LA MIA PARIS-BREST-PARIS CRONACA DI UN FALLIMENTO SPORTIVO DI STRAORDINARIO SUCCESSO “Bon courage!”, “Alè, alè, alè ….. bravò!!”, “Bon rout, alè alè ….”. Non esistono altri suoni con certezza distinguibili sotto il varco dello start all’ombra del maestoso Velodrome National di Saint-Quentin-en-Yvelines in Paris. Si sentono perlopiù voci festanti di bambini che tendono la mano all’interno del percorso transennato per un fugace ed intenso contatto con chiunque dei 5867 viaggiatori a pedali in partenza per Brest. In quel momento realizzo di non essere solo una lettera e un numero (L096), ma al contrario di essere protagonista di una pazzesca avventura, confuso all’interno della pancia di un enorme serpentone di ruote e colori di cui non si distinguono nè testa nè coda. Il calore e la partecipazione della gente assiepata lungo i primi kilometri in uscita dal sobborgo parigino sono di quelli che ti spingerebbero a compiere qualsiasi impresa pur di contraccambiare in gesta quell’entusiasmo; persino gli automobilisti, bloccati a ridosso del marciapiede opposto dall’imponente servizio di vigilanza, partecipano alla kermesse strombazzando e sporgendo la mano dal finestrino per il loro tape-m’en-cinq. “Bravò, italien!”….. “Mercì” dico io ……. “No, mercì a vous” rispondono loro …… Come mercì a vous? Cerco di capire il significato di quella risposta pronunciata più volte lungo tutto il percorso; dopo una prima spiegazione di carattere meramente economico (è innegabile che il PIL della regione sia cresciuto in cinque giorni di diversi punti percentuali) mi rendo conto che per la famiglia dell’entroterra francese, seduta a tavola in giardino per la cena con vista sul giro di Bretagna, il transito di ciclisti di ogni razza e di ogni colore sia un vero spettacolo pirotecnico, perché si sa …. il francese sta al ciclismo come l’italiano sta al calcio: tutti allenatori della nazionale azzurra lungo lo Stivale, tutti direttori sportivi alla Grand Boucle all’ombra della Tour Eiffel. Sono questi i pensieri che campeggiano imperiosi nella mia mente e che mi permettono di vivere in modo sorprendentemente distaccato quello che sta accadendo alle mie spalle dove il Capitano di spedizione Paolo Romei, giunto alla partenza parigina con un’Anziana Signora del 1974 di nome Bianchina, Bianchì per gli amici francesi, sta facendo l’impossibile per mantenere bloccato il pedale sinistro nella pedivella. La diagnosi era arrivata fulminea come una fucilata sparata a bruciapelo quando a -55 minuti dalla partenza il pedale aveva cominciato pericolosamente a ballare nell’incastro filettato della sua pedivella. La faccia perplessa ed impotente del meccanico era stata sufficientemente chiara: “C’est impossible, ne pouvez pas faire” che tradotto significava: devi partire così e sperare che il pedale non si stacchi prima di domani mattina quando dovrai cercare un’officina. Ah, il tuo compagno? E’ bene che cominci a maturare l’idea di andare da solo! Così, mentre alla partenza lo speaker lanciava la ola tra i partecipanti schierati in griglia, io resettavo il computer di bordo per shiftare sulla modalità di pedalata solitaria. I bambini e le loro piccole mani per un istante mi distraggono da quella sorda preoccupazione, ma al Km 0009 di 1230 da percorrere il richiamo di un corridore francese su quanto accade nelle retrovie chiude ogni speranza. Paolo è fermo e io sono solo. Il tramonto sulla campagna francese è di quello a colori caldi; le ombre lunghe degli alberi proiettate sull’asfalto dei numerosi tratti vallonati sono interrotte dalle migliaia di lucine rosse che in fila indiana ricamano le colline e disegnano perfettamente il percorso davanti alla mia ruota per molti kilometri. Sono solo, solo tra migliaia e non so che fare: ritirarmi e rimpiangere la scelta per tutta la vita? Proseguire verso l’ignoto? Decido di non decidere e, innestato