Amabile Giusti Odyssea Oltre il varco incantato [eBL 117] A Sasha e alle coccinelle che l’hanno chiamata per riposare DALL’ALTRA PARTE Odyssea si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi. La prima cosa che vide furono le macchie di umidità sul soffitto. La seconda, la lampadina storta che pendeva come una coda. La terza, il ragno che le ciondolava sopra la faccia. La quarta, la finestra aperta. Si sollevò reggendosi sui gomiti e prendendo fiato, col viso molle di sudore e le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe. Aggrottò la fronte e, per una frazione di secondo, ebbe il dubbio di stare ancora dormendo. Le macchie grigie erano al loro posto, la lampadina non si era mossa di un millimetro, perfino la passeggiata del ragno era la solita, ma tutto il resto non le era per niente familiare. Il letto non doveva essere lì, non sotto la finestra, e la finestra non doveva essere aperta. Invece le imposte erano spalancate, e la tenda, uno scampolo di stoffa traforata come una rete da pesca, stava arrotolata dietro la cinghia che tirava su la tapparella. Scendendo dal letto notò un altro insolito particolare. Il tappeto di rafia, così ruvido da graffiarle tutte le volte i talloni, era sparito. I suoi piedi nudi avvertirono solo il tepore del pavimento di finto legno. Eppure quella era la sua stanza. Guardandosi attorno riconobbe l’orrendo pagliaccio dal ghigno sbieco disegnato sulla porta, e l’armadio con le ante ricoperte di adesivi e figurine di calciatori. E quello era il suo letto, anch’esso di finto legno, con la testiera bianca che somigliava a una lapide. Tutto sembrava stravolto però, come se un gigante avesse dato una scrollata alla casa mentre lei dormiva. Il che non era affatto improbabile, visto come si sentiva. Le girava la testa e una nausea leggera le chiudeva lo stomaco. In quel momento il battito delle nocche di sua madre risuonò proprio dietro la schiena del clown. Ormai era in grado di intuire a distanza il suo grado di nervosismo. Quando bussava a raffica e stava zitta voleva dire che era pericolosamente nervosa. Se invece la chiamava, se tra un toc e l’altro Odyssea avvertiva il proprio nome e qualche frase di contorno, allora c’era la speranza di strapparle un sorriso. Questa volta non c’erano dubbi. Silenzio, cannonata di rintocchi. Malumore sicuro, sorriso più lontano della luna. Odyssea scrollò le spalle e sillabò mentalmente un aiuto rivolto a se stessa, al pagliaccio dipinto e alla luna gigante che appariva nella cornice della finestra. Anche questo era molto strano… Di solito, quando sua madre la chiamava, era già l’alba, mentre adesso era ancora notte fonda. Troppo buio, troppe stelle, troppo silenzio. Avrebbe avuto il diritto sacrosanto di rimettersi a dormire. Grace Bennet, amabile e paziente come un orco punzecchiato da uno sciame di vespe, aprì la porta e si affacciò, esortandola ad alzarsi. Aveva i capelli arruffati e gli occhi cerchiati, ed era spaventosamente pallida. Indossava i blue-jeans, una felpa, e stringeva con due dita il ciondolo d’ambra che portava al collo. Quando fu dentro la stanza si guardò intorno con gli occhi sgranati. «Cosa… è… successo?» le domandò con un’espressione smarrita, vedendo il letto spostato, la finestra aperta, il tappeto appallottolato in un angolo e il cuscino che occhieggiava da sopra l’armadio. «Non lo so. Ho fatto un sogno, e quando mi sono svegliata…» disse Odyssea passandosi una mano sulla fronte imperlata. Sua madre non le diede il tempo di finire. Scosse la testa, un impercettibile andirivieni da destra a sinistra e da sinistra a destra, un ping-pong delicato del collo, e ancora andò con lo sguardo dall’armadio al pavimento alla finestra al letto. Stava per dire qualcosa, ma esitò, si rimangiò le parole e sgusciò fuori dalla camera. Odyssea rimase di nuovo sola. Avrebbe voluto raccontarle il sogno, o meglio, l’ultima puntata di un sogno iniziato qualche settimana prima, tanto intenso da sembrare vero. Ma era da escludersi che l’avrebbe ascoltata. Lei ascoltava di rado e parlava altrettanto poco. Così lo tenne per sé e lo assemblò, pezzo per pezzo, tirandone fuori una trama strabiliante. Interno, notte. Nel sogno c’era lei, Odyssea Bennet, a tre o quattro anni, una bambina gracile seduta su un tappeto blu zaffiro all’interno di una grande casa sconosciuta, intenta a giocare con un trenino di dadi di legno. Oltre le pareti, si udiva il frastuono del temporale. A un tratto nella stanza entrava sua madre, con la medesima espressione sospesa tra il panico e la fretta che sfoggiava adesso, solo un po’ più giovane. La prendeva in braccio, le avvolgeva una sciarpa di lana intorno alla testa e si precipitava fuori. Esterno, notte. La strada era attraversata da torrenti d’acqua e il cielo era completamente nero. Pioveva a dirotto e il bagliore dei lampi fra un tuono e l’altro era l’unica illuminazione in mezzo all’oscurità. In uno di quegli intervalli di luce zigzagante, affacciata oltre la spalla di sua mamma, riusciva a intravedere in lontananza una figura che le inseguiva. Attendeva il lampo per vedere meglio il misterioso inseguitore che all’inizio era nulla più di un’ombra. Zac! La saetta seghettava il cielo, e quell’ombra acquisiva le sembianze di un uomo. Zac! Un secondo lampo, e diventava un uomo alto e massiccio. Zac! Un terzo lampo, e quell’uomo appariva avvolto in un pesante mantello nero lungo fino ai piedi, con il bavero davanti alla bocca e un cappuccio floscio calato sul volto. Sembrava che non toccasse la strada, eppure doveva toccarla, perché i suoi passi rapidi calpestavano il selciato producendo un sordo rimbombo. Sua madre correva più veloce che poteva, ansimando. Odyssea sentiva il ritmo vertiginoso del suo respiro, ma via via che quel respiro si faceva più corto, più sincopato, capiva che il suo corpo stava cedendo alla stanchezza. Lei provava a chiamarla, con l’unico risultato di bere la pioggia, e la sua piccola voce veniva spazzata via, dispersa in un sussurro. Lo sconosciuto era ormai talmente vicino che Odyssea ne coglieva lo sguardo, e il suo cuore si fermava per qualche istante. L’uomo non aveva occhi! C’erano solo le orbite, ed erano vuote, pareva che avesse due gusci di noce ai lati di quella specie di grumo mangiucchiato che era il suo naso. La pelle, illuminata dalla luce intermittente dei lampi, era grigia, come quella di un topo morto. E, da quella distanza ravvicinata, Odyssea percepiva l’odore acre del suo alito, una zaffata trasportata dal vento senza pietà. Sembrava un misto di aceto, spazzatura e qualcosa di dolciastro e selvatico, simile al puzzo che proveniva dalla carcassa del gabbiano che una volta aveva trovato lungo una spiaggia, con un’ala mozzata, il ventre piluccato dai vermi e sciami di insetti che gli ronzavano intorno: un odore fetido, salmastro, che faceva pensare alla morte. L’uomo protendeva un braccio e la sua mano, foderata da un guanto scuro, sfiorava i capelli di sua madre. Poi gridava, un grido assordante, a metà fra il ruggito di un leone e il verso di un tirannosauro. Quella voce le rimestava lo stomaco, come una botta di mal di mare. Ma la cosa più allarmante era la stanchezza di sua mamma. Perdeva colpi. Restava indietro, urlando con tutto il fiato che aveva: «Non avrai anche lei!» Quando l’uomo fu loro davanti, sua madre si fermò di colpo, ma solo per ricominciare a spostarsi da un lato all’altro della strada. Era esausta e la sua danza pazza non era che il vano tentativo di trovare una via di fuga. Infine, stremata, cadeva, e Odyssea scivolava con lei. Si ritrovavano entrambe a terra, con gli abiti ridotti a cenci e i capelli schiacciati dal peso della pioggia. La mamma pareva svenuta, se ne stava stesa con gli occhi chiusi e le gocce le ferivano le guance. «Non puoi prendere anche lei!» ripeteva come un mantra spezzato. «Non puoi prendere anche lei! Non puoi…» L’uomo non sembrava provare alcuna compassione. Le sovrastava, viscido come un’ombra, e da sotto il mantello estraeva un bastone, nero e sottile, con un pomello simile alla testa di un animale con le fauci spalancate. Odyssea capiva subito le sue intenzioni. Stava per colpire sua madre! Allora si rialzava, disperata e furiosa. Era difficile sollevarsi con tutta quell’acqua a trascinarla giù come una zavorra, ma la cosa più incredibile di quell’attimo in cui qualcosa di molto vicino alla morte stava per abbattersi su di loro, era che lei non aveva paura. Desiderava soltanto che quel mostro non toccasse sua madre. Odyssea lo guardava, sentiva dentro una specie di immenso battito, un calore alle mani, un formicolio ovunque, e urlava con una vocetta infantile stridula ma risoluta: «Vattene… vattene… vattene! Non toccarla!» A quel punto succedeva qualcosa di straordinario. L’uomo perdeva improvvisamente l’equilibrio. Come se fosse stato colpito da un pugno invisibile, veniva sollevato da terra e scagliato indietro, ricadendo al suolo, molto più in là, tra enormi schizzi d’acqua sporca. Rialzandosi, la scrutava come se fosse un ragno da schiacciare. Con un urlo, allungava la mano verso di lei, faceva per spiccare un balzo, ma non riusciva a muoversi. Restava bloccato, come se fosse diventato di marmo, il suo volto una maschera di rabbia e incredulità. Infine crollava e, inchiodato al terreno, cominciava a contorcersi con le movenze di un ciclopi©o insetto avvelenato. Quindi, con un boato così forte da destare l’invidia dei tuoni, esplodeva, anzi implodeva, e Odyssea riusciva a malapena a scorgere il mantello che si gonfiava e il bastone che schizzava via come una scintilla. Poi più nulla. I tuoni e i fulmini si placavano e uno strano, spettrale silenzio si propagava intorno. La quiete dopo la tempesta. Un silenzio così immobile avrebbe impedito a un cristallo di rompersi. Ecco, quella era stata l’ultima scena, la sequenza con la scritta the end e i titoli di coda, quella che aveva preceduto il suo risveglio senza cuscino, davanti alla finestra e col letto spostato. Non una bella scena, ma un buon finale in un certo senso. Almeno il cattivo era stato sconfitto, benché restasse qualche legittimo dubbio sul come. Odyssea si riscosse dal ricordo del sogno. Era meglio sbrigarsi se voleva evitare che la madre si arrabbiasse sul serio, così obbedì al suo destino da eroina di serie b e uscì dalla stanza dopo aver dato una manata sul naso del clown. In bagno si cercò a tastoni nello specchio. Aveva grandi occhi scuri e un volto spigoloso. I capelli nerissimi le crollavano intorno alle guance pallide, lunghi e pesanti come spaghi verniciati di pece. Dopo averli spazzolati, li legò con un elastico. Era piuttosto alta per la sua età ma troppo magra, benché le mancasse l’ansia tipica dell’adolescenza di vedere il proprio corpo crescere. Si sopportava, e non le importava granché del suo aspetto. Si accontentava di se stessa, senza preoccuparsi delle spalle ingobbite, delle clavicole che sporgevano esageratamente ai lati del collo, del seno troppo acerbo per i suoi sedici anni, dei fianchi da bambina, delle gambe dinoccolate e perfino un po’ storte. Chiunque l’avesse vista avrebbe detto che c’era qualcosa di delicato in lei, qualcosa di impacciato e tenero, ma nemmeno l’occhio più affettuoso avrebbe potuto definirla bella. Anche questo contribuiva a renderla poco credibile come eroina. Un aspetto scadente per una vita scadente. Pertanto, ignorandosi come tutte le altre volte, si lavò e si preparò in fretta. Indossò un maglione, i blue-jeans e le scarpe da tennis. Infine trascinò il suo borsone di plastica all’ingresso, e si sedette su uno sgabello basso, con il mento sulle gambe sollevate e le braccia strette intorno alle ginocchia. Non riusciva a capire cosa fosse successo nella sua stanza, ma non aveva senso rimuginarci ora. Doveva pensare al nuovo viaggio e dimenticare tutto il resto, come sempre. Dimenticare per ricominciare da un’altra parte, e poi dimenticare ancora e ancora iniziare da zero. I traslochi nella sua vita erano troppo frequenti per provare malinconie o rimpianti al momento del distacco. Erano a Saint Albans da poco più di due mesi, un tempo quasi da record per le loro abitudini. La casa col pagliaccio sulla porta si trovava in un quartiere periferico gremito di edifici grigi. Tuttavia, il panorama che si vedeva dall’ultimo piano del suo palazzo non era del tutto orrendo. Senza dubbio, occorreva una certa bocca buona, un palato abituato a cose peggiori – muri di cinta con la muffa lungo le crepe e bidoni della spazzatura dei quali godevano insieme topi e gatti – per apprezzare una vista che includeva il cimitero. Ma al di là di esso, oltre il marmo opalino, oltre i tetti di altre case ugualmente disadorne, s’intravedeva un’enorme macchia verde e brillante. Natura. Prati. Niente abitazioni. Niente strade. Solo fiumi di vegetazione. E ciò le bastava per non odiare quel posto. E non odiava nemmeno sua madre nonostante non le avesse mai spiegato il perché di quelle partenze precipitose: decideva ogni volta di andare via all’improvviso, in preda a quella che Odyssea chiamava fame di fuga. E quando sua madre era affamata non voleva sentire ragioni. Non si era nemmeno mai degnata di parlarle di suo padre, tranne una volta, alcuni anni prima, quando, con gli occhi pieni di lacrime e la voce spezzata dai singhiozzi, le aveva sussurrato che Charlton – questo era il suo nome – era morto in seguito a un brutto incidente quando lei era molto piccola. Odyssea avrebbe voluto saperne di più, ma l’infelicità di sua madre le aveva impedito di insistere. Così, aveva imparato a tenere a freno la curiosità, pur di non vederla di nuovo piangere. Talvolta aveva avuto la netta impressione che stessero fuggendo da qualcosa. Per qualche tempo l’aveva assalita il sospetto che sua madre fosse ricercata dalla Polizia. Oppure, forse, suo padre non era davvero morto, forse era un uomo violento e vendicativo che le cercava per maltrattarle. Ma alla fine si era semplicemente convinta che Grace Bennet fosse una persona strana, e soprattutto una persona con un segreto che non aveva nessuna intenzione di rivelarle. Poco dopo se la ritrovò davanti. Era il momento. Uscirono di casa in perfetto silenzio. L’ascensore era guasto, per cui scesero gli otto piani a piedi. Una volta fuori, furono accerchiate da file di lampioni coi vetri rotti, che illuminavano l’asfalto con un tremolio polveroso e biancastro. Il palazzo era circondato da una cancellata e all’interno del parcheggio erano in sosta decine di autovetture. Si diressero verso una vecchia Mini rossa, sistemarono i pochi bagagli e si allontanarono senza voltarsi indietro. Sua madre stringeva il volante come se fosse la ringhiera di un balcone al centesimo piano di un grattacielo e lei avesse paura di cadere giù. Le palpebre erano molto più gonfie del solito, e i corti riccioli neri, che aveva l’abitudine di attorcigliare attorno alle dita come un tic nervoso, parevano ali strappate. Odyssea fissava la strada. Nessun lampione rischiarava quel percorso in mezzo ai campi coltivati, e il silenzio, rotto solo dal motore della loro macchina, poteva dirsi pressoché assoluto. Quando sua madre, anziché prendere lo svincolo per l’autostrada, imboccò una stradina sterrata che s’inoltrava in mezzo ad altri campi, Odyssea trasalì. Lì il buio sembrava ingoiare ogni cosa. La notte era veramente notte nella campagna nuda e solitaria. Parcheggiarono infine in un avvallamento alle spalle di un granaio abbandonato e scesero dall’auto; a Odyssea parve di soffocare, come se fosse stata calata improvvisamente all’interno di un pozzo. In quell’oscurità si udivano solo i sinistri rumori della natura, legno che scricchiolava, vento che fischiava tra le foglie, grilli e cicale e gufi nottambuli che intonavano misteriosi concerti. Tutt’intorno omini di paglia e frasche erano stati messi in croce, destinati a essere sbeffeggiati dall’astuzia dei passeri. Larghi mantelli e cappellacci con la tesa larga sibilavano nel vento. Che significato aveva quel viaggio? Dove stavano andando? Presero le borse e s’incamminarono senza dire una parola. Abituati gli occhi al buio, Odyssea cominciò a distinguere i contorni di ciò che la circondava: il gomitolo di lucine lontane della città, i covoni di grano, le colline, e poi, via via che procedevano in quello strano pellegrinaggio, i campi coltivati che diminuivano sostituiti da una fitta boscaglia. Passarci attraverso diventava sempre più difficile, bisognava stare attente a non graffiarsi e a non cadere. Odyssea ebbe paura, e per un attimo la sfiorò il sospetto che sua madre fosse impazzita. Era sempre stata una donna insolita, ma quella passeggiata notturna era addirittura folle. Provò a tirarla a sé, per pregarla di fermarsi, ma lei proseguì impassibile, in mezzo ad alberi sempre più accalcati, finché un vero e proprio muro di tronchi, foglie e rami interruppe la loro avanzata. Ora avrebbe dovuto fermarsi per forza. Grace, invece, si mise a tastare la barriera naturale, come se cercasse un varco, e all’improvviso il tronco di un albero, così grosso che ci sarebbero volute almeno cinque persone con le braccia spalancate per circondarlo tutto, si mosse. Odyssea tremò per la sorpresa e si stropicciò gli occhi. L’albero si muoveva! Non come se fosse scosso dal vento o dai colpi di un boscaiolo, e nemmeno come se fosse stato schiantato da un terremoto o da un fulmine. No. Si muoveva come un omone tarchiato ed ebbro che se ne andasse a spasso nei boschi per sgranchirsi le gambe. Se non le fosse parso troppo assurdo, perfino per l’assurdità di quella nottata, Odyssea avrebbe giurato che sul tronco rugoso fossero incisi dei tagli, delle scanalature oblique che parevano occhi e una cavità ovale che poteva essere il nido di un picchio, ma poteva anche essere una bocca. L’unica cosa certa era che, a mano a mano che l’albero si spostava frusciando, s’intravedeva un pulviscolo di luci sempre più netto. Attraversarono quello che somigliava sempre più a un passaggio segreto verso qualcosa e infine, al di là, oltre il bosco che aveva cessato di apparire cupo e si era trasformato in uno scenario più simile a un giardino, Odyssea vide quello che era indubbiamente l’ingresso di una città. Spalancò la bocca, in preda a sensazioni innumerevoli, ma si lasciò condurre dall’altra parte senza opporre resistenza. *** Odyssea non credeva ai suoi occhi. Oltre il bosco, come un palcoscenico dietro un sipario, c’era una cittadina vera e propria, un villaggio che sembrava uscito da un libro di fiabe. Ai lati delle strade sfilavano schiere di villini con graziosi giardini cinti da siepi, stranissimi lampioni sospesi in aria, senza palo, solo una candela in un involucro di vetro che volteggiava come una grossa lucciola, filari di alberi sui marciapiedi, e nessuna automobile in giro, neanche in sosta davanti alle case. «Do… dove siamo? Che posto è… questo?» balbettò sbalordita, certa di trovarsi in un sogno. Sua madre non rispose. La prese per mano e s’incamminò svoltando ora a destra ora a sinistra, come se sapesse precisamente dove andare. Solo ogni tanto si fermava per osservare qualcosa come se la vedesse per la prima volta, poi tirava dritto dinanzi a dettagli che pareva conoscere. La via principale sembrava una pista lucidata a cera, lunga e ampia, quasi uno specchio sul quale la luna rifletteva il suo paffuto doppione. I loro passi rimbombavano metallici, come se calzassero scarpe da tip tap con tacchetti di latta. Finché, giunte davanti a quella che a Odyssea parve la casa più grande di tutte, in fondo alla strada, Grace disse con voce bassa e dolce: «Questa è casa nostra. Qui abita tua nonna. Entriamo, vuoi?» Odyssea la fissò incredula. Era da un tempo infinito che non le parlava con quel tono gentile, e le sembrò quasi di trovarsi di fronte a un’altra persona. Dov’era sua madre? Dov’era la donna arruffata e tirannica, l’ufficiale maggiore del loro piccolo battaglione itinerante, quella che sbraitava e borbottava in continuazione, quella che ringhiava come un lupo ferito? Chi era questa signora spaventata e commossa? Odyssea avvertì una fitta in mezzo al petto. Annuì, lentamente, e fece un sorriso. Grace toccò il batacchio a forma di testa di leone sul portone e lo lasciò tintinnare una volta. Allora, accadde qualcosa di molto più che strano. Il battiporta si animò, l’ottone divenne carne viva, e il leone emise un ruggito mostrando i denti aguzzi e l’enorme gola. La criniera oscillò mentre ruotava la testa bionda, guardandosi intorno con occhi indagatori. Odyssea fece un balzo indietro nell’esatto istante in cui il ruggito esibì le fauci della fiera e, se sua mamma non l’avesse sorretta, sarebbe ruzzolata giù dal gradino. Grace, invece, non pareva per nulla colpita da quel prodigio. Un attimo dopo il portone si aprì da solo con uno scatto e il leone tornò di metallo lucido e silenzioso. Quando entrarono, ancora con il cuore in gola, Odyssea si lasciò guidare come una marionetta. Da sopra il portone, la luce filtrava attraverso un lucernario rotondo. L’ingresso aveva un pavimento di marmo blu oltremare, e alle pareti erano appese applique di cristallo con coppie di candele spente orlate da riccioli di cera. In fondo alla sala c’era un grande camino di pietra, intorno al quale due rampe di scale, con un’ondulazione simile a quella di due giganteschi accenti circonflessi, portavano al piano superiore. Lasciarono giù le borse e si avviarono: una spessa passatoia attutì il rumore dei loro passi. Giunte in cima alle scale percorsero un lungo corridoio e sua mamma si fermò davanti all’ultima porta. Subito dopo, senza bussare, la spalancò e per l’ennesima volta Odyssea sgranò gli occhi. La stanza nella quale entrarono era ampia e due fiaccole accese diffondevano intorno un chiarore caramellato. In un letto a baldacchino era adagiata una donna, sorretta da una pila di cuscini. Odyssea provò un brivido nel capire che si trattava della madre di sua madre. Aveva le stesse pupille scure, la stessa bocca carnosa e gli stessi riccioli divisi da una scriminatura centrale, solo un po’ più lunghi e striati da ciocche grigie. «Odyssea! Grace! Siete tornate…» gridò l’anziana signora balzando giù dal letto con un’agilità che contrastava con il suo fragile aspetto. Il suo abbraccio fu così vigoroso da lasciarla senza fiato. «Bambina mia, come sei diventata grande! Eri un topolino, e ora…» Odyssea non fece alcun commento. Scavò nella propria memoria, ma non trovò nulla che la riguardasse. «Sono nonna Augusta, ma tu non puoi ricordare, non puoi…» continuò la donna. Grace Bennet si avvicinò alla madre e le sfiorò una guancia con un bacio. Tremava, teneva i pugni chiusi, e un’ombra di sudore le faceva brillare la fronte. «Odyssea non sa ancora niente», le sussurrò all’orecchio. Il volto di nonna Augusta s’incupì e fissò la figlia con disapprovazione. «Avresti anche potuto…» Scosse la testa con una smorfia amareggiata senza completare la frase, quindi posò i suoi occhi miti su Odyssea e le strinse una mano. «Forse è meglio che andiamo tutte a dormire, ci sarà tempo per le spiegazioni. Dopotutto è notte fonda e sarete stanche.» Si girò verso la parete accanto al letto e indirizzò uno sguardo distratto a quello che sembrava un orologio a cucù. Odyssea osservò l’elegante involucro di legno. In basso, dentro una cassa ricoperta da un vetro brunito, oscillava lentamente un comune pendolo rotondo. Ma sopra, dove avrebbero dovuto esserci lancette e numeri, c’era un incavo nel quale pulsava un quadratino di cielo stellato. Un cielo vero. Non disegnato. Un cielo in scatola. Era come se il firmamento fosse racchiuso in quello strano orologio. «Chiamo Joyce, così vi accompagniamo nelle vostre stanze», disse ancora la nonna. «E domani avremo tante cose da dirci…» Su quelle parole, fece tintinnare una campanella dorata che aveva sul comodino. «Non devi avere paura, ora sei a casa», concluse rivolta a Odyssea. Poco dopo entrò una donna bassa e robusta, con una vestaglia color albicocca, un voluminoso fiocco stretto intorno alla vita, pianelle di felpa, guanti di organza trasparente, e una cuffia bianca in testa. Pareva un’immagine d’altri tempi, piena e rosea, soffice e vaporosa, col viso paonazzo per l’emozione. Non appena le vide emise un’esclamazione di sorpresa: «Oh, Grace! Che gioia rivederti! E questa è Odyssea! Mamma mia quanto è cresciuta, e che bella ragazzina è diventata! Siete state via così a lungo, eravamo preoccupate, temevamo che vi avesse trovate!» Augusta sobbalzò e la zittì con lo sguardo. Mettendo un braccio intorno alle spalle di Odyssea, interruppe quella gragnola di commenti ordinando: «Accompagna Odyssea nella sua stanza, io andrò con Grace. Parleremo domani di tutto, va bene Joyce?» La donnina si posò il dito indice sulla bocca mortificata e obbedì. Si fermò a metà del corridoio e, aprendo una porta sulla sinistra, invitò Odyssea a entrare. «Ecco, cara, questa è la tua camera. Riposati, avrai tanto da scoprire domani…» Poi, nel timore di avere ancora parlato troppo, tacque. Grace avanzò slacciandosi dall’abbraccio materno e trasse a sé sua figlia, avvicinandola al petto. Un gesto così affettuoso era del tutto insolito per lei e la fece sentire in imbarazzo. «Buonanotte…» sussurrò. Quindi sua madre e sua nonna proseguirono nel corridoio, tenendosi a braccetto come vecchie e buone amiche. Odyssea rimase con lo sguardo rivolto alla porta che si chiudeva, le labbra socchiuse per lo stupore, fino a quando il rumore dei passi, smorzato via via dai tappeti e inghiottito dalle mura, non scomparve. Avrebbe tanto voluto uscire di corsa, richiamare all’ordine quel drappello di signore sbadate e intimare loro di farle sapere subito tutto. Ma aveva la sensazione di dover aspettare. Non devi avere paura, ora sei a casa. Chissà perché quella parola tanto attesa, che aveva desiderato sentire per tutta la vita, ora le suonava estranea. Sognava da sempre una casa, un panetto di terra fertile nel quale affondare qualche radice, ma era vissuta come una rondine senza nido, come un’ape esiliata, senza neanche la speranza di un futuro decente, sballottata di luogo in luogo senza calore né certezze, ed era difficile, adesso, così all’improvviso, sentirsi a casa. Decise di rivolgere la sua attenzione alla camera. Era grande, coi soffitti alti. Una finestra che occupava metà della parete era velata da una tenda trasparente, tanto impalpabile da sembrare una ragnatela argentata. C’erano due applique accese e al muro era appeso un orologio molto simile a quello nella camera della nonna. Non appena infilò una mano nella cavità sopra la pendola, sentì una sensazione di fresco sulle dita. Subito dopo, sfiorando l’intarsio che seguiva il bordo dell’orologio, notò che uno di quei fiori sbalzati era un pulsante. Premendolo emetteva un click ovattato. Tutt’un tratto qualcosa fuoriuscì e prese a volare per la stanza farfugliando quella che pareva una sonora lamentela. Sono le quattro, folletto molesto le stelle brillano nel cielo nero mi stai chiedendo di alzarmi assai presto e sono seccata a onor del vero. Odyssea arretrò spaventata, precipitandosi verso la porta. La creatura le si parò davanti. Era una specie di farfallina, più piccola del suo dito mignolo, e sbatteva debolmente le ali color inchiostro. Aveva l’aria assonnata, ma quando spalancò gli occhi, prese a fissarla insistentemente con due pupille simili a semi di papavero. Infine, girandole intorno al viso, con la grazia di un minuscolo angelo, questa volta con voce simile al tintinnare di una campanella, sussurrò: Dove sei stata, amica mia cara oltre due lustri sei stata lontana senza di te la mia vita era amara ma il vederti ogni cosa riappiana. Sembrava commossa, ma non trattenne uno sbadiglio che la rese buffa e tenera a un tempo. Ora riposa, col cuore più lieve posa la testa sul bianco cuscino l’alba è vicina, la notte assai breve lascia ch’io dorma ancora un pochino. Così dicendo, con un altro sbadiglio, sparì all’interno della pendola. Odyssea si lasciò andare sul letto sbigottita. Sentì le proprie ossa che cigolavano e il cuore che batteva come una grancassa. Alberi che andavano a spasso, candele sospese in aria, leoni di ottone che diventavano vivi, farfalle che cantavano in rima… Possibile che quella fosse casa sua e lei non ricordasse nulla? Si era sempre sentita diversa dalle altre. Era perfettamente conscia che la sua vita non potesse essere considerata normale, ma aveva la sensazione che questa anormalità ora stesse divenendo eccessiva. Andava anche bene essere diversa, ma non troppo diversa… Si stese vestita, con le gambe che penzolavano fuori, senza nemmeno la forza di andare alla finestra. Poi le tirò su e si raggomitolò. Rivide con la mente ogni momento di quella singolare nottata, e rimase così, stretta a se stessa, respirando nell’incavo delle proprie braccia intrecciate per quelle che le parvero ore. Infine si addormentò, avvolta dai lunghi tendaggi che scendevano tutt’intorno alle colonnine di legno massiccio del letto a baldacchino. E, per la prima notte dopo settimane, non fece alcun sogno. IL SIGNIFICATO DEL SOGNO Si sfiorò il viso, istintivamente, con la sensazione che qualcosa la toccasse. Quando aprì gli occhi vide la farfallina della notte precedente che le saltellava sul naso e sulla fronte. Non aveva più le ali scure, ma vermiglie come fiamme. La vista di quella bizzarra creatura le ricordò immediatamente tutto. Non aveva sognato. Non si trovava più a Saint Albans, prigioniera della casa coi muri venati di muffa. Era in quello strano paese, in quella casa, in quella nuova vita. Tornò a concentrarsi sulla minuscola farfalla, più leggera di una goccia, che continuava a usare il suo viso come una pista da ballo e la osservava con curiosità. «Ciao», disse timidamente, «io mi chiamo Odyssea.» Era strano parlare a un insetto, ma ancora più strano era attendere una risposta. Che non tardò a giungere, nello stile che pareva proprio di quell’esserino, ovvero cantando in rima con una vocina armoniosa e gradevole. Conosco il tuo nome, brunetta bella se me lo dici non dici un bel nulla eri per me come una sorella e venni a baciarti nella tua culla. Ricordo te e i tuoi piccoli lai preda di fame e di malinconia il tuo papà non ti lasciava mai né la tua mamma andava mai via. «Mi dispiace, io… non ricordo», mormorò Odyssea, stupendosi che la conoscesse e le raccontasse di un’infanzia felice a lei oscura. Quella farfalla parlava di suo padre e sua madre. Ma chi era? Come se le avesse letto nel pensiero, la creatura riprese a cantare facendole un inchino. Fagola m’appello, son farfallina nunzia del tempo e dell’ora più esatta e stai pur certa mia cara bambina che se ti sveglio è mattina già fatta. Alzati, allora, per quanto sia stanca guarda che il sole è già alto nel cielo finito è il sonno che il cuore rinfranca la notte svanita ormai dietro un velo. Le dieci son giunte, amica cara ancor non sai che giornata t’aspetta: sarà un giorno triste o di gioia rara? Orsù, per scoprirlo alzati in fretta. Fagola sostò un attimo sul suo naso, poi spiccò il volo verso la pendola. Nell’orologio le stelle non c’erano più e al loro posto era apparso un sole forte e luminoso. «Aspetta…» ma la farfallina era già sparita. Odyssea si alzò svogliatamente, stiracchiando le braccia e le gambe, poi raggiunse la finestra e la spalancò, lasciando entrare la luce. Respirò a fondo, con gli occhi chiusi, quell’aria tanto limpida da farle girare la testa. Infine tornò a studiare la stanza. Accanto al letto c’era un tavolino da toeletta di legno scuro con una specchiera suddivisa in tre parti, con spazzole e pettini e piumini da cipria. Osservò il proprio viso nella porzione centrale: era pallida e i capelli le scendevano appiattiti, com’era prevedibile dopo una nottata trascorsa con la testa rintanata sotto il cuscino. Lo specchio di destra, benché le stesse esattamente di fronte, rifletteva la sua nuca, e quello di sinistra, nonostante fosse molto piccolo, la riproduceva a figura intera, comprese le scarpe. Aveva i vestiti stropicciati e il ricamo della federa su una guancia. Era così scombussolata da sentirsi fuori posto, come se il suo abbigliamento sciupato fosse stonato a paragone con quella camera elegante. E tuttavia non poteva farci niente: quella al di là della specchiera era lei. Quella ragazza asciutta come una pertica, con i jeans logori, i capelli simili a saggina bagnata e la felpa dai gomiti lisi, era assolutamente Odyssea Bennet, e non c’era nulla che potesse fare per apparire più bella o più raffinata. Prese una spazzola dal tavolino e se la passò tra i capelli, indugiando sulle pareti rivestite di carta di seta color lavanda, sui ricami del copriletto bianco-argento e sull’enorme tappeto turchino. Poco dopo Joyce, l’anziana signora che aveva conosciuto la sera prima, comparve sulla soglia. Indossava un abito bianco, così pieno di nastri e merletti da sembrare cosparso di gabbiani appollaiati. In testa portava una cuffia altrettanto ornata, alle mani guanti di seta, e calzava stivaletti con grossi fiocchi sulle punte. A Odyssea venne quasi da ridere. «Finalmente ti sei alzata!» esclamò animatamente Joyce. «Sono entrata tante volte, ma dormivi così bene. Ma hai ancora i vestiti di ieri sera! Nel baule c’erano una camicia da notte e delle pantofole comode. Forse ieri notte mi sono dimenticata di dirtelo? Oh, povera me, sono così distratta! Ora ti accompagno in bagno e poi vieni a fare una buona colazione. Sei troppo magra e pallida, dovresti metter su qualche chilo!» Allungò una mano e le afferrò un polso, stringendolo tra le dita grassocce. «Dove sono i miei bagagli?» chiese Odyssea, confusa da quel fiume di parole, cercando con lo sguardo la sua sacca. «Non preoccuparti, ci penso io a darti qualcosa di adatto.» Così dicendo, Joyce aprì un grosso baule ai piedi del letto e, con gli occhi che le scintillavano di gioia, tirò fuori un vestito. Odyssea lo osservò con un’espressione nella quale si combinavano la voglia di sorridere e di urlare. Era un abito di tela leggera, una versione ridotta e un po’ meno svolazzante del suo. Due gonfie maniche a sbuffo scendevano fino all’altezza dei gomiti, aveva uno scollo a barchetta e un cordoncino che si arricciava sul busto. La gonna scivolava giù come la corolla di una campanula. Per una ragazzina abituata ad andare in giro in jeans e felpa, quell’abito da bomboniera nuziale era quasi un grottesco insulto. Tentò di opporsi in tutti i modi, ma non riuscì a resistere all’assalto. Era abituata a reprimere le proteste dinanzi alla madre e per faccende assai più importanti, il fatto poi che Joyce fosse così entusiasta la fece capitolare del tutto. Pertanto, riparandosi dietro un paravento di raso dipinto con draghi rampanti che stava in un angolo, lo indossò di malavoglia. Quando riapparve così abbigliata e si specchiò, si sentì ridicola, e non solo perché il vestito era di tre taglie più grande. «È troppo largo», disse speranzosa. «Oh, non preoccuparti, ora si aggiusta…» rispose Joyce con un gesto distratto della mano. Prima di capire cosa potesse significare quella risposta, le maniche presero a sbattere come le ali di un uccello, la gonna simulò la giravolta di una trottola, la sottogonna le serrò i polpacci e il cordoncino sotto il busto si strinse fino a toglierle il fiato… Odyssea lanciò un urlo e tentò di sfilarsi l’abito, chiedendo aiuto, ma il vestito continuò quella danza, e a un tratto le fece perfino il solletico. Quindi, lentamente, attorcigliandosi e svolgendosi, strizzandosi e gonfiandosi, diventò della sua taglia esatta. Con le guance in fiamme e un sottile senso di stordimento, si osservò di nuovo nello specchio. Era graziosa come una scopa infiocchettata. Era orrida e goffa, ma aveva un groppo in gola e tacque a disagio. Joyce, così soddisfatta e baldanzosa da non accorgersi di nulla, la condusse in bagno, poi scese con lei nella sala della colazione, al pianoterra. Quella notte Odyssea non era riuscita a memorizzare granché della casa, ma ora non poté fare a meno di soffermarsi ammirata. Entrò in un salone luminoso, che affacciava sul giardino attraverso una veranda, sulla quale s’intravedevano una sedia a dondolo, un tavolino rotondo e l’ombra arricciata di una tenda da sole. Su un tavolo rettangolare talmente lungo che avrebbe potuto ospitare un piccolo esercito di commensali, erano disposte tante di quelle cibarie da lasciare a bocca aperta. C’erano enormi ciambelle glassate, panini bianchi accanto ai quali sfilavano ciotole colme di confetture i cui colori andavano dal rosso fragola al viola melanzana, gigantesche meringhe, fette di prosciutto perfettamente circolari, uova in bicchierini trasparenti, una montagna di biscotti, vassoi traboccanti di frutta, e molte altre cose che emanavano un profumo così intenso da solleticare le narici. E posate d’argento, piatti e tazze di porcellana, una tovaglia ricamata che ricadeva ai bordi del tavolo come una gonna da gran dama, e graziosi fiorellini gialli sparsi ovunque. Odyssea si chiese se una tale abbondanza fosse in suo onore o se in quella casa si usasse mangiare tanto tutti i giorni. Nel primo caso era profondamente onorata, ma del tutto priva di appetito. Era abituata a fare colazione in modo rapido e modesto e quel cibo le sarebbe bastato per almeno un paio d’anni. Inoltre, quando si aveva un sacchetto di sassi dentro lo stomaco, era difficile pensare a mangiare. «Dov’è mia madre?» «Oh, lei è sveglia da tanto! Ma ecco la cara Augusta.» Alla vista della nonna gli occhi di Joyce si riempirono d’ammirazione. La signora coi capelli dai riflessi argentati indossava una camicia azzurro polvere, un paio di robusti calzoni da equitazione e stivali di cuoio nero. Sorrise a Joyce e le disse: «Saresti così gentile da andare in cucina? Percival ha combinato un pasticcio con la conserva di fichi». Con un’espressione mortificata, Joyce si precipitò fuori dalla stanza gridando. Quando scomparve, la nonna le sussurrò con fare complice: «È una cara persona, ma a volte è un po’ troppo chiacchierona, e più si affeziona più chiacchiera, per cui credo dovrai abituarti alla sua parlantina. Ma fatti vedere, vieni qui». Odyssea si avvicinò e Augusta la strinse in un abbraccio. «Che gioia poter abbracciare la mia nipotina… Sei così cresciuta, e così alta, e che meravigliosi capelli.» Odyssea non era abituata ai complimenti e arrossì. «Vedo che Joyce ti ha fatto mettere uno dei suoi vestiti di quando era ragazza», aggiunse la nonna con un sorriso indulgente. «Sei stata molto buona ad accontentarla. Quanti anni hai adesso? Vediamo, dovresti averne compiuti sedici il ventuno marzo scorso. Dimostri qualche anno in più, sai? Hai un’aria così matura, sembri proprio una donnina… Siediti, mangia qualcosa, poi parleremo quanto vuoi e di tutto ciò che vuoi.» Odyssea scosse la testa e si addentò l’interno di una guancia. «Dov’è mia madre?» domandò di nuovo. «Sta facendo una passeggiata in giardino. Guarda, è lì, accanto al melograno…» Voltandosi, Odyssea notò sua mamma seduta su una panchina di pietra sotto un albero spoglio e scheletrico che non assomigliava affatto a un melograno. Era immobile, vestita di chiaro, e uno sguardo distratto avrebbe potuto scambiarla per una statua di marmo bianco. «Che posto è questo?» chiese allora Odyssea, bruscamente. «Continuo a pizzicarmi il braccio, ma tutto quello che vedo e le strane cose che dite non possono essere vere…» Augusta le indicò ancora la tavola imbandita. «Mangia una fetta di torta all’uva, vuoi? L’ha fatta Joyce. Con un po’ di zucchero in corpo ci si sente molto meglio.» Odyssea sbocconcellò di malavoglia un pezzo di crostata viola pallido, accompagnandola con un bicchiere di latte freddo, che le scivolò dentro la gola come un fiume di cartone. Quando fu chiaro che non avrebbe ingerito altro, e che voleva solo parlare, la nonna si arrese. «Cosa vuoi sapere?» «Che posto è questo?» ripeté. «Non mi sembra di averlo mai visto sul mio libro di geografia…» sussurrò, fissandola con occhi incerti, benché fosse assolutamente sicura di non avere mai letto da nessuna parte di un villaggio nascosto dietro un bosco, anzi, dentro un bosco, in cui abitassero alberi semoventi, farfalle parlanti e battiporta animati. «Non lo troverai certo in uno di quei libri!» esclamò Augusta, pronunciando il termine libri con tono disgustato. «Wizzieville non è segnato su nessuna carta, o meglio su nessuna di quelle carte. Qui abitano persone… come potrei dire? Molto… speciali?» «Speciali… quanto?» la incalzò Odyssea, sempre più perplessa. «Oh, be’…» L’esordio della nonna fu esitante, e quella coppia di sillabe fu ripetuta più volte, come il ritornello di una canzone. Infine, tutto in un fiato, come se prendesse la rincorsa per saltare, dichiarò: «Cosa penseresti se ti dicessi che qui vivono solo streghe e maghi?» Odyssea la fissò con uno sguardo identico a quello di un gatto che osserva un nemico sollevando il pelo. Rimase così per qualche istante, le sopracciglia inarcate, le labbra socchiuse, il respiro trattenuto. Poi, convincendosi che la nonna le stesse facendo uno scherzo per allentare la tensione, tornò a respirare. Ma quando Augusta divenne seria, la sfiorò il timore che non scherzasse affatto, e quel dubbio le falciò di nuovo il fiato. «Streghe e maghi? Io… non capisco cosa intendi…» bisbigliò, bevendo un altro sorso di latte freddo e ingoiando a fatica. Un velo di sudore gelido le inumidiva la schiena. La assalì il sospetto che in quella casa fossero tutte un po’ matte. Nei modi della signorina Joyce, per quanto gentili, le era parso di cogliere una certa originalità. Sua madre, d’altro canto, non aveva mai dato prova di grande equilibrio mentale. La nonna, invece, non pareva né stravagante né depressa. Sembrava una persona normale. E allora perché diceva sciocchezze? «Mi devi credere», esclamò Augusta. «Grace merita sonori rimproveri per non averti mai detto niente. Non ti ha raccontato proprio nulla! Tu sei una strega, Odyssea.» Odyssea si alzò di scatto, in preda a uno strano miscuglio di sentimenti, compresa una specie di imprevista irritazione. Quello scherzo cominciava a diventare pesante, perché la nonna si prendeva gioco di lei? D’accordo, pensò, non ci vediamo da anni, e forse sei arrabbiata perché non mi ricordo di te, ma perché non la smetti di trattarmi come una stupida? Cosa sarei io? Una strega? Una di quelle agghiaccianti befane con cappelli appuntiti, scarpe con le ghette e corvacci spelacchiati che strepitano intorno? Lei non si sentiva certo una bellezza, ma non aveva un naso adunco e porri pelosi sul mento, né una vocina ispida e crespi capelli nero fumo! Notando la sua reazione, Augusta aggiunse con un sospiro: «Non sto scherzando. In quei tuoi libri le streghe sono bruttine, vero? Ma non è sempre così. Certo, non escludo che Marilla Gobbett sia tutt’altro che gradevole, ma esistono anche streghe molto affascinanti. Per esempio, tutta la famiglia Mou è composta da persone bellissime». Odyssea annuì, con gli occhi fissi sul tappeto, arrivando a sfiorarsi la gola con il mento. Era talmente sconvolta da non riuscire nemmeno a pensare. Infine, con un filo di voce, le domandò: «Nonna, potresti… ehm… essere un po’ più chiara? Cioè… fate incantesimi e cose del genere?» «Oh, sì, purtroppo.» «Parlami di mio padre», le chiese, sorvolando momentaneamente su quel purtroppo. Augusta assunse un’espressione grave, gli angoli della bocca si curvarono in giù, le rughe sulla fronte divennero cunette. «Tua madre non ti ha detto nulla neanche di Charlton? Ci credo che tu sia tanto incredula! Era un uomo straordinario. Il mago più forte e generoso che Wizzieville ricordi da tantissimo tempo. Possedeva ben due dei Poteri Sommi.» «Poteri Sommi?» «Sì, i poteri che contraddistinguono i maghi più forti. Esistono tre Poteri Sommi, ma la maggior parte di noi non ne possiede neanche uno. Anzi, attualmente Wizzieville è piuttosto sfornita di potenti maghi.» «Di quali poteri parli?» domandò disorientata. «I Tre Poteri Sommi attraverso i quali si dominano la natura, le cose e il tempo. Ci sono tanti incantesimi che si possono imparare, ed è così che va per la maggior parte di noi, ma non è come possedere i Poteri Sommi.» «Che… che cosa può fare chi ha i… tre poteri?» «Può fare cose eccezionali! Tuo padre riusciva ad addomesticare ogni animale, anche il più selvaggio. Una volta ha domato perfino un Drago Nero! E quando le creature più pericolose non obbedivano al suo influsso, allora combatteva contro di loro come una furia! Poteva spostare gli oggetti col solo pensiero, aprire qualunque serratura, e sapeva comunicare con gli alberi, coi laghi, coi fiumi e col mare! Le acque si calmavano o si agitavano al suo comando. E questa è solo una minima parte di ciò che sapeva fare. Molte delle sue facoltà le conosceva soltanto lui.» Odyssea fu invasa da un’improvvisa sensazione di fierezza. Non capiva nemmeno la metà delle cose che Augusta le stava raccontando, ma il pensiero che suo padre avesse compiuto imprese grandiose la faceva sentire bene. «Hai detto che aveva due poteri. E il terzo?» «Quello è il più speciale e il più terribile di tutti, ed è anche il più raro. Il potere di varcare il tempo. Consente di tornare indietro nel passato o andare avanti nel futuro. È un potere non facile da gestire, se usato male può provocare effetti disastrosi. In verità nessuno conosce esattamente le estensioni dei tre poteri, potrebbero essere molto più grandi di quanto pensiamo.» «E la mamma?» Augusta scosse la testa dolcemente. «Grace è nata del tutto priva di poteri. Purtroppo la mia famiglia non ha mai avuto validi esempi di facoltà magiche. Lei è andata a scuola come la maggior parte di noi, ha imparato centinaia di incantesimi, ma… be’…» esitò, «Grace non ha mai amato essere una strega, è stata sempre un po’… come dire… ribelle… fin da bambina.» Odyssea si voltò verso la panchina. Sua madre era ancora lì. Si attorcigliava i capelli in modo febbrile, lo stesso gesto ininterrotto intorno allo stesso ricciolo, quasi a infliggersi una tortura. «Ha sempre cercato di disimparare tutto», continuò la nonna. «Sbagliava gli incantesimi, faceva marcire le pozioni, e si ostinava a fare normalmente tutte le cose che noi potremmo fare con estrema facilità. Per esempio, questo…» Con un rapido gesto della mano diretto verso la tavola imbandita, pronunciando Tabula rasa fece sparire ogni pietanza, e al loro posto apparve un centrotavola d’argento a forma di veliero. «Tua madre avrebbe sparecchiato la tavola pian piano, portando i piatti a uno a uno in cucina. Anch’io ho imparato tutto a scuola, e come vedi devo usare formule magiche per ottenere ciò che voglio. Chi ha i poteri non ha bisogno di formule. Ha tutto dentro di sé, basta che desideri. Per questo i poteri sono anche pericolosi, occorre una straordinaria autodisciplina per governarli e usarli solo per nobili scopi. E questo comporta un’enorme responsabilità per chi li possiede.» «E io?» le chiese titubante. «Ancora non lo sappiamo con certezza, però, a conti fatti, potresti avere gli stessi poteri di tuo padre.» Odyssea storse gli occhi e ammutolì. Quella era una bugia. Lei non aveva mai addomesticato gli animali, né spostato gli oggetti, né influito sulle cose in qualche altro modo! Un cane randagio, una volta, aveva rischiato di addentarle un polpaccio e al mare, d’estate, le poche volte che erano scese in spiaggia, quanta acqua aveva bevuto e ribevuto per imparare a nuotare! E per anni aveva dovuto trascinarsi dietro i bagagli, dalle case alla macchina e dalla macchina alle case, e mai e poi mai li aveva potuti trasportare con l’uso del solo pensiero! Per quanto… non poté fare a meno di pensare all’ultima notte a Saint Albans e alla stanza sottosopra. Possibile che avesse qualcosa a che fare con… No, era più propensa a credere alla teoria del sonnambulismo. Non poteva bastare un’unica stravaganza per farle credere di essere dotata di poteri magici. Era una ragazzina qualsiasi, e avrebbe dovuto dirlo chiaro e tondo a sua nonna per evitarle una delusione. «Mi dispiace darti un dolore, ma credo che ti sbagli. Però non importa, va bene essere come mia madre. Non c’è nulla di male.» Nel dire questo provò una specie di stupore. Si rese conto di aver implicitamente accettato tutte le rivelazioni di sua nonna. «Non dico che per essere persone speciali occorra avere i poteri!» le rispose Augusta come se volesse rimproverarla per averlo solo pensato. «I poteri non rendono di per sé migliori le persone. Ciò non toglie che tu non sia come tua madre.» «Come fai a dirlo? Che ne sai di me? E poi, io l’ho vista che faceva muovere un albero nel bosco!» «Quella è una Quercia Sentinella, e per sua natura si sposta solo quando percepisce il tocco di un abitante di Wizzieville. Non potrebbe mai succedere che uno di coloro che vivono al di là, in quello che noi chiamiamo il Mondo-altrove, la sfiori ed entri qui per caso. La quercia riconosce le streghe e i maghi, anche dopo molto tempo, ma non ha niente a che vedere coi poteri. A questo punto, però, devo dirti un’altra cosa. E forse, dopo, perdonerai tua madre per averti nascosto tante, troppe cose.» Davanti alla fronte aggrottata della nonna, che non sorrideva più, Odyssea si sentì smarrita, ma si dispose ad ascoltarla. «Devi sapere che non tutti i maghi fanno un uso saggio delle proprie facoltà. C’è chi sceglie di assecondare il proprio lato oscuro. Secoli fa un mago geniale e molto dotato decise di adoperare i poteri per scopi terribili. Si chiamava Angus Ziggart, e li possedeva tutti e tre. Era un giovane promettente e tranquillo, ma quando scoprì di essere forte, il più forte di tutti, l’orgoglio lo trasformò. Seminò guerra, morte, paura, le cose più turpi, e grazie al terzo potere riuscì a diventare immortale. Poi, dodici anni fa successe qualcosa… Tu eri ancora una bambina. In quel periodo frequentava la nostra casa una ragazza che si prendeva cura di te, una strega senza poteri particolari. Sembrava una persona dolce e perbene. E invece tuo padre scoprì che Breta, così si chiamava, era complice di quel mostro.» Odyssea trasalì e il cuore le schizzò fino in gola. «Erano mesi ormai che nel villaggio si percepiva una presenza pericolosa», proseguì Augusta. «Molti maghi e streghe erano stati trovati morti nel bosco, completamente dissanguati. Tuo padre una notte seguì Breta e lei inconsapevolmente lo condusse al rifugio di Squartavene.» «Squartavene?» «Sì, la comunità ha scelto questo nome, perché si cibava di sangue e aveva bisogno di nutrirsi in continuazione. Lui e tuo padre lottarono, lì nel bosco, e all’inizio tuo padre ebbe la meglio… Allora Charlton rientrò al villaggio per avvertire del pericolo. Ma Squartavene uccise Breta e s’introdusse in questa casa. Fu qui, che tuo padre morì.» Odyssea si guardò intorno, seguendo con gli occhi il perimetro della sala ariosa. Tutt’un tratto quelle mura le parvero ostili. Non serviva a nulla che il sole di giugno rischiarasse il pavimento e il mobilio, perché tutto pareva coperto da una patina di ghiaccio. Il tono della nonna si fece roco. «Ci fu una dura battaglia. Squartavene purtroppo prevalse. E poi cercò te, per ucciderti. Tua mamma ti portò via…» Odyssea sentì un’ondata improvvisa di allarme scorrerle nelle vene come fuoco. Ricordò tutto in un lampo. Sua madre che correva sotto la pioggia tenendola in braccio, l’uomo con le orbite vuote che le braccava, e quella mano guantata che stava per afferrarle… E capì che ciò che aveva immaginato, l’incubo che l’aveva tormentata nelle ultime settimane, non era solo un sogno. Era la sua vita! «Grace scappò stringendoti a sé. Pioveva a dirotto, e tuo padre era ferito a morte… E poi accadde qualcosa… Mentre Squartavene vi inseguiva, all’improvviso ci fu una violenta esplosione e lui scomparve. Per molti giorni furono trovate nell’aria tracce di una deflagrazione che solo un potere poteva aver provocato, e né tu né tua madre avevate un graffio. Un’esplosione del genere avrebbe dovuto radere al suolo il villaggio… Grace non aveva nessun potere, era un fatto assodato. E il tuo povero padre esalò il suo ultimo respiro sotto i miei occhi. Chi poteva essere stato?» Lievi lacrime solcavano lente le guance di nonna Augusta. Odyssea sentiva dentro una specie di oppressione. Era lei l’eroina di quell’incubo sfocato e inquietante? Sua madre, quella Grace Bennet che le parlava solo per rimproverarla e la svegliava all’alba in modo brusco, aveva rischiato la sua vita per proteggerla? «E tu… tu credi… tu credi che sia stata… io?» balbettò. Oh, no… pensò. Avevo solo pochi anni, allora. Come avrei potuto fare qualcosa di tanto straordinario? Vorrei tanto, tanto, tanto, aver salvato mia madre, e vorrei aver potuto salvare mio padre… Ma credo sinceramente che ci sia un’altra spiegazione… «È per questo che siamo andate via?» «Andaste via quella notte stessa. Grace, prima, era una donna vitale. Ribelle, ostinata, ma generosa e piena di slanci affettuosi. Ma ora… tu la conosci…» Sì, la conosco, avrebbe voluto gridare Odyssea. Ora è una donna taciturna e scortese, perennemente terrorizzata da qualcosa. Forse ha ancora bisogno di essere salvata. «Scappiamo via continuamente», sussurrò. «Ma allora, perché siamo ritornate?» «Perché…» Augusta esitò prima di proseguire, «pare che Squartavene sia stato liberato. Dopo l’esplosione si disse che i suoi resti indeboliti avessero trovato rifugio nell’Antro dei Raminghi, una caverna buia e profonda sul Monte Basto, verso nord. Una delegazione dei più dotati maghi di Wizzieville andò sul monte e, non avendo altre possibilità, fece un potente Incantesimo di Prigionia. Ogni Incantesimo di Prigionia, però, per essere valido, deve essere sottoposto a una condizione: non si può rinchiudere qualcuno per sempre, neanche un simile mostro, e se nella formula non è presente la possibilità di una via di fuga non funziona… Lo sottoposero quindi alla condizione che i resti immortali di Squartavene potessero essere liberati solo da un suo erede mortale. Pensavano che fosse la formula migliore perché Angus Ziggart non aveva eredi. Ma ora… l’Antro dei Raminghi è stato aperto e non sappiamo più cosa pensare.» «Allora non saremmo dovute tornare! Ecco perché la mamma era terrorizzata…» Augusta la contraddisse con decisione: «No, bambina mia. Voi siete molto più al sicuro qui che fuori, adesso. Non avevate scelta. Se è vero che Squartavene è stato liberato, non è stando fuori che sareste salve, lì sareste state più sole e inermi. E poi la situazione di Grace non era delle migliori. I viaggi nel Mondo-altrove superiori ai sei mesi devono essere regolarmente autorizzati. Invece tua madre è andata via all’improvviso e per dodici anni». «Lei fuggiva anche da voi. Da voi tutti! Per non essere ritrovata…» «Grace ha sempre detestato la magia, a maggior ragione dopo che le ha portato via suo marito, che lei amava più di se stessa. Da allora è stato tutto così diverso…» Rimasero entrambe in silenzio. Odyssea, con gli occhi bassi, lisciava nervosamente l’assurda gonna rigonfia che Joyce le aveva fatto indossare. «Tu sei speciale, Odyssea. Già da piccolissima avevi manifestato doti particolari, ma non abbiamo avuto il tempo di valutarle. Non so ancora se tu possegga gli stessi poteri di tuo padre, ma lo scopriremo. Stando qui avrai modo di sviluppare tutte le tue potenzialità e imparerai a difenderti.» «Se è vero ciò che dici, perché in tutti questi anni non ho mai notato niente?» «Avresti voluto accorgerti… di cosa? Per dodici anni tua madre ti ha sepolta nella più totale normalità, ha inibito ogni tua dote… E i poteri, come gli incantesimi e tutto ciò che è magico, esigono consapevolezza. Se li possiedi sono sopiti in te. Ma li devi conoscere per dominarli. E se ci sono, credimi, si manifesteranno.» Augusta raggiunse la balconata. Il sole illuminava il giardino, come tuorlo spennellato sulla crosta di una torta. Contemporaneamente Grace si era alzata dalla panchina e si stava dirigendo verso la casa. «Hai conosciuto una Grace Bennet molto ingiusta, ma se tu sapessi ciò che so io, se tu conoscessi realmente chi è, sapresti di quanta generosità è capace. Datti un po’ di tempo, per capire, per accettare… Poi, ciò che deve venire verrà.» «Nonna», domandò Odyssea con un’espressione accigliata che la allarmò, «potresti farmi un favore?» «Certo…» «Posso riavere i miei vestiti?» Augusta spalancò le braccia e la accolse con un sorriso. *** Quando, dopo pranzo, Odyssea chiese a sua madre di fare una passeggiata, il giardino era ancora inondato dal tiepido sole pomeridiano. Era un luogo incantevole. Dalla veranda, oltre le portefinestre del salotto e della sala da pranzo, tra due ali di prato che ospitavano la vegetazione più rigogliosa che Odyssea avesse mai visto, si allungava un vialetto ricoperto di ghiaia grigia. Fitte file di alberi tappezzavano la terra, su una pianura che virava dal verde cupo al giallo dorato. Odyssea riconobbe gruppi alternati di cipressi, olmi, querce, ulivi, betulle e abeti, che si susseguivano a poca distanza, senza contare la distesa di alberi da frutto, e una schiera di palme alte e slanciate con ciuffi di datteri che pendevano come collane di perle color ocra. Aveva indossato di nuovo i suoi vestiti, un paio di jeans comodi e una camicia a quadretti, suscitando in Joyce una reazione di sconvolto stupore. Grace le camminava accanto, silenziosa. Allora fu Odyssea a cominciare a parlare: «La nonna mi ha raccontato parecchie cose», mormorò, osservando sua madre con la coda dell’occhio. «Lo so, era giusto che qualcuno ti informasse.» «Mamma, vuoi dirmi…» Sua madre le rivolse un sorriso amaro. «Ti ho portata via per proteggerti. Temevo che quel mostro potesse tornare da un momento all’altro e avevo paura che questo mondo, questi poteri assurdi e terribili potessero ucciderti… come… come era stato con Charlton… E se era successo a lui, cosa ne sarebbe stato di noi, di te, così piccola e indifesa, e di me, che non avevo uno straccio di potere per difenderti? Volevo che noi due fossimo persone normali…» Un singhiozzo la interruppe. Odyssea evitò di dirle che la vita condotta fino a quel momento era stata tutto fuorché normale. «Così siamo andate via», continuò Odyssea, dispiaciuta di aver provocato quell’evidente infelicità ma desiderosa di continuare la conversazione. «Sì, ma poi è diventato giusto tornare. Queste sono le tue radici.» «La nonna… non l’hai più sentita per tutti questi anni?» «Oh, no, noi ci scrivevamo spesso. È stata lei a consigliarmi di tornare, solo qui avremmo avuto un po’ di protezione, solo qui tu avresti scoperto se avevi dei poteri.» Mentre parlava, Grace continuava a stringere tra le dita il ciondolo d’ambra che portava al collo. Lo lisciava tra il pollice e l’indice, con tanta pressione che a tratti i polpastrelli diventavano bianchi. «Questo me l’ha regalato tuo padre, tanti anni fa», sussurrò. «Quando eravamo ancora fidanzati. Io avevo appena diciannove anni. È un Monile dei Pensieri e si regala solo per amore… Se la persona alla quale lo si dona è quella della propria vita, la pietra s’illumina non appena viene indossata, una sola volta, altrimenti rimane fredda. Se si accende significa che il legame che si crea è eterno.» «Ho sempre amato questo ciondolo», disse Odyssea, osservando con occhi nuovi la pietra liscia a forma di goccia. «È tutto così… così complicato…» sibilò Grace, scuotendo la testa e allargando le braccia. Odyssea capì che sua madre aveva un tumulto dentro, ricordi, pensieri, segreti, e non pretendeva che le raccontasse tutto e subito. Aveva imparato a volerle bene comunque e non sarebbe stato un altro po’ di silenzio a cambiare le cose. Non avrebbe preteso che si trasformasse in un’altra persona, e forse non lo avrebbe gradito. La guardò con occhi benevoli. Per anni l’aveva guardata con irritazione, con sospetto, con infelicità, ma adesso le indirizzò soltanto il suo amore. *** Il sole cominciava a calare verso ovest in una densa luce fulva che avvolgeva il giardino. Grace era rientrata in casa per riposare. Odyssea ricordò che la nonna indossava pantaloni e stivali da equitazione, e intuì che lì intorno dovessero esserci dei cavalli. Attraversò un tratto in cui si alternavano aiuole fiorite e scampoli di orto disseminato di erbette odorose. Mentre camminava aveva l’impressione che, ogni tanto, qualche fiore si girasse a osservarla, quando credeva di non essere notato. Ebbe l’assoluta certezza che una manciata di ranuncoli si fosse voltata di scatto, e che una sfilza di baccelli che parevano fagiolini si fosse spostata un poco, invadendo lo spazio di un’altra pianta che aveva reagito con una specie di grugnito. Odyssea sorrise, incredula e divertita, fingendo di proseguire, ma quando si girò a sorpresa, riuscì a cogliere in flagrante i ranuncoli, sporti verso di lei come beccucci di uccellini, che si spintonavano gli uni con gli altri scrollando le corolle giallo cedro. Poi, svoltando a destra, oltre un agrumeto e dietro una piana di palme i cui fusti parevano zampe di giganteschi elefanti, vide una recinzione di legno, interrotta da un uscio di frasche. All’interno un pony grigio stava immobile accanto a un abbeveratoio di pietra, in un punto ombreggiato da un esile gelso bianco. Poco distante c’era una costruzione di mattoni rossi. Doveva essere una scuderia. Odyssea scavalcò la staccionata e vi s’introdusse attraverso una porta su cui penzolava un ferro di cavallo arrugginito. Ciuffi di paglia, fieno e trucioli smorzarono il rumore dei suoi passi sul pavimento di tavole scure. Una finestra alta coi vetri opachi catturava la luce, spargendola intorno come vernice dorata, dentro la quale fluttuavano nuvole di polvere così densa da somigliare a centinaia di ragnetti sospesi. Nella prima stanza una moltitudine di attrezzi era appesa alle pareti, e l’aria odorava di cuoio e segatura. Sostò per qualche secondo, osservando un tavolo sul quale erano disposti alla rinfusa mucchietti di cenci e una varietà di strane spazzole, alcune dotate di crini aguzzi e metallici, altre di setole compatte e morbide. Di fianco al tavolo c’era un piccolo lavabo smaltato di bianco con un pezzetto di sapone blu a forma di delfino, un rubinetto gocciolante, un mozzicone di specchio attaccato al muro e una panca rettangolare. Da lì si udivano fiochi rumori provenire dal locale accanto. Incuriosita Odyssea entrò e, ai lati di un lungo corridoio di assi coperte da filacce di paglia e riccioli di segatura, vide due file di box, alla sua destra e alla sua sinistra: otto cavalli se ne stavano quieti, col muso proteso al di là di una bassa porticina, due box erano vuoti. Si soffermò a osservarli, mantenendosi al centro del corridoio. Non aveva mai visto dei cavalli così da vicino e non pensava che potessero essere tanto imponenti. Quelle bestie fiere, con occhi a mandorla e criniere come stole di seta, le incutevano un po’ di timore. Io non ho alcun potere, si disse, altrimenti non avrei paura di semplici cavalli. In fondo allo stanzone, da un box più grande degli altri, un enorme stallone color miele la fissò con uno sguardo austero. Odyssea fu istintivamente intimidita da quegli occhi scuri e profondi che sembravano conoscere molte cose. Su una targhetta di ottone annerito, era inciso un nome: Levante. «Ciao, Levante», sussurrò. «Come stai?» «Sta bene se non lo annoi con le tue chiacchiere», esclamò improvvisamente una brusca voce maschile alle sue spalle. Odyssea trasalì e si voltò. Dietro di lei, a pochi metri, con la schiena addossata a una parete e le braccia incrociate sul petto, c’era un ragazzo, e sulle prime Odyssea si lasciò confondere dalla sua espressione imbronciata. Si sentì in colpa, come se fosse stata colta in flagrante mentre commetteva un reato, e stava quasi per scappare via, quando si rese conto che aveva tutto il diritto di stare lì. Subito dopo quella certezza, un’altra verità si fece strada nel suo cervello. Quel ragazzo era ciò che un dizionario avrebbe definito soggetto di bellezza non comune, capace di far tremare le ginocchia e suscitare pensieri spudorati, vale a dire uno schianto. E allora, l’ansia che l’aveva colta quando aveva creduto di essere fuori posto tornò a punzecchiarla. Adesso era veramente fuori posto. Era una ragazzina imbranata e magra come un ago da lana che, all’improvviso, si trovava a tu per tu con un giovane tizio che sembrava avere poco più di vent’anni, alto e snello, con occhi scurissimi e in quel momento indignati, e un sipario di capelli copiosi e ingarbugliati che gli ricadeva sul viso e sulle spalle, con una ciocca, una grossa virgola umida, incollata a una guancia. Indossava pantaloni di cuoio infilati dentro stivaloni logori e una camicia bianca che fuoriusciva dai calzoni, con le maniche arrotolate fino ai gomiti. Se ne stava lì, immobile, come se attendesse una spiegazione convincente alla sua intrusione, ma non fosse affatto certo che quella ragazzina potesse fornirgliene una. Odyssea era come paralizzata. «Chi ti ha dato il permesso di entrare?» le domandò lui aspramente. «Mi chiamo Odyssea Bennet e…» Il ragazzo fece un cenno sbrigativo con la mano, come se non gradisse altri chiarimenti. Portava guanti di cuoio senza dita, stretti intorno ai polsi con un velcro. «Sei la nipote di Augusta», osservò lui. «Non t’illudere che questo cambi le cose. Quello…» e indicò Levante, «lo cavalco solo io.» «Perché?» chiese d’impeto Odyssea, pentendosene immediatamente quando lo vide incupirsi ancora di più, aggrottare la fronte e scrollare il capo, senza distogliere gli occhi da lei. «Perché Levante si lascia cavalcare solo da me. Se provi a salirci ti disarciona. Neanche tua nonna lo ha mai cavalcato. E chiunque altro ci ha provato è finito a terra con le ossa rotte.» S’interruppe, continuando a fissarla, e per alcuni imbarazzanti attimi Odyssea ebbe la sensazione che il suo sguardo la accompagnasse dall’alto in basso come una pennellata. Fu certa che fosse sua intenzione farla sentire a disagio, e resse il suo sguardo con fierezza. Le mancava la bellezza, le mancava la consuetudine di parlare coi ragazzi, ma aveva taniche di orgoglio. «Ti va bene come risposta?» aggiunse lui con tono sprezzante. «Per te va bene Bigio.» E fece un cenno con la testa verso il recinto a indicare il pony sonnacchioso accanto al gelso. Quel suggerimento, chiaramente diretto a schernirla, la indispettì. «Posso avere il piacere di sapere come si chiama la persona più cortese che abbia mai conosciuto?» gli domandò. «Ah, siamo pure spiritose», disse lui con tono incolore. Quindi uscì senza risponderle e si diresse verso l’uscita. Dopo qualche secondo Odyssea lo seguì. Lì fuori, un bel cavallo color caffè si era unito al pony nel recinto. Agitava la coda e scuoteva il collo con lentezza, e dal corpo colavano goccioloni d’acqua che infangavano la terra. Il ragazzo si avvicinò con una spazzola scura e cominciò a strofinargli i fianchi possenti, oltre i quali le costole tracciavano file di semicerchi che si dilatavano sotto l’impulso del respiro. Odyssea si fermò a osservare quella silenziosa toeletta. Si sedette su un tronco tagliato vicino alla porta e restò così, con un pallido spicchio di luce in faccia. Avrebbe dovuto andarsene, probabilmente, ma rimase, calamitata sul suo improvvisato sgabello. C’era qualcosa di ipnotico, e deciso, e infinitamente delicato nel modo in cui si dedicava alla cura dell’animale. L’operazione durò qualche tempo, scandita dallo scalpiccio dei suoi passi sulla terra bagnata, dallo strofinare della spazzola sul mantello del cavallo e dal dondolare ritmico della sua coda scura. Odyssea non poté fare a meno di fissare quel giovane sconosciuto, le sue spalle avvolte nella camicia stazzonata, le gambe fasciate dai pantaloni di cuoio, gli stivali sporchi di fango, chiedendosi perché, tutt’un tratto, si sentisse così agitata. Era come se facesse freddo e caldo allo stesso tempo, e la sua schiena fosse indecisa tra brividi e sudore. Era come se avesse corso per ore, perché il suo cuore batteva rapido e affannato. A un certo punto il ragazzo, dandole le spalle, esclamò semplicemente: «Jacko O’Donnell». Odyssea si sentì incoraggiata. «Che fai qui, Jacko O’Donnell?» «Sto strigliando il cavallo.» «Lo vedo. Intendo oltre.» «Non c’è niente oltre. Per me ci sono solo i cavalli.» «Dove abiti?» Jacko, sempre di spalle, indicò col braccio una casa che affiancava il recinto. Odyssea si sporse e vide che era circondata da una cornice di piccoli alberi, quasi alberelli bonsai. Sul tetto, da un comignolo sormontato da una banderuola segnavento a forma di drago con una zampa metallica spezzata, fuoriusciva un filo di fumo. «Con chi vivi?» «Perché mi fai tutte queste domande?» chiese lui con voce sempre più beffarda. «Ti sei forse innamorata di me?» Si girò verso di lei e di nuovo le rivolse il suo sguardo indagatore. Alla fine scosse la testa, come se ciò che aveva visto non lo soddisfacesse. Quindi si sistemò i capelli dietro le orecchie, liberando completamente il viso e la fronte sudata. Osservando il suo volto per intero, Odyssea notò che una cicatrice lunga forse quattro o cinque centimetri gli lambiva la guancia destra, scendendo dall’orecchio verso il mento. «Come te la sei fatta quella?» gli domandò. «Non sono affari tuoi.» «Lo sono, se ci tieni tanto a mostrarmela.» Jacko diede una pacca leggera sul collo del cavallo, che lo seguì docilmente nel box. Odyssea rimase fuori ad aspettare. Le tremavano le gambe. La sua saggia testa pensante le diceva di andarsene senza salutarlo, via, lontana, di filato a casa, ma qualcos’altro, qualcosa di indefinito e ostinato, la inchiodava lì, in attesa che ritornasse. Dopo un po’ di tempo il ragazzo uscì. Si era lavato il viso e le mani e aveva i capelli bagnati. Gocce d’acqua colavano anche dalla camicia gualcita, che appariva bersagliata di chiazze pallide. «Allora», insisté Odyssea. «Vuoi dirmelo o è un segreto?» Jacko si sedette sulla staccionata, con le gambe intrecciate ai tronchi. La scrutò per qualche interminabile istante, corrucciato come un albero. Infine le concesse un sorriso ironico, scrollando le spalle. Quel sorriso le procurò uno strano crampo pieno di spine nei paraggi del cuore. «Sono stato ferito da un animale.» «Con chi vivi?» «Ancora con questa domanda!» Jacko sembrava spazientito e divertito insieme. «Sei piuttosto insistente. Rassegnati, perché non sei proprio il mio tipo.» «Badi ai cavalli di mia nonna?» continuò Odyssea, fingendo di ignorare quell’ultima frase. «Non so, tu che dici?» «Hai qualche potere?» Jacko la fissò, come se fosse contrariato da tanta insolenza. Lui che la scrutava da un pezzo in modo sfacciato, con un sopracciglio alzato e un sorrisetto canzonatorio, dimostrava di non gradire affatto lo stesso trattamento. «Perché me lo chiedi?» le domandò, facendosi serio. «Be’, credevo… visto che vai così d’accordo con gli animali…» «Vado d’accordo con i cavalli, ragazzina. E visto che una bestia inferocita mi ha praticamente sfregiato e quasi ucciso non credo proprio di avere un così grande ascendente sugli animali, che ne dici?» e senza pensarci troppo si sollevò un lembo della camicia. Sotto, all’altezza delle costole, un’altra cicatrice, molto più lunga e frastagliata, gli attraversava il torace. «Che ne dici?» ripeté, saltando giù dalla staccionata. Odyssea non rispose. Qualsiasi commento sarebbe parso banale, se non addirittura sfrontato, non ultimo quello che, al di là del segno obliquo che gli percorreva la pelle come un lampo rossastro, aveva addominali asciutti e scolpiti, e forse lei avrebbe fatto meglio a guardare da un’altra parte. «I cavalli hanno fame. Vuoi aiutarmi, o pensi di continuare con questo noioso interrogatorio?» continuò Jacko. Quindi condusse il pony grigio nella scuderia. Odyssea li seguì. Jacko, con un forcone, depose mucchi di fieno e avena dentro le greppie all’interno di tutti i box. La invitò a cibare di grosse carote Bigio, e lo fece con un tono autoritario, come se non ammettesse obiezioni. Continuava a osservarla in modo supponente, e Odyssea reagiva a quello sguardo antipatico con simulata freddezza. Porse le carote al pony, stando attenta che quel muso avido non le staccasse le dita. L’animale prese a rosicchiare i bastoncini croccanti tenendo sempre gli occhi chiusi. «Ma questo pony è sonnambulo!» esclamò Odyssea ridendo. In quel momento si udì una squillante voce femminile provenire da fuori. Una ragazza bionda entrò correndo. Poteva avere sedici o diciassette anni, e indossava un grazioso abito di lino dorato, in pendant con il lucore dei suoi capelli. Morbidi boccoli incorniciavano il volto più bello che Odyssea avesse mai visto, con grandi occhi azzurri e una pelle la cui levigata perfezione avrebbe potuto fare concorrenza a certe pregiate maioliche. Quando la ragazza vide Odyssea con la carota in mano, arrestò la sua corsa, atteggiando le labbra rosa confetto a una smorfia di sorpresa e di fastidio. «E tu chi sei?» chiese, con un tono astioso che non si addiceva al suo viso d’angelo. Jacko, senza distogliere l’attenzione dai cavalli, disse con voce assente: «Odyssea Bennet ti presento Lindia Mou. Lindia Mou ti presento Odyssea Bennet». «Sei la nipote della signora Augusta, sei tornata insieme a tua madre, l’avevo sentito dire.» Lindia strinse con fare molle e sospettoso la mano che Odyssea le porgeva, scrutandola con un’espressione inspiegabilmente irritata. Quindi, vedendo che Jacko aveva già sistemato i cavalli, proruppe in un gridolino: «Ero venuta per fare un giro. Me l’avevi promesso, ti ricordo che me l’avevi promesso! Da quando non mantieni più le promesse?» Jacko non replicò e si limitò a osservare: «Quel vestito non si addice a una stalla. Se ti sporchi non voglio sentire la tua vocina lamentosa». «Io non ho una vocina lamentosa…» sussurrò Lindia con un gemito assolutamente lamentoso. «E poi non hai ancora risposto a quella domanda! Ricordi Jacko? La domanda che ti ho fatto l’altro giorno? Ti ricordi?» insisté, ripetendo sempre le stesse frasi. «Ti ho detto che avresti dovuto rispondermi al più presto, ma ancora non mi hai detto niente…» Jacko le indirizzò uno sguardo incerto, aggrottando la fronte. «Non so di cosa tu stia parlando.» Mentre pronunciava quelle parole, Odyssea colse nei suoi occhi un lampo di sarcasmo ed ebbe la netta impressione che l’incantevole Jacko O’Donnell si stesse prendendo gioco di Lindia. Evidentemente gli piaceva tenerla sulla corda. Lindia batté le palpebre tre volte, come se le bruciassero gli occhi, e il viso le si tinse di porpora viva. «Non posso crederci…» mormorò sconcertata. «Se alludi a ciò cui penso», continuò Jacko con indifferenza, «credo sia un argomento che abbiamo trattato a sufficienza, non credi? E poi, bella Lindia, dimentichi che c’è un’ospite e non è educato parlare dei propri fatti personali.» Lindia si rivolse a Odyssea con un filo di voce tagliente: « L’ospite potrebbe anche andarsene, avendo capito che parliamo dei nostri fatti personali! Non credo proprio che sia più educata di noi… stare ad ascoltare ciò che diciamo…» «Non è così antipatica come sembra», disse Jacko a Odyssea. «Sembra odiosamente snob e invece è solo snob.» Odyssea provò un moto di rabbia. Quei due l’avevano proprio stancata. Se credevano di farla sentire un’estranea, oltre che un terzo incomodo, be’… ci erano riusciti in pieno. Diede loro le spalle per uscire. In quel momento un ragazzo irruppe nella stanza. Per poco Odyssea non lo urtò e non cadde a terra. Era così confusa che non lo aveva sentito entrare. Non doveva avere più di quattordici anni. Indossava un paio di pantaloni al polpaccio e una giacchetta abbottonata fino al collo. Ansimava e tossiva come se avesse corso per chilometri senza fermarsi. Si appoggiò alla porticina di uno dei box e si tenne premuto il fianco sinistro. «Ma perché devi sempre venirmi dietro?» esclamò Lindia bruscamente. «Perché la mamma mi ha detto di farlo», sussurrò il ragazzo, respirando ancora a fatica. «Io decido da sola dove andare, e non voglio essere seguita», disse Lindia. Poi tornò a rivolgere le sue attenzioni a Jacko. Mentre sistemava il pony in un box, lei gli andò dietro mormorandogli qualcosa all’orecchio. Odyssea osservò il nuovo arrivato con curiosità. In effetti non poteva che essere il fratello di Lindia. Gli stessi capelli giallo oro, gli stessi occhi turchesi, la stessa pelle di porcellana. L’unica differenza era data dalla mole, perché Lindia era magra e slanciata, mentre lui era tarchiato e riempiva la sua giacchetta fino a far tendere le cuciture. Le porse la mano con aria impacciata: «Ciao, io sono Stylo, Stylo Mou». Odyssea lo salutò con gentilezza, perlomeno Stylo pareva animato da buone intenzioni. Quando si voltò verso Jacko e Lindia, quando li scorse appartati in fondo alla scuderia, lui silenzioso che raccoglieva le selle portandole come se fossero imbottite di piume, e lei ciarliera, che lo pedinava come un’ombra, si sentì infastidita senza capirne la ragione. Notò che anche Stylo appariva urtato. Scrutava la sorella con occhi pieni di rimprovero. Odyssea scelse di non trattenersi. Uscì fuori senza salutare. Percorrendo a ritroso la stradina che conduceva verso casa, pensò che aveva sempre desiderato godere della compagnia dei suoi coetanei e avere un’amica… Ma quella Lindia non era la candidata ideale, era tanto bella quanto insopportabile. E suo fratello… non sembrava cattivo ma era chiaramente succube dei capricci della sorella. E Jacko… chissà perché pensando a Jacko provò una vampata di calore nello stomaco. Una sensazione strana, assolutamente nuova. Tra lui e Lindia c’era certamente qualcosa. Lei era molto affascinante, e su questo non c’era da discutere. E Jacko… era così… misterioso… Per una ragazzina la cui unica vicinanza coi componenti dell’altro sesso era stata la visione dei telefilm pomeridiani destinati agli adolescenti, l’irruzione di quel ragazzo brusco e attraente si era rivelata ben più sconvolgente di una scossa elettrica ad alto potenziale. Si sentiva sconvolta, come se avesse dentro la pancia un gatto che faceva le fusa, una trottola al posto del cuore e una sirena nelle orecchie. Sapeva di non essere bella, era una realtà con cui aveva già fatto i conti, ma era sempre stata convinta che non si trattasse di una cosa importante. Una ragazzina impegnata a fare e disfare valigie, inorridire dinanzi alle nuove squallide case dove ogni volta era costretta ad abitare e seguire la curva degli umori di sua madre, non aveva potuto sprecare tempo a chiedersi se il suo aspetto anonimo potesse essere considerato accettabile. Ma adesso, chissà perché, la cosa la intristiva. Il confronto con Lindia la vedeva perdente. Cercò di scacciare quei pensieri inutili dalla mente. Tuttavia, prima di raggiungere la casa, rivolse un ultimo sguardo all’edificio di mattoni rossi, e un involontario sospiro le scaturì dalla gola. RIVALITÀ Stesa sul letto a pancia in giù, Odyssea leggeva da ore, il naso quasi immerso in un grande libro dal profumo antico: Poteri e incantesimi. La copertina era nera, e il titolo un’elegante incisione dorata. Le pagine, di spessa pergamena color avorio coi bordi sfilacciati, alternavano illustrazioni a facciate colme di scritte con caratteri svolazzanti, vocali e consonanti decorate da ghirigori e riccioli. Si soffermò sull’immagine di una giovane donna completamente calva. Anche le sopracciglia erano sparite. La didascalia diceva: «Questa ragazza ha appena tentato di cambiare il colore dei suoi capelli usando un incantesimo De pigmentantibus, ma ha erroneamente pronunciato la formula di privazione ( tolleo) invece di quella di scambio ( inverso). Quest’incantesimo è reversibile, però con effetti collaterali imprevedibili. Da allora la ragazza ha sempre avuto i capelli color lavanda». Sfogliando ancora, lo sguardo le era caduto su un uomo coperto da piaghe, coi capelli bruciati simili a matasse di lana d’acciaio. Odyssea fu tentata di voltare pagina tanto era terrificante, ma le interessava scoprire cosa gli fosse successo: «Quest’uomo ha tentato di addomesticare un Drago Nero, commettendo un grave errore. I draghi sono avvicinabili solo da parte di chi è dotato del Primo Potere, e non ci sono incantesimi che possano supplire a tale mancanza. L’unico incantesimo possibile, l’Incantesimo Agghiacciante, dura solo pochi minuti. Va inoltre eseguito con cautela, poiché se per disattenzione o imperizia invece di centrarlo in mezzo agli occhi si colpisse qualche altro punto del drago e in particolare la sua coda, questo, invece di rimanere congelato, potrebbe infuriarsi ancora di più e bruciare ogni cosa che lo circonda». Nella pagina successiva, accanto all’immagine di un uomo che, a parte un’espressione ottusa, sembrava perfettamente normale, c’era scritto: «Quest’uomo ha tentato un Incantesimo Silenziatore. Stanco dei rumori assordanti provenienti dalla dimora del suo vicino alle prese con i terribili e puzzolenti Gnomi Cacofonici dei Pozzi, ha errato nel dirigere il flusso dell’incanto e questo gli si è ritorto contro. Da allora non riesce più a parlare, invero con grande beneficio per la comunità, poiché sembra non abbia mai avuto niente di interessante da dire». Divertita, Odyssea era passata a un volume largo e piatto intitolato Geografia e Topografia di Wizzieville. Dentro, le pagine erano ripiegate su se stesse ma, svolgendole con pazienza, compariva una cartina di Wizzieville grande quanto un lenzuolo. Era stata costretta a scendere dal letto, occupato interamente dalla mappa di pergamena che pareva un morbido plaid. Aveva individuato subito la casa della nonna, esattamente al centro del paese, disegnata con inchiostro grigio e colorata di blu. C’erano il giardino e la scuderia e il bosco tutt’intorno, e centinaia di edifici sparsi ovunque: castelli con merli appuntiti, alte torri e profondi fossati; e poi a nord le montagne, nere come brace, le cui cime erano inghiottite da nebbie grigie o spruzzate da una glassa biancastra che doveva essere neve; a est piccoli bacini d’acqua chiara affiancati da tetri acquitrini; a ovest smisurate pianure d’erba solcate da ruscelli, fiumi stretti e lunghissimi e cascate; a sud il mare, con scogli e isolotti affioranti macchiettati da ciuffi di vegetazione. Ma la straordinarietà di quella mappa non era la grandezza, né la minuziosità, e nemmeno il fatto che somigliasse a una coperta dipinta. La cosa più insolita era che, allungando una mano per sfiorare il disegno dei laghi, così limpidi e rotondi da sembrare bottoni di madreperla, le dita avvertivano una lieve carezza d’acqua fresca. La pianura trasmetteva la fragranza dell’erba, le montagne graffiavano i polpastrelli, la neve li raggelava, le paludi sprigionavano una sensazione di fango appiccicoso, e accarezzando le strade si sentivano i ciottoli piatti che lastricavano le vie. Quella mappa non era una banale pergamena: era viva, respirava, era calda e fredda, umida e riarsa, liscia e aguzza, fosca e tersa, si poteva toccare, annusare, perfino ascoltare se c’era abbastanza silenzio intorno. Odyssea aveva sorriso, accostando l’orecchio al mare. Il lobo si era bagnato, e la magia delle onde era arrivata come da una conchiglia. Wizzieville era molto più estesa di quanto credesse. Non sembrava possibile che un semplice boschetto riuscisse a celare qualcosa di tanto immenso e multiforme. Osservando le montagne a nord, gelide al tatto e mortalmente silenti, aveva pensato che, da qualche parte in mezzo a quei picchi, Squartavene era stato rinchiuso negli ultimi dodici anni. E adesso era libero. Da qualche parte… Scacciò fermamente quel doloroso pensiero e decise di uscire. Riavvolse la mappa, che si lasciò piegare con docilità, senza opporre le ostili resistenze delle mappe del Mondo-altrove, che non volevano mai saperne di ritornare alla piegatura iniziale e finivano con l’attorcigliarsi su se stesse. Quindi, con indosso dei pantaloni sportivi pieni di tasche, una maglietta a righe bianche e blu, e scarponcini robusti con suole di gomma, scese rapidamente le scale. Lo sguardo di Joyce la attraversò da parte a parte. «Oh, Odyssea, cara… che abiti… pittoreschi…» mormorò con un sopracciglio alzato del tutto simile a una V capovolta e un tono ridicolmente tragico. «Una volta ho visto l’illustrazione di un Troll di caverna con dei pantaloni così, ma senza tutte queste tasche… cosa ci metti lì dentro, mia cara? E che deliziosa maglietta! Com’è meravigliosamente senza forma! E che calzature! Non sono… ehm… un po’ pesanti? Servono forse per ancorarti al suolo, visto che sei così magrolina?» Erano diversi giorni, ormai, che si trovava a Wizzieville, ma quella piccola sceneggiata si ripeteva di continuo, qualsiasi cosa Odyssea indossasse. Sapeva che Joyce avrebbe voluto vederla con uno dei suoi vestiti di bambagia, ma finse di non cogliere la sua allusione, e andò oltre. Joyce la fermò con tono solenne. «Tua nonna ti vuole parlare», disse indicando il salotto. «Visite.» «Chi c’è?» le chiese Odyssea sottovoce, origliando il brusio oltre la porta, ma quando si voltò, Joyce era già andata via. Così bussò e attese. Augusta le andò incontro con un sorriso pieno di calore: «Vieni, ti voglio presentare alcune persone». Odyssea avanzò intimidita. Quattro paia d’occhi appartenenti ad altrettanti individui si fissarono su di lei. La più vicina era una donnina alta e allampanata coi capelli rossicci tagliati a scodella, un cappello che assomigliava a una teiera, e occhiali spessi che tendevano a scivolarle sulla punta del naso. Non doveva avere più di quarant’anni. Aveva lineamenti angolosi e una faccia equina, con un mento sporgente che le donava un’espressione eternamente disgustata. Stringeva con entrambe le mani una borsa d’argento e la teneva su, davanti al petto, in una posa da canguro. Di fianco a lei stava un uomo di qualche anno più grande, altrettanto alto ma robusto, con occhi chiari e dolci, radi capelli castani lisciati con cura e una folta barba color miele. Dal taschino del panciotto gessato pendeva una catenella d’oro con un monocolo attaccato: un paio di buffi calzoni verdi alla zuava e scarpe con le ghette dorate completavano il suo abbigliamento. Entrambi le porsero la mano, e la donna fece tintinnare la borsa come un cancelletto arrugginito. «Odyssea, ti presento il signor Pericle Thomasson e sua moglie Ginestra», sussurrò la nonna, aggiungendo con fierezza: «Pericle, Ginestra, questa è mia nipote Odyssea». Poi, un altro uomo di mezza età, che un tempo doveva essere stato biondo e che ora virava al sale e pepe, le si avvicinò mimando un leggero inchino. Aveva una corta barba chiara, occhi azzurri e ciglia paglierine, e indossava un abito blu con uno stemma dorato sul taschino e una camicia bianca inamidata, così tesa da sembrare di marmo. La signora che gli stava seduta accanto, una bellissima donna dall’età indefinibile, non si alzò, e si limitò a fare un cenno di saluto con il capo. Soffici capelli biondi le incorniciavano il viso e scendevano sulle spalle in perfette onde lucide. Sfoggiava una redingote di raso bianco, lunga fino alle caviglie, e stivali di seta candida con tacco a rocchetto. «I signori Mou, Frederick e Blanca.» Seduti sul divano, con aria composta e annoiata, c’erano due personaggi che già conosceva. «E questi sono i loro figli, Lindia e Stylo. Lindia è tua coetanea», continuò la nonna. Odyssea notò che Lindia la guardava con insistenza, sillabando alcune parole sottovoce. Noi non ci conosciamo, pareva dire. Intuì che non voleva far sapere ai suoi genitori del loro precedente incontro e non ebbe difficoltà ad accontentarla. Pertanto strinse le mani di tutti con gentilezza e, avvicinatasi ai ragazzi, finse di vederli entrambi per la prima volta. «Queste persone sono qui per darti il loro benvenuto. Il signor Mou è il borgomastro di Wizzieville e il signor Thomasson è il preside della nostra amatissima scuola superiore. Ti hanno fatto un grande onore, sai?» Odyssea sorrise, ma tacque. Cosa avrebbe potuto dire? Quelle persone apparivano così bizzarre ai suoi occhi, con quei modi e quegli abiti dal sapore settecentesco, che dovette trattenere una risata. La verità, al di là di quelle prime impressioni, è che non avrebbe proprio saputo di cosa parlare. Dopotutto, fino a poco tempo prima, sua madre era stato il suo unico interlocutore. Un interlocutore poco socievole, incline a magre conversazioni, che l’avevano abituata a dialogare soprattutto con se stessa. E con se stessa non aveva mai avuto bisogno di frasi di circostanza. Mentre ora, ne era certa, sarebbe stata necessaria una di quelle belle, vuote, ampollose frasi a effetto e di falsa circostanza che non le appartenevano. Si morse la lingua per sembrare lieta di quelle conoscenze, limitandosi a un semplice grazie. Il signor Thomasson, fra tutti, pareva il più felice di averla incontrata, e quando prese la parola lo fece con un pizzico di trepidazione. Aveva una voce vibrata, e la accompagnava con ampi movimenti delle braccia. «Siamo onorati che la figlia ed erede del grande Charlton Bennet sia giunta presso di noi, dopo tanti anni di lontananza. Speriamo tutti che si trovi bene qui a Wizzieville, e che decida di frequentare la nostra scuola, istituto che ha diplomato i più grandi maghi, fra cui il suo stesso padre.» Il signor Mou, per non essergli da meno, visto che il preside di una scuola occupava un gradino più basso di un capo villaggio, aggiunse: «Come borgomastro le porgo i più calorosi saluti da parte dell’intera comunità e come padre sono felice che la mia Lindia possa annoverare tra le sue amicizie una ragazza di così nobili natali». Lindia, dal canto suo, non mostrava la stessa contentezza. Con le gambe fasciate da una gonna di seta color mandarino e il viso imbronciato, rimaneva seduta sul divano, disinteressata a quei tediosi scambi di gentilezze. Le uniche cose che si muovevano erano le pupille, attraversate da ripetuti lampi di stizza, e un piede, fremente sotto l’orlo della sottana. «Lindia, Stylo, perché non portate Odyssea a fare un giro per Wizzieville?» suggerì il signor Mou. «Noi adulti dobbiamo parlare di questioni importanti.» Augusta, dopo un attimo di incertezza, annuì. «Attendo a breve l’arrivo degli altri sette membri del Consiglio. Sarei ben felice se Odyssea e i tuoi ragazzi, Frederick, trovassero il modo per stare insieme.» Lindia si era alzata. Era evidente che la cosa la contrariava. Aveva le guance infuocate e le uscì fuori una vocetta asprigna: «Io… non so se…» Il fratello le diede una gomitata nel fianco. «Oh… d’accordo… andiamo a fare un giro…» acconsentì la ragazza, fissandolo con rabbia e massaggiandosi le costole. Solo a quel punto, la signora Mou si alzò e si mosse per il salotto con andatura sinuosa. Aveva lente movenze feline e a ogni passo i boccoli le danzavano sulla schiena. A guardarla camminare non si poteva fare a meno di rimanere col fiato sospeso, come dinanzi a un’opera d’arte semovente. Si avvicinò a Lindia e mormorò: «Andate a passeggiare fuori, intesi?» I tre ragazzi uscirono dalla stanza e Augusta andò loro dietro. Mentre Lindia e Stylo attendevano, la nonna prese Odyssea da parte: «Sono stati gentili a volerti salutare». «Dov’è la mamma? Perché non c’era anche lei?» «Grace preferisce starsene un po’ sola, la conosci. Adesso vai. Noi del Consiglio dobbiamo discutere di faccende molto serie. E tu, fai attenzione…» Fuori, il sole concedeva al giardino la sua carezza dorata. Dal soggiorno, Lindia aveva attraversato una delle portefinestre che conducevano alla veranda e si era spinta quasi fino all’agrumeto, controllando che sua madre non la stesse spiando. Suo fratello le gridò contro, con tono pedante: «Ha detto la mamma che dobbiamo andare fuori!» Lindia tornò indietro, livida e irascibile come una iena affamata. «Io avevo un appuntamento!» sbottò senza curarsi delle buone maniere. «Non prevedevo di dover fare un giro turistico!» «Non avevi nessun appuntamento, invece! Te lo stai inventando!» la rimbeccò Stylo. Il viso, già lievemente rubizzo, era diventato color prugna. «Tu credi sempre di avere quel genere di appuntamenti, e ti sistemi e ti profumi e ti pettini come una scema, e poi Jacko è sempre da qualche altra parte e se c’è… be’, se c’è… se proprio vuoi saperlo… lui se ne frega altissimamente di te!» «Non dire stupidaggini!» gridò Lindia. «Che ne sai tu?» «Io so tutto, e quello che non so lo capisco. Prima hai supplicato Odyssea perché non mostrasse alla mamma che vi eravate già conosciute, perché lei avrebbe senz’altro capito che vi eravate viste nella scuderia e…» «Alt!» esclamò Odyssea, che cominciava a sentirsi terribilmente a disagio. «Ragazzi… ehm… volete farmi conoscere Wizzieville… per favore?» Tra Lindia e Stylo calò un silenzio di ghiaccio. S’incamminarono, Odyssea nel mezzo, tra i due fratelli imbronciati, dentro il villaggio che si snodava con la sua aria da cartolina illustrata. Wizzieville sembrava uscita da un quadro eseguito a pastello e, a differenza di Saint Albans, con le sue vie piene di pattume, possedeva un lindore quasi fiabesco. Le strade erano tutte verdeggianti, e da lontano si scorgevano schiere di alberi incolonnati, simili a infinite pareti color mela acerba. Viali più ampi, su cui si affacciavano villini minuti ed edifici monumentali – tutti dotati di comignoli e girandole segnavento, portoni con batacchi di ottone e giardini vellutati – si alternavano a stradine più strette, piene di botteghe, scalinate, aiuole e piazzette. Su ogni abitazione svettava una bandiera, e Odyssea intravide uno stemma dorato su un fondo blu. Talvolta, agli angoli, incrociavano fontanelle di pietra, scolpite a forma di sirene, gnomi, draghi, centauri, gufi e cavalli alati. In breve, giunsero in quella che doveva essere la piazza principale. Alti palazzi circondavano un largo spazio quadrangolare rivestito di lastroni grigio fumo. Al centro c’era un’imponente fontana di granito, con un unicorno bianco dalla cui bocca scaturiva un copioso getto d’acqua. Tutt’intorno al gigantesco quadrupede, una