’esperienza degli eletti (cf Noè: «Questa è la storia di Noè. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio», Genesi 6,9). Dall’altra parte sarà proprio attraverso il suo «andarsene» e gli incontri con figure di credenti che questo andare renderà possibili che Abramo imparerà a dare un senso preciso alla sua elezione e alla funzione benedicente di essa per molti altri e anche per sé. Perciò il suo sarà un «andare verso se stesso» se e perché sarà un andare verso altri. 6 «Vattene… dalla casa di tuo padre» Per quale motivo la parola del Signore si rivolga ad Abramo è un mistero, il mistero della sua libera elezione. Potremmo pensare che Dio abbia scelto lui perché era il migliore, ma i testi non sostengono questa ipotesi. Anzi, una lettura agiografica della vicenda di Abramo – come di tutto il libro degli inizi, cioè la Genesi – ci fa perdere una delle cose più sorprendenti che ci vuole rivelare: Dio non sceglie il primo, e neppure il migliore; e la sua scelta non porta l’eletto ad essere il primo, e neppure il migliore. Non possiamo sapere perché Dio abbia scelto Abramo. Possiamo solo essere incuriositi da questa scelta e stare a guardare come se la caverà il nostro uomo alle prese con il Signore. Quello che è possibile invece constatare subito è come questa chiamata metta in movimento il patriarca. Non solo lo fa muovere, ma gli chiede esplicitamente di andare: «Vattene…verso il paese che io ti indicherò», dice il Signore, e «Abramo partì…verso il paese di Canaan». Questo movimento è in prima battuta uno spostamento geografico «dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò». Tuttavia il fatto che esso implichi l’abbandono di «paese / patria / casa di tuo padre» denota come tale movimento sia insieme spaziale ed esistenziale. A settantacinque anni inizia per Abramo una nuova vita, e in questo senso si tratta davvero di un inizio. Ma l’emancipazione dal «padre» non si realizzerà per Abramo se non verso la fine della sua vita. Quel «vattene…dalla casa di tuo padre» che si ode all’inizio è come un programma di vita, il programma di una liberazione dall’ossessione che Abramo porta fin nel nome1: quello della paternità. Solo così egli potrà sperimentare la benedizione di Dio: per sé e per molti altri (il testo dice addirittura tutti gli altri), anzi per sé solo attraverso e con molti altri. Abramo, come tutti noi, è preceduto da una storia, cioè ha un’ascendenza, che ci dice qualcosa di importante per capire anche la grande novità che a questo punto segna la sua vita. Il testo di Genesi 11 recita così: 27 Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. 29 Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. 30Sarài era sterile e non aveva figli. 31Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. 32La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Terach morì a Carran. (Genesi 11) 28 Cosa lascia Abramo quando parte da Carran? Non suo padre che è già morto. Lascia una «patria» che per altro è la sua seconda patria. Ma quello che più importa è che in questa partenza viene ripreso – autorizzato da Dio – un vecchio progetto del padre Terach che non aveva trovato realizzazione. Abramo vuole dunque fare meglio di suo padre, ma in continuità con il progetto di lui. Partendo, poi, prende con sé tutto quello che Terach aveva portato a Carran durante la prima migrazione. Il meno che si può dire di questa famiglia è che è un po’ chiusa su un progetto patriarcale (ereditario!) che ogni volta cerca la sua realizzazione anche a costo di perdere per strada i pezzi che non si adeguano all’ideale (Nacor, un figlio!). Per stanare Abramo Dio gli promette quello che lui desidera e che in famiglia sembra sempre un po’ scarseggiare: la benedizione, cioè la fecondità, la vita. E insieme promette 1 Ab-ram, padre innalzato. 7 che così troverà se stesso. E’ inevitabile che Abramo partendo in prima battuta abbia compreso il progetto di Dio secondo le coordinate della sua storia e del suo desiderio attuale, che non è sbagliato, ma che andrà educato dall’itineranza stessa. Parte per Canaan, ma nelle parole del Signore si ascoltava solo di un «paese che io ti indicherò». Nonostante questa indeterminazione della meta, quando parte Abramo sa esattamente dove andare perché, per lui, la destinazione «naturale» di una migrazione non può che essere quella. Appena arrivato in Canaan, tuttavia, quello che sperimenta è la fame: 10 Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra. (Genesi 12) La terra si mostra poco ospitale e Abramo deve ripartire per sopravvivere. Va in Egitto «per soggiornarvi», non certo per starci qualche giorno. Pensa forse che il «paese che io ti indicherò» sia ora l’Egitto? Verrà cacciato dal faraone per il noto fatto della sposa-sorella. Quel che si vede è che seguire la promessa di Dio non risparmia ad Abramo la lotta per la vita. La fiducia viene subito messa alla prova e la liberazione propone un’assai difficile libertà. Ma Abramo non esiterebbe a dare anche la moglie pur di salvare la sua speranza in un futuro di «padre innalzato». Dio gli dovrà ricordare, e non una volta soltanto, che la promessa non potrà realizzarsi senza Sara. Non si genera un figlio senza una madre, e quella madre dovrà essere Sara. Abramo dovrà imparare che il figlio che avrà non sarà «suo», ma gli sarà donato. Incontri sorprendenti lungo la strada E’ proprio l’itineranza a educare Abramo. Ma ci vorranno più incontri e molto tempo giacché l’idea da scalzare è potente nella sua ovvietà e quella nuova è troppo «strana». Mi fermo su due di questi incontri, sul primo brevemente, sul secondo un po’ più a lungo. Melchisedek 17 Quando Abram fu di ritorno, dopo la sconfitta di Chedorlaòmer e dei re che erano con lui, il re di 18 Sòdoma gli uscì incontro nella valle di Save, cioè la valle del Re. Intanto Melchìsedek, re di Salem, 19 offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: "Sia 20 benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici". Ed egli diede a lui la decima di tutto. (Genesi 14) Che Abramo sia benedetto lo vedono prima di tutto altri. Qui si tratta di qualcuno che, pur non essendo l’eletto, misteriosamente conosce Dio e ne riconosce la traccia nel suo uomo. Abimèlech Per apprezzare appieno la portata di questo episodio occorre sapere che siamo verso la fine del cammino di Abramo. Quello che era avvenuto appena all’inizio in Egitto (Sara fatta passare per sorella) si ripete ora dopo molto tempo. Per la seconda volta l’itineranza di 8 Abramo mette a rischio Sara. Eppure a questo punto del suo cammino Abramo ha ricevuto la promessa di un figlio dai tre viandanti (e forse Sara a Gerar è già incinta!), ha interceduto per Sodoma e soprattutto dei sette incontri ravvicinati che Dio regala al suo eletto ne sono già stati narrati ben sei. Anche Abimèlech, come Melchisedek, si rivela un giusto. Lo dobbiamo dire: più giusto di Abramo. Interessa qui sottolineare due elementi. Il primo è lo scetticismo di Abramo: egli non crede che ci possa essere timor di Dio presso gli «stranieri» che incontra. Si dovrebbe parlare, come del resto abbastanza esplicitamente fa il testo citato verso la fine, di paura. L’itineranza mette di fronte all’altro, al diverso, a ciò che non può essere inquadrato nel riferimento al noto. In questo senso l’altro può destare timore, e se questo timore non viene controllato provoca paura. La paura, poi, è proiettiva, partorisce fantasmi. Abramo parla al futuro di molti mali (cf 20,11) per giustificare il suo comportamento. Mali che avrebbero potuto venire ma che non c’era una ragione stringente per immaginare che senz’altro sarebbero accaduti. E’ stata la paura a produrre questa immaginazione. La paura è il contrario della speranza. Se si va verso l’altro con paura esso apparirà inevitabilmente come avversario / nemico. Se invece ci si apre all’altro animati dalla speranza (dalla fiducia, dall’amore) esso appare nella luce favorevole di un possibile prossimo / amico. Certo, per un eccesso di speranza qualche volta ci si può illudere a proposito degli altri. Ma per un eccesso di paura li si giudica male e assai spesso si sbaglia, perdendo così occasioni preziose. Abramo non ha fiducia nella coscienza altrui e non ha ancora accolto nel suo progetto il ruolo di Sara. A queste condizioni la benedizione di Dio non può certo passare. Tuttavia, dichiarando la sua sfiducia ammette l’errore? Sta forse imparando quella umiltà che sola permette di «vedere» le tracce di Dio nella storia, anche laddove pensiamo non ce ne possano essere? Incomincia forse a comprendere che il Dio con il quale si è impegnato non è (quasi) mai dove dovrebbe essere e che è assai più nomade di lui? Proprio qui riaffiora quanto Abramo ancora non abbia lasciato la «casa di suo padre». Per lui allontanarsi da quella casa vuole ancora dire «errare lontano», ma insieme significa voler mantenere un progetto patriarcale che esige la sua salvezza, anche a costo di perdere Sara. Il padre è lui; in mancanza di Sara (sterile!) un’altra madre si troverà (come è già accaduto con la schiava Agar, dalla quale ha avuto Ismaele). Insomma, sta camminando in avanti ma continua a guardare indietro. La cosa più impressionante, però, è che Dio nonostante tutto questo, pur riconoscendo