AZIONE CATTOLICA E SESSANTOTTO: CHE COSA RESTA? Che cosa resta del Sessantotto? Comincerò con una breve testimonianza. Nel Sessantotto ero in Fuci. Da studente tra il 1961 e il 63 avevo organizzato al liceo di Brescia una “prefuci” con l'aiuto di due padri filippini, Manziana e Bevilacqua. Già allora parlavamo di riforma della Chiesa e di cultura critica, riforma della scuola e della società. Si facevano manifestazioni, si voleva democrazia nella scuola. Lì mi ricordo le prime manganellate, le trattative con la polizia. Mi ero poi laureato alla Cattolica di Milano, in Legge, ai primi di novembre 1967, il clima era già acceso, avevo partecipato a dibattiti e a educatissime “occupazioni” da vari mesi. Appena laureato mi iscrissi a Filosofia (che presto lasciai sia perchè mi trasferii a Roma per fare il giornale della Fuci, Ricerca, sia perchè la cultura accademica stava diventano l'oggetto delle nostre critiche... Devo dire che per noi fucini di quegli anni, il Sessantotto non fu una gran sorpresa. Anzi, ci ritrovammo facilmente nel clima di anticonformismo e in quello stile critico verso la politica e la cultura dominanti. Potrei dire, semmai, che il movimento studentesco, del quale molti di noi facevano naturalmente parte, ci diede il coraggio di esprimere con parole e fatti quanto avevamo pensato da tempo. La Fuci si occupava tra l’altro di “politica universitaria” e da tempo lavorava per un superamento degli schieramenti precostituiti, cercando di rivendicare l’autonomia universitaria e invocando una profonda riforma degli Atenei e della politica scolastica. Da parecchi anni infatti non era più quella associazione “collaterale” alla Dc che aveva potuto essere ai tempi di Dossetti e De Gasperi. Moro era ancora sulla scena, ma sempre in difficoltà, emarginato, insidiato, calunniato anche da quelli che avrebbero dovuto essergli amici. Noi capivamo e apprezzavamo il suo sforzo, ma sentivamo che il nostro compito era di guardare più in là. Analogamente potremmo dire per la vita ecclesiale e il rinnovamento promesso dal Concilio, che tuttavia tardava ad arrivare. Volevamo un gran bene a Paolo VI (ed anche naturalmente a tanti vescovi e preti e a tutta la Chiesa) ma ci sembrava necessario e doveroso denunciare il ritardo e la insufficiente convinzione nella attuazione del concilio, nella purificazione della fede, nel dialogo col mondo moderno. Questo atteggiamento da intellettuali critici e disorganici ci costò molto caro, perché finimmo quasi tutti, noi della presidenza nazionale di quegli anni, emarginati e sospetti in un tempo in cui, dal Pci alla Dc fino ai movimenti tipo Gs e poi Cl, gli intellettuali era sopportati soltanto se organici, funzionali, decorativi e peggio. Infatti persino nel mondo cattolico più vicino dissero che la Fuci non c’era più, oppure che aveva perso la sua vera fisionomia, quasi fosse quella di presidiare un “ordine stabilito” che era piuttosto un disordine. Così facilmente finimmo con l’esser considerati untori - mentre cercavamo d’esser medici o, almeno, osservatori attenti - secondo quel classico errore di prospettiva per il quale si scambiano per avversari quelli dei nostri che con maggior coraggio si battono sulle barricate in prima fila. (Ma stanno di qui e non di là; e possibilmente semmai cercano di capire e persuadere l’avversario, anziché bombardarlo di lontano). E infine, con interventi d’autorità, tentarono di farla sparire davvero, la Fuci; senza tuttavia riuscirci. Ma questa è vicenda degli anni ’70. Noi avevamo preso sul serio il ’68 perché avevamo maturato da tempo la convinzione che il mondo stesse cambiando profondamente e che l’ antico sistema fosse entrato radicalmente in crisi. Non era allora – come non lo è neppure oggi – un fatto evidente a tutti, poiché la secolarizzazione non era esplosa, la scristianizzazione era nascosta dalla temporanea permanenza di abitudini esteriori, il boom economico sovrastava la crisi dei valori, l’antico prestigio della cultura accademica faceva da baluardo e consentiva a molti di credere ancora che la cultura delle università fosse sempre viva e creativa, mentre ormai lo era in ben piccola misura. Il Sessantotto ci confermò in una intuizione che avevamo e ci permise di dire a voce alta che era spesso miserrima la qualità della cultura, della creatività, della giustizia, della progettualità predominante nella società. La quale sembrava quelli che corrono sempre di più, senza sapere dove vanno. E dunque ritenevamo che ci fosse bisogno di un gran soprassalto critico, in tutte le direzioni, dagli atenei alle professioni, dalla politica alle scienze, alla filosofie, alle religioni. Una “contestazione permanente” di quel che è, per affermare che può e deve esser migliore. Si andava sulla luna, in quegli anni; e a noi sembrò ragionevole chiedere (ma fummo quasi soli, e derisi) chi avesse scelto quella meta anziché altre per l’impiego delle risorse disponibili; e se in genere ciò non nascondesse un radicale problema di democrazia e di giustizia. E se non fosse più giusto, e integralmente umano (eravamo gli ultimi, ma non ripetitivi, discepoli dell’umanesimo integrale) pensare e progettare una società più integrata, razionale e fraterna (un po’ quello che