ISBN: 978-88-98389-32-2
TEATRO MASSIMO Christoph Willibald Gluck | ORPHÉE ET EURYDICE
Piazza Verdi
90138 Palermo
teatromassimo.it
seguici su:
euro 10,00
Christoph Willibald Gluck
Fondazione Teatro Massimo
SOCI FONDATORI
Francesco Giambrone Sovrintendente
CONSIGLIO DI INDIRIZZO
Leoluca Orlando (sindaco di Palermo) Presidente
Leonardo Di Franco Vicepresidente
Daniele Ficola
Francesco Giambrone Sovrintendente
Enrico Maccarone
Anna Sica
COLLEGIO DEI REVISORI
Marco Smiroldo Presidente
Marco Piepoli
Roberto Bolazzi
ORPHÉE
ET EURYDICE
Tragedia (dramma eroico) in quattro atti
Musica di Christoph Willibald Gluck (versione di Hector Berlioz)
Libretto di Pierre-Louis Moline da Ranieri de’ Calzabigi
Turno Prime venerdì 20 febbraio | 20.30
Turno F sabato 21 febbraio | 20.30
Turno D domenica 22 febbraio | 17.30
Turno S2 martedì 24 febbraio | 18.30
Turno C mercoledì 25 febbraio | 18.30
Turno S1 giovedì 26 febbraio | 18.30
Turno B venerdì 27 febbraio | 18.30
Prima rappresentazione:
Vienna, Burgtheater, 5 ottobre 1762
Parigi, Opéra, 2 agosto 1774 (versione francese)
Parigi, Théâtre Lyrique, 19 novembre 1859 (versione Berlioz)
Editore proprietario:
Bärenreiter Verlag, Kassel
Rappresentante per l’Italia:
Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Allestimento del Ballet National de Marseille e di Opéra Théâtre de Saint-Etienne
INDICE
9
13
Argomento
Synopsis
17
Giuseppe Migliore | Introduzione all’opera
25
26
28
29
30
Libretto
Atto I
Atto II
Atto III
Atto IV
35
Olga Visentini | Orfeo/Orphée: il canto umano e sovrumano
55
Hector Berlioz | L’Orfeo di Gluck al Théâtre Lyrique
69
Paolo Giorgi | Orphée à la postmoderne: il percorso del mito
all’incrocio tra danza e musica
81
Frédéric Flamand | Orfeo nella città
87
Orfeo ed Euridice al Teatro Massimo
95
97
Bibliografia essenziale
Note biografiche
ORPHÉE À LA POSTMODERNE:
IL PERCORSO DEL MITO
ALL’INCROCIO TRA DANZA E MUSICA
di Paolo Giorgi
Quella di Orfeo è una figura del mito che da sempre ha colpito l’immaginario
dell’uomo, grazie al suo potere quasi magico di usare la musica per incantare
animali e fiere, spostare montagne, migliorare il mondo, e compiere imprese
straordinarie. Per questo suo legame strettissimo ed essenziale con la
musica, è chiaro come la storia del suo viaggio nell’Oltretomba per tentare
di riprendersi la sua perduta Euridice sia stata una delle più utilizzate per la
creazione di opere, sin dall’inizio del genere operistico stesso, con l’Euridice
di Ottavio Rinuccini del 1600. Ma a determinarne la fortuna musicale
non è stata soltanto la presenza di un cantore come protagonista, ma
anche (se non soprattutto) la potenza del suo mito nel rappresentare in
forma archetipica alcune tra le forze più potenti che riescono a muovere e
motivare l’essere umano, ovvero l’amore, il desiderio di sfuggire alla morte,
il tentativo di trascendere la quotidianità attraverso l’arte. Raccontare
questo mito significa narrare di una ricerca incessante di un nuovo
equilibrio, nonché di una continua e instancabile messa in discussione di se
stessi; nulla di strano, dunque, che la figura di Orfeo sia stata nel corso dei
secoli legata a doppio filo con tutte le istanze di rinnovamento artistico e
culturale, e che le abbia in qualche modo sempre simboleggiate.
Ed è proprio qui che inizia il nostro viaggio intorno all’Orfeo gluckiano.