l’onestà di Abimèlech, dica al re di Gerar che la maledizione che lo ha colpito potrà essere allontanata soltanto dall’intercessione di Abramo. Lo chiama profeta e non ritira la sua elezione anche se Abramo si è mostrato indegno di essa. Abramo, pur nel torto, si trova a pregare per coloro che riteneva esclusi dalla prossimità di Dio. Così è spinto ad amarli, a chiedere il loro bene (e quindi a volere bene). E Dio prontamente lo ascolta, mostrando così quanto ami sia il suo eletto che la gente di Abimèlech. Anche in questo modo Dio educa («e-duca» = conduce fuori) Abramo, e semina benedizione attraverso di lui. Lasciare cosa? Lasciare cosa? Andarsene da che cosa? Abramo deve abbandonare il suo progetto di paternità (e Sara quello di maternità, poiché con Agar e Ismaele anche lei ha dato pessima prova di sé) per evitare di proiettare su Dio la sinistra immagine del padrepadrone e per permettere finalmente l’incontro degli altri come fratelli e non come nemici 9 (o «stranieri», avvertiti sempre, almeno in prima battuta, come potenzialmente ostili). Deve riconoscere che la sua vocazione alla paternità è chiamata ad essere un inizio, non l’origine; cura e servizio, non dominio. Abramo – come tutti noi – non crea, riceve in dono. Come Adamo con il giardino, gli animali, la donna: li nomina ed è chiamato a prendersene cura con regalità, ma non li crea. Li riceve in dono. E se se ne appropria al punto da diventarne il padrone che può farne quello che vuole, tradisce la sua stessa costituzione: neppure di sé Abramo ha potuto fare quello che voleva. Neppure Dio, per altro, fa di Abramo quello che vuole. Non gli sta addosso continuamente, non lo «lega», lo lascia andare. Perché si arrivi a comprendere questa buona immagine di padre, Dio alla fine mette alla prova Abramo chiedendogli in sacrificio il figlio Isacco. Per cancellare dal cuore del suo uomo l’immagine crudele di un Dio che vuole il sangue dei figli il Signore decide per un momento di abitarla (P. Beauchamp). Abramo si trova in realtà a sacrificare la sua paternità. Ma non nel senso che l’uccisione di Isacco lo condurrebbe a non essere più padre, giacché uccidere il figlio non farebbe che confermare la peggiore immagine di Dio e di Abramo (non si mostra tanto più «padre» chi può esercitare sul figlio un diritto di vita e di morte?). Piuttosto nel senso che, uccidendo al posto del figlio un ariete (non un agnello che è il figlio della pecora, bensì un ariete che è il padre della pecora) e lasciando andare Isacco riconosce insieme che è Dio a dare la vita e che lui non ha potere sul figlio. Sembra scendere dalla montagna da solo. Ormai il figlio è andato, libero di seguire la sua strada. E Abramo è libero dall’ossessione della paternità (che è l’ossessione della propria personale permanenza, l’ossessione della «famiglia» come identità, e molto altro ancora) Abramo può finalmente diventare / riconoscersi figlio, che è la condizione originaria di tutti. Non ha incontrato persone che conoscono Dio meglio di lui e che gli hanno restituito immagini migliori di quelle che l’eletto si era fatto del suo Dio? Liberato dall’ambiguità di legami tanto forti da apparire «sacri», che mentre assegnano un’identità separano, l’eletto può vedere la benedizione di Dio per tutti i suoi figli. Ogni figlio di uomo e di donna è figlio di Dio, e la funzione dell’eletto è di rendere possibile a tutti l’accoglienza di questa ospitale paternità divina. Quello che resta è la fede 18 Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. (Romani 4) In questo senso preciso Abramo realizza la sua paternità e insieme la sua itineranza: lasciando andare il figlio come figlio di Dio riconosce e rivela il fondamento della fraternità. Quello che alla fine gli resta è la fede, cioè l’attesa di un compimento lasciato nelle mani di Dio Padre. E questa è anche la sua eredità per noi. Come deve essere quando si è figli, Abramo accetta la sua incompiutezza (cf per contrasto Genesi 15: «che mi darai?» e l’epilogo della storia, dove tutto quello che ha è un figlio lasciato andare e una caverna per essere seppellito) e attende da Dio, come fa un figlio, ciò che gli serve per vivere. Passerà gli ultimi anni della sua vita (non pochi in verità) semplicemente vivendo. Aver fede è accogliere la propria incompiutezza. Ma questa accoglienza rende liberi (e benedicenti) solo se si accende davanti alla rivelazione della sovrabbondante bontà della 10 paternità divina. Altrimenti la paura di non avere abbastanza per vivere ricaccia nella violenza, nell’invidia e nella ricerca del potere, ridicola maschera che tenta di nascondere la disperante esperienza della propria radicale pochezza. E che perverte il volto dell’altro (da fratello a nemico) e di Dio (da Padre a padrone). 11 2. GIONA A NINIVE 1 2 Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: "Àlzati, va' a Ninive, la grande città, 3 e annuncia loro quanto ti dico". Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive 4 era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un 5 giorno di cammino e predicava: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". I cittadini di Ninive 6 credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Giunta la notizia fino al re 7 di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: "Uomini e animali, armenti e 8 greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che 9 è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non 10 abbiamo a perire!". Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. 1 2 Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: "Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al 3 4 male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!". Ma 5 il Signore gli rispose: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?". Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che 6 sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel 7 ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si 8 seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di 9 Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: "Meglio per me morire che vivere". Dio disse a Giona: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?". Egli rispose: "Sì, 10 è giusto; ne sono sdegnato da morire!". Ma il Signore gli rispose: "Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta 11 e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?". (Giona 3-4) Giona, profeta ribelle Il libretto di G si trova tra i profeti «minori» ma è del tutto atipico: il protagonista non è mai chiamato profeta (anche se la «formula del messaggero» con la quale viene incaricato di una missione sembra renderlo tale); tenta di sottrarsi alla sua missione; riporta una sola profezia, di 5 parole in tutto, e per il resto narra le avventure del protagonista nella forma di una favola (cf p. es Tobia); è mandato ai pagani e non a Israele. «Profeta» allora è G o l’autore che si nasconde dietro di lui? E qual è lo scopo del suo scritto? «Giona» vuol dire colomba. E’ la colomba che Noè manda a verificare se le acque si sono ritirate (Gen 8,8); è la colomba del Cantico, che indica l’amata (Ct 2,14; 5,2; 6,9; cf anche 1,15; 4,1; 5,12); è la colomba che si offre in sacrificio se si è poveri (Lv 1,14; 5,7; 12,6; ecc.); ma è anche il participio del verbo janà, opprimere (Sof 3,1). G è entrambe le cose. 12 Il libro si trova tra il profeta Abdia che annuncia la vendetta di Dio su Edom, reo di non aver difeso il «fratello» Giacobbe (Israele) quando è stato invaso, e Michea che annuncia la devastazione di Giuda e insieme però anche la vendetta sulle nazioni, e che profetizza la salvezza di Sion facendo conto soprattutto sulla hesed (l’amore benevolo e misericordioso) del Signore (cf 6,8; 7,18; riprenderemo questo aspetto assolutamente centrale). Subito dopo Michea, il libretto di Naum è interamente dedicato a profetizzare i peccati e la distruzione di Ninive. Il riferimento al profeta Giona figlio di Amittai (=fedeltà) di 2 Re 14,25 sembra collocare la vicenda al tempo di Geroboamo II (783-743) re di Israele, circa 40/30 anni prima dalla distruzione di Samaria (722) ad opera degli Assiri (Ninive!). In realtà il libro, per ragioni linguistiche e contenutistiche, sembra scritto in epoca persiana (475-450), ben lontano ormai dalla distruzione di Ninive (612) e dall’esilio babilonese (587-539 [rimpatrio con Zorobabele e Giosuè 520 / ricostruzione del Tempio 520-515]), e per reagire alla chiusura del «resto di Israele», tentato di isolarsi per conservare la sua specificità, ma insieme irritato dalla marginalità alla quale questo atteggiamento di chiusura pare condannarlo. L’autore potrebbe essere più o meno contemporaneo del profeta Malachia. Vedi la sintonia con il carattere del popolo in quel periodo, incline alla chiusura, all’autocommiserazione e alla collera; in una parola al risentimento, leggendo Ml 1,2-5; 2,17; 3,14-15. La «figura» di G, esagerata apposta per rendere esplicito il messaggio che l’autore vuole comunicarci, appare ridicola. Questo fatto potrebbe indurci a prendere facilmente le distanze da lui, ma sarebbe un errore. La questione che egli solleva, e che non a caso si attiva a contatto con gli «stranieri», è seria e chiede che ci confrontiamo onestamente con essa. Riassumiamo la vicenda. G viene incaricato di portare un messaggio di accusa a Ninive, una città che rappresenta il nemico più feroce che Israele abbia conosciuto. Senza una parola G scappa dalla parte opposta, pur sapendo che a Dio non si può sfuggire. Una tempesta, che lo coglie sulla nave nella quale è l’unico ebreo, contrasta il suo piano e G sceglie la morte come estrema possibilità di sottrarsi a Dio e alla missione che gli è stata affidata. Non solidarizza in alcun modo con i marinai (pagani ma insieme assai religiosi, umani e generosi), pur essendo letteralmente «sulla stessa barca». Si fa gettare in mare dove un grosso pesce lo inghiotte e lo risputa sulla spiaggia dopo tre giorni. Il dono di una «seconda volta» (cap 3) vv 1-3: Si riparte, ma con la precisazione, un poco umiliante per G, che si tratta di «una seconda volta». Quello della «seconda volta» è un passaggio strutturale nell’esperienza di fede, segnata necessariamente da crisi, fallimenti e ripartenze offerte per pura misericordia JHWH non dice più di «parlare contro», ma di annunciare «a lei [Ninive] la predicazione / la chiamata che io dico a te». C’è come una prudenza di Dio nei confronti del suo profeta e insieme trapela una disponibilità nuova verso Ninive e forse addirittura un’attesa. 