La riforma del mercato del lavoro Articolo 18 e non solo Aprile 2012 www.100news.it Il 5 agosto dello scorso anno la Banca centrale europea inviò all’Italia una lettera, firmata sia dall’allora presidente Jean-Claude Trichet che dal suo successore Mario Draghi, con una serie di richieste al governo di Roma, che andavano dalle pensioni alla flessibilità del lavoro e alle norme sui licenziamenti. Temi rilanciati poi dalla stessa Commissione europea a novembre in un documento con 39 domande al governo italiano. Sarà Mario Monti, insediatosi proprio in quei giorni a Palazzo Chigi al posto di Berlusconi, a doversi assumere l’onere della risposta. I tempi dei mercati - lo sa pure il professore - non sono normalmente quelli della politica, ma questa volta occorre sbrigarsi. E Monti non si fa attendere: «Dobbiamo vincere la sfida del riscatto e dell’equità», dichiara ottenendo la fiducia delle Camere. In quel brevissimo richiamo al programma che intende attuare, molti osservatori intravedono l’antipasto di una minestra che tutti gli italiani dovranno deglutire. Una partita inedita anche per Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani, perché i «sacrifici» invocati dal presidente del Consiglio si tradurranno certamente anche in interventi sulle pensioni e sul lavoro. Il Pd potrà votare le severe misure di un governo tecnico, sostenuto anche dal centro destra, con la Cgil in piazza a protestare? Non sarà facile. Lo dimostrano il confronto e il dibattito di questi ultimi mesi, le dichiarazioni, le interviste, le proteste, le spaccature. Uno scontro che vede nell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori l’origine di tutti i guai del nostro Paese o - sul fronte opposto - la trincea invalicabile della nuova resistenza di classe. In questo dossier - in cui raccogliamo gli interventi più significativi di questi ultimi mesi su tali temi - pubblichiamo anche integralmente il documento unitario “per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e fiscale” presentato al governo da Cgil-Cisl-Uil e le proposte di riforma del mercato del lavoro presentate alle parti sociali dal ministro del Lavoro Elsa Fornero. Sommario Il risanamento pilotato. Cosa ci chiede l’Europa Aumento dell’età pensionabile, pressing sul lavoro di Francesca Basso e Giovanni Stringa (corriere.it, 14 novembre 2011, 10:05) Monti studia le prime misure Il vertice con imprese e sindacati, un decreto per patrimoniale e Ici di Alessandro Barbera (lastampa.it, 14 novembre 2011) Ma i democratici sono già divisi su pensioni e mercato del lavoro. Il gelo della Cgil su Monti spaventa il partito Posizioni opposte sulle ricette anti crisi. Morando: ma non siamo succubi della Camusso di Roberto Mania (la Repubblica, 15 novembre 2011) Il merito del Pd di Alfredo Reichlin (l’Unità, 15 novembre 2011) Pro-memoria lavoro di Francesco Riccardi (avvenire.it, 15 novembre 2011) Ichino: «Sul lavoro il Pd non può star fermo» (unita.it, 22 novembre 2011) Solo un giovane su 10 entra in azienda con tutte le garanzie Il Contratto unico punta a eliminare almeno in parte l’enorme massa di lavoratori precari di Tonia Mastrobuoni (lastampa.it, 23 novembre 2011) Pd, Liberal contro Fassina: “Si dimetta”. Bersani: “Una richiesta che non capisco” Nel mirino il responsabile economico dei democratici dopo le critiche alle richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli Rehn. “Su pensioni e lavoro è in minoranza” (repubblica.it, 23 novembre 2011) Pd, Ichino chiede le dimissioni di Fassina (unita.it, 23 novembre 2011) Caso Fassina nel Pd: i Liberal chiedono le dimissioni, Bersani cade dalle nuvole Secondo il gruppo guidato da Enzo Bianco, le posizioni espresse dal responsabile Economia dei democratici non rappresentano tutte le varie anime del Pd e sono in netto contrasto con la linea scelta dal segretario, che però difende l’accusato (ilfattoquotidiano.it, 23 novembre 2011) Il “caso Fassina” apre la resa dei conti nel Partito democratico Troppo di sinistra, i liberal chiedono la testa del responsabile economia del partito, Bersani lo difende. È il fischio di inizio della battaglia interna del Pd contro il segretario, dopo la tregua sul governo Monti di Daniela Preziosi (ilmanifesto.it, 24 novembre 2011) Intervista a Damiano (Pd): “40 è il numero magico. Camusso ha ragione” di Frida Nacinivich (liberazione.it, 1° dicembre 2011) Gli italiani in pensione a 58,7 anni. L’Inps: “Siamo lontani dall’Europa” I dati del’Istituto rivelano che due terzi dei pensionati per anzianità nel 2010 sono usciti con 40 anni di contributi. Il presidente Mastrapasqua: “Con il sistema contributivo diventa obbligatorio aumentare il ricorso alle integrative”. (repubblica.it, 1° dicembre 2011) Reddito minimo garantito. Lo strumento per recuperare chi ha perso il lavoro In Italia ha visto solo una breve sperimentazione di Raffaello Masci (stampa.it, 2 dicembre 2011) La Fornero e le pensioni: punto all’addio all’anzianità dal 2018 Il ministro lo ha detto durante un’audizione alla Camera. «È una soluzione drastica, abbiamo usato l’accetta» (corriere.it, 6 dicembre 2011, 14:32) In pensione più tardi. Via dal lavoro sei anni dopo Che cosa cambia con la riforma, età per età 2012 Dal 1° gennaio sistema contributivo per tutti di Domenico Comegna (corriere.it, 6 dicembre 2011, 8:03) Neoliberisti, ecco come ci portano alla catastrofe di Stefano Fassina (unita.it, 12 dicembre 2011) Riforma del lavoro, Ichino striglia il Pd: “Deve scegliere con chi stare” In un’intervista il giuslavorista apre alla riforma Monti e rilancia la sua proposta. “Un anno fa il partito ne ha preso le distanze, ma a gennaio sarà costretto a riflettere” di Stefano Feltri da Il Fatto Quotidiano del 18 dicembre 2011 Camusso rompe con il governo: «Sulle pensioni un intervento folle» «La Fornero aggredisce i lavoratori». Il contratto unico? Sarebbe solo un nuovo apartheid a danno dei giovani di Enrico Marro (corriere.it, 19 dicembre 2011, 11:46) Articolo 18, sindacati all’attacco. Fornero: “Reazione che preoccupa” Camusso: “È una norma di civiltà che dice che nessun datore di lavoro può licenziare qualcuno perché gli sta antipatico, perché non ha opinioni, perché è iscritto a un sindacato o fa politica”. Il ministro: “Contro di me linguaggio del passato”. Il presidente di Confindustria Marcegaglia: “Serve serietà e pragmatismo” (repubblica.it, 19 dicembre 2011) Bonanni: «Articolo 18? Pagare di più il lavoro flessibile». Camusso: «Venite nel paese reale» Protesta a Roma contro la manovra, Piazza Montecitorio piena. Bonanni (Cisl): Fornero fa la maestrina, metta incentivi per precari A. D. G. (corriere.it, 19 dicembre 2011, 14:16) L’inutile ossessione della flessibilità in uscita di Massimo D’Antoni (unita.it, 19 dicembre 2011) «Alzare i salari, sfidiamo la Fornero». E lei: «Manovra equa, io la difendo» Bonanni in pressing: «Parliamone». E il ministro apre. Ma sull’articolo 18 è scontro governo-sindacati (corriere.it, 20 dicembre 2011, 17:24) Fornero: “Bisognerebbe alzare i salari”. La Cgil: stesse idee del vecchio governo. Bonanni avverte: se si tocca l’articolo 18 coesione sociale. E sfida il ministro sull’aumento degli stipendi (lastampa.it, 20 dicembre 2011) Il rimedio miracoloso di Loris Campetti (ilmanifesto.it, 20 dicembre 2011) Modifiche all’articolo 18: no di Bersani Il leader del Pd: «Roba da matti toccarlo ora quando il problema è entrare nel mondo del lavoro, non uscirne». (corriere.it, 21 dicembre 2011, 17:51) Articolo 18, quel «deterrente» poco usato dalle imprese di Rocco Di Michele (ilmanifesto.it, 21 dicembre 2011) Ichino: «Riforma del lavoro urgente come le altre» di Simone Collini (unita.it, 29 dicembre 2011) L’obiettivo di un contratto unico contro la giungla dei lavori flessibili Il governo alla ricerca di una soluzione per uscire dal dualismo del mercato del lavoro, dove c’è chi è garantito e chi non ha praticamente protezioni: una strategia che Monti e il ministro Fornero studiano mentre preparano il difficile confronto con i sindacati. Ecco le alternative di Roberto Mania (repubblica.it, 2 gennaio 2012) Oggi più che mai è il lavoro la vera priorità di Guglielmo Epifani (l’Unità, 2 gennaio 2012) La Cgil al governo: «Parli chiaro sulla riforma del lavoro, Cisl e Uil solisti stonati» «Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento e formazione per cancellare i contratti precari» (corriere.it, 4 gennaio 2012, 14:42) Monti: «Non occorrono altre manovre» Il presidente del consiglio: «Dobbiamo ammodernare alcuni aspetti del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali» di Fabio Savelli (corriere.it, 8 gennaio 2012, 23:15) Bersani: «Art. 18, unico tabù è buonsenso» Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il Partito democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma del mercato del lavoro. Il documento è stato messo a punto dal dipartimento Lavoro guidato da Stefano Fassina. L’art.18 sulla carta non si tocca, ma governo potrebbe provare a forzare, chiedendo anche un sacrificio, magari parziale. (unita.it, 9 gennaio 2012) Articolo 18, Marcegaglia all’attacco: “Il reintegro è un’anomalia italiana” La leader di Confindustria vede il ministro Fornero: ora riforma. Camusso: “La Cgil è seriamente interessata ad trovare un’intesa” (lastampa.it, 11 gennaio 2012) Il documento dei sindacati per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e fiscale Pubblichiamo il testo integrale del documento presentato al governo Monti da Cgil-Cisl-Uil Roma, 17 gennaio 2012 Intervista ad Anna Finocchiaro: «Cancellare subito la vergogna delle dimissioni in bianco» La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare l’articolo 18. Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra dovrà cedere all’indignazione» di Maria Zegarelli (l’Unità, 21 gennaio 2012) Intervista a Susanna Camusso. «Vogliono fare i liberisti colpendo il costo del lavoro» Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei servizi pubblici. Si torni a parlare sul serio di occupazione» di Oreste Pivetta (l’Unità 22 gennaio 12) Oggi il tavolo sulla riforma del lavoro. Fornero vuole cause di lavorolampo Incontro governo-parti sociali, l’idea dell’esecutivo è quella di rendere standard gli indennizzi di Fabio Martini (lastampa.it, 23 gennaio 2012) Tre proposte sul tavolo per riformare il lavoro L’obiettivo: rilancio del Pil cercando nuove regole di Roberto Bagnoli (corriere.it, 23 gennaio 2012, 8:27) Lavoro, le linee del governo in cinque capitoli. «Uso limitato della cassa integrazione» Reddito minimo. Indennità risarcitoria in caso di perdita del lavoro. Flessibilità più cara. Cgil sulle barricate (corriere.it, 23 gennaio 2012, 15:45) Marcegaglia: no al salario minimo.Ammortizzatori vanno mantenuti almeno per i prossimi due anni (ilsole24ore.com, 25 gennaio 2012) «No al salario minimo, meglio la Cig» La Marcegaglia contro il progetto del governo di riforma degli ammortizzatori sociali (corriere.it, 25 gennaio 2012, 16:28) Una lettera per la Camusso che viene da lontano di Eugenio Scalfari (repubblica.it, 29 gennaio 2012) Quante differenze dagli anni di Lama. Oggi la precarietà è il primo problema di Susanna Camusso (repubblica.it, 30 gennaio 2012) Se non ora quando? di Irene Tinagli (La Stampa, 1° febbraio 2012) Posto fisso, Camusso contro Monti: «Si vogliono togliere tutele ai lavoratori» Il segretario generale Cgil interviene anche su Mirafiori: «Svoltiamo verso l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?» (corriere.it, 2 febbraio 2012, modificato il 3 febbraio 2012) Marcegaglia: articolo 18 è sul tavolo, reintegro valga per licenziamenti discriminatori (ilsole24ore.com, 2 febbraio 2012) Marcegaglia: «Il sindacato non protegga i ladri». Reazione infuriata:«parole offensive» Il leader degli industriali ha detto di non volere l’abolizione dell’art 18, ma invita i sindacati a non proteggere i «fannulloni» (corriere.it, 21 febbraio 2012, 21:54) Scontro Marcegaglia-sindacati. Bersani: ‘Senza intesa, sì non scontato’ La leader degli industriali durissima contro i rappresentanti dei lavoratori che difendono “ladri e assenteisti cronici”. Poi la parziale rettifica: “Nessuna mancanza di fiducia”. Gelida la replica di Susanna Camusso: “La trovo offensiva”. Dal segretario del Pd avviso a Monti: “Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo” (repubblica.iit, 21 febbraio 2012) Riforma lavoro, tensione nel Pd. Bersani: il sì non è scontato, art. 18 principio civiltà «No all’idea di andare avanti senza intesa tra le parti». La posizione del segretario allarma l’area montiana del partito (ilmessaggero.it, 21 febbraio 2012, 22:53) Riforma delle pensioni, per la Cgil “un furto legalizzato” Centinaia di migliaia di lavoratori fuori dal lavoro e senza pensione, oppure costretti a pagare una seconda volta i contributi previdenziali. Il patronato Inca Cgil non usa mezzi termini per definire la “ricongiunzione onerosa” dei contributi. Domanda a Fornero: “Può una nuova legge cancellare contratti e accordi già firmati?” di Francesco Piccioni (ilmanifesto.it, 22 febbraio 2012) Riprende la trattativa: il nodo degli ammortizzatori Il premier Monti vuole varare la riforma “entro marzo”. Il cuore del modello Fornero è la riduzione degli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti. È questo il grande inganno della contrapposizione tra “garantiti” e “senza protezioni”. Cgil: “Non faremo come con le pensioni”. di Francesco Piccioni (ilmanifesto.it, 12.03.2012) In attesa della riforma del lavoro i collaboratori e i parasubordinati Sono 1,5 milioni, sono sotto i 10mila euro annui Sono dipendenti di fatto e sognano il posto fisso di Walter Passerini (lastampa.it, 15 marzo 2012) Lavoro, la mossa di Cgil, Cisl e Uil: contro-proposta sull’articolo 18 Documento da presentare al governo con l’appoggio del Pd. Oggi il vertice fra i tre leader. Bersani: “La via è il modello tedesco”. Bonanni regista della mediazione: “Non facciamoci distruggere” di Roberto Mania (repubblica.it, 19 marzo 2012) Ministero: “Statali esclusi da nuovo art. 18″. Giuslavoristi: “Concessioni, governo mente” Una nota del dipartimento della funzione pubblica dice che le novità sui licenziamenti si applicheranno anche ai dipendenti pubblici. E scatena la polemica. Camusso e Angeletti: “Non è vero”. Alla fine Patroni Griffi chiarisce con una nota. Intanto 53 esperti da Bologna accusano: alcune tutele erano già previste: o il governo è “disinformato” o è “spregiudicato” (repubblica.it, 21 marzo 2012) Riforma articolo 18 per gli statali, estensione possibile, ma non subito Il Testo Unico del 2001 impone l’applicazione dello Statuto dei lavoratori anche ai dipendenti pubblici, ma prevede discipline normative diverse anche sui licenziamenti che il governo si riserva di valutare di V. Gualerzi (repubblica.it, 22 marzo 2012) La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita Il documento di riforma del mercato del lavoro presentato alle parti sociali dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (Consiglio dei Ministri, 23 marzo 2012) Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne ostaggio di Francesco Verderami (corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:31) L’abc della riforma del mercato del lavoro in 43 voci, dagli ammortizzatori sociali agli stage di Nicoletta Cottone e Vittorio Nuti (ilsole24ore.com, 24 marzo 2012) Una trincea ideologica di Ferruccio de Bortoli (corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:27) Governo e sindacato uniti nell’errore di Eugenio Scalfari (repubblica.it, 25 marzo 2012) Lettere, avvocati e tribunali. Così i nuovi licenziamenti Senza conciliazione, il lavoratore dovrà dimostrare la sua utilità di Isidoro Trovato (corriere.it. 25 marzo 2012 | 15:50) Battaglia decisiva di Claudio Sardo (unita.it, 25/3/2012) Sulla riforma dell’articolo 18 Monti paventa la crisi di governo Il premier Monti: “Se la riforma non passa il governo potrebbe non restare”. Damiano (Pd): “Meglio discuterne dopo le amministrative. Potrebbe servire tutta l’estate”. Fassina (Pd): “Il governo deve rassegnarsi: siamo in una Repubblica parlamentare”. (ilmanifesto.it, 26/3/2012) Lavoro, 700mila precari a rischio. Dalla riforma nessun ammortizzatore di Giusy Franzese (ilmessaggero.it, 26/3/2012) Partite Iva, così funziona la stretta. Circa 400mila le finte consulenze di Rossella Lama (ilmessaggero.it, 26/3/2012) Poteri di veto e costituzione di Angelo Panebianco (corriere.it, 26/3/2012) Al buon cuore del padrone di Alessandro Robecchi (ilmanifesto.it, 26/3/2012) L’estremismo del capitale di Guido Viale (ilmanifesto.it, 27/3/2012) Manifestazione unitaria dei sindacati: «Contro l’intervento disastroso sulle pensioni» Mobilitazione delle tre maggiori sigle sindacali per risolvere il nodo della platea di “esodati”: esclusi dal mondo del lavoro ma non ancora in possesso dei requisiti pensionistici (corriere.it, 28/3/2012) Pensioni, Cgil, Cisl, Uil e Ugl in piazza contro la riforma (repubblica.it, 28/3/2012) Sciopero unitario sulle pensioni contro la Fornero anche Cisl e Uil Il segretario della Cgil Susanna Camusso per la prima volta usa twitter per annunciare la mobilitazione di tutte le sigle sindacali. Sugli esodati c’è intesa con Bonanni: È iniquo far pagare a loro tutto il peso della riforma pensionistica lasciandoli in mezzo alla strada e senza ammortizzatori (ilmanifesto.it, 28/3/2012) L’articolo 18 e la Costituzione Lettera di Gianluigi Pellegrino al direttore del quotidiano la Repubblica (la Repubblica, 28/3/2012) Pensioni, proposta di legge Pd per gli esodati. Nori (Inps): non sono 350mila non abbiamo il numero (ilsole24ore.com, 29/3/2012) Il risanamento pilotato. Cosa ci chiede l’Europa Aumento dell’età pensionabile, pressing sul lavoro di Francesca Basso e Giovanni Stringa (corriere.it, 14 novembre 2011, 10:05) Il 5 agosto scorso la Banca centrale europea ha inviato una lettera all’Italia, firmata dall’allora presidente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, con una serie di richieste al governo, che vanno dall’intervento su pubblico impiego e pensioni alla flessibilità del lavoro (rivedendo anche la norma sui licenziamenti), passando per le privatizzazioni. Temi rilanciati dalla Commissione europea l’8 novembre scorso in un documento con 39 domande al governo italiano sui tempi dell’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione, su infrastrutture, scuola, concorrenza e costi della politica. Statali Taglio dei costi e mobilità Nella lettera della Bce all’Italia del 5 agosto scorso si chiedeva al governo di «valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Sul tema torna anche la Commissione europea, che chiede conto dei tempi della modernizzazione della pubblica amministrazione. Bruxelles vuole sapere quando sarà completamente operativa, e come e quando saranno attuate le misure di mobilità e di flessibilità per i dipendenti statali, anche in relazione alla soppressione delle Province. Inoltre viene chiesto di dettagliare i progressi concreti prodotti dalla riforma Brunetta. La legge di Stabilità, contenente il maxi emendamento del governo, promulgata venerdì, prevede che gli statali in soprannumero potranno essere posti «in disponibilità» con un’indennità pari all’80% dello stipendio per due anni. Inoltre saranno soppresse alcune indennità e rimborsi per trasferimento. Fisco Le nuove tasse e la crescita Poche parole, una sola domanda, ma molta sostanza. «Come verrà spostata la tassazione dal lavoro ai consumi e alla proprietà immobiliare?», ha chiesto l’Europa. L’Iva è già stata alzata di un punto percentuale, ora toccherà alla casa? L’eventuale reintroduzione dell’Ici sulla prima casa porterebbe nelle casse dello Stato un gettito di circa 3,5 miliardi di euro, è stata la risposta di Giulio Tremonti. L’idea di fondo suggerita dall’Europa è quella di spostare il peso della tassazione dal lavoro — per rilanciare l’occupazione —alle imposte indirette e al mattone, considerato meno determinante per la crescita del Paese. Quest’ultima, però, non viene certo aiutata —almeno in modo diretto —dall’inasprimento dell’Iva, o anche dal calo del reddito disponibile per l’aumento delle tasse sugli immobili. Resta il fatto che il debito pubblico va riequilibrato, e l’indirizzo sembra chiaro: meno debito grazie al mattone, più crescita grazie al lavoro. Servizi Più mercato meno privilegi La liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali— ha chiesto la Banca centrale europea— deve essere «piena». E nei servizi locali vengono auspicate «privatizzazioni su larga scala». Inoltre, per l’Europa, gli introiti stimati delle vendite ai privati in generale devono essere al netto dei minori dividendi e del maggior costo per gli affitti. Auspicati più poteri all’Antitrust, l’abolizione delle barriere d’accesso alle professioni e le liberalizzazioni dai servizi postali ai trasporti. Lavoro Contratti locali e licenziamento Uno dei punti chiave della lettera della Bce riguarda il lavoro. Bruxelles sottolinea «l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa». La Banca centrale europea chiede anche «un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse». Pensioni «Quota 67» non basterà «L’età pensionabile a 67 anni nel 2026 è sufficiente?». La domanda, arrivata direttamente a Roma dalla Commissione europea, lascia capire che, forse, gli sforzi già messi in campo a livello previdenziale potrebbero non bastare. La Banca centrale europea ha poi chiesto di «intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012». Non è quindi sotto la lente dell’Europa solo la «quota (anagrafica) 67 anni» nel 2026, ma ci sono anche le pensioni di anzianità, che oggi consentono di andare in pensione prima di 65 anni (pur con requisiti sempre più stringenti), e le dipendenti d’azienda. Che, stando agli auspici europei, potrebbero andare in pensione dai 65 anni d’età già dall’anno prossimo. Monti studia le prime misure Il vertice con imprese e sindacati, un decreto per patrimoniale e Ici di Alessandro Barbera (lastampa.it, 14 novembre 2011) I tempi dei mercati non sono quelli della politica, ma questa volta occorre bruciare i tempi. Lo ricordava ieri Napolitano: di qui ad aprile vanno a scadenza 200 miliardi di euro di titoli pubblici. I primi tre miliardi di Btp quinquennali sono all’asta oggi stesso, quando i mercati riapriranno per la prima volta dopo il conferimento dell’incarico. Comunque vada, Mario Monti deve accelerare. Per questo, mentre cerca l’accordo sui ministri, proseguirà con gli incontri per discutere del primo decreto da approvare entro la prima metà di dicembre. L’incontro più importante sarà quello di domani, finora tenuto riservato, con sindacati e imprese. Non è detto che per allora il premier incaricato abbia giurato, ma a questo punto poco importa. Il primo punto di cui dovrà discutere con le parti sociali è come recuperare credibilità sui mercati e convincerli che il pareggio di bilancio al 2013 è possibile. E poiché questa è la priorità, avrà di fronte a sé – almeno per ora un fronte favorevole alla introduzione di una nuova tassa sui patrimoni, mobiliari e immobiliari. «Dobbiamo vincere la sfida del riscatto e dell’equità». Ieri, in quel brevissimo richiamo di Monti al programma che intende attuare, molti hanno intravisto l’antipasto di una minestra che gli italiani più ricchi dovranno deglutire. L’ultimo raffronto fatto dal Fondo monetario nel 2010 su dati del 2007 – quando ancora c’era l’Ici sulla prima casa – dice che in Italia il peso delle imposte sul patrimoni, con la sola eccezione della Germania, resta fra i più bassi del mondo. Se in Italia quel tipo di imposta valeva il 2,1% del prodotto interno lordo, negli Stati Uniti era il 3,1%, in Gran Bretagna il 4,5%. Ciò detto, nei sindacati e fra le imprese ciascuno è convinto di avere la ricetta migliore. Confindustria non vuole la reintroduzione dell’Ici e propone l’1,5 per mille annuo sui patrimoni superiori a un milione e mezzo di euro, la Cgil chiede l’1% annuo sui patrimoni superiori a 800mila euro e l’Ici sulla prima casa. Guido Tabellini, il papabile ministro dell’Economia, ha più volte proposto una soluzione intermedia che, a differenza di una patrimoniale «alla francese» (lì si paga sopra 1,3 milioni di patrimonio), colpirebbe anche la rendita immobiliare: una tassa del cinque per mille annuo sui patrimoni finanziari e le rivalutazioni delle rendite catastali. Nella lettera di risposta all’Ue sui 39 quesiti posti la scorsa settimana, Giulio Tremonti ha ricordato che la reintroduzione dell’Ici varrebbe da sola 3,5 miliardi l’anno, poco più di ciò che l’erario ha perso con la sua abolizione. Ma la stessa lettera ricorda un altro dettaglio: con l’introduzione dell’Imu – Imposta municipale unica – il governo ha già previsto la reintroduzione della tassazione sulla prima casa già dal prossimo anno. Lo ha fatto dopo le proteste dei Comuni per i troppi tagli nella manovra estiva e successivamente nel decreto del 24 ottobre che (in via preliminare) modifica la legge sul federalismo fiscale. «Il decreto – si legge nella lettera prevede una diversa forma di tassazione dei servizi offerti dai comuni agli occupanti di proprietà residenziali, anche nel caso che queste vengano usate come prima casa». Insomma, se Monti vorrà, la strada per la reintroduzione dell’Ici è spianata dallo stesso governo che nel 2008 aveva decisa di abolirla. È però improbabile che il nuovo governo, se vorrà mostrarsi «equo» si fermi a questo: in Italia otto persone su dieci sono proprietarie della casa in cui vivono. A quello stesso ceto medio il nuovo governo dovrà chiedere altri sacrifici come l’aumento dell’età pensionabile. Di qui la probabile richiesta di un contributo ai più ricchi, sempre che il Pdl, da sempre contrario alla patrimoniale, non dica no. Ma i democratici sono già divisi su pensioni e mercato del lavoro. Il gelo della Cgil su Monti spaventa il partito Posizioni opposte sulle ricette anti crisi. Morando: ma non siamo succubi della Camusso di Roberto Mania (la Repubblica, 15 novembre 2011) La Cgil ago della bilancia. La posizione che Corso d´Italia assumerà sul nascituro governo Monti peserà eccome sul Partito democratico, sui suoi equilibri interni e sulle sue alleanze future. Questa è una partita inedita per Susanna Camusso e per Pier Luigi Bersani. Un crocevia decisivo. Perché i «sacrifici» richiamati già ieri dal presidente del Consiglio incaricato si possono tradurre, più semplicemente, in interventi sulle pensioni e sul lavoro per quanto temperati da un´eventuale patrimoniale in versione soft. Il Pd potrà votare misure severe di un governo tecnico, sostenuto anche dal centro destra, con la Cgil in piazza a protestare? Un dilemma. O addirittura il dilemma di queste ore per la sinistra laburista italiana. Si confida nella tradizionale lentezza di maturazione della confederazione rossa e sulla cautela che ha già mostrato Monti. Ma le incognite restano tutte. Non è lo scenario dei primi anni Novanta con i partiti in ritirata per via di Tangentopoli e le forze sociali costrette ad assumere un ruolo di supplenza attraverso la concertazione. Oggi c´è il bipolarismo e ci sono i partiti, ciascuno pronto a giocarsi le sue carte in vista delle prossime elezioni. Ieri la Camusso ha riunito fino a sera la segreteria confederale per prepararsi all ´incontro di oggi a Palazzo Giustiniani. La Cgil è stata l´unica organizzazione di interessi a non aver sottoscritto la scorsa settimana l´ultimo appello a favore di un governo Monti in tempi rapidi. Uno sganciamento che ha lasciato perplessi i piddini. Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, aveva personalmente telefonato alla Camusso per convincerla. «No, noi non firmiamo», è stata la risposta. D'altra parte all´inizio di questa crisi politica, Camusso ha sposato l´idea delle elezioni subito, per poi ripiegare sull´opzione del governo di emergenza. In ogni caso non aveva e non ha alcuna intenzione di schierarsi a sostegno di un esecutivo che dovrà ridurre in tempi rapidi la spesa corrente i cui capitoli sono sanità, pubblico impiego e previdenza. E, infatti, il leader della Cgil anche ieri ha ribadito la linea: «Non si fa cassa con le pensioni». Altro discorso ha aggiunto è parlare delle future pensioni dei giovani. Su questo concorda la maggioranza del Pd. Dice Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, esponente di AreaDem, la componente di Dario Franceschini, ma soprattutto uomo di cerniera con la Cgil: «Le pensioni non debbono di nuovo essere toccate. Mi piacerebbe che si contassero i miliardi che si sono risparmiati con gli ultimi interventi sulle pensioni e se ne cercassero altrettanti dai grandi patrimoni, dalle rendite e dagli speculatori. Vorrei proprio vedere se si vuole obbligare chi è entrato in fabbrica a quindici anni a rimanerci per 45 e passa anni». Barricate, dunque. Al pari di quelle della Cgil. O di quelle innalzate sull´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un altro campo socialmente sensibile, dal giovane membro della segreteria bersaniana Matteo Orfini: «Nominare Ichino ministro sarebbe, per il Pd, una vera e propria provocazione». Parole molto gradite alla Cgil ma che hanno indignato i veltroniani. Ancora ieri il liberal Enrico Morando: «Parole veramente tristi. Questo governo può essere un´occasione formidabile per affrontare i temi del mercato del lavoro senza pregiudizi. È finita la stagione della nostra subalternità nei confronti della Cgil». Ma se saltasse il patto di non belligeranza Bersani-Camusso cambierebbe la geografia del Pd. E Vendola e Casini sono gli spettatori più interessati. Il merito del Pd di Alfredo Reichlin (l’Unità, 15 novembre 2011) Questo è davvero un grande passaggio per l’Italia. Sul governo (ministri, programmi, governo di emergenza, di transizione ecc.) non ho nulla da aggiungere. Sono molto colpito dal modo come si è mosso il Presidente della Repubblica: uno statista. Propongo solo qualche riflessione sull’insieme della situazione. Prima di tutto sul ruolo che ha giocato il Pd e che è stato a mio parere molto grande. Con serietà e pacatezza la nostra leadership ha ben compreso la grandezza del problema. Di fatto, noi stiamo pilotando una crisi che è anche la crisi di un semiregime, durato quasi un ventennio. Qualcosa che ricorda il passaggio del 1901. Di questo si tratta. Non solo di ritrovare la fiducia dei cosiddetti mercati ma di sgombrare le macerie create anche (ma non solo) da un lungo regime populistico, guidato dall’uomo più ricco d’Italia. Non l’hanno ancora capito quelli che adesso si stracciano le vesti perché la “politica uscirebbe umiliata dal governo dei professori” Sciocchezze. Che cos’è per costoro la politica? La politica non è quel triste gioco per cui una bella donna può indifferentemente passare dai night club alla direzione di un ministero della Repubblica e non è la formazione di una maggioranza parlamentare grazie alla compravendita di alcuni deputati. La politica è quello che abbiamo visto, finalmente, in questi giorni. È l’assumere la responsabilità di governare questo passaggio drammatico in nome della polis (la politica, appunto) e cioè degli interessi generali e della consapevolezza dei rischi terribili che corre questo Paese. La politica è l’idea dell’Italia. Questa nostra Italia che è arrivata a un appuntamento con la sua vicenda storica. Dopotutto, una grande storia. Poche settimane fa nel salone della Banca d’Italia Gianni Toniolo ci ricordava che il reddito per abitante, al momento dell’unità d’Italia era grossomodo equivalente a quello medio attuale dell’Africa sub-sahariana. La vita media era di circa 30 anni, una famiglia operaia viveva nelle stamberghe e spendeva solo per il cibo tre quarti del suo salario. In 150 anni il reddito per abitante è aumentato di 13 volte e la vita media è arrivata a 82 anni. Ci rendiamo conto di cosa significa soprattutto per i nostri figli e nipoti la paurosa marcia indietro che è avvenuta sotto i nostri occhi in questi ultimi anni? Sta tornando la povertà, quella vera. Il nostro debito pubblico è arrivato a 1900 miliardi di euro e su questa montagna di soldi dobbiamo pagare interessi crescenti che si mangiano le spese per i servizi sociali, l’occupazione, il sostegno all’economia reale. Per pagare gli interessi stiamo bruciando i mobili di famiglia: il capitale umano, i giovani. E ci siamo così indeboliti che i francesi si sono già comprati a prezzi di saldo la Bnl, la Parmalat, la Edison, le industrie della moda e tanto altro. La Fiat sta traslocando in America. Anche questo è il lascito del lungo regno del “bungabunga”. Adesso basta. Deve finire, anche a sinistra il chiacchiericcio su chi comanda e sui piccoli giochi di schieramento. Il bisogno di restituire all’Italia una dignità perduta e di impedire la bancarotta di un grande Stato che dopotutto è la settima economia del mondo, è assoluto. È del tutto evidente che dobbiamo affrontare l’emergenza e che da qui è necessario partire. Ma per andare in quale direzione? Il bisogno che sento è questo. È rendere molto chiara la direzione di marcia e la svolta che è ormai necessaria. Basta guardare al dibattito europeo per capire che sta diventando evidente il fatto che non solo l’Italia ma l’Europa rischiano di essere travolte se il potere politico non riesce a imporre una nuova regolazione allo strapotere di una certa oligarchia finanziaria. Una finanza che si mangia l’economia reale e il capitale sociale e umano. È chiaro che il mondo non può essere governato in questo modo. Ed è per una ragione di fondo, oggettiva, non ideologica che proprio da questa stessa crisi, ormai conclamata, può nascere l’esigenza di un nuovo compromesso tra il capitalismo e la democrazia. È solo una speranza ma il grande tema del riformismo europeo è questo: la lotta per un nuovo ordine economico, ciò che fece Roosevelt. Resta da capire se le classi dirigenti italiane e i loro intellettuali si rendano conto che non solo i poveracci ma l’insieme di quella che chiamiamo civiltà occidentale rischia di non sopravvivere se continua questa crescita spaventosa e immorale delle disuguaglianze. Il rapporto tra il salario di un operaio e i guadagni di un grande manager sono passati da un rapporto di 1 a 30 a un rapporto di 1 a 300. Stiamo molto attenti. Questa non è più solo un problema di equità, sta diventando una questione antropologica. Ce lo dicono tante cose: della massa dei giovani cacciati nel limbo di chi ha finito gli studi e non ha prospettive di lavoro, alla vergogna dei braccianti di colore ridotti nelle campagne del Sud a quasi schiavi. Anche la Chiesa si è resa conto (uso le sue parole) che siamo di fronte a gravi perdite di identità dell’individuo, sempre più indotto a consumare a debito cose di cui non ha bisogno, che perde il senso della cittadinanza, cioè dei diritti e dei doveri, e al limite non sa più distinguere tra il bene e il male. Queste sono le macerie. Certo non è colpa solo di Berlusconi. Ma è in questo quadro più ampio che il populismo di quel signore straricco si è inserito portando al governo l’Italia delle “veline” e delle consorterie. Rimuovere queste macerie non sarà facile. Ma chi può farlo? Ed è così che arrivo a una grande domanda che mi preme assai. Io penso che proprio alla luce di questo interrogativo può (e deve) cambiare parecchio il modo di essere del Pd e la sua cultura politica ancora in formazione. Ma deve cambiare anche il modo di guardare ad esso da parte di mondi diversi dalla sinistra storica. Dovete farvene una ragione, cari amici con la puzza sotto il naso. Dovete riconoscere che per fortuna c’è Napolitano ma dovete aggiungere che per fortuna è rimasta in vita la grande tradizione democratica del vero riformismo italiano. Parlo di una idea anti-notabilare della democrazia intesa come democrazia che si organizza perché solo così essa offre alle classi subalterne lo strumento per contare, per lottare in nome della giustizia, per partecipare alla vita statale, per dare uno sbocco di governo ai movimenti. Lo sforzo di mescolare questa tradizione con quelle del mondo cristiano e del cattolicesimo, raccogliendo anche il meglio della cultura liberale e repubblicana, è stata una grande idea. Certo non ci siamo ancora e c’è un grande lavoro da fare. Però in solo quattro anni siamo già diventati il primo partito italiano. Se ne facciano una ragione i nostri critici che affollato i talk show televisivi. La ricostruzione dell’Italia non è un problema di tecnici più bravi. Essa dipende in larga misura dalla capacità del Pd di dar vita a un nuovo blocco storico in alternativa a quello della destra. Io non dimentico che la destra ci ha governato per tanto tempo non solo perché c’è una cattiva legge elettorale ma perché i riformisti avevano perso l’egemonia culturale e sociale. Pro-memoria lavoro di Francesco Riccardi (avvenire.it, 15 novembre 2011) Ci sono cifre che non vengono più strillate sui media, coperte come sono dal fragoroso impennarsi degli spread, ma che non per questo sono meno drammatiche. Si tratta dei tassi di occupazione, mai così bassi nel nuovo secolo. Della disoccupazione, a malapena contenuta. Del precariato ormai endemico. Peggio: dell’inattività divenuta sistemica. Non indici freddi, ma istantanee roventi della realtà, fotografie drammatiche, nelle quali sono fissati volti, persone giovani e anziane, famiglie e interi pezzi d’Italia. E allora, per il governo che si appresta a prendere forma, tra le emergenze da affrontare c’è una missione che merita di essere considerata con appassionata dedizione: il lavoro. In questi tre anni di crisi – grazie a un uso sapiente e massivo della cassa integrazione da parte dell’esecutivo uscente – si è riusciti a contenere l’ondata di esuberi e licenziamenti che ha caratterizzato la gran parte delle economie europee e mondiali. Ma la rete di protezione, pur allargata, non ha coperto tutti allo stesso modo. I giovani, gli autonomi, i diversi parasubordinati, hanno pagato per primi e a prezzo più caro, la recessione: restando senza posto e senza ammortizzatori. Quasi un terzo dei giovani è disoccupato, ma quel che è peggio, da noi solo 1 ragazzo su 5 lavora. In Germania sono 1 ogni 2, in Francia 1 su 3, persino in Spagna, che pure detiene il record europeo della disoccupazione, va un po’ meglio con 1 ogni 4. Ci sono poi 2,2 milioni di persone del tutto inattive: non studiano né lavorano né sono inserite in un programma di formazione. Altri 2 milioni e 764mila italiani – per più della metà donne – pur essendo disponibili a lavorare non cercano più un posto, perché sono scoraggiati. E ancora ci sono i sottoccupati. E quelli che l’Istat classifica come occupati, ma hanno lavorato solo 1 ora nella settimana di rilevazione. E ancora cifre e ancora analisi che portano a conclusioni univoche: non possiamo permetterci un così basso numero di cittadini che lavorano e non possiamo più accettare disparità di trattamento tanto forti. Il lavoro va assolutamente rilanciato, rivalorizzato, riportato al centro dell’azione politica. Sì, politica. Anche nell’era di un governo ad alto tasso tecnico come quello al quale Mario Monti sta lavorando in queste ore. Le ultime misure adottate dall’esecutivo Berlusconi sull’apprendistato – contratto a tempo indeterminato con contenuto formativo e una flessibilità limitata ai primi anni – vanno nella direzione giusta. Ma non bastano: è necessario (ri)costruire un mercato del lavoro dove anzitutto non ci siano lavori di serie A per gli italiani e di serie B per gli stranieri, dove le occupazioni manuali abbiano pari dignità e valore e prevedano un salario equo rispetto a quelle intellettuali. Nel quale alle attività in nero si fa una lotta serrata come e, se possibile, di più che all’evasione fiscale. Un mercato, con ammortizzatori sociali universali, senza apartheid per i giovani e che non discrimini gli “anziani”. Perché – e le imprese debbono assumersene la responsabilità – non si può spingere per l’innalzamento dell’età pensionabile e contemporaneamente considerare obsoleto o troppo costoso un dipendente cinquantenne. Sono risposte, queste all’emergenza lavoro, che dobbiamo a noi stessi, assai prima che ai mercati finanziari. Perché dietro quelle cifre sull’occupazione ci siamo noi, ci sono i nostri ragazzi. Senza retorica, c’è il futuro di questo Paese, del Nord e del Sud assieme. E non c’è speculatore, non c’è istituzione internazionale, per quanto autorevole, che possa imporci cosa vogliamo essere, quale Paese vogliamo diventare. Non abbiamo bisogno di ricette preconfezionate, di modelli da applicare pedissequamente, di trofei ideologici da ostentare. Soprattutto non possiamo invertire l’eventuale approdo finale con la mossa di partenza. Abbiamo competenze e disponibilità, abbiamo forze sociali ormai abbastanza riformiste e consapevoli della portata della sfida per poter rimodellare con un progetto originale il nostro modello di coesione sociale. Agendo con rigore ed equità, favorendo sì lo sviluppo ma solo attraverso l’inclusione. Ichino: «Sul lavoro il Pd non può star fermo» (unita.it, 22 novembre 2011) All’inizio di questa legislatura erano due i grandi temi caldi della politica del lavoro individuati dal manifesto programmatico del Partito democratico, sotto il titolo Per dare valore al lavoro. Il primo era quello dello spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro. Uno spostamento pensato anche per aprire il Paese agli investimenti stranieri e ai piani industriali più innovativi che essi sovente portano con sé. Il secondo era quello del superamento del dualismo del nostro mercato del lavoro, del regime attuale di feroce apartheid fra lavoratori protetti e non protetti, attraverso il nuovo disegno di un diritto del lavoro capace di applicarsi in modo davvero universale a tutti, conciliando il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale per i lavoratori nel mercato del lavoro. Nel 2009 i due punti programmatici vengono tradotti in altrettanti disegni di legge, rispettivamente n. 1872 e n. 1873, presentati da 55 senatori (la maggioranza del gruppo Pd al Senato). Il primo dedicato alla riforma del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, con la previsione della derogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale, nell’ambito di regole precise di democrazia sindacale. Il secondo dedicato al disegno di un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi in modo universale, ricomprendendo davvero tutti i nuovi rapporti di lavoro dipendente destinati a costituirsi da qui in avanti, voltando pagina rispetto al dualismo attuale. Entrambi i disegni di legge, però, a seguito della conferenza programmatica del partito del maggio 2010, sono stati accantonati dalla nuova maggioranza nata dall’ultimo congresso. Per quel che riguarda la prima questione, la critica rivolta nel 2010 dai responsabili del Lavoro e dell’Economia al ddl n. 1872 è quella di attentare al ruolo centrale e insostituibile del contratto collettivo nazionale di lavoro, riducendo la sua inderogabilità. Senonché, collocandosi su questa posizione, il Pd si trova impreparato di fronte alla vicenda degli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori (poi anche Grugliasco), contenenti alcune deroghe al contratto nazionale; basti ricordare, in proposito, il commento imbarazzato e inadeguato dei vertici del partito al primo dei tre accordi: «Sì, purché sia un’eccezione». Quella stessa vicenda sindacale è destinata, però, a determinare nel giro di un anno, una svolta epocale nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali, con la firma – anche da parte della Cgil – dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. L’elemento di maggiore novità in questo accordo è costituito proprio dal rilevantissimo ampliamento della possibilità di deroga al contratto nazionale ad opera del contratto aziendale, nel rispetto di regole precise di democrazia sindacale (altro che «eccezione»!): sostanzialmente, si tratta della stessa riforma che è prevista nel ddl. n. 1872. A me sembra evidente che, se il Pd nel 2009 e 2010 avesse confermato la linea cui si ispira quel disegno di legge, la vicenda degli accordi Fiat nel 2010 si sarebbe svolta in modo molto meno lacerante. Il Pd ci arriva, invece, solo dopo l’accordo del giugno 2011. Meglio tardi che mai. D’accordo. Ma non sarebbe stato inutile che qualcuno dei protagonisti della linea precedentemente tenuta, i quali oggi fanno propria come Bibbia la linea sancita dall’accordo interconfederale di giugno, riconoscesse almeno la bontà dell’idea che era alla base del progetto contenuto nel ddl n. 1872. Desse atto, cioè, ai 55 senatori che lo avevano sostenuto di aver visto giusto. Di questo non si è sentita, invece, neppure mezza parola. Qualche cosa di strettamente analogo sembra ora destinato ad accadere anche sul secondo versante, quello del superamento del regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti. Perché il progetto flexsecurity contenuto nel ddl n. 1873, il secondo della coppia proposta due anni fa dalla maggioranza dei senatori del Pd, ha raccolto in questi ultimi mesi il consenso della quasi totalità degli altri gruppi parlamentari; e giovedì scorso è stato inequivocabilmente indicato come base per la riforma da Mario Monti nel primo atto del suo nuovo governo, cui il Pd ha promesso pieno sostegno. La proposta uscita, su questo terreno, dalle ultime due assemblee programmatiche del Pd (2010 e 2011) – cioè quella di aumentare i contributi previdenziali degli “atipici” – è già stata prontamente attuata dalla “legge di stabilità”, ultimo atto del governo Berlusconi; e con tutta evidenza non basta per affrontare incisivamente il problema. Il Pd – come ciascuna delle altre forze politiche che fanno parte della nuova maggioranza – ora può proporre delle modifiche o integrazioni al progetto che il governo indicherà come base di discussione; ma è difficile pensare che possa schierarsi contro un’iniziativa mirata a riunificare progressivamente il mondo del lavoro allineandolo ai migliori standard europei, e che comunque non pregiudica in alcun modo la posizione di chi un rapporto di lavoro stabile regolare già oggi ce l’ha. Non può davvero essere il partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” a chiedere al nuovo governo di restare fermo su questo terreno. Solo un giovane su 10 entra in azienda con tutte le garanzie Il Contratto unico punta a eliminare almeno in parte l’enorme massa di lavoratori precari di Tonia Mastrobuoni (lastampa.it, 23 novembre 2011) È una delle poche idee che siamo riusciti anche ad esportare all’estero. Da tempo economisti come Pierre Cahuc, Francis Kamarz, Samuel Bentolila e Juan Dolado propongono il «contratto unico» inventato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi anche in Francia e Spagna. Ma da noi il dibattito incontra sin dal 2002, quando è stato proposto dai due economisti del lavoro un totem insormontabile: l’articolo 18. Il fatto è che da quando quella norma dello Statuto dei Lavoratori è stato al centro di uno scontro al calor bianco tra il governo Berlusconi bis e la Cgil di Sergio Cofferati – con l’epilogo dei tre milioni a Circo Massimo – è complicato parlare di diritto del lavoro senza scivolare sul terreno dello scontro ideologico. Elsa Fornero, neo ministro del Lavoro ha già detto cosa ne pensa: il contratto unico è «in grado di conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con l’aspirazione alla stabilità rivendicata dai lavoratori». Sarà un tassello importante dell’agenda di governo dell’economista torinese. Ma è anche uno dei motivi per cui la Cgil continua a rimarcare la diffidenza nei confronti del governo Monti. Il contratto unico tenta di rispondere a un mondo del lavoro che si è fortemente precarizzato e dove si è creato un dualismo crescente tra chi è tutelato dal contratto a tempo indeterminato e le miriadi di atipici che hanno spesso livelli salariali infimi, non sono garantiti da contratti nazionali e sono quasi senza tutele. Soprattutto, avendo una data scritta sul contratto, gli ormai milioni di lavoratori precari non sanno neanche cos’è, l’articolo 18. Stiamo parlando del 90 per cento di chi comincia oggi un lavoro: ormai solo un giovane su dieci inizia una professione o un mestiere con un contratto a tempo indeterminato. Gli altri nove entrano con contratti a termine, interinali, co.co.pro, eccetera. Fuori dal perimetro dello Statuto dei lavoratori. E, molto spesso, dall’ombrello dei sindacati. Anni fa al «contratto unico di ingresso», in breve Cui (che è confluito in una proposta del senatore Pd Nerozzi), se n’è affiancato uno analogo del giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino che ne riprende l’idea di fondo ma differisce su alcuni punti. Nella versione Boeri-Garibaldi è un contratto a tempo indeterminato e la difesa dal licenziamento senza giusta causa è prevista dal primo giorno. Solo che per i primi tre anni «il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria», (un’indennità pari a 5 giorni di retribuzione per ogni mese di anzianità), insomma viene sospeso l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18. Diventa una sorta di lungo apprendistato durante il quale anche il datore di lavoro può capire se il dipendente corrisponde alle sue aspettative. Allo scadere dei tre anni vengono riconosciute tutte le tutele del tempo indeterminato. Il ricorso a forme di contratti flessibili viene scoraggiato con delle restrizioni. Infine, dettaglio rilevantissimo, il Cui non sostituisce gli attuali contratti nazionali, ma garantisce in più tutele minime a chi non ce l’ha – cosa che quelli flessibili oggi non fanno. A partire da un salario minimo. Nella testa di Boeri e Garibaldi, il contratto unico dovrebbe essere affiancato da una seria riforma degli ammortizzatori che garantisca un sussidio di disoccupazione a tutti. Ma cosa circa 15 miliardi di euro ed è difficile che veda la luce nel prossimo anno e mezzo. Anche nella proposta di Ichino non c’è una data sul contratto ma viene introdotto il licenziamento «per motivi economici e organizzativi» e non ci sono i tre anni di prova. L’articolo 18 viene depotenziato. Ma dal 20esimo anno di anzianità «l’onere della prova circa il giustificato motivo economico tecnico o organizzativo è a carico del datore di lavoro». Per chi perde il lavoro viene introdotto un sistema che ricalca a quello danese della «flessicurezza». Il datore di lavoro si impegna a ricollocare il lavoratore attraverso la riqualificazione professionale. Pd, Liberal contro Fassina: “Si dimetta”. Bersani: “Una richiesta che non capisco” Nel mirino il responsabile economico dei democratici dopo le critiche alle richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli Rehn. “Su pensioni e lavoro è in minoranza” (repubblica.it, 23 novembre 2011) “Fassina se ne deve andare”. L’ala Liberal del Pd si scaglia contro il responsabile economico dei democratici chiedendone la sostituzione dopo le critiche alle richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle al commissario Olli Rehn. In un documento firmato da Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e Luigi De Sena, si sostiene che le posizioni di Fassina “appaiano in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente da Bersani”. Ma è lo stesso segretario nazionale a gelare i Liberal: “Questa richiesta di dimissioni non l’ho proprio capita”. Mentre l’ex segretario popolare Franco Marini prova a smorzare: “Enzo Bianco è persona responsabile, basta un chiarimento. Niente dimissioni”. “Se le dichiarazioni di Fassina fossero la politica economica di tutto il pd, allora mi preoccuperei. Ma so che così non è…” glissa un altro ex popolare come Beppe Fioroni. “Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca d’Italia e poi dalla BCE – insiste la lettera – bollare come liberiste posizioni ‘liberal’ come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal Pd”. Per questo i Liberal chiedono a Fassina “un passo indietro” in modo da poter sostenere “le sue idee liberamente, senza il vincolo della responsabilità politica che gli è stata affidata”. Nei giorni scorsi Fassina aveva criticato duramente le ricette del commissario Ue Rehn per uscire dalla crisi: “”Le indicazioni riproposte oggi per la crescita dal commissario europeo Rehn sono deprimenti sul piano intellettuale prima che economico – aveva detto Fassina – Dopo un trentennio dominato dalla flessibilità del lavoro e dalla moderazione salariale, le cause primarie della drammatica e infinita crisi in cui siamo immersi, oggi il commissario europeo agli Affari economici insiste su maggiore flessibilità del lavoro e maggiore moderazione salariale”. Che Fassina fosse al centro di aspre critiche da parte dell’area Liber del partito era noto da tempo. In particolare da quando partecipò alla manifestazione della Fiom. Solo nei giorni scorsi il responsabile economico rispondeva così a chi gli chiedeva notizie circa le sue eventuali dimissioni: “Quando qualcuno mi chiederà ufficialmente di dimettermi, in sede politica, risponderò. Se qualcuno metterà la faccia intorno ai pettegolezzi affronteremo il problema, sempre che il quesito sulla mia permanenza del Pd venga posto in maniera esplicita”. Richiesta, oggi, esaudita. La Rete, nel frattempo, va sentire la sua voce. Ed è un coro a favore di Fassina. “Stefano, la base di tutto il centro-sinistra è con te! non farti intimidire dai servi di confindustria!”, scrive ad esempio Paolo Gonzaga. Questo sarà “uno spartiacque per il pd: o un partito socialdemocratico moderno che ragiona sugli interessi del paese a partire dalla rappresentanza politica dei lavoratori o un rifugio di ciarlatani liberali che solo perchè si autoproclamano progressisti non sono ancora passati con Rutelli, Fini e compagnia. Forza Stefano Fassina”, aggiunge Francesco Maria Pierri. La discussione supera i confini del Pd e arriva a Sel. ‘È sempre imbarazzante intervenire nella vita interna di un altro partito; quindi, parlo per me, spero comunque che questa stagione non si sviluppi all’insegna di una sorta di conformismo coatto” dice Nichi Vendola. Pd, Ichino chiede le dimissioni di Fassina (unita.it, 23 novembre 2011) I ‘Liberal’ del Pd guidati da Enzo Bianco, a cui aderisce anche Pietro Ichino, hanno chiesto le dimissioni di Stefano Fassina da responsabile Economia del partito, dopo le sue ripetute critiche alle richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli Rehn. Bersani: «Questa richiesta non l’ho capita» «Questa richiesta dei ‘Liberal’ non l’ho proprio capita». Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani reagisce alla richiesta della componente del Pd che chiede le dimissioni del responsabile economico del partito. La lettera dei Liberal «Le posizioni che Stefano Fassina ha assunto prima, durante e dopo la crisi del governo Berlusconi – si legge nella lettera dell’ufficio di presidenza dei Liberal – sono pienamente legittime in un partito in cui convivono sensibilità e storie diverse. Quello che non è comprensibile è che esse siano espresse dal Responsabile Economico del Pd, ed appaiano in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente dal Segretario Bersani». «Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca d’Italia e poi dalla Bce – insiste la lettera – bollare come liberiste posizioni ‘liberal’ come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal Pd». «I Liberal Pd – conclude la lettera – chiedono a Stefano Fassina di fare un passo indietro, e di sostenere le sue idee liberamente, senza il vincolo della responsabilità politica che gli è stata affidata». Il testo è firmato da Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e Luigi De Sena. Caso Fassina nel Pd: i Liberal chiedono le dimissioni, Bersani cade dalle nuvole Secondo il gruppo guidato da Enzo Bianco, le posizioni espresse dal responsabile Economia dei democratici non rappresentano tutte le varie anime del Pd e sono in netto contrasto con la linea scelta dal segretario, che però difende l’accusato (ilfattoquotidiano.it, 23 novembre 2011) Dimissioni. È quanto chiedono i Liberal del Pd al responsabile economico del partito, Stefano Fassina, colpevole – a sentire il gruppo guidato da Enzo Bianco – di aver espresso forti critiche alle richieste fatte dall’Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli Rehn. Critiche che però non avrebbero rappresentato tutte le anime interne al partito e, dato non di secondo piano, sarebbero state contrarie alla linea scelta dal segretario Pier Luigi Bersani. “Le indicazioni per la crescita riproposte sono deprimenti sul piano intellettuale prima che economico”: così Fassina aveva commentato le affermazioni del commissario europeo Olli Rehn. “Dopo un trentennio dominato dalla flessibilità del lavoro e dalla moderazione salariale – aveva osservato il responsabile Economia dei democratici – le cause primarie della drammatica ed infinita crisi in cui siamo immersi, oggi il Commissario europeo agli affari economici insiste su maggiore flessibilità del lavoro e maggiore moderazione salariale. Se la Commissione Ue e la signora Merkel si ostinano ad imporre idee fallite, l’euro e l’Ue sono davvero a rischio. Speriamo che il Governo Monti riesca a far correggere la rotta in tempo”. Un attacco durissimo, che ha fatto andare in bestia i Liberal, i quali hanno scritto una nota ufficiale a firma di Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci e Luigi De Sena. Inizialmente, a quanto riferiscono le principali agenzie di stampa, in calce alla missiva compariva anche il nome di Pietro Ichino ma poi l’adesione del giuslavorista è stata smentita. ”Le posizioni che Stefano Fassina ha assunto prima, durante e dopo la crisi del governo Berlusconi – si legge nella lettera dell’ufficio di presidenza dei Liberal – sono pienamente legittime in un partito in cui convivono sensibilità e storie diverse. Quello che non è comprensibile è che esse siano espresse dal Responsabile Economico del Pd, ed appaiano in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente dal segretario Bersani”. Nella motivazione del gruppo guidato da Enzo Bianco, poi, si delineano con maggiore precisione i contorni della spaccatura all’interno del Partito democratico. “Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca d’Italia e poi dalla Bce – insiste la lettera -, bollare come liberiste posizioni ‘liberal’ come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il complesso delle posizioni assunte dal Pd”. Da questo dato di fatto, ecco la richiesta dei Libera a Stefano Fassina: “fare un passo indietro e di sostenere le sue idee liberamente, senza il vincolo della responsabilità politica che gli è stata affidata”. Ricapitolando: dimissioni del responsabile dell’Economia perché con le sue idee non rappresenta né il Pd né tantomeno la linea del segretario. La cosa strana, però, è che quest’ultimo è sembrato cadere dalle nuvole appena appresa la mossa dei suoi colleghi di partito. “La richiesta dei ‘liberal’? Non l’ho proprio capita. Il Pd ha idee chiare sull’economia e sul lavoro e Fassina si rifà a documenti approvati dal partito” ha detto Pier Luigi Bersani, a testimonianza di un’uscita, quella del gruppo di Bianco & Co., non concordata neanche con quel segretario che si voleva difendere. Dello stesso parere anche l’ex ministro Cesare Damiano, che, dopo aver bollato come inopportuna l’uscita dei Liberal, ha respinto la loro richiesta, sottolineando come “Fassina sul lavoro sostiene la posizione definita dopo che il Pd ha discusso e approvato dei documenti”. Simile, ma molto più duro il parere di Barbara Pollastrini, che ha definito “davvero poco ‘liberal’ chiedere di tagliare la testa di chi la pensa in modo diverso”. Per l’esponente del Pd, “è in crisi il modello economico occidentale. Nessuno ha la verità in tasca. Stefano Fassina ha il merito di credere in quello che dice e di esprimersi con limpidezza e senza furberie. Peraltro – ha concluso la deputata -la posizione del Pd sull’economia non mi risulta decisa solo da Fassina. C’è stato un confronto che ha coinvolto una platea larga ed è in corso un percorso programmatico, coordinato dal nostro vicesegretario, Enrico Letta“. Nel balletto di prese di posizioni, smentite e stroncature varie, un fattore appare chiaro: nel Pd una ‘questione Fassina’ esiste, eccome se esiste. Non ne ha fatto mistero Ignazio Marino. ”In un partito non si chiedono le dimissioni di chi la pensa in maniera diversa, ma certamente dobbiamo affrontare un problema che esiste” ha detto il senatore, secondo cui “serve un chiarimento nella prossima direzione nazionale”. Il caso scatenante è stata la lettera della Bce all’Italia, rispetto alla quale – è stato il ragionamento di Marino – “il Pd non può accogliere nella direzione nazionale di luglio la nomina di Mario Draghi con scroscianti applausi e poi trasformarlo, in quella successivamente in una figura da criticare, solo perché dice il contrario di ciò che pensa un membro della segreteria. Quello che conta di quella lettera è il merito e ci sono delle questioni fondamentali”. Il senatore democratico, infine, ha espresso la sua posizione nel merito della questione lavoro, la stessa su cui sarebbe maturato lo strappo tra Liberal e Fassina: “Noi possiamo essere in disaccordo su alcuni punti, ma altre questioni sono ineludibili – ha detto Marino – come la flexsecurity, uno strumento che, non togliendo i diritti acquisiti, crei nuovi diritti per i 4 milioni di precari sul modello del contratto di lavoro unico a tempo indeterminato con reddito di disoccupazione e formazione continua. Io ho firmato nel 2009 il disegno di legge del senatore Pietro Ichino. Il partito ora deve dire cosa pensa con chiarezza quanto prima”. E il diretto interessato? Stefano Fassina ha preferito rispondere sulla sua pagina Facebook, dove ha usato l’ironia per rispondere ai firmatari della lettera, definiti “cari amici” a cui “per Natale regalo loro un abbonamento al Financial Times così possono leggere il dibattito internazionale di politica economica e ritrovare le posizioni, aggiornate e non ideologiche, della cultura liberale”. Lo scontro odierno tra i Liberal e Fassina (difeso a spada tratta dalla base del Pd sul Web), d’altronde, è solo l’ultimo capitolo di un rapporto non idilliaco, incrinatosi ancor più da quando il responsabile economico del partito ha partecipato alla manifestazione della Fiom. L’ennesima conferma cinque giorni fa, quando il diretto interessato ha commentato le indiscrezioni che iniziavano a circolare sulla richiesta di sue dimissioni da parte di alcune anime del partito. “Quando qualcuno mi chiederà ufficialmente di dimettermi, in sede politica, risponderò. Se qualcuno metterà la faccia intorno ai pettegolezzi affronteremo il problema, sempre che il quesito sulla mia permanenza del Pd venga posto in maniera esplicita”. Oggi quel qualcuno ha un nome, anzi più di uno: Bianco, Barzina, Marcucci, De Sena e Ichino (con o senza firma in calce alla nota ufficiale). Il “caso Fassina” apre la resa dei conti nel Partito democratico Troppo di sinistra, i liberal chiedono la testa del responsabile economia del partito, Bersani lo difende. È il fischio di inizio della battaglia interna del Pd contro il segretario, dopo la tregua sul governo Monti di Daniela Preziosi (ilmanifesto.it, 24 novembre 2011) Finisce in un coro di no e di attestati di stima, ma la richiesta di dimissioni del responsabile economico del Pd Stefano Fassina, arrivata ieri da parte del gruppetto dei liberal di Enzo Bianco, è il segnale di Roncisvalle: dopo due settimane di pax democratica sul governo Monti, la battaglia interna del Pd riprende. E come: tirando su uno degli uomini più vicini al segretario. Era nell’aria, da giorni, la richiesta della testa del giovane bersaniano della segreteria, l’uomo del Pd ai tavoli riservati con gli alleati del Nuovo Ulivo e dei rapporti con la Cgil di Susanna Camusso, sempre presente anche ai cortei della Fiom di Landini. Non un bolscevico, però: esperto di economia, bersaniano, bocconiano. Classe ’66, ha conosciuto nel 90, da studente della Pantera bocconiana, «ci fu», giura, all’attivo pure una occupazione-lampo: la sua facoltà di discipline economiche e sociali doveva essere smantellata, lui da rappresentante degli studenti andò a trattare. Con il rettore Monti. «E lì l’ho conosciuto, la sua qualità di persona per bene. La facoltà non fu chiusa», racconta. Ha lavorato al Fondo monetario finché nel 2006 non lo ha chiamato Prodi. Ieri hanno provato a dimetterlo in cinque: con Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Luigi De Sena e Pietro Ichino, che poi si è dissociato. «Le sue posizioni appaiono in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte dal segretario». Bersani dice di cadere dalle nuvole: «Questa richiesta non l’ho proprio capita». «Fassina si rifà a documenti approvati dal partito». Quelli della conferenza sul lavoro di Genova, lo scorso giugno. Per titoli: non contro Marchionne ma non a favore, per la contrattazione di secondo livello ma non contro il contratto nazionale, non contro la Bce ma non per l’Ue a trazione di destra. Ma allora c’era Berlusconi. Ora il premier è Monti e l’area liberal-liberista Pd, dal veltroniano Enrico Morando all’anti articolo 18 Pietro Ichino esulta e chiede il cambio di linea. Ma non è da qui che arriva la richiesta di dimissioni. Anzi, Veltroni prende le distanze, con parole un po’ agre: «Il paese ha ben altri problemi». Come Letta, vice di Bersani, altro liberal: «Occupiamoci dei problemi dell’Italia, risolveremo le nostre vicende tra noi». Per il resto il coro dei no alle dimissioni è unanime: Marini, Damiano, Pollastrini, persino un gruppo di veltroniani, Meta, Lolli. Stecca solo Ignazio Marino: no alle dimissioni ma «il problema» c’è e «serve un chiarimento nella direzione nazionale». Non sarà una dichiarazione di guerra, ma il caso rischia di riproporsi in aula nei voti al primo provvedimento di Monti. I bersaniani buttano acqua sul fuoco, esibiscono certezze sul fatto che il professore non farà proposte troppo lontane da quelle del Pd. Quanto a Fassina, «è l’instancabile organizzatore del convegno sulla microimpresa, sabato. E di quello del 29, sulla proposta del Vaticano di un’autorità per governare la finanza», affidando le conclusioni a Franco Marini. Ma qualche insofferenza filtrava anche da quella parte, negli ultimi giorni. Lui, Fassina, ieri ha spento il cellulare, presentato un libro sull’economia e poi è corso a Sulmona, per il Pd. Solo su facebook, dove fioccano le dichiarazioni di affetto, ha mandato a dire: «Per Natale regalerò loro un abbonamento al Financial Times così possono leggere il dibattito internazionale di politica economica e ritrovare le posizioni, aggiornate e non ideologiche, della cultura liberale». «Il caso Fassina» del resto montava sui media che pesano, Corriere in testa. E lui, nell’occhio del ciclone, non si è moderato, alla sinistra di Bersani (che ne ha bisogno, visto che di destra ne ha in abbondanza). Negli ultimi mesi, poi: c’era ancora Berlusconi quando ha detto il no alle ricette della Bce, («sbagliate e controproducenti»). Poi la polemica con Matteo Renzi («rimpacchetta vecchie ricette fallite»), e via via nel crescendo di questi ultimi giorni, «sbagliato per il Pd appiattirsi su Monti», fino ai dubbi su Corrado Passera, («una persona eccezionale. Nessuna incompatibilità. Ho molti dubbi sul piano dell’opportunità. Perché affidare a lui il ruolo di ministro dello Sviluppo? Che cosa avrebbe detto l’opinione pubblica se l’avesse fatto Berlusconi?»), la posizione contro il Marchionne che disdetta gli accordi («grave e preoccupante»), fino alle ricette «depressive» del commissario europeo Olli Rehn, qualche giorno fa. Intervista a Damiano (Pd): “40 è il numero magico. Camusso ha ragione” di Frida Nacinivich (liberazione.it, 1° dicembre 2011) Intervento sulle pensioni, Ici sulla prima casa, aumento dell’Iva. Damiano, ma non si era detto che con il governo Monti avrebbe pagato chi ha di più e ha dato di meno in questi anni? Questo governo deve essere di rigore, ma anche di crescita e di equità. Per me è fondamentale. Ho votato per un esecutivo che deve rappresentare una chiara discontinuità politica con il precedente. Giulio Tremonti ha basato le sue manovre esclusivamente sul rigore. Pensiamo invece che sia necessario far crescere il paese per salvaguardare l’occupazione. E tutti hanno l’obbligo di contribuire. Andiamo per ordine. Le pensioni. Susanna Camusso ha appena fatto sapere che «40 anni è il numero magico». Insomma che dopo 40 anni di contributi uno ha il sacrosanto diritto di andare in pensione. E io penso che Susanna Camusso abbia ragione. I lavoratori che hanno maturato 40 anni di contributi saranno costretti a prolungare la loro attività di un altro anno a causa della cosiddetta finestra mobile, ad aggiungere altri mesi negli anni successivi. Nel 2014 saranno necessari complessivamente 41 anni e tre mesi di contributi. Non si può costringere questi lavoratori ad un’ulteriore prosecuzione dell’attività. Hanno il diritto di andare in pensione. Soprattutto perché se dopo 41 anni e tre mesi di contributi avranno meno di 60 anni di età, vorrà dire che hanno cominciato a lavorare a 15-16 anni e svolto per tutta una vita probabilmente un lavoro manuale e faticoso. Non è giusto pretendere che operai o impiegati prolunghino la loro attività lavorativa fino al raggiungimento 45-46 anni di contributi. Passiamo all’Ici. Magari cancellarla del tutto era stato un azzardo, visto che era importante per i bilanci dei comuni. Ma reintrodurla senza aver fatto prima una patrimoniale in un paese dove ci sono enormi ricchezze immobiliari è tutto fuorché politica di centrosinistra. Il governo Monti non è un governo di centrosinistra, ma un esecutivo tecnico appoggiato anche dal centrosinistra, e dovrà tenere conto di tutte le posizioni delle forze politiche che lo sostengono. In ogni caso l’Ici può essere considerata una piccola patrimoniale. Personalmente sono molto affezionato al modello Prodi, quella formula che prevedeva la tassa sulla prima casa esclusivamente per i redditi medio alti. Un’Ici selettiva si potrebbe anche reintrodurre. Vorrei ricordare che la sua abolizione ha comportato un risparmio per i ricchi di circa 3 miliardi annui. Soldi che farebbero un gran comodo alle casse dello Stato. L’ex premier Berlusconi è stato chiaro: «Sulla patrimoniale voteremo contro». E così casca subito il governo. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. E comunque trovo sia giusto anche poter pensare ad una tassa sui grandi patrimoni – magari alternativa all’Ici – con un forte carattere progressivo. Il problema è quello di stabilire quale gettito si vuole realizzare con queste misure. Diamo un’occhiata alla discussione in corso nel suo partito. Vista da “Liberazione” – ma non solo – la minoranza modem del Pd ha le stesse identiche posizioni del Terzo polo. Soprattutto nel sostenere a testa bassa qualunque provvedimento del governo Monti. Riuscirete a trovare una sintesi? Non sono d’accordo sul fatto che nel Pd ci riduciamo a due posizioni, una favorevole e l’altra contraria alle misure straordinarie che il governo Monti si appresta a varare. Il Pd deve avere le sue proposte, e pretendere un confronto preventivo con l’esecutivo per trovare i giusti compromessi, senza far venir mai meno l’equità sociale. Però quando il responsabile economia del partito Stefano Fassina ha criticato apertamente le politiche della Bce e della Germania, è stato subito messo all’indice dai “liberal” di Bianco. Ho ritenuto sbagliata e intempestiva la presa di posizione di Bianco. Soprattutto non l’ho trovata condivisibile. E ben poco “liberal”. Per quanto riguarda l’ormai famosa lettera della Banca centrale europea, sono d’accordo quando chiede di far quadrare i conti e di far riferimento al patto siglato il 28 giugno scorso fra Cgil, Cisl, Uil e industriali. Non credo invece che per far cassa sia giusto tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici, liberalizzare i licenziamenti per motivi economici e tagliare le pensioni. Ci sono altre strade. Un’occhiata all’Europa. Anche Silvano Andriani si è reso conto – e ne ha scritto su “l’Unità” – che se non cambia il ruolo della Bce (facendola diventare uguale a tutte le altre banche centrali del mondo) i proventi di ogni manovra finiranno nelle mani degli speculatori. Permetta una domanda leninista: che fare? Senza essere troppo estremisti, perché come diceva Lenin “l’estremismo è la malattia infantile del comunismo”, il problema c’è e va affrontato. Il ruolo della Bce è molto diverso da quello della Federal reserve statunitense. La Bce espone gli Stati dell’unione alla speculazione perchè non è un pagatore di ultima istanza. Cambiare i meccanismi si potrebbe. Ma la Germania non sente ragioni. Una questione che va affrontata e risolta. E purtroppo il vertice Merkel-MontiSarkozy ha fatto sì fare un passo avanti all’Italia nei rapporti con la Ue, ma non ha sciolto il nodo degli eurobond né del ruolo della Bce, complice una scelta miope da parte della cancelliera tedesca. Un complimento personale per i gatti che lei ama dipingere. Gli italiani in pensione a 58,7 anni. L’Inps: “Siamo lontani dall’Europa” I dati del’Istituto rivelano che due terzi dei pensionati per anzianità nel 2010 sono usciti con 40 anni di contributi. Il presidente Mastrapasqua: “Con il sistema contributivo diventa obbligatorio aumentare il ricorso alle integrative”. (repubblica.it, 1° dicembre 2011) L’età media dei pensionati Inps per anzianità nei primi 10 mesi del 2011 è di 58,7 anni, in lievissimo aumento sui 58,6 anni del 2010. È quanto dicono gli ultimi dati Inps, diffusi dall’agenzia Ansa. L’età media di uscita nel complesso (vecchiaia e anzianità) è stata di 60,2 anni, in calo rispetto ai 60,4 anni del 2010. Se poi si guarda solo ai lavoratori dipendenti, l’età media di uscita nel 2011 è stata, tra vecchiaia e anzianità, di 59,7 anni e dunque la più bassa degli ultimi 3 anni; era stata infatti di 60,9 anni nel 2009 e di 60 anni nel 2010. Per i lavoratori autonomi l’età media complessiva di uscita è stata di 61,1 anni, in calo rispetto ai 61,4 del 2009. Se si guarda al 2010, si nota che i due terzi dei pensionati per anzianità Inps nel 2010 sono usciti con 40 anni di contributi. Dai dati Inps risulta inoltre che sono usciti con la pensione di anzianità indipendentemente dall’età anagrafica 116.013 sui 174.426 pensionati per anzianità dell’anno. L’età di uscita per l’anzianità è dunque aumentata solo lievemente rispetto al 2010 quando si era attestata su 58,6 anni. Per i dipendenti è passata dai 58,3 anni in media del 2010 ai 58,5 in media dei primi 10 mesi del 2011, mentre per gli autonomi è addirittura scesa passando da 59,1 anni in media a 59. I dati tengono naturalmente conto del fatto che la finestra mobile (12 mesi per i dipendenti e 18 per gli autonomi dal momento del raggiungimento dei requisiti per la pensione) non ha ancora dispiegato i suoi effetti completamente, dato che fino a luglio è stato possibile uscire con le vecchie regole (per i dipendenti che nel 2010 avevano raggiunto almeno i 59 anni di età e i 36 di contributi) e le finestre vigenti nel 2010. I lavoratori che escono con l’età di vecchiaia (65 anni gli uomini, 60 le donne) escono in media a 62,7 anni. Nel complesso, fra anzianità e vecchiaia, le uscite nei primi 10 mesi del 2011 sono state 224.241 con un età media di 60,2 anni. Le uscite per anzianità sono state 136.015 (58,7 anni l’età media) e quelle per vecchiaia appena 88.226 (62,7 anni l’età media). Quanto agli assegni, nel 2010 l’assegno medio della pensione d’anzianità, per i lavoratori dipendenti e autonomi, si è attestato a quota 1.675,35 euro. In particolare, per i lavoratori dipendenti l’importo mensile medio è stato pari a 1.929,59 euro, per gli autonomi a 1.235,44 euro. L’assegno medio più alto si registra al Centro con 1.769,21 euro (dipendenti e autonomi), contro i 1.741,10 del Nord e i 1.359,94 del Mezzogiorno. La stragrande maggioranza di coloro che sono usciti con 40 anni di contributi (116.013 nel 2010, i due terzi del totale delle nuove pensioni) è residente al Nord. Nelle regioni del Settentrione – secondo i dati Inps per la prima volta disaggregati nell’anzianità tra chi esce con le quote e chi esce con il massimo dei contributi – sono usciti in anzianità con 40 anni (e quindi indipendentemente dall’età anagrafica) 74.031 lavoratori a fronte dei 20.610 del Centro e i 21.372 del Sud. Con le quote (età più anzianità) sono usciti nel 2010 rispettivamente 37.207 lavoratori nel Nord, 10.218 nel Centro e 10.988 nel Sud. In particolare con 40 anni di contributi nel 2010 sono usciti 66.325 dipendenti (42.145 dei quali nel Nord) e 49.688 autonomi. I dati fanno dire al presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che “la crescita dell’età di uscita dei pensionati per anzianità è ancora troppo lenta”. Secondo Mastrapasqua, i lavoratori italiani sono ancora “molto lontani” dalla media di pensionamento europea. “Dove si va in pensione più avanti – ha poi detto il presidente dell’Istituto di previdenza a Radio anch’io – le aziende aumentano la produttività. Ci sono studi che lo dimostrano. Se in azienda c’è un dipendente anziano può diventare il tutor della persona che entra”. Insomma, aumentando “l’anzianità”, secondo Mastrapasqua “aumentano la produttività e il benessere delle persone che sono in azienda”. “Il mondo – ha aggiunto – ha bisogno di produrre e di aumentare il pil. Dobbiamo entrare in una visione globale e non esitare in conservatorismi che limitano la nostra produzione”. Ragionando sul sistema italiano, Mastrapasqua ha detto che la pensione complementare ha in Italia una penetrazione del 23%, contro il 91% raggiunto all’estero. Il motivo dello scarso interesse nel nostro Paese per l’integrativa, ha spiegato, è che finora non è stata ritenuta utile, ma oggi “con il sistema contributivo non solo serve, ma è obbligatorio farla”. Reddito minimo garantito. Lo strumento per recuperare chi ha perso il lavoro In Italia ha visto solo una breve sperimentazione di Raffaello Masci (stampa.it, 2 dicembre 2011) Per il momento siamo ad una «preferenza personale che non impegna il programma del governo», ma comunque la proposta è stata fatta e potrebbe introdurre se non una rivoluzione almeno una grande innovazione nel tessuto sociale italiano. La ministra del Welfare, Elsa Fornero, si è detta favorevole all’istituzione di un «reddito minimo garantito». «La mia preferenza è che ci sia un sistema di questo genere – ha detto la ministra rispondendo ad una domanda durante la sua conferenza stampa a margine del Consiglio Affari sociali dell’Ue – Comunque, una simile riforma va congegnata e inserita in un pacchetto più ampio di misure». Il reddito minimo garantito, detto anche reddito di cittadinanza, è una misura di sostegno sociale che si applica – in genere – a categorie di cittadini che vivono un momento di difficoltà rispetto al lavoro: giovani in attesa di prima occupazione, ultracinquantenni disoccupati con difficoltà di reinserimento, persone in condizione di marginalità sociale. La misura – beninteso – ha sempre un carattere temporaneo ed è finalizzata ad un superamento della difficoltà contingente. Il reddito minimo esiste oggi in tutti i paesi comunitari, con esclusione del nostro, della Grecia e della Bulgaria. Sono ben quattro i provvedimenti comunitari che sollecitano questa misura di politica sociale, il primo è del ‘92 ed è una «Raccomandazione» del Consiglio europeo sulle politiche di protezione sociale. L’ultimo è un documento della Commissione del 2008, relativo «all’inclusione delle persone fuori del mercato del lavoro». Le norme che i vari stati si sono date sono differenti così come gli effetti che hanno prodotto. L’Inghilterra, l’Olanda, la Germania e i paesi scandinavi sono quelli che hanno attuato politiche di inclusione sociale ed economica da più lungo tempo e con esiti più apprezzabili. L’Italia ha sempre latitato, con una eccezione importante ma breve: le legge 328 del 2000 voluta dall’allora ministra Livia Turco, che consentì di sperimentare il reddito minimo di inserimento in 298 comuni. Nel 2001 ci fu, però, un cambio di governo, e con la finanziaria del 2003 la sperimentazione finì. Alcune regioni, negli anni successivi, presero dei provvedimenti analoghi (Lazio, Campania, Basilicata, Friuli, Trentino, Valle d’Aosta, Puglia) ma i successi e le rispettive durate furono differenti. Se l’ipotesi Fornero dovesse conoscere degli sviluppi, saremmo di fronte ad una importante novità, in quanto è dimostrato che il reddito di inserimento non ha solo valenza assistenziale ma consente anche l’inclusione di alcune categorie momentaneamente svantaggiate nella dinamica economica. L’annuncio della Fornero è stato salutato con giubilo perfino da un leader critico nei confronti del governo, come Nichi Vendola, per il quale «saremmo di fronte ad una innovazione importantissima». Ed è poi ovvio, visto il precedente, che la cosa sia piaciuta a Livia Turco (Pd): «È un fatto molto positivo – ha detto – Qualora fosse possibile, ciò permetterebbe di colmare il grave ritardo accumulato dall’Italia». Non contrario, ma molto perplesso, invece, il vicecapogruppo del Pdl alla Camera, Osvaldo Napoli: «Reddito minimo garantito? Bene, ma pagato come e da chi? Con l’Ici e la patrimoniale? O dai lavoratori che si vedono decurtato il trattamento previdenziale? Le indiscrezioni che filtrano dagli organi di informazione delineano un quadro, ove trovassero conferma negli atti di governo, politicamente sgradevole per la maggioranza elettorale». La Fornero e le pensioni: punto all’addio all’anzianità dal 2018 Il ministro lo ha detto durante un’audizione alla Camera. «È una soluzione drastica, abbiamo usato l’accetta» (corriere.it, 6 dicembre 2011, 14:32) Dal 2018 non dovrebbè più essere possibile andare in pensione anticipata rispetto all’età di vecchiaia. Lo ha detto il ministro del Welfare, Elsa Fornero, in una audizione alla Camera spiegando che in quella data dovrebbe concludersi la transizione e non dovrebbe più essere possibile andare in pensione di anzianità. SOLUZIONE DRASTICA – Parlando davanti alla commissione Lavoro di Montecitorio, il ministro ha spiegato che la soluzione sulle pensioni di anzianità «è stata piuttosto drastica, non lo nascondo» e ha aggiunto che l’obiettivo è «allungare la vita