Nella Vienna del 1760, sotto l’egida di Maria Teresa d’Austria e grazie alla
geniale intuizione del conte Giacomo Durazzo (all’epoca direttore generale
ORPHÉE ET EURYDICE
degli spettacoli della capitale asburgica), nacque la collaborazione tra il
compositore tedesco Christoph Willibald Gluck (già attivo a corte come
maestro di musica da camera) e il poeta italiano Ranieri de’ Calzabigi.
Il primo frutto fu il balletto Don Juan (1761), su soggetto di Calzabigi,
musica di Gluck e coreografia di Gasparo Angiolini, direttore del balletto
imperiale. Più che entusiasti della reciproca collaborazione, i tre artisti
crearono l’anno successivo Orfeo ed Euridice, al cui successo contribuirono
in maniera significativa anche le capacità canore e attoriali del protagonista,
il castrato Gaetano Guadagni. L’immediata novità drammaturgica di
una simile operazione, unita al suo grande impatto scenico, garantirono
all’opera un successo che perdura a tutt’oggi: l’opera ebbe una diffusione
capillare e immediata sui palcoscenici europei dell’epoca, e il compositore
stesso ne approntò nel 1774 una versione in francese per le scene parigine,
dal titolo Orphée et Eurydice. Entrambe le versioni musicali dell’opera si
radicarono nel repertorio operistico durante l’Ottocento, per essere a loro
volta rielaborate da altri compositori (come la versione approntata per il
grande contralto Pauline Viardot dal compositore Hector Berlioz nel 1859,
che ascoltiamo in questo allestimento del Teatro Massimo) o utilizzate
come canovaccio per divertenti parodie musicali (quali l’operetta Orphée
aux Enfers di Jacques Offenbach del 1849).
Le motivazioni di una simile diffusione dell’Orfeo/Orphée gluckiano sono
da ricercare in primis nelle sue peculiarità strutturali, che ancora oggi lo
rendono efficacissimo sulla scena.
Il libretto, innanzitutto: Calzabigi non rappresenta la consueta peripezia
di Orfeo con il finale tragico, ma ne mette in scena una versione molto
lineare con soli tre personaggi, nella quale Orfeo (che vediamo in scena
fin dall’apertura di sipario) viene spinto da Amore al viaggio ultraterreno
alla riconquista di Euridice, e nonostante le enormi difficoltà riesce nella
sua impresa. Appare chiaro come realizzare un intreccio avvincente
non fosse uno degli intenti di Calzabigi, il cui scopo è piuttosto quello di
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ORPHÉE À LA POSTMODERNE: IL PERCORSO DEL MITO ALL’INCROCIO TRA DANZA E MUSICA
dipingere l’evoluzione delle emozioni dei personaggi in una serie di tableaux
scenici, coerenti al loro interno e assolutamente intensi dal punto di vista
drammatico. Anche la scelta di utilizzare soltanto così pochi personaggi
permette di concentrare e distillare il dramma nella sua forma più pura
e immediata; l’impatto viene accentuato anche grazie a momenti come
l’inizio dell’opera, che parte in medias res mostrando Orfeo e il coro che
piangono la morte di Euridice (precedente all’azione stessa), richiamandosi
alla struttura archetipica delle scene funebri, diffusa come topos letterario
fin dalla tragedia classica.
Al dramma delle parole si aggiunge la forza del ballo, grazie all’intervento di
Angiolini, uno dei primi coreografi moderni ad andare oltre la dimensione
meramente decorativa della danza teatrale: egli teorizzò e mise in pratica
(anche con il gluckiano Don Juan) il ballo pantomimo, ovvero un’azione
coreutica che abbia anche una potenza narrativa, e riesca a raccontare
anche senza usare necessariamente le parole. Per questo l’opera è ricca
di numerosi inserti coreografici danzati, come l’intermezzo delle Furie,
momenti che danno modo alla storia di procedere senza appesantire la
drammaturgia con pezzi vocali statici.