13 Questa volta G obbedisce, e il testo precisa che lo fa «secondo la parola di JHWH». G va dunque a Ninive, ora non più solo la grande città, ma la città grandissima (alla lettera: «grande per Dio»). v 4: G percorre la città per un giorno di cammino. E’ dunque a un terzo della sua predicazione e grida: «Ancora quaranta giorni e Ninive è distrutta». In ebraico sono in tutto cinque parole, nelle quali tutto resta implicito: a) l’agente; b) il motivo; c) il cosa fare per evitarlo (ma è evitabile?). Eppure viene subito capita. o I «quaranta giorni» (che richiamo il diluvio, gli anni di cammino nel deserto) sono il simbolo della purificazione e della pazienza di Dio o Si parla di un evento che è una minaccia o una condanna? Il verbo «è distrutta» alla lettera può essere tradotto: «è rivoltata». Ci sono delle differenze rispetto al cap 2: là c’era un pericolo / qui è solo annunciato; là è mancata la parola del profeta / qui viene offerta. Per i niniviti c’è senz’altro un vantaggio, che però è uno svantaggio per l’inviato di Dio: G non può contare sulla paura che incute un pericolo già in atto. Inoltre Ninive è l’immagine dell’arroganza. Come reagirà a questa minaccia? G va incontro a morte certa? Se fosse così e se fosse sicuro di una vendetta divina (sia pure postuma), G vivrebbe una situazione non priva di eroica bellezza. E invece… vv 5-9: Siamo di fronte al racconto di una conversione autentica ed esemplare, e questo accade prima ancora che il profeta abbia finito di attraversare la città. Dei niniviti si dice che «credettero» (‘aman) e non come dei marinai che invece «temettero». Prima di pregare assumono una prassi penitenziale, segno della volontà di cambiare vita. Così, in seconda battuta, fa anche il re, che si appropria dell’iniziativa (astuzie infinite del potere!) e arriva a rinunciare alla sua regalità riconoscendone una superiore alla sua. Il proclama del re ribadisce l’obbligo della penitenza. Prima riguardava gli uomini, dal più grande al più piccolo. Ora è estesa anche agli animali, coi quali si solidarizza. E’ un particolare importante, perché esclude la possibilità di un culto sacrificale a Dio (a differenza dei marinai, per i quali resta addirittura il dubbio se abbiano sacrificato un animale oppure un uomo!). C’è l’invito alla preghiera e soprattutto al cambiamento della vita (si usa il verbo della conversione shub: invertire la direzione di marcia, tornare indietro). Di tutto questo nella presunta conversione dei marinai non c’è traccia: non hanno cambiato vita, hanno solo cambiato il Dio da temere. Leggiamo infine l’auspicio della «conversione» (shub) di Dio. Si fa leva sulla sua pietà e sul suo «pentimento», nonché sulla sua capacità di dominare la sua «ira». Certamente lo conoscono meglio dei marinai sebbene il profeta non abbia neppure rivelato il suo nome. Lo conoscono anche meglio di G? Del resto, come abbiamo visto nel caso di Abramo, già da tempo Israele doveva sapere che la fede è possibile anche fuori dei suoi confini, e che in qualche caso è perfino migliore di quella che si vive all’interno del popolo dell’alleanza. v 10: Avviene così il pentimento e la «conversione» di Dio. Il Signore vede la loro conversione dal male e si pente del male (il testo dice proprio così!) che aveva minacciato di fare e non lo fa. In questo versetto domina la radice ‘asa: fare, che richiama l’insistenza della torah sul fare la volontà di Dio, la parola, … 14 A questo punto il racconto di G potrebbe finire, proprio come la parabola del «figlio prodigo» (Lc 15,11ss) potrebbe finire con il ritrovamento del figlio perduto e la festa; oppure quella degli «operai mandati nella vigna» (Mt 20,1-16) potrebbe finire con il pagamento del salario pattuito e la felicità generale. La missione sarebbe compiuta, con tanto di lieto fine. E invece, in tutti questi casi, c’è qualcuno che esprime il suo risentimento: G, il figlio maggiore, l’operaio della prima ora. Sembra che questi brani ritengano l’opposizione a Dio e il rifiuto della solidarietà con chi è «indegno» da parte di persone di provata religiosità se non inevitabile almeno abbastanza probabile, tanto che vogliono avvertire il lettore e indurlo a un esame di coscienza «teologico»: che idea mi faccio di Dio e della sua misericordia? E non è un caso che tutti e tre questi testi terminino con una domanda che esce dal testo e si rivolge indirettamente a chi legge. Siamo pronti alle sorprese del cap 4. La protesta di Giona (cap 4) G è preda di un male «grande» (tutto è «grande», sproporzionato, rispetto a G): sta male ed è arrabbiato. Lo stesso si dice del figlio maggiore della parabola evangelica (Lc 15,28), ma soprattutto di Caino (Gn 4,3-7). E’ però almeno abbastanza saggio da rivolgersi a Dio. E’ la seconda volta che prega, e questa volta non lo fa in modo formale, ma si mostra per quello che è con grande libertà e confidenza. Almeno in questo è un esempio. Deve essere profondamente convinto delle sue ragioni. Perciò non si possono giustificare letture superficiali e sbrigative del suo malessere: dobbiamo chiederci seriamente quanto importanti siano queste ragioni e se per caso non ci riguardino da vicino. Gli esegeti notano come qui abbondino i possessivi di prima persona singolare. G mette di fronte a Dio il suo io offeso. «Non era forse questo che dicevo quando ero nel mio paese…?» G diceva: a chi? a se stesso? E’ probabile che questo verbo voglia rendere «pensavo». «Perciò fuggii…». Quello che pensava è stato anche la causa della sua fuga. Siamo prossimi allo scioglimento dell’enigma. Cosa pensava dunque e cosa l’ha fatto scappare? E’ una vera sorpresa, che svela come fin dall’inizio, fin da prima che Dio lo chiamasse, G sapesse … che Dio è buono!!! Quello che dice di lui, infatti, ogni buon ebreo lo leggeva, o lo sentiva leggere fin da piccolo, nel libro dell’Esodo (34,6-72), dove appunto Dio si rivela a Mosè come un Dio benigno, Dio di hesed (=bontà, amore misericordioso), cioè un Dio la cui apertura verso l’uomo sussiste anche davanti al peccato e si manifesta come disponibilità del tutto immeritata al perdono! (Vedi anche Gen 32,11; 50,20; Es 20,5s; Dt 5,9s; Os 2,21; Mi 6,8; 7,18; Ger 2,2; 31,3; Salmi [più della metà delle ricorrenze di hesed nell’AT si trova in questo libro]…). Il punto della contestazione di G, ciò che lo fa andare in bestia, è questo: il Signore è un Dio che si lascia impietosire riguardo al male minacciato nei confronti del peccatore. E questo fa un enorme problema, perché a G un Dio così non piace. Suscita il suo risentimento. G ha una doppia preoccupazione, per sé e per Dio, e a mio parere a volte questa può diventare anche la preoccupazione della testimonianza cristiana: 2 «5 Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6 Il Signore passò davanti a lui proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, 7 che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34). 