vasca circolare smaltata d’azzurro ospitava branchi di pesciolini che guizzavano rapidi sotto ciuffi di piante galleggianti con foglie grandi quanto orecchie d’elefante. Panche di pietra a forma di mezzaluna cingevano la fontana. Poco distante, c’era quello che a Odyssea parve una specie di locale di ritrovo, con la facciata dipinta di un bianco accecante e una tenda da sole aperta e penzolante su cui campeggiava la scritta: Da Gianduca – bevande frizzanti. Dei ragazzi seduti ai tavolini fecero segno a Lindia e Stylo di avvicinarsi. Poi, uno di loro, alto, dal viso quadrato, che indossava leggeri pantaloni nocciola e una camicia di seta morbida, le andò incontro: «Tu sei Odyssea Bennet, vero? Io sono Max e questi sono Jordy ed Helize». Il giovane che si chiamava Jordy scostò una sedia e la invitò ad accomodarsi accanto a sé. Odyssea si sentì immediatamente osservata. Si chiese cosa stessero pensando. Non era certa che il fatto che si trattasse di una di loro e allo stesso tempo non lo fosse affatto, e la non indifferente circostanza che il suo nome fosse legato a quello del mostro che tutti temevano, li autorizzasse a indagarla con occhi tanto indiscreti, ma accettò di pagare quel dazio e li osservò a sua volta. Max era troppo massiccio per i suoi gusti – benché non fosse per niente sicura di avere gusti precisi, visto che non aveva mai conosciuto ragazzi fino a qualche giorno prima – ma Jordy era talmente bello che neppure una dilettante come lei avrebbe potuto ignorarlo. Aveva corti capelli biondi, lisci e lucidi come se fossero umidi, occhi color lago ghiacciato, e indossava un elegante completo di lino blu. Dall’asola della giacca spuntava una piccola viola fresca. «Posso offrirti del succo di mela aromatizzato?» le domandò. Odyssea annuì impacciata, grata per la sua cortesia, ma non appena si rese conto di essere arrossita, distolse lo sguardo, soffermandosi sulla ragazzina grassoccia di nome Helize, seduta di fianco a loro. Ne trasse l’impressione di una massa completamente arancione. Non solo la casacca, ma anche i capelli erano arancioni, spinosi e gonfi come una criniera, e il viso tondo e pieno di lentiggini, quasi identico a una zucca che ad Halloween avrebbero potuto intagliarlo e decorarlo all’interno con un cero. Helize, dal canto suo, sporgendosi verso Odyssea prese a scrutarla con gli occhi che le brillavano, come se fosse uno strano animale rinchiuso nella gabbia di uno zoo. «Ehi…» esclamò, non contenta di averla già umiliata con quello sguardo sprezzante. «Certo che dalle tue parti vi vestite davvero male!» Odyssea fu colpita dalla sicurezza con cui quella ragazza atticciata, così simile a una grossa arancia matura, si permetteva di giudicare gli altri. Per un attimo pensò a una pungente rispostaccia – fortunatamente non ho i piedi gonfi come canotti e il sedere tanto basso che potrei spazzare il selciato. Tuttavia non replicò, limitandosi a scrollare le spalle. Insultarla di gusto non era il modo migliore di fare amicizia, perciò finse un’ottusa indifferenza. «Le notizie che circolano sono terribili», proruppe Max all’improvviso. «Avete sentito?» «Se è vero che Squartavene è fuggito dall’Antro, allora dobbiamo stare tutti molto mooolto attenti», sibilò Helize. Tutti gli occhi si posarono su Odyssea con uno scatto, perfettamente all’unisono. Notando che Helize stava per dire qualcos’altro a sproposito, Jordy cambiò discorso: «Ti iscriverai alla nostra scuola?» le chiese con premura. «Non lo so. Io… sono appena arrivata…» «Se ti iscrivi sarai in classe con Stylo», intervenne Lindia sbadigliando. «Lui deve ripetere il primo anno perché è stato bocciato. Io sono già al quarto e sono la migliore della classe.» Stylo fulminò la sorella con lo sguardo, sembrava un grosso bricco d’acciaio surriscaldato che stesse per esplodere. «Lo sappiamo, Lindia, che ti sei trattenuta dal dire che sei la più brava della scuola.» Max rise chiassosamente. «Io mi sono diplomato quest’anno», aggiunse. «Io devo frequentare l’ultimo anno, invece», disse Jordy. «Io pure sono al quarto anno», s’inserì Helize, non interpellata. In quel momento una signora grassoccia di mezza età coi capelli di un rosso acceso e una cuffietta in testa si avvicinò al tavolo portando un vassoio dorato con un bicchiere colmo. Quando Odyssea bevve, sentì uno strano pizzicore in bocca, come se avesse inghiottito un misto di peperoncino piccante e cola gassata, e tossì. Helize scoppiò a ridere a crepapelle. «Sei diventata tutta rossa! Non hai mai bevuto il nostro succo di mela aromatizzato?» Jordy intervenne per la seconda volta in sua difesa. «Lo sai che la nostra scuola dodici anni fa è stata dedicata a tuo padre? Nell’atrio c’è una bellissima targa. Devi andarne fiera», disse. Odyssea si sentì invadere dall’orgoglio. Suo padre doveva essere stato un uomo più grande di quanto immaginasse. E pensare che lei si sarebbe accontentata anche di un padre mediocre, purché fosse vivo… C’erano stati giorni terribili in cui sua madre era così assente che si era sentita veramente orfana. E adesso, il fatto che tutti conoscessero il suo nome e sapessero esattamente chi era suo padre, e la osservassero come se il ritorno di Squartavene fosse una cosa che doveva interessare soprattutto lei, la faceva sentire a disagio. Non era abituata a essere al centro dell’attenzione. Loro sanno molte più cose di me di quante ne sappia io stessa, pensò, mentre gli effetti pepati del succo di mela andavano scemando. «Continuate la vostra passeggiata?» chiese Jordy. «Perché saremmo ben lieti di accompagnarvi.» Odyssea ebbe l’impressione che la fissasse. Quella preferenza le destò un certo stupore. Non che avesse abbastanza fiducia in se stessa da illudersi che un ragazzo tanto bello potesse interessarsi a lei, ma avrebbe potuto giurare che Jordy le avesse sorriso in modo speciale. Tutti si alzarono dal tavolo. Lindia appariva accaldata e agitava la mano davanti al viso come un ventaglio. Prese il braccio di Max e vi si aggrappò con languore. Jordy porse il braccio a Odyssea, e quando Helize cercò di accaparrarsi l’altra estremità, lui dichiarò di provare un dolore acuto proprio a quella spalla. Helize reagì diventando ancora più arancione e, visto che Lindia e Max avevano accelerato il passo distanziandoli, pur di non restare da sola si affiancò a Stylo che ogni dieci passi si fermava ansimando all’ombra smerlata degli alberi. Odyssea si concentrò su Jordy. Sbirciandolo con la coda dell’occhio ne colse il profilo perfetto, il sorriso, la fronte sulla quale i capelli disegnavano un’onda dorata. Era senza dubbio un ragazzo affabile e attraente, ma non sapeva cosa dirgli. «Non preoccuparti», la rassicurò lui, come se avesse colto il suo imbarazzo. «Se vuoi, parlo io.» E iniziò a raccontarle di Wizzieville, di quanto amasse quel posto, e del fatto che dopo il diploma avrebbe cercato di seguire le orme del padre, che era pubblico procuratore presso il Tribunale Emerito di Terza Istanza. Disse che le terribili notizie che si erano diffuse riguardo alla possibile ricomparsa di Squartavene erano senz’altro allarmanti, ma non dovevano turbare troppo la comunità, perché sarà sconfitto come lo è sempre stato. Udendo quelle ultime parole, tuttavia, Odyssea non poté fare a meno di domandarsi: Sì, ma il padre di chi stavolta verrà fatto a pezzi? Rievocando quel ricordo rabbrividì. Jordy percepì il suo tremito e le rivolse un sorriso ancora più aperto. Tutt’intorno, Wizzieville e i suoi abitanti facevano da cornice. Odyssea era sbalordita. Incrociarono signore in cuffietta che spingevano carrozzine senza ruote, sospese a pochi centimetri da terra come su un invisibile cuscino d’aria, gruppetti di bambini vocianti che lambivano leccalecca più grandi di loro, capannelli di ragazzi abbronzati con cappelli di paglia ornati da fettucce simili a lingue di lucertole, uomini svelti con borse che parevano pesantissime ma che portavano senza sforzo, e tutti, indistintamente, appena la notavano si soffermavano a scrutarla con curiosità. Il sole era ancora alto, ma le ombre apparivano meno ridicolmente schiacciate, cominciando a staccarsi dai corpi e tracciando scie cenerognole sulla strada. In fondo, la casa della nonna con la sua facciata blu risaltava come una pietra preziosa. «Volete entrare?» chiese Odyssea prendendo l’iniziativa. «Oh, sì!» esclamò Helize per prima, giungendo da dietro, con la faccia attenta, come se pregustasse chissà quale saporita scoperta. «Oh, sììì!» strillò Lindia, riprendendosi così all’improvviso dall’apatia da sembrare un’altra persona. «Oh, sì…» ansimò Stylo sudato in volto. «Oh… sssì», fece eco Max, che non voleva essere da meno alla disponibilità degli altri. «Oh, sì», concluse Jordy, indirizzando a Odyssea l’ennesimo sguardo pieno d’interesse. Dentro, la riunione del Consiglio non era ancora terminata. Dal salotto giungevano voci concitate, ma in giro non c’era ombra né di sua madre né di Joyce e i ragazzi uscirono in giardino. Helize si guardava intorno con aria indiscreta, allungando il naso verso ogni angolo. Lindia, in poche falcate, aveva raggiunto la distesa di palme in fondo al giardino, accelerando il passo come un soldatino a molla a cui qualcuno avesse dato la carica. Stylo la seguì standole dietro a fatica. Max e Jordy procedevano lentamente, affiancando Odyssea che, da inesperta padrona di casa, si limitava a lasciar fare al caso. Giunsero presto vicino alla scuderia. Il recinto era ben visibile ormai, un solido circolo di legno, all’interno del quale il pony grigio sostava eternamente sonnolento. Non sembrava che Jacko fosse nei paraggi. Dalla stalla non proveniva alcun rumore. «Oh…» sussurrò Lindia delusa, sgonfiandosi come un palloncino bucato da un minutissimo spillo. Poi, così come si era afflosciata, si rianimò, e il sorriso le invase le guance. In lontananza, una scintilla color miele si volse verso di loro. Odyssea distinse chiaramente Jacko in groppa a Levante che, emergendo da una macchia di alberi, si dirigeva a gran velocità verso il recinto. Cavalcava a pelo, con il vento nei capelli, e si aggrappava alla criniera, le ginocchia strette intorno ai fianchi di Levante, come se tra lui e il destriero ci fosse una specie di congiunzione e le sue gambe si fondessero col dorso del cavallo. A mano a mano che si avvicinava, però, Odyssea notò che la sua espressione cambiava. Il suo volto, dapprima rilassato e sereno, quel bel volto inondato dal sole, titillato dall’aria, dopo averli scorti si era rabbuiato. Jacko gridò qualcosa. Levante rallentò gradualmente fino al passo. In prossimità della scuderia Jacko saltò giù, innalzando un polverone denso e rossiccio. Indossava una camicia di jeans scuro, completamente fuori dai calzoni di cuoio, che gli aderiva alla pelle come fosse dipinta. I capelli erano sciolti e sparsi in lunghe ciocche sudate. La cicatrice sulla guancia sembrava una vivida scia scarlatta. Lindia, troppo entusiasta per cogliere il suo totale disinteresse verso di lei, lo raggiunse con una fretta da assetata. In quel momento appariva ancora più bella, accaldata, gioiosa e leggera come solo una persona innamorata può essere. Ma Jacko non la guardò nemmeno. I suoi occhi scelsero un’altra destinazione. Le sue pupille fiere si conficcarono sulla faccia di Jordy e se avessero potuto parlare avrebbero certamente emesso un ringhio. Anche Jordy era agitato e, nonostante cercasse di contenere la tensione, Odyssea non poté fare a meno di notare la sua irrequietezza. Helize intervenne nuovamente a sproposito: «Che bel cavallo! Posso fare un giro?» Jacko la trapassò con lo sguardo, disprezzandola in tutti i modi resi possibili da una sola occhiata feroce. Odyssea provò un imprevisto moto di compassione vedendo Helize farsi più piccola di quanto già non fosse, mentre indietreggiava e rabbrividiva. Poi si rese conto che Jacko stava esagerando. Lo capì nell’istante esatto in cui, quando Lindia gli si avvicinò chiedendogli se poteva aiutarlo a governare i cavalli, lui le rivolse un «No» così duro e collerico che lo stesso Levante girò di scatto il collo disturbato da quel suono stridente. Lindia arretrò ammutolita per lo spavento. «Jacko O’Donnell, credo proprio che tu stia superando il limite. Non hai a che fare coi tuoi cavalli!» Era stato Jordy a parlare, la voce furente, così diversa da quella dolce e gentile con cui le si era rivolto solo pochi minuti prima. Jacko non gli rispose. Continuava a fissarlo e stringeva convulsamente i pugni ricoperti dai guanti tagliati. Fu un attimo. Con un balzo imprevisto fu addosso a Jordy. Max si precipitò per dividerli, ma Jacko lo spinse indietro, facendolo sbattere con la schiena contro la recinzione. Max si accasciò con un grido di dolore. Benché ciò che stava accadendo fosse così assurdo da sembrare immaginario, Odyssea non ebbe dubbi che si trattasse della realtà. I rumori, le grida, i respiri affannosi, i tonfi, e soprattutto la rabbia, erano troppo sinceri per essere finti. Stavano facendo a botte, eppure, allo stesso tempo, non stavano facendo a botte. In verità Jacko non aveva neanche sfiorato Max. L’aveva solo guardato, un secondo, e una spinta possente e invisibile era giunta fino a lui facendolo cadere a terra. Poi si era girato di nuovo verso Jordy. Odyssea udì quest’ultimo gridare Depello! con tutto il fiato che aveva in gola. Una scintilla di luce si materializzò nell’aria, diretta verso Jacko. Ma Jacko non rimase inerte dinanzi a quell’attacco. Spiccò un salto enorme, talmente rapido che smosse l’aria intorno a sé scuotendo i capelli delle ragazze, talmente devastante che ricadendo si propagò fino a Jordy come un ariete e lo fece stramazzare in mezzo alla polvere. Odyssea era terrorizzata. Non capiva ciò che stava succedendo, ma l’urlo di Jordy, e Max che rimaneva immobile con gli occhi chiusi, e Lindia che piangeva disperata, e Stylo che era scappato correndo come un matto verso la casa, ed Helize che sembrava una statua di ghiaccio e, infine, Jacko, fradicio e spietato, con gli occhi neri e saettanti, la indussero a gridare, a gridare, a gridare. Fu come se la sua voce avesse spezzato un orribile incanto. Jacko si fermò a guardarla. Approfittando di quell’attimo di distrazione, Jordy urlò un’altra volta Depello! Stavolta un colpo allo stomaco fece vacillare Jacko, che tuttavia rimase in piedi, per nulla sofferente ma ancora più furioso. Odyssea gridò di nuovo. «Basta! Smettetela!» Poi si precipitò verso Max che era ancora svenuto. Lo scosse con delicatezza, chiamandolo a voce alta, col cuore che batteva all’impazzata per la paura che fosse morto. «Fai vedere a me», disse Jacko avvicinandosi, come se fosse la cosa più naturale del mondo preoccuparsi per lui dopo averlo colpito. «Non toccarlo!» urlò Jordy, appoggiato allo steccato. Si teneva una mano sul petto e una tosse secca gli strappò una smorfia di sofferenza. La viola era caduta dal bavero sul terreno, tutta stropicciata. Nel frattempo Stylo era tornato. E dietro di lui, gli undici membri del Consiglio riempirono lo spazio accanto al recinto. Il signor Mou si chinò su Max e gli sentì il polso. Poi ordinò a tre uomini di portarlo in casa. «Come sta?» chiese Helize, smuovendosi dalla sua immobilità. «Guarirà», concluse lapidario Frederick Mou. «Augusta», esclamò lentamente la signora Mou, emergendo dal gruppo. «Quando imparerai che non devi fidarti di certa gente?» e indirizzò uno sguardo pieno di disprezzo verso Jacko, che stava fermo e zitto vicino a Levante. «Tutto questo è successo solo per colpa sua. Io spero che qualcuno prenderà seri provvedimenti! Se Hamlet fosse qui…» «Sono solo ragazzi», ribatté Augusta con un’aria placida che non si addiceva affatto a quella scena di battaglia. Malgrado ciò Odyssea notò che rivolgeva a Jacko un’occhiata preoccupata. Blanca Mou si avvicinò a Lindia, che si lasciò condurre via, sbirciando a tratti alle proprie spalle, nella speranza che Jacko le rivolgesse un cenno d’intesa. Lui si guardò bene dal farlo. Ginestra Thomasson rimase per tutto il tempo con un fazzolettino adagiato sulla bocca, stretto fra le dita come un paravento, tossicchiando ripetutamente. Le ultime frasi, prima che il gruppo si dileguasse oltre la curva, furono quelle del signor Thomasson che cercava di calmare gli animi con voce gioviale: «Su, su, amici miei! Non è successo nulla di irreparabile! Max Perriton guarirà senz’altro! Ginestra, fammi un bel sorriso! Frederick, diglielo anche tu! Blanca rimani con noi, non andare via così in fretta! E voi ragazzi, risollevate i cuori, questo brutto momento avrà un buon finale!» Odyssea era rimasta indietro. Quella violenza era stata così improvvisa e insensata da farla sentire come se anche lei fosse stata colpita a sangue. S’incamminò verso casa, ma a metà tragitto si fermò. Non ce la faceva ad andare via così. Raggiunse nuovamente Jacko, che intanto era entrato nella scuderia. Si era tolto la camicia, che giaceva a terra spiegazzata. Camminava avanti e indietro calciando il pavimento coi tacchi degli stivali, le mani sui fianchi, i capelli talmente scompigliati da coprirgli il volto, negli occhi una collera di pietra. Odyssea rimase un istante a contemplare quella magnifica furia, che la spaventava e la attraeva con la stessa intensità, poi diede un colpo con la mano sulla porta. Jacko sollevò la testa, di scatto, e quando la vide la sensazione di allarme si allentò. «Perché l’hai fatto?» gli domandò con voce ferma. «Perché hai aggredito Jordy? E Max? Che fastidio ti abbiamo dato?» Rimase così, a osservarlo con rabbia, accigliata e scura. E mentre lo guardava sentì una strana energia dentro, un’ondata di calore, un formicolio alle mani, un ronzio in testa, e un dolore al petto, come se le costole le stritolassero l’anima. Dovette sorreggersi alla porta, mentre il cuore le invadeva la gola e le orecchie fischiavano. Posò lo sguardo sull’abbeveratoio di pietra, nel recinto, come se concentrandosi su quella vasca grigia potesse liberarsi da tutto quel dolore e quell’impeto e quel fuoco. In un attimo l’abbeveratoio si sollevò da terra, vorticò come un’enorme girandola, fece fischiare l’aria, urtò il suolo e, dopo un giro turbinoso, finì contro il recinto, scheggiando i tronchi e spaccandosi in due. Il pony si allontanò con un balzo fulmineo di cui non sembrava capace. Levante scrollò la criniera e si spostò al piccolo trotto. Jacko si precipitò verso Odyssea e la afferrò dai polsi. «È tutto a posto», le sussurrò con una gentilezza inattesa. «Calmati ora. Controllati. È tutto a posto. Respira forte. Ecco, così.» Odyssea sentì il sangue dentro di lei che pian piano ricominciava a fluire in modo normale. Sentì i battiti del cuore che rallentavano. L’incendio che si spegneva. Cosa stava succedendo? Prima Jacko e ora lei… Puntò gli occhi neri in quelli di Jacko e lui sciolse la presa sui suoi polsi. «Va meglio, ora?» le chiese. «Sì, va meglio… E… a te, come va?» «Va meglio anche per me», rispose lui. «Ora vai a casa.» Odyssea fece cenno di sì con la testa. Percepì il tepore di due grosse lacrime sul viso. Si vergognava terribilmente. Si voltò e scappò via. *** Tornando indietro di corsa, si scontrò con sua madre all’altezza dell’agrumeto. «Cosa è successo?» le domandò Grace agitata. «Come stai?» Odyssea non aveva voglia di parlare. Sentiva un nodo in gola, come se avesse inghiottito un sasso e questo non riuscisse a spostarsi, né su né giù. Aveva ripreso a respirare normalmente, ma le orecchie le sibilavano ancora come se un insetto le ronzasse nel cervello, in cerca di una via di fuga dal labirinto dei suoi timpani. Era pallida e pareva sul punto di svenire, tanto che la mamma la sostenne con un braccio intorno alle spalle e la accompagnò dentro facendola sedere su una poltrona. Il salotto era vuoto, gli ospiti erano andati via. Augusta entrò nella stanza con la fronte aggrottata, ma si accostò a Odyssea con voce dolce e pacata: «Come stai?» «Bene», mentì lei, cercando di tirare fuori il fiato e di sorridere. «Gli altri ci hanno raccontato cosa è accaduto», continuò la nonna. «Non posso negare che si sia comportato in modo impulsivo, ma Jacko non è un cattivo ragazzo.» Joyce era giunta portando una tazza con un coperchio a mezzaluna, piena di un liquido paglierino. Lo porse a Odyssea con fare premuroso: «Bevi, piccola mia, bevi questo. Ti sentirai subito meglio». Poi, rivolgendosi ad Augusta con tono serio: «Io so quanto tu sia buona e giusta, e tutto ciò che fai è sempre così ammirevole, ma forse… non pensi sia stato un errore consentirgli di stare qui?» Odyssea bevve in un unico lungo sorso e un senso di calma la invase. Era come se quella bevanda avesse lubrificato gli ingranaggi che scricchiolavano nel suo cervello, permettendo al sasso che le ostruiva la gola di scivolare giù e all’insetto di sgattaiolare via. «Joyce, ti preoccupi troppo!» rispose Augusta. «È vero, Jacko non avrebbe dovuto usare così i suoi poteri ma…» «Jacko ha i poteri?» chiese Odyssea, interrompendola bruscamente. «Oh, sì…» spiegò la nonna. «È un ragazzo molto dotato, ma li usa in modo piuttosto istintivo. Per questo non è ben visto dalla comunità. Chi ha i poteri dovrebbe metterli al servizio degli altri, come ha fatto tuo padre. Ma sono certa che si sia già pentito per questa sfuriata. Se avesse voluto davvero far del male a Max Perriton e Jordy Angel, non credo che per loro sarebbero sufficienti un paio di pozioni.» Odyssea non poté fare a meno di ripensare all’espressione spietata dei suoi occhi. «Jordy ha cercato di fermarlo… anche lui ha i…» sussurrò Odyssea, rivivendo con la mente l’accaduto ancora una volta. «Ha usato certamente un Incantesimo di Contraccolpo, ma non credo gli abbia fatto un granché, Jordy non ha nessun potere.» «Avrà dei problemi? Jacko, intendo. Ho sentito la signora Mou parlare di seri provvedimenti…» Benché si fosse comportato in modo aggressivo e insolente, Odyssea si sentiva istintivamente preoccupata per lui. Avvertì il passaggio bruciante del senso di colpa perché in quel momento, reduce da una scena così brutale in cui Jacko aveva avuto il ruolo del carnefice, non riusciva proprio a pensare a Jordy e Max. «La cara Blanca sarebbe felicissima se qualcuno facesse sparire Jacko», esclamò Augusta con un sorriso malizioso. «Però, tenuto conto di tutto, credo che non ci saranno ripercussioni. Vedi, Jacko è considerato una specie di scavezzacollo, ma penso che il Maniero di Blackhole sarebbe una punizione eccessiva. Alla fine nessuno si è fatto veramente male.» «Cos’è il Maniero di Blackhole?» chiese ancora Odyssea. «Coloro che abusano della magia, siano essi poteri o semplici incantesimi, in modo da recare danno agli altri, sono esiliati lì. Rimangono segregati qualche tempo, poco o molto a seconda dei reati commessi. Alcuni restano imprigionati per sempre. Il Maniero si trova vicino al Monte Basto.» «Dove…» mormorò Odyssea. «Sì, proprio lì», confermò la nonna. «Comunque tutti sanno che Jacko in fin dei conti è un buon ragazzo.» Joyce si intromise con garbo: «Ehm… in verità solo tu lo sai, Augusta! Tu sei così buona che non vedi che bene intorno a te, ma quel ragazzo… Hai insistito che ti fosse affidato quando tutti volevano allontanarlo. Hai un gran cuore, Augusta, ma pensi di aver fatto bene?» La nonna rise con spontaneità: «Jacko non è pericoloso! E poi, non lo posso biasimare. Ha esagerato, non c’è dubbio, ma non dimenticarti che è stato il padre di Jordy a far esiliare suo padre più di ventidue anni fa». «Il padre di Jacko è in questo… Maniero?» domandò Odyssea sgranando gli occhi. «Non più, è morto dopo nemmeno un anno dalla condanna. Jacko non ha più nessuno ormai.» «Augusta…» tenne duro Joyce. «Dimentichi forse sua sorella? Sembrava una ragazza perbene. Già dopo la morte dei genitori, li hai invitati a restare qui, e non dico che non sia stata una scelta generosa, avevano perso anche la casa. Ma poi, quando anche la sorella è morta, quando si è rivelata per ciò che era realmente, hai detto al ragazzo di rimanere. A conti fatti, non temi che possa succedere ancora?» Joyce era paonazza. La cuffietta le si era spostata un po’ di traverso e il petto si sollevava come un mantice sotto la seta ricamata del suo corpetto. «Jacko era così piccolo allora: che colpe può avere un bambino? E io cosa avrei dovuto fare? La madre era morta nel darlo alla luce. Quando anche sua sorella è morta, lui aveva appena dieci anni, ho chiesto che mi fosse affidato e ho fatto il possibile per occuparmi di lui nel migliore dei modi. Nonostante le mie insistenze, non ha mai voluto venire a vivere qui con noi, ha preferito rimanere da solo nella casetta accanto alla scuderia. È sempre stato schivo, ma a parte questo, non mi ha mai dato alcun problema.» «Che cosa ha fatto la sorella di Jacko?» domandò Odyssea con foga, intuendo una rivelazione sconvolgente. Prima che la nonna potesse rispondere, Grace parlò: «Sua sorella era Breta O’Donnell». «Quella che…» «Proprio lei», mugolò Joyce con aria di rimprovero. «E anche lei non sembrava pericolosa, vero Augusta?» Odyssea era sbigottita. Jacko era figlio di un uomo che era stato esiliato ed era morto in prigione per chissà quali misfatti e sua sorella era quella Breta che dodici anni prima era stata complice di Squartavene. E lui stesso usava i suoi poteri con un’aggressività che lo faceva sembrare pazzo. Eppure, se sua nonna l’aveva fatto restare, se non l’aveva allontanato, e se continuava a difenderlo così strenuamente… Quanto era lungimirante, sua nonna? Quanto era intuitiva, e quanto era invece fuorviata dal buon cuore? Quanto poteva avere ragione Joyce? *** Subito dopo pranzo si ritirò in camera. Dopo qualche attimo sua mamma entrò nella stanza: aveva il volto pallido, con le perenni mezzelune violacee sotto agli occhi. «Posso parlarti?» le chiese. Odyssea annuì. «Non penso che Jacko sarà punito, non preoccuparti. Credo che a Wizzieville tutti siano più o meno abituati alle sue stranezze.» «Ma io… non sono preoccupata per questo…» mentì Odyssea, sentendo divampare due roghi paralleli sulle guance. Grace la osservò con un sorrisetto complice. Benché fosse chiusa nel suo mondo spinoso fatto di ricordi tristi, non poteva non considerare quanto una ragazzina di sedici anni, che aveva sempre vissuto lontana da tutto e da tutti, potesse essere intrigata da un bel ragazzo con un passato misterioso e una faccia da manigoldo. «Questa è una comunità fatta di buona gente», continuò Grace, «ma a volte sono molto inospitali con chi appare diverso, con chi, come Jacko, è costretto a portarsi addosso il peso di una gravissima onta. E lui reagisce al loro disprezzo mostrandosi ancora più aggressivo, usando sconsideratamente proprio quei poteri che loro invidiano e fanno finta di snobbare. Ma il Consiglio ha tanti di quei pensieri, adesso. Una lite fra giovanotti non è esattamente una priorità. Credo che questa storia finirà con una scenata di Hamlet Angel e nulla più. Comunque, non è di questo che volevo parlarti.» Grace fece un lungo respiro. «Ho sbagliato a non dirti nulla di tuo padre, ma ora vorrei provare a rimediare. In soffitta ci sono le sue foto, i suoi libri, tutto ciò che gli è appartenuto. Io non sono ancora pronta a entrarci, non riesco… Ma se poi vorrai farmi qualche domanda, cercherò di risponderti.» Odyssea la osservò, piena di muta gratitudine. Desiderava sapere ogni cosa su suo padre, scoprire chi era, com’era, in cosa gli somigliava. Vedere le sue fotografie, conoscere la sua scrittura, perfino sperare che il suo profumo fosse rimasto impresso in qualche oggetto. Percorsero il corridoio deserto e poi svoltarono a destra. In una nicchia, una piccola scala s’inerpicava descrivendo una spirale. Odyssea salì timorosa, seguendo la madre su quella tortuosa chiocciola di legno che scricchiolava a ogni passo. Giunte davanti a una porticina senza serratura, Grace disse Patefacio e la porta si aprì. «Buon viaggio…» e su quelle parole scese la scaletta. Rimasta sola, con lo sguardo rivolto verso sua madre che svaniva pian piano, rammentò che non le aveva raccontato proprio tutto quello che era successo quella mattina, in particolare quello che era successo dopo, quando gli altri erano andati via. Aveva omesso di dirle dell’abbeveratoio che aveva preso il volo sotto i suoi occhi e, forse, proprio per colpa dei suoi occhi. Si girò verso l’interno della stanza buia e respirò a fondo. Dovette attendere qualche minuto prima di abituarsi all’oscurità. Poi, appena dentro, notò una finestrella senza tende, in alto, e riuscì ad aprirla con fatica, sporcandosi le mani. La luce morbida del pomeriggio entrò nella soffitta, a lame oblique, rischiarando il pulviscolo che fluttuava nell’aria e le sagome degli oggetti. La soffitta era più grande di quanto apparisse dall’esterno. Alle pareti, numerose librerie contenevano decine e decine di volumi con le copertine decorate da ragnatele. Un tavolino al centro era letteralmente sommerso da pile di fogli e in cima a questi, in una cornice d’argento annerito, c’era una vecchia fotografia. Odyssea la prese in mano. Con la manica della maglia cercò di rimuovere la patina di polvere sul vetro. Tre visi le sorrisero da quell’immagine lontana nel tempo. C’era suo padre, non poteva che essere lui, un bell’uomo sorridente, con grandi occhi scuri e bruni capelli appena ondulati. C’era sua madre, così giovane da sembrare un’adolescente, con una zazzera di capelli corti e ricciuti, un sorriso talmente vivo che gli occhi parevano ridotti a due fenditure da cinesina, e le gote turgide e rosee. E c’era una bambina, un fagottino di pochi mesi, con una selva di capelli nerissimi e l’espressione pacificata nel sonno. Suo padre teneva un braccio intorno alle spalle di sua madre. Il suo dito mignolo era ingabbiato in una mano della bambina addormentata. Quella era l’immagine di una famiglia felice. Prima che arrivasse la fine. Prima che la vita mutasse strada. Odyssea era commossa ed emozionata. Guardò la foto a lungo, soffermandosi sulle fossette che addolcivano le guance di suo padre, sulle sue mani forti e grandi, sugli occhi nerissimi e brillanti, sulla tenerezza con cui abbracciava entrambe le sue piccole donne. Poi continuò a curiosare e a terra notò uno scrigno, simile a un bauletto. S’inginocchiò. Era chiuso con un lucchetto d’argento, ma nella serratura non c’era alcuna fessura per una chiave. Occorreva forse una specie di incantesimo? Mentre rifletteva, con le dita ne accarezzò distrattamente i contorni. D’improvviso, sotto le sue mani, il lucchetto si aprì con uno schiocco, rivelando tanti oggetti accatastati. Un elefantino intagliato nel legno con la proboscide alzata. Un piattino di vetro blu con un girasole di smalto sul fondo e le iniziali G. e C. dipinte di lato. Una bambola alta un palmo, coi capelli rossi e un vestitino a fiori. Un’immagine istantanea parve scaturire dalla sua infanzia remota. Lei che giocava con quella stessa bambola, accarezzandola come se fosse un gatto. Lei che ci dormiva insieme. Com’era possibile che d’un tratto ricordasse benissimo quella pupattola di plastica e seguitasse a non rammentare nulla di sua nonna e suo padre? Frugò ancora nello scrigno. C’erano un sassolino nero e levigato e un rotolo di pergamena ingiallita con un sottile nastro blu tutt’intorno. Lo srotolò. Sembrava un attestato, scritto in una lingua incomprensibile. Tra le righe riconobbe il nome di suo padre e, in alto, lo stesso stemma che aveva visto più volte su tutti i tetti del villaggio. A guardarlo bene rappresentava il profilo di un unicorno con le zampe anteriori leggermente sollevate. Probabilmente si trattava del diploma di suo padre, quello conferitogli dalla stessa scuola che qualche anno dopo gli avrebbe dedicato una targa in memoria. Fra gli oggetti c’era anche un libriccino con la copertina di pelle nera con la chiusura a strappo. Aprendolo Odyssea notò che era un’agenda, piena di appunti stesi in una grafia stretta e ordinata. Infine, decine di foto ritraevano tutte la stessa bambina che sorrideva. Prese in mano il sasso nero e liscio. Era freddo e sulla superficie aveva due forellini che lo attraversavano da parte a parte. Con molta pazienza vi passò dentro il nastrino blu che legava la pergamena. Improvvisamente, ebbe l’impressione che nella stanza fosse entrata una folata di afa. Al fresco della soffitta si era sostituita una cappa di caldo, e anche le sue dita sembravano arroventate. Percepì il gocciolio del sudore sulla fronte, il battito accelerato, e una strana spossatezza. L’aria era quasi densa, le pareva perfino che dal pavimento si levassero strisce di calore. Scosse la testa e si alzò in piedi. Stava per allacciarsi il nastro con la pietruzza intorno al collo, quando udì una voce dall’esterno. «Odyssea, una visita!» Controvoglia, abbassò il coperchio della scrigno e il lucchetto si sigillò. Joyce, da fuori, la chiamava con insistenza. «Chi è?» chiese, sbucando dalla porta. «La signorina Lindia Mou. Mi sembra un po’ agitata. Dice che ti deve parlare, sembra una cosa urgente.» Odyssea scese la scala piena di curiosità, nelle tasche la bambolina, il nastro con la pietra e il libretto nero. In salotto, Lindia l’attendeva guardando fuori dalla finestra. Indossava un soprabito leggero. I capelli parevano flosci, privi di luce, la schiena insolitamente curva. «Lindia?» sussurrò, entrando lentamente. La ragazza si voltò verso di lei. Non c’erano dubbi che avesse pianto. Aveva le palpebre gonfie e le ciglia umide. Il viso a forma di goccia era più bianco della neve. Tirò su col naso, fece un profondo sospiro e poi parlò piano, senza vivacità, come se fosse stordita. «Sapessi cosa è successo… Mia madre è furiosa. Ma non ce l’ha proprio con Jacko, ce l’ha più con me… Vedi, mia madre non vuole che noi… Ehm… a dire il vero non so se lui… Gliel’ho chiesto… ma ancora non si è degnato di darmi una risposta… però ha bisogno di me, sai? Non so come farebbe senza di me.» Davanti a quelle lacrime sull’orlo degli occhi, a quel confuso parlare e alle mani nervose, Odyssea continuò a tacere, chiedendosi in quale momento Lindia Mou avesse deciso di eleggerla a sua confidente. «Posso fermarmi solo qualche minuto, Stylo mi aspetta fuori», riprese Lindia. «Be’, lo so che sei appena arrivata e che io non mi sono comportata da amica, ma ti prego, puoi portare questa a Jacko?» Lindia le porse una busta rettangolare di carta celeste, con un piccolo sigillo dorato sul lembo di chiusura. Allungò la mano senza convinzione, come se non fosse per nulla felice di affidargliela. «Ti prego, è importante!» la implorò. «Purtroppo mia madre ha fatto sparire tutti i rotoli di pergamena magica. Con tutto quello che è successo oggi non ho avuto il tempo di parlargli. L’altra notte sono andata alla scuderia. Ero riuscita a far credere a mia madre che stavo male. Mi sono chiusa in camera e sono saltata giù dalla finestra arrampicandomi su un albero. Ma quando sono arrivata Jacko non c’era.» «Non c’era?» ripeté Odyssea. «No, non c’era proprio! La porta era socchiusa e sono entrata in casa. C’era il camino acceso, e a un certo punto, figurati, mi è sembrato di vedere qualcuno nella penombra… Ma Jacko abita da solo. E così sono tornata a casa.» Nel parlare, con evidente impazienza, aveva preso a battere ritmicamente un piede a terra, continuando a torcersi le mani. «Adesso devo proprio andare», mormorò infine. Prima di farlo, tuttavia, si fermò sulla porta, con un pensiero improvviso e molesto stampato sul viso. Si girò di scatto e indugiò rivolgendole un’occhiata penetrante. «A te non piace Jacko, vero?» «Ma che dici?» rispose Odyssea troppo in fretta, fingendosi oltraggiata da quella congettura. In realtà, il cuore le aveva fatto un salto nel petto. «Mah…» sussurrò Lindia. «Dopotutto non ho altra scelta. Devo dirgli delle cose importanti, e non posso aspettare.» E uscì dalla stanza dirigendosi da sola al portone. IL NERO SIGILLO DEL MALE L’indomani pioveva a dirotto. Appena sveglia, Odyssea tirò fuori dal cassetto del comodino gli oggetti che aveva tolto dalle tasche dei pantaloni. La bambolina le sorrideva con la sua boccuccia vezzosa. Non aveva avuto molti giocattoli da bambina. Forse non era mai stata bambina. Da quando avevano lasciato Wizzieville, l’infanzia era morta per sempre. Quella bambola ritrovata era l’unica cosa che la legasse in qualche modo a un’età dolce, un’età di tenerezze e baci caldi, un’età senza mostri e senza incubi, nata e finita in un solo rintocco di ciglia. Aprì il libretto con la copertina nera che era appartenuto a suo padre. Le scritte erano così spigolose e accalcate da apparire del tutto incomprensibili. Infine tornò a concentrarsi sulla lettera nella busta celeste. Era un po’ spiegazzata e la lisciò con le dita. La lieve fragranza fruttata che esalava dal lembo di chiusura era ancora intatta. La sera prima l’aveva rigirata a lungo tra le mani, osservandola come una nemica. L’aveva persino messa in controluce, nella speranza che potesse intravedersene il contenuto, ma aveva smesso subito, sentendosi in colpa. A te non piace Jacko, vero? Non poté fare a meno di ripensare al modo brusco in cui Jacko aveva trattato Lindia, eppure, se lei era così convinta che tra loro ci fosse qualcosa, allora doveva esserci stato un tempo in cui si era comportato diversamente. Per quanto non dubitasse dell’abilità di Lindia di romanzare la realtà, non la riteneva capace di inventare di sana pianta una storia del tutto inesistente. E poi Lindia era così bella da poter conquistare anche un tipo scontroso come Jacko. Si rese conto che doveva sbrigarsi. Erano le sette e non poteva rischiare che la casa si animasse. Si vestì rapidamente, indossando un paio di blue-jeans e una maglia nera a collo alto. Infilò la busta nella tasca posteriore dei pantaloni. Infine afferrò le due estremità del nastro blu che ciondolavano dalla pietruzza nera trovata nello scrigno e le legò intorno alla gola. Era un insieme grazioso. Dovunque suo padre avesse trovato quel ciottolo nero, Odyssea decise che le sarebbe appartenuto per sempre. Tirò fuori dal baule la sua cerata gialla, col cappuccio che si chiudeva a soffietto, scese le scale e si avviò in punta di piedi verso il giardino. Pioveva ancora. Nell’aria odorosa d’erba bagnata la nebbia nuotava a banchi. Gli alberi, i fiori, il prato, comparivano a scacchi, seminascosti da quei sipari di foschia grigia. Quando arrivò in prossimità della scuderia rallentò l’andatura e gettò un’occhiata al recinto. Lo spazio dove, fino al giorno prima, c’era l’abbeveratoio di pietra, era vuoto, un nudo tratto fra la palizzata e il gelso. Oltrepassò la staccionata ed entrò nella stalla. Non c’era nessuno, salvo i cavalli, rintanati ciascuno nel proprio riparo. Venti narici tornite si sporsero verso di lei, quasi all’unisono. Anche Levante era lì, nell’ultimo box, e Odyssea gli si avvicinò. Stese una mano per fargli una carezza, e il suo palmo fluttuò per un istante a qualche centimetro dal suo muso, poi ci ripensò e si ritrasse con uno scatto. Levante la osservò con un’espressione offesa e sprezzante, e il suo lieve nitrito sembrò quasi un borbottio. Odyssea sorrise pensando che cavallo e cavaliere si somigliavano proprio. Infine afferrò di petto il coraggio e si diresse verso la casa, ma sulla soglia esitò. Dal comignolo usciva un rivoletto di fumo biancastro. La pioggia era aumentata d’intensità e percuoteva la cerata con un rintocco quasi musicale. Non riusciva a dimenticare la paura provata, quando era successo quel parapiglia tra Jacko e gli altri ragazzi. Non riusciva a dimenticare le parole di sua nonna riguardo al padre di Jacko che era stato esiliato, e il sospetto e l’ansia di Joyce quando aveva parlato di Breta. Ma, soprattutto, non poteva dimenticare la rabbia che era esplosa dopo, da lei, da lei stessa, così forte da far roteare l’abbeveratoio, e si chiese se in quell’attimo anche i suoi occhi avessero posseduto lo stesso terrifico sguardo di Jacko. Fece un profondo respiro e bussò con le nocche intirizzite, visto che sulla porta non c’era batacchio. Dopo un tempo che parve eterno, Jacko comparve dietro l’uscio. Stringeva in una mano una tazza cilindrica dalla quale salivano onde di vapore. Aveva gli occhi strani e appannati, forse ancora assonnati, forse solo pensosi. Aggrottò la fronte e la guardò con intenso stupore. Tuttavia, spalancò la porta e le fece cenno di entrare. Dentro casa c’era un calore piacevole e il camino ardeva in piccole fiamme danzanti rischiarando la penombra. Davanti a esso erano disposte due sedie di legno che, insieme a un tavolo rettangolare, altre due sedie sistemate in un angolo, e un armadio a muro, costituivano l’unico arredamento di quell’anticamera spoglia con le pareti di pietra viva e tratti di intonaco color ghiaccio. Le finestre erano sprangate e prive di tende. Oltre quella stanza c’era uno stretto corridoio buio. Jacko indossava una camicia con toppe di cuoio ai gomiti, agganciata con un solo bottone all’altezza del petto, e un paio di jeans. Era scalzo. I lunghi capelli scuri erano arrotolati dietro la nuca. «A che debbo l’onore?» le domandò serio, posando la tazza sulla mensola del caminetto. Quindi vi si appoggiò con un braccio e si mise a osservare la sua giovane ospite, senza lasciarsi sfiorare dall’idea di un gesto gentile come invitarla a sedersi. «Sei sempre più cortese», sussurrò Odyssea a denti stretti, rimanendo immobile in mezzo alla stanza. S’era tolta il cappuccio e i capelli le disegnavano una cornice umida intorno al volto, come un velo da suora. Sotto di lei si era creata una chiazza d’acqua, e dalla cerata le gocce crollavano sul parquet con tonfi intermittenti. Jacko continuò a non invitarla ad accomodarsi. La fissava senza dire nulla, a metà tra l’annoiato e il sarcastico. Quando il silenzio tra loro divenne troppo pesante, Odyssea chiese: «Ho bisogno di parlarti, ti spiace?» «Prego», disse Jacko volgendo il viso al fuoco che scoppiettava. Prese di nuovo la tazza e bevve un sorso, senza rumore. Odyssea allora parlò tutto d’un fiato: «Innanzitutto volevo sapere perché quando ti ho chiesto se avevi i poteri mi hai dato a intendere di no, quando invece ho visto con i miei occhi il contrario. Poi volevo tranquillizzarti, pare che non saranno presi provvedimenti per quello che è successo ieri. Credo che mia nonna ti difenderà. E poi volevo che mi spiegassi perché hai combinato quello che hai combinato… e infine… ho un messaggio di Lindia per te». Jacko fece un sorrisetto vago. Odyssea non riuscì a evitare di guardarlo incantata, come se ammirasse un bel quadro in una galleria. Quando si accorse che lo stava fissando con eccessiva intensità, soffermandosi in particolare sulla sua bocca e sul modo in cui ogni tanto si mordeva il labbro inferiore, distolse lo sguardo imbarazzata e si lasciò catturare dalla corona di luce giallo arancio che si spandeva oltre il camino. «E perché dovrei rispondere a tutte queste domande?» «Non c’è un vero perché, rispondi e basta.» «Accidenti, mi terrorizzi, vedrò di fare del mio meglio per accontentarti», sibilò lui con voce sempre più ironica. «Però prima voglio chiederti io una cosa. Non hai paura a stare qui con me da sola in questa casa isolata e con questo tempo terribile e… probabilmente nessuno che sa dove sei? Mi hai visto all’opera e sai che so essere molto cattivo.» Le si avvicinò, lento come un gatto all’attacco, e con una mano sotto il mento le sollevò il viso. Per qualche secondo Odyssea si sentì smarrita, mentre la testa le girava, così forte che tutta la stanza era diventata una macchia confusa, gialla e nera, un mulinello di luce e ombra. Ma subito, una vocina saggia e severa le imperversò nella mente suggerendole di stare all’erta. Non ti rendi conto che lo sta facendo apposta? Così, risvegliatasi da quella specie di trance, indietreggiò ed esclamò con rabbia: «Guarda che stai sbagliando persona! Non mi chiamo Lindia e non sono in cerca delle tue attenzioni! Se ti senti solo in questa casa isolata vai a cercare compagnia altrove! Ti ho fatto delle domande e ho qui una lettera per te. Se vuoi degnarti di rispondere, bene, altrimenti prendi questa lettera che me ne vado subito». Così dicendo tirò fuori dalla tasca la busta e si girò per uscire. Jacko rise fragorosamente alle sue spalle e si sedette sulla sedia accanto al camino. La osservò con uno sguardo intrigato. Odyssea si rimise il cappuccio in testa e aprì la porta. Sulla terra si erano formate larghe pozzanghere e il suolo pareva fluido, come una piscina di fango. «Non andare via», le ordinò con fermezza. Odyssea si voltò, adagio, con gli occhi carichi di qualcosa che forse era collera e forse delusione. Si sentiva stupida e aveva la certezza che due inopportune lacrime stessero per farle fare la figura dell’idiota. «Perché ti comporti così?» chiese, mentre il ticchettio ritmato della pioggia quasi cancellava la sua voce. «Credi di essere irresistibile? Be’, non lo sei affatto!» «Vieni dentro e chiudi la porta», disse ancora Jacko. Visto che Odyssea restava immobile, la raggiunse. Chiuse la porta con un piccolo calcio e le tolse il cappuccio. Poi, indicandole una sedia, rispose. «Allora vediamo, seguendo l’ordine con cui mi hai interrogato… uno, credo siano fatti miei se ho o no i poteri. Li ho e li uso come mi pare e piace, e non credo di doverne informare la prima bambina che incontro; due, non mi importa se intendono prendere provvedimenti per quello che è successo ieri; tre, anche qui la risposta è simile alla prima, ma non sono pazzo se è quello che pensi. E infine, cos’hai detto? Hai qualcosa per me da Lindia?» Odyssea gli porse la lettera che teneva in mano. L’acqua aveva creato un alone pallido sulla busta. «Vediamo cosa vuole», concluse Jacko aggrottando le sopracciglia. Prese a leggere il messaggio in silenzio. Odyssea rimase in piedi, con le fiamme del camino che le lampeggiavano su una guancia, e i capelli ormai quasi asciutti. Non si poteva certo dire che fosse stato amichevole, ma nonostante le sue maniere arroganti si sentiva rassicurata. L’unica rabbia che le restava aveva molto a che fare con la gelosia: il fatto che Jacko leggesse con interesse, assorto e taciturno, la infastidiva ben più di un po’. Era cosciente che la gelosia fosse del tutto fuori luogo, ma non sapeva che altro nome dare a quella specie di solletico sotto le costole che la coglieva quando pensava a Lindia e Jacko insieme. Lo conosceva così poco, anzi non lo conosceva per nulla, ma era certa che il crampo inchiodato in mezzo allo stomaco che la tormentava da qualche giorno fosse colpa sua. Lo scrutò immerso nella lettura, e di nuovo s’imbatté nella vista delle sue labbra acciuffate dai denti. Quel gesto istintivo, che non riusciva a tenere a bada, lo faceva apparire più umano, e in qualche modo più fragile. Il gracchiare del fuoco, lo scoccare di scintille in aria come petardi, il lamento dei ciocchi che si consumavano, il tintinnio della pioggia sul tetto, furono la colonna sonora di quei minuti di silenzio. Poi Jacko sollevò lo sguardo dal foglio, ancora pensieroso. «Brutte notizie?» gli chiese lei a voce bassissima. «Togliti quella giacca e siediti. E stai un attimo zitta se ti riesce», disse lui, tornando con gli occhi sul foglio celeste. Quando lo ebbe riletto, lo gettò nel fuoco e lo lasciò sgranocchiare dalle fiamme. Odyssea non sapeva se essere sollevata perché si era disfatto del messaggio, o irritata perché lo aveva letto due volte, e con grande concentrazione. Intanto, si era tolta la cerata e si era seduta sulla sedia proprio di fronte al camino, con le mani aperte sulle ginocchia e gli occhi bassi. Quello che accadde subito dopo fu sconcertante. Jacko si girò verso di lei e all’improvviso la sua espressione si tramutò. Odyssea vide la sua testa che si sollevava, lenta, e la sua bocca che si spalancava ancor più lentamente. Per una frazione di secondo si sentì mortificata, temendo che fosse il proprio aspetto ad aver suscitato una reazione così disgustata, e stava per replicare qualcosa quando Jacko si alzò di scatto e le strinse le mani intorno al collo. Ebbe il terrore che la volesse strangolare. Ma Jacko, per il momento, non pareva interessato a ucciderla. Strappò con violenza il nastro di seta che aveva annodato quella mattina e scagliò la pietra a terra. Il sassolino produsse un rintocco metallico sul pavimento di legno, come se fosse caduto un grosso chiodo. «Dove diavolo l’hai presa, quella?» gridò, osservando con gli occhi sbarrati quello che a lei continuava a sembrare un innocuo sasso. «Io… io…» balbettò Odyssea. «L’ho trovata in soffitta, tra… tra gli oggetti di mio padre…» «Non può essere, dove diavolo l’hai presa?» «Te l’ho detto, te l’ho detto…» insisté Odyssea, frastornata. Jacko strinse entrambi i pugni e trasse un profondo respiro. Quindi, tenendole una mano su una spalla e serrandola senza troppa delicatezza, parlò con voce più ferma: «Allora, ragioniamo. Ti prego, dimmi esattamente dove hai trovato quell’onice nera». «Ti ripeto che l’ho trovata in uno scrigno nella soffitta di mia nonna tra le cose di mio padre. L’ho presa perché mi sembrava carina…» «Carina, dici. Sai cos’è quella?» e, visto che Odyssea taceva fissandolo atterrita, aggiunse: «È l’onice nera che appartiene ai seguaci di Squartavene e a coloro che vengono plagiati da lui». «Oh, no», disse Odyssea in un soffio, scuotendo la testa, senza sapere bene a cosa si riferisse, ma trasalendo alle parole seguaci e Squartavene. «Ti sbagli.» «Non mi sbaglio, vorrei tanto sbagliarmi, ma non è così. Ho già visto un sasso carino come quello.» «Oh…» bisbigliò lei. «E questo cosa… cosa può significare?» Un imprevisto e angosciante ventaglio di possibilità le si affacciò nella mente, accompagnato da una fiammata di panico. «Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Ma non la portare più», le ordinò lui. «È pericolosa e alla lunga anche mortale. Chi la indossa finisce con l’essere soggiogato dal potere di Squartavene e se tenta di sottrarsi muore nel modo più atroce. Chiunque ne trovi una deve portarla alla Fonte di Hanadia per la purificazione. Questa pietra non deve stare a contatto con la pelle per più di pochi istanti. Per fortuna avevi quello», e indicò lo strato di tessuto che le copriva il collo. «Io… quando ho passato il nastro dentro mi sono sentita strana, mi girava la testa e avevo caldo…» mormorò Odyssea, sentendo che, forse per suggestione, stava per soffocare di nuovo. Jacko scosse la testa e allargò le braccia, come se volesse ammonirla per la sua stupidità. Poi puntò una mano verso la pietra, e quella si sollevò lentamente da terra, lieve come una bolla di sapone. «Vediamo se questa cosina graziosa è ancora in funzione», esclamò e, con un altro gesto rapido, la buttò nel camino. L’onice, gettata nel fuoco, divenne incandescente e da essa si levò una grossa vampata nera che crepitò chiassosamente. A poco a poco quella fiamma inghiottì tutte le altre e nella bocca del camino rimase un unico sfavillio scuro come pece. Poi, ancor più lentamente, anche quella lingua di fuoco si ritrasse e restò solo un letto di cenere plumbea. Lì in mezzo, l’onice era intatta ed emanava un gelido bagliore. «Ha prodotto il fuoco nero, questo significa che la nostra maledetta pietruzza è ancora bella vispa», disse Jacko. «Se fosse stata decontaminata le fiamme l’avrebbero divorata.» «Perché quell’oggetto era tra le cose di mio padre?» Glielo chiese in fretta e furia, quasi col fiato mozzo, come se volesse liberarsi al più presto da un interrogativo così scottante. Non riusciva a ragionare, le girava la testa e le tremavano le mani. In quel momento le venivano in mente solo soluzioni spaventose. «Non lo so», fu la secca risposta di lui. La pioggia era quasi cessata, non si udiva più alcun rumore, e il tetto della casa, prima picchiettato dalle gocce, era tornato muto. «Cosa… cosa è successo ieri, quando… l’abbeveratoio ha preso il volo?» gli domandò a un tratto. «È possibile che tu abbia qualche potere.» Odyssea fissò il pavimento ripensando al vorticare del recipiente di pietra. «Dicono che a quattro anni ho disintegrato Squartavene.» «Già. Non dirlo troppo in giro, però.» «Cosa… cosa si prova ad avere i poteri?» «A parte il fatto che tutti ti guardano come se dovessi loro qualcosa, non c’è male.» «Ha detto mia nonna che sei stato affidato a lei quando…» «Adesso basta», la interruppe lui brusco. «Non ho alcuna intenzione di parlarti di me e, francamente, non mi importa un accidente di sapere qualcosa di te. Occupiamoci dell’onice, mi pare un problema più urgente.» Odyssea gli fece una smorfia. «Perché? Dopotutto non ti riguarda.» Jacko non le rispose. Rimasero in silenzio per alcuni minuti. Quando lui ricominciò a parlare le si rivolse con fermezza, scandendo bene le parole, come un insegnante severo alle prese con un’allieva un po’ tonta. Le suggerì di fare qualche domanda a sua nonna, ma in modo vago, per non creare falsi allarmi e sospetti avventati. Doveva cercare di scoprire come mai quella pietra malefica fosse conservata nella loro soffitta senza lasciar trapelare nessuna rivelazione sul ritrovamento. «Per quanto, escludo che Augusta ne sappia qualcosa. La stimo troppo per credere che abbia custodito coscientemente una cosa così malefica per anni, senza fare di tutto per liberarsene», aggiunse, scrollando le spalle. A quel punto Odyssea gli raccontò del libretto nero pieno di appunti scritti in un linguaggio indecifrabile, e Jacko le ordinò di portarglielo appena possibile. L’onice l’avrebbe tenuta lui, l’avrebbe sepolta sotto il gelso in un contenitore sigillato. Doveva stare il più possibile isolata, perché non si sa mai aveva detto con sguardo torvo. Odyssea, dal canto suo, era decisa a scovare qualche altra informazione in uno dei libri polverosi che tappezzavano la soffitta. Voleva capire meglio in quale mostruoso cimelio si era imbattuta. Che qualcosa di così tremendo fosse venuto a contatto con oggetti tanto cari la faceva sentire debole e sporca. A un tratto, nonostante gli scuri alle finestre, la luce del giorno si infiltrò dalle fessure, dardeggiando gli angoli con un alone rossastro. Il sole aveva annullato la pioggia appannata dell’alba. «Deve essere tardissimo», esclamò Odyssea. «Effettivamente nessuno sapeva che ero qui», sussurrò con un sorriso imbarazzato. «Adesso vai. E stai attenta, ragazzina. Non fare niente di più di quello che ti ho detto.» «Hai solo qualche anno più di me. Non sentirti tanto uomo.» Nel dire ciò, con voce così bassa che Jacko avrebbe anche potuto non sentirla, corse via con la cerata su un braccio. Volò, quasi, sollevando schizzi di fango, scuri come cioccolata fusa. Jacko rimase sulla porta a osservarla finché non svanì dietro le palme. Mentre percorreva l’ultimo tratto di giardino Odyssea si ricordò che non gli aveva chiesto dov’era stato, la notte in cui Lindia era andata a cercarlo. Poi rifletté, e considerò che sarebbe stato sciocco pretendere che lui rispondesse a una domanda del genere. Probabilmente le avrebbe detto di non impicciarsi. Sembrava che Jacko O’Donnell non tollerasse intrusioni nella propria vita, così come non intendeva intromettersi in quella altrui. E tuttavia si era offerto di aiutarla. Tutto ciò lo rendeva ancora più interessante. *** «Mia cara, non ti sentirai male lì dentro, con tutta quella polvere?» le chiese Joyce che l’aveva appena aiutata ad aprire la porta della soffitta pronunciando allegramente Patefacio. Odyssea la rassicurò e guardò l’anziana signorina riscendere la scala a chiocciola tenendo stretta fra le braccia una pianta verdastra che somigliava a un carciofo. Una volta rimasta sola non perse tempo. Cominciò a scorrere i dorsi dei numerosi volumi. C’erano i titoli più strani. Da Amuleti arcaici e Ampolle ataviche a Zinnie zampillanti, come potarle, da Il cuore dei Poteri. Dominarli e metterli al servizio degli altri a Incantesimi Levitanti avanzati. Fra Tappeti e Saggine da volo, convalidati e irregolari: come riconoscerli e Vulcani spenti e Nani delle spelonche scorse un testo foderato da una copertina scura che attirò subito la sua attenzione: Angus Ziggart, un genio caduto. Si sedette a terra col libro sulle gambe e cominciò a sfogliarlo. Le pagine erano fatte di pergamena spessa e giallognola. Girandole producevano uno scricchiolio simile a quello della ghiaia calpestata. L’epoca alla quale si riferiva era imprecisata, ma intuì che dovesse trattarsi di molti secoli addietro. La narrazione della storia di Angus Ziggart partiva dall’adolescenza, da quando i suoi genitori erano morti dopo aver condotto una vita solitaria e ritirata. Pur essendo privi di qualsiasi potere, avevano generato il mago più straordinario di tutti i tempi, il «duce assoluto dei poteri». L’unica immagine esistente di Angus Ziggart tramandava ai posteri il dipinto di un ragazzo sorridente, coi capelli bruni e ondulati. C’era qualcosa di grazioso e di timido in quel sorriso, come se posare per un ritratto e attirare su di sé l’attenzione non fosse ancora la sua ambizione prediletta. Aveva occhi grigi e labbra carnose. Accanto al mento spiccava un neo pronunciato, color caffellatte. Indossava un lungo mantello di velluto blu iridescente, e scarpe lucide con fibbie d’oro. In quel dipinto appariva molto giovane, non doveva avere più di diciotto anni. In una mano teneva un cilindro di pergamena arrotolato con un nastro blu, del tutto uguale a quello che Odyssea aveva trovato nello scrigno del padre. Con l’altra reggeva un bastone da passeggio di legno scuro, con un pomello d’argento a forma di testa di serpente. Lo stesso con cui aveva cercato di colpirla. Odyssea era turbata. Possibile che quel bel ragazzo si fosse trasformato nel mostro che lei stessa aveva visto in quella maledetta notte di pioggia? Possibile che quegli occhi gentili fossero le stesse orbite vuote che l’avevano osservata con odio? Possibile che quelle mani eleganti fossero i medesimi artigli che avevano cercato di afferrarla? Questa scoperta le procurò una fitta. Aveva sempre creduto che la malvagità dovesse accompagnarsi a un aspetto altrettanto malvagio, e invece, quel giovane sembrava l’ultima persona al mondo che potesse essere inquinata dalla crudeltà. Il racconto a un certo punto prendeva una piega diversa. Consapevole della propria grandezza, Angus Ziggart aveva perso umiltà e si era lasciato sopraffare dalla stima di sé. L’orgoglio e la superbia si erano fatti largo nel suo cuore, insieme a innumerevoli e rivoluzionarie idee su come il mondo potesse essere dominato dalle forze del male. «Soggiacque vinto dalla malia del potere», lamentava l’autore del libro. E così, nelle pagine successive, un agghiacciante elenco di fatti delittuosi si rivelò agli occhi di Odyssea. Non appena la reale entità dei suoi poteri venne alla luce, fu avanzato l’atroce sospetto che la scomparsa dei suoi genitori – intorno alla quale non era mai stata svolta alcuna particolare indagine, vivendo quella coppia del tutto distaccata dalla comunità – fosse dovuta all’ingrato figliolo. In verità nessuno era riuscito a ritrovare i corpi, ma la scoperta del sangue scuro e rappreso, sparso sul pavimento, sui materassi, sulle pareti, che arrivava fino alla porta e ancora oltre, aveva parlato al posto delle immagini, e aveva urlato senza equivoci una macabra canzone. Angus Ziggart aveva ucciso la propria famiglia, colpevole di volerlo frenare nella sua sventurata scalata e di essere troppo mediocre per ambizioni e intelletto. I genitori volevano fargli condurre la loro stessa vita, impedendogli perfino di frequentare la scuola – forse perché avevano cominciato a sospettare quali fossero le brame segrete del loro unico figlio – ed egli, quando aveva potuto, quando quella prigionia, unita al fulgore nascente dei suoi poteri, si era fatta intollerabile, li aveva tolti di mezzo e aveva iniziato la sua ascesa. C’era un piccolo ritratto dei genitori di Angus, una coppia giovanile dall’aspetto anonimo e timido. Odyssea era nauseata. L’autore sottolineava più e più volte che «nulla fu mai presago di tanta mala trasformazione. Avete mai veduto, miei insigni lettori, un giovine più mansueto e i cui occhi ardessero pari di generosa elezione?» Non era affatto parco di elogi a favore della sensibilità che aveva caratterizzato gli anni più verdi della sua esistenza terrena, al punto che preferiva la solitudine e l’immersione nella natura ai rapporti sociali. In una parte a seguire si diceva che Angus Ziggart aveva abbandonato Wizzieville, lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Aveva ucciso molti maghi, soprattutto i più dotati, «sebbene nessuno governava i poteri con la stessa forza e nessuno più si vide con la triade in mano». Aveva imparato a dominare il tempo, «il potere più grande e di tutti il più terribile». Un nuovo triste capitolo si era aperto nella storia della magia. Negli anni, molti altri maghi «poiché ambivano alla sua grandezza o la temevano» scelsero di appoggiarlo. Le persone più insospettabili si scoprirono sostenitrici di Squartavene. «Accanto a chi malvagio era già di natura e sceglieva la via del male, egli piegò anche chi aveva il cuore puro.» A quelle parole Odyssea si fece ancora più attenta. Squartavene riusciva a dirigere anche le azioni dei maghi buoni. Il suo intento era di eliminare ogni potenziale avversario, per regnare imperatore assoluto in un mondo completamente assoggettato ai suoi desideri. Ecco finalmente l’argomento specifico che cercava. Per identificare e soggiogare i suoi accoliti, usava quello che il libro definiva il nero sigillo del male. L’onice nera. Una pietra preziosa estratta dalle profondità del Monte Basto, con la quale «aveva forgiato monili, come pegno per coloro che divenivano suoi strumenti». L’onice era desiderata e ricevuta con fanatismo da parte dei suoi complici più sanguinari, ma era donata con l’inganno a coloro che Squartavene decideva di sottomettere e controllare a tradimento. Quando quest’ultimi si rendevano conto di indossare un oggetto nefasto, era ormai troppo tardi. La pietra aveva già prodotto i suoi effetti, scavando la pelle, avvelenando il sangue, confondendo la mente e condannando a morte certa chi provava a resistere al suo influsso. Un’immagine ritraeva una collana con una catena, e nel ciondolo, incastonata nella bocca spalancata di un drago d’oro, c’era l’onice nera, che sprigionava inquietanti bagliori. Accanto appariva quella che a Odyssea parve una corona. Tra smeraldi e zaffiri e brillanti, al centro, a forma di goccia sospesa, spiccava la stessa dannata pietra lucente. Aggiungeva l’autore: «Ma l’onice non era sempre stata malvagia, il soffio del male l’aveva plasmata e le acque di Hanadia potevano ridonarle l’originaria innocenza». Le ultime righe concludevano con grande amarezza: «Si appressa l’oscuro signore, celato ove il bene cede il passo al male, e vegliare dobbiamo, per impedire che il suo fiato ci prenda inermi nel sonno». Quindi Jacko aveva detto il vero riguardo a quello che lei aveva definito un sasso molto carino. Era una pietra maledetta! Com’è possibile, si chiese Odyssea, com’è possibile che tra le cose di mio padre fosse conservata quella pietra funesta? Un altro aspetto, inoltre, la incuriosiva. Se Squartavene usava la pietra per farne dei gioielli, perché lei aveva trovato solo l’onice? Che fine aveva fatto la montatura? Mille e mille interrogativi le ribollivano in testa. Poi ripensò a quello che le aveva raccontato sua nonna. L’Incantesimo di Prigionia. Di questo nel libro non si parlava, poiché era stato scritto assai prima dei tragici eventi poi accaduti. Quando Squartavene era stato sconfitto, i maghi di Wizzieville avevano imprigionato ciò che restava di lui nell’Antro dei Raminghi. Odyssea lo immaginò come una buia e gelida caverna, entrando nella quale si era soffocati dall’odore della morte. Immaginò schiere di pipistrelli accalcate alle sommità come grappoli neri, strati di muschio putrido alle pareti, e in lontananza il gocciolio ininterrotto di una fonte sotterranea. Immaginò quel mostro, o i suoi resti, sparsi al suolo come cenere o come brandelli di carne e ossa – gambe braccia occhi mani – e immaginò il tempo che trascorreva, al buio, uguale a se stesso, fino a quando qualcuno aveva aperto l’ingresso e quei resti si erano aggregati componendo la sagoma oscura del loro antico possessore. I maghi avevano dovuto usare un incantesimo che avrebbe permesso solo a un suo erede di liberarlo. Ma Squartavene non aveva alcun successore. E invece era stato liberato. Possibile che un simile mostro avesse dei discendenti? Odyssea ebbe un’idea fulminea. Se solo avesse trovato un libro che contenesse l’albero genealogico di Angus Ziggart o della sua famiglia! Si alzò e scorse di nuovo la lunga fila di dorsi dai titoli più disparati. Un’espressione di stupore le attraversò il viso. Si chinò per osservare meglio. Che strano… Quei volumi erano tutti così ordinati e stretti gli uni gli altri, eppure tra il testo Genealogia di Amalius Zesio, insigne divinatore e Genealogia di Aphrasia Zuass, incantatrice di Basilischi c’era un vistoso spazio vuoto. Uno spazio forse casuale, ma forse no. Non poteva esserne certa, però tra quei due titoli avrebbe ben potuto starci una Genealogia di Angus Ziggart. Alzò il viso verso la finestra. Decise di fare ciò che Jacko le aveva suggerito: qualche ingenua domanda a sua nonna per cercare di capire cosa ci facesse l’onice nera nella soffitta. *** Augusta era in giardino e stava interrando una pianta con un’enorme bolla rossa sopra uno stelo spinoso. Indossava spessi guanti e una mascherina sul viso che a Odyssea parvero d’argento. Le fece cenno di stare indietro, e con una paletta sistemò per bene la terra intorno alle radici di quello strano arbusto. Quando ebbe finito si alzò e la raggiunse, togliendosi la mascherina e i guanti, che lasciò scivolare a terra, producendo un triplo clangore metallico. «Non avvicinarti, è ancora giovane e impetuosa. Deve abituarsi alla sua nuova dimora.» «Che cos’è?» «Un germoglio di Antivescicula officinale. Quando matura è una piantina eccezionale per creare impacchi miracolosi contro le verruche da incantesimo malriuscito, ma adesso è ancora troppo giovane e, se non si usa una protezione, rischia di morderti. Tu non sai quante volte sbagliando formula la gente si riempia di orribili ponfi ovunque! Qui abbiamo piante per ogni esigenza. Alcune hanno maniere tutt’altro che cortesi, ma all’occorrenza sono utilissime. La nostra dispensa è una delle più fornite di Wizzieville.» Nel timore che la nonna cominciasse a enunciarle tutte le speciali proprietà delle piante del giardino, a partire da una specie di tubero giallastro con tante appendici che sembravano antenne di lumaca e si muovevano come antenne di lumaca, Odyssea le domandò: «Posso parlarti un momento?» Augusta annuì. «Sono andata nella soffitta e ho trovato molte cose interessanti…» «Brava, hai fatto la cosa più giusta.» «C’era uno scrigno, chiuso con un lucchetto senza chiave. Dentro ho ritrovato la mia bambola, quella di quando ero piccola, e tanti altri oggetti.» «Sì, lo ricordo bene. È uno Scrigno Magico. Si apre solo col tocco di una persona cara. È stato tuo padre a infondergli questa virtù. C’erano le tue foto, immagino, il fotografo avrebbe voluto scattarle con la macchina speciale, ma tuo padre si è rifiutato.» «Cos’è una macchina speciale?» «È un apparecchio che immortala le persone, in modo un po’ particolare. Se guardi la fotografia sembra perfettamente normale, ma se la inclini da un lato l’immagine si sdoppia e si vede la persona ritratta all’età che avrà quando morirà! Molti la usano, e gioiscono quando vedono se stessi vegliardi e canuti… Ma non potrò mai dimenticare lo strano destino di Dorian Short: nella foto la doppia immagine riportava la sua faccia tale e quale, e infatti morì subito dopo per lo spavento. Non si sa mai come funzionano queste macchine moderne.» Odyssea prese a elencare gli oggetti, uno per uno. Voleva imprimere alle proprie domande un tono casuale, e non aveva intenzione di essere troppo esplicita. E soprattutto, non voleva alludere apertamente a una pietra nera, temendo che la nonna fosse troppo sagace per non conoscere tutto ciò che c’era da sapere sull’onice. «Un ciondolo, dici? No, sinceramente non ricordo niente del genere. Vuoi mostrarmelo?» «Oh, no! Forse mi sbaglio, lo confondo col medaglione d’oro con la foto della mamma.» «Bello quel medaglione, vero? Dentro c’era uno spazio tale che si poteva conservare un intero album.» Odyssea avrebbe voluto chiedere qualcosa anche a sua madre, ma Grace le aveva fatto capire di non essere del tutto pronta ad affrontare i ricordi e lei non se l’era sentita di insistere. Avrebbe voluto uscire per andare a trovare Jacko, ma la pioggia era ricominciata e Joyce la catturò per il resto della giornata, tentando di convincerla a più riprese a coprirsi perché fuori faceva freddo. La nonna, udendo le sue insistenze, aveva esclamato: «Appunto, Joyce, fuori fa freddo, qui dentro invece si sta benone». A pranzo mangiarono insieme e chiacchierarono come una famiglia normale. Nel pomeriggio, però, Odyssea tornò a cercare sua nonna. La trovò in veranda, sotto la pioggia che batteva sulla vetrata, e la vide intenta a spolverare una specie di nano da giardino posato su un tavolino. «Hai sempre qualcosa da fare, vero?» «Già, mi piace tenermi impegnata.» «Posso chiederti un’altra cosa? La biblioteca di papà, ricordi? Hai detto che era molto ordinato. Rammenti se… se mancava un libro?» Augusta la osservò, continuando a spolverare il cappello a punta del nano di gesso. «Non lo so mia cara… Ma vedi, io non salgo molto spesso lassù, la vista delle sue cose mi procura ancora troppa malinconia. Perché pensi che debba mancare qualcosa?» «Non so… una sensazione… una curiosità… Cioè, volevo essere certa che ci fosse proprio tutto.» «Ti sei appassionata già così tanto al suo mondo, vero?» Odyssea annuì, pensando a quanto avrebbe desiderato confidarle del ritrovamento dell’onice, e a quanto, allo stesso tempo, quell’eventualità la ripugnasse, perché non voleva assolutamente che qualche sospetto arrivasse a intristire ancor di più gli occhi già pesti di sua madre. Dopotutto poteva trattarsi di un equivoco. Rimase a osservare la pioggia, col naso pigiato sul vetro. Un tumulto di pensieri le attraversò la mente a velocità accelerata, pensieri incombenti, chiassosi come uno sferragliare di vagoni su lunghissime rotaie. Perché? Perché c’era l’onice che contraddistingueva i seguaci di Squartavene nascosta tra le cose di suo padre? Perché invece mancava il libro che avrebbe potuto chiarire la genealogia di Angus Ziggart e portare a identificare il suo erede? Poiché non c’erano dubbi che un erede ci fosse, nonostante tutti lo avessero escluso. Era confusa. E se suo padre fosse stato invece un traditore? Sono stupida e cattiva! disse a se stessa con rabbia. Mio padre era un uomo meraviglioso, un grande mago, un mago buono! Mentre pensava, udì la voce di sua nonna sussurrare: «Ora puoi andare». «Andare dove?» chiede Odyssea voltandosi. «Oh, non parlavo con te», ridacchiò Augusta. «Dicevo a lui.» Odyssea fissò esterrefatta il nano di gesso che saltava giù dal tavolo e si avviava sgambettando verso il giardino. LA VOCE Piovve per tre giorni consecutivi. Intensi scrosci d’acqua allagarono Wizzieville, e una nebbia scura e pesante infagottò la casa e il giardino. Sembrava che l’estate non potesse mai più fare ritorno. Affacciandosi alle finestre Odyssea non riusciva a vedere di là dell’orto, come se tutto il resto del mondo si fosse dissolto, liquefatto da quella pennellata color argento fuso. Rimase rintanata in soffitta la maggior parte del tempo, provando inutilmente ad aprire la porta da sola, chiedendo tutte le volte aiuto e sentendosi un’incapace totale. In quei giorni di umida malinconia, la soffitta continuò a essere una fertile fonte di scoperte. Lesse un libro interamente dedicato ai Grandi e piccoli animali magici e restò incantata dagli unicorni e dalla loro candida bellezza. Il corno pareva un puntale di madreperla. L’autore li descriveva come animali dotati di assoluta bontà, capaci di straordinari sacrifici e molto timidi, al punto che vivevano rintanati in selve isolate, talmente ritrosi da provare pudore anche nel mostrarsi l’un l’altro. Amavano il genere umano, ma spesso non erano ricambiati con la medesima abnegazione, e molti erano i casi di unicorni uccisi per rubare loro il corno o succhiarne il sangue, considerati potenti rimedi curativi. I draghi, invece, le suscitarono un misto di fascino e paura, con quei possenti corpi ricoperti da scaglie che viravano dal nero pece al rosso scarlatto all’azzurro cielo. Sorrise pensando che suo padre addirittura li addomesticava. Come si poteva ingentilire simili esseri, con enormi ali vibranti e narici grandi quanto gallerie? Vide inoltre mastodontici uccelli dalle piume nere, serpenti alati, mantidi giganti ed enormi millepiedi che sembravano averne almeno diecimila di piedi, ma fu particolarmente colpita dalle Farfalle delle Pendole. Proprio come Fagola, erano creaturine con ali leggerissime e trasparenti. Le loro facce sembravano piccole sfere spugnose, con occhi minuscoli quanto capocchie di spillo. Il colore delle ali cambiava al mutare del tempo. Erano in grado di intuire l’ora con un’approssimazione quasi perfetta grazie a un magico orologio biologico, e abitavano nelle pendole come uccelli nel nido. Odyssea si stupì della loro longevità. Nel libro si narrava di farfalle che avevano raggiunto il secolo di vita. Si legavano molto alle famiglie e spesso accompagnavano il cammino di intere generazioni. Essendo molto impulsive, se prendevano in antipatia qualcuno lo svegliavano a ogni ora del giorno e della notte con canzoncine stonate. Quando si affezionavano erano invece fedeli, discrete e protettive. Odyssea alzò lo sguardo dalla pagina e vide che la pioggia aveva iniziato a scemare. Jacko. Si sentiva elettrizzata, era ansiosa di parlargli. Scese in giardino e si avviò, stando attenta a passare lontana dall’Antivescicula che stava diventando sempre più grossa e lattiginosa. Respirando a pieni polmoni le sembrò che tutta la malinconia che aveva provato negli ultimi tre giorni si dissolvesse con la nebbiolina che andava assottigliandosi. Andava a passo spedito, e teneva le mani al caldo sotto le lunghe maniche slabbrate del maglione. Arrivò alla scuderia con il cuore in gola, ma si rese subito conto che qualcosa non andava. Nonostante vi fosse una distanza di appena duecento metri dalla casa, la foschia era più fitta. Dietro banchi di nebbia corposi come ovatta, si intravedevano il recinto e il gelso e la costruzione di mattoni rossi. In quel momento quel luogo silenzioso le parve troppo silenzioso. Entrando nella scuderia la sensazione di silenzio aumentò. C’era qualcosa di strano. In genere i cavalli producevano un sottofondo di respiri e nitriti e fruscii di code e scatti di zoccoli. Adesso, invece… Dopo aver attraversato il primo locale, Odyssea emise un grido di sorpresa. I cavalli erano spariti! Non solo Levante, non solo il cavallo color caffè, non solo Bigio, ma tutti. I dieci box erano vuoti. Sbigottita, indietreggiò, e nel farlo urtò contro qualcuno. Jacko, sperò voltandosi, ma il suo sorriso si tramutò in una smorfia quando si ritrovò davanti Lindia. «Stai attenta», la rimproverò quest’ultima con voce nervosa. Si guardarono di traverso per un istante, come nemiche armate di spada. Poi quella muta guerriglia lasciò il posto a un’apparente cordialità. Odyssea sollevò due dita in segno di saluto, e Lindia esclamò con tono rassegnato: «È inutile, anche a casa non c’è nessuno. Ho bussato per mezz’ora, e a meno che Jacko non si nasconda dentro zitto e immobile…» «Hai idea di dove possa essere andato?» Lindia la aggredì con altre domande: «E tu perché sei qui? Gli hai dato la mia lettera?» «Sì, certo», replicò Odyssea sperando di glissare sulla prima risposta. Odyssea aveva capito una cosa di Lindia: per quanto potesse essere arrabbiata o delusa, non riusciva a evitare di parlare di se stessa. Alla fine, la sua garbata sicumera prevaleva su ogni altra emozione. E infatti, la ragazza si sedette su una panca di legno e attaccò a parlare: «E pensare che ero riuscita a venire senza nemmeno chiedere un favore a Stylo che, credimi, è un vero despota! Sai che il mese scorso solo per aver chiuso un occhio su… be’… una cosa, ha preteso che sciogliessi tutti i suoi Nodi Inestricabili?» «Nodi Inestricabili?» «Una cosa di scuola. La sua professoressa di Incantesimi di base voleva che sciogliesse con un semplice Incantesimo Devinculis cento nodi che lei stessa aveva intrecciato. Era un compito per casa, una banalità da primo anno. Ma Stylo è penoso con la magia e se ne stava da tutto il pomeriggio a non far nulla… anzi, a dire il vero, qualcosa aveva fatto perché quando sono intervenuta io i nodi erano diventati duecento!» Attesero parecchio tempo, sedute sulla panchetta, e dopo una valanga di parole da parte di Lindia, intervallate da innumerevoli vane incursioni all’esterno al grido è tornato! a ogni minimo rumore, capirono entrambe che quel giorno non avrebbero incontrato Jacko. Il tempo intanto era migliorato. La nebbia si era diradata e il mondo ricominciava a espandersi. «Torni a casa con me?» chiese Odyssea. «Puoi contarci!» esclamò Lindia. «Ho detto a mia madre che venivo a trovarti. Lei ha fatto lo stesso un milione di resistenze, ma mio padre era contentissimo. E ha detto a Stylo di lasciarci sole, così saremmo rimaste tra noi ragazze.» Si avviarono, ma prima di andare via Odyssea si guardò indietro ancora una volta. Dov’era Jacko? E i cavalli? Perché sembrava tutto così privo di vita senza di lui? Le parve di lasciarsi alle spalle una necropoli. *** L’aria era fin troppo pungente per essere quasi estate, ma il cielo sembrava volgere al sereno. Erano passate da casa e avevano deciso di fare una passeggiata. Lindia camminava con difficoltà sulle lustre piastrelle del selciato a causa di un paio di sandali leggeri, inadatti alle pozzanghere. Si stringeva in una mantellina di seta con frange e perline e tremava vistosamente. Pareva un grazioso rametto in procinto di volare via. «Non potevi indossare qualcosa di più pesante?» le domandò Odyssea. «Avevi visto il tempo, no?» «Oh, no!» La voce di Lindia salì di tono, osservando con orrore il maglione di Odyssea. «Non sarebbe elegante!» In giro non c’era nessuno. Attraversarono la piazza e incrociarono l’unicorno che sputava cascate d’acqua. Da Gianduca i tavolini erano vuoti. «Hai più rivisto Max?» esclamò Odyssea. «No, però so che si è ristabilito perfettamente. Jacko non gli ha fatto davvero male.» «E Jordy?» «Jordy sta bene, ma ho sentito dire da mio padre che Hamlet Angel era furibondo!» «Lindia… Jacko aveva mai fatto una cosa del genere?» chiese Odyssea in un soffio. «Aggredire qualcuno, intendi? Be’, una volta ha rotto un dente a un ragazzo… E poi… sì… credo che ci siano state molte altre volte in cui ha… un po’ esagerato…» «Secondo te, perché fa così?» «Che vuoi, è un impulsivo, e poi dopo quella storiaccia di suo padre e di sua sorella… Secondo mio padre ha risentito della mancanza di un affetto, ma vedrai che un po’ alla volta…» arrossì, raggiante, schioccando le labbra come se pregustasse un sapore speciale. Proseguirono in silenzio per un po’, Odyssea incapace di fare altre domande per il timore delle risposte, Lindia infastidita dalla strada scivolosa, dalle sporadiche folate di vento che trasportavano schizzi d’acqua, e dal freddo che si insinuava sotto la sua mantella. A un tratto esclamò: «Non vuoi sapere per quale motivo ho dovuto sciogliere i Nodi Inestricabili della professoressa Sailor per Stylo?» «Eh?» Odyssea dovette riflettere qualche secondo prima di capire a cosa alludesse. «È stato per colpa di Jacko.» Lindia abbassò la voce afferrandole un braccio. «Vuoi che te lo dica?» Colta alla sprovvista, Odyssea annuì a disagio. «È stato a metà maggio, erano gli ultimi giorni di scuola. Sono uscita prima dell’ultima ora, ho detto al preside che dovevo andare a trovare mia zia Inga che era malata. Il signor Thomasson ci ha creduto! Crede a tutto quello lì! È un vero babbeo! Così sono andata alla scuderia. Jacko mi ha insegnato ad andare a cavallo, mi ha fatto salire su Libeccio. Stavo andando così bene, mi girava tanto la testa, e Jacko mi sgridava e mi diceva di stare seria, perché ridevo da matti. Poi, scendendo da cavallo sono caduta. Ho preso una storta! E lui mi ha portata in casa in braccio, in braccio, capisci?» La voce di Lindia si era alzata e faceva quasi fatica a parlare per via dell’emozione. «E lì, mentre attizzava il fuoco, ero così vicina e… l’ho baciato! E devo dire che lui ne è stato contento.» Il suo viso era diventato rosso come l’Antivescicula della nonna. «Ah…» riuscì appena a sussurrare Odyssea, con un’espressione confusa e vagamente ebete. Implacabile, Lindia continuò: «Così, è avvenuto tutto in silenzio… è stato bellissimo… e… e poi in quel momento ho visto la faccia di Stylo dietro il vetro della finestra. Quell’idiota mi aveva seguito!» E ricominciò con la solita sfilza di insulti rivolti al fratello. Ma Odyssea non ascoltava più. La voce di Lindia le giungeva lontana, smorzata, come se fosse sepolta sotto un guanciale. Le venne da piangere, da gridare, da chiuderle la bocca con un cerotto. Che stupida era stata a sperare, a sognare… No, più che stupida, pazza. Solo una pazza avrebbe potuto credere che un aspetto anonimo e una schiva timidezza potessero offuscare il viso strepitoso di Lindia e la sua vivacità. Solo una sciocca, giunta da poco in un paese in cui era nulla più di un’estranea, avrebbe potuto permettersi di credere che un ragazzo attraente come Jacko potesse dedicare le sue attenzioni a una ragazza insignificante come lei… Un penoso languore l’accompagnò per il resto della passeggiata. Vedeva Lindia che muoveva le labbra, ma non riusciva a udire alcun suono. L’amica divenne improvvisamente simile a un grosso pesce che faceva smorfie dentro un acquario. «Torniamo a casa?» le chiese Lindia a un certo punto indicando il cielo che tornava a coprirsi. Immerse ognuna nei propri pensieri, avevano deviato dalla strada principale, perdendosi in un dedalo di viuzze cupe e strette finché, scendendo una scaletta di pietra, erano giunte a una piazza grande quanto un fazzoletto. Odyssea si avvicinò curiosa alla vetrina di un negozio che esibiva il più grosso campionario di pietre preziose che avesse mai visto. C’erano zaffiri, smeraldi, rubini e diamanti, che disegnavano un gioco di blu, verde, rosso e bianco su un cuscino di velluto nero. L’insegna recava la scritta Petrus Carbonius, intenditore e venditore itinerante di gemme. Un’idea improvvisa le balenò in testa. «Entriamo», esclamò. «Ma no…» protestò Lindia. «Che vuoi fare lì dentro? Lo sai che a poche decine di metri c’è il Quartiere a est? È un brutto posto, quello…» «Curiosità», bisbigliò Odyssea, con le mani a coppa ai lati della testa e il naso quasi schiacciato contro la vetrina. In men che non si dica trascinò Lindia all’interno del negozio, talmente angusto da togliere il fiato. Il locale era nulla più di un bugigattolo con le pareti screpolate e il pavimento solcato da montagnole di polvere, l’aria pesante e odorosa di umidità. Un bancone e uno sgabello alto il doppio di esso erano gli unici arredi. Una tenda scura strappata in più punti conduceva probabilmente a una stanza sul retro. «Hai visto, non c’è nessuno…» sussurrò Lindia, guardandosi intorno, con le braccia strette intorno ai fianchi, e sul viso un’espressione di autentico disgusto. In quell’istante la tenda si mosse con uno strofinio appiccicoso e una voce cavernosa provenne dalla penombra, ma non apparve nessuno. Poi, un omino che non arrivava neanche al bancone si arrampicò sullo sgabello. Comparve prima la sommità della sua testa, glabra e lucida, quasi fosse spennellata con uno strato di cera per mobili, e quindi la sua faccia, una faccia da gnomo, con orecchie sproporzionate e carnose, il naso ricurvo, la bocca color melanzana e un grosso neo peloso al centro del mento, del tutto simile a un ragno impagliato, incollato sotto il labbro inferiore. L’ometto era robusto e indossava una palandrana scura. Aveva i piedi scalzi e grosse mani callose. Si sedette sullo sgabello, con le piante dei piedi protese come periscopi. «Posso esservi utile?» chiese, con una voce che sembrava il rimbombo di un tuono dentro una campana. Le ragazze furono tentate di coprirsi le orecchie, tanto fu fastidioso il frastuono che uscì dalla sua gola. «Ho letto in un libro qualcosa a proposito di una pietra. Si chiama onice nera», osò Odyssea. Il signor Petrus Carbonius la osservò con curiosità. Gli occhi scuri si spostavano dall’una all’altra ragazza con la precipitazione di minuscoli razzi. «Cosa può interessarti dell’onice nera?» esclamò ancora più forte. Lindia s’intromise con tono tremante: «Oh, no, signor Carbonius, la lasci perdere, è tutto un equivoco, la mia amica è nuova di qui e…» «No!» gridò Odyssea. «Io voglio sapere sul serio qualcosa sull’onice nera!» Lanciò a Lindia uno sguardo infuriato, ma l’amica non se ne accorse. Era troppo concentrata sull’aspetto sgradevole dello gnomo, sulle sue unghie contornate di nero, sulla grossa lingua molle come una lumaca che a tratti inumidiva il labbro inferiore, sulle piante dei piedi spesse come suole e ricoperte da una patina grigiastra. L’uomo le scrutò ancora dall’alto del suo trono: «Ne vuoi vedere una, ragazzina?» domandò, rivolgendosi a Odyssea. «Sì…» La voce di Odyssea era un fiato impercettibile. Petrus Carbonius saltò giù, sparendo dalla loro vista. Di nuovo la tenda si mosse, ancora quello strano flaccido attrito di stoffa che pareva bagnata. Ricomparve quasi subito e, dopo essersi issato sullo sgabello, posò sul bancone uno scrigno di bronzo. Odyssea avanzò cautamente, ma Lindia rimase indietro. «Ecco qui, signorine, guardate pure. Si tratta di un pezzo unico.» Coi pollici spessi e induriti dai calli sollevò il coperchio. Nel piccolo contenitore c’era una pietra molto simile a quella che Odyssea aveva trovato nella soffitta, solo che a questa era attaccata una lunga catena d’oro. Lindia non si sognò neppure di interessarsene. Voleva solo andare via prima che il puzzo della bottega le si appiccicasse ai vestiti. «Vi piace?» chiese l’uomo. «Se guardate bene sulla collana vedrete un’incisione. I sigilli del male recano impresso il nome di chi li ha posseduti.» «Come fa ad averla?» azzardò Odyssea. «Chi trova una di queste pietre deve portarla alla Fonte di Hanadia per la purificazione.» Petrus Carbonius emise una risata così forte che fece dondolare pericolosamente la seggiola. «Ah… vedo che la signorina è preparata! Ma io…» Si sporse in avanti, avvicinandosi al suo viso, tanto che lei percepì il suo alito caldo, simile all’odore stantio di una stanza chiusa e all’aceto. «Ho i miei sistemi…» «E… se uno ha perso la parte d’oro… se è stata smarrita… come si fa a capire chi ha indossato la pietra?» «Allora non esiste alcun modo!» tuonò la sentenza di Petrus Carbonius. «A meno che…» Stette in silenzio per qualche istante. Odyssea sostenne il suo sguardo. «A meno che non ci si rechi alla Fornace Fiammeggiante e si butti la pietra nella fiamma del primo mattino», spiegò. «Per un minuto esatto dall’esplosione, sull’onice compare il nome del suo possessore a caratteri incandescenti. Ma solo per un minuto. E solo una volta.» «Dov’è questa Fornace Fiammeggiante?» Lindia riprese a strattonarle il braccio tirandola verso l’esterno. L’uomo rise ancora, ma sembrava intrigato dalle domande di Odyssea. «Vuoi andare a fare un giretto nei pressi del Monte Basto, ragazzina?» sghignazzò, e dalla bocca schizzarono fiotti di saliva che andarono a depositarsi sul bancone come minuscoli chicchi di grandine subito sciolta. Odyssea rimase interdetta e inghiottì a fatica, mentre una goccia di sudore le sfiorava la nuca in una discesa precipitosa tra le scapole. Per qualche istante, nel modesto negozio nessuno parlò. Poi il rumore di un tuono vicino ridusse in briciole il silenzio. Lindia continuava a lamentarsi: «Usciamo… dai… andiamo via…» «Non ho avuto il piacere di conoscere i vostri nomi, gentili signorine», proruppe Petrus Carbonius con tono inquisitore. «Oh, togliamo subito il disturbo…» tentò di glissare Lindia. Ma l’uomo teneva i grossi occhi cisposi puntati su di loro e un riso beffardo gli segnava la bocca, dalla quale spuntava insistente la sommità della lingua squamosa e umidiccia. Tutto d’un fiato, come per togliersi il pensiero, sperando che l’esaurimento di quei convenevoli segnasse la fine della conversazione, Lindia esclamò: «Io sono Lindia Mou e questa è Odyssea Bennet. Ora possiamo andare?» La faccia color topo dell’uomo si piegò in una smorfia di sorpresa. «La figlia di Charlton Bennet… Sei tornata allora?» In quell’istante un tuono violentissimo fece tremare la vetrina. «Forse è meglio se andate a casa.» La voce di Petrus s’era abbassata. A modo suo sussurrava. «Tornate a casa, svelte!» Lindia non se lo fece ripetere due volte. Spinse Odyssea con forza verso l’uscita. Fuori era completamente buio. L’eco dei tuoni riempiva l’aria e il vento frustava le cime degli alberi. Le due ragazze si presero per mano. Lindia guidava, indicando il percorso migliore, mentre cercava di liberarsi il viso dai capelli che le crollavano sugli occhi. Ogni volta che si voltava, Odyssea scorgeva la sua espressione impaziente, quasi disperata. Si sentì in colpa, e quando le parve che le gocce sulle guance di Lindia non appartenessero più solo alla pioggia, il senso di colpa aumentò. Improvvisamente il buio fu interrotto da un fulmine, una scia tortuosa si disegnò al di qua della cappa di nuvole ed esplose a pochi metri da loro in uno sciame di scintille dorate. Urlarono all’unisono, senza fermarsi. Finché, in mezzo a quel frastuono, Odyssea udì qualcosa di diverso. Alle loro spalle, mentre attraversavano la piazza dove il getto della fontana disegnava ampie spirali nel vento, un grido spaventoso che non apparteneva alla natura la inchiodò sulla strada. No, pensò, no no no! Sta succedendo di nuovo… Sta succedendo di nuovo… la stessa pioggia… la stessa strada… la stessa città. Solo che al posto di sua madre c’era Lindia. E lei aveva dodici anni in più. «Andiamo… non fermarti… Lindia, cammina! Siamo quasi arrivate!» urlò. Ma Lindia non avanzava più. Sembrava ipnotizzata, con gli occhi strizzati e la bocca contratta, come se fosse prigioniera del fondo del mare e trattenesse il respiro per non affogare. Poi di nuovo il grido. Odyssea si voltò, ma non vide nessuno. Solo alberi che si agitavano e sferzate d’acqua ovunque. E ancora il grido. E ancora. Era sempre più vicino. Odyssea prese Lindia da un braccio e la trascinò lungo la strada. A un certo punto, un fulmine quasi le sfiorò. Nell’aria si diffuse un bagliore elettrico accecante. Lindia urlò con tutto il fiato che aveva in gola. In fondo alla via, la casa della nonna cominciò a delinearsi, con la facciata blu che pareva nera. Ma tutt’un tratto gli alberi, quegli stessi pacifici alberi che ornavano il viale cominciarono a protendere i rami verso di loro come dita scheletriche e braccia fronzute. Sarà il vento… sarà il vento, si ripeteva Odyssea. Lindia parve scuotersi improvvisamente e urlò ancora una volta, dibattendosi. Un ramo le stava tirando i capelli. Tirava e strattonava e sbatteva la sua piccola testa fradicia di pioggia, facendola oscillare come quella di una bambola di pezza. Un altro ramo si avvolse intorno al collo di Odyssea e cominciò a stringere. Sembrava che un esercito di alberi avesse deciso di ucciderle. E poi accadde di nuovo. Quell’onda, quella vibrazione che nasceva da dentro, quel calore che le accelerava i battiti, quel ronzio nel cervello, tutto quell’insieme di sensazioni spaventose e bellissime… Odyssea toccò il cappio che la stava strangolando. Quello si ritrasse e si sciolse, all’istante. Quindi sfiorò l’enorme fronda che ancora scrollava la sua amica svenuta. L’esercito verde batté in ritirata. Gli alberi volarono e ricaddero all’indietro con le radici divelte e attorcigliate. In un attimo tornarono a essere semplici alberi annientati dal temporale. La porta di casa era lì, mancava pochissimo. Odyssea trascinò Lindia, che faceva da peso morto. Un passo ancora… un passo ancora… Allungò la mano per sfiorare il batacchio. Vide il leone che ruggiva. E svenne. *** Si svegliò nel suo letto. Prima di capire dov’era trascorse qualche interminabile minuto di smarrimento. Poi intravide le morbide tende del baldacchino, la pendola appesa al muro e le applique con le candele accese. E, seduta sul letto accanto a lei, sua madre. Aveva gli occhi arrossati. I riccioli neri intorno alle orecchie parevano ciuffi di stoppa bruciata. «Mamma…» sussurrò Odyssea con una voce che sembrava venire da molto, molto lontano. Grace l’abbracciò senza dire una sola parola. Poco dopo entrò la nonna e dietro di lei Joyce con la sua cuffietta bianca. «Oh, piccola mia, piccola mia», singhiozzava Joyce. «Vuoi del brodo caldo?» «Credo che Odyssea per adesso abbia solo bisogno di un po’ di riposo», disse Augusta e le si sedette accanto all’altro capo del letto. Odyssea mormorò: «Lindia…» «Non preoccuparti, è a casa sua ora.» Odyssea tentò un sorriso. Avrebbe voluto parlare, chiedere, raccontare, spiegare, ma si sentiva debole, troppo debole… Chiuse gli occhi con l’intento di dormire un poco, solo un poco… e sprofondò in un pesante sonno senza sogni. Quando si svegliò per la seconda volta, si sentiva decisamente meglio. La camera era in penombra e dall’immagine nella pendola capì che doveva essere notte. Il chiarore della luna filtrava attraverso le imposte socchiuse, un’unica fettuccia di luce candida su un rettangolo di pavimento. Alzando gli occhi si accorse che Fagola la osservava dalla sua grande conchiglia sulla parete. Le fece un voletto intorno con le sue ali blu cobalto, una