il pilota automatico, mi ritrovo teletrasportato in pochi attimi a Mortagne au Perche, Km 140, 15 minuti dopo la mezzanotte: 5 ore e 45 minuti dalla partenza vissuti con la stessa emozione di una picchiata sulla discesa più ripida della più alta montagna russa. Ho dormito in abbondanza la notte precedente e in più posso contare sul sonnellino ristoratore del primo pomeriggio consumato sopra una panca all’interno del Volodrome subito dopo il buffet luculliano pre-gara. E così, proprio non mi pongo il problema di come affrontare la notte appena iniziata: semplicemente pedalo, sulla scia dell’adrenalina alle stelle e del sentiero a luci rosse. Alle 5 del mattino di lunedì 17 sperimento l’ebrezza della prima timbratura sul libretto di viaggio, mio inseparabile compagno e censore instancabile della tabella di marcia, a Villaines la Juhel in una terra di confine tra la Bassa Normandia e i Paesi della Loira. Km 220, in pratica una randonnèe di inizio stagione ma percorsa per lo più di notte ad un tasso di umidità altissimo. Durante questa prima notte si pongono le basi di numerosi ritiri, ciclisti che hanno sottovalutato, complici le perfette condizioni meteorologiche, il freddo notturno della campagna francese. All’alba diversi di loro giacciono raggomitolati con una tazza di brodo in mano avvolti nella coperta termica di sopravvivenza. Il computo totale dei ritiri alla fine della manifestazione sarà di 1217 Atleti, in pratica quasi 1 su 5: gran parte di questi abbandonerà la gara ad ogni sorgere del sole per un’errata gestione del viaggio notturno. Per mia natura non soffro il freddo e peraltro, parte della zavorra posteriore, è costituita da diversi capi di abbigliamento che ho correttamente indossato alla pausa/cena di mezzanotte (niente spaghettata, solo panini innaffiati con pocket coffee). All’alba le mie condizioni sono buone, non ho freddo, sono in prefetto orario dopo una cavalcata ai 20 Km/h di media e ho letteralmente preso a calci l’idea di abbandonare. Si va avanti fino alla fine, costi quel che costi! La giornata è calda e soleggiata, il sole dissolve paure e incertezze ma al tempo stesso getta una luce sinistra sulle colline del dipartimento della Mayenne (alta regione dei Paesi della Loira): niente più vallonamenti, solo boschi e ripide colline, in pratica una miniatura dei nostri Appennini. E’ solo una assaggio di ciò che aspetta gli erranti conquistatori dell’oceano bretone, ma io, ignaro, proseguo e supero il confine orientale della Bretagna in località Fougeres, Km 309, ore 11 del mattino. Qui finalmente capisco cosa mi sta dando la forza di continuare. Durante la notte, precisamente alle ore 03:37, momento in cui la lampada frontale aveva deciso di litigare con le batterie appena cambiate (risultato: buio!), avevo ricevuto il seguente messaggio: “Mi sono svegliato ed ho pensato di mandare un forza MARCO”. La commozione era stata improvvisa e travolgente il desiderio di portare a termine questa pazza super Randonnèe prontamente ribattezzata “What’sa-rando”. A questo messaggio ne erano preceduti decine e centinaia ne sarebbero arrivati nei giorni a seguire da coloro che, pur condividendo la passione della due ruote, erano stati saggi nel non imbarcarsi in questa impresa. In quel momento avevo capito che, pur non potendo contare sull’insostituibile presenza del mio Capitano, avevo alle spalle una squadra a cui appoggiarmi e a cui fare riferimento per affrontare difficoltà fisiche, tecniche e psicologiche. Da quel momento avevo deciso che il tempo per scrivere e parlare non sarebbe mai stato tempo perso. E con questa convinzione avevo mandato al diavolo lampada e batterie concentrandomi sul ritmo di pedalata e sulla luce fioca dello schermo del cellulare. Il pomeriggio di lunedì 17 agosto è stato, analizzando retrospettivamente tutto il percorso fatto, il più difficile. Ero giunto 5 