lavorativa e alzare l’età media di pensionamento». Fornero ha poi ricordato che ci sono ancora «persone che vanno in pensione a 57 e forse a 56 anni, con una media quindi di 58,3 mesi». USATA L’ACCETTA – L’esponente del governo ha riconosciuto che nel realizzare la riforma si è lavorato «con l’accetta», ma «dopo l’operazione tagli» avrà un «respiro di lungo termine in modo che gli italiani non ne abbiano un’altra tra due anni». Ha evidenziato poi che l’obiettivo della manovra è «dare continuità e coerenza alla riforma», dopo gli interventi passati che «non sempre» sono stati «coerenti» tra loro. Quella varata dall’esecutivo, secondo Fornero, fornisce «maggiore trasparenza» abolendo le «finestre» che sono «un bizantinismo vessatorio». Il contributivo infine è «sempre sostenibile» dal punto di vista economico e serviranno «piccoli aggiustamenti». NUOVO MERCATO DEL LAVORO – In ogni caso, ha precisato, «la riforma punta tutto, e fallirà se non sarà così, su un nuovo mercato del lavoro che funziona bene, che da occupazione ad un maggior numero di persone. È un capovolgimento di ottica». Ma per fare questo bisognerà lavorare duro, ha spiegato il ministro: «Un mercato del lavoro più flessibile ha bisogno di ammortizzatori sociali – ha evidenziato -. Questo richiede risorse e dobbiamo puntare alla crescita». PARITA’ UOMINI/DONNE – Allineare le pensioni tra donne e uomini, ha poi detto il ministro, è anche una questione di pari opportunità perchè è inaccettabile una sorta di «compensazione». «Sono ministro anche delle pari opportunità – ha puntualizzato -: la pari opportunità per me va conseguita da subito nella scolarizzazione, del mercato del lavoro, nella progressione di carriere. Sono meno tenera verso un assetto sociale che segmenta e scoraggia e poi ti dà il contentino». Insomma «andare in pensione prima» degli uomini è «una compensazione che non risponde a criteri di equità». In pensione più tardi. Via dal lavoro sei anni dopo Che cosa cambia con la riforma, età per età 2012 Dal 1° gennaio sistema contributivo per tutti di Domenico Comegna (corriere.it, 6 dicembre 2011, 8:03) Per fare cassa non si può proprio fare a meno di intervenire sulle pensioni. Non fa eccezione la manovra-ter, messa a punto dal nuovo governo Monti. I principi su cui poggiano le norme sono, in sintesi: l’affermazione del metodo contributivo come criterio di calcolo delle pensioni, in un’ottica di equità finanziaria, intragenerazionale e intergenerazionale; la flessibilità nell’età di pensionamento, che consente al lavoratore maggiori possibilità di scelta nell’anticipare o posticipare il ritiro dal mercato del lavoro; la semplificazione e la trasparenza dei meccanismi di funzionamento del sistema, con l’abolizione delle finestre e di altri meccanismi che non rientrino esplicitamente nel modello contributivo; l’abbattimento delle posizioni di privilegio. Si armonizzano, infatti, età, aliquote contributive e modalità di calcolo delle prestazioni; si individuano requisiti minimi per accedere alla pensione, in linea con la speranza di vita per le diverse fasce di età e in coerenza con gli altri ordinamenti europei. Da gennaio 2012 viene introdotto, secondo il meccanismo pro rata, il metodo di calcolo contributivo. L’età di pensionamento delle donne viene alzata a 62 anni (a 63 e sei mesi per le autonome). L’equiparazione dell’età delle donne a quella degli uomini (66 anni per i dipendenti, sei mesi in più per gli autonomi) avverrà entro il 2018, sempre tenendo conto della variazione della speranza di vita. Nel frattempo, dall’età 62 all’età 70 vigerà il pensionamento flessibile, con applicazione dei relativi coefficienti di trasformazione calcolati fino a 70 anni. L’accesso anticipato alla pensione continua ad essere consentito, ma con un’anzianità di 42 anni e un mese per gli uomini e di 41 anni e un mese per le donne, requisiti anch’essi indicizzati alla longevità. Si prevedono penalizzazioni (2% per ogni anno di anticipo rispetto a 62 anni) sulla quota retributiva dell’importo della pensione, tali da costituire un effettivo disincentivo al pensionamento anticipato rispetto a quello di vecchiaia. Vengono infine aboliti i privilegi ancora esistenti, attraverso l’introduzione temporanea di un contributo di solidarietà per i pensionati e gli attivi che ancora avvantaggiati da precedenti regole di maggior favore, come i fondi speciali Inps, elettrici, telefonici, piloti e hostess. Neoliberisti, ecco come ci portano alla catastrofe di Stefano Fassina (unita.it, 12 dicembre 2011) Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia, andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell’ultimo quarto di secolo: austerità senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall’aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del «trionfo delle idee fallite», come ripete Paul Krugman. Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt Gingrich. Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina e i Giavazzi, nonostante il Fmi qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in un’analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli Alesina e i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per coprirsi le spalle rilanciano contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Stesso schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la giustificazione è l’equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza imbarazzo da un classismo pesante e autolesionista. Purtroppo ideologia fallita e interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell’euro non ha nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul Financial Times di mercoledì scorso per l’ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione). È dovuta alle differenze di competitività presenti nell’area della moneta unica. È dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa. L’ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l’ultimo esempio. Si progetta un trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità suicida, in larga misura già recepita nel “six pact” (il pacchetto pro-austerity approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel, l’unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico dei Paesi in difficoltà. Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla rottura dell’euro e della Ue e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del vecchio continente nel secolo asiatico. La linea da seguire è opposta. La ripetono oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,…) sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau, Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al “six pact”. La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici all’interno dell’area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi, allentamento dell’austerità autolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi. Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività. Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell’area euro. Soltanto un paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei. Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi. Un disastro per la democrazia, prima che per l’economia. Riforma del lavoro, Ichino striglia il Pd: “Deve scegliere con chi stare” In un’intervista il giuslavorista apre alla riforma Monti e rilancia la sua proposta. “Un anno fa il partito ne ha preso le distanze, ma a gennaio sarà costretto a riflettere” di Stefano Feltri da Il Fatto Quotidiano del 18 dicembre 2011 Il giuslavorista Pietro Ichino Il governo Monti presto costringerà il Pd a scegliere da che parte stare. Con chi vuole difendere le tutele esistenti – a cominciare dall’articolo 18 – o con chi le vuole ripensare per garantire più diritti a chi oggi è fuori dal sistema, come i giovani precari e le partite Iva. “Non credo alla licenziabilità che produce lavoro”, ha detto ieri l’ex ministro del Welfare Cesare Damiano al Fatto. Gli risponde Pietro Ichino, senatore Pd, giuslavorista. Le sue posizioni sono state finora minoritarie nel Pd, ma ora sembrano coincidere con la linea del governo. Professor Ichino, il premier Monti ha già detto che, chiusa la manovra, una delle priorità sarà la riforma del mercato del lavoro. Cosa si aspetta? Convocherà partiti, sindacati, associazioni rappresentative di parti sociali interessate e dirà loro: ‘ Dobbiamo adempiere entro maggio l’impegno con l’Unione europea: per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, dobbiamo emanare una disciplina che sia applicabile davvero a tutti, per voltar pagina rispetto alla situazione attuale di apartheid fra protetti e non pro-tetti. E dobbiamo farlo senza accollare, almeno per ora, maggiori costi allo Stato. Fermi questi punti, chiunque abbia buone idee sul come fare, le metta subito sul tavolo’. Cesare Damiano, sul Fatto di ieri, dice che queste sono sue posizioni personali e non del Pd. Il discorso programmatico di Monti ha degli evidenti punti di contatto con il mio progetto flexsecurity. E dal maggio 2010 il Pd ha preso le distanze da questo progetto. Ma quando, a gennaio, il governo indicherà quei punti fermi della riforma, il Pd non potrà esimersi dal dire come intende risolvere il problema. Damiano l’ha detto: non è un problema di disciplina dei licenziamenti, ma solo un problema di costi. Occorre aumentare il costo del lavoro precario ed estendere a tutti gli ammortizzatori sociali. Per gli ammortizzatori sociali, occorre anche dire dove si reperiscono i fondi. Il mio progetto risolve questo problema a costo zero per lo Stato, utilizzando meglio una parte dei fondi che oggi vengono sperperati in cassa integrazione a zero ore e a fondo perduto, per estendere a tutti un trattamento speciale di disoccupazione; e chiedendo alle imprese di farsi carico di un trattamento complementare di disoccupazione per i lavoratori che licenziano. Lei sostiene che riformare il lavoro implica comunque una revisione della normativa sui licenziamenti. Che nel dibattito pubblico diventa “cambiare l’articolo 18”. Ma Damiano obietta: non si può abbassare le difese contro i licenziamenti in un momento di crisi come questo. Il mio progetto non le abbassa affatto: non le tocca proprio. La riforma riguarda soltanto i nuovi rapporti che si costituiranno da qui in avanti. Per i quali non abbassa le difese, ma le rende più efficaci e soprattutto più adatte ad applicarsi davvero a tutti. È proprio in una situazione di gravissima incertezza, come questa, che le imprese sono più riluttanti ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato e con vincoli forti al licenziamento. È proprio ora che una disciplina più flessibile è indispensabile per facilitare le assunzioni a tempo indeterminato. Una delle perplessità sul suo progetto è che l’assicurazione per chi perde il lavoro sarebbe a carico dell’impresa. Con un aumento del costo del lavoro. Non ci sarebbe un aumento del costo del lavoro. Oggi le imprese italiane, quando hanno necessità di sciogliere uno o più rapporti di lavoro per ragioni economiche od organizzative, affrontano un ritardo tra i due e i sei anni, a seconda delle dimensioni: un costo molto rilevante, anche se non è contabilizzato come tale. La proposta è questa: risparmiate quel costo e utilizzate una parte del risparmio per il trattamento complementare di disoccupazione a favore dei lavoratori licenziati. I costi di mercato della parte restante del trattamento, cioè dei servizi efficienti di outplacement e di riqualificazione mirata può essere coperta agevolmente dalle Regioni, attingendo anche ai contributi del Fondo Sociale Europeo. Ma chi garantisce che le imprese non continuino ad assumere i nuovi dipendenti con la partita Iva, o con altri sotterfugi? Nel nuovo regime non occorreranno ispettori, avvocati e giudici per accertare il lavoro subordinato, come accade oggi. I dati rilevanti perché si applichi integralmente il nuovo diritto del lavoro emergeranno direttamente dai tabulati dell’Erario o dell’Inps: carattere continuativo del rapporto, monocommittenza, reddito medio-basso del lavoratore. Il Pd rischia di spaccarsi sul lavoro? C’è chi parla di scissioni. No. Accadrà soltanto che l’iniziativa decisa del governo su questo terreno costringerà il Pd a una nuova riflessione approfondita. Occorrerà chiedersi, per esempio, se sia davvero meglio il periodo di prova allungato a tre anni proposto da Damiano, oppure una regola che faccia crescere gradualmente l’indennizzo a favore per il lavoratore già dopo sei mesi di rapporto. Se sia meglio l’attuale situazione in cui l’articolo 18 si applica a meno di metà della forza-lavoro e l’altra metà è totalmente scoperta; oppure la mia riforma, che estende l’articolo 18 a tutti per la parte in cui esso serve davvero, cioè la repressione delle discriminazioni, e dà a tutti un protezione di livello scandinavo contro il licenziamento per motivi economici. In caso il governo presenti una riforma ispirata al suo modello, su quali sponde può contare, tra Pd e Pdl? Al Senato, una larga maggioranza del gruppo Pd sostiene il mio progetto. Tutte le componenti del Terzo polo lo hanno fatto proprio. E anche il Pdl è sostanzialmente disponibile. Già un anno fa il Senato si è pronunciato a larghissima maggioranza a favore di una mozione di Rutelli che impegnava il governo a varare una riforma modellata sul mio progetto. E anche alla Camera, credo che quando si entrerà nel merito della riforma si vedrà che le obiezioni “di sinistra” non riguardano, in realtà, questo progetto: si riferiscono a qualche cos’altro, che non è all’ordine del giorno. La Cgil di Susanna Camusso potrebbe cercare una nuova grande battaglia per ritrovare un po’ di compattezza. Non lo credo proprio. Ce la vede, lei, la Cgil a fare le barricate contro una riforma che non tocca i lavoratori regolari stabili, e a tutti i new entrant offre un rapporto a tempo indeterminato, con articolo 18 contro le discriminazioni e una protezione di livello scandinavo su tutti gli altri fronti? Camusso rompe con il governo: «Sulle pensioni un intervento folle» «La Fornero aggredisce i lavoratori». Il contratto unico? Sarebbe solo un nuovo apartheid a danno dei giovani di Enrico Marro (corriere.it, 19 dicembre 2011, 11:46) La stangata del governo Monti ha provocato la mobilitazione di tutti i sindacati, che cercano di dar voce alla protesta di lavoratori e pensionati. I motivi di questa opposizione durissima e di quella che ci sarà rispetto a ogni ipotesi di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori li spiega il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Il governo dice che la manovra ha salvato l’Italia da una situazione dove erano a rischio i risparmi e le tredicesime. È d’accordo? «Vedo che si autoattribuiscono il ruolo di salvatori della Patria. La realtà è che la situazione era ed è grave, ma la ricetta giusta non è quella di Monti». Perché? «Perché grava sui soliti noti: chi ha un reddito Irpef dichiarato, in genere medio basso. Perché punta a far cassa rapidamente su chi non può sottrarsi e non si è mai sottratto al Fisco. Determina recessione e quindi non mette affatto al riparo il Paese. Hanno solo preso tempo» Servirà un’altra manovra? «Di sicuro, non c’è una spinta alla crescita. C’è invece l’impoverimento di gran parte del Paese, perché la logica è stata quella di trovare chi pagasse il prezzo del pareggio di bilancio». Lei al posto di Monti che avrebbe fatto? «Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d’oro. E avremmo fatto cose più incisive sull’evasione, solo per fare qualche esempio». La riforma delle pensioni è pesante. Ma nell’opinione pubblica c’è anche la consapevolezza che è la conseguenza degli errori del passato. Non crede che nel ’95 fu uno sbaglio, anche del sindacato, escludere dal contributivo i lavoratori con più di 18 anni di servizio? «La Cgil già allora pensava che il contributivo pro quota potesse essere una soluzione e Sergio Cofferati lo disse pubblicamente. Oggi comunque tra i lavoratori e i pensionati che frequento io non c’è nessuno che trovi la riforma Fornero ragionevole. C’è una straordinaria sottovalutazione e una supponenza impressionante da parte del governo nel non capire le conseguenze di questa riforma, che rappresenta un intervento brutale sui prossimi 6-7 anni per tante persone che non potranno accedere alla pensione e non avranno un sussidio. C’è un livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una donna, stupisce molto». Ma come, si dice che Fornero ministro l’abbia voluto la Cgil, sbarrando la strada a Carlo Dell’Aringa… «Non è vero. La Cgil non ha partecipato al totoministri e non ha posto veti di sorta. Ma mi interessa tornare sulle pensioni perché c’è una cosa che nessuno ha notato ed è gravissima». Quale? «Nella riforma c’è una norma programmatica che affida a una commissione di studiare la possibilità che i lavoratori spostino una parte dei contributi previdenziali dal sistema pubblico alle assicurazioni private. Questa è una riforma per smontare il pilastro delle pensioni pubbliche. Quindi Fornero non tiri in ballo a sproposito Lama, perché lei ha fatto esattamente una riforma contro i suoi figli, anzi i suoi nipoti». Mettere in sicurezza finanziaria le pensioni è un modo per garantire il pagamento delle stesse alle prossime generazioni. «No, no, il sistema era già in sicurezza». Non può negare che finora chi è andato col retributivo spesso ha ricevuto un regalo rispetto ai contributi versati. «Guardi che il fondo lavoratori dipendenti è in attivo mentre le gestioni in passivo sono pagate coi contributi dei parasubordinati. Ha idea invece di che dramma sociale creerà questa riforma per i lavoratori dipendenti e i precari, determinando insicurezza e paure? Che senso ha tutto questo? Quello di regalare il sistema alle assicurazioni?». Sta dicendo che Fornero lavora per le assicurazioni private? «Se guardo la manovra, sì. Ma un governo di tecnici non può pensare di trasformare il Welfare senza discuterne con nessuno». Quasi quasi era meglio Berlusconi? «No, perché se siamo arrivati a questo punto è per colpa dei suoi governi. Ma ciò non significa che questo esecutivo possa fare qualsiasi cosa. Quando sento dire che bisogna riformare il ciclo della vita…, ma chi sono gli unti del signore pure loro?». Meglio andare alle elezioni anticipate? «Questo governo è nato per affrontare un’emergenza. Trovo che ci sia un tratto autoritario nel voler dire che sarà il grande riformatore del Paese, perché questo spetta alla politica». Ci saranno altri scioperi? «Valuteremo con Cisl e Uil. Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70 anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con infermieri settantenni? Si rende conto che c’è gente che si fa un mazzo così e non può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c’è a chi basta una legislatura». Dopo le pensioni, tocca al mercato del lavoro. Fornero propone il contratto unico per i giovani, senza le tutele al 100% dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «Sarebbe un nuovo apartheid, a danno dei giovani. Se facciamo un’analisi della realtà, vediamo che la precarietà c’è soprattutto dove non si applica l’articolo 18, nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l’obbligo scolastico, si punti sull’apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche». Insomma per la Cgil l’articolo 18 resta un totem, come dice Fornero. Ammetterà almeno che bisogna superare il dualismo del mercato del lavoro tra garantiti e precari. «Non è un totem, ma una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l’articolo 18?». Fornero dice che le donne non devono rivendicare compensazioni ma parità, anche nei lavori domestici. È d’accordo? «Fornero dovrebbe intanto ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco e farne una sulla paternità obbligatoria. Sarebbero passi in avanti concreti verso la parità». Articolo 18, sindacati all’attacco. Fornero: “Reazione che preoccupa” Camusso: “È una norma di civiltà che dice che nessun datore di lavoro può licenziare qualcuno perché gli sta antipatico, perché non ha opinioni, perché è iscritto a un sindacato o fa politica”. Il ministro: “Contro di me linguaggio del passato”. Il presidente di Confindustria Marcegaglia: “Serve serietà e pragmatismo” (repubblica.it, 19 dicembre 2011) È scontro duro tra il ministro del Lavoro Elsa Fornero e i sindacati. Tema del contendere l’articolo 18 e la riforma del lavoro che la Fornero ha annunciato di voler realizzare. E che i sindacati, in particolare sulla questione dell’articolo 18, vedono come il fumo neglio occhi. Favorevole, invece, la Confindustria. “Nessun tabù sull’articolo 18. La riforma del mercato del lavoro va affrontata con molta serietà, pragmatismo e senza ideologia” dice il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che anche al sindacato chiede “grande spirito di collaborazione e atteggiamento costruttivo”. Le parole della Marcegaglia arrivano dopo le parole della Fornero che ha annunciato la riforma del mercato del lavoro a cui il governo sta lavorando. I sindacati, però, non ci stanno 1. “Questa storia di voler mettere mano all’articolo 18 proprio non la capisco. Sembra si voglia aizzare la gente alla protesta – dice il leader della Cisl, Raffaele Bonanni – Sono molto preoccupato per quello che sta accadendo, a 12 ore dall’approvazione della manovra già si aizza la gente su una materia così complessa. La precarietà è il frutto della flessibilità pagata male. L’esecutivo si deve rendere disponibile a pagare di più il lavoro flessibile”. Durissima Susanna Camusso: “L’articolo 18 è una norma di civiltà. Questa norma dice che nessun datore di lavoro può licenziare qualcuno perché gli sta antipatico, perché non ha opinioni, perché è iscritto a un sindacato o fa politica. È importante che rimanga perché è un deterrente”. Elsa Fornero, però, reagisce con nettezza: “Rammarica e preoccupa la reazione dei sindacati. Sull’articolo 18 c’è il rischio di implicazioni per il Paese. Siamo pronti al dialogo, anche prima di gennaio, ma senza preclusioni”. Ma le cose dette al ministro non sono piaciute: “Sono rimasta dispiaciuta e sorpresa per un linguaggio che pensavo appartenesse a un passato del quale non possiamo certo andare orgogliosi. La personalizzazione dell’attacco che non fa merito a chi lo ha condotto”. Per Emma Marcecaglia, invece, la riforma del mercato del lavoro va affrontata “con molta serietà, molto pragmatismo” e va affrontata “perchè abbiamo rigidità in uscita che non hanno uguali in Europa, e, in alcuni casi, anche rigidità in entrata che penalizzano giovani e donne. Abbiamo ammortizzatori sociali che vanno rivisti in parte. Siamo quindi per una trattativa seria e pragmatica. Ci siederemo al tavolo con la volontà di lavorare e collaborare perché in una situazione come questa non ci sono più totem, non ci sono più tabù”. Sul tema interviene anche il presidente della Camera Gianfranco Fini che chiede una limitazione “dei contratti a termine”. “In cambio, se per le aziende le cose dovessero andare male, la possibilità di una maggiore flessibilità in uscita, possibilità di licenziare che oggi con l’articolo 18 è più complicato” sintetizza il leader di Fli. Bonanni: «Articolo 18? Pagare di più il lavoro flessibile». Camusso: «Venite nel paese reale» Protesta a Roma contro la manovra, Piazza Montecitorio piena. Bonanni (Cisl): Fornero fa la maestrina, metta incentivi per precari A. D. G. (corriere.it, 19 dicembre 2011, 14:16) «In questa piazza c’è l’Italia che lavora. Le piazze del lavoro pubblico, come le altre, dicono no a una manovra che non è sopportabile. Bisogna cancellare dal linguaggio la parola fannulloni». Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, attacca la manovra e il precedente governo («Fannulloni sono quelli che negli anni scorsi ci hanno portati fino a qua») dal palco del presidio a piazza Montecitorio, in occasione dello sciopero del pubblico impiego indetto da Cgil, Cisl, Uil e Ugl. «Non pensino che la fiducia alla Camera e al Senato chiuda la partita. Il Paese così non va e non ci rassegneremo, perché cambiare si può», dice la leader sindacale, che annuncia: «Continueremo il presidio durante l’approvazione della manovra. Il 24 saremo in piazza, non per rovinare il Natale a qualcuno, ma perchè per i lavoratori colpiti dalla manovra non sarà un Natale sereno». ARTICOLO 18 – La leader Cgil ha poi ribadito la sua strenua difesa dell’articolo 18: «una norma di civiltà che dice che non si può licenziare un lavoratore perchè sta antipatico, ha opinioni politiche o fa il sindacato. Anche se non si applica a tutti è un deterrente contro la discriminazione. Un paese democratico e civile non può rinunciarvi». Una posizione in piena sintonia con quella del leader di Sel Nichi Vendola, che incontrando i giornalisti ha detto che l’articolo 18 non si può toccare. «Siamo uniti con i sindacati sul no all’attacco ai diritti: l’articolo 18 è un punto della civiltà del nostro Paese e se il governo dovesse mettere mano ad una riforma regressiva, la risposta non potrebbe che essere durissima». «Confindustria dice che lo consideriamo un argomento tabù? – ha aggiunto Vendola -. Sì, è un argomento tabù, perché tocca la carne viva dei lavoratori». «L’art. 18 sta diventando il bersaglio facile di chi vuole smantellare lo Statuto dei lavoratori per fare un regalo a Confindustria e scaricare il costo della crisi sempre sui più deboli – ha detto il presidente del Gruppo Italia dei Valori al Senato, Felice Belisario -. Facilitare i licenziamenti, questo sì in perfetta continuità col precedente governo, è inaccettabile. Non si tratta di difendere un totem, ma un diritto sacrosanto conquistato con 40 anni di lotte dei lavoratori». Ma la visione sull’articolo 18 non è unitaria: se il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, usa toni concilianti e a proposito di una possibile riforma dice: «Nessun attacco ai sindacati, vogliamo collaborare con tutti e a breve presenteremo uno studio sul mercato del lavoro», il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, sostiene invece che «L’articolo 18 non è un totem intoccabile. È ampiamente perfettibile». E il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, sottolinea che «La modifica dell’articolo 18 è uno dei temi «che sta nelle richieste dell’Unione europea». IL SIT-IN – Era stato il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ad aprire gli interventi in una piazza Montecitorio, a Roma, gremita lunedì mattina di lavoratori che protestavano contro la manovra del governo nel giorno dello sciopero del pubblico impiego. Una piazza piena di bandiere dei sindacati confederali e dell’Ugl, che ha visto avvicendarsi al microfono i big: Camusso e Angeletti, ma anche Raffaele Bonanni (Cisl). Perchè, come ha sottolineato la ledear Cgil «questo governo ha unito i sindacati: diciamo le stesse cose da giorni». RICCHEZZA VA DISTRIBUITA – Angeletti ha invitato i «professori» a fare «quello che fanno i Paesi più virtuosi, dove le cose funzionano meglio che in Italia». E cioè «far pagare i ricchi e non sempre chi non ce la fa ad arrivare a fine mese». Dal palco Angeletti ha invocato un po’ di coraggio. Centinaia di persone lo hanno ascoltato dire che «la ricchezza per crescere deve essere distribuita. E non «perchè lo diciamo noi, ma perchè in tutto il mondo funziona così». «Noi invece viviamo in un mondo alla rovescia: i più poveri pagano le tasse in sostituzione dei più ricchi. E questo è il mondo che non si vuole cambiare». NESSUNA EQUITÀ – Di un governo «forte con noi deboli e debole con i forti» parla poi Raffaele Bonanni: «Un governo che piega la testa davanti alle corporazioni, alle casse previdenziali e alle rendite dei privilegiati». E sulla manovra, Bonanni dice che «ha dell’inverosimile». «A Monti ricordo che aveva promesso che il rigore sarebbe stato accompagnato dall’equità – ha continuato Bonanni -. Ma l’equità dov’è? Non c’è, e quindi non c’è la coesione sociale che era la raccomandazione del presidente della repubblica Giorgio Napolitano». FLESSIBILI E PRECARI – La Cisl chiede di «fare innanzitutto qualcosa per i precari», di mettere a disposizione incentivi per far sì che chi è flessibile non si trasformi in precario. «Alla signora Fornero dico che se vuole fare qualcosa per i precari, metta a disposizione gli incentivi per far si che chi è flessibile non si trasformi in precario». «Lei che fa la maestrina – ha aggiunto Bonanni sempre riferendosi alla Fornero – dovrebbe sapere che senza maggiore salario non si possono avere più contributi». Un sostegno al governo, dice Bonanni, sarà possibile solo sulla base di una discussione «aperta alla concertazione». PAESE REALE – Secondo Susanna Camusso «bisogna cambiare strategia per dare un futuro al Paese», perchè «non ci sono salvatori della patria con ricette giuste». E ha invitato il governo a «ricominciare dai contratti e dal discutere». «Venite nel paese reale e forse vi accorgerete che cambiando i criteri della previdenza il Paese non funziona più». «Lo dico con brutalità: bisogna che il governo scenda dalle cattedre e si metta a discutere con i lavoratori e le parti sociali», ha detto Camusso. Che critica lo strumento del decreto per fare la riforma delle pensioni e assicura che «la riforma così come è stata fatta, sarà cambiata». LE RICHIESTE – Presenti in piazza, molti lavoratori della sanità (qualcuno è in camice bianco) dei servizi pubblici, della scuola e tutte le categorie del pubblico impiego. Tutti a chiedere «più equità nella manovra». Tra gli striscioni esposti davanti al Parlamento campeggia quello dei medici: «Chi paga la manovra? I soliti noti». Al centro della mobilitazione unitaria, la richiesta di modificare il testo durante l’iter parlamentare per ottenere una riforma della previdenza che «non sia scaricata sulle spalle di lavoratori e pensionati»; misure che colpiscano «per la prima volta evasione e grandi patrimoni»; una riforma fiscale che alleggerisca la tassazione sui redditi da lavoro dipendente e da pensione; una riqualificazione della spesa pubblica che consenta di trovare le risorse per la crescita; il rinnovo dei contratti; l’eliminazione degli ulteriori tagli alle autonomie locali per difendere il welfare locale e la sanità; una ristrutturazione delle istituzioni centrali e locali che «eviti affrettate operazioni mediatiche e ragionieristiche, come nel caso delle province o degli enti previdenziali (vedi super-Inps), finalizzata a garantire la tenuta occupazionale e a migliorare i servizi. L’inutile ossessione della flessibilità in uscita di Massimo D’Antoni (unita.it, 19 dicembre 2011) C’è veramente necessità, oggi, in Italia, di riformare il mercato del lavoro modificando le norme sul licenziamento? È questa la soluzione per restitutire prospettive ad una generazione che gode di scarse tutele ed è privata di una prospettiva di impiego stabile? Per anni la discussione degli economisti si è concentrata principalmente sulla flessibilità «in entrata». Si diceva che l’adozione di contratti con garanzie ridotte avrebbe incoraggiato le imprese ad assumere, e avrebbe anzi favorito l’accesso all’impiego a tempo indeterminato. La realtà ha smentito questa previsione. La frammentazione delle forme contrattuali è andata ben oltre il ragionevole e viene giustamente vista come patologica. Una presa d’atto benvenuta. Occorre dunque intervenire operando una drastica riduzione delle forme contrattuali, che faccia sì che i contratti temporanei siano utilizzati soltanto nei casi in cui vi sia una fondata necessità economica (ad esempio: le attività stagionali). Occorre rendere il ricorso a tali forme contrattuali più costoso per compensare la minore stabilità. Occorre infine riformare gli ammortizzatori sociali, aumentando le tutele per chi perde il lavoro e in modo da incoraggiare la riqualificazione. Su interventi di questo tipo, il governo avrebbe certamente il sostegno compatto non solo dell’intero Partito democratico, ma dell’insieme delle forze di centrosinistra. La questione che solleva tanta passione riguarda semmai un altro aspetto: la licenziabilità. Come è ben noto, la norma-simbolo da questo punto di vista è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si sostiene da più parti che la semplificazione delle forme contrattuali dovrebbe avere quale contropartita l’abbandono di questa norma, sostituendo la tutela «reale» (la reintegrazione nel posto di lavoro, prevista per il licenziamento senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti) con un risarcimento monetario. Una soluzione che, riducendo i costi del licenziamento per l’impresa, rappresenterebbe una sorta di contropartita alla riduzione di flessibilità «all’entrata» e al costo degli ammortizzatori sociali. Le motivazioni economiche dietro a questo argomento non convincono. Per cominciare, sgombriamo il campo da una convinzione diffusa ma infondata: come dimostrato dalle ricerche empiriche più autorevoli, la cosiddetta flessibilità in uscita, la licenziabilità, non ha effetti significativi e duraturi sul livello di occupazione. In compenso, un mercato più flessibile comporta che i rischi connessi alle fluttuazioni economiche siano sopportati in misura maggiore dai lavoratori, una soluzione molto discutibile dal punto di vista dell’efficienza complessiva. Nemmeno si può sostenere che l’articolo 18 sarebbe causa del così ampio ricorso a forme atipiche di impiego. Se le cose stessero in questo modo, dovremmo riscontrare un ridotto ricorso ai contratti a termine, e la prevalenza di assunzioni a tempo indeterminato, nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti. I dati dicono semmai il contrario. Ancora: se fosse vero che l’articolo 18 è un costo così rilevante, esso dovrebbe scoraggiare la crescita delle imprese prossime alla soglia dei 15 dipendenti; ma ricerche recenti mostrano che non vi sono effetti significativi di questo genere. Non è ovvio nemmeno quali siano i benefici dal punto di vista dell’efficienza contrattuale. Come ci insegna l’analisi economica dei contratti, non esiste alcuna conclusione generale sulla superiorità del risarcimento monetario rispetto alla tutela tramite il diritto al reintegro. Molte analisi suggeriscono semmai come maggiore flessibilità si accompagni a minore produttività. Il motivo è chiaro: se il rapporto è meno stabile, sarà minore l’incentivo per le parti (sia l’impresa che il lavoratore) ad investire nella relazione. Ci chiediamo dunque in che modo gli interventi di cui si parla possano essere considerati politiche per la crescita, se non sulla base di un erroneo pregiudizio che considera ogni forma di regolamentazione fonte di inefficienza. È forse proprio la difficoltà a motivare la revisione della disciplina della licenziabilità in termini di efficienza che spinge molti sostenitori del «contratto unico» a parlare di equità. La riforma del mercato del lavoro sarebbe motivata dalla necessità di superare il dualismo («apartheid») nel mercato del lavoro. È però curioso che si suggerisca, quale soluzione, che le tutele dell’articolo 18 continuino a valere per chi è già «dentro» e siano abolite per i nuovi assunti; con il risultato di certificare dal punto di vista giuridico una differenza di diritti tra generazioni, e di creare all’interno di ciascuna impresa due categorie di lavoratori, con diritti e tutele diverse. «Alzare i salari, sfidiamo la Fornero». E lei: «Manovra equa, io la difendo» Bonanni in pressing: «Parliamone». E il ministro apre. Ma sull’articolo 18 è scontro governo-sindacati (corriere.it, 20 dicembre 2011, 17:24) Resta assai teso il confronto tra il governo e i sindacati sulla manovra e sulla riforma del lavoro. All’indomani delle tensioni venutesi a creare sull’articolo 18, il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, intervistato da Agorà, su Raitre, fa appello al ministro Elsa Fornero. «La sfido – dice il leader sindacale – a discutere come alzare il salario ai flessibili e di come il governo debba incentivare fiscalmente e con altri strumenti questa possibilità, questo significa andare incontro ai giovani». La replica della titolare del Welfare non si è fatta attendere. «In linea di massima è vero che bisognerebbe riuscire ad aumentare i salari perché sono bassi, non è una cosa che ci sfugge – ha detto la Fornero -. Conosciamo questo divario nella distribuzione dei redditi che si è creato negli ultimi anni, ma direi negli ultimi 15-20 anni», ha aggiunto il ministro a margine dei lavori sulla manovra al Senato. MANOVRA EQUA, LA DIFENDO – Il ministro ha poi difeso la manovra nel suo complesso, sottolineando che diversamente da quello del giornalista, concentrato sul momento, il lavoro di un ministro «deve guardare lontano». «Molti hanno ridicolizzato la riforma delle pensioni per assenza di equità – ha detto l’esponente del governo- ma se avessi mezz’ora potrei con un certo ardore difendere questa riforma, pur sapendo che non c’è la perfezione a questo mondo». Fornero ha ribadito che la riforma è «molto importante e va spiegata: non è fatta solo di tagli, che ci sono, che non sono piccoli e che impongono sacrifici. Ma ci sono anche lati positivi di equità». E quanto ai giornalisti, non ha rinunciato ad una piccola frecciata: «Possiamo anche dire che la vostra categoria si è avvalsa di certi privilegi, forse per la vicinanza al potere politico. E quindi anche la vostra categoria sta sperimentando un mondo che non fa sconti a nessuno. La parola dura competizione vale per l’idraulico e vale anche per il giornalista. Questo è un richiamo per voi su cui bisogna fare una riflessione». LA NORMA SUI LICENZIAMENTI – Ma se sui salari governo e sindacati possono pensare di trovare un terreno comune di confronto, la norma sui licenziamenti continua a far discutere. Una riforma del lavoro può essere fatta senza toccare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non ci sono cose che sono terreni inesplorati», ma – ha risposto la Fornero – «nella mia intervista (al Corriere della Sera, ndr) non era proprio citato l’articolo 18: le mie parole erano un invito al dialogo, poi se uno ci legge quello che non era detto, questa non è responsabilità mia». I sindacati però restano in pressing. e l’avvertimento del numero uno della Cisl Bonanni è chiaro: «Non capiamo che attinenza abbia l’articolo 18 rispetto ai problemi dei giovani o dell’occupazione. È una norma che serve solo a non far commettere abusi alle aziende. Toccandolo si mette a rischio la coesione sociale, e senza coesione sociale una società sbrindellata come quella italiana va in pezzi». Ancora più critica la posizione della Cgil. «Che bisogno c’era per il governo Monti e per il suo ministro del Lavoro di recuperare il peggio dell’ideologia del governo precedente?», è la posizione espressa dal sindacato guidato da Susanna Camusso. Fornero: “Bisognerebbe alzare i salari”. La Cgil: stesse idee del vecchio governo. Bonanni avverte: se si tocca l’articolo 18 coesione sociale. E sfida il ministro sull’aumento degli stipendi (lastampa.it, 20 dicembre 2011) Resta alta la tensione sull’articolo 18: dopo le dichiarazioni del ministro del Welfare, Elsa Fornero, che ieri anticipava l’intenzione dell’esecutivo Monti di avviare una riforma del mercato del lavoro, e la dura risposta del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, oggi è intervenuto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. «Non capiamo che attinenza abbia l’articolo 18 rispetto ai problemi dei giovani o dell’occupazione – ha dichiarato il segretario sindacale ad Agorà, su Rai Tre – è una norma che serve solo a non far commettere abusi alle aziende. Toccandolo si mette a rischio la coesione sociale, e senza coesione sociale una società sbrindellata come quella italiana va in pezzi». Sul tema è tornata anche la Fornero che, a margine di un’audizione in Senato, ha sostenuto di non aver citato l’articolo 18 nella sua intervista al Corriere dela Sera: «c’era solo un invito al dialogo, se poi qualcuno ci legge qualcosa che non ho detto, non è responsabilità mia» ha sottolineato. In ogni caso, il ministro del Welfare ha affermato che «non c’è nessun appuntamento» nell’agenda del governo con le parti sociali «prima di gennaio». Sulla possibilità di attuare la riforma del mercato del lavoro, per la Fornero «dipende se ce lo lasciano fare come tempi e disponibilità. Da parte mia c’è piena disponibilità ma non ci devono essere preclusioni di nessun tipo». «Non si vuole precarizzare nessuno più di quanto già lo sia» ha aggiunto il ministro, riconoscendo che «in linea di massima è vero che bisognerebbe riuscire ad aumentare i salari perchè sono bassi, non è una cosa che ci sfugge». E dalla sua bacheca su Facebook, la Cgil è tornata ad attaccare il governo Monti: «Che bisogno c’era di recuperare il peggio dell’ideologia del governo precedente? Serve invece aprire un confronto serio, con i sindacati e le parti sociali, perché le riforme per il Paese non si possono fare con i voti di fiducia del Parlamento», si legge sulla pagina del sindacato. «È giusto che i sindacati si oppongano alla cancellazione dell’articolo 18», continua la Cgil, sottolineando di aver fornito «fatti e numeri, veri e riscontrabili, non totem». «Il vero totem della discussione sull’articolo 18 è pensare che cancellarlo possa aiutare il Paese a superare la recessione, farlo crescere e creare occupazione», sottolinea il sindacato guidato da Susanna Camusso, rispondendo implicitamente al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ieri aveva invitato ad affrontare il tema senza totem né tabù. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è «una norma di civiltà», ribadisce il sindacato, invitando chi ne chiede l’abolizione a liberarsi «di ideologie e pregiudizi». Il rimedio miracoloso di Loris Campetti (ilmanifesto.it, 20 dicembre 2011) Abbiamo trovato il modo per uscire dalla crisi, rilanciare l’economia e attrarre i capitali stranieri, risolvere il problema del precariato e dare un futuro ai giovani. Se va bene, potremmo farla finita persino con la fame nel mondo. Con la sua bacchetta magica la ministra Elsa Fornero ha compiuto il miracolo: via l’art. 18, dice, liberiamo le imprese da questo odioso laccio rendendo più facili i licenziamenti e vedrete che la macchina si rimetterà in moto. Magari introducendo una norma contro le discriminazioni politiche, ma per il resto liberi tutti. Tutti chi? I padroni, naturalmente. Per carità, se un lavoratore è licenziato ingiustamente dev’essere risarcito: prendi questi quattro soldi e ritenta la sorte da qualche altra parte. Ci risiamo. Con un accanimento degno di miglior causa, finalizzato solo a regolare i conti con il Novecento, riparte l’assalto a un diritto che, con un’operazione subdola quanto stantia, viene declassato a privilegio. Di che stiamo parlando? Del fatto che se un dipendente in un’azienda con più di 15 dipendenti è messo fuori e il giudice ritiene il licenziamento ingiusto, quel lavoratore dovrà essere riassunto nello stesso luogo a parità di trattamento. L’azienda condannata può comunque opporsi alla sentenza, ha a disposizione altri due gradi di giudizio. Sarebbe questa la causa di tutti mali, contro cui destre e Confindustria hanno sempre scagliato i loro strali? Sarebbe l’art. 18 a far perdere il sonno persino a tanta intellighentia democratica? Le armate del giuslavorista del Pd Pietro Ichino si sono infoltite con l’arrivo della Fornero, a cui la parola sacrifici strappa lacrime mentre la sua sensibilità non sembrerebbe colpita da chi è stato licenziato ingiustamente. Basta pagare il giusto, ma al padrone dev’essere garantita massima flessibilità. Del resto, anche al padrone dell’amianto Schmidheiny che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti nel mondo e di 1.800 solo a Casale, il consiglio comunale di questa città monferrina ha consentito di monetizzare i morti di oggi e di domani in cambio della rinuncia alla costituzione di parte civile. La logica è la stessa: fai quel che ti pare del futuro e della vita delle persone, purché tu sia disposto a pagare un obolo alla coscienza collettiva. Non è sufficiente la già prevista causa di crisi a consentire i licenziamenti. L’importante è evitare le rappresaglie politiche. E quando mai i padroni hanno licenziato un operaio accusandolo di essere comunista, o della Fiom, o magari gay? Ci sono molti modi più subdoli per liberare le linee o gli uffici da un «avversario». L’ultimo imbroglio della ministra che promette «la riforma del ciclo di vita» (qui siamo oltre il miracolo) è il tentativo maldestro, anch’esso stantio, di contrapporre i privilegi dei «vecchi» alla condizione precaria dei giovani. C’era bisogno di cambiare governo per continuare a sentire queste banalità? La precarietà è ancor più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non entra: come la mettiamo? E non basta ancora la progressiva sterilizzazione dell’art. 18 operata dal governo Berlusconi? Era il 24 marzo del 2001 quando tre milioni di italiane e italiani occuparono Roma in difesa dell’art. 18, il ministro dovrebbe ricordarselo. E dovrebbe ricordarsi che un altro ministro del lavoro, piemontese come lei, aveva varato lo Statuto. Si chiamava Donat Cattin, era democristiano. Sarebbe stato meglio morire democristiani? Modifiche all’articolo 18: no di Bersani Il leader del Pd: «Roba da matti toccarlo ora quando il problema è entrare nel mondo del lavoro, non uscirne». (corriere.it, 21 dicembre 2011, 17:51) La questione licenziamenti senza giusta causa, quella legata all’articolo 18, è ancora al centro della discussione politica. E dopo i tanti avvertimenti dei giorni scorsi arriva un no secco da parte del Pd a possibili modifiche , mentre anche il Pdl, per bocca del presidente del Senato Schifani invita a cercare un confronto serio in un clima privo di veleni. BERSANI – «Roba da matti toccare ora l’articolo 18 quando il problema è entrare nel mondo del lavoro, non uscirne» dichiara il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ribadendo l’impegno del suo partito sul tema. Il governo «lo capirà, lo dovrà capire, altrimenti…», avverte il segretario del Pd. «Avremo un anno di recessione, ormai è chiaro e partiamo da livelli già bassi di occupazioni e redditi. Bisogna focalizzarsi sulla grande questione sociale. L’Italia non si salva senza cambiamento e coesione» ha aggiunto Bersani. «Il paese – ha affermato ancora il segretario Pd – non si salva senza cambiamento e coesione, ci vogliono tutte e due le cose, pensare di salvarlo con una sola non va bene». E coesione significa «orecchie a terra agli interlocutori sociali». Sulla questione sociale il Pd, assicura Bersani, «riuscirà a dare qualche buon riferimento al governo» e in un anno «non semplice l’asset del Pd è lavoro e redditi». VENDOLA -Dalla parte di Bersani si schiera anche Nichi Vendola, presidente della regione Puglia e leader di Sinistra Ecologia Libertà: «Credo che sia assolutamente fondamentale definire le soglie invalicabili dal punto di vista della civiltà democratica di questo Paese. L’idea che un governo tecnico – prosegue il leader di Sel – possa squassare i pezzi pregiati delle conquiste che il movimento operaio ha realizzato nel corso di una storia lunga un secolo, è politicamente irricevibile. E quindi sono molto contento – conclude Vendola – che Bersani abbia posto i paletti ad una discussione, che, al contrario di quello che pensa il ministro Fornero, ha bisogno di molti paletti, molti paletti». SCHIFANI – «L’articolo 18 va rivisitato non in un clima di veleni o contrapposizioni, ma in un clima di responsabilità e confronto serio» spiega invece il presidente del Senato Renato Schifani, nel tradizionale incontro con i giornalisti dell’associazione stampa parlamentare, sottolineando che «va trovato il punto d’incontro tra tutela di chi lavora e l’aspirazione di chi cerca lavoro». Schifani poi aggiunge che è necessario quindi procedere con una legge e non con un decreto legge. «Non si può parlare di rilancio senza parlare di liberalizzazioni. Ma per far questo occorre pensare ad un pacchetto complessivo di liberalizzazioni che vada dai servizi pubblici locali alle autostrade» ha detto poi il presidente del Senato. «Il governo Monti è retto da una maggioranza anomala e trasversale. Ma non avrebbe senso andare ora alle urne. I dissensi interni ai partiti più sono pubblici, più danneggiano le forze politiche e creano sconcerto nella base elettorale» ha detto ancora il presidente del Senato. Che ha poi sottolineato: «Non c’è un commissariamento della democrazia, il governo ha ricevuto il voto in Parlamento e un largo consenso. La legge elettorale in vigore non è più in sintonia con il Paese. Va cambiata e il Parlamento ha tutto il tempo per farlo». Poi Schifani ha toccato anche il tema dei costi della politica: «Ridurremo vitalizi e indennità, ma non vanno delegittimati parlamentari e istituzioni». Articolo 18, quel «deterrente» poco usato dalle imprese di Rocco Di Michele (ilmanifesto.it, 21 dicembre 2011) Sorpresa! Il tanto maledetto – dalle imprese e dalle destre – «articolo 18» dello Statuto dei lavoratori dà luogo a un contenzioso legale minimo. Sindacalisti e avvocati fanno fatica a ricordare casi eclatanti. Sorpresa! Il tanto maledetto – dalle imprese e dalle varie destre di questo paese – «articolo 18» dello Statuto dei lavoratori dà luogo a un contenzioso legale minimo. Sindacalisti e avvocati fanno fatica a ricordare casi eclatanti. Il primo che salta alla mente di tutti è quello di Dante De Angelis, «macchinista ferroviere», che le Fs di Mauro Moretti hanno provato a licenziare per ben due volte. La prima perché – in piena vertenza sindacale sull’utilizzo di quel sistema – si era rifiutato di guidare un eurostar dotato dell’«uomo morto» (un pedale da premere ogni 55 secondi, considerato un «sistema di sicurezza» negli anni ’30, in realtà fonte di distrazione nella guida e quindi un pericolo in più). La seconda per un motivo ancora meno convincente. Da delegato sindacale responsabile per la sicurezza (Rls, eletto dai lavoratori) aveva ipotizzato una certa causa tecnica per ripetuti «spezzamenti» degli eurostar in movimento. Le Fs ritenevano che ciò facesse «venir meno il rapporto fiduciario» con Dante. Nel 2006 non si arrivò neppure alla sentenza: l’azienda firmò davanti al giudice per il reintegro del sindacalista al lavoro. La seconda volta, nel 2009, si dovette invece aspettare che il giudice riconoscesse l’assenza di «giusta causa» per il licenziamento, e quindi il nuovo reintegro sul lavoro. Sentenza marchionnescamente impugnata dall’azienda, di cui si attende in gennaio il giudizio d’appello. Poi i ricordi si fanno scarsi e lontani, a parte il caso Pfizer, di cui parliamo in altro articol (su il manifesto in edicola), o altri ferrovieri che avevano parlato con i giornalisti di Report. La ragione è semplice, ci spiegano in molti. «L’art. 18 è un semplice deterrente; se un’azienda sa di non avere un motivo giustificabile in tribunale, non procede al licenziamento, preferisce aspettare un errore del lavoratore preso di mira». Un altro motivo è costituito dalle lungaggini della giustizia civile, che può comportare anche l’attesa di anni per una sentenza e costi legali spropositati. Nelle grandi aziende, in pratica, non si ricorre quasi mai al licenziamento individuale – l’unico davvero «protetto». Per «motivi economici», infatti, hanno a disposizione quelli collettivi: stato di crisi, cassa integrazione, mobilità. Fine. Per isolare i «rompiscatole» usano altri sistemi, fino ai «reparti confino» (se l’impresa è davvero «maxi»). I casi più frequenti – ma di numero molto basso – si sono verificati dunque in aziende medio-piccole (sopra i 15 dipendenti, ma meno di 500), perché qui spesso il contatto tra lavoratore «sindacalmente attivo» e padrone è più diretto, meno mediato da dirigenti di vario livello. E anche gli imprenditori, in questa dimensione, dispongono più raramente di consulenti legali. Eppure le imprese da diversi anni puntano con decisione ad ottenere la libertà di licenziamento individuale, sostituendo la «reintegra» con un «risarcimento» in contanti. La ragione principale è «politica»: il ricatto della licenziabilità è tale da irregimentare in modo molto più ferreo il lavoro. Diventa «sconsigliabile» rivendicare un diritto o sollevare problemi di ritmi, nocività, straordinari non contrattati, ecc. Si incentiva l’obbedienza cieca e una «flessibilità» totale, quasi al livello della macchina. Soprattutto, una simile disciplina del lavoro azzera la presenza del sindacato. Più difficile fare le iscrizioni, più difficile (e più drastico) organizzare uno sciopero, più rischioso il ruolo di delegato (a meno di non far parte di quello «aziendale», tipo Fiat del prossimo anno). Ma c’è anche una ragione economica: un «risarcimento» di 12 o 18 mesi costa assai meno della parcella di un avvocato. E questo governo è molto sensibile ai costi che le imprese devono affrontare, tanto da aver abrogato con un tratto di penna (art. 6 della «manovra») anche la «causa di servizio», che obbligava l’imprenditore a ripagare in qualche modo il lavoratore danneggiato nel fisico dalla ripetizione di una certa prestazione. L’insistenza con cui il ministro del welfare Elsa Fornero e la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia sono tornate su questo argomento, però, sembra però preparatoria di quella radicale «riforma del mercato del lavoro» accennata nel programma di governo ed esposta nelle linee generali dalla stessa Fornero. Una riforma che richiederà comunque una qualche discussione con le parti sociali, dove proporre lo scambio tra l’abrogazione dell’art. 8 della «manovra Sacconi» di agosto e l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto. Lo schema generale c’è già: il «contratto unico» del prof. Ichino, senza le garanzie – e le risorse – della flexsecurity all’olandese (o alla danese), che farebbe «equità» trasformando tutti i lavoratori in precari a vita. Senza neppure più la pensione. Ichino: «Riforma del lavoro urgente come le altre» di Simone Collini (unita.it, 29 dicembre 2011) Perché sostenere un governo che, come dice Bersani, non fa al 100 per cento quello che farebbe il Pd? «Perché è in gioco la salvezza del Paese, la sua stessa unità e integrità nazionale», risponde il senatore del Pd Pietro Ichino. «Perché sono in gioco i risparmi e la sicurezza degli italiani, soprattutto i più deboli. Ma anche perché qualche responsabilità, in questa crisi di credibilità del nostro Paese sul piano internazionale, la hanno tutte le forze politiche, compresa la sinistra: questa fase politica è necessaria anche per una decantazione delle faziosità e un ripensamento critico di tutti». Ichino è il primo firmatario di un disegno di legge (1873/2009) contenente il cosiddetto progetto flexsecurity cui ha implicitamente fatto riferimento Mario Monti nel discorso programmatico del 17 novembre scorso al Senato. Professor