Paolo VI intendeva con civiltà dell’amore) e sperare una Chiesa della koinonia, della diakonia e del dialogo, radicalmente protesa all’evangelo. A me sembra che oggi sarebbe ben difficile dire che avessimo torto; anche se certo abbiamo molto sbagliato fidando troppo nell’utopia e talora in qualche deriva irrazionalistica; credendo ingenuamente che le proposte lanciate con disinteresse potessero incontrare ascolto intelligente e risposte efficaci. Ben altro realismo e disincanto ci voleva per leggere tutti i lati della realtà… ma non credo che avessimo torto. E sono ben convinto che se si vorrà ricominciare a costruire qualcosa, in questo scenario desolato che abbiamo dinanzi, in questo baccanale di esteriorità, ebbene bisognerà ricominciare dal Sessantotto. E domandarsi perché alle domande di quella stagione non furono date le risposte giuste; anzi furono date quelle peggiori possibili, della sordità, della repressione e persino della provocazione sanguinosa. Soprattutto bisognerà ripartire da quelle pagine, idee e persone – come certo furono tantissimi fucini – che non si lasciarono poi spingere dalla delusione verso le tentazioni della violenza né tantomeno si “pentirono” in vista di comode carriere: utili ai patrimoni personali e devastanti per la speranza comune. Ma oggi, che cosa resta del Sessantotto? Da più parti e con differenti approcci ce lo si è chiesti: dopo quarant’anni che cosa resta del Sessantotto nella cultura e nella società di oggi? Domanda giornalistica, posta in questi termini. Eppure buona occasione per un esame di coscienza, per uno sforzo di riflessione, di bilanci e di prospettive. Certo sappiamo che il Sessantotto non è stato un masso erratico o un meteorite improvvisamente caduto dal cielo nella nostra pacifica città laboriosa e ordinata. Neppure è stata la scintilla creatrice di una nuova fase liberante della vita personale e universale. Credo che abbia una certa ragione Ferdinando Adornato quando dice che «in fondo il Sessantotto è rimasto sempre un mistero. Doloroso o gaudioso a seconda dei punti di vista. Una parte dell’Italia è disposta a giurare che il Sessantotto fu un Diavolo. Che dal suo seno sgorgarono il terrorismo, lo sciopero facile, l’involgarimento del costume e quant’altro, Un’altra parte è invece disposta a giurare che il Sessantotto fu un Santo. Uno stato di grazia irripetibile che fece diventare maggiorenne il Paese». Se Mario Capanna scriveva per Garzanti “Formidabili quegli anni”, le edizioni Liberal proponevano un volume a più voci “Sciagurati quegli anni. Contro la beatificazione dei mitici anni 60”. E il brillante moralista francese Nicolas Sarkozy spiega che «il Sessantotto ci ha imposto il relativismo intellettuale e morale». In realtà il Sessantotto non è un fenomeno storico a se stante, ma il capitolo di una vicenda, espressione-reazione ad un insieme di trasformazioni e di involuzioni; è stato effetto e causa di una svolta nella cultura e nella società. A questo punto mi sembra che vada posta la domanda interessante. Non se il Sessantotto fosse Diavolo o Santo, ma se ha segnato (e in quale direzione) un passaggio. Se è stato una “svolta” o un semplice soprassalto, un tentativo fallito. Proverò ad anticipare la mia valutazione, che si articola in due momenti. In prima battuta mi sembra di poter definire il Sessantotto un’occasione mancata, dunque un fallimento. Ma, attraverso una valutazione più approfondita, più duttile e aperta, mi sembra di poter ipotizzare che il Sessantotto sia tuttora una promessa di futuro: abbia seminato idee e valori che si sono diffusi, hanno segnato (e direi positivamente) gli anni successivi e forse potranno dare anche più frutti nella stagione che verrà. Certo il 1968 non è composto esattamente dai 12 mesi da gennaio a dicembre. È l’insieme di quella vicenda storica tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, che Aldo Moro riassumeva dicendo: «C’è un mondo nuovo che nasce. E vincerà». Pochi anni prima il Concilio Vaticano II aveva preso atto, nella Gaudium et Spes, che il mondo stava vivendo una svolta epocale, del tutto straordinaria per profondità e rapidità. E lo stesso Paolo VI, che alcuni superficialmente dipingevano come triste e angosciato, sognava: «Noi avremo un periodo di più grande libertà nella vita della chiesa e di conseguenza di ciascuno dei suoi figli. Questa libertà significherà meno obblighi legali e meno inibizioni interiori. La disciplina formale sarà ridotta, ogni arbitrio sarà abolito, così come ogni intolleranza, ogni assolutismo. La legge positiva sarà semplificata, l'esercizio dell' autorità temperato, il senso della libertà promosso…». Il mondo, dicevo, stava cambiando (e forse molti non l'hanno ancora capito). Lo sviluppo delle scienze, la diffusione della informazione e della libertà, la disponibilità di risorse un tempo impensabili per una gran quantità di uomini, la fine del colonialismo e la planetarizzazione, una nuova autocoscienza e possibilità di manipolazione della persona umana… Quello degli anni ’60 è uno scenario tutto nuovo per virtualità e per sfide. Ma era anche uno scenario che si era aperto al culmine della devastante crisi delle coscienze che ha segnato la prima metà di questo secolo, con