TUTTA LA FRAGILITÀ DELL’ESISTERE.
LA DANZA MISTICA E UMANA
DI GIOVANNI DI CICCO
di Silvia Poletti
coreografia
Giovanni Di Cicco, Francesca Zaccaria
musiche originali Chiara Cipolli
danza
Luca Alberti, Filippo Bandiera,
Massimo Cerruti, Eleonora Chiocchini,
Erika Melli, Francesca Zaccaria
scene Paolo Giacchero
luci Aldo Mantovani
produzione
Dergah Danza Teatro, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara
in collaborazione con
Teatro dell’Archivolto, Comune di Cagli,
Ikonoclaste Festival di Wuppertal
PRIMA ASSOLUTA
durata dello spettacolo: 90’
foto di scena Aldo Mantovani
Tra le ipotesi per l’etimologia della parola danza c’è l’antichissimo retaggio
indo-europeo che ne affonda l’origine
in un inscindibile connubio tra umano
e spirituale. La ‘radice’ sanscrita tan/ten
da cui dipartono le varie declinazioni
della parola (danza, dance, tanz, danse) allude infatti all’idea di ‘tensione’,
ascesa verso l’alto, necessità interiore
che si traduce in turgore muscolare, trasformazione fisica, energia che muove
il corpo nello spazio e nel tempo, nel
bisogno segreto di trovare un contatto
con un’altra dimensione. Un Iter Mentis in Deum affidato all’espressione del
corpo, consapevoli che “chi conosce la
potenza della danza risiede in Dio”.
Nelle culture nelle quali la danza non
si è completamente secolarizzata il
danzatore perde una connotazione
soggettiva, né il suo è più un mero
ruolo ‘artistico’, ma si fa identità assoluta, insieme veicolo e ricettacolo della
dimensione spirituale in quanto tale.
Anche se con la forza stessa della sua
umanità, nell’atto stesso del danzare
egli va allora inteso come emanazione dell’assoluto cui si tende. Se questa
funzione di medium è semplicisticamente leggibile nei danzatori che si
lasciano andare a movimenti convulsivi, facendosi invadere dal ritmo del
proprio corpo in una perdita del sé che
rimanda all’antica fusione orgasmica
con la madre terra della Theia Mania
dionisiaca, un’altra qualità di danza –
espressione di una tensione verso l’assoluto ispirata dall’utopia dell’Harmonia Mundi – riesce ugualmente a significare nella sua fortissima valenza
simbolica e coreutica il superamento
dell’umano. Qui infatti il superamento
della materia e l’approccio all’assoluto
avviene per sublimazione, il corpo perde ogni senso di gravità, si stempera e
allo stesso tempo nel suo movimento
perpetuo assorbe le energie dell’universo. I movimenti stessi dei danzatori
e il loro agire nello spazio diventano così non
solo pura rappresentazione di questo armonioso movimento universale, ma anche strumento
di comunicazione di ciascuno di loro con la dimensione superiore.
“Cuori! Mondi!
Il vostro danzare si arresterebbe se
Non lo accendesse amore, Allah hu!
E Colui che guida la nostra ronda d’amore è
più in alto del sole e dell’aurora...”
Questi versi del mistico persiano Galàl al-Dìn
Rûmi ben colgono il senso profondo di una
danza intesa come atto d’amore, quindi atto
generativo, che coniuga umano e divino e fa
dell’uomo una sorta di ‘utero’ pronto a ricevere
l’universo.
Non a caso, i mistici dervisci nella loro danza
roteante, composta e armoniosa, nel gesto di
apertura delle mani, l’una con il palmo rivolto
verso l’alto, l’altra con il palmo verso il basso
evocano, come osserva anche l’antropologo
Curt Sachs, “l’espressione più avvincente delle
facoltà ricettive femminili. Il derviscio che, volteggiando su se stesso, stende orizzontalmente le braccia... si mette, senza volerlo, nell’atteggiamento di accogliere, aprirsi. Non da lui
emana l’energia fecondatrice, ma è egli stesso
che si offre alla forza generatrice, che di lui si
impossessa, lo libera da tutti i legami del corpo, spegne ogni barlume di consapevolezza e
infonde lo spirito divino nel suo corpo umano.”
In questa congerie intellettuale e spirituale è
fiorita la ricerca di Giovanni Di Cicco ben presto diventata esistenziale, più che meramente
artistica, nella quale la danza ha la valenza primaria di necessità vitale, essenza stessa della
propria natura e personalità, oggetto e via di
arricchimento emotivo e incontro con gli altri.
Una condizione del sé, per usare un concetto
filosofico, che ha caratterizzato ben presto il
percorso di ricerca di questo danzatore e coreografo formatosi tra Italia, Francia e la Folkwang
Hochschule di Essen, oltre che alla discipline
marziali orientali (come il kinomichi, scienza
del corpo/mente che punta al raggiungimento
dell’armonia interiore) attivo sulla scena nazionale e internazionale fin dai primi bagliori del
Movimento della Nuova Danza Italiana, e che,
diversamente da altri suoi compagni d’arte con
cui ha collaborato, ha scelto di concepire il mo-
vimento non tanto come ‘artificiale’ espressione d’autore, bensì come unico modo possibile
per rivelare l’essenza dell’umano. Procedendo
nella propria ricerca spirituale e filosofica Di
Cicco ha così gradualmente maturato la consapevolezza di ritornare alla verità dei corpi,
liberi da ogni sovrastruttura sociale, culturale
ed estetica: una sorta di spoliazione di tutte le
convenzioni che aggravano la condizione, per
raggiungere, come lui dice “il movimento più
puro, assoluto, colto nella sua meravigliosa fragilità”, vale a dire in quella sincerità nata dalla
diretta connessione della dimensione emozionale/spirituale con quella fisica. E se all’arte della coreografia ha affidato sempre più un ruolo
‘maieutico’, così da guidare nella rivelazione
del sé più puro e assoluto gli altri danzatori, al
teatro ha restituito il senso della sua sacralità arcaica, il luogo dove attraverso l’azione si punta
alla catarsi e all’elevazione.
In questo senso, come in una liturgia primordiale scevra da ogni convenzione stilistica, Il Quattordicesimo Fiore, che Di Cicco firma insieme
a Francesca Zaccaria, ‘avviene’ in uno spazio
materico dove tre uomini e tre donne attraverso la verità della danza evocano il senso
atavico dell’esistenza passando dai momenti
cruciali della definizione della propria identità, dell’erotismo e della morte. Lo spunto di
partenza è il libretto di Stravinskij e del pittore
antropologo Nicholas Roerich per Le Sacre du
Printemps, messa in scena di un rito sacrificale
della Russia pagana nel quale una vergine eletta danzava fino a morire per propiziare le forze
della natura. E anche qui si ‘muore di danza’,
dopo che gradualmente, in un procedimento
a ritroso, in quattordici ‘ideali’ tappe (dove il
quattordici è un numero mistico che rimanda
alle stazioni della Via Crucis) gli interpreti abbandonano tutte le pastoie convenzionali – per
esempio il rito sociale del ballo di corteggiamento – e riconquistano la condizione antica
di corpi pronti a farsi viatico dell’incontro con
l’assoluto. Ancora una volta infatti la morte è
intesa come niente altro che la liberazione dell’
“io” occulto di origine divina, pronto a passare/
tornare nella dimensione superiore. E l’Eletta,
consapevole, come dice Pindaro, “che il corpo
segue la chiamata della morte possente” si ‘fa’
danza per superare il confine del reale e ritrovare la dimensione spirituale che ogni passaggio
iniziatico porta con sé.
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