minuti prima delle 15 al punto di controllo di Tinteniac dopo 54 Km di saliscendi (Km 363). Per la prima volta avevo appoggiato la Deda nero/titanio ad una parete sperando in cuor mio di non ritrovarla più per avere un’inequivocabile scusa e ritirami. Era questo un primo segnale di cedimento psicologico? Forse, ma a questo punto tornare indietro sarebbe stato più difficile e psicologicamente più destruente che proseguire verso il giro di boa. Sono sveglio da circa 24 ore ma con mia grande sorpresa non ho necessità di dormire; l’adrenalina è ancora molto alta e la motivazione al raggiungimento del mio primo obiettivo intermedio, i 400 Km, mi sostiene con grande vigore. Nella mia personale interpretazione di questa manifestazione, 400 è un numero magico: significa essersi messo alle spalle il primo terzo del percorso, significa poter usufruire del materiale di supporto in un “drop bag” appositamente allestito da Casa Italia e soprattutto significa arrivare al cospetto della seconda notte di viaggio. La familiarità con cui i ragazzi di Casa Italia mi accolgono (Quedillac, Km 389), mi ricorda che non parlo italiano dalle 18:45 del giorno prima e questo acuisce il senso di solitudine sin qui sperimentato. L’assenza della “ruota amica” di un Compagno si fa sentire, eccome. Saltare da una ruota all’altra per succhiarne la scia può forse essere fisicamente vantaggioso ma psicologicamente del tutto inutile. In questo il destino mi offre una via di uscita: incontro pronti per la ripartenza i due i due Top Rider Storici a bordo dei loro destrieri dei primi del ‘900. Una folgorazione, una speranza: si va insieme! Ma, mi accorgerò solo dopo, ora non sono più lucido. Commetto in pochi minuti una serie di errori che si riveleranno cruciali. Salto a Quedillac la prevista doccia ed il cambio degli indumenti per recuperare il tempo sin qui perduto: comincio a essere in ritardo sulla tabella di marcia. Ma come?? Dopo tutto quello che ci eravamo detti prima della partenza sull’importanza dell’igiene del soprassella! Nella fretta di ripartire mi dimentico di mangiare! E ancor più grave, dopo i primi kilometri decido di abbandonare gli Storici Italiani perché li giudico troppo lenti. Ma come?? Sono arrivati a Quedillac un’ora prima di me e io ora li giudico lenti? Il risultato di tutto ciò è che a circa 30 Km dall’arrivo di tappa sono sfinito e accuso i primi sintomi di quella che si rivelerà una grave irritazione cutanea locale. In questo preciso punto il percorso di inasprisce come quando a bordo di una piccola imbarcazione si lasciano le acque sicure del porto e si affronta il mare aperto agitato da un vento che soffia a 50 nodi: qui in Francia il vento non c’è, ma i cavalloni coperti di asfalto si! Ai piedi della prima ripida salita mi sdraio sul prato di una rotonda da dove vedo sfilare gli Storici. Non ho la forza ed il coraggio di chiamarli, è un colpo durissimo. Rido, piango, impreco e mi rimetto in sella: “chi non ha testa, ha gambe” dicevano i nostri avi ….. Punto di controllo di Loudeac, Km 449, ore 20:52. Un’ora e trenta di ritardo sulla tabella di marcia. Loudeac, una trappola mortale, un porto di mare, si potrebbe dire, se non fosse che l’oceano dista ancora 150 Km! E’ questo l’ombelico del mondo bretone dove coloro che viaggiano sognando il profumo del mare si scontrano con coloro che hanno già visto esaudito il loro desiderio. Risultato: un gran casino! L’ideale sarebbe timbrare, salutare e sparire verso ovest. Ma ….. sono sfinito. Mi muovo e agisco meccanicamente senza pensare realizzando quello che avevo pianificato in strada. Doccia, ok; cibo, ok, tempo, ho perso due ore …. troppe! Ma capisco anche che non avrei potuto far diversamente. Sono le 23:00, non mi resta che riposare. Quattro ore e 30 minuti di sonno ristoratore e più sogni tra cui spicca l’incubo di svegliarmi con il sole già alto nel