le due grandi guerre mondiali e i totalitarismi, il colonialismo e l’atomica. Così che dopo il secondo conflitto l’intera umanità, si può dire, cercò di ricostruirsi e di ritrovare un’innocenza e una speranza. Nessuno può dimenticare il grande sforzo delle Nazioni Unite e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e quello per la Costituzione e per l’unificazione europea dopo tanta lacerazione; intraprese di evidente significato e matrice cristiana. E tuttavia bisogna riconoscere che la ricostruzione del dopoguerra fu soprattutto materiale ed economica. In poco più di due decenni il mondo occidentale, anche sulla base di una rinnovata etica del capitalismo, realizzò un sistema di benessere diffuso, spesso combinato con un’accettabile democrazia. Non era cosa da poco, ma si accompagnò con una dimenticanza dei fini. La crisi culturale ed etica, che non era minore di quella economica, non fu affrontata. Furono ricostruite le case e le officine, non gli animi. Un efficiente macchinismo planetario orientato a far crescere il Pil e produrre profitto. La “gioventù bruciata” degli anni ’60, del “miracolo economico”, si trovò di fronte l’etica delle tre emme: mestiere, moglie, macchina. Il materialismo pratico, cioè, l’individualismo competitivo. Tutti i mezzi, nessun fine. Tanto benessere, ma poca preoccupazione per la giustizia, libertà. Consumismo e scristianizzazione nascono lì. E se ci siamo scordati di quello scenario possiamo rivederlo, con sostanziali analogie, nell’attuale sviluppo dei Paesi emergenti o usciti dal socialismo reale. Il Sessantotto fu una reazione, un grido d’allarme, la coscienza che ci sono dei fini nel nome dei quali orientare e, se del caso cambiare, l’esistente. Un’esigenza insieme culturale, spirituale e morale. Certo fu presentata soprattutto come sfida, rifiuto, contestazione, si diceva. E forse non era giusto contestare? Invece che amministrare gli interessi della società, ci si proponeva di cambiarla, secondo un progetto di giustizia e di altruismo. È questa una sopravvalutazione della politica, un sogno di Prometeo? Un mondo che non si era fatto problema di coscienza per il colonialismo, per la fame nel mondo, per le condizioni dei poveri, per la rigidità dei ceti sociali, per una scuola rigida e conservatrice, per la violenza, la guerra, lo spreco delle armi, per la schiavitù di tanti uomini e tante donne…. si scandalizzò d’esser contestato. Il Sessantotto mise sul tavolo i temi della libertà, della giustizia, dell’uguale dignità, della corresponsabilità comunitaria, del cambiamento. E come potevano i cristiani non esser dentro a questa vicenda, non sentirsi chiamati a collaborare, continuandola e perfezionandola giorno dopo giorno, alla creazione del mondo ad opera di Dio? È naturale, dunque che i cristiani abbiano partecipato al Sessantotto accanto agli altri. Che abbiano sognato e cercato le vie di una politica che fosse meno amministrazione degli interessi esistenti e più espressione di “amore e progetto”, come riassumeva Arturo Paoli. Sappiamo come sono andate le cose: anziché stimolare una risposta positiva, un salto di qualità, la contestazione del ’68 ebbe in risposta un irrigidimento del “sistema”. Fu indifferenza culturale e repressione fisica. Il Congresso della Dc nel 1969 isolò Moro all’opposizione ed avviò, come risposta alle attese di novità, una politica di restaurazione che cominciava con l’ “accoppiata Dorotea” e si sviluppava poi con un governo di centrodestra fatto coi liberali e gradito ai missini. Bisognerebbe ricordare poi le inutili e violente cariche della polizia contro studenti nonviolenti e fin troppo per bene, che manifestavano per il diritto allo studio e la cultura critica. Fu una crisi di fiducia tra lo Stato repubblicano e gran parte di una generazione. Intanto, per fermare il ‘68 studentesco e soprattutto operaio, cominciava la strategia della tensione con le stragi nere di Piazza Fontana (1969), di Piazza della Loggia e dell’Italicus (1974) fino alla stazione di Bologna (1980). Dei protagonisti di quella stagione, si sa, alcuni caddero nell’estremismo e nella violenza; molti si rassegnarono alla disillusione; non pochi si lasciarono sedurre proprio da ciò che avevano contestato. Certo il Sessantotto italiano finì presto, come sostengono giustamente Marcello Flores e Alberto De Bernardi (“Il Sessantotto”, ed Il Mulino); e i movimenti degli anni Settanta e successivi sono parecchio distanti dallo spirito del ’68. Dal miracolo economico agli anni ottanta si è consumato un itinerario che è stato definito bene da Guido Crainz “Il Paese mancato” (Donzelli). E tuttavia gli anni Settanta, che per molti versi hanno segnato il passaggio, come diceva Paolo Giuntella (che ricordiamo qui oggi con commozione, a pochi giorni dalla sua morte prematura e toccante anche per il coraggio, la serenità e direi la gioia cristiana con cui l'ha vissuta), il passaggio, dicevo, dal “dissenso” al “dissesto”, sono stati anche gli anni in cui, di fronte ai segni di involuzione, si sono sviluppate iniziative piccole, ma di lungo respiro (vedi Giovanni Moro, Gli anni 70, Einaudi) . Ricordo la Lega Democratica di Ardigò e Scoppola, il rinnovamento di Aci e Agesci, Caritas e Pax