Swan, parola magica
IL BAMBINO
SUL LAGO DEI
CIGNI
U N P I C C O L O U O M O O S S E RVA R A P I T O I B E L L I S S I M I
U C C E L L I C H E , P R I M A D I L U I , H A N N O I S P I R AT O
L E O N A R D O. DA A L L O R A , I N O B I L I A N I M A L I S O N O
S U O I C O M PA G N I . I N M U S I C A , I N L E T T E R AT U R A E
N E L L A V I TA . U N A V I TA C H E S P I C C H E R À I L V O L O
GIANLUCA TENTI
C’era
’era una volta un bambino che giocava su un lago. Il suo divertimento era osservare la natura, il velo d’acqua nel quale si specchiavano le cime degli alberi, le barche che scivolavano via come tirate da un filo immaginario e le nuvole che disegnavano nel cielo quegli strani ghirigori che si riflettevano sul lago. E poi c’erano quei buffi animaletti che si affannavano a trovare un’andatura, sollevavano le alette, che
sbattevano forte agitando l’acqua e finendo col rovesciarsi.
«Che importa se siamo nati in un pollaio, quando siamo usciti da un uovo di cigno?», ammiccavano quei piccoli uccelli d’acqua che sembravano
usciti dalla fiaba del Brutto anatroccolo di Hans Christian Andersen.
Quello che importava davvero, per quel bambino, era mettersi a sedere sul
bordo del lago e aspettare. Perché sapeva che di lì sarebbe passato maestoso il cigno, candido, elegante, con quel corpo importante e il collo, strano, curvato come una grande «S». Una S come swan che, gli aveva det-
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]
to la maestra di lingue, in inglese voleva proprio dire cigno. Si
era appassionato quel bambino. E aveva sentito dire che quell’uccello, discendente dalla famiglia delle anatre, crescendo abbandonava il colore cenerognolo delle piume per vestirsi di bianco. Un
bianco elegante, come quei signori che andavano alle feste dove si suonava
una musica celestiale fatta di fiati e mani che sfioravano corde musicali.
Per questo il bambino se ne stava lì, sul lago, seduto ad assistere allo spettacolo della natura. E di sera voleva che una voce calda gli raccontasse dove andavano a dormire i cigni, che lo rassicurasse sul loro ritorno quando li vedeva unirsi a forma di cuneo e affrontare i soffi del vento. Arrivò
il tempo della scuola. E il fanciullo scoprì di non essere il solo ad amarli. C’era un dio chiamato Zeus dagli antichi, era il re degli dei. Lui che tutto poteva aveva scelto proprio la sembianza di un cigno per sedurre Leda, la figlia del re di Laconia, andata in sposa a Tindaro, re di Sparta.
FOTOTECA STORICA ANDO GILARDI
[ DI
DALL’UNIONE DI LEDA, SIMBOLO DELLE FORZE GENERATRICI DELLA NATURA, CON GIOVE, CHE HA SCELTO LE SEMBIANZE DI UN CIGNO, NASCONO I QUATTRO
GEMELLI CASTORE, POLLUCE, ELENA E CLITEMNESTRA. LA RAFFIGURAZIONE PIÙ NOTA DEL TEMA DI «LEDA E IL CIGNO» È IN QUESTO DIPINTO DI SCUOLA
LEONARDESCA (1510 CIRCA, OLIO SU TAVOLA, GRAFICA DI LEONARDO DA VINCI) CUSTODITO ALLA GALLERIA DEGLI UFFIZI: L’ORIGINALE È ANDATO PERDUTO.
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E quando la regina era presso il fiume
Eurota, lo splendido cigno si rifugiò
accanto a lei per proteggersi dagli attacchi di un’aquila. Dal loro incontro nacquero i gemelli Castore e Polluce, i Dioscuri,
con Elena e Citemnestra. C’era però anche
un’altra versione, o almeno così diceva la maestra:
Zeus forse non inseguiva Leda, ma Nemesis, la dea
della giustizia. Quest’ultima aveva cercato di fuggire trasformandosi in animali veloci. Ma ogni volta il re degli dei si tramutava in un altro animale ancora più veloce. E, vestito il candido piumaggio
del cigno, la sorprese come oca selvatica. Leda quindi trovò l’uovo «del
colore del giacinto azzurro» che Nemesis aveva deposto dopo essersi unita al cigno-Zeus. Possibile, pensò il giovane, che gli antichi avessero dedicato tanta attenzione a quell’animale? Possibile che i cigni fossero stati scelti come emblema di Apollo e Afrodite, quindi dell’amore, dell’unione e della coppia? Se così era, il cigno doveva essere davvero importante. Da sempre. Come diceva la tradizione dei tempi di Platone,
che voleva l’uccello canoro intonare, prima di morire, il canto più bello perché anche l’ultimo viaggio doveva essere qualcosa di speciale.