cielo. Ma questo l’impeccabile organizzazione francese non lo permetterebbe mai, perché accanto al mio numero di gara e il mio numero di branda è riportato anche l’orario di sveglia. Chapeau, garcons! Alle 4:00 del mattino (martedì, 18 agosto) l’aria è gelida ma il freddo penetrante cala dalle colline insieme alla nebbia tra le 5 e le 7 sino al sorgere del sole che nella mia mente equivale alla rinascita. La spossatezza è passata, lo sconforto un po’ meno, ma la giornata sarà soleggiata e luminosa e per la prima volta riesco a cogliere la bellezza dei luoghi che attraverso. Capisco anche che la parola miracolo applicata alla macchina perfetta di cui siamo gestori non è priva di significato; nonostante tutto sono rigenerato, ho forza nei muscoli e desiderio di proseguire … un miracolo appunto! E quello che non riesco a fare io, lo fa la gente del posto che fornisce un supporto logistico e di vettovagliamento al prezzo di una stretta di mano, di una firma su un quaderno o di un’offerta libera: la mia colazione oggi è caffè latte con baguette spalmata di burro salato consumata in un garage, impagabile! Il profumo dell’oceano è a portata di olfatto, ma capisco che è tutto frutto di una elaborazione mentale: sono continuamente immerso in aree boschive sino alla stazione di Charhaix-Plouguer, ore 8:33, Km 525 a soli 90 Km dal mare. Mai desiderato così prepotentemente il mare io che amo i boschi e le montagne! Ma oggi, per uno scherzo del destino, se voglio raggiungere l’oceano devo scalare una montagna. La colline del Massiccio Armoricano sono molto piacevoli da percorrere in prima mattinata con il sole radente che filtra tra i boschi di conifere. Raggiungo la vetta dell’asperità maggiore intorno alle 10:00 avendo percorso l’ascesa prevalentemente sui pedali. L’irritazione del soprassella è purtroppo in peggioramento al punto tale che mi vedo costretto a scegliere tra l’integrità muscolare delle gambe e l’agibilità del punto di appoggio sul sellino. Da questo momento in poi pedalerò sino alla fine (circa 700 Km) cercando ad ogni movimento il sempre più difficile compromesso tra agilità e spinta di un rapporto duro per alleviare il peso sulla sella. Brest è a sole tre ore di strada e questo pensiero mi è sufficiente per elevare la concentrazione di endorfine sino a lenire il dolore. La strada di accesso alla città di Brest è infinita e costellata di saliscendi anche in doppia cifra, ma il miracolo si compie anche questa volta e dopo una curva cieca a destra appare lui, il ponte dell’Iroise, vessillo della cittadina marinara per noi ciclisti che non saremo mai in grado di raggiungere il ben più famoso Faro. E’ fatta, ora l’odore dell’oceano non è un’allucinazione e con lui non lo sono neanche i profumi delle fritture di pesce che trasudano dalle trattorie lungomare. Il giro di boa scocca alle 13:30, Km 618 percorsi alla velocità media di 14.3 Km/h, pericolosamente a ridosso della velocità minima utile per non scivolare nell’over time. I numeri parlano chiaro: in 43 ore mi sono già bruciato le quattro ore di margine pianificate a tavolino per concludere la manifestazione con brevetto. Smaltita l’ebrezza della meta intermedia e respirata a pieni polmoni l’aria di mare, da ora inizia una difficile rincorsa del tempo perduto. Unico vantaggio: la piena consapevolezza delle difficoltà da affrontare sulla via del ritorno. Giusto? No, sbagliato! Primo punto: la salita da livello mare sulla sommità del suddetto massiccio montuoso non è paragonabile a quella affrontata in andata. E io arrivo in sommità stanco ma ancora in grado di regalare una piccola emozione ai molti spettatori presenti in cima al colle saltando sui pedali per superare 4 o 5 colleghi di fatica; è un fuoco di paglia, ne sono consapevole, ma è uno dei rari momenti di divertimento e di orgoglio personale che riesco a concedermi. Da quel momento purtroppo