Christi, Cittadinanza attiva e Sant’Egidio, la nascita della Rosa Bianca, tante riviste piccole ma vivissime; e penso a Bose o Camaldoli, a tanti testimoni e gruppi parrocchiali più vivi delle curie diocesane…. Così i problemi irrisolti, le contraddizioni e le speranze di quella stagione sono restati vivi nella realtà e nelle coscienze; ed è difficile guardare al nuovo secolo che si avvicina senza ripensare al Sessantotto e intuire che quella pagina andrà riletta e quelle idee in qualche modo riprese, anche per quel che riguarda la vita della Chiesa. Il Sessantotto, infatti, non era stato soltanto una presa di coscienza, e quasi un sussulto, di carattere culturale e politico. Era anche, e intimamente, religioso e morale. Ed persino ecclesiale. L’idea che si fosse ad una svolta storica e che occorresse un atteggiamento nuovo, non riguardava solo le istituzioni, l’università, gli eserciti, la giustizia, l’economia. Toccava anche la Chiesa. Del resto si era appena svolto il Concilio che aveva invitato la Chiesa ad una vera e permanente “riforma” (e ci voleva del coraggio ad usare questa parola, così legata ad un’aspra vicenda…). Così i cattolici avevano uno specialissimo libretto rosso che li guidava nella loro contestazione: i documenti del Concilio. Anzi, più che alla contestazione, il Sessantotto ecclesiale era interessato ad accelerare il rinnovamento delle strutture ecclesiali, della teologia, della spiritualità, della morale. Ci furono impazienze ed esagerazioni anche qui, ma nel complesso fu una straordinaria mobilitazione. I laici scoprirono d’esser Chiesa, con l’impegno di partecipazione e responsabilità che ciò comporta; esplose un interesse per la cultura religiosa che occupava le vetrine delle librerie e le pagine dei grandi quotidiani; i rapporti dei laici con preti e vescovi si fecero molto più intensi e familiari, ed anche più schietti. Si riscoprì che la Chiesa più che struttura è comunione; che la fede è fondata sull’amore di Dio, non su leggi e abitudini; che i non cattolici non sono nemici ma fratelli. Separati, maggiori o lontani, ma sempre fratelli, cui voler bene e dai quali imparare qualcosa. Si voleva tradurre in pratica, tutto e subito. Perché chi partecipava all’Assemblea eucaristica non poteva prendere la parola? Perché le decisioni della parrocchia non venivano prese insieme, ma solo dal parroco? Perché le associazioni erano organizzate come eserciti anziché come comunità? Perché la liturgia non si faceva più familiare e spontanea, al modo delle prime comunità cristiane? Perché i laici (e preti) preferiti erano gli esecutori obbedienti anziché quelli fedeli e coraggiosi? Perché la pastorale continuava ad aspettare che i lontani venissero in chiesa anziché cercarli con lo stile di Emmaus? Perché si aveva fiducia nei Concordati, nella benevolenza e nei privilegi concessi dai potenti? Perché non ci si schierava con gli uomini che lottano per la libertà e la giustizia? Non mancarono gesti discutibili come l’occupazione di chiese, iniziative polemiche, irregolarità ed errori. E tuttavia ci fu anche una straordinaria mobilitazione delle coscienze e un rinnovamento profondo dello spirito religioso ed ecclesiale. Moltissimi cristiani, specie giovani, scoprirono un cristianesimo molto più coinvolgente, capace di trasformare veramente la vita in una dimensione di amore e di verità. Certo si sarebbe potuto valorizzare molto di più questa provvidenziale irruzione di energia vitale che ha comunque contribuito a trasformare in modo irreversibile il profilo della vita ecclesiale e ci ha preparato, seppure in maniera ancora parziale e contraddittoria, al tempo nuovo che ci attende. Speranza di una nuova limpidezza della religione "pura e immacolata, in spirito e verità", di una vita ecclesiale vissuta in koinonia secondo lo spirito del Concilio, di una chiesa in dialogo con il mondo, una chiesa "semper reformanda", attenta al suo essere, ed essere fedele a Cristo, prima e più che preoccupata della sua immagine pubblica. Speranza e impegno di una nuova evangelizzazione, di un ritorno alle fonti, di una purificazione dell'immagine di quello che secondo Bonhoeffer rischiava di essere il "Dio tappabuchi". Certo nel movimento e nella cultura del sessantotto vi erano anche elementi caduchi o accentuazioni pericolose: lo spontaneismo, un eccesso di movimentismo, la sopravvalutazione, nel quadro della cultura moderna, del marxismo e del movimento storico-politico che ne è derivato in varie forme; la non rigorosa condanna della violenza e una certa confusione tra la situazione intollerabile dei paesi sottosviluppati e sottoposti a dittature e le imperfezioni, pur gravi, delle democrazie sviluppate. Ancora, soprattutto dal punto di vista ecclesiale, fu superficiale e ingenua la tendenza a volere tutto e subito (l'esperienza traumatica di consigli pastorali nazionali come quello olandese fece bloccare sul nascere altre iniziative), la sottovalutazione della dimensione sacramentale e gerarchica, la troppo facile udienza concessa a teologi improvvisati e in genere a ipotesi di lavoro semplicistiche; ancora: la commistione, specialmente a livello etico, di esigenze di vero rinnovamento (un'etica più fondata sulla gratuità, l'amore e la