Crescendo, ogni volta che scopriva sui libri un riferimento al cigno, il
giovane prendeva nota e da solo, a casa, tornava a fantasticare. I suoi erano sogni musicati. E altrimenti non poteva essere, visto che il cigno rappresentava la figura di Orfeo, il musico dell’antichità, ritratto in cielo vicino alla lira. A proposito di note. Quando il giovinetto iniziò a frequentare le lezioni di musica, un anziano maestro di piano lo iniziò al
pentagramma di Vincenzo Bellini detto «il cigno», di Gioacchino Rossini, «il cigno di Pesaro», e Giuseppe Verdi, «il cigno di Busseto».
Fu allora che il fanciullo del lago divenne uomo. Accadde mentre le note del piano si liberavano nell’aria e il maestro ripeteva la storia dei «cigni». Il fanciullo obiettò. Prima dei musicisti, disse, c’era stato chi aveva già usato il simbolo della grazia e dell’eleganza per immortalare un
grande. Era avvenuto molto prima dell’800, quando Gaio Valerio Catullo era stato detto «il cigno di Verona». Certamente, non si
trattò di una mancanza di rispetto verso l’anziano. Ma, al
contrario, dell’affermazione di una personalità sensibile.
Ci fu un altro episodio che segnò il passaggio dall’età della gioventù a quella adulta. Fu un viaggio a Firenze, dove il giovane visitò la Galleria degli
Uffizi, la più bella collezione d’arte del mondo. In una sala dedicata
a Leonardo trovò esposta l’opera in olio
su tela Leda e il cigno, datata 1510, nella quale il genio delle arti aveva donato
immortalità a un passo delle Metamorfosi di
Ovidio. Leda, simbolo delle forze generatrici
della natura, era ritratta con Giove sotto le
sembianze di un cigno. Uscendo dal museo, il
giovane si fermò sotto il loggiato degli Uffizi e, donando una moneta a un clochard, rimase sorpreso dal ringraziamento che ottenne. «Brav’uomo», gli disse quella figura, «è tutto il giorno che sono sdraiato a mendicare, nell’indifferenza generale. Sei
il primo che ha pensato a me. C’è qualcosa che posso fare per te?». Colto di sorpresa, il giovane balbettò qualche parola. Disse che si sentiva già
appagato. Firenze. Gli Uffizi. Leonardo e il suo cigno… «Cigno», ripeté il barbone. «Ormai da anni non ho più l’uso della vista, ma c’è una storia che posso raccontarti sul cigno». Il giovane si mise a sedere accanto all’uomo che i passanti consideravano rifiuto della società. E ascoltò la storia di una costellazione che portava il nome del Cigno da quando il greco Eratostene così l’aveva chiamata. Il clochard prese a recitare:
«Subito prossima la sede assegnata del Cigno
che Giove in persona nel cielo volle creare,
prezzo della bellezza con la quale sedusse l’amante
quando il dio discese mutato nelle sembianze del niveo uccello
e insinuò il voluminoso corpo in grembo alla fidente Leda»
«Anche ora, rivestito di stelle, vola sulle ali distese», fece l’uomo, affrettandosi a precisare che quelle erano parole del poeta latino Marco Manilio, tratte dal Poema degli astri. Il giovane lo ringraziò. Fece per congedarsi. Disse che stava si facendo tardi e… Ma l’anziano lo trattenne
per un braccio e replicò: «Nel vocabolario della conoscenza non esiste la
parola tardi. Quanto al cigno», riprese il clochard, «veniva considerato sacro, simbolo solare». Così lo avevano visto gli scandinavi nell’Età
del bronzo, che raffigurarono i raggi solari come colli di cigno.
E parimenti lo avevano considerato i Greci, che lo associarono ad Apollo e Zeus. I riferimenti al cigno erano molti più
di quanti il giovane sospettasse. Come, per esempio, la statua di marmo del II secolo a.C., copia di una del V secolo attribuita allo scultore Timotheos, di
Leda che, seduta, con un mantello
protegge il cigno dalla minacciosa
LA MAGIA DEL CRISTALLO: ANCHE SWAROVSKI (QUI SOPRA) HA VOLUTO RAPPRESENTARE LA NATURALE ELEGANZA DEI CIGNI CON LA COPPIA «FLIRTING SWANS».