Infine, la musica: Gluck attua scelte musicali molto peculiari, ben conscio
di stare riformando l’idea stessa di opera lirica. Innanzitutto egli non abusa
della consueta (per l’opera settecentesca) distinzione tra aria e recitativo,
ma segue la traccia di Calzabigi creando delle scene musicalmente coese pur
diversificandole attraverso vari strumenti formali (pezzo chiuso, recitativo,
declamazione) senza soluzione di continuità. Gluck è grande anche nell’uso
sapiente dei diversi timbri orchestrali, utilizzati per connotare in maniera
precisa ogni singolo dettaglio drammaturgico, e per marcare il viaggio di
Orfeo nell’Oltretomba con un vero proprio viaggio sonoro.
Ciò che ha reso Orfeo/Orphée un capolavoro del teatro musicale è
esattamente questa riuscitissima alchimia e interconnessione tra i diversi
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ORPHÉE ET EURYDICE
linguaggi artistici: musica, poesia e danza puntano tutte verso lo stesso
obiettivo comune, il dramma. Una prospettiva estremamente in anticipo
sui tempi, almeno per il Settecento, e che non a caso verrà ripresa durante
il secolo successivo da un altro gigante dell’opera lirica, Richard Wagner, a
proposito della riflessione teorica sull’estetica del dramma musicale: «Danza,
musica e poesia, prese separatamente, sono ognuna limitata a se stessa; se
si oppongono ai propri limiti, ognuna si sente schiava, a meno che, giunta
agli estremi, non tenda la mano all’altro genere d’arte corrispondente con
un amore tutto pieno di riconoscimento. Completandosi reciprocamente
nel loro giro alternato, le arti sorelle si metteranno in evidenza ora tutte
insieme, ora a due a due, ora isolatamente, secondo la necessità dell’azione
drammatica che è unica legge e misura», come scrive nel suo fondamentale
L’opera d’arte dell’avvenire (1849). Se l’unione tra la parola/dramma e la musica
è un’istanza presente fin dalla nascita nel Seicento del genere operistico
(e anzi ne costituisce la novità rispetto alle forme teatrali precedenti),
è la comparsa della danza come elemento fondante e strutturalmente
irrinunciabile a rendere diversa l’equazione scenica, e a stimolare soluzioni
creative sul palcoscenico. Secondo le parole wagneriane, questo tipo di
atteggiamento è l’unico che possa portare ad una vera ridefinizione dell’arte
drammatica, presentando una continua sfida per ogni vero artista.
Era dunque quasi inevitabile che anche l’opera gluckiana, così conosciuta
e diffusa, venisse utilizzata come un laboratorio di sperimentazione scenica
per quel macrofenomeno che l’arte teatrale conobbe tra Otto e Novecento,
ovvero l’avvento della regia teatrale (anche in campo operistico) e tutti
i suoi sviluppi nel corso del XX e XXI secolo. All’interno della fittissima
rete di rimandi e influenze reciproche tra le varie discipline artistiche,
sicuramente un contatto particolarmente fruttuoso è stato quello tra la
regia lirica e la corrente della postmodern dance, a cui diede inizio il grande
ballerino e coreografo americano Merce Cunningham (1919-2009): sin
dagli anni Quaranta aveva collaborato con John Cage (suo compagno di
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ORPHÉE À LA POSTMODERNE: IL PERCORSO DEL MITO ALL’INCROCIO TRA DANZA E MUSICA
vita e di sperimentazione artistica) alla creazione di performance di teatro/
danza/musica assolutamente avanguardistiche, nelle quali i movimenti
coreografici «non si adattano, bensì si confrontano, con la traccia musicale»,
come lui stesso dichiarò in più occasioni. Cunningham fu uno dei primi
artisti della scena teatrale ad aver sostituito il concetto di spettacolo preordinato con quello della performance a cui si arriva attraverso una fase di
creazione in fieri durante le prove. Ai suoi danzatori Cunningham affida il
ruolo di veri e propri interpreti: essi sono liberi di rallentare o velocizzare
i movimenti, scegliere la successione delle frasi coreografiche da eseguire,
interiorizzandoli ed interpretandoli.