responsabilità, scelta tuttavia più impegnativa della morale tradizionale) con tendenze invece proprio di tipo consumistico, lassiste e deresponsabilizzanti, (specialmente nel campo della morale privata, familiare e sessuale) indotte dalla società edonista e materialista;tendenze ben lontane dall'alto ed esigente messaggio conciliare e intese ad un generale allentamento delle norme e anche ad un abbassamento degli ideali etici in nome di un vago relativismo e di una ingenua modernizzazione. E L'Azione cattolica? Se questo era il panorama delle sollecitazioni indotte dalla stagione del '68, resterebbe da esaminare quale fosse la realtà della Azione cattolica in quegli anni. Parecchio è già stato scritto sull' AC negli anni '60. (pag 292 segg La storia dell' AC di De Antonellis, il profilo storico di Preziosi, il libro di Guido Formigoni) Altri, anche in questa sede ne hanno parlato e ne parleranno più e meglio. Ricorderò solo che essa era già in crisitrasformazione ben prima del Concilio. In un certo senso credo si possa dire che non fu mai superata la crisi del '54! (Congedo di Mario Rossi, in De Antonellis p 267). Da allora nella Chiesa, tra i vescovi ed anche tra i laici, vi furono tensioni costanti sul tema dell' Ac, tensioni che il successo numerico non bastava a cancellare. Proprio perciò tra le prime preoccupazioni di Papa Giovanni, e poi naturalmente di Paolo VI che aveva vissuto e sofferto ben da vicino la storia dell'Ac, ci fu quella del suo rinnovamento. Bachelet, nella prima assemblea nazionale dopo il nuovo statuto,nel 1970, dirà così: "In passato l' Ac ha fatto molte varie e nobili cose; ma ora ha ritenuto che fosse suo compito proprio puntare sui valori essenziali dell'annuncio evangelico e della vita cristiana concorrendo con il proprio apporto agli aspetti più sostanziali e profondi della costruzione e missione della chiesa". E, riferendosi alle scelte, impegni e schieramenti in campo parapolitico che avevano caratterizzato (soprattutto attraverso i comitati civici) l' Ac nei decenni precedenti, soggiungeva: "La necessità di queste scelte provocò tensioni che tutti ricordiamo e crisi profonde nel decennio precedente al Concilio: tanto che (contrariamente a quanto molti sembrano credere) il Concilio - che anche l'esperienza della Ac aveva contribuito a preparare - ha piuttosto aiutato, poi, l' Azione cattolica a ritrovare la sua funzione e il suo compito essenzialmente religioso e apostolico. E del resto non a caso questo era stato l'indirizzo indicato da Papa Giovanni al momento in cui chiese anche all' Azione cattolica di rinnovare se stessa nella generosità dell'impegno missionario , nel primato spirituale, nella piena comunione con clero e vescovi, nell'unità della testimonianza e del comune lavoro, nella coerenza di principi e di vita, ma senza ne' confusioni ne' contrapposizioni con altre responsabilità ed altre energie di cristiani operanti in campi diversi". Fu dunque Papa Giovanni a chiedere all' Ac la "scelta religiosa", che Paolo VI confermò accompagnandola con un costante, incalzante incoraggiamento. "Tanta è la stima che noi tuttora tributiamo al vostro grande sodalizio e alla sua attività - diceva ai presidenti diocesani nel 1965 - che saremmo pronti a farne l'apologia nei confronti di alcuni vostri critici, le cui voci arrivano sovente fino a Noi, come ad esempio: l' Azione cattolica ha fatto ,il suo tempo, è formula sorpassata; è movimento tutto esteriore e meccanizzato in strutture complicate e pesanti; è tutto un sistema disciplinare dove autorità e obbedienza prevalgono su ogni libera e originale espressione; è una rete di interessi benefici, se volete, ma in realtà economici, amministrativi, burocratici, rivolti a scopi particolari e temporali; è un insieme di gruppi chiusi, per iniziati ad un loro gergo clericale, incapaci di aperture moderne verso le nuove correnti della storia; e così via. No, carissimi figli; queste critiche, se pur toccano aspetti e forse difetti particolari, non toccano l'essenza della vostra compagine, non vedono la bontà, veramente cristiana, dei principi su cui si fonda il vostro movimento..." E, di seguito, il Papa ricorda l'unione, l'azione, la sincerità religiosa, la collaborazione con la Gerarchia, l'entusiasmo, la passione per l'umanità... Nasce di qui la decisione non di sciogliere l' AC - come in quegli anni taluno pensava seriamente - ma di rifondarla, attraverso un nuovo Statuto (benchè il presidente Vittorio Bachelet e l'assistente Franco Costa - da seri cultori delle discipline giuridiche quali erano entrambi - non avessero alcuna simpatia per la applicazione alla vita ecclesiale delle categorie giuridiche e pensassero che il dibattito sugli aspetti giuridici e normativi avrebbe rischiato di deviare attenzione ed energie verso aspetti marginali, accendendo interminabili quanto poco utili dibattiti). Il nuovo Statuto venne preparato attraverso una larga consultazione delle associazioni diocesane e delle varie articolazioni. Più che un dibattito giuridico-organizzativo si cerca di farne un'occasione per riflettere sul proprio impegno pastorale e sulle prospettive della evangelizzazione in un Paese in trasformazione. Non mancano qualificati momenti di studio e