IN ALTO, IL CALIBRO L941.3 DELLA LANGE & SÖHNE: NELLA PARTE INFERIORE È VISIBILE LA REGOLAZIONE MICROMETRICA CON MOLLA «A COLLO DI CIGNO».
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fiume, nuotava un vivido lampo bianco
CORBIS
e
Il clochard era sparito. Là, nel
N E L C I E LO E S T I VO , U N ’ E N O R M E C R O C E D O M I N A I L F I R M A M E N TO . A D AG O S TO È P O S S I B I L E A M M I R A R L A A L LO Z E N I T H , V E R S O L A M E Z Z A N OT T E , I N T U T TA
LA SUA MAGNIFICENZA, PROTESA DA NORD A SUD SULLO SFONDO DELLA VIA LATTEA. È LA COSTELLAZIONE DEL CIGNO, DETTA ANCHE «CROCE DEL NORD».
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L’ABBRACCIO TRA IVAN NAGY E NATALIA MAKAROVA (IN ALTO) ALL’AMERICAN BALLET DI NEW YORK NEL 1941, DURANTE UNA DELLE PIÙ CELEBRI RAPPRESENTAZIONI
DE «IL LAGO DEI CIGNI» DI PIOTR IL’IC CHAIKOVSKIJ. CURIOSAMENTE, LA «PRIMA», AL BOLSHOI DI MOSCA (20 FEBBRAIO 1877), NON OTTENNE ALCUN SUCCESSO.
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uccello che ha lasciato la macchia per prendere dimora nel bosco dai
molti frutti, così pure io, avendo abbandonato uomini dalle vedute ristrette, ho raggiunto il grande mare, simile al cigno Hamsah». Ham,
inspirazione. Sah, espirazione. Mosso dal sacro furore della conoscenza,
tornò sul lago dell’infanzia, dalle parti di Losanna. Entrò in una vecchia libreria e si mise a cercare. Non sapeva che cosa, ma si lasciò guidare dall’istinto. La sua scelta cadde sul titolo Un amour de Swann di
Marcel Proust. Swann, con due «n», non era propriamente il sinonimo del suo cigno. Ma suonava bene. Quanto all’autore, la Recherche aveva già solleticato i suoi interessi. E, pur trattandosi di un episodio estraneo alla famosa opera, questo racconto (in terza persona) lo intrigava. Proust, imparò, doveva molto al
personaggio di fantasia Charles
Swann. Nel romanzo, che è poi il
primo quadro della società parigina,
Swann divenne la figura che lo iniziò
all’arte, alla pittura, alla letteratura e
all’architettura.
Lo stregò. E quando l’uomo ebbe finito di leggere, trovò un cartoncino
che recava stampata una frase: «…le
chiavi dei miei libri… mi è impossibile darle. Non che abbia paura o che
voglia nasconderle; ma ce ne sono
troppe per ogni personaggio. Anche
se le dessi tutte, ci si potrebbe in-
CORBIS
ta fu la figura di Lohengrin cantata da Richard Wagner.
Era stata, seppe, la prima opera wagneriana rappresentata
in Italia, nel 1871, nella dotta Bologna. Lohengrin era il
Cavaliere del cigno. Secondo la leggenda medievale,
Lohengrin, chiamato anche Helias, apparteneva alla famiglia del Graal. Nello scritto di Wolfram von Eschenbach è addirittura figlio di Parzival, supremo Cavaliere
del Graal.
Un giorno, nel tempio di Munsalvaesche, Lohengrin sentì suonare la campana della cappella senza che nessuno l’avesse toccata. Era certamente un segnale. Significava che qualcuno aveva bisogno di lui. A richiamarlo da un luogo lontano, scoprì, era la duchessa di Brabante.
Lohengrin la raggiunse su una navicella trainata da cigni araldici. Il Cavaliere del cigno sposò la dama, ma al momento delle nozze pronunciò
un monito: lei non avrebbe mai dovuto chiedergli quali fossero l’origine, la stirpe e il luogo da dove era giunto. Dopo un po’, però, la donna
gli rivolse la domanda proibita. E Lohengrin svanì per sempre, al tramonto, sulla navicella trainata dai cigni. Affascinato da questa storia, l’uomo decise di viaggiare nelle terre del mito. Raggiunse in Baviera il Castello di Neuschwanstein, che nella lingua di Lohengrin significa la
«Nuova pietra del cigno».