specie di danza di saluto, e poi svanì nella pendola. A lato del letto, su una poltrona, sua madre si era addormentata con una guancia sul bracciolo. Odyssea si mise a sedere, piano, per non svegliarla. Le girava ancora la testa e ci volle un po’ prima che la stanza smettesse di ruotare. Cos’era successo? La sua mente ripercorse gli orribili momenti che aveva vissuto con Lindia sotto il temporale. Rivide il signor Petrus Carbonius e la sua bottega angusta e lercia, e tutti quegli alberi che avevano preso vita! E riudì quel grido. Si coprì le orecchie con le mani per scacciarlo, ma il grido era nel suo cervello, conficcato come un chiodo. La tormentò a lungo. Poi il sonno la vinse di nuovo. Si svegliò per la terza volta sotto fiumi di sole che penetravano dalla finestra. La camera era vuota ma qualcuno aveva aperto le imposte. Si stupì che, con le finestre spalancate, l’orologio a muro non funzionasse. Ora le appariva come una comune scatola di legno, con fiorellini cesellati, numeri a caratteri cubitali, due lancette appuntite, e un pendolo che oscillava piano. Si alzò lentamente e guardò fuori. Era una giornata stupenda e il giardino era invaso di luce come una vasca piena d’acqua. Quando scese di sotto e Augusta e Joyce le andarono incontro, Odyssea percepì una nota stonata, come se si stessero sforzando di fingere un’allegria che non gli apparteneva. «Buongiorno», mormorò la nonna dandole un bacio sulla fronte. «Come ti senti?» «Dov’è la mamma?» «Ti ha vegliato tutta la notte, sta riposando», rispose Joyce. «Avrei voluto portarle una tisana, ma non vuole niente», lamentò, con la voce incrinata da un sospiro. «Cosa è successo?» domandò allora Odyssea. «Tu e Lindia siete state travolte dal temporale. Non ne vedevo uno così da tanto tempo. Il paese è tutto sottosopra.» «Non sareste dovute uscire!» la rimproverò Joyce. «Potevate prendervi un malanno!» «No, intendo tutto il resto…» bisbigliò Odyssea decisa, con la perdurante sensazione che Joyce e la nonna le nascondessero qualcosa. Augusta la fissò, colpita da tanta determinazione: «C’erano i signori Mou, qui, ieri sera, quando siete tornate, erano preoccupati, Lindia aveva detto loro che sarebbe venuta a farti visita ma non era ancora rientrata. Non sapevamo cosa pensare. Figurati che la signora Mou è voluta andare a controllare nella scuderia.» «Ma non ha trovato nessuno», le fece eco Joyce. Ah, pensò Odyssea, già. Jacko è sparito. Le pareva tutto talmente orribile, talmente complicato. E ora, ricordarsi che Jacko non c’era, che era andato via, chissà dove e chissà per quanto tempo, le faceva venire da piangere. Era assurdo come, pur franandole sotto i piedi la vita, il passato, la certezza di poter contare sull’integrità di suo padre, in quel momento la sua infelicità fosse concentrata sull’assenza di quel tizio villano che parlava pochissimo. Era ingiusta? Era sciocca? Avrebbe fatto meglio a occuparsi di cose più gravi. E, proprio per assecondare quel saggio proposito, chiese: «Nonna, dov’è andato Jacko?» «Non lo so», disse Augusta scuotendo la testa. «Quel ragazzo è uno spirito libero. Anche quando era affidato a me ha sempre voluto vivere da solo, non mi sono mai neanche sognata di controllarlo…» «E hai fatto male, secondo me», concluse Joyce prima di sparire in cucina. *** Nei giorni seguenti Odyssea ciondolò in giardino, accarezzata da un sole che non era mai stato così caldo. Desiderava tanto stare sola. Aveva la sensazione che, a turno, la nonna e Joyce e persino sua madre, la seguissero, per controllare che non si allontanasse da casa. Lindia stava bene. Chissà perché, adesso riusciva a pensare a lei con affetto. Il fatto di aver condiviso insieme la paura gliela faceva sentire molto vicina. In quel periodo il Consiglio si riunì spesso in casa. Vide il signor Mou con l’impassibile moglie, il signor Thomasson e la sua consorte dalla faccia cavallina, e altre persone che non conosceva, intraviste a malapena quando Jacko aveva aggredito Max e Jordy accanto alla scuderia. Quel giorno, dalla veranda dov’era stesa su una poltroncina di bambù, riusciva a udire a tratti le parole che provenivano dal salotto. Una voce d’uomo che non seppe identificare si esprimeva con tono concitato. «Dobbiamo agire duramente! Dobbiamo reprimere ogni comportamento che ci appaia inusitato! Questo è un difficile momento per noi e la prevenzione è l’unica arma che possediamo! Chi cerca di aggirare le regole ancestrali di questa comunità deve essere punito! Vi rendete conto che non possiamo permetterci lassismi e ipocrite indulgenze? Questa è l’opinione di molte persone di Wizzieville, spaventate dal dilagare di tanta insubordinazione!» Odyssea riconobbe la voce di Pericle Thomasson che rispondeva: «Hai ragione, Hamlet, ma non mi pare proprio che il comportamento del ragazzo sia tanto… come hai detto, inusitato? Quel ragazzo è solo molto giovane. Ma io posso capirlo… crescere senza genitori… E poi il Consiglio si era già pronunciato diversamente in proposito mi pare… E tu… ehm… eri assente! Come mai, mio caro, Hamlet?» Hamlet Angel, il padre di Jordy, tossicchiò stizzito: «Impegni di lavoro, Pericle, impegni di lavoro! Le responsabilità del mio incarico…» Un mormorio di malcontento si diffuse nella stanza, come se le persone presenti avessero già udito un milione di altre volte quelle disquisizioni. Hamlet Angel doveva essere un tipo noioso e ripetitivo, e la gente sembrava non poterne più di ascoltarlo. Nonna Augusta intervenne a placare gli animi: «Amici, non mi pare che occuparsi delle bravate di Jacko O’Donnell sia la cosa più urgente in questo momento. Lasciamo perdere queste sciocchezze, vi prego. E occupiamoci di ciò che è realmente importante». Una voce di donna, stridente come il verso di una cornacchia, proruppe: «Augusta non ha torto! Cosa pensiamo di fare, eh, cosa pensiamo di fare?» Le parole melliflue della signora Mou emersero dal fondo: «Tu hai un debole per quel ragazzo, Augusta, e mi domando come fai a non vedere ciò che vede la maggioranza di noi». La nonna domandò candidamente: «Oh, cara Blanca, cosa non vedo, di grazia?» «Non vedi che Charlie O’Donnell quasi ventitré anni fa è stato esiliato per alto tradimento, non vedi che Breta O’Donnell dodici anni fa è stata complice di Squartavene! E non vedi che ora Squartavene è ritornato…» Blanca pareva esaltata, e quella specie di strana eccitazione contrastava col suo solito languore. Ma la nonna non perse la sua gentilezza. «Oh… io vedo solo che Jacko è un bel ragazzo e spesso le fanciulle si comportano in modo sciocco in questi casi… Ma non c’è da preoccuparsi…» disse Augusta con amabilità. La signora Mou, cogliendo l’allusione a sua figlia, tacque raggelata, e suo marito cambiò abilmente discorso: «Che ne pensate di un Incantesimo Potentissimum Protetiones da applicare a tutti gli ingressi di Wizzieville?» «Ormai è tardi!» protestò una voce. «È già qui! E poi, pensi davvero che un incantesimo potrebbe fermarlo? Potevamo sperare che andasse bene dodici anni fa, ma adesso è più forte.» «Già… già…» mormorò Frederick Mou. «E allora non ci resta che tenere gli occhi aperti, e mettere le Manguste Guardiane nelle vie principali, che ci segnalino ogni movimento sospetto.» «Certo, le Manguste Guardiane sono in grado di riconoscere all’olfatto le situazioni pericolose e di dare un pronto allarme, ma sai bene che non possono intervenire in caso di necessità.» Odyssea li udì confabulare ancora a lungo. Erano irrequieti e tendevano a sopraffarsi l’un l’altro. Pensò al tono tracotante del padre di Jordy e rabbrividì al pensiero che, insieme alla signora Mou, avesse ancora cercato di creare problemi a Jacko. In quel mentre Joyce la raggiunse in veranda. Odyssea aveva gli occhi chiusi e fece finta di dormire. Rimasta di nuovo sola, si incamminò per fare una passeggiata. Era avvolta in una giacchetta di cotone blu che le arrivava fin quasi alle ginocchia e la maglietta bianca accentuava il suo pallore. Benché quella meravigliosa giornata la invitasse a vagabondare, decise di non allontanarsi troppo. Scorse una macchia di alberi, appena svoltata la curva, in direzione opposta al susseguirsi delle palme. Un gruppo di robuste querce erano disposte in circolo, come giganti verdi impegnati in un girotondo, all’interno delle quali si allungava un tappeto di trifogli gialli. Una grossa pietra bianca e levigata diventò una sedia. Rimase con gli occhi chiusi, una guancia appoggiata sulle ginocchia piegate e le braccia strette intorno, sentendosi protetta e coccolata dalla frescura e da un impalpabile vento che penetrava tra le foglie. In quel momento nulla le pareva più tanto spaventoso. All’improvviso, una voce conosciuta la riportò alla realtà: «Che ci fai qui, ragazzina?» Odyssea spalancò gli occhi e sollevò la testa di scatto: «Jacko!» esclamò. «Sei tornato!» «Perché, ne dubitavi?» domandò lui leggermente accigliato. Indossava un completo di jeans, frusto e sbiadito, e stivali di cuoio che avevano visto indubbiamente molte battaglie. Sembrava abbronzato, ma la stanchezza che trapelava dai suoi occhi dava a intendere che non fosse stato in vacanza. «Mi hai cercato?» Non gli rispose. La verità l’avrebbe imbarazzata. La verità l’avrebbe costretta a rivelargli che non aveva pensato praticamente ad altro. Si sentì felicissima e di nuovo viva. Jacko si sedette sull’erba e cominciò a disegnare scarabocchi con un dito su un quadratino di terra. «Dove sono i cavalli? Perché le stalle sono vuote? E tu dove sei stato?» gli chiese Odyssea, tutto d’un fiato. «Calma, ragazzina, calma. Mi pare di capire che ti sono mancato.» «Oh, signor O’Donnell… Non ricominciare con… con questi modi spavaldi! Non li sopporto!» Suonò adirata, ma in realtà era elettrizzata. «Quando sei con me devi comportarti per bene!» «Quanto per bene?» domandò Jacko, trattenendo con una mano una ciocca ribelle che sembrava desiderosa di essere inghiottita. «Vedi, stai continuando. E va bene! Sei carino, sei tutto quello che vuoi ma…» e concluse, scandendo le parole, «non – rivolgerti – più a me – in quel modo!» «Ora sì che mi sento meglio!» Jacko si finse imbronciato, poi emise una risata che rimbombò leggera tra gli alberi. «Sei proprio un tipo, Odyssea Bennet!» «Ah, allora sai come mi chiamo…» «Ho saputo che ti sei divertita a fare l’eroina», cambiò discorso, facendosi serio. Le si avvicinò e si sedette sulla medesima pietra. Odyssea trattenne il respiro per un attimo, indecisa sul da farsi, e poi parlò a ruota libera. Fu un sollievo. Da quella maledetta sera con Lindia non aveva confidato a nessuno ciò che era veramente successo. Tutti si ostinavano a trattarla con condiscendenza e ogni volta che lei accennava all’argomento insistevano ad addebitare la colpa di tutto al cattivo tempo e alla loro beata imprudenza di fanciulle. La mamma, poi, non voleva parlarne nemmeno in quei vaghi termini. Raccontò tutto a Jacko. Della passeggiata con Lindia, del signor Petrus Carbonius, del temporale, dei fulmini così vicini che ne aveva percepito la scossa, degli alberi come spettrali soldati, e della lunga corsa affannosa verso casa. Lui la stette ad ascoltare con grande attenzione, ma imperturbabile. Continuava ad accarezzare il suolo con una mano, tracciando solchi distratti sulla terra e sul tappeto di trifogli. Poi, qualche minuto di silenzio li separò. Ma Odyssea aveva una domanda che le urlava dentro. «Jacko, la pietra, dove l’hai messa?» gli chiese facendosi coraggio. «L’ho seppellita dove ti avevo detto.» «Dobbiamo prenderla! Dobbiamo portarla alla Fornace!» Jacko la osservò sbalordito. Con gentilezza, le posò una mano sul braccio intuendo dell’altro. «Cosa c’è?» «Non… non ti ho detto tutto. L’altra notte, quel grido che mi inseguiva… mi ha detto una cosa… Una cosa orribile… Per tre volte… la stessa cosa… Mi ha detto Tuo padre era il mio schiavo prediletto e anche tu lo sarai… Ha detto così Jacko, ti giuro, ha detto così!» «Sciocchezze», esclamò lui brusco, senza aggiungere altro. «Ma io devo sapere, lo capisci? Devo sapere perché quella maledetta pietra era lì», disse puntando gli occhi dentro i suoi quasi in segno di sfida. «Io devo sapere se quella pietra è appartenuta a mio padre! La devo buttare nella Fornace… so che è pericoloso, ma è l’unico modo!» Quando smise di parlare dovette riprendere fiato. Aveva gridato così forte che qualcuno dalla casa avrebbe anche potuto udirla. L’ultima cosa che voleva era che uno dei saggi e saccenti consiglieri fosse sfiorato dal sospetto che suo padre potesse essere stato complice di Squartavene. «Vedrò quello che posso fare», tagliò corto Jacko alzandosi. Lei lo fissò, e capì che era sincero. Quella sicurezza le diede conforto. Il sole iniziava a tramontare. Se non si fosse affrettata a rientrare avrebbe dovuto subire i rimproveri di Joyce e sarebbe stata costretta a bere uno dei suoi intrugli gorgoglianti per quietarla. «Devo tornare», sussurrò. «Ti accompagno», le disse Jacko a sorpresa. Odyssea sbuffò: «Non fare anche tu come mia nonna». In verità l’idea che la accompagnasse le riempiva lo stomaco di cicale e picchi e farfalle e formiche e coccinelle, ma finse un certo distacco. Per niente al mondo voleva fargli capire quanto fosse presa. «Ti accompagno», ripeté lui con tono grave. Si incamminarono in silenzio. Nonostante fosse alta per la sua età, Odyssea si sentiva piccola di fianco a lui, che la superava di quasi venti centimetri. Ogni volta che il braccio di Jacko sfiorava accidentalmente il suo, sentiva un tremolio in mezzo al petto e un calore umido sui palmi delle mani e sulle guance. Tra tutte le emozioni provate nella sua vita, quella che sopraggiungeva quando era con Jacko o quando pensava a lui era la più imprevista e la più sconcertante. La faceva sentire fragile, in pericolo, come se fosse un vaso di cristallo lasciato in bilico su un tavolino, un pesce all’asciutto o un fiore al buio. Non credeva che potesse essere così. Aveva immaginato che l’amore fosse qualcosa di diverso, qualcosa di tenero e struggente, un sentimento che ispirava eterni sospiri appassionati, ma su di lei gli effetti non erano quelli sperati. Era troppo presa dal mal di stomaco per dedicarsi a romantici affanni. Aveva perfino immaginato che si sarebbe sentita vaporosa e leggiadra, che avrebbe diffuso intorno a sé una specie di primavera, e che sarebbe diventata addirittura più bella, poiché nei libri e nei film le ragazze innamorate erano tutte incantevoli. Lei, invece, aveva la perenne impressione di stare per vomitare, a volte sentiva le gambe molli come carta bagnata, dormiva poco e mangiava con altrettanta parsimonia, con il risultato che la sua bellezza, già tutt’altro che vistosa, aveva raggiunto il minimo storico. Ma forse, gli amori che rendevano belle erano solo quelli contraccambiati. Eppure, era certa che fosse amore. Non poteva che essere quello. Non pensava forse a Jacko più di quanto pensasse a ogni singola altra cosa della sua vita? Non andava a dormire col desiderio di abbassare le palpebre per rievocare i particolari del suo volto, i suoi occhi color del buio, i capelli scuri e sfrontati che gli spiovevano intorno al volto, la cicatrice sulla guancia, il modo in cui si mordeva le labbra, il modo in cui rideva quel poco che rideva, e in cui, soprattutto, taceva, così serio e scontroso? Non inventava un miliardo di assurde situazioni per notte, accomunate tutte dal medesimo finale, e cioè Jacko che la baciava, la baciava, la baciava, stringendola a sé come se senza quel respiro, senza quel contatto, senza quel bacio moltiplicato per cento, potesse morire? Si sentiva stupida, naturalmente, ma ammalata. E il fatto che Jacko non dimostrasse la benché minima malattia, la faceva sentire smarrita. Nel frattempo arrivarono in prossimità dell’orto. «Ciao», disse semplicemente Jacko. «Mi prometti che ci penserai? Per quanto assurda ti possa sembrare la mia richiesta, sappi che per me è un grosso problema. Io non ho conosciuto mio padre e ora non capisco quello che accade.» «So benissimo cosa significa non conoscere il proprio padre e sentirsi sconvolti dal sospetto», ribatté Jacko con tono duro. Quindi, le voltò le spalle e si allontanò. Odyssea rimase a guardarlo, col magone in gola. «Jacko!» gridò. Lui si girò, impassibile. «Ti prego, non sparire di nuovo!» lo implorò. Jacko andò via stringendosi nelle spalle. *** Nessuno sembrava essersi accorto della sua assenza. Dal salotto proveniva ancora un chiassoso vociare. Fece per raggiungere la scala, quando la porta si aprì e Odyssea si trovò dinanzi al signor Thomasson che usciva dalla stanza insieme agli altri. Quando la vide, l’uomo le sorrise in modo amichevole e gli occhi chiari gli si illuminarono. «Signorina Bennet, come sta? Si è rimessa in forze?» chiese con garbo. La stessa domanda le venne rivolta più o meno da tutti i membri del Consiglio. Tra questi Odyssea vide per la prima volta il padre di Jordy. Lo riconobbe perché somigliava moltissimo al figlio, aveva gli stessi capelli biondi e ordinati, senza un’ombra di grigio, e gli stessi occhi di quel vivido azzurro che sembrava acqua di lago. Eppure, in quegli occhi, brillava una luce severa. Quelle iridi parevano capaci di sdegno, ma non di delicatezza o di comprensione. «Come sta Jordy?» gli domandò. Il signor Hamlet Angel le rispose con formale gentilezza, rassicurandola che le condizioni di suo figlio erano molto migliorate, nonostante tutto ciò che era malauguratamente avvenuto. Parlava con tono altero ma soddisfatto, e la scrutava con fare indagatore. Subito dopo la comitiva si sciolse. Augusta accompagnò tutti alla porta, intrattenendosi con i signori Mou che erano gli ultimi della fila. «Signora Mou», disse Odyssea con educazione. «Può salutarmi Lindia, per favore?» Blanca Mou la guardò sprezzante dall’alto del suo viso d’avorio, facendo un cenno di assenso con la testa. Il marito si precipitò verso Odyssea e le strinse le mani. «Anche Lindia ti saluta, certamente. Che brutta esperienza la vostra, ma vi rivedrete molto presto.» Quando tutti furono andati via, la nonna la condusse in veranda tenendola a braccetto. Nonostante la consueta dolce espressione, la fronte le si affollò di rughe profonde, come accadeva sempre quando tristi pensieri la logoravano. «Odyssea», le disse, «promettimi che non uscirai più da sola.» «Te lo prometto», rispose, domandandosi se si fosse accorta della sua recente passeggiata. «E ora, vado a rinfrescarmi, è stato uno di quei pomeriggi… Non si riesce mai ad arrivare a una decisione comune.» Così dicendo salì le scale. Odyssea entrò nel salotto dove fino a pochi minuti prima era riunito il Consiglio. La finestra era spalancata e la luce del tramonto illuminava ogni cosa con sfumature color zafferano. Avvicinandosi al tavolo vide che qualcuno aveva dimenticato un giornale. Portava la data di quel giorno. Sulla prima pagina campeggiava il titolo: TROVATI I CORPI DI DUE MAGHI SULLA COLLINA DI CASTLERED, COMPLETAMENTE DISSANGUATI Nelle prime ore dell’alba, sulla Collina di Castlered, a ovest di Wizzieville, sono stati ritrovati i corpi non ancora identificati di due maghi, un uomo e una donna. Le condizioni spaventose in cui versavano hanno finora impedito alla Guardia Speciale di risalire alla loro identità. Le teste di entrambi risulterebbero decapitate e sui colli mozzati e sui polsi sarebbero presenti profonde incisioni. Dai primi accertamenti del Collegio Tecnico, parrebbe che entrambi siano stati dissanguati quando erano ancora vivi e la loro morte risalirebbe a ieri sera, durante il temporale che tanti danni ha prodotto. Non c’è dubbio su chi sia l’artefice di tale scempio. Molti anni fa tutto cominciò nella stessa maniera, e la lista delle vittime arrivò a più di dieci in pochissimo tempo. Probabilmente il nostro Consiglio decreterà di far giungere dalle Terre Sabbiose le Manguste Guardiane. Occorre vigilare e stare molto attenti. Si invitano i gentili concittadini a una grande cautela. Vigilate, gente di Wizzieville, Squartavene è tornato. Odyssea posò il giornale sul tavolo, le braccia colte da un’improvvisa spossatezza. Il suo cuore andava forte e veloce come una locomotiva. Squartavene aveva ucciso. Di nuovo. Capì che tutto, tutto ciò che era già avvenuto, il medesimo incubo spaventoso, stava accadendo ancora. UNA NOTTE MEMORABILE Si svegliò in un bagno di sudore. Per la prima volta da quando era a Wizzieville aveva fatto un sogno spaventoso. C’era suo padre, e le sorrideva dolcemente come nella foto che aveva trovato in soffitta, con la divisa scolastica e il cappello con la striscia di velluto argentato. Le rivolgeva parole gentili e all’inizio lei era colma di gioia. Poi, pian piano, l’immagine di suo padre aveva cominciato a trasformarsi. La sua bocca amabile si era spalancata in una smorfia e a un tratto non era più una bocca, ma un muso d’animale con enormi zanne affilate. Gli occhi si erano assottigliati fino a diventare due squarci neri sulla pelle e le sue braccia, quando si era sporto verso di lei per stringerla, avevano assunto l’aspetto di zampe lunghe e pelose. Ma era stata la sua voce, quando lei aveva cercato di scappare, a inchiodarla. «Non puoi sfuggire», aveva urlato, «chi ha i poteri è destinato a servirlo! I poteri sono una condanna!» Odyssea aveva spalancato gli occhi di colpo, con le guance rigate di lacrime. Odiava quel suo nuovo modo di essere, quel piangere continuamente per ogni cosa. Non le piaceva essere patetica, non lo era mai stata. Piangere, per lei, sarebbe stata una sconfitta. Aggiungere alla sua vita già precaria anche l’intralcio delle lacrime facili sarebbe stato un peso ulteriore da portare in viaggio. Anzi, spesso aveva usato l’ironia, la capacità di scovare il lato buffo delle cose, per opporsi alle difficoltà e ammantarsi di forza. Ma ora non riusciva a trattenersi. Era strano che, fino a quando aveva condotto una vita sballottata, fuori di lì, non avesse quasi mai pianto, mentre adesso, adesso che aveva una casa, una famiglia, degli amici, non facesse altro che commuoversi per qualcosa. Non sapeva cosa fosse meglio, se la vita di prima, senza ricordi, o quella attuale, in cui la memoria la faceva sentire perseguitata e colpevole. Mentre se ne stava lì, col viso schiacciato sul cuscino, udì un rumore provenire dal giardino. Doveva avere dormito molto, perché nella pendola il cielo era completamente scuro. Si sollevò dal letto e si affacciò alla finestra. Per poco non crollò a terra dalla sorpresa. Fuori c’era Jacko in groppa a Levante. Con un cenno della mano la stava invitando a scendere. Odyssea trattenne a stento un urlo. Si pettinò e si vestì in fretta. Cosa diavolo stava facendo? Era notte fonda, e un ragazzo di cui sapeva pochissimo, tranne che possedeva occhi straordinari e maniere intriganti e che aveva la pessima tendenza a pestare chi non era di suo gradimento, la invitava a uscire di casa e lei, invece di stupirsi o indignarsi, accettava con slancio, comportandosi come una ladra in casa propria? L’idea di non correre da lui non l’aveva minimamente sfiorata. Sapeva di essere incosciente e sciocca, sapeva di stare disobbedendo a tutte le promesse e le regole del buon senso, ma qualcosa le diceva che doveva andare. Che poteva fidarsi. Scese un gradino alla volta, muovendosi come se l’intera scala fosse cosparsa di gusci d’uova e fosse suo vitale compito evitare di calpestarli. Quando aprì una finestra che affacciava sulla veranda, sussultando al lieve cigolio dei cardini, Levante era immobile sulla ghiaia, e Jacko la aspettava in piedi, tenendo le redini in una mano. Indossava una pesante giacca di cuoio e dei jeans neri. Non si dissero una parola. Jacko le fece capire a gesti che doveva salire sul cavallo, ma prima, sempre a gesti, le suggerì di accarezzarlo, sfiorandogli il naso con lenti movimenti circolari. «Tranquilla…» le sussurrò nell’orecchio. Odyssea allungò una mano e le sembrò che Levante la osservasse con precisa ostilità. Non appena lo toccò, infatti, inarcò il collo e lei si ritrasse di scatto. Jacko scosse il capo. «Devi fargli capire che non hai paura», bisbigliò prendendole una mano e poggiandola sul muso morbido di Levante. Per un tempo che parve interminabile, le loro dita si mossero insieme, quiete e ipnotiche, sul muso e sulla fronte del cavallo. Poi Jacko si allontanò e Odyssea si ritrovò da sola. Levante teneva gli occhi socchiusi. Le sue enormi costole spiccavano sotto il manto rischiarato dalla luna piena. Solo a quel punto, Jacko montò con un balzo e si sporse per aiutarla. La sollevò come fosse una foglia leggera e, senza capire bene come, Odyssea si ritrovò sulla sella davanti a lui. Il cuore le batteva così forte da farle temere che, se non si fossero allontanati subito, qualcuno si sarebbe svegliato udendo quel rimbombo. Levante si mosse verso il giardino. La ghiaia crocchiò con un crepitio secco sotto gli zoccoli. Quando furono abbastanza distanti dalla casa, Odyssea si voltò a pochi centimetri dal viso di Jacko. «Dove andiamo?» «Fidati. E tieniti forte.» Jacko passò le braccia intorno alle sue e afferrò le redini. Levante partì al galoppo all’improvviso. Era una sensazione stupefacente. In principio ebbe paura di cadere, la groppa di Levante oscillava come una zattera in mare aperto, e fu assalita dalla tentazione di aggrapparsi a qualsiasi cosa, la criniera, la sella, le mani di Jacko, l’aria. Poi si lasciò andare, e la paura divenne sollievo, unita a un’imprevista comicità poiché, non sapendo come accompagnare il movimento di Levante, tendeva a rimbalzare in modo ridicolo. Quando finalmente riuscì a lasciarsi rapire solo dalla sensazione che mancasse molto poco per volare davvero, una magnifica ebbrezza s’impadronì di lei. Uscirono dal giardino, superando una cortina di alberi, una radura e un fiumiciattolo, e il mondo prese a scorrerle velocemente sotto gli occhi, come immagini in corsa osservate dal finestrino di un treno. Era felice. Non sapeva dove stessero andando, ma era felice. La felicità era un’emozione nuova per lei, e provarla, così concentrata, così vigorosa, le parve un dono troppo grande. «Mi hai fatto salire su Levante!» esultò. «Non farlo mai da sola», la disilluse Jacko. Cavalcarono a lungo, sebbene il tempo fosse solo un dettaglio, travolta com’era dal dondolio del cavallo e dal freddo che le frustava le guance. Il paesaggio circostante mutava rapidamente e non ci volle molto per capire che avevano lasciato il villaggio. Attraversarono immense distese d’erba alta, ruscelli gorgoglianti, melmose paludi e ancora boschi, finché il suolo divenne pietroso e ricoperto da rocce e sterpi. L’aria era sempre più rarefatta, come se stessero salendo in alta montagna. A un tratto Levante rallentò. «Ora vuoi dirmi dove siamo?» chiese Odyssea, mentre il cavallo quasi si fermava. Jacko non le rispose. Si sporse e le posò una mano sulla bocca. In quel momento, Odyssea capì dove si trovavano e rimase senza fiato. Erano in cima a un monte elevatissimo e a poca distanza da loro c’era un profondo cratere scavato nella roccia. Tutto era buio, e solo il chiarore della luna illuminava i contorni di quel luogo sinistro. Un terrore immediato si sostituì alla gioia di prima. «Non fare quella faccia», disse Jacko a voce bassa mentre la aiutava a scendere. «Volevi venire alla Fornace Fiammeggiante? E io ti ci ho portata. Però parla piano, perché da queste parti vivono dei tipi tutt’altro che pacifici e se li svegliamo potrebbero attaccarci.» Al pensiero che qualcuno o qualcosa potesse assalirli, Odyssea si guardò intorno allarmata, ma era stata lei a insistere affinché la accompagnasse lì e non poteva certo incolparlo delle incognite collegate a quel viaggio. «E la pietra?» domandò. «Ce l’ho qui», rispose Jacko, estraendo dalla tasca una piccola scatola. «Chi è che vive da queste parti?» «Speriamo di non scoprirlo.» «Non lo sai neanche tu?!» «Non ho mai avuto il piacere di conoscerli di persona.» Odyssea rabbrividì. Era notte inoltrata, e l’aria pareva fatta di ghiaccio. Si strinse meglio che poteva nella felpa, tirando su la cerniera fino al collo e annegando la bocca nel bavero. Si accostò a Levante cercando di riscaldarsi, e per qualche istante rimase col capo accostato al fianco dell’animale, coi denti che battevano. Jacko le si avvicinò. «Vieni qui, però non farti strane idee», le sussurrò, col tono di chi, nonostante il pericolo, non intendesse rinunciare al saporito piacere di prenderla in giro. Così, senza aggiungere altro, si sbottonò la giacca e la avvolse in un abbraccio. Odyssea chiuse gli occhi, mentre il cuore quasi le scoppiava nel petto. Per un attimo, con la paura e i rischi di quella missione, il burrone che si spalancava a pochi passi da loro, la Fornace spenta e oscura e il freddo che si impadroniva del suo corpo, ebbe perfino l’ardire di sperare che il tempo si fermasse. Appoggiata al petto di Jacko, con la fronte sulla sua gola e le braccia strette intorno alla sua vita, rassicurata dal tepore del suo maglione e dall’odore di cuoio della sua giacca, le parve di perdere il senso della realtà. I capelli di lui le solleticavano il naso, le sfioravano le palpebre, e il suo respiro la sovrastava. Ora si sentiva veramente sul ciglio di un precipizio. Dopo un po’ si sedettero a terra, e quando Odyssea disperava quasi di riprovare le sensazioni di prima, perché mai e poi mai gli avrebbe chiesto di abbracciarla di nuovo, lui lo fece ancora, spontaneamente, senza parole. Rimasero così, adagiati sul suolo sassoso, lei con gli occhi serrati, in preda a qualcosa di simile a un’intensa vertigine, lui vicino a lei in una stretta indecifrabile. Dopo un tempo che le parve breve e infinito, Jacko la riportò sulla terra, sciogliendosi dall’abbraccio. «È ora, è quasi l’alba.» Voltandosi nella direzione che le aveva indicato, Odyssea vide un tenue bagliore rossastro scintillare nel cratere. E a mano a mano che il sole si levava alle loro spalle, a mano a mano che l’aria si colorava, sfumando dal rosa all’ocra all’arancio, il bagliore si fece più intenso. Infine, con uno strepito simile al ronzio di uno sciame di vespe, un’alta fiamma divampò dalla cavità nella roccia. «Dopo che hai gettato la pietra, la Fornace te la restituirà e per un minuto soltanto ci sarà scritto il nome che ti interessa», la istruì Jacko, porgendole la scatola con l’onice. «Leggilo in fretta, dobbiamo togliere il disturbo perché gli abitanti di questo posto tra un po’ si sveglieranno, e magari vorranno fare colazione.» Odyssea annuì con decisione e a passi lenti si avvicinò alla lingua di fuoco. Accostandosi al cratere, il calore sul suo viso si amplificò, fino a diventare insopportabile. Nello stesso istante in cui capovolse il contenitore lasciando cadere l’onice, udì il nitrito rabbioso di Levante alle sue spalle. E poi un grido. «Jacko!» urlò, prima di capire cosa fosse accaduto. Non riuscì neanche a vedere la pietra sprofondare all’interno della Fornace che il nitrito di Levante si levò di nuovo. Fu questione di un secondo. Girandosi, vide una marea di strani esseri che sembravano macigni in movimento, emersi forse dalle viscere della terra, perché il suolo era squarciato da centinaia di piccole fenditure. Erano fatti di granito e possedevano teste spigolose e arti simili a stalattiti. Avanzavano con la ritrosia di talpe nella luce, lenti e goffi, ma il loro numero li rendeva comunque temibili. Erano in tanti. In troppi. L’intera superficie della vetta era un brulicare di sagome tozze e grigie che si muovevano a scatti, emettendo in coro un rumore di sassi sbattuti. Jacko era lì in mezzo, circondato da quei mostri di pietra. Odyssea era paralizzata dalla paura. Nella Fornace il fuoco crepitava rumorosamente, come se stesse masticando, triturando, divorando l’onice maledetta, ma ancora non accennava a volerla restituire. «Bada a ciò che stavi facendo!» le ordinò lui. Allora, come aveva visto accadere con Jordy e Max, fu come se da Jacko prorompesse un’invisibile energia che scagliò quegli esseri lontano, facendoli cozzare gli uni contro gli altri. In meno di un minuto si rialzarono e tornarono all’attacco. Sembravano molto più furiosi e più rapidi, come se le loro pupille spente si stessero abituando alla luce e le loro movenze acquistassero velocità. Circondarono Levante, e il cavallo, irritato, si impennò emettendo un altro nitrito, poi si lanciò al galoppo. Gli esseri-pietra si spostarono al suo passaggio e alcuni ne furono travolti. Intanto Jacko spiccò un balzo. Si levò da terra e rimase sospeso in aria per qualche istante. Quando ricadde al suolo, la forza che sprigionò si propagò centuplicata verso quella massa formicolante di mostriciattoli. La maggior parte venne spinta via con tale intensità da precipitare oltre la vetta, sprofondando in un mare di nuvole; quelli che riuscirono a sfuggire al risucchio del vuoto urtarono tra loro, andando in pezzi come conchiglie. I pochi rimasti in piedi si scagliarono di nuovo verso Jacko. Odyssea batteva i piedi, non più per il freddo ma perché era attanagliata dall’ansia. La pietra era ancora dentro la Fornace, rinchiusa nella sua prigione di fuoco. «Restituiscimela, restituiscimela», sussurrava, come se la fiamma potesse udirla. Alle sue spalle Jacko continuava a combattere. Ma dov’era Levante? Lo cercò con lo sguardo, ma in mezzo a quella montagna di pietre, non riusciva a individuarlo. «Levante!» gridò al vuoto. Subito il nitrito dell’animale si levò da così lontano e da così in profondità che sembrava fosse stato inghiottito dalle viscere della terra. Gli esseri, invece, attratti dall’urlo di Odyssea si erano fatti pericolosamente vicini. Fece qualche passo indietro, prigioniera tra la fiamma che le arroventava la schiena e il nugolo che avanzava senza sosta. Se avesse indietreggiato ancora si sarebbe ustionata. All’improvviso una creatura di pietra allungò un braccio verso di lei, un’appendice nerastra con una specie di unghia ricurva. Non ebbe neanche il tempo di pensare a cosa fare, che Jacko le fu accanto. Arrivò dall’alto, e atterrò vicino a lei, davanti alla Fornace. L’essere che la stava per toccare fu sbalzato indietro e si infranse in migliaia di schegge. «Levante!» ripeté Odyssea, guardando Jacko. «Dov’è?» Ma lui si era nuovamente spostato verso il centro della vetta e seguitava a respingere l’attacco dei mostri sopravvissuti. Il nitrito di Levante in lontananza pareva un singhiozzo, una preghiera. Odyssea era terribilmente combattuta tra la necessità di rimanere e la certezza che il cavallo avesse bisogno d’aiuto. La Fornace era lì, rossa, abbagliante, ma ancora non c’era traccia dell’onice. Decise in un attimo. Si fece largo tra il fumo e i detriti e seguì il richiamo di Levante. Quando si allontanò dall’area in cui infuriava la battaglia, prese perfetta coscienza della vetta sulla quale si trovavano e inorridì. Era un pinnacolo librato nel vuoto. Sembrava un isolotto in mezzo all’oceano, solo che al posto dell’acqua c’era l’aria. L’unico legame con la terraferma era lo stretto ponte di roccia dal quale erano giunti. Le parve di intravedere ammassi di nuvole verso il basso, densi mucchi color ghiaccio, e loro erano ben al di sopra di quelle nuvole. Sull’altro versante, dietro banchi di nebbia, si scorgevano i contorni di una montagna ancora più alta. Quella inaspettata immensità le falciò il fiato. In quel momento si accorse di un dislivello sul bordo della vetta, una porzione di montagna che digradava verso il basso. E allora lo vide: Levante era lì, a un passo dal baratro, col muso rivolto verso il precipizio. «Levante», lo chiamò. «Vieni su, lentamente, vieni da me!» Il cavallo non si mosse. Contemporaneamente, alle sue spalle, Odyssea udì un suono diverso, come il tonfo di un sasso lanciato nell’acqua. Si voltò. Davanti alla Fornace c’era l’onice, e luccicava. Cercò Jacko con lo sguardo. Dovevano essere affiorate decine di altri esseri, poiché lui era accerchiato, al di là della collinetta di schegge. Lo guardò, guardò la pietra, guardò Levante. I suoi occhi fecero un rapidissimo viaggio. «Forse posso andare a prenderla e poi tornare da Levante», sussurrò a se stessa. Ma il cavallo, come ipnotizzato, pareva ora avanzare a piccoli passi, come se i suoi zoccoli fossero calamitati dal precipizio. Capì subito ciò che doveva fare, glielo disse il cuore. Sedendosi a terra in modo da non perdere l’equilibrio, si lasciò scivolare verso l’inizio della pendenza. Si alzò in piedi con grande cautela e allungò una mano verso il fianco dell’animale. Levante scosse il collo infastidito, avvicinandosi ancora di più verso l’abisso: oltre quel filo sottile di roccia non c’era più nulla. Odyssea sentì la paura invaderle corpo, mente e cuore. Rivoli di sudore le intiepidivano il viso. «Levante… ti prego… non andartene… vieni da me…» Provò a posargli una mano sulle costole. Levante ora sembrava non respirare più, sembrava impagliato. «Ti prego… ti prego…» e quando prese ad accarezzarlo con dolcezza, il cavallo accettò le sue carezze. Allora si spostò verso il muso, protendendosi con il busto per afferrare le redini. Tese il braccio fino al massimo dell’estensione e una fitta lancinante le aggredì la spalla, ma le redini erano ancora lontane. Avanzò ancora. La punta della sua scarpa oltrepassò il bordo del pendio, aveva quasi un piede nel vuoto. Fiocchi di nuvole metallizzate galleggiavano al di sotto, e per un attimo le girò la testa scorgendo lo spazio maestoso che si spalancava. «Ti prego Levante, non muoverti…» lo implorò. E finalmente afferrò le redini. Si accostò alla sella e chiuse gli occhi. Indietreggiò, piano, pianissimo, pregando che Levante non s’innervosisse, non scuotesse il collo, non s’imbizzarrisse. Se solo l’avesse fatto, sarebbe stata la sua fine. «Levante… indietreggia piano… ti supplico.» Inizialmente il cavallo rimase immobile ma, dopo qualche secondo, si scosse e ubbidì alla sua preghiera. Si spostò all’indietro, e i suoi fianchi ripresero a muoversi. Quando fu abbastanza lontano dal dirupo, Odyssea lo fece girare e si avvicinò al suo muso sfiorandolo coi palmi delle mani che ancora tremavano. Le sembrò che Levante la osservasse con gentilezza. Per la prima volta le rivolse uno sguardo affettuoso e lei, incoraggiata da quella benevolenza, decise di osare. Mise un piede in una staffa e, con uno sforzo immenso, si issò sulla sella. Levante accolse il suo corpo senza proteste e cominciò a trottare, e finalmente uscirono da quel dannato scivolo verso la morte. Jacko stava combattendo ancora contro gli ultimi nemici. Quando li vide, Odyssea in groppa a Levante, e Levante al trotto, li guardò sorpreso. Sferrò il colpo finale a un uomo di pietra ed emise un sospiro profondo. Davanti alla Fornace l’onice era ancora arroventata, e Odyssea capì che era trascorso meno tempo di quanto pensasse, e non l’eternità che credeva di aver vissuto. Jacko si lanciò verso la pietra, mosso dallo stesso pensiero. Ma quando arrivarono, Odyssea da un lato su Levante, e Jacko dall’altro con un balzo fulmineo, l’onice sfrigolò, emise l’ultimo bagliore e si spense. Jacko la prese in mano, ma subito si voltò verso di lei scuotendo il capo. Non c’era scritto più niente. *** Il sole ormai era quasi completamente sorto, un semicerchio color corallo sul margine del cielo. I due ragazzi stettero immobili senza parlare per alcuni minuti, anche se Odyssea avrebbe tanto voluto piangere. Non lo fece solo per pudore, ma aveva il cuore disintegrato, polverizzato, come quegli esseri lì intorno. Levante emise un nitrito di protesta. «Sì, ce ne andiamo», disse Jacko, montando in sella. Attraversarono con cautela il ponte sospeso che congiungeva la vetta alla terraferma, e poi si lanciarono al galoppo. La felicità immensa dell’andata non sembrava vera. Erano trascorse solo poche ore, eppure tutto appariva così diverso. Non scambiarono neanche una parola per l’intero tragitto. Arrivarono a Wizzieville che il sole era già alto. In lontananza Odyssea riconobbe la scuderia e il vasto recinto. Quando posò i piedi a terra, sentì che le forze la abbandonavano. «Io torno a casa», sussurrò, la voce ridotta a un soffio. «Aspetta, vieni qui.» Jacko le fece cenno di avvicinarsi. «Sei stata molto brava lassù.» «Anche tu sei stato bravo. E anche Levante.» Entrambi si voltarono verso il cavallo che si allontanava verso il gelso. «Levante non si era mai fatto cavalcare da nessuno oltre a me», affermò Jacko. «Cosa gli hai fatto?» «Non lo so…» «Lo hai stregato, forse?» Odyssea gli regalò un sorriso stanco. Voleva tornare a casa. Era confusa. Sentiva il cuore veloce come il galoppo di Levante e aveva quasi paura. «Vado via. Ho… sonno», mormorò tenendo gli occhi bassi. «Buon riposo, ragazzina.» Andò via correndo. Per fortuna non incontrò nessuno in casa. Non sarebbe stato facile spiegare cosa ci faceva in giro a quell’ora, coi capelli scompigliati e il viso ricoperto di polvere. Si rifugiò rapida nella sua stanza, e finalmente pianse. Non sapeva cosa la facesse stare più male, se l’esito disastroso di quel viaggio, la paura del vuoto provata quando aveva afferrato le redini di Levante, o la sensazione di cominciare a provare per Jacko qualcosa che avrebbe fatto meglio a dominare. Erano accadute tante cose in quella notte memorabile, forse troppe per una ragazzina sola. *** Nei giorni che seguirono, non riuscì a pensare ad altro, qualsiasi cosa facesse. Il suo corpo era lì, ma la sua mente si concedeva viaggi ben più lontani. Non voleva parlare con nessuno, non voleva vedere nessuno, neppure Jacko. Eppure era a lui che pensava maggiormente. Più della Fornace Fiammeggiante, più dei mostruosi esseri-pietra, più del nitrito strozzato di Levante sull’orlo del precipizio, più dell’onice che aveva cessato di essere incandescente nell’istante esatto in cui si erano avvicinati. Mangiò appena, e quel poco solo per accontentare Joyce che la subissava di attenzioni. Un pomeriggio, la sua buona amica la invitò a uscire. «Devo comprare alcuni ingredienti per le mie pozioni», le disse. «Vuoi accompagnarmi?» Lei accettò di buon grado. Era una calda giornata di luglio. Odyssea cercava di tenere il passo di Joyce che, nonostante i suoi molti anni in più, le sue trine svolazzanti, e una capace borsa di canne intrecciate, si muoveva svelta come una pulce. Saltellava da un negozio all’altro, riempiendo la sporta di barattoli di vetro contrassegnati da etichette verde-azzurro. Ma la cosa più stupefacente era che non faceva nessuna fatica perché, come le aveva spiegato, con un semplice Incantesimo Levitante la borsa non pesava nulla. A un tratto Joyce si fermò davanti a un edificio con la facciata celeste pallido. Alle finestre s’intravedevano sontuose tende damascate e il batacchio sul portone aveva la forma di una sirena. «Qui abita la cara Lindia! Vuoi farle una visita? Io vado a comprare un altro po’ di cosette, passo a prenderti tra mezz’ora, va bene?» Odyssea acconsentì. Per quanto l’idea di scontrarsi con gli occhi gelidi della signora Mou non le sorridesse affatto, era ben felice al pensiero di rivedere Lindia. Quando fece tintinnare il battiporta, la sirena si stiracchiò come se si stesse svegliando, stese le braccia, fece ondeggiare i capelli e la coda di squame argentate, e le rivolse uno sguardo altezzoso simile a quello della padrona di casa. Nonostante quell’occhiata scostante, tuttavia, la fece passare. Entrando, Odyssea scorse la scala di marmo più lucida che avesse mai visto: un’onda sinuosa saliva al piano superiore e un lungo cordone di velluto color bronzo adornava la balaustra. Lindia era affacciata alla ringhiera, vestita di azzurro, con un’acconciatura tanto perfetta che sembrava avere i capelli d’oro scolpito. Quando la vide, si precipitò ad abbracciarla. Poi, senza tanti preamboli, si lanciò in un resoconto dettagliato di quegli ultimi giorni trascorsi chiusa in casa. «La mamma mi sta appiccicata addosso! Però io gliel’ho fatta lo stesso», esclamò infine. «In che senso?» «Jacko è venuto a trovarmi!» La voce di Lindia era bassissima e Odyssea, più che udirla, lesse il movimento delle sue labbra. Scandì due volte la stessa frase per essere sicura che avesse capito bene. Quando rispose, Odyssea doveva avere un’espressione così sorpresa che l’amica si sentì lusingata dalla propria abilità. «È venuto a trovarti?» «Vieni, andiamo in giardino», disse Lindia trascinandola all’esterno, verso un portico di legno bianco latte. Il giardino dei Mou non possedeva neanche la metà del fascino rigoglioso di quello della nonna, ma aveva comunque una sua ordinata bellezza. Il vialetto che conduceva al parco era lastricato di pietre lucide e levigate ed era delimitato da così tante panchine di legno da far pensare che i padroni di quella casa dovessero essere sempre esausti e si spostassero semplicemente saltando da una panchina all’altra. Quando ripresero a camminare, Lindia afferrò il braccio di Odyssea con energia, bisbigliandole accanto a una guancia: «Io sono brava a dipingere, sai? Mia madre apprezza questo passatempo, poiché lo considera abbastanza dignitoso per una signorina a modo. Così l’altra mattina le ho detto che sarei andata al parco perché volevo immortalare la natura. Lei non mi ha accompagnato, perché il sole era fortissimo e non sopporta le lentiggini che le spuntano sul naso quando si abbronza. Naturalmente ha fatto in modo che Stylo mi seguisse, ma lui stava facendo merenda e aveva con sé il succo di mela aromatizzato… aromatizzato da me con cento gocce di calendula soporifera!» Lindia rise. «Dormiva come un sasso, laggiù…» e indicò una panchina sulla quale era ancora appoggiato un grosso cuscino di seta gialla. S’inoltrarono sempre più nel vialetto e infine giunsero a una distesa d’erba perfettamente rasata e priva di alberi, circondata da uno steccato. «Jacko è venuto da lì.» Le mostrò lo spazio aperto fuori dal recinto, che sembrava condurre verso il bosco. «Abbiamo chiacchierato a lungo e mi ha tenuto per mano. Tu non puoi saperlo, perché l’hai visto sempre così burbero, ma Jacko quando vuole sa essere molto romantico!» Odyssea sentì una fitta crudele. Anche con lei era stato gentile, anche a lei aveva preso la mano e l’aveva tenuta abbracciata, ma romantico… S’impose di non soffermarsi su quel doloroso dettaglio e le chiese: «Ma… come… come faceva a… a sapere… che saresti stata qui… ad aspettarlo?» «Glielo avevo scritto in quella lettera, ricordi? Gli avevo dato appuntamento per oggi, casomai non ci fossimo visti prima come temevo. Sapevo che a una cert’ora mia madre sarebbe uscita per una di quelle noiose riunioni mensili del suo club delle floricoltrici! Gli avevo scritto: “Questa è l’ultima volta Jacko O’Donnell, se ci tieni a me, vieni!” E lui è venuto, ti rendi conto? Poi, quando ho visto che Stylo cominciava a risvegliarsi, ho disegnato uno schizzo veloce e sono tornata a casa.» Odyssea, curiosa e gelosa in parti uguali, non riuscì a trattenere la domanda che le sgorgava dalle labbra: «Quindi… si può dire che tu e Jacko… state insieme?» «Adesso credo proprio di sì! Sai, è così dispiaciuto che mia madre sia tanto ostile! Oh, tu non immagini… È così triste doversi nascondere…» Odyssea deglutì a vuoto, più volte, stringendo i pugni sotto le maniche. Per fortuna Lindia cambiò discorso, ripercorrendo con i ricordi la sera del temporale. Odyssea fu lieta che rammentasse solo il nubifragio, i fulmini e gli alberi scrollati dal vento, ma non avesse capito nulla dell’onice né udito quella terribile voce accusatrice. «Ancora non mi spiego perché sei voluta entrare in quell’orrendo negozio! Era così sporco…» Percorsero il vialetto all’inverso. Sotto il portico Stylo leggeva un libro e raccoglieva cucchiaiate enormi di una crema verde pistacchio da una ciotola. Sorrise a Odyssea e osservò truce la sorella. «Guarda quanto mangia», sussurrò Lindia, facendo una spietata imitazione della sua pinguedine, gonfiando le gote e parlando come se avesse una noce in bocca. «La mamma ha dovuto allargargli ancora i vestiti con un Incantesimo Rattoppante!» Entrarono in casa, seguite dalle saette al veleno che lampeggiavano negli occhi di Stylo e si trattennero a chiacchierare sedute su un divano vicino all’ampia scalinata. «Hai letto cosa è successo l’altra notte?» esclamò Lindia eccitata. «Che cosa orribile! Vicino alla Fontana dei Tre Cancelli, hanno trovato un altro mago morto! Sul giornale c’era un’immagine da far rabbrividire. Anche in questo caso il corpo era talmente… come dire… rinsecchito… che non l’hanno riconosciuto subito.» «Ma com’è possibile?» chiese Odyssea. «Non avevano messo delle sentinelle… delle…» «Le Manguste Guardiane! Sì, mio padre ha detto che sono molto sensibili a percepire le situazioni di pericolo, a loro non importa chi sei, sentono solo le tue intenzioni, e se non sono convinte, gridano e gridano e gridano come matte. Be’, pare che l’altra notte in effetti abbiano dato l’allarme!» «E allora?» «Tutti sono andati a vedere dall’altro lato del villaggio, verso il bosco, dove quelle orrende creature pelose avevano strillato, ma non c’era nulla, e intanto alla Fontana dei Tre Cancelli… Mio padre dice che Squartavene ha bisogno di nutrirsi, che tutto quel tempo nell’Antro l’ha spossato, ma quando sarà abbastanza forte…» «Lindia! Ti ho detto che non voglio sentirti parlare di certi argomenti!» La signora Mou, in un completo grigio perla con maniche a campana, i capelli acconciati in uno chignon e la bocca dipinta di rosa malva, avanzò verso le ragazze. «Scusa mamma, ma Odyssea non ne sapeva nulla.» «Anche questo è male», affermò Blanca Mou, con voce tagliente, guardando fuori dalla finestra con apparente aria distratta. «È necessario essere informati e aggiornati su ciò che accade intorno a noi, ed è importante quasi quanto andare a scuola. E tu, da che scuola provieni?» Odyssea arrossì. Nei lunghi anni di viaggi, sua madre non l’aveva mai voluta iscrivere a una vera scuola. Sarebbe stato assurdo visto che non si fermavano mai in un posto per più di due mesi. Le aveva fatto lei da maestra, con una pazienza insolita, le aveva permesso di frequentare le biblioteche delle città in cui avevano soggiornato, e Odyssea aveva letteralmente divorato pagine su pagine di volumi di ogni genere. Ma la scuola… non sapeva nemmeno come fosse fatta. Per fortuna, Joyce la salvò da un imbarazzante interrogatorio. Odyssea provò un’immensa felicità nel vedere il suo viso accaldato apparire all’ingresso, con la borsa ancor più traboccante e una nuova gerla che sembrava muoversi da sola come una gigantesca farfalla. «Cos’hai lì dentro?» chiese Odyssea, indicando la sacca. «Ho comprato qualche etto di Trucioli Tremolanti.» Si congedarono e uscirono fuori. Il sole, perpendicolare sulle loro teste, tracciava ombre sparute sulla strada. A un tratto, dopo una curva, Odyssea vide uno strano essere. Era una via di mezzo tra un topo gigante e uno scoiattolo smilzo, e se ne stava immobile con le zampe anteriori sollevate, mentre col naso appuntito fiutava l’aria intorno. Gli occhietti scuri ruotavano vorticosamente, rivolti verso l’alto, nella posa assorta di un cieco che cerchi l’ispirazione al di là del visibile. «Una Mangusta Guardiana. Sorridi e non pensare a nulla», le sussurrò Joyce. Passarono dinanzi alla Mangusta, che le puntò con uno scatto lesto da animale selvatico. Joyce aveva un sorriso forzato stampato sul viso, e si esibiva in continui inchini, accompagnando il tutto con ripetuti gesti di saluto con la mano. Odyssea levò gli occhi incuriositi su quel corpo scarno, scuro come una castagna bruciata, e notò che la Mangusta si muoveva per brevi tratti con una velocità impressionante, andando avanti e indietro, avanti e indietro, come lanciata e trattenuta da un elastico. L’animale le annusò finché non svoltarono l’angolo, continuando quel movimento che sembrava la cosa più vicina al moto perpetuo. «Ogni volta che passo loro vicino, le saluto», squittì Joyce. «Oh… ma che sciocca! Per la fretta di venirti a prendere ho dimenticato di comprare la polvere da sparo!» «A che ti serve, Joyce? Vuoi far saltare in aria la casa?» «Oh, ma che dici? Me ne guarderei bene! La nostra bella casa! No, in verità me ne serve proprio un pizzico, un grammo esatto, altrimenti come faccio a far andare in ebollizione la Sciacquamorti?» «Che?» «Non preoccuparti, è solo la mia speciale tisana, ottima per tirar su chi è imbarazzato di stomaco. È sempre bene averne in casa, non si sa mai.» Deviarono verso una stradina che, attraverso una ripida scala in discesa, larga non più di un metro, conduceva sotto una specie di ponte. Odyssea e Joyce scesero un gradino alla volta, in fila indiana, tenendosi alla parete per non scivolare, e giunsero infine innanzi a un largo spiazzo sotto un’arcata di pietra, in un negozio praticamente all’aperto. Sotto un tendone rigido con un grande buco nel soffitto, il bottegaio vendeva i suoi prodotti estraendoli da una ghiacciaia orizzontale. Un’insegna scarabocchiata su un pezzo di cartone tagliato a sghimbescio recava la scritta Mastro Piricum, ingredienti garantiti per pozioni speciali. E in quello strano negozio sotto il cielo, esattamente nel punto in cui il sole proiettava un cilindro di luce, c’era Jacko. Odyssea sobbalzò nel riconoscere le sue spalle larghe e i capelli sparpagliati come tentacoli. Una vampata le arrossò il viso e il collo, e fu ben felice che nessuno la stesse osservando. Rimase indietro, mentre Joyce si avvicinava al bancone e scambiava alcune parole con l’anziano venditore, un tipo calvo con irsute sopracciglia che parevano bruchi pelosi. Jacko si girò appena e la riconobbe, dedicandole un vago cenno col capo. Poi si mise in tasca un pacchetto di carta opaca, nello stesso scomparto in cui alcune notti prima aveva nascosto la scatola con l’onice nera. Quando si voltò, puntò dritto verso di lei, che se ne stava in piedi vicino alla scala, con un’enorme borsa su un braccio e la sacca dei Trucioli Tremolanti che tentava di spiccare un balzo, fermata tra le gambe leggermente divaricate. «Vuoi che ti aiuti?» le domandò avvicinandosi. Odyssea era furibonda e felice. Come due sentimenti così diversi potessero albergare in lei nello stesso istante non sapeva proprio spiegarlo. Il ricordo del racconto di Lindia, però, fece prevalere la furia. «Ti ringrazio», replicò irritata. «Ma io e Joyce ce la caviamo molto bene da sole.» Jacko aggrottò la fronte. «Credevo fossi malata», le disse, con una voce che cominciava a diventare cupa. «E perché?» Odyssea provò a mantenere un’espressione composta, ma con tutto quel frastuono di sentimenti riuscì solo ad apparire acida. «La scuderia è troppo lontana per te?» chiese Jacko, e ogni parola era un ceffone, un ritorno del ragazzo ostile e aggressivo che aveva conosciuto un secolo prima. «Invece la casa di mia nonna è troppo vicina per te. Forse preferisci spostarti un po’ di più», gli rinfacciò lei con durezza. Sapeva di non avere alcun diritto di rivolgersi a lui con quel tono, ma era offesa, e delusa, e infelice, e diabolicamente gelosa. Jacko forse aveva colto l’allusione poiché dichiarò: «Ah, capisco. Devo sentirmi controllato?» Infine, dopo un interminabile silenzio, senza degnarla di altra considerazione se non una specie di muto disprezzo, salì rapido la scala e sparì. Odyssea sentì il mondo che le crollava addosso. Avrebbe voluto accasciarsi sul selciato, rintracciare un tombino e strisciare via come un rivolo di acqua sporca, tanto le tremavano le gambe e il cuore e i capelli e i pensieri. I Trucioli sfuggirono alla sua stretta e presero a compiere brevi balzelli nella sacca di tela. Odyssea li inseguì e li bloccò, acchiappandoli come uccelli dal volo radente. Joyce ritornò in quel momento: «Possiamo andare, sei pronta? Un grammo esatto. No, non metterla nella sacca dei Trucioli Tremolanti, nell’altra, grazie, altrimenti diventano segatura». Quando salirono la scala, a Odyssea parve più ripida e faticosa della parete nuda di una montagna. Giunte in cima Joyce le rivelò: «Hai visto Jacko O’Donnell? Sai cos’ha comprato? L’ho visto con questi occhi. Ben tre grammi di Polvere Capitale. Tu lo sai cosa si fa con la Polvere Capitale? Un mucchio di pozioni pericolose. Un siero paralizzante come minimo, e in dosi maggiori anche un veleno letale. Lo dirò subito ad Augusta. Oh, la cara Augusta, è così ingenua…» Odyssea percorse la strada del ritorno con l’ansia e la speranza di rivederlo. Ma lui non c’era. Entrò in casa, tormentata dalla paura che la sua amicizia con Jacko fosse irrimediabilmente compromessa. LA BIBLIOTECA SCOLASTICA «Odyssea, mi stai ascoltando?» La voce di Augusta la riscosse dai suoi pensieri. «Oh, sì… ehm… stavi dicendo?» «Non voglio essere insistente quanto Joyce, però ha ragione quando dice che sei più magra ora rispetto a quando sei arrivata. Non stai bene?» Odyssea scosse il capo con decisione. Cercò, per quanto possibile, di apparire convincente. Sto benissimo, avrebbe voluto dirle. A parte il fatto che molto probabilmente un mostro mi sta cercando per uccidermi e non so nemmeno perché, a parte il fatto che sono tre notti che sogno lo stesso mostro che mi insegue gridandomi contro le cose più allucinanti, a parte il fatto che nutro i sospetti più terribili su mio padre, a parte il fatto che alla Fornace Fiammeggiante abbiamo rischiato la vita per niente, a parte il fatto che Jacko è innamorato di Lindia e io mi sento morire… a parte questo, sto benissimo! Avrebbe voluto rispondere così, ma preferì dire: «Ho solo un po’ di mal di testa. Non preoccuparti». «C’è qualcosa di cui vuoi parlarmi?» No, non avrebbe detto nulla a sua nonna, e a nessuno, mai. Non poteva rivelare ad anima viva il groviglio di incubi a occhi aperti che la tormentava. In quello strano momento, in cui sentiva la vita scorrerle intorno ovattata e distante, l’unico conforto le veniva dalla sua dolce compagna di stanza. Fagola cantava a lungo, e le volava sempre vicino, e spesso, risvegliandosi al mattino, se la trovava adagiata sul naso, come se avesse scelto di non lasciarla sola. Rifugiarsi nel mondo innocente dell’infanzia che non c’era più, fu la sola cosa che le consentì di non crollare. Portò in camera dalla soffitta l’album di nozze dei suoi genitori. Suo padre e sua madre erano così giovani e radiosi in quelle immagini lontane. Nelle fotografie riconobbe la nonna, che teneva Grace a braccetto e indossava un abito color camomilla e un buffo cappello, con una veletta bucherellata che sembrava un sipario rosicchiato da un topolino. Riconobbe Joyce, e la individuò grazie agli inconfondibili abiti gonfi di svolazzi e merletti, sebbene in quei vecchi scatti fosse molto più magra, e al posto dello chignon portasse lunghe ciocche morbide e un unico boccolo civettuolo incollato alla fronte. Riconobbe il signor Mou e il signor Thomasson, ma non vide le loro mogli, l’algida Blanca e la spigolosa Ginestra. Probabilmente all’epoca non erano ancora sposati. Il signor Thomasson era cambiato: appariva più smilzo, e la barba, ora ispida e folta, era solo un velo castano. Riconobbe il signor Angel, insieme a una donna che doveva essere sua moglie, una signora piccola e bruna, con un viso aguzzo da furetto. Hamlet Angel stringeva energicamente la mano di un uomo che posava accanto a lui, alto, imponente, con un abito scuro con bottoni di madreperla. Odyssea non ebbe dubbi: era il padre di Jacko. Occhi scuri, una bella bocca, lunghi capelli bruni e selvaggi. Quello era l’uomo che poi era stato esiliato in eterno nel Maniero di Blackhole. Charlie O’Donnell. Il traditore. Tuttavia, non poté non notare il modo cameratesco con cui Hamlet gli si affiancava, come un amico. Un amico che pochissimo tempo dopo lo avrebbe fatto condannare senza alcuna pietà. Se l’amicizia non aveva permesso al suo onore di concedergli qualche attenuante, pensò Odyssea, allora i crimini di Charlie O’Donnell dovevano essere stati superiori a qualsiasi spaventosa immaginazione. Eppure non riusciva a liberarsi dall’antipatia istintiva che le suscitava il signor Angel, con le sue maniere affettate, il tono superbo e lo sguardo, che dardeggiava anche da quella fotografia, duro nonostante il sorriso. C’era qualcosa di forzato in lui, la sua aria cordiale pareva più una posa deliberata che un atto spontaneo. Accanto al padre di Jacko, in un lungo abito di seta blu, c’era una donna bellissima, con un manto di capelli neri e brillanti, occhi scuri cinti da ciglia color cioccolato. Al collo risaltava un pendaglio molto simile al Monile dei Pensieri di sua mamma. Odyssea ebbe la certezza che si trattasse della madre di Jacko. Davanti a lei, seduta su una sedia ornata di nastri bianchi, una bambina di circa dieci anni, con una smorfia scontrosa sulle labbra, teneva gli occhi bassi, le gambe ciondoloni e le punte dei piedi rivolte in dentro a formare un angolo. Era terribilmente sgraziata nel suo abito elegante, che le crollava addosso come una federa stropicciata e informe, enfatizzato dalla postura ricurva. Pareva infastidita dal fotografo, ma a dispetto dell’antipatica ritrosia che trasudava dal suo viso, le suscitò un’istintiva compassione. Quella ragazzina, con la mano della madre sul capo come un’aureola, non poteva che essere Breta. Anche lei una traditrice, morta per mano del suo malvagio complice. Eppure, sia lei che il padre avevano un’aria così… così innocente. Cos’era successo, poi? Se loro avevano potuto macchiarsi di colpe tanto gravi, allora chiunque avrebbe potuto. Questo pensiero le fece male, e le venne subito in mente suo padre. Chiuse l’album con un colpo secco. Dal cassetto del comodino tirò fuori l’agenda con la copertina nera. Aveva cercato più volte di interpretare quella grafia arricciata e quelle lettere fittissime, ma erano le parole a non significare nulla, come se appartenessero a un’altra lingua. L’unica cosa evidente era l’assenza di due pagine, le ultime, che sembravano essere state strappate in modo frettoloso. Dentro l’agenda, inoltre, c’era un foglietto volante, che a sua volta pareva essere stato diviso malamente a metà. Nella metà rimasta c’era un disegno a matita. Aveva tutta l’apparenza di una mappa, e s’intuiva il profilo stilizzato di un palazzo con torri merlate, un recinto d’alberi sullo sfondo e tutt’intorno un fiumiciattolo che tagliava l’immagine, continuando probabilmente il suo percorso nella parte di foglio mancante. Odyssea non aveva la più pallida idea di cosa si trattasse. Quell’agenda e il suo contenuto rappresentavano un vero e proprio mistero. Aveva chiesto aiuto alla nonna, con fare vago e indifferente. Aveva alluso alla pergamena del diploma di suo padre, che le era parsa scritta nella stessa incomprensibile lingua. Non desiderava spiegare di voler spiare tra i suoi appunti per capire che tipo di persona fosse realmente. Temeva le informazioni che potevano esservi contenute e temeva soprattutto che il dubbio che la angosciava potesse rimanerle stampato sul viso, oltre che nel cuore. «Sì, mia cara, hai ragione», le aveva confermato Augusta. «Per i documenti importanti si usava ancora l’antico Idioma Remoto. Temo che i libri di Charlton in proposito siano un po’ troppo tecnici. Lui conosceva così bene l’Idioma Remoto! A scuola ne insegnano qualche rudimento, ma solo agli studenti dell’ultimo anno. È una lingua difficilissima da apprendere. Io un po’ la conosco, se vuoi…» «Oh… no… preferisco divertirmi a capire da sola. E se volessi interpretare ciò che c’è scritto nel diploma?» «Credo che l’unico modo sia servirti della biblioteca della scuola. Lì certamente avranno qualche dizionario di facile consultazione. Ne parlerò con Pericle. Sarà felice di esserti d’aiuto.» E pensare che aveva promesso a Jacko che gli avrebbe portato l’agenda. Ma era stato prima di quel pomeriggio in cui aveva recitato la parte della fidanzatina gelosa che stava quasi per fare una scenata patetica, facendolo fuggire a gambe levate. Prima di capire che doveva cavarsela da sola. Quella sera, nel suo letto, si addormentò, implorando di non sognare. *** Il signor Thomasson era in piedi davanti all’ingresso della scuola, con la fronte arrossata, in preda a una grande agitazione. Dinanzi alla richiesta di Augusta, la disponibilità del preside aveva superato ogni più rosea aspettativa e, dopo appena un giorno, Odyssea si trovava nella piazza con l’unicorno di marmo di fronte al palazzo più maestoso di tutti, su cui era incisa la scritta: Emerita Scuola Superiore di Magia Applicata. Sul portone, un batacchio di ottone a forma di grosso gufo se ne stava immobile con un’espressione pensierosa e sapiente. Davanti all’edificio, alcuni giovani con tute da lavoro verde menta erano intenti a trasportare un certo numero di casse recanti la dicitura Incunaboli. «Maghi provetti», ridacchiò Augusta che l’aveva accompagnata. A Odyssea non ci volle molto per capire cosa intendesse. Dopo aver fatto galleggiare le casse a mezz’aria come palloncini pieni di elio, i ragazzi le lasciavano cadere sull’acciottolato con tonfi pesanti e sbadati, e qualcuno vi si sedeva addirittura sopra con noncuranza per riprendere fiato, sebbene non avessero fatto alcuna fatica, a parte quella di pronunciare la formula – sbagliata – dell’incantesimo. «Oh, come soffro… Questi testi sono così preziosi…» gemeva il signor Thomasson, osservando una cassa che aveva appena cozzato contro la parete. «Vi prego, fate più attenzione! I miei libri!» «Sì, certo», rispose sbadigliando uno dei ragazzi, dando un vigoroso calcio a un’altra cassa per farla entrare dal portone d’ingresso. Quando le vide arrivare, Pericle si stava tamponando la fronte con un fazzoletto grande quasi quanto un lenzuolo e sussurrò: «Augusta cara… ed ecco tua nipote… prego, entrate… Io devo controllare… arrivo subito…» Odyssea seguì sua nonna all’interno e, varcata la soglia, si ritrovò nell’atrio. Su una parete tanto lustra da sembrare uno specchio risaltava un’enorme targa bronzea con eleganti caratteri scolpiti. Al centro distinse chiaramente il nome di suo padre. In ricordo e lode di CHARLTON PHILIP BENNET, un mago eccelso e un uomo sublime, che donò la vita per amore della sua famiglia e della sua città. Funga da imperituro esempio per i giovani che ivi imparano i segreti della conoscenza. Arrivandole alle spalle e notando la sua commozione, Pericle si lasciò andare a una valanga di accalorati commenti su colui che definì un amico mai più ritrovato, lamentando la perdita subita da Wizzieville dopo i gravi fatti di dodici anni prima. «Ma mia cara…» la invitò, «sto divagando… non sai che piacere vedere una giovane interessarsi alla biblioteca, ormai i ragazzi ne fanno un uso discontinuo e solo perché obbligati dai programmi scolastici.» Quindi salutò Augusta che, come disse, sarebbe tornata a prenderla di lì a un’ora. Odyssea e il signor Thomasson s’incamminarono lungo un corridoio di marmo azzurro, sul quale si affacciavano le porte delle aule. Erano tutte diverse, alcune imponenti, tirate a lucido come scarpe di vernice, altre più piccole, ricoperte da vetrate, altre talmente impolverate e scorticate da apparire decisamente fuori luogo in quell’ambiente ordinato. Su una scaffalatura, in mezzo al corridoio, spiccavano decine di coppe d’argento, e a Odyssea parve di riconoscere su tutte l’incisione di una barca a sei remi che tagliava un traguardo. Brillavano quasi, esaltate dalla luce che penetrava dalle finestre a forma di nicchie semicircolari, al di là delle quali s’intravedeva un parco pieno di panchine sparpagliate. Una delle ultime stanze in fondo era la biblioteca. La porta era così alta da sembrare predisposta per il passaggio di un gigante coi trampoli. Quando entrò, Odyssea emise un sospiro ammirato. Di tutte le biblioteche che aveva frequentato nel Mondo-altrove nessuna possedeva tanta sontuosa eleganza. Era una sala enorme, con ripiani colmi di libri dai dorsi multicolori e balconate che seguivano l’intero perimetro della stanza, dividendola orizzontalmente in due metà. Dal soffitto pendevano tre grandi lampadari impreziositi da lunghi pendenti di cristallo. Numerose scrivanie erano disposte in fila, e su ciascuna c’era un mazzo di fiori, dentro un panciuto boccale di vetro. Non c’erano semplici sedie ma comode e capaci poltroncine di cuoio rosso, simili a gigantesche coccinelle. Dalle pareti, tra una libreria e l’altra, fuoriuscivano ampi cassetti quadrati con pomoli di ametista, sospesi in aria come le fiaccole nelle strade. «Posso lasciarla alla sua ricerca?» le domandò il signor Thomasson. «Certo, me la caverò», rispose Odyssea. «Sono nel mio ufficio, casomai avesse bisogno di aiuto», aggiunse Pericle Thomasson, facendo una piccola pausa prima del casomai, e lasciandole intendere che avrebbe gradito che quella circostanza non si verificasse. «Devo catalogare i libri che sono arrivati oggi… Sperando che non si siano danneggiati…» Un’espressione di autentico orrore passò sul viso tondo al solo pensiero di quella possibilità. Così dicendo, si allontanò velocemente, facendo ondeggiare la figura ingombrante. Rimasta finalmente sola, Odyssea raggiunse la libreria in fondo alla sala che Pericle le aveva indicato prima di andarsene. Era talmente alta da sfiorare il soffitto. In cima, una targhetta di ottone scintillante indicava: Lingue, Idiomi, Parole, Linguaggi. Intuì che quegli strani cassetti, attaccati al nulla, fossero degli schedari. Ne aprì uno, tirandolo dal pomello. All’interno, in rigoroso ordine alfabetico, c’erano centinaia di titoli disposti all’apice di sottili cartellette di pergamena rigida, i cui lembi erano tenuti insieme da cordoncini di seta bianca. Ne prese una a caso. La lingua dei Trogoli delle Lande c’era scritto sul talloncino. Dentro la cartelletta invece c’era una breve scheda informativa. Odyssea scoprì che i Trogoli erano creature biancastre straordinariamente basse e schiacciate, simili a timballi mollicci, che si estendevano tutte in larghezza, o meglio in piattezza, a ben vedere. Non le riuscì di capire, da quell’immagine che la scheda definiva «ritratta poco prima che il qui presente Trogolo colpisse il nostro disegnatore», dove fossero la bocca o i piedi o le mani, confusi in un marasma di forme insensate. Ripose la scheda con un sorriso e si mise a cercare ciò per cui era venuta. Un testo dal titolo Elementi di Idioma Remoto – Dizionario pratico, definito come un’opera facile e competente per chi volesse avvicinarsi alla conoscenza di quella nobile lingua, le sembrò facesse al caso suo. Quando sollevò il viso soddisfatta di aver trovato subito il libro giusto, però, rimase delusa. Dove poteva essere? Non c’era nessun codice e, anche se vi fosse stato, da lì allungando un braccio poteva arrivare solo ai primi due scaffali. E quelli più in alto? Non c’erano nemmeno delle scalette intorno. «Serve aiuto?» disse un’improvvisa voce femminile alle sue spalle. Quando Odyssea si voltò, tuttavia, non vide nessuno. Poi, strizzando gli occhi, tra sé e lo scaffale di fronte, scorse una ragazza seduta sul bordo della scrivania con le mani in grembo. Aveva capelli lunghi color cenere, un abito largo e spumoso, e ai piedi calzava scarpette da ballo, disposte a punta, come se danzasse. Sulle prime pensò a un’eccentrica studentessa che preferiva la biblioteca alle vacanze estive, ma osservandola attentamente si rese conto che in lei c’era qualcosa di strano. Era pallida, magrissima, anzi, a essere precisi era… trasparente… Non era fatta di carne e sangue ma… d’aria. Se ne stava graziosamente accomodata, pareva vapore acqueo a forma di signorina, brezza addensata, fumo grigio con le caviglie accavallate e un sorrisetto esangue. Odyssea non ebbe dubbi, non poteva che trattarsi di… di uno spettro! Al centro della fronte, appena sotto la frangetta, uno squarcio rotondo, simile al foro lasciato da un proiettile di piccolo calibro, era contornato da una lieve bruciatura e un alone di sangue scuro. Ma non era il suo aspetto la cosa più sbalorditiva. La sua foggia impalpabile e la sua vistosa ferita erano nulla in confronto al gelo che sprigionava. La ragazza, forse inconsapevole di spargere intorno una sensazione di inverno perpetuo, le rivolse un sorriso. «Serve aiuto?» ripeté. «Mi occorre questo», sussurrò Odyssea, indicandole la scheda che stringeva in mano e indietreggiando, per sottrarsi al freddo. «Certo», rispose quella strana figura. Subito dopo si librò in aria, pur non avendo ali, e mantenendo lo stesso portamento da ballerina – schiena eretta, piedini a punta, braccia accostate in grembo, capo chino da un lato – raggiunse uno scaffale in alto, da dove estrasse un libro largo e sottile. Osservandola da dietro, Odyssea trattenne un grido. In mezzo al cranio, la cascata di capelli era svuotata e, in corrispondenza del foro sulla fronte, spiccava un altro squarcio, in cui grumi di sangue e brandelli di sostanza grigia, erano acciaccati sulla nuca come colla. Del tutto incurante del proprio aspetto, la ragazza planò sul pavimento e le porse il volume. Quindi, dopo un inaspettato «Ti siedi lì?», scostò lo schienale di una poltroncina e, con uno schiocco silenzioso delle dita, fece apparire una fiaccola che diffondeva un cerchio perfetto di luce azzurra. «Al tuo servizio», disse infine e, così com’era arrivata, mosse qualche passetto e si dissolse dentro una parete con una piroetta, lasciandosi inghiottire dal muro. Odyssea crollò sulla poltrona sbalordita e per un attimo parve quasi dimenticare il motivo per cui si trovava lì. Quando si riprese, estrasse l’agenda dallo zaino – da cui spuntava il rotolo di pergamena – e, guardandosi attorno sospettosa, come se temesse di essere spiata, cominciò a cercare sul dizionario alcune delle parole incomprensibili che suo padre aveva sottolineato più e più volte. Rialzò il viso ancora più confusa e perplessa. La faccenda continuava a non avere molto significato, nonostante la sommaria traduzione di alcune frasi. Poi le venne in mente che aveva un’ulteriore curiosità da soddisfare. Percorrendo la biblioteca con passi lenti, lesse con attenzione le targhette incise in cima a ogni scaffale, finché non trovò ciò che cercava. Vite e origini di maghi celebri. Dal cassetto estrasse la cartelletta sotto la voce Genealogia di Angus Ziggart. Ma l’involucro era vuoto, i due nastri di seta ciondolavano slacciati. «Serve aiuto?» La giovane bibliotecaria dalla consistenza di nuvola comparve offrendole di nuovo i suoi aerei servigi. Odyssea le mostrò la cartelletta. «Mi spiace, quel libro non c’è», rispose la ragazza senza nemmeno andare a controllare. Sembrava risoluta, per quanto fosse concesso di apparire tale a un fantasma col cervello spappolato. «Com’è possibile?» domandò Odyssea. «Non so», rispose quella. «Però il libro non c’è. Sono anni che manca.» «Può… può esserci una spiegazione… forse possiamo chiedere al signor Thomasson…» azzardò Odyssea. «Fai come credi, ma il libro non c’è.» Così dicendo svanì di nuovo nel muro con un plié. Odyssea sprofondò un’altra volta nella poltrona. Era così raccolta e concentrata che non si accorse subito del rumore. All’inizio fu nulla più della sensazione di un tuono. Si stupì, poiché la giornata era soleggiata e limpida. Ma poi, quando il boato si ripeté a distanza di qualche secondo, simile a un gigantesco colpo di tosse, comprese che non veniva da fuori. Era lì, dentro la scuola, un tuono dentro le pareti, un tuono in gabbia, molto più vicino di quanto le fosse parso al primo rimbombo. In quell’istante, un rintocco di passi pesanti si propagò sul pavimento di marmo e la libreria davanti a lei, come se una scossa di terremoto la stesse squassando, cominciò a tremare. I libri vibrarono: parvero denti da latte sul punto di cadere, poi intrapresero una danza isterica, schizzando via come proiettili, sbattendo contro i muri e i lampadari e gli scaffali. Odyssea balzò in piedi atterrita, rifugiandosi dietro la poltroncina e stringendo convulsamente le mani intorno allo schienale. Aveva il fiato corto per la paura, ma era nulla rispetto a ciò che accadde in quel momento: la libreria si squarciò in due, come se fosse attraversata da un lampo, e dai detriti provenne un suono simile al ruggito di un leone, una specie di grooarrr famelico. La polvere che s’era sollevata aveva riempito la stanza come nebbia di gesso. Odyssea tossì, sentendosi soffocare, il naso invaso da minuscole scorie di muro. Contemporaneamente lo spostamento d’aria la investì in pieno viso e la scaraventò contro la parete. Provò una fitta lancinante alla schiena mentre cadeva. Rimase a terra, con lo sguardo fisso sulla voragine completamente buia che si era aperta tra le due ali della libreria, gli occhi che bruciavano, la gola scorticata dalla polvere, in attesa spasmodica di qualcosa. Aveva l’impressione… la sensazione… di non essere sola. L’odore che le giunse poco dopo gliene diede la conferma. Gabbiani decomposti, aceto e spazzatura umida… non aveva alcun dubbio che fosse il respiro di Squartavene. All’improvviso, qualcosa di invisibile la afferrò. Si ritrovò sollevata a qualche metro dal suolo e percepì un’intensa trafittura a una spalla. Il braccio oscillò nel vuoto, come un elastico appeso a un argano, e un pugno la colpì sul viso. Il dolore fu così intenso che un conato di vomito le annebbiò la vista. Poi, chiunque la stesse bloccando, la lasciò andare. L’urto con il pavimento fu violentissimo. Odyssea si trascinò in un angolo e trattenne il fiato, così che il silenzio le permettesse di udire qualsiasi rumore nella stanza. Ma avvertì solo la scia soffocata del proprio respiro. Ora non pareva esserci più nessuno, forse il mostro incorporeo sputato dal muro era andato via… Ma si sbagliava. Squartavene aveva solo rimandato l’attacco. Nell’esatto istante in cui si precipitò verso la porta e l’aprì, mentre la nebbia sporca si diradava, la sua sagoma si levò come un’ombra bloccandole ogni via di fuga. Se anche avesse avuto dei dubbi sul suo carnefice ora era lì, davanti ai suoi occhi, alto e poderoso nel suo mantello nero. Entrò nella stanza e la porta si chiuse alle sue spalle. Odyssea non fece in tempo ad arretrare che un’altra spinta la fece sbattere contro una catasta di libri. La colpì ancora e ancora. Assaporò il gusto aspro del sangue in bocca, denso come sciroppo d’acero. E dolore ovunque. Ma insieme al dolore, avvertì il formicolare di una forza nascosta che cominciava a gonfiarsi dentro di lei: i poteri che giungevano a proteggerla. Non gli avrebbe permesso di ucciderla così facilmente, avrebbe lottato fino alla fine. Allora lo fissò, senza paura, piena di straordinaria energia, mentre il dolore e il terrore scomparivano, e la forza diventava uno scudo. Non fece nulla, si limitò a fargli comprendere che poteva resistere. Squartavene s’innalzò e rimase sospeso a parecchi metri dal suolo. Si produsse in un giro vorticoso color pece, facendo oscillare i lampadari, e poi si scagliò contro la porta chiusa. I battenti di legno piombarono a terra con un rumore assordante. Odyssea rimase dov’era. In attesa. Il mostro era uscito andando verso il corridoio e probabilmente a breve sarebbe rientrato per ricominciare. Attese… attese… attese. Ma udì solo il silenzio. Quando ebbe la certezza che non sarebbe più tornato, almeno per il momento, uscì dalla biblioteca e raggiunse di corsa l’inizio del corridoio dove si trovava l’ufficio del preside. Lo spettacolo che le si presentò davanti la fece inorridire. Nella stanza il disordine imitava quello della biblioteca. La scrivania era capovolta, i cassetti e i libri seminati ovunque. Perfino i diplomi e i riconoscimenti incorniciati erano a terra, le coccarde appallottolate come carta straccia. Pericle Thomasson non c’era. O almeno così credette all’inizio, fin quando non girò dietro la scrivania. Lentamente, spostandosi a passi misurati, le sembrò di scorgere un piede, un piccolo piede grassoccio chiuso in una scarpa a punta con una ghetta d’oro. Poi comparvero anche le gambe e le braccia e la testa. Quando lo vide, gridò portandosi una mano alle labbra: Pericle Thomasson era disteso coi capelli sparpagliati, il viso livido, i vestiti imbrattati di macchie scure, e il monocolo di vetro sbriciolato sul pavimento. Aveva il collo riverso da un lato, e tra l’orecchio e la gola una ferita profonda era scavata nella carne come il morso di un gigantesco serpente. Avvicinandosi ancora, udì un rumore acquoso, come se stesse calpestando uno strato di fango. Ma a ben guardare non era fango. Il preside galleggiava dentro un’enorme pozza scura. E quella pozza era il suo sangue. Odyssea arretrò, in fretta, troppo in fretta, e la foga la fece scivolare. Cadde a terra per l’ennesima volta, spalancando le mani per sorreggersi, e il sangue le s’infilò sotto le unghie, le sporcò i vestiti e le schizzò fra gli occhi. Quell’odore come di ferro arrugginito, vaniglia, carne cruda e chiodi di garofano, era così intenso che dovette trattenere un conato di vomito. Ebbe la sensazione di stare per perdere i sensi, e per qualche istante il mondo intorno si oscurò. Ma poi rinvenne. Doveva chiamare aiuto, doveva fare qualcosa… Barcollando si avviò verso l’uscita, aprì il portone e la luce del sole la accecò. L’ultima cosa che vide, mentre sveniva, fu il viso spaventato di Jordy Angel chino su di lei. IL SEGRETO DI JACKO Rimase a letto per parecchi giorni. Aveva l’occhio destro quasi completamente chiuso, la bocca gonfia, e un enorme livido purpureo le copriva metà del viso. Le doleva il corpo in ogni punto, anche i capelli sembravano farle male. E all’altezza delle costole un crampo insopportabile s’irradiava a ogni respiro. La nonna pareva invecchiata di colpo. Questa volta, non potendo addebitare la colpa al temporale o a qualche fortuito evento, preferì evitare l’argomento. Joyce saliva in camera sua molto spesso, ogni volta portando un vassoio d’argento sul quale, a seconda delle ore del giorno, c’erano tazze fumanti con densi liquidi bruni, bicchieri ricolmi di bevande fosforescenti, piatti pieni di pappette violacee, polpettine giallo sole, o altre strane pietanze da lei create. Un giorno era entrata tenendo tra le mani una piantina interrata in un vaso di coccio. Tra le foglie occhieggiava un fiore bianco. «È una Capturicula Dolensis, vedrai, ti aiuterà. È molto generosa, sai», le aveva detto sottovoce posando la pianta sul comodino accanto al letto. Sulle prime Odyssea aveva dubitato che una creatura vegetale dall’aria così fragile e delicata potesse esserle d’aiuto. Sembrava ben più agonizzante di lei. Ma dovette ricredersi. La mattina successiva ebbe la netta sensazione di stare meglio. Si girò e vide che la Capturicula aveva perso un petalo. E a mano a mano che passavano i giorni e il dolore si attenuava e anche respirare le riusciva più facile, la Capturicula continuò a seminare petali e foglie. Finché una mattina, aprendo gli occhi e sentendo il petto gonfiarsi sotto lo slancio di uno sbadiglio senza più percepire alcuna fitta, vide che la Capturicula era appassita. Se ne stava lì, col fusto completamente molle e la corolla avvizzita, sporta fuori dal vaso, come una piccola testa affacciata al di là di un balcone. Odyssea chiamò a gran voce Joyce, che accorse in fretta e furia. Quando capì il motivo di tanta concitazione, sorrise debolmente. «Non preoccuparti, era il suo destino. Quando i bambini stanno male si mettono queste buone piantine vicino ai loro letti. Si caricano dei loro dolori e appassiscono quando il bambino è guarito…» Della dolce, triste spiegazione di Joyce, a Odyssea non piacque l’allusione ai bambini. Lei non era una bambina, non più. Le bambine non combattevano contro i mostri e, soprattutto, non sopravvivevano. *** Entrando nella stanza, la nonna la trovò giù dal letto che frugava nel baule. Aveva lo zaino in mano e un’espressione preoccupata. «Che fai?» le chiese. «Dov’è il contenuto del mio zaino?» «Non lo so… Quando Jordy ti ha soccorso e ti ha portato a casa aveva con sé anche lo zaino ma… Cosa stai cercando di preciso?» Odyssea tacque per qualche secondo. Non voleva dirle nulla dell’agenda piena di strani caratteri oscuri, l’agenda che forse conteneva le prove che suo padre era stato un complice di Squartavene. L’agenda che adesso era sparita. Tuttavia, quando scorse il rotolo di pergamena ingiallita, motivo ufficiale per il quale era andata in biblioteca, affacciato oltre la pattina ondulata dello zaino, capì che doveva desistere. «Ah… scusami nonna… ecco qui», disse timidamente, indicando il diploma. «Torna a riposare adesso», le suggerì Augusta, ma Odyssea si rifiutò. Era stanca di stare a letto, si sentiva bene. Soprattutto voleva sapere cos’era successo. E questa volta si aspettava di ricevere le risposte che voleva. Augusta si arrese. Le ribadì che era stato Jordy Angel a dare l’allarme. Si erano incontrati in piazza e, appena aveva saputo che Odyssea era in biblioteca, aveva deciso di raggiungerla. Aveva bussato e battuto tante e tante volte, ma il batacchio non si era mosso, il gufo era rimasto immobile. Poi aveva udito rumori e grida e gli era sembrato che l’edificio tremasse. E all’improvviso Odyssea gli era caduta tra le braccia spalancando il portone. Pericle Thomasson non era morto, ma era stato quasi completamente dissanguato. L’avevano portato d’urgenza all’ospedale, ed era ancora sospeso a un filo, tra la vita e la morte. La scuola era tutta sottosopra. Augusta le disse anche che molte persone erano venute a chiedere come stava. Jordy era passato quasi tutti i giorni, e Lindia insieme al padre, e molti altri abitanti che si trovavano sulla piazza quando Jordy l’aveva presa in braccio e portata a casa svenuta e sanguinante. Odyssea non riuscì a tenersi tutto dentro: il bisogno di confidarsi, almeno in parte, ebbe la meglio sulla sua discrezione. Così, raccontò alla nonna cos’era successo. E le raccontò anche di quel giorno con Lindia, e dell’incubo che rievocava i fatti di dodici anni prima. Ma preferì non rivelarle nulla della voce che la perseguitava con orribili accuse su suo padre, dell’onice e di tutto ciò che era derivato da quella scoperta. Tacque soprattutto di Jacko e del loro viaggio notturno alla Fornace Fiammeggiante. Quando ebbe finito di parlare, la nonna la abbracciò forte. «Odyssea», le disse. «Al di là di tutto il male che hai vissuto, ti prego, rifletti su una cosa. Hai lottato contro Squartavene per ben tre volte e sei ancora con noi per raccontarcelo. Capisci quale dono immenso hai? Lo capisci? Quali meravigliosi poteri hai in te, quale forza sconosciuta… Oh, come aveva ragione tuo padre!» «Mio padre pensava che io… che avessi i poteri?» «Sì, lo credette fin da subito, fin da quando eri in fasce. Era certo, assolutamente certo. Diceva che avreste fatto grandi cose insieme. Non te l’ho detto prima perché non sapevo, non ero sicura, ma ora…» Odyssea avrebbe voluto rallegrarsi, ma non riusciva. Avere i poteri non poteva considerarsi un vanto, non quando c’era il sospetto che favorissero la complicità con un mostro. Grace, intanto, era tornata del suo umore peggiore. Si aggirava per casa, taciturna e scontrosa, e ogni volta Odyssea aveva la sensazione di imbattersi in una belva in gabbia, pronta a sbranare chiunque avesse osato infilare una mano tra le sbarre, anche solo per farle una carezza. Gli eventi che si erano susseguiti a brevissima distanza l’avevano persuasa della necessità di andare via da Wizzieville. Odiava quel posto ancor più di prima. Tornare era stato un gravissimo errore. Un pomeriggio entrò nella sua stanza con occhi irascibili e gelidi, dichiarando che l’indomani avrebbero lasciato la città. Le aveva parlato come se si trovassero in una delle tante case provvisorie nelle quali avevano fatto tappa fuori di lì, e la comunicazione della prossima fermata non potesse provocarle alcun particolare turbamento. Odyssea era fuggita col cuore a pezzi, urlandole contro e rifiutandosi di fare le valigie come le aveva ordinato. Era disperata, infuriata, e corse fino a raggiungere la scuderia. La speranza di incontrare Jacko, però, evaporò immediatamente. Non c’era nessuno, neppure i cavalli. Quella desolazione aprì in modo definitivo la falla nella sua anima. Si sedette sulla panca di legno e scoppiò a piangere e a singhiozzare in preda a un dolore intenso come una coltellata. In quel momento odiava tutti, tutti quanti, tutti quelli che non sapevano amarla come avrebbe voluto. Odiava anche Jacko, per il quale lei non contava più di quanto contasse un sasso nella terra smossa del recinto. Poi, pian piano, i singhiozzi si placarono trasformandosi in un respiro sempre più lento, e così si addormentò. Quando si risvegliò, la prima cosa che vide fu il buio. Ebbe la sensazione di non essere più rannicchiata sulla rigida panca dentro la scuderia, ma sdraiata su un vero e proprio letto. Avvertiva sotto la schiena la cedevolezza di un materasso, e un ammasso di lenzuola stropicciate. Da sotto una porta alla sua sinistra proveniva un sottile bagliore, un fragile rettangolo biancastro, che gravava sul pavimento come un serpentello disteso. Doveva essere una stanza non molto grande, percepiva quasi il peso delle pareti, e l’aria odorava di vaniglia, forse di fiori freschi, e di chiuso. Per un attimo ebbe il terrore che sua madre l’avesse portata via di nascosto, mentre dormiva, e che quella fosse un’altra delle innumerevoli maledette case in cui avrebbe dovuto vivere da ora in poi. Ma come avrebbe potuto? Poi, strizzando gli occhi, le parve di vedere qualcos’altro. C’era qualcuno. Dinanzi a lei, quasi risucchiata da una poltrona voluminosa, c’era una donna seduta. Ma non era sua madre. E non era sua nonna. E nemmeno Joyce. Il volto sembrava annegato nel buio, come se oltre il collo non ci fosse nulla a parte l’abito bianco e i capelli lunghi e sciolti. Ma ciò che più la colpì di quella figura immobile fu la sua impressionante magrezza. Le braccia penzolavano rinsecchite dai braccioli, e la gonna si adagiava sulle gambe mettendo in evidenza due ginocchia ossute e quasi aguzze. Forse era un manichino o forse… Fu allora che lo stupore cominciò a cedere il passo alla paura. Quando la donna si mosse nella sua direzione, Odyssea balzò in piedi sul pavimento, con le braccia aperte per mantenere l’equilibrio. «Dove sono? Chi sei? Cosa vuoi da me?» Ma la figura non rispose e continuò ad avanzare. Odyssea trattenne il fiato, poi indietreggiò cadendo sul letto. Contemporaneamente, dalla stanza accanto udì il rumore di una porta sbattuta. Non può essere Squartavene, si disse, tirando su le gambe e appiattendosi contro la parete, mentre un milione di pensieri si affastellava nella sua mente. Il cuore le batteva forte come quello di una preda braccata. Era ancora troppo debole, troppo ferita, ma si sarebbe difesa. Aveva combattuto contro Squartavene e avrebbe combattuto contro chiunque altro. Trasse un profondo respiro e pensò intensamente ai poteri, all’energia che la invadeva, fino a quando iniziò a sentire la calda vibrazione che preannunciava la battaglia. La donna stava per toccarla e il suo volto emerse dal buio, un volto esangue, in gran parte coperto dai capelli, un volto senza età. Fu questione di un attimo. Odyssea allungò la mano e dalla punta delle sue dita cominciò a propagarsi un’onda. Nello stesso istante in cui la donna le sfiorò una gamba, nello stesso istante in cui Odyssea stava per colpirla, qualcuno spalancò la porta. Dopo tanto buio la luce improvvisa la abbagliò. Chiuse gli occhi per un secondo, un secondo soltanto. Quando li riaprì, pronta a difendersi, vide Jacko sulla porta, con il viso trasformato da un’espressione di autentico terrore. E udì Jacko che gridava: «Fermati, Odyssea, non colpirla! È mia sorella!» *** Le sembrò di vivere un sogno, di quelli così vividi che lasciano al mattino una sensazione di stordimento, insieme all’incapacità, per qualche attimo, di separare la realtà dall’immaginazione. Vide Jacko che si avvicinava a Breta e la abbracciava dolcemente, chinandosi su di lei come se volesse raccogliere un fiore. Vide Breta che si lasciava condurre fuori senza opporre resistenza, rivolgendole uno sguardo intimidito. Vide se stessa con le spalle alla parete, stupita e sconvolta al punto da non riuscire a muoversi né a respirare. Come poteva trattarsi di Breta? Breta era morta, lo sapevano tutti, era stata uccisa da Squartavene dodici anni prima! Come poteva essere lì, in quella casa? Eppure, l’aveva vista. Era proprio lei. Quando Jacko l’aveva portata via, l’aveva riconosciuta. Ciò che al buio le aveva fatto paura, in realtà era solo una donna dall’aria malata, con indosso un vestito troppo grande, e gli occhi scavati da una sofferenza infinita. Era la stessa ragazzina scontrosa della foto di nozze dei suoi genitori, solo più adulta. E non era un fantasma. Era viva. Odyssea scese dal letto e cautamente uscì dalla stanza. Attraversò un breve corridoio col pavimento di legno scuro sul quale si affacciavano due porte chiuse e si diresse verso quello che intuì essere l’ingresso dell’abitazione. Quando arrivò in fondo riconobbe la casa. Rimase sulla soglia, dubbiosa su cosa fare, finché udì la voce di Jacko: «Entra, dai, non fare la scema». Breta era seduta su una sedia dinanzi al camino, acceso nonostante la stagione calda, e teneva in grembo un bicchiere colmo. L’acqua tremava dentro il calice, trattenuto fra due mani malferme. Jacko, intento a farle una carezza sui capelli, dava le spalle alla porta. «Non voleva farti del male», sussurrò alimentando il fuoco e spostando i ciocchi con un semplice gesto della mano. «Ha detto che ti ha trovata addormentata nella scuderia e ha pensato di portarti nel suo letto. Non ho idea di come abbia fatto.» A quel punto si voltò. Non appena la vide spalancò gli occhi, e poi li strizzò, come se volesse mettere a fuoco un’immagine. Odyssea non capì subito il perché di quell’espressione, poi al ricordo della sua faccia pesta, chinò il capo per la vergogna. Se non fosse stata blu e viola per via dei lividi, lui l’avrebbe vista senz’altro arrossire. «Cosa ti è successo?» chiese, andandole incontro preoccupato. «Oh, niente, solo una piccola schermaglia con un nemico un po’ impetuoso», cercò di scherzare. « Lui… ti ha ridotta così?» «Grazie del complimento», mormorò, continuando a tenere la testa bassa. «Non ti aveva mai colpita fino a ora.» Uscirono dalla casa, dopo che Jacko ebbe raccomandato a Breta di non muoversi. La ragazza rimase immobile e non proferì alcuna parola. L’unico segno che era viva e aveva colto la sua esortazione, fu un cenno del capo, così impercettibile che avrebbe anche potuto essere casuale. Nel lasciarsi accarezzare dalla luce del giorno, tenuta fuori da quella casa come un malato contagioso, Odyssea si sentì meglio. O forse era la presenza di Jacko a rasserenarla, unita alla consapevolezza di aver scoperto qualcosa sulla sua vita, che gli altri ignoravano. Quando rammentò la minaccia di sua madre, tuttavia, le parve di nuovo che il cielo le gravasse sulla schiena. Era terribile aver svelato qualcosa di così straordinario, nello stesso giorno in cui avrebbe dovuto cominciare a dimenticarsene. Jacko si sedette sul bordo della staccionata e le indicò il tronco tagliato. «Dimmi tutto», la invitò. «Io credo che… ehm… debba essere tu a dirmi tutto per primo», osò Odyssea. Era dell’avviso che, tra le due novità, quella che la riguardava fosse abbastanza scontata, abbastanza ordinaria da passare in secondo piano, lasciando il posto d’onore a Breta e ai misteri della sua impossibile esistenza. Non era certa che lui gliene avrebbe parlato. Avrebbe potuto rifiutarsi, ordinarle di stare zitta, accusarla di avere le allucinazioni e scacciarla. Ma Jacko la sorprese. Annuì, adagio, togliendosi i capelli dal viso. Sembrava stanco, e una ruga profonda gli solcava la fronte. Ma non si sottrasse. «Io… suppongo di dover tornare indietro di qualche anno», disse a bassa voce, con le mani intrecciate davanti alla bocca. Odyssea lo osservava senza distogliere lo sguardo, affascinata dalla sua infelicità come lo era stata dal suo sarcasmo. «Ero un bambino allora. Mi ricordo benissimo di tuo padre. Quando cominciarono tutte quelle morti, tutti quei maghi dissanguati, mi accorsi che Breta era cambiata. Noi abitavamo già qui, grazie a tuo padre e a tua nonna che avevano insistito affinché avessimo un tetto, nonostante le accuse contro mio padre. Ma Breta si assentava spesso da casa, a volte tornava la mattina dopo, non era più la stessa. Io e mia sorella eravamo molto legati. Lei è stata una madre per me. Una notte la seguii. La vidi dirigersi verso la Foresta Tenebrosa, un luogo dove non avrei mai pensato potesse entrare. Era come se conoscesse perfettamente la strada…» Un istante di silenzio attraversò il suo racconto, pacato nonostante i ricordi tumultuosi che evocava. Odyssea non insisté, lasciò che Jacko scegliesse il momento per continuare. Era già così straordinario che le parlasse, che non aveva nessuna intenzione di forzarlo, per timore che si pentisse e decidesse di tacere. «Vidi che parlava con qualcuno, lì nel bosco», riprese, «ma non riuscivo a capire con chi. Finché nel buio udii la voce che tu ben conosci. Quando Breta tornò indietro andai immediatamente a informare tuo padre.» «Mio padre?» «Sì, lui era sempre così gentile con me e sapevo che avrebbe agito per il meglio. Gli spiegai ogni cosa, mi credette. La notte successiva tuo padre si recò nella Foresta Tenebrosa. E io…» «Lo hai seguito», completò la frase Odyssea. «Sì, ero piuttosto bravo negli inseguimenti. Così ebbi conferma delle mie paure. Mia sorella s’incontrava con Squartavene. Sono più che certo che, nonostante fosse stata soggiogata, Breta non abbia mai, mai, alzato una mano su nessuno, ma il fatto che sapesse di lui e del suo nascondiglio mi toglieva il fiato. Era tutto buio, e quando iniziò la lotta riuscii a sentire solo le grida, e alcune di esse erano inumane. Poi udii dei passi concitati e dei lamenti e venni fuori, deciso a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Tuo padre correva verso di me. Teneva Breta in braccio e lei era… era come se si fosse completamente prosciugata, sotto la pelle si distinguevano tutte le ossa, ed era ricoperta di graffi, perché Squartavene l’aveva scagliata oltre il Fosso Angusto, un dirupo che si trova nei pressi della Foresta. Charlton l’aveva salvata, l’aveva afferrata prima che precipitasse.» Il ricordo gli fece brillare gli occhi di gratitudine. «Quando tuo padre mi vide, non si arrabbiò. Era come se sapesse che sarei andato. Tornammo insieme verso casa, correvamo come pazzi e, una volta arrivati, gli domandai dove fosse quel mostro. Lui mi rispose che non lo sapeva, che era scomparso all’improvviso, ma che sarebbe certamente tornato. E lì mi fece un discorso da uomo. Mi chiese se avevo coraggio e se volevo bene a mia sorella. Mi spiegò che Breta era stata dissanguata. Sapevo cosa significava. Ma per Breta c’era qualche speranza, perché la sua ferita era recente, e non troppo profonda. Mi disse che nella Pianura Ventosa avrei potuto trovare una fonte, la Sorgente di Olodern, la cui acqua mi avrebbe consentito di tenerla in vita. Era l’unica soluzione nel poco tempo che le restava prima che il dissanguamento la divorasse del tutto. Però dovevo correre subito, col cavallo più veloce che avevo, e se fossi riuscito a salvarla, avrei dovuto somministrarle la stessa acqua per tutta la vita, tutti i giorni, per sempre. Così andai, e continuo ad andare da dodici anni. Tuo padre mi disse anche che nessuno avrebbe dovuto sapere che Breta era viva, altrimenti sarebbe stata sottoposta a un lungo processo e probabilmente condannata all’esilio nel Maniero di Blackhole.» «Così tu vai lì, vai lì a prendere quell’acqua?» «Sì, quando finisce o non è più fresca, devo correre a prenderne ancora. La Pianura è lontana e l’acqua sempre meno abbondante, e Breta ne ha bisogno in quantità sempre maggiori. Non so quanto potrà vivere ancora.» «E Breta? Lei… ricorda qualcosa?» «No. L’hai vista: parla pochissimo, vive nel suo mondo isolato. Credo che oggi sia la prima volta che si è allontanata da casa.» «Dici sul serio?» «Ti ha sentita piangere, ed è uscita nonostante sapesse di non doverlo fare. Gliel’ho proibito. Se qualcuno la vedesse… Ma lei ogni tanto apre la porta e guarda fuori e oggi, non so come, ti ha portata dentro. Tutti credono che sia morta, che il suo corpo sia stato divorato dagli animali selvatici, ma soprattutto sanno che è stata la complice di Squartavene.» «Chi glielo ha fatto sapere?» «È qui che volevo arrivare. Tuo padre mi giurò che non avrebbe parlato di Breta, perché con la sua follia aveva fatto del male solo a se stessa. Mi spiegò che era stata soggiogata ma che il suo cuore era puro. Quando gli chiesi come facesse a saperlo, indicò la collana che Breta portava al collo, era un’onice nera. Mi disse di liberarmene, e mi parlò della Fonte di Hanadia, che purifica gli oggetti del male. Andai anche lì, dopo un po’ di tempo. Ma la cosa che mi fece capire che Breta era rimasta innocente nonostante tutto, fu quando Charlton mi rivelò che nel bosco, a un tratto, si era istintivamente scagliata contro Squartavene… Capisci? Benché fosse stata soggiogata, era riuscita a reagire. La sua parte buona aveva vinto.» «Ma… solo tu e mio padre sapevate di lei! Che era coinvolta!» esclamò Odyssea, in preda a una paura nuova. «Pensi che mio padre… non abbia mantenuto la parola?» «No… purtroppo lui morì poco dopo, anche volendo non avrebbe potuto dirlo a nessuno. E in ogni caso, non ho mai pensato che l’avrebbe fatto. Ascolta… la prima volta che seguii mia sorella, e anche la volta successiva con tuo padre, nel buio della Foresta, ebbi la sensazione che ci fosse qualcun altro oltre a Squartavene.» «Ma chi…» «Quella notte, tuo padre era molto turbato. Direi di più, era sconvolto: come se avesse appena fatto una scoperta spaventosa. Prima di andarsene, mi fece una carezza e mi disse di stare molto attento da ora in poi e per tutta la vita. Poi aggiunse “abbi cura di quelli che ami e non fidarti di nessun altro”. Ed è così che ho fatto da allora. Non ho più permesso a nessuno di entrare nella mia vita, in nessun modo.» S’interruppe, e Odyssea vide la sua gola percorsa dal movimento lento della deglutizione. Inghiottì anche lei, a vuoto, ed emise un intenso respiro. Tutte quelle rivelazioni l’avevano inchiodata lì, sul tronco tagliato, e non sapeva più cosa dire. Jacko le si avvicinò. Si strinse con lei sullo stesso tronco, e stettero seduti molto vicini. Il suo corpo, reduce dalle ferite inflittegli da Squartavene, rischiò di non sopravvivere a quella vicinanza, a quel contatto, a quella confidenza inaspettata. «Jacko… i cavalli… che fine hanno fatto…» «Quando vado via li lascio liberi nella prateria al di là del bosco.» «Chi pensi che fosse?» gli domandò a bruciapelo. «Nella Foresta Tenebrosa, chi pensi che fosse?» «Non lo so…» La voce di lui era quieta e gentile, una voce buona alla quale era impreparata. «Certo che ti ha fatto proprio male», sussurrò infine sfiorandole la guancia. Odyssea sentì un brivido, anzi, un concerto sinfonico di brividi, e si alzò. Si mise a camminare sull’erba, ripensando a Breta e a tutto ciò che era successo. Ciondolò da un lato all’altro per alcuni minuti, sorretta da due gambe quanto mai traballanti. «Ora devi dire tu quello che hai combinato», le disse Jacko a un tratto. Così fu il turno di Odyssea di raccontare. Gli parlò da lontano, le mani rigirate febbrilmente dietro la schiena, e un filo di voce. «È andato via, dici?» ragionò lui pensieroso. «Dopo avermi colpita…» Si portò una mano al viso e col palmo fece da paravento ai lividi. «È stato Jordy a trovarti?» «Sì.» «Bene.» «Jacko… vedi, per Breta… tu puoi fidarti di me… non lo dirò a nessuno. Quando ci siamo incontrati da Mastro Piricum, io… io ero appena stata da Lindia… lei mi aveva confidato che voi… ma io non volevo farmi gli affari tuoi, credimi… non lo farei mai.» «Lo so. Ma ci sono cose che non puoi capire.» «Per esempio?» domandò di getto. Non le importò di aver osato. Si erano detti cose veramente importanti e sentiva di poter chiedere ancora. «Non credo proprio che ti riguardi, dopotutto sei ancora una bambina.» «Non è vero!» In quel momento, con un sorriso strano sulle labbra, Jacko le si avvicinò e le afferrò delicatamente i polsi, interrompendo il rovistare irrequieto delle sue mani. Erano in piedi, e il sole alle spalle del recinto e della casa creava un alone aranciato, come una gigantesca aureola fiammeggiante. «Facciamo una prova?» le chiese ridendo e tirandola a sé. Odyssea non rispose. Lui era così vicino, troppo vicino, nemmeno un alito di vento avrebbe avuto lo spazio per filtrare tra loro, faceva un caldo quasi afoso, e il suo corpo incombente le copriva la luce. Lentamente, come se qualcuno avesse ordinato al tempo di muoversi a scatti, vide Jacko che si chinava, continuando a tenerle i polsi stretti nelle mani. Le parve che intorno fosse piombato un silenzio improvviso, assoluto, al punto che quando chiuse gli occhi sentì perfino il rumore delle proprie palpebre che si abbassavano. La certezza che stesse per baciarla la invase di entusiasmo e smarrimento. Il fruscio dell’erba, il battito impazzito del cuore, la danza delle farfalle nella pancia, le trasmisero una sensazione di fiacchezza, come se avesse il corpo di gomma o stesse affondando nelle sabbie mobili. Non sapeva proprio cosa fare, da dove iniziare e come iniziare… Non aveva mai baciato nessuno! Nei film i baci parevano così semplici e travolgenti, baci di eroine e principesse, baci memorabili, appassionati e golosi, mentre adesso, dal vivo, ogni movimento le sembrava complicatissimo. Avvertì le guance di Jacko incollate alle proprie, la pressione tiepida del suo naso, il leggero tocco dei suoi capelli. Per un istante rimase paralizzata, lì lì per svenire, fino a quando qualcosa, una specie di inaspettata sfacciataggine, le suggerì di buttare alle ortiche la prudenza e la paura, e di lasciarsi andare. Allora Jacko fu davvero vicino. E con lui giunsero il suo profumo e il suo sapore, danzatori di velluto, messaggeri di seta, e fu come assaporare un’albicocca matura. Le parve che le estremità delle mani bruciassero, e che anche la punta dei capelli stesse andando a fuoco. Poi lui si scostò, appena un poco, quel tanto che bastava per fissarla con aria provocatoria. «Ho ragione, vedi», sussurrò. «Sei proprio una ragazzina. Non hai la più pallida idea di come…» Odyssea sentì un’ondata di collera che la assaliva, unita a una dolorosa umiliazione. Si staccò da lui con un gesto brusco, spingendolo via con la mano. «Che ne sai tu di me?» gridò. «E poi… come… come ti sei permesso… chi ti ha chiesto…» Jacko la guardò con una strana espressione, un impenetrabile insieme di scherno e sconcerto. Odyssea si voltò per andarsene. «Quello che c’è tra me e Lindia sono solo affari miei e non ho piacere che te ne occupi nemmeno se è per rassicurarmi che non lo dirai a nessuno. E adesso vieni qui. Non sono abituato a pregare le persone, e se non torni subito allora non tornare più.» «Ah, se è per questo, non preoccuparti. Può darsi che non ci vedremo più davvero!» «Che vuoi dire?» «Mia madre… piangevo per questo, sai, quando Breta mi ha sentita… mia madre vuole andare via da Wizzieville.» Jacko aggrottò le sopracciglia e si scostò i capelli dalla fronte. Rimase immobile, senza dire una parola, con le dita di una mano intrecciate a una ciocca, l’altra appoggiata su un fianco e lo sguardo rivolto al vuoto, verso il recinto. «Per cui, stai tranquillo, non solo manterrò i tuoi segreti ma non te ne parlerò più… anzi probabilmente non parleremo più di niente noi due!» «Quando?» «Quando cosa?» «Quando te ne vai?» «Non lo so… forse subito… forse domani…» «Benissimo, e allora vattene», le disse lui a bruciapelo, indicandole il giardino, come se volesse mostrarle il percorso più rapido per scomparire. «Starò meglio senza di te sempre intorno.» «Io non ti sto sempre intorno!» «Sì invece, e io non ho mai sopportato le ragazzine appiccicose che baciano come imbranate.» Odyssea aprì la bocca per dire qualcosa, ma le uscì solo un gorgoglio soffocato. «Vattene», ripeté Jacko. Subito dopo, in fretta e senza voltarsi, rientrò in casa. Odyssea rimase lì, sbigottita e confusa. La porta le si era chiusa davanti agli occhi con un colpo secco. Tornò indietro con l’impressione che non lo avrebbe più rivisto. Sarebbero partite, lei e sua madre, la solita coppia senza parole, e Jacko si sarebbe trasformato in un ricordo, il primo bacio, l’ultimo bacio della sua vita. Non appena avvistò la veranda vide sua madre che l’attendeva. Aveva gli occhi pieni di rabbia, i capelli scarmigliati, una voce roca da orco. «Dove sei stata? Ti rendi conto che mi hai fatto morire di paura?» gridò. «Ho già parlato con tua nonna. Non voglio sentire obiezioni. Non appena ti sarai ristabilita ce ne andremo. E non uscirai di casa fino ad allora.» Nel parlarle teneva un dito puntato, e gesticolava come una piovra affamata. In quel momento tutta la voglia di reagire che aveva tenuto sepolta per anni dilagò, non aveva alcuna intenzione di accettare quella volontà senza combattere. Era troppo piena di emozioni, troppo, per tacere. Aveva appena fatto la figura dell’imbranata nel dare il suo primo bacio a un ragazzo che sentiva dentro come non credeva fosse possibile, un ragazzo che l’aveva umiliata e che probabilmente non avrebbe mai più fatto parte della sua vita, e la collera di sua madre era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. «E invece una parola la dico!» urlò a sua volta. «Io resto qui! Non voglio andare via! Non ti importa niente di quello che penso, vero?» «È per quel ragazzo?» le chiese Grace con voce tagliente. «Che… che stai dicendo?» esclamò arrossendo. «Non… non c’entra nessuno e niente! Questa è casa mia e io resto qui!» «Fino a quando quello non ti farà a pezzi?» «Meglio morire che continuare quella schifosa vita là fuori!» urlò ancora, mentre le lacrime cominciavano a rigarle il viso. Volete lasciarmi in pace, tutti quanti? pensò. Volete smetterla di giocare con me, di sbattermi ovunque come un pacco, di decidere quando partire e quando tornare, di aprirmi per un secondo gli occhi sulla vita, la vita vera, e poi chiudere la porta con un colpo? Se ne stava lì, dinanzi a sua madre che la scrutava severa e impietosa, e si sentiva sola, tradita, usata, ed era così arrabbiata, così arrabbiata, così arrabbiata, che… avrebbe volentieri incenerito qualcosa. Fu un guizzo. Un luccichio di luce sulla tenda che ombreggiava la veranda. Un bagliore. E nel giro di un secondo quel bagliore divenne una fiamma. Subito, alte vampe rossastre acciuffarono la cortina propagandosi a velocità vertiginosa, ingoiando lembi di tessuto come l’enorme bocca rovente di un drago. Grace era pericolosamente vicina al fuoco. Sembrava scioccata, osservava il rogo e la figlia, la figlia e il rogo, ed era come pietrificata. Odyssea fu assalita dal terrore. L’incendio s’innalzava, favorito da un leggero vento che lo faceva gonfiare. «No!» gridò Odyssea. «No! Io non lo pensavo veramente! Basta! Basta!» Le fiamme rimasero immobili per una frazione di secondo, con le sommità rivolte verso Odyssea. Ferme come statue rosso fuoco. Poi ripresero a sfrigolare, ma con minore intensità, fino a che, lentamente, come una scena vista al rallentatore e al contrario, si ridussero e scomparvero del tutto. Per ultimo vide il luccichio che ritornava nulla. Grace e Odyssea si osservarono per un lungo attimo, ancora attonite per ciò che era successo. Entrambe guardarono i lembi di tenda annerita. Odyssea sentì dentro un’angoscia inesprimibile, un dolore più forte di quello che le aveva inflitto Squartavene quando l’aveva colpita. Cosa le stava accadendo? I poteri, quei poteri tanto decantati, stavano cambiando, si stavano evolvendo, la stavano imprigionando? Scappò via. Mentre fuggiva intravide sua nonna che raggiungeva la veranda e Joyce che usciva allarmata dalla cucina. Non voleva parlare con nessuno, non voleva sentire rimproveri, non voleva sentire conforto. Si rifugiò nella sua stanza e si buttò sul letto. Se solo fossi più grande, si disse, il mio parere conterebbe qualcosa. Se solo fossi più grande mia madre non potrebbe decidere sempre tutto al mio posto. Se solo fossi più grande Jacko non mi avrebbe trattata come una ragazzina idiota. Diede un pugno al materasso immaginando che fosse la faccia di Jacko, e poi crollò come un palloncino sgonfio, tra lacrime, rabbia e senso di colpa. [eBL 117] DINANZI AL CONSIGLIO Fu come se avesse perso anche sua madre. Per tutta la giornata successiva Grace non le rivolse la parola. Si rintanò nella propria stanza e si sottrasse ai suoi sguardi. Anche la nonna si chiuse in profonde meditazioni. L’unica che mantenne nei suoi confronti l’abituale atteggiamento gentile e protettivo fu Joyce, la cara Joyce, come si sorprese a definirla più volte nel suo cuore in quelle ore di solitudine e rimorso. «Vuoi aiutarmi a preparare una bella Pozione Tiramisù?» le chiese quel pomeriggio. Odyssea acconsentì, ben felice di fare qualcosa che la distraesse e nell’accettare si rese conto che, da quando era giunta a Wizzieville, non si era mai trattenuta nelle cucine più di pochi minuti. Joyce la precedette con gesti cerimoniosi, elettrizzata come una bambina che stia mostrando al mondo i suoi tesori. La cucina era un locale molto ampio, diviso in due aree da un arco in pietra viva. In fondo, dentro il camino, sotto un grosso calderone di metallo scuro, una brace ardeva, seminando scintille. Ma la cosa che catturava maggiormente l’attenzione era l’enorme quantità di mensole, guarnite lungo i bordi da scampoli di stoffe, che ricoprivano le pareti color menta. Era come se centinaia di farfalle se ne stessero appiccicate ai muri, sgargianti milizie di lepidotteri impettiti, tanti erano i ritagli di trine, merletti, drappi ondulati, strisce di lino, avanzi di seta, scampoli di damasco: una marea di ornamenti di tutte le fogge che decoravano altrettanti ripiani sparsi ovunque. E sulle mensole, in perfetta successione dal più piccolo al più grande, c’erano centinaia di barattoli e bottigline con coperchi di sughero e scritte verde-azzurro. Al centro della stanza, su un lungo tavolo rettangolare, un’altra ordinata processione di recipienti occupava metà della superficie. «Vieni, accomodati, io prendo l’occorrente per la pozione», esclamò Joyce indicandole uno degli sgabelli a tre piedi, talmente alto da sembrare un trespolo per uccelli, al punto che Odyssea dovette arrampicarcisi sopra. Quando riuscì a sistemarsi, sebbene non proprio comodamente, domandò incuriosita: «Ma tu riesci a sederti?» «Non dirlo neanche per scherzo! Io non mi siedo mai quando sono ai fornelli! Quelli sono per gli ospiti! Sai…» abbassò la voce con aria cospiratoria, «non gradisco troppo la presenza degli altri nella mia cucina, a malapena sopporto il caro Percival. Così, le volte che qualcuno s’intrufola, lo faccio accomodare lassù. Non immagini quanta gente viene a farsi prestare degli ingredienti, o a vedere come si preparano pozioni particolarmente difficili… Io sono piuttosto brava sai… Per questo ho fatto un leggero Incantesimo Pungiglione su quegli sgabelli! Chi viene a disturbarmi poi si ritrova un lieve fastidio per alcuni giorni… No, non preoccuparti, per te l’ho rimosso!» Rise di cuore, e quella risata sincera fu per Odyssea un balsamo per le ferite. Così dicendo iniziò a muoversi tra gli scaffali, afferrando bottigline e barattoli e posandoli sulla mensola del camino. Odyssea si chiese come avrebbe fatto a raggiungere gli scaffali più alti, ma confidava che Joyce l’avrebbe stupita. E infatti, una fila di recipienti prese a planare da sola, come un ordinato trenino di vetro, al semplice pronunciare la parola Descendis. «Joyce», disse Odyssea, «sai che non ho mai visto Percival?» Da che era in quella casa non le era mai capitato di scorgere il suo misterioso aiutante e talvolta dubitava perfino che esistesse. «Lui non va molto in giro, tranne per le sue passeggiatine nel bosco», sussurrò lei in risposta. «Per nostra fortuna, direi, perché già combina abbastanza pasticci. È la verità Percival, non negarlo!» Odyssea si voltò con un sorriso, convinta finalmente di avvistarlo, ma nell’angolo in penombra verso il quale Joyce gettava saltuari sguardi distratti, non vide nessuno. Il suo sorriso si tramutò in stupore. «Percival, questa è Odyssea, te ne ho parlato, no?» Joyce apriva i barattoli, mescolava le polveri, attizzava la fiamma e nel contempo parlava con… nessuno. Sembrava una lieta formica al lavoro. Notando che Odyssea la osservava sconcertata, esplose in un’altra risata: «Percy, smettila di nasconderti, vieni fuori, altrimenti questa ragazza crederà che io sia matta». A quelle parole, Odyssea udì un rumore, un misto di passetti e sospiri, ed ebbe l’impressione che il muro dinanzi a lei si muovesse. Un istante dopo accanto a Joyce comparve un omino smilzo non più alto di un bambino. All’inizio era dello stesso colore delle pareti, tutto verde, compresa la faccia e le mani. Poi, camminando lentamente verso il centro della stanza, cambiò. Quando fu abbastanza vicino al tavolo, Odyssea, dall’alto del suo sgabello, avvistò una specie di gnomo, ma con tratti più delicati di quelli del sudicio Petrus Carbonius. Aveva pochi capelli grigi racchiusi in una crestina simile a quelle usate da Joyce, un naso pronunciato, e occhi perfettamente tondi che spiccavano su una pelle così grinzosa da sembrare carta crespa. Indossava un abito grigio, grossi calzari a punta e un grembiule bianco che gli sfiorava la sommità delle scarpe. Percival accennò a un inchino e abbozzò un sorriso. Ma rimase immobile con le mani sui lembi della giacchetta, come se intendesse ripetere l’inchino più e più volte. «Percival appartiene a un’antica tribù di Gnomi mimetici», le spiegò Joyce. «È un po’ timido con chi non conosce. Ma tu digli una parola gentile.» «Lieta di conoscerla, signor Percival», esclamò Odyssea. Avrebbe voluto scendere dal trespolo e fare a sua volta una riverenza, ma poi non sarebbe riuscita a risalire. Così gli rivolse un cenno sbarazzino con la mano. «Caro Percival», disse Joyce, «vuoi prendermi una stecca di vaniglia?» Impegnato nei compiti che gli erano propri, l’omino sembrò rilassarsi. «E tu cara», aggiunse porgendo a Odyssea una ciotola di vetro piena di una sostanza liquida color cacao, «puoi mescolare questa? Lentamente, così, deve diventare densa e cremosa.» Odyssea si abbandonò a quell’atmosfera ovattata che sapeva di buono. Era bello almeno per poco dimenticare quanto stesse male, ma quando Joyce le chiese come andassero le cose con sua madre, sentì il magone che ritornava. «Ti vuole molto bene, lo sai?» Odyssea non rispose. «È molto spaventata, ha paura per te, tu non avresti paura per lei?» Vedendo che Odyssea continuava a non rispondere, proseguì: «Ha perso il tuo papà e non vuole perdere anche te…» Joyce non aveva smesso un attimo di rimestare qualcosa nel paiolo con un cucchiaio di legno più alto di lei, grande quanto un remo. «So che ieri sera hai bruciato quell’orribile tenda a righe», esclamò poi cambiando discorso. «Non che mi dispiaccia, però non bruciare anche le tende di casa, quelle sono proprio belle. E stai attenta ai divani, è stato così difficile trovare quella gradazione di grigio…» «Non voglio andare via», dichiarò Odyssea, con fermezza. «Neanche noi lo vogliamo, vero Percival? Come faremmo ormai senza di te?» Continuarono a preparare quella strana pozione. Odyssea spezzettò dei semi che sembravano mandorle, polverizzò una tavoletta di cioccolata e con un pestello sminuzzò delle nocciole in una ciotola. Spezzettando e sminuzzando, schiacciando e mescolando, le parve che il peso sul cuore si alleggerisse. Era decisa più che mai a parlare con sua madre. Voleva chiarire ogni cosa, farle capire le sue ragioni. «Ora aspettiamo che cuocia!» esclamò infine Joyce deponendo un contenitore rotondo su una grata appoggiata sulla bocca del paiolo. «Che cuocia cosa?» le chiese Odyssea. «La torta al cioccolato», rispose tranquillamente Joyce, riponendo alcuni barattoli su uno scaffale. «E la Pozione Tiramisù?» «Oh…» squittì Joyce. «Hai sentito, Percival? La Pozione Tiramisù! Una pozione con questo nome non esiste! Però abbiamo preparato un dolcetto buonissimo. Va un po’ meglio?» «Be’… sì…» ammise Odyssea. «Allora, forse in fin dei conti la Pozione Tiramisù un po’ esiste!» ridacchiò l’anziana signorina, dando una pacca affettuosa sulla spalla di Percival. Mentre ridevano tutti e tre, la nonna fece capolino dalla porta. «Odyssea», disse. «Vieni di là, il Consiglio ti vuole parlare.» *** C’erano quasi tutti. Entrando nella stanza col cuore che batteva forte, preceduta da Augusta che sembrava più nervosa di lei, Odyssea riconobbe molte delle persone che già conosceva. Mancava solo il signor Thomasson, e l’assenza della sua voce cortese risultò ancora più evidente non appena Hamlet Angel prese la parola. «Ti spiace, Frederick?» chiese rivolgendosi al signor Mou, che chinò il capo in segno di assenso. Il signor Angel era molto elegante nel suo impeccabile abito gessato, con un foulard blu cobalto annodato al collo. Era serissimo e, dopo essersi schiarito la gola con un colpo di tosse, parlò. «Signorina Bennet, non v’è dubbio che il suo ritorno a Wizzieville abbia arrecato grandi mutamenti. È notorio che questa comunità, dalla scomparsa del suo valoroso e compianto padre, abbia difettato di soggetti dotati di Poteri Sommi. Certo, possediamo una valida scuola che ogni anno diploma abili maghi, fautori di complessi incantesimi e sortilegi, ma dopo Charlton abbiamo vanamente cercato qualcuno che sapesse superare tali limiti. Non taccio che qualche soggetto appetibile sia venuto alla nostra attenzione, ma ahimè in questo caso il potere si è sommato a una povertà di valori, a una manchevolezza di intelletto e profondità morale che ci hanno indotto a considerarlo come inesistente, se non addirittura da perseguire, a mio modesto avviso.» Odyssea, che intanto si era seduta su una poltrona, aveva colto la chiara allusione a Jacko nella predica tortuosa del signor Angel. Strinse le mani sui braccioli e lo fissò con un’attenzione vagamente sprezzante. Per quanto anche lei provasse rabbia nei confronti di Jacko per il modo in cui l’aveva trattata, la infastidiva che si parlasse di lui come se fosse un mostro. In quel momento tutta l’ansia che aveva provato entrando nella sala svanì e si rese conto con stupore che non aveva affatto paura di loro. Hamlet Angel, con la sua solennità e il suo linguaggio ampolloso, le pareva uno squallido ometto, preoccupato solo di camuffare con paroloni, modulazioni di voce e un’esagerata gestualità, il sottovuoto spinto della sua anima. Gli altri volti austeri erano solo facce, solo occhi nasi orecchie e battiti di ciglia incapaci di intimorirla. Si sistemò meglio sulla poltrona, raddrizzando la schiena, orgogliosa e diritta come un fuso d’acciaio. «Quando sua madre decise di portarla via, noi pensammo fosse una reazione momentanea alla perdita subita, ma poi, nel tempo, appurammo che la decisione era ben più drastica», continuò Hamlet emettendo un altro leggero colpo di tosse che evidentemente era il suo modo personale per esprimere disappunto. Una strega anziana e segaligna, con un paio di spesse lenti rettangolari sul naso a becco di falco, gli tolse la parola senza troppe cerimonie: «Hamlet, vuoi andare al sodo?» Il signor Angel divenne paonazzo e tossì con più forza. «Sì, sì, Melina! Abbi un po’ di pazienza, ci sono premesse che non possono essere evitate.» La nonna era inquieta e sembrava sul punto di dire qualcosa, ma Hamlet la surclassò col suo vocione. «Forse non sa, signorina Bennet, che molti anni or sono, il signor Angus Ziggart, che probabilmente lei conosce con altro appellativo che mi arreca fastidio usare, aveva attentato già alla vita del suo caro padre, allora non più di un promettente giovane, non riuscendovi ancora ma colpendo mortalmente la sua famiglia. E parimenti attentò alla vita della famiglia di sua madre, sterminando ogni linea di sangue. Sopravvissero a tale accanimento la qui presente Augusta e la di lei figliola, che l’ha data alla luce.» Odyssea lo osservò con gli occhi spalancati e il viso trasformato da una smorfia di meraviglia. «Vuol dire che… Squartavene…» «Voglio dire ciò che è un fatto», la interruppe severo il signor Angel. «È vero che il soggetto da lei appena menzionato ha fatto strage anche di altri maghi, più o meno potenti, non legati alla sua famiglia da alcun vincolo di parentela, ma mai in modo così sistematico e feroce.» «Be’», sussurrò Odyssea, «forse si tratta di un caso… di una coincidenza…» Un brusio si diffuse nella sala. Odyssea vide alcune teste scuotersi in segno di diniego, compunte, arcigne, quasi compiaciute nel contraddirla. «Forse, mia cara, ma forse no.» Con un odioso sorrisetto sardonico, Hamlet Angel diede a intendere che era il primo a non crederci affatto. A quel punto il signor Mou s’intromise nella conversazione. «Se mi permetti, Hamlet», disse, «credo che non dovresti essere così diretto, magari se tenessi in considerazione la delicatezza della situazione, la sensibilità della ragazza…» «Cosa dovrei fare? Addolcire la verità? Solo la verità può far crescere giovani sani e forti!» esclamò il signor Angel alzando la voce e agitando il pugno chiuso come se fosse uno scettro. «La verità non deve far paura! Lo dico sempre a mio figlio, la verità e le regole forgiano gli uomini del domani!» Ci fu qualche attimo di silenzio, interrotto da alcuni imbarazzati bisbigli. La nonna stava nuovamente per parlare, ma ancora una volta Hamlet Angel la fece tacere con un gesto perentorio e osservò Odyssea con occhi che brillavano: «Signorina Bennet, è più che evidente che Angus Ziggart adesso voglia uccidere lei». Odyssea mantenne una finta calma, benché dentro sentisse un tale groviglio di emozioni che quasi le veniva da vomitare. «Ciò che non comprendiamo», riprese Frederick Mou con fare amichevole, «è il perché di tanto accanimento, visto che…» Ma inciampò nelle sue stesse parole, quando una voce acida e brusca fece sussultare tutta la platea. Grace era entrata in silenzio, come se volesse coglierli in flagranza: era la prima volta dopo dodici anni che gli eletti cittadini di Wizzieville la vedevano. In particolare, Odyssea notò lo sguardo di Blanca Mou che, avvolta in un candido scialle di seta, i capelli acconciati alla perfezione e la bocca velata da un lucido rosa, scrutava Grace Bennet, i suoi corti capelli stressati, il suo viso pallido e scavato e gli occhi pesti, con il trionfo di chi assista alla rovina di un avversario. «Grace…» sussurrò Augusta appoggiandole una mano sulla spalla. «Credo vi siate dimenticati di invitarmi a questa allegra riunione», esclamò Grace con tono altero. «Mia figlia viene così lietamente informata e io ne sono tenuta all’oscuro?» Blanca Mou proruppe: «Come tu hai tenuto all’oscuro lei, mi pare. Ti trovo… ehm… bene, Grace». «E io ti trovo perfetta, come al solito, Blanca. Non so mai se tu sia vera o finta, tanto sei perfetta.» Gli occhi della signora Mou si spalancarono, stava per replicare stizzita ma suo marito la anticipò: «Grace, non volevamo recarti offesa, sinceramente. Ma stanno accadendo troppe cose ed era necessario parlarne con la bambina. Augusta è d’accordo con noi. È giusto che sappia». La nonna annuì, continuando a tenere la mano sulla spalla di sua figlia. Di certo non approvava lo spietato monologo di massime assolute di Hamlet Angel, ma la sostanza dell’incontro la trovava compiacente. Era una donna pratica ed era dell’avviso che la verità, purché venisse mostrata con delicatezza, potesse fare solo del bene. Grace, invece, che della verità non era mai stata una paladina, men che meno di una verità offerta senza moderazione, era furiosa, e Odyssea ebbe l’impressione che si stesse sforzando per contenersi. La vide indirizzare ad Augusta un’occhiata delusa e furente, e poi rivolgersi di nuovo a tutta l’assemblea. «Cosa volete da lei? Cosa avete ottenuto facendole l’elenco dei morti delle famiglie Bennet e Corday? Volete che si convinca che questo mostro ce l’ha solo con noi? Sapete che non è vero!» «Invece è vero.» Hamlet Angel tossicchiò forte. «E vorremmo che la bambina ci aiutasse a capire perché.» «Ora basta!» Odyssea parlò a voce alta, destando stupore nei presenti, che tutto si aspettavano tranne che reagisse. «Prima cosa, non sono una bambina; secondo», rivolgendosi a sua madre, «io voglio sapere; e terzo, arrivate al dunque, cosa volete da me?» «Qualsiasi cosa abbiate da proporre», obiettò Grace, «sarà comunque inutile perché noi, tra pochi giorni, ce ne andremo.» «Grace», dichiarò Hamlet Angel, continuando ad arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti. «Se fossimo certi che ciò potesse salvarci, ti diremmo di fare le valigie e andare via anche domani, e non è escluso che, contrariamente alle nostre regole, avanzeremo tale richiesta, ma solo dopo aver sottoposto tua figlia…» fece una pausa per conferire più forza alle parole successive, «alla Suprema Verifica.» Grace divenne paonazza e serrò le labbra, con le mani che tremavano. «Dobbiamo capire, Grace», s’inserì Frederick Mou con gentilezza, scoccando al signor Angel uno sguardo carico di disapprovazione. «Ma non ti chiederemmo mai di andar via. Però la Verifica è necessaria. Per la nostra e soprattutto per la vostra tranquillità.» Odyssea era stupefatta. Cos’era questa Verifica, cos’era di tanto grave che sua madre s’era zittita improvvisamente? «Di che state parlando?» chiese. La nonna si staccò da Grace e finalmente si impose sugli altri. «È una specie di prova, e parte dal presupposto… anzi… dalla speranza… che Squartavene tenti di nuovo di avvicinarti. Solo che questa volta dovrai indossare un… una specie di collana… un po’ come il nostro Monile…» «Non voglio più sentire una sola parola di questa assurda storia!» gridò ancora Grace, rabbiosa e aggressiva come solo una madre può esserlo dinanzi a certe provocazioni. «Perché non la indossi tu, Hamlet, e vai tu a combattere contro quel mostro? O meglio… perché non ci mandi tua figlia, Blanca?» «Non è mia figlia che vuole. È la vostra famiglia che ha questa tara!» dichiarò la signora Mou con enfasi. Il viso di solito perlaceo era d’un colore rosso acceso, e perfino le piccole orecchie a conchiglia erano avvampate. «La Giada Catturante non è nociva in sé», esclamò un mago con una folta chioma di ricci color carota, sollevando un dito con aria solenne. «No, infatti», ribatté Grace. «È un gioiellino innocuo, salvo che pare attiri i mostri assetati di sangue.» «Non si spaventi», intervenne Frederick Mou rivolto a Odyssea. «La Giada Catturante è un sistema di captazione dei pensieri e delle intenzioni malvagie che abbiamo messo a punto da poco tempo. Anche suo padre, tanti anni fa, partecipò al suo studio. Non l’abbiamo mai potuta mettere alla prova perché nessuno di noi ha i poteri e dopo Charlton solo Jacko O’Donnell ha dimostrato di possederli, ma lui si è sempre categoricamente rifiutato. Vive fuori dal mondo, povero ragazzo.» Blanca Mou emise un suono che sembrava un ruggito: «Quel ragazzo è solo un delinquente», sentenziò. «Durante un confronto», aggiunse Frederick Mou ignorando sua moglie, «chi la indossa riesce a catturare nella pietra le più recondite intenzioni del suo avversario. Sul momento non ne ha alcun beneficio purtroppo, ma decifrando il flusso mentale con un preciso incantesimo, è possibile scoprire il piano di Squartavene. C’è però uno svantaggio: chi la indossa viene privato in parte, ma solo in minima parte, dei suoi poteri perché la pietra assorbe un po’ di energia.» Dopo tante parole e tanta foga, tutti i presenti ammutolirono. Poi, a un tratto, una donna emerse dal fondo della sala. Odyssea riconobbe Ginestra Thomasson. Aveva gli occhi arrossati e i lineamenti deformati dal pianto. «Sono venuta qui nonostante il mio Pericle sia molto malato», sussurrò, con una voce interrotta da frequenti risucchi. «Non so cosa questa ragazza sceglierà di fare, ma io vorrei solo che quell’orribile mostro scomparisse per sempre, e penso… non è forse meglio acconsentire a che vadano via? Se è ciò che vogliono…» «Cara Ginestra», proruppe Frederick Mou, prendendo una delle sue mani scarne tra le proprie. «Ti siamo vicini nel tuo dolore e comprendiamo la tua proposta, ma vedi, abbiamo ragione di presumere che se Squartavene cerca proprio loro, allora le seguirà, e se vanno via noi non avremo la possibilità di testare la Giada. E se poi tornasse comunque? Se decidesse di seminare altre morti?» La signora Thomasson annuì con un unico movimento forzato, e gli occhiali le crollarono sulla punta del naso. Una serie di singhiozzi le scosse il viso, e una lacrima scivolò rapida fin sul mento. «Ma che vantaggio potreste trarre dal conoscere i pensieri di quel mostro?» chiese Grace con voce tesa. «Conoscere le sue intenzioni vi aiuterebbe a eliminarlo? Non credo proprio! Dite pure che volete fare un esperimento, e non ve ne importa nulla di usare una della famiglia Bennet come cavia!» «Be’», intervenne un mago col naso bitorzoluto e la pelle butterata, «per esempio potremmo scoprire chi è il suo erede, visto che, lo sappiamo tutti, è evidente che è tra noi.» L’uomo aveva parlato con tono bonario e tranquillo, come se stesse esprimendo un banale commento sul tempo, ma quella insinuazione suscitò un vespaio. Fu come il ridestarsi della folla dopo una parentesi di silenzio forzato. Ognuno rivelò la propria opinione, ognuno difese se stesso, ognuno osservò l’altro con occhiate sospettose, in un accavallarsi di voci e malumori. Il caos prese possesso della stanza. «Hans Bassus ha ragione», concordò Frederick Mou, scandendo le parole e rivolgendo uno sguardo serio a tutti i presenti. «Non v’è dubbio che l’erede di Squartavene sia tra noi. Nessuno ha il coraggio di ammetterlo, ma lo scioglimento dell’Incantesimo di Prigionia all’Antro dei Raminghi non ammette altre conclusioni.» «Non potrebbe trattarsi di quell’O’Donnell?» suggerì Blanca Mou. «In fondo viene da una tale famiglia e le origini sono tutto.» «Non possiamo escluderlo», s’intromise Hamlet Angel con ripetuti cenni di approvazione. «A dire il vero nessuno di noi può essere escluso», disse ancora Hans Bassus, con gli occhi che brillavano di placido candore. Odyssea percepì la tensione che c’era nella stanza. Era come se ciascuno diffidasse dell’altro, e tutti si guardavano in cagnesco. Quando la riunione fu sciolta, Grace uscì senza salutare nessuno, sbattendo la porta con violenza. Poco prima di andare via, Frederick Mou si avvicinò a Odyssea. «Lindia è molto dispiaciuta di non essere più potuta venire a trovarti ma sua madre…» Alle spalle del signor Mou, la moglie batté lentamente le palpebre, con fare sostenuto, mantenendo un’espressione glaciale. Quando Frederick e Blanca si congedarono, Odyssea raggiunse sua nonna. «Cosa devo fare?» le chiese. «Non lo so, piccola mia. Se lo sapessi, ti avrei evitato questa tremenda sceneggiata», rispose Augusta, con voce lievissima. «Vorrei poterti proteggere. Vorrei poterti aiutare. Vorrei che restassi ma anche che andassi, e so che nessun luogo è veramente sicuro. Far finta di nulla non è di alcun aiuto. Volevo metterti al corrente di tutto evitando di coinvolgere Grace, che non avrebbe approvato, e invece credo di avere sbagliato. Spero che vorrai perdonarmi.» L’abbracciò teneramente. Prima di staccarsi da quella stretta, Odyssea percepì sulla fronte il fremito delle sue ciglia in lacrime. OLTRE LA BOCCA DEL FUOCO Passarono due giorni prima che potesse parlare con sua madre. Sapeva che stava male. Male dentro, le aveva sussurrato Joyce, tirando su col naso. Odyssea la comprendeva. Capiva che la fuga doveva apparirle come l’unica scelta possibile, l’unico anello incrinato nella rete che era piombata su di loro come una trappola. Non aveva mai provato un affetto così intenso per sua madre. Non si era mai sentita tanto felice per una simile emozione. E, allo stesso tempo, non si era mai sentita tanto infelice. Aveva ripensato a tutti i momenti della riunione in cui aveva scoperto che Squartavene voleva annientare la sua famiglia. Quella persecuzione si prolungava dal passato fino a loro come una soffocante ombra scura. Aveva ucciso o tentato di uccidere intere generazioni di Bennet e Corday. E ora voleva uccidere lei. Non riusciva a comprendere la ragione di quello spietato passatempo e, tuttavia, aver appreso le era stato utile. Non voleva essere protetta dalla verità, non nel modo in cui si tenta di preservare i bambini. Non era una bambina, e sperava che sua madre venisse a patti con quella consapevolezza. Si trascinò per casa per quarantotto ore con l’ansia che la divorava. Non riuscì nemmeno a mangiare la torta al cioccolato che aveva aiutato a preparare. Si sentiva spossata. E ripensava sempre a Jacko. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva come in una scena al rallentatore, il viso di lui che si avvicinava, le sue labbra socchiuse, gli occhi un po’ scherzosi e un po’ seri… E rivedeva la faccia intagliata nel ghiaccio con cui poco dopo le aveva detto di andare via. Avrebbe tanto voluto non provare ciò che provava, ma… cosa provava? Era pazza, forse? Era appena stata messa di fronte a una realtà sconcertante e lei pensava a un ragazzo che l’aveva soltanto presa in giro? Continuava a ripetersi che, in una situazione del genere, in cui nulla era certo, nemmeno la durata della sua permanenza a Wizzieville, se non addirittura quella della sua vita, la saggezza avrebbe dovuto indurla a concentrarsi esclusivamente su Squartavene, sulle notizie scoraggianti che il Consiglio aveva avuto la bontà di riversarle addosso, e soprattutto su come sottrarsi a quella oscura condanna. Ma aveva sedici anni e per quanto l’idea di essere una vittima predestinata la riempisse di terrore, la nostalgia di Jacko, l’attrazione che provava per lui, la rabbia per il modo in cui la trattava e la gelosia rispetto alla sua storia con Lindia, vincevano su tutto. La mattina del terzo giorno, mentre era in veranda sulla sdraio, udì la voce di Joyce che la chiamava con tono lezioso: «Hai una visita, mia cara. Ti farà molto piacere». Odyssea pensò istintivamente a Jacko, ma si rese conto subito di quanto quel pensiero fosse avventato. Jacko non si sarebbe mai spinto fin lì e comunque, anche se l’avesse fatto, dubitava che Joyce nel comunicarglielo potesse apparire così raggiante. Mentre si stava ancora chiedendo chi potesse essere, vide il viso sorridente di Jordy Angel comparire sotto l’arcata della portafinestra. Era vestito in modo sportivo, indossava pantaloni grigi di tela leggera, stirati impeccabilmente, e una polo azzurra. Il paragone con Jacko le venne naturale. Jacko, irascibile e ribelle, Jordy, educato e galante, Jacko, una rapida impetuosa, Jordy un ruscello d’acqua dolce. Jordy, il corteggiatore ideale che qualunque genitore avrebbe approvato di buon grado, Jacko, il ritratto della perdizione. Odyssea arrossì proprio mentre Jordy le stringeva la mano fissandola negli occhi. «Sono felice di vederti. Come stai?» le domandò. Odyssea, ancora troppo stupita da quella visita inattesa, non rispose e non lo invitò a sedersi. «Spero di non averti disturbato», si giustificò Jordy travisando il suo imbarazzo. «Mi ripromettevo di passare a vedere come stavi e ora l’ho fatto.» «Sto benissimo, ti ringrazio. Anzi… volevo anche ringraziarti per… per quel giorno. Mia nonna mi ha raccontato tutto. Se tu non ci avessi soccorso, credo che io e il signor Thomasson forse…» «Non preoccuparti. Sono contento di essere stato utile. Quando ho visto tutto quel sangue ho temuto…» In quel momento Joyce entrò, talmente sorridente che le guance le sfioravano i contorni degli occhi. Era entrata facendo rumore, trascinando i piedi e tossicchiando con insistenza, il che faceva a pugni con la sua abituale preferenza per gli ingressi vellutati e le apparizioni silenti. Si prodigò in mille cerimonie – quelle che forse avrebbe dovuto fare Odyssea, alla quale sembrava impensabile poter sorridere con tanta ostinazione – e offrì a Jordy più e più volte un bicchierino di succo di mela con una spruzzata di miele in polvere che lui rifiutò con tale gentilezza da suscitare in Odyssea il desiderio di carpirne il segreto, visto che Joyce, per nulla offesa, era uscita scusandosi ripetutamente. Rimasti soli, Jordy esclamò con un’espressione seria: «La verità è che sono venuto per chiederti scusa. Certo, mi interessava molto sapere come stavi ma…» Odyssea lo fissò stupita: «Scusa? E di cosa?» «Ho saputo che l’altro giorno mio padre… Credimi, era profondamente dispiaciuto per il modo duro in cui ti si è rivolto. Ma devi capirlo, è molto preoccupato per quello che sta accadendo a Wizzieville e ciò che gli preme è solo la sicurezza di questa comunità.» Odyssea trasecolò. L’atteggiamento del signor Angel era stato l’ultimo dei suoi pensieri. Gli assicurò che tutto era a posto, che lei stessa era così preoccupata da non poter che comprendere il disagio di suo padre. In verità Hamlet Angel era la persona più scortese e arrogante che avesse mai conosciuto, ma alla fin fine le sue maniere la lasciavano indifferente. Non le sfuggì però il desiderio di Jordy di giustificare il padre. «Odyssea, so anche che ti hanno parlato della Verifica. Spero tu abbia compreso che si tratta di qualcosa di molto pericoloso.» «Sì, ne ho avuto l’impressione», mormorò lei. «Certo», continuò Jordy, «è probabilmente l’unico modo per consentire a questa comunità di conoscere il motivo del ritorno di Squartavene e a te di sapere perché si accanisca sulla tua famiglia, ma promettimi che non ti ci butterai senza rifletterci.» «Ci penserò su», disse evasiva, ma quella promessa lo fece sorridere di nuovo. «Spero che ci potremo frequentare un po’ di più», esclamò a quel punto. «Tu mi incuriosisci molto signorina Bennet.» Aveva pronunciato le ultime parole abbassando il tono e soffermandosi qualche secondo di troppo sul mi incuriosisci molto. «Oh… be’… certo…» replicò lei senza sapere bene a cosa stesse dando il suo consenso. Jordy si trattenne a lungo, e parlò praticamente solo lui. Alle sue domande, Odyssea rispose in modo volutamente vago. Poco prima di andarsene, abbozzò un inchino e le prese una mano sfiorandogliela con le labbra. Joyce lo accompagnò alla porta. Quando tornò in veranda aveva le guance color del vino. «Che visita piacevole, vero? Che bel ragazzo! E che maniere squisite! Hai notato come ti guardava? E quel baciamano così garbato, non mi stupirei se…» «Non ti stupiresti di cosa?» «Oh, non si sa… però voglio ricordarti che… ehm… tua madre si è sposata a soli vent’anni.» Odyssea spalancò gli occhi. Un magone secco le sbarrava la gola e, insieme all’imbarazzo per quella congettura, l’aveva ammutolita. Alla fine riuscì a sussurrare: «Io… Joyce… ma che dici… di… di cosa parli? E poi… devi volermi molto bene per pensare che qualcuno possa interessarsi a me! Ma mi hai vista?» Pronunciò quelle parole con rabbia, scappando verso la scala e divorando i gradini. Entrando nella sua stanza si fermò con le spalle alla porta. Rimase così, con il cuore che imitava una gimcana. Voleva bene a Joyce, ma a volte la sua franchezza era dura da sopportare… Si avvicinò allo specchio e quello le rimandò indietro un’immagine odiosa. Quella d’una ragazzina irritata, con gli zigomi viola e gli occhi lucidi. Ripensò al modo in cui la signora Mou aveva osservato sua mamma, e provò una fitta di rancore e umiliazione. Ripensò a Lindia, alla sua grazia civettuola, alla sua pelle di magnolia, ai suoi capelli serici, e un’altra trafittura le solcò il cuore. Dovette appoggiarsi alla parete. Non ce la faceva da sola. Troppe cose dentro, troppe tutte insieme. Capì che era venuto il momento di aprire il cuore a sua madre. *** Grace era semidistesa sul suo letto, con la schiena appoggiata ai cuscini. Era dimagrita e, coi capelli spettinati, il viso emaciato, e due vistose occhiaie, pareva una ragazzina malaticcia la cui unica fonte di vitalità erano gli occhi, attraversati da lampi di nervosismo. «Vieni…» sussurrò. Odyssea entrò e, sedendosi accanto a lei, le prese una mano tra le sue. Era calda, come pane appena sfornato. «Come ti senti?» «Sto bene, non preoccuparti.» «Mi preoccupo, invece!» esclamò Odyssea scrutandola seria. «Odyssea…» mormorò sua madre. «Io… non so quale sia la cosa più giusta da fare… proprio non lo so. Fino a ieri mi sembrava che andare via fosse la soluzione ma ora… se è vero che quel mostro cerca proprio te… ti cercherebbe ovunque! Non siamo al sicuro in nessun posto!» «Mamma, lui… ha cercato di fare del male anche a te?» chiese Odyssea a bruciapelo. «Sì… successe tanto tempo fa… io ero ancora una bambina… non è che ricordi molto… invece… prese mio padre…» «E anche i nonni?» «Sì, solo tua nonna si salvò.» «Perché… perché ce l’ha tanto con noi?» «Non lo so, non so neanche se sia vero. Non so cosa fare…» «Nessuno ti chiede di fare qualcosa», provò a consolarla Odyssea. Grace la strinse forte, come se volesse fonderla con se stessa. «Mamma», continuò Odyssea, «volevo scusarmi per l’altro giorno, per quel terribile incidente. Non succederà mai più.» «Lo so», le sussurrò in un orecchio. «E in parte sono felice che sia successo. Sapere che non sei indifesa mi dà un po’ di coraggio.» Poi la staccò dolcemente da sé e la fissò negli occhi. «Devo essere più paziente», ammise. «Questa situazione è difficile anche per te. E poi… Come sta quel ragazzo?» «Di… di chi parli, mamma?» «I cavalli sono belle creature», disse ancora. «E Jacko, come sta?» Per Odyssea fu come sentire il fuoco in pieno viso, e il ricordo della Fornace e di quella notte che li aveva trovati abbracciati, così lontana ora, le procurò un’altra fitta al cuore. Credeva fosse facile metterla a parte dei suoi tormenti, ma non aveva fatto i conti col proprio riserbo. «Ma… perché me lo chiedi… io non lo so, credo bene…» Grace la strinse di nuovo. «Vieni qui, bambina mia. In questi ultimi due mesi sei… sei cresciuta così tanto… a volte mi fai paura…» «Paura?» «Sì… ti vedo così grande… così diversa…» «Mamma», Odyssea fece un gran sospiro. «Lo so cos’hai pensato… a proposito di Jacko, intendo… ehm… lui ha una ragazza…» Grace non si scompose di un millimetro. «Ah sì? E chi sarebbe?» «Non… non te lo posso dire, ho promesso di mantenere il segreto.» «Lindia Mou non è alla tua altezza», dichiarò sua madre. «Non fare quella faccia. È vero che sono una strega ma non so ancora leggere nel pensiero… tranne che nei tuoi pensieri, probabilmente.» «Mamma, a lui piace Lindia, è una cosa sicura…» «Certo, certo, come si fa a non amare le leggiadre signore della famiglia Mou? Ma tu cerca di non soffrire troppo…» Chiacchierarono a lungo, senza smancerie né affettazioni, semplicemente, rimanendo abbracciate allo stesso cuscino, ciascuna da un lato, come naufraghe aggrappate a una sola tavola in mezzo al mare in burrasca. *** Nei giorni seguenti Odyssea arrivò quasi a rimpiangere la vita condotta nel mondo fuori di lì. Era poco meno che reclusa. Se ne stava la maggior parte del tempo seduta sulla veranda, sprofondata nella poltroncina di bambù, accovacciata come un cucciolo d’uomo nel grembo materno. Con gli occhi chiusi accarezzati dal barbaglio del sole che filtrava attraverso la nuova tenda di lino, sprofondava nei rumori del giardino come se appartenessero a un’altra dimensione. Era estate piena e la natura era rigogliosa e riarsa allo stesso tempo. Le aiuole si stavano riempiendo di creature vegetali mai viste. Erano solo simili a quelle conosciute e diffuse nel Mondo-altrove, ma qualche dettaglio le rendeva poi infinitamente diverse. A prima vista il prato appariva macchiettato da ciuffi di comuni girasoli giallo zafferano, ortensie celesti e rosa, e filari di buganvillea violetta. Ma a ben guardare, i girasoli volgevano le spalle alla luce ed erano fiorenti in piena ombra, tant’è che la nonna li aveva dotati di piccoli ombrelli piantati nel terreno; le ortensie, dentro la corolla di petali fragili come carta, avevano denti aguzzi e un piglio tutt’altro che rassicurante, e ogni volta che una mosca passava di lì allungavano una lingua vischiosa che catturava l’insetto in un guizzo; i rami di buganvillea agitavano le braccia fronzute come direttori d’orchestra e si spingevano l’un l’altro per trovare spazio sulla parete di bambù che circondava la loro porzione di prato. In mezzo all’aiuola, inoltre, c’era un cactus alto quanto un lampione. Aveva lunghe spine argentate ed era spuntato dal nulla nel giro di qualche ora. «Non averne paura», le aveva detto una mattina la nonna mentre staccava due spine grandi quanto alabarde e le deponeva a terra. «Il Cactusimplex è una piantina di teneri sentimenti… Non lasciarti mai ingannare dalle apparenze…» Odyssea aveva ripensato spesso al giorno dell’aggressione nella scuola, ma non era riuscita a capire che fine avesse fatto l’agenda di suo padre. Era certa di averla messa nello zaino poco prima che la libreria si spaccasse in due ed eruttasse quel mostro invisibile. Non che la traduzione di alcune di quelle oscure parole l’avesse aiutata in qualche modo. Cosa potevano significare frasi come la via d’ingresso oltre la bocca del fuoco oppure sul viso il segno di riconoscimento o ancora subornazione? Aveva riguardato tutte le fotografie conservate nei vari album, sperando che potessero illuminarla, ma le erano apparse sempre le stesse immagini. E cos’era la bocca del fuoco? Istintivamente ripensò alla Fornace Fiammeggiante, era l’unica voragine infuocata che le venisse in mente. Ma dubitava che potesse essere un accesso verso qualcosa, salvo forse verso l’inferno. Nella libreria in soffitta cercò anche qualche informazione sulla Giada Catturante, ma non trovò nulla, eccettuata una breve e generica notizia circa le sue «potenti potenzialità magnetiche», in due righe sbrigative all’interno di un volumetto intitolato Calamite e calamità. Provò perfino a ritrovare il tetro bugigattolo di Petrus Carbonius, ma nella viuzza che un tempo aveva ospitato la vetrina del suo negozio non c’era più nulla. Anche l’insegna era stata rimossa, e dentro era così buio da non tentarla a entrare nemmeno per curiosità. Ma una notte qualcosa cambiò. Odyssea non riusciva a dormire, si sentiva inquieta e un’arsura fastidiosa le seccava la gola. Raggiunse la cucina in cerca di un bicchiere d’acqua, ma non appena aprì la porta si avvide di una cosa singolare: sotto il paiolo di metallo ardevano ancora le fiamme. Chi stava usando la cucina a quell’ora? Si avvicinò sospettosa. Il cuore aumentò i battiti, e quando si accorse che c’era un materasso davanti al fuoco rimase sconcertata. In quel preciso istante qualcosa spiccò un balzo, come un pupazzo a molla che salta fuori da una scatola a sorpresa. Di fronte a lei, adesso, con la faccia spaventata, c’era Percival. Indossava una specie di camicione da notte con una lunga fila di bottoncini, e aveva i piedi nudi. Il riflesso dei ciocchi accesi illuminava il suo viso asimmetrico, facendo risaltare il naso a uncino e le labbra pronunciate. Ansimava ma, non appena la riconobbe, il fiatone tornò a essere un quieto respiro. «La signorina Odyssea», sussurrò gentilmente. «Ha bisogno di qualcosa?» Odyssea scosse la testa. «Che ci fai qui a quest’ora?» «Oh signorina…» rispose lo gnomo non smettendo di sorridere e, Odyssea lo avrebbe giurato, arrossendo un poco. «Io sto sempre qui a quest’ora. Dormo davanti al paiolo per fare buona guardia.» «Guardia… a che cosa?» «In verità non lo so», mormorò Percival. «La signora Augusta mi dice di dormire qui e io qui dormo. Lei mi dice di tenere sempre il fuoco acceso e io mi sveglio non appena la fiamma diventa piccina…» e indicò le braci che cominciavano a perdere d’intensità. «Quando sono troppo stanco la signorina Joyce fa un incantesimo, ma dura solo un paio d’ore, e siccome a me piace rendermi utile…» «Stai preparando qualcosa?» Odyssea si affacciò sulla bocca del paiolo e le sembrò di intravedere una densa brodaglia grigiastra che galleggiava sul fondo. «No», si schermì Percival. «Quello è solo liquido di Pomice Purulenta. Attenta, signorina, fa bruciare gli occhi! Lo lascio evaporare perché così non può passare nessuno.» «E chi dovrebbe passare?» «Non lo so», ripeté lo gnomo. «Però per evitare guai la signora Augusta ha fatto chiudere l’altro camino, quello che c’è all’ingresso…» «Percy, vuoi dire che c’è un passaggio nel camino?» Senza attendere risposta, Odyssea raggiunse il vestibolo. La bocca del fuoco… Possibile che… Nella penombra, rischiarata da una scia di luna che penetrava dal lucernario sopra il portone, accovacciandosi nel vano del camino, tastò con le mani le larghe pietre nere che ostruivano la cappa. Niente. Niente al di là di una parete rigida e fredda. Niente cavità né fenditure, nulla che consentisse non solo di entrare, ma neppure di infilare un dito. Si concentrò sul perimetro del camino, sul muro, e perfino sulle lastre di marmo vicine all’imboccatura. Si alzò e indietreggiò, guardandolo da distanza, ma non notò niente di anomalo, niente che suggerisse l’esistenza di uno sbocco segreto. Eppure, non può essere una coincidenza, deve esserci un nesso… Quando riprese a toccare la superficie rugosa, mentre la percorreva lentamente, con gli occhi chiusi, catturando la sensazione di ogni asperità, questa volta ebbe l’impressione che le sue mani bruciassero. Le tirò indietro di scatto, convinta di imbattersi in dieci piccole piaghe sanguinanti, ma quando guardò i palmi e i polpastrelli, vide che erano illesi. Eppure, riappoggiandole, quel bruciore la assalì ancora, come un passaggio di corrente elettrica. Cercò di resistere e pian piano, come se il muro fosse fatto di burro e quel calore lo ammorbidisse, sentì la barriera immobile diventare cedevole come argilla. All’improvviso, una mano venne risucchiata interamente oltre il camino. Si ritrovò col braccio al di là, dalle dita fino al gomito, come se fosse stato incorporeo, senza ossa né carne. Stavolta non si ritrasse per il dolore, ma per la paura. Aveva gli occhi sbarrati, e lì, nonostante i piedi scalzi sul pavimento freddo e il pigiama impalpabile che indossava, fu investita da un terribile caldo. Non devo desistere… Respirò a fondo e riprovò. Serrò gli occhi e si appoggiò al muro con tutto il corpo: fu come essere strappata in mille pezzi. Sentì punture bollenti ovunque ed ebbe l’impressione che il mondo girasse, girasse, e girasse. Un’ondata di nausea la invase, mentre un enorme risucchio d’aria la attraeva come una potente calamita. Poi, improvvisamente, tutto si fermò. Per alcuni minuti non riuscì a muoversi, a pensare, a respirare. Quando allungò di nuovo le braccia dinanzi a sé, tremando, la mente annebbiata dal panico e la gola sbarrata, come stretta da un cappio, trovò una parete di solide pietre. Allora realizzò quello che era successo. Era murata dietro il camino. E nessuno sapeva che era lì. *** C’era un forte odore di muffa e i suoi piedi erano immersi in una densa poltiglia fangosa. Il freddo le penetrava nelle ossa. Avanzando nel buio ebbe la sensazione di camminare su un suolo concavo, e le parve che anche le pareti fossero tali, come un enorme tubo di pietra. Era stanca, furiosa con se stessa, ma s’impose di rimanere calma. Se sono entrata potrò uscire. Poi, all’improvviso, intravide un chiarore soffuso che s’irradiava in lontananza e prese a camminare più veloce fino a ritrovarsi davanti a un muro simile a quello che aveva appena oltrepassato. Era più piccolo, ma non era di pietra, aveva i contorni di legno e l’interno di stoffa e dai bordi affioravano deboli sprazzi di luce. Qualunque cosa sia, non è sbarrato, si disse, e mi condurrà fuori di qui. Solo allora si voltò, e quello che vide le mozzò il fiato. Ciò che le era sembrato un unico tunnel, una cavità solinga, era in realtà una specie di labirinto. Decine di gallerie tutte uguali si dipanavano in misteriose e innumerevoli direzioni. Quando posò la mano sulla superficie si concentrò, cercando di non cedere di nuovo all’angoscia. Contò fino a dieci, mentalmente, e poi provò a passare attraverso il varco. Tutti i sensi erano tesi, concentrati. Questa volta non trovò ostacoli, e il bruciore fu meno intenso. Era pronta a tutto, anche a imbattersi in un mostro o a sbucare in un tugurio di spettri. Ma non era affatto preparata a ritrovarsi alla presenza di Stylo Mou che sgranocchiava con avidità una barretta di cioccolato, seminascosto nella penombra di quella che le parve una cucina. «Non dirai a nessuno che stavo mangiando, vero?» la implorò lui all’istante, facendo sparire il bottino fondente nella tasca, senza altri commenti, come se quell’apparizione fosse del tutto normale. Odyssea gli fece cenno di tacere. L’ultima cosa che voleva era essere scoperta dalla signora Mou in casa sua a quell’ora e in modo così clandestino. «Che ci fai qui?» le chiese Stylo a bassa voce, quando finalmente cominciò a realizzare cos’era successo. «E da dove sei entrata?» Odyssea si girò e vide un grande quadro sulla parete. In primo piano era ritratto un tavolo, su cui due fagiani morti giacevano con le teste inerti oltre il bordo. Di fianco c’era un vassoio con una bottiglia di vino e un bicchiere di vetro vuoto. Una forma rotonda di pane sfiorava le piume rosso amaranto dei due volatili. Sullo sfondo c’era un camino: l’abile pennellata dell’artista aveva dipinto un fuoco che sembrava vero. Spirali scoppiettanti s’innalzavano cuocendo quello che probabilmente era un terzo fagiano infilzato allo spiedo. Un fucile e una giacca gocciolante di pioggia erano appesi accanto al camino. Odyssea emise un sospiro di sorpresa. Era uscita dal quadro. Dalla bocca del fuoco nel quadro. Sfiorò la tela con la mano e le sue dita vennero risucchiate al di là della superficie grinzosa. Subito dopo, però, la sorpresa divenne terrore: dei passi, lenti ma decisi, avanzavano verso la cucina. Odyssea si guardò rapida intorno, ma non c’era un posto dove nascondersi, né il tempo, a meno di non arretrare e rituffarsi nel dipinto. Con un balzo, Stylo si nascose malamente dietro l’anta di un mobile. Quando la porta si aprì, per una frazione di secondo Odyssea ebbe la certezza di riconoscere la signora Mou che la osservava con aria truce, ma le bastò il secondo successivo per rendersi conto con sollievo che si trattava di Lindia. E non era affatto truce, stava soltanto sbadigliando. Era graziosa anche in tenuta da notte. Indossava una camicia rosa che arrivava sotto le ginocchia, e una vestaglia d’organza leggera e trasparente. Calzava pantofole di seta, tanto belle da sembrare scarpette da ballo. Nel vedere Odyssea, lo sbadiglio si tramutò in un sorriso radioso. «Ciao», le disse con vivacità. «Finalmente sei venuta a trovarmi!» «Io… be’… sì…» balbettò Odyssea per niente sicura di dover essere felice di quell’incontro. «È… è… uscita dal quadro…» mormorò Stylo, emergendo dal suo nascondiglio. E poi, frettolosamente: «Io sono sceso a bere». «Sì certo», esclamò Lindia, non si capì bene rispetto a quale delle due dichiarazioni. Odyssea non sapeva cosa fare o dire. Voleva solo andare via ma Lindia – tutt’altro che preoccupata o stupita per quella visita quantomeno insolita – le offrì una fetta di torta, intrattenendola come se fosse la madrina di un ricevimento. Le raccontò di essere confinata in casa. Sua madre era più lunatica che mai, al punto che quella mattina l’aveva costretta a ricamare ben due tovaglie con un ridicolo decoro di pappagalli senza concederle un attimo di sosta. Infine, dopo l’ennesimo sbadiglio, chiese con languida noncuranza: «Da quale quadro sei uscita?» E Odyssea, suo malgrado, fu costretta a riferire una parte della sua scoperta. «Un passaggio segreto nel dipinto che piace tanto a papà?» proruppe Lindia con un gridolino estasiato. «Oh, che meraviglia! E pensare che abbiamo sempre odiato quel quadro! Pensa che la mamma aveva intenzione di bruciarlo e poi dare la colpa a un errore degli incantesimi di Stylo!» Il ragazzino strabuzzò gli occhi, umiliato e offeso. Lindia si avvicinò alla tela ma, per quanto la sfiorasse, addirittura graffiandola in certi punti, non riuscì a far accadere nulla. La partita di caccia rimase immobile sotto i suoi polpastrelli, e i fagiani le rivolsero un’occhiata vacua. «Ah…» disse alla fine rassegnata. «Allora fai strada tu.» «Fare strada? Che vuoi dire?» «Io e Stylo ti faremo compagnia!» esclamò ammiccando al fratello che non sembrava affatto d’accordo. «Non se ne parla. Se per favore volete accompagnarmi alla porta, vado via da lì. È molto più prudente.» «Sembri mia madre», protestò Lindia. «Ho avuto una settimana di noia mortale, mi merito un po’ di avventura, no?» Odyssea non demorse. «Inoltre», sussurrò, «non so se voi… se potete passare…» «Non resta che provare», concluse Lindia. Alla fine, nel timore che le voci di quel piccolo conciliabolo notturno svegliassero qualcuno al piano di sopra, Odyssea acconsentì, prendendo Lindia per mano, e invitandola a fare altrettanto con Stylo. Quando fu risucchiata al di là del quadro, percepì una vibrazione che dalle sue dita si trasmetteva a quelle dei suoi amici. Volarono nel tunnel, ma nessun fiato né lamento uscì dalle loro labbra. Fu come se stessero varcando una porta aperta, ariosa, senza barriere. Come se le sue mani proteggessero il loro passaggio. Non appena furono dall’altra parte, Lindia esclamò: «Ci siamo riusciti! Ma come hai fatto? Pazzesco, pensi che la tela si sia strappata?» Stylo, ammutolito, aveva le labbra che tremavano per il freddo. S’incamminarono lungo la galleria, che a poco a poco si fece di nuovo buia. Lindia era eccitata, nonostante battesse i denti a causa del gelo, al punto che le parole le uscivano in un farfuglio confuso. Stylo piangeva piano e odiava sua sorella con tutte le forze. Dopo un po’, apparve un altro passaggio. Stavolta era un quadratino di tessuto morbido, oltre il quale Odyssea vide una lussuosa sala da pranzo con alte poltrone rivestite di pelle e un tavolo di cristallo poco più piccolo di una portaerei. «Ri… riconosco questo po… posto!» balbettò Lindia. «È la casa di Jo… Jordy! Questa è la fa… famosa tenda di lingua di drago di cui sua ma… madre parla sempre! Ogni vo… volta che siamo invitati a pranzo o a un tè non fa altro che decantare questa te… tenda e quanto è preziosa e co… come è intessuta fi… finemente… Sai… suo marito l’ha ereditata da… dalla famiglia…» Odyssea sorrise. A suo modo anche quella era una bocca del fuoco. Poi, mentre scrutavano, distinsero una figura che si muoveva per la sala. Quando si fermò dinanzi a loro, Odyssea indietreggiò d’istinto. «È… il loro cucciolo di Gri… Grifone da guardia…» sussurrò Lindia. «Lo… lo lasciano li… libero di notte… Si chiama Clo… Clodoveo.» Odyssea osservò inorridita e affascinata l’essere singolare che ora era del tutto visibile. Un nome innocuo ed elegante che si abbinava con fatica a quelle sembianze spaventose. Clodoveo aveva un’enorme testa d’aquila, con un becco affilato e ricurvo come una falce. Il piumaggio sul collo era teso, verticale quasi, pareva la coda di un pavone. Al di sotto delle ali aperte, quattro possenti zampe di leone raspavano il suolo, con l’impeto di un toro dinanzi a un drappo rosso. Una lunga coda color miele schiaffeggiava l’aria, a scatti, come una frusta. «Non è cattivo, sai…» aggiunse Lindia. Nonostante quella rassicurazione, preferirono non superare il varco. Proseguirono ancora. Stylo era talmente infreddolito che procedeva rigido come un soldatino. Anche Lindia iniziava a dare segni di stanchezza. Dopo un altro po’ apparve un nuovo passaggio. Sembrava una specie di lastra concava, delle dimensioni di un fazzoletto. Questa volta Odyssea e Lindia si presero per mano e, trascinando Stylo, la attraversarono, atterrando in una stanza buia, su un parquet tirato a lucido. Voltandosi videro che il passaggio era una lampada di vetro a forma di anfora con una candela spenta. Lindia fu la prima ad abituare la vista all’oscurità. «È Ginestra Thomasson», bisbigliò, indicando la figura di una donna stesa sul letto a baldacchino, sfiorato dalla luce lunare. «Pericle è ancora in ospedale…» La donna era supina, vestita di tutto punto e con gli stivaletti allacciati. Era perfettamente immobile e teneva gli occhi chiusi. Tra le mani stringeva un libro e piangeva: le lacrime scivolano sulle guance e sul cuscino. Pareva dormire ma, all’improvviso, accennò un movimento e tutti trasalirono. Ginestra stava per girarsi su un fianco. Se avesse aperto gli occhi li avrebbe certamente visti. Tuttavia, proprio nel momento in cui la donna si stava voltando, Odyssea venne colpita da un’idea fulminea e, con un cenno di sole labbra, senza parlare, intimò a Lindia e Stylo, che la guardavano spaventati, di non muoversi. Quando la signora Thomasson spalancò gli occhi, puntati esattamente nella loro direzione, capì subito di avere avuto ragione. Nonostante li fissasse attraverso una cappa di lacrime, Ginestra non diede segno di averli scorti. Li guardava ma non li vedeva. Attesero fino a quando il suo respiro divenne più quieto. Allora capirono che si era addormentata. Guidati da Odyssea, rientrarono nella lampada e ripiombarono nell’oscurità. Solo quando furono oltre, Odyssea sussurrò: «Mi sono accorta che non aveva gli occhiali. Erano sul comodino. Nella penombra della stanza, e con tutte quelle lacrime, non ci ha visti». «Era molto triste», osservò Lindia. «Come la capisco… Quanto fa soffrire l’amore… Suo marito è mezzo morto… Anch’io al posto suo…» «Torniamo?» esclamò lamentosamente Stylo, interrompendola. Aveva un’aria esausta. Il cappello a punta che terminava con un pompon gli era scivolato dai capelli e gli pendeva intorno al collo e le buffe babbucce verde baccello erano zuppe. «Va bene», disse Odyssea, e Stylo le indirizzò un sorriso grato. Doveva essere passato parecchio tempo, e forse era davvero ora di andare a casa, ma quando si voltarono per tornare indietro, Lindia emise uno strillo imprevisto. Stylo si lasciò contagiare e urlò ancora più forte e Odyssea fu costretta a gridare a sua volta per pregarli di stare zitti. L’eco delle loro stesse voci si moltiplicò lungo le pareti del labirinto. «Cosa è successo? Volete abbassare la voce?» «Qu… qualcosa… ho sentito un rumore!» Il tono di Lindia divenne lagnoso come quello del fratello. Erano entrambi sull’orlo di un attacco isterico. D’un tratto, a distanza, intravidero l’ennesimo varco. Il cuore di Odyssea prese a martellare per il terrore quando si avvide che non era, come aveva sperato, la parete di legno e tessuto del dipinto nella cucina dei Mou. Sembrava un altro quadro, più piccolo della Partita di caccia, e affacciava su uno stretto corridoio malmesso, con i muri semiscrostati. Lindia non riconobbe il luogo, e a nessuno venne voglia di passare da lì. Allora, un’improvvisa coscienza gelò il sangue nelle vene di Odyssea. Si erano persi. Non poteva comunicare quella terribile impressione ai suoi amici, che singhiozzavano e si lasciavano trascinare senza alcuna volontà, come bambini spaventati. Devo pensare, devo pensare, si disse. Le facevano male le gambe, si sentiva come se avesse due chiodi conficcati nelle ginocchia e calpestasse un tappeto di schegge di vetro. Aveva bisogno d’aiuto. Aveva bisogno d’aiuto… Cercò di concentrarsi. Se era vero che aveva i poteri, e se i poteri l’avevano fatta finire in quell’oscurità, allora avrebbero potuto portarla via di lì. E all’improvviso un chiarore deciso illuminò la loro strada. Non una flebile luce, ma un bagliore così intenso che fu come se il sole fosse entrato nel cunicolo. Dopo tanto buio, i ragazzi dovettero strizzare gli occhi per non rimanerne accecati. Quando videro cos’era che emanava quella luce sfolgorante, spalancarono le bocche simultaneamente per la sorpresa. Al di là del camino acceso c’era il volto bruno e serio di Jacko. *** Odyssea era sconvolta. Quella era la casa di Jacko. Per un attimo la assalì il terrore che seduta di fianco a lui potesse esserci Breta. La paura che la vedessero la fece stare male molto più della stanchezza, delle ossa intirizzite e della consapevolezza di non poter passare da lì. Scrutò con attenzione per vedere se riusciva a scorgere il viso emaciato della ragazza, ma le parve che la sedia accanto a Jacko fosse vuota. Lindia cominciò a chiamarlo a gran voce, ma lui non sembrò udirla. Se ne stava immobile e assorto dinanzi al fuoco che si specchiava nei suoi occhi, i capelli sciolti erano protesi verso i tizzoni, e una ruga orizzontale gli marchiava la fronte. Era seduto coi gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate. «Perché non mi sente?» chiese Lindia, delusa per quella vicinanza che era invece una separazione. «Perché non ti sente?» le fece eco Stylo avvilito. «Non lo so, probabilmente da lì non si sente quello che diciamo», sussurrò Odyssea. «Ti prego, fai qualcosa», la supplicò Lindia con tono querulo. Ma Odyssea non sapeva proprio cosa fare. Le lingue di fuoco si levavano alte, e lui non si era accorto di nulla. Provò a sua volta a chiamarlo, ma lui non si distolse da quella posa rapita. Qualsiasi cosa stesse meditando, pensò Odyssea, sembrava infinitamente triste. Se solo le fiamme si fossero fermate per un attimo… se solo avessero smesso di crepitare… se solo lui avesse potuto udirli… Vi prego, anche solo per un momento… In quell’istante, come se l’avessero ascoltata, le vampe si bloccarono. Fu come quella volta sulla veranda, quando per alcuni istanti le fiamme sulla tenda erano rimaste immobili come marmo. Vide la faccia di Jacko attraversata da un sussulto di sbalordimento. Poi lo vide balzare in piedi e strizzare le palpebre, mentre un circoletto di labbro finiva rapito dai denti. Lindia riprese a urlare: «Jacko! Siamo noi! Nel camino! Spegni il fuoco!» Jacko si avvicinò e guardò nella loro direzione, senza vederli. Odyssea lo udì mormorare con voce sorpresa: «Lindia?» «Vuoi spegnere questo fuoco?» ripeté lei. Intanto le fiamme si erano rianimate e avevano ripreso a divampare flessuose. Odyssea vide che Jacko rifletteva, come se stesse scegliendo il da farsi. Infine protese una mano verso la bocca del camino. Improvvisamente, con uno sfrigolio, come se lo avesse cosparso d’acqua, il fuoco si smorzò. «E ora spostati», continuò Lindia, di nuovo allegrissima. «Così Odyssea ci fa passare.» Odyssea ebbe un secondo di tempo per notare che Jacko aggrottava le sopracciglia nell’udire il suo nome, quindi, stringendo più forte le mani dei suoi amici, superò anche quel varco. In un attimo furono al di là, nell’ingresso che già conosceva. «Ehi…» sussurrò Lindia, precipitandosi verso di lui e buttandogli le braccia al collo. Era felicissima di essere uscita da quel cunicolo, e di esservi uscita così, poi… Quella nottata non poteva finire in modo più meraviglioso. Con una gioia che non poteva essere più pura e più folle gli depositò un bacio schioccante sulla bocca, lasciandolo sconcertato. «Che bello! Sapessi quello che ci è successo!» Odyssea si voltò di lato per non vedere. Avrebbe quasi preferito rimanere dentro il tunnel, e contemplare il suo viso bellissimo, che nemmeno la cicatrice sarebbe mai riuscita a deturpare, pensoso e triste e fragile. Restò indietro, senza dire una parola, mentre Stylo sprofondava in una sedia osservandosi gli abiti zuppi. «Per favore, riaccendi il fuoco?» implorò il ragazzino. Jacko mosse ancora una mano in direzione delle braci e quelle ripresero ad ardere. Lindia si lanciò nel resoconto dettagliato di tutto ciò che era accaduto, e per alcuni minuti si udì solo il suono della sua voce e il cicaleccio del camino. Odyssea rimase immobile accanto al tavolo. Aveva il pigiama fradicio come una spugna e i capelli sembravano serpenti viscidi e piatti, tanto erano incollati alla testa. Lindia, invece, nonostante fosse altrettanto bagnata, manteneva una sua candida grazia, e i riccioli le si erano allentati in onde molli sulla schiena. In viso, poi, era raggiante. Neanche l’acconciatura più ricercata e l’abito da sera più elegante l’avrebbero mai resa così bella. Mentre raccontava, continuava ad accarezzare la mano di Jacko, che rimaneva in piedi silenzioso e l’ascoltava senza guardarla. Quando ebbe finito, il ragazzo si allontanò senza fare alcun commento, scomparendo nel lato della casa in cui certamente era nascosta Breta. Lindia fece per seguirlo, ma per fortuna Jacko tornò subito. Aveva in mano degli asciugamani e li porse a ciascuno di loro. Quando fu il turno di Odyssea le riservò un’occhiata così aspra da corrodere l’acciaio. «Non fate mai più una sciocchezza del genere», proruppe Jacko, ponendo fine al proprio silenzio. «Forse non vi rendete conto di quello che poteva succedervi», e nel dire ciò scrutò Odyssea, come se il suo rimprovero fosse indirizzato principalmente a lei. «Ma no!» esclamò Lindia. «C’era Odyssea con noi… cosa poteva succederci?» «Io non volevo andare», mormorò Stylo con gli occhi fissi sul fuoco, sistemandosi alla meglio sulle gambe la vestaglia che ciondolava verso terra. «Odyssea ti sarà grata per questa dichiarazione di stima», disse Jacko freddamente. «Ma ci sono cose che neanche lei…» «Però siamo arrivati fin qui!» insisté Lindia. Jacko parve calmarsi e si diresse verso la credenza. L’aprì e quando si voltò verso i suoi ospiti, reggeva un piatto pieno di dolci. Stylo guardò incerto la sorella, ma quando si accorse che lei era del tutto indifferente a qualsiasi cosa facesse, afferrò con soddisfazione due grossi pezzi di cioccolata e se li sistemò in grembo. Lindia prese un biscotto e cominciò a piluccarlo distrattamente. Quindi, Jacko raggiunse Odyssea e le porse una minuscola crostata di frutta. A voce molto bassa sussurrò: «Questa l’ha fatta Breta, mangia altrimenti svieni, e avvicinati al camino, sembri uno spaventapasseri caduto in una pozzanghera». Odyssea si morse l’interno di una guancia. Gettò uno sguardo malinconico verso il corridoio buio e immaginò che Breta fosse rifugiata nella sua stanza in fondo alla casa. Nonostante avesse lo stomaco cucito, cercò di ingoiare il dolce, quantomeno in onore della sua infelice amica. Rimasero lì ad asciugarsi per un tempo che a qualcuno parve troppo lungo e a qualcun altro troppo breve. A un certo punto Jacko esclamò con tono inflessibile: «Adesso vi accompagno. Però farete esattamente ciò che vi dico, senza fiatare». Con un movimento della mano spense di nuovo le fiamme. Poi si voltò verso Odyssea e, senza dire nulla, con una movenza simile a un inchino, la invitò a precederli. Quando Odyssea fu vicina al camino, lui le afferrò saldamente una mano. Quindi strinse quella di Lindia e Stylo si aggregò a loro. Per l’ennesima volta in quella nottata, attraversarono la bocca del fuoco. Non appena furono oltre, Jacko alimentò le fiamme e le bisbigliò in un orecchio: «Odyssea, devi concentrarti, devi solo desiderare il varco giusto e quello verrà». Lei annuì con risolutezza. Certo, come aveva fatto a non capirlo? Quel labirinto di gallerie obbediva al suo potere… I primi varchi si erano presentati a caso, perché la paura aveva scalzato l’attenzione, ma dopo, quando si erano persi, quando i singhiozzi di Lindia e Stylo erano divenuti insopportabili, quando si era sentita smarrita e sola, aveva pensato a Jacko, e la luce aveva squarciato il buio. Camminarono nel silenzio. Ogni volta che Stylo o Lindia accennavano anche solo a un sospiro, Jacko li zittiva. D’improvviso, la parete di legno e tessuto fece loro capire che avevano ritrovato la casa dei Mou. Stylo esplose in una risata sollevata, mentre Lindia emise un gemito d’amarezza. «Purtroppo siamo arrivati… Jacko, prima di rientrare, posso dirti una cosa?» mormorò. Si allontanarono di qualche metro, illuminati dal chiarore che giungeva dalla cucina. Odyssea intravide Lindia che si aggrappava al collo di Jacko e, con il viso premuto su una guancia, gli parlava sottovoce. Non riuscì a cogliere neanche una parola, ma dal modo in cui lui le rispose, sillabando qualcosa con le labbra, e dal modo in cui lei annuì, seria e attenta, capì che quei due condividevano veramente qualcosa di importante. «Vai e ritorna subito», ordinò Jacko a Odyssea quando si avvicinarono. Superarono il passaggio, facendo capolino appena al di sotto del fagiano allo spiedo che si rosolava sulla fiamma. «Grazie…» sussurrò Lindia abbracciandola affettuosamente. Stylo si precipitò a controllare che tutto fosse tranquillo. Andarono via lesti, e Odyssea vide le loro schiene svanire al di là della porta. Subito dopo il quadro la inghiottì di nuovo. Ormai non percepiva più alcun bruciore né alcuna sensazione sgradevole. Accanto al varco, con le spalle appoggiate alla parete concava, Jacko la stava aspettando. Dinanzi a loro si estendeva un crocicchio di gallerie profonde. «Sei tu che devi scegliere la strada», le disse. «Ma tu… non vuoi che ti riaccompagni?» «Dovrei farti ritornare indietro da sola? No, non sono così cattivo.» Sembrava scherzoso, ma il suo tono tradiva qualcosa di burbero. Dopo un breve tragitto, nonostante il buio fosse così pesto da non distinguere neppure la punta dei loro nasi, Odyssea seppe che erano arrivati. Con la mano tastò una superficie diversa dalla parete della galleria, il tramezzo di pietre che la separava dal vestibolo quieto della sua casa. «E… tu?» chiese a Jacko. «Andiamo.» L’ingresso li accolse al di là del muro. Era in penombra, ma dalla finestra entrava la luce lieve dell’alba. «Puoi tornare dal giardino…» esclamò Odyssea indicando la veranda. «Ti verrà un raffreddore», disse lui, osservandole i piedi nudi e bagnati. «Ti accompagno in camera tua. Casomai decidessi di fare qualche altra pericolosa deviazione. Per dove?» chiese sottovoce. «Oh… non c’è bisogno…» bisbigliò lei agitata, sentendosi come se al posto del torace avesse una voliera piena di colibrì. Jacko scosse la testa, e la trascinò verso la scala, percorrendo i gradini a coppie. Mentre salivano, le sussurrò: «Hai paura di me?» Odyssea impallidì e sentì le orecchie che ronzavano forte. Il cuore era sul punto di esplodere. Raggiunta la sua stanza si fermò, le spalle all’uscio, con l’intenzione di salutarlo per poi rifugiarsi al sicuro da qualsiasi tentazione. Ma Jacko scosse di nuovo la testa, spinse la porta ed entrò. Quando furono dentro le lasciò andare la mano e si guardò intorno, sfiorando con gli occhi le pareti decorate, il tulle che avvolgeva il baldacchino, la bambola sul cuscino, le pantofole pelose che le aveva regalato Joyce adagiate sul tappeto. Odyssea attese qualche commento, ma per l’ennesima volta lui la stupì. Le fece cenno di sedersi sul letto. Poi parlò a voce sussurrata ma dura: «Allora, stammi ad ascoltare e non mi interrompere. Hai fatto una cosa molto pericolosa, stasera. Troppo pericolosa. Davanti a Lindia e Stylo ho preferito non rincarare la dose, ma sai cos’è quel maledetto passaggio? No, naturalmente, altrimenti non saresti entrata e spero non avresti trascinato con te Lindia e Stylo. Ti basti questo: ti ricordi quando ti ho raccontato di tuo padre e di Breta e di quella notte in cui mi disse di stare attento? Quella stessa notte, prima di andare via, mi fece giurare che avrei murato il camino o che in alternativa l’avrei lasciato sempre in funzione. E io l’ho fatto. E se tuo padre mi ha detto questo e se il camino di sotto è chiuso, evidentemente c’è un pericolo che può venirne fuori, non credi? Per cui, Odyssea», le si avvicinò, «non entrare mai più lì dentro, hai capito?» «Ho capito», bisbigliò lei. «Io non sapevo… o meglio… avevo intuito ma…» «Ma sei entrata lo stesso. Vedi Ody, tu hai dei poteri che non immaginavo, neanche io posso attraversare quei varchi. Però non devi sopravvalutarti, sei solo all’inizio. Prima di padroneggiare decentemente i tuoi poteri passeranno anni.» «Hai ragione, però… mi sembra strano ricevere consigli su ciò che devo o non devo fare… su ciò che è giusto o sbagliato… da parte di uno che… be’… è risaputo che tu te ne freghi delle regole!» Jacko sorrise. Aveva un sopracciglio alzato e la fissava in modo bizzarro, come se cercasse qualcosa di spiritoso da dire ma non trovasse le giuste parole. «Si dicono tante cose su di me, tu a cosa credi?» le domandò alla fine. Odyssea rifletté, o finse di farlo, poiché non le occorreva nemmeno un secondo per racimolare le idee che lo riguardavano, e non perché fossero poche, ma perché erano limpide. Incrociò le gambe assumendo una posa svagata. «Sono troppe le cose che penso, molte delle quali pessime», scherzò a voce bassissima. Jacko si sedette sul letto e la fissò con insistenza. Dinanzi a quello sguardo imperioso, che le scombussolava l’anima e la pace, Odyssea abbassò gli occhi sul materasso seguendo il ghirigoro del copriletto, come se fosse irresistibilmente attratta dal ricamo. «Sei in gamba, nonostante sia ancora così piccola», le disse. «Non sei partita, dunque.» «No, non ancora…» «Forse è meglio che vada. Ho la sensazione che se arrivasse tua madre e mi trovasse in camera tua accelererebbe la partenza. Penserebbe che voglio attentare alla tua virtù.» «Magari penserebbe che sono io a voler attentare alla tua virtù», bisbigliò lei, rendendosi subito conto di aver esagerato. Arrossì all’istante, domandandosi dove avesse scovato tanta sfrontatezza. Finse di grattarsi il naso, ma solo per nascondere le fiamme che le avevano arroventato gli zigomi. «Io non ho più una virtù.» Jacko rise in modo sardonico. «E in ogni caso tu non saresti in grado di compiere alcun attentato. Sei troppo…» «Troppo?» «Buonanotte, imbranatissima creatura», tagliò corto lui. «Vedi di crescere, impara a dare baci decenti, e poi, forse, ne potremo riparlare.» Jacko aprì la finestra e un alito d’aria entrò nella stanza. Odyssea si alzò in piedi e così rimase, in silenzio. Si sentiva come se dovesse sostenere il peso di una montagna, come quel personaggio mitologico dannato, il cui atroce destino lo vedeva costretto a reggere sulla schiena il fardello del mondo intero. Jacko si voltò e le indirizzò un sorriso indefinito, nel quale si mescolavano in ugual misura tracce d’ironia e l’inizio di qualcosa di malinconico. Subito dopo si calò giù dalla finestra con un salto. Era un’altezza notevole, ma Odyssea non dubitava che avesse toccato il suolo senza problemi. Nelle prime luci del mattino, divenne una macchia scura che si allontanava verso il giardino. Rimase a scrutarlo finché la curva non lo rapì e scomparve. I SEI DELL’INCANTESIMO La casa era in fermento e nessuno badava a lei. C’era un grande andirivieni di maghi che entravano e uscivano parlottando sottovoce con le teste chine. Alcuni trasportavano pacchi di giornali arrotolati, con cautela, quasi fossero ordigni esplosivi. Dalla porta semiaperta le sembrò di intravedere il signor Mou e le spalle erette del signor Angel che gesticolava dissertando a voce insolitamente sommessa. Non vide sua nonna, né sua madre. S’imbatté invece in Joyce che rientrava dal giardino con un cestino pieno di grossi semi grigi. L’anziana signorina si fermò un attimo per baciarla sulla fronte. Poi le fece cenno di seguirla in cucina. Il fuoco scoppiettava nel camino. Percival non c’era. «Joyce, cosa succede? Mi sembrano tutti un po’ nervosi…» «Ne hanno ben motivo!» rispose lei polverizzando all’interno del paiolo una stecca del tutto simile a vaniglia, che a contatto con la mistura emise densi bagliori fumosi. «Il giornale di stamattina riportava una notizia sconcertante.» «Che notizia?» Joyce parve indecisa. «Non credo che dovrei parlartene…» tentennò, ma dinanzi alla sua insistenza, le riferì che finalmente erano stati identificati i corpi dei tre maghi trovati dissanguati, con la testa decapitata. Le fece tre nomi che in tutta sincerità non le dissero niente. Però poi aggiunse: «Erano tre dei maghi che avevano rinchiuso quel terribile mostro nell’Antro dei Raminghi. C’è il sospetto che lui voglia in qualche modo vendicarsi». «E chi erano gli altri?» «Erano in sei. Mancano Hamlet Angel, Frederick Mou e Pericle Thomasson», disse seria. «Ne restano soltanto due.» *** Odyssea uscì dalla cucina e varcò la portafinestra della sala da pranzo. Il sole faceva capolino a fatica attraverso strati di nuvole alte. Sulla veranda, abbandonata sul pavimento, una copia del giornale le confermò la notizia che le aveva appena dato Joyce. PAURA A WIZZIEVILLE Finalmente l’Emerita Accademia della Scienza Magica ha identificato i corpi dei tre maghi trovati dissanguati, con le teste mozzate di netto. Trattasi del mago eremita Plinio Anachoretus e della sorella Giglia che vivevano nelle grotte della Collina di Castlered. Il terzo mago era invece Otello Viator, che mancava già da alcuni mesi da Wizzieville per via di una missione perlustrativa autorizzata nel Mondo-altrove. Ecco perché la loro assenza non era stata subito segnalata. Gli specialisti dell’Emerita Accademia hanno rilevato la presenza sui corpi martoriati, oltre ai segni tipici del dissanguamento, anche ferite incomprensibili, simili a morsi di grosse bestie, del tutto diverse da quelle cagionate usualmente da Squartavene e non riconducibili ad alcuno degli animali catalogati sul territorio. Dobbiamo forse temere che un branco non identificato si aggiri nei nostri boschi? Non possiamo tacere inoltre che i tre eccelsi maghi appartenevano al cosiddetto Gruppo dei Sei, ovvero i sei maghi più capaci del tempo che dodici anni fa rinchiusero i resti di Squartavene nell’Antro dei Raminghi. Se è vero che l’ignoto erede di quel prigioniero lo ha fatto fuggire, allora in tali morti si può certamente ravvisare un piano di vendetta. Tenuto conto che il nostro esimio preside, il signor Pericle Thomasson, è stato colpito e giace in uno stato che per molti è l’anticamera della morte, non possiamo che raccomandare agli stimati cittadini Hamlet Angel e Frederick Mou una grande cautela. Lesse l’articolo più volte. Seduta sul gradino che separava la veranda dal vialetto di ghiaia, si sentì assalire dall’ansia. Dal salotto giungeva distintamente la voce di Hamlet Angel che parlava in modo concitato. «Dobbiamo insistere perché la ragazzina si sottoponga alla Verifica. Dobbiamo conoscere le intenzioni di Angus Ziggart! Siamo tutti in pericolo, ve ne rendete conto? Egli attacca i migliori di noi, e solo catturando i suoi pensieri nella Giada potremmo predisporre una difesa più adeguata. Non vedo altra soluzione…» Odyssea trasalì. Che sciocca era stata! Dinanzi alla scoperta di non essere l’unica vittima designata aveva sperato che gli altri, sentendosi minacciati da vicino, potessero mostrarsi più comprensivi. Ma si era clamorosamente sbagliata. Hamlet Angel si esprimeva con un tono ancora più battagliero. Poi sentì rumori di sedie e voci sommesse, segno che la riunione stava volgendo al termine. Avrebbe voluto nascondersi, ma Hamlet Angel uscì sulla veranda prima che potesse sgattaiolare via. Dietro di lui, il signor Mou teneva da un braccio Ginestra Thomasson, i cui occhi, dietro le spesse lenti rettangolari, apparivano sempre più congestionati. «Allora, signorina Bennet, ha riflettuto sulla nostra proposta?» le chiese Hamlet. In quel momento la signora Thomasson emise un singhiozzo strozzato, chiuse gli occhi e si accasciò, scivolosa come un’anguilla, sfuggendo al sostegno del signor Mou. Una piccola folla la circondò per soccorrerla, ma la donna riaprì gli occhi quasi subito. «Portatemi a casa», supplicò ansimando, col viso pallido e contratto. Il suo sguardo però sembrava cercare qualcuno. Quando vide Odyssea, emise un gemito sordo. «Ragazzina», mormorò. «Avvicinati…» Odyssea obbedì. «Sai che ti ho sognato?» continuò Ginestra con un sorriso incerto porgendole una mano molliccia e fredda come una medusa, che Odyssea strinse con istintivo ribrezzo. «Ragazzina… ragazzina…» ripeté con un tono che cresceva e diventava isterico. «Stai attenta… Ho fatto uno strano sogno, uno strano sogno…» Quindi, ponendo fine a quel vaneggiare, allentò la presa e si lasciò accompagnare fuori. Osservò Odyssea finché le fu possibile, con occhi accesi, spiritati, quasi