di preghiera, tra il 1966 e il 1969. Il saggio di Mario Casella, con l'ampia raccolta di documenti curata da Mario Falciatore (in "Lo Statuto della nuova Azione cattolica" ed Civitas) forniscono un ottima messe di informazioni e di giudizi e illustrano, soprattutto attraverso i dibattiti di quella che allora si chiamava "Giunta centrale" (e che corrisponde pressapoco all'attuale Consiglio nazionale) come il dibattito fosse aperto, e fossero ben presenti molti temi tipici del '68. Le sfide del '68 sono ben presenti nei lavori, anche perchè il nuovo Statuto viene preparato sulla base di un larghissimo ascolto. E' tuttavia una attenzione critica e un discernimento prudente. Se alcune componenti si fanno voce delle attese e delle intuizioni più dinamiche, altre componenti, ben rappresentate e sulla base di una lunga tradizione, si mostrano molto prudenti per non dire critiche. Tra gli Uomini e la Giac (e anche tra Fuci e Laureati cattolici) le diversità sono notevoli e spesso appaiono anche sulla stampa e nei dibattiti (es polemica Coscienza-Ricerca).Avvenire d' Italia e Italia coinvolti nella diversità di indirizzi (del resto classica nella storia del giornalismi cattolico del nostro Paese). Grande ruolo di ascolto e di mediazione di Costa, Bachelet, Sassudelli, Del Monte e Franceschi. Mario Casella ("Lo Statuto della nuova Ac" pag 25-26) conclude così il suo saggio introduttivo: "Al momento del suo varo il nuovo Statuto, accanto a molti consensi, suscitò sconcerto e malcontento, soprattutto nelle due ali più estreme dell' Aci.Per i giovani più radicali era stata persa un'irripetibile occasione per ridisegnare il volto dell' Aci e renderlo più aderente e coerente con la svolta innovativa segnata dal Concilio; per i "vecchi" (cioè per i sostenitori ad oltranza della tradizionale Aci) erano state gettate le basi per una non lontana liquidazione di un' Associazione che aveva reso importanti servizi alla Chiesa e al Paese. Ma era possibile una carta statutaria migliore e diversa? Si ha l'impressione che se a livello associativo fossero passate (e poi recepite nello statuto) le più audaci tra le proposte delle componenti giovanili, difficilmente lo Statuto avrebbe avuto l'approvazione della autorità ecclesiastica, e ciò avrebbe di fatto segnato la fine dell'Aci.... Per usare un'espressione dello stesso Bachelet (che in tutta la vicenda si mantenne al di sopra delle parti, pur in un atteggiamento di sostanziale simpatia per le posizioni più moderate dei "giovani"), si può dire che si sia trattato di una soluzione relativamente equilibrata.” Ecco: si può ben dire che l'atteggiamento dell' Ac, di fronte alla stagione del '68, fu proprio di attenzione, accoglienza e prudente discernimento. Forse può essere sottolineato proprio l'aggettivo prudente. E tuttavia, se si guarda al contesto e alla storia successiva si potrebbe anche dire coraggioso. In sostanza i valori che il sessantotto aveva meso in luce furono accolti, le sfide che aveva lanciato furono colte e ad esse ci si sforzo di rispondere, le ambiguità e gli errori furono affrontati e combattuti, con carità e chiarezza. C' era, ad esempio, un rischio di orizzontalismo (categoria un po' ambigua, certo, ma molto usata in quegli anni), di ingenua fiducia nelle ideologie e nella azione storica, una certa riduzione del Vangelo all'impegno sociale, una utopia progressista. Alcuni ritennero di rispondere a questa sfida contrapponendo una risposta di tipo conservatore, altrettanto ideologica e orizzontalista, ma di segno diverso. Invece l' Ac, proponendo la sua scelta religiosa rispose in modo che a me pare corretto e lungimirante (anche se meno fruttuoso in termini immediati e meno vistoso). Il problema non era di contrapporsi ad un progetto di rinnovamento sociale, era piuttosto quello di non dimenticare la dimensione verticale ne' di imprigionarla (con un inedito integralismo in un progetto essenzialmente temporale. La scelta religiosa coglieva l'esigenza di essenzialità, di fondazione radicale dell'agire umano, il ritorno alle fonti. Non si poneva come una scelta fra le altre, ma come un andare alla radice in un tempo di trasformazioni rapide e profonde; la volontà di stabilire le giuste distanze dal piano immediatamente temporale e non compromettersi col potere e il sistema, senza identificarsi neppure con gli aspetti temporali e le scelte operative di un progetto di cambiamento. La sfida era: voi cristiani, legati a doppio filo all'attuale sistema di potere, sarete capaci di diventare progressisti? Molti, come si sa, si sforzarono di rispondere sì, altri fecero valere con forza - e talora con rabbia - il loro no. La risposta dell' Ac fu molto più profonda: disse che quello che contava era la radice, il rapporto con dio, la fede nelle cose ultime. Questa ricchezza sarebbe stata un viatico prezioso per tutti quelli che avrebbero voluto impegnarsi per rinnovare e migliorare la realtà temporale. (cfr Bachelet: in un tempo di profondi rivolgimenti, quando l'aratro della storia...) Il '68 aveva lanciato anche le sfide della democrazia assembleare e dello spontaneismo. Nello Statuto la risposta è rappresentata dalla scelta democratica e associativa. L' Ac valorizza a tutti i livelli la dimensione