15 o Agli uomini cattivi bisogna annunciare una minaccia, come del resto ha fatto anche Gesù. E il profeta che annuncia la rivelazione della giustizia e della forza di Dio, così pensa G, si fa lui stesso forte di questo annuncio. o Ma poi prevale la misericordia di Dio. E bisogna notare come qui, nelle parole di G, e più sotto nelle parole di JHWH, non ci sia alcuna condizione: non si dice in nessun modo che Dio si impietosisce a condizione che gli uomini si convertano in maniera definitiva. E’ sottinteso? Oppure Dio si converte anche solo per un primo moto di pentimento perché ha pietà dell’umana miseria ed è innamorato della vita? Ma allora, e questo è il problema, a che serve la minaccia? E soprattutto, che figura si fa se non si realizza? Non si perde forse di credibilità? Non ci si mostra pericolosamente deboli di fronte a persone che (si ritiene) capiscono e rispettano solo la forza? Tutto questo, se già fa problema a G nella sua terra, figuriamoci quanto sia devastante fuori, tra i pagani. Specialmente con loro, Dio dovrebbe essere particolarmente duro. Questo è il problema di G, tanto grave da mettere in dubbio l’opportunità della missione, da giustificare la fuga «impossibile» e alla fine l’unica fuga possibile dal cospetto di Dio: la morte (Mosè, Elia, Geremia, Giobbe, … tutti hanno invocato la morte davanti all’apparente fallimento della loro missione). G arriva a chiedere di morire: per lui la morte è meglio di questa vita da profeta che si sente smentito dal suo Dio, un Dio che a lui non piace, che detesta, e che accetta solo perché è il Dio! Si noterà come nella predicazione di G (che dobbiamo supporre «secondo la Parola di JHWH») non ci sia stato per Ninive l’invito a seguire Dio. Si trattava piuttosto di un avvertimento a vivere bene (convertirsi dalla violenza) per evitare di precipitare nella rovina. Ora, questa gratuità di Dio (hesed!) a G proprio non va giù. A questo punto Dio parla, e pone a G una domanda (in questo capitolo Dio farà solo domande) che può essere anche tradotta così: «Ti fa bene la rabbia?». Nel libro Dio non è mai adirato. Gli umani sospettano (e G spera, ma sa che non accadrà) che lo sia. Ma in questo racconto non si dice mai che JHWH si adirò, o altro di questo genere. Ora ponendo a G questa domanda è come se Dio lo invitasse a deporre la rabbia e dunque gli chiedesse di assomigliare a lui, di avere i suoi sentimenti (cf Fil 2,5ss.). Di più, si preoccupa per lui; più che della moralità di G a lui importa che il suo profeta sia felice dimorando nella sua hesed e godendo della bellezza del vivere (proprio e altrui). Questa domanda rivolta a G non può non ricordarci quella di Dio a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Gn 4,6-7). v 5: Una risposta negativa di G (tipo: «non mi fa bene essere arrabbiato»), un suo ripensamento e il ritorno (felice) a casa avrebbero potuto essere il lieto fine. Ma G, a conferma della pertinenza del parallelo con Caino, non risponde al suo Signore (incredibile affronto, già visto all’inizio del libro) e di nuovo agisce nella direzione opposta a quella suggerita da Dio. G si ostina: • Esce dalla città: il dialogo con Dio è avvenuto in mezzo alla grande città minacciata di distruzione ma non ha prodotto alcuna solidarietà né alcuna preghiera di intercessione (vedi invece Abramo; Mosè; …). In G non c’è pietà. Ora se ne va fuori solo, rifiuta di nuovo la solidarietà come aveva fatto sulla nave (eppure nella solitudine nel ventre del pesce aveva ricevuto immeritatamente quella di Dio). • Non solo non torna a casa (verso occidente), ma va dalla parte opposta, verso oriente! 16 • Vuole vedere cosa succederà alla città, a costo di aspettare 39 giorni nel deserto! E’ una sfida a Dio. Spera ancora nella distruzione della città? Spera che Dio si «riconverta»? Spera che Ninive ricada nel male? E’ il contrario di quello che dice Mosè: «Ora, se tu perdonassi il loro peccato … E se no, cancella anche me dal tuo libro che hai scritto» (Es 32,31); qui è come se G dicesse: se questa città sopravvive, allora che io muoia! v 6-8: Il ricino > l’ombra > la grande gioia. Basta questo sollievo, per altro essenziale per la sopravvivenza (come si vedrà sotto) in quanto la capanna evidentemente non bastava, a ridare senso alla vita di G. Ricino seccato > sole > insolazione. Di nuovo G cade nella sua prostrazione e chiede di morire. v 9: JHWH pone di nuovo a G la domanda del v 4. Là G neppure aveva risposto. Aveva agito manifestando la sua ostinazione. Qui risponde che, sì, è bene / gli fa bene … al punto che vorrebbe morire. E’ una palese contraddizione: la morte non può mai essere un bene; semmai un male minore per porre fine a un male troppo grande. v 10: Dio si manifesta come creatore. Lui sì avrebbe diritto di dispiacersi per il ricino molto più di G in quanto esso era opera sua, sua creatura (per l’esistenza della quale egli ha «lavorato»). In realtà però G sembra dispiacersi più per l’ombra che ha perso che per il ricino. Dio è creatore, e come tale è il Dio della vita. Non è un distruttore, come verrà subito in chiaro con quello che segue. Egli prova pietà (potremmo dire senz’altro anche tenerezza) specialmente per uomini e animali. Secondo la Bibbia sono questi gli esseri viventi per eccellenza, quelli nei quali abita il «respiro», la ruah, di JHWH e che quindi sono in qualche modo imparentati con lui. L’accostamento tra gli uomini di Ninive e gli animali ha anche questo senso: quelli e questi hanno in comune anche l’incoscienza. Dei niniviti si dice che non sanno distinguere tra le destra e la sinistra. E’ un detto che di solito si usa per dire l’incoscienza dei bambini. Qui sta a significare il fatto che questi suscitano pietà in quanto nessuno ha mai rivelato loro la volontà di Dio. La «legge» è una peculiarità di Israele e della chiesa, e noi dobbiamo sentire, come Dio, pietà per chi non ne è a conoscenza. Misericordia e risentimento Il libro di G termina con una domanda di Dio che resta aperta, come la parabola di Mt 20 («Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» Mt 20,15): sentiamo noi questa pietà? Abbiamo pietà della «grande città»? Ci sta a cuore che viva? Siamo abbastanza generosi da sopportare la «debolezza» della hesed divina? Siamo disposti a essere suoi profeti, condividendo la «debolezza» di Dio? Oppure questo ci rende rancorosi, risentiti, perché avvertiamo in questo comportamento divino una ingiustizia? Siamo forse invidiosi perché lui è buono e perdona troppo a buon mercato? E’ proprio a noi che Dio chiede questa missione, anche se nel nostro cuore abita ancora Caino. 17 Dal punto di vista di G (a meno che non abbia cambiato idea dopo la domanda di Dio) la missione è fallita. La città non è stata «rivoltata», o almeno non come egli voleva. La sua parola di profeta sembra andata a vuoto. Dio non ha manifestato la sua potenza e dunque non potrà essere preso sul serio: né lui, né tanto meno il suo profeta. E G ha perso l’occasione di imparare qualcosa di decisivo su Dio e sulla missione del popolo eletto proprio da questi stranieri (e nemici) di Ninive. Ma perché G prova dolore per la bontà di Dio, se non perché essa sembra portargli via qualcosa? Non è forse che alla radice c’è una concezione della vita di fede intesa come diminuzione della vita? Dal punto di vista di Dio, che è quello dell’amore tenero per la vita delle sue creature, la conversione di Ninive rappresenta un successo: la città è stata davvero rivoltata! A lui non importa né di essere riconosciuto, né di essere ringraziato. Né tanto meno di essere temuto! A lui importa la felicità delle sue creature e la solidarietà di tutti nella cura della vita, soprattutto quella più esposta e più fragile. Resta un problema. Nei Vangeli, soprattutto in Luca, la vicenda della predicazione di Gesù alla «città» è assai deludente, come lo sarà (sebbene in misura assai minore) per Paolo negli Atti. Anche Gesù minaccia le città, ma i suoi sentimenti sono di sofferenza, non di rabbia. Comunque la sua predicazione alla città non sortisce mai gli effetti, memorabili, di quella di G. Eppure Gesù è ben più di G! Nonostante questo il Maestro non rinuncia mai a predicare alla città (e alla fine a morire per essa!), anche se a volte si sottrae ad essa e alle folle. Occorre riconoscere che quella di G è come una fiaba. Ci dice come dovrebbero andare le cose; cioè come dobbiamo sperare che vadano. E che dobbiamo comportarci di conseguenza, costi quello che costi, fosse pure il martirio (Gerusalemme ucciderà Gesù). Non si può predicare senza desiderare davvero che la città si converta. Altrimenti non lo si fa, o lo si fa come lo ha fatto G, cioè con l’atteggiamento sbagliato. Se però la città non si converte, come è probabile, nessuna sorpresa o ribellione. Ma anche: nessuna concessione al cinismo, al pessimismo o al risentimento. Sono tutti nemici della speranza, sostenuta dalla fede e dall’amore. E senza speranza non è possibile alcuna missione. E se invece, sorprendentemente, si convertisse? Anche qui, soprattutto qui, occorrerà guardarsi dal risentimento (come quello dei lavoratori di Mt 20: hanno lavorato un’ora soltanto e hanno preso la stessa paga…; non è giusto!). G è figura del tradimento della fede, e dunque di una profezia pervertita. Grande e consolante è il fatto che Dio non lo molli e che anzi faccia comunque servire al bene (Gen 50,20) anche un uomo così. Spera senz’altro che vedendo questo bene accadere nonostante la sua indegnità anche G, prima o poi, possa convertirsi. 18 3. GESÙ DALLE PARTI DI TIRO 24 Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma 25 non poté restare nascosto. Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena 26 seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. 27 Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: "Lascia prima che si 28 sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". Ma lei gli replicò: 29 "Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli". Allora le disse: "Per questa 30 tua parola, va': il demonio è uscito da tua figlia". Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n'era andato. 