da pazza. Occhi che, per qualche istante, prima di dileguarsi, a Odyssea parvero perfino crudeli. Tutti i maghi andarono via, in un sottofondo di commenti sulle condizioni mentali di Ginestra che, da quando suo marito era in fin di vita, sembrava uscita di senno. Quando pure l’ultimo mago fu lontano, Grace la raggiunse con un’espressione bellicosa. «Vedo che qualche persona previdente ha opportunamente dimenticato quel giornale dove sapeva che l’avresti trovato. I nostri beneamati concittadini sono delle belve», disse a denti stretti. «E credo che sotto le spoglie di qualche rispettabile personaggio si nasconda qualcosa di terribile», si avvicinò a Odyssea e le strappò il giornale dalle mani. «Non voglio più vedere in giro questa spazzatura», ringhiò andando via infuriata. Augusta la guardò allontanarsi, prima di parlare: «Non credere a tutto quello che leggi, mia cara. Spesso i nostri giornalisti colorano la verità. Per quanto, devo ammettere che qualcosa di vero…» «Possono costringermi a fare quella Verifica?» «Oh, no! Non permetterei mai che qualcuno osasse una cosa del genere! Dopotutto, per essere veramente efficace, quel tipo di prova presuppone un grande convincimento. Non ha senso obbligarti. E anche Hamlet lo sa.» «Nonna… per caso ho notato che il camino dell’ingresso è murato. Come mai?» Augusta le rivolse uno sguardo triste. «Non c’è una ragione, una ragione esatta, intendo. Posso solo dirti che dodici anni fa tuo padre mi fece giurare che avrei eretto un muro di pietra lavica nella bocca del camino e che avrei tenuto sempre in funzione tutti gli altri. All’inizio pensai che fosse in delirio, perché era in punto di morte, ma lui insisté così tanto… così tanto… e da allora ho sempre avuto cura di mantenere quella promessa.» Odyssea tacque per qualche istante, riflettendo. Poi disse: «La signora Thomasson è distrutta…» «Non preoccuparti per lei», replicò Augusta. «Ginestra è molto più forte di quanto tutti pensino.» Quando la nonna andò via Odyssea si stese sulla sdraio di bambù e chiuse gli occhi. Aveva ancora tanto sonno arretrato. Chi avrebbe dormito dopo una notte così intensa? Sentì il ronzio di un insetto nell’aria intorno al suo viso e quel brusio ipnotico la fece addormentare. *** «Svegliati… Apri gli occhi…» Sollevò le palpebre, mentre qualcuno le scuoteva un braccio con decisione. Doveva aver dormito molto, poiché s’era fatto buio. Si voltò per individuare chi l’aveva svegliata, e accanto a sé vide uno strano omino poco più alto di due bottiglie, con un visetto appuntito, grigiastro e grinzoso come una fodera stropicciata, due orecchie enormi, e una strana palandrana a righe che sembrava una veste da carcerato. «Svegliati…» ripeté l’essere con fare sempre più sgarbato. Odyssea lo fissò sbalordita, incapace di credere ai suoi occhi. Poi si alzò dalla sdraio e si guardò intorno. Minacciava di piovere e il sibilo del vento freddo pareva quasi un ululato. Ma soprattutto c’era qualcosa che non andava. Che fine avevano fatto tutte le piante della nonna? Non c’era più alcuna traccia degli alberi e dei fiori che riempivano il prato. Un timore improvviso l’assalì, la paura che potesse essere accaduto qualcosa di grave mentre lei dormiva. Intanto l’omino le si era attaccato al braccio e si agitava e mugugnava come una scimmia ringhiosa, sbraitando parole confuse e incomprensibili. «Togliti dai piedi!» gli disse, scrollandolo, ma quello rimase saldamente aggrappato, ridendo e fissandola con due pupille sferiche, prive di palpebre e gialle come foglie secche. Si precipitò in casa, chiamando sua madre, la nonna e Joyce. Arrivò persino a invocare Percival, ma sembrava non ci fosse nessuno, eccettuato quell’odioso pupazzo animato che la tormentava. Anche al piano di sopra tutte le stanze erano vuote e in cucina la accolse il buio più fermo. Il fuoco era spento. Ritornò nell’ingresso, madida di sudore nonostante il freddo. L’omino stava ancora scalando il suo braccio tentando di issarsi su una spalla. «Vattene via!» gridò Odyssea esasperata. Dalla sua mano scaturì una vibrazione, e un lampo di luce scaraventò l’essere alcuni metri più in là. Subito dopo udì dei passi. Rapidi ma lontani, come attutiti. Ciò che vide fu così sconvolgente che per qualche secondo ebbe paura di svenire. Suo padre. Suo padre che sbucava dal camino. In mano aveva un involto e Odyssea notò con orrore che dalla carta arrotolata grondavano gocce di sangue. Al collo portava una collana. L’oro della catena brillava nella penombra e il ciondolo era un’onice nera. Nello stesso istante sua madre scese le scale terrorizzata, col respiro ansante. «Charlton!» gridò. «Cosa dobbiamo fare?» «Prendi Odyssea», le ordinò. «Devi portarla via di qui!» Sua madre scomparve di nuovo, e suo padre prese a camminare avanti e indietro, guardando il camino come se attendesse qualcosa. Finché qualcosa giunse. Dalla stessa bocca del fuoco, emerse lui. Squartavene. Il mantello nero lo foderava come un carapace, lasciando intravedere solo qualche porzione di viso. La pelle era scollata come vecchia carta da parati, e sotto di essa s’intravedeva il lucente biancore del cranio. «Ho fatto ciò che mi hai chiesto», disse suo padre con voce adirata. «Ho nutrito la bestia. Ma dopo che avrai ciò che vuoi, lascia in pace la mia famiglia.» Squartavene emise una risata simile a un grugnito: «Sono io la tua famiglia, ricordati». Odyssea, rintanata in un angolo, sentiva il cuore pulsare in tutti i punti del suo corpo. «Prendi la bambina, maledetto!» urlò Charlton. «E vattene via da questa città!» «Prenderò la bambina, non dubitare. Ma prenderò anche te!» Odyssea uscì fuori dal suo nascondiglio gridando, ma fu come se non la vedessero. Squartavene si sollevò da terra, scagliando contro suo padre un’ondata di energia, qualcosa di invisibile e visibile allo stesso tempo, un fluido ondulato come il calore dell’asfalto d’estate. Charlton fu scaraventato via e sbatté con la schiena contro la parete, piegandosi in due dal dolore. Dalla bocca gli sgorgava un rivolo di sangue, ma nonostante fosse ferito, urlò in preda a un’ira che gli fece pulsare le vene delle tempie e del collo. «Ti ho procurato il cibo, ho fatto in modo che qualcun altro ne sia incolpato, ho soggiogato quella ragazza innocente regalandole quella dannata collana, ho ingannato quel povero bambino, e ora ti dono mia figlia, il mio bene più prezioso! Ho mantenuto le mie promesse! Tu dovrai mantenere le tue! Devi sparire dalla nostra vita!» «Tu hai fatto ciò che volevi fare! Io non ti ho costretto. La verità è…» Squartavene abbassò la voce, che divenne ancora più cavernosa. «La verità è che tu sei il mio discendente e nel tuo sangue scorre il mio stesso sangue. Prenderò tua figlia, non temere, e la crescerò come mia erede. Ma per questo non ho più bisogno di te!» Scosse il mantello, e da esso scaturì un’altra folgore che centrò Charlton in mezzo alla fronte. «Non credere che non sappia. Hai cercato di salvare quei ragazzi. Ma io porterò con me tua figlia e poi tornerò a completare la mia opera.» Odyssea provò più e più volte a spingere via quell’enorme massa vibrante, ma fu come tentare di toccare un’ombra. In quel momento sua madre scese le scale correndo. Stringeva tra le braccia un fagotto avvolto in una sciarpa colorata. Squartavene fece per scagliarsi contro di lei, ma Charlton lo colpì proprio un attimo prima che la sua mano sfiorasse la testa di Grace. Vide sua madre che fuggiva, sfidando il temporale. Pensò di seguirla, ma sapeva già cosa sarebbe accaduto lì fuori, e rimase. Squartavene spiccò un balzo e atterrò sul petto di Charlton Bennet con violenza inaudita. Odyssea udì il crocchiare delle sue costole e vide il sangue che abbandonava il suo corpo massacrato. Poi il mostro uscì dalla casa, continuando a scuotere il terreno come un martello pneumatico. In quell’istante dalla scala scese un’altra persona. Era la nonna. Si precipitò verso Charlton che gemeva in una pozza di sangue. «Augusta…» mormorò lui con la voce che andava affievolendosi. «Augusta… ho commesso degli errori…» «Charlton… cosa posso fare?» Gli occhi della nonna erano laghi di lacrime. «Non c’è più niente da fare… Non c’è più niente da fare… Promettimi una cosa… fai murare il camino… o tienilo sempre in funzione… sempre acceso… promettimelo… promettimelo!» Nell’attimo in cui un tuono fece tremare la terra e un lampo illuminò a giorno l’interno della stanza, Charlton Bennet chiuse gli occhi per sempre. Odyssea gridò. Uscì sulla veranda e la pioggia la sommerse. Gridò, gridò e gridò. In lontananza intravide un bagliore che riconobbe. Il bagliore della sua lotta, la lotta di una bambina di appena quattro anni che combatteva contro un mostro. Completamente sola. Quando rientrò in casa non c’erano più né sua nonna né suo padre. In mezzo alla stanza, sul pavimento, giaceva l’onice nera. La luce della luna sembrava concentrata tutta su quella pietra, come su un attore solista che si produca in un triste monologo. Il laccio d’oro era strappato e sulla lamina erano impresse tracce di sangue rappreso. Poi udì altri passi. Dalla cucina uscì Joyce. Avanzò vigile e furtiva e si avvicinò all’onice. Prima di raccoglierla si guardò intorno, e il suo sguardo attraversò Odyssea senza notarla. Si chinò sul gioiello e lo infilò velocemente nella tasca del grembiule. Odyssea non l’aveva mai vista così. C’era qualcosa di scaltro nei suoi occhi. Uno strano ghigno illuminava il volto in genere così mite. Joyce salì le scale e scomparve dalla sua vista. Odyssea si appoggiò con la schiena alla parete. La nausea montava, e presto l’avrebbe costretta a rimettere. Si accasciò a terra e cominciò a piangere. Cosa significava tutto ciò? Dov’era? Cosa stava accadendo? In quel momento, la creatura dispettosa tornò all’attacco e le si appese ai capelli, strappandoglieli e canticchiando la stessa incomprensibile nenia con tono ingiurioso. «Basta! Ho detto basta!» urlò Odyssea. Afferrò quell’essere dal collo e lo lanciò contro il muro. L’omino emise un sinistro pigolio. Odyssea fu colta da una vertigine ed ebbe la sensazione di svenire. «No… così non va bene…» La voce di Joyce provenne da chissà dove. Odyssea spalancò di nuovo gli occhi. La luce del sole la colse di sorpresa. Era stesa sulla sdraio in veranda e Joyce le accarezzava i capelli. «Non va bene, piccola mia. Hai fatto un brutto sogno, vero? Piangevi e gridavi. Mi hai fatto paura. E non riuscivo a svegliarti…» Odyssea si sollevò. Era sudata, e ancora le palpitavano le tempie e la gola. «Cosa… cosa è successo?» «Niente», la consolò Joyce. «Hai fatto solo un incubo.» Odyssea si scusò e salì in camera. Rimase immobile sul letto come se fosse in catalessi, le immagini del sogno impresse negli occhi, scene ripetute senza sosta, parole e tuoni e lacrime e sangue. Aveva visto suo padre. Suo padre era un traditore. Suo padre era l’erede di Squartavene. Ma non era possibile! L’erede di Squartavene era ancora vivo, lì da qualche parte! «Era solo un incubo», disse a se stessa. «Solo un incubo… Non c’è nulla di vero…» Un incubo come molti altri. Un incubo peggiore degli altri. Nascose la testa sotto il cuscino e prese a singhiozzare, disperatamente, tenendosi il guanciale sulla bocca. Non voleva che qualcuno la udisse. Voleva essere una ragazzina normale. Voleva divertirsi e innamorarsi e ballare. Non ne poteva più di sogni che grondavano sangue. Non ne poteva più di quei poteri che la facevano sentire schiava. Non ne poteva più di avere sedici anni e di sentirsene addosso seicento. *** Vagò per il giardino la maggior parte dei giorni che seguirono, non allontanandosi mai troppo e non raggiungendo la scuderia nemmeno una volta. Scelse di non condividere i suoi pensieri con nessuno. Una mattina, mentre era seduta in veranda, accucciata sul gradino, le sembrò di udire dei passi provenire dal viottolo. Dopo quel maledetto incubo, qualsiasi rumore inconsueto la faceva sobbalzare. Alzò gli occhi e vide Ginestra Thomasson che avanzava verso di lei. Era stravolta. I capelli, di solito pettinati in un rigoroso caschetto, erano sparati in mille direzioni. I vestiti apparivano sgualciti e non del tutto lindi. Aveva le braccia protese in avanti, come una sonnambula. Odyssea pensò che fosse entrata dal cancelletto esterno. «Ragazzina», le disse. «Ehi ragazzina, puoi venire un attimo?» Odyssea non si mosse. La voce della signora Thomasson era particolarmente stridula. «Cosa c’è, signora Thomasson?» le domandò, sforzandosi di essere gentile e di camuffare il disagio che quella donna le provocava. «Posso fare qualcosa per lei?» «No…» rispose Ginestra ridacchiando come un’invasata e avvicinandosi ancora. «Sai che ti ho sognata? Attenta alle api… hanno un brutto pungiglione… che sciocchi insetti… dopo che pungono muoiono… lo sai che gli si squarcia il ventre? E loro continuano a pungere… ma non possono farne a meno… e fanno così tanto male…» «Signora Thomasson, aspetti qui, vado a chiamare mia nonna, si sieda qui, per favore…» Le cinse le spalle e la fece sedere sul gradino, scappando dentro casa. Quando riuscì a trovare la nonna e condurla fuori, la signora Thomasson era sparita. *** Odyssea s’incamminò per il giardino. Voleva raggiungere il cancelletto esterno, capire precisamente da dove fosse entrata Ginestra. Superata la schiera di agrumi, prima della curva che portava alla scuderia, vide una recinzione seminascosta dagli alberi. Era alta e robusta, di ferro battuto, chiusa con un lucchetto senza fenditura né chiave. Chissà se la formula utilizzata da Joyce e da sua madre per aprire la porta della soffitta poteva funzionare, pensò. Fissò con insistenza il chiavistello e pronunciò più volte Patefacio ma non accadde nulla. Poi un rumore improvviso alle sue spalle, uno scricchiolio di ghiaia e rami, la fece sussultare. Si voltò con gli occhi stravolti, pronta al peggio. Jacko O’Donnell stava appoggiato al tronco di un albero e rideva sonoramente. «Davvero credi di aprirla in quel modo?» chiese, guardandola con una sfumatura di derisione. «No», sussurrò Odyssea. «Ho solo provato. Grazie per l’incoraggiamento. Ci vediamo un’altra volta magari.» Si mosse verso casa a passo lesto e nervoso. Non aveva voglia di parlargli. Sentiva l’umore sotto i calcagni, e a volte aveva il timore che il proprio equilibrio fosse compromesso come quello della signora Thomasson. Jacko la raggiunse in poche falcate e le afferrò un braccio. «Che succede? Hai una faccia…» disse, abbassando la voce e fissandola negli occhi. «Ho la mia solita faccia! E adesso, per favore, posso – tornare – a – casa – mia?» Scandì le parole lentamente, evitando di guardarlo. «No che non puoi», insisté Jacko, «se prima non mi dici cos’hai.» Quella spietata insistenza la irritò. In un’altra situazione avrebbe gradito tanta sollecitudine, ma in quel momento si sentì quasi aggredita. Percepì la piena di tutti i sentimenti, di tutte le angosce, di tutto il dolore, che le si riversava addosso come un’onda seppellisce un ciottolo di pomice. Tentando ancora di divincolarsi, gridò: «Vuoi lasciarmi andare?» Ma Jacko non allentò la presa. Odyssea si sentì travolgere dalla rabbia. Cosa voleva da lei? Perché non la lasciava perdere? Perché non la smetteva di comportarsi in quel modo così ambiguo, così crudele, come un gatto col topo? La rabbia s’ingigantì e divenne impossibile da frenare. E insieme a essa, Odyssea avvertì un calore nelle mani, intenso come un’eruzione di lava e, senza riflettere oltre, senza accorgersene, muovendo il braccio come se volesse liberarsi da quel fuoco, scaraventò Jacko contro il cancello. Udì il clangore del ferro che oscillava e il tonfo dell’urto con la sua schiena. Lo vide crollare sull’erba. Jacko rimase immobile per qualche secondo, osservandola con uno stupore sconfinato. «Odyssea calmati!» Si alzò, e il cancello vibrò, trattenendo a sé filamenti di sangue. Odyssea sentì la rabbia che l’abbandonava. Quando si rese conto di ciò che aveva fatto, spalancò gli occhi e la bocca come se volesse gridare, ma si ritrovò senza fiato. Un rivolo di sangue gocciolava dalla schiena di Jacko verso l’addome. Pareva una decorazione, una cintura rossa, una stampa sulla camicia. Odyssea vide che l’intera cancellata aveva piccole sporgenze taglienti, e immaginò quelle punte conficcate nella schiena di Jacko. «Io… non volevo… non volevo… ti giuro…» ripeté piangendo. «Puoi picchiarmi se vuoi…» Se ne stava immobile con le braccia aperte, come un soldato che si arrende. Jacko la raggiunse. La fissò con insistenza, e se Odyssea non fosse stata ottenebrata dall’orrore per ciò che aveva appena fatto, avrebbe notato che in quegli occhi c’era una specie di delicatezza e nei suoi modi una paziente esitazione, come se volesse toccarla, calmarla, quasi come se volesse consolarla per avergli fatto del male. Quella pazienza, tuttavia, durò troppo poco perché lei potesse scorgerla. Subito dopo Jacko scosse la testa e si morse le labbra. «Non dire sciocchezze», concluse bruscamente. S’incamminò sul vialetto che portava alla scuderia e Odyssea, benché non fosse stata invitata, lo seguì. Si sentiva svuotata. Procedeva macchinalmente, gli occhi fissi su quella ferita rosso fuoco che continuava a zampillare. Quando entrarono in casa, lui estrasse dall’armadio una cassettina blu all’interno della quale c’erano medicinali e bende. Non fiatò. Odyssea avrebbe preferito che la insultasse, che la rimproverasse, che la scagliasse contro il muro e la facesse a pezzi. Ma quel silenzio era terribile, più assordante di un grido. Jacko si tolse la camicia. La ferita era localizzata su un fianco e per fortuna appariva meno profonda di quanto tutto quel sangue facesse pensare. Odyssea gli si avvicinò timidamente: «Po… posso… aiutarti…» sussurrò con voce soffocata. Jacko scosse la testa e stappò coi denti una bottiglina che conteneva un liquido trasparente dall’odore acre. Intrise una garza e se la passò sulla ferita, e da essa si sprigionarono lievi fumi grigi. Doveva bruciare molto, ma lui non emise alcun suono. Quando il sangue cominciò a coagularsi, si applicò da solo un bendaggio e scomparve nell’altra stanza. La sua uscita di scena parve quasi una fuga. Odyssea rimase sola, con gli occhi fissi sul camino che ardeva. Si chinò, raccolse la camicia appallottolata da terra, e qualcosa di arrotato le afferrò la pancia, come se l’artiglio di un’aquila avesse infilzato il suo stomaco. Come aveva potuto fare ciò che aveva fatto a Jacko? Come aveva potuto? Sentì il fuoco che le incendiava le guance, asciugando le lacrime come un vento desertico. Dentro di sé desiderava che Jacko spalancasse la porta, che l’abbracciasse, che la scusasse, ma nulla accadde. Si volse verso la porta e la aprì cercando di fare piano. Sperò con tutto il cuore che Jacko stesse bene. Non le importava altro. Quando Joyce la vide avvicinarsi alla veranda gridò sollevata: «È qui!» La mamma e la nonna accorsero subito. Non appena Grace vide il sangue, afferrò le mani di sua figlia controllandole con attenzione, poi la girò su se stessa per capire se si fosse fatta male. «Che cosa è successo?» chiese freneticamente. Odyssea si limitò a scrollare la testa e mormorò che era caduta. Grace le mise un braccio intorno alle spalle e la portò in casa, facendo cenno a Joyce e Augusta affinché le lasciassero sole. Quando furono in camera le sfiorò il viso e lo avvertì febbricitante. La aiutò a lavarsi, a indossare il pigiama e le pettinò i capelli. «Mamma… posso… posso rinunciare ai miei poteri? Io… non li voglio… non li voglio… Se vuoi andiamo via, mamma. Anche domani. Anche stanotte.» Grace continuò a pettinarle i capelli con movimenti lenti. «Non mi piace la persona che sto diventando», disse ancora Odyssea a voce sempre più bassa. «Faccio sempre brutti sogni… e tutto il male che… non ce la faccio più…» «Stai tranquilla…» le sussurrò sua madre senza chiederle niente. Rimase con lei finché non si addormentò. La febbre svanì solo all’alba. LA NOTTE DELLE STELLE Avrebbe dovuto decidersi a uscire dalla vasca. L’acqua era ormai fredda e i polpastrelli rugosi. Se ne stava lì dal risveglio, immersa come un coccodrillo, solo gli occhi e il naso fuori dal pelo dell’acqua. Ma non aveva voglia di muoversi, di asciugarsi, di vestirsi, non aveva voglia di vivere. Non riusciva a togliersi dalla testa la voce tonante di Squartavene, l’involto sanguinante che suo padre teneva in mano, l’odioso essere che le si era attaccato al braccio, e lo sguardo astuto e crudele di Joyce. Cercava di scacciare quei pensieri e le veniva in mente la schiena di Jacko che stillava sangue. Meglio rimanere a mollo, finché il suo corpo non si fosse disfatto come un biscotto da troppo tempo nel latte. Non voleva affrontare tutto ciò che c’era da affrontare fuori da quella vasca smaltata. In quel momento, vide Fagola volarle davanti al viso, toccandole a tratti la fronte, quasi volesse accertarsi che quel blocco immobile sprofondato da due ore nell’acqua fosse davvero la sua amica Odyssea, e non uno strano tipo di pesce. Odyssea si sollevò quel tanto che bastava da permettere alle labbra di riemergere, e mormorò debolmente: «Forse è meglio se mi stai lontana, non faccio che combinare guai». La farfallina strizzò ed espanse il suo corpicino spugnoso e un getto di pulviscolo color porpora cadde come una pioggia di scintille. Poi la consolò a suo modo: Apri gli occhi, gonfia il cuore e sorridi al nuovo giorno non è detto che l’amore non rinasca a te d’intorno. Il coraggio che ci vuole tu ce l’hai nella tua mente apri gli occhi, gonfia il cuore e ritorna tra la gente! Odyssea le sorrise. Quelle dolci e imperative parole la fecero sentire rinfrancata. Fagola era l’unica che la trattava con normalità, senza eccessi di apprensione né distacco. Sentendosi improvvisamente molto stupida, uscì dalla vasca intirizzita e intorpidita, e tornò a vivere. *** «Finalmente mia madre si è convinta! Che senso ha tenerci prigionieri? Papà glielo ha detto, non è stando chiusi in casa che evitiamo i pericoli…» Lindia stava chiacchierando animatamente sul divano. Era estremamente graziosa nel suo prendisole color pesca e in mano teneva un ombrellino di stoffa poco più grande di una moneta, con frange che tintinnavano come braccialetti di perline. Era venuta a trovarla con suo fratello e Jordy era con loro. «Oh…» continuò, «a dire il vero la mamma ha fatto un bel po’ di storie, figurati che voleva assumere una Mangusta Guardiana privata solo per me e Stylo! Sarebbe stato proprio imbarazzante camminare per strada con quella specie di topastro elettrizzato dietro le spalle… Ma in parte la capisco, specialmente ora che rimangono solo papà e il signor Angel.» Jordy assunse un’espressione turbata: «Lindia, beata te che riesci a essere così tranquilla. Non ti rendi conto di quanto la situazione sia grave?» Per tutta risposta Lindia lo ignorò, mostrando il più totale disinteresse. «Bah… smettiamola con questi brutti pensieri. Piuttosto, non le diamo la bella notizia?» esclamò come se non stesse più nella pelle. «Certo», disse Jordy. «Siamo venuti anche per questo. Odyssea, benché sia una cosa che non approvo in pieno, benché molte siano quest’anno le complicazioni, tuttavia sono lieto di farti sapere che la Notte delle stelle non sarà sospesa.» Odyssea guardò tutti con un’aria stupita: non aveva la più pallida idea di cosa stessero parlando. Lindia batté le mani più volte agitandosi sul divano, come se seguisse il ritmo frenetico di una canzone. «Naturalmente tu non sai cos’è la Notte delle stelle! O meglio, non sai cos’è per noi qui a Wizzieville! Il 10 agosto, sulla Collina delle Luci, tutti i ragazzi si riuniscono per vedere le stelle cadenti! È un’esperienza magnifica!» spiegò. «Quest’anno saranno prese alcune precauzioni in più e l’intero perimetro della Collina sarà sorvegliato da Manguste Guardiane. Ma non rimprovero tuo padre per aver voluto comunque perpetuare questa tradizione», disse Jordy rivolgendosi a Lindia. Stylo sentenziò annoiato: «Io non sopporto tutta la parte zuccherosa». «Tu che non sopporti le parti zuccherose! Non l’avrei mai detto! Credevo che, grasso come sei, lo zucchero fosse la parte che preferivi!» Lindia sghignazzò, facendo uno sberleffo all’indirizzo del fratello, ma Stylo non le diede la soddisfazione di replicare. Allora, quasi infastidita che il fratello non si mostrasse platealmente offeso, si accostò a Odyssea e le chiese: «Che ne dici di farmi vedere la tua stanza?» Jordy si alzò e s’inchinò con grande educazione al loro passaggio. Quando Odyssea gli passò a fianco le sussurrò con tono quasi supplichevole: «Torna presto, per favore». Appena furono dentro la camera, Lindia si sedette sul letto e prese a saltellare sul materasso spingendosi con le mani: «Hai visto? Jordy ha una cotta per te! Sei fortunata, nessuno avrà mai niente da ridire su Jordy Angel». La voce di Lindia si era incrinata ma, nonostante la malinconia che l’aveva adombrata, Odyssea ebbe la sensazione che il ruolo della ragazza che viveva una storia d’amore contrastata le andasse piuttosto a genio. L’unica cosa che lasciava perplessa lei, invece, era l’allusione ai sentimenti di Jordy. «Ma che dici?» mormorò sedendosi a sua volta sul letto. «Non fare finta di non aver capito! Ti guarda come se… be’… gli brillano gli occhi! Suo padre ha detto che non avrebbe nulla in contrario se tu e Jordy vi frequentaste.» Lindia abbassò la voce e si avvicinò all’amica. «Anche se non lo ammetterà mai, credo che gli piacerebbe avere qualcuno con i poteri in famiglia. È un tale arrivista! Pensa che ha già proposto la propria elezione a preside della scuola quando Pericle morirà!» Odyssea arrossì imbarazzata, troppo sconvolta dalle allusioni sentimentali di Lindia per soffermarsi sul resto. «Proprio non capisco quello che stai dicendo!» esclamò. «No, veramente, non ridere, di che parli? Credo che tu ti stia sbagliando!» «Io non mi sbaglio mai su queste cose», dichiarò Lindia con sussiego, come se fosse un’autorità indiscussa in materia. «Quando quell’orrida Scialba Macneal ebbe una storia con Apollo Power, io lo capii subito. E tutti a dire no, ma che dici, che coppia terribile, e invece ora stanno insieme, e lui è pure geloso! Non che voglia minimamente paragonarti alla povera Scialba! Ma scusa, non sono venuta qui per questo. Volevo parlarti di quell’altra faccenda…» Dalla voce che s’era fatta dolce e vaga, e dal luccichio negli occhi chiari di Lindia, Odyssea capì che si riferiva a Jacko. Si alzò e andò alla finestra, dandole le spalle. «Non lo vedo da quella notte, ricordi? Che notte… Non preoccuparti, comunque, saremo muti come pesci! Non ci va proprio che la mamma sappia del passaggio segreto! E poi Stylo ha un debito di gratitudine nei tuoi confronti. Non fa che lodarti per la distruzione della biblioteca! Gli ho detto che, se starà zitto, ti occuperai anche del resto della scuola. Lo farai se puoi, vero?» Poi, abbassando di nuovo il tono, arrivò alla domanda che più le premeva. «Ma… be’… a proposito del raduno… ecco, io vorrei tanto che Jacko venisse. Sai che non ha mai partecipato nemmeno a una Notte delle stelle? Faresti una cosa per me? Andresti a dirgli di venire? Anzi, andresti a ordinargli di venire?» Odyssea rimase col viso rivolto alla finestra. Lindia le chiedeva una cosa impossibile. No, non sarebbe andata da Jacko a riferirgli il messaggio di un’altra, esponendosi al rischio di soffrire qualora lui avesse mostrato di gradirlo. Inoltre, dopo ciò che era accaduto l’ultima volta, sentiva di dovergli stare lontana a ogni costo, per il bene di entrambi. «Non credo che sia una buona idea. Mia madre e mia nonna mi controllano sempre e non mi fanno allontanare nemmeno per un attimo. Mi dispiace.» Odyssea si girò verso l’amica, e nel vedere i suoi occhi umidi, pur non cedendo alle sue insistenze, le sussurrò: «Secondo me verrà lo stesso, vedrai che ti farà una sorpresa», sperando con tutto il cuore che non fosse vero. Lindia riacquistò colore improvvisamente. Gli angoli delle labbra le si arricciarono in un sorriso. «Tu dici?» esclamò. «È vero! Non ci avevo pensato… Gli altri anni non è mai venuto, ma quest’anno sta con me. Oh, verrà certamente, hai ragione!» Abbracciò Odyssea e le scoccò un bacio sulla guancia. Pace era fatta. Tornando in salotto, Odyssea trovò sua madre, la nonna e Joyce che conversavano con Jordy. Stylo, non appena vide Lindia, balzò dalla sedia, cercando di attirare la sua attenzione per andarsene, ma non ci fu verso di sottrarsi alla mezz’ora che seguì. Odyssea si compiacque di una cosa soltanto: sua madre appariva meno rigida e sospettosa e, benché gli aloni lividi intorno agli occhi la accompagnassero ormai come un tatuaggio indelebile, sembrava che una piccola luce bruciasse nel fondo del suo sguardo malinconico. Jordy fu il primo ad alzarsi. «Direi che si è fatto tardi. Sono desolato, ma ho promesso alla signora Mou di riportare a casa Lindia e Stylo.» «Ma no», ribatté Lindia, «ce la caveremo benissimo da soli.» E così dicendo strizzò un occhio a Odyssea davanti a tutti i presenti. Come se non bastasse, Joyce, passando dietro Odyssea, le diede una lieve spinta, esortandola a guidare i suoi ospiti alla porta. Jordy chiudeva la fila e rallentò volutamente sussurrandole appena: «Spero di poterti accompagnare al raduno, domani notte». «Io… io non so se mi lasceranno venire… sai…» balbettò Odyssea, del tutto impreparata a quell’invito. «Ne ho già parlato con tua madre e con tua nonna e ho avuto il loro consenso, sempre che anche tu sia d’accordo.» «Allora… suppongo… va bene…» mormorò lei con un filo di voce. Jordy le strinse la mano con gioia e la salutò. I tre ragazzi sparirono oltre il portone. Odyssea rimase immobile e ancora incredula. Era la prima volta in vita sua che un ragazzo la invitava a uscire. Era la prima volta che aveva un appuntamento. La cosa avrebbe dovuto farla sentire eccitata, inducendola a soffermarsi decine di volte sul modo in cui Jordy le aveva parlato, sul perché del suo sguardo intenso e su tutti i significati possibili delle sue costanti attenzioni, ma non era così che si sentiva. Sono davvero strana e incontentabile, disse a se stessa rientrando in casa. *** «Allora, come ti vestirai per il raduno?» le chiese Joyce elettrizzata entrando in camera sua. Odyssea la fissò come se avesse appena raccontato una barzelletta tutt’altro che spiritosa. «In che senso, scusa?» «È tradizione che le ragazze indossino i loro abiti più graziosi, e tu… non vorrai metterti uno di quei tuoi… pittoreschi…» insisté implorante senza finire la frase. «Sei così carina, colombella mia, che qualsiasi cosa ti dona, ma potresti almeno per stasera non vestirti da sacchetto di tela e indossare qualcosa di più elegante?» «Non ho niente di elegante. E i miei vestiti mi piacciono.» Odyssea sporse le labbra in una posa imbronciata. Non aveva nessuna intenzione di abbigliarsi come una nuvola. Quando sua madre entrò, implorò un silenzioso aiuto con lo sguardo. «Facciamo una cosa, Joyce. Tu portale una delle tue bellissime sete e lasceremo che sia lei a farne ciò che vuole.» «Hai ragione, Grace!» Joyce uscì dalla stanza entusiasta. Poco dopo rientrò con un involto sul braccio ricoperto da una carta leggera e lucida. Quando lo appoggiò sul letto e lo aprì, le stoffe più colorate e brillanti spiccarono sul candore del lenzuolo. Odyssea si avvicinò e le accarezzò con grande cautela, come se temesse di rovinarle. «Cosa devo fare?» domandò stupita. «Niente di speciale», disse sua madre. «Devi solo sceglierne una, quella che ti piace di più. E poi devi pensare intensamente al vestito che vorresti.» «Le mie Sete Autoincantate sono le migliori di Wizzieville!» si pavoneggiò Joyce. «Quale vuoi, dimmi… Questa rosso vivo? No, è troppo accesa, troppo audace! E questa giallo cedro? No, forse fa a botte con il tuo incarnato…» Ma Odyssea non aveva bisogno di consigli. La sua attenzione fu subito attratta da un colore verde bosco, intenso e scuro, come un prato fitto di trifogli al declino del sole. «Ora devi toccarla e pensare a cosa vorresti indossare», le spiegò Joyce. «Però ti prego, non farti venire in mente quelle… meravigliose… federe che usi per magliette… La mia seta sarebbe sprecata…» Odyssea si sedette sul letto e prese ad accarezzare la stoffa. In certe sfumature le ricordava il colore degli occhi di Jacko. Quel nero totale che tuttavia, sotto una certa luce, diventava d’un verde foresta… Preferì concentrarsi sull’abito. Cosa avrebbe voluto mettere? Qualcosa che non fosse veramente elegante, no, ma neanche una… come l’aveva chiamata Joyce? Una federa… E allora immaginò se stessa con un vestito fresco e leggero, frusciante come quelli di Lindia. Immaginò una gonna lunga e morbida, che le accarezzava le gambe e arrivava fino ai polpacci. Immaginò un corpetto senza maniche, con tanti nastrini che s’incrociavano sulla schiena. E mentre lei pensava, la stoffa, adagiata sul letto, prese vita. Fu come se dieci mani invisibili stessero cucendo a velocità accelerata. La seta si sollevò a mezz’aria e si gonfiò, si contorse, si stiracchiò, come danzando. Poi l’abito prese forma e, in poco tempo, fu pronto. Ed era esattamente come Odyssea l’aveva pensato. Joyce non poté trattenersi dal commentare: «Certo, io avrei fatto la gonna un po’ più riccia, e con qualche volants…» La aiutarono a vestirsi. Poi la mamma le pettinò i capelli, appuntandogliene una parte con un nastro della stessa seta. Quando si trattò di scegliere le scarpe, però, Odyssea fu irremovibile. La nonna bussò alla porta salvandola dall’insistenza di Joyce. «Jordan Angel ti attende», annunciò, tra il divertito e il commosso. Odyssea infilò in fretta i suoi stivaletti scuri, intrecciati sul davanti. Non appena Joyce e Augusta uscirono dalla stanza, Grace la tirò a sé e l’abbracciò. «Sei proprio bella sai? All’inizio non volevo che andassi, ma poi ho pensato che non posso privarti di tutte le emozioni per paura. Non avrebbe senso tenerti prigioniera. Perciò, divertiti stasera.» «Farò il possibile», sussurrò Odyssea. «Non te l’ho mai detto», continuò Grace, arrossendo lievemente, «ma è stato proprio a uno di questi raduni che io e tuo padre ci siamo innamorati. Charlton era il ragazzo più bello di Wizzieville. Non lo dimenticherò mai.» Odyssea la strinse con forza. Grace Bennet era come lei, un mucchietto d’ossa e sospiri, una mamma-bambina, una donna soffice nascosta dietro una maschera da donna dura. In quel momento pareva un cucciolo abbandonato ai margini di una strada. «Ma ora vai… Sei fortunata, Jordy Angel è un bellissimo ragazzo, vero?» «Sì, credo di sì», sibilò Odyssea. «Ma non è il più bello di tutti», e guardò sua madre con occhi eloquenti. Poi uscì dalla stanza e scese le scale. Jordy la attendeva al pianterreno. Indossava un abito blu notte, con una soffice camicia bianchissima. I capelli biondi parevano più lucenti, come se li avesse spennellati con un raggio di luna. In mano aveva una piccola scatola trasparente, all’interno della quale un fiore a forma di stella sprigionava bagliori argentei. Quando vide Odyssea, le rivolse uno sguardo carico di ammirazione. Estrasse il fiore e glielo legò intorno al polso con un nastro. Lei era imbarazzata, ma non sapeva se a suscitarle il maggiore disagio fossero le occhiate di Jordy o il bisbiglio di Joyce alle sue spalle. Le sembrava di essere al centro di una commedia sentimentale in cui doveva sostenere la parte della ragazzina piena di tenera riconoscenza. La nonna li raggiunse con un cestino da picnic e lo porse a Jordy con un sorriso. «Divertitevi», disse Grace dall’alto della scala. «E state attenti!» Jordy, porgendo il braccio a Odyssea, esclamò allegramente: «Non temete, questa ragazza si prenderà cura di me». Quella battuta fece ridere tutti e spezzò la tensione. Quando il portone si chiuse, Joyce scappò in cucina singhiozzando di gioia. *** La Collina delle Luci era un enorme spiazzo erboso, delle dimensioni di un anfiteatro. Era circondata da centinaia di fiaccole librate a mezz’aria che diffondevano tenui scintillii biancheggianti. Dolci rilievi rocciosi si ergevano e s’inseguivano come gobbe d’un gigantesco dromedario grigio ai margini della pianura, fungendo da recinto naturale. Sul prato c’erano così tanti ragazzi che Odyssea non credeva potessero abitare tutti a Wizzieville. Jordy la prese per mano. Lo aveva fatto con tale naturalezza che all’inizio, così presa da tutto quello splendore, non se ne era nemmeno accorta. Tutt’attorno branchi di Manguste Guardiane vigilavano l’area della Collina. Stavano radunate in gruppi di cinque o sei, in ogni punto dell’immensa radura verde, cercando di mimetizzarsi, di nascondersi al di là delle fiaccole, negli angoli in cui la luce si smorzava e cominciava la bordura di roccia. Odyssea le osservò e una Mangusta le puntò addosso gli occhi, brillanti come fanali, fiutando l’aria e poi ignorandola. A un certo punto, da lontano, le parve di scorgere Lindia. Era vestita di giallo e il suo abito splendeva come una pepita. Conversava con alcune ragazze e si guardava intorno con un guizzare rapido del collo che non aveva nulla da invidiare a quello delle Manguste. Nel notare Odyssea si precipitò verso di lei e, abbracciandola, le sussurrò in un orecchio: «Dimmi, l’hai visto? L’hai visto? Io no… ma verrà, vero? Verrà di sicuro!» Odyssea ne approfittò per staccarsi da Jordy e Lindia la prese da parte scusandosi perché gli rubava la ragazza. Odyssea la fissò allibita. Non aveva nessuna intenzione di sembrare la ragazza di Jordy Angel. Questo fermo proposito non aveva niente a che fare con la bellezza di lui, che era innegabile, né con la sua gentilezza o con un miliardo di altri dettagli positivi che lo rendevano senza dubbio molto interessante. Ma non voleva, e basta. Lindia la trascinò di lato, così frenetica che a tratti pareva senza respiro. «Stai molto bene, sai! Anch’io, vero? Tutte quelle smorfiose ti odiano», mormorò indicando un gruppetto di ragazze che scrutavano ora lei con occhi sospettosi e stizziti, ora Jordy battendo languidamente le palpebre. «Prima ho sentito Patricia Bullface dire che non hai proprio niente di speciale! Vedi quella tizia che assomiglia a un Troll? L’anno scorso era innamorata pazza di Jacko! Non sai come lo perseguitava! Ma lui non ne ha voluto sapere niente! E vedi Letizia Sweettenam? È quella specie di sirena rosso fuoco vicino a Max Perriton.» Odyssea si voltò e scorse Max che parlava con una bellissima ragazza alta, le cui caratteristiche più evidenti erano una cascata di capelli vermigli, una bocca dipinta di rosso rubino, e un abito succinto. «Mia madre dice che è una svergognata ad andarsene in giro con delle gonne lunghe come bavaglini… Quella lì è stata con Jacko per qualche settimana alcuni mesi fa… Poi lui l’ha mollata! Ma lei torna alla carica a intervalli regolari!» Odyssea patì una strana fitta. Già le era difficile immaginare Jacko con Lindia, ma pensarlo con quella Letizia… Non era solo bella, ma seducente e piena di una femminilità ampollosa che lei non avrebbe mai posseduto. Se mai un pensiero, dettato più dalla fantasia che dalla ragione, l’aveva sfiorata, accarezzandole la mente nel sogno che forse, chissà, magari Jacko avrebbe anche potuto interessarsi a lei, quelle rivelazioni la convinsero che non aveva né avrebbe mai avuto alcuna speranza. Jordy arrivò alle sue spalle, domandandole: «Hai fame?» Si unirono a un piccolo gruppo, lei, Jordy, Lindia, e si sedettero a mangiare sul prato, su grandi teli di cotone. Esplosioni di risa sbocciavano da ogni parte. Per Odyssea era un’esperienza completamente nuova, non era mai stata una ragazza di sedici anni prima di allora. D’un tratto Lindia, che le era seduta accanto, la strattonò facendole male. «È Jacko, quello? È lui?» le bisbigliò. «Mi sembra di vedere Levante…» «Dove?» «Lassù, sulla collinetta in fondo! Io vedo Levante, quindi ci sarà anche Jacko!» Lindia era elettrizzata e quasi folle, continuava ad agguantarle un gomito con un piglio saldo da schiaccianoci. «Avevi ragione… è venuto… è venuto… è venuto per me… non era mai venuto prima d’ora a questa festa…» E in quel momento Odyssea lo vide. Era a poco più di cento metri da loro, su una piccola altura. Stava seduto a terra, con le gambe penzolanti oltre il dirupo. Levante era qualche passo più indietro, col collo curvo sull’erba. Jacko guardava il cielo, e pareva del tutto disinteressato a ciò che accadeva nella radura. Odyssea ne distinse la figura snella, lo schizzo bruno dei capelli che si confondeva con l’oscurità, la camicia bianca che pareva fosforescente, e vide che si stendeva, piegando le gambe, e scrutando la volta sopra di sé. «Io vado da lui!» esclamò Lindia, a bassa voce, distraendola da quello spettacolo. «Faccio bene, vero? Secondo me se lo aspetta! Odyssea… ti prego… se Stylo mi cerca… se qualcuno mi cerca… puoi dire che sono tornata a casa?» Odyssea avrebbe tanto voluto trattenerla, ma sarebbe stato come provare a catturare il vento in un’ampolla. Lindia si alzò e si allontanò dal gruppo senza nemmeno salutare, e ben presto fu solo una macchia dorata nel buio. Odyssea notò che Helize dava una violenta gomitata alla ragazza seduta di fianco a lei. Poi la udì distintamente dire: «Secondo me Lindia si prepara al grande passo…» e sghignazzare cercando di soffocare la risata in una mano. L’altra, una ragazza bassa e grassoccia di nome Hannah, diventò rossa, e si guardò bene dall’assecondare quella frase inelegante. Tuttavia entrambe si voltarono verso l’altura. Lindia era arrivata e sembrava che Jacko la stesse aiutando a salire. Odyssea disse a se stessa che non doveva più guardare da quella parte. S’impose di tenere la testa bassa, ma ogni volta gli occhi le guizzavano nel punto in cui Lindia si era seduta con Jacko. All’improvviso tutte le fiaccole si spensero e l’oscurità si allargò. Il cielo, fino a quel momento nero come ossidiana, si tinse di miriadi di lentiggini lucenti. Tutti gli occhi si volsero in alto di attesa di qualcosa… e le stelle cominciarono a cadere. Prima una. Poi due. Poi centinaia. Scie luminose, come graffi argentati, cadevano così svelte che spesso l’occhio non riusciva a coglierle. Odyssea era senza fiato: non aveva mai visto qualcosa di così bello in tutta la sua vita. «È meraviglioso, vero?» disse Jordy avvicinandosi e prendendole di nuovo la mano senza smettere di osservare il cielo. Odyssea avvampò e voltandosi vide Max Perriton che baciava la sua ragazza accarezzandole i capelli. A ben guardare, a parte Helize che con petulante civetteria tratteneva un tizio con un vestito color ramarro che invece provava a svignarsela, molte erano le coppiette che, anziché contemplare le stelle, preferivano contemplarsi l’un l’altro. Odyssea si sentì avvampare ancora di più. Era circondata da innamorati che si cimentavano in baci febbrili, e non sapeva come evitarne il destino senza apparire scortese. Fu allora che, notando la torta sulla tovaglia ancora aperta sul prato, decise di allungarsi verso il dolce e afferrarne un pezzetto, servendosi della mano che Jordy stringeva. Lui le sorrise, e forse comprese, e allora sorrise ancora di più. Odyssea inghiottì l’ultimo boccone e guardò in direzione dell’altura. Le parve di non scorgere più nessuno. Qualcosa di languido la catturò, sentì le braccia fiacche come quelle di un pupazzo di gomma, il cuore tra l’incudine e il martello, gli angoli della bocca che precipitavano all’ingiù, e allora spostò gli occhi sul cielo. In quel momento colse un rumore lontano, simile al fischio di un treno. Gradualmente, quel treno invisibile diventò due, dieci, cento, mille treni, che si avvicinavano insieme stridendo. Odyssea si portò le mani alle orecchie, provando dapprima fastidio, e poi un vero e proprio dolore. Gli altri ragazzi intorno non sembravano aver udito nulla. Erano rapiti solo dalle loro emozioni e da quella notte incantata. All’improvviso quel fischio colossale si trasformò in un grido. Un grido bestiale. Era come se un grosso branco di animali feriti a morte stesse agonizzando. Si alzò di scatto, e gli occhi di tutti si piantarono su di lei. Jordy fu svelto a prenderla per mano e a condurla più in là, a distanza dalle persone radunate sull’erba, esclamando: «Io e Odyssea andiamo a fare una passeggiata». «Che c’è? Che succede?» le disse appena furono soli. Era sinceramente preoccupato. «Tu… tu non senti niente?» alzò la voce in preda all’ansia. Jordy scosse il capo senza smettere di fissarla. «No… tu cosa senti?» Odyssea, con le lacrime agli occhi, non gli rispose. Rimase immobile, tutta la forza concentrata sulle mani, a premere le orecchie, mentre quel suono le vibrava nel cervello. Era impossibile da sopportare, la tentazione di urlare a sua volta fu grande. Poi, pian piano, il rumore si attenuò, perse vigore, divenne sempre più simile a un’eco, fino a scomparire. Odyssea staccò le mani, bianca come un lenzuolo, senza voce, come se avesse urlato davvero per tutto quel tempo. «È passato?» domandò lui. Odyssea annuì. «Perché l’ho sentito soltanto io? E perché le Manguste non hanno sentito niente?» chiese sgomenta, guardando la gente che festeggiava e quegli strani animali che continuavano a muoversi con frenesia, senza emettere alcun allarme. Jordy le prese la mano. Pareva colpito da ciò cui aveva assistito. «Potrebbe essere una manifestazione dei tuoi poteri? Forse tu senti qualcosa che gli altri non possono sentire. È una cosa terribilmente affascinante.» «No, Jordy, non è molto affascinante, credimi, sentire un urlo che ti spacca la testa. Per non parlare del modo in cui tutti mi guardavano. Devo essergli sembrata pazza.» «Scusa, non volevo offenderti», disse Jordy dispiaciuto. «Pensi che dovremmo dare l’allarme?» mormorò Odyssea, incerta. «Non credo. Mi pare tutto tranquillo.» Mentre se ne stavano in piedi in silenzio, Odyssea seria e angustiata e Jordy con gli occhi fissi su di lei, qualcuno esclamò: «I Fuochi Magici!» Il cielo, finora attraversato solo da rapidi solchi di stelle, divenne un arcobaleno di colori. Erano diversi dai fuochi d’artificio che Odyssea aveva visto nella sua vita al di fuori di lì. Erano luci magiche che componevano meravigliose figure. Apparvero un drago azzurro, una sirena con la coda fluttuante, un grosso gufo appollaiato su un ramo, un enorme ariete con le corna a spirale, un leone mastodontico seduto a sfinge, un folletto che portava una lanterna, un calderone dal quale uscivano bollicine, un rospo che saltellava, e un centauro che impugnava un arco. L’ultima immagine fu spettacolare: un unicorno al galoppo con la criniera nel vento. Brillò in cielo per alcuni minuti, poi si fermò a bere a una sorgente e si specchiò nell’acqua, finché non s’immobilizzò nella stessa posa rampante della fontana monumentale della piazza. Infine, una luce abbagliante esplose in aria, proiettando su tutti una nuvola di polvere d’oro. Odyssea era rapita, e in quel momento, mentre guardava il cielo invaso dalle ultime scie colorate, Jordy Angel le si avvicinò e, senza alcun preavviso, prendendole il viso con entrambe le mani, la baciò. Odyssea rimase immobile come una statua, disorientata come un ago da bussola senza bussola. Tuttavia, lo smarrimento durò un attimo: subito lo allontanò da sé, spingendolo indietro e portandosi una mano alle labbra. «Scusami», esclamò lui. «Non ho resistito. Sei così interessante, quest’innocenza che hai, e questi poteri così straordinari…» «Per favore… io…» sussurrò Odyssea, senza sapere esattamente cos’altro dire. «Lo so, scusami. Non dovevo, sono stato impulsivo e sfacciato, vuoi perdonarmi?» Lei annuì a disagio. Jordy era senza alcun dubbio bello fin quasi ai limiti della perfezione, e qualsiasi altra ragazza fra quelle che cicalavano nella radura avrebbe voluto essere al suo posto, ma lei riusciva soltanto a sentirsi imbarazzata. Il fatto che apparisse sempre così educato e solenne rendeva ancor più strano il suo gesto. Poteva aspettarselo da Jacko, ma da Jordy no, lui non sembrava propenso a fare le cose solo per scherzo. Quella conclusione la allarmò. Che Jordy considerasse quell’approccio un modo per chiederle di diventare la sua ragazza? Come poteva fargli capire che non voleva? Cosa doveva dire? Contemporaneamente, tutti i ragazzi si alzarono dalle loro basi sull’erba. Le fiaccole sospese in aria si riaccesero illuminando la Collina. Jordy andò a recuperare il cestino e la raggiunse. «Ti va di restare ancora?» le domandò. «Andiamo tutti a fare una passeggiata.» «Io, non so, ho freddo…» bisbigliò. Per tutta risposta Jordy si tolse la giacca e gliela posò sulle spalle. Una voce giunse squillante da dietro. «Lindia è sparita… Hai notato? Secondo me sua madre l’ammazzerà…» Helize se la rideva con un’altra ragazza alta come una scopa che non mancò di aggiungere: «Hai visto quella lì? Jordy Angel è il ragazzo più ambito di Wizzieville… arriva lei e…» Stavano parlando evidentemente di lei, ma non gliene importava. Ciò che le premeva era individuare Lindia in mezzo alla folla in movimento. Ma non vide nulla che somigliasse ai boccoli dorati della sua amica, e nulla che le ricordasse il viso di Jacko e la sua camicia candida. Quella marea di giovani colorati e felici le sembrò assolutamente anonima. Passeggiarono per le vie di Wizzieville, a piccoli gruppi. Odyssea non se la sentì di partecipare alle loro discussioni, però era bello stare ad ascoltare. La faceva sentire normale, e le dava il tempo di pensare a come replicare casomai Jordy le avesse chiesto di diventare la sua ragazza… qualcosa di formale e gentile, diverso da Sai, sono cotta di Jacko O’Donnell e di te non me ne importa un fico secco, qualcosa tipo Sono onorata della tua proposta galante, ma in questo momento della mia vita preferisco essere libera da legami… oppure Mi sento troppo piccola per un’esperienza del genere. Frasi, queste, fasulle fino all’osso, poiché se al posto di Jordy ci fosse stato Jacko avrebbe accettato senza rifletterci nemmeno un centesimo di secondo. Quando gli altri ragazzi si dispersero, Jordy l’accompagnò fino a casa. «Possiamo vederci ancora?» le domandò mentre camminavano. «Pe… perché no? È stata una bella serata…» «Anche per me, bellissima. E vorrei che, se ne hai voglia, mi parlassi un po’ più di te.» «Io non amo molto parlare di me», bisbigliò, titubante. «Non è vero», replicò lui con un sorriso. «Dicendomi che non ami parlare di te in fondo mi hai parlato di te, no?» Lei non gli rispose, intenta soltanto a misurare i passi che la separavano da casa. Era stata una gradevole serata, in un certo senso, eccezion fatta per quel grido misterioso che le aveva spaccato i timpani, per le occhiate degli altri ragazzi, per la scomparsa fin troppo eloquente di Jacko e Lindia, e per l’imbarazzo fiammante di quell’ultima mezz’ora. Quando giunsero dinanzi al portone, Jordy le chiese di fermarsi un istante, e Odyssea ebbe paura che il momento cruciale fosse arrivato. «A proposito di poco fa», sussurrò. «A questo riguardo volevo dirti che…» azzardò lei a voce bassissima. «Volevo chiederti ancora scusa… vorrei che non pensassi male di me», continuò lui senza ascoltarla, «mi sono fatto trascinare dalla situazione, dalle stelle, dal tuo viso assorto, ma non avrei dovuto. La prossima volta aspetterò che sia tu a farlo…» Jordy sorrise e Odyssea pensò che stesse velatamente scherzando. Annuì sollevata, eppure offesa. Era contenta che Jordy non avesse progetti sentimentali, ma non poté non domandarsi cosa aveva di così sbagliato che tutti i ragazzi la baciavano solo per passatempo. Forse baciava talmente male da far fuggire chiunque a gambe levate? E cosa voleva dire «la prossima volta aspetterò che sia tu a farlo?» Di certo non lo avrebbe mai fatto di sua iniziativa. Scrollò le spalle, nervosa, e lo rassicurò, dicendogli che non pensava affatto male di lui. Poi entrò in casa, ben felice di mettersi al riparo da Jordy e dalla sua gentilezza così difficile da gestire. *** L’ingresso era in penombra ma dalla veranda proveniva una luce, segno che qualcuno era ancora sveglio. Sua madre la salutò con un sorriso, un sorriso da mamma buona, che Odyssea aveva desiderato per tanti anni della sua vita, e che ora lì, in quel luogo, stava lentamente venendo fuori. Non le chiese nulla, ma le sussurrò: «Domani mi racconterai tutto, ora andiamo a dormire». Odyssea chinò il capo in segno di assenso, ma prima, disse, si sarebbe trattenuta un po’ in veranda. Rimasta sola si sedette sul gradino e si abbracciò forte le ginocchia. La mia casa, pensò, questa è la mia casa. La seta della sua gonna frusciava nell’aria notturna e l’odore dell’erba la quietava, ma il pensiero di Jacko e Lindia tornò ad assillarla quasi subito. Dov’erano andati? Non voleva pensarci, non voleva arrovellarsi nell’immaginare il perché di quella comune uscita di scena, le faceva già troppo male il semplice fatto che fossero spariti nello stesso momento. Jacko, pensò, dove sei? Era talmente concentrata su di lui che le sembrò addirittura di udire la sua voce che la chiamava. Rimase immobile, con gli occhi serrati e il viso sulle gambe, a godersi quell’impressione così realistica e preziosa, a sentire l’odore del cuoio dei suoi pantaloni e l’andamento lento del suo respiro. Quando sollevò la testa, per poco non gridò. A pochi centimetri da lei c’era Jacko in carne e ossa, e la guardava con strani occhi raggelati. «Ja… Jacko… mi… mi hai fatto spaventare…» sussurrò, tenendosi una mano sul petto. «Lo vedo», disse lui. «Forse aspettavi qualcun altro?» «No… Tu… come… come stai?» «Sto bene. E non grazie a te.» «Ti… ti ho visto stasera… sei venuto…» mormorò Odyssea timidamente. «Sì», annuì Jacko, continuando a osservarla dall’alto. Odyssea si alzò. Nello stesso istante in cui gli fu di fronte si rese conto di indossare ancora la giacca di Jordy e il fiore a forma di stella intorno al polso. Si sentì ardere la faccia, senza capirne bene il perché. «Che… che c’è?» domandò, cercando di mantenere un tono disinvolto, mentre la terra le si apriva sotto i piedi. «Mettiamo bene in chiaro una cosa», attaccò lui, «se sono qui è solo perché mi serve un favore. Ho bisogno di una cosa che soltanto tu puoi fare. Ma se avessi potuto mi sarei rivolto a qualcun altro, credimi.» «Cosa… cosa posso fare?» gli chiese balbettando. «Devo andare in quel passaggio, quello dietro il camino.» «Ora?» «No, tra qualche giorno», rispose brusco. «Domani parto. Quando tornerò. Dopo non ti disturberò più, stanne certa.» Odyssea ebbe l’impressione che le gambe le si stessero sgretolando come pilastri di sabbia asciutta. Perché le parlava così? Era vero, l’aveva ferito, era stata impulsiva e maldestra, ma perché non provava a scusarla, a capirla? Perché non le sorrideva almeno un poco? Avrebbe gradito anche il suo scherno, in quel momento. Tutto fuorché quella specie di agghiacciante distacco. «Io… Jacko… ti chiedo scusa per l’altro giorno… non volevo farti male… è l’ultima cosa al mondo che…» balbettò ancora. «Ma… non è così grave… spero… spero che potrai perdonarmi… ti prego…» «Non dovevo permetterti, sono stato stupido, lo ammetto», disse Jacko serrando i pugni. «Ma non accadrà mai più.» «Non accadrà mai più», gli fece eco Odyssea. Jacko le si avvicinò ancora. «Ti sei divertita stasera?» «S… sì…» sussurrò Odyssea. «L’ho notato», replicò lui senza toglierle gli occhi di dosso. Detto questo, si voltò per andar via. «Jacko», gridò alla sua schiena che si allontanava. «Ti prego, vuoi perdonarmi?» «No», rispose lui risoluto, senza girarsi. E sparì dalla sua vista. Odyssea rimase immobile, in piedi sulla veranda, avvolta nella giacca di Jordy, fissando il vialetto vuoto dinanzi a sé. Si sedette sulla sdraio e si accasciò, confusa, incredula, col cuore stretto in un pugno. DI NUOVO NEL TUNNEL Dovette raccontare della sua serata per tre volte, tacendo quei particolari che nessuna delle sue interlocutrici, per un motivo o per l’altro, avrebbe gradito. Dopo colazione attese per alcune ore, con un nervosismo che le faceva vibrare le palpebre, nel timore e nella speranza che Lindia la andasse a trovare per riferirle della sua grandiosa serata. Ma Lindia non comparve, e Odyssea immaginò che la madre le avesse inflitto qualche diabolica punizione. Non c’era dubbio che le penitenze della signora Mou fossero perfide ricompense per disobbedienze gustose. Perciò, se si era presa la briga di castigarla, Lindia doveva aver commesso qualcosa di molto dilettevole. Quando il sole raggiunse la sommità del cielo, Odyssea decise di andare a trovare Breta. Domani parto, le aveva detto Jacko. Per questo, sapendo che Breta era sola, sperò che potesse gradire un po’ di compagnia. E lo fece anche pensando che, se Jacko avesse saputo della sua gentilezza nei confronti della sorella, forse l’avrebbe perdonata. Odyssea aveva riflettuto a lungo su quale potesse essere il motivo per cui Jacko aveva bisogno di entrare nello stesso passaggio segreto dal quale l’aveva messa categoricamente in guardia ma, per quanto si fosse accanita a fare ipotesi ed elaborare congetture, non era riuscita a dare un senso a quella richiesta. E poi c’era stata quella terribile frase: Dopo non ti disturberò più, stanne certa. Quando arrivò davanti alla casa, la porta era chiusa e le finestre serrate. Odyssea bussò e attese di percepire qualche movimento dall’interno che le facesse intendere che Breta l’aveva udita, ma le sembrò che la casa fosse disabitata. In mano teneva un cartoccio con una fetta di torta appena sfornata che aveva sottratto dalla cucina di Joyce, come se fosse un pregiato cimelio. Bussò di nuovo, con maggiore insistenza, dicendo il proprio nome a voce alta per farsi riconoscere. Dopo poco, la porta si aprì di uno spiraglio. Alla domanda «Posso entrare?» la porta si dischiuse ancora un poco cigolando appena, e Odyssea entrò. «Breta, dove sei?» la chiamò guardandosi intorno senza scorgerla. Poi si voltò e nel punto più lontano dal camino, in un angolo di buio deciso, scorse il suo profilo alto ma esile. Indossava un vestito scuro, largo e informe, con le maniche così lunghe da coprirle le mani. Odyssea le rivolse un sorriso e, spostandosi verso il centro della stanza, la invitò ad avvicinarsi. Breta tentennò, poi si mosse a piccoli passi, tenendo le dita intrecciate sul grembo e gli occhi bassi. «Ciao», mormorò Odyssea. «Ti ricordi di me? Sono Odyssea Bennet.» Breta aveva le guance incavate, la pelle che affondava nella mascella metteva quasi a nudo un mento appuntito come un cuneo. Però ricambiò il sorriso e si sedette su una sedia con lo sguardo fisso sul fuoco. La luce della fiamma illuminava un volto affilato e stanco, e l’unico dono rimastole della gioventù era la stessa espressione insicura che aveva nelle fotografie di tanti anni prima. «Come stai? Sei da sola?» Breta alzò verso di lei gli occhi neri, annuì e tornò a osservare il riverbero rossastro che proveniva dal camino. «Jacko dov’è?» «Acqua…» Odyssea capì. Era andato alla Sorgente di Olodern, come faceva da anni ormai, per tenere in vita la sorella. Poi, come riscuotendosi, Breta all’improvviso parlò. «Io mi ricordo di te. Eri una brava bambina.» «Anch’io mi ricordo di te. Eri una brava ragazza», disse Odyssea posandole una mano sul braccio. Breta scosse la testa con un’energia che parve fin troppa per il suo fragile corpo. «No… io non sono stata una brava ragazza… Ho accettato un regalo.» «Che regalo?» «Lui mi aveva detto che era innamorato di me.» «Lui chi?» le chiese con un nodo alla gola. Ma Breta ignorò la domanda e continuò a rispondere seguendo i propri pensieri. «Era un bel regalo. Un pegno d’amore. E dopo… tutto è stato brutto…» Breta ora sembrava terrorizzata. Il suo viso si era incupito e il riflesso del fuoco le luccicò sulle labbra contratte. «Calmati… Sei al sicuro qui, è tutto passato.» Breta scosse di nuovo la testa. «No… non è tutto passato… non è tutto passato…» ripeté con tono cantilenante. Odyssea cercò di calmarla accarezzandole i capelli, come aveva visto fare a Jacko. Che strano. Breta era una donna, aveva ben più di trent’anni ormai, ma in quel momento Odyssea ebbe la sensazione di essere molto più grande di lei. La consolò come se fosse ancora quella bambina timida seduta sulla sedia coi nastri. «Breta, devi essere felice di avere Jacko vicino a te…» le bisbigliò. «Lo so…» annuì Breta. E poi, all’improvviso: «Sei innamorata di lui?» chiese con un tono leggero e scherzoso che la rese vitale per una frazione di secondo. Odyssea avvampò. «No… che dici? Ehm… ti ho portato una fetta di torta… prendi, è buonissima.» Cambiò discorso offrendole il dolce all’anice. Breta se lo posò sulle gambe e cominciò a mangiarne un pezzetto. Le maniche che le coprivano le mani la facevano sembrare un’ombra, ma quando Odyssea le domandò di vedere il resto della casa, parve animarsi. Si alzò e si avviò verso la parte interna dell’abitazione, lenta come una chiocciola. Odyssea la seguì. La casa, più grande di quanto apparisse dall’esterno, era ordinata e semplice, arredata con lo stretto necessario. Quando entrò nella stanza di Jacko, Odyssea trattenne il fiato. Era più piccola di quella di Breta, come se lui avesse voluto donarle uno spazio più ampio e più comodo dentro quella prigione. Addossato alla parete di destra c’era un letto ampio e alto, ricoperto da un lenzuolo candido. Di fronte al letto un baule, simile a quello che possedeva Odyssea, anche se meno lucido e intarsiato. Sul ripiano di una scrivania con molti cassetti tre libri erano aperti coi dorsi in su. Di fronte alla porta c’era una finestra serrata, e accanto uno scaffale pieno di altri volumi. Ma la cosa che la colpì maggiormente fu l’intera parete dietro il letto. Il muro era stato completamente affrescato con colori scuri e ritraeva un paesaggio spaventoso e affascinante allo stesso tempo. Onde oceaniche alte e spumose si abbattevano su una spiaggia solitaria, sassosa, circondata da montagne. Il cielo era terso e la luna proiettava bagliori grigi sulla superficie sconvolta dell’acqua. Odyssea sfiorò il muro, rapita dall’immagine che sembrava muoversi. Aveva l’impressione che dall’affresco arrivasse aria, la stessa che increspava le onde. «Ti piace?» le chiese Breta. Odyssea annuì ripetutamente. «L’ha fatto Jacko quando era più giovane. Ma ora non dipinge più.» Odyssea fissò Breta con stupore. «Dici sul serio?» Ma non attese la risposta. Tornò a guardare quel paesaggio pieno di una passione vibrante che trasmetteva ebbrezza e malinconia. Avrebbe tanto desiderato saper creare anche lei qualcosa di tanto vivo. Dopo un po’ tornarono dinanzi al camino. «Sono stanca…» sussurrò Breta emettendo un respiro affaticato. «Ho bisogno di acqua.» «Presto Jacko tornerà, non preoccuparti.» «Jacko dice che posso fidarmi di te», dichiarò Breta con un filo di voce. «Lui non si fida di nessuno.» Da quel momento in poi Breta non parlò più. Sospirava e taceva tenendo gli occhi piantati sulle fiamme. Odyssea si trattenne ancora, facendole compagnia in silenzio e scrutando il medesimo fuoco che scalpitava. Quando andò via, provò una pena straziante pensando a lei da sola in quella casa. Breta non diede segno di accorgersi della sua uscita di scena, rimase seduta e non rispose al saluto né alla raccomandazione di non aprire la porta a nessuno. *** Il sole era ancora alto. Chiusa nella penombra di quella stanza Odyssea aveva scordato che era pieno giorno. Si era alzato un vento leggero e nell’aria si udiva il ronzio degli insetti. Quando s’incamminò verso casa, ebbe la netta impressione che vi fosse qualcosa di diverso. Era come se la vegetazione avesse cambiato aspetto. L’agrumeto era scomparso e al suo posto c’era una distesa d’erba incolta. Anche il vialetto era differente, la ghiaia era stata sostituita dalla terra battuta, che si sollevava farinosa sotto i suoi passi. Cosa sta succedendo? pensò. Non può essere un incubo perché non sto dormendo. Si voltò, decisa a tornare da Breta, poiché solo poche decine di metri la separavano dalla casa, ma anche alle sue spalle il paesaggio era mutato. Il recinto e il gelso erano spariti, lasciando spazio a un’ampia superficie di prato inselvatichito. Al posto della scuderia c’era un capanno con le imposte serrate. La casa era ancora lì, ma dal comignolo non fuoriusciva più alcun fumo e la banderuola segnavento a forma di drago possedeva entrambe le zampe. Odyssea cominciò ad avere paura. Cosa significava tutto ciò? All’improvviso, da dietro il capanno si allungò una piccola ombra saltellante. L’essere sgradevole non più alto di mezzo metro, che l’aveva torturata nel terribile incubo di qualche giorno prima, era tornato! Una luce eccitata gli brillava negli occhi sferici, e dalle labbra proveniva una cantilena fatta da grida in falsetto. Non si avvicinò, si limitò a indicarle la casa con le sue zampette viscide. In quel momento dalla porta Breta uscì. Ma non era la Breta che aveva appena lasciato dinanzi al camino. Era una bella ragazza di circa vent’anni, con lunghi capelli neri. Era alta e snella e il vestito la fasciava senza cascarle dalle spalle e dai fianchi. Nell’istante in cui stava per chiamarla, Odyssea ebbe la certezza che fosse inutile. Quando Breta le passò accanto senza vederla e s’incamminò sulla stradina di terra battuta, la seguì. Dopo pochi metri la avvistò mentre entrava in una macchia di alberi e si sedeva su una pietra piatta. Col piede scostava la polvere disegnando linee sul terreno e canticchiava qualcosa con voce sommessa. Era emozionata e trepidante, come se attendesse qualcuno. Che non tardò a giungere. Dal vialetto alle proprie spalle, Odyssea udì un battere di passi furtivi e veloci, e vide Breta che si alzava e sorrideva al nuovo arrivato. Possibile che stesse per vedere quel mostro? Quando riconobbe la persona che raggiungeva Breta e la abbracciava, il cuore le si arrestò. Suo padre. Rimase paralizzata, mentre un lento bacio appassionato suggellava quello che era evidentemente un incontro rubato. Suo padre e Breta? Non era possibile! Parlarono tra loro con confidenza. Odyssea non riuscì a cogliere le parole, ma vedeva le labbra di entrambi muoversi e fermarsi come in un film muto. Poi Charlton estrasse qualcosa dalla giacca. Era un piccolo pacco quadrato delle dimensioni d’una scatola di fiammiferi ed era legato con un nastro rosa. Breta lo aprì emettendo un trillo eccitato ed estrasse una catenella d’oro: il ciondolo era un’onice nera. Odyssea indietreggiò, le braccia e la bocca spalancate, e l’orrore che la soffocava come una valanga di ossa. Breta le aveva parlato di qualcuno, un uomo che l’aveva ingannata… Quell’uomo era Charlton Bennet? La nausea l’assalì, ripugnanza e panico, disgusto e sfinimento, e dovette appoggiarsi a un albero con la mano sul petto e la testa bassa, in preda a un capogiro così violento che tutto intorno a lei sembrava capovolto. Nello stesso istante l’ometto isterico si aggrappò al suo braccio e le affondò le unghie nella carne, facendole male e ricordandole che era sveglia. «Ti ho detto di sparire!» urlò con tutta la collera del mondo concentrata in quelle poche sillabe. La forza con cui lo scagliò contro un albero fu tale che l’essere si ritrovò avvolto dalle fiamme. Lo vide dibattersi nel rosso del fuoco. E ciononostante, ebbe la sensazione che l’ultimo sguardo, quello che precedette il suo dissolvimento, continuasse ad avere qualcosa di beffardo. Scappò via urlando. Quando arrivò a casa, si gettò a terra sulla veranda, col fiato grosso. All’improvviso sentì una mano posarsi sulla sua spalla e, ancora scioccata, saltò in piedi e percepì il calore irradiarsi nel suo corpo e pervaderla. Subito dopo udì un rumore di vetri infranti. Si voltò di scatto e vide sua madre che la fissava terrorizzata. Era la stessa Grace di qualche ora prima, e la veranda era quella che aveva lasciato quando si era recata da Breta, con la tenda penzolante, le poltroncine, e il viottolo di ghiaia grigia che prendeva il largo tra le piante. Tutto era normale. Tranne il fatto che sua madre se ne stava con le braccia spalancate e gli occhi sbarrati. Il vetro della finestra era andato in frantumi a pochi centimetri da lei. Per poco non l’aveva colpita, e non se ne era neanche resa conto. «Mamma! Scusa… scusa… Non volevo!» «Odyssea… cosa… cosa succede? Ti ho vista correre e gridare… Cosa è accaduto?» Grace urlava a sua volta, e la sua voce richiamò Joyce e Augusta, che giunsero correndo. «Non lo so… ero… ero in giardino e… mi è sembrato di sentire dei passi…» prese a balbettare Odyssea col fiato mozzo, come se non fosse più capace di inspirare. «Non è niente, calmati», mentì Grace, che invece era sconvolta. «Ecco, siediti qui…» Quando sentì il cuore che cominciava a calmarsi e il respiro tornare normale, Odyssea ripensò a ciò che aveva visto. Un altro incubo, ma a occhi aperti. Un’altra cosa che non avrebbe potuto condividere con nessuno. Come poteva riferire a sua madre quello che aveva visto? E perché la sua mente generava quelle terribili immagini? Erano realmente visioni infondate? O quella terra, in un modo misterioso, produceva dinanzi ai suoi occhi scene del passato? Si sentiva stanca, e sola, completamente sola. E aveva di nuovo rischiato di fare del male a sua madre. Se le fosse accaduto qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. *** «Ci sono delle visite per te.» La voce della nonna risuonò preoccupata e sollecita alle sue spalle. «Io… non ho tanta voglia… puoi dire che non mi sento bene?» «Non ti va di incontrare Lindia?» Odyssea, mutando espressione e passando dall’apatia all’entusiasmo, acconsentì con uno slancio imprevisto. Certo che voleva incontrare Lindia. Non era sicura che dipendesse esclusivamente dal piacere della sua compagnia, e sapeva benissimo che in quel trasporto si nascondeva il desiderio sconsiderato di sapere cosa fosse accaduto con Jacko, non disgiunto dal desiderio prudente di non saperlo affatto. Lindia la attendeva sulla veranda. «Posso stare solo un attimo», le sussurrò. «Papà verrà a prendermi tra qualche minuto. L’ho praticamente supplicato di accompagnarmi da te. Credo che abbia acconsentito perché gli facevo pena.» «È da un po’ che non ci vediamo», disse Odyssea. «Come… come è andata l’altra sera?» Lindia scosse la testa e Odyssea ebbe l’impressione di intravedere il bagliore di una lacrima sotto le sue ciglia. «Non stai bene?» le domandò, invitandola a sedersi su una delle poltroncine. «Per niente», rispose Lindia appoggiandosi al muro con le mani dietro la schiena. «Sono accadute tante cose… I miei genitori sono furiosi, anzi mia madre è furiosa e in certi momenti ho la sensazione che se potesse mi trasformerebbe in una lumaca cornuta e mi friggerebbe nell’olio bollente.» «Cosa… cosa è successo?» chiese Odyssea, sempre più nervosa. Lindia sospirò e finalmente si sedette. Sprofondò come se volesse annegare, lasciando che le braccia dondolassero oltre i braccioli. «L’altra notte… è successo tutto l’altra notte. Ti ricordi quando abbiamo visto Jacko? Ero così contenta… Quando l’ho raggiunto mi ha aiutata a salire sulla collinetta, era un po’ alto ma mi ha sollevata come una piuma. Poi siamo stati in silenzio, abbiamo guardato le stelle e allora io… io gli ho detto che se voleva… lo avremmo fatto… capisci cosa intendo?» Odyssea avvertì un conato di nausea, e fu quasi tentata di alzarsi e andar via. Deglutì più volte, sentendo la gola riarsa, come se avesse inghiottito una manciata di sabbia. «Non sei obbligata a raccontarmi i particolari», bisbigliò. «Si tratta di fatti privati…» Lindia non le diede ascolto e non provò gratitudine per quella discrezione. Era affamata di parole. «Lui mi ha detto di sì. Subito», continuò. «Così, capisci? Era… mi è sembrato che fosse… elettrizzato e nervoso… e non so che altro… Mi ha abbracciata e io non stavo in me dall’emozione. Eravamo lì, sull’erba, con tutte quelle stelle, nascosti dall’oscurità della notte… io credo che fosse la situazione ideale, no? Non vorresti anche tu qualcosa del genere per la tua prima volta?» Odyssea annuì, e si sentì sincera, benché Lindia intendesse riferirsi soltanto all’atmosfera di quella notte incantata, mentre lei aveva pensato anche allo stesso ragazzo. A dire il vero le sue idee al riguardo erano molto vaghe, e tenute a bada dal pudore, unito alla consapevolezza di avere un’esperienza così inconsistente che spingersi oltre la previsione di un bacio maldestro sarebbe stato azzardato. Ma non poteva negare che, in alcuni momenti segreti, il pensiero di lui fosse diventato talvolta un po’ più impudente. Non lo avrebbe mai rivelato a nessuno, neppure sotto tortura, e faticava ad ammettere perfino con se stessa di essere capace di fantasticare in modo tanto vivido e così poco virtuoso. «Ma a un certo punto mentre mi baciava», riprese Lindia, totalmente disinteressata alle sue risposte, «si è staccato da me, all’improvviso, e si è allontanato! Era così… così nervoso… è salito su Levante ed è andato via. Ti rendi conto? Senza dire niente! Mi ha lasciata da sola!» Lindia sembrava una bambina presa a botte da qualcuno di cui si fidava ciecamente. Si torceva le mani come fossero lembi di stoffa da annodare e le traballavano le gambe sotto la gonna. «Ma non è finita qui! Mentre tornavo a casa ho beccato mia madre! Aveva una faccia! Non l’ho mai vista così furiosa! Quel cretino di Stylo le aveva spifferato di avermi vista con Jacko! Mio fratello è proprio impossibile! Gli ho tolto la parola e non ho avuto nemmeno la forza di ribattere a mia madre. Sono così depressa, dopo tutto quello che ho fatto per lui… Papà dice che sono sciocchezze da ragazzine, ma la mamma mi odia, mi tratta come se fossi una donna perduta.» Odyssea le accarezzò la mano ed espresse come poteva il proprio rammarico. Sarebbe stata un’ipocrita se avesse negato di essere contenta per come si erano messe le cose ma, al medesimo tempo, non poteva fare a meno di pensare che Jacko O’Donnell si fosse comportato molto male con Lindia. Se avesse agito nello stesso modo con lei, forse avrebbe preferito scomparire per sempre. «Magari si sistemerà tutto…» sussurrò Odyssea. Lindia scrollò le spalle e tirò su col naso. Non ne sembrava affatto convinta. «Sono contenta che tu sia venuta a Wizzieville», mormorò alla fine. «Ho molte altre amiche, ma tu… sento che mi capisci…» Nel pronunciare quelle ultime parole le rivolse uno sguardo strano, improvvisamente attento, e Odyssea ebbe paura che potesse leggerle nel pensiero. Ma quella pericolosa sagacia durò poco e alla fine un barlume di sorriso tornò ad affiorare sulle sue labbra. Quando Lindia andò via, Odyssea rifletté su quanto le era stato appena riferito. Ripeté mentalmente ogni parola di quella conversazione, e di nuovo, nell’immaginare la scena accaduta in cima alla collinetta, il cuore le si strinse e si dilatò, e il sollievo, quella travolgente, insensata, avara felicità che le aveva suggerito l’istinto, si tuffò nel senso di colpa. *** Andò a dormire presto. Aveva il cervello saturo, come una valigia troppo piena che continui a stiparsi di roba insensata, e non si capisca bene ciò che potrà servire per il viaggio e ciò che sarà solo zavorra. Aveva la sensazione di avere appena chiuso gli occhi, quando percepì una mano che la scrollava con forza. Sulle prime, il sogno che stava facendo, se stessa in mezzo all’oceano in burrasca, le fece avvertire una specie di fastidioso mal di mare, come se la barchetta alla quale era aggrappata rollasse fino a ribaltarsi. Ma lo scenario d’un tratto mutò, il mare divenne un bosco, la barchetta si trasformò in un tappeto d’erba, e la paura di trovarsi ancora a tu per tu col mostriciattolo che aveva arrostito qualche giorno prima, la svegliò di colpo. Quando aprì gli occhi si ritrovò davanti la faccia seria di Jacko. Dando per scontato che Jacko non potesse essere a quell’ora nella sua stanza, intento a strattonarla dentro il suo letto con la delicatezza di un orso, si convinse che si trattasse di un altro sogno. Ma quel miraggio testardo continuò a scuoterla e a chiamarla. E allora i sensi di Odyssea tornarono vigili e il mondo reale riacquistò consistenza. «Alzati e mettiti qualcosa addosso», le ordinò proprio lui e non un abbaglio. «Non è il caso di rientrare là dentro con il pigiama.» Odyssea si sollevò e guardò la finestra. Era aperta e le tende erano mosse da un vento tiepido. Evidentemente Jacko era entrato da lì. Saltò giù dal letto, mentre lui indietreggiava adagiando la schiena al muro. «Mi ricordi mia madre», gli disse in un sussurro, «quando mi svegliava di notte per dirmi che dovevamo partire.» «Non dobbiamo partire. Ho solo bisogno di te per attraversare il tunnel.» «E se io non volessi venire?» azzardò Odyssea. Jacko le si avvicinò e le afferrò un braccio. «Tu ci verrai. È una cosa importante.» La fissò con occhi tutt’altro che miti, e Odyssea capì che nulla era cambiato rispetto all’ultima volta in cui si erano visti. «Se… se vai via… io… io… mi cambio», balbettò. Lui le rivolse un sorriso sarcastico e si rifiutò di aspettarla da un’altra parte. Aveva fretta, e nessun interesse a sbirciarla mentre si vestiva. Si limitò ad affacciarsi alla finestra e Odyssea si cambiò dietro il paravento coi draghi. «Sei pronta?» le chiese lui dopo poco. «Quest’operazione mi sembra un po’ troppo lunga, e dire che non hai poi molto da coprire. Un fazzoletto ti basterebbe, e avanzerebbe un po’ di stoffa.» «Se mi vestissi come la tua amica Letizia, forse», ribatté Odyssea seccamente. Poi, con aria altezzosa si affacciò alla porta per accertarsi che non ci fosse nessuno in giro e lo precedette sul ballatoio. Scesero al piano di sotto, camminando con lentezza nell’oscurità. Quando raggiunsero il camino, Odyssea per un attimo dubitò di riuscire a ripetere ciò che era accaduto alcune notti prima, ma non fu così. Non appena sfiorò il muro, le sue dita vennero nuovamente afferrate dal risucchio bollente e spinoso. Allora prese Jacko per mano, senza guardarlo, e in un attimo furono oltre. L’umidità del tunnel la colpì in piena faccia. «Dove… dove dobbiamo andare?» domandò a bassa voce, nel silenzio interrotto solo da un vago gocciolio lontano. «Andiamo a trovare un tuo amico», disse Jacko in tono aspro. «Andiamo a casa di Jordy Angel.» Odyssea spalancò gli occhi, esterrefatta, e per un istante fu incapace di respirare. Erano molte le cose che la rendevano perplessa riguardo a quella incomprensibile meta, non ultimo il ricordo del Grifone da guardia che l’aveva puntata ferocemente al di là della tenda di lingua di drago. «Allora, andiamo?» chiese Jacko, spazientito. «Non credo che avrai difficoltà a concentrarti sulla destinazione.» Odyssea esitò per qualche attimo, quindi pensò intensamente al varco e, dopo un po’, incontrarono proprio la tenda leggera e preziosa della fastosa sala da pranzo degli Angel. Jacko osservò con avidità l’interno della stanza e poi rivolse a lei un’occhiata curiosa. «Sei mai venuta a trovare il tuo innamorato da questa strada?» «Non è il mio innamorato! Vuoi dirmi cosa cerchi? Altrimenti non ti faccio passare.» «Non dire sciocchezze, andiamo.» «No, se non mi dici perché», ripeté Odyssea ostinata. Era stanca di essere trattata come un cagnolino da trascinare malamente al guinzaglio. Dopotutto, era lei che conduceva il gioco, e voleva saperne di più. «Andiamo», insisté Jacko. Ma Odyssea fu irremovibile. Per una frazione di secondo lo sguardo di lui la trapassò con rancore, e Odyssea sentì la sua mano che le stringeva il collo senza dolcezza. «Se vuoi farmi male per vendicarti, fai pure, così dopo saremo pari, e anch’io avrò un motivo per detestarti!» esclamò con una voce che non le sembrò neppure la propria, tanto era dura. Allora, la stretta di Jacko si allentò e divenne più simile a una carezza, e in quell’istante le sembrò di avere di fronte l’altro Jacko, quello in cui la passione non diventava collera ma sentimento, quello che popolava i suoi pensieri più svenevoli. Lui le fece una specie di sorriso, e disse: «Mi serve una cosa di Hamlet Angel. Una cosa che riguarda mio padre». «Tuo padre?» esclamò Odyssea sconcertata, e capì che per Jacko doveva essere molto difficile farle quella confidenza, e lo faceva non perché si fidava ma perché era costretto. Sentì l’impulso di abbracciarlo, di stringerlo forte, ma preferì agire con prudenza, guardò dentro la stanza e sussurrò: «Dobbiamo stare attenti a Clodoveo». «Troveremo un modo per tenerlo a bada, ora la cosa importante è entrare», mormorò Jacko per niente preoccupato, dandole a intendere di essere a conoscenza dell’esistenza del Grifone che vigilava la casa. Odyssea inspirò l’aria gelida e stantia del tunnel e, prendendo la sua mano, lo portò dall’altra parte. *** La sala era enorme e il pavimento era ricoperto da un mosaico di tappeti di seta. Alle pareti erano appese decine di antichi ritratti di uomini e donne con vistose parrucche e sfarzosi abiti d’altri tempi. In una vetrina delle dimensioni del portone d’ingresso di casa sua, Odyssea scorse la collezione di oggetti d’argento più numerosa e lucente che avesse mai visto: tazze, piatti, vassoi, spargipepe, portasigari, ciotole e ciotoline di tutte le fogge, posate e candelieri. Il tavolo di cristallo pareva una lastra di ghiaccio, levigata e perfetta, sorretta da un basamento in bronzo. Jacko non perse tempo. Dopo essersi accertato che in giro non ci fosse nessuno, le fece segno di seguirlo, muovendosi con straordinaria sicurezza, come se conoscesse precisamente la posizione di ogni stanza. Giunsero al vestibolo, lastricato di marmo bianco, da dove una sontuosa scala di alabastro saliva al piano superiore. Jacko si fermò di fronte a una porta di legno massiccio, scura e imponente: era suddivisa in riquadri all’interno dei quali erano scolpite in bassorilievo minuziose scene di caccia ed era priva di serratura. Jacko, per nulla intimorito da quella complicazione, prese a toccare la superficie della porta con le dita. Del Grifone, finora, non c’era traccia, ma in quel momento si udì un lieve rumore di passi provenire da qualche parte oltre la penombra. Odyssea trattenne il fiato. I passi sul marmo si avvicinavano e a breve, ne era certa, si sarebbe ritrovata davanti la figura severa del signor Angel. Paradossalmente, sospirò di sollievo quando vide che si trattava solo di Clodoveo. Aveva le ali semiaperte e la puntava con feroci occhi gialli, e un flebile suono proveniva dalla sua gola poderosa ricoperta di piume ispide come scaglie. Odyssea si voltò in preda al panico. Jacko era già entrato nella stanza. «Ja… Jacko…» bisbigliò. «Che… che facciamo?» Jacko tornò indietro e guardò Clodoveo con un’indifferenza che a Odyssea parve quantomeno inopportuna. «Veditela tu con lui, io ho da fare qui dentro», sussurrò con noncuranza. «Clodoveo in fondo è un buon diavolo, basta saperlo prendere.» Su quelle assurde parole, si allontanò definitivamente. Odyssea non riusciva a credere a ciò che aveva appena udito. Possibile che Jacko l’avesse lasciata da sola in compagnia di quell’orribile bestia? Fu tentata di insultarlo a gran voce ma, se l’avesse fatto, probabilmente il Grifone si sarebbe innervosito e avrebbe dato l’allarme una volta per tutte. In una coppia di falcate Clodoveo le fu abbastanza vicino da sentirne l’odore selvatico. Odyssea, incapace di qualsiasi cosa somigliasse a un movimento, provò ad abbozzare un sorrisetto, e dovette compiere una grande fatica per persuadere la sua bocca a stendersi. Infine lasciò andare la fantasia e gli sussurrò qualche soffocato complimento sull’abbondanza del piumaggio e l’affilatura del becco. Si sentiva più che stupida, eppure a mano a mano che si perdeva in una sfilza di idioti commenti sul fatto che lei e Jacko fossero suoi amici, ebbe la certezza che stesse per accadere qualcosa di importante. Sentì dentro di sé un’ondata strana, completamente diversa dal fluido caldo e bellicoso che la possedeva quando era in pericolo. Era un riflusso che trasmetteva serenità, come una soffusa musica d’atmosfera o una carezza prolungata sui capelli o le mani immerse nella sabbia calda il primo giorno di vacanze al mare. A quel punto, inaspettatamente, Clodoveo richiuse le ali e le appiattì lungo i fianchi. Tuo padre riusciva ad addomesticare ogni animale, anche il più selvaggio. Possibile che quella reazione avesse qualcosa a che fare con il Primo Potere Sommo? Quando il Grifone spiccò un balzo felino verso di lei e le fu addosso, il panico si dissolse del tutto. Il becco aguzzo non la sfiorò neppure e le ali, per quanto potesse apparire assurdo, parvero quasi abbracciarla. Se fosse stato un cane l’avrebbe certamente leccata. Le sembrò che la coda, terminante in un ciuffo peloso come un pennello, oscillasse con un movimento gaio. Odyssea allungò una mano e gli accarezzò la sommità del capo pennuto e Clodoveo strizzò gli occhi non più feroci, ma amabili e gentili. Erano diventati amici. Si mosse con lentezza e finalmente entrò nella stanza dove si trovava Jacko. Fino all’ultimo gli occhi del Grifone la fissarono come topazi nel buio. Si sentiva accaldata, l’istinto le diceva di prendere a calci Jacko per averla piantata in asso, e la ragione le suggeriva di rimandare. A dire il vero, sulle prime non lo vide. L’oscurità era ancora più fitta che nel resto della casa perché l’unica finestra, non più grande di un oblò, era coperta da una spessa tenda. «Jacko…» sibilò. «Dove sei?» Lui non le rispose, ma Odyssea fu attratta dal suo respiro che proveniva da un punto preciso. E allora lo vide. Era in piedi davanti a un armadio che arrivava al soffitto. Un’enorme quantità di scaffali contenevano piatte scatole metalliche impilate una sull’altra. Jacko fissava la liscia superficie, apparentemente priva di qualsiasi appiglio o apertura. Si voltò verso di lei e le rivolse uno sguardo vigile e concentrato. «Ce l’hai fatta?» le chiese. «Clodoveo non è un cattivo soggetto, vero? È solo un cucciolo… So che ha quasi sbranato una cameriera e pare che anche il suo rapporto con Hamlet sia alquanto burrascoso, ma ero certo che stavolta l’avresti spuntata tu. Sai, va molto d’accordo col tuo ragazzo.» «Jacko», esclamò Odyssea, sforzandosi di tenere bassa la voce nonostante avesse voglia di strillare e di spaccargli il naso. «La smetti di dire così? Non ti sopporto.» «Stai un po’ zitta. Perché non cerchi di aiutarmi?» «E secondo te cosa ho fatto fino a ora?» protestò lei. «Mi pare di ricordare che sei arrivato fin qui per merito mio e poco fa ho rischiato di essere piluccata da quella specie di leone volante!» Jacko si fermò per un attimo e la guardò. Aveva la fronte cosparsa di piccole gocce e i capelli tirati dietro le orecchie. Doveva essersi morso il labbro perché c’erano ancora i segni dei denti e una strisciolina secca di sangue. Era una maschera di tensione. «Hai ragione», mormorò. «Ma dobbiamo fare in fretta. Vuoi aiutarmi a cercare una cassetta con questo codice?» Le mostrò un foglietto sul quale era vergata la strana sigla C.O. Man. Bl. 7724-35/B. Odyssea lo scrutò con attenzione. Era un frammento di carta celeste, e profumava di fiori, esattamente come la busta di Lindia. Lessero tutte le lettere e tutti i numeri incisi su ciascuno dei contenitori disposti sugli scaffali, ma il codice che cercavano non c’era. Alla fine Jacko mormorò: «Come pensavo, deve essere lì dentro», indicò la cassaforte. «Il caro Hamlet non si fida del suo prossimo.» «Sarà impossibile aprirla.» «Lo sarebbe se noi non sapessimo come farlo. Vedi, anche se decidessimo di usare i poteri, non sarebbe come avere la combinazione.» Odyssea lo fissò stupita. Era letteralmente sbranata dalla curiosità. «Tu hai la combinazione?» Jacko non rispose. Si posizionò dinanzi alla cassaforte e ne tastò i bordi con cura. Dopo un istante, dallo sportello fuoriuscì una linguetta metallica. Era non più grande di un pollice e nello spessore erano inserite delle rotelle luccicanti. Jacko rifletté qualche secondo, poi le fece scorrere lentamente. Quando il movimento rotatorio si fermò, si udì uno scatto possente, come di ingranaggi oliati che cedono. Jacko e Odyssea restarono immobili, le orecchie tese al minimo rumore. Ma il silenzio rimase assoluto. Quando Jacko aprì la cassaforte, quella si spalancò come una grotta stipata di tesori. Dentro c’erano decine di cassette del tutto identiche a quelle disposte sugli scaffali. Su una di esse era inciso a chiari caratteri il codice C.O. Man. Bl. 7724-35/B. Gli occhi di Jacko s’illuminarono mentre sorrideva esultante, ma nell’attimo in cui stava per estrarre la cassetta, Odyssea sentì distintamente dei passi fuori dalla porta. Strinse la mano sul braccio di Jacko e gli fece cenno di stare fermo, sfiorandosi la punta del naso con l’indice sollevato. «Che fai qui, Clody?» Era la voce bassa e insonnolita di Jordy. «Dovresti andare in giro per casa a fare la guardia. Se papà sa che poltrisci ti tira il collo. Andiamo.» Quando i passi di entrambi si allontanarono, Odyssea sospirò rincuorata portandosi una mano sul petto. Fu allora, voltandosi di slancio verso Jacko, nel compiere quello che le era parso un movimento innocuo, che urtò contro lo sportello ancora aperto. Il tocco della sua esile spalla fu sufficiente per farlo chiudere con un tonfo sordo che risuonò rabbiosamente nel silenzio della notte. Jacko la osservò come se volesse ucciderla, strinse i pugni, serrò i denti, e le mascelle sbarrate disegnarono due netti trapezi sotto la pelle del suo viso. Jordy tornò subito indietro e con voce inquieta esclamò: «Rimani qui, Clodoveo, non muoverti, vado a chiamare papà!» Poi scappò via sulle scale. Odyssea sentì il panico assalirla, le girava la testa e un crampo le prese la bocca dello stomaco, ma non c’era più tempo per riaprire la cassaforte, estrarre la cassetta e valutarne il contenuto! Hamlet Angel sarebbe comparso in quella stanza di lì a qualche secondo. Jacko fece lo stesso ragionamento, e le prese la mano dirigendosi verso la porta. Con un tocco delle dita la aprì. Il Grifone li aspettava con le ali spalancate, ma non appena vide Odyssea, richiuse le sue vele pennute e si accucciò sul pavimento col becco puntato al suolo. Jacko e Odyssea si guardarono, senza dire una parola. Dovevano raggiungere la sala da pranzo in fretta o sarebbero stati scoperti, ma quando furono lì, proprio mentre Odyssea stava per allungare un braccio verso la tenda di lingua di drago, Jacko la fermò. Era teso fino all’inverosimile, sembrava sul punto di scoppiare. «Io devo prendere a tutti i costi quella cassetta. Credimi… vorrei rompere la faccia di Hamlet Angel… vorrei incenerirlo…» Parlava piano, ma la voce era stravolta dall’indignazione e dalla collera. «Andiamo!» esclamò Odyssea. «Non c’è niente che tu possa fare ora! Troveremo il modo di tornare…» Le luci della casa erano tutte accese e ovunque si udiva il rimbombare di passi frettolosi e voci allarmate, ma Jacko rimaneva immobile, cocciuto, adirato. Odyssea afferrò la sua mano e gliela strinse forte. «Ti prego Jacko, ti prego…» lo supplicò. Nell’istante esatto in cui attraversarono il varco, Hamlet Angel entrò nella sala urlando come un ossesso. Il viso sbiancato, pavido, era una maschera d’ansia. I suoi occhi vennero attratti dal lieve dondolio della tenda, ma quando la scostò, constatando che la finestra era serrata, la richiuse con aria ancora sospettosa. Ispezionò ogni angolo della stanza, poi insoddisfatto se ne andò gridando: «Neanche qui! Jordy, sei certo di quello che dici?» Odyssea e Jacko erano acquattati nel tunnel. La faccia di Hamlet Angel era stata a pochi centimetri da loro. Rimasero con la schiena appoggiata al muro concavo, respirando piano, per un tempo che pesò su Odyssea come un macigno. Jacko si passava nervosamente una mano sulla fronte, massaggiandosi le tempie e stropicciandosi gli occhi. Le dita tremavano, parevano farfalle. «Jacko», mormorò Odyssea con voce spezzata. «Io… mi dispiace tantissimo… non volevo…» Jacko si girò verso di lei, e sotto quella mano apparvero gli occhi, vulcani, terremoti, nubifragi, tutti dentro le stesse pupille. «Non basta dire non volevo!» gridò. «Dovevi non farlo! Adesso cambierà la combinazione! Cambierà tutto lì dentro! E io non potrò continuare con Lindia ancora per molto!» Si alzò furioso, andava avanti e indietro in un pezzetto di galleria con lo scatto convulso di una Mangusta Guardiana. Odyssea lo scrutò con interesse nuovo. «Che… che c’entra Lindia in tutto questo?» chiese con il tono basso e forzato di chi s’impone di non strillare. «Niente che t’interessi. Andiamocene, ora.» S’incamminarono, ma Odyssea non era concentrata, non riusciva a ragionare, non riusciva a desiderare di tornare a casa. Anche Jacko era pensieroso e taciturno e in principio non notò che si stavano muovendo a vuoto nel buio reticolo di cunicoli. A tratti apparivano varchi casuali, dai quali affiorava qualche sprazzo di luce, ma entrambi li ignorarono. Dopo un po’, tuttavia, accorgendosi di quel vagare senza meta, Jacko la prese per mano e la fermò. Sembrava più calmo, o forse solo più stanco. «Ehi», le disse. «Non ce l’ho con te.» «Che c’entra Lindia?» ripeté Odyssea irremovibile. «Non mi fare più questa domanda», ribadì Jacko con altrettanta fermezza. «Piuttosto, vedi di ritrovare la strada.» Odyssea riprese a camminare senza convinzione, tenendo gli occhi bassi, ma ancora il muro di pietre scure non voleva saperne di materializzarsi. Jacko la seguiva in perfetto silenzio. Poi, inaspettatamente, lui le afferrò nuovamente la mano. Odyssea avvertì il dolore di una stretta brutale e alzò il viso, intenzionata a reagire, ma si bloccò subito dopo: nel buio dinanzi a loro era apparsa una folla di lucciole. Da dove erano entrate? Lucciole in quell’anfratto? Eppure le luci erano più grandi, e molto più fisse di quanto ci si sarebbe aspettati da uno sciame di insetti. A dire il vero, a guardare meglio… erano occhi. Tanti occhi, sparsi a varie altezze, che li osservavano malevoli. E al di là di quegli occhi l’oscurità lasciava intravedere una figura, un’unica figura, talmente grande che Odyssea si chiese come facesse a stare in piedi in quell’angusto cunicolo. «Stai tranquilla», le sussurrò Jacko stringendola