assembleare (che aiuta tra l'altro a cogliere la dimensione globale del popolo di Dio, della unità nella diversità, dell' evento rappresentato dall'essere convocati e dall'incontrarsi. Ma, parzialmente andando contro corrente, valorizza anche i momenti della democrazia rappresentativa e "delegata" (ruolo dei consigli e delle presidenze). Si decise di mantenere la tessere, benchè alcune componenti fossero contrarie e un legame forte tra il centro e la base. Benchè la diocesanità fosse giustamente molto valorizzata si mantenne ferma l'idea che l' Ac fosse associazione nazionale, pur se articolata in associazioni diocesane. Lo spontaneismo fu sottoposto ad una critica severa, nella misura in cui esprimeva una tentazione di deresponsabilizzazione, una falsa libertà di chi non vuole impegnarsi con fedeltà e continuità, una instabilità di atteggiamenti in cui la sincerità si contamina con la superficialità volubile. Proprio nel '68 Bachelet, parlando ai presidenti diocesani, rilevava che "il problema non è solo di forma ma è anche di sostanza: il rifiuto cioè di un certo tipo di impegno. Non dico di ogni impegno, ma di un impegno che non si limiti ad un piccolo gruppo omogeneo, ma si collega invece più largamente sul piano nazionale con esperienze, mentalità e bisogni diversi, e anche localmente accetta la fatica e la gioia di incontrarsi con persone di età, esperienze, abitudini diverse". Lo Statuto risponde in positivo a questa sfida dello spontaneismo e dei piccoli gruppi omogenei proponendo una forma associativa che responsabilizzi al massimo possibile (compatibilmente con la superiore direzione della gerarchia) il contributo, la responsabilità dei laici. Dallo statuto si evince chiaramente che l' AC non preesiste alla volontà degli aderenti che la compongono e - attraverso l'incontro della loro volontà col consenso gerarchico - danno vita e caratterizzano questa singolare forma associata di apostolato cattolico. Sono i laici che liberamente si associano (cfr Premessa allo statuto) ed offrono al Vescovo la propria fattiva collaborazione per rendere più efficace e responsabile il loro servizio pastorale alla comunità. Quanto alla forma democratica, essa recepisce certamente lo spirito del tempo, ma in realtà costituisce anche, com' è noto, un ritorno all' antico, a prima della "clericalizzazione" dell' Ac resa necessaria dal confitto col fascismo. La guida democratica nell' Ac fu vista come la migliore soluzione al problema della partecipazione e della direzione associativa, la più responsabilizzante e dunque la più formativa e, in sostanza, cristiana. La scelta unitaria. Diceva Lazzati, presidente dell' AC ambrosiana, già nel 66 nell'articolo "una più forte unità per una più valida azione" in "Direttive" genn 66: "Non vi sono tante azioni cattoliche quanti sono sono i rami e i movimenti; vi è una sola AC che tutti intendiamo nel medesimo modo. L' AC deve essere una nel metodo di formazione... Se l' Ac vuole essere, come deve, espressione autentica della Chiesa non può non riprodurne le note profonde e in primo luogo quella della sua unità".(Formigoni-Vecchio, pag 147). Dunque l'unità venne affermata con forza nel nuovo statuto, benchè vi fosse una tendenza a pensare piuttosto ad una federazione di componenti. Ma si cercò di garantire che ogni articolazione avesse il suo spazio necessario a svilupparsi e a sentirsi a suo agio nella casa comune e si lasciarono norme molto "aperte" (es art 19: nell'associazione parrocchiale possono costituirsi dei gruppi come prima elementare e vitale esperienza associativa". Si prevedeva che potessero essere riconosciuti o promossi per ragioni formative, di testimonianza negli ambienti ecc; e ciò a tutti i livelli) . Non si voleva perdere il contributo di quelle nuove energie che, in quegli anni, avevano dato vita ad oltre ottomila gruppi spontanei all'ombra dei campanili (ma l'esperienza dimostrerà che ben pochi di essi entreranno nell'orbita dell' Ac forse per la insufficiente convinzione con la quale tali possibilità furono esplorate) Un' altra scelta fu la drastica semplificazione della struttura operativa. L' Ac era famosa per la sua superorganizzazione, capillare e assai articolata anche se dietro l'apparenza il funzionamento non era sempre così perfetto ed efficace come molti pensavano. Dallo statuto, in seguito alla unificazione di rami e movimenti e alla distinzione della vera e propria Ac dalle varie opere, segretariati e associazioni collaterali (dal Csi al Ctg, dal segretariato per la moralità al Cniop al centro cattolico stampa, ecc) uscirà invece una struttura semplicissima, come era auspicato soprattutto dai più giovani che, sensibili agli indirizzi di un rinnovamento pastorale, avevano timore per la troppa organizzazione esteriore, convinti che essa portasse quasi inevitabilmente a compromessi col potere pubblico, col danaro, con la mentalità trionfalista ed efficientista del mondo secolare. La estrema brevità dello Statuto, pur così a lungo preparato, la "Premessa" di vasto respiro ma di scarsa natura giuridica e il carattere aperto degli articoli (più programmatrici che normativi) sottolineano l'approccio culturale, che fu assai poco dirigista ed organizzativo e proteso