Ricercando scoprì che re Ludwig amava quel luogo (chiamato in origine Hohenschwangau, cioè «sacro e inavvicinabile») come il castello in cui si era rifugiato il suo eroe, Lohengrin. Volle il restauro delle rovine di Hohenschwangau, che non vide completato. E quando, nel
1891, il castello fu chiamato Neuschwanstein, i suoi interni conquistarono gli onori dell’architettura per le decorazioni ispirate a Lohengrin e al Tannhauser, con affreschi dedicati a Tristano e Isotta, alla saga dei Nibelunghi, alle vite dei Minnesanger e alle avventure di
Sighfrido. E con una dedica particolare per il cigno.
Nel viaggio di ritorno verso l’Italia, il giovane uomo pensò. C’era un
filo di Arianna che legava la leggenda all’eleganza del cigno. Un filo
che attraversava i secoli, i confini delle nazioni e della storia. Lo scriveva nell’opera immortale anche il Sommo poeta quando, nel canto XV
del Purgatorio, mentre si allontana dalla costellazione dei Gemelli dice che la Virtù «dal bel nido di Leda mi divelse». Leda si mostrò a
Dante innamorata del suo cigno (Zeus). «S’arrestò vicino/al casto
cigno, e gli baciava il becco/come la mamma bacia il suo bambino».
L’uomo scoprì anche un’altra storia. Quella del cigno Hamsah, veicolo
di Bramah (uno dei tre aspetti della Trimurti indù, assieme a Visnù e
Shiva) che cova l’Uovo del Mondo. Lesse da Suttanipata: «Come un
OLYCOM
aquila.
«Vai e indaga», gli disse il clochard. «Indaga tra gli
scritti medievali di Adolfo d’Orléans, Giovanni di
Garlandia e Petrus Berchorius, che portarono ad
adottare il mito del cigno in parte della teologia
cristiana, tanto che non è raro ritrovare in versioni astronomico-astrologiche il cigno, non
già la colomba, come simbolo dello Spirito
Santo. Indaga e scoprirai che per taluni il
cigno poteva significare lussuria, come sostenne Vincent de Beauvais
nel suo Speculum Majus, in cui scrisse che i colli intrecciati di due cigni erano l’emblema “delle carezze e dei giochi lascivi”. E del resto Leda», continuò il cieco che, alzatosi, raggiunse la riva dell’Arno, «era una
donna. E la donna, ogni donna, è emotivamente complessa, più vibrante
di qualsiasi interlocutore, sia esso uomo oppure cigno. Non a caso si
parla anche dell’altra Leda, la cui esplicita eroticità è testimoniata in
un cammeo in onice del III secolo d.C., esposto al Museo archeologico di Napoli. Chi può azzardarsi a dire, quindi, se alla fine Zeus fu
cacciatore oppure preda…».
Il giovane chiese il perché di questo accanimento su Leda. Ma, voltandosi, non lo vide più. Vide solo un cigno, meraviglioso, allontanarsi
lungo la corrente dell’Arno. Il cigno sull’acqua gli ricordò un’opera che
aveva studiato a musica. Era il balletto commissionato a Piotr Il’ic Ciaikovskij nel 1875 da Vladimir Petrovic Begicev, direttore dei Teatri imperiali di Mosca. L’allestimento del balletto fu tormentato: venne ritirato e poi riallestito con nuove coreografie. Era un’opera difficile, destinata a scomparire se non fosse intervenuto il principe Vsevolozskìj,
sovrintendente dei Teatri imperiali di San Pietroburgo. Quanta sofferenza in quella mise-en-scene. Quanta tristezza per Chaikovskij, che
non riuscì a rivedere il suo balletto. Morì nel 1893, due anni prima dell’alba della storia felice che sedusse il Teatro Mariinskij.
Il giovane ripensò a lungo a quell’incontro fiorentino. Anche quando
rimirò le stelle, nella città di Galileo, in una notte d’inizio agosto. Cercò la costellazione del cielo boreale, introdotta da Tolomeo, dal nome
di Cigno. E la trovò. Visibile a occhio nudo. Un’enorme croce latina.