per le spalle. «Concentrati, pensa a casa tua…» Odyssea cercò di immaginare il camino di casa. Gli occhi continuavano a esaminarli, come mirini puntati sul bersaglio. Non si muovevano, quattordici pupille verticali, così ferme da sembrare dipinte. Finalmente, a poco più di un metro da loro, il varco si materializzò. Odyssea lo toccò. Tuttavia, proprio mentre si accingevano a oltrepassarlo, qualcosa di viscido e lungo, come una corda bagnata, la colpì sull’altro braccio, appena sopra il gomito, strappando la manica della camicia. Fu come una frustata, come il lancio di uno scudiscio cosparso di spine. Provò un dolore terribile. Come quella volta che era stata punta da una medusa, solo che il bruciore era moltiplicato per mille. Sentì Jacko che la spingeva, avvertì la pressione delle sue mani dietro la schiena e, nello stesso istante in cui passarono, udì il sibilo a vuoto di un’altra sferzata. Erano al di là del muro. La casa sembrava luminosa a confronto con l’oscurità del tunnel. Odyssea osservò il punto in cui era stata colpita. Aveva un circoletto lungo tutto il diametro dell’avambraccio. Un disco rosso fuoco, come un taglio tracciato con un compasso appuntito. Lievi gocce di sangue rischiavano di diventare ben più copiose se non le avessero fermate. «Hai qualcosa per tamponare la ferita?» Odyssea annuì debolmente, mordendosi un labbro per non piangere. Lui le serrò la mano e la condusse su per la scala. «Jacko… co… cos’era quella cosa nel tunnel?» chiese con voce tremante. «Non lo so.» Entrarono nella stanza e Jacko la fece sedere sul letto. Poi scomparve in bagno dove lei gli aveva detto di aver visto medicinali e cerotti, e quando rientrò aveva con sé delle garze, bende e un’ampolla. Odyssea lo aveva atteso con ansia, sperando che nessuno lo scoprisse. Jacko fermò il sangue e disinfettò il taglio in silenzio, con un orlo del labbro inferiore prigioniero degli incisivi. «Questo brucia un po’, riesci a non gridare?» Odyssea annuì e non si lasciò sfuggire nemmeno un sospiro. Quando il bruciore si mitigò, e il sangue cessò di uscire, lui avvolse intorno al taglio una benda bianca. «Adesso riposati», le sussurrò. «Jacko… mi dispiace… ma ti giuro che torneremo…» piagnucolò. Il senso di colpa non le dava pace. «Non credo.» La voce di lui era dura, secca, senza sfumature di emozione. «Non ora che abbiamo la certezza che nel tunnel c’è qualcosa di molto pericoloso. Dovrò entrare in casa Angel in un altro modo.» «Cosa cercavi?» Odyssea posò la testa sul cuscino e tirò su le gambe, stendendosi con le scarpe. Si rannicchiò, sentendosi stordita. Jacko si sedette sul letto accanto a lei. Poggiò la schiena sulla testiera e incrociò le braccia sul petto. Le rivolse un’occhiata priva di parole, ancor meno espressiva di quella di un calco di gesso. «Come ti senti?» le domandò, cambiando discorso. «Strana… e stanca…» La voce di Odyssea s’era fatta lenta, pareva la voce di una bambina in dormiveglia. «Perché non vuoi dirmi la verità? Puoi fidarti di me…» «Non mi fido di chi frequenta gli Angel ed è disposto a trovare in loro qualche lato positivo.» «Non trovo alcun lato positivo in Hamlet Angel.» «Già, tu propendi per il figlio.» Lei emise un sospiro, e poi un altro, una coppia di sbuffi fiacchi, tutt’altro che disposta a intavolare un’inutile discussione sui meriti di Jordy, mentre Jacko si avvicinava alla finestra. «Quando vai via, ti prego, puoi chiudere?» gli chiese, indirizzandogli uno sguardo affranto e abbassando le palpebre. Jacko non le rispose e rimase immobile guardando innanzi a sé, verso il giardino rabbuiato. Odyssea era esausta. Il pensiero di averlo deluso la feriva ancor più di quello di averlo aiutato. L’ultima cosa che sentì fu il vento che entrava dalla finestra e s’intrufolava tra i suoi capelli. *** La luce dell’alba le indugiò sulle palpebre con insistenza, svegliandola. Il primo pensiero che l’assalì fu che Jacko era uscito scordandosi di serrare la finestra. Fece per andare a chiuderla, ma si accorse che qualcosa la bloccava sul letto. Quando scoprì di cosa si trattava trattenne un piccolo grido sorpreso. Era il braccio di Jacko. Era coricato accanto a lei e dormiva, coi capelli sparsi sul guanciale bianco. Respirava dolcemente. Era steso su un fianco e le teneva un braccio intorno alla vita. Odyssea sentì un improvviso turbamento, una vampata nello stomaco, un’oppressione al petto. Rimase immobile, temendo che se si fosse mossa lui si sarebbe svegliato e sarebbe scappato via. Non voleva che se ne andasse. Ne percepì il respiro regolare su una guancia. Si girò appena, quel tanto che bastava per ritrovarsi faccia a faccia con quel volto amato. Così, mentre dormiva, la fronte levigata dal riposo, aveva qualcosa di innocente, qualcosa che il mondo avrebbe potuto sbriciolare, qualcosa che aveva bisogno di protezione. Le parve che l’aria burbera fosse solo un modo per difendersi, una barriera eretta per allontanare il dolore. Il cuore le si attorcigliò, mentre lo scrutava come se fosse aria per respirare, acqua per far sbocciare, terra per non cadere, fuoco per non morire. Rimase in quella posizione, col braccio di Jacko sul fianco, e dopo essersi impregnata della sua vista, memorizzando ogni dettaglio del suo splendido viso, pian piano si addormentò. Quando riaprì gli occhi era giorno fatto. Lo capì dalla pendola, perché la finestra era chiusa. Jacko era andato via. PER AMORE DI JACKO Per alcuni giorni indossò solo camicie a maniche lunghe, nonostante facesse molto caldo. La ferita sul braccio guariva in fretta, ma se qualcuno in casa l’avesse vista c’era il rischio di generare un ginepraio di domande e, di conseguenza, un ginepraio di menzogne. Tutta Wizzieville era in ansia, e l’ansia, paradossalmente, derivava dalla mancanza di nuovi assalti da parte di Squartavene. Tutti si chiedevano se quella quiete dovesse rincuorarli o atterrirli, se fosse la fine di una battaglia o l’inizio di una guerra. Ma per Odyssea era tutto diverso. Le cose strane nella sua vita, anche in quel breve tempo, si erano susseguite a velocità vertiginosa. Non aveva subito più attacchi, con l’eccezione di quella cosa nel tunnel, ma gli incubi notturni non le davano tregua. Si domandò se l’essere misterioso che abitava la galleria oltre il camino potesse avere qualcosa a che fare con l’immagine di suo padre che teneva sotto il braccio un involto di carta impregnato di sangue. Tormentata da tutti questi pensieri, una mattina andò in cucina con un piano ben preciso in mente. Entrando, vide Joyce da un lato del lungo tavolo rettangolare, che teneva con ambedue le mani quello che sembrava il lembo di un lenzuolo giallo. Dall’altra estremità Percival reggeva lo stesso telo ed entrambi lo attorcigliavano come se volessero torcere uno straccio bagnato. Stavano preparando la pasta per le frittelle della Festa d’Autunno, le spiegò Joyce, ma di fronte all’espressione confusa di Odyssea, continuò: «Il 21 settembre tutta Wizzieville si riunisce sulla piazza principale e ognuno offre agli altri le proprie specialità! Le mie frittelle sono molto richieste», arrossì senza smettere di strizzare l’enorme telo di pasta. «Il mio banchetto è sempre il più frequentato. Anche Roria Banner sa cucinare delle crostate abbastanza buone, ma la sua marmellata ha troppe spine.» «E prepari la pasta fin da ora?» «Ma certo! Deve riposare per almeno quindici giorni, così diventa bella croccante!» A un tratto Odyssea tossicchiò imbarazzata e disse: «Joyce, posso parlarti un attimo da sola?» Poi, abbassando un poco il tono: «È una cosa da donne…» Joyce si ringalluzzì ed esclamò accalorata: «Certo, certo, naturalmente! Percival, ti dispiace andare in giardino a innaffiare le ortensie carnivore?» Percival uscì dalla cucina trotterellando. Joyce le si avvicinò, con le guance in fiamme. «Di cosa hai bisogno piccola mia?» Quell’esplicita richiesta di confidenza da parte di una ragazzina che in genere se ne stava sulle sue la faceva sentire importante. Odyssea si schiarì ancora la gola e poi, tenendo gli occhi bassi, le mani quasi giunte e la voce smorzata da un assalto di timidezza, mormorò: «Ho pensato che sono ormai parecchi giorni che non vedo Jordy e sento la sua mancanza…» «Ma Odyssea», protestò Joyce, «l’altra mattina era venuto a trovarti e tu hai fatto dire che non stavi bene!» «Joyce cara… ehm… ricordi com’ero brutta? Secondo te una signorina può farsi vedere da un ragazzo in quelle condizioni?» «Hai ragione. Non che fossi brutta, intendiamoci, ma indossavi di nuovo quei pantaloni orrendi… Forse hai fatto bene.» Odyssea inspirò ed espirò, sforzandosi di assumere uno sguardo languido. Poi prese tra le sue la mano di Joyce. «Che ne dici se vado a trovarlo più tardi? Naturalmente è bene che io sia accompagnata, non sarebbe serio presentarsi da sola.» «Ci mancherebbe!» Joyce sollevò le braccia al cielo, inorridita al pensiero di una simile disdicevole condotta. «Una ragazza deve essere sempre accompagnata quando si reca a casa di un giovanotto.» «Pensavo», continuò Odyssea, «visto che la nonna è sempre così impegnata e la mamma non ama tanto stare tra la gente, che ne diresti di accompagnarmi tu?» Joyce sorrise con tale trasporto che le guance divennero turgide come pomelli di ottone. Alla fine della conversazione Odyssea andò a cambiarsi. «Mettiti qualcosa di carino!» squittì Joyce eccitata, mentre si toglieva il grembiule coi volants. *** Odyssea non aveva mai visto la casa di Jordy dall’esterno. Era un edificio con la facciata color crema e due colonnine di marmo ai lati dell’ingresso. Il portone era di legno scuro e massiccio e il batacchio raffigurava la testa di un avvoltoio. Joyce lo sfiorò e quello emise uno stridio prolungato, spalancando il becco e fissandole con due occhi alteri che non avevano nulla di ospitale. Una volta dentro, Odyssea riconobbe subito l’abitazione che aveva già visitato, e che adesso, alla luce del giorno, appariva ancora più ordinata e silenziosa: come un museo, o una cripta. La signora Angel le fece accomodare in un salotto interamente tappezzato di quadri e tappeti, non molto diverso dalla sala da pranzo in cui c’era il varco. Odyssea si ricordava di averla vista in una vecchia foto, e le sembrò che la scialba donnina con la faccia da topo fosse rimasta pressoché identica. Gli unici dettagli che dimostravano il passaggio del tempo erano le rughe intorno agli occhi, una ciocca di capelli grigi su una tempia, e un’acconciatura talmente turrita da sfidare le leggi di gravità. Osservandola con attenzione, Odyssea notò che la signora Angel aveva piccoli occhi verdi troppo ravvicinati e si guardava intorno con continui sussulti nervosi, come se in ogni istante temesse il verificarsi di qualcosa di grave da cui stare in guardia. Jordy non c’era, spiegò loro, poiché era uscito con alcuni amici come faceva di solito a quell’ora, ma le ringraziò per la visita, che l’espressione del suo viso sembrava in realtà disapprovare sinceramente. Aveva appena iniziato a lodare la magnificenza d’una certa tenda di seta damascata che ornava la finestra, con un tono querulo e noioso, come se ripetesse una lezione imparata a memoria e non conoscesse altri validi argomenti di conversazione al di là dell’elogio dei suoi possedimenti, che il marito entrò inaspettatamente nella stanza. Quando si accorse della presenza delle ospiti, si bloccò sulla soglia e si rivolse alla moglie: «Cara Clizia, ti ho ribadito più e più volte che quando abbiamo visite devi sentirti in dovere di comunicarmelo, così che io possa render loro omaggio e mi astenga dall’irrompere con tanta malagrazia». Hamlet Angel aveva parlato con tono scherzoso, ma Odyssea, doppiamente vigile dopo essere stata messa a parte dei sospetti di Jacko, colse soprattutto l’asprezza dei modi con cui si era rivolto alla moglie, e il timore disegnato a caratteri cubitali sul viso di quest’ultima. Dall’arrivo del padrone di casa la signora Angel sembrò eclissarsi. Era fisicamente presente, ma se ne stava sprofondata nella sua poltrona in perfetto silenzio, rigida e seria. Pareva più un’adolescente impacciata che una donna adulta nel proprio salotto. Stava concentrata su qualsiasi cosa Hamlet dicesse, pronta ad annuire ogniqualvolta lui la interpellava con un vero Clizia? e si limitava a rispondere con un sì, essendo ovvio che il no non sarebbe stata una risposta ben accetta. Quella che a prima vista sembrava una persona molto snob o molto supponente, in realtà nascondeva una deferenza nei confronti del marito che sfociava quasi nella paura. D’un tratto, Hamlet Angel si rivolse direttamente a Odyssea: «Gentile signorina, spero che in queste settimane abbia avuto modo di valutare la proposta che le è stata fatta dal Consiglio. L’assenza prolungata di segni da parte di Angus Ziggart crea un certo stupore nella nostra comunità e finora l’esperienza ci ha purtroppo insegnato che ai suoi lunghi silenzi seguono lunghi momenti assordanti. Eseguire una Verifica sarebbe il modo migliore per prevenire le ripercussioni che potrebbero coinvolgere il fior fiore dei cittadini di questo villaggio». Turbata dal discorso, Joyce tossicchiò nel suo fazzolettino di pizzo e Odyssea ne approfittò per cambiare abilmente argomento. «È davvero una bellissima casa signor Angel», esclamò mostrando una smodata ammirazione per tutto ciò che vedeva. «Se fosse possibile, sarei onorata di visitarla.» Hamlet sembrò raggiante e la moglie si alzò mestamente per seguire il piccolo corteo. Joyce, tuttavia, le rese un grande favore. «Clizia cara, perché noi due non rimaniamo a chiacchierare su queste comode poltrone. Sai…» continuò non senza un certo imbarazzo, «di recente ho avuto uno spiacevole problema di sciatica. Quindi…» La signora Angel non se lo fece ripetere due volte. Per un istante sorrise e parve addirittura graziosa. Hamlet Angel, per nulla entusiasta di quella soluzione, convenne che l’ospite non poteva essere lasciata sola, e accettò suo malgrado, conducendo Odyssea fuori dalla stanza. Il giro fu di una noia mortale, e Odyssea dovette fingere un sincero interesse dinanzi alla minuziosa descrizione di tutti i tappeti, i ninnoli e i quadri. Per fortuna Hamlet non aveva badato al fatto che aveva tenuto lo zaino sulle spalle. Quando dai piani alti tornarono a pianterreno e il signor Angel stava iniziando a decantare la raffinatezza della scala, che lui personalmente aveva progettato facendo giungere un alabastro speciale dalle famose Cave di Rocciabianca, dal salotto provenne un grido. Era la signora Angel che chiamava il marito a gran voce. Hamlet Angel, rosso in volto come se un attacco d’ira lo stesse divorando, invitò Odyssea a seguirlo, ma lei manifestò una tale estasi dinanzi al ritratto di un uomo ossuto vestito da alabardiere che non se la sentì di distoglierla. Promise che sarebbe tornato subito e la esortò ad ammirare anche gli altri dipinti dei suoi antenati che ricoprivano quasi per intero le pareti dell’ingresso. Da allora in poi Odyssea seppe che aveva i minuti contati. Si avvicinò alla porta cesellata e la sfiorò, sperando che quel contatto avesse lo stesso esito che aveva avuto con Jacko. L’uscio si aprì con uno scatto, e Odyssea entrò. Dentro la stanza, Clodoveo stava accucciato a terra proprio davanti alla cassaforte. Quando la vide sbatté appena le ali, salutandola come un cucciolo festoso. «Clody», sussurrò Odyssea. «Fai il bravo, d’accordo?» Per tutta risposta Clodoveo nascose la testa sotto un’ala. Odyssea si avvicinò, sfiorando il piumaggio giallo rossiccio del Grifone. «Non staccarmi una gamba, va bene?» aggiunse con voce flebile. La cassaforte era pesante e massiccia come la ricordava. Odyssea non aveva fatto caso a quale fosse la combinazione inserita da Jacko, pertanto sperò che la sua allusione alla possibilità di aprirla comunque con l’uso di qualche potere si rivelasse fondata. Tuttavia non aveva la benché minima idea di cosa fare. Tastò la superficie dello sportello con le mani aperte e cercò di concentrarsi. Pensò a Jacko e a quanto sarebbe stato contento se lei si fosse presentata con il contenuto della cassetta, e provò a immaginare porte che si spalancavano, serrature che scattavano, lucchetti che si schiudevano. Non sapeva quanto tempo fosse passato, e sentiva piccole gocce di sudore colarle sulla fronte e lungo la schiena come lenti insetti striscianti. Ti prego, implorò mentalmente, ti prego apriti! Lo disse con sincera disperazione, convinta che già il signor Angel la stesse cercando e che presto sarebbe entrato nella stanza. In quel momento, la cassaforte si aprì con un cigolio. Per un attimo la assalì la paura che dopo quella notte Hamlet Angel avesse deciso di mutare il contenuto, nascondendo chissà dove la cassetta, ma questo timore si rivelò infondato. In cima alle altre, a circa un metro dal punto massimo al quale poteva arrivare con la punta delle dita, riconobbe il codice. Ma come poteva arrivare fin lassù? La superficie, costituita dai dorsi delle cassette incolonnate, era liscia e levigata, e non c’era nessuna sporgenza. Pensa, Odyssea, pensa in fretta… D’un tratto, le sembrò che la cassetta fosse molto più vicina di quanto aveva creduto all’inizio. Infatti, alzando il braccio riusciva tranquillamente a toccarla. Fu ben felice di essersi sbagliata e si apprestò a prenderla, ma ciò che vide subito dopo rischiò di strapparle un grido. Non era la cassetta a essere più vicina, era lei che si era sollevata da terra! Galleggiava a mezz’aria, come se fosse sostenuta da uno sgabello invisibile, e tra sé e il pavimento c’era almeno un metro di spazio. L’afferrò subito con entrambe le mani e raggiunse di nuovo il suolo. Aprirla fu facile, poiché stava cominciando a imparare, ma il contenuto le carpì un gemito di delusione. Sul fondo c’era solo una busta bianca senza alcuna scritta, sigillata con un semplice timbro di ceralacca nera. La infilò nello zaino e rimise tutto a posto. Stavolta fece attenzione a chiudere lo sportello con molta delicatezza, senza produrre alcun rumore. Nell’istante in cui uscì dalla porta, il signor Angel sbucò dal salotto scuotendo la testa. «Mia cara signorina…» esordì. «Oh, ma lei sta piangendo! Cosa le suscita tanta emozione?» Odyssea, in verità fradicia di sudore, s’era bloccata per caso davanti al dipinto di una donna obesa con una scomoda gorgiera dorata che sembrava strozzarla, e non poté fare a meno di dire che tutta quell’arte l’aveva profondamente commossa. Hamlet Angel parve compiaciuto di quell’apprezzamento e condivise l’ammirazione per il ritratto della lontana prozia, ma con un certo rammarico le comunicò che la sua amica Joyce non stava bene, poiché in seguito all’offerta di alcuni stuzzichini preparati dalla moglie, aveva inghiottito un’oliva che la stava soffocando. Odyssea si precipitò immediatamente in salotto e vide Joyce che giaceva con la testa ciondoloni su un cuscino. Ansimava come un vecchio treno a carbone, tenendo la bocca serrata e portandosi le mani alla gola. «Joyce! Cerca di calmarti! Ti prego, respira…» esclamò Odyssea, scuotendola dalle spalle. Joyce la fissò con occhi atterriti, poi sussultò sulla poltrona, e d’improvviso con un rantolo gigantesco tossì sputando fuori qualcosa di minuscolo che andò a cadere sul tappeto di seta della signora Angel. Subito dopo il viso di Joyce riprese colore e il suo respiro tornò regolare. «Oh… amici cari…» sussurrò con voce addolorata. «Dovete scusarmi per questo contrattempo.» Quando si accomiatarono, la signora Angel aveva ancora gli occhi fissi sull’oliva che stava insudiciando il tappeto del salotto. Jordy entrò nella stanza proprio in quel momento. Aveva i capelli umidi e il viso dorato, come se fosse reduce da una nuotata e da un bagno di sole. La maniche strette della maglietta lasciavano intuire per una volta la naturalezza delle spalle, dandogli un’aria più sciolta e meno formale. Quando vide Odyssea, rimase piacevolmente stupito. Il padre gli riferì dei recenti avvenimenti, e Odyssea ebbe il timore che Jordy fosse troppo perspicace per bersi la storia di lei che supplicava una visita guidata della casa e si commuoveva dinanzi ai quadri che ricoprivano le pareti. Ma aveva sottovalutato l’enfasi del signor Angel. Infatti, come faceva di solito per prendersi il merito di tutte le cose, raccontò di essere stato lui a promuovere l’idea del tour della casa, e l’unico particolare che criticò fu l’idea di sua moglie di servire i famigerati stuzzichini. Dopo un altro paio di battute, pronunciate dal solo oratore autorizzato, quando le due ospiti espressero l’intenzione di andare, Jordy esclamò con gli occhi che brillavano: «Vi accompagno», e il padre gli concesse la sua benedizione. *** Jordy e Odyssea erano seduti nella piazza dell’unicorno, su una delle panchine a mezzaluna che circondavano la fontana, e sorseggiavano due succhi di mela. Con la scusa di voler tornare a casa a riposare, Joyce li aveva esortati ben presto a proseguire la passeggiata da soli e Odyssea non aveva potuto rifiutare. A un tratto, dopo aver posato il proprio bicchiere sulla panchina, Jordy si voltò verso di lei e la scrutò con vivacità. «Ti ho pensato molto in questi giorni», disse. «Se volevi venire a trovarmi perché non me lo hai detto? Sarei rimasto ad aspettarti.» Odyssea sorrise in silenzio, con gli occhi fissi sul proprio bicchiere, sperando ardentemente che lui non andasse oltre quelle affermazioni. Per fortuna, Jordy cambiò discorso. «Ho letto qualcosa in merito alle incredibili facoltà di chi possiede i poteri e ho scoperto che è abbastanza frequente udire rumori o voci o avere sensazioni che gli altri non percepiscono. A proposito dei rumori che hai sentito la sera del raduno, ti è più successo?» Odyssea scosse la testa. Jordy appariva molto incuriosito dai poteri e dalle loro implicazioni e la subissò di domande alle quali lei replicò in modo confuso. «Sei molto modesta», constatò. «Un’altra persona al posto tuo ne avrebbe fatto un vanto o un uso improprio. Prendi quel Jacko O’Donnell per esempio. Pur essendo l’unico a Wizzieville prima del tuo arrivo a possedere i poteri, non ha mai voluto condividere questa esperienza con gli altri, anzi, tu stessa hai visto di quale assurda violenza è capace.» Odyssea si sentì avvampare, non tanto per le considerazioni espresse su Jacko, ma per le ripetute allusioni alla propria modestia. Jordy l’aveva ammirata perché non utilizzava i poteri in modo scorretto, e lei aveva appena rubato qualcosa a casa sua, qualcosa di cui non sapeva nulla, forzando una cassaforte e turlupinando la sua famiglia. Per una frazione di secondo si chiese se avesse fatto la cosa giusta. Arrossì di nuovo e Jordy, scambiando quell’improvviso imporporarsi del viso per una reazione ai suoi complimenti, le prese una mano. Quando Odyssea si ritrasse, lui non diede segno di preoccuparsene. Era come se la sua timidezza invece di dissuaderlo lo incoraggiasse. «Posso sperare un domani, magari non troppo lontano, di approfondire la nostra amicizia? Non ho mai incontrato una ragazza come te.» Odyssea si aggrappò all’allusione all’amicizia, rispondendo che ne sarebbe stata onorata, ma non poté fare a meno di chiedersi se Jordy la considerasse speciale perché aveva colto in lei qualche straordinaria qualità interiore, o semplicemente perché aveva i poteri. In quel momento, tuttavia, la cosa più urgente era dileguarsi col suo scottante bagaglio. Così, balzò in piedi, tenendo stretto il fedele zaino. Si accorse troppo tardi di aver impresso a quel gesto un impeto eccessivo. Jordy le sorrise e le chiese scherzando: «Cosa tieni là dentro di tanto importante? Sembra debba esserci qualcosa di prezioso…» Odyssea impallidì, e l’assalì il timore che Jordy potesse costringerla ad aprirlo. Stava per convincersi che sarebbe stato del tutto in contrasto con le sue buone maniere, quando Jordy esclamò: «Posso curiosare nello zaino di una ragazza?» Parlava come se fosse assolutamente certo che vi era nascosto qualcosa. Ma non pareva arrabbiato, anzi piuttosto compiaciuto, il che quantomeno escludeva che ne avesse intuito veramente il contenuto. «Allora, mi fai vedere? Credo di aver diritto di sapere se c’è qualcosa che mi appartiene…» Odyssea divenne di pietra. Aveva il cuore che batteva all’impazzata ma cercò di apparire tranquilla. Quando Jordy, con una mossa fulminea e una risata, afferrò lo zaino e la sfidò sollevandolo in aria, Odyssea avvertì un tonfo nello stomaco, come se avesse inghiottito un sasso. Jordy, continuando a ridere, stava per aprirlo, e intanto il sasso s’ingrandiva, diventava uno scoglio, le ostruiva il petto, la gola, e presto l’avrebbe lasciata senza fiato. Fu come assistere a una scena al rallentatore: Odyssea vide il lembo di chiusura che si sollevava, la bocca di stoffa arricciata che si dilatava e poi… Quando vide spuntare una manica della giacca blu che lui le aveva prestato la Notte delle stelle, diede il permesso al sangue di tornare a scorrere senza furia e al cuore di smetterla di picchiare. Afferrò lo zaino, prima che Jordy tirasse fuori la giacca e scorgesse la busta col sigillo di suo padre, e se lo strinse al petto. Jordy sembrava raggiante, Odyssea invece era stupita. Non aveva messo lei la giacca nello zaino. Era certa di averla data a Joyce affinché la stirasse, così da poterla restituire al più presto al legittimo proprietario. Ed era certa che non ci fosse, prima, quando lo aveva aperto per deporvi il suo bottino. Jordy le afferrò la mano con maggiore slancio e sussurrò: «Sei una piccola ladruncola… vuoi per caso tenerti la mia giacca?» Odyssea pensò a quanto fosse vera la prima considerazione e a quanto fosse assolutamente priva di fondamento la seconda, ma si limitò ad abbozzare un lieve sorriso. Quando fecero per andarsene, i bicchieri erano spariti e Jordy, al suo sguardo interrogativo, rispose ridendo: «Erano muniti di un Incantesimo di Vuoto a Rendere. Se li lasci incustoditi per un tempo superiore ai dieci minuti, scompaiono automaticamente. Sapessi quante volte mi sono perso in chiacchiere e ho dovuto riordinare da bere!» Tornarono verso casa. Più d’una volta Jordy provò ad accarezzarle la mano mentre camminavano e più d’una volta Odyssea finse di non accorgersene, perché se avesse dimostrato di averlo notato si sarebbe trovata dinanzi a un bivio: o rifiutare il contatto, probabilmente offendendolo, o accettarlo, offendendo se stessa. Eppure, rifletté, Jordy Angel era decisamente un bel tipo. Ed era molto gentile con lei, la guardava con occhi luccicanti, e faceva continue allusioni romantiche. E Joyce sembrava adorarlo. Se solo Jacko O’Donnell l’avesse osservata, per una volta sola, con occhi frementi anche meno della metà di quelli di Jordy… Quando arrivarono dinanzi al portone, Odyssea estrasse dallo zaino la giacca. «Stavo scherzando, puoi tenerla se ti fa piacere», sorrise lui muovendo la mano in segno di rifiuto. Dovette persuadersi a tenerla. Non poteva insistere, dopo la sceneggiata sulla panchina. Pertanto, fingendo che le importasse qualcosa, lo ringraziò. Accolse il suo baciamano con un batticuore che non era dovuto all’emozione, ma al ricordo del rischio che aveva appena corso. Quindi entrò in casa correndo. *** Trovò Joyce in cucina. Per un attimo aveva temuto che stesse male davvero. Joyce invece era radiosa e stava consultando uno strano volume grande quasi quanto un materasso matrimoniale, posato sul tavolo. Le pagine si sfogliavano da sole, e talvolta gli angoli si allungavano verso di lei, come se volessero richiamare la sua attenzione su qualche specifica ricetta. A un tratto, delusa dal fatto che Joyce l’avesse scorsa senza interesse, una pagina che sembrava laminata d’oro si sollevò e la seppellì sotto il suo peso. «Basta! Basta!» borbottò Joyce, letteralmente sommersa dalla pergamena. Il foglio, invece, non voleva saperne di tollerare quella mancanza di rispetto e, tappando la bocca di Joyce per impedirle di pronunciare qualche formula che lo costringesse a placarsi, continuò ad avvolgerla pizzicandole un polpaccio e facendole solletico a un piede. Odyssea si avvicinò, senza sapere bene come aiutare la povera Joyce catturata da quella pazza pagina, e ne sfiorò un pezzetto con tre dita. La pagina si sciolse da quel bizzarro abbraccio di carta, si tese come una vela piena di vento, e si afflosciò. Joyce, finalmente libera, spettinata, senza una scarpa e col viso paonazzo, venne fuori ridendo, scuotendo la testa e sistemandosi la cuffietta. «Allora com’è andata? Sono stata brava?» esclamò. «Dovevi vedere la faccia di Clizia quando ho cominciato a tossire! Quando ho visto che Jordy non c’era ho creduto che tu non volessi più mettere in atto il nostro piano, ma quando hai chiesto al signor Angel di visitare la casa, ho capito che dovevo fingere lo stesso di stare per soffocare.» «Sei stata fenomenale», disse Odyssea abbracciandola. «Lo so che l’idea era di consentire a me e Jordy di stare da soli, ma poi ne ho approfittato per… per dare una sbirciata alla sua camera.» «Oh, birichina, non avrei dovuto aiutarti a fare queste cose, però gli innamorati sono così sciocchi a volte e bisogna capirli. Anch’io sono stata giovane.» «Ti prego, non dire niente alla mamma e alla nonna.» «Ci mancherebbe! La cara Augusta troverebbe troppo sconveniente una cosa del genere. Lei è così all’antica…» Odyssea si sentì in colpa per averle mentito approfittando della sua ingenuità. In verità aveva sperato fin dal principio che Jordy non fosse in casa. La sua assenza era una condizione indispensabile per la riuscita del piano. Joyce tornò a concentrarsi sulla lettura del voluminoso tomo: «Questo libro è antichissimo, solo io lo possiedo in tutta Wizzieville, per questo gli permetto qualche scherzo, perché contiene delle ricette molto rare». Odyssea sorrise, e si accinse a uscire dalla stanza. Allora udì Joyce che la apostrofava: «E comunque alla fine hai ottenuto il tuo scopo». Lei si voltò con la faccia seria. Si sentiva talmente colpevole che qualsiasi allusione le faceva temere di essersi in qualche modo tradita. Ma Joyce continuò: «In fin dei conti sei riuscita a rimanere un po’ da sola con quel ragazzo. È stata una bella passeggiata?» Odyssea tirò un profondo sospiro di sollievo, che Joyce probabilmente scambiò per un gemito d’amore, e annuì, defilandosi in fretta. Quando raggiunse la veranda, tirò fuori la giacca dallo zaino e la posò sulla poltroncina. Chissà come aveva fatto a finire lì. Forse stava sviluppando un potere che le consentiva di spostare gli oggetti anche senza volerlo? La busta sigillata con la ceralacca era ancora al suo posto. Si sistemò nuovamente lo zaino sulle spalle e si avviò lungo il viottolo di ghiaia. Il cielo era così limpido da sembrare uno specchio intorno al sole. Era ansiosa di consegnare la busta a Jacko, ma quando fu vicina alla casa, si accorse subito che non era solo. Stava parlando, e dubitò che il suo interlocutore fosse Breta, perché la porta era aperta. «Certo che mi rendo conto di tutto quello che hai fatto, ma non è rinfacciandomelo ogni tre minuti che otterrai quello che vuoi.» Dalla fessura riusciva a vederlo, in piedi davanti al camino, che parlava con qualcuno. Poi, anche l’invisibile interlocutore parlò, e Odyssea riconobbe la voce di Lindia. Era reduce da un pianto, e ogni parola era interrotta da singhiozzi. «Io… io gli ho dato quel veleno… avrebbe potuto ucciderlo… e l’ho fatto solo per te», piagnucolò Lindia, con una voce sottile e quasi isterica. Jacko reagì con un gesto esasperato, scuotendo un braccio. Doveva essere da molto che ascoltava le sue recriminazioni. «Le dosi che ti ho dato non avrebbero ucciso nessuno. E infatti mi sembra che gli abbiano solo fatto sciogliere la lingua.» «E tutte quelle domande, ho rischiato sempre che capisse qualcosa… e tutto sulla fiducia… tu non mi hai mai detto a cosa…» Jacko la interruppe con un movimento brusco della mano. «No, Lindia, così non sei leale, abbiamo fatto un accordo, ti sei offerta di aiutarmi con l’impegno di non chiedermi spiegazioni.» «Ma io l’ho fatto perché credevo che tu mi amassi!» gridò Lindia. «Io volevo che tu mi amassi… e tutte le cose che mi hai detto, tutte le promesse?» «Io non ho mai promesso niente a nessuno in tutta la mia vita! La maggior parte delle promesse che mi attribuisci sono tue invenzioni. Mi pareva di essere stato chiaro.» «Sì… però io credevo che poi… che io… che… che noi…» «Che cosa credevi?» Jacko rise e Odyssea colse qualcosa di profondamente cinico in quella risata. Poi udì il rumore di una sedia che veniva spinta indietro con forza e capì che Lindia si era alzata. «Ti piace un’altra?» gli chiese a bruciapelo. Jacko emise un’altra risata squillante. Indietreggiò, fermandosi accanto al fuoco. Le fiamme illuminarono una specie di ghigno divertito che gli arricciava le labbra. «Mia cara, sei uno spasso.» «Ti piace di nuovo Letizia Sweettenam?» «Smettila.» «Ti piace Barbie Eleison? So che fai sempre lo scemo quando la incontri.» «È Barbie che fa la scema, e comunque adesso basta. Non ho nessuna voglia di continuare questa conversazione.» «Ti piace… non è che per caso ti piace Odyssea?» perseverò Lindia, quasi in preda al panico. Odyssea lo vide avanzare dal fondo della stanza. «Questa è proprio da ridere», rispose Jacko senza però ridere. «Odyssea! E come ti è venuta in mente una cosa simile? Non penserei a lei in questi termini neppure se fosse l’ultima ragazza sulla faccia della terra. Lindia, smettila con questo interrogatorio. Piuttosto, non è ora che tu vada?» Odyssea arretrò, le braccia e le gambe molli. Era in preda a un dolore indicibile eppure non sentiva alcun dolore, perché il suo corpo era come spirato. Scappò verso la scuderia con lo zaino sulle spalle. Le sembrò che fosse diventato pesantissimo. Aveva rubato per lui, aveva rischiato di essere scoperta da Hamlet Angel, ed era decisa a non tornare a casa con quei massi colpevoli ancora sulla schiena. Tirò fuori dallo zaino la busta bianca e aprì il box di Levante, lasciandola cadere su un mucchio di fieno. Levante abbassò il collo, sfiorò la busta con le narici, e poi la ignorò. «Digli che lo odio», sussurrò Odyssea osservando il cavallo con gli occhi umidi. Poi fuggì. Raggiunse la veranda, entrò in casa e salì in camera sua. Lì, crollò col viso bagnato nel cuscino. *** Quando Joyce andò a chiamarla per il pranzo, Odyssea disse che non aveva fame. L’amica dovette leggere nei suoi occhi un sincero dolore e una convinzione inflessibile, poiché andò via senza insistere. Dopo alcuni minuti anche il viso della nonna si affacciò alla porta. Appariva così dolce, con la lunga chioma sciolta sulle spalle e la voce carezzevole, che Odyssea si dispiacque nel respingere le sue attenzioni con monosillabi vaghi affogati fra le lenzuola. Grace la seguì, in quella che sembrava una processione di madri preoccupate, e quando Odyssea supplicò anche lei di lasciarla sola, la mamma le accarezzò i capelli in silenzio. «Non tenerti tutto dentro. Io ne so qualcosa, e so che fa male», le mormorò prima di uscire. Odyssea rimase sul letto supina, con le braccia dietro la nuca e i capelli umidi a causa del pianto. Credevi forse che fosse innamorato di te? si domandò. Ma no che non lo credeva. Non era così sciocca! E allora perché si sentiva tanto male? La ragione non le fornì alcuna risposta che avesse un senso. Quella parte di conversazione che aveva udito le aveva fatto capire che Jacko si era servito di Lindia. Si chiese che persona fosse realmente Jacko O’Donnell. Trattava tutti con odioso distacco, e non aveva parole buone per nessuno, tranne che per Breta. Si era rivolto a lei solo perché aveva bisogno dei suoi poteri per entrare nel tunnel. Chissà quali altri atroci segreti nascondeva! Chissà di quale bassezza si era macchiata rubando per lui quel documento! Lo odiava con tutta se stessa, con tutto il suo sangue, con tutta la sua carne. E lo odiava ancora di più perché sapeva di non odiarlo affatto. Rimase immersa in pensieri rancorosi per ore, domandandosi come aveva fatto a essere così stupida. Non riuscì nemmeno ad assopirsi. Quando udì di nuovo il passo di Joyce sulle scale e la vide arrivare, sussurrò: «Ti prego, non ho fame, posso restare sola?» Joyce entrò nella stanza, avanzando lentamente. Sembrava turbata, le tremavano le mani e la voce, e dovette deglutire più volte a vuoto prima di riuscire a parlare. «Odyssea… forse… credo che… dovresti scendere…» «Che succede?» chiese Odyssea, notando la sua espressione sconvolta. «Ha detto che… se non scendi subito… sale lui… qui… nella tua stanza! Augusta è uscita e Grace riposa, e io… non so cosa fare!» «Joyce, vuoi spiegarti, non capisco.» Odyssea si era sollevata, in ginocchio, mentre un pensiero cominciava a farsi strada nella sua mente. «Ha detto che viene a prelevarti… se non scendi subito… e ha detto che non vuole sentire scuse…» ripeté Joyce macchinalmente. Era evidente che Joyce stesse parlando di Jacko. Non c’era un’altra persona al mondo capace di spaventarla tanto. Saltò giù dal letto con un balzo energico in netto contrasto con la fiacchezza di poco prima. Sapeva di essere inguardabile, ma non perse tempo a controllarsi allo specchio né a darsi una sistemata. Scese le scale piena di rabbia. Joyce la seguì correndo, tirando su col naso e farfugliando parole confuse. Jacko era seduto sul gradino della veranda e quando udì i loro passi si alzò. Nel vedere Joyce mormorò: «Puoi dire alla tua amica che non ho intenzione di mangiarti?» Odyssea si avvicinò a Joyce e le sussurrò qualche rassicurazione in un orecchio. Lei annuì più volte e indietreggiò, continuando a fissare Jacko con aria preoccupata. Sembrava estremamente restia ad andarsene. Infine, entrò in casa, non senza prima bisbigliare: «Chiamami, eh?» Odyssea posò lo sguardo su Jacko. Era più che decisa a mostrarsi del tutto normale, senza capricci né rancori, anche se era certa che gli occhi gonfi di lacrime e i capelli arruffati dovessero offrirgli un’impressione diversa e molto più franca. «Allora, che scherzo è questo?» le chiese con voce irritata. «Di cosa parli?» bisbigliò Odyssea, fingendo di non capire. Jacko le si avvicinò e le strinse un braccio, trascinandola lungo il vialetto. «Come hai fatto ad avere quel plico?» «Come ho fatto sono affari miei!» strillò Odyssea, tentando di divincolarsi. Lui si fermò, subito dopo la curva, e la osservò con un viso deformato dalla collera, il respiro ansante. «No. Ti sbagli. Non sono affari tuoi, sono soprattutto affari miei», dichiarò stringendole il braccio in modo più convulso. «Mi fai male!» protestò Odyssea, mentre ancora provava a liberarsi, ma in quel momento Jacko allentò la presa e quel gesto simultaneo le fece perdere l’equilibrio. Andò a sbattere sulla ghiaia asciutta, con tutto il peso su un braccio. L’articolazione della spalla scricchiolò e lei urlò di dolore. Jacko la osservò agghiacciato. Si mosse verso di lei e Odyssea tentò di indietreggiare, commettendo di nuovo l’errore di gravare sul braccio. Si sentiva come se avesse una sciabola conficcata nel petto che fuoriusciva dalla schiena. Jacko la aiutò a sollevarsi, cingendola in vita. Quindi, senza pronunciare una sola parola, la prese delicatamente tra le braccia e si diresse verso casa propria. Odyssea guardò il cielo e il sole e le cime inarcate degli alberi, e le sembrò che tutto il mondo fosse trafitto da spine lunghe come lance. Jacko spinse la porta di casa con un calcio ed entrò, adagiandola su una sedia. La depose con delicatezza e rimase a fissarla con due occhi smarriti. Ma lei non aveva alcuna intenzione di restare. Si alzò, assordata dal dolore, frastornata dalla nausea, e ancor più inebetita dalla collera, e si diresse barcollando verso la porta. Jacko la fermò e la costrinse a tornare a sedersi, piantandosi tra lei e l’ingresso. Poi le si avvicinò e le toccò il braccio. Odyssea cercò di allontanarlo con l’altro, muovendolo in aria come un frustino, come la pala impazzita di un mulino a vento. Per alcuni minuti gli unici rumori furono i passi frenetici di entrambi sul pavimento e i loro respiri trafelati. Poi Jacko le afferrò un polso con decisione, e la tenne ferma. Con le mani fece una lieve pressione sulla spalla e Odyssea sentì un dolore così penetrante che le sembrò di essere fatta solo di nervi scoperti e che su ciascuno di essi stesse sgambettando un mostriciattolo dispettoso con zampe affilate. La stanza prese a girare, vertiginosamente. Per un attimo ebbe la certezza che avrebbe dato di stomaco. Poi chiuse gli occhi e perse i sensi. Quando li riaprì era tutto esattamente come prima, ma Jacko era chino su di lei che le sfiorava la spalla, e lei era stesa su una coperta, davanti al camino. Il dolore era cessato. «Scusa», fu la prima parola che le disse. Sembrava dispiaciuto, ma Odyssea era fermamente decisa a non farsi più ingannare da quel viso affascinante e perfido. «Vado a casa», replicò risoluta, alzandosi. «Prima dimmi che sono scusato.» Lei non gli rispose e si avviò verso la porta. «Puoi aspettare un attimo prima di andare?» Jacko la anticipò e si parò dinanzi alla porta posando la mano aperta sulla superficie di legno e Odyssea per poco non sbatté contro il suo petto. Aveva l’aria turbata, gli occhi seminascosti dai capelli avevano una luce ardente, parevano pupille di un bambino con la febbre. «Ora siamo pari», sussurrò Odyssea. «Fammi uscire.» «Non volevo farti male, ma a volte ho l’impressione che tu sia in grado di tirar fuori il peggio di me», le disse, fissando la porta. «Bella frase», mormorò Odyssea. «Immagino sia il tuo modo speciale per ringraziarmi.» Jacko si voltò verso di lei. La scrutò a fondo, prima di parlare ancora. «Come hai fatto ad avere quel documento?» domandò. Quindi la prese per mano e la ricondusse verso la sedia. In quel momento la voglia di opporsi si sciolse, la sua ribellione si trasformò in condiscendenza, e si lasciò guidare. «L’ho preso, tutto qui. Sono entrata in quella stanza e l’ho preso. Ho detto a Clodoveo di stare buono e lui è stato buono. Ho detto alla cassaforte di aprirsi e quel la si è aperta. Ho detto alla cassetta di aprirsi e si è aperta. È stato molto semplice», replicò con tono asciutto e sprezzante. «E non ti sei chiesta nemmeno per un attimo perché io non avessi fatto la stessa cosa? Non ti ha sfiorato un dubbio…» Si sedette di fronte a lei continuando a tenerle la mano. Odyssea aggrottò le sopracciglia, come se non capisse, invasa tuttavia da una sensazione di allarme. «Non credi che se fosse stato tutto veramente così semplice», riprese Jacko, «io avrei già preso ciò che volevo da molto tempo? L’unico modo sicuro per aprire quella cassaforte e tutte le maledette cassette di Hamlet Angel era averne la combinazione. Quelle cassette sono fatte con un materiale speciale estratto dal Monte Basto, sono protette dalla maledizione di un antico mago dotato di poteri, e solo chi è a conoscenza dell’esatta sequenza di numeri e lettere può aprirle senza danno. Hamlet Angel è l’unico a conoscere la combinazione, una combinazione diversa per ogni cassetta. Questo ti fa capire quanto debbano essere preziose le informazioni che tiene gelosamente custodite.» «E… questa… maledizione… co… cos’è?» «Non lo so con esattezza. Ma conoscendo Hamlet Angel, non dubito si trattasse di una maledizione Obitus Tenebrosus.» «Cosa succede a chi…» «Prima ti si gelano i muscoli, poi ti si annebbia la vista, e alla fine non riesci più a respirare…» «E… non c’è modo… per…» Odyssea deglutì la saliva e qualche grammo di spine. Jacko le si avvicinò ancora. Odyssea ebbe l’impressione che la stesse compatendo. «Non fare quella faccia», continuò lui. «I tuoi poteri possono ancora proteggerti, quella maledizione in genere è immediata. Avresti già dovuto stare male. Se hai ancora la forza di fare i capricci, forse c’è qualche speranza. Se avessi aperto io quella cassetta come hai fatto tu, probabilmente dovresti prenderti cura di Breta al mio posto.» «Perché? Anche tu hai i poteri!» «Ma io non sono una dolce ragazzina animata dalle migliori intenzioni. Evidentemente la maledizione funziona solo quando percepisce sentimenti ostili. Credimi, io sarei stato molto molto ostile. Tu invece sei entrata in quella stanza spinta soltanto dall’amore che provi per me.» Jacko le lasciò la mano e rise sommessamente. Con le braccia incrociate sul petto, teneva la testa piegata in avanti e gli occhi socchiusi e la osservava da sotto il velo delle ciglia. «Non penserei a te in questi termini neppure se fossi l’ultimo ragazzo sulla faccia della terra», ribatté lei con un soffio di voce. «Vedo che hai l’abitudine di origliare.» Odyssea non negò e aggiunse: «Come hai fatto a procurarti la combinazione? Se non me lo dici lo chiedo a Lindia. Sono sicura che sarà felicissima di confidarsi con me». «Probabilmente hai ragione. E spero che riesca a trattenersi dal rivelarlo a qualcun altro, al momento è un po’ arrabbiata con me.» «Perché le hai detto che non ti serve più? Perché hai ottenuto quello che volevi e l’hai gettata via?» «Adesso non ti ci mettere anche tu.» «Come hai fatto?» s’impuntò Odyssea. E Jacko, sorprendendola ancora una volta, le rispose. Quando aveva saputo che Hamlet Angel aveva trasferito gran parte degli incartamenti processuali archiviati dal suo ufficio a casa, aveva pensato che doveva procurarsi ciò che gli serviva. Poiché solo lui conosceva la combinazione, occorreva trovare un sistema per indurlo a parlare. Certo, avrebbe potuto picchiarlo a sangue e costringerlo, ma aveva preferito ricorrere a un sistema meno eclatante. E non per rispetto nei confronti di Hamlet Angel, ma perché voleva agire senza creare troppo scompiglio. Era già da un po’ che Lindia gli ronzava intorno. Non gli interessava in modo particolare, anche se non poteva negare che fosse estremamente graziosa, ma quando le aveva chiesto di incontrarla era soprattutto al suo piano che pensava. Lindia non aveva opposto la minima resistenza, e non aveva insistito per sapere quale ne fosse lo scopo. E, comunque, ogni volta che provava a chiedere, lui conosceva un metodo vincente per zittirla. Aveva preparato un siero della verità da somministrare di nascosto al viscido Hamlet Angel, e Lindia gli aveva fatto le domande. Non era stato facile farsi dare tutte le informazioni. Lindia aveva avuto bisogno di parecchio tempo e di molti inviti a pranzo e a cena, farciti con qualche goccia di siero. Poi le era bastato porgli i quesiti giusti, quando gli altri non ascoltavano. Lindia gli comunicava tutti i suoi progressi, oltre naturalmente a tante altre inutili stupidaggini di contorno. «Lindia, con quel bel faccino e qualche moina, è stata grande, devo ammetterlo», concluse Jacko. «Quella pozione… C’era per caso dentro della Polvere Capitale?» «Tu come fai a saperlo?» le chiese stupito. «Comunque sì, è un ingrediente molto delicato e molto pericoloso, così come è stato rischioso per me acquistarlo a Wizzieville da un rivenditore regolare. Ma mi serviva una polvere di qualità indiscussa, se non volevo che il caro Hamlet tirasse le cuoia. Talvolta ho avuto la tentazione, ma poi ho fatto le cose per bene… purtroppo.» «E in tutto questo bel piano, hai fatto credere a Lindia di essere innamorato di lei, giusto per darle una piccola spinta?» «Non credo di dover rispondere a questa domanda», replicò Jacko piccato. «Ma sappi che non le ho mai detto nulla che somigliasse a una dichiarazione d’amore. È stata lei a illudersi. E non credo che qualche bacio debba per forza significare qualcosa.» Odyssea schizzò dalla sedia. «Meriteresti un applauso», disse con voce tesa. «Certo, immagino che Lindia non possa essere di tuo gradimento se ti piacciono soggetti come quella… come si chiama… Letizia… Forse Lindia è troppo vestita per i tuoi gusti? E di certo Letizia non si sarà fatta grossi problemi per qualche bacio, che vuoi che significhi? Inezie… E appena ottieni la combinazione, ciao ciao a Lindia, e ti secchi pure se lei ti domanda perché! Sei un mostro, Jacko O’Donnell!» «Allora, per farti contenta, la prossima volta che vedrò Lindia le chiederò di sposarmi, va bene?» Odyssea sentì dentro una rabbia smisurata, che passò al secondo posto quando la fitta alla spalla s’inasprì. Il movimento brusco che aveva compiuto aveva fatto riacutizzare il dolore. Si sedette, colta da una nuova nausea. «Dobbiamo smetterla di massacrarci ogni volta che ci incontriamo», sussurrò Jacko. «Stai ferma, fammi controllare se l’osso non è rotto.» Si mise dietro di lei e fece scorrere le mani con leggerezza, procurandole un pizzicore delicato e tiepido. «È solo una lussazione, ma tra un po’ starai bene», le bisbigliò in un orecchio, chinandosi. «Adesso fammi vedere il braccio.» Le prese il polso e sollevò la manica della camicia. «Anche questa ferita è quasi rimarginata. Forse per oggi non morirai.» Quindi tornò a sedersi dinanzi a lei e le chiese a bruciapelo: «Tu e Jordy state insieme?» Odyssea sobbalzò. Stava per rispondergli istintivamente, dicendogli la verità, ma poi scelse di riflettere, finse di tentennare, e infine ribatté con voce quieta e misteriosa: «Sono affari miei». «Comunque non fidarti troppo degli Angel.» Jacko parlò in fretta e senza guardarla in faccia. Aveva di nuovo concentrato tutta la sua attenzione sul fuoco che gli torniva gli zigomi con svolazzi rossastri. «Perché li odi così tanto? Perché Hamlet Angel ha fatto condannare tuo padre?» «Tu non puoi capire.» Jacko smosse la fiamma e questa prese a gemere vivacemente, spargendo intorno una pioggia di lampi azzurri. «Allora spiegami.» «Tu non sai niente di me, della mia vita, però sei molto brava a giudicare, vero? Vedi me, il cattivo Jacko O’Donnell, che non rispetta nessuna regola, che prende a botte chiunque, e poi vedi quella bella famiglia di cherubini impettiti, e pensi automaticamente che io sia pazzo o forse un delinquente, cosa che pensano in molti a Wizzieville. E non ti chiedi se ci può essere una ragione nascosta dietro il mio modo di…» mentre parlava si bloccò di colpo. Sembrava adirato, soprattutto con se stesso, come un ladro colto in flagrante a causa della propria inettitudine. «Pazzesco, non so nemmeno perché ti sto dicendo queste cose.» «Io non penso che tu sia un delinquente, Jacko… Io… tu mi sei simpatico… sono felice che siamo amici… e credo tu sia una persona… be’… speciale», sussurrò posandogli una mano sul braccio. Jacko si voltò verso di lei e la guardò. Odyssea si sentì rimestare tutta, sentì le braci nella pancia e le scintille in gola, ed ebbe paura che se non si fosse imposta un minimo di autocontrollo avrebbe fatto qualcosa di cui pentirsi amaramente. Perciò lasciò andare il suo braccio e abbassò gli occhi. Cercò di fingere, fingere indifferenza, fingere che il cuore non si stesse cimentando in una coreografia di balletti con spaccate, arabesque e salti mortali e, per soffocare quell’assurdo incanto, gli raccontò dell’agenda scomparsa, un evento che pareva quasi appartenere a un’altra vita. Tacque a proposito degli incubi, visto che uno di essi coinvolgeva Breta e non la metteva in buona luce. Jacko sembrava molto interessato. La ascoltò con un’attenzione penetrante, interrompendola di tanto in tanto con domande pertinenti e precise. Tuttavia non espresse alcuna opinione, si limitò a guardarla, con la fronte aggrottata. Alla fine, continuando a evitare qualsiasi commento, cambiò discorso: «Dobbiamo andare adesso, Joyce avrà già avvisato l’ospedale, la Guardia Speciale e chissà chi altro». La accompagnò e lei non si oppose. Il sole cominciava a tramontare, fra gli alberi si dilatavano le ombre. Si mossero in silenzio, senza neppure la tentazione di parlare. Quando arrivarono alla veranda, la povera Joyce era effettivamente in attesa, in piedi, con le mani attorcigliate e un’espressione disperata. Nel vedere Odyssea spalancò la bocca, le guance color marmo si tinsero di vita, e si precipitò ad abbracciarla come se fosse rientrata sana e salva da una guerra. Mentre la stringeva, l’ennesima stilettata le fece cigolare la spalla. Odyssea trattenne un grido di dolore. Quando si voltò, Jacko era sparito. «Piccola mia…» sussurrò Joyce mugolando. «Non dovresti frequentare certa gente. Quel ragazzo non è normale!» Rientrando in casa, Odyssea pensò alle ultime frasi che aveva scambiato con Jacko. Quando gli aveva chiesto cosa ci fosse scritto nei documenti sottratti al signor Angel, lui le aveva risposto con aria misteriosa che lo avrebbe saputo molto presto. LA SVOLTA Il temporale estivo la trovò sveglia e vigile. Era stesa sul letto con gli occhi spalancati, a fissare la luce dei lampi che sussultava sul soffitto. Da quando era arrivata a Wizzieville la sua vita era cambiata in modo straordinario. Aveva trovato una famiglia e aveva ritrovato sua madre. Aveva trovato un’amica e si era innamorata. Ma non aveva ancora trovato suo padre. Per quanto si fosse sforzata di cercarlo, perlustrando la soffitta, attraverso il contatto con i suoi segreti e il racconto di chi lo aveva conosciuto, non era ancora riuscita a creare un legame, qualcosa che la facesse sentire meno orfana. Ogni volta che pensava a lui e provava a concentrarsi sul bel viso raggiante che la osservava dalle fotografie del matrimonio, su quegli occhi che sembravano coraggiosi e sinceri, non riusciva a non pensare a tutte le voci angoscianti che solo lei poteva udire. Non riusciva a dimenticare gli incubi, la sua espressione feroce mentre usciva dal camino e il suo incontro furtivo tra le querce con Breta. Ma la cosa più terribile era ricordare suo padre mentre gridava a quel mostro di prendersi sua figlia. Si sentiva tradita. All’improvviso ebbe l’impressione che Fagola le stesse camminando sul viso. Percepì il delicato incedere delle sue zampe sulla guancia e sul collo. Anche se… Guardò verso l’orologio. Era privo di vita, un buco nero al di sopra della pendola immobile, come sempre accadeva quando c’era il temporale. Non poteva essere stata Fagola ad accarezzarle il viso. Lei aveva paura dei tuoni. Le aveva confessato che il solo rumore le spiegazzava le ali. Una volta un violento temporale l’aveva colta di sorpresa, e si era ritrovata sballottata ovunque a causa del vento improvviso che aveva spalancato la finestra, e aveva perso il senso dell’orientamento. Da allora, quando il tempo era brutto, preferiva starsene rintanata nel suo scrigno protetto. In quel momento, le parve di udire la voce di sua madre che la chiamava da lontano, quasi un bisbiglio, più simile a uno spiffero penetrato da qualche imposta allentata che a una voce reale. Poi percepì un rumore di passi affrettati fuori dalla stanza. «Mamma…» sussurrò. Subito dopo, la porta si aprì con un lento scricchiolio. Il corridoio era immerso nelle tenebre. Odyssea rimase immobile, con una mano aggrappata a un lembo del lenzuolo e l’altra stretta a pugno, le unghie quasi piantate nel palmo. I passi rimbombavano nel corridoio, avanzando spediti verso di lei. Le sembrò sciocco chiamare ancora sua madre, poiché ormai aveva l’assoluta certezza che non ci fosse lei al di là dell’oscurità. Quando sentì il lenzuolo che le sfuggiva dalle mani – come se qualcuno stesse tirando via le coperte dal basso – un sospetto le attraversò la mente. Un istante dopo ebbe la conferma. Era di nuovo lui. Una candela fu accesa nel buio, una piccola candela mezza consumata e contorta adagiata su una bugia di ferro: ora vedeva distintamente il suo viso appuntito e grinzoso, gli occhi come biglie che la osservavano maligni. La perfida creatura posò la candela sul letto e spiccò un balzo, aggrappandosi alla sua spalla e gravando proprio sul punto della lussazione. Lei si lasciò sfuggire un grido e il mostriciattolo, nel percepire il suo dolore, si lanciò in un falsetto isterico, artigliando le zampe mollicce sull’articolazione pulsante. «Ti avevo detto di non tornare più!» ringhiò Odyssea. Provò a staccare quell’orrendo pupazzo vivo che continuava a saltare. Quando riuscì ad allentarne la presa, l’omino le affondò i denti aguzzi nella mano. Odyssea lo scagliò lontano da sé, emettendo un urlo che parve quasi un guaito. In quell’istante, udì ancora la voce di sua madre fuori dalla porta. Stavolta era lei, e non un refolo d’aria, era lei, ne era certa. Saltò giù dal letto e uscì fuori dalla stanza. I tuoni s’inseguivano sul muro come rapidi palpiti di luce e il vento si abbatteva sui vetri. Avanzò a piedi scalzi e raggiunse la camera di Grace. Aprì la porta senza bussare. La finestra era spalancata e la pioggia aveva allagato il pavimento vicino alla soglia. Sua madre era inginocchiata di fianco al letto. Sembrava invecchiata, come se anni di dolore le avessero scavato il viso con rughe profonde. Quando si precipitò ad abbracciarla, tuttavia, la donna la ignorò. Rimase in quella posa accartocciata, dondolandosi ossessivamente avanti e indietro, e stringendo al petto qualcosa. «Mamma… mamma…» mormorò Odyssea. «Cosa succede? Come stai?» La chiamò ancora e ancora, ma Grace continuava a cullarsi con quel moto maniacale senza risponderle. Allora, il foglio che stava stringendo le scivolò dalle mani e cadde a terra. Era una vecchia pergamena ingiallita. Odyssea non tardò a riconoscere la grafia di suo padre. Mia amata Grace, quando troverai questa lettera sarà un terribile giorno, perché vorrà dire che ti avrò abbandonata da chissà quanti anni e tu dovrai affrontare da sola anche questa prova. Quando questi miei pensieri ti giungeranno, anche la nostra bambina ti avrà lasciata. Rasserena il tuo cuore in parte, in mezzo all’atroce dolore che starai patendo, sapendo che tutto è andato come doveva e che non c’era nulla che noi potessimo fare per mutare il corso del destino. Ciò che non ti ho mai rivelato, ciò che ti ho tenuto nascosto fin dal giorno del nostro amore nato sotto le stelle, è che nel mio sangue scorre il medesimo sangue di Angus Ziggart. Ho tentato di contrastare l’influsso di questo spaventoso legame, ma non mi è stato possibile. Avrei voluto che fosse possibile invece per Odyssea. Ero anche disposto a fargliela portare via nella speranza che non la uccidesse. E quando, dalle profondità degli abissi in cui brucio, seppi che lei lo aveva sconfitto, in quella notte in cui tu tentasti di fuggire per proteggerla, pensai che non tutto il male fosse definitivo. Forse Odyssea avrebbe potuto farcela. Ma quando tu la portasti via, allontanandola per anni dal luogo in cui i suoi poteri avrebbero potuto rafforzarsi, la paura tornò a farsi strada nella mia mente. Ciò che tu non sai è che fu lei, inconsapevolmente, ad aiutarlo a fuggire dall’Antro. L’Incantesimo di Prigionia lo prevedeva. Bastava il pensiero di un erede legittimo. Fu lui a invocarla, quando si sentì abbastanza forte per ritornare, e lei, inesperta e priva delle informazioni necessarie che le consentissero di contrastarlo, lo sciolse dalla prigionia. Se stai leggendo questa lettera, significa che lui è riuscito a prenderla. E se non è stato lui a ghermirla, allora l’avrà fatto per mezzo della sua bestia, l’orrida creatura che teme il fuoco e giace nei cunicoli e spia tutte le famiglie di Wizzieville. Addio, mia amata Grace, non sono stato un buon marito e nemmeno un buon padre, e sto espiando ogni momento col mio eterno dolore. Charlton Odyssea gridò con tutto il fiato che aveva. Il foglio, come sospinto dal vento, volteggiò in aria e ritornò tra le mani di sua madre che continuava a piangere. Cominciò a girarle la testa, sudava e tremava, e dovette uscire dalla stanza. Il mostriciattolo l’attendeva sul pianerottolo. La scrutava sghignazzando, e ognuno dei suoi saltelli e dei suoi versacci aveva in sé il peso di un insulto. Odyssea lo ignorò, scese le scale di corsa e uscì sulla veranda. Le sue lacrime si mescolarono alla pioggia impetuosa. Accanto a lei l’omino bagnato, sferzato come un pupazzo di gomma morbida, tentò ancora i suoi salti indiavolati sulla ghiaia, ma per la prima volta da quando quell’essere orribile aveva iniziato a farle visita, lei non provò né paura né inquietudine né rabbia. Le fece semplicemente pena. Era zuppo come le foglie degli alberi, e le orecchie appuntite erano assurdamente inclinate sotto il peso della pioggia. Era buffo, adesso. E improvvisamente, nel mezzo di quel grottesco spettacolo, Odyssea rise, una risata piena d’acqua, e quanto più lui cercava di avvicinarsi, tanto più lei si sentiva libera. Come aveva potuto averne paura? L’omino la osservò terrorizzato. La sua crudeltà pareva scomparsa, per cedere il posto a una specie di panico. Non gli aveva mai visto quella faccia sconvolta, né quando lo aveva scaraventato contro il muro né quando lo aveva incenerito. Anche allora aveva perseverato nella sua espressione beffarda. Invece ora, dinanzi alle sue risate, il mostriciattolo sembrava smarrito. Indietreggiò a piccoli passi, non più esaltato, non più saltellante, non più divertito, e tutt’un tratto, come se un fuoco segreto lo stesse bruciando dall’interno, prese a contorcersi. I lineamenti del suo viso si disfecero, gli occhi schizzarono via dalle orbite, le braccia si afflosciarono come guanti di lattice, e infine tutto il suo corpo si sciolse lentamente nell’acqua, riducendosi a una poltiglia scura che intrise la ghiaia e sparì dentro di essa. Odyssea cadde in ginocchio, e rimase immobile a lungo, osservando il punto in cui quella cosa era svanita. Solo allora rientrò in casa. «Odyssea!» Era di nuovo sua madre, che la chiamava con voce ansiosa, ma questa volta era davvero lei, affacciata alla balaustra, con gli occhi spalancati che la fissavano. Le rughe erano scomparse dalla sua pelle pallida. «Cosa è successo?» chiese col fiato corto. «Ti ho sentita gridare… ma… sei tutta bagnata… che cosa hai fatto?» Odyssea risalì le scale e si precipitò ad abbracciarla. I capelli le gocciolavano e il pigiama era attaccato al corpo. Si appoggiò al suo petto e ne respirò il calore, dicendole che le era parso di udire dei rumori provenire dal giardino e di essere scesa per controllare. «Fai un bel bagno caldo, altrimenti ti ammali…» sussurrò Grace. Il temporale fuori cominciava a placarsi quando Odyssea s’immerse sotto la superficie di morbida schiuma. Quel mostriciattolo portaincubi non sarebbe più tornato, ne era certa. Così come era certa che fosse venuto il momento di non fingere più che tutto fosse normale. La sua vita esigeva una svolta. *** I giornali pubblicarono la notizia in contemporanea: un gruppo di bambini in gita nel Bosco dei Larici-Ciclopi era stato aggredito da una presenza misteriosa e uno di loro era stato ferito. Tutta la comunità reagì con sconcerto, e nessuno riuscì più a credere alla storia che ormai andava diffondendosi tra gli ottimisti, ovvero che Squartavene fosse andato via. Nessuno dei ragazzini, successivamente interrogati, seppe dire cosa li avesse attaccati, ma tutti asserirono di aver notato molti occhi che li spiavano da dietro i cespugli. Odyssea non poté fare a meno di pensare agli occhi nel labirinto e all’essere ignoto che le aveva ferito il braccio. L’orrida creatura che teme il fuoco e giace nei cunicoli e spia tutte le famiglie di Wizzieville. Il Consiglio si riunì a casa della nonna quella mattina stessa. Odyssea attese con impazienza davanti alla porta che l’incontro terminasse, con un pensiero fisso inchiodato alla mente. Quindi, chiese il permesso di parlare prima che la riunione si sciogliesse. Entrando nella stanza vide nove paia di occhi che la osservavano con avidità. «Mi sottoporrò alla Verifica», disse semplicemente. I consiglieri furono talmente colpiti dalla serietà con cui aveva pronunciato quelle parole che alcuni la guardarono come se cogliessero per la prima volta tutta la portata della loro richiesta. Perfino la signora Mou impallidì e Frederick Mou fu incapace di esprimere qualunque commento. Ma la cosa più sorprendente fu aver tolto le parole di bocca ad Hamlet Angel. La osservò inebetito, senza riuscire neanche a tossicchiare. La nonna le posò una mano sulla spalla e con tono vagamente stridulo le disse: «Odyssea, sappiamo tutti che sei sconvolta ma…» «Non sono sconvolta, o meglio non nel senso che intendi tu. Sono perfettamente in grado di capire quello che sto dicendo. Mi sottoporrò alla Verifica e né tu né la mamma né nessun altro potrà distogliermi dalla mia decisione.» Parlò con voce ferma, e nessuno ebbe l’ardire di pensare di trovarsi dinanzi a una ragazzina instabile in preda a qualche passeggero capriccio, poiché l’argomento trattato generava rispetto, e la portatrice di decisioni tanto gravi era dotata di uno sguardo serio e profondo. Il suo tono allarmò la nonna al punto che fuggì via. Quando tutti si furono congedati e sua madre comparve alla base delle scale, Odyssea capì che avrebbe dovuto sostenere la battaglia più dura per tenere fede al proprio proposito. La bloccò in un angolo, alterata in volto come una vera strega. Odyssea non l’aveva mai vista così fuori di sé. «Ho saputo della sciocchezza che hai appena riferito al Consiglio», esordì. «Ed è ovvio che deve trattarsi di un errore, perché tu non ti sottoporrai a nessuna Verifica.» Odyssea inspirò. «Non ci sono errori. Ho deciso.» Grace le si avvicinò e le strattonò un braccio. «Ti rendi conto di cosa stai dicendo?» urlò. «È una cosa pericolosa!» Odyssea fissò sua madre negli occhi, per un lungo interminabile minuto, e poi parlò: «Tutta la mia vita è una cosa pericolosa, mamma! Io voglio sapere! Devo sapere! Che senso ha non sottopormi a questa prova, se poi dovrò comunque trascorrere la vita, e non sappiamo quanta, a non potermi fidare di nessuno, a sentire il respiro di quel mostro sul collo, a sentirmi osservata da tutti come se ogni cosa fosse colpa mia? Non c’è nulla di normale in me, lo capisci? Non dormo più, faccio sogni che non posso raccontarti tanto sono terribili, non so se avrò un futuro, e non so nemmeno chi era mio padre!» «Che vuoi dire?» chiese Grace sempre più adirata. «Sai benissimo chi era tuo padre, lo sai benissimo!» Odyssea preferì non insistere su quel punto, non intendeva far crollare su sua madre un altro muro, che l’avrebbe certamente sepolta. Ma doveva capire, scoprire quanto di vero fosse celato negli incubi e nelle visioni che la sorprendevano come brevi teatri. Doveva sapere se Charlton Bennet era davvero l’erede di Squartavene. Si diresse in camera, salendo i gradini con fatica, come se uno strascico di pietra la rallentasse. «Non dovevamo tornare in questo maledetto posto!» gridò Grace sorpassandola e precedendola sulle scale. «Ce ne andiamo subito, adesso, all’istante!» Nel dire ciò, entrò rapida nella stanza della figlia, tirò fuori dal baule la vecchia sacca arancione, e prese a riempirla con gesti caotici. Odyssea la guardò con compassione e disperazione. «Mamma…» sussurrò. «Ti prego…» Grace non ascoltava più, era come impazzita. «Dovevamo restare dall’altra parte! Sono stata una stupida a lasciarmi convincere!» Quando ebbe finito, la afferrò da un polso quasi volesse trascinarla via. «Non vengo da nessuna parte», disse Odyssea. «E invece sì!» «Non puoi costringermi. Io resterò qui e farò ciò che va fatto.» «Va fatto? Chi lo dice che va fatto? Cosa ti sei messa in testa? Vuoi suicidarti? Tuo padre è morto per salvarti e tu maledici il suo sacrificio in questo modo?» Odyssea si morse le labbra. Meglio un crudele silenzio di una verità molto più crudele. Dinanzi a tanta fermezza, Grace si accasciò come un fiore appassito. Cadde a sedere sul letto, accanto alla sacca piena fino all’orlo, e si sciolse in singhiozzi. Odyssea la osservò da lontano, senza avvicinarsi, accarezzandola solo con gli occhi, nonostante avesse voglia di abbracciarla forte. «Non farlo…» mormorò Grace. «Non posso, mamma, non chiedermi di rinunciare.» Grace sollevò lo sguardo, la fissò. La collera, dopo la debolezza, tornò più agguerrita di prima. Si alzò in piedi e sentenziò, con un tono che non ammetteva opposizioni: «Sei ancora una bambina e non potrai fare nulla di così importante senza la mia autorizzazione». Uscì dalla stanza sbattendo la porta. Odyssea si lasciò scivolare sul tappeto. Udì molte voci giungere da fuori, probabilmente una lite tra la madre e la nonna, e il pianto di Joyce, e altre porte sbattute, e passi pesanti lungo le scale, e poi un silenzio ancora più pesante. Allora si mise una mano sulla bocca e urlò senza emettere alcun suono. Non era felice né orgogliosa della sua decisione, ma nessuno l’avrebbe persuasa a tornare indietro. *** Fu convocata ufficialmente presso il Palazzo Civico del Borgomastro già il giorno successivo. Odyssea si preparò a quella che si annunciava come una cerimonia di investitura ufficiale con la certezza che Grace Bennet avrebbe fatto tutto il possibile per fermarla. Una folla numerosa era assiepata intorno al Palazzo, un alto edificio con la facciata di pietra candida e tante finestre a bovindo con le imposte color rame. Quando, col cuore strozzato, varcò il portone d’ingresso, sul quale c’era un batacchio a forma di unicorno rampante, si ritrovò in un salone completamente rivestito di marmo che luccicava come un enorme quarzo messo in controluce dinanzi al sole. Al soffitto era sospeso un lampadario immenso, con un diametro simile a quello di una sequoia, composto da centinaia di gocce di cristallo grandi come nocciole. Da lì venne introdotta all’interno di una stanza circolare coi soffitti alti, le pareti in pietra viva e imponenti scranni foderati di velluto rosso, disposti lungo tutta la circonferenza della sala. Sui sedili erano assisi i membri del Consiglio, e indossavano lunghi mantelli neri. Guardando meglio, più in alto, al di sopra dei consiglieri, oltre una balaustra anch’essa circolare, si distinguevano i visi di numerose persone estranee al Consiglio. Nel momento in cui Odyssea entrò in quella stanza, si sentì sola. Sua madre e Joyce erano passate da un altro ingresso e probabilmente erano lì sedute da qualche parte. La nonna era sprofondata su uno degli scranni, piccola piccola dentro la voluminosa sedia, tra due maghi che Odyssea non conosceva, entrambi talmente seri e immobili da sembrare intagliati in due blocchi di pietra. Il signor Mou, seduto al centro, appariva estremamente ansioso. A un tratto si alzò in piedi e cominciò a parlare: «Consiglieri emeriti, popolo di Wizzieville, è con grande onore che vi comunico l’intenzione della qui presente signorina, la giovane e coraggiosa Odyssea Bennet, di sottoporsi alla Suprema Recognitio, che molti di voi conoscono come Verifica. Tale prova, giammai sostenuta da alcuno in questa comunità, consentirà a lei e a noi di carpire i pensieri e i progetti più reconditi di colui che tanto timore incute e tante ambasce ha portato alle nostre vite. Va da sé che trattasi di una prova molto difficile, tant’è che solo una persona dotata di Poteri Sommi può affrontarla sperando di uscirne indenne. È necessario per la riuscita della Verifica che la signorina Bennet vi abbia aderito con la massima spontaneità e senza costrizione alcuna, che i suoi pensieri siano scevri da propositi di vendetta ma orientati solo verso la conoscenza, e che ella sia perfettamente conscia dei pericoli cui va incontro. In mancanza anche di uno solo di questi requisiti il Consiglio non potrà convalidare la candidatura. Pertanto, prego Odyssea Bennet di avanzare e di fermarsi al centro della sala, nel punto contrassegnato dall’unicorno d’oro sul pavimento». Odyssea fece pochi passi che risuonarono sul marmo, fino a quando intravide un unicorno in rilievo grande quanto la corolla di un girasole, che intarsiava l’impiantito. Vi si fermò sopra, come un’ape tra i petali. Il signor Mou tossicchiò e la pregò di ascoltarlo attentamente e di rispondere alle domande che le sarebbero state poste secondo un’antica formula rituale. «Odyssea Bennet, hai scelto di sottoporti alla Suprema Recognitio spinta esclusivamente dalla tua volontà e senza che alcuno ti abbia indotto, coartato, obbligato?» Odyssea rispose ferma: «Sì». «Odyssea Bennet, nella scelta di sottoporti alla Suprema Recognitio, sei spinta esclusivamente da ragioni di conoscenza, approfondimento, verità, e non da motivi di vendetta, rivalsa, riscatto?» «Sì.» «Odyssea Bennet, la tua scelta di sottoporti alla Suprema Recognitio è congiunta alla consapevolezza dei pericoli cui vai incontro, quali assalto, battaglia, lacerazioni, morte?» «Sì.» Un silenzio assoluto raggelò la stanza e si protrasse per alcuni minuti. La quiete cessò quando il signor Mou riprese a parlare: «Ora è di rito che il presidente del Consiglio chieda ai consiglieri e ai cittadini di Wizzieville se conoscano dei fatti ostativi, diversi rispetto ai punti già consacrati dalla formula, per cui la qui presente Odyssea Bennet non debba sottoporsi alla Verifica». Un leggero mormorio si diffuse nella sala. Odyssea fremeva. Dal pubblico udì giungere la voce di sua madre. «Bene, esaurite tutte queste formalità, sono contenta di comunicarvi che potete tornarvene a casa a bocca asciutta, perché mia figlia non sosterrà la vostra assurda prova mortale. È ancora minorenne e io non la autorizzerò a fare niente del genere.» Il mormorio aumentò d’intensità. Gli occhi di alcuni consiglieri si volsero con aria astiosa verso la balaustra. Frederick Mou rispose: «Cara Grace, comprendiamo le tue materne preoccupazioni, e infatti questo Consiglio ha già discusso ampiamente circa l’eventualità di un tuo rifiuto a dare il consenso. Ma siamo dolenti di informarti che il nostro Codice Remoto delle Emergenze, al capitolo dedicato al coinvolgimento di minori, recita: “Qualora il minore abbia superato la soglia dei quattordici anni, e le condizioni oggettive e di emergenza esigano una pronta soluzione, laddove pure venga a mancare il consenso di chi esercita la potestà, in presenza di una deliberazione a maggioranza, il Consiglio potrà in ogni caso decretare di accettare la candidatura”. Per cui… mi dispiace ma… devo comunicarti che questo Consiglio con nove voti su dieci ha accolto l’adesione di Odyssea. Sono giorni difficili per noi tutti. Tre maghi molto importanti sono morti dissanguati, Pericle è in fin di vita e sua moglie non può dirsi in condizioni migliori, alcuni ragazzini sono stati aggrediti, non ultima la stessa Odyssea. Non credi che la Verifica possa soltanto aiutarci? E ti rammento che tua figlia è forte, molto forte, come ha già avuto modo di dimostrare. Squartavene l’ha colpita più volte ed ella è ancora tra noi. Nutro la concreta speranza che ciò accada di nuovo». Un urlo disperato provenne dalla zona rialzata riservata al pubblico. «È svenuta!» gridò una voce maschile. Odyssea avvertì l’implosione del proprio cuore. Se solo sua madre avesse capito! Non voleva farla stare male, non voleva, ma era consapevole che nel rapporto coi propri genitori, anche in condizioni normali, anche in mancanza di mostri terribili e affamati, la sofferenza reciproca fosse un prezzo da pagare per affermare la propria indipendenza. Quando intuì che qualcuno stava portando via sua mamma, sentì le lacrime scorrerle sul viso e insinuarsi dentro lo scollo rotondo della maglietta. Ristabilita la calma, Frederick Mou continuò: «Nella scelta del luogo e del giorno in cui eseguire la prova, il Consiglio ha optato per la Foresta Tenebrosa, in cui si ritiene il nostro nemico si annidi stabilmente. È fissata per domani 15 settembre, alle ore 20.00. La Giada Catturante verrà affidata direttamente sul posto». Odyssea fissò i consiglieri a uno a uno. A parte Augusta, che appariva afflitta, e il signor Mou, nelle cui pupille passava un’emozione non troppo lontana dal senso di colpa, gli altri le sembrarono tutti abbastanza soddisfatti di come si era svolto il rito. Hamlet Angel aveva un’aria tronfia e sicura di sé. Poi la riunione fu sciolta. Ritornando a casa con la nonna che la teneva per mano, il sole che scivolava lento dietro i tetti, e la folla che si disperdeva, Odyssea intravide Lindia. Le parve che la sua amica la guardasse con grande pena e le sorridesse debolmente mentre la madre la trascinava via. Scorse Jordy, che la salutò con un cenno della mano, gli occhi attraversati da un tentativo di tenerezza. Ma non vide Jacko. Lo cercò tra le facce, tra gli occhi indiscreti, atterriti, maliziosi e malinconici che l’accompagnarono per un lungo tratto, lo cercò davanti ai muri, vicino agli alberi e, via via, nelle ombre scure della sera che calava. Sperò. Ma non lo trovò da nessuna parte. LA VERIFICA Le riuscì molto difficile dormire quella notte. Aveva ricominciato a piovere, e lo scalpiccio dell’acqua faceva da sottofondo alle sue riflessioni. Non riusciva a non pensare a ciò che l’avrebbe aspettata l’indomani. Tentò di consolarsi, ripetendo a se stessa che non sarebbe stato molto diverso dalle altre volte e che, con molta probabilità, anche in questa occasione se la sarebbe cavata. Cercò di incoraggiarsi, di abbracciarsi, di farsi ridere. Ma il sonno era arrabbiato con lei, infelice e distante come sua madre. Udiva ancora il suo urlo e i singhiozzi di Joyce. Vedeva gli occhi invecchiati e stanchi di sua nonna. La casa sembrava morta. Si rigirò riducendo le lenzuola a una poltiglia bianca. Dopo un po’, in quel gira e rigira e rimugina e arrovella, le parve di udire un rumore, come il passo di una grossa lucertola che si stesse arrampicando fuori dalla finestra. Scese dal letto e si avvicinò, sostando nascosta dietro la tenda. Infine percepì un tonfo. Spalancò la finestra, con gli occhi rabbiosi, come se si aspettasse di imbattersi ancora nell’omino degli incubi che era certa di aver annientato, ma si ritrovò davanti Jacko completamente bagnato. Rimase sbalordita per alcuni istanti, poi si scostò per farlo entrare e richiuse la finestra senza dire una parola. Aveva improvvisamente caldo, come se insieme a lui fosse entrato il sole. «Ehi», sussurrò. «Che faccia hai, sei sorpresa di vedermi?» Odyssea non aveva la forza di rispondere. «Hai un asciugamano?» le chiese. «Altrimenti credo che ti allagherò la stanza.» Lei annuì, senza un fiato, e si precipitò in bagno, tornando poco dopo con un telo di cotone. Si sentiva felice, come se tutto il male fosse stato cancellato, come se il male non fosse mai esistito. Jacko si tamponò i capelli e si asciugò le spalle. Odyssea rimase a osservarlo seduta sul letto, e di nuovo le parve di essere dentro una galleria d’arte, a scrutare l’opera viva di un artista capace di infondere un’anima alla sua creazione. «Ehi, ragazzina, ti rendi conto di come mi stai fissando?» le domandò Jacko con un sorrisetto ironico. Odyssea arrossì e abbassò subito gli occhi, indugiando sulle impronte fangose delle sue scarpe e sul tremolio lucente delle gocce. Jacko posò il telo sul baule e si sedette accanto a lei. «Tua madre oggi è venuta a parlarmi», mormorò. «Mia… mia ma… madre?» balbettò Odyssea, incredula. «Sì, ti sembra così strano? Era convinta che se te lo avessi chiesto io tu avresti rinunciato a quella prova.» Odyssea spalancò gli occhi di scatto. Sua madre? Grace Bennet che andava a parlare con Jacko? Se lui non fosse stato tanto serio, avrebbe pensato che stesse scherzando. Ma Jacko non aveva l’espressione di uno che scherza. «E… tu… co… cosa…» Odyssea continuò a farfugliare. «L’ho ascoltata, le ho detto che te ne avrei parlato, ma ho avanzato il sospetto che sua figlia fosse tanto sconclusionata quanto testarda. E che alla fine sarebbe stato meglio rispettare la tua scelta, per quanto potesse…» esitò, «farci male…» Stavolta fu il turno di Jacko di fissare un punto imprecisato della stanza. Poi riprese, facendo una smorfia stupita. «Chissà come le è venuto in mente che io potessi convincerti.» «Proprio non lo so!» si affrettò a replicare Odyssea. «Sei sicura di quello che hai deciso? Ti rendi conto del pericolo?» «È molto più pericoloso continuare a vivere così», sussurrò Odyssea. «Io… voglio solo capire. E poi… mi è già andata bene altre volte, credo proprio di potercela fare ancora.» Se ne stava immobile, con le caviglie nude che ciondolavano, una mano ad arricciare una ciocca di capelli e l’altra sepolta sotto una gamba. Quando avvertì le dita di Jacko che le tiravano fuori la mano tenendola ferma sul materasso, Odyssea si sentì travolta da un calore piacevole, e da un indefinibile senso di panico. «Starai attenta? Sarai prudente?» le disse, con un tono che era più un ordine che una richiesta. «Cercherò», rispose Odyssea, mentre quel tepore aumentava, avvolgendola come una soffice coperta di piume flambé. Poi, colta da un sospetto, gli chiese a bruciapelo: «Sei così gentile perché pensi che morirò?» Jacko sorrise, un sorriso di sole labbra, un sorriso serrato e umido di pioggia. «Sì, può darsi che sia così, mi fai un po’ pena, povera ragazzina indifesa.» La voce di lui s’era fatta nettamente canzonatoria. Ma subito dopo aggiunse, tornando serio: «Domani dovrò andare a Olodern. Non posso rinviare. L’acqua è quasi finita, Breta ne consuma in quantità tali che non riesco più a farne una scorta adeguata. Spero di ritrovarti più infantile e capricciosa che mai al mio ritorno». Odyssea annuì, controllando a fatica il movimento ipocrita del suo collo. Non voleva che andasse, e questo desiderio la fece sentire malvagia. Scacciò da sé con tutte le forze quel passaggio di egoismo e sorrise, con semplicità, con malinconia, pensando a Breta. «Sì, lo spero anch’io…» bisbigliò. «Ehi.» Jacko le girò il viso verso di sé con la punta delle dita. «Se non mi hai dato una rispostaccia dopo che ti ho detto che sei infantile e capricciosa, allora sei messa male.» «Forse è meglio che vai», gli disse. «Va tutto bene. Ora provo a dormire.» Fu allora che Jacko fece ciò che gli riusciva meglio. Farle perdere il dominio di sé, scaraventarla in balia di una burrasca, ordinare a tutti i pavimenti del mondo di aprirsi e inghiottirla, comandare a tutte le farfalle della terra di entrare in picchiata nel suo stomaco. Le si avvicinò, lui e la sua ombra ancora umida, e le adagiò una ciocca di capelli dietro un orecchio. Le sistemò anche l’altra, in perfetta simmetria, e per una frazione di secondo i suoi polpastrelli indugiarono su un lobo. Poi le sfiorò la nuca, restando col palmo posato intorno al suo collo e accarezzandole con un dito la fossetta sotto i capelli. Si avvicinò ancora. Era a pochi centimetri ormai, non potevano esservi dubbi sulle sue intenzioni. Stava per baciarla di nuovo! Odyssea chiuse gli occhi, mentre le sue costole risuonavano e scalpitavano sotto la spinta del cuore. Sporse le labbra e attese. Ma nulla di simile a una carezza tiepida si accostò alla sua bocca. Socchiuse le palpebre, sbalordita, e vide Jacko di fronte a sé, serio, lontano, che seguitava a sfiorarle la nuca e tuttavia era accigliato. «Alzati i capelli», le ordinò in un modo categorico che aumentò il suo sbalordimento. Dinanzi all’immobilità di lei, troppo sconvolta per riuscire a compiere qualsiasi movimento, imbarazzata al pensiero di essersi praticamente offerta mentre lui pensava a tutt’altro, Jacko prese l’iniziativa e le sollevò le ciocche scure. Questa volta, però, non c’era nulla di dolce in quel gesto. Pareva che stesse controllando qualcosa. La fece voltare e le chiese: «Questi segni sul collo, come te li sei fatti?» Odyssea trovò quella domanda assurda. Se non avesse avuto voglia di piangere avrebbe riso fino alle lacrime. «Quali segni? Non ho niente sul collo», affermò, seccata. «E invece ti sbagli. Hai tre piccole cicatrici, qui, senti, tra l’attaccatura dei capelli e le spalle…» Jacko continuava a toccarla con insistenza. «Sembrano morsi o punture di qualche insetto.» «E allora? Mi avrà punto una zanzara!» «Sei arrabbiata con me, lo capisco, ma ora vuoi concentrarti su quello che ti sto dicendo?» disse Jacko fissandola senza pazienza. Odyssea pensò che la situazione stesse diventando surreale. Un secondo prima la accarezzava come se volesse baciarla e un secondo dopo le chiedeva se l’aveva punta un insetto! La collera prese il posto dello stupore. «Se vuoi semplicemente cambiare discorso, voglio tranquillizzarti: non è che mi aspettassi di essere baciata! Cioè, non sto certo tutto il tempo a pensare a te! I tuoi baci non hanno nessun significato! Anche io penso che si debbano fare molte esperienze e molti confronti nella vita, e questo è soltanto l’inizio.» Parlò spinta da un furioso disappunto. Come si permetteva di trattarla così? Come si permetteva di liquefarle il sangue e poi agire con tanta freddezza? «Bene. Vedo che ti comporti come una poppante», ribatté Jacko con voce astiosa. «Non è il caso che rimanga più qui. Tanto la tua decisione l’hai già presa e non penso ci sia verso di farti tornare sui tuoi passi. Avevo ragione io, sei testarda e insensata. Ah, a proposito del tuo discorsetto. Fai tutti i confronti che vuoi. Poi mi saprai dire in quale punto della classifica intendi mettermi. Per quanto mi riguarda, ho visto di meglio.» Così dicendo, saltò giù dal letto e aprì la finestra sbattendola contro la parete con violenza, come se volesse sradicarla. I vetri tintinnarono. In un attimo scomparve. Odyssea rimase immobile, incapace di capire cosa fosse successo. Era venuto lì pieno di dolcezza e se ne era andato livido di rabbia. Accadeva sempre così con Jacko. Ma perché? Perché un attimo prima la vita sembrava meravigliosa, piena di calore e di vibrazioni, e un attimo dopo tornava quel vuoto mondo senza amore, quel guscio arido a cui lei si sentiva destinata? Spinse con un calcio la povera finestra martoriata che si chiuse rumorosamente. Si gettò sul letto. Voleva morire. Voleva morire. Mentre lo pensava, si rese conto con sgomento che, di lì a poche ore, sarebbe stata probabilmente accontentata. *** Il giorno dopo, quando il sole tramontò e la nonna la raggiunse con un’enorme tavoletta di cioccolata dicendole di mangiarla tutta e fissandola con due moccoli di candela al posto degli occhi, Odyssea capì che l’ora era giunta. Augusta indossava un tailleur scuro, privo dei colori luminosi e caldi che caratterizzavano il suo guardaroba. Odyssea sgranocchiò la cioccolata, centellinandola come l’ultima cena di un condannato. Quando ebbe finito, la nonna l’avvertì che l’avrebbe accompagnata lei, poiché era necessaria la presenza di un parente e Grace non era nelle condizioni di muoversi. Uscirono da casa in un mesto silenzio. All’ingresso c’era un’enorme carrozza senza ruote né cavalli, coi finestrini circolari e le cromature d’argento, lucida come una grossa conchiglia, sospesa da terra come sorretta da un cuscino d’aria. Dentro era spaziosa e comoda, interamente rivestita di damasco blu, e Odyssea sprofondò tra i cuscini, lasciandosi custodire dal suo lento rollio. Era il primo mezzo di trasporto che vedesse a Wizzieville, fino ad allora aveva creduto che tutti si spostassero solo a piedi o a cavallo. Già, a cavallo. Il pensiero dei cavalli fu seguito automaticamente dal pensiero di Jacko. Forse lui era già in viaggio per Olodern in groppa a Levante. Quando la carrozza si fermò, Augusta e Odyssea scesero tenendosi per mano. Odyssea si guardò attorno. Era buio, ma qui e lì s’intravedevano decine di piccole luci sospese. Riconobbe subito i membri del Consiglio. Indossavano gli stessi mantelli del giorno prima, parevano grossi pipistrelli con le ali chiuse. Alcuni di loro reggevano delle candele accese: un drappello di ombre che si confondeva con il nero opaco della sera. Fra tutti spiccava il signor Mou, che invece stringeva tra le braccia una scatola di cuoio rosso. Quando l’aprì, tirò fuori una catenina d’oro a cui era agganciata una pietra verde delle dimensioni di una noce. La Giada Catturante. Con un gesto solenne gliela passò intorno alla testa. «Devi farla aderire alla pelle», le sussurrò. Odyssea sistemò la Giada sotto la maglietta e un brivido le si trasmise immediato in tutto il corpo. A un tratto capì che stavano per lasciarla. La nonna le porse la giacca di pile con una grande farfalla disegnata sulla schiena e la aiutò a indossarla. «Attenta a non prendere freddo», le mormorò e, in quella raccomandazione così normale, Odyssea colse tutta la paura soffocata per l’anormalità della situazione. Augusta si allontanò, con le spalle curve e il passo strascicato. Quando Frederick Mou alzò la mano richiamando l’attenzione del piccolo gruppo, pronunciando la frase «Che la Verifica abbia inizio», Odyssea capì che era impossibile tornare indietro. *** Poco tempo e rimase completamente sola. Annegò la bocca nel bavero e le mani nelle tasche, la Giada sulla pelle era fredda come il metallo ghiacciato. Provava una sensazione di prigionia simile a quella percepita la notte in cui era arrivata a Wizzieville, quando sua madre l’aveva trascinata attraverso il Bosco di Confine. Solo che adesso era molto peggio. Tremava. E da qualche parte, nell’oscurità, c’era un mostro pronto a ucciderla. Si sedette su un groviglio di radici e si rannicchiò. Le sembrò che il buio aumentasse a vista d’occhio, che a ogni istante il nero si arricchisse di una sfumatura più tetra, come se un pittore invisibile aggiungesse pennellate di tempera corvina sul medesimo tratto di tela. All’improvviso il vento lieve, lo zefiro dell’arrivo, divenne una folata gelida e arrogante, quasi una frustata. Non poteva negare di avere paura. E la paura divenne sempre più palpabile, quando udì il brontolio di un tuono in lontananza. Oh, no, pensò. Ti prego, non piovere! Ma, non appena ebbe formulato quella muta preghiera, la natura la castigò. Le prime gocce iniziarono a colpirle il capo. Nonostante il fitto strato di fronde che formava un gigantesco ombrello, la pioggia riusciva a scavare un passaggio, piegando le foglie. Odyssea sentì il sapore dell’acqua in bocca, trasportata dai capelli ormai zuppi. Non era come sentire il temporale chiusa nella propria camera. Non era come lasciarsi ammaliare dai tuoni lontani, immaginando gli angeli che spostavano mobili nelle stanze del cielo. Non era come qualsiasi altra cosa già vissuta. Provava un freddo insopportabile, come se fosse immersa sotto la crosta di un fiume gelato. Cominciò a battere i denti, e cercò riparo sotto un albero più grosso degli altri, ma non servì a nulla. Si sentiva debole, e dovette appoggiare la schiena al tronco per sorreggersi. Si portò una mano alla fronte, credendo di percepirla febbricitante, ma il suo palmo sfiorò una superficie che sembrava fatta di neve e non di carne. Cosa mi sta succedendo? si chiese. La Giada dovrebbe togliermi qualche energia ma non… In quel momento udì un rumore fin troppo simile al rimbombare di passi pesanti sulle sterpaglie. E poi una voce. Cupa, strozzata, rauca. Era lui. Da qualche parte, lì intorno, Squartavene avanzava come un carro armato senza pietà. Le arrivò distintamente un frastuono di animali che fuggivano, poi all’improvviso, proprio dinanzi a lei, due alberi finirono scaraventati in aria come stecchini, volando a destra e sinistra e lasciando un enorme vuoto. E infine lui comparve. Odyssea scorse una figura alta e imponente, vivida come se fosse dipinta d’inchiostro. Vide il mantello che fluttuava e gli occhi cavi che affioravano dal bavero alzato. Rimase con la schiena appoggiata all’albero, sentì fra le scapole il pizzico ruvido della corteccia. Si ripeteva mentalmente che poteva farcela, che doveva solo concentrarsi, che doveva solo attendere che l’energia le rifluisse dentro. Ma aveva la sensazione che non le scorresse dentro nemmeno il sangue. Era completamente paralizzata. Squartavene si mosse, rapido, inesorabile, come se ogni indugio fosse una perdita di tempo prezioso. Si fermò a pochi metri da lei e allungò uno dei suoi artigli guantati. Odyssea vide come in una scena al rallentatore la mano che si avvicinava, ma il dolore che sentì al petto subito dopo non fu minimamente rallentato. La colse come un fulmine scagliato in mezzo alle costole. Le mozzò il respiro, le fece sentire in bocca il sapore della cioccolata e del sangue. Stramazzata al suolo, circondata da milioni di schizzi di fango che rimbalzavano, da milioni di gocce appuntite come aghi, cercò di sollevarsi, ma era priva di forze e si allontanò dall’albero quasi strisciando. La pioggia era ancora più impetuosa e, senza la protezione della quercia, le impediva di tenere gli occhi aperti. E la forza non veniva, non veniva, non veniva. I passi di Squartavene avanzarono ancora e la sua risata risuonò soddisfatta e bestiale. Odyssea sentì le mani che affondavano nella melma, fino ai gomiti. Ebbe la certezza che fosse finita, che presto sarebbe morta. Non riusciva a capire perché, perché i suoi poteri non la soccorressero. Pensò che se suo padre le avesse scattato una fotografia con la macchina speciale che immortalava le persone con l’aspetto che avrebbero avuto il giorno della loro morte, lei avrebbe posseduto proprio quel viso, quei capelli zuppi e quella stessa giacca con la farfalla sulla schiena. Sua madre aveva ragione. Non avrebbe dovuto sottoporsi alla prova. Ma perché, perché, perché tutto stava precipitando a quel modo? «Falla finita, sbrigati, falla finita!» gridò, col poco fiato che le restava. E Squartavene non se lo fece ripetere due volte. La raggiunse sollevando getti di fango verdastro. Odyssea abbassò le palpebre, non voleva più vedere quelle orbite vuote, voleva morire con altre immagini negli occhi. Rimase così, in apnea, strizzando i pugni bagnati, stringendo i denti fino a farsi dolere le mascelle, assordata dal temporale che incalzava. Ma, inaspettatamente, non accadde nulla. Solo tuoni, ancora tuoni, e vento, e il cigolio dei rami, e il suo cuore che rimbombava. Allora, esasperata da quel sadico indugio, aprì gli occhi, lentamente. Dovette attendere qualche istante prima che le immagini si schiarissero dietro il muro d’acqua. Lui era ancora lì, ma il ghigno compiaciuto era scomparso dalla sua faccia, sostituito da un’espressione rabbiosa. Benché i suoi occhi fossero privi di pupille, era come se nei suoi bulbi oculari brillassero due globi di fuoco. Contemporaneamente Odyssea udì qualcos’altro, in sottofondo, come il ticchettio allegro delle dita su un tavolo quando si tenta di intonare una musica. Come un rumore leggero di pioggia, gustata sotto un tetto di tegole calde. Come