31 Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno 32 33 territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in 34 disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando 35 quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: "Effatà", cioè: "Apriti!". E subito gli si aprirono gli 36 orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a 37 nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: "Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!". (Marco 7) Gesù nel guado della crisi Siamo nel contesto dei capp 6-8 di Marco, la sezione cosiddetta dei «pani». La prima moltiplicazione dei pani, con la sua sovrabbondanza (12 ceste di avanzi!), ha convinto Gesù che quello che ha visto accadere non poteva essere solo per Israele. Il banchetto messianico (e insieme l’esodo, evocato dall’immagine del pane nel deserto che ricorda la manna) è per tutti. Tuttavia la sua intenzione di andare nella Decapoli e di aprire così un nuovo fronte missionario presso i pagani non si è realizzata (cf Mc 6,45-56). Approdato con i suoi a Gennèsaret, Gesù è costretto a riprendere le noiose e faticose discussioni con i farisei e gli scribi venuti da Gerusalemme. In particolare è trascinato in una polemica che verte sul puro e sull’impuro. Gesù voleva aprire un fronte missionario in territorio pagano (e perciò impuro) ma si trova ancora sulla costa ebraica del lago dove si sta chiudendo la sua predicazione in Galilea in mezzo a incomprensioni e opposizioni, e dove farisei e scribi vorrebbero che marcasse di nuovo la frontiera tra puro e impuro, una frontiera che esclude. Con il nostro brano siamo verso la fine del cap 7, e dunque a ridosso della «confessione di Cesarea» (8,27ss.) che taglia in due il vangelo e che è un momento a prima vista sorprendente poiché per un attimo Gesù interromperà il «segreto messianico» che poi, però, scioglierà definitivamente soltanto alla fine (cf 14,61ss.). Questo episodio di Cesarea, nel quale Gesù chiede ai suoi «Voi, chi dite che io sia?», rappresenta un passaggio decisivo, un vero e proprio spartiacque nel vangelo, che inaugura la seconda parte della narrazione ambientata per lo più in Giudea. Da lì in avanti il Maestro comincerà ad annunciare apertamente la sua passione, provocando l’incomprensione crescente dei suoi. Darà anche sempre più spazio all’istruzione dei Dodici, privilegiandoli decisamente rispetto alle folle. Questo di Cesarea è come un passo di montagna, che si 19 valica avendo a destra e sinistra due maestosi rilievi: la siro-fenicia e la trasfigurazione (altro momento di rivelazione, vero e proprio anticipo dello svelamento finale). Che cosa ha fatto finora Gesù? Ha annunciato il regno di Dio insegnando e guarendo. Che cosa ha intorno a sé? Folle che chiedono miracoli; la politica che lo teme (6,14); i discepoli che non lo capiscono, pur essendo coinvolti da lui nella sua stessa missione; farisei e scribi che lo osteggiano (fin dal cap 2 aleggia nell’aria la possibilità di una condanna a morte). Un fatto scandaloso è ormai evidente: la religione istituita odia Gesù. Che cosa farà adesso Gesù? Porrà la domanda circa la propria identità. Forse non nutre dei dubbi su di sé. Ma mostra almeno di averne riguardo alla ricezione della «buona notizia» che è venuto a portare. Cercherà dunque conferme sulla sua figura di evangelizzatore. Tuttavia prima di porre la domanda di Cesarea fa due cose: si ritira per un momento da solo (come Elia presso la vedova di Sarepta di Sidone? Cf 1Re 17,7ss); e poi moltiplica di nuovi pani. In questo momento Gesù sembra stanco di essere banalizzato, frainteso o osteggiato, nonostante si sia preoccupato soltanto di comunicare il vangelo della salvezza che il Padre prepara per i suoi figli. Ha appena terminato una polemica sul puro e l’impuro (su chi è dentro e chi è fuori) con i capi religiosi ebraici e si ritira in territorio pagano, cioè in mezzo a gente impura. La tentazione della chiusura In 6,30ss. Marco aveva narrato il ritorno dei 12 dalla missione e la decisione di Gesù di ritirarsi con loro affinché potessero riposare. Preceduti dalla folla che si fa trovare in attesa al loro arrivo e a causa della commozione che il loro bisogno provoca in Gesù, il ritiro fu subito interrotto. Qui Gesù se ne va da solo, si ritira, e non per riposare. Sembra ne abbia davvero abbastanza. «Esce» in territorio pagano (come già aveva fatto a Gerasa, da dove per altro era stato cacciato: cf 5,1ss.; e come aveva tentato di fare dopo la prima moltiplicazione dei pani inviando i suoi a Betsaida), sospende la sua missione e si chiude in una casa per nascondersi. Anche per Gesù, Maestro itinerante, viene il momento di un esodo, anche se quasi sicuramente si tratta di una casa di ebrei della diaspora. «Ma non potè restare nascosto...»: spesso in Marco Gesù appare quasi costretto dal bisogno altrui a fare altrimenti rispetto a quanto ha deciso. Ma mentre in altre occasioni si adegua alle richieste e cambia i suoi programmi, qui sembra intenzionato a resistere. Infatti non vuole incontrare nessuno. E tuttavia, pur essendosi nascosto in una casa, a quanto pare non vi si è chiuso dentro in maniera inarrivabile: qualcuno riesce a scovarlo. E a stanarlo. Chi è l’autore di una simile impresa? «Una donna…». Prima il testo dice che è una donna, poi racconta cosa fa e infine spiega chi è. «Subito», «appena»... Il passaggio di Gesù chiede una reazione tempestiva, come il passaggio di Dio che apre una opportunità che va colta senza esitazioni. Una madre disperata corre a intercedere per la figlia posseduta dal male. Le sue azioni sono emblema di affidamento: «lo seppe… andò… si gettò ai suoi piedi… continuava a supplicarlo...». Ma come ha potuto sapere? Forse faceva parte di quelli che erano andati da Gesù in Palestina (cf 3,7ss.)? Ne aveva sentito parlare? Il testo qui vuole sorprenderci, appunto lasciando avvolta nel «mistero» la conoscenza che questa donna ha dell’identità di Gesù come portatore di salute. E’ una sottolineatura tipica di Marco e questa 20 sorprendente conoscenza di Gesù sembra avere a che fare con il fatto che è una donna. Il suo nome non appare infatti decisivo. Qui secondo me Marco vuole dirci che in luoghi inattesi, da parte di persone improbabili, possiamo essere sorpresi. Incontreremo persone che mostreranno di saperla lunga, molto lunga, e molto bene su Gesù e su suo Padre; e la loro conoscenza delle cose di Dio ci stupirà. Come hanno fatto a sapere? Chi gliel'ha detto? Un'opera misteriosa dello Spirito nel loro cuore. Teniamo conto che nei vangeli non si dice mai che Gesù crea la fede nelle persone che incontra. Egli cerca di suscitarla, ma quando la trova è stupito e la apprezza come opera di un Altro. Davanti all'emorroissa dice: «Figlia, va’, per questa tua fede sei guarita». L’apertura della porta del cuore, preparata dal lavoro dello Spirito, è possibile solo dall'interno. Gesù non la forza. Incontra le persone, suggerisce una possibilità di apertura. Ma se trova la porta aperta benedice il Padre, riconoscendo l'opera misteriosa di Dio che ha già aperto questi suoi figli, e insieme magnificando i figli per aver accolto questa possibilità di apertura. Spesso Marco ci fa incontrare delle persone che conoscono di Dio pur non essendo le più adatte a sapere, come ad esempio il centurione (soldato romano!), questa siro-fenicia (pagana!), il cieco Bartimeo (ha un nome mezzo aramaico e mezzo greco; inoltre è cieco, dunque «peccatore»! Ma ne sa più di tutti, vede meglio di tutti l'identità profonda di Gesù chiamandolo figlio di Davide, cioè Messia). E’ una donna, è pagana («greca»), è siro-fenicia. Probabilmente è ricca e rappresenta gente in mezzo alla quale gli ebrei immigrati sono poveri e fanno fatica ad essere accolti. Ce n’è abbastanza per giustificare un atteggiamento di chiusura da parte di Gesù. Questi elementi identitari della donna devono creare il paradosso: è la meno indicata per sapere di Gesù, la più «straniera» (estranea) rispetto a lui. Eppure sa... Forse perché è una madre e dunque se ne intende della vita e della cura che essa richiede? Si tratta comunque di un «miracolo», capace di sorprendere Gesù stesso. Un miracolo non così raro, però, che con i suoi incontri imprevisti la missione di Gesù gli regala generosamente facendogli così ritrovare (di nuovo e nuovo) il senso profondo del suo servizio. Il dono di una madre Gesù resiste alla donna con una «parabola»: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Nonostante l’impatto venga mitigato dal diminutivo (cagnolini), Gesù qui è per lo meno scortese e sorprendentemente allineato alla mentalità ebraica, la quale qualificava i pagani appunto con l’appellativo di «cani» (animali impuri). Gesù parla di sé come di un padre / una madre che deve nutrire i suoi figli, e che non può sottrarre il cibo destinato a loro senza commettere una imperdonabile trascuratezza. Questo è un altro modo nel quale si rivela la delusione di Gesù: ha fatto tanti sforzi per farsi capire e non ha visto risultati apprezzabili, e ora è come se temesse di non avere abbastanza risorse per chi non è di famiglia (nonostante in 3,31-35 avesse decisamente relativizzato i legami famigliari) e perciò rischia di chiudersi ai bisogni di coloro che non appartengono alla sua gente. Il «pane» che ha deve riservarlo per i figli. Posta così la questione non può che essere accolta, specie se ad ascoltare è una madre. E tuttavia