Esattamente allo Zenith, protesa da nord a sud sullo sfondo della Via
Lattea. Era la costellazione del Cigno, detta per la forma Croce del
nord o Croce del cigno: il braccio più lungo aveva come estremi le due
stelle più importanti. A nord Deneb, potente più del Sole, e a sud Albireo, la stella doppia, la più bella del cielo. Crescendo quel giovane
uomo non smise di sognare. Galeotto fu un libretto d’opera. Galeot-
che fa del cigno una leggenda che non morirà mai
da un filo rosso
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v
I secoli sono legati
gannare e immaginare, per errore o per piacere, che c’è più di quello
o più di quell’altro. E in ogni caso, non è importante», firmato Monsieur Proust. Monsieur, come la bella rivista della Parigi anni 20.
Proust come il nuovo nume tutelare. L’uomo rovistò tra le edizioni ingiallite dal tempo. Vide un titolo, Le Cygne, di Charles Baudelaire, lo
scrittore dei Fiori del male. Aprì il volume e lesse:
«...Là c’era un serraglio; là un mattino
nell’ora in cui il Lavoro si ridesta
e sotto un freddo e chiaro cielo lo spazzino
nell’aria silente, alza una cupa tempesta
vidi un cigno fuggito dalla sua gabbia
sfregando con i piedi palmati l’arido selciato
trascinava le bianche piume sul suolo accidentato
Presso un secco rivolo la bestia, aprendo il becco
bagnava nervosamente le ali nella polvere
e diceva, il cuore colmo del suo bel lago natale:
“Acqua, quando scenderai? Quando tuonerai, folgore?”
Rivedo quell’infelice, mito strano e fatale
tendere la sua testa sul collo agitato
talvolta verso il cielo, come l’uomo d’Ovidio
verso il cielo ironico, d’un azzurro spietato
come a rivolgere il suo rimprovero a Dìo!».
Lesse tutto d’un fiato. E capì. Capì che Le Cygne esprimeva il bisogno
del distacco fisico dalle bassezze dell’universo umano, in uno slancio verso la purezza del cielo. E quando conobbe una donna calzolaio, l’unica del mondo, si lasciò sedurre. Olga, questo il nome, appartiene alla dinastia Berluti. È arrivata a Parigi nel 1959 a rue Marbeuf per creare opere d’arte che hanno sedotto Yves Saint Laurent, Andy Warhol e François Truffaut. Non è stato difficile. Per lei, intendo. Per una che professa
un dogma: «La calzatura ha un’anima». Nel 1992 Olga Berluti ha creato un club dedicato a Swann. E come in ogni club che si rispetti, ecco
il rituale: nel corso della serata più esclusiva di Parigi, al termine della
cena, il massaggio del cuoio. Accade, infatti, che dopo la conviviale si affrontino tematiche come l’estetica della calzatura. Poi, inevitabilmente, arriva il rito. Immutabile e immutato. Si allontana la tovaglia, si mostrano i «cirage», ci si arrotola attorno alle dita dei piccoli riquadri di nobile lino veneziano e le calzature vengono esibite in bella mostra, sulla
tavola. Gli uomini rimangono in calzini, senza imbarazzo. È in questo
preciso istante che Olga diventa oracolo della calzatura. E tutti la
TRE MODELLI DI RAFFINATEZZA: DA SINISTRA, IN SENSO ORARIO, MARCO VAN BASTEN, DETTO «IL CIGNO DI UTRECHT»; MARCEL PROUST, AUTORE DEL RACCONTO
«UN AMORE DI SWANN»; GRACE KELLY, PROTAGONISTA DEL FILM «IL CIGNO», IN UNA FOTO DA «STARS STARS STARS» DI EDWARD QUINN (SCALO EDITORE).
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ascoltano, accompagnando quel
momento con il massaggio della
pelle, cui segue la lucidatura. Qualcuno usa dell’acqua.
I più arditi lo Champagne. È un
privilegio riservato ai magnifici
dieci. Non uno di più. Scelti tra un
centinaio di adepti in tutto il
mondo. Basta seguire la prima e
unica regola: «Non ci sono regole». O forse sì. Una c’è. Come nel
salone di Proust: non è gradita
«la gente noiosa». Così l’uomo
scopre i piaceri di una modernità
lontana dalla fatua vanità. Difende il valore di un sogno, protegge
e tramanda valori incorruttibili
nel tempo. Come la lealtà e il rispetto. Come il suo cigno. Come
l’immagine di Grace Kelly che
interpretò nella pellicola The Swan il ruolo di principessa prima di diventarlo nella vita reale. Tanti cigni popolano il quotidiano. Ci scrutano dalla bandiera di un insediamento coloniale nel Queensland australiano, come dalla Hall of fame delle memorie calcistiche che elessero Marco van Basten al grado di cigno per la sua eleganza sul manto verde. Così quello che un tempo era un bambino che ammirava i cigni sul
lago ha scoperto i valori del vero lusso.