Questo è l’orizzonte estetico all’interno del quale tutti i registi/coreografi
dalla seconda metà del XX secolo in poi si sono confrontati, riprendendo
e rielaborando ciascuno in maniera personale l’idea del confronto
dialetticamente attivo tra danza, musica e dramma, confronto che porta
all’arricchimento dei livelli di significato dell’opera lirica stessa, inserendo
così anche la regia lirica all’interno di quella proteiforme branca del pensiero
contemporaneo che è il postmoderno. Come dimostra la sempre crescente
riscoperta di melodrammi del Sei-Settecento a cui assistiamo da alcuni
decenni, tale atteggiamento artistico multidisciplinare ben si sposa con le
caratteristiche dell’opera barocca in senso lato; un genere, quello barocco,
che per la sua costituzione permette, anche più del repertorio operistico
tradizionale, un riadattamento creativo al gusto scenico odierno, attraverso
quella che è possibile definire una vera e propria seconda creazione della regia (in
contrapposizione alla prima creazione, ovvero la composizione dell’opera stessa).
Nonostante il mondo del teatro lirico di regia sia una vero e proprio mare
magnum (sia quantitativamente sia qualitativamente parlando), è possibile
dunque individuare un vero e proprio filone afferente l’opera dance theater,
ovvero un insieme di artisti che utilizzano programmaticamente la danza
come elemento basilare, quasi ‘grammaticale’, all’interno del linguaggio da
loro scelto per mettere in scena un’opera lirica. Si tratta di artisti aventi
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ORPHÉE ET EURYDICE
in comune soltanto il retroterra coreografico della loro formazione, fatto
che fornisce la stessa forma mentis nell’approccio allo spettacolo, basato
sulla coordinazione di diversi linguaggi per concorrere ad un obiettivo
comune. Ovviamente il cimentarsi con il genere operistico pone una simile
operazione ad un altro livello rispetto alla semplice necessità di una gestione
armonica dei movimenti scenici (ovvero la coreografia tradizionalmente
intesa), e proprio per questo la sfida è grande e spesso apportatrice di nuove
e feconde sperimentazioni.
Una delle figure chiave in questo senso è quella di Trisha Brown, coreografa
americana che si è approcciata in diverse occasioni al teatro musicale
barocco, fin dagli anni Ottanta. Una delle sue creazioni sicuramente più
riuscite è la regia per l’Orfeo di Claudio Monteverdi (non a caso ritorna
ancora una volta il mito), andato in scena per la prima volta nel 1998 al
Théâtre de la Monnaie di Bruxelles. Trisha Brown si pone di fronte, novella
Gluck, alle questioni legate alla ridefinizione di un genere di spettacolo
che sente aver bisogno di nuova linfa; il concetto chiave che elabora come
base dell’intero allestimento è un particolare tipo di movimento, una sorta
di gesto continuo che non è solo danza e non è solo recitazione, e che si
sovrappone alla musica e al canto: un movimento che la regista stessa definì
in un’intervista come «qualcosa di intermedio tra la recitazione e la danza
vera e propria, e che è al tempo stesso qualcosa che va oltre ad entrambe».
Non si tratta dunque di enfatizzare i momenti di danza già presenti nel
libretto, ma di aggiungere una vera e propria dimensione dello spettacolo,
giungendo ad un nuovo equilibrio tra le componenti sceniche, secondo
i principi della cosiddetta contragestica, ovvero l’analogia tra i movimenti
delle parti vocali (i cui rapporti sono dettati dalle leggi del contrappunto e
dell’armonia) e i movimenti corporei (che seguono anch’essi regole proprie),
per la quale le diverse parti del corpo (o i diversi ballerini) interpretano un
gesto differente che si ispira in varie modalità alla musica e al libretto.