questa donna suggerisce uno sviluppo della parabola tanto inatteso quanto stringente. La madre non si rassegna al rifiuto di Gesù. Chiamandolo «Signore»3 e alludendo in questo 3 E’ l’unica a chiamare direttamente così il Maestro in tutto il vangelo di Marco, confermando la «speciale» conoscenza che essa ha di lui. 21 modo al mistero della sua identità profonda, accetta di stare nel posto che Gesù le ha assegnato tra i «cani», ma propone un ampliamento della parabola che conquista Gesù. Le parabole, delle quali Gesù era specialista, sono dispositivi per spingere a prendere posizione; questa volta tocca a Gesù di essere spinto a decidersi proprio da una parabola! In fondo, dice la donna, non chiedo molto: non pretendo «pane», mi bastano le briciole. Così ai figli non verrà a mancare nulla di essenziale e io avrò comunque di che vivere. La donna accetta di stare al suo posto. Ma Gesù deve cambiare il suo: «prendere posizione» vuol dire anche per lui cambiare posto, e questo significa che in questo momento perfino il Maestro non sta occupando il posto giusto. Questa donna compie il miracolo di restituire a Gesù, in un momento di difficoltà, l’evidenza di quella sovrabbondanza che dall’inizio segna la sua missione, sovrabbondanza che mostra in atto la benedizione divina che «passa» attraverso di lui. Rileggiamo alcuni testi: • • • • • 3,9-10: « Allora egli disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti aveva guarito molti, cosicché quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo» 4,3-8: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un'altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno» 4,26-27.30-32: «Diceva: "Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. (…) Diceva: "A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra"». 5,27-28: «…udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata"» 6,42-44.56: « Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. (…) E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati» A questo punto Gesù dichiara che per questa parola di lei, che attesta la sua fede nella possibilità del passaggio della sovrabbondante benedizione di Dio Padre proprio attraverso il Figlio, la figlia è guarita. Sebbene riluttante Gesù ha fatto spazio alla donna. Lasciandola «entrare», lasciandosi forzare e accogliendone il bisogno l’ha restituita a se stessa e alla sua «capacità di essere», che torna immediatamente utile anche a lui e alla figlia di lei. La benedizione che la siro-fenicia «conosce» in Gesù la costituisce tramite di benedizione per la figlia. Gesù 22 riconosce il passaggio e lo ratifica. Si lascia così lui pure istruire dall’incontro e viene restituito a se stesso e alla sua missione. Incantevole! Il meglio di quello che Gesù è e ha «passa» (come un’energia, una forza) principalmente attraverso i suoi incontri personali. La scelta di questa strategia colpisce perché non sembra risultare da una attenta riflessione sulle forze a disposizione rispetto all’obiettivo immenso che si deve perseguire (la salvezza del mondo, in soli tre anni di ministero pubblico, con collaboratori del tutto inadeguati…). Insomma, sembra che Gesù si lasci distrarre e si perda in una serie di incontri che appaiono troppo particolari e che sembrano condannare la sua predicazione a restare troppo circoscritta. In realtà questa scelta strategica di Gesù corrisponde alla verità di Dio e dell’uomo. Ecco cosa c’è in gioco, niente meno che questo: Gesù si concentra e si trova nell’incontro con le persone, e in questo farsi del tutto particolare nell’incontro propizia il ritrovamento di sé da parte delle persone e la possibilità di intravedere finalmente una relazione effettiva e affettiva con Dio. La «verità» cristiana (che è Gesù e la sua rivelazione del Padre) è universale in quanto realtà personale che si particolarizza sempre e ovunque; è cioè l’offerta di una relazione personale con Dio possibile a ciascuno in ogni luogo e in ogni tempo. Il dono dei «lontani» Come Elia dopo l’incontro con il «silenzio» di Dio (un Dio che qui appunto non è mai nominato), Gesù può tornare sui suoi passi e riprendere con decisione il suo cammino verso Gerusalemme. Non prima però di «aprire» un sordomuto alla vita, segno forse che lui stesso, Gesù, è stato «aperto». Fare spazio all’altro, anche e soprattutto a chi è «molto altro» rispetto a noi, si rivela dunque una scelta che non è prima di tutto sacrificio, arretramento, rinuncia, bensì promessa di ritrovamento anche di sé. Senza rientrare nel territorio di Israele Gesù farà una seconda moltiplicazione dei pani, segno di accoglienza al banchetto del regno anche per i cani-pagani. Gesù ha cercato fino alla fine, come era giusto fare, riconoscimento da parte del popolo di Israele. E tuttavia nel vangelo di Marco le conferme più importanti circa la sua missione e la sua identità profonda non gli sono venute dai «vicini» ma dai «lontani». Si tratta di figure del tutto improbabili come testimoni del Signore. Esse disegnano un paradosso profondo e ci ricollocano per sempre in una profonda umiltà davanti al mistero di Dio che abita Gesù. Penso prima di tutto all’indemoniato di Gerasa (5,1ss), apostolo ante litteram della Decapoli, che va ad annunciare ovunque la misericordia di Dio. Ecco poi la siro-fenicia, capace di cogliere la signoria di Gesù nella sovrabbondanza della benedizione che «passa» attraverso di lui. Abbiamo appena letto dello stupore di quelli della Decapoli davanti al sordomuto sanato, i quali riconoscono in Gesù il «bene-fattore», cioè uno capace di «fare bene» ogni cosa. Ma è sotto la croce che ci aspetta la sorpresa più grande: il centurione che comanda il drappello armato che ha crocifisso Gesù e «che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!» (15,39). E’ il punto più alto del riconoscimento della rivelazione di Gesù e lo dobbiamo a una voce umana – non più divina come in 1,11 e 9,7 – e per di più «pagana». Se seguiremo i passi di Gesù nella missione presso le «genti» incontreremo senz’altro, qua e là, persone così. Ed esse ci istruiranno sul vangelo, perché sono abitate da una misteriosa conoscenza di Dio in quanto semplicemente amanti e custodi (come ha da essere u n fratello per il fratello; cf Gen 4,9!) della vita umana in quanto tale. 23 4. PIETRO A CESAREA 1 2 Vi era a Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica. Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. 3 Un giorno, verso le tre del pomeriggio, vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro 4 e chiamarlo: "Cornelio!". Egli lo guardò e preso da timore disse: "Che c'è, Signore?". Gli rispose: 5 "Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite dinanzi a Dio ed egli si è ricordato di te. Ora manda 6 degli uomini a Giaffa e fa' venire un certo Simone, detto Pietro. Egli è ospite presso un tale Simone, 7 conciatore di pelli, che abita vicino al mare". Quando l'angelo che gli parlava se ne fu andato, 8 Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un soldato, uomo religioso, che era ai suoi ordini; spiegò 9 loro ogni cosa e li mandò a Giaffa. Il giorno dopo, mentre quelli erano in cammino e si avvicinavano 10 alla città, Pietro, verso mezzogiorno, salì sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva 11 prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi: vide il cielo aperto e un oggetto che 12 scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. In essa c'era ogni sorta di 13 quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: "Coraggio, 14 Pietro, uccidi e mangia!". Ma Pietro rispose: "Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato 15 nulla di profano o di impuro". E la voce di nuovo a lui: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo 16 profano". Questo accadde per tre volte; poi d'un tratto quell'oggetto fu risollevato nel cielo. 17 Mentre Pietro si domandava perplesso, tra sé e sé, che cosa significasse ciò che aveva visto, ecco gli uomini inviati da Cornelio: dopo aver domandato della casa di Simone, si presentarono 18 19 all'ingresso, chiamarono e chiesero se Simone, detto Pietro, fosse ospite lì. Pietro stava ancora 20 ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: "Ecco, tre uomini ti cercano; àlzati, scendi e va' 21 con loro senza esitare, perché sono io che li ho mandati". Pietro scese incontro a quegli uomini e 22 disse: "Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti?". Risposero: "Il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutta la nazione dei Giudei, ha ricevuto da un angelo santo l'ordine di farti venire in casa sua per ascoltare ciò che hai da dirgli". 23 Pietro allora li fece entrare e li ospitò. Il giorno seguente partì con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo 24 accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli con i parenti e gli 25 amici intimi che aveva invitato. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò 26 ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: "Àlzati: anche io sono un uomo!". 27 28 Poi, continuando a conversare con lui, entrò, trovò riunite molte persone e disse loro: "Voi sapete che a un Giudeo non è lecito aver contatti o recarsi da stranieri; ma Dio mi ha mostrato che non si 29 deve chiamare profano o impuro nessun uomo. Per questo, quando mi avete mandato a chiamare, sono venuto senza esitare. Vi chiedo dunque per quale ragione mi avete mandato a chiamare". 