gli zoccoli di un cavallo che galoppa su una distesa di foglie e di stecchi. Se non fosse stata così confusa avrebbe giurato di aver sentito anche il nitrito di Levante. La voce di Jacko alle sue spalle giunse poco dopo. «Salta su! Sbrigati! E togliti quella maledetta collana!» Le ci vollero alcuni secondi per realizzare che non l’aveva solo immaginato. Avvenne tutto in un attimo. Levante rallentò e Jacko si sporse verso di lei. Odyssea si aggrappò al suo braccio e in un balzo si ritrovò dietro la schiena bagnata di Jacko. «Togliti la collana!» le gridò lui. Odyssea abbassò la cerniera e scostò la maglietta cercando di sfilarsela. Ciò che vide la atterrì. La Giada era fusa con la sua carne! Non era più verde e non era più una bella pietra luccicante. Era un ammasso lattiginoso penetratole nel petto. La catena d’oro terminava dentro il suo corpo. «Non posso!» urlò disperata. «Strappala!» ripeté Jacko, mentre Levante correva, inseguito dal mostro che faceva tremare la terra. Odyssea tentò ancora, ma riuscì solo a tendere la pelle al di sotto della gola. In quel momento Jacko le porse qualcosa. Un coltellino a scatto, abbastanza piccolo da scomparire in un palmo, ma appuntito e tagliente come un bisturi. «Strappala!» ripeté per la quarta volta. «In fretta!» Odyssea fece scattare la lama affilata e la osservò attraverso la pioggia. Inspirò e strinse i denti. Quando il coltello tagliò la pelle avrebbe tanto voluto gridare. Con la punta si scavò il petto per estrarre la Giada che invece sembrava animata, sgusciava come se volesse sfuggire all’incisione. Ma Odyssea fu svelta. Affondando le dita nella propria carne agguantò quella noce mortale. La afferrò nel pugno e la scagliò lontano, verso il bosco. Poi si sfilò anche la catenina e la scaraventò contro un albero. Chiuse il coltellino, come se avesse appena realizzato una graziosa scultura in legno. Con la differenza che questa scultura continuava a colare fontane di sangue. Ma nonostante la copiosa perdita, nonostante la stanchezza e la paura, sentì che qualcosa stava migliorando. Il freddo lentamente svaniva, la testa smetteva di girare e l’energia affluiva. Il ronzio nelle orecchie. La vita ritornava a difenderla. Squartavene, però, era ancora dietro di loro; la distruzione disseminata in quel bosco innocente, gli alberi sradicati, gli arbusti sbriciolati, erano chiari segni della sua furia. All’improvviso li sorpassò. Levante dovette deviare per non finirgli contro. Poi arrestò di colpo la sua corsa. Il petto di Odyssea batté violentemente contro la schiena di Jacko e lei percepì un dolore straziante. La voce del mostro tuonò: «Jacko O’Donnell, non ti è bastata una volta? O vuoi che ricominci da questo stupido animale?» Squartavene non attese e scagliò un’onda di energia verso la testa di Levante. Se lo avesse colpito sarebbe morto. Levante non aveva poteri, era solo un cavallo coraggioso, ma il coraggio non gli sarebbe bastato a sopravvivere. Odyssea e Jacko, senza essersi accordati, senza nemmeno essersi guardati, gridarono all’unisono: «Nooo!» e quel grido appassionato, che veniva dall’anima di entrambi, fu come uno scudo. Il colpo scagliato dal mostro si disperse nell’aria come polvere. Squartavene emise un urlo prolungato, disumano. Poi spiccò un balzo, al di sopra delle cime degli alberi, e sparì verso il cielo. Entrambi rimasero attenti per alcuni istanti, guardandosi intorno con diffidenza. Quando furono certi che il nemico era andato via, Odyssea abbassò gli occhi sulla propria ferita. «Come stai?» le chiese Jacko mentre Levante si muoveva al trotto. «Io… ho solo… una piccola ferita», mormorò fissando quella voragine rossa che non smetteva di sanguinare. «Ja… Jacko… come puoi essere qui? Dovevi… andare a Olodern… Come hai fatto a tornare?» Jacko non le rispose. Spronò Levante al galoppo e il suo fedele cavallo volò. A mano a mano che uscivano dalla Foresta la pioggia diminuiva d’intensità. Quando superarono gli ultimi strati di fitta boscaglia, Odyssea riuscì a intravedere le stelle. Solo allora Levante si fermò. Jacko saltò giù e si appoggiò alla sella, con gli occhi puntati su Odyssea. Stava per dirle qualcosa quando vide il sangue sulla maglietta. «Ody… tu… ti stai dissanguando!» esclamò terrorizzato. Rimontò subito, chiedendo a Levante un ultimo sforzo. Odyssea si adagiò contro la schiena di Jacko stringendolo. Ora non le importava più di morire. Mentre lo abbracciava sfiorandogli le spalle con una guancia, mentre sentiva la folle corsa di Levante sotto di sé, mentre percepiva che i sensi lentamente l’abbandonavano, pensò che non sarebbe mai più stata così felice. PER AMORE DI BRETA Aprì gli occhi all’improvviso, come se il suo cervello le avesse trasmesso un segnale. Riconobbe le cortine bianche intorno al letto e la pendola nella quale brillava un tiepido sole ma, quando si sollevò, un dolore pulsante fra le costole le ricordò l’attacco subito. Sbottonò la camicia da notte e vide una larga benda quadrata che le copriva gran parte della gola e dell’addome. Sfiorò quella superficie porosa e una fitta pungente si propagò in tutto il petto. Scostò le lenzuola e posò i piedi a terra. In quel momento la porta della camera si aprì e sua madre la raggiunse in fretta e furia. I cerchi intorno agli occhi non erano mai stati tanto evidenti, ma sorrideva. «Odyssea…» «Dov’è Jacko?» chiese lei di getto, senza darle il tempo di dire altro. Grace si sedette sul letto e le prese una mano. «È un ragazzo straordinario, sai?» mormorò. «Ieri sera è venuto da te e ti ha riportata a casa. Eri ferita… ma viva.» «Vi ha raccontato cos’è successo?» «Ha detto che la Verifica era una trappola, che la Giada ti aveva privato di ogni potere. Tua nonna ha subito convocato il Consiglio al Palazzo, ed è ancora lì, per capire come può essere accaduto.» Odyssea sospirò, in preda a un’ansia improvvisa. Non avrebbe dovuto sentirsi così fuori posto, così assurdamente avvilita, così infelice. E invece c’era qualcosa, qualcosa di confuso che le pungolava il cuore, un forcone arroventato piantato dentro, oltre la ferita. «Mamma, mi aiuti a vestirmi?» «Dove pensi di andare?» «Ti chiedo scusa, avrei dovuto darti ascolto. Ma ora devo andare da Jacko, c’è una cosa che devo chiedergli. Credimi, è importante.» Parlò con un tono talmente risoluto che Grace rimase a bocca aperta. «Se non fosse stato per lui, probabilmente sarei morta. Ti prego. Ho bisogno di parlargli.» «Gli vuoi molto bene, vero?» domandò sua madre con voce dolce. Odyssea annuì senza vergogna. Non aveva senso nasconderle il sentimento che provava. Ma non era quello il momento delle confidenze. Aveva un tarlo che le rodeva dentro e doveva assolutamente vedere Jacko. Grace non protestò e l’aiutò a prepararsi. «Cosa mi hanno fatto?» mormorò Odyssea, indicando la benda. «Avevi una brutta ferita…» «Mi rimarrà una cicatrice?» Il silenzio di sua madre disse tutto. Odyssea si guardò allo specchio. Il suo aspetto, già particolare e tutt’altro che bello, non sarebbe certo migliorato. Uno squarcio sotto il collo non era il modo ideale per diventare più carine. Deglutì, e un dolore vivo s’irradiò fino alle spalle. Nello scendere le scale, non le sembrò vero di essere lì, tra quelle mura amate e sicure, quando solo qualche ora prima era quasi morta, immersa nel buio d’una foresta sferzata dalla pioggia. In quel mentre Joyce uscì dalla cucina. La coprì di baci e la prese per mano con fare protettivo, come se fosse una bambina reduce dal tentativo malriuscito di gattonare. «Tesoro! Sapessi quanto abbiamo penato! Se non fosse stato per quel carissimo ragazzo! L’ho sempre detto che Jacko O’Donnell era un pezzo di pane, che importa della sua famiglia! Lui è stato un vero signore, e come ti ha portata in braccio nella tua stanza, come se conoscesse la strada!» Joyce, paonazza, decantò ininterrottamente la gentilezza di Jacko e la propria saggezza, che le aveva fatto intuire le meravigliose qualità di quel povero ragazzo tanto disprezzato. In un altro momento Odyssea avrebbe ascoltato quelle parole col cuore divertito, ma l’irrequietezza la tormentava. Voleva andare da lui al più presto. Sua madre volle accompagnarla a tutti i costi fino alla scuderia e non ci fu verso di farla ragionare. «Non resterò lì con te», la tranquillizzò. «Mi rendo conto…» «Mamma, ti ho detto solo che a me piace Jacko, ma io non credo proprio di piacere a lui! E in ogni caso sto andando a trovarlo per un motivo che non c’entra niente con tutto questo. Non posso darti altre spiegazioni.» Grace reagì con un buffetto sulla guancia, mormorando: «Sì, naturalmente…» e si allontanò. Odyssea raggiunse la casa di Jacko solo quando sua madre ebbe svoltato l’angolo. Bussò con discrezione ma non senza energia. Era impaziente, le tremavano le gambe, e finché non gli avesse parlato, finché lui non avesse fugato le sue paure, avrebbe sentito quel senso di prossima burrasca che l’attanagliava da quando aveva aperto gli occhi. Dopo alcuni minuti di assoluto silenzio, Jacko comparve dietro la porta. Comparve uno spicchio di lui, in realtà, un angolo del suo viso, e Odyssea capì immediatamente che qualcosa non andava. «Jacko…» sussurrò. «Posso entrare?» Lui si limitò a indietreggiare per farla passare. La casa era avvolta nel buio e non appena Odyssea si rese conto del perché, non appena vide il fuoco spento, si sentì assalire dal panico. Era del tutto insolito entrare in quella stanza e non essere colpiti dal riverbero della fiamma nel camino. Era la prima volta in tre mesi. Jacko era lì accanto. Odyssea avvertì il movimento insistente delle sue mani tra i capelli. «Jacko… che succede?» Senza risponderle lui le domandò con voce lenta: «Come stai?» «Bene… benissimo… tu come stai…» Jacko si avvicinò a una finestra e socchiuse l’imposta, lasciando entrare la mite luce pomeridiana. Odyssea lo osservò meglio. Sembrava non avesse dormito. Aveva gli occhi cerchiati e il viso cereo. «Come facevi a sapere che la Giada mi avrebbe ucciso?» gli chiese. Jacko sollevò la testa, e Odyssea ebbe la sensazione che non avesse voglia di parlare. Tuttavia, dopo qualche attimo mormorò: «Non lo sapevo, l’ho intuito. È stato dopo aver visto quelle piccole cicatrici che avevi dietro il collo. Erano i tipici segni lasciati dalla puntura di un Insetto-incubo». Odyssea lo guardò esitante, ma avida di spiegazioni. Jacko continuò: «Gli Insetti-incubo iniettano veleno nel sangue della loro vittima, spiano le sue paure nascoste e le rielaborano in modo da creare sogni o visioni spaventose. Hai fatto qualche incubo negli ultimi tempi?» Lei annuì e gli raccontò ogni cosa. Jacko la ascoltò, sebbene a tratti sembrasse distratto, e al termine disse: «Ciò che hai creduto di vedere non era la verità, ma solo una verità artificiale, un’allucinazione. L’insetto ha letto nella tua mente ciò di cui avevi più paura. Prima di avere quelle visioni hai avuto l’impressione di essere punta, o qualcosa del genere?» Odyssea annuì ancora. Ripensò alla prima volta e rammentò di essersi appisolata in veranda, lasciandosi cullare dal pigro ronzio degli insetti. Ripensò alla seconda volta e rammentò di aver attraversato il giardino, uscendo dalla casa di Jacko dopo aver trascorso un po’ di tempo con Breta, con la sensazione di essere circondata da uno sciame di insetti. Ripensò alla terza volta, nel suo letto durante il temporale, e rammentò di essersi svegliata con la certezza che qualcosa le camminasse sul viso, tanto che aveva pensato a Fagola. Si portò istintivamente una mano dietro il collo e percepì sotto i polpastrelli i rilievi delle punture cicatrizzate. «Gli Insetti-incubo in genere si servono dell’aiuto dei Folletti del Nord, che compaiono nei sogni e nelle visioni, e aumentano il tormento della loro vittima. Sono creature tremende, si dice che si nutrano della paura delle persone e che siano praticamente immortali. Pare che solo una bella risata che viene dal cuore possa neutralizzarli.» Odyssea continuò a osservare il volto stanco di Jacko. Il ragazzo seguitava a parlare, ma pareva lontanissimo, come se la sua voce giungesse da sottoterra. «Ma la cosa che mi ha allarmato di più è che gli Insetti-incubo non arrivano mai da soli, non scelgono le loro vittime a caso. Vengono portati… e quando colpiscono non è mai senza ragione. Quando ho visto che avevi tre cicatrici ho pensato che qualcuno volesse spaventarti a morte. Una volta già basta a indurre la gente a fare le cose più strane e terribili. Capire che la Verifica doveva essere una trappola è stato quasi automatico. Ne ho dedotto che, se Squartavene aveva fatto ciò, sapeva che durante la Verifica avrebbe potuto ucciderti. Perché altrimenti darsi tanta pena? Quel mostro ti aveva già aggredita due volte da quando sei tornata a Wizzieville. Perché non si era spinto oltre? Perché era sempre fuggito via? Perché tramare per condurti a quella maledetta prova? Credo che Squartavene non fosse assolutamente in condizione di farti nulla finché tu avessi avuto i tuoi poteri.» «Vuoi dire… vuoi dire che Squartavene non ha più i suoi poteri?» balbettò Odyssea. «Non ho detto questo. Secondo me, dodici anni fa lo hai notevolmente indebolito. Poi qualcuno lo ha liberato e lui è tornato. Ma non è più come prima. È forte, ma non invincibile. Può spaventarti ma non ucciderti, finché sarai abbastanza furba da tenerti stretta i tuoi poteri. Credo che il suo erede lo stia aiutando in qualche modo. Ti ha teso una trappola, sapeva che tutti quegli incubi, quei dubbi su tuo padre, la tensione continua, ti avrebbero indotta ad accettare la Verifica, nella speranza di capire. E così è stato. Priva dei tuoi poteri saresti stata una preda facile.» «Ma il Consiglio aveva detto che la Giada Catturante non era pericolosa! Avevano detto che mi avrebbe indebolito solo un po’… e invece…» «Il Consiglio ha mentito. O probabilmente un membro del Consiglio ha mentito. E magari ha condizionato gli altri. Questo non lo so.» «Ma perché? Perché Squartavene mi odia così tanto?» Jacko scosse la testa, fissando il pavimento. Odyssea non lo aveva mai visto così, l’amarezza che traspariva dai suoi occhi era insopportabile. «Jacko… Tu… come hai fatto a essere lì se… non dovevi andare a Olodern? Come hai fatto a tornare così presto? Do… dov’è Breta?» Era quella la domanda per cui si era spinta fin lì nonostante si sentisse ancora spossata. Era quello il quesito che la riempiva di atroci profezie. Jacko la prese per mano. Nel percepire il palmo tiepido di lui, nel lasciarsi condurre verso il corridoio che collegava l’ingresso al resto della casa, nell’avanzare con passi che sembravano inesorabili in direzione della camera di Breta, capì che Jacko in quel momento era vivo solo in parte. Appariva terribilmente stanco e solo, del tutto privo di energia. Quando aprì la porta, Odyssea vide una figura stesa sul letto. Per un attimo l’assalì l’angosciosa certezza che Breta fosse morta. Le si avvicinò col cuore fisso in un flebile toc d’attesa. Le prese una mano, e un sospiro di gioia nacque immediato tra le sue labbra quando lei aprì gli occhi e sorrise, un sorriso talmente pieno di benevolenza che Odyssea provò un affetto smisurato per quella giovane donna ormai prossima a un viaggio senza ritorno. «Sei salva…» mormorò Breta. «Ora sono contenta…» Odyssea alzò lo sguardo verso Jacko, che stava in piedi accanto alla porta. Lui le fece segno di avvicinarsi e insieme uscirono dalla stanza, sostando nel corridoio. «Sta molto male», sussurrò Jacko. «Non credo che vivrà più di qualche giorno.» «Non… non sei andato alla Sorgente… non sei andato per… per venire da me?» «È stata lei a insistere. Quando ha capito cosa stava succedendo mi ha fatto giurare, mi ha supplicato, ha detto che non aveva più senso per lei vivere così, prigioniera… Ha detto che si sente come morta da anni, e se non fossi venuto nella Foresta per avvisarti del pericolo si sarebbe rifiutata di bere l’acqua e sarebbe morta comunque. Ha buttato a terra l’ultimo bicchiere rimasto, e si è rifugiata in camera sua rifiutandosi di mangiare. Non l’ho mai vista tanto determinata.» Odyssea si accostò con le spalle al muro e strinse forte entrambi i pugni. «Dobbiamo… dobbiamo fare qualcosa», mormorò. «Se vai ora… quell’acqua… può ancora servire? Resterò io con lei, anche stanotte se sarà necessario.» Jacko scosse la testa lentamente. «Se anche volassi e se tornassi con l’intera Sorgente nel mio pugno non ci sarebbe più niente da fare. Prima l’acqua durava di più, e lei era più forte. Ma negli ultimi tempi s’intorbida così in fretta, e lei non riesce ad aspettare. Non ha bevuto per quasi ventiquattr’ore, e questo già basta a…» «Non posso crederci!» lo interruppe Odyssea. «Che non ci sia un altro rimedio, qualcosa per farla stare meglio, non posso crederlo!» «Devi, invece!» La voce di Jacko si fece più aspra. «Pensi che se conoscessi un’alternativa non cercherei di salvare mia sorella?» «No, io non intendevo dire questo…» disse Odyssea mortificata. Lo fissò, e trattenne la tentazione di abbracciarlo. Si avviò verso l’ingresso. Jacko rimase con la schiena incollata alla parete, osservandola mentre andava via. «Odyssea… dove… dove vai?» Gli rispose solo il rumore della porta che ruotava sui cardini e il tonfo cupo dell’uscio che sbatteva. Allora si lasciò cadere sul pavimento, con la fronte sulle ginocchia e i denti sulle labbra. *** Odyssea corse sul viale ghiaioso col cuore in gola. Appena dentro casa chiamò Joyce a gran voce e quando la raggiunse in cucina le ci vollero alcuni minuti perché il suo respiro cessasse di impazzire. «Joyce… io… ho bisogno del tuo aiuto… solo tu puoi rispondermi… no… non preoccuparti… sto bene… tu… ti prego di pensarci… hai mai sentito parlare della Sorgente di Olodern?» chiese a fatica. Joyce, che aveva molti pregi, non ultimo quello di stupirsi assai raramente delle domande che le venivano rivolte, assunse un’espressione pensosa. «Ma certo! Le acque di Olodern hanno straordinarie proprietà curative» disse, girando intorno al tavolo per inseguire un tubero bernoccoluto che sfuggiva dinanzi al suo schiacciapatate d’argento. «So che sei una strega eccezionale… la migliore… solo tu conosci tutte le pozioni e tutti i farmaci magici, vero?» La voce di Odyssea s’era fatta implorante. Joyce arrossì e scosse una mano davanti al viso in un gesto di modestia, come per scacciare da sé una simile presunzione, però poi aggiunse: «Non per vantarmi, ma credo di saperla piuttosto lunga in proposito. Quando il caro Malnato Polleus contrasse quella rara malattia che lo faceva rimpicciolire di un centimetro al giorno, era diventato poco più alto di un barile di aringhe… Sua moglie gli aveva già fatto stringere gli abiti, ma io lo riportai alla sua statura originaria in poche ore. Fu un vero successo». Odyssea la incalzò: «Esiste una pozione, qualcosa che possa curare chi è stato… per esempio… dissanguato? Qualcosa di più forte dell’acqua di Olodern?» Le porse la domanda con cautela, ma Joyce era così candida che neppure quel quesito la stupì. «Oh… io… così su due piedi… forse dovrei consultare il mio libro…» Pronunciò la parola Appares e sul tavolo si materializzò l’enorme volume di qualche giorno prima. Joyce si accostò al pesante tomo con aria assorta. Sfiorandole appena, le pagine presero a scorrere rapidamente, come carte da gioco nelle mani di un prestigiatore. Un intenso bagliore dorato scaturì dai fogli, e infine il libro rimase aperto in un punto preciso. «Ecco qui», disse Joyce. «Vediamo un po’… Rimedi contro il cimurro, rimedi contro il colpo di calore, rimedi contro la cute cascante… ecco ho trovato… rimedi contro il dissanguamento. Oh… che peccato!» «Cosa c’è scritto?» «Viene citata una pozione, molto antica e un po’ instabile. Numerosi ingredienti sono comuni ma il catalizzatore, la polvere di cuore di drago, non penso proprio che sia possibile ottenerla. Il drago è stato dichiarato specie protetta, sai, ne sono rimasti talmente pochi… lo si può uccidere solo per legittima difesa.» Odyssea si accasciò su una seggiola. Non era possibile. Esisteva una pozione forse in grado di salvare Breta, ma l’ingrediente principale era introvabile. Sentì che le forze l’abbandonavano. «Certo», continuò Joyce, «si potrebbe trovare un surrogato… Se avessimo per esempio dei petali di papavero semplice si potrebbe tentare di sostituirla, naturalmente insieme a del tarassaco selvatico e dell’erba medica. Ma queste piante qui da noi non esistono.» «Che dici? Il papavero? Con tutte quelle assurde piante che ci sono lì fuori, non avete neanche un banalissimo papavero?» Joyce parve mortificata. «No, purtroppo. I papaveri erano l’alimento principale delle Locuste di campo, così, per impedire che quei pericolosi animaletti si riproducessero, sono stati eliminati da alcuni secoli ormai, e loro sono sparite. E il tarassaco… delicata piantina… la scarsità di vento le ha impedito di attecchire. E per quanto riguarda l’erba medica… quella ci sarebbe, ma in quantità ridotte, e credo che la maggior parte delle scorte sia stata usata per il povero Pericle.» Odyssea venne colta da un pensiero improvviso. Sul libro di Joyce, riccamente miniato con inchiostro che sembrava d’oro, comparivano le immagini delle piantine di cui le aveva parlato. Il papavero, l’erba medica, il tarassaco. Pensò alle distese immense color arancio acido e viola acceso che aveva visto passando con la macchina da qualche parte fuori di lì. Pensò alle corolle che le piaceva soffiare e spargere ovunque quando era più piccola, immaginando che si trattasse di fantasmi con la barbetta a punta. «Joyce… gli altri ingredienti della pozione… li hai tutti? Quanto tempo ci vuole per prepararla?» «È una pozione molto difficile… direi dodici ore…» valutò pensosa, «però gli ingredienti base devono essere aggiunti allo scoccare della dodicesima ora altrimenti la pozione non funziona, anzi potrebbe essere molto pericolosa. E il papavero deve essere fresco, se appassisce non se ne può fare nulla.» «Allora, mia carissima, mia meravigliosa amica, vuoi, ti prego, cominciare a prepararla per me?» La voce di Odyssea possedeva un tono insieme dolce e autoritario. Abbracciò Joyce e le schioccò un bacio su una guancia. L’anziana signorina ricambiò il suo abbraccio e mise a sua disposizione la propria perizia. Continuò a non domandare a chi potesse servire una pozione così complicata e ribadì qualcosa a proposito dell’importanza di inserire il catalizzatore entro le dodici ore. Odyssea salì di corsa nella sua stanza e prese lo zaino e un maglione pesante. Poi scrisse una breve lettera per sua madre. Solo poche righe, solo un rapido messaggio, nel quale la rassicurava che stava bene e le diceva che non aveva potuto evitare di disobbedirle di nuovo. Concluse scrivendo: Devo scegliere se rischiare di darti un altro dolore o cercare di compiere una buona azione. Ti prego, cerca di capirmi, fidati di me e non chiedermi niente. Poi corse in giardino, sperando di non incontrare nessuno. L’aria era densa di profumi quasi notturni e s’intravedeva l’alone tondo della luna. Quando giunse nei pressi della scuderia, notò una luce che proveniva dai box e capì che Jacko era lì. Era appoggiato alla porticina che delimitava il ricovero di Levante e accarezzava il muso dell’animale. Nel sentirla entrare si voltò. La guardò con un’espressione complessa e impenetrabile, nella quale tuttavia Odyssea riuscì a cogliere una traccia di risentimento. «Sei tornata», le disse freddamente. Odyssea gli si accostò e, quando fu abbastanza vicina, gli posò una mano sul braccio. «Vuoi ascoltarmi un attimo? Devo dirti una cosa importante.» Parlò con voce sicura. Gli riferì ogni cosa, ogni dettaglio del suo accordo con Joyce, ogni particolare della pozione che stava preparando, e lo mise a parte del suo piano. Jacko rimase ad ascoltarla in silenzio, e Odyssea percepì gli occhi di lui che seguivano il movimento delle proprie labbra, e quell’attenzione la colmò di calore. Quando ebbe terminato, aggiunse: «Nel mondo fuori di qui quelle piante sono comunissime… io… penso che potrei trovarle… non deve essere difficile… e comunque è l’unica possibilità». Jacko aggrottò la fronte e si sfregò le tempie. Si morse le labbra mentre pensava, poi disse: «Vado da Breta e riaccendo il fuoco. Tu non ti muovere». Sparì nella penombra e Odyssea rimase con Levante che la scrutava dall’alto coi suoi occhi dolci. Dopo una decina di minuti Jacko fu di ritorno. Indossava una giacca di cuoio sulla camicia bianca. «Credevi che ti avrei fatto andare da sola?» le chiese notando il suo stupore, mentre sellava Levante. «Con la tua tendenza a metterti nei guai chissà cosa potresti combinare, e non possiamo permettercelo.» Odyssea rimase a osservarlo mentre allacciava il sottopancia dell’animale, e sentì il tumulto ormai familiare che le faceva capire quanto lo amava. Era certa che Jacko non avrebbe mai potuto provare la stessa cosa per lei, nemmeno se avessero avuto a disposizione altre mille vite. In quel momento si sentì egoista, perché sapeva che stava facendo tutto principalmente per lui, e non per Breta. Sapeva che, se Breta fosse morta, e soprattutto se fosse morta in quelle circostanze, Jacko non avrebbe più avuto nemmeno un piccolo spazio per lei. Essere viva al posto di Breta sarebbe stata una colpa troppo grande. Glielo aveva detto chiaramente: era stata Breta a ricattarlo, a pregarlo affinché andasse a salvarla. Lui non l’avrebbe mai deciso da solo. Quando ebbe finito di sellare Levante, Jacko si voltò verso di lei. Odyssea era ferma in mezzo alla scuderia, con le dita intrecciate alle bretelle dello zaino. Aveva i capelli sciolti e una lunga ciocca le ricadeva su un occhio. Oltre il colletto della camicia abbottonata s’intravedeva un lembo di benda bianca. Era pensierosa, e infinitamente triste. «Vieni qui», le sussurrò Jacko. «So salire da sola in sella, non c’è bisogno che mi aiuti.» «Vuoi avvicinarti un attimo?» ripeté con tono impaziente. Lei avanzò e quando fu a pochi centimetri da lui, le sue braccia la avvolsero. Una stretta quasi fraterna, né appassionata né romantica, solo un abbraccio di riconoscenza, nell’unico modo in cui lui avrebbe saputo dire grazie. «L’ho sempre sospettato», tuonò all’improvviso una voce alle loro spalle. *** Jacko e Odyssea si voltarono di colpo. Sulla soglia della scuderia Lindia e Jordy li fissavano stupefatti. Dietro di loro s’intravedeva la figura massiccia di Stylo. Lindia era chiaramente indispettita, aveva la bocca stretta come una cerniera, e gli zigomi paonazzi. Jordy appariva sconcertato. «Eravamo venuti per sapere come stavi», iniziò Lindia, «e Joyce ci ha detto che stavi passeggiando in giardino. Poi abbiamo visto la luce e…» fissava Odyssea e poi Jacko, con occhi inquisitori. «Io lo sapevo, è da quando è arrivata lei che sei cambiato! E tu… credevo che… che fossimo amiche!» «Lindia, non dire stupidaggini», esclamò Jacko, ma il suo sguardo era concentrato su Jordy Angel. «E tu vai fuori di qui», disse abbassando la voce e rendendola simile a un mormorio ringhioso. «Ragazzi… Lindia… cosa… cosa credi…» balbettò Odyssea. «Ti assicuro che ti sbagli, qualsiasi cosa tu stia pensando. E noi siamo amiche!» Le si avvicinò con fare gentile toccandole il braccio, ma Lindia la spinse via. Tuttavia, non ebbe il tempo di curarsene poiché Jacko si avvicinava pericolosamente a Jordy e l’espressione provocatoria di quest’ultimo non lasciava presagire nulla di buono. «Jacko!» gridò Odyssea. «Lascia perdere!» Ma Jacko sembrava così pieno di collera che provò un brivido di paura. I due si fronteggiavano come nemici giurati. Si mosse svelta e li separò. Quindi si rivolse a Jacko con tono deciso: «Ti prego, ricordi cosa dobbiamo fare?» Questa frase suscitò l’interesse di Lindia che, per nulla allarmata dalla possibilità di una contesa, aveva gli occhi arsi dalla gelosia. «Cosa dovete fare?» chiese con tono agitato. Stylo era indietreggiato, uscendo dalla scuderia e nascondendosi nella penombra della sera. «Smettetela tutti quanti!» gridò ancora Odyssea, mettendosi davanti a Jordy e volgendogli la schiena. «Lindia, non c’è proprio niente per cui tu debba preoccuparti, come te lo devo dire? Non sai riconoscere un gesto di semplice amicizia? Jacko, svegliati, abbiamo qualcosa a cui pensare. No, Lindia, non fare quella faccia, niente di romantico ti assicuro. Jordy, ti prego, possiamo vederci in un altro momento?» «Io non mi muovo di qui», s’impuntò Lindia, «finché non mi dite cosa succede!» Stylo, da dietro l’angolo, mormorava qualcosa all’indirizzo di sua sorella, probabilmente un invito ad andare via. «Non sarai tu, Jacko O’Donnell, a dirmi quando devo andarmene. Questa non è nemmeno casa tua», disse Jordy, continuando a osservare Jacko con aria di sfida. «Questo è anche per merito di tuo padre», ribatté Jacko sprezzante. «Mio padre ha fatto solo il suo dovere.» «Lo vedremo. Preparati, Jordy Angel, verranno giorni bui per la tua famiglia, molto presto, molto prima di quanto immagini.» Jordy aggrottò la fronte e balbettò: «Cosa… cosa stai dicendo?» Odyssea sentiva che il tempo impiegato in quella schermaglia era tutto tempo rubato alla vita di Breta. Mentre Jacko e Jordy continuavano a fronteggiarsi, si avvicinò a Levante e, con un’agilità di cui non si credeva capace, salì in sella. Il cavallo emise un lievissimo nitrito e si avviò al passo verso l’uscita. Quest’altra novità amplificò la gelosia di Lindia, ma servì a distogliere Jacko. «Non so dove state andando, ma noi veniamo con voi!» esclamò Lindia trascinando dentro Stylo da un braccio al centro della scuderia. «Sono d’accordo con te», si associò Jordy. «E se non ci portate con voi, mando Stylo a chiamare qualcuno. A meno che non vogliate impedircelo con la forza…» aggiunse Lindia. «Così sapremo tutti cosa state nascondendo.» Odyssea e Jacko si guardarono. Fuori, il buio aveva annullato ogni traccia del giorno. Avevano solo dodici ore e le stavano sprecando inutilmente. Era la loro ultima possibilità di aiutare Breta. Jacko ritornò in sé e prese coscienza della gravità del suo errore. Il pensiero di sua sorella in fin di vita gli fece riacquistare il buon senso. «È solo una tregua, Jordy Angel», mormorò. «E ora, Lindia, da brava, torna a casa.» «Neanche per sogno!» strillò Lindia. La sua voce era diventata furiosa. Jordy le rimase vicino, spavaldo. Stylo batté entrambi i piedi a terra. Un silenzio immobile tenne tutti col fiato sospeso. Un quarto d’ora più tardi tre cavalli uscirono dalla scuderia e vennero avvolti dall’oscurità della notte nascente. Si avviarono lesti verso le porte di Wizzieville, pronti a tuffarsi tra le strade sconosciute del Mondo-altrove. [eBL 117] CONTRO IL TEMPO Non c’era stato verso. Per quanto Lindia avesse protestato e insistito per salire su Levante con Jacko, il cavallo non aveva voluto saperne. Per tre volte Lindia aveva posato una mano sulla sella e per tre volte Levante si era impennato nitrendo. Alla fine Jacko aveva perso la pazienza. Aveva sellato Libeccio e Bigio, stabilendo con tono assoluto che Lindia non provasse più ad avvicinarsi a Levante. Subito dopo si avviarono verso il Bosco di Confine, quello stesso intrico di alberi che Odyssea aveva oltrepassato in senso inverso tre mesi prima. I cavalli si muovevano con grande facilità, come se conoscessero i sentieri e i passaggi tra le radici intrecciate. Non appena arrivarono alla fitta muraglia di querce, Odyssea vide Jacko sfiorare un ramo sospeso, e dinanzi a loro si aprì un varco. Il Mondo-altrove li accolse con i suoi campi di pannocchie, molto più alte e rigogliose di quanto Odyssea ricordasse. Passandoci attraverso le sembrò di guadare un immenso oceano d’oro. Lei e Jacko guidavano su Levante, Jordy e Lindia su Libeccio li seguivano a pochi metri di distanza. Odyssea distinse il viso cupo di Lindia dietro la schiena di Jordy e vide Jordy sollevarsi sulla sella e stringere le redini con il volto tirato. Stylo, su Bigio, era più lontano, e chiudeva la fila. Odyssea si aggrappò a Jacko accontentandosi dell’odore della sua giacca e del solletico dei suoi capelli. Jacko spronò Levante a galoppare più forte. Poi, all’improvviso, si voltò e le chiese a bruciapelo: «Davvero avresti ceduto il posto a Lindia?» Odyssea lo guardò disorientata. Era vero, si era offerta di lasciare il suo posto all’amica per rabbonirla, ma lo aveva fatto a malincuore. «Sapevo che Levante si sarebbe opposto», gli disse, a bassa voce. «Lui si lascia cavalcare solo da te. E da me.» Jacko non disse altro e tornò a guardare davanti a sé. Forse non l’aveva sentita. Forse non era una domanda veramente importante per lui. Spesso le diceva cose che trasformavano in fiori la terra bruciata, ma poi le liquidava come se nulla fosse. Superata la radura, i confini della città si delinearono dinanzi ai loro occhi. Saint Albans si stagliava all’orizzonte coi suoi alti palazzi e sembrava un’oasi di luce in mezzo al deserto. A mano a mano che si avvicinavano, Odyssea riconobbe le schiere di case della periferia e le vie larghe che circondavano la città come un anello. Quando furono così vicini da udire il brusio di sottofondo, metallico e ininterrotto come il respiro di una grossa bestia meccanica, Levante rallentò l’andatura. Anche Libeccio e Bigio si misero al passo. Scelsero stradine secondarie e meno trafficate, alcune delle quali portavano a quartieri disabitati e decadenti. Infine scesero di sella. Non ci fu bisogno di trovare un ricovero: non appena i ragazzi furono a terra, i cavalli si allontanarono verso la radura. «Ommamma…» proruppe Stylo aggiustandosi la giacchetta. «Questo posto non mi piace.» «Che strano luogo…» mormorò Lindia. «Pazzesco», si limitò a dire Jordy. Camminarono a lungo e raggiunsero il centro di Saint Albans. Le facciate dei palazzi erano ricoperte da enormi cartelloni pubblicitari e le strade pullulavano di gente. Mentre percorrevano la via principale, tra sciami di persone frettolose, Odyssea cominciò a riflettere su dove poter trovare gli ingredienti per la pozione. Richiamare alla mente Wizzieville e l’idea stessa di una pozione, in quella caotica città senza grazia, le sembrò strano e anacronistico. A un tratto Jacko le domandò con voce impaziente: «Allora? Sei tu l’esperta qui». Intanto Lindia gli si era avvicinata e, timidamente, aveva accostato una mano al suo braccio. Il colorito tornò sul suo viso quando Jacko non la respinse. «Dobbiamo trovare un’erboristeria», mormorò Odyssea, sbirciandoli con un senso di fastidio. «Questo posto non mi piace», ripeté Stylo. «Perché corrono tutti così tanto? E tutta questa luce… non ci vedo…» «Tu hai vissuto qui?» le chiese Jordy osservandola. Odyssea colse nei suoi occhi una specie di ammirazione, come se l’essere sopravvissuta a un luogo tanto infernale fosse segno di poteri ancora più grandi. Camminarono ancora. Lindia e Jacko seguivano la fila, in perfetto silenzio. Jordy e Stylo affiancavano Odyssea. In particolare, Stylo le stava appiccicato come una ventosa, aggrappandosi al suo braccio ogniqualvolta qualche passante distratto lo urtava, o quando qualche personaggio pittoresco attirava la sua attenzione. Odyssea pensò a come tutto, al mondo, fosse relativo. Ciò che era strano per alcuni poteva essere perfettamente normale per altri. I suoi vestiti e quelli di Jacko, che molti degli abitanti di Wizzieville scrutavano con le sopracciglia sollevate e un’espressione di disgusto, si mimetizzavano benissimo in mezzo a quella città nera e concreta, mentre l’abito color glicine di Lindia, la giacchetta con le mostrine dorate di Stylo e il completo di lino turchese di Jordy suscitavano sguardi perplessi o incuriositi da parte della gente che incontravano. Finalmente, inoltrandosi in una stradina secondaria, Odyssea vide qualcosa che attirò la sua attenzione. In cima a un negozio c’era un’elegante insegna che recava la scritta: Prodotti fitoterapici per la bellezza e la salute. Ma la gioia repentina che le aveva rischiarato gli occhi, altrettanto repentinamente sparì. Il negozio era chiuso. Al di là della vetrina, sulla quale erano disegnati con un pennarello argentato ciuffi di piantine e ghirigori a forma di foglie, Odyssea vide che non c’era nessuno. L’unica illuminazione proveniva dal neon intorno all’insegna. Si voltò verso Jacko. «Non importa, entriamo lo stesso», disse lui. Si avvicinò all’ingresso e, dopo essersi guardato attorno con aria circospetta, sfiorò la maniglia. La porta si aprì con uno scatto vellutato. Appena dentro Odyssea trovò l’interruttore e all’improvviso una tenue luce azzurra si diffuse nella stanza, attraverso due lampadine fissate al soffitto all’interno di coppe di carta di riso. L’aria era satura di profumi, pizzicava le narici con odori fruttati e speziati. Le pareti erano ricoperte da scaffali pieni di barattoli panciuti e trasparenti, in cui erano contenute le sostanze più svariate. Polveri, rametti essiccati, granelli, sassolini, foglie, intere piantine immerse nell’acqua, e mille altre varietà di germogli e radici. «Cosa state cercando precisamente?» chiese Jordy fissando Jacko. «Questa si mangia?» domandò Stylo, indicando una carruba bitorzoluta. Odyssea, senza spiegare perché, fornì ai ragazzi l’elenco e la minuziosa descrizione dei prodotti da cercare. Un orologio a muro, sul quale ogni ora era rappresentata dal disegno di un fiore diverso, segnava le 22.30, con la lancetta corta su una camomilla e quella lunga su una ninfea. Erano andati via da Wizzieville subito dopo il tramonto, perciò a conti fatti restavano loro circa sette ore per trovare gli ingredienti e tornare. Sperò che quel tempo bastasse. I suoi occhi furono attratti da un barattolo sul quale era dipinta, con lo stesso tratto argentato della vetrina, una piantina delicata, con mazzetti di esili foglie e fiorellini a campanella. Dentro c’era una polvere incolore in mezzo alla quale spiccavano frammenti di petali viola. Sul coperchio c’era la scritta Erba medica. In preda all’emozione prelevò dal bancone un sacchetto trasparente e ne raccolse alcuni grammi, facendo attenzione a radunare quanti più petali sminuzzati possibile. Poi udì la voce di Lindia provenire dalla parete di fronte: «Credo di aver trovato qualcosa!» E infatti, in un vasetto del tutto uguale agli altri, c’era una polvere grigia macchiettata da pezzetti di foglie dentate e fiori giallo oro. Anche il tarassaco venne tuffato in un cartoccio trasparente. «A questo punto si potrebbe sapere a cosa vi serve tutto ciò?» continuò a chiedere Jordy, senza che alcuno gli rispondesse. Rimasero nel negozio per più di un’ora, ma non ci fu verso di trovare nulla che somigliasse a un papavero. C’era un barattolo con l’etichetta Papavero spinoso, ma Odyssea era certa che Joyce le avesse parlato di un papavero comune e, comunque, del fiore fresco e non della polvere essiccata. Aveva anzi insistito su questo punto, avvertendola che altrimenti la pozione non avrebbe funzionato. Passarono in rassegna tutti gli scaffali, aprirono tutti i cassetti, guardarono dentro enormi bocce di vetro piene di grosse biglie di liquirizia, confetti avvolti in carte impalpabili e sacchetti di tela profumata, ma non trovarono nulla. Quando l’orologio indicò che era abbondantemente passata la mezzanotte, Jacko la fissò preoccupato per la prima volta da tutta la sera. «Sono stanco…» cominciò a piagnucolare Stylo. «Posso almeno prendere queste?» disse, indicando un cesto colmo di caramelle a forma di sasso. E, senza attendere risposta, se ne infilò una corposa manciata in bocca. Odyssea doveva pensare. Pensare. In passato le era capitato spesso di incrociare campi di papaveri. Ma lì a Saint Albans? Eppure era certa di aver visto qualcosa una volta… ma dove? Mentre rifletteva, gli occhi le caddero su uno strano dolcetto di zucchero di canna a forma di teschio dentro un vaso con la scritta Ognissanti. E all’improvviso il ricordo le apparve nitido e chiaro. «So dove trovare i papaveri freschi!» esclamò, guardando Jacko. «E allora andiamo», disse lui con voce grave. Odyssea uscì per ultima dal negozietto saturo di luce azzurra. Dallo zaino estrasse tutte le monete che le erano rimaste dall’ultimo viaggio compiuto in quel mondo e, sperando che bastassero, le depositò sul bancone pronunciando un grazie silenzioso. *** «Dobbiamo proprio entrare?» mormorò Stylo tremando. Il cancello del cimitero di Saint Albans era alto e robusto e chiuso con un lucchetto di ferro. A eccezione delle stelle e di un lampione all’ingresso che emetteva una luce ambrata, sfrigolando come se stesse per fulminarsi da un momento all’altro, tutto era buio. Per arrivare lì avevano impiegato un’altra ora. Odyssea, voltandosi, distinse un lontano agglomerato di case, palazzoni imponenti e geometrici scarsamente illuminati, un insieme compatto di scatoloni grigi muniti di finestre accese che parevano pupille. «Io abitavo lì», sussurrò, più a se stessa che agli altri. «Una casa con vista sul cimitero?» strillò Stylo, sempre più irrequieto. «Al piano più alto», continuò Odyssea. «Quando mi affacciavo vedevo distese verdi… e anche rosso fuoco… Erano papaveri.» Jordy le si avvicinò e le prese una mano bisbigliando: «Siamo tutti molto contenti che tu abbia lasciato questo brutto posto». «Entriamo», disse Jacko glaciale. E poi sottovoce, rivolgendosi solo a Odyssea: «Se tu e quel cretino poteste smetterla, adesso abbiamo qualcosa di più importante a cui pensare». Odyssea impose le mani sul lucchetto e lo aprì. Senza dire una parola sgusciò dentro e fece strada sul vialetto in pietra viva che attraversava quello spazio con varie diramazioni. Ma, a occhio nudo, in mezzo a quell’oscurità raggelante, non le sembrò di scorgere nulla che potesse somigliare a una distesa di papaveri. Il prato al buio pareva nero, punteggiato di alberi e tappezzato da lapidi opalescenti. «Io non vedo fiori», piagnucolò Stylo. «Vedo solo tombe.» «Probabilmente sono appassiti», suggerì Lindia. «Dividiamoci», ordinò Jacko con fermezza. «Cerchiamoli un po’ in giro, e facciamo in fretta.» Si aggirarono fra le tombe, guardinghi come animali a caccia, i colli chini e gli occhi attenti. Il silenzio era quasi assoluto, spezzato solo dal sibilo dolce del vento, dal crepitare dei loro passi e dal verso di una civetta che cantava alla notte. Strano, pensò Odyssea, come quello spettacolo, che fino a tre mesi prima l’avrebbe fatta sudare di paura, ora le trasmettesse solo un senso di quiete. Dopo aver visto la morte nella Foresta Tenebrosa, quel cimitero di provincia, con l’erba rasata e gli alberi sistemati in fila indiana, le appariva come un luogo innocuo. Era curva su un quadrato d’erba dove le era parso di distinguere macchie di colore che potevano essere papaveri, e invece erano semplici margherite, quando improvvisamente avvertì un rumore stridente. Qualcuno aveva spinto il robusto cancello di metallo. Non poteva essere stato il vento, troppo lieve per smuovere quella solida inferriata. E non poteva essere stato nessuno di loro. Poco prima aveva intravisto Jacko che risaliva una collinetta erbosa verso la parte terminale del cimitero, Lindia e Stylo a pochi metri da lei leggevano le scritte sulle lapidi, e Jordy si stava dirigendo verso una selva di cipressi accanto a una piccola costruzione circolare che sembrava una vecchia cappella. Poi giunsero dei passi. Lindia e Stylo sussultarono spaventati, ma s’immobilizzarono quando Odyssea fece loro segno di tacere. Erano indubbiamente dei passi, accompagnati da un sottofondo di voci e risate. Odyssea si girò verso il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi Jacko ma non riuscì a individuarlo. Nell’oscurità distinse invece delle figure che avanzavano nella loro direzione. Le voci si fecero sempre più nitide, finché uno dei nuovi arrivati esclamò: «Il cancello era aperto! Vediamo chi viene a divertirsi al cimitero!» Un gruppo di ragazzi di circa vent’anni, con larghi pantaloni sdruciti e giubbotti sformati che gli arrivavano fin quasi alle ginocchia, si stava avvicinando. Molti di loro avevano i capelli completamente rasati e file tintinnanti di orecchini. In una frazione di secondo Odyssea capì che erano ubriachi. Uno di loro, alto e massiccio quanto un armadio a quattro ante, guidava il drappello. Gli altri lo seguivano, accelerando il passo e muovendosi a ranghi serrati come soldati in battaglia. Quando furono abbastanza vicini, quello che doveva essere il capo, emise una risata gracchiante: «Avete visto? Guardate che bella sorpresa! Due ragazze niente male in questo brutto postaccio!» Gli occhi del ragazzo-armadio brillavano di eccitazione mentre scrutava Odyssea e Lindia. «Che ci fate qui?» chiese, arrotando la voce. «Ti consiglio di non dare fastidio alle signorine.» La voce di Jordy alle loro spalle s’intromise seria e contegnosa. «Ehi! C’è pure il cavalier servente!» strillò dal fondo un ragazzetto smilzo e calvo con le pupille dilatate. Tutti sghignazzarono in coro. Poi una rivoltella luccicò nel buio e il grilletto prese a roteare come una catena da borsetta. Nello stesso istante Odyssea udì lo scatto di alcuni coltelli e ne scorse il metallico scintillio. «Fate l’amore al cimitero?» domandò il tipo grande e grosso continuando a ridere come un esaltato. «E tu te la spassi con questi due bocconcini? Che ne dici se ci faccio un po’ di amicizia?» Ogni volta che parlava si girava verso il gruppetto che rideva sguaiatamente, molleggiandosi sulle gambe larghe come tronchi e invocando la risata con ampi gesti delle mani. «Credo che il cavalier servente abbia ragione.» Da dietro un albero la figura di Jacko emerse, improvvisa e accigliata. «Vedi…» continuò sarcastico, «queste due belle signorine possono essere alquanto pericolose se non le sai prendere.» Detto questo, Jacko si appoggiò con apparente indifferenza a un albero, incrociando le braccia sul petto. Si era scostato i capelli dal viso e la cicatrice sembrava lucente come fosforo. «Hai sentito, capo?» disse con voce nasale un ragazzo con degli stivali borchiati. «Lo sfregiato ti sta forse minacciando?» Il capo s’incupì. Le guance cascanti gli avvamparono di collera e puntò gli occhi su Jacko con aria bellicosa. Avanzò provocatoriamente verso Odyssea e quando le fu vicino le serrò un braccio. Odyssea sentì l’odore dell’alcol che gli impregnava i vestiti, e una zaffata di sudore acre. «Non ci siamo», proseguì Jacko, scostandosi un poco dal tronco e scuotendo la testa. «Contento tu.» Mimò un inchino, piegando il capo e mormorando rivolto a Odyssea: «Ci pensi tu?» Nell’udire quella frase il ragazzo sbottò in un’altra risata, senza mollare la presa. Odyssea si sentì invadere dalla rabbia. Non appena quello imitò con le labbra protese lo schiocco di un bacio verso il suo viso, lei sollevò appena il braccio bloccato e quel lieve, infinitesimo movimento fu sufficiente ad alzarlo in aria come un pupazzo di plastica e a scaraventarlo con un tonfo umido sull’erba. Rimase immobile a terra, e Odyssea gli lesse sul volto un’indignazione smisurata e un odio che gli sussultava pericolosamente nelle vene del collo. Le rivolse un epiteto impronunciabile e da quel momento fu il caos. Tre ragazzi corpulenti si avventarono su Jacko. Quello al centro puntò contro di lui la lama del coltello, ma la sua boria durò meno di un secondo. L’arma, inaspettatamente, prese il volo sfuggendogli dalle dita, come attratta da una possente calamita, e finì tra le mani di Jacko che la lanciò verso un albero. Non appena si conficcò nella corteccia, il coltello si frantumò come se fosse fatto di zucchero. Contemporaneamente, i tre si ritrovarono a vorticare in aria, come uno stormo di uccelli sbandati, annaspando e scalciando. Quando le loro grida aumentarono di intensità, quando il terrore nelle loro voci squarciò il silenzio della necropoli, ricaddero bruscamente. Poi Jacko si avvicinò al tizio smilzo che lo aveva insultato e lo afferrò per il collo. Lo sollevò, quel tanto che bastava per fargli sentire la sensazione dell’aria che manca in gola, come un condannato all’impiccagione che si dibatte nel vuoto subito dopo che lo sgabello è stato scaraventato dal boia distante dai suoi piedi. Quando i suoi occhi divennero rossi e le guance congestionate, lo lasciò cadere a terra, e lo smilzo batté una gamba contro il bordo di una lapide di marmo. Gridò, stringendosi insieme la gola e uno stinco. Aveva la faccia rigata di lacrime, così grosse da sembrare sbarre. Lindia era alle prese con un energumeno dai lunghi capelli unti. Quando quello le fu pericolosamente vicino, colta da un orrore intollerabile, gridò: Assimulas porcus! , e il ragazzo si accucciò a quattro zampe e cominciò a grugnire con un’espressione ebete sul viso, saltellando con le movenze di un maiale pasciuto. Affondò la bocca nell’erba e strappò un cardo spinoso masticandolo con voracità. Un ragazzo alto si proiettò intanto su Jordy. Agitava una spessa catena arrugginita che produceva un clangore inquietante. Jordy urlò: Armis spolias! e la catena fluttuò in aria come un serpente metallico, avvolgendosi in cima alla cancellata d’ingresso, molti metri più in là. Dall’altro lato, sempre nella sua direzione, si mosse un tipo basso con occhiali dalle lenti spesse. Il coltello gli scattò nel palmo, agitato con lentezza intimidatoria. Approfittando della distrazione di Jordy, che teneva sotto controllo l’amico disarmato, avanzò alle sue spalle muovendosi con circospezione. Quando la schiena di Jordy fu a nemmeno un metro dalla sua mano, però, sentì un istintivo strano impulso a dirigere l’arma verso se stesso. Si voltò. Gli occhi di Jacko gli sorrisero in modo mordace. Il coltello spiccò il volo e tratteggiò ampie spire, molto in alto, come se disegnasse una lunga esse, e all’improvviso iniziò a scendere in picchiata. Il ragazzo strabuzzò gli occhi, e quando si rese conto che la lama puntava minacciosa verso di lui si buttò a terra coprendosi il volto con le mani. Quando tornò a guardare tremante, il coltello gli giaceva accanto. La lama era arrotolata come un ricciolo di burro. Jordy osservò Jacko, grato e disorientato. Ma non ci fu tempo di dire niente. Altri due tipi con mani ricoperte da guanti neri senza dita, che fino ad allora erano rimasti indietro, seminascosti dalle pietre tombali, si lanciarono verso di loro con uno sguardo allucinato. Uno dei due era quello con la pistola. Premette il grilletto a ripetizione verso il petto di Jacko. Jacko spiccò un balzo rapido, e i proiettili si conficcarono nel tronco di un albero alle sue spalle. Roteò in aria e ricadde perfettamente in piedi. Il ragazzo stava per esplodere un’altra salva di proiettili quando l’arma nelle sue mani iniziò a prendere fuoco. Una fiammata blu divampò arroventandogli il braccio. Lanciò la pistola sull’erba e quella implose, spandendo un odore di metallo infuocato e plastica fusa. L’ultimo avversario rimase immobile a osservare la scena. Poi si voltò verso il cancello e scappò. Si erano dati tutti alla fuga. Tranne uno. Il ragazzo-armadio, dopo essersi alzato, si era nascosto dietro un grosso cipresso. Aveva assistito a quegli scontri dapprima con stupore, poi con paura e infine con rabbia. Ciò che lo aveva maggiormente umiliato era l’essere stato messo al tappeto da una ragazzina. Doveva vendicarsi, doveva riscattarsi, altrimenti non avrebbe più potuto essere il capo. Gli altri erano stati sconfitti da ragazzi, sia pure in modo tanto misterioso, e non era la stessa cosa. Fatto salvo per quell’idiota che si era messo a grugnire come un porco, strappando cardi coi denti ai margini delle tombe, lui era l’unico che aveva perso con una ragazzina che pesava neanche 45 chili. La vide allontanarsi un poco dal gruppo dei suoi strani amici. Vide che si chinava sull’erba e che si rialzava col viso sorridente e una manciata di fiori in mano. Allora si spostò dietro un altro albero, a passi lenti, avvicinandosi gradualmente a quella figurina inclinata in mezzo alle lapidi. Il buio si era fatto più fitto, le stelle erano scomparse dietro uno strato di nuvole. Tirò fuori dalla tasca un coltellino con doppia lama a scatto. Avanzò ancora, trattenendo il respiro senza far rumore. Hai scelto il luogo giusto per morire. Dopo che ti pianto questo in gola, ti taglio i capelli… o magari un dito… e li porto alla banda, così sapranno chi è che comanda, pensò, leccandosi le labbra secche come carta vetrata. Strisciò dietro l’albero più vicino. La vide che armeggiava con un sacchetto di plastica trasparente e lo riempiva di fiori. Provò un brivido di euforia, il sangue gli scorreva nel corpo a velocità folle, e il cuore pompava come un tamburo. Pregustava l’assalto e rideva sommessamente da solo. Ma il sorriso gli morì sulla bocca. Con un movimento inatteso, calmo, come le azioni mandate al rallentatore, la ragazzina si voltò verso di lui. Uno scatto al secondo. Due occhi scuri lo fissarono, e provò un’inconfessabile paura. Quegli occhi gli parvero simili a quelli di un serpente acquattato sotto un sasso. Subito dopo lei puntò una mano verso di lui. Era come paralizzato dinanzi a quei gesti spaventosamente lenti, e prima ancora di riuscire a spostarsi avvertì un pugno nello stomaco. Si sentì trascinare indietro, verso il vuoto, da una forza inarrestabile. Il dolore alla schiena che urtava contro il tronco di un cipresso venne dopo, dopo essere rimasto sospeso in aria, con lo stomaco contratto e una nausea turbinosa. Quando ricadde a terra, sotto i rami del cipresso, la ragazzina gli si avvicinò con un’espressione astiosa, e con voce dura gridò: «Ci avete fatto perdere troppo tempo!» Odyssea, dal canto suo, di quella notte ricordò l’emozione di aver trovato una manciata di papaveri rossi e carnosi e il terrore che fosse ormai troppo tardi. Mentre raccoglieva i fiori, aveva percepito una vivida sensazione di pericolo. Non sapeva come, ma un brivido d’allarme le aveva percorso la schiena e aveva saputo esattamente cosa stava succedendo alle proprie spalle, come se avesse avuto due occhi spalancati sulla nuca. Si era girata con assoluta calma, e aveva visto il ragazzo che si dirigeva verso di lei brandendo il coltello, il viso alterato da un ghigno e la fronte lucida di sudore. Aveva sentito un’ondata di risentimento travolgerla, e quando lo aveva colpito l’energia si era scaricata come una scossa elettrica. Jacko la raggiunse, attratto dal suo grido. Vide Odyssea sconvolta e spettinata come un’erinni, e il ragazzo svenuto con i vestiti sudici e le mani ferite dal suo stesso coltello. «Tutto bene?» le domandò, allarmato. «Tutto bene», rispose lei, sforzandosi di sorridere. «Ho trovato i papaveri», e gli mostrò il sacchetto nel quale respirava un ciuffetto di fiori rossi. Jacko le rivolse uno sguardo inaspettatamente delicato. Con la mano le scostò i capelli dal viso e la guardò. Subito dopo, tuttavia, come se si fosse pentito di quel gesto, si voltò con decisione e le fece cenno di raggiungere gli altri. Si ritrovarono al centro del cimitero. I papaveri c’erano, ma mancava Stylo. Lo avevano invocato in tutti i modi, senza ricevere risposta. «L’avranno portato via con loro?» chiese Lindia spaventata. «E per farne che?» la schernì Jacko. «Cerchiamolo in fretta, deve essere qui intorno.» «Io non l’ho più visto da prima che arrivassero quelli», mormorò Jordy. «È possibile che si sia nascosto?» suggerì Odyssea. Quando l’ansia stava cominciando a diventare un serpente rendendo tutti irrequieti, Jordy intravide Stylo che proveniva dalla collinetta. Si muoveva in modo strano, rigido come un birillo. A un’occhiata superficiale sembrava privo di braccia, ma a mano a mano che si avvicinava, capirono che le braccia, invece di ciondolare accanto al corpo, erano allungate e incrociate attorno alle spalle con le dita che toccavano la schiena, proprio sotto le scapole. E le dita parevano fuse le une con le altre, come falangi di cera sciolta dal calore. Lindia stupì tutti scoppiando a ridere. «Oh, non preoccupatevi!» esclamò. «Stylo ha certamente tentato di utilizzare un Incantesimo di Concordia. Lo fa spesso quando mamma e papà litigano, ma ogni volta scambia la fusione delle anime con la fusione delle mani.» Tornarono senza indugio alla periferia di Saint Albans. Odyssea teneva il suo sacchetto di papaveri con una delicatezza da mamma rondine. Prima di andare via rivolse uno sguardo malinconico alle lapidi e chiese mentalmente perdono a quel luogo. Levante, Libeccio e Bigio li attendevano nell’ampia radura che faceva da anello alla città. Jacko e Jordy issarono Stylo sul pony e gli legarono le redini intorno alla vita. Quando Lindia seppe che Jacko e Odyssea li avrebbero preceduti mentre loro si sarebbero spostati con più calma per stare dietro a Stylo, fulminò il fratello con occhi adirati. I cavalli conoscevano la strada. «Non è giusto…» piagnucolò con un’espressione da principessina capricciosa. «Siamo venuti insieme, vi abbiamo aiutati a trovare quelle polveri assurde anche se non sappiamo a cosa servono.» Senza neanche risponderle, Jacko montò in sella e tese una mano a Odyssea. Quando Levante partì al galoppo, Odyssea colse in lontananza un guizzo di luce. L’alba camminava fatalmente verso il giorno. Tra poco più di un’ora il sole avrebbe completato la sua corsa fuori dai monti. Pregò che non fosse troppo tardi. Dovevano salvare Breta a tutti i costi, dovevano tornare in fretta col fragile bagaglio di petali che forse l’avrebbe guarita. POZIONI E RIVELAZIONI Arrivarono a Wizzieville che il sole era completamente sorto. Jacko lasciò Odyssea davanti a casa e andò subito via, senza guardarla e senza rivolgerle neanche un cenno di saluto. Odyssea trovò Joyce e sua madre che l’attendevano sveglie. Grace, pallida e tirata, sembrava reduce da una notte insonne. Non le chiese nulla, i suoi modi erano troppo affrettati per poter pensare di fermarla con una richiesta di spiegazioni. Anche Joyce aveva il viso stanco, ma pareva soddisfatta di sé. «Presto», squittì. «Tra meno di quattro minuti scadrà il tempo.» Odyssea estrasse il sacchetto con il tarassaco e Joyce, dopo averlo annusato, ne pesò una piccola quantità su una bilancina sospesa, e la incorporò alla mistura. Fece lo stesso con l’erba medica, non senza aver prima assaggiato una puntina di petali viola. Parve una testuggine, in quell’attimo, rugosa e arricciata, con gli occhi strizzati nel godimento di un sapore così insolito. Il calderone bollì, diffondendo nell’aria un fumo azzurro. «E adesso i papaveri», la incalzò Joyce. Ma quando Odyssea li tolse dallo zaino, spalancò le labbra per la disperazione. Il mazzetto di fiori rosso fuoco, con i minuscoli cuori neri, era appassito. Prese in mano i fiorellini avvizziti e spenti, leggeri leggeri, fatti quasi di vento, accasciati come pettirossi feriti a morte. Sentì che le forze l’abbandonavano e dentro le si schiudeva un pianto senza ritorno. Indietreggiò e si fermò solo quando sentì la parete dietro la schiena. Poi si lasciò scivolare lentamente a terra. Non era giusto. Avevano rischiato la vita per niente? Cosa ne sarebbe stato di Breta, che viveva prigioniera da dodici anni? E cosa ne sarebbe stato di Jacko? Non l’avrebbe mai perdonata. Strinse i papaveri al petto e lasciò che le lacrime scorressero. «Se solo potessi tornare indietro… ne avrei presi di più… sarei stata più attenta… è tutta colpa mia… è solo colpa mia», singhiozzò. Joyce strillò all’improvviso. «Odyssea! I fiori…» In quel momento le corolle parvero animarsi. Fu come se i papaveri si risvegliassero. I petali ripiegati su se stessi si stesero come braccia sgranchite durante uno sbadiglio. Gli steli divennero carnosi e diritti. Fu come se li avesse appena colti. Odyssea guardò Joyce sbalordita, ma obbedì al cenno svelto dell’amica. Balzò in piedi e le porse il mazzetto di fiori resuscitati. Joyce scelse i tre papaveri più grandi, separò gli steli dai calici, e li gettò nella mistura che continuava a bollire. La luce azzurra che proveniva dal calderone divenne una specie di impalpabile nebbiolina arancione e il liquido smise di agitarsi sopra la fiamma. D’un tratto, fu come se qualcuno con una cannuccia invisibile ne stesse aspirando la maggior parte, poiché la pozione si ritrasse, si condensò, si compresse trasformandosi in una sostanza sciropposa color carminio. Joyce la prelevò con uno speciale cucchiaio d’argento e la depositò dentro un’ampolla col collo largo. Chiuse il contenitore e lo scosse. Infine lo porse a Odyssea, con lo sguardo appagato con cui un medico avrebbe affidato a una madre un neonato dopo ore di doloroso travaglio. Odyssea lo afferrò e se lo strinse al petto. Poi scappò via. Prima che scomparisse dalla cucina, udì la voce di Joyce che finalmente le chiedeva: «A proposito, colombella mia, a cosa ti serve questa pozione?» *** La porta era socchiusa, il camino acceso, Odyssea entrò senza nemmeno bussare e si precipitò verso il corridoio buio. Chiamò Jacko, e udì la sua risposta smorzata provenire dalla camera di Breta. Stava seduto su uno spicchio di letto e stringeva la mano della sorella, stesa immobile come se fosse addormentata o morta. Immerse gli occhi negli occhi di Jacko e gli rivolse una muta atterrita domanda. Lui la guardò, esausto, non più un ragazzo gagliardo e scontroso, ma un uomo la cui luce era spenta, la bocca come di cera, le spalle chine in avanti. «Come… come sta?» Jacko si limitò a un cenno confuso del capo. Odyssea osservò Breta. Era pallida e inaridita e teneva gli occhi chiusi. La mano, quando gliela toccò, era ancora tiepida, ma sembrava che il calore si stesse separando da lei, iniettando nel suo corpo frustate di gelo. Odyssea porse a Jacko la pozione. Lo aiutò a sollevare Breta e questa finalmente aprì gli occhi. Erano opachi, come se fossero pieni di fumo, ma erano vivi. «Vuoi bere, per favore?» mormorò Odyssea. «Vuoi farlo per noi?» Dall’ampolla stappata sgorgò un lieve aroma floreale. Breta batté le palpebre e non senza fatica le versarono il prezioso sciroppo tra le labbra stando attenti a non perderne neanche una goccia. Breta tenne la bocca socchiusa, e li lasciò fare. Sotto la pelle del suo collo sottile si disegnò il movimento lento della deglutizione. Poi la riadagiarono sul letto e rimasero a osservarla a lungo, senza fiatare, lo sguardo fisso sul suo volto impietrito. Forse per il desiderio di vederla guarire, forse per la suggestione, forse perché invece tutto stava accadendo realmente, Odyssea ebbe l’impressione che l’incarnato di Breta si tingesse appena d’un tenue colore rosato. Jacko continuava a restare immobile accanto al letto, e Odyssea si sentì fuori posto in quella silenziosa scena di affetto fraterno. Indietreggiò piano e uscì dalla stanza. Sostò per qualche minuto nel corridoio, con le spalle appoggiate alla parete e le mani strette a pugno. Infine raggiunse l’ingresso e si sedette davanti al camino. Aveva freddo, un freddo terribile, brividi lungo la schiena, e i denti che battevano. Allungò le mani verso le fiamme e ripensò a quello che era accaduto nella cucina, ai papaveri che sembravano morti e poi erano rinati. A un tratto sentì un refolo di vento dietro di sé. Aveva dimenticato la porta aperta. Si alzò per andare a chiuderla ma quando, accanto all’uscio, scorse Jordy che la fissava, sobbalzò. «Posso entrare o rischio la vita?» domandò lui, con un tono che avrebbe voluto essere scherzoso ma tradiva nervosismo. «Oh… io credo di sì…» esclamò Odyssea, in verità incerta. La replica, così com’era stata formulata, avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, ma Jordy, che non voleva andare via ed era pieno di curiosità, scelse l’interpretazione più conveniente. Quando fu entrato, Odyssea chiese notizie degli altri: «Lindia e Stylo?» «Li ho accompagnati a casa. I cavalli sono nel recinto. Io non sono neanche passato da casa…» continuò. «Sono venuto subito qui. Forse ora potrete accontentarmi.» «Che… che intendi dire?» trasalì Odyssea. «Per esempio informandomi delle ragioni del nostro viaggio notturno.» Jordy si passò una mano tra i capelli e rimase in attesa di una risposta. Odyssea lo guardò smarrita. Se Jacko non lo avesse permesso, lei non poteva dire nulla su Breta né sulla sua esistenza. Jordy le si avvicinò mormorando: «C’è qualcosa di molto strano in tutta questa faccenda. Cosa ci fai tu in questa casa? Come mai sei così in confidenza con Jacko? Forse siete… forse Lindia ha ragione?» «No, Lindia non ha ragione…» sospirò Odyssea. «E…» «E comunque non sono affari tuoi», sentenziò Jacko, entrando senza far rumore. «Pensi di trattenerti ancora molto?» chiese, voltando le spalle a Jordy e animando la fiamma nel camino. «Mi devi delle spiegazioni, Jacko O’Donnell, non puoi negarmele. Ieri notte hai detto delle cose, sulla mia famiglia, su mio padre… Esigo dei chiarimenti o delle scuse. E poi…» tentennò, «io… volevo… ringraziarti… Prima, in quel cimitero, tu mi hai salvato la vita. Credimi, sei l’ultima persona che avrei mai pensato di dover ringraziare per un’eventualità del genere… Ma ciò non ti dispensa dal dovermi delle spiegazioni.» «A dirti il vero», la voce di Jacko si fece più aspra, «mi dispenserebbe eccome. Da un certo punto di vista non sarei tenuto a darti alcuna spiegazione ma, d’altro canto, se hai un padre del genere non è colpa tua.» Odyssea si alzò imbarazzata e sussurrò: «Io torno a casa». Ma mentre si dirigeva verso la porta, Jacko la bloccò stringendole un braccio. «Per me puoi rimanere», le disse. «Così, magari, se la situazione dovesse degenerare, potrai sempre venire in aiuto del tuo amico», divenne sprezzante, e inarcò un sopracciglio, uno solo, scrutandola in un modo che la fece rabbrividire. «Io non ho niente da nascondere», aggiunse Jordy. «Niente che non vorrei sapesse anche Odyssea.» Lei rimase ferma, tra Jacko che le dava le spalle e Jordy che fissava il pavimento. «Bene, lo hai sentito?» Jacko alzò la voce gettandole un’occhiata di fuoco. «Ti sei trovata un ragazzo d’oro: niente segreti, niente misteri, così tronfio, così sicuro. Vuoi sapere la verità? Tanto al più presto la sapranno tutti. Vuoi sapere chi era realmente mio padre e soprattutto chi è tuo padre?» Non aspettò una risposta e continuò. «E allora siediti, sì, credo proprio sia necessario. E siediti anche tu», sbottò in direzione di Odyssea, «mi innervosisci in piedi lì in mezzo.» Odyssea obbedì e si sedette un po’ distante, col cuore che batteva a rompi©ollo. Era seccata dal modo in cui Jacko le si rivolgeva. Era infastidita dalle sue insinuazioni, e intimorita dall’atmosfera tesa che affollava la stanza. Jacko sparì per qualche istante nell’altro lato della casa. Odyssea e Jordy rimasero in silenzio, entrambi oppressi dalla sensazione che qualcosa stesse per franare sulle loro teste. Quando Jacko rientrò aveva in mano una busta bianca. Quella busta bianca. Aveva tolto il sigillo. Ne estrasse il contenuto e si sedette davanti al camino. Poi cominciò a parlare, con un misto di ira e sarcasmo: «Come ben sai, mio padre fu incriminato quasi ventitré anni fa, ma del resto chi non lo sa in questa maledetta cittadina? I reati che gli vennero contestati furono molto gravi. Alto tradimento, attentato alla stabilità del governo di Wizzieville, associazione con le forze oscure». Scandì le accuse come sputando le parole. «Ebbe un processo, e fu condannato. E guarda caso in quel processo tuo padre rappresentò la pubblica accusa… anzi potrei dire che ebbe il ruolo da protagonista indiscusso in quella messinscena. Mio padre allora era un membro stimato del Consiglio, e all’improvviso si ritrovò condannato all’esilio perpetuo al Maniero di Blackhole. Che sfortunata serie di circostanze… Quando fu accusato di aver tramato con le forze oscure per sovvertire il potere di Wizzieville, ben tre persone testimoniarono contro di lui. In quel periodo c’erano state già alcune morti, Squartavene aveva dissanguato alcuni maghi. Quando cominciò a formarsi nell’opinione pubblica l’idea che quel mostro dovesse avere un complice da dentro, fu facile trovare il capro espiatorio.» «Tuo padre non fu un capro espiatorio!» gridò Jordy. «Fu l’unico vero colpevole! E fu condannato giustamente! Le leggi…» Jacko lo raggiunse con uno scatto fiero e fulmineo e lo agguantò per la gola. Odyssea sobbalzò sulla sedia. «Jordan Angel, non lasciare che io debba pentirmi di averti salvato la vita», sibilò con gli occhi iniettati d’odio. «Non mi interrompere mai più. Vedi queste carte? Avrai modo di constatare che si tratta di documenti ufficiali e assolutamente autentici.» E glieli porse con un gesto di sfida e di soddisfazione. «Leggi.» Odyssea notò che Jordy impallidiva mentre scorreva i fogli in un crescendo di panico e angoscia. Trascorse un quarto d’ora di pieno silenzio, interrotto solo dal frusciare delle pagine sfogliate. Quando Jordy ebbe finito, posò i documenti sulle ginocchia e gli occhi su Jacko: «È assurdo…» sussurrò. «Dove hai trovato queste… queste falsità… be’… vedo che è la carta intestata di mio padre.» «Diciamo che un uccellino me li ha portati.» «Vorresti farmi credere che glieli hai rubati? E allora spiegami questo… perché mio padre avrebbe dovuto conservare questi documenti… se fossero veri… e così compromettenti per lui… perché non avrebbe dovuto… bruciarli?» «Bruciali tu al suo posto», esclamò sibillino Jacko, indicandogli il camino. «Fai tu un favore al tuo stimato genitore.» Jordy ebbe un attimo di esitazione, poi, con stizza, li lanciò tra le fiamme. Inizialmente le vampe li avvolsero e aumentarono d’intensità, scricchiolando come una frana di sassi. Ma, quando il fuoco si abbassò, dove avrebbero dovuto esserci solo mucchi di cenere c’erano invece gli stessi fogli, intatti, come se fossero stati appena estratti da un cassetto. Jordy spalancò gli occhi sbigottito. «Cosa…» si limitò a mormorare. «Io non credo che tuo padre li abbia conservati di sua spontanea volontà, che ne dici? Ho la certezza che si sia disfatto di ogni altro incartamento riguardante quel caso, ma questi è stato costretto a conservarli», disse Jacko sempre più sarcastico. «Se vuoi puoi provare a distruggerli con altri metodi, non credo che li scalfirai di un millimetro, credo piuttosto che un potere oscuro e molto forte li abbia resi intoccabili.» «Ma perché? Tutto questo non ha senso…» «Non ha senso dal tuo punto di vista. Vedi, sono costretto ad ammettere che non fu tuo padre l’unico bastardo a tramare per esiliare il mio. Ma lo avrai ben capito da quelle lettere: l’esimio Hamlet Angel le inviò a qualcun altro, qualcuno di cui purtroppo non è chiara l’identità, qualcuno al quale comunicava la riuscita del loro progetto, e questo qualcuno gli fece intendere espressamente che avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa, restituendogli una copia delle stesse lettere rese indistruttibili grazie al Secondo Potere.» Jordy ora sudava freddo. Jacko continuò. «Adesso cominci a comprendere? In quel gesto era implicita una minaccia, del tipo lasciati sfuggire un fiato e sarai tu il prossimo. E allora tuo padre fu costretto a conservare quel carteggio scottante, a sigillarlo coi metodi che riteneva più sicuri continuando a tacere su tutta la storia, perché se si fosse saputo qualcosa, credo che il tuo povero papà avrebbe sostituito il mio al Maniero.» «Ma perché avrebbe dovuto tramare contro tuo padre? Che motivo…» «La verità è che il corretto ed esemplare Hamlet Angel aveva già accomodato altri processi. Lui e il suo complice di cui non si fa mai il nome, stavano tramando insieme da anni per far ritornare Squartavene. E ogni membro del Consiglio che in qualche modo rischiava di intralciare i loro piani, improvvisamente si ritrovava documenti imbarazzanti nei cassetti del proprio ufficio, o testimoni che dichiaravano di averlo visto compiere azioni deplorevoli, e finiva sotto processo… e Hamlet, guarda caso, era sempre la pubblica accusa.» «Se quello che dici è vero, allora vorresti insinuare che mio padre… sia… l’erede di Squartavene?» «No, non ti illudere, credo che sarebbe piaciuto a tutti voi Angel avere anche solo uno straccio di potere, e che delusione constatare che nella vostra famiglia non ci sia un mago veramente potente ormai da innumerevoli generazioni. Ma non credo che Hamlet Angel sappia usare nulla più che un semplice incantesimo per raffreddarsi la minestra. E questa frustrazione deve averlo reso ancora più infido.» Jacko parlava con lo sprezzo di chi ha taciuto troppo a lungo. «Non fingerti offeso, non c’è nulla in questa parola che sia più offensivo degli atti commessi da tuo padre. Penso che la persona con la quale ha collaborato sia l’erede di Squartavene. Forse il povero perfido Hamlet non ha mai saputo realmente con chi aveva a che fare. Forse il suo complice lo ha tenuto all’oscuro. Ma sono certo che tuo padre non abbia mai direttamente partecipato alla deliberata uccisione di qualcuno, se può consolarti. Ha solo fatto imprigionare degli innocenti sulla base di false prove. Un cittadino modello, un ottimo amministratore della giustizia, non c’è che dire. Ma adesso voglio essere buono con te e avvertirti: credo che l’erede di Squartavene, chiunque sia, potrebbe decidere di sbarazzarsene. Un Hamlet Angel spaventato potrebbe diventare pericoloso, soprattutto per se stesso. Finché si trattava di aggiustare i processi… ma ora…» «Perché tuo padre?» chiese ancora Jordy. «Forse aveva cominciato a capire. Mio padre non era uno stupido.» «E cosa mi dici di tua sorella? Non fu lei a collaborare con Squartavene dopo qualche anno? Chi mi dice che comunque nella tua famiglia non ci fosse… qualcosa di sbagliato?» «Non parlare di mia sorella in questi termini!» gridò Jacko furente. «Breta fu ingannata! Non seppe mai perché faceva ciò che faceva. Non ci fu mai nulla di intenzionale nel suo agire. Era plagiata. Tuo padre, invece, non ebbe bisogno di essere soggiogato, no, lui aderì spontaneamente a quell’insano progetto! Ho sempre pensato che voi Angel abbiate un senso della giustizia molto personale. Se non vi piace qualcuno, se temete che qualcuno vi possa intralciare, o se anche solo invidiate qualcuno, non avete il fegato di affrontarlo da uomini, faccia a faccia, no, voi preferite organizzare un bel piano pulito e mandarlo in esilio gettando la chiave!» Jacko era frenetico. Mentre parlava si voltò verso Odyssea e la indicò. «Chi mi dice a questo punto che non sia implicato anche nel tentativo di fare del male a Odyssea? Sai benissimo cosa è successo la notte della Verifica, e mi pare di ricordare che sia stato proprio tuo padre a insistere maggiormente perché accettasse la prova, o sbaglio?» Jordy scosse la testa con enfasi. «Ti sbagli! Questo non lo accetto! Mio padre era in buona fede! Quando ha saputo cosa era accaduto è rimasto sconvolto! L’ho visto con i miei occhi! Non avrebbe mai voluto fare del male a Odyssea. Anzi, lui vorrebbe che…» s’interruppe, impallidendo ancora di più. Jacko sorrise ironicamente. Odyssea lo vide scrutare prima Jordy e poi lei con uno sguardo graffiante. «Bene», esclamò. «Spero tu sia contenta. Hai anche l’approvazione del pignolissimo Hamlet Angel. Dopotutto sarebbe stato un peccato avere un così bel ragazzo per figlio e non farlo fruttare. Me lo sono chiesto: cosa desidera Hamlet Angel più di ogni altra cosa al mondo? Secondo me è vedere in un futuro prossimo un Angel che finalmente abbia qualche potere! Poter rivalutare l’orgoglio della sua schiatta, non sentirsi più inferiore a un qualsiasi O’Donnell.» Odyssea si sentì avvampare, anche se sulle prime non riuscì a capire esattamente perché. Cosa stava dicendo Jacko? Perché sorrideva in quel modo caustico? Perché gli ardevano gli occhi come fiamme infernali? Più ci ragionava, più l’assoluta certezza che alludesse a qualcosa di imbarazzante le tolse la voglia di continuare a ragionarci. «Non parlare di me come se non ci fossi!» gridò, alzandosi in piedi. «Sfogati pure per quel che riguarda la tua vita, ma non mettermi in mezzo!» «Tu non puoi restarne fuori, mi dispiace», proseguì Jacko con voce allegra. «Spero che siate felici insieme, se ti accontenti di avere un suocero che è praticamente un assassino, ma non puoi comunque restarne fuori, visto che anche tuo padre aveva capito che Hamlet Angel era implicato in qualcosa di losco, e credo che avesse anche intuito qualcosa sul vero erede di Squartavene. Ricordi quell’agenda che hai smarrito? Penso che ci fossero appuntate le sue scoperte, le sue considerazioni, e ti prego di rammentare anche un’altra cosa: da quando è sparita? Forse da quando questo eroe ti ha soccorsa e portata a casa dopo averti trovata svenuta nella scuola? Forse tuo padre ti ha suggerito di frugare nel suo zaino?» Jordy spalancò la bocca e gli occhi simultaneamente. «Non so di cosa parli!» esclamò. «Non so che cosa sia questa agenda. Odyssea non credergli, ti prego, non c’è nulla di vero!» «Non c’è niente di vero neanche nel fatto che tuo padre ti abbia spinto a… come potrei dirlo per non essere costretto a vomitare… corteggiarla?» continuò Jacko. Odyssea lo fissò come se volesse cancellare con la forza del pensiero tutte le parole appena udite. Jordy non rispose, e ciò le confermò che, se si era difeso così strenuamente dall’accusa di aver rubato l’agenda di suo padre e invece adesso non opponeva alcuna resistenza, allora quest’ultima accusa doveva essere fondata. Coincideva con qualcosa di simile che Lindia le aveva riferito una volta. Jordy aveva finto che lei gli piacesse solo per assecondare suo padre? Un improvviso silenzio piombò nella stanza, come una gelida cappa, nonostante il fuoco nel camino. Infine Jordy alzò lo sguardo su di lei: «Odyssea, vuoi credermi se ti dico che mi piaci veramente?» Jacko tirò un calcio alla sedia. Era un fascio di nervi. «Mi fate venire il voltastomaco con queste idiozie», disse a denti stretti. Uscì, sbattendo la porta così forte che lo spostamento d’aria fece vibrare i vetri delle finestre e perfino il fuoco. Odyssea sentì che tutti i suoi organi, il suo corpo, il suo sangue, si rimescolavano come la pozione nel calderone bollente. Vide Jordy che le si avvicinava. I capelli di solito ordinati e lucidi parevano fatti di lana. E negli occhi covava il dubbio. «Io non sapevo nulla di ciò che è stato detto su mio padre, e non so ancora se sia vero. Sono sconvolto, mi devi credere. Ma qualsiasi consiglio, qualsiasi suggerimento possa avermi dato all’inizio, su me, su te, io ora… ora provo davvero qualcosa…» Jordy le si rivolse con voce tenera ed emozionata e le prese una mano. Odyssea la allontanò come se bruciasse. «Jordy… ti prego… io… per adesso… non ne voglio parlare…» sussurrò. Aveva bisogno di respirare. Rifiutò di essere accompagnata a casa e quando Jordy andò via le indirizzò un sorriso malinconico. Odyssea lo vide avviarsi da solo verso il vialetto, prostrato, e nonostante tutto provò un moto di affetto per lui. Qualsiasi cosa avesse fatto suo padre, era certa che Jordy ne fosse all’oscuro. Si guardò intorno cercando Jacko, ma non lo vide. Lo trovò nella scuderia. Stava passando una spazzola sul mantello di Levante. Libeccio e Bigio attendevano il loro turno nel recinto. Si avvicinò all’ingresso e rimase a osservarlo senza che lui la vedesse. Era silenzioso, e strofinava i fianchi di Levante con energia, come il primo giorno che lo aveva incontrato. All’improvviso si fermò. Restò immobile, con una mano appoggiata alle costole dell’animale e la fronte china sul braccio. Odyssea fece per indietreggiare, quando lui parlò: «Entra un attimo. Volevo dirti… credo che Breta stia meglio. Spero che quella pozione possa realmente guarirla». Odyssea sorrise e sentì un po’ di tepore scorrerle dentro. Finalmente una buona notizia. «Jacko…» mormorò, avanzando piano. «Tutte quelle cose su tuo padre e sul padre di Jordy… erano contenute in quei documenti che ho…» Jacko si voltò verso di lei e la guardò. Sembrava si fosse placato. Anche la voce era calma. Fece un cenno di assenso, lentissimo, e per qualche istante tenne gli occhi chiusi. «Io l’ho sempre pensato che tuo padre fosse innocente… e anche Breta… ma non credevo che…» «Che Hamlet Angel fosse capace di simili bassezze?» «Mia nonna mi dice sempre di non fidarmi delle apparenze. Ci sono delle meravigliose ortensie nel suo giardino. Sembrano fiori così celestiali. Ma se li sfiori ti sbranano. E c’è anche un enorme cactus spinoso. Incute una certa soggezione. Però si ritrae se ti avvicini e dalle spine si estrae un liquido curativo. Come vedi, spesso l’apparenza inganna. Così come l’apparenza mi diceva che tuo padre era un traditore e Breta complice di Squartavene. L’apparenza mi diceva che la Verifica era una prova innocua che mi avrebbe fatto capire tante cose, e invece era una trappola. L’apparenza mi diceva che mio padre era un uomo cattivo, e invece era solo una realtà falsata da quegli schifosi insetti. Ma vuoi sapere un’altra cosa suggerita dall’apparenza? Da quando sono tornata, tutti non hanno fatto che ripetermi che Squartavene ce l’ha solo con la mia famiglia. Ora, c’è una domanda alla quale devi rispondere.» Si fermò continuando a guardarlo. «Squartavene ha tentato di uccidere anche te… è vero?» Jacko la scrutò con occhi seri. Gettò a terra la spazzola e le si avvicinò. «È vero», ammise. «Non ti si può nascondere niente.» «Quelle cicatrici, te le ha fatte lui? Quando?» Lui si scostò i capelli dal viso con l’avambraccio, accarezzandosi la fronte col dorso della mano. «Ero appena nato. S’introdusse in casa, uccise mia madre e poi provò a fare la stessa cosa con me. Mi salvai, non so come.» «Perché non si è mai saputo?» «Perché mia sorella voleva proteggermi dalla curiosità degli altri e voleva che i morti riposassero in pace. Disse che mia madre era morta nel darmi alla luce. Quel mostro si era accanito anche sui miei nonni, e i loro genitori, e molti altri, ma nessuno si sofferma sul modo in cui rischiano di morire gli O’Donnell. Gli scapestrati, se fanno una brutta fine, è perché se la sono voluta…» «Io credo che Jordy non sapesse nulla di suo padre», mormorò d’istinto Odyssea. «Lo hai sconvolto. Non è un cattivo ragazzo.» Jacko avanzò ancora verso di lei e l’afferrò per le spalle. Poi le parlò con tono infastidito: «Senti. Non parlarmi più di quelle persone. Né del padre né del figlio. Ti avevo invitato a non fidarti, ma fai quello che vuoi, in fin dei conti non mi importa veramente di dove sbatti la testa. E ora vai a casa. E se ti è possibile, non tormentarmi con le tue visite così frequenti, mi sembra di averti sempre intorno, in certi momenti sei più noiosa di Lindia. Ti sono grato per alcune cose, così come credo tu debba essermi grata per altre. Però ora basta. Diciamo che… ci siamo scambiati dei favori. E se intendi cacciarti in qualche altro guaio, non chiamarmi». Odyssea rimase allibita, una bambola imbambolata, con la bocca socchiusa e gli occhi sgranati. Poi esplose. «Sai, l’unica cosa sulla quale l’apparenza non mi ha ingannato è la tua insensibilità!» gridò. Non gli diede neanche il tempo di voltarsi e scappò via dalla scuderia, spinta da una forza furiosa. La ferita sotto la gola prese a pulsare ferocemente. Corse fino a casa, e quando entrò incrociò sua nonna. Non la vedeva da prima della Verifica, quando l’aveva accompagnata nella Foresta. Si precipitò ad abbracciarla e, sconvolta per tutto ciò che era successo, scoppiò in un pianto dirotto. Rimase appoggiata alla sua spalla a lungo, singhiozzando senza trattenersi. Quando si fu calmata, quando le sembrò di non avere più una sola lacrima, quando la spossatezza tentò di occultare il dolore ottenebrandola con la sonnolenza, la nonna le sollevò il viso e le sussurrò: «Piccola mia. Dobbiamo parlare». LA CONVOCAZIONE C’era stata una riunione speciale del Consiglio ed era durata molte ore. Quando Odyssea era stata riportata a casa sanguinante e priva di sensi, Augusta aveva convocato d’urgenza gli altri membri al Palazzo. Gli studi sulla Giada Catturante erano abbastanza recenti, lo stesso Charlton Bennet ne era stato un appassionato promotore, ma nulla aveva mai lasciato presagire simili nefaste complicazioni. Molti dei membri erano rimasti sconvolti. Ma fra tutti, e imprevedibilmente vista la sua scarsa propensione alle emozioni compassionevoli, il più sconvolto risultò essere Hamlet Angel. Quando seppe dell’accaduto sprofondò nel suo alto scranno, con il volto cereo e le labbra tremanti mormorando tra sé un affranto Non può essere… Nessuno poteva ignorare che il pericolo fosse più che mai incombente. Squartavene voleva uccidere la ragazza e non si sarebbe fermato. Inoltre, se il suo erede dimorava tra loro, come era ormai innegabile, non c’era più nulla che il Consiglio fosse autorizzato a decidere fino al chiarimento di quella situazione. Pertanto, ne fu deliberata all’unanimità la delegittimazione. Dopo aver parlato con Augusta, Odyssea si mise a letto e precipitò in un sonno di piombo. Non dormiva da quasi ventiquattr’ore. Quando si svegliò, decise di andare in soffitta. Era da molte settimane che non ci metteva più piede, da quando gli incubi avevano cominciato a tormentarla, gettando il dubbio su suo padre. Ripensò a quante cose erano successe, e tutto aveva avuto inizio dal ritrovamento dell’onice nera nello scrigno. Ora però era certa di una cosa. Quella pietra non era appartenuta a suo padre. Ripensò anche all’agenda che le era stata sottratta. Era escluso che potesse essere stato Jordy. La sua mente non riusciva ad accettare una simile possibilità. Jacko aveva i suoi motivi per provare rancore nei confronti di Hamlet Angel, ma lei non condivideva la condanna che aveva esteso a tutta la famiglia. Nella bocca del fuoco alludeva al passaggio dietro il camino. Evidentemente suo padre aveva scoperto quel varco. Chissà se lo aveva anche percorso, inoltrandosi in quegli stessi cunicoli come lei dodici anni più tardi. Aveva cercato la parola subornazione nel dizionario e il suo significato l’aveva persuasa che Jacko avesse avuto ragione su una cosa: Charlton Bennet aveva capito che dietro la condanna di Charlie O’Donnell c’era stato qualcosa di poco chiaro. Però lo stesso Jacko non aveva trovato prove che confermassero un coinvolgimento ulteriore del padre di Jordy, ed era stato costretto a escludere che Hamlet Angel avesse avuto abbastanza malvagità o abbastanza fegato per macchiarsi in prima persona di un delitto. Chissà se Hamlet iniziava a collegare i pezzi e a comprendere chi fosse la persona con la quale aveva collaborato. Aveva cominciato a capire che poteva trattarsi dell’erede di Squartavene? Nel suo ottuso orgoglio, aveva principiato a rendersi conto che mandare all’esilio Charlie O’Donnell per reati che non aveva commesso era stata solo una piccola mossa in un più ampio disegno, di cui lui era solo uno strumento? Ma qual era il vero disegno? La vera ragione di tutto? Papà, perché non mi aiuti a capire cosa significa quella terza frase, magari è la chiave di tutto, pensò. Joyce giunse poco dopo dalle scale. «Sei riuscita a entrare, finalmente?» le chiese sorridendo. «Sì, grazie. Adesso non ho più bisogno della formula», mormorò Odyssea che aveva semplicemente sfiorato la porta e udito il soffice scatto della serratura. Ormai tutto accadeva con naturalezza. I poteri si manifestavano senza preannunciarsi con segni particolari. C’erano e basta. Da quel momento in poi potevano solo accrescersi. «Com’è triste questa soffitta… Cerco di non salirci mai. Mi rammenta sensazioni dolorose. Ricordo quando tuo padre morì… Che nottata tremenda! Tua mamma ti aveva portata via, con il cuore straziato… e la cara Augusta… per settimane non riuscì nemmeno a uscire dalla sua stanza…» «Tu dov’eri quella notte?» domandò Odyssea incuriosita. «Ero in visita a una mia amica, grande fattucchiera, preparammo insieme una pozione molto difficile. Pioveva a dirotto e io alla fine rimasi da lei. E quando l’indomani tornai a casa… trovai tutto… distrutto. Ed ecco perché odio questa soffitta… perché quando fui costretta a rimettere in ordine… e salii a posare quella pietra nello scrigno… pensai a ciò che avevo visto… e alle chiazze di sangue ancora sul pavimento…» Odyssea le posò una mano sul braccio. «Di che pietra parli?» chiese impallidendo. «Ma… quella pietra che trovai… giù… sul pavimento dell’ingresso… Era sporca di sangue…» «Joyce, ti prego, vuoi spiegarmi meglio?» Odyssea cercò di apparire tranquilla e di tenere a bada l’impazienza, conscia del fatto che se le avesse messo addosso premura o affanno probabilmente Joyce avrebbe dimenticato tutto. «Quando rimisi in ordine, in mezzo al sangue c’era un sassolino, lo raccolsi con un panno, lo pulii e lo misi nello scrigno. Tutto qui. Ho pensato che fosse del tuo caro padre. Era nel punto in cui lui… capisci?» «E ti ricordi se… se quel sassolino… se c’era una montatura d’oro o qualcosa del genere?» «No, mi pare proprio di no, e comunque ero così sconvolta e confusa, sai… Non è che ragionassi tanto… Facevo le cose meccanicamente, mentre piangevo. Così lo feci scivolare nello scrigno e chiusi questa porta per sempre.» Joyce sospirò, e per qualche attimo parve sul punto di piangere. Ma subito si riprese ed esclamò: «Ero venuta per darti una magnifica notizia! Pare che il caro Pericle si sia risvegliato! Il dottor Balsamus ha detto che è più morto che vivo, ma che appena ha aperto gli occhi ha gridato non so cosa… come se rievocasse il momento in cui è stato aggredito… e poi ha chiesto di tua nonna e di tua madre. Il dottor Balsamus sostiene che abbia chiesto proprio di Augusta e di Grace, e che nel delirio abbia detto espressamente che non si fidava di nessun altro. Sembrava terrorizzato, pare che non voglia vedere neanche la moglie. Povera Ginestra, è in ospedale, ma il marito non vuole farla entrare nella sua stanza… Comunque Augusta e Grace sono andate con grande sollecitudine. Speriamo che tornino presto, il tempo sta peggiorando». Odyssea fu contenta che Pericle si stesse ristabilendo. Il pensiero di Ginestra, invece, le suscitava una certa apprensione. Ripensò a quando l’aveva vista in giardino… di cosa le aveva parlato? Di api? Un sussulto le assaltò lo stomaco. Api? Insetti? Insetti-incubo? Ginestra? Un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente. Un sospetto, che non le piacque. Qualcosa di inquietante in cui Ginestra aveva un ruolo. Raggiunse il camino murato e in un secondo fu al di là. *** Ritrovarsi in quel gelido anfratto, dove l’ultima volta qualcosa di ignoto in agguato nell’oscurità le aveva ferito il braccio, la fece sentire insicura. Ma non poteva fare altrimenti. Se Ginestra era ancora in ospedale, lei doveva approfittare di quell’assenza. S’inoltrò nel cunicolo e avanzò per alcuni metri, pensando intensamente alla camera da letto dei Thomasson. Il varco si materializzò in un batter d’occhio e, sfiorando la superficie vetrosa della lampada spenta, si ritrovò nella stessa stanza che aveva già visitato. Dove doveva cercare? Si accostò alla finestra e la aprì di uno spiraglio. Un odore di chiuso aleggiava nell’aria, e ogni cosa appariva al proprio posto, in perfetto ordine. Si spostò vicino alla cassettiera davanti al letto e la ispezionò cautamente. Il contenuto però non le rivelò nulla di particolare. C’erano capi di biancheria e camicie e sciarpe e guanti e calze. Nulla che non dovesse essere lì. Allora si avvicinò ai comodini. Aprì quello di sinistra e intuì che fosse quello di Pericle. Dentro c’era solo una piccola pila di fazzoletti e una bottiglina di acqua di colonia. Nello spazio aperto sotto il comodino c’erano diversi libri, alcuni simili ai tomi preziosi che gli erano stati consegnati a scuola il giorno dell’aggressione. Quando aprì il comodino di destra, invece, Odyssea rimase stupita. I foulard erano appallottolati, i fazzoletti parevano una montagnola di stracci, e altri oggetti erano infilati alla rinfusa. Le parve molto strano. Quel cassetto in subbuglio faceva a pugni con la compostezza e con l’ordine del resto della camera. Subito dopo, mentre rovistava, la sua mano sfiorò qualcosa di solido. Nel vedere di cosa si trattava, soffocò un grido con la mano. Era l’agenda di suo padre! Quella notte con Lindia e Stylo era stata così presa dalla necessità di non farsi scoprire e di allontanarsi al più presto, da non prestare attenzione ai dettagli. Aveva guardato, ma non aveva visto. Aveva notato che Ginestra teneva un libro aperto in mano, come se lo avesse letto fino a poco prima. Ma non lo aveva riconosciuto. La cara, buona Ginestra… con quegli occhi folli… con le mani tremanti e la voce stridula… la cara Ginestra doveva conoscere l’Idioma Remoto. Improvvisamente sentì il bisogno di andare via da lì. Fu nella galleria con un balzo, si appoggiò alla parete concava e inspirò con l’agenda stretta in mano. Quasi subito una sensazione di pericolo le agguantò le ossa. C’era un altro respiro nel tunnel, non era solo il gocciolio dell’umidità. Qualcuno si avvicinava da un’altra diramazione. Inizialmente le sembrò che giungesse da dietro, poi fu certa che giungesse di fronte. La sicurezza con cui poco dopo capì che aveva origine di lato la lasciò esterrefatta. Lo stesso respiro selvatico proveniva da ogni punto del tunnel. Poi, tutt’un tratto, quei respiri smisero di essere misteriosi fiati nascosti e si trasformarono in misteriose strida tonanti. Il labirinto di cunicoli rimbombò di versi aspri, come di un branco di animali che si disponga intorno alla preda per assalirla. Le parve di non poter andare da nessuna parte. Le bestie la circondavano e le loro grida le martoriavano i timpani e le risuonavano tra le costole. Strinse l’agenda al petto e corse per qualche metro, col fiatone, accecata dal buio e dalla paura. Le grida andavano a battere sulle pareti del cunicolo e rimbalzavano in migliaia di ripetizioni assordanti. Poi, cessarono. Quando l’eco lentamente si riassorbì, emerse un pesante frastuono, come di grosse zampe che affondavano nella melma. Che strano. Aveva avuto l’impressione che migliaia di esseri la circondassero con migliaia di voci, mentre ora il branco sembrava essersi ritirato e le falcate possenti di un’unica creatura si predisponevano a inseguirla. Forse poteva farcela. Allungò il passo, visualizzando la parete