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ORPHÉE À LA POSTMODERNE: IL PERCORSO DEL MITO ALL’INCROCIO TRA DANZA E MUSICA
Così facendo Trisha Brown riesce quasi a ‘riscrivere’ la storia dell’Orfeo
monteverdiano (che è assolutamente analoga a quella dell’opera
gluckiana, a parte il finale tragico), e narra in parallelo attraverso la
dimensione coreografica una seconda trama, incentrata sulla connessione
tra amore e morte, l’esperienza dei propri limiti umani e l’inesorabilità del
destino. Mettendo in risalto, cioè, tutte quelle tematiche universali che
caratterizzano l’archetipo della narrazione mitica in cui si inserisce la storia
di Orfeo. La regista aggiunge dunque alla dimensione poetico-musicale di
Orfeo un complesso apparato coreografico (fatto di movimenti sia micro
che macroscopici), creando così una scrittura drammaturgica a strati; per
esempio, nella scena durante la quale la Messaggera narra della morte di
Euridice, la cantante deve bipartire le azioni del proprio corpo, con il lato
destro che esegue azioni geometriche ed astratte (ad esempio, il braccio e
la mano tesi verso l’alto), mentre quello sinistro risponde ad una gestualità
emotiva (la mano che convulsa e tremante stringe la veste): la scissione del
corpo simboleggia quella della mente, sconvolta dal dolore della perdita.
Esemplare, anche perché porta la cifra estetica complessiva dell’intero
spettacolo, è anche il finale dell’opera: dopo che Orfeo ha perso Euridice
definitivamente e sta per ascendere al cielo insieme al padre Apollo (e la
festosa danza finale sottolinea musicalmente la sua apoteosi), entrano in
scena delle danzatrici a rappresentare le Baccanti, che rapiscono Orfeo
per ucciderlo. Trisha Brown riesce anche qui ad andare oltre alla semplice
illustrazione coreografica della musica, per rappresentare un altro possibile
esito della vicenda di Orfeo (riprendendo peraltro una seconda versione
del mito greco, piuttosto diffusa nella letteratura antica), e instillare in noi
la riflessione sulla vera natura del superamento delle tragedie che la vita
talvolta ci porta ad affrontare. Da un lato vediamo infatti rappresentata
la volontà di annullamento di se stessi attraverso il dolore della perdita (le
Baccanti che smembrano Orfeo), dall’altra il bisogno e il tentativo di dare
un senso al dolore stesso, cercando di affidarsi a qualcosa di più grande di
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ORPHÉE ET EURYDICE
se stessi (l’apoteosi/fuga verso il cielo). Una soluzione non c’è, nel senso che
non ce n’è una sola: e qui sta il messaggio universale che solo i grandi artisti
come la Brown riescono a lanciare.
Un’altra artista fondamentale nel nostro percorso è Sasha Waltz, coreografa
tedesca che ha raccolto l’eredità artistica e intellettuale di Pina Bausch,
pioniera (al pari di Merce Cunningham e Trisha Brown) della danza
postmoderna. Sasha Waltz ha debuttato nel campo della regia lirica nel
2004 con Dido and Aeneas di Henry Purcell, spettacolo che le è valso un
successo europeo strepitoso e la ha indotta a proseguire nel campo della
sperimentazione in campo lirico.
Sempre attenta anche alla riflessione sul valore estetico del proprio
operato e ben consapevole del proprio innovativo contributo, l’artista ha
dichiarato di volere «fondere e confondere tra di loro i diversi livelli dello
spettacolo [ovvero musica, parola e danza], senza che uno dei tre risulti
predominante». Qui Waltz si richiama esplicitamente all’estetica di quel
TanzTheater portato avanti dalla sua maestra Pina Bausch: un termine che
richiama l’unione tra danza e teatro, nella forma di una danza allegorica e
simbolica, fortemente animata da continui riferimenti al teatro e alle arti
figurative. Sasha Waltz compie lo stesso tipo di operazione applicandola ad
un testo di partenza già di per sé complesso, creando un nuovo genere ibrido
che lei stessa ha definito OpernTanzTheater. Nel suo allestimento di Dido
and Aeneas il movimento coreografico viene utilizzato come vero e proprio
tessuto connettivo dell’intero spettacolo: esso permette di ampliare con la
danza alcune sezioni eccessivamente sintetiche del dramma, che aiutano a
caratterizzare meglio l’intera storia, come ad esempio la rappresentazione
festosa della corte di Didone nel primo atto, o la grande scena finale del
lamento di Didone e del suo suicidio dopo l’abbandono di Enea.