30 Cornelio allora rispose: "Quattro giorni or sono, verso quest'ora, stavo facendo la preghiera delle 31 tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un uomo in splendida veste e mi disse: 32 "Cornelio, la tua preghiera è stata esaudita e Dio si è ricordato delle tue elemosine. Manda dunque qualcuno a Giaffa e fa' venire Simone, detto Pietro; egli è ospite nella casa di Simone, il conciatore 33 di pelli, vicino al mare". Subito ho mandato a chiamarti e tu hai fatto una cosa buona a venire. Ora dunque tutti noi siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato 34 ordinato". Pietro allora prese la parola e disse: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa 35 preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione 36 appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, annunciando la pace per mezzo 37 di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti. Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, 38 cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che 39 stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, 40 41 ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai 42 morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei 43 morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve 24 44 il perdono dei peccati per mezzo del suo nome". Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando 45 lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano 46 venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li 47 sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: "Chi può impedire che 48 siano battezzati nell'acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?". E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni. (Atti degli Apostoli 10) Chiamata e sequela Lo schema della vicenda petrina è del tutto simile a quello degli altri discepoli. Chiamato sulle rive del lago di Galilea4 senza che abbia particolari caratteristiche che giustifichino la sua elezione (appartiene a gente comune), Pietro è indotto dal Maestro a un «esodo» dalla sua vita ordinaria (Mc 1,16-18) lasciando tutto e mettendosi alla sequela. Inizia così una itineranza che non avrà fine se non con il martirio, che a buon conto il NT non racconta (per evitare una indebita «venerazione» del «capo» degli apostoli?). Questa itineranza è il luogo della missione e insieme dell’apprendimento del «mistero del Regno», mistero che non può essere compreso altrimenti. La sua esperienza si configura come apprendimento e assunzione dello stile del Maestro, secondo la linea del profetismo ebraico e del discepolato rabbinico. Il suo nome, Simone, a un certo punto viene cambiato da Gesù in Cefa (pietra) / Pietro. Il cambio del nome nella bibbia si collega quasi sempre a una missione / a un ruolo che in quel momento si chiarisce e si determina. Da una parte, però, la «pietra» è prima di tutto e soprattutto Gesù: lui è la pietra (angolare): Mc 12,10 / Ef 2,20-22 / Rm 9,33 / 1Pt 2,4-8...; dall’altra pietre vive sono anche tutti i cristiani: cf Ef e 1Pt. Sebbene abbastanza presto Pietro assuma una preminenza nel gruppo (cf Mt 10,2 / Mc 3,13-19), dunque, egli non può stare tra il Maestro e gli altri discepoli: è a servizio della relazione che essi hanno comunque con Gesù anche a prescindere dalla sua mediazione. Rappresenta (senza sostituirla) la solidità di tale relazione, secondo quello scambio reciproco di doni che nella comunità si realizza a tutti i livelli tra i carismi / servizi. Partecipa a momenti particolarmente decisivi con un gruppetto ristretto: risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37); trasfigurazione (Mc 9,2-8); Getsemani (Mc 14,33). In qualche momento si fa portavoce degli altri ma senza che questo comporti che sempre si debba affidare a lui la propria voce. In ogni caso appartiene a un gruppo che, secondo l’espressa volontà del fondatore, è caratterizzato dal SERVIRE (Mt 20,24ss) e non invece dal DOMINARE. E in definitiva non mostra comunque di capire / fare più o meglio degli altri. «Va’ dietro a me, satana» In Mc 8,29ss e paralleli Pietro si spinge a confessare la messianicità (addirittura la figliolanza divina) di Gesù. Anche qui parla a nome di tutti e dice la cosa giusta, almeno a parole. Risponde bene (tanto da essere gratificato dal Maestro: vedi Mt 16,18-19) ma non riesce affatto a integrare nella sua concezione messianica lo scandalo della croce che Gesù comincia subito dopo ad annunciare.. Per questo si sente dare del «satana», poiché 4 La regione, piuttosto disprezzata dai Giudei, era vista come impura. La presenza di confini molto permeabili la esponeva all’influenza pagana e faceva ritenere a chi stava in Giudea e a Gerusalemme che l’ebraismo che vi veniva praticato non fosse del tutto ortodosso. 25 così si oppone alla via del Maestro che, nella dedizione fino alla morte (e a quella morte), rivela il volto sorprendente del Padre. Questa relazione tra l’«apostolo» (=inviato) e il satana è sorprendente e ritornerà evidente per tutti i Dodici durante la prova della passione; ma essa è presente per tutte le figure «apostoliche»: vedi il caso dell’indemoniato di Gerasa, «apostolo» ante litteram (Mc 5,1ss) e quello di Maria di Magdala (Mc 16,9; Lc 8,1ss). Questa sottolineatura è dettata forse dal fatto che per essere discepoli / apostoli occorre annunciare soprattutto la misericordia di Dio? E che questo annuncio, per essere onesto, deve passare dall’esperienza personale di essere stati strappati al male per pura misericordia (vedi Paolo!), oggetti di un perdono «impossibile agli uomini ma non a Dio»? Credo senz’altro di sì. Mostratosi inadeguato già subito dopo la confessione di Cesarea e poi ancora in altri momenti, la caduta di Pietro si fa drammatica nel triplice rinnegamento del Maestro dopo l’arresto al Getsemani. E’ il momento più buio, nel quale Pietro nega perfino di aver mai conosciuto Gesù. Mai così falso, quello che dice; e per tragica ironia mai così vero. Il riscatto e la condizione 15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». 19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi». 20 Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». 21 Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». 22 Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi» (Giovanni 21) Se nei sinottici il riscatto di Pietro è offerto con la possibilità di un nuovo inizio della sequela a partire da quella Galilea dove tutto era cominciato (cf Mc 16,7), in Giovanni (21,15ss) Gesù mette prima alla prova Pietro e lo fa di fronte alla comunità dei discepoli. Lo chiama Simone e lo incalza con tre domande. Notiamo la progressione: a) mi ami (agapàs) più di costoro? b) mi ami (agapàs)? c) mi vuoi bene (filèis)? Gesù abbassa progressivamente la sua attesa nei confronti del discepolo per portarlo al riconoscimento dei limiti del suo amore (filèin) e all’affidamento a lui. Pietro cambia la sua risposta dal «tu sai» al «tu sai tutto». E’ necessaria una grande umiltà, che egli attesta dall’inizio e di fronte ai suoi fratelli, ma che deve passare attraverso la ripetizione della richiesta, quasi che Gesù non ci creda da subito (le tre volte, che producono in Pietro tristezza, richiamano i suoi rinnegamenti; ma anche le tre manifestazioni che Gesù risorto ha dovuto donare ai discepoli per abilitarli alla sequela). In realtà è così che veniamo istruiti sulla nostra poca fede e il nostro poco amore. Ma solo così possiamo essere «pastori» misericordiosi per i nostri fratelli, cioè farci loro servitori, accoglierli e amarli come lui ha accolto e amato noi peccatori. 26 L’esodo di Pietro Dopo l’incontro con il Risorto e la «consegna» della missione, non tutto è però ancora compreso. I primi capitoli degli Atti degli Apostoli documentano le prime «prove di missione» e insieme narrano in maniera ironica di resistenze permanenti da parte degli «apostoli». Esse verranno a poco a poco superate (alcune mai del tutto…), ma intanto veniamo istruiti sul fatto che la testimonianza cristiana onora il suo compito accettandosi come itineranza, sequela, chiamata continua alla conversione. Non potrebbe essere altrimenti: il vangelo (negli Atti è il protagonismo dello Spirito e della Parola) ci supera sempre, e perciò non può mai essere posseduto una volta per tutte. A ridosso della conversione di Paolo e degli inizi della sua predicazione, Luca narra di Pietro in visita pastorale. Il testo di Atti 9,32ss sembra supporre un’abitudine («mentre Pietro andava a far visita a tutti…») frutto della sollecitudine di Pietro per i gruppi cristiani che si vanno formando. Notiamo però che visita paesi che stanno nei confini di Israele, e dal contesto arguiamo che si tratta di gruppi di ebreo-cristiani. Di fatto, però, è la prima volta (secondo il «tempo del racconto») dall’inizio degli Atti che si dice di un viaggio di Pietro fuori di Gerusalemme. Finalmente anche per lui è venuto il momento di un esodo e di una itineranza. Che l’intento del narratore sia anche quello di mostrare la progressiva somiglianza tra il discepolo e il suo Maestro è del tutto evidente. Così