la strampalata posizione in sella per l’irritazione al gluteo sinistro mi determina una tendinite achillea destra. Quindi ricapitoliamo: l’irritazione al soprassella vorrebbe che stessi sui pedali, la tendinite vorrebbe che stessi seduto. Che fare? In questo senso la bici è la metafora della vita: la ricerca di un continuo difficile compromesso! Nonostante il feroce litigio gluteo-achilleo riesco a raggiungere Charhaix-Plouguer intorno alle 20:00 (Km 703), circa un’ora prima di quello che avevo immaginato, ma è probabile che avessi sbagliato a fare i conti più che aumentato i giri. Non è ancora il momento di dormire e l’idea di riavvicinarmi a Loudeac mi fa inorridire ma ragionando giungo alla conclusione che per allora la maggior parte degli atleti avrà già guadagnato il confine bretone orientale. Secondo punto: la stessa strada cambia completamente fisionomia quando percorsa all’alba e all’imbrunire. Spendo la giovane notte appena iniziata nel dedalo dei boschi nelle vicinanze di Loudeac con il terrore di sbagliare percorso e sparire per sempre. Sono costretto ad aspettare luci amiche quando mi avvicino ad un dubbio incrocio e questo contribuisce a rallentarmi. Il risultato è che raggiungo Loudeac solo alle 02:30 di mercoledì 19/8 ad una velocità media di tappa di soli 12 Km/h: troppo poco per definirla rincorsa! Raccolgo le mie residue facoltà matematiche e decido che potrò riposare un’ora in meno del tempo programmato, due ore in tutto. Mi addormento masticando l’ultimo boccone della baguette au jambon e questa volta spero di svegliarmi in tarda mattinata, ma i garcons sono ancora impeccabili, peccato! Lungo la strada per Tinteniac ritrovo il garage adibito a cambusa che non perdo occasione di rivisitare. Mentre mangio cerco la mia firma di sole 24 ore prima: ci sono centinaia e centinaia di nomi dopo la mia sosta (e di oboli penso, e rido …), decine di pagine firmate e commentate e capisco che quel libro è come un tesoro da custodire gelosamente. Mi rimetto in sella con la prua ad oriente e con il ricordo di questa famiglia e del suo garage nel cuore a contrastare la sempre più forte preoccupazione di essere in ritardo. Tinteniac (Km 867) arriva alla 64^ ora di cavalcata in una mattinata dal cielo triste e velato durante la quale per la prima volta faccio fatica a scacciarmi dalla mente il pensiero della notte, seppur l’ultima, che mi separa dal traguardo. In queste distanze siderali è vincente affrontare il percorso ristoro per ristoro, paese per paese, curva o dosso per curva o dosso cancellando ciò che si è fatto e quello che si è in procinto di fare; ma oggi questo meccanismo di protezione mentale è saltato e io mi trovo in balia del “quello che verrà”. Sono in procinto di lasciare la Bretagna; con essa l’ottimismo maturato in riva all’oceano e progressivamente smarrito nella boscaglia. Il Km 921 del punto di controllo di Fougeres si avvicina con pericolosa lentezza, ma all’ingresso dell’area di ristoro ho una visione! Smaltita l’incazzatura dell’inaspettato forfait sulle scogliere dell’Alta Normandia a gustare ostriche e cozze per un paio giorni vissuti in ritiro eremitico, Capitan Romei ha dismesso i panni del ciclista atapirato per indossare quelli del direttore sportivo e riportare ordine alla mia azione. Mancano ancora più di 300 Km ma non sono più solo: l’attacco a Parigi può cominciare con rinnovato vigore! Dopo giorni e notti passati con la preoccupazione di come sopravvivere, avere il proprio Compagno ad ogni punto di controllo è come avere la mamma che provvede al cibo, alla biancheria e che ti rimbocca le coperte quando vai a nanna. E in questo contesto che a Villaines la Juhel , Km 1009, ore 21:48, al termine della 75^ ora di pedalata, a poco meno di 15 ore dall’over time e a 220 Km dalla meta, considerate le mie non buone condizioni generali e valutata la necessità di dormire