Domani cercasi
Un vangelo di speranza per i giovani dell’Italia di oggi
Tracce di approfondimento e di verifica
Un saluto … con alcune integrazioni
Buongiorno a tutti!
Prima d‘accingerci al nostro confronto, mi sembrano doverose alcune integrazioni rispetto
alla presentazione formale che di me è stata fatta (peraltro, in termini assai cortesi e
garbati, di cui ringrazio), perché vi mancano (ma non per colpa di chi mi ha introdotto) le
cose per me più importanti … mentre il resto, se gradite, potrete pure dimenticarlo ...
Di queste integrazioni, vengo subito alla prima.
Voi vedete me seduto qui, questa mattina, ma in realtà non sono solo.
Qui c’è anche mia moglie, seduta tra voi, e non si tratta della presenza d’un mero
accompagnatore. Sono infatti sposato, da quasi venticinque anni; abbiamo avuto dal
Signore in dono tre figli (che attraversano, con le loro età, generazioni anche tra voi in
buona parte rappresentate); e, in qualche modo, le scelte fondamentali, professionali, di
vita e più in generale di responsabilità verso la Chiesa – e la chiesa particolare in cui
specificatamente siamo inseriti (cioè la diocesi di Reggio Calabria – Bova) – le abbiamo
maturate e condivise lungo un cammino di dialogo e confronto coniugale e familiare.
Allo stesso modo, gran parte delle analisi e valutazioni che proverò ad illustrarvi e delle
proposte (più o meno provocatorie) che vi potrò fare – ed in una certa misura la stessa
traccia d’approfondimento e verifica che forse vi hanno già distribuito per meglio seguire
questo mio intervento – sono il frutto di percorsi di studio, d’approfondimento e
discussione vivaci, anche animati, essi pure coniugali e familiari.
Perciò, anche se voi ascoltate, questa mattina, me; intendetemi piuttosto come il
portavoce di un’esperienza, lo ripeto ancora, coniugale e familiare, cioè a più voci, a più
cuori, a più cervelli.
Anche nel viaggio per arrivare qui, in auto, abbiamo del resto a lungo parlato: si discuteva,
in particolare, se intitolare questa conversazione con il punto interrogativo (Un vangelo di
speranza?) o con il punto esclamativo (Un vangelo di speranza!) o con entrambi …
Ma c’è una seconda integrazione che desidero formulare; perché ben più importanti dei
titoli (talvolta pomposi e altisonanti) con cui un relatore viene introdotto sono quelle
particolari esperienze da cui poi più specifiche scelte provengono, e tra queste, soprattutto
gli incontri (tanti …) con quegli autentici testimoni di santità, spesso sconosciuta ai più, che
il Signore consente d’incontrare nei bivi dell’esistenza e che ci mette accanto, talvolta
apparentemente come imprevisti compagni di strada, per i suoi disegni di bene sulla
nostra vita.
Nel mio caso, anche se si tratta di esperienze ormai risalenti, desidero ugualmente farvi
cenno: si tratta dell’obiezione di coscienza (rispetto all’obbligo della leva militare) e del
servizio civile.
Esse, negli anni delicati che hanno in parte preceduto ed in parte accompagnato la scelta
universitaria prima, poi l’orientamento professionale e nel contempo la scelta vocazionale
matrimoniale e familiare, hanno avuto per me non poco peso; e, con esse, anche alcune
persone in particolare 1.
Quelli sono stati anche, per me, gli anni dell’apprendistato della maturità, che – grazie
all’amicizia d’un sacerdote mio conterraneo (un reggino, filosofo della scienza e del diritto,
di cui L. Accattoli ha scritto che, già prima della mondializzazione poi esplosa alla fine del
secondo millennio seppe insegnare a molte generazioni di giovani della FUCI “quanto
mondo si può conoscere da Reggio Calabria”) – mi hanno permesso di aprire di molto i
miei orizzonti mentali e m’hanno offerto l’opportunità straordinaria, imponendomi di
conoscere la mia terra – e le sue frastagliate varietà sociali ed ecclesiali – d’ulteriori
incontri ad alto rilievo formativo, che hanno inciso in modo determinante sulle scelte di vita
che avrei compiuto ed hanno fatto fiorire amicizie che ancora oggi, grazie a Dio, resistono
al tempo.
Sono stati, quelli, anni assai densi e ricchi, per la storia dell’Italia d’allora: si proveniva
dalla fine degli anni di piombo (un incubo per la democrazia ma anche una prova di
coesione sociale non indifferente per un paese che scopriva le proprie montanti difficoltà,
sia morali sia culturali, che il decennio successivo la crisi di Tangentopoli avrebbe messo a
nudo) ed il futuro appariva incerto, ma c’era voglia e passione di contribuire a costruirlo.
Anni in cui, nella Chiesa italiana, la vitalità e la forza della profezia animavano l’ordinario
rendendolo in realtà “straordinario” (per quanto lasciavano presagire – come nella schiusa
d’un orizzonte di luminosa e radiosa primavera – della contagiosa potenza d’utilità sociale
e di bellezza etica intrinseca a tanta dedizione ed autentico impegno del volontariato, con
la spendita del proprio tempo e delle proprie capacità per il bene dei più sofferenti,
emarginati o esclusi, nella realtà civile dei molti Mezzogiorni d’Italia e nell’intero paese).
Ormai, però, quegli anni appaiono, probabilmente, già dimenticati, forse ormai superati
(come temperie ideale) dalle correnti vicende sociali, di certo smentiti dagli attuali
orientamenti di vita di tanti giovani più o meno precocemente adultizzati, di questa
tormentata stagione dell’Italia d’inizio millennio.
Voi non mi sembrate però (almeno in prima approssimazione) già così avvizzirti,
invecchiati ed incartapecoriti.
Il vostro essere “per scelta di vita” (e non contingenza stagionale) volontari, in un settore
così delicato come quello della prossimità agli ammalati, è già, in qualche modo, una
promessa, non una scommessa.
So pertanto di parlare a persone che, in qualche misura, anche perché aderenti ad una
federazione d’associazioni ispirate dai principi evangelici, hanno già in sé buone (e, mi
auguro, molte) ragioni di speranza circa il futuro che ci attende.
Una premessa
Il tema del vostro incontro di questi giorni, pur in un ambito generalissimo, tratta del
rapporto tra vita e legalità.
Avete già affrontato questioni specifiche:
1) cosa sia oggi l’Italia (mi auguro abbiate anche, e copiosamente, dibattuto su quale
Italia vorreste che fosse quella dei prossimi anni);
2) in che termini esista e vada affrontata una questione “morale”, in questa Italia
tormentata dei primi anni di questo terzo millennio;
1
Tra cui mi piace ricordare, per chi l‘avesse conosciuto, don Italo Calabrò – che ha contribuito a fondare la
Charitas verso la fine degli anni Settanta, cioè gli anni di mons. Nervo e mons. Pasini e, quindi, di “don” Tonino Bello e
mons. Luigi Di Liegro.
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3) 3) che responsabilità puntuali vadano riferite all’arcipelago delle agenzie informative
e formative nell’edificazione di una più buona, una migliore società in cui vivere.
Avete anche conosciuto uno di quelli che si usano definire (nel corrente ecclesialese)
“piccoli semi di speranza”: i ragazzi di Addio pizzo.
Questo tema potrebbe essere declinato in molte, innumerevoli prospettive ulteriori.
Ne elenco solo alcune, di quelle che avevo valutato come proponibili entro questa cornice,
ripeto, assai generale:
-
il valore ed il rilievo del diritto nella vita delle comunità;
il senso odierno del cd. bene comune;
il rapporto tra legalità e giustizia;
i meta-principi costituzionali
il rapporto tra principi (non solo morali ed etici, ma anche giuridici) e scelte di vita;
il fondamento della “vocazione” all’impegno personale e sociale;
le forme di una cittadinanza autentica, attiva e responsabile.
Dopo aver riflettuto, ho creduto opportuno proporvi un percorso del tutto peculiare, diverso
da questi: avete del resto già sentito due colleghi (due magistrati) parlarvi finora e,
siccome il terzo avrebbe potuto stancarvi – per troppa omogeneità (vuoi di linguaggio, vuoi
di pensiero) con i precedenti – ho scelto di trattare con voi del rapporto tra i giovani, quali
voi in prevalenza siete, ed il futuro.
Legalità equivale, in prima approssimazione, ordine e certezza nei rapporti interindividuali
e sociali. Concettualmente, essa funziona come strumento per assicurare stabilità ad una
collettività, ancorandola a principi più o meno condivisi in cui essa possa riconoscersi e
che “dicano” come essa vuole proporsi identitariamente.
Non preclude (ovviamente) le sperimentazioni, né le sgradisce; privilegia però l’esistente,
poco orienta al mutamento.
Il futuro equivale invece incertezza, che è condizione obiettivamente sfavorevole alla
stabilità ed alla certezza delle relazioni interpersonali, ma appartiene ineludibilmente alla
vita e con esso bisogna fare i conti.
Spesso, ciò che saremo si può intuire in ciò che già siamo.