come è evidente la ricerca di un punto di contatto tra Pietro e Paolo. Questo esodo è caratterizzato dall’incontro con fratelli e sorelle, ma è anche e soprattutto l’occasione di inciampare sul male e sulla morte. Di questo viaggio di Pietro vengono ricordati due gesti di liberazione dal male: una guarigione e addirittura una risurrezione. Si tratta di gesti intrinsecamente legati all’annuncio del vangelo. Luca infatti sottolinea come essi siano stati motivo di conversione / di fede per molti. Per Pietro, tuttavia, si prepara un esodo ben più decisivo. Il capitolo 10 lo racconta in maniera assai intrigante. Questa pagina luminosa ci racconta la grandezza di Pietro. Ma non perché, come qualche volta si è detto, narra la conversione del centurione romano Cornelio. Il nostro ufficiale in realtà è descritto come un giusto. Chi invece vivrà una conversione, pur essendo cristiano, sarà proprio Pietro; e qui sta la sua grandezza e insieme la ragione di esemplarità per noi e per la nostra responsabilità a riguardo dell’evangelizzazione. Vediamo alcuni snodi del racconto. L’infrangersi di schemi «antichi» Per capire al meglio questo testo occorre ricordare chi ha visitato finora Pietro. E’ immeditato dedurre dal contesto che si tratta di gruppi di cristiani ebrei. Pietro ritiene ancora, con la comunità di Gerusalemme che gli chiederà conto della sua accoglienza del pagano Cornelio attraverso il battesimo (cf Atti 11,1ss), che il vangelo sia destinato soltanto ai suoi «fratelli», i figli di Israele, anche se le conversioni a Lidda e a Giaffa alludono già con certezza anche alla presenza di cristiani pagani («Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saron e si convertirono al Signore»; 9,35). La prima scena (10,1-8) presenta Cornelio come «timorato di Dio», uno di quei simpatizzanti dell’ebraismo destinati però a restare sulla soglia della religione ebraica. Prega e fa molte elemosine. E’ un uomo buono e pio. Dio lo visita e gli ordina di far venire 27 da Giaffa Simon Pietro (che non conosce). E’ ovvio che si tratti una cosa importante per lui («il Signore si è ricordato di te»), ma l’angelo non dice perché. La seconda scena (10,9-23) narra una visione di Pietro: vede per tre volte animali impuri e sente una voce che gli ordina di uccidere e mangiare. Egli resiste dicendo: «non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro». La replica ogni volta è questa: «Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo profano». Quando arrivano gli inviati di Cornelio lo Spirito suggerisce a Pietro di seguirli «senza esitare». L’apostolo chiede però qual è il motivo dell’invito ad andare a casa di Cornelio. La risposta narra la visione di Cornelio e aggiunge (nella scena precedente si diceva solo di farlo venire) «per ascoltare ciò che hai da dirgli». A questo punto Pietro è pronto a seguirli con alcuni fratelli che lo accompagnano. L’esodo decisivo: imparare una ospitalità senza condizioni Terza scena, in casa di Cornelio (10,24-48). Quando Pietro arriva a Cesarea trova ad aspettarlo una piccola folla. Prima di entrare in casa Cornelio lo ferma prostrandosi in adorazione. Pietro protesta e desacralizza la sua figura con queste parole «anche io sono un uomo», che potremmo rendere con «io sono come te». L’esperienza religiosa secondo lo Spirito del Maestro di Nazaret crea uguaglianza e riporta ognuno al suo posto nella fraternità universale. A questo punto soltanto entra con Cornelio in casa sua. Viene così sottolineato che questa soglia è simbolica: si tratta di una vera e propria frontiera, e il suo attraversamento implica un esodo decisivo e profondo. Pietro sottolinea la cosa esplicitando che ormai non deve più «chiamare profano o impuro nessun uomo». Ma chiede per cosa è stato chiamato. Cornelio racconta la sua visione aggiunge un altro particolare: «[l’angelo] mi disse: …la tua preghiera è stata esaudita». Cosa aveva chiesto? Non sappiamo, ma di certo Cornelio chiedeva qualcosa che ora Pietro è venuto a portare. Aggiunge soltanto: «siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per ascoltare [udire e ubbidire] tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato». Ed ecco finalmente scattare la comprensione in Pietro: «sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone…». Pietro assume l’ospitalità di Gesù / di Dio e accoglie nel vangelo Cornelio e i suoi. Rileggiamo lentamente il suo annuncio: 34 Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, 35 ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. 36 Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. 37 Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; 38 cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. 39 E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, 40 ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, 41 non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. 42 E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. 43 Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» (Atti 10) Pietro può vedere compiersi il senso della sua missione di apostolo proprio rileggendo in modo nuovo il vangelo alla luce dell’esodo e dell’ospitalità che gli accadimenti lo hanno portato a vivere. Questa nuova rilettura, per altro, è decisiva e porta definitivamente Pietro dall’economia antica a quella nuova. 28 La conferma della mediazione dell’apostolo Una pentecoste simile a quella del cap 2 stupisce i credenti (ebrei-cristiani) che accompagnano Pietro e induce l’apostolo a donare ai pagani il battesimo. Ormai Pietro è pronto a riconoscere come fratelli anche questi stranieri impuri. La mediazione apostolica, visibile nell’annuncio e nel sacramento, viene confermata come necessaria. Tuttavia essa costituisce una mediazione. Il lavoro della grazia è compiuto dalla Parola e dallo Spirito, non senza convertire l’apostolo stesso. E l’efficacia di questa conversione, che fa comprendere a Pietro l’universalità del vangelo (cioè del Padre) e della fraternità, è dovuta al confronto con questi stranieri. 29 sommario introduzione .......................................................................................................................2 1. ABRAMO A GERAR .......................................................................................................4 Itineranza .........................................................................................................................4 Abramo e l’incontro con Dio .............................................................................................6 «Vattene… dalla casa di tuo padre» ................................................................................7 Incontri sorprendenti lungo la strada ................................................................................8 Lasciare cosa? .................................................................................................................9 Quello che resta è la fede ..............................................................................................10 2. GIONA A NINIVE...........................................................................................................12 Giona, profeta ribelle ......................................................................................................12 Il dono di una «seconda volta» (cap 3)...........................................................................13 La protesta di Giona (cap 4)...........................................................................................15 Misericordia e risentimento ............................................................................................17 3. GESÙ DALLE PARTI DI TIRO......................................................................................19 Gesù nel guado della crisi ..............................................................................................19 La tentazione della chiusura...........................................................................................20 Il dono di una madre.......................................................................................................21 Il dono dei «lontani» .......................................................................................................23 4. PIETRO A CESAREA ...................................................................................................24 Chiamata e sequela .......................................................................................................25 «Va’ dietro a me, satana» ..............................................................................................25 Il riscatto e la condizione ................................................................................................26 L’esodo di Pietro ............................................................................................................27 L’infrangersi di schemi «antichi» ....................................................................................27 L’esodo decisivo: imparare una ospitalità senza condizioni ...........................................28 La conferma della mediazione dell’apostolo...................................................................29 30