almeno un’ora, decido di rinunciare al brevetto in favore della sicurezza. Avrei dovuto passare la notte completamente in bianco per tentare una disperata rincorsa senza alcuna certezza di successo ma questa decisione mi sembra di gran lunga la più sensata dall’inizio di questa avventura francese. E così, trascorsa un’ora tra le braccia di Morfeo sotto la panca della sala mensa, mi rimetto in viaggio benedicendo le mie ancora integre facoltà intellettive ad ogni incrocio di TIR sulla corsia opposta, quella nella quale mi sono ritrovato per qualche istante con gli occhi chiusi la notte precedente! E’ questa la notte della prima pioggia che tuttavia riesco ad evitare rifugiandomi all’interno di una cabina del telefonica dove dormo raggomitolato per 15 minuti; a questo seguirà un altro microsonno all’ingresso di un’abitazione privata e con questo conquisto un’alba piovosa al controllo di Mortagne au Perche dove ritrovo, al Km 1090, il Paolone e due croissant. Ho la certezza di aver conquistato Parigi, non ho più notti da superare e sono sorprendentemente lucido. Pedalo sotto una pioggia battente che tuttavia non mi toglie il buon umore anche se il gluteo sinistro e la caviglia destra continuano a litigare. A circa 30 Km dall’ultima sosta, un albero al termine di una curva cieca mi ricorda che per pedalare bisogna avere gli occhi aperti. Io lo ascolto e faccio amicizia con il suo tronco per un sonnellino di, indovinate ….. 15 min! Ma è qui che accade un ultimo miracolo. Vengo svegliato dalla voce femminile di un’Atleta brasiliana che mi chiede di seguirla: come rifiutare. Lei purtroppo non potrà essermi di aiuto, troppo veloce, ma il ciclista italiano alle sue spalle si! Abbiamo lo stesso passo, le stesse esigenze, la stessa VAM. Possiamo finalmente formare una squadra, una piccola squadra tricolore a quattro ruote con la quale riusciamo a sviluppare velocità di tutto rispetto. La mia gara non ha più niente da dire, ma la sua si: il mio tempo è scaduto, lui può ancora farcela. Arriviamo e ripartiamo insieme da Dreux (- 65 Km per Parigi); la strategia e chiara: io sto davanti fino a quando il motore reggerà e lui a quel punto spiccherà il volo per il traguardo e per la gloria. Il mio direttore sportivo approva. Il fragile sodalizio tiene botta sino a 20 Km dal Velodrome momento in cui, costretto a fermarmi ed appoggiarmi ad un muretto per riposare, vengo circondato da una famiglia che, preoccupata, mi porge ogni genere di prima necessità. Non è più tempo di indugiare. Il mio compagno connazionale mi ha lasciato al muretto lanciandosi verso la meta: ce la farà per soli 30 minuti e mi piace pensare di aver avuto un ruolo attivo in questa sua vittoria che considero anche un po’ mia. Durante l’alternarsi del giorno e delle notti mi sono immaginato decine e decine di volte il mio arrivo a Parigi, ammesso che fossi riuscito nell’impresa. Ho alternato momenti di grande ottimismo con fanfare e tricolori a momenti di grave scoramento con un arrivo in ambulanza o peggio ancora un non arrivo …. Alle 17:30 di giovedì 20 agosto, 5 ore e 30 minuti oltre il limite del tempo massimo consentito, percorro gli ultimi metri con leggerezza, semplicemente pedalando con lucidità e godendo degli sparuti “Bravò, bravò..” di bambini (sempre loro ….) rimasti a quell’ora tarda. Il sole è ancora alto, il cielo è terso e la giornata è calda, ma la mia adrenalina è crollata e io comincio ad avere freddo …… Ripensando agli eventi di questi giorni ho la certezza di aver portato a compimento un’intensissima esperienza di vita prima che sportiva. Mai nella mia vita ho sperimentato un fallimento sportivo di così grande successo e mai come questa volta ho preso coscienza di quanto, nel momento del pericolo e della difficoltà estrema, sia decisivo il sostegno, l’amicizia e l’amore (la mia famiglia) espressi anche solo con un click! Marco