di pietra che sbarrava il camino. Sentiva il respiro della creatura sul collo, l’odore di muffa che impregnava la galleria. Fu un attimo. Quando finalmente sfiorò il muro sprofondando dall’altra parte con tutto il corpo, udì saettare qualcosa nell’aria dentro il tunnel. Rimase immobile col cuore in gola. Poi salì velocemente le scale e raggiunse la sua camera, con l’agenda ancora stretta al petto. Era certa che lì dentro vi fossero tutte le spiegazioni. Ripensò al racconto di Joyce e al ritrovamento dell’onice. Il sigillo di Squartavene. Il gioiello maledetto che egli donava con l’inganno ai puri di cuore per renderli suoi schiavi, ma che era anche il marchio dei suoi seguaci. Se partiva dal presupposto che la pietra non fosse appartenuta a suo padre, ma che lui l’avesse solo sottratta al suo vero possessore, allora dov’era la montatura? Improvvisamente una folata di vento fece tremare la finestra e in quello stesso momento la pendola si animò: un affollarsi di nuvole nere si spostavano veloci, velando in pochi minuti ogni ritaglio di cielo. Fagola era stranamente uscita e si accarezzava le ali color polvere. «Ciao, bellissima», le sussurrò Odyssea, bisognosa di confidarsi. «C’è qualcosa di molto brutto in tutta questa storia. Ho paura… Non mi piace questo tempo. Spero che la mamma e la nonna siano di ritorno al più presto. Quando saranno qui, dirò loro ogni cosa. Dell’onice, degli incubi e soprattutto di Ginestra. Se solo… se solo fossi riuscita a trovare la montatura d’oro della pietra! Se solo potessi andare a parlarne con Jacko… dividere con lui quest’angoscia…» Fagola cantò ma, come quando le aveva fatto coraggio nella vasca da bagno, anche ora le sue rime si fecero più brevi, come se avesse urgenza di parlare e non potesse aspettare. Brutto tempo, mia bambina non mi piace il temporale scappo nella mia casina perché ciò mi fa assai male. Tu mi parli di tristezze e mi duole tanto il cuore a saper che di amarezze soffre già il tuo primo amore. Ma se d’oro stai parlando forse posso accontentarti nella casa vo cercando ciò che poi verrò a donarti. Così dicendo, la farfallina sparì nella pendola. Odyssea rimase a osservarla dal letto, col cuore in perpetuo allarme, speranzosa ogni istante di udire il passo lieve di sua madre oltre la porta. Dopo poco, Fagola tornò. Ciò che la colpì immediatamente fu che indossava una coroncina d’oro intorno al capo, e tale ornamento la rendeva assai buffa, poiché le pendeva da un lato come un berretto troppo largo. Al centro della corona c’era una specie di sigillo rotondo. «È il segno distintivo di voi farfalle?» le chiese sorridendo, benché l’ansia non avesse cessato di farla sentire irrequieta. Fagola cantò di nuovo: Io ti dono con sollievo il gioiello che tu vedi sono anni che lo avevo ma non è come tu credi. Non è un marchio né un’insegna né corona o berrettino né diadema di chi regna né fascetta o cordoncino. Io non so che cosa sia lo trovai nella tempesta quando il vento in casa mia mi confuse un po’ la testa. Quando il tuono entrò improvviso e la pendola si mosse mi sottrasse pure il riso e mi strangolò la tosse. Che paura ebbi quel giorno mi trovai non so più dove e la strada del ritorno mi sembrò che fosse altrove. Un silenzio assai possente mi lasciò lì senza fiato solo i tuoni poi più niente e io avevo assai vagato. Poi che tutti li ebbi visti pria la mamma con la figlia poi il papà con gli occhi tristi mi restò la meraviglia. Nella stanza giù da basso in sul marmo blu oltremare vidi questo oggetto lasso e laggiù provai a volare. Era insieme ad un macigno grande buio dirompente cupo lucido e ferrigno per cui non ne feci niente. Portai via la coroncina ornamento più leggero ed è lì dalla mattina del mio volo forestiero. Nella pendola la tenni tanti lustri son passati non ne feci neanche cenni né questi anni li ho contati. Mai nessuno l’ha cercata anzi ho avuto l’impressione che l’avessero scordata con maggior soddisfazione. Ora a te voglio donarla già che tu mi parli d’oro sui tuoi palmi vo a posarla perché tu sei il mio tesoro. Fagola chinò leggermente il capo e la coroncina, o qualsiasi cosa fosse, cadde nella mano di Odyssea. Poi, quando le folgori tornarono a scaricare sul giardino illuminando il cielo come un tetro fuoco d’artificio, si rifugiò rapida e atterrita nella pendola. Odyssea rifletté febbrilmente su ciò che la farfallina le aveva detto. Fagola si era ritrovata spaventata e spaesata in un luogo della casa che non conosceva ed era stata attratta da qualcosa sul pavimento. Possibile che… che fosse accaduto proprio quella notte? Dodici anni prima? Fagola aveva visto sul pavimento dell’ingresso il sigillo di Squartavene? E ne aveva portato via la parte dorata poiché la pietra era troppo pesante per lei? Ciò che aveva cercato per mesi, ciò che le avrebbe consentito di capire subito ogni cosa, era stato in quella casa da sempre? Odyssea osservò con attenzione quel cerchietto d’oro. Non era una collana, dunque, come aveva creduto. Era un anello. E quello che sulla testina di Fagola le era sembrato una coroncina era in realtà l’incastonatura dove aveva trovato posto la pietra. Al centro c’erano due piccole punte dorate, probabilmente destinate a inserirsi nei minuscoli fori dell’onice, ma se quello era il gioiello che cercava, allora doveva esservi inciso il nome di colui che lo aveva posseduto. La facciata esterna appariva ancora lucida e pulita. Ma l’interno era opaco, come se il tempo vi avesse spennellato una spessa patina di polvere. L’incisione s’intuiva soltanto, ma non era possibile leggerla. Provò a grattarla con le unghie, ma fu inutile. Se solo avesse potuto leggere… Se solo quell’oggetto le avesse mostrato i suoi segreti… Strinse l’anello nel pugno e le parve che quello pulsasse come un grosso insetto che si dibatta. Allora strinse con maggiore forza e chiuse gli occhi. Un calore strano cominciò a propagarsi nella sua mano e si radunò in un unico punto, al centro del palmo, dove l’insetto d’oro vibrava. Dopo poco il calore si fece insopportabile, e Odyssea spalancò il pugno emettendo un lamento. L’anello era rovente e luccicava come un marchio infuocato. Allora lo afferrò con l’altra mano, con il cuore in gola. Nella facciata interna era inciso a chiare lettere un nome. E finalmente lesse quel nome. L’EREDE DI SQUARTAVENE Odyssea attraversò la tempesta stringendo la mano di Joyce. Il vento s’era levato travolgente e trascinava gli scrosci sulle facciate delle case. Il cielo coperto pareva un catino pieno di cenere. Joyce era avvolta in una mantella e portava un cappello, ma l’acqua le era penetrata anche negli occhi, e non c’era un solo punto del suo corpo che non fosse fradicio. I capelli di Odyssea, schiaffeggiati dalle raffiche, le sbattevano sul viso come frustini bagnati. Nella tasca della giacca aveva messo l’agenda di suo padre. Odyssea strinse più forte la mano dell’amica. Quando l’edificio con un grosso batacchio a forma di serpente attorcigliato apparve davanti a loro, si precipitarono verso la porta ed entrarono lasciandosi dietro il fragore del temporale. Odyssea si guardò intorno. C’era un corridoio di marmo, lungo e ampio, illuminato dal fioco bagliore di lampade rotonde, disposte in fila al centro del soffitto. Vicino a loro, all’inizio dell’androne, una larga vetrata dava su una stanza tappezzata di armadietti. Non c’era nessuno, perlomeno a prima vista, ma, avvicinandosi e scrutando meglio, Odyssea e Joyce rabbrividirono: seduta a un tavolo, una donna era riversa in avanti, col busto e il volto completamente abbandonati, e un braccio sporgeva da un lato, troppo immobile e troppo pendulo. Forse era svenuta, forse era morta. Odyssea si ricompose per prima e mentre Joyce stava per gridare le tappò la bocca e la guardò con occhi severi. Joyce ammutolì e si coprì le labbra con entrambe le mani. Avanzarono, attratte da una luce più intensa che proveniva dal fondo. Sembrava che il freddo aumentasse, come se l’edificio fosse un colabrodo trapassato da migliaia di spifferi. Odyssea gettava rapidi sguardi nelle stanze buie ai lati, scorgendole deserte e silenziose. Quando furono a pochi metri dall’ultima, percepirono un intenso fragore che giungeva da dentro. «Non ti muovere da qui», intimò Odyssea all’amica che appariva atterrita e teneva le mani congiunte davanti al petto come una suora in preghiera. Ormai ne era certa, da lì doveva proseguire da sola. Inspirò profondamente e spinse la porta socchiusa. Via via che l’uscio si apriva, i rumori diventavano più nitidi e più tumultuosi. Quando la spalancò del tutto, una luce accecante la costrinse a strizzare le palpebre. L’attimo in cui si chiusero ritardò di un secondo la visione di quanto sarebbe stata costretta a vedere comunque. Era ancora l’interno dell’edificio. A terra lo stesso pavimento di marmo bianco e da un lato, accatastati uno sull’altro, mobili rotti che formavano una collinetta. E, benché fosse dentro, tuttavia era fuori. La parete di fondo era scomparsa. La stanza affacciava su una strada flagellata dalla pioggia, e migliaia di fuochi ardevano nonostante l’acqua, creando un panorama terrificante di buio e luce. Il vento infuriava scrollando le fiamme, ingigantendole a ogni soffio malgrado le sferzate del temporale. Odyssea avanzò e le sue scarpe naufragarono in un’enorme pozza cosparsa di roghi vivi, come una distesa di petrolio incendiata. I letti e le sedie tutt’intorno erano ridotti in brandelli e sembravano cadaveri in una pira. Allora, con la voce invasa dal fumo, chiamò sua madre e sua nonna. All’inizio gridò per invocarle, poi gridò perché le vide. In fondo vide due figurette vicine, spalla a spalla, legate insieme da una fune invisibile, così congiunte che le loro teste parevano quasi fuse, come se condividessero un unico collo. Erano sospese in aria ed erano svenute. Odyssea scattò per raggiungerle, quando… lo vide. Indossava ancora la tenuta dell’ospedale, un bizzarro pigiama bianco e giallo e scarpe di tela. Era in piedi, e la fissava con occhi allegri, come se vederla gli procurasse una gioia improvvisa. La sua faccia aveva qualcosa di diverso, che Odyssea non colse subito. Accanto a lui, steso sul pavimento, c’era un corpo supino. Ginestra. Pericle sorrise ancora con quei gai occhi innocenti. «Sono contento che tu sia venuta. Se non l’avessi fatto ti avrei mandata a chiamare.» «Le lasci andare!» gridò Odyssea indicando le due donne appese. «Lo farò, non temere, se tu me lo consentirai.» «Ho trovato l’onice e ho trovato la montatura, c’è il suo nome inciso, signor Thomasson.» «Sapevo che ci saresti riuscita. E ora finalmente sai che sono io l’erede di Squartavene.» Il ghigno sul suo viso si andava allargando sempre di più, mostrando una fierezza crudele. «Dodici anni fa fui costretto a recarmi con gli altri maghi sul Monte Basto. Come potevo evitarlo? Avrei generato sospetti… Però, a te l’onore di sapere che il mio straordinario progenitore non è mai stato davvero sepolto nell’Antro! E tuttavia, ebbi la furbizia di suggerire a quegli stolti di usare un Incantesimo di Prigionia, sottoposto a una condizione assolutamente soddisfacente… Ma era solo un diversivo, un divertimento! Lui era già libero, è stato libero per tutti questi anni, nascosto abilmente, in attesa del tuo ritorno!» «E se non fossi tornata?» «Sarebbe stato un bel problema, rintracciarti là fuori era abbastanza difficile. Ma confidavamo che, se il terrore aveva allontanato te e tua madre, forse il terrore vi avrebbe riportate indietro. La paura non fa mai compiere le scelte più sagge. Fui molto bravo a blandire la cara Augusta. Le dicevo spesso di farti tornare, che non eri al sicuro. Come poteva non fidarsi del consiglio del buon Pericle? Così disinteressato, così gentile, così pieno di buone parole per tutti. Fingere di averlo liberato fu solo una tattica. Purtroppo, lui non possedeva più la forza di un tempo. Era indebolito. Così, quando decideva di comparire aveva bisogno di un corpo e io gli offrivo usbergo e protezione. Quando agiva senza di me era una specie di fantasma, ma dentro il mio corpo diventava di carne. Che onore…» Odyssea lo fissò orripilata. Pericle parlava con voce euforica, sembrava invasato, ma la sua espressione soave rimaneva intatta, stampata sul medesimo sorriso a bocca chiusa. Continuò a raccontare, come se volesse metterla al corrente di ogni cosa. «Ma tu, com’era possibile che tu avessi così tanto potere? Come avevi potuto ferirlo così duramente quella notte, pur avendo solo quattro anni? Com’era possibile che riuscissi a sfuggire a qualsiasi aggressione nonostante fossi solo una ragazzina? Da quando tornasti tutti gli attacchi furono mirati a conoscerti e logorarti, volevamo capire fin dove potevi arrivare con le tue forze e volevamo che ti sentissi perseguitata… sempre… in ogni momento… che non riuscissi a dormire senza sentire l’odore dell’inferno. Fingere che lui stesse cercando di vendicarsi sterminando i sei maghi che lo avevano imprigionato nell’Antro fu un vero colpo di genio… In quel modo tu ti saresti sentita più sicura e meno guardinga, e più propensa a sostenere la Verifica. Riuscimmo a turlupinare anche le Manguste Guardiane. È stato un depistaggio così semplice…» «Non possiamo parlare dopo che le ha lasciate andare?» lo implorò Odyssea. Pericle scosse la testa senza smettere di sorridere. «No, loro fanno parte del mio piano! Loro sono il mio richiamo nella battuta di caccia!» «L’agenda di mio padre…» mormorò Odyssea, mettendo istintivamente una mano sulla tasca. Pericle la interruppe: «La presi io. Quel giorno nel mio ufficio all’inizio tu non lo vedesti, poiché era incorporeo. Simulare un’aggressione è stato facile: una ferita, un po’ di sangue, lo svenimento e poi lo shock… Credi che l’erede di Squartavene non potesse ordinare al proprio corpo di fingersi inerte? Che non potessi ordinare al sangue di scorrere così lentamente e al cuore di battere così piano da apparire quasi morto? E poi, uscire dalla scena è la soluzione migliore per continuare ad agire indisturbati. Chi mai sospetterebbe di Pericle che per giunta è in un letto d’ospedale? E quando ti avvicinasti a me e lasciasti cadere il tuo prezioso zaino, dentro c’era l’agenda: non fu difficile prenderla e nasconderla nell’ufficio quando hai perso i sensi per qualche istante e poi tornare mezzo morto… Chi ti trovò raccolse lo zaino, che ormai era vuoto». «Mio padre sospettava di lei, vero?» «Il mio caro vecchio amico, c’era qualcosa che cominciò a non convincerlo quando eravamo adolescenti. Ma fu dopo il matrimonio che divenne sempre più strano nei miei confronti, non aveva prove ma solo sensazioni. Ne convengo, già allora i suoi poteri erano notevoli, non disgiunti da un discreto sesto senso. Ma io non facevo nulla di davvero allarmante, mi limitavo a fomentare la devozione alle forze oscure in modo subdolo e astuto, donando l’onice nera abilmente camuffata ai soggetti che ritenevo più fragili e suggestionabili. Ma la mia immagine pubblica era quella di un giovanotto serio e posato e anche un po’ ingenuo. Non indossavo l’onice in pubblico. E nonostante tutto, tuo padre era guardingo. Sapevo che annotava tutte le sue riflessioni su quella maledetta agenda, ma come potevo sottrargliela? Lui non era un’innocente ragazzina fiduciosa, non l’avrebbe lasciata cadere inavvertitamente nemmeno in punto di morte.» «Lo avete ucciso! Perché? Vi spaventava la sua grandezza?» «Nulla spaventa Angus Ziggart o il suo erede!» Pericle sembrava profondamente seccato da quella ingiuriosa illazione. «Le ragioni erano diverse… Però… sempre meglio eliminare i nemici, non credi? E non c’è modo migliore di sconfiggere un nemico che fingere di essergli amico e pugnalarlo alle spalle.» «E Charlie O’Donnell? Avete pugnalato alle spalle anche lui?» «Charlie era un gran ficcanaso. All’epoca quell’idiota di Hamlet Angel mi dava una mano a sistemare, senza destare troppi sospetti, i maghi che manifestavano eccessiva avversione per le forze oscure. Non avevamo bisogno di persone che remassero contro. Il solido giudice Angel fu ben lieto di mandare all’esilio Charlie O’Donnell! C’era un’antipatia innata tra quei due. Hamlet Angel è un mago di infimo ordine e invece O’Donnell aveva notevoli poteri. Hamlet non ha mai saputo realmente perché il buon Pericle lo esortasse a essere così duro… Non che io abbia mai detto una sola parola che potesse incriminarmi, giusto qualche consiglio che assecondasse e coltivasse la sua invidia e la sua sete di vendetta. Ma all’apparenza è stato lui a fare tutto, non c’è stato neanche bisogno di soggiogarlo, era già soggiogato dal suo complesso di inferiorità e dalla sua rabbia, al punto che mi scrisse alcune lettere in cui esprimeva un rancore assoluto nei confronti di Charlie e si compiaceva del lavoro svolto.» Sul volto di Pericle apparve il disprezzo, ma nemmeno uno straccio di rimorso. «Però credo che di recente abbia iniziato a sospettare qualcosa. Quando la Verifica non ha funzionato, probabilmente si è chiesto come mai il caro Pericle l’avesse caldeggiata per così tanto tempo, come mai ne avesse condotto a termine gli studi senza essersi mai accorto che la Giada era pericolosa… Tuo padre se ne era accorto invece, ma non fece in tempo a dirlo in giro. Appena possibile mi occuperò anche di Hamlet. Sarà un gioco da ragazzi togliere di torno quel codardo.» «Lei… ha ingannato Breta O’Donnell…» «Quella ragazza… la convinsi che ero innamorato di lei, le donai l’onice come pegno d’amore. Allora ero un bell’uomo e non ero ancora sposato. Tuttavia, Breta O’Donnell… che ragazza deludente! Osò perfino reagire nonostante l’onice! L’ultima notte, quando ci incontrammo nella Foresta Tenebrosa, quando il mio magnifico avo si cibò della sua sciocca ancella che aveva osato ribellarsi, c’era anche tuo padre. Mi vide, e in un lampo sul suo viso colsi tutto il disgusto e l’orrore e la conferma dei sospetti che aveva nutrito… Un grande uomo tuo padre, peccato che abbia sprecato la sua grandezza. Fui io, dopo, a diffondere la notizia della complicità di Breta. Anche il pettegolezzo può contribuire all’annientamento…» Odyssea inghiottì una zaffata di fiele. Sentire quella voce, così trionfante, così squisita, riferire cose tanto spietate, come se stesse recitando una tenera filastrocca, le procurò una raffica di conati. Non meritava alcun rispetto. Quanto male era celato in quell’uomo apparentemente innocuo… mai come in questo caso il monito non fidarti delle apparenze le sembrò tanto appropriato. Pericle Thomasson era come l’ortensia nel giardino della nonna, un involucro delicato che custodiva una natura velenosa. «Hai ucciso mio padre, maledetto!» gridò. «Riuscii a farlo solo perché lui abbassò la guardia per qualche istante. Lo raggiunsi in casa, lo supplicai, sono stato soggiogato gli dissi, lo pregai di aiutarmi, di salvarmi. Te l’ho già detto, quando vuoi uccidere il tuo nemico devi prima essergli amico, e quando si fiderà di te, quando il sospetto cederà il posto alla compassione, quando ti concederà il beneficio del dubbio, allora potrai rovinarlo. E lo uccisi, sì… Ma quando mi precipitai a inseguire te, tu avevi già aggredito il mio avo ed eri fuggita nel Mondo-altrove!» mormorò con asprezza. «Basta!» Odyssea si coprì le orecchie con le mani. «Basta! Cosa vuoi?» L’ira la accecò per un attimo. Stava per assecondare l’istinto di colpirlo, ma si rese conto che avrebbe potuto ferire sua madre e sua nonna. E capì che lui le aveva lasciate lì, in mezzo alla scena, esattamente per quello scopo. «Non te lo consiglio, mia cara. Non vorrai fare del male alle nostre carissime Grace e Augusta? Non credo tu sia ancora in grado di controllare così bene i tuoi poteri da evitare di colpire anche loro… Stai tranquilla, non sanno nemmeno di essere appese lì, quando sono arrivate ero mezzo moribondo e le ho annichilite, come ho fatto con l’intero ospedale. Quando si sveglieranno troveranno un po’ di disordine, è vero, ma il povero Pericle sarà ferito così crudelmente che lo penseranno ancora vittima, e tu sarai morta. Povera ragazzina… piangeremo un po’ la tua scomparsa, ma andremo avanti per creare un mondo migliore… un mondo in cui non ci sia posto per gli oppositori ai nobili poteri oscuri, in cui la magia nera s’insegnerà anche nelle scuole. Un mondo in cui l’eletto non sarà più costretto a togliere dalla circolazione tutto ciò che in qualche modo lo colleghi al suo magnifico avo. Un mondo in cui io non dovrò nascondere il segno del comando sul mio volto!» Odyssea capì allora perché nel vederlo aveva avuto la sensazione che vi fosse qualcosa di diverso. Pericle Thomasson era senza barba e il suo viso burroso pareva ancora più pingue. Accanto al mento, al centro di una profonda fossetta, un neo ben marcato pareva uno schizzo bruno di pittura. Lo fissò con aria perplessa. Poi gli chiese: «I libri… li hai fatti sparire tu? Sei entrato nella soffitta di mio padre? E perché non hai preso l’onice, allora?» «Eliminare tutti i libri fu un eccesso di zelo. Ma temevo che Charlton potesse comunque risalire alle mie origini. Era molto più intelligente della media e non era ancora tempo che si sapesse dei miei nobili natali. Tuo padre sarebbe stato un ottimo seguace!» Rise. «Sapevo che l’onice era dentro lo scrigno, ma non era così accessibile. Credo che Charlton l’avesse protetto con un sortilegio che ne consentiva l’apertura solo a coloro che erano animati da sentimenti d’affetto. Evidentemente il mio cuore non era abbastanza affettuoso.» In quel momento, accanto a lui, Ginestra si mosse. Emise un debole lamento e aprì gli occhi. Pericle la fissò con sguardo ardente ma, al di là della patina di mite benevolenza, c’era qualcosa di spietato. «Non sarai l’unica a morire in questa epica battaglia, anche la mia adorata consorte seguirà il tuo triste destino. Quale perdita, quale dolorosa privazione, la mia compagna di vita… Dopotutto una moglie, specialmente quando è così anonima e convenzionale, conferisce una certa credibilità. Ma una moglie che non è in grado di darti dei figli, a cosa serve? Ho cercato di persuaderla a collaborare, l’ho convinta ad andare a scuola a prendere l’agenda che avevo nascosto in un posto sicuro, l’ho costretta a liberare nel tuo giardino un piccolo sciame di Insetti-incubo. A proposito, la cara Augusta dovrebbe fidarsi un po’ meno del suo prossimo. Gli incantesimi a protezione degli ingressi sono di una banalità incredibile. Comunque, Ginestra mi aiutava, ma era così noiosa quando veniva a trovarmi, e scovava sempre il modo per esasperarmi. Peccato non avere avuto un’onice nera a portata di mano per convincerla meglio: l’ultima pietra viva, la mia, il mio sigillo, me la strappò tuo padre dal dito prima di morire e la strinse così saldamente che non mi fu possibile sottrargliela. C’era così poco tempo… Se Augusta fosse comparsa avrei dovuto uccidere anche lei. Mi sarebbe dispiaciuto.» «Fuggisti dal camino, è vero?» «Complimenti, ragazzina, ciò significa che hai scoperto il passaggio, e il fatto che tu riesca a passare da lì è un segnale ulteriore. Sei fin troppo forte, devi essere eliminata prima che sia troppo tardi.» «Perché tanta fretta? Per cosa dovrebbe essere troppo tardi?» «Perché stai crescendo, diventi ogni giorno più forte… ma la vera ragione è un’altra… Te la dirò sottovoce, tanto non potrai rivelarla a nessuno… Sai cos’è il terzo potere? Sì che lo sai, non puoi ignorarlo. Il potere di varcare il tempo. Lui lo domina in modo straordinario, ti assicuro, molto meglio di quanto la più fervida immaginazione possa suggerirti, però purtroppo anche lui è soggetto alle sue regole. Tuttavia, non resistette alla necessità di conoscere il proprio futuro. E sai cosa vide? Qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere, qualcosa che lo riempì di rabbia e di rancore e di sete di vendetta… Vide se stesso… l’immortale… l’eterno… ucciso da una ragazzina… una ragazzina di quindici anni.» Odyssea lo fissò esterrefatta. C’era qualcosa che non tornava. Un lampo le rischiarò i pensieri, e le fece sobbalzare lo stomaco. «Non sono io!» gridò fino a sgolarsi. «Io ho già sedici anni e non ho ucciso nessuno… È tutto un errore!» «Oh…» La voce di Pericle divenne flautata. «Lo so benissimo… Tu sei forte, più del previsto, tanto forte da resistere ai suoi attacchi, ma non abbastanza da annientarlo. Dopotutto Charlton era un mago eccellente, ma Grace è una strega di infimo rango, priva dei poteri più elementari. L’unione con tua madre ha fatto di te una strega potente, pericolosa, ma non la predestinata. Non colei che avrebbe potuto ucciderlo. E comunque non è te che egli vide nel suo futuro… ma tua figlia!» Pericle fece una pausa eloquente. «E allora, ne convieni, fu il caso di attivarsi in tutti i modi per eliminare ogni possibilità che quella ragazzina nascesse! Risolvere il problema a monte, sradicare la pianta per impedire che germogliasse… Già lui ci aveva provato, ma la mia collaborazione divenne essenziale. Sterminare ogni membro della tua famiglia che potesse condurre a quella nascita fu il nostro unico obiettivo. Ma naturalmente non era il solo fronte sul quale dovevamo agire. Non era sufficiente darsi da fare per togliere di torno te. Per impedire che quella bambina nascesse era necessario colpire anche colui che, unendo il suo sangue al tuo, avrebbe prodotto tanto scempio nelle nostre vite. Il figlio di Charlie O’Donnell e la sua famiglia prima di lui.» Se le fiamme non fossero state così alte e roventi da averle arrossato il viso, se la paura e la preoccupazione non le avessero tolto la voglia di scherzare, Odyssea sarebbe scoppiata a ridere. Pericle Thomasson stava seriamente parlando della figlia… sua e di Jacko? Non era possibile, era la cosa più assurda che avesse mai sentito. Ed era per questo che avevano tentato di ucciderlo quando era piccolo? «Ma non riuscimmo a uccidere nemmeno lui», continuò Pericle. «Vedi, la vera ragione per cui persuasi Hamlet a rovinare Charlie fu toglierlo dalla circolazione per evitare che quel dannato bambino venisse concepito e invece anche in quel caso fu troppo tardi… Ecco perché scelsi di soggiogare Breta, per farmi consegnare il suo fratellino, ma lei si ribellò. Sembrava che il destino dovesse compiersi comunque. Farti tornare a Wizzieville era un rischio, perché ti avrebbe messo nelle condizioni di incontrare quel ragazzo, ma era necessario. Comunque, ora sei qui e ogni cosa andrà per il verso giusto.» «Cosa… cosa vuol dire?» «Purtroppo c’è qualcosa in te e in quel maledetto Jacko che vi sta proteggendo da molto prima che nasceste. Abbiamo la sensazione che uccidervi, senza ricorrere a qualche piccolo aiuto, non sia possibile. È il destino, purtroppo! E il destino può essere mutato solo per scelta della persona interessata! Cercare di cambiarlo con la forza è inutile anche se a volte è così piacevole, così irrinunciabile, e dà una tale scarica di adrenalina… Tuttavia, provare a ucciderti non è servito a niente, quindi ora dovrai scegliere tra la tua vita e…» si voltò di scatto verso Grace e Augusta, scagliando una fiammata vicino ai loro corpi, «la loro.» Odyssea si sentì invasa dall’orrore. Quel mostro, consapevole di non poterla uccidere in un combattimento leale, aveva scelto una lotta senza esclusione di colpi. Voleva barattare le vite della mamma e della nonna con la sua. Cercò di non pensare al fatto che era solo una ragazzina di sedici anni davanti alla bocca dell’inferno. Cosa poteva fare? Stavolta era diverso. C’erano quelle due figure sbattute dal vento e sfiorate dal fuoco, assolutamente ignare, assolutamente indifese. E Jacko non era con lei. Non avrebbe potuto aiutarla. Non sapeva nemmeno dove fosse. Era uscita da casa in fretta e furia, ed era stata costretta a farsi accompagnare da Joyce perché ignorava dove si trovasse l’ospedale. Sperò che almeno Joyce fosse al sicuro. Pericle rise come un pazzo, e del pazzo possedeva ogni segno, gli occhi spiritati, il ghigno, la voce cantilenante, le esplosioni di collera. Quindi, senza abbandonare quell’implacabile allegria, sollevò Ginestra. Questa rimase sospesa per qualche attimo in aria, coi vestiti tesi intorno al corpo come un sudario intorno a uno scheletro. Si mosse appena, alzando le braccia e scuotendo il capo. Odyssea intuì le intenzioni di Pericle un secondo prima che lui le mettesse in atto. Quando vide la donna volare verso le fiamme e le fiamme volare verso di lei e avvolgerla, in un reciproco abbraccio, Odyssea gridò, e la attrasse verso di sé. Le spoglie incandescenti di Ginestra la raggiunsero come se le avesse tirate con una fune, ma di lei era rimasto ormai solo il contenuto, poiché l’involucro era una torcia. Spense le fiamme e si chinò sul suo corpo senza sensi: le gambe erano arse e sanguinanti. Dovette distogliere lo sguardo da quella scena raccapricciante. Avrebbe voluto piangere e urlare fino a non avere più voce, ma non poteva permetterselo. Non adesso, non ancora. Una lacrima, appena sgorgata, le si asciugò sul viso. Fissò Pericle con odio. «Ti consiglio di non fare sciocchezze», squittì lui. «Vedi come sono vicine le nostre care Grace e Augusta? Posso quasi sfiorare i capelli della tua bellissima mamma», spiccò un balzo e rimase sospeso, intento a toccare i boccoli di sua madre con un atteggiamento lascivo che le diede il voltastomaco. «Lasciala stare!» gridò. Se solo avesse potuto colpirlo in qualche modo… se solo lui non le avesse usate come scudo… Pericle tornò a terra. Per un attimo le parve che parlasse da solo, borbottando a bassa voce parole confuse. Poi annuì più volte, e si girò verso di lei puntandole addosso due occhi totalmente folli. In quel momento accadde qualcosa. Fu come se un’entità invisibile stesse masticando la sua faccia e il suo corpo con mascelle fameliche. I tratti del volto di Pericle si storsero, raggrumandosi e gonfiandosi. Le guance si dilatarono, gli occhi scomparvero, annegati tra le flaccide pieghe del viso, le orecchie divennero grumi di carne informe, la bocca una viscida sporgenza, così pendula che pareva amputata. La stessa cosa accadde al suo corpo. In breve tempo non fu più possibile distinguere alcuno dei lineamenti originari di Pericle Thomasson. E lentamente, da quel miscuglio indistinto, da quella specie di mostruosa creta, lui affiorò. Odyssea vide Squartavene plasmarsi dinanzi ai suoi occhi. Vide il suo mantello emergere dal nulla, e le orbite vuote dove prima c’erano le pupille grigie di Pericle, la bocca attraversata da un ghigno come una ferita. Vide il suo bastone appuntito, stretto in una mano come un prolungamento ad artiglio. «Allora, chi vuoi che uccida per prima?» gridò il mostro, con un vocione rauco e spaventoso. «Lasciale andare…» supplicò Odyssea. «Se vuoi che le lasci andare devi indossare questa. Purtroppo le Giade Catturanti sono sempre così poche, consumano la loro efficacia dopo un uso, e recuperarne una è un vero lusso. Indossala, e poi ti assicuro che potranno piangerti.» Sollevò un braccio e la Giada brillò nella sua mano, come un occhio verde. «Non puoi…» mormorò Odyssea, con voce tanto bassa da essere quasi impercettibile. Squartavene rise e si voltò verso il capestro al quale erano agganciate Grace e Augusta. All’improvviso si produsse un vento furioso. I corpi ondeggiarono con violenza, come se si muovessero obbedendo a un perfido burattinaio. La testa di sua madre oscillò da un lato, slegata e molle come se fosse stata mozzata. «Nooo!» implorò ancora Odyssea. «Fermati! Fermati!» Le lacrime vennero, lacrime di infelicità e di rabbia furibonda. Si sentiva impotente. Cosa poteva fare? Sentiva il cuore come spezzato. Inspirò quel poco d’aria che ancora circolava, e si arrese: «D’accordo…» Squartavene s’immobilizzò e la fissò con brutale intensità. Le fiamme si riflettevano in modo inquietante nel vuoto dei suoi occhi. Fece dondolare nella mano la collana di Giada. Odyssea non distolse lo sguardo. Se doveva morire, sarebbe morta con audacia. Quando vide la collana depositarsi ai propri piedi, si chinò e la prese. «Un po’ di buona volontà…» urlò. «Se le sleghi, io la indosserò subito dopo.» Squartavene rise ancora. Per tutta risposta, una fiamma raggiunse la gamba di sua madre. Vide la sua lunga gonna di cotone prendere fuoco, come inghiottita da un serpente affamato. Gridò con la forza della disperazione: «Spegni quella maledetta fiamma!» E la fiamma si placò. Solo l’orlo della gonna era annerito. Odyssea strinse la Giada nel pugno. Prese quella decisione in un secondo. Mentre Squartavene la scrutava, fece per passarsi la collana intorno alla testa. La pietra le sfiorò la pelle, appena sotto il punto in cui l’altra pietra le aveva lasciato un buco sanguinante e una cicatrice. Quando cominciò ad arroventarsi e a solcare il primo strato di cute, nel momento esatto in cui Odyssea percepì l’inizio del declino delle proprie energie, se la strappò dal petto. Non era ancora penetrata in profondità, ma per staccarla dalla carne a mani nude le occorsero coraggio e disperazione e voglia di vivere. Mentre sradicava quell’orrendo scarafaggio verde, avvertendo l’urlo della pelle che si lacerava, il dolore le s’irradiò nel cervello come una folgore. Nonostante quella sofferenza insopportabile, Odyssea non pensò, agì. Scaraventò la collana verso Squartavene, cercando la forza dentro ogni fibra. Il proiettile viaggiò a una velocità vertiginosa, lo colpì in pieno volto e gli cinse il collo. L’istante, l’unico istante che gli occorse per affrontare il proprio stupore, bastò alla Giada per cominciare la sua rapida scarnificazione e a Odyssea per desiderare che quel maledetto incendio avesse fine. Ogni singolo millimetro di sé, del suo corpo, della sua anima, desiderò che le fiamme si spegnessero e che la pietra completasse la sua opera. E fu esattamente ciò che accadde. L’incendio si smorzò sfrigolando, e la Giada continuò a divorare la carne in cui era conficcata. Eppure… com’era possibile che una semplice pietra avesse la meglio su una creatura immortale? Ben presto capì. Nonostante le proprie mostruose fattezze, Squartavene si serviva del corpo di Pericle come involucro, per questo la Giada stava esercitando su di lui i suoi perniciosi effetti. Quella pietra non avrebbe potuto scalfire Angus Ziggart, ma quello non era completamente Angus Ziggart. Era un reduce, dentro il corpo di un altro. E la pietra stava corrodendo quel corpo con i suoi influssi mortali esattamente come aveva fatto con lei. Per un attimo le due figure appese vacillarono come lampadari durante un terremoto, poi il dondolio prese a scemare. Doveva portarle giù, ma un’altra trasformazione avvenne davanti ai suoi occhi. Per un istante, tanto rapido da lasciarle la sensazione di un abbaglio, le parve che Squartavene sogghignasse, le labbra grigie e secche stese in una smorfia che sapeva di derisione. Subito dopo, avvenne una metamorfosi inversa a quella precedente, e Odyssea vide dissolversi il mantello e il bastone e gli occhi vuoti e quel sorriso insensato e cattivo, e ritornare il viso tondo e anonimo del preside. Vide la Giada conficcata nella sua pelle sgusciare come un rettile. E nello stesso momento, intorno alla testa di Pericle, vide uno sciame di insetti neri che emettevano un disgustoso ronzio compattarsi in una nuvola scura. A mano a mano che si spostavano, a mano a mano che scendevano verso il naso e la bocca e il mento e il collo, Odyssea vide che lo stavano divorando. Vide le ossa del cranio sporgere, oltre i lembi di pelle scorticata e purpurea. Vide le cavità nasali e i denti e la mandibola spalancata in un grido. Con quel rivoltante strepito nelle orecchie, che sembrava il masticare di milioni di bocche, Odyssea si avvicinò alla mamma e alla nonna. Sollevandosi in aria fino a raggiungerle, le sfiorò e quelle planarono sull’acqua. Odyssea si appoggiò al petto di entrambe ma le sembrò di non udire alcun battito. Sembravano morte, assolutamente morte. Cadde a terra, con le ginocchia piegate e le braccia pesanti, immersa nella melma gelida. Pezzi di legno e gambe di sedie e cuscini la sfioravano da ogni parte. Mentre se ne stava immobile, col cuore gonfio di panico, vide che l’acqua si tingeva di rosso. E il rosso gocciolava dalla sua gola, al di sotto della benda. Le parve che tutto il dolore del mondo si concentrasse in quel punto, il dolore della vecchia ferita, il dolore della nuova, il dolore del cuore, appena un po’ più a sinistra, nel vedere che la mamma e la nonna non respiravano. Affondò ancora di più nell’acqua, colò a picco, parve una barchetta di carta che s’inzuppa e si affloscia. Allora sollevò gli occhi e notò che gli insetti avevano quasi ultimato il loro lauto pasto umano. Il grande avo aveva divorato il suo devoto erede. Non gli serviva più, e Odyssea ebbe l’assoluta certezza che Squartavene, pur potendo liberarsi della Giada, avesse scelto di farle terminare la sua opera di distruzione. Anche Pericle era stato solo uno strumento. Lo sciame rimase immobile per un istante, poi si diresse verso di lei. Il ronzio aumentava a mano a mano che la nube si avvicinava. Odyssea si alzò in piedi. Doveva combattere, doveva vivere. Sentì una rabbia infinita che le montava dentro e, nonostante la debolezza, nonostante l’infelicità, fu pronta ad affrontarlo. Lo sciame si disperse e tornò il suo spaventoso domatore. Chissà se sorrideva ancora in quel modo crudele. Non riusciva a vederlo, non aveva più consistenza umana ora che non poteva più albergare nel corpo di Pericle. Ma ne avvertiva la presenza, come se fosse fatto di carne. In quel momento seppe che sarebbe stato sempre così. Fino a che la vita non le fosse sfuggita, o fino a che Squartavene non fosse scomparso, tra loro ci sarebbe stato un legame. Vischioso, nauseante, un cordone pieno di vermi. Ma reale. E lei lo avrebbe sempre percepito, sempre. Ogniqualvolta lui avesse scelto di ritornare, lei lo avrebbe saputo. Il suo odio gli avrebbe fatto da banditore. «L’avrei ucciso comunque», mormorò una voce cupa. «Non ho più bisogno di lui. Vieni qui, ragazzina…» Odyssea indietreggiò. Squartavene la colpì, da lontano, in pieno petto, e quella percossa furiosa infierì ancora sulla ferita che le spaccava la gola. Il corpo di Pericle, una massa indistinta di carne e di ossa sbranate, le sfiorò le caviglie galleggiando, supino, con la bocca aperta e la lingua accasciata tra le mandibole. Odyssea emise un gemito, mentre il cadavere seguiva un altro itinerario, urtava contro altri detriti, seguito da una scia di sangue pastoso. Allora, senza capire perché, Odyssea avvertì la collera di Squartavene, una collera nuova, quasi un disgusto. Se non fosse stato assurdo, avrebbe giurato di averlo sentito lamentarsi. Se non fosse stato assurdo, avrebbe giurato di sentire qualcuno che la afferrava mentre cadeva. Le gambe le cedettero nell’esatto istante in cui qualcuno alle sue spalle la sorreggeva. Era troppo debole, anche solo girarsi per guardare dietro di sé era uno sforzo impossibile. Poi le parve di intravedere qualcosa, qualcosa di molto simile a una mano che afferrava la sua. Le parve di udire una voce lontana che le sussurrava qualcosa all’orecchio: Coraggio, devi aiutarmi. Liberiamoci di questo bastardo. Annuì, mentre il sangue continuava ad abbandonare il suo corpo. Cercò una briciola di energia da qualche parte, dentro, quel magico pensiero felice che le consentisse ancora di volare. Pensò a sua madre che le pettinava i capelli, alla sensazione meravigliosa di cavalcare Levante mentre galoppava nel vento, alla gioia provata la prima volta che s’era sentita parte di una famiglia e aveva scoperto di avere una casa, agli occhi neri e profondi di Jacko e al sublime stupore provato la notte in cui lo aveva trovato addormentato accanto a sé. Si aggrappò convulsamente a questi pensieri. E da una parte remota di sé, sentì fluire un calore quasi dimenticato, un formicolio, un brivido, un sibilo nelle orecchie. Sollevò la mano, insieme all’altra che sembrava non appartenere a nessuno. Odyssea non capì ciò che successe dopo. Non vide il mostro che veniva scagliato indietro ed emetteva un ruggito, e non fu solo perché era evanescente, ma perché i sensi si stavano separando da lei. Non vide che si dissolveva, in modo simile a quella notte tempestosa di dodici anni prima. Non vide la pioggia che cessava di cadere dal cielo. Non vide sua madre e sua nonna che aprivano gli occhi. Non vide Ginestra Thomasson che muoveva piano le gambe ustionate. Non vide il lago, nel quale sprofondava fin quasi al petto, ritirarsi e prosciugarsi e sparire trascinandosi dietro il suo sangue. Non vide il cadavere di Pericle con gli occhi senza pupille rivolti al soffitto e la Giada conficcata tra le costole sporgenti. E non vide chi la stringeva tra le braccia sussurrandole: «Non te ne andare, tieni duro, ti prego». IL MODO STRANO IN CUI SI METTONO LE COSE Sognò di essere ancora nel cimitero di Saint Albans e di chinarsi a raccogliere i papaveri, ma i fiori appassivano e si sbriciolavano e poi si trasformavano in gocce di sangue. Sognò di avere un buco nel petto, che l’attraversava da parte a parte, così ampio che ci si poteva infilare un braccio. Sognò Pericle che strisciava sul marmo e si avventava su Ginestra inghiottendola tutta intera, e poi mutava pelle lasciandosi dietro una scorza vuota fatta di insetti neri. Sognò la mamma appesa a una corda e avvolta in un bozzolo, come un baco o forse come la preda di un ragno famelico. Sognò Jacko che la teneva in braccio e vide le sue mani lorde di sangue e sognò di chiedergli scusa perché lo stava sporcando in quel modo e lo pregò di non farla cadere perché il pavimento era pieno di scarafaggi verdi. Aprì gli occhi e li richiuse subito. Aveva due mezzelune di piombo al posto delle palpebre. Nell’attimo prima che il buio calasse di nuovo come un pesante telo nero, ebbe il tempo di distinguere un movimento intorno a sé, e soprattutto un pullulare di facce. Vide un uomo alto e anziano, con una lunga barba grigia, che si curvava su di lei scuotendo la testa, e la lanugine tremava, stropicciata da una mano ossuta. Le parve che l’uomo, guardandola attraverso un monocolo, dicesse: «Ha perso troppo sangue». Poi le parve di vedere sua madre seduta accanto a lei, e un attimo dopo non era più sua madre ma Joyce con gli occhi gonfi, e poi la nonna pallidissima. Udì altre voci che non conosceva, voci rimescolate, singhiozzi, lamenti, e a un certo punto le parve di scorgere Jacko che si stringeva la testa tra le mani. Infine ebbe la sensazione di precipitare. Come se qualcuno avesse aperto una botola sotto i suoi piedi, sentì che cadeva e cadeva e cadeva. Quando toccò terra la accolse l’ennesima oscurità. «Dove sono?» gridò. Finché, lentamente, davanti a sé, in fondo, vide una luce, un cerchio bianco che via via s’ingrandiva, come l’occhio di un faro, ma sempre fisso in un punto. Aveva freddo, terribilmente freddo, come se al posto del sangue nelle vene le scorresse pioggia gelata. Si toccò le labbra e le sentì dure come pietre. Quella non era una bocca, era un fossile. Avanzò, battendo i denti, e a mano a mano che la luce diventava più vicina, a mano a mano che il cerchio s’ingigantiva, ebbe la piacevole sensazione che il gelo diminuisse e che le sue labbra si ammorbidissero. Avanzò più in fretta, per raggiungere quella fonte luminosa da cui pareva dipendere la sua salvezza. Un senso di quiete la invase e la avvolse come una coperta. Poi, a metà strada tra se stessa e la luce, tra il freddo e il tepore, tra l’angoscia e la pace, riconobbe una figura umana. Suo padre. Era giovane, come nelle fotografie del matrimonio, e la guardava con occhi buoni. Era dall’altra parte del tunnel, dove c’era il calore. Odyssea avvertì un tuffo al cuore e lasciò che le sue gambe accelerassero per raggiungerlo, ma lui allungò un braccio e lo tenne immobile dinanzi a sé, facendole segno di fermarsi. Scosse la testa, e la sagoma di luce che gli faceva da cuscino ondeggiò, proprio come l’occhio di un faro. «Bambina mia», le sussurrò con voce carezzevole. «Vorrei tanto abbracciarti… Ma non è ancora il momento. Tua madre ti aspetta.» Odyssea disse no, ancora no, cento volte no, e continuò a camminare, perché aveva freddo e si sentiva troppo sola. Lì sarebbe stata bene, ne era certa. Con suo padre, e il faro, e la bocca di nuovo soffice. Ma Charlton scosse ancora la testa, e Odyssea seppe che non l’avrebbe fatta passare. «Io sarò sempre con te», le disse dolcemente. «Ma ora devi ritornare a casa.» Odyssea pianse. Le lacrime le strisciarono sulla faccia, ma non se ne accorse, poiché aveva le guance di marmo. Non voleva tornare indietro, era stanca, voleva restare lì. «Devi trovare la forza, bambina mia», mormorò suo padre. «C’è tanta gente che ha bisogno di te.» Charlton Bennet la fissò con occhi strani, lucidi, dolci e trasparenti, quasi fossero fatti d’aria, e Odyssea sentì il bisogno di scusarsi per tutte le cose brutte che aveva pensato di lui. «Papà, non è stata colpa mia, davvero, vuoi perdonarmi?» Lui annuì, sorridendo. Non sembrava avercela con lei, non sembrava che potesse serbare rancore, ma era ansioso di mandarla via. «Sei una ragazza coraggiosa, sono certo che troverai il modo per non avere paura del buio. Torna indietro, vuoi farlo per me?» E in quel momento Odyssea provò un’acuta nostalgia della sua casa, di sua madre, della sua vita. Della sua farfalla che cantava in rima, di Joyce che leggeva libri enormi, in grado di salvare la vita, della nonna che spolverava il cappello dei nani di gesso animati, dell’unicorno bianco in mezzo alla fontana, di Jacko che le metteva i capelli dietro le orecchie e le sfiorava la nuca. Si voltò e il buio la fece rabbrividire. «Ti voglio tanto bene papà», sussurrò con la voce rotta dai singhiozzi. Lui le sorrise ancora e indietreggiò fino a quando la luce non lo ingoiò. Odyssea si girò verso il lato del tunnel che le incuteva paura. Coraggio, si disse, stringi i denti e vai. E andò. *** Aprì gli occhi e vide le tende del letto a baldacchino completamente scostate. Nella penombra tre visi familiari la scrutarono con occhi lucidi. Odyssea provò a dire qualcosa, ma Grace le raccomandò di non parlare. «Dopo, quando ti sentirai meglio», mormorò con voce nasale, come se avesse pianto per infinite ore. «Mamma… sono tornata…» Poi il sonno la rapì di nuovo. Risvegliarsi e sentire il sole sulla faccia fu una sensazione meravigliosa. Era giorno e dalla finestra spalancata entravano tiepidi raggi di luce. Provò a sollevarsi, ma miliardi di fitte, come rasoi conficcati nel petto, glielo impedirono. «Hai una brutta ferita», le disse sua madre. Odyssea sorrise e chiese: «Tu come stai? E la nonna?» «Stiamo bene, la nonna ha una slogatura al braccio e io una lieve ustione, ma niente di più, non preoccuparti. Ora devi pensare a guarire.» «Io… non ricordo quasi nulla… cosa è successo?» «Credo che dovremo mettere insieme i nostri ricordi. C’è un momento a partire dal quale anche nella mia testa c’è un vuoto. Quando tre giorni fa il dottor Balsamus…» «Tre giorni fa? Ho dormito tre giorni?» «Sì», annuì Grace. «Igor Balsamus ci aveva mandato a chiamare. Pericle si era svegliato e voleva parlarci con urgenza. Era molto agitato. Quando siamo arrivate, Pericle era steso sul suo letto ed era molto debole. Non ricordo come, ma ci siamo addormentate, e abbiamo riaperto gli occhi nella stessa stanza in mezzo a un disordine infernale. Non dimenticherò mai quel risveglio… La stanza dell’ospedale era in rovina e tu… tu eri come morta! E tutto quel sangue… Sono stati i tre giorni più terribili di tutta la mia vita.» «E Pericle? E Ginestra?» «Pericle è morto, sembrava divorato da un branco di animali selvatici, e Ginestra è ricoverata. Purtroppo pare non ci siano molte speranze, non ha più le gambe… Joyce ci ha raccontato ciò che avete visto all’inizio, ma non è stata in grado di ricordare altro. E Jacko ci ha riferito quello che è successo dopo il suo arrivo, ma quello che è avvenuto durante, solo tu puoi dircelo…» Odyssea sobbalzò, e quell’impeto le fece girare forte la testa. «Jacko… c’era anche lui?» «Sì, credo sia giunto alla fine, alla fine di qualsiasi cosa sia accaduta. Anche lui era molto preoccupato per te. Non ha voluto allontanarsi finché il dottor Balsamus ha detto che eri fuori pericolo.» Odyssea raccontò, con non poca fatica, ciò che era successo, ciò di cui conservava memoria. S’interrompeva spesso, per riprendere fiato, mentre la ferita al petto palpitava e tirava. A mano a mano che andava avanti, sua madre diventava sempre più pallida e atterrita. «Tu hai dovuto affrontare tutto questo?» domandò. «In ospedale la povera Ginestra ha parlato con alcuni componenti della Guardia Speciale e ha riferito loro di Pericle… Ha detto che aveva paura di suo marito, non sapeva molto, tranne che Pericle era l’erede di Squartavene e che voleva a tutti i costi ucciderti, ma neanche lei ha saputo spiegare il perché di tanto odio…» Odyssea si sentì avvampare. Il ricordo delle spiegazioni di Pericle la fece tremare. Il pensiero della naturalezza con cui aveva parlato di una figlia sua e di Jacko le aumentò vertiginosamente i battiti del cuore. Ovviamente non poteva essere vero. Squartavene aveva sbagliato qualcosa, forse non sapeva padroneggiare il terzo potere così bene come affermava. Ringraziò in cuor suo che Jacko fosse arrivato solo alla fine, altrimenti non avrebbe più avuto il coraggio di guardarlo in faccia senza arrossire. Non avrebbe mai raccontato a nessuno quella grottesca rivelazione. Si adagiò sul cuscino e girò la testa dal lato opposto a quello in cui si trovava sua madre. Grace interpretò quel gesto come un moto di stanchezza e la lasciò riposare. Prima che uscisse, Odyssea le chiese: «Mi rimarranno altre cicatrici, vero?» «Purtroppo resterà qualche segno…» Certo, pensò Odyssea, tanto per aumentare la mia fulgida bellezza. Con quei pensieri, cercando di scacciare tutti gli altri che venivano a galla, si addormentò di nuovo, benché a fatica, poiché a ondate i ricordi la riportavano sulla terra a spintoni. Quando si risvegliò, era ancora giorno. Nella stanza c’erano Joyce e la nonna, quest’ultima con una vistosa stecca gessata sul braccio sinistro. L’abbracciarono, facendo attenzione a non farle male. «Guardala, Augusta, ha le guance un po’ più rosa!» esclamò Joyce. «Sapessi quante persone sono venute a chiedere di te! Credo che tutta Wizzieville fosse pigiata nel nostro salotto l’altro ieri! Lindia ti manda i suoi saluti, era tanto in pena… Ed è venuto anche Jordy, quando gli altri se ne sono andati però, credo si vergognasse un po’, dopo quello che è successo a suo padre…» «Co… cosa è successo a suo padre?» «Sui giornali sono state pubblicate alcune lettere, pare che abbia fatto condannare Charlie O’Donnell pur sapendo che era innocente.» La nonna s’intromise con voce dolente. «La nostra piccola comunità ha vissuto giorni clamorosi. Quello che è successo in ospedale, Pericle, la povera Ginestra, e poi lo scandalo su Hamlet Angel… Credo che avremo bisogno tutti di un po’ di tempo per riprenderci.» «Posso avere una copia di quei giornali?» chiese Odyssea. Augusta e Joyce si guardarono. «Quando ti sentirai meglio, magari», sussurrò Augusta. «Quel caro ragazzo», continuò Joyce. «Quando l’ho visto arrivare in ospedale, era letteralmente zuppo di pioggia, mi ha chiesto dov’eri, sembrava una furia, ma io non sapevo cosa stesse accadendo, non riuscivo ad attraversare la porta, non riuscivo a vedere e a sentire niente. Sono così contenta che suo padre venga riabilitato, l’ho sempre pensato che Charlie O’Donnell fosse un uomo di ottima pasta. Che brava famiglia! Che ragazzo premuroso! Pensa che tutte le sere controlla che ogni ingresso sia ben sigillato, e ha chiuso il cancello del giardino coi suoi poteri. L’ho sempre detto io, buon sangue non mente.» «Certo, Joyce cara», mormorò la nonna con un mezzo sorriso, guardando Odyssea con aria complice. «E ora che riavrà tutti i beni di famiglia, spero che le cose per lui vadano meglio di come sono andate fino a ora. Forse quella snob di Blanca Mou non sarà più tanto contraria a che la figlia gli faccia gli occhi dolci.» Odyssea la fissò. «In che senso… riavrà tutti i beni di famiglia?» «Dopo l’esilio per quei reati così gravi, era stata disposta la totale confisca di tutto ciò che gli O’Donnell possedevano», le spiegò Augusta. «La loro casa, il denaro, ogni cosa. La comunità provvedeva a passare una somma mensile ai figli. Anche per questo abbiamo acconsentito affinché entrambi i ragazzi vivessero qui con noi e ho insistito perché Jacko rimanesse dopo che Breta morì. Ma ora, quando il Supremo Tribunale per la Revisione e Riparazione degli Ingiusti Processi accerterà i fatti, dovrà essergli restituito tutto e anche di più come risarcimento. Hamlet Angel dovrà contribuire a sostenere queste spese…» «E lui, il signor Angel, cosa dice?» «Cosa dice?» Un lampo di malizia attraversò lo sguardo di Augusta. «Ora che si è saputo di Pericle, sostiene di essere stato soggiogato, di non aver mai capito realmente ciò che avveniva, sostiene che tutte le prove siano state falsificate da Pericle Thomasson, e che lui ha sempre agito nella più totale inconsapevolezza.» Odyssea rabbrividì. La faccia tosta di Hamlet Angel superava tutti i limiti della decenza! Probabilmente non c’era modo per provare la sua malafede, ma lei sapeva benissimo che il signor Angel aveva agito di sua spontanea volontà. Aveva incastrato un uomo con false gravissime accuse senza battere ciglio. E ora, come certi soldati che giustificavano le proprie crudeltà dichiarando di avere solo eseguito gli ordini, stava cercando la maniera per uscirne il meno peggio possibile. Odyssea si chiese cosa ne pensasse Jordy. Se avesse afferrato la verità o se anche lui si aggrappasse alle spiegazioni di suo padre per non annegare del tutto dentro tanto fango. Si chiese cosa stesse provando Jacko. Sperò che non si facesse sopraffare dall’ira e che non commettesse qualche sciocchezza. Si chiese cosa ne fosse di Breta. Si stupì che nessuno la nominasse, e si domandò se ciò derivava dal fatto che alla fine la pozione non aveva funzionato, o se Jacko avesse scelto di proteggerla ancora nascondendo la sua esistenza. Rimase distesa a letto, debole fin quasi a non potersi sollevare dai guanciali, per parecchi giorni. Continuava a ripensare a Jacko e alla sua irruzione in ospedale. Era sua quella mano calda e rassicurante intrecciata alla propria. Quella mano che l’aveva sorretta, che le aveva permesso di non affogare, che aveva respinto il male e la morte. Le aveva salvato la vita ancora una volta. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirlo arrivare dalla finestra, per scambiare anche solo uno sguardo coi suoi occhi, per dirgli grazie, ma Jacko non comparve mai. Un pomeriggio, invece, fu Lindia a farle visita. Quando entrò nella stanza, Odyssea capì che il rancore di quella sera al ritorno dal cimitero di Saint Albans era sfumato. «Odyssea, come sei conciata!» esclamò con la consueta scarsa diplomazia, sedendosi accanto a lei sul letto. «Hai la faccia viola e sei magra come una lisca. Come devi sentirti infelice.» Quindi s’immerse nel resoconto dettagliato di tutte le vicende che avevano sconvolto la vita di Wizzieville nell’ultima settimana. Le riferì dell’orrore che avevano suscitato le rivelazioni su Pericle Thomasson e di come suo padre da allora fosse così scioccato da sembrare un perfetto imbecille. «Non ho mai visto papà tanto scosso. Ancora non riesce a crederci. Non fa che girare per casa borbottando cose insensate. Quando ha saputo del signor Angel, poi! È diventato quasi verde! Due dei suoi migliori amici, c’è di che impazzire, non credi? A me è dispiaciuto tanto per Jordy, l’ho visto qualche giorno fa, era pallido come un cencio, mi ha fatto una pena… Sono andata a casa sua, su consiglio di papà, la mamma me lo aveva proibito! Sai che probabilmente gli Angel dovranno risarcire a Jacko tutti i danni? Papà ha detto che gliene verrà un bel mucchio di soldi. Naturalmente ci sarà un processo… In che modo strano si sono messe le cose, vero?» Lindia tacque per qualche istante, come se rimuginasse su qualcosa che la pungolava e la scocciava, poi riprese di getto: «Posso farti una domanda personale?» Odyssea annuì, sperando che Lindia non la costringesse a mentire. «È la seconda volta che Jacko accorre in tuo aiuto. Prima nella Foresta Tenebrosa e ora in ospedale. Lui non lo ammetterebbe mai, per questo lo chiedo a te.» Abbassò gli occhi e li rialzò subito dopo, puntandole addosso uno sguardo che parve una frustata. «C’è qualcosa tra te e Jacko?» Odyssea sospirò. Era certa che Lindia non si sarebbe arresa e, sebbene con un’espressione meno astiosa di prima, le avrebbe ripetuto la stessa domanda fino a quando non si fosse ritenuta soddisfatta. E poiché la sua soddisfazione esigeva un discreto spreco di menzogne, Odyssea si accinse a fare di tutto per accontentarla. «No. Non c’è niente», rispose a voce bassa e stanca. «Ma questo te l’avevo già detto. Siamo amici, è vero, ma niente di più.» Lindia sorrise sollevata. «Voglio crederti. Non mi mentiresti, vero? Dopotutto i giornali dicono solo bugie, no? Certo, siete amici e basta, che sciocca a non capirlo subito! Sai che sono andata a trovarlo? Gli ho fatto la stessa domanda e lui mi ha risposto nello stesso modo! Ed era così tranquillo quando parlava di te, quasi freddo direi, che mi sono chiesta come ho potuto solo pensare che… Non ridere, ma ero convinta che fosse innamorato di te, ne ero così certa! Mi vergogno un po’ a confessartelo, ma ero praticamente certa che… ricordi il 10 agosto, la Notte delle stelle? Pensavo che lui fosse venuto per te! Sono proprio scema, vero? E poi mi sembrava che ti guardasse in un modo, e addirittura che fosse geloso di Jordy! Ma ora capisco che ero solo accecata, sono stata una stupida. Mi perdoni, Odyssea? Per averti detto tante cose brutte? Ora mia madre non è più tanto contraria al fatto che mi piaccia Jacko… Quando le ho confidato che forse c’era qualcosa tra voi… scusami… gliel’ho dovuto dire! Ero così arrabbiata con te e ho sentito il bisogno di sfogarmi! E lei da allora mi ha detto che se voglio ogni tanto posso vederlo! Ti rendi conto? Per questo sono andata da lui. Sai che presto se ne andrà dalla casetta accanto alla scuderia e si cercherà una vera casa da qualche altra parte? Lo aiuterò io a trovare un posto carino.» Lindia si trattenne per un’ora, e ogni sua parola riempì Odyssea di amarezza. Quando andò via, dopo averla rassicurata più volte di non aver riferito nulla a sua madre della notte trascorsa nel Mondoaltrove e di aver imposto a Stylo lo stesso silenzio, Odyssea sprofondò nel cuscino e scoppiò a piangere. Jacko sarebbe andato via? Dove? Lontano, senza che lei potesse più raggiungerlo con una piccola corsa emozionata? In un’altra casa? Ed era vero che l’aveva nominata senza far trasparire alcuna emozione? Non lo vedeva da molti giorni ormai, se si escludeva l’incontro in ospedale, del quale non serbava alcuna memoria, tranne la visione sfocata d’una mano e una voce sussurrata all’orecchio. Le mancava in modo insopportabile. Quando Lindia le aveva chiesto, fissandola con occhi indagatori, se tra lei e Jacko ci fosse qualcosa, Odyssea sapeva di aver risposto con sufficiente onestà. Se le avesse chiesto: «Sei innamorata di Jacko?» allora avrebbe dovuto mentirle, ma stando così le cose aveva potuto essere abbastanza franca. Certo, avrebbe potuto aggiungere che lui l’aveva baciata una volta, ma la risposta sarebbe stata comunque la stessa, visto che dopo l’aveva trattata malissimo, e visto che Jacko O’Donnell non riteneva che un bacio dovesse necessariamente significare qualcosa. Se ripensava all’accanimento con cui Squartavene e Pericle Thomasson avevano perseguitato lei e la sua famiglia e Jacko e tutti i suoi cari, si sentiva invasa dal desiderio di ritrovarseli di fronte e di gridare loro in faccia che avevano creato un macabro ginepraio per niente. Avevano seminato scie di sangue per niente. Avevano annientato molte vite per niente. Nei momenti di solitudine di quella convalescenza, si chiese spesso che fine avesse fatto Angus Ziggart. Dove si trovava adesso? Perché nessuno ne parlava? Era da escludere che fosse morto. E allora sarebbe ricomparso per completare l’opera che aveva lasciato incompiuta? Inoltre, che fine aveva fatto l’agenda di suo padre? L’aveva in tasca, quando si era recata all’ospedale, ma adesso era di nuovo scomparsa. Quando finalmente riuscì ad alzarsi dal letto, fece una lunga sosta dinanzi allo specchio. Ciò che vide la fece rabbrividire e le parole di Lindia, che le erano sembrate così poco diplomatiche, le apparvero improvvisamente degne della prudenza di un ambasciatore. I pantaloni del pigiama crollarono sul pavimento, scivolandole dai fianchi. Le maniche le arrivavano fino alla punta delle dita. Intorno agli occhi aveva due profonde ombre scure e il suo colorito ricordava quello di una statua di avorio. Si sbottonò la giacca e vide la benda, ancora più larga della precedente, che le copriva completamente la pelle dalla gola allo sterno. Non osava immaginare cosa potesse esserci sotto. Era certa che, nonostante la pozione cicatrizzante e tutte le portentose pomate magiche, celasse uno squarcio. Quando scese al piano di sotto, si sentì emozionata come se stesse per affrontare un viaggio verso terre lontane. Aveva tanto girato, ma questo, dalla sua camera al soggiorno, con le gambe che ancora traballavano, le parve il percorso più lungo e più faticoso e più commovente. Si accomodò sulla veranda, nel punto in cui i raggi del sole si radunavano, e sentì che la vita ricominciava. Era autunno ormai, le foglie degli alberi si trasformavano in cartocci ingialliti e l’aria sapeva di freddo. Ma quella mattina il sole non le lesinò la sua accoglienza. Pregò Joyce di portarle l’album di fotografie e anche un certo libro che desiderava rileggere. Quello da cui aveva tratto tutte le informazioni sulla vita di Angus Ziggart. Rivedere quelle immagini col senno acquisito e dopo tutte le nuove e sconcertanti esperienze, le provocò una sensazione di sbalordimento. Pericle Thomasson, che sembrava così innocuo… Ripensò all’ultima volta che lo aveva visto. Ripensò al suo viso glabro. Chissà perché questo particolare l’aveva colpita. Cosa c’era sulla sua faccia che aveva già notato altrove? Quello strano neo accanto al mento? Dove l’aveva già visto? E all’improvviso le venne in mente. Sfogliò velocemente il libro alla ricerca del ritratto di Angus Ziggart da giovane. Come aveva fatto a non notarlo subito? Innanzitutto la somiglianza. Gli stessi occhi sorridenti e gentili. La stessa espressione placida e accattivante. Ispiravano fiducia, semplicemente. Non c’era nulla in quei volti che potesse dar adito a sospetto o potesse far presagire il peso del male che si sarebbero portati dentro. E poi, quello stesso neo che pareva uno zampillo di vernice. Pericle Thomasson si era fatto crescere la barba per occultare il segno che i discendenti maschi di Squartavene portavano impresso come un marchio indelebile. Ma Charlton Bennet l’aveva notato. Ecco a cosa si riferiva la terza frase sibillina – sul viso il segno di riconoscimento – che aveva tradotto. Ripensò a suo padre. Non aveva raccontato a nessuno del suo strano sogno. Era il suo segreto. E, alla fin fine, non era del tutto certa che si fosse trattato solo di un sogno. Si portò una mano sul cuore. Io sarò sempre con te, le aveva detto. Ed era proprio nel cuore che lo sentiva. Adesso sapeva che la morte non porta via le persone care. Adesso sapeva che la morte era solo un passaggio. Quando gli Insettiincubo le avevano fatto credere le cose più turpi, scavando nel suo inconscio e ingigantendo le sue paure, si era sentita orfana. Ma adesso, adesso che poteva essere orgogliosa del suo ricordo, della sua bontà e del suo affetto, della sua forza e del suo sacrificio, adesso le sembrava di averlo accanto e che nulla potesse mai più farla sentire senza padre. Tenendolo dentro di sé, e amandolo con tutta se stessa, avrebbe impedito alla morte di vincere. Si addormentò, con l’album delle fotografie aperto sulle ginocchia, sull’immagine delle nozze dei suoi genitori. La mamma tagliava una torta bianca e il papà le teneva un braccio intorno alle spalle e accompagnava il suo movimento con la mano. Si addormentò, sperando che un giorno anche lei avrebbe trovato un amore così grande. LA FESTA D’AUTUNNO Ginestra Thomasson morì qualche giorno dopo. I medici proclamarono che aveva troppo sofferto e che la morte era stata una benedizione. Odyssea si chiese come avesse vissuto la scoperta di essere la sposa di un mostro. Da quando Pericle era stato ricoverato, il suo decadimento psichico era stato attribuito alla grande paura per il marito, mentre in realtà lei aveva solo paura del marito. E nonostante tutto, aveva cercato di metterla in guardia. Quella scomparsa non poteva recarle un vero dolore, ma si sentì in colpa per averla sospettata e provò malinconia e tristezza per un’altra vita incolpevole falcidiata da quell’assassino. Finalmente la nonna le permise di leggere i giornali che raccontavano ciò che era accaduto a Wizzieville negli ultimi quindici giorni. Il primo conteneva una narrazione alquanto romanzata degli eventi. Il nostro prestigioso Presidio Ospedaliero è stato sede di accadimenti che non potranno mai essere dimenticati. Per la seconda volta la giovane Odyssea Bennet, figlia di Charlton Bennet, ucciso dal medesimo mostro dodici anni fa, ha annientato quella che può definirsi la creatura più terribile che la storia di Wizzieville ricordi: Angus Ziggart, meglio noto come Squartavene. Pare che la ragazza avesse sospettato fin dall’inizio che dietro il mistero aleggiasse l’ombra di Pericle Thomasson, e che sia giunta in ospedale brandendo una spada appartenuta al padre. Purtroppo l’intero personale medico era stato stordito, ma l’infermiera Gail Emergens giura di ricordare di aver visto Odyssea Bennet che arrivava in volo a cavallo di una scopa e di averne notato gli occhi accecati di rabbia. «Era una furia», ha rivelato. «Ha imposto a quel mostro di liberare la madre e la nonna e poi lo ha colpito al petto con un’arma tagliente.» Ci chiediamo cosa ne sia di Squartavene, posto che sul luogo della tragedia non sono stati trovati resti di alcun genere, nulla che possa far stabilire se egli sia vivo o morto. Speriamo di trovarci in presenza dell’epilogo della lunga storia sanguinosa che ha le proprie origini nei secoli addietro e che, solo negli ultimi cinquant’anni, ha visto la morte di numerosi validi maghi. Odyssea preferì sorvolare sui commenti scritti riguardo alla morte di Charlton Bennet, che il giornalista aveva però definito «coraggiosa e commovente». Un articolo a parte era interamente dedicato a Pericle Thomasson e alla sua vita, nonché alla sua insospettata discendenza da Angus Ziggart. Il secondo giornale aveva preferito invece soffermarsi sulla storia di Charlie O’Donnell, in particolare sul modo in cui era stato accusato ingiustamente e sulle lettere inviate da Hamlet Angel a Pericle Thomasson. Si trattava di quattro messaggi, tutti del medesimo tenore, la cui autenticità era stata sottoposta a un validissimo incantesimo per appurare la provenienza della scrittura, nei quali il signor Angel, con grande schiettezza o forse con sfrenata insolenza, dichiarava in modo dettagliato come aveva provveduto a falsificare le prove a carico del padre di Jacko. Da quelle lettere, redatte su carta intestata e stilate nel consueto stile pomposo di Hamlet Angel, emergeva una tale acredine nei confronti di Charlie O’Donnell che Odyssea si chiese come avrebbe potuto il Tribunale, che era stato chiamato a giudicarlo, credere alla sua versione della storia. Hamlet Angel non puntava alla sostanza dei fatti ma solo all’asserita «superbia con cui O’Donnell si sente migliore di tutti noi», e dichiarava di aver subornato i testimoni con la tranquillità con cui avrebbe raccontato di aver fatto una passeggiata nel bosco. Chiedeva il consenso del suo interlocutore e lo ringraziava per avergli aperto gli occhi. In una lettera, in particolare, c’era la spiegazione accurata di come un tale testimone fosse stato pagato per giurare il falso. Odyssea si stupì della leggerezza di Hamlet Angel. Era stato così accecato dall’invidia da dimenticare le più elementari regole di prudenza, oppure aveva sottovalutato Pericle Thomasson, considerandolo niente più di un amico bonaccione e forse vagamente ottuso, che mai gli si sarebbe rivoltato contro? Credeva di poter comunque controllare il caro Pericle, senza sapere di essere stato per anni solo una pedina nelle sue mani? Nell’articolo si parlava anche di Jacko. Era descritto come un «bel ragazzo sfortunato vissuto ai margini della società» e se ne augurava il riscatto dopo anni di dolorose privazioni. A un certo punto il tono dell’articolo diventava melenso. Odyssea arrossì leggendo che la giornalista si chiedeva «se tra la giovane Odyssea e il giovane Jacko potrà scoccare una scintilla d’amore, se la loro comune dura esperienza di vita potrà unirli anche sentimentalmente, posto che egli ha già in più occasioni manifestato di nutrire una certa predilezione per la ragazza, viste le volte in cui si è mosso in suo aiuto». Odyssea sollevò gli occhi dalla pagina. Ora ci si metteva anche quello stupido articolo! Lanciò entrambi i giornali lontano da sé, rifiutandosi di leggere altro. Si stese sulla sdraio e abbassò le palpebre. Non aveva fatto granché, eppure era terribilmente stanca. Joyce la raggiunse in veranda con una notizia che, sperava, l’avrebbe rallegrata. Il Consiglio, il cui numero s’era drasticamente ridotto di tre unità, era tornato in servizio, e aveva decretato di tenere comunque la tradizionale Festa d’Autunno. Non c’erano molte ragioni per festeggiare, ma poiché la speranza che quel mostro fosse stato annientato superava di gran lunga il dubbio sul suo possibile ritorno, si era deciso di non privare la cittadinanza di un’occasione di svago e di ritrovo dopo tanti dolori. Il Consiglio si augurava che la festa potesse creare una nuova aggregazione tra i cittadini e rinsaldare amicizie e legami, poiché troppi erano stati i sospetti e le maldicenze di quel malinconico settembre. Joyce le rivelò che la festa che si teneva normalmente il ventuno del mese, quell’anno, a causa dell’eccezionale ondata di eventi, era stata spostata al 1° di ottobre. «Hanno voluto far passare un numero ragionevole di giorni dalla scomparsa della povera Ginestra. Anche l’inizio della scuola è stato rinviato. Ma soprattutto hanno voluto attendere che tu fossi guarita. Ormai, mia cara, sei un’abitante rispettata di Wizzieville, non possiamo più fare a meno di te.» *** Joyce sembrava la più contenta di tutte e aveva trascorso l’intera giornata in cucina a preparare i suoi manicaretti. Odyssea invece era rimasta chiusa in camera sua per la maggior parte del tempo. Era di malumore. L’unica cosa che le riusciva senza stancarsi era rimanersene accucciata sul tappeto ai piedi del letto, con le ginocchia piegate e gli occhi fissi sul pavimento. Il peso dei recenti avvenimenti avrebbe schiacciato qualsiasi essere umano dotato di un po’ di sensibilità, ma il pensiero che la incurvava più di ogni altro non era il ricordo del viso spolpato di Pericle e della voce cupa di Squartavene, ma l’assenza di Jacko. Non era andato a trovarla e non sapeva più niente di lui. La nonna aveva risposto alle sue domande dicendo soltanto che era molto preso dalla storia del padre. Certo, Odyssea era disposta a capire che la sua vita fosse cambiata dopo le notizie pubblicate dai giornali, ma possibile che non avesse un attimo per andare da lei? Avrebbe solo voluto guarire al più presto, poter compiere più di dieci passi senza sentire la testa che girava e ronzava, e poi sarebbe andata… dove? Alla scuderia? E se lui si fosse già trasferito? Se ciò che le aveva detto Lindia fosse stato vero? Al tramonto, la mamma la raggiunse nella sua stanza. Le si sedette accanto sul tappeto e le prese una mano, come se volesse consolarla. «Odyssea, non sempre le cose vanno per il verso giusto nella vita, e tu questo lo sai fin troppo bene, ma d’altro canto non sempre tutto è così nero come appare… Oggi hai più di un motivo per essere felice, sai?» «Sì, lo so», mormorò lei senza troppa convinzione. «Sei viva, la tua famiglia ti vuole bene, tutta Wizzieville è orgogliosa di te e quel mostro probabilmente è scomparso una volta per tutte. Vuoi sorridere alla tua vecchia mamma?» Odyssea abbozzò un sorriso forzato. Altrettanto controvoglia si preparò per la festa, ma fu perentoria quando Joyce la invitò a indossare qualcosa di carino. Non si fece smuovere dal proposito granitico di essere assolutamente se stessa. Tuttavia, quando si fermò dinanzi allo specchio, nei suoi jeans e una maglia di cotone che sembrava più grande di una taglia, quando osservò il riflesso di quella ragazzina magra e slavata, quando notò la piega amara delle labbra e i capelli come alghe bagnate, le sembrò di vedere un’altra persona. Per qualche secondo non vide più una ragazzina, ma un’adulta, tanto era seria e profonda e vissuta l’espressione dei suoi occhi neri. Era scappata per dodici anni, e quando finalmente aveva trovato la sua vera casa, aveva rischiato di perdere tutto. E forse qualcosa aveva perso, oltre all’innocenza: il vero amore, quello senza il quale la sua anima sarebbe stata spezzata per sempre. *** Uscirono di casa col buio, ma quasi subito si accorse che l’atmosfera di festa di cui le aveva raccontato Joyce era palpabile: sembrava che Wizzieville volesse dimenticare tutto il male recente. La facciata della loro casa era tempestata di ghirlande di luci e tutte le strade erano un tripudio di bagliori. Tra un villino e l’altro ponti di lucine sospese e festoni di fiori intrecciati agghindavano le vie, ed era come passeggiare sotto la volta di una lunga serra luccicante. Mentre avanzavano verso la piazza e incontravano altre famiglie con contenitori simili a quelli di Joyce tra le braccia e identici visi allegri, Odyssea notò che la gente le rivolgeva grandi sorrisi e ognuno le stringeva la mano con energia. Quando giunsero alla Piazza dell’Unicorno, emise un sospiro affascinato. L’intero spiazzo era ricoperto da un soffitto di luminarie. Tra gli alberi c’erano innumerevoli casine di legno col tetto di ardesia: avvicinandosi Odyssea si accorse che si trattava di piccoli chioschi coi davanzali inghirlandati. L’unicorno schizzava getti d’acqua di tutti i colori dell’arcobaleno, ed era talmente lucido da sembrare trasparente. Un’enorme costruzione troneggiava accanto alla fontana. Era una gigantesca ruota panoramica, che superava in altezza i già imponenti palazzi, con seggiolini dorati sospesi ai bordi del grandissimo disco sfavillante. Il brusio di centinaia di voci faceva da sottofondo, insieme a una musica ritmata che pareva provenire direttamente dal cielo. Joyce si diresse verso uno dei chioschi, felice ed eccitata come una bambina al luna park. «Ciao!» esclamò la voce di Lindia alle loro spalle. «Siete venute! Hai visto che meraviglia? Mia madre è laggiù con le sue crostate di miele piccante. Le ho assaggiate, ma non ti consiglio proprio di mangiarle se non vuoi andare a fuoco. E Joyce? Cos’ha preparato Joyce?» Su quelle parole, del tutto indifferente a ciò che Joyce stava disponendo sul davanzale della casetta, prese Odyssea da parte e le bisbigliò in un orecchio: «Jacko è venuto, sai! L’ho visto prima, era vicino alla ruota panoramica. Quella appiccicosa di Letizia Sweettenam lo ha già accalappiato». «Immagino che fosse molto vestita», commentò Odyssea, con una vocina stridula da streghetta. Era arrabbiata con Jacko, e sperava di non avere occasione di incontrarlo in mezzo a tutta quella gente, perché avrebbe corso il rischio di lanciarlo contro la cima della ruota. «Sì! Credimi se ti dico che la gonna che indossava la Notte delle stelle al confronto aveva lo strascico! Quella odiosa, e come gli sta appiccicata…» «E lui? Ne è compiaciuto?» «Oh… ma lui è un ragazzo… cosa vuoi che faccia? È quella lì che si meriterebbe…» Odyssea fissò Lindia, e fu difficile mascherare la rabbia che le divorava il cuore a morsi. «Poverino… Starà soffrendo immensamente…» disse con tono sarcastico. Lindia la guardò come se non capisse, o forse come se capisse fin troppo bene, spalancò la bocca per dire qualcosa, ma tacque. Infine cambiò discorso: «Spero che Jordy venga. Suo padre è relegato in casa e non potrà uscire fino al processo. Immagino che Jordy si vergogni… ma lui che colpa ne ha?» «Hai ragione», sussurrò Odyssea. «Spero anch’io che venga.» Il viso di Lindia si schiarì e si strinse all’amica con un improvviso moto gentile. Si mossero, seguendo il richiamo della musica. «Si balla! Si balla!» proruppe Lindia. «Vieni, andiamo! Tutti vorranno ballare con te! Sapessi quante cose si dicono sul tuo conto!» Odyssea si voltò verso le casette di legno punteggiate di lucine e davanti al chiosco di Joyce vide decine di persone in fila. La mamma e la nonna, più lontane, conversavano con un gruppo di persone che non conosceva. Così si lasciò trascinare da Lindia verso l’altro lato della piazza, attraverso frotte di gente vestita a festa, fino al luogo dove si trovava una pista da ballo lucida come un diamante. Era un enorme ovale di alabastro blu. Numerose coppie si stringevano al ritmo lento della musica. Due ragazzi eleganti e notevolmente carini si avvicinarono, e Lindia accettò di ballare con uno di loro, un tipo bruno con occhi verdi e una faccia spiritosa. Odyssea avvampò al pensiero che l’altro, un giovanotto alto e biondo che pareva vagamente imbarazzato, potesse invitarla a fare lo stesso e, approfittando di un momento di silenzio, sentì che un milione di scuse più o meno verosimili le si accavallavano in testa. Quando il ragazzo, che si presentò come Gebediah Anders, le rivolse la richiesta tanto temuta, dicendosi onorato se la famosa Odyssea Bennet avesse voluto danzare con lui, Odyssea si scusò e, parlando a raffica, dichiarò di essere ancora molto dolorante e che gli avrebbe senza dubbio rovinato il ballo. Poi, dopo averlo ringraziato, scappò letteralmente via, allontanandosi dalla pista, e lasciando Gebediah solo e sbalordito. Si sentiva accaldata e scortese, ma non aveva proprio voglia di ballare né di restare un minuto di più in mezzo a tutta quella confusione. Fu mentre guardava tra la folla per rintracciare Joyce e il suo chiosco, che vide Jacko. O meglio, riconobbe le sue spalle avvolte nella camicia bianca che ciondolava fuori dai pantaloni. Era seduto sulla spalliera di una panchina, circondato da un semicerchio di ragazze. Tutte se ne contendevano l’attenzione, ma la più sfacciata era Letizia Sweettenam, che teneva il suo braccio sotto quello di lui, e gli parlava a pochi centimetri dalla faccia, scuotendo i lunghi ricci con aria seducente. Udì molte risate che provenivano da quel gruppo, ma non le parve di sentire la risata di Jacko o in generale la sua voce. Odyssea avrebbe voluto incenerirle tutte, e lui a seguire. Poi intravide la testa di Joyce in lontananza. Doveva passare per forza da lì per tornare indietro, e sperò che lui non si voltasse, che continuasse a darle le spalle. Ma quando fu a poco meno di un metro da quel gruppetto starnazzante, Jacko si girò. La fissò senza manifestare alcuna emozione, come se avesse sempre saputo che lei era lì dietro, o come se il vederla equivalesse a osservare il nulla. Una ciocca gli spioveva sull’occhio, e aveva le labbra inarcate da un sorriso insolente. Odyssea lo fissò a sua volta, senza salutarlo. Raggiunse il chiosco e passò oltre. Si appoggiò con la schiena dietro la casina di legno e chiuse gli occhi portandosi una mano alla gola. La ferita le faceva male, le gambe le tremavano, e aveva le guance in fiamme. Si diede della stupida, della maledetta stupida, e si detestò per la sua debolezza. Perché non riusciva a essere indifferente, perché non se ne andava a ballare con quel bel ragazzo di poco prima, perché non si innamorava di qualcun altro? Perché le sue emozioni dovevano essere così catastrofiche? Che se ne stesse pure con quelle allocche: se gli piacevano le ragazze con abiti e cervelli quanto rimasugli di stoffa, se le tenesse pure care. In quel momento sentì la voce di Joyce, dentro al chiosco, che diceva: «Oh, queste ragazze moderne… come sono volubili…» Il tono amareggiato con cui pronunciò quelle parole la incuriosì. Si affacciò e vide Jordy che avanzava tra due ali di folla. Quelle stesse ragazze che la Notte delle stelle lo avevano contemplato ammirate e avevano scrutato lei con invidia, ora lo fissavano con ostilità e sospetto. Sentì un moto di rabbia e uscì dal suo nascondiglio. Jordy era nervoso e la gente lo ignorava con ostentazione, come se si fosse imposta di far finta di non vederlo. Se l’avversione nei confronti di Hamlet Angel era più che naturale, non capiva perché le persone dovessero comportarsi così anche con il figlio, che quando erano accaduti quei fatti orribili non era nemmeno nato. Quando Jordy la vide i suoi occhi si illuminarono, e per qualche secondo sul suo viso apparve un’espressione dubbiosa, come se temesse che anche lei gli avrebbe voltato le spalle. Lei lo raggiunse sorridente. Quel gesto non passò inosservato e in molti rimasero colpiti. «Come stai?» le chiese il ragazzo. Odyssea fece qualcosa di imprevisto perfino per se stessa, passò il proprio braccio sotto quello di lui e manifestò una contentezza ben maggiore di quella che provava in verità. Si sentiva furiosa nei confronti di tutta quella gente che, quando Jacko era stato in bassa fortuna, lo aveva guardato con disprezzo, e ora riservava lo stesso trattamento a Jordy. E in entrambi i casi per qualcosa di cui erano completamente all’oscuro. Passeggiarono in mezzo alla folla, parlando poco, finché non si sentirono chiamare dalle voci amiche di Lindia e Max. Furono ambedue felici di vedere Jordy, e Max tirò fuori un fiume di parole che dovevano rodergli dentro da giorni. Parlò molto male di Jacko, animato da un rancore greve e pulsante. Si chiese cosa trovassero in lui le ragazze, e disse che al di là della riabilitazione del padre, lui rimaneva comunque un tipaccio. Era tanto infervorato da non accorgersi di quanto quel discorso provocasse in Jordy un sincero imbarazzo. A quel punto Lindia, per natura più generosa e spontanea di quanto il suo chiacchiericcio lezioso dimostrasse, si avvicinò a Jordy con l’intento di sottrarlo a quel disagio, esclamando: «Ti va di ballare?» Odyssea rimase insieme a Max. Dopo aver rifiutato ancora di ballare, sebbene senza soggezione poiché Max non era un perfetto estraneo e l’aveva invitata solo per gentilezza, si separarono, mentre Jordy scrutava attorno con un’espressione vigile e piena d’ansia. Odyssea non poté biasimarlo. Vide poco lontano la signora Mou con la sua consueta aria sussiegosa che offriva alle amiche bicchieri d’acqua fresca dopo le fettine di crostata piccante. Notò che osservava Lindia e Jordy sulla pista da ballo con occhi attenti. Odyssea si tuffò di nuovo tra la folla. Era stanca e si sentiva debole. Aveva solo voglia di tornare a casa. Mentre sperava ardentemente di non rivedere più Jacko finché ciò fosse stato possibile, se lo ritrovò davanti. Per poco non si scontrarono. Odyssea si sentì avvampare, ma si obbligò a rimanere impassibile, e passò oltre. Stava per allontanarsi, quando lui le afferrò il polso. Si voltò con occhi pieni di rabbia, ma lo sguardo di Jacko non le parve molto più tranquillo. «Dove stai andando?» le chiese con voce tesa. «Sono affari miei. Lasciami andare», mormorò lei, indicando il polso stretto nella sua mano. «Dobbiamo parlare», disse Jacko, con un tono basso ma tutt’altro che placido. «Io credo di no.» Odyssea agitò il braccio con forza, e una leggera scossa si trasmise a lui da quel movimento. Jacko mollò la presa e la guardò sbalordito. «Buon divertimento», aggiunse Odyssea, allontanandosi lesta. Fu grata per tutta quella gente che le consentiva di mimetizzarsi e scappare via. Era furiosa, e tremava. Come si permetteva di trattarla così, di rimproverarla quasi, come se fosse colpevole di qualche grave torto? Come si permetteva di sentirsi offeso, dopo tutto quello che era successo? Finalmente intravide sua madre e la nonna e le raggiunse correndo. Grace la scrutò con sincero allarme. E quando Odyssea le disse che non si sentiva bene e voleva tornare a casa, lei si dichiarò pronta ad accompagnarla. «Ti prego…» sussurrò Odyssea. «Io… posso restare sola? Mamma… ti supplico… ho bisogno di stare sola…» Aveva parlato con voce così implorante che Grace comprese la reale portata dei sentimenti che la invadevano. Gli occhi di Odyssea erano lucidi, come se stesse per piangere, e le labbra livide. Grace cercò di calmarla e di farla parlare, ma Odyssea la pregò solo di lasciarla andar via. «Non c’è più pericolo, no?» domandò con impazienza. «No… il pericolo è un altro mi pare…» Odyssea si allontanò da quella moltitudine festosa. Chiese alle lacrime di contenersi ancora per qualche minuto, ancora un po’, finché la folla si fosse diradata e il silenzio e la solitudine avessero di nuovo steso un velo pietoso sulla strada. Quando qualcuno la urtò aveva già gli occhi talmente appannati ed era così confusa che non si accorse minimamente di chi fosse. Perciò trasalì non poco quando ne udì la voce irritata. «Tu ora vieni con me», disse Jacko, afferrandola di nuovo dal braccio. «E non fare finta di non vedermi. È tutta la sera che mi ignori. Sono stufo di cercarti in mezzo a questa confusione.» «Mi stavi cercando? Non mi dire! Mi sembra di averti visto piuttosto impegnato…» «Smettila di fare la scema e cammina.» La trascinò sotto le luci sospese che producevano un riverbero multicolore sul lastricato. Quando furono abbastanza distanti, quando la festa fu solo un panorama luccicante sullo sfondo, lui si fermò. «Mi spieghi che ti passa per la testa?» le domandò. «Non mi passa niente per la testa. Voglio solo tornare a casa. E se non mi lasci il braccio…» «Che fai? Mi uccidi?» Il viso di Jacko si rabbuiò. «Mi pare di capire che quel Jordy Angel ti stia piuttosto a cuore. Ogni volta che lo vedi fai di tutto per sembrare una cretina. Non vuoi proprio darmi ascolto.» «E tu… se io sembro cretina… meglio che non ti dico cosa sembri tu vicino a quel gruppo di scimmie! Che vuoi da me? Non sei venuto a trovarmi nemmeno una volta! Mi tratti sempre male! Che vuoi?» «Ehi, non sarai gelosa di quelle?» «E tu, non sarai geloso di Jordy?» Jacko la fissò con aria sdegnosa. «Ti piacerebbe che ti dicessi che è così, vero?» mormorò con un’espressione strana. «Ti piacerebbe che ti dicessi che sono innamorato di te e che ogni volta che ti vedo con quello mi ribolle il sangue, o forse ti sentiresti felice se ti dicessi che non ho mai provato niente del genere per una ragazza, e cos’altro? Che sono letteralmente terrorizzato da quello che provo per te? E che il solo pensiero che ti possa succedere qualcosa o che tua madre decida all’improvviso di portarti via mi fa star male da morire? E che ti odio anche, perché penso che per te sia solo una cotta da ragazzina e invece io ti amo come un pazzo? Di’ la verità, vorresti questo, vero? Insomma, a conti fatti non vorresti me ma uno come Jordy Angel! E allora perché non vai a prendertelo, è lì a disposizione, tutto smorfie e battiti di ciglia e completi di lino stirato! Se lo vuoi sapere io sto molto bene con Letizia; è bella, divertente, non troppo appiccicosa, e soprattutto non prova a cambiarmi, si accontenta di ciò che vede, cioè Jacko.» Odyssea lo fissò raggelata. «Sei… sei odioso», sussurrò. «Mi sono sbagliata su di te. Io… credevo fossi diverso…» «Diverso come?» Jacko alzò la voce in modo ancora più aggressivo. «Io non ho mai cercato di apparirti diverso da quello che sono! Mai! Non sono perfetto, non sono un eroe! Sono solo Jacko! Credi di essere innamorata di me? No! Tu sei innamorata dell’idea che ti sei fatta di me! Non vuoi me, vuoi un cavaliere con l’armatura scintillante! La verità è che sei solo una ragazzina, e io sono probabilmente il primo che ti abbia baciata. Sono sicuro che non avevi mai neanche visto un ragazzo, prima. E allora, vedi, sono io a doverti chiedere cosa vuoi da me.» Odyssea ebbe la sensazione di stare colando a picco in una palude limacciosa e che nel giro di un minuto l’acqua sporca l’avrebbe sepolta per sempre, trasformandola in una marionetta di fango. Jacko rimase in attesa di una sua replica, continuando a stringerle il polso e a fissarla con una rabbia impotente. «Sei proprio generosa», continuò, dinanzi al suo silenzio ostinato e sconvolto. «Ti sei arrabbiata perché non sono venuto a trovarti, e allora? Pensi solo a te stessa. Ti sei chiesta cosa sia successo a me, cosa abbia dovuto affrontare negli ultimi quindici giorni, come la mia vita sia cambiata? Come la gente mi stia addosso, e tutto ciò si scontri con la necessità di tenere ancora nascosta Breta?» «Io… mi sono chiesta continuamente come stesse Breta.» «Bene, allora sarai contenta di sapere che migliora ogni giorno. Odyssea, se ti sei fatta di me un’idea diversa dalla realtà è solo colpa tua. Se hai pensato a me come una specie di principe azzurro, hai sbagliato persona. Ma non sopporto che tu faccia la parte dell’offesa, che mi giudichi e giudichi il tipo di ragazze che frequento.» «Bene…» Odyssea abbassò gli occhi verso la strada. Il riflesso delle luci la abbagliò, le fece male, come se avesse due aghi caldi conficcati in fondo alle pupille. «Allora vai pure. Hai fatto un bel discorso, e non credo che riuscirò a dimenticarlo. Rimarrà per sempre il – famoso – discorso – di – Jacko – la – notte – del – 1º – ottobre – quando – mi – disse – che – non – gliene – importava – niente – di – me.» «Io non ho detto questo.» Jacko allentò la stretta intorno al suo polso. «Continui a non capire. Mi interessa di te, e molto, altrimenti non mi sarei preoccupato di venire a cercarti non appena Breta è riuscita a ricordarsi chi era l’uomo che l’aveva ingannata dodici anni fa. Ma non ti aspettare che ti dica che ti amo, o qualcosa del genere. E se leggessi bene dentro di te ti accorgeresti che neanche i tuoi sentimenti sono veri. Hai solo sedici anni, sarebbe assolutamente folle se questo fosse l’amore.» Le si avvicinò un poco e le posò una mano sui capelli. «E non sono geloso di Jordy», sussurrò, «i motivi per cui detesto lui e la sua famiglia sono ben altri, e tu lo sai.» «Va bene… ho capito», mormorò Odyssea. «Ti sei spiegato bene. Per cui ora ti lascio, così potrai andare a tenere compagnia alle tue stimabili amicizie femminili.» Jacko continuò a tenerle la mano sui capelli e la accostò a sé, quel tanto che bastava perché Odyssea sentisse il suo profumo. Sembrava che la rabbia fosse scemata. La osservava con occhi luminosi e insieme opachi, parevano torce velate da un velo di organza. «Io non ho amicizie femminili. Ody, parli di amicizia a sproposito.» «Volevo essere sarcastica», ribatté lei con un filo di voce. Lui indietreggiò appena, indugiando altrove con lo sguardo, verso la città illuminata alle sue spalle. «E ora torniamo alla festa. Siamo qui per divertirci, no?» «Oh, certo… ci vado volando… così accetto l’invito di quel… come si chiamava… Gebediah Anders, era piuttosto carino… In fondo l’hai detto tu, no? Vedi di crescere, impara a dare baci decenti, e poi, forse, ne potremo riparlare.» Jacko la fissò intensamente per qualche secondo e poi le sorrise. Odyssea fu certa che i suoi occhi fossero la cosa più stupefacente che avesse mai visto. Io ti amo Jacko O’Donnell, avrebbe voluto urlargli. Ma tanto, sarebbe stato inutile. Sarebbero state parole vane, dinanzi alla sua ostinata indifferenza. Quando lui la lasciò, dirigendosi verso i padiglioni colorati, quando vide le sue spalle e i suoi capelli e le sue gambe scomparire in mezzo alla folla, pensò che la vita era piena di sorprese. C’erano giorni di gioia così straripante che non bastava un solo cuore a contenerla tutta, e giorni in cui l’infelicità era opprimente come una tomba. Giorni in cui ci si sentiva orfane, e giorni in cui anche solo il ricordo di un padre visto in fotografia bastava per sentirsi parte di una vera famiglia. C’erano giorni di pioggia ininterrotta, e giorni in cui il sole riscaldava il viso e accecava gli occhi col suo splendore arancione. C’erano giorni di lotta contro mostri sanguinari e misteriose creature nascoste dietro camini murati, e giorni di festa, con la ruota panoramica, e tanta gente per le strade, e dolci colorati esposti su davanzali guarniti da ghirlande. C’erano giorni in cui l’amore bussava alla porta con il viso splendido e irriverente di un ragazzo strano con una cicatrice su una guancia, e giorni in cui quello stesso viso andava via portandosi appresso ogni speranza. Odyssea sospirò, e i fuochi d’artificio illuminarono improvvisamente il cielo. Mentre quegli arabeschi di luce infiammavano la notte, mentre il brusio eccitato della folla ne seguiva la danza, mentre il suo cuore stava a galla in una tempesta di nostalgia, si rese conto di non avergli chiesto dove sarebbe andato a vivere. Non importa, si disse. Con l’improvvisa certezza che non sarebbe andato lontano. RINGRAZIAMENTI Ringrazio, come sempre, i miei formidabili agenti Rossano Trentin e Massimiliano Zantedeschi, la casa editrice Baldini Castoldi Dalai editore, l’instancabile e dolcissima editor Helga Rainer, l’art director Mara Scanavino, Alberto Lameri che ha dedicato il suo talento alla copertina, e coloro – tanti, tutti nel mio cuore – che hanno collaborato alacremente alla creazione di questo mio nuovo figlio di carta, perché scrivere non basta, scrivere è solo una parte – imprescindibile ma non conclusiva – del lungo lavoro che porta a ciò che si chiama libro. E ringrazio anche te, mio fiducioso lettore, che ci hai scelto. Perché anche il libro non basta, senza qualcuno che lo legga e lo trasformi in vita.