Ichino, perché sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 è una misura necessaria per far crescere il Paese? «Nel mio progetto l’articolo 18, per la parte in cui esso difende libertà e dignità della persona che lavora, non viene affatto abolito, ma vede addirittura raddoppiato il proprio campo di applicazione. Parlo della protezione contro i licenziamenti discriminatori, di cui oggi i co.co.co., i “lavoratori a progetto”, i lavoratori “con partita Iva” fasulla e simili non godono per nulla e con la riforma incomincerebbero a godere, insieme alle altre protezioni essenziali». Resta la domanda che ha posto su questo giornale la coordinatrice di Sel Titti Di Salvo: «In un momento di crisi come questo, il governo deve occuparsi di licenziamenti o di come creare nuovi posti di lavoro»? «La riforma che propongo non darebbe luogo ad alcun licenziamento, poiché è destinata ad applicarsi soltanto ai nuovi rapporti di lavoro. D’altra parte, proprio in un momento di gravissima incertezza circa le prospettive economiche, anche le imprese che hanno bisogno di assumere sono più riluttanti a farlo con contratti a tempo indeterminato rigidi. Ecco perché proprio in questo momento di crisi è urgente sostituire, per i rapporti che si costituiranno da qui in avanti, la vecchia tecnica protettiva con una nuova, capace di conciliare la flessibilità delle strutture produttive con la sicurezza del lavoratore». Ma ha senso se il 95% delle aziende italiane è escluso dal campo di applicazione dell’articolo 18? «Il dato che conta è costituito dal numero dei rapporti di lavoro dipendente cui quella norma si applica, che è circa la metà del totale. In questa metà del tessuto produttivo oggi è difficilissimo essere assunti a tempo indeterminato. Perché il Paese torni a crescere è indispensabile che aumenti la dimensione media delle imprese, occorre quindi eliminare il più possibile gli incentivi per le imprese a rimanere piccole». Ma le imprese medio-grandi già oggi possono attuare licenziamenti collettivi e anche individuali per soppressione del posto di lavoro. «Se le cose stessero davvero così, la sola novità portata dal mio progetto sarebbe costituita da un trattamento di disoccupazione più robusto per i licenziati. La verità è che oggi la riduzione degli organici, mediante licenziamento collettivo o individuale, di fatto si può fare soltanto quando l’impresa è già in crisi, altrimenti il rischio per l’impresa di una sentenza negativa è altissimo. In un tessuto produttivo sano, invece, l’aggiustamento deve poter avvenire prima, per prevenire la crisi. Quello che va garantito ai lavoratori non è, come oggi in Italia, la dilazione del licenziamento, ma una robusta sicurezza economica e professionale nel passaggio da vecchio al nuovo posto di lavoro». Bersani ha spesso sottolineato che la priorità oggi non è l’articolo 18 ma la riforma degli ammortizzatori sociali. «La priorità è costituita senza dubbio dal sostegno del reddito a chi perde il posto. Ma le due questioni vanno affrontate insieme. Se si offre alle imprese maggiore flessibilità, si può chiedere loro di farsi carico di un trattamento complementare di disoccupazione, necessario per portare il nostro trattamento complessivo ai livelli del nord-Europa. Per altro verso, questo stesso schema consente di affidare alle imprese di scegliere il migliore servizio di assistenza al lavoratore licenziato e di attivare un controllo efficace sulla sua disponibilità per tutto quanto è necessario per il reperimento della nuova occupazione». Non pensa che nella “fase 2” del governo ci siano misure più urgenti? «Liberalizzazioni, spending review e dismissioni del patrimonio pubblico poco o male utilizzato per poter ridurre le tasse sul lavoro e sulle imprese, tutte queste sono misure urgenti. Ma non lo è di meno la riforma del lavoro. Il nostro Paese ha assoluto bisogno di attrezzarsi per il trasferimento, in condizioni di sicurezza economica e professionale, dei lavoratori dalle imprese in declino o chiusura a quelle in fase di espansione. Su questo terreno siamo ancora all’anno zero». L’obiettivo di un contratto unico contro la giungla dei lavori flessibili Il governo alla ricerca di una soluzione per uscire dal dualismo del mercato del lavoro, dove c’è chi è garantito e chi non ha praticamente protezioni: una strategia che Monti e il ministro Fornero studiano mentre preparano il difficile confronto con i sindacati. Ecco le alternative di Roberto Mania (repubblica.it, 2 gennaio 2012) Regole uniche per le pensioni, regole uniche anche nel mercato del lavoro. È l’obiettivo che si è dato il governo Monti. Dopo quindici anni di flessibilità spinta che ha portato a oltre quaranta tipologie contrattuali (dal lavoro in affitto fino al job on call, una vera giungla contrattuale) e che ci lascia, però, un tasso di occupazione giovanile tra i più bassi d’Europa (circa il 47 per cento contro una media Ue che viaggia intorno al 60 per cento), si è deciso di voltare pagina. Non un ritorno al passato, ormai improponibile nella competizione globale, ma il tentativo di chiudere la lunga stagione del dualismo nel mercato del lavoro: da una parte i protetti dalle leggi e dai contratti, dall’altra i precari quasi senza leggi e diritti contrattuali. Si prova a chiudere, pure, la presunta contrapposizione tra padri e figli. In fondo l’estensione nella forma pro rata del metodo contributivo per il calcolo della pensione rappresenta il fulcro di un nuovo patto generazionale nell’epoca dei lavori e non più del lavoro standard a tempo indeterminato. A regime la riforma Fornero permetterà di risparmiare 20 miliardi di euro. Risorse decisive per ridisegnare gli attuali ammortizzatori sociali, nati davvero in un’altra epoca del lavoro. Le proposte progressiste Nuovi ammortizzatori sociali, dunque, e nuove regole (omogenee) nel mercato del lavoro, due facce della stessa medaglia. Per ridurre – come ha già detto il premier Mario Monti – l’area della precarietà. Terreno che in questi anni ha continuato a presidiare, nonostante le tante contraddizioni, la sinistra politica. Le soluzioni in campo, infatti, quelle con cui il governo non potrà non fare i conti, sono nate a sinistra e presentate in Parlamento dalla sinistra. C’è la proposta del senatore giuslavorista Pietro Ichino che ha l’ambizione di riscrivere il diritto del lavoro; c’è il “contratto unico” a protezione crescente, nato nelle aule universitarie (i veri ispiratori sono gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi) e “adottato” dal senatore Paolo Nerozzi (ex dirigente della Cgil); e c’è anche il “contratto unico di inserimento formativo” firmato da un’ottantina di parlamentari democratici (tra i quali l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano), una “terza via” partita in sordina rispetto alle altre due ma, alla vigilia del confronto tra governo e parti sociali, con qualche chance in più di arrivare al traguardo. Perché il “contratto prevalente”, così come per ora hanno cominciato a chiamarlo i tecnici del ministero del Lavoro somiglia molto al modello del contratto di inserimento, concepito per tagliare via la stragrande maggioranza dei contratti di lavoro precari. Le differenze, il nodo dell’art.18 Ci sono differenze non di poco conto tra i tre modelli a confronto, culture diverse e anche costi diversi a carico delle imprese. Ichino propone che le nuove assunzioni siano tutte a tempo indeterminato. Ma che sia anche possibile il licenziamento individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi. Senza più il reintegro nel posto del lavoro, nel caso di licenziamento senza giusta causa (come prevede l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), bensì con un’indennità economica di tre anni a carico in buona parte dell’impresa (da qui la sostanziale malcelata ostilità della Confindustria) pari al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno, e poi all’80 e al 70 per cento. L’idea è quella di rendere il datore di lavoro direttamente responsabile nel progetto di ricollocazione del lavoratore licenziato. Nulla di simile c’è nella proposta Boeri e nel disegno di legge di gran parte del Pd. Entrambi puntano a una graduale stabilizzazione del rapporto di lavoro. Fino a tre anni di prova (l’ingresso nel lavoro), poi il contratto a tempo indeterminato. Nessun intento di modificare o attenuare lo spettro d’azione dell’articolo 18, mentre c’è l’idea (ne aveva accennato, seppur a titolo personale, la Fornero) di un salario minimo. Un tragitto che sembra aver ispirato le parole di Monti nella conferenza stampa di fine anno sul contrasto alla precarietà, ma anche la formula del “contratto prevalente” che si sta studiando al ministro del Lavoro. Oggi più che mai è il lavoro la vera priorità di Guglielmo Epifani (l’Unità, 2 gennaio 2012) Il Paese a cui si è rivolto il discorso del Presidente della Repubblica è attraversato da preoccupazioni e inquietudini grandi, come poche volte è capitato nel passato. Si avverte l’insidia di una crisi economica e finanziaria solo in parte ascrivibile alle responsabilità nazionali. Una crisi su cui ora gravano il peso delle manovre di aggiustamento dei conti pubblici; la crescita dell’inflazione e la caduta dei redditi da lavoro e pensione; la lunghezza di un ciclo senza crescita economica e le previsioni di una ulteriore caduta dell’occupazione e dei consumi per l’anno che si apre. Innanzitutto grava sull’Italia il rischio di perdere altri 150mila posti di lavoro, o forse anche di più, in tutti i settori dell’industria e dei servizi. Per questo il presidente, senza nascondere la gravita del momento, ha esortato il Paese ad avere fiducia rassicurando che i sacrifici serviranno a fare uscire dalla crisi di oggi sia l’Italia che l’Europa. E parole non diverse hanno usato la cancelliera tedesca e il presidente della Repubblica francese, il quale ha messo la questione sociale al centro del suo discorso di fine anno. Il punto però che continua a restare aperto soprattutto in Europa, a differenza della situazione americana, è come evitare che le politiche di restrizione della domanda, degli investimenti e dei consumi che sono necessarie ma sono anche causa della recessione in corso, non determinino un aggravamento delle condizioni dell’occupazione, del lavoro e delle prospettive comuni. E visto che non si riesce a fare assumere a livello europeo quelle decisioni che sarebbero necessarie già da tempo a partire dagli Eurobond per gli investimenti diventa necessario affrontare il tema di come sia possibile, Paese per Paese, sostenere una politica anticlica nei tempi più brevi. Il governo Monti è chiamato a questa sfida e solo in questa prospettiva le condizioni dell’equità e della coesione sociale possono essere ricomposte. Ancora una volta cioè il tema non è quello dell’accettare o meno i sacrifici, ma se i sacrifici e il rigore nella loro qualità sociale ed economica determinano o meno la possibilità di ottenere risultati concreti, che consentano anche al nostro Paese e anche nel tempo della globalizzazione dei mercati di riprendere la strada dello sviluppo e di una crescita fondata su una buona e stabile occupazione. Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso del presidente Napolitano una isposta a osservazioni e critiche che i sindacati confederali hanno avanzato ad alcune misure prese dal governo in materia previdenziale, di equità sociale e fiscale e di metodo di confronto. Conoscendo il presidente questo rilievo non è fondato mentre è stato evidente il richiamo a una comune e condivisa responsabilità sociale. D’altra parte il sindacato italiano non si è mai sottratto a questo dovere anche quando ha dovuto accettare una politica dei due tempi o i sacrifici spesso sono stati a senso unico, se è vero come è vero che l’Italia è oggi tra i Paesi europei più diseguali per distribuzione della ricchezza. Il punto di oggi è però un altro: non si esce da questa crisi se non si cambia la qualità del nostro sistema produttivo, se non si torna ad investire e ad innovare, se non si offre lavoro di qualità e ben remunerato: se, insomma, non si troverà anche da noi quello che tanti giovani trovano in giro per l’Europa o per il mondo. Troppi luoghi comuni sbagliati continuano ad essere riproposti nel dibattito italiano dall’articolo 18 alle cause circa il deficit di produttività del sistema e troppe scelte di questi giorni sono improntate a continuità che andrebbero rimosse, come nel caso dell’aumento dei pedaggi autostradali o delle accise sui carburanti; per non parlare del fatto che ancora una volta invece di ridurre il carico fiscale sul lavoro lo si sia fatto solo a vantaggio dell’impresa, per quanto con modalità corrette. Questo è il respiro che deve avere una politica per la crescita e la buona occupazione. Questa la prospettiva che si deve dare a chi perde il lavoro in questi mesi o non lo trova se non in forma precaria. Questa la svolta di cui c’è bisogno se vogliamo lasciarci alle spalle un decennio di declino e di arretramento anche morale e culturale. La Cgil al governo: «Parli chiaro sulla riforma del lavoro, Cisl e Uil solisti stonati» «Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento e formazione per cancellare i contratti precari» (corriere.it, 4 gennaio 2012, 14:42) «Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento e formazione per cancellare i contratti precari a oltranza». Anche: «Non è necessaria la concertazione anni ’90 ma un confronto serio e onesto. Con Cisl e Uil serve arrivarci con posizione comune». E ancora: «Il contratto unico di Ichino è pubblicità ingannevole. Non cancella la precarietà di oggi e ne aggiungerà nuova domani». Così su Twitter – il popolare social network su cui è approdata di recente anche Susanna Camusso – la Cgil spiega la linea del maggiore sindacato italiano e chiede una maggiore chiarezza all’esecutivo Monti circa l’eventuale riforma del mercato del lavoro. LE POSIZIONI – Dopo la netta chiusura sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori sancita dall’intervista di un paio di settimane fa della leader della Cgil al Corriere (che rispondeva a una precedente del ministro del Lavoro, Elsa Fornero) Susanna Camusso apre alla proposta Damiano sull’adozione del contratto di inserimento in ingresso nel mercato del lavoro per i giovani, boccia apertamente la flexsecurity di Ichino che apre al contratto unico (e a tempo indeterminato) e alla possibilità del licenziamento per motivazioni organizzative ed economici e basata sul funzionamento dell’outplacement per i lavoratori in esubero, si mostra aperturista sulla proposta Boeri- Garibaldi che mantiene lo schema dello statuto dei lavoratori del ’70. Ma soprattutto attacca l’esecutivo Monti, responsabile – secondo i vertici della Cgil – di una mancata chiarezza sul tema. Monti: «Non occorrono altre manovre» Il presidente del consiglio: «Dobbiamo ammodernare alcuni aspetti del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali» di Fabio Savelli (corriere.it, 8 gennaio 2012, 23:15) «Non occorrono altre manovre». Così il presidente del Consiglio Mario Monti ospite di RaiTre nella trasmissione «Che tempo che fa» condotta da Fabio Fazio smentisce la necessità di altre misure di correzione dei conti pubblici e apre alla fase due della crescita. Quella orientata a una maggiore liberalizzazione di alcuni gangli vitali dell’economia, come i trasporti, l’energia e gli ordini professionali. E soprattutto – ammette il premier – la linea del governo è orientata «a non dissipare il futuro dei nostri figli e non solo perché le misure di rientro ci vengono prescritte dall’Unione Europea». LA FASE DUE – «L’euro non è in crisi, la moneta ha mantenuto solidamente il rapporto di cambio con il dollaro. Il problema che incombe su di noi è che alcuni paesi Ue hanno una crisi del debito pubblico». Ma il premier aggiunge che ci sono alcuni Paesi – soprattutto quelli virtuosi – inquieti nei confronti di quelli meno virtuosi. «Dobbiamo agire su molti fronti contemporaneamente, perchè la Ue ci impone un cambiamento di rotta anche sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali». Il premier apre anche a un cambiamento del sistema televisivo con una riforma della Rai: «A breve vedrà», ha detto Monti a Fazio, facendo trapelare una necessità di intervento anche sull’emittente pubblica. L’ITALIA – La situazione italiana – dice Monti – non è così negativa. «Anzi al netto degli interessi sul debito pubblico il nostro Paese ha un avanzo primario del 5% per il 2011, una situazione che ci pone in una situazione di privilegio rispetto ad altri paesi». Riguardo al panorama globale, «la nostra è una crisi di sistema», ha aggiunto Monti. LE BANCHE – «Il nostro sistema bancario non è a rischio, non ci sono istituti di credito a rischio default» di fatto tranquillizzando risparmiatori e azionisti circa il dossier Unicredit e l’aumento di capitale varato lunedì. Monti ha poi parlato di Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, e ha ammesso le divisioni in sede Ue nell’applicazione o meno dell’imposta tra i desiderata francesi e le resistenze anglo-tedesche. FISCO – Sul capitolo evasione Monti ha ammesso di voler intervenire per regolare i rapporti transnazionali con i paradisi fiscali. Sull’operazione Cortina – con i controlli della Guardia di Finanza – Monti ha precisato: «Operazioni come quelli hanno il significato simbolico di una lotta seria all’evasione fiscale. Niente danneggia la percezione dell’Italia all’estero, quanto l’evasione fiscale. Il nostro è un Paese ricco, perché la visibilità della ricchezza è evidente, al netto dell’alto debito pubblico». E ancora: «Serve un rispetto per la ricchezza e lotta senza quartiere all’evasione fiscale. Bisogna rispettare la ricchezza che è un valore a condizione che sia il risultato di un merito, di uno sforzo produttivo e di talento. Il profitto del monopolista e di imprese che si arricchiscono alle spalle del consumatore invece deve essere represso. Negli Stati Uniti si va in carcere, in Europa no, dobbiamo renderci conto che evadendo le tasse paga l’intera collettività». ARTICOLO 18 – «Siamo in una fase di disperato bisogno di lavoro per i precari e i giovani. Per questo non possiamo pensare soltanto alle enunciazioni di principio, ma interrogarci su come favorire l’ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni», ha spiegato il premier interrogato sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bersani: «Art. 18, unico tabù è buonsenso» Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il Partito democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma del mercato del lavoro. Il documento è stato messo a punto dal dipartimento Lavoro guidato da Stefano Fassina. L’art.18 sulla carta non si tocca, ma governo potrebbe provare a forzare, chiedendo anche un sacrificio, magari parziale. (unita.it, 9 gennaio 2012) Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il Partito democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma del mercato del lavoro. Il documento è stato messo a punto dal dipartimento Lavoro guidato da Stefano Fassina ed è la sintesi di alcuni dei disegni di legge presentati in parlamento da esponenti del Pd. Non di quello di Pietro Ichino, però, la cui ‘flexsecurity’ ha fatto poca breccia nella segreteria. Anche perchè, e Pier Luigi Bersani è tornato a chiarirlo oggi, l’articolo 18 non si tocca. La piattaforma, che sarà presentata a una riunione del forum Lavoro del partito convocata per giovedì alla Camera, fa riferimento ai disegni di legge DamianoMadia e Nerozzi-Marini. La discussione partirà dunque nei gruppi parlamentari, anche se appare scontato che il lavoro sarà al centro della prossima assemblea nazionale del 20 e 21 gennaio. La proposta prevede un “contratto prevalente” per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro con un periodo di prova variabile a seconda dei settori produttivi per un massimo di 3 anni. Il contratto di ingresso, con un contenuto formativo, dovrebbe avere almeno nella fase iniziale contributi agevolati al livello di quelli previsti per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa. In caso di risoluzione del rapporto prima della scadenza, ai lavoratori dovrà essere garantita una compensazione monetaria, secondo il modello proposto da Nerozzi che nel suo ddl ha indicato il pagamento di un’indennità pari a 5 giorni per mese di anzianità. Il Pd chiede poi che le agevolazioni contributive siano prolungate per incentivare la stabilizzazione che dovrebbe scattare, alla fine del periodo di prova, secondo le regole previste. Dunque ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti, confermati con un contratto a tempo indeterminato, dovrà essere garantita l’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. «A quel punto si applicano i diritti, compreso l’art 18 che non è il problema, nessun imprenditore serio dice che è il problema», ha ribadito il segretario Bersani a Otto e mezzo. Dunque, ha aggiunto rovesciando la battuta di Mario Monti, «l’unico tabù è il buonsenso. Se c’è una cosa che succede senza problema è licenziare, è facilissimo, anche l’Ocse lo dice. La rigidità italiana è su elementi anche contrattuali che impediscono all’organizzazione aziendale di muoversi con più flessibilità». Ancora non è chiaro se il Governo deciderà di giocare anche la carta di chiedere qualche modifica all’articolo 18. Bersani in privato ha ripetuto più volte al premier che «non è la priorità», confidando nel fatto che avviando la trattativa dagli ammortizzatori sociali e dal complesso del mercato del lavoro, la vicenda si possa sgonfiare da sola. Di fatto, i democratici sperano che Governo e sindacati raggiungano una intesa complessiva interessante per tutti: a quel punto il Governo potrebbe provare a forzare, chiedendo anche un sacrificio, magari parziale, sull’articolo 18. Qualcuno nel Pd ne ha anche già parlato: si tratterebbe della licenziabilità individuale per motivi economici, che andrebbe sottoposta però alla stessa disciplina dei licenziamenti individuali. O lo stesso Governo potrebbe convincere Confindustria che il resto dell’accordo è così importante che conviene transigere sull’articolo 18. Questo, almeno, è l’auspicio dei democratici. Monti, per ora, non scopre le carte. Ha sposato la linea del rinvio della questione, e si limita a dire che non accetta «tabù» ma non vuole nemmeno fare battaglia su «un simbolo». Il segretario democratico si starebbe adoperando in queste ore (dopo averne accennato lo scorso sabato al presidente del Consiglio Mario Monti) anche per un documento sulle richieste italiane all’Ue da approvare in Parlamento, un testo dei partiti su cui dovrebbero convergere almeno Pd, Pdl e Terzo polo. L’Italia, è il pensiero del presidente del Consiglio, ha fatto la sua parte e continuerà a farla, ma ora è l’Europa che deve dare risposte, se si vuole frenare la corsa dello spread BundBtp e, quindi, l’attacco all’euro. Un pensiero che Bersani condivide al 100%, così come il Pdl e il terzo Polo. E allora, è l’idea del segretario Pd, mettiamo giù un documento che fissi formalmente la posizione del Parlamento italiano, a sostegno del Governo Monti. Un modo per fare pressione sull’Europa, sulla Germania in particolare ancora restia ad un maggiore coinvolgimento della Bce e ad un meccanismo automatico che metta in sicurezza i debiti sovrani. Una convergenza che potrebbe preludere anche ad un maggior sostegno sui temi ‘interni’: il Pd pare aver disinnescato la mina dell’articolo 18, il Governo sembra intenzionato a lasciare il tema in coda alla trattativa complessiva su ammortizzatori e mercato del lavoro. Fatto che, secondo il Partito democratico, ma anche secondo Monti, dovrebbe semplificare di molto il raggiungimento di un’intesa. Resta la resistenza del Pdl sulle liberalizzazioni e sui toni usati da Monti per la lotta all’evasione. Sul fronte europeo, l’iniziativa del Pd intende andare di pari passo con le mosse del Governo. Se il ministro Corrado Passera è arrivato a chiedere un ruolo più attivo della Bce, in attesa dell’attivazione di strumenti più efficaci a tutela dei debiti sovrani, è perché Monti ha voluto dare un messaggio chiaro alla Merkel: nessuno si salva da solo, l’Italia ha fatto i sacrifici, continuerà a fare ciò che serve, ma bisogna che siano visibili anche i risultati di questo sforzo, e per questo serve che l’Europa si muova. I partiti, su questo tema, possono essere ancora più netti: intervento della Bce, eurobond, criteri di calcolo del debito… Tutti temi sui quali l’Italia ora potrebbe fissare formalmente la propria posizione con una risoluzione parlamentare, un documento ufficiale che di fatto sposerebbe la linea del Governo, e che magari potrebbe dire con ancora più nettezza alcune cose sulle quali Monti usa un linguaggio più diplomatico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, i colloqui di Monti con i sindacati sembrano dimostrare che per ora il tema articolo 18 viene lasciato sullo sfondo, come del resto aveva suggerito Bersani al premier già dopo le polemiche seguite all’intervista del ministro Elsa Fornero. Il ‘contratto prevalentè è diventato ormai la posizione ufficiale del Pd, il compromesso che tiene insieme l’ala filo-Cgil e i moderati alla Ichino: fino a tre anni di prova, durante i quali il datore di lavoro potrà licenziare; poi tutti assunti a tempo indeterminato. Anche sul dialogo con l’ex maggiornza, Bersani ha aperto uno siraglio di dialogo: «Io sono prontissimo a discutere con tutte le forze in parlamento una piattaforma comune nazionale italiana interpretata dal governo», ha detto Bersani a Otto e mezzo, riferendo di avere contatti anche con Angelino Alfano, il quale «sta facendo la sua parte». «Sono pronto a fare la mia parte – ha aggiunto il leader del Pd -, siamo in una fase nuova cerchiamo di guardare avanti». «C’è da avere una posizione in Europa? il Parlamento non ce l’ha solo la Germania – ha proseguito Bersani – ce l’abbiamo anche noi, quindi le forze politiche possono rafforzare, con il loro pronunciamento, con il loro contatto diretto con il capo del governo, la posizione italiana. Quindi i partiti, il parlamento devono essere coinvolti direttamente in una discussione sulla piattaforma italiana per l’Europa». «Se ci fa pena qualcuno, ci fa pena l’Italia, che non è ancora riuscita a costruire un rapporto di fiducia con la politica paragonabile a quello di altri paesi», ha poi affermato il segretario del Pd commentando quanto detto dal premier Monti, che ieri ha affermato di provare un po’ di «pena» per la classe politica, «trattata male dall’opinione pubblica». «Un governo più o meno fatto così non è lontano dalla mia idea. il vero problema politico è che non c’è una maggioranza parlamentare che sostenga il governo. Che ci siano i tecnici – spiega Bersani – non la vedo una cosa così strana. Mi piace una politica che sia un po’ larga di testa. abbiamo fatto un gesto politico – ribadisce – ci siamo messi a disposizione che per un passaggio politico per salvare questo paese». Mario Monti non è la «badante» dei partiti e i partiti non vogliono fare la «badante» del Governo, dice ancora Bersani. «Cabina regia? I titoli usciti (sui giornali, ndr) non corrispondono a quello che ho detto. Bisogna darsi un metodo, non chiedo affatto di fare io il badante di Monti… È sbagliato dire che la politica, tout court, è «sporca», secondo il segretario del Pd «la politica non può essere vista come una cosa