Ma la regista non si ferma qui. La storia dell’opera (tratta dal quarto
libro dell’Eneide di Virgilio) racconta dell’infelice storia d’amore tra il
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ORPHÉE À LA POSTMODERNE: IL PERCORSO DEL MITO ALL’INCROCIO TRA DANZA E MUSICA
fuggiasco troiano Enea e la regina di Cartagine Didone: il loro amore è
però contrastato dal destino, che ha previsto per Enea di non fermarsi a
Cartagine, ma di continuare il viaggio verso l’Italia per fondare la città che
poi diventerà Roma. Il contrasto è dunque una delle tematiche fondamentali
del testo, e che Waltz esplica nella rappresentazione conflittuale del
rapporto tra dimensione individuale e collettiva dei personaggi, attraverso
un procedimento che si potrebbe chiamare di doppiaggio coreografico: ogni
personaggio viene interpretato sia un cantante sia da (almeno) un danzatore,
a materializzare tangibilmente sulla scena il fortissimo conflitto interiore di
cui si fa al tempo stesso portavoce. La danza è dunque funzionale anche
ad amplificare nello spazio fisico ciò che esprime il solista attraverso la
musica e le parole, in modo da aggiungere nuovi livelli di significazione alla
scena, e così facendo Sasha Waltz riesce a portare in superficie le tematiche
universali dell’opera: il contrasto tra dovere e libertà, la responsabilità delle
proprie scelte, l’amore, la morte.
La complessità delle idee registiche degli allestimenti appena illustrati, così
come quelle della maggior parte delle regie liriche degli ultimi trent’anni, ha
portato alla necessità di definire il concetto di partitura ipertestuale, ciò che
permette di indagare il risultato della sovrapposizione e coordinazione delle
diverse arti e testualità coinvolte in uno spettacolo (musica, parola, canto,
danza, scenografia). Attraverso l’osservazione e lo studio delle partiture
ipertestuali (sempre diversa perché sempre diversa è la combinazione
dei singoli elementi) risulta chiaro come le ultime tendenze in campo di
allestimento lirico si possano inserire in un percorso storico-culturale ben
preciso, afferente al più ampio campo delle performing arts, e che si sia
dato inizio a quella che è stata chiamata da molti critici la «ridefinizione
della forma scenica attraverso la fluidificazione dei linguaggi». Che cos’è
questa definizione, se non la versione aggiornata in senso postmoderno del
concetto wagneriano di Gesamtkunstwerk?
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ORPHÉE ET EURYDICE
L’estrema coerenza (e la conseguente grande efficacia scenica) è una
caratteristica macroevidente di questi allestimenti (o quantomeno di quelli
riusciti), ed è il risultato proprio della sintesi delle varie arti coinvolte, che
crea di volta in volta processi scenici diversi ma efficaci, quali la scrittura
drammaturgica a strati o il doppiaggio coreografico. La sintesi delle arti è
un’utopia collettiva che attraversa la cultura europea da ormai più di due
secoli, sin dalla fine del Settecento (inizia proprio con l’operazione che portò
alla nascita dell’Orfeo gluckiano), sempre in una costante metamorfosi dove
gli elementi di originalità si mescolano, in modo talvolta indissolubile, con
quelli, consapevolmente o meno, ereditati dalle forme d’arte precedenti.
Le radici non vengono mai tagliate del tutto o perdute, ma sono rigenerate
e rivitalizzate dal nuovo, e c’è sempre un legame inestricabile tra l’eredità
culturale precedente e l’innovazione dell’esperienza. L’unico requisito per gli
artisti/registi di oggi (oltre alle competenze tecniche, è chiaro) è il coraggio
di mettere in scena le proprie idee e visioni del mondo; come si è visto (e si
continuerà a vedere), nel campo dell’opera barocca i registi non mancano
certo del coraggio di confrontarsi con le problematiche dell’allestimento
contemporaneo e di fornirne una loro rinnovata rimediazione estetica,
personale ma universale allo stesso tempo.
Proprio come se fosse la narrazione di un nuovo capitolo del racconto del mito.
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il percorso del mito all`incrocio tra musica e danza