invece, pur salvando con un minimo di norme quanto già esisteva, a valorizzare ogni nuova possibilità, in un atteggiamento di apertura fiduciosa verso il futuro e verso le trasformazioni culturali e spirituali che si annunciavano o avrebbero potuto svilupparsi. In sostanza c'era, ed è stato espressa nello statuto, una forte consapevolezza dei mutamenti in corso e futuri ed una coraggiosa disponibilità ad affrontarli anche quando chiedessero all'associazione fatiche e difficoltà. Fu affermata nei fatti la centralità dell’educazione alla libertà. Anche il notevole calo degli iscritti fu affrontato con questo spirito di disponibilità al cambiamento. Intanto c'erano ragioni "umane" a spiegarlo: la crisi di tutte le forme associative organizzate, il moltiplicarsi di altre forme di apostolato approvate o tollerate dalla gerarchia, il riconoscimento che nei "grandi numeri" della stagione precedente c'era anche qualche ipertrofia non propriamente fisiologica... Ma poi c' era una ragione spirituale che aiutava l' Ac, e Bachelet in primo luogo ad affrontare con serenità quella che era una vera prova e a molti sembrava una vera sconfitta. Cominciò così uno dei suoi ultimi discorsi da presidente, nel marzo del '73: «Javhé disse a Gedeone: "E' troppo numeroso il popolo che è con te perchè io metta Madian nelle sue mani: non avvenga che Israele se ne faccia vanto a mio danno e mi dica: "La mia mano mi ha liberato". Quindi proclama ciò alle orecchie del popolo: "Colui che ha paura e trema torni indietro" ». Qualche volta -soggiunse- viene fatto di domandarci se la Chiesa non sia in un momento simile. Quando vediamo sacerdoti che lasciano il ministero, vocazioni sacerdotali e religiose ridotte, associazioni di apostolato che restringono le loro fila, cristiani che - magari pensando di impastarsi meglio all'umanità di cui sono fermento - rinunciano ad essere luce sul monte e se necessario segno di contraddizione, può venire la tentazione dello scoraggiamento. Eppure io credo che questa povertà della chiesa sia la prova attraverso la quale si prepara la vittoria del Signore. Se abbiamo paura o temiamo è perchè pensiamo che che possa essere ma nostra mano a liberarci o a liberare l'umanità.» Questo insieme di opzioni , per molti aspetti, era anche la scelta della Chiesa italiana, forse meno esplicita (cfr l' aureo libretto di Enzo Franchini "Il rinnovamento della pastorale") di quella dell'AC, ma egualmente limpida almeno negli anni di monsignor bnartoletti, Poma, Cè, Caporello, Ballestrero... Ci furono però grandi difficoltà di far capire questo disegno di apertura al nuovo, di discernimento, di valorizzazione, e di tradurlo in pratica, tantopiù in un contesto che andava mutando, in direzione opposta. La Chiesa e la società italiane infatti si distinguono per una rapida capacità di capire e di sensibilizzarsi e per una certa buona volontà immediata, ma anche per una notevole incostanza e incapacità a reggere disegni di lungo periodo tantopiù se profondamente innovativi (anche per la volontà-bisogno di fruire di risultati immediati). Oggi tutto ciò può sembrare lontano e per molti versi radicalmente sconfitto. Tuttavia se le utopie sono cadute, alcune forti speranze hanno messo radici, al punto che non è irragionevole dire che il Sessantotto resta tuttora una profezia, una promessa di futuro. Anzitutto abbiamo ereditato da quegli anni la coscienza che siamo noi ad essere responsabili del nostro futuro. È nata la necessità di essere protagonisti, liberi e anticonformisti… Il lavoro pensato come con-creazione dell’universo, non solo destino talora umiliante, talora prepotente. Una fede più limpida, disinteressata non esibita nè strumentale, una relazionalità più sincera con il prossimo, una fiducia nei contropoteri, nella controcultura, nell’obiezione di coscienza… E ancora: il Sessantotto ha seminato un’inquieta attenzione verso il resto del mondo: fino ad allora quasi nessuno, anche tra i cristiani, si domandava se fosse giusto che i bianchi-cristiani-ricchi dominassero e rapinassero con la violenza quasi tutto il resto del mondo. Ora non è più così, anche se non ne abbiamo ancora tratto le conseguenze: la convinzione che un mondo diverso è possibile, e dunque necessario e doveroso sta diventando patrimonio di ogni retta coscienza; e crea un’inquietudine che non sarà facile soffocare. Il Sessantotto infine ci ha aiutato a capire che la vita è un pellegrinaggio, un esodo, non un possesso. Che la cultura, la coscienza di fede, la famiglia, la società non sono un dato di fatto immobile, ma una realtà in mutamento: in crescita e sviluppo, salvo che la nostra cattiveria o indifferenza ne facciano un’involuzione, un pericolo e una tragedia. Tutti questi semi sono rimasti in milioni di coscienze e si trasmettono in maniera anche imprevedibile di generazione in generazione; sono nei piccoli gruppi; nella coscienza dei lontani; nei messaggi trasmessi da piccoli strumenti, piccole riviste di cultura e spiritualità, pagine su internet, incontri di giovani. Tutto ciò aiuta resistere nella lunga, arida stagione che stiamo vivendo; e ci rende fiduciosi che quando verrà la primavera troverà dei semi buoni e vitali pronti a metter radici e germogli. Angelo Bertani