E oggi va orgoglioso del suo sogno divenuto realtà. È una gioia interiore.
È un segno che condivide con i veri amici. È un movimento. Come quello che porta al polso. Nella sua collezione privata ha riservato una nicchia di prestigio alla molla detta «a collo di cigno». È un sistema utilizzato
in movimenti di pregio, che prevede la racchetta trattenuta tra una
molla di contrasto (dalla forma che ne dà il nome) e una vite per la regolazione di precisione. L’impatto estetico della realizzazione ha finito per superare, nel dire comune, l’importanza della vite al punto da far
chiamare tutto il sistema «a collo di cigno». Quell’uomo, oggi, conserva con sé ogni singola tappa del suo lungo viaggio alla scoperta del cigno. Osserva, scruta, ricerca i veri valori. Nel lusso come nella quotidianità. Poche settimane fa l’ho incontrato. Era seduto sulla banchina
di un piccolo porto. Lì. A scrutare alcune barche che sfilavano,
eleganti. «Vedi?», mi ha chiesto. «Lo vedi anche tu il cigno?». Ho
guardato. E l’ho visto. Il cigno. Lo
Swan. Dominatore delle acque.
Questo Swan 601 è l’ultimo di
un’impresa nata otto lustri fa, nelle
notti senza fine della Finlandia. In
principio quell’impresa era un sogno. Poi prese la forma di un cigno,
battezzato Swan 36, i cui fratelli
hanno abbandonato il laboratorio
dei tagliatori e dei modellatori nel
numero di 1.800. Tanti sono gli
yachts, da 36 a 112 piedi, ancora in
acqua. Quel laboratorio non lontano da Jakobstad ha battezzato
con acque ghiacciate e temperature vicine ai -30 una tradizione di
artigianalità e avventure che consente a questi cigni di spingersi oltre le Colonne d’Ercole della competizione. E proprio a questo ambiva Leonardo Ferragamo quando, nel 1998, si è avventurato nell’impresa. Voleva la tolda di un mito nato, appunto, col nome di Swan 36
(il primo yacht 10 metri), dal disegno di Sparkman & Stephens, in grado di lottare nelle sfide del mare e di liberarsi in una crociera del lusso. Vuole la leggenda che nel 1967 il successo fu così rapido che lo Swan
36 trionfò subito in acque britanniche. E da allora ha sempre tenuto fede al suo patto con il mare. Al patto tra un cigno e il velo salato.
Questo scopro vedendo sfilare i sogni nati dalla fucina della Nautor’s
Swan. Cambia la lunghezza, variano le comodità. Ma intatto resta lo spirito del mare che ogni cigno sa rispettare. È il patto che per primo volle Pekka Koskenkyla quando l’originale Swan 36 sedusse i lupi di mare. Da lì, dalla Finlandia, uscì anche il Sayula II, uno Swan 65 che trionfò nella prima Whitbread Round the World Race nel 1973. Fu la molla che fece nascere la Swan Cup tale era il prestigio di quella casa di yacht.
E oggi Leonardo Ferragamo ha investito nuove risorse per arrivare a creare yacht superiori ai 100 piedi, con moderna tecnologia. È nato anche
un Club Swan riservato ai proprietari di questi cigni che veleggiano nel
Volvo Ocean Race come nella Rolex Swan Cup di Porto Cervo.
Guardo l’uomo che siede accanto a me. Sorrido. Mi strizza l’occhio. Osservo una rivista con una copertina d’artista dedicata a Picasso.
Sul fondo della pagina lo rivedo. Rivedo il cigno. E la scritta
per difendere i valori di un sogno
FOTOTECA STORICA ANDO GILARDI
i
È un animale da osservare e capire
PER GLI AMANTI DELLO STILE, LA FIGURA DEL CIGNO DOMINA LA TERRA E IL MARE: SOPRA, LO SWAN 601, ULTIMO NATO DEGLI YACHT REALIZZATI DAL CANTIERE
DI LEONARDO FERRAGAMO. IN ALTO, UN MOMENTO DEL CIRAGE AL CLUB SWANN DI OLGA BERLUTI. A FIANCO. «L’ACQUA DORMIENTE» (1897) DI LÈON FRÉDÉRIC.
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