Più spesso, però, osiamo soltanto ambire di propugnare ciò che vorremmo essere, ma le
dure repliche della storia ci restituiscono con i piedi per terra, e l’avvenire costituisce la
miglior cartina di tornasole dell’effettiva bontà delle aspirazioni nutrite e del grado di
condivisione dei principi in cui una collettività aveva scelto d’identificarsi e delle scelte con
cui aveva ritenuto di farvi fronte.
Il futuro si può temere e si può desiderare; si può rincorrere, ma anche tenere a distanza;
si può subire, ma si può anche concorrere a costruirlo.
Parlare quindi del rapporto con il futuro mi è parso più intrigante, in questa sede ed
occasione, ed ho pensato di farlo giocando molto sul nesso tra futuro e speranza. Perché
per me la speranza è la chiave del rapporto con il futuro. Da qui il titolo del mio intervento:
Domani cercasi – Un vangelo di speranza per i giovani dell’Italia di oggi.
In realtà, il vero titolo dovrebbe essere un altro: “Io; voi; noi; quale futuro cerchiamo,
nell’Italia di oggi?” E la risposta, quella che vi propongo, è la seguente: io, voi, noi,
cerchiamo un futuro di vera, autentica speranza. E desideriamo esserne capaci.
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Entriamo allora subito nel vivo della questione, non senza però avervi prima chiarito con
quale spirito e metodologia vi parlerò.
Un’espressione in particolare di don Domenico Farias desidero affidarvi, perché
rappresenta, per così dire, il filo rosso della proposta che vengo ad illustrarvi, e che
ritrovate nella traccia che vi è stata consegnata: a fondamento di qualsiasi capacità di
speranza c’è “uno studio che potenzia l’azione”.
Ma cosa significa che “lo studio potenzia l’azione”?
Significa ciò che, con altro linguaggio, si legge nel NT, precisamente nella prima lettera di
Pietro, là dove s’afferma, proprio in riferimento alla problematica della speranza: “dopo
aver preparato la vostra mente all’azione, siate vigilanti …”. Il termine “vigilanti”, al di là
della problematica di traduzione, è lo stesso che dire: “state svegli!”
Ora, lo stare svegli non è semplicemente tenere le antenne tese, per captare, ascoltare,
cercare di capire, rendersi conto, quindi un qualcosa che allude esclusivamente
all’osservare ed analizzare, ma, evidentemente, è già un agire. E però si dice (nel resto
biblico) che questa azione deve essere ben preparata (come suggerisce, ricordatelo,
l’espressione “… dopo aver preparato la vostra mente all’azione …”).
C’è dunque un’arte da apprendere e coltivare, in cui la capacità di speranza si concretizza,
che è appunto un “preparare la mente all’azione”.
Ora, io capirei cosa significa preparare l’azione attraverso la riflessione, ma in 1 Pt si legge
proprio “preparare la mente all’azione”.
Al di là del testo (non sono un esegeta e quindi non sono in grado di formulare una
proposta a questo riguardo più accurata), nell’originaria risonanza di questo invito c’è
dunque qualcosa di più difficile, di più complesso di quel che potremmo immaginare:
perché c’è indubbiamente un’altra dimensione da attingere, e che forse trascuriamo, che
in questo preparare la mente all’azione dobbiamo invece riscoprire e rivitalizzare, e cioè
quella “contemplativa”.
Di solito, la contemplazione è ridotta alla dimensione d’un mero spazio interiore in cui
l’individualità si raccoglie e, per così dire, come ripiegata su sé stessa, si proietta in spazi
diversi da sé, per coglierne la peculiarità.
Ma in realtà, ed a ben vedere, si tratta di qualcosa di ben diverso da una solitudine, sia
pure ricercata per una maggiore apertura (di mente e di cuore): come insegnano non solo
l’esperienza dell’ascolto della Parola e della frequentazione dell’Eucaristia – i due pilastri
su cui poggia la fede del cristiano autentico – ma anche quella dell’adorazione, essa è
invece un’esperienza di profonda ed intensa “relazione” (con Dio e con gli uomini e le
donne in cui la sua divinità è immersa).
E di che indole sia questa relazione, ben lo spiega la stessa etimologia del termine:
adorare viene da ad orem, ossia dal gesto del bacio, del contatto intimo con le labbra tra
due persone che si esprimono così vicendevolmente il loro volersi bene, il loro aversi a
cuore. Una relazione face to face, particolarmente impegnativa dunque, e da vivere nella
verità, che è la premessa essenziale di ogni scelta “di vita”, dunque anche di quello
“schierarsi” che tempi mai così difficili quali quelli attuali esigono da tutti, e soprattutto da
noi.
Giovani – Speranza – Il contesto (tra Italia e pianeta “globale”)
Soffermiamoci ora sui tre profili delle tracce d’approfondimento e verifica che lo schema
distribuitovi propone.
Preferisco esordire con il secondo, perché è il più impegnativo da comprendere ed
insieme il più arduo da condividere: cosa sia la speranza, per un cristiano, e che rapporto
abbia con il futuro.
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Speranza
Il termine “speranza” è molto denso di rilievo, ma difficile da definire.
Esso, presentandosi ad alto impatto evocativo e risultando particolarmente suggestivo, ma
proprio per questo sfuggente, è assai risonante emotivamente, e dunque molto coltivato,
ma pure assai temuto. Il perché s’intuisce bene: il vocabolo allude ad un oltre, di cui non
possediamo le coordinate per contestualizzarlo ed inquadrarlo e le chiavi per decifrarlo,
ma che equivale felicità vera, non illusione.
“Speranza” rimanda sempre, per così dire, a ciò che vorremmo, ma non osiamo (né
attendere, né pretendere).
Comprende, insieme, il sapore un po’ amaro dell’incerto e quello dolce dell’attesa
dell’avveramento di desideri sempre molto intimamente vissuti.
Scommette talora poco sul proprio agire e molto più sull’altrui e, se non di passività
fideistica o fatalismo, si colora addirittura di teismo (quando non di superstizione).
Include, comunque, sentimenti d’ansia e frustrazione in agguato e pretese di gratificazione
o troppo vaghe (per non deludersi) o troppo pronte a sopirsi (per non soffrire).
E così, di regola, accade che questo oltre di felicità lo si viva come se fosse solo un tempo
che verrà in “futuro” ed estraneo alla realtà presente o, addirittura, a quella a venire (in
quanto proprio piuttosto dell’idealità).
Qualcosa d’inattingibile, che funziona come una sorta di gravità ma è privo di forza
attrattiva verso di sé (o, paradossalmente, sprigiona energia repulsiva, suggerendo di non
puntar tutto su di essa nel vivere quotidiano, perché se ne restassimo privi ci sentiremmo
solo presi in giro dalla sorte e dalla vita).
“Speranza” può significare anche altro, invece?
Può essere un vivere l’oggi diversamente, in novità, con occhi che sanno accogliere il
presente scorgendovi sin da adesso quelle tracce di pienezza, di compimento – dunque, di
vera felicità – che vi sono già seminate?
La risposta dipende dall’idea di felicità che ci siamo confezionati.
Per molti, forse per i più, oggi felicità è benessere (e, primariamente, buona salute).
Per noi cristiani, felicità e salvezza (cioè: comunione con Dio) coincidono. E la comunione
con Dio (sappiamo intellettualmente) è sempre fonte di bene, di ogni bene. Perché Dio ci
ama e vuole essere amato da noi; ed ogni uomo e donna hanno bisogno, insieme, di
essere amati e di amare, per vivere felici.
Ma le vie del vero Bene e del vero amore che l’icona del sacrificio del Cristo sulla croce ci
sbatte in faccia (con il volto tumefatto di un uomo sfigurato da un pestaggio di violenza
inaudita, coperto di sputi, sanguinante e con il cuore oppresso dalla volontà di male
sperimentata sulla propria carne, e con lo sguardo di fede di sua madre, che ai piedi del
figlio morente compie il più disarmante atto di fede pensabile in quel Dio che gliel’aveva
dato in dono ed ora non le risparmia tanta sofferenza) sono troppo forti, per quanto tanta
nostra mielosa immaginazione vorrebbe invece esprimessero.
E contraddicono la ben più rassicurante immagine di felicità d’un volto lietamente
sorridente in una luminosa mattina di fine maggio come quella di oggi che, istintivamente,
desidereremmo la incarni.
Per cui rifiutiamo, non solo istintivamente questa volta, ma avvedutamente, di ritrovarne la
declinazione nelle forme disarmanti che essa pur assume: quelle del cinismo e dell’atrocità
di tanti delitti spregevoli e dell’inaccettabilità della loro diffusa impunità; del dolore
lancinante delle esperienze di molte agonie non curabili e di troppe morti non ineluttabili;
della cronicità di sofferenze (fisiche, psichiche e spirituali) logoranti; della sedimentazione
di odi e proliferazione di vicende di violenza e vendette, di trascuratezze ed abbandoni, di
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tradimenti ed inganni, di beffe e di soperchierie, di corruttele e di traffici affaristici, e
finanche di puro amore di male che la cronaca (non solo quella nera) ci spinge a giudicare
ormai normalità – mentre nulla di normale recherebbero a chiunque le osservasse in sé,
ossia decontestualizzate dalla nostra storia presente – di un mondo senza più pace, diritto,
giustizia ed amore misericordioso e come disumanizzato che ci tocca di vivere.
Ma, anche se non ci piace (e men che meno ci seduce) chi realmente sia Gesù Cristo, e
cosa sia venuto a fare e come sia venuto a stare tra noi, resta intatta la verità della sua
identità: Dio che, nel Figlio, ama fino alla morte quegli uomini e quelle donne che lo
rinnegano, lo tradiscono, lo violentano e lo uccidono e ne fa implodere tutta la drammatica
capacità di male di cui sono strumenti in un abisso di bene, redimendone la condizione
con l’offrire del tutto gratuitamente questo proprio amore senza misura come unica via di
salvezza autentica per l’eternità.
Questo insegnamento è duro, straordinariamente arduo da cogliere ed assumere.
Ma sbaglieremmo, se attendessimo che ad orientare la nostra vita nelle scelte
fondamentali e a darci speranza siano, per esemplificare: la vittoria del giusto sull’ingiusto
(ad es. la cattura o la condanna di un killer o di un capo mafioso, o di un imprenditore
truffaldino o bancarottiere o sfruttatore, a dar ristoro alle sue vittime, innocenti e non); o del
buono sul malvagio; o il positivo del rassicurante epilogo delle nostre iniziative, piccole e
grandi (come la prevalenza in una competizione, magari elettorale, che assicura prestigio
e potere insieme).
La vera speranza, per un cristiano, non ha il volto di un vindice trionfante, o quello sazio di
chi ha trovato soddisfazione alle proprie pretese ed ai propri diritti nella vittoria d’un
conflitto o d’una gara o, più semplicemente, se la sa cavare e sta bene.
Essa ha, invece, il volto sfigurato dell’agnello senza macchia sgozzato; ha il volto ed il
corpo violentati di tanti martiri, sofferenti (e finanche uccisi), il cui dolore innocente ed il cui
sangue testimonia come l’ultima parola l’abbia il bene, e non (come pur sembra in
apparenza) il male. E questo perché il loro cuore non ha odiato, ma ha amato, con fede,
fino a dare la vita per i propri nemici.
Essa ha il volto di tanti che, sebbene oppressi e sfruttati, delusi, sconfitti, resi irrilevanti,
dimenticati, o al più ignorati e resi muti, eppure mai veramente soli ma compagni di strada
(spesso generosi e solidali) d’altrettanti marginali, lasciano che la propria integrità non sia
scalfita e la loro dignità resti affidata al semplice essere fedeli al gusto della vita buona del
Vangelo. Ed è questo che li rende veramente grandi, anche se nessuno li cerca o li coglie
come esempi d’umanità piena, e sono loro gli autentici segni della speranza, per questi
nostri tempi così difficili, sebbene, secondo logica comune, tutt’altro che “rassicuranti”.
E sperare, allora, non significa solo e semplicemente attendere dal futuro il compimento di
una salvezza non ancora posseduta.
È vero che il senso autentico della speranza integra un orizzonte escatologico, un vivere
nell’al di qua come fossimo già nell’al di là; ma questo non significa, come purtroppo
sempre più di frequente accade che sia misconosciuto, che vivere il presente non sia già
vivere l’eternità.
Quando una comunità di cristiani non spera più, in un certo senso è come se fosse già
morta: forse annuncia ancora il Vangelo, ma il suo tono diventa stanco, rassegnato, come
con la convinzione che non serva più di tanto, perché l’al di qua ha sostituito per lei l’al di
là. E pian piano, s’avvia a persuadersi che, molto probabilmente, oggi la via della vita
buona tracciata dal Vangelo non sia più seriamente percorribile, che bisogna trovare altre
strade, e giunge ad ammettere che valori essenziali del Vangelo di Gesù (gratuità, amore,
povertà, piccolezza) siano come cose di tempi passati, ed aggiorna il proprio vocabolario,
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con nuovi termini–chiave (efficacia, successo, risorse, forza di numeri e di mezzi, ossia
potenza) che, nel Vangelo, chiunque faticherà a trovare.
Probabilmente, ha esaurito, se non la pensabilità, la stessa “possibilità” della speranza:
non si esercita più in questa capacità, in quest’arte di speranza, non sa più orientare le
attese della vita nella “grande speranza”.
La speranza cristiana, invece, è una vita nuova.
Per meglio chiarire questa prospettiva, potremmo dire così: che sperare significa vivere
già ora secondo uno stile di vita che “anticipi” il futuro, quel futuro che spetta anche a noi
di scrivere, ponendo completamente il proprio fondamento nella pienezza del tempo, nel
“compimento” del tempo, ossia nella gloria di Gesù sulla croce che è la più eloquente
manifestazione dell’amore di Dio per l’umanità.
Ricordate la premessa (della 1 Pt)? Sarebbe come dire: dopo aver preparato la vostra
mente all’azione, puntate sempre più le vostre energie sul Cristo, che vi è stato dato, e che
in voi sta crescendo e … siate svegli, vigilate … perché nella vita nuova della grande
speranza c’è molto da fare ed un alto prezzo da pagare, per far crescere il granello di
senapa affidatoci!
Uscendo di metafora, per meglio spiegarmi, sul punto mi permetto di proporvi una
considerazione del cardinale Martini, di chiarezza evidente, secondo cui la speranza di chi
crede in Cristo (la vita nuova di cui parlavo prima) non è l’ottimismo, ed in particolare non
è l’ottimismo semplice (quello che ti fa dire: beh, in fondo la vita non mi va tanto male, in
qualche modo me la so cavare, alla fine ne esco …).
Anche quando fosse possibile affermare questo – perché è possibile vivere un’esperienza
di questo genere e questo ottimismo reca in sé una connotazione positiva (che è il riflesso
di una condizione felice, frutto comunque un dono di Dio) – la speranza cristiana,
comunque, non gli corrisponde: è altro.
Perché la speranza cristiana non è sapersi accontentarsi (magari di poco, o a buon
mercato …) o anche chiudere gli occhi di fronte a qualcosa che ci appare oscuro, negativo
o ineluttabile.
Non è, insomma, l’atteggiamento di chi non vuole guardare una storia che si va
degradando, pensando che, in fondo, riesce comunque a galleggiare.
È ben altro: è volgere gli occhi alla vita buona quale ci viene da Cristo. Ed è al di sopra di
ciò che ci può sfuggire di mano (o deludere), perché non dipende da condizioni esterne
più o meno favorevoli e perché non è un’ascesi o una via umana che ne assicura
l’attingimento ed il possesso.
Essa è infatti, innanzi tutto, in un dono gratuito, di Dio; ma, insieme, è anche
nell’accettazione di questo dono. E dipende dal sapere elevare lo sguardo, in alto, dove
l’esperienza particolare di gloria del Cristo prima crocifisso che mantiene tutti intatti e
visibili i segni cruenti nel corpo del risorto della sua Passione emana una luce speciale.
Non è solo un guardare al futuro, anche in un mare d’oscurità, senza timore di smarrirsi,
come se nell’oscurità (o nelle tenebre) ci fosse qualcosa come una piccola candelina
accesa a far luce, che da sola, per quanto tenue e fioca, prevale sul buio che
apparentemente potrebbe ingoiarla (ma prima o poi la risucchierà).
In questa luce, la speranza non si deprime, né sparisce, anzi: cresce!
Più l’esperienza della vita sembra invitare a chiudere gli occhi, a lasciarsi andare, quasi
nulla più valesse la pena, questa luce speciale costringe ad aprire invece gli occhi, ad
elevare lo sguardo; ed in questo guardare, intensamente, il tutto ed ogni dettaglio, la
straordinaria vis di cui l’amore di Cristo, come una gravità attrattiva, permea la storia di
ogni uomo e donna nel loro tempo biografico, finisce per far vera chiarezza e rende
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conoscibili i segni obiettivi della Sua presenza: i segni del Bene e della sua particolare
bellezza e contagiosità.
Brevemente e riassumendo: la speranza è il saper elevare con fiducia lo sguardo al Cristo
in croce, il quale esprime un amore che anche oggi, in questo tempo, sta toccando questi
uomini e queste donne in questo territorio.
Il vero problema della speranza, verrebbe fatto di dire a mo’ di battuta, è allora quello
d’indossare per bene gli occhiali, per cogliere dove davvero siano i segni della presenza
del Cristo Risorto nella vita dell’umanità dentro questa stagione particolare che ci è dato
d’affrontare. Segni che, molto spesso, non sono dove ce li aspetteremmo: ossia, dove ci
sono successo, prosperità, sicurezza, stabilità, a cominciare dal bene fondamentale (la
salute fisica).
Quando la speranza è veramente fondata sul Cristo, essa sa insieme elevare lo sguardo
ed anche abbassarlo, verso le realtà pure le più negative dell’esistenza. E le guarda nella
luce del Regno, riconoscendo che già qui ed ora sono beati: coloro che piangono; coloro
che hanno fame e sete; coloro che sono perseguitati; coloro che soffrono.
La speranza dei credenti in Cristo è dovunque una situazione negativa della vita viene
“letta”, accolta ed attraversata con una forza d’amore, un’energia, più grande della
sofferenza, della delusione, dello smarrimento. Ed è, anche, dovunque una situazione
positiva può essere riconosciuta come un preannunzio di pienezza, con riconoscenza e
gratitudine.
Questa è la potenza della speranza cristiana, perché ci permette di vedere e di cogliere
dove umanamente non potremmo (o vorremmo) riporvela mai, la gloria, ossia l’amore con
cui Cristo ci ama, di cui anche noi possiamo essere capaci per gli altri.
C’è in realtà anche un’altra definizione di speranza che pensavo di proporvi.
La speranza in cui credo
Essa riguarda alcuni degli amici che, nella traccia, ho indicato e che desidero
raccomandarvi, in questo percorso che oggi ci vede impegnati insieme e per l’estate ormai
imminente che ci attende, come compagni di strada per questa nuova vita buona.
Questi amici sono tutti dei santi, e tra questi alcuni a me più congeniali e vicini (come i
santi italo–greci di Calabria, fioriti nella tradizione monastica orientale della seconda metà
del primo millennio dopo Cristo), ma anche alcuni martiri.
Tra questi, permettetemi di parlarvi un po’ soprattutto di un francescano, insieme molto e
poco noto, che mi sembra sia straordinariamente significativo, anzi esemplare per questa
Italia e per questi tempi del presente, in riferimento al tema che ci siamo dati d’affrontare:
S. Massimiliano Kolbe.
Noi tutti lo ricordiamo perché quest’uomo, presbitero ed apostolo mariano, finito in campo
di concentramento nella metà della seconda guerra mondiale (perché polacco, religioso e
cattolico), ad un certo punto offre la sua vita per salvare quella di un altro recluso, un
padre di famiglia condannato a morte per una rappresaglia dovuta alla violazione di una
delle innumerevoli ed infami regole di quell’internamento funzionale al puro sterminio delle
sue vittime.
S. Massimiliano sceglie di sacrificare la sua vita per offrire una speranza di vita (e di
futuro) ulteriore ad un suo più sfortunato fratello di prigionia in quel lager.
Racconta papa Paolo VI (nel suo splendido testamento spirituale, dal titolo La gioia
cristiana, altro esemplare strumento per comprendere cosa sia per un cristiano sperare in
Cristo) che alcuni dei testimoni oculari della vicenda della morte di padre Kolbe – cioè
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alcuni tra i suoi compagni di prigionia – sentiti durante il suo processo di beatificazione,
riferirono d’avere capito ad un certo punto che Kolbe da tempo “pensava” ad
un’esperienza di martirio, del proprio martirio, all’interno del campo.
Ed avevano cominciato a provare una paura grande, intuendo cosa nell’esperienza di vita
spirituale del loro amico stava avvenendo e cosa il santo stava maturando: evidentemente,
si trattava di una chiamata particolare che il Signore gli stava rivolgendo, in quei frangenti
così drammatici, per il compimento della sua vita, ma loro non l’avevano capito. Tanto che
gli avevano anche detto pressappoco così: “… ma tu sei matto! Tu sei prete: sei l’unico
che può amministrarci i sacramenti, di cui abbiamo tremendamente bisogno, e che può
celebrarci l’eucaristia; sei l’unico che ci può confessare e sostenere spiritualmente a non
soccombere del tutto al male e a non odiare mortalmente chi ci sta ferendo ed uccidendo;
sei l’unico, insomma, che ci può aiutare a rimanere capaci di umanità. Sei come l’unico
barlume di luce, come una fiammella che ci dà ancora senso per vivere. Non possiamo
permettere che tu ci abbandoni, e così; non possiamo perderti, non puoi “venir meno” a
noi!”
E recalcitravano, cercavano di fargli intendere quanto lui fosse essenziale per loro, che
sarebbero rimasti (almeno per ora) ancora vivi.
Pensiamo per un attimo a quello che è successo anche ad un altro martire, di questa terra
che oggi ci ospita, padre Pino Puglisi: i suoi più stretti collaboratori, comprendendo quanto
rischio per la sua azione pastorale senza sconti e senza accomodamenti in Brancaccio di
Palermo stesse facendo crescere alla sua incolumità, gli andavano dicendo, in un certo
senso: “… ma chi te lo fa fare, calma un po’ i toni, abbassa la voce, cerca di non esporti
eccessivamente, abbi una certa misura e cautela …”; e lui? Lui tira dritto come un treno in
corsa …
Insomma, per farla breve: si verificò quello che più temevano e padre Kolbe esaudì quello
che aveva capito essere la chiamata di Dio per lui.
Con desiderio di adempiere al sacrificio richiestogli, si condusse senza tentennamenti alla
cd. buca della morte, vi rimase per circa due settimane sepolto vivo, nel buio di un
cunicolo (stretto, malsano, umido e maleodorante), senza né cibo né acqua, e fu ucciso da
un’iniezione letale di veleno in vena, perché ancora era vivo quando il carnefice aveva
aperto la porta di questa prigione per condannati a morte per sfinimento e la sua fibra
mostrava ancora intatta una straordinaria, sovrumana capacità di resistenza (che rende
ben chiara la vicinanza a lui del Cristo in croce).
Ebbene, proprio allora, questi compagni ed amici, sofferta indicibilmente questa
incarcerazione e poi questa morte spietatamente attuata in una così terribile agonia,
testimoniarono che in un primo momento patirono l’esperienza della desolazione più
cruenta, della povertà estrema (ed in verità avevano effettivamente perso, in un certo
senso, l’unica ricchezza che ancora avevano per loro …). Ma poi, come per una
paradossale rivelazione, la perdita dell’unico giovamento di cui ancora godevano e questa
loro povertà estrema, umanamente parlando insopportabile, spalancarono alle loro menti
ed ai loro cuori un’evidenza chiara: che, cioè, erano stati come affrancati, una volta per
sempre, da quella paura di morire che li aveva irretiti ed accecati.
“Che mi possono togliere ancora? La vita fisica? Ma poi non mi possono fare proprio nulla
di più!”
Percependo questa sensazione di liberazione, primo frutto del martirio di padre Kolbe fu
allora, quasi immediatamente, un effetto inaspettato: nella baracca dove il santo aveva
vissuto, e tutt’attorno, vi fu come il prodursi (in loro ed in quanti erano loro prossimi) di
un’atmosfera come di serenità, di pace, e tutti questi prigionieri, che avevano respirato
quest’ansia, quest’angoscia spirituale durante la sua agonia, anziché inaridirsi del tutto,
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iniziarono a moltiplicare piccoli e grandi gesti di attenzione e carità vicendevole, e
divennero, per così dire, nel tratto e nella relazione personale, altrettanti padre Kolbe!
E l’effetto ulteriore fu come quello di una fioritura, in un luogo tetro di tinte buie, di estrema
ignominia e fetida bestialità, dove l’uomo stava dimostrando tutto il peggio di cui sa talora
essere capace, di tanti piccoli fiori, delicati ma profumati, assolutamente belli, e colorati di
una spontanea luminosità irradiantesi naturalmente.
E pian piano questa esperienza divenne contagiosa, si diffuse un po’ in ogni dove di quel
campo di concentramento.
Conclude Paolo VI (è qui il termine di questa lunga citazione): quale miglior esempio per
dire cosa siano la speranza e la gioia dei credenti in Cristo!
Sono parole diverse, ma il concetto è identico a quello che vi ho proposto prima nelle
efficaci metafore del cardinale Martini: saper volgere lo sguardo al Cristo risorto, che
mantiene tutte intatte e visibili le stimmate della sua Passione, ci permette di guardare
insieme terra e cielo.
Questa speranza, molto probabilmente, consiste nella capacità di riconoscere il bene con
la b maiuscola, di essere riconoscenti cioè per i doni straordinari che fin dal concepimento
(perché siamo concepiti non per quaranta, sessanta, ottant’anni … ed oltre, per i più
fortunati …, ma per l’eternità) il Signore ha per noi.
Una capacità di riconoscimento di bene e di doni – e, ad un tempo, riconoscenza – che è
insieme forte di luce, cioè di chiarezza: quello sguardo superiore che salva se si eleva e se
sa anche abbassarsi ed è, in una certa misura, un punto d’approdo, un traguardo, non un
punto di partenza; ma comunque un dono.
Senza di me non potete fare nulla
Questa capacità attinge due dimensioni, sono le stesse citazioni evangeliche a chiarirlo.
La prima è: “senza di me, non potete far nulla”; lo dice Gesù, nel vangelo di Giovanni:
“senza di me, non potete far nulla”.
Chiedete e vi sarà dato
E la seconda è “chiedete e vi sarà dato”: la conferma d’un legame d’amore indissolubile; la
certezza d’un rapporto essenziale (voluto da Dio senza alcun nostro merito) e di un
dialogo (costantemente da Lui ricercato); la solidità d’una promessa (per vivere la vita
eterna già qui ed ora) cui la nostra fiducia non potrebbe trovare miglior fondamento.
Siate riconoscenti
Poi S. Paolo aggiunge un’altra considerazione, che sarà di estremo impegno per capire
cosa sia la speranza dei credenti in Cristo, con l’invito: “siate riconoscenti”.
Cosa significhi essere riconoscenti nella condizione di malato terminale di cancro, è un
terribile punto interrogativo; nella condizione di detenuto innocente, è un durissimo punto
interrogativo; nella condizione di oscurità o di cecità o di ricerca (o, peggio, di perdita di
fede), è un grosso punto interrogativo.
Però c’è una perla, preziosa e bella, ma soprattutto luminosa, mi sia permesso d’utilizzare
qui un piccolo slogan, che permette di credere nella vita e di amare la vita; una perla su
cui torneremo.
E allora, chiediamoci, tutti:
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è questa la speranza in cui credo?
Una chiesa di qualità
Nella traccia che vi ho proposto, per cui ho saccheggiato ampiamente alcune riflessioni di
mons. BREGANTINI in un suo libretto (dal titolo La terra e la gente. La speranza in cui
credo), ci sono molte espressioni evocative, ma molto acute e dense, che vogliono
suggerirvi un più specifico percorso di riflessione.
Che può significare, anche per voi, l’invito di mons. BREGANTINI ad “una chiesa di
qualità?”
La vostra è un’associazione ecclesiale. Siete un pezzetto di chiesa. Un piccolo resto
d’Israele, come tanti, con un carisma specifico assai impegnativo: quello della vita con i
più sofferenti.
Ora, la Chiesa non è ovviamente solo gerarchia, organizzazione e strutture; essa è
soprattutto popolo di Dio in cammino, cioè persone – ognuna irripetibile - amate da Dio ed
in cerca di Lui (anche senza esserne formalmente parte), consapevoli (ma non sempre)
d’essere credenti si, ma pure d’avere bisogno che la propria fede sia accresciuta.
Lui ha sottolineato, in particolare, in questo testo, di desiderare una chiesa “più giovane” e
“aperta”. I due aggettivi sono già sufficientemente chiari, non mi fermo a commentarli.
A me, questo tema evoca però altri due profili problematici.
Il primo è riassunto in una frase che ho letto alcuni anni addietro (e mi è rimasta scolpita
dentro, perché è durissima da vivere, anche se assai suggestiva ed entusiasmante):
“la Chiesa si ama per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse”.
È così, anche per noi? Le siamo fedeli?
Si tratta di mettersi in discussione; di mettere in discussione soprattutto la coerenza tra i
principi che affermiamo essere la nostra bussola di vita e le scelte, i comportamenti
concreti della quotidianità, in cui attuiamo e mostriamo questa necessità di coerenza.
Ognuno rifletta, per sé, in un meditato esame di coscienza, in proposito; ma non una
tantum, questo è il mio invito: lo faccia costantemente, come stile di responsabilità e di
maturità (secondo l’adagio della 1 Pt: “… pronti sempre a rendere ragione della speranza
che è in voi …”). In altre parole: ad essere non solo credenti, ma anche credibili, e,
soprattutto, creduti.
Il secondo è in un bisogno che dovrebbe essere certezza: che, cioè, la Chiesa si vive
come la realtà fondamentale, essenziale della propria vita (perché “dove sono due o tre
riuniti nel Mio nome, là sono Io …”). È così, anche per noi?
Siamo capaci, pur essendole fedeli, di ricercare e riconoscere la verità dei nostri limiti, dei
nostri peccati, delle nostre controtestimonianze, quelle situazioni cioè per cui si può dire
che se è certa la santità della Chiesa non lo è altrettanto – quanto sarebbe sperabile e
pretendibile che fosse – la santità nella Chiesa?
Questo difetto, questa nostra mancanza di santità non ci esima allora dal nostro impegno
a dirci lealmente che abbiamo bisogno d’essere veri (ossia autentici) e sinceri (ossia
franchi, così d’atteggiamenti come di parole), a pretenderlo, vicendevolmente, come
quando si ha a cuore qualcosa di troppo essenziale per potersi accontentare di
vivacchiare ...
Dopo aver seriamente riflettuto e meditato, con amore e con affetto, e con spirito di
correzione fraterna, diciamoci allora, sempre, ciò che ci è necessario per crescere.
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Oggi, non domani
Ma c’è anche il problema dell’oggi, e non del domani!
La questione escatologica che era adombrata all’inizio della nostra conversazione è più
seria di quello che possiamo immaginare, perché noi siamo tentati di pensare che la
questione della speranza è una questione di vita eterna, cioè di un oltre che vale per il
domani, e non per l’oggi, ossia di qualcosa che riceveremo, non di ciò che già nel presente
dobbiamo invece “dare”, spendere, di noi.
Oltre, di solito, lo traduciamo in senso cronologico, per noi significa “dopo” (“a poi”, si dice
dalle mie parti) e questo “dopo” può nascondere una visione consolatoria e diventare una
vera e propria rimozione del tempo presente, equivalente ad espressioni del tipo: “oggi tiro
duro”, mi rassegno”, “cercherò d’attrezzarmi, poi ne avrò un compenso”.
Una volta sono rimasto colpito da una frase: “se non ci fosse l’inferno, non riuscirei ad
accettare tanti soprusi, ingiustizie e cattiverie”, ho bisogno di un’idea della giustizia in cui
non c’è solo il paradiso ma c’è anche l’inferno. Come dire: verrà il giorno in cui …
Verrà, certo: ma questo non ci esime dal considerare che è già qui, oggi, ora, e non
soltanto domani, “il giorno in cui”, ossia il regno di Dio!
Uscendo fuori di metafora: dobbiamo abituarci a considerare che questa è già ora vita, e
vita eterna. E questo, praticamente, cosa significa?
Cambiare è possibile
Che questo è ormai il tempo delle scelte e che cambiare non è solo possibile, come
leggete nella traccia, ma, in un certo senso, necessario e doveroso ed a tanto siamo
aiutati fortemente dal quel riconoscimento (da quella luce e dal quello sguardo che sanno
insieme abbassarsi ed elevarsi) e da quella riconoscenza, quella gioia che l’esperienza di
un amore senza misura di Dio per noi può suscitare.
C’è un altro santo, che mi permetto ora di porre alla vostra attenzione come compagno di
strada per questa nuova vita buona, anche se non l’hanno ancora elevato agli onori degli
altari. È don Andrea SANTORO.
Sapete tutti chi è?
Anche lui un martire. Un martire di specie diversa da quella di padre Kolbe.
Era un sacerdote della diocesi di Roma, incardinato quale donum fidei in Turchia, prestato
cioè alle povere e quasi scomparse chiese di questa terra straordinaria (la Terra santa
seconda, come dicevano i padri orientali) ed ucciso da un integralista islamico, in
circostanze e per ragioni rimaste tuttora assai oscure, di sera, nella sua chiesetta mentre
era intento a pregare. Martirio proseguito, nell’anno trascorso, dal suo vescovo (mons.
PADOVESE), pugnalato dal proprio autista, egli pure musulmano.
E c’è un libretto, costituito dalla raccolta delle lettere scritte alle comunità parrocchiali cui
raccontava, in guisa di diario quotidiano, la propria esperienza spirituale di missionario tra
la gente del Nord Ovest turco, in cui i cristiani costituiscono oggi una percentuale quasi
nulla per la popolazione residente (a Iskenderun poco più di un migliaio; ad Odessa, molti
di più, quasi ventimila, prevalentemente ortodossi).
A un certo punto della sua vita, don Andrea chiede di andare a Gerusalemme per un
pellegrinaggio: è un periodo di difficoltà, di forte interrogativo sul senso del proprio
sacerdozio, peraltro di straordinario rigore interiore ed esemplarità nelle condotte, e da
quell’esperienza partorisce il bisogno, per sé, per la propria vita e per la Chiesa, di essere
testimone come presbitero in una chiesa di frontiera, di minorità.
Chiede di andare nella chiesa paolina di Turchia, ad Harran ed Urfa. Sono i luoghi della
rivelazione di Dio ad Abramo, nella regione armena (quella dell’Ararat, dove l’arca di Noè
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sarà depositata al ritirarsi delle acque dopo il diluvio universale e dove ha il suo vero e
proprio inizio la storia della salvezza per l’umanità); ma sono anche i luoghi in cui i cristiani
hanno vissuto nei primi anni del ventesimo secolo la tragica esperienza di genocidio
consumato contro di loro dalla rivoluzione laicista di Kemal Ataturk nei cd. 40 giorni del
Mussa Dagh: genocidio che le chiese occidentali non avevano conosciuto quasi per nulla
nella loro entità ed avevano per così dire negletto (i mezzi di informazione di massa non
erano del resto quelli attuali), cogliendone il reale significato solo dopo l’orrore dei lager
nazisti, e che invece le comunità ebraiche della diaspora avevano subito percepito come
una prova anticipata di shoah.
Don Andrea è parroco anche a Trabzon: un porto di frontiera sul mar Nero, popolato dopo
l’apertura delle frontiere dell’ex Unione Sovietica da molti pendolari dei cantieri navali ed
edilizi dei tanti insediamenti residenziali per turisti europei ed americani di quelle coste
bellissime, ed anche la cittadina numero uno per prostituzione in tutta la Turchia.
Questo lo scenario che don Andrea va ad affrontare, con uno stile che in questo libro, che
vi consiglio caldamente (sarà un ottimo sussidio per quest’estate, se lo vorrete
assaporare), emerge chiaramente: un atteggiamento esemplare di un uomo di fede, di
vera fede.
Noi siamo abituati a pensare che aver fede sia credere; che avere fede significhi
riconoscere che Dio esiste, che ci ha creato, che ci ha dato questo pianeta per viverci.
No, non è questa fede, o, almeno, la vera fede: anche il demonio crede che Dio esiste, ma
non lo ama, affatto, anzi, lo odia e gli è profondamente ostile, così come odia con profonda
ostilità ogni essere umano, ogni creatura, perché amata da Dio. Il demonio dunque ha
fede, nel senso della credenza, della conoscenza, ma non nel senso della fiducia in Lui,
dell’amore per Lui.
Don Andrea SANTORO è un uomo che ha capito perfettamente che il problema vero, il
bivio della fede per la vita è questo: che significhi la fede non come esperienza di mera
conoscenza, ma di amore.
Fatta esperienza d’aver ricevuto l’amore senza misura di Dio, questo amore non si può
non spenderlo, non si può non restituirne almeno un po’, almeno una briciola di quello che
si è ricevuto; non si può cioè non amare a propria volta con un amore vero, che può
chiederti tutto, anche il sacrificio della tua vita qui sulla terra.
Questo è ciò che don Andrea ha capito, per cui, come nel caso del mercante, trova la
perla preziosa, va, vende tutto, la compra ed è felice.
C’è una bella espressione di Benedetto XVI per un’omelia del giovedì santo di alcuni
addietro – quella della lavanda dei piedi (per intenderci) – che ci rammenta che dobbiamo
prestare il nostro corpo a Gesù Cristo, oggi, per renderlo visibile: non è cosa da poco, ma
grossa.
E d’altra parte è quello che ha fatto non solo don Andrea, ma anche padre Pino PUGLISI
(pure lui martire per fede, cioè per fiducia, ossia per amore), quando ha vissuto il suo
ministero morendo di morte violenta perché semplicemente prete, fino in fondo, e non
(come pure taluno pare preferire di ricordare) perché “prete antimafia”.
Sono figure, mi rendo conto, la cui biografia non sembra, in prima approssimazione,
pacificante o rassicurante: è inquietante, piuttosto.
Eppure, ci ricordano che quando giunge il tempo delle scelte decisive per la vita, non si
può essere tiepidi (né freddi né caldi, si legge nel Vangelo).
Gesù stesso (con un accento decisamente “forte”, forse inconsueto) ha detto: “se siete
tiepidi, vi vomito”.
Immaginatevi che pesantezza allora può esserci in una vita spesa con questa modalità,
con questo spirito, con questo sentimento e cosa, invece, può essere una vita spesa per
fede, e con fede!
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GIOVANI
Veniamo ora all’altro termine (ed al secondo profilo) della nostra riflessione .
Chi è giovane, oggi?
Nell’antico diritto romano, dopo gli infantes minores (fino a cinque anni d’età) e quelli
maiores (fino a quattordici anni), vi erano gli adulescentes (“coloro che si irrobustiscono”,
noi diremmo: “si fanno le ossa”, si allenano; fino ai ventuno anni d’età) e quindi gli iuvenes
(coloro che “sono in rigoglio”, che erano identificati nello scaglione anagrafico fino ai trenta
anni). Solo ulteriormente (e fino ai quarantacinque anni) si parlava di viri, ossia di adulti, e
quindi di senes o seniores (i quali erano tutti coloro che avessero maturato, oltre i
quarantacinque anni e normalmente intorno ai sessant’anni, un’esperienza sociale
rilevante e sperimentata nell’adultità tale da ammetterli alle responsabilità pubbliche più
gravi, come il fare le leggi; diremmo, il motore di una comunità organizzata, i facitori della
legalità).
Voi avete varie età. La maggior parte di voi, ne sono certo, si definisce e si riconosce
“giovane”; ma fino a quando durerà questa stagione e quanto è invece già esaurita?
Secondo l’ultima indagine statistica qualificata sull’argomento, che troverete nella
pubblicazione L’eccezionale quotidiano, dell’Osservatorio nazionale sull’infanzia e
l’adolescenza, probabilmente sarete inseriti nelle scaglione di coloro che sono definibili
young for ever, e non per scelta, ma per necessità, dettata dalla precarietà
dell’inserimento lavorativo e della stabilizzazione della posizione personale, familiare e
sociale.
Precarietà che, indubbiamente, riguarda anche e soprattutto l’aspetto vocazionale, ossia
quello delle scelte fondamentali (tra cui essenzialmente l’autonomizzarsi sia in senso
economico sia in senso abitativo, l’instaurare o meno un legame affettivo significativo,
metter su una famiglia, avere dei figli, etc.).
Sulla cd. questione giovanile si potrebbero dire tante altre cose, ma a me interessano due
messaggi da trasmettere, in particolare.
Vi si potrebbe definire “coloro che sono in stand by”, e non vorrebbero più di tanto
rimanerci, né così a lungo (come sembra pronosticabile che debba avvenire, per il
prossimo quinquennio almeno). Quelli del “non già” e del “non ancora”, che affrontano la
condizione problematica di chi cerca un domani, e non un evanescente ed incerto futuro,
ma che non sa se e quando esso potrà mai avere concretezza in un progetto di vita (che
sia attuabile in approdi e traguardi reali).
Cercate di smentire, allora, questa sottovalutazione del vostro indubbio potenziale.
Ma avete difficoltà supplementari.
In primo luogo, sperimentate la triste carenza educativa dei vostri adulti di riferimento, cioè
la povertà da deprivazione di cura educativa e da non comunicazione (per deficit
d’adeguata maturità) tra generazioni che il tempo presente sta accentuando viepiù e che
rende assai disagevole la transizione all’età delle scelte responsabili ed impegnative, se
non proprio irrevocabili. Detto incidentalmente: si parla della condizione giovanile come
quella latrice di disagi a vario e largo spettro, mentre (come ho sentito una volta in un
convegno) “disagiati sarete piuttosto voi adulti; noi non ci sentiamo affatto tali!”
In secondo luogo, vivete tempi di radicale e diffusa problematicità e di crisi dei rapporti di
coppia, intesi come fondamento proprio d’ogni vocazione familiare, e di paura di rapporti
stabili.
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La stagione che vi è dato di vivere propone dunque, in linea generale: paura di futuro;
paura di legami stabili e permanenti; difficoltà di ottimismo (anche solo semplice, nel senso
che avevamo accennato); e queste, che sembrerebbero essere le coordinate attuali del
“pianeta giovani”, per come disegnato almeno dalla indagini sociologiche più accreditabili,
non sono prospettive certamente né gradevoli né intriganti.
Dimostrate, allora, di fronte a tempi così impegnativi, che la pasta di cui siete fatti è quella
di autentici protagonisti, non di gregari disposti solo a subire.
Ma, in un simile quadro, è possibile pensare a sogni, a progetti, a utopie?
Ed è possibile, poi, avere forza di profezia?
Il contesto (tra Italia e pianeta globale)
Quello che ho sintetizzato prima circa la condizione giovanile è un po’ il quadro riflettente
l’assetto ordinario della vita quotidiana dell’Italia come paese reale.
Ma la criticità del caso Italia è, per così dire, più profonda, culturale ed estesa allo stesso
piano istituzionale.
Il mio contesto, tra Italia e pianeta globale
Dopo una “seconda repubblica”, mai istituzionalmente formalizzata ma concretamente
impostasi (“a prescindere” dalla Costituzione vigente), galleggia oggi una “terza
repubblica”, insieme “virtuale” e “reale”.
Non è ancora (giuridicamente) nata, ma è già concepita, tanto che è facilmente
osservabile (negli ambienti privati ma anche in piazze, scuole, e pure negli ambienti
ecclesiali) e mostra di sé caratteristiche inquietanti. Nelle famiglie di fatto ed in quelle di
diritto; nei figli nati e in quelli non voluti (o rifiutati); nelle sofferenze delle relazioni affettive
ed educative; nel selvaggio competere e soccombere dei più (nei mercati della produzione
e del lavoro); nel crescere di nuove povertà; nell’eclisse della solidarietà verso i più deboli;
nell’apatia strisciante, crescente fino alla disaffezione, verso la democrazia partecipativa e
nel rifiuto in quanto tale dell’impegno (civile); nella crisi dello Stato, sia nel modello del
welfare sia in quello del (più recente) neoliberismo.
I colori del mondo: i Sud e i Nord
E mentre il pianeta sembra segnato da un tempo d’epidemia collettiva, che ha sradicato
molti da una speranza solidamente fondata circa il futuro, è diviso tra i Sud che faticano a
sbarcare il lunario e vedono accentuarsi il rischio di una loro marginalizzazione sempre più
accentuata ed i Nord che isteriliscono in un presente consumistico ed inaridiscono nella
difesa ad oltranza della loro pretesa (e presunta) superiorità di know how, in realtà senza
spessore né prospettiva, anche lo scenario nazionale e quello locale stanno manifestando
problematicità inquietanti: il non riuscire a proporre un patto, un nucleo di valori
rappresentativi di un modello di comunità in grado d’integrare in sé generazioni diverse
(native ed immigrate, anziane e giovani); il non saper riconoscere e vivere virtuosamente i
mutamenti delle forme e delle regole della democrazia e le nuove forme di partecipazione
e dialogo che si vanno diffondendo; il non saper rendere più efficienti ed insieme meno
costose le istituzioni di governo delle comunità (a qualunque livello: pensiamo alle
circoscrizioni …).
Nel caso poi dei diversi Sud di questa stessa Italia sempre più sofferente, divisi ormai
anche nell’immaginario diffuso dai suoi Nord più opulenti ed altezzosi, quattro in
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particolare sono le caratteristiche più attuali del caso serio ulteriore di questi territori che
desidero evidenziarvi:
-
la modernità estenuata, nel contesto di una modernizzazione senza sviluppo;
e cioè:
la diffusione di stili di vita che non abbiamo contribuito a progettare, né a
realizzare né in qualche misura ad alimentare), per cui notevoli sono
l’omologazione e l’indifferenziazione, prevalentemente – ma non esclusivamente
– tra le generazioni dei giovani, che rendono i calabresi assai somiglianti a
persone che vivono stabilmente in aree territoriali, culturali e geografiche
notevolmente distanti da loro, ma nel contempo sostanzialmente gregari
nell’esperienza del confronto e della crescita rispetto ai non calabresi e privi di
memoria circa le loro radici (in una scuola della mia provincia, un liceo classico
del resto, m’è capitato che gli studenti non sapessero dove e cosa fosse la Magna
Grecia …);
-
le vicende di migrazioni frequenti e intense (sia immigrazioni, sia emigrazioni), che
stanno rendendo l’aggregato dei conviventi sul medesimo territorio non più un
vero e proprio popolo, bensì una mera popolazione;
accadimento, questo, che, nella storia recente del Mezzogiorno (già caratterizzata
da anomia ed alegalità diffuse tuttora assai problematiche), favorisce l’ulteriore
disamore verso la terra d’origine e lo smarrimento delle sue radici, con una seria
perdita di aspettative e di speranza verso il futuro di chi abbia la disavventura –
come molti giovani – di dovervi comunque continuare a vivere (senza neppure più
poter nutrire utopie positive quanto al loro futuro) all’insegna della mera
sopravvivenza immediata;
-
la cd. questione istituzionale, cioè quella del divario tra cittadini e loro
rappresentanti politici (forse mai come oggi acuto);
-
il perdurare della radicata, dilagante e diffusa presenza oppressiva mafiosa (sul
punto non sono necessarie chiose specifiche da parte mia).
Le nuove povertà, i nodi da sciogliere
I nostri sono così diventati tempi difficili, rispetto ai quali le nostre capacità d’analisi
appaiono chiaramente insufficienti ed annaspanti e non in grado di renderci protagonisti di
progetti efficaci di futuro già nel breve periodo: tempi di nuove povertà personali (le fragilità
e le malattie, anche spirituali, di tanti) e collettive (con la grave sofferenza della
democrazia partecipativa), di deficit evidente nei bilanci esistenziali delle positività ed
incremento delle negatività.
È vero che, diverse volte, i vescovi del Mezzogiorno sono intervenuti, con documenti di
varia qualità e fortuna, a sollecitare prassi virtuose che inneschino percorsi di verità, di
coraggiosa proposta, di denuncia capillare e tenace d’ingiustizie e malaffare, ed hanno
rivendicato un rinnovato patto unitario, che attui la solidarietà tra territori e municipalità e
respinga tentazioni secessioniste o chiusure egoiste dei più privilegiati verso i meno
avvantaggiati.
Per tutti, vorrei ricordare l’esemplare enunciazione dell’invito formulato dalla Conferenza
episcopale calabrese pochi anni addietro (con il triplice “annunciare/denunciare/rinunciare”
di un messaggio di una certa notorietà nell’ambiente non solo ecclesiale): apparentemente
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soltanto dei verbi, ma, nella sostanza, soprattutto scelte pesantissime, durissime, per le
implicazioni che recano.
La strada, comunque, è tutta in salita.
Per darne conferma, vorrei raccontarvi un breve aneddoto, che mi sembra ben rifletta un
sentir comune ormai: prima di venire qui, confrontandomi con alcuni amici sul nostro tema
di oggi, ho chiesto loro: “se vi invitassero, voi, cosa direste a dei giovani cui vi è chiesto di
parlare di speranza e di futuro, oggi, in Italia?”, qualcuno di loro mi ha risposto “io andrei
da un’altra parte … “ (ossia, preferirei non andarci, non parlare, oppure scappare).
Ad ogni modo: il denunciare, credo che un po’ tutti intendiamo cosa significhi, e quanto sia
nel contempo necessario; il rinunciare, invece, credo sia un momento d’estrema prova e
difficoltà: ma quando giunge il tempo in cui le scelte devono essere fatte (e questi sono
tempi di scelte, non d’attesa guardinga e di smarcamento continuo dalle difficoltà),
l’annuncio ci sia e sia esemplare, non una controtestimonianza.
Tanti sono però i nodi da sciogliere: un esempio, per tutti, la questione delle pratiche di
clientelismo (che sono, nel delicatissimo intreccio pubblico/privato scaduto profondamente
nell’ultimo decennio un riflesso della crisi della partecipazione alla vita democratica e della
cittadinanza attiva e responsabile donde trae origine l’odierna contingenza italiana di
gravissima crisi di bene comune da tutti constatabile).
Io … noi … Testimoni di speranza?
Chi e come oggi è, o può essere, testimone di speranza? Quanti, tra noi? Tutti?
E dei giovani, in particolare, “possono” o “devono” esserlo?
E può, ancora, un non credente essere testimone di speranza? Di quale speranza?
La domanda può essere espressa anche in un’altra forma.
In questa sala sono rappresentate tante età, tra loro anche abbastanza distanti, e molte
stagioni di vita.
Ognuno di noi, credo, riesce bene a percepirsi, in questo momento, nella sua irripetibilità,
nella sua individualità, ma, quale vero e proprio microcosmo, temo anche esaurisca
questa percezione ponendosi come al centro dell’universo (o di quella porzione di universo
che riesce a cogliere dal proprio personale punto di vista, con la propria biografia) e quindi
mantenendo la cattiva abitudine di pensare al futuro in termini troppo privati o addirittura
individualistici.
Abitudine che ci rende poco attenti e poco disponibili a cogliere e valorizzare i momenti
sociali della nostra esistenza protesa in avanti.
La lettera agli Ebrei ci dice che però un cristiano non ha qui, cioè in terra, una città
permanente, ma è in cerca di una città futura. Il Paradiso, la Gerusalemme celeste, l’oltre,
la parusia, l’escatologia di cui parlavamo prima, certo: ma anche l’oggi, quell’oggi così
intriso di vera speranza del riconoscimento del quale abbiamo, credo compiutamente,
chiarito il rilievo e l’importanza.
Ed allora: io; voi; noi; quale futuro cerchiamo?
Quel Domenico Farias di cui vi aveva narrato in principio ha molto ben scritto, al riguardo
(ed era in agonia per un cancro, quando ha pubblicato un articolo di cui proverò a darvi
qualche breve lettura su questo nostro tema; cancro che l’ha ricondotto a Dio appena una
settimana dopo …) che davvero complessa ed ardua è la presa di coscienza dei tempi
sociali.
È molto più facile per un uomo, al passare degli anni, progredendo nella conoscenza
vissuta della propria esistenza, capire il senso dell’infanzia, giovinezza, maturità,
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vecchiaia; e queste sono fasi della vita che diventano senza troppa difficoltà memoria,
diario, autobiografia,
Capire, invece, che anche una comunità nasce, cresce, declina ed alla fine si estingue
richiede molta sensibilità in più.
È però vero che in situazioni storiche eccezionali (non c’è bisogno degli tsunami e degli
incidenti nucleari recenti del terremoto giapponese per rammentarcelo) “i rapporti tra
l'individuo che progetta il proprio futuro o che almeno, in qualche modo, si dà da fare per
sopravvivere, e la società circostante – ultradinamica, o invece sclerotizzata, o addirittura
in agonia – possono farsi molto drammatici.”
L’individuo può vivere dolorosamente eventi che costringono, volenti o nolenti a
riconsiderare globalmente i fondamenti più elementari della convivenza, o addirittura
decidere di tagliare i ponti e scappare. Scappare … ma dove? Ci sono paradisi in terra? E
perché scappare, poi?
I tempi difficili sono un po’ dovunque oggi: noi italiani, francesi, inglesi etc. in cerca di
un'Europa metaeconomica la cui costituzione giuridico – politica appare sempre più
nebulosa, stiamo assistendo quotidianamente all’esperienza di centinaia di
extracomunitari che arrivano (praticamente ormai da ogni parte) e che non solo sono alla
ricerca, ma sono in fuga, verso un'altra patria di cui ignorano tutto o quasi.
Gli basta, in qualche modo, sopravvivere.
È o no, questa, per loro e per noi, un’esperienza seria di prova di fede?
In questo contesto le parole "non abbiamo qui una città permanente, ma ne cerchiamo una
futura” possono essere qualcosa di più di una semplice suggestione, a patto che non
siano mera descrizione della nostra cronaca quotidiana, ma assunzione d’impegni di vita.
Volenti o nolenti, che lo sappiamo o no, siamo già avviati a questa città futura:
-
sia che siamo extracomunitari senza futuro, perché senza pane e disperati di
poterlo avere;
-
sia che siamo extracomunitari che hanno il sogno di poter soccombere in quella
malintesa forma di santità che è il terrorismo dei kamikaze (che danno morte e si
danno morte in quella che per noi è un’insensatezza nichilista totale ma che per
loro è via di paradiso) come se fosse quella la frontiera per attingere il vero e
desiderabile futuro;
-
sia che siamo comunitari senza futuro, perché non sappiamo se e come prolungare
negli anni avvenire uno standard di vita (cioè un consumismo) quale non si era
avuto mai nella storia dell'umanità;
e condividiamo la stessa temperie storica ed epocale d’incertezza sul futuro.
Qualche mattina fa, in supermercato, la radio che accompagna i clienti negli acquisti dava
notizia di uno studio recente sull’opportunità o meno per i genitori d’acquistare un
telefonino per i bambini di età fino a sette anni, che sempre più lo richiedono … perché in
realtà si è accertato che già ne possiedono più di uno, e non si tratta solo di quelli
dismessi dagli adulti di riferimento – perché ormai tecnologicamente obsoleti o guasti – ma
anche di quelli ricevuti in dono, magari in occasione di ricorrenze ordinarie o straordinarie,
fruiti non come strumenti di comunicazione bensì come strumenti di gioco, meglio, quali
gadget per il quotidiano.
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Fino a vent’anni fa, però, a Sarajevo, per una guerra altrettanto insensata ed un conflitto
interetnico di cui tuttora le popolazioni salve patiscono le dolorosissime conseguenze,
giovani della vostra età e condizione sociale soffrivano fame e sete, non avevano più
l’elettricità – non per connettersi ad internet, ma per illuminare le loro buie paure notturne
di bombardamenti, saccheggi e pulizie etniche inaudite – e rischiavano la vita sotto il tiro
dei cecchini per attingere una piccola riserva d’acqua giornaliera alle poche fontane
accessibili nelle strade dopo il sabotaggio degli acquedotti urbani o azionavano congegni
antidiluviani a manovella per fornire con generatori di fortuna o improvvisati un po’
d’energia elettrica ai dispositivi essenziali d‘una casa moderna, mentre voi oggi sareste in
sindrome d’astinenza se non poteste ricaricare tranquillamente i vostri lettori o ipod
scarichi…
Ma anche il proliferare delle polizze assicurative di un decennio addietro e l’economia
finanziaria parassitaria della cd. bolla speculativa di due anni fa ci rammenta di tempi in cui
il denaro ed il benessere da esso ritraibile sono stati e continuano purtroppo ad essere
l’unica bussola delle scelte di vita di molti, come se il futuro ce lo si potesse comprare o
assicurare – in tutti i sensi – a buon mercato e con un utile netto a rendimento garantito e
l’unico obiettivo sia quello di dare ai figli una casa, un conto in banca, una rendita
consistente per il primo avviamento della loro autonomia!
Ma siamo davvero sicuri noi adulti già maturi (almeno anagraficamente) che si sarà, di qui
a dieci – vent’anni, ancora un mondo da vivere per questi nostri figli?
O avremo problemi dì inquinamento, di mancanza tale di risorse essenziali – come
l’acqua, cd. risorsa non rinnovabile, la cui penuria è causa di desertificazione crescente di
molte aree continentali e é considerata come l’oro blu, la risorsa strategica determinante
molto più del petrolio per l’equilibrio planetario dei prossimi trent’anni – da far rischiare loro
l’autentica sopravvivenza?
Non dimentichiamo, poi, che negli USA è tuttora fiorente la vendita di bunker antiatomici,
ossia di costruzioni ad uso abitativo stabile sicure in caso di cd. allarme rosso, con kit
d’autosufficienza per circa tre, quattro settimane e che già oggi, ad Atlanta, vi sono
quartieri iperprotetti concepiti dagli architetti, per la difesa dei loro residenti dalla criminalità
comune ed ordinaria, non più come gli attici a vetratura totale della Manhattan eternata da
Woody Allen, ma come antichi castelli feudali, muniti di finestre a feritoia antintrusione con
potenziata illuminazione artificiale interna – ovviamente, surrogatoria di quella naturale – e
ricostruzione in ambientazioni virtuali dei paesaggi non altrimenti godibili – e di sofisticate
barriere con riconoscimento contestuale delle impronte papillari, dell’iride e del timbro
vocale per ammettervi all’ingresso chicchessia.
E d’altra parte:
se ci sono fior di analisti e tecnici che studiano tali trend ed offrono soluzioni pianificate di
sicurezza siffatte, accessibili peraltro solo a chi se le può permettere, è segno evidente
che l’attuale stagione d’incertezza non fa presagire nulla di buono all’orizzonte, ed anche:
se gli armamenti démodés di Gheddafi – che pure massacrano come quelli ultratecnologici
di Obama – la fanno da protagonista sui media e paiono monopolizzare l’attenzione;
altrove rimangono del tutto attuali le gravi ansie derivanti:
da un Iran in belligeranza totale con l’occidente;
dalla polveriera sempre attuale – non a caso, del resto, perché, in un certo senso, tutto si
tiene, don Andrea Santoro aveva fondato un’associazione, Finestra sul medio oriente,
proprio per coltivare la pace nell’area più instabile del pianeta … – del medio oriente;
dai regimi ambigui dell’estremo oriente asiatico;
e non sappiamo che scenari andranno a disegnarsi nel futuro immediato e prossimo:
se, cioè, soffieranno venti di pace o si determinerà quel conflitto globale distruttivo
preconizzato da Jeremy Rifkin (nel notissimo saggio sullo scontro delle civiltà e sul nuovo
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ordine mondiale che ne potrebbe scaturire), dopo l’avvento dominante sulla scena della
Cindia e del suo modello di sviluppo. Un modello che prevede: un degrado crescente fino
all’insostenibilità dell’ambiente (di cui le gru da tonnellate dell’urbanizzazione a
cementificazione spinta di molte megalopoli cinesi ed indiane sono l’emblema più
eloquente); lo sfruttamento senza remore o pudori di sorta dei lavoratori (pura risorsa
produttiva, o “materiale umano”, come si usa definirli); strategie aggressive e incursioni
speculative più o meno selvaggiamente gestite sui mercati mondiali (nella conquista di
quote di clientela e di proprietà azionaria) ed impiego cinico di qualsiasi capitale
disponibile previo suo lavaggio e riciclaggio accurato (tanto, pecunia non olet …); nessuno
scrupolo deontologico e libera recedibilità dai patti assunti; sinergia tra potere politico
(militare e poliziesco) ed economico-finanziario; estrema spregiudicatezza nella gestione
di rapporti internazionali.
“Riusciremo in questa contingenza a non dimenticare le pagine più semplici del Vangelo
che tante volte proprio di questo parlano e ci istruiscono? O saremo così sciocchi da
pensare che ci sia qualche potere umano così forte da poterci togliere il futuro?”
In un cartello si è letto, una volta, questo slogan: “la mafia è potente, ma Dio è
onnipotente”.
Certo, è così; ma Dio non è solo onnipotente: indubbiamente questo è uno dei i suoi titoli,
ma io ne preferisco un altro, quello d Dio padre (un padre buono, un padre
misericordioso).
Ed il futuro è di Dio, Lui è la nostra speranza, cioè un futuro “sempre aperto”. Un futuro,
per dir così, che sembrerebbe almeno in parte già scritto, ma non lo è del tutto: perché
spetta a noi, a voi scriverlo, nelle tante pagine bianche di questo libro aperto.
Noi possediamo oggi l’alfabeto di questo futuro, forse non anche una grammatica; di certo,
non abbiamo ancora una sintassi.
Abbiamo però molte, e buone, ragioni per vivere gioia e speranza in questi nostri anni così
difficili, cioè per vivere situandoci nello sguardo luminoso di Dio, riconoscendovi il Suo
disegno di bene per ogni uomo e donna Suoi figli ed amando a pieno questo tempo.
Questo non é un tempo, insomma, da fuggire, ma di grandi opportunità di bene e
l’avvenire cui possiamo contribuire è alla nostra portata, perché è un futuro aperto.
Io desidero salutarvi – e vi ringrazio d’avermi accolto ed ascoltato con così tanta pazienza
e cura – con l’auspicio che l’esperienza di questo incontro sia stata positivamente
inquietante, per tutti noi: il lievito ed il sale, nella massa, funzionano se e quando
scompaiono, lo sappiamo tutti, ed il problema maggiore è quello di quando il sale perde il
suo sapore ed il lievito non fermenta più.
L’augurio è che ci aiutiamo, nell’esperienza della Chiesa, ad essere come il buon sale ed il
buon lievito (che ci sono, ed infatti si sentono – perché danno un certo gusto, che si
riconosce – ma non si vedono … perché spariscono).
Ed io lo faccio subito …
Grazie ancora a tutti!
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Testo della conferenza