sporca, ci sarà politica e politica, politici e politici… cerchiamo di non fare tutto un mucchio». Articolo 18, Marcegaglia all’attacco: “Il reintegro è un’anomalia italiana” La leader di Confindustria vede il ministro Fornero: ora riforma. Camusso: “La Cgil è seriamente interessata ad trovare un’intesa” (lastampa.it, 11 gennaio 2012) Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è un’anomalia del sistema italiano. L’affondo arriva da Emma Marcegaglia. Secondo la leader degli industriali la misura «esiste formalmente anche in qualche altro paese europeo, ma sostanzialmente non viene usata». La Marcegaglia oggi incontrerà il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Al termine del direttivo degli industriali, che ha visto un’ampia partecipazione, il presidente di Confindustria ha sottolineato che «l’articolo 18 è un tema molto ideologico e noi non vogliamo affrontare il tema dal punto di vista ideologico. Vogliamo solo portare un confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei». Nel capitolo “flessibilità in uscita” in Italia si evidenziano «anomalie» proprio rispetto agli altri paesi dell’Europa. E ha citato il caso della Francia dove il reintegro viene usato «solo per i licenziamenti discriminatori». La Marcegaglia porterà all’incontro con la Fornero una serie di dati ed un confronto con gli altri paesi europei. È stato un Direttivo «molto partecipato – ha tenuto a sottolineare Marcegaglia -, c’erano cinquanta persone, rappresentanti delle principali imprese private ed ex pubbliche». Dunque, «la riforma del mercato del lavoro – ha aggiunto – è un tema molto sentito e fondamentale». Il numero uno degli industriali ha dunque spiegato che al ministro del Lavoro verranno presentati «una serie di dati» che «dimostrano il grande problema di competitività che il paese ha» e, poi, «un documento abbastanza ampio su un benchmark con altri paesi europei». Intanto il governo incassa un’importante apertura dalla Cgil. «Siamo seriamente interessati a provare a fare un accordo sindacale con il governo ma, come sempre, sarà il merito a decidere», ha spiegato Susanna Camusso, nella relazione introduttiva del comitato Direttivo del sindacato di Corso Italia, in merito al confronto che si aprirà a breve. La leader sindacale ha sostenuto che il 2012 si preannuncia un anno «drammatico» a causa della recessione e della disoccupazione, a rischio anche per la «tenuta sociale»: per questo, ha sottolineato, «in una fase così difficile fare un accordo sindacale con il Governo sarebbe un risultato molto importante, ma come sempre sarà il merito a decidere». Camusso si è detta possibilista sulla realizzazione di una piattaforma comune con Cisl e Uil: «Ci sono temi forti – ha detto – sui quali sembra esserci sintonia, a partire dalle posizioni espresse sulla riforma del mercato del lavoro, la riforma fiscale, il giudizio sulle pensioni e più in generale quello sulla manovra». Il documento dei sindacati per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e fiscale Pubblichiamo il testo integrale del documento presentato al governo Monti da Cgil-Cisl-Uil Roma, 17 gennaio 2012 La gravità della crisi economica che attraversa il Paese e le conseguenze negative che colpiscono in particolare le famiglie, i giovani, i lavoratori e i pensionati impongono un cambiamento nella politica economica del Governo il quale dopo la manovra di fine 2011 per consolidare i conti pubblici e rientrare dal deficit bilancio è chiamato ora a mettere in atto politiche che favoriscano la crescita, il lavoro, l’equità sociale e fiscale, a sostenere una svolta coerente della politica economica europea verso obiettivi di sviluppo e occupazione (Eurobond, tassa sulle transazioni finanziarie e governo politico). A questo fine Cgil-Cisl-Uil chiedono l’apertura di un confronto tra le parti sociali ed il Governo sulla base delle proposte che vengono avanzate con l’obiettivo prioritario di invertire la pericolosa tendenza recessiva in atto da alcuni mesi e di realizzare al più presto, l’obiettivo di far ripartire la crescita. In questo ambito vanno create tutte le condizioni necessarie per rilanciare con l’impegno di tutti i livelli istituzionali nei tempi più solleciti, gli investimenti infrastrutturali materiali ed immateriali, nei trasporti, nelle reti energetiche, nella manutenzione e difesa del suolo, nell’innovazione, nella ricerca, utilizzando a questo fine tutte le risorse pubbliche disponibili, coinvolgendo le imprese e i capitali privati, sbloccando il patto di stabilità negli Enti Locali per gli investimenti ed ottimizzando l’utilizzo dei Fondi nazionali ed Europei per il Mezzogiorno. Particolare importanza potranno avere in questo quadro la definizione di intese sindacali che in base a quanto previsto nell’accordo interconfederale del 28 giugno/21 settembre possano definire l’avvio di nuovi investimenti produttivi e nuova occupazione, a partire dalla soluzione delle numerose crisi aziendali e settoriali, per le quali è comunque essenziale un maggior coinvolgimento del Governo e degli imprenditori. Prioritariamente al rilancio dello sviluppo vanno altresì finalizzate le liberalizzazioni, per le quali il Sindacato Confederale richiede al Governo un confronto di merito affinchè vengano definite caratteristiche di omogeneità nei diversi ambiti, una maggiore concorrenzialità del sistema economico e le condizioni per realizzare nuovi investimenti e occupazione, in particolare nel settore dei servizi pubblici locali, con il miglioramenti dei servizi e la riduzione dei costi a vantaggio dei cittadini. La difficile situazione occupazionale rende necessario mettere all’ordine del giorno l’attuazione di un piano per il lavoro, a partire dall’emergenza della disoccupazione giovanile e femminile, particolarmente accentuata nel Mezzogiorno e dalla necessità di reimpiegare le centinaia di migliaia di lavoratori ancora coinvolti dagli ammortizzatori sociali. A questo fine verranno presentate nell’imminente confronto con il Ministro del Lavoro le proposte del Sindacato Confederale in materia di incentivazione per nuova occupazione, per tutelare maggiormente il lavoro flessibile, per riordinare ed estendere il sistema degli ammortizzatori sociali, per una revisione e una gradualizzazione degli interventi di fine 2011 in campo previdenziale, in particolare quelli a maggiore impatto negativo sulla situazione occupazionale e le prospettive di vita e di reddito delle persone. In aggiunta e in conseguenza alle diffuse difficoltà occupazionali, si è determinato nel Paese un processo progressivo ed inesorabile di perdita del potere di acquisto delle retribuzioni e delle pensioni, accentuato dalle manovre restrittive sul bilancio realizzate nel 2011 che hanno inciso pesantemente in materia di costo dei carburanti, di incremento della fiscalità locale e addizionali regionali, di aumento delle imposte sulla prima casa e dell’Iva, mancata rivalutazione delle pensioni ed hanno fatto aumentare in modo preoccupante situazioni di difficoltà economica e sociale per milioni di persone. È necessario pertanto operare un forte intervento a sostegno di salari, stipendi e pensioni oltre che per rispondere ad un’emergenza sociale da tutti riconosciuta, anche per dare un contributo decisivo al rilancio della domanda interna, indispensabile per far tornare a crescere la nostra economia. In questo quadro Cgil-Cisl-Uil ritengono indispensabile che il Governo realizzi in tempi brevi un intervento di riduzione del carico fiscale a beneficio dei lavoratori, dei pensionati, delle famiglie da finanziare con gli introiti a ciò appositamente destinati di una sempre più efficace azione di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale, nell’ambito di una più organica riforma fiscale di carattere generale che preveda una imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari, così da realizzare una redistribuzione più equa della pressione fiscale sui cittadini, a vantaggio del lavoro, delle pensioni, delle famiglie. Ai fini del sostegno della produttività del sistema economico vanno resi strutturali e migliorati la detassazione e la decontribuzione del salario di produttività tramite la contrattazione collettiva aziendale e territoriale e resi maggiormente selettivi gli incentivi e gli sgravi fiscali per le imprese ancorandoli maggiormente all’innovazione tecnologica ed organizzativa, all’incremento dell’occupazione, alla crescita della produttività, alla finalizzazione di comportamenti socialmente responsabili, promuovendo anche per tale via l’avanzamento della specializzazione e della modernizzazione del nostro sistema economico. Le politiche di controllo selettivo della spesa pubblica sono un’occasione irripetibile per una riorganizzazione complessiva della pubblica amministrazione improntata ai criteri di una maggiore efficienza, della riduzione delle disfunzioni e degli sprechi, della valorizzazione degli operatori del servizio pubblico attraverso la negoziazione con le organizzazioni sindacali che preveda anche una redistribuzione a favore dei lavoratori delle economie di gestione. Analogo criterio deve riguardare la salvaguardia e la qualità della spesa per lo Stato sociale che attraverso la definizione dei costi standard nella gestione e dei livelli essenziali delle prestazioni sociali garantisca la continuità e l’uniformità su tutto il territorio del servizio sanitario nazionale, dell’assistenza e delle politiche sociali, in particolare realizzando la necessaria tutela della non –autosufficenza. Cgil-Cisl-Uil sollecitano quindi il Governo ad aprire sul tema della crescita e dell’equità sociale e fiscale un confronto con le parti sociali ed avanzano le loro proposte specifiche in materia di lavoro, previdenza e liberalizzazioni. Mercato del lavoro Dopo tre anni di crisi e con la prospettiva di un 2012 che si preannuncia di recessione economica, è necessario un piano organico per dare sostegno all’occupazione, in particolare con strumenti rivolti ai giovani, alle donne, agli over 50 e al reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione e ai disoccupati, valorizzando, con le necessarie correzioni, gli istituti esistenti che promuovono ed incentivano il lavoro stabile. Contemporaneamente vanno ridotte e semplificate le altre tipologie di lavoro flessibile, armonizzando costi e tutele. Nel contempo vanno assicurate le risorse per gli ammortizzatori sociali in deroga anche nel 2012 e successivamente va realizzato un riordino del sistema che permetta di assicurare in via ordinaria le tutele a tutte le dimensioni di impresa nei diversi settori e a tutte le tipologie contrattuali, in stretto collegamento con il rafforzamento delle politiche attive del lavoro. A tal fine si ritiene utile proporre di utilizzare il percorso connesso alle deleghe approvate dal Parlamento (leggi 247/07 e 183/10) in materia di ammortizzatori sociali e riordino degli incentivi per l’occupazione e servizi per l’impiego. Tipologie d’impiego: promuovere la buona occupazione Nel ribadire che il contratto a tempo indeterminato è la forma comune d’impiego, vanno incentivate le tipologie contrattuali che promuovano il lavoro stabile: - Generalizzare l’utilizzo del contratto di apprendistato professionalizzante come canale ingresso al lavoro per i giovani e il contratto di inserimento per il reimpiego dei lavoratori in disoccupazione, per l’occupazione femminile nelle aree ad alta disoccupazione e per gli over 50. Per entrambe queste forme si propone di incentivare ulteriormente, per via fiscale e contributiva, le trasformazioni a tempo indeterminato - Favorire il part-time per la conciliazione tra lavoro e famiglia, e anche per governare fasi di crisi: vanno incentivati/disincentivati i part-time lunghi/brevi, in attuazione della già citata delega e va rilanciato il ruolo della contrattazione, specie di 2° livello, in caso di ricorso a clausole elastiche e flessibili. - Rafforzare e rendere immediatamente esecutivo il credito di imposta occupazione per il Mezzogiorno. Vanno attivati percorsi che incentivino la trasformazione di contratti di lavoro oggi impropriamente utilizzati (lavoro a progetto, associati in partecipazione, false partite iva, tirocini) in queste forme tendenzialmente rivolte verso la stabilizzazione. Tipologie di impiego: semplificare il lavoro flessibile Per contrastare gli abusi ricorrenti che riguardano le tipologie di lavoro flessibile, va introdotto il principio generale della parificazione dei costi contrattuali e contributivi rispetto al lavoro subordinato a tempo indeterminato, maggiorati di una quota per gli ammortizzatori sociali, sul modello del lavoro somministrato, che in via generale potrebbe riassorbire molte delle tipologie contrattuali esistenti. Inoltre, in termini più specifici: - Per il contratto a tempo determinato che esplica una sua funzione soprattutto nella stagionalità, va prevista una semplificazione riguardo alla durata, salvo il caso del lavoro stagionale, e ad un tetto fissato dai Ccnl - Lavoro parasubordinato: va ricondotto alla contrattazione collettiva di settore per quanto riguarda le condizioni per ricorrervi (la definizione di un reddito annuo al di sotto del quale non sia consentito assumere con queste tipologie di contratto) nonché per la definizione dei compensi e di un massimale di utilizzazione di tali rapporti in relazione alla dimensione d’impresa. Si ritiene inoltre opportuno rivedere le direttive Ministeriali inerenti l’attività ispettiva in materia di controllo del lavoro autonomo e parasubordinato. Per il 2012 si pone il problema di garantire ai collaboratori a progetto una misura adeguata di salvaguardia reddituale, intervenendo sul testo attualmente presente nel ”decreto milleproroghe” - Voucher (lavoro accessorio): limitarne il ricorso attraverso la riduzione delle tipologie dei committenti e dei prestatori, fissare un riferimento al compenso orario, prevedendo che tali compensi siano utili, nel caso di cittadini stranieri, al raggiungimento del reddito minimo necessario per l’ottenimento del rinnovo del permesso di soggiorno; - Tirocini: fermo restando il riparto di competenze tra Stato e Regioni previsto dal Titolo V della Costituzione, si propone di ricondurre la fattispecie all’interno delle attività curricolari dell’istruzione anche universitaria Ammortizzatori sociali e servizi all’impiego - Utilizzando i criteri presenti nelle deleghe già citate, è necessario un riordino che dopo la positiva stagione degli ammortizzatori in deroga preveda un sistema fondato su uno schema assicurativo con un contributo da parte di tutte le imprese ed una valorizzazione della bilateralità contrattuale, puntando all’estensione degli ammortizzatori sociali a tutte le tipologie di lavoro ed a tutte le dimensioni d’azienda. Il sistema dovrà essere fondato su due strumenti, indirizzati alla salvaguardia del reddito dei lavoratori sia in caso di sospensione per situazioni di crisi/difficoltà di natura temporanea o strutturale dell’impresa (CIG), sia in caso di avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro, con indennità di mobilità e/o indennità di disoccupazione, prevedendo per quest’ultima un graduale incremento; - vanno confermati e valorizzati i Contratti di solidarietà quale strumento alternativo alla messa in mobilità o ai licenziamenti - vanno ridefiniti i requisiti di accesso per la fruizione degli ammortizzatori sociali, affinché il sistema sia maggiormente rispondente ai giovani e a chi rientra nel mondo del lavoro - Va data sostanza alla condizionalità già prevista dall’attuale normativa, potenziando per tutti gli ammortizzatori sociali le politiche attive finalizzate al reimpiego, con un rafforzamento dell’azione dei servizi per l’impiego e delle sinergie tra servizi pubblici e privati, nonchè tra gli attori preposti alle politiche passive e quelli che sono responsabili di quelle attive, attraverso un miglior utilizzo delle risorse comunitarie. Pubblico Impiego Gli esiti del confronto con il Governo sul mercato del lavoro verranno recepiti nel documento di Cgil-Cisl-Uil per la trattativa sulla regolazione del lavoro nel settore pubblico. Emergenze sociali È necessario intrecciare la discussione sulle prospettive con una valutazione accorta delle misure per fronteggiare le emergenze sociali di cui si indicano di seguito solo i titoli: - per i lavoratori in cig / mobilità colpiti dall’allungamento della vita lavorativa disposto dalla legge 214/11, va garantita la salvaguardia dei previgenti requisiti pensionistici o, quantomeno, la garanzia del prolungamento delle indennità di sostegno al reddito; - nell’attuale fase di emergenza, in attesa del riordino degli ammortizzatori sociali, va affrontato, in via derogatoria, il problema delle tutele per quanti esauriscono, oltre alla cassa integrazione e alla mobilità, anche l’indennità di disoccupazione. - per i cittadini stranieri va stabilita la fruizione degli ammortizzatori sociali alle stesse condizioni dei lavoratori italiani, prevedendo che le indennità di sostegno al reddito siano utili ai fini del rinnovo dei permessi di soggiorno, i quali vanno inoltre allungati ad un anno in caso di perdita di lavoro e impossibilità di accedere agli ammortizzatori sociali; vanno poi previsti per gli stranieri in condizione di irregolarità percorsi di emersione dal lavoro sommerso, anche attraverso interventi di regolarizzazione individuale ed in sintonia con lo spirito della direttiva 2009/52/CE; - integrare e coordinare le diverse attività ispettive, intrecciando le funzioni lavoristiche e previdenziali con quelle fiscali (banche dati e risorse umane); - ripristinare una politica inclusiva nei confronti dei lavoratori disabili; - ripristinare strumenti di contrasto alle dimissioni in bianco. Previdenza La sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico resta legata alle dinamiche future di crescita e sviluppo del Paese e all’andamento dell’occupazione. Le recenti misure contenute nel provvedimento varato nello scorso mese di dicembre devono essere modificate perchè sono intervenute in modo insostenibile ed iniquo sulla struttura dei diritti previdenziali di milioni di persone senza nessuna gradualità. Si è realizzato un intervento volto solo a fare “cassa”, prelevando ingenti risorse dai lavoratori e dai pensionati, determinando così gravi ripercussioni anche sul mercato del lavoro, stante l’attuale situazione di difficoltà occupazionale. Siamo, infatti, di fronte ad una vera e propria emergenza per cui è necessario, da subito, prevedere deroghe ed esenzioni per sostenere chi espulso dai sistemi produttivi rimane senza lavoro e senza alcuna fonte di reddito. È necessario monitorare e stimare se le risorse per la copertura delle esenzioni e delle deroghe dall’applicazione della nuova disciplina previdenziale (comma 14 e 15 articolo 24) risulteranno idonee a coprire tutte le esigenze che si porranno per i lavoratori disoccupati che concluderanno il periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali, per i lavoratori collocati in mobilità, mobilità lunga, in esodo (anche volontario), a carico dei fondi di solidarietà di settore, autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione e in esonero ex art. 72 c. 1 D.L n. 112/2008. Va data una risposta ai lavoratori che abbiano sottoscritto la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro per effetto di accordi che tenevano conto dei requisiti pensionistici previgenti e che oggi si vedono, di colpo, posticipare i requisiti per l’accesso al pensionamento. Al tempo stesso ai fini dell’accesso al pensionamento anticipato con il requisito contributivo è necessario eliminare, qualsiasi forma di penalizzazione per ogni anno di anticipo rispetto ai 62 anni, così come l’aggancio del medesimo requisito all’aumento dell’aspettativa di vita. Si potrebbe anche sperimentare il part – time negli ultimi anni di lavoro (con una maggiorazione incentivante della relativa copertura figurativa), rendendo più sostenibile l’allungamento di età di accesso alla pensione. Così come, stante il disagio provocato, prevedere l’esenzione delle norme sull’uso del contante nel pagamento delle pensioni o l’azzeramento dei costi per l’erogazione delle stesse. Per Cgil, Cisl e Uil rimangono però da affrontare anche i temi relativi all’assetto di sistema della previdenza, cosi come disegnato dalla manovra. Alle norme approvate va, infatti, restituito un carattere di gradualità, senza il quale l’impatto sulle condizioni di vita e di lavoro delle persone, nonché sull’occupazione dei giovani risulta particolarmente pesante. Occorre, inoltre, realizzare una maggiore gradualità nell’aumento dell’età anagrafica prevista ai fini dell’accesso al pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici sia private che pubbliche e riconoscere a tutti i lavoratori una maggiore gradualità nell’abolizione delle cosiddette “quote” – somma di età anagrafica ed età contributiva – per l’accesso al pensionamento. Va estesa anche ai lavoratori del settore pubblico la norma che consente l’accesso al pensionamento ai 64 anni per tutti coloro che maturino i requisiti pensionistici entro il 31/12/2012. Bisogna, inoltre, prevedere un aggiornamento della normativa sui lavori particolarmente faticosi e pesanti – d.lgs. n. 67/2011 – ampliando la platea dei potenziali beneficiari. Cgil, Cisl e Uil ritengono anche che vada affrontato il problema della progressiva perdita del potere di acquisto subita dai trattamenti pensionistici in essere, a cominciare da quelli di importo più basso. Soprattutto per i lavoratori più giovani è indispensabile promuovere e rilanciare lo sviluppo della previdenza complementare, mediante misure che la rendano effettivamente disponibile ed accessibile ai lavoratori in tutti i settori, a partire da quelli pubblici ai quali va estesa la stessa normativa fiscale già prevista nel “privato”, senza contestualmente determinare ulteriori riduzioni della copertura pensionistica assicurata dalla previdenza pubblica. È importante continuare il processo di armonizzazione dei regimi previdenziali e delle diverse aliquote contributive e tramite il ricorso ad un’ulteriore contribuzione di solidarietà proporzionale ai maggiori benefici ottenuti in passato (anche in termini di pensionamento anticipato) a carico dei soggetti con trattamenti pensionistici di importo molto elevato. Cgil, Cisl e Uil ritengono necessario aprire un confronto sulla struttura e sulla governance del nuovo Ente previdenziale, al fine di garantire l’obbiettivo di una vera efficienza e trasparenza, oltre che di salvaguardia dei livelli occupazionali. Obiettivi da realizzarsi attraverso la predisposizione di un piano industriale condiviso e l’affermazione di governance effettivamente duale. Liberalizzazioni Le liberalizzazioni possono essere di sostegno alla crescita del Paese a condizione che non si traducano in un’azione indistinta, incoerente e improvvisata frutto di una lettura affrettata ed ideologica della realtà. Va ricordato che liberalizzare non significa automaticamente privatizzare, ed inoltre un settore liberalizzato ha mediamente più bisogno di regole chiare e trasparenti, visto che buona parte della difficile situazione attuale discende da una palese e dimostrata incapacità del mercato ad autoregolarsi spontaneamente. Liberalizzare significa inoltre interagire con il lavoro e, molto spesso, con la sfera dei diritti di cittadinanza di milioni di persone. Per questo motivo è indispensabile che il Governo apra subito un tavolo di confronto con le parti sociali. I processi di liberalizzazione –che devono puntare all’obiettivo di ampliare il mercato dei servizi – diventano elementi forti per lo sviluppo complessivo del Paese se determinano una sana concorrenza che rispetti le regole e il lavoro, se si traducono in un vero vantaggio, in termini di prezzi e qualità dei servizi per i cittadini. Alla base di questo vi sono condizioni che riteniamo fondamentali: 1. il mantenimento della proprietà pubblica degli Asset strategici che esercitano un ruolo fondamentale, in quanto infrastrutture nodali per il Paese ed elemento cardine del Welfare. L’acquisizione da parte del Tesoro della società Rete Ferroviaria Italiana spa appare, così come si legge nella Bozza del decreto, troppo a discapito di Trenitalia e pertanto va meglio verificata la sua gestibilità; 2. i processi di liberalizzazione non devono mettere in discussione i servizi universali, che rappresentano i veri diritti di cittadinanza a prescindere dalle condizioni socioeconomiche e geografiche. Questo riguarda, in particolare, come si legge nella bozza del decreto, Poste Italiane e la Rete regionale Ferroviaria; 3. il rispetto dei ccnl di settore e la tutela del lavoro. In particolare la funzione dei contratti di settore è importante per evitare il dumping contrattuale che potrebbe derivare dall’apertura del mercato a più soggetti, creando così, oltre che un danno al lavoro, una concorrenza sleale a scapito delle imprese sane. È indispensabile, inoltre, dotare di adeguati ammortizzatori sociali tutti i settori coinvolti nei processi di liberalizzazione, rendendoli strutturali e omogenei per tutte le categorie, finalizzandoli anche alla formazione e alla riqualificazione professionale; 4. il rispetto delle competenze istituzionali a tutti i livelli, in particolare a quelle definite dall’art. V della Costituzione, anche in riferimento agli orari degli esercizi commerciali già fortemente liberalizzati per le aperture domenicali dalle manovre di questi ultimi mesi e addirittura liberalizzati nell’orario notturno dall’ultima manovra, creando fortissime ripercussione sulle lavoratrici e sui lavoratori del settore, al di fuori di ogni regolamentazione contrattuale; 5. per quanto riguarda i Servizi pubblici locali è indispensabile l’accorpamento delle società di servizio, al fine di ridurne il numero e realizzare, così, la costituzione di imprese dimensionalmente più grandi in grado di competere sul mercato, rispondenti agli ambiti o bacini ottimali del servizio come elemento di virtuosità premiante dal punto di vista degli investimenti pubblici. I nuovi assetti dimensionali devono prevedere nell’azionariato diffuso dei cittadini e nella partecipazione dei lavoratori, forme di nuova governance più partecipativa e vicina al cittadino-consumatore. Anche il tema degli investimenti, così, può trovare positivi sviluppi; 6. estensione dell’abolizione delle tariffe minime a tutte le categorie, in maniera omogenea e trasparente, in modo che ne derivi un vantaggio per i cittadini, ma anche un’apertura per tanti giovani alle professioni interessate. Infine, per garantire e controllare tutto il processo di liberalizzazione vanno rafforzate e istituite, laddove necessario, le Autorità di vigilanza che – mantenendo la loro indipendenza e autonomia economica – devono esercitare reali poteri sanzionatori, essere in grado di vigilare sulla qualità dei servizi, sulla politica tariffaria e garantire il primato della pubblica utilità sulle esigenze privatistiche. Intervista ad Anna Finocchiaro. «Cancellare subito la vergogna delle dimissioni in bianco» La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare l’articolo 18. Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra dovrà cedere all’indignazione» di Maria Zegarelli (l’Unità, 21 gennaio 2012) Un appello alla ministra Elsa Fornero lanciato da 14 donne e subito sottoscritto da altre 188, proprio il numero di quella legge contro le dimissioni in bianco che il governo Berlusconi ha cancellato. E poi, un passaggio del discorso del segretario Pd, durante l’Assemblea di ieri, affinché sul tavolo di lavoro per la riforma del mercato entri in primo piano anche il ripristino di quelle norme di civiltà spazzate via proprio mentre la crisi, che il centrodestra ha negato fino alla scorsa estate, logora posti di lavoro e quelli delle donne un po’ di più. Anna Finocchiaro, capogruppo dei democratici al Senato dice che la questione «non è tornata al centro dell’attenzione, perché per il Pd c’è sempre stata». Presidente, tante dichiarazioni di intenti, ma la legge ancora non c’è. Adesso l’appello trasversale di moltissime donne al ministro. E il Parlamento? «Questa è una battaglia che noi democratici non abbiamo mai abbandonato. La reintroduzione del divieto di dimissioni in bianco è stata oggetto di nostri interventi in Aula, di emendamenti, sempre bocciati dal centrodestra, e proposte di legge sia alla Camera sia al Senato. Sono state soprattutto le senatrici e le deputate a tenere sempre alta l’attenzione su questo tema e lo dico non per fare una rivendicazione fine a se stessa, ma per ribadire che questa battaglia, che ritorna oggi di attualità sui media, grazie anche a questo appello di tante donne impegnate in politica, nel sindacato, nel mondo dello spettacolo e della cultura, che io stessa ho sottoscritto, il Pd non ha mai smesso di combatterla». Non ripristinare quella legge potrebbe essere ancora più drammatico per le donne, ma anche per gli uomini, con l’acuirsi della crisi e la recessione in atto. Perché aspettare? «Di fronte all’incalzare della crisi e all’ulteriore mortificazione dei diritti del lavoro, la questione è di assoluto rilievo. Per evitare la pratica delle dimissioni in bianco non ci vogliono meccanismi complicati né costi aggiuntivi. Lo strumento c’è, è quello sperimentato nel 2006 dal governo Prodi: le dimissioni vanno compilate in moduli con numeri progressivi e non possono avere una data che vada più indietro dei 15 giorni dal momento della presentazione. Non c’è motivo per rinviare, la discussione della norma va messa immediatamente all’ordine del giorno sia alla Camera che al Senato». La domanda è: perché il centrodestra dovrebbe dire sì oggi quando ha detto no fino a ieri? «Perché potrebbe cominciare a vergognarsi se non lo facesse e a far crescere il senso di vergogna sarebbe quel sentimento di indignazione che sta crescendo tra gli uomini e le donne di questo Paese. Quella norma, infatti, riguarda tutti e aggiungo che lo strumento delle dimissioni in bianco è un modo di aggirare l’articolo 18». Il governo dice che per ora l’articolo 18 non è all’ordine del giorno. Se dovesse tornarci, il Pd riuscirebbe a trovare una sua posizione? «Per quanto riguarda il Pd l’articolo 18 non è in discussione e non è discutibile. Io starei però attenta perché, mentre vedo che monta il dibattito su una presunta e ipotetica volontà del governo di modificarlo, non noto altrettanta attenzione alle decine e decine di posti di lavoro che saltano ogni giorno». Il Pd appoggia questo governo con lealtà senza rinunciare a dire la propria, ha spiegato Bersani. Insomma, ci siete ma non siete il governo. «Noi siamo leali e lo dimostriamo ogni giorno in Parlamento. Lo siamo soprattutto perché non rinunciamo, nelle sedi appropriate, a rappresentare le nostre posizioni, i nostri rilievi e la posizione del nostro partito sulle questioni che stiamo affrontando e che affronteremo in futuro. Né, d’altra parte, ci si può aspettare di meno dal più grande partito italiano e da una forza seria e responsabile che appoggia questo governo ma che si candida a guidare il prossimo». Con chi lo guiderete? Bersani su questo non si è sbilanciato. «Noi lo guideremo, questo è sicuro perché nessuna alleanza si crea a prescindere da noi. Vediamo chi vorrà condividere il nostro progetto di Paese». Però nel Pd c’è chi chiede un congresso anticipato per decidere la linea politica anche in vista delle elezioni. «Non vedo dove sta il problema. Un congresso del Pd non è come un congresso della Lega, siamo abituati a farli e se la maggioranza lo chiede non vedo perché non si dovrebbe fare. Mi fa aggiungere un’ultima cosa?». Cosa vuole aggiungere? «Osservo che i congressi servono anche a consolidare le leadership che già ci sono, non soltanto a crearne di nuove». Intervista a Susanna Camusso. «Vogliono fare i liberisti colpendo il costo del lavoro» Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei servizi pubblici. Si torni a parlare sul serio di occupazione» di Oreste Pivetta (l’Unità 22 gennaio 2012) Che cosa chiederete al governo? Susanna Camusso, segretario della Cgil, “accantona” un attimo il tema liberalizzazioni e riprende la questione del lavoro che non c’è: «Chiederemo al governo di operare perché venga ripristinata una condizione in cui i giovani e i cinquantenni lasciati a casa dalle loro aziende in crisi non siano costretti a imboccare la via crucis della precarietà. L’abbiamo detto tante volte: rimettere al centro il lavoro». Le liberalizzazioni non creeranno appunto lavoro? «Intanto bisognerebbe conoscere il testo. Intanto andrebbero ridimensionati certi entusiasmi. L’enfasi mi sembra eccessiva. Non credo che liberalizzando si dia via libera a quell’aumento pronosticato dei salari del dodici per cento. Magari diminuirà qualche prezzo. Non credo neppure a certi automatismi, che prometterebbero aumento dell’occupazione, anche se ovviamente c’è del buono nel decreto legge. Un esempio? La separazione tra il soggetto che fornisce il gas e quello che gestisce la rete distributiva». Il cattivo sta forse nell’ennesimo attacco al contratto nazionale, questa volta quello dei ferrovieri, con l’idea di favorire la concorrenza? «Quando si parla di Ferrovie o di Poste bisognerebbe sempre pensare che si tratta di servizi pubblici, che devono quindi rispondere alle necessità della collettività, necessità che nel caso dei treni si chiamano mobilità, economicità, sicurezza. Da qualsiasi luogo, per qualsiasi luogo. Smobilitare il contratto nazionale ha un senso allora? Non c’è il rischio di peggiorare tutto? Vogliamo costruire una concorrenza che concorre solo agendo sulla voce costo del lavoro? Non mi sembrerebbe un gran segnale. Proviamo a prendere consiglio da chi con le liberalizzazioni e con le privatizzazioni s’è sperimentato prima di noi. E non certo con risultati brillanti». Ma i privati come li mobilitiamo? «Il governo dovrebbe chiamare i venti più importanti attori dell’economia italiana, chiedere loro che strategie si danno, chiedere loro progetti concreti, proporsi con autorevolezza per discuterli e, se sono validi, per agevolarli, secondarli, contribuire. Non si tratta di dare quattrini. Si tratta di garantire condizioni favorevoli, di coordinare. E in primo luogo chiamare alla responsabilità davanti a un Paese in crisi: chi può, faccia. Ovviamente se è capace…». Le agenzie di stampa hanno riferito una sua affermazione: «Le intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai». Conferma? «Come può capitare, s’è colta una battuta sottraendola al suo contesto. Torno all’osservazione di prima: eccesso di entusiasmo. Le liberalizzazioni non sono tutto e qualche volta sono sbagliate». Si riferiva agli orari dei negozi, ai taxi? «In un caso bisognerebbe pensare alla qualità della vita in Italia, piuttosto che sognare l’America, consentire la vita a una rete commerciale che significa anche socialità e non consegnare tutto alla grande distribuzione, valutando i costi sociali non solo economici di aperture lunghe, che costringerebbero probabilmente molti a rivalersi sui prezzi oppure a chiudere. A danno dei cittadini, comunque, di una cultura, di una tradizione che non sono sempre da buttare. Per quanto riguarda i taxi, riflettiamo sulle origini: in partenza ci sono le licenze, non possiamo pensare di cancellare di colpo quell’investimento. Magari le resistenze appaiono eccessive. Bisogna discutere per raggiungere un punto di equilibrio. In primo piano dovrebbero stare i bisogni reali. Altrimenti si fa solo vecchia ideologia». Liberista: come nel caso delle municipalizzate? «Certo, perché alla fine si trascura quello che dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale: l’efficienza e quindi la bontà del servizio. Aggiungo che in alcuni casi, come quello delle farmacie, siamo solo ad un ampliamento della base. Ci saremmo attesi altre novità». Dunque altro che “albero scosso”, bell’Italia dell’immagine dell’Italia che cambia. Domani il tavolo sulle questioni del lavoro. Lei raccomanda di non aver fretta… «Di non aver la fretta con la quale si è chiuso il capitolo delle pensioni, capitolo che non riteniamo assolutamente chiuso, perché troppe ingiustizie sono rimaste e in particolare è rimasta quella ingiustizia che colpisce appunto quella generazione di ultracinquantenni che ha risposto ad una crisi aziendale progettando un altro futuro con le carte in regola per la pensione entro pochi mesi o anni e che si è vista cancellare un diritto acquisito. Più in generale la garanzia di una vecchiaia decente riguarda l’intera società. Quindi credo che la discussione sulle pensioni vada ripresa con grande serietà. Qui parlerei anche di flessibilità». Che cosa vi aspettate che vi dica il professor Monti? «Il governo finora non ci ha detto nulla. In compenso ha letto di sicuro il documento di Cgil Cisl e Uil, in cui si chiedono investimenti per creare l’occupazione, che non cresce smobilitando le regole. Abbiamo apprezzato che siano stati sbloccati investimenti, abbiamo apprezzato l’attenzione sul Mezzogiorno. Abbiamo apprezzato molto quanto è stato realizzato nella lotta all’evasione. Ma vorremmo che questa volontà s’applicasse anche nei confronti del lavoro sommerso». Altra “voce”, di cui molto si è discusso, anche nel Partito democratico: gli ammortizzatori sociali. Si andrà a un cambiamento? «Siamo in un Paese in recessione e dobbiamo rispondere all’emergenza. Non ci sono soldi per grandi riforme, per modelli danesi o altro. La cassa integrazione è peraltro un istituto di grande valore, anche ideale: è nata per mantenere un legame tra lavoratore e posto di lavoro. Il dovere è di garantirla a chi ne è privo. Prima di parlare d’altro». Oggi il tavolo sulla riforma del lavoro. Fornero vuole cause di lavoro-lampo Incontro governo-parti sociali, l’idea dell’esecutivo è quella di rendere standard gli indennizzi di Fabio Martini (lastampa.it, 23 gennaio 2012) È la terza tappa. Ma il Professore la considera strutturale esattamente come le prime due (il «Salva» e il «Cresci-Italia») e dunque già da qualche giorno Mario Monti aveva informalmente disposto un’«apparecchiatura» da grandi occasioni per il tavolo che stamattina aprirà la trattativa per ridisegnare il mercato del lavoro nel nostro Paese. Una settimana fa il presidente del Consiglio aveva informato i ministri di «volere essere presente» all’avvio della discussione e di voler aprire non solo simbolicamente il tavolo attorno al quale si ritroveranno le parti sociali. E dunque si parte a palazzo Chigi, alle 10, nella Sala Verde (l’ampio salone dalla tappezzeria e dalle sedie verdi, dove si svolgono le riunioni più affollate) con un’introduzione del presidente del Consiglio, che poi lascerà la riunione per trasferirsi all’Eurogruppo di Bruxelles, il summit dei ministri economici dell’Eurozona e lì potrà ragionevolmente annunciare di aver appena aperto una trattativa che si concluderà anche questa – come i due decreti già approvati – con la terza riforma strutturale del suo governo. A discutere con le parti sociali, Monti lascerà ben quattro ministri, secondo un format che sempre lui ha chiesto: oltre ad Elsa Fornero, titolare della materia in discussione, ci saranno anche il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, il ministro dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo, il viceministro Vittorio Grilli. Una squadra che corrisponde alla filosofia che Monti stesso ha tenuto a sottolineare durante l’intervista televisiva rilasciata a Lucia Annunziata in «Mezz’ora». Alla giornalista che insisteva per avere una risposta da «titolo» sulla questione dell’articolo 18, Monti ha replicato che in qualche modo la «notizia» l’aveva già data, collegando la questione lavoro alla crescita: «Tutto si lega, perciò più noi agiamo sugli altri fattori e meno abbiamo bisogno di agire sul lavoro. Ma attenzione: rimane vero che il lavoro resta comunque una quota molto, molto grande nei costi di produzione». Dunque, una riforma urge e si farà. Naturalmente la trattativa nelle prossime settimane sarà condotta dal ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di cui Monti apprezza la forte personalità e la proverbiale competenza, ma il forte investimento del premier sulla questione è come se aprisse la strada, quantomeno nella vulgata giornalistica, ad una doppia attribuzione, una sorta di riforma Monti-Fornero. Nella prima riunione il ministro Fornero si limiterà ad indicare gli obiettivi generali della riforma, ascolterà le parti e concluderà la riunione, aprendo tre tavoli, uno sulle assunzioni, uno sulla formazione, uno sugli ammortizzatori sociali. Non è oggi che matureranno sorprese. Ma dietro le quinte stanno maturando novità. La più interessante finora inedita – la stanno elaborando il ministro Fornero e i suoi tecnici. E riguarda i lunghi contenziosi susseguenti alle cause da licenziamento regolate dall’articolo 18. Si sta studiando la possibilità di formalizzare procedure accorciate che consentano di abbreviare drasticamente i tempi delle cause da lavoro, che attualmente si possono prolungare fino a 5-6 anni. Con costi per le aziende e incertezze per il lavoratore. E dunque, si va verso tempi e risarcimenti standardizzati, non è ancora chiaro se affidando il contenzioso a sezioni specializzate della magistratura. Una soluzione che, sulla base dei primi contatti informali con le parti sociali, potrebbe andar bene sia alle imprese che ai sindacati. Ma a palazzo Chigi sanno bene che su tutto questo dossier ci saranno i fucili puntati, oltreché delle parti sociali, anche dei due principali partiti della maggioranza. Dice Giuliano Cazzola, pdl, nei giorni scorsi consultato informalmente dal ministro: «Al governo consiglio di non dimenticare che esiste una Delega ancora aperta, nel Collegato lavoro, che consente all’esecutivo di fare qualsiasi riforma, risparmiandomesi di attività legislativa. E sconsiglio di abbandonarsi alla retorica del contratto unico: situazioni lavorative differenti non possono essere ricondotte ad un’unica fattispecie». Sostiene Paolo Nerozzi, senatore Pd, già alto dirigente Cgil: «Attenzione, stavolta la piattaforma sindacale oltreché credibile è realmente unitaria: non si dimentichi che, da Amato a Dini, con la concertazione siamo andati in Europa, senza ne stavamo uscendo». Tre proposte sul tavolo per riformare il lavoro L’obiettivo: rilancio del Pil cercando nuove regole di Roberto Bagnoli (corriere.it, 23 gennaio 2012, 8:27) Giovani, occupazione, crescita, redditi. Oggi a Palazzo Chigi partirà un confronto che per importanza e intensità di attese è come quello del 1993 quando al governo c’erano ancora dei tecnici, quella volta guidati da Carlo Azeglio Ciampi. Ma la missione è molto diversa: allora si trattava di contenere il costo del lavoro, adesso di rilanciare il Pil con nuove regole sul mercato del lavoro. Più flessibilità ma anche salari più ricchi per sostenere i consumi. Tutti, governo, imprenditori e sindacati fanno sapere di essere pronti al confronto, purché sia vero, costruttivo, depoliticizzato e aperto al dialogo. Sul tavolo, come ha spiegato ieri il premier Mario Monti, ci sarà innanzitutto «la semplificazione, con la riduzione delle segmentazioni» e con un’attenzione particolare ai giovani e «al miglioramento qualitativo del loro ingresso nel mondo del lavoro». Si partirà quindi con ogni probabilità dalla diminuzione del numero dei contratti per l’ingresso nel mercato del lavoro, dall’aumento della produttività media e dei salari reali, dalla ripresa dell’occupazione e dalla riorganizzazione degli ammortizzatori sociali. Nessun tabù – è stato lo stesso Monti a ribadirlo – sull’articolo 18 anche se la questione, già esclusa dai sindacati, non dovrebbe essere oggetto del primo round di trattativa. La Confindustria, con le parole del presidente Emma Marcegaglia, in questi giorni si è appellata più volte al senso di responsabilità di tutti e si augura un dialogo costruttivo con il sindacato. Per il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, occorre un «confronto vero». Ma lasciando cadere la discussione sull’articolo 18 «considerato dai sindacati nella categoria dei diritti e non dei problemi». Per la Cgil non c’è dunque nessuna ragione per intervenire su questo tema. A «costo zero» Solo tempo indeterminato, ma le tutele sono graduali La riforma del mercato del lavoro proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi si caratterizza per essere a costo zero, perché è rivolta a tutti (non solo ai giovani) e perché prevede sin da subito un contratto a tempo indeterminato anche se per i primi tre anni viene sospesa quella parte dell’articolo 18 che prevede il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Il meccanismo di base di questa proposta, presentata in Senato un anno fa e firmata anche da Franco Marini e Paolo Nerozzi, prevede che nei primi tre anni le tutele crescano gradualmente con la durata dell’impiego fino a rendere oneroso il licenziamento: alla fine del triennio l’imprenditore che decide di liberarsi del dipendente gli deve riconoscere 6 mensilità. Se lo conferma, automaticamente si estendono tutti i diritti previsti dall’articolo 18. Questo contratto, che vale solo per i nuovi assunti, diventa «unico» ma non prevede l’abolizione di altri contratti. Solo, li rende meno convenienti. Per esempio quelli a tempo determinato (stagionali esclusi) si trasformano automaticamente nell’«unico» se la paga annua è inferiore a 25 mila euro lordi che salgono a 30 mila nel caso dei parasubordinati con monocommissione (esclusi praticanti negli studi dei professionisti). Nel disegno di legge è contemplato anche un salario orario minimo garantito, che un’apposita commissione dovrà individuare. Volutamente nella proposta Boeri-Garibaldi non ci sono riferimenti alla riforma degli ammortizzatori sociali con l’indennità di disoccupazione per tutti. La decisione si spiega con la filosofia di base con la quale è stata progettata la proposta: quella del «costo zero». Le risorse sono quelle che sono e, come si legge nel loro libro Riforme a costo zero , «le agevolazioni fiscali nel mondo del lavoro hanno sempre creato distorsioni del mercato». Flexicurity Il «modello danese», elastiche l’entrata e l’uscita Il modello del giuslavorista Pietro Ichino, proposto in un disegno di legge presentato al Senato nel 2009, si basa sul concetto di «flexicurity». I lavoratori, tutti non solo i giovani, accettano un contratto di lavoro a tempo indeterminato ma reso più flessibile con una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale. Al termine di un periodo di prova di sei mesi, il lavoratore viene assunto ma perde la protezione totale dell’attuale articolo 18: solo nel caso di licenziamenti per motivi economici od organizzativi (non quelli indiscriminati) il lavoratore incassa un’indennità che può arrivare fino a un massimo di 18 mesi di stipendio. Contestualmente viene creata una assicurazione complementare contro la disoccupazione (oltre agli attuali strumenti) che porta l’assegno del senza lavoro a un livello paragonabile a quelli scandinavi. La durata è pari al rapporto intercorso con l’impresa con un limite massimo di tre anni e una copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione decrescente nei successivi due anni fino al 70%. La condizione per mantenere questo sussidio è che il lavoratore non si rifiuti di accettare le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione. Le imprese si accolleranno il costo dell’assicurazione e dei servizi collegati, affidati a enti bilaterali costituiti di comune accordo con i sindacati, il cui costo medio complessivo Ichino lo stima in circa 0,5% del monte salari. Il principio di base è che più rapida è la ricollocazione del lavoratori più basso è il costo del sostegno a carico delle imprese. La proposta Ichino è stata finora apprezzata dall’ex leader del Pd, Walter Veltroni, e dall’ex responsabile economia Enrico Morando ma respinta da Bersani e Fassina. La proposta di legge è stata firmata anche da esponenti del Pdl e ha trovato condivisioni in Confindustria. Apprendistato Uno strumento «misto» contro la disoccupazione L’apprendistato sembra al momento lo strumento più idoneo per affrontare senza tanti stravolgimenti normativi il problema della disoccupazione giovanile. Sul suo rafforzamento e maggiore estensione per renderlo davvero fruibile a tutte le categorie di lavoratori c’è il sostanziale accordo dei sindacati e anche della Confindustria. Anche perché affronta in modo semplice la questione dell’articolo 18, prevedendone una sostanziale sospensione nei primi tre anni di lavoro-formazioneprova. L’apprendistato nella sua formula originaria è nato nel ’55 e ha avuto sei successivi adeguamenti normativi, l’ultimo nel dicembre 2007. Si rivolge ai giovani tra i 16 e i 29 anni di età. Il rapporto di lavoro concepito con questo strumento dalle parti sociali è di «tipo misto», visto che si prevede l’onere per il datore di lavoro di una effettiva formazione professionale, sia mediante il trasferimento di competenze tecnico-scientifiche sia mediante l’affiancamento pratico per l’apprendimento di abilità operative. L’assunzione di apprendisti richiede la stipula di un contratto di lavoro in forma scritta con allegato il Piano formativo individuale, mentre il numero degli apprendisti assunti non può superare quello dei lavoratori dipendenti qualificati effettivi. Attualmente i contratti collettivi determinano la durata del rapporto di apprendistato, comunque per legge non inferiore a due anni e non superiore a sei. Nello schema dei sindacati, per costruire su questo impianto normativo quello più adatto ad affrontare il tema della disoccupazione giovanile, occorre rendere più appetibile lo strumento introducendo dei forti bonus fiscali e contributivi. Come la proposta Ichino, anche l’apprendistato ha dunque un costo e, per le imprese, una certa controindicazione perché riconosce ai sindacati un forte potere nello stabilire la durata del periodo di formazione. Lavoro, le linee del governo in cinque capitoli. Uso limitato della cassa integrazione Reddito minimo. Indennità risarcitoria in caso di perdita del lavoro. Flessibilità più cara. Cgil sulle barricate (corriere.it, 23 gennaio 2012, 15:45) Nella riforma del lavoro allo studio del governo ci sarà, ha anticipato il ministro per il Welfare Elsa Fornero nell’incontro avuto con le parti sociali a palazzo Chigi, «uno schema di reddito minimo», che richiede «risorse ora non individuabili». Per questo e per «ragioni di bilancio lo schema potrebbe essere già individuato in questa riforma ma, per le stesse ragioni, l’applicazione normativa potrebbe essere dilazionata». GLI AMMORTIZZATORI – Il governo propone anche di riformare il sistema di ammortizzatori sociali puntando su un meccanismo con due possibilità: un sostegno per le crisi temporanee e un altro per chi perde il lavoro. «Servono ammortizzatori che facilitino la ricollocazione dei lavoratori – ha detto Fornero -. Per raggiungere l’obiettivo sarebbe importante un passaggio ad un sistema integrato, basato su due pilastri: uno per la riduzione temporanea dell’attività, l’altro, per il sostegno al reddito di chi abbia perso il lavoro». «Gli ammortizzatori saranno finanziati da contributi come avviene nel sistema assicurativo mentre la fiscalità generale servirà per l’assistenza», ha detto il ministro. La riforma del mercato del lavoro prevederebbe un uso limitatissimo della Cassa integrazione, e solo di quella ordinaria nei casi in cui si possa rapidamente riprendere il lavoro. Tutti gli altri ammortizzatori riguarderebbero interventi dopo il licenziamento con una indennità risarcitorie. LA PROPOSTA – Il governo ha quindi presentato alle parti sociali un documento in cinque punti per la riforma del mercato del lavoro. Le linee guida del governo per la riforma del mercato del lavoro, illustrate dal ministro Elsa Fornero, sono divise in cinque capitoli: tipologie contrattuali, apprendistato, flessibilità, ammortizzatori sociali e servizi per il lavoro. Il tavolo tra il governo e le parti sociali sul lavoro servirà a migliorare la situazione delle imprese e dei lavoratori. È l’auspicio del premier Mario Monti, che ha esordito dicendo: «Apriamo oggi un cantiere importante». «Voi, forze produttive, avete il mondo dove competere, noi come governo agiamo in Italia e abbiamo un non facilissimo lavoro da condurre in Europa, spero che il maggiore spazio che stiamo creando per le forze produttive del Paese vi aiuti – ha aggiunto – a far sì che quello che verrà fuori dal vostro tavolo serva a migliorare la situazione di imprese e lavoratori ma anche la situazione dell’Italia nella Ue». NO AL DECRETO – Il premier ha anche rassicurato le parti sociali che non si procederà per decreto sulla riforma del mercato del lavoro ma avverte che «i tempi non possono essere lunghi». Secondo il ministro Fornero, la riforma del mercato del lavoro («una riforma ambiziosa, da fare con un largo consenso») si farà insieme alle parti sociali in tre, quattro settimane, avvalendosi del coordinamento del Governo. «Solo alla fine del confronto – ha aggiunto la Fornero – si potrà parlare di contratto unico». E ha aggiunto: «Occorre un contratto che evolva con l’età dei lavoratori, piuttosto che contratti nazionali specifici che evolvono per tutte le età». E soprattutto «la flessibilità dovrà costare di più». Il governo ha poi proposto alle parti sociali di aprire dei gruppi tematici per lavorare via web alla riforma del mercato del lavoro. I gruppi di lavoro informatici saranno cinque per affrontare gli altrettanti punti proposti dal ministro Fornero nel suo documento. L’input della discussione, avrebbe precisato il ministro, verrà dal governo e poi saranno le parti sociali a rispondere con suggerimenti, indicazioni, critiche sui temi che a loro interessano di più. LA POSIZIONE DI CONFINDUSTRIA- «Nel breve periodo ci saranno forti ristrutturazioni, quindi per ora miglioriamo quello che abbiamo», ha invece detto il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Ha poi aggiunto che «da noi c’è una flessibilità minore che in Germania: noi dobbiamo concentrarci sugli abusi, non dobbiamo toccare l’impianto delle varie forme di flessibilità». Ha ricordato che «il tasso di occupazione italiano prima dei pacchetti Treu-Biagi era al 48%, oggi è al 58%, senza considerare la percentuale di sommerso che è altissima. Attenzionesottolinea- a ridurre forme di flessibilità in linea con l’Europa». Altra cosa sono gli abusi: lì Confindustria è «in prima linea». Alle parti sociali «piacciono due cose in particolare per favorire l’inserimento dei giovani: l’apprendistato e usare di più le agenzie interinali». IL DIKTAT DEI SINDACATI – «Non sono linee guida su cui si sviluppa il confronto: vuol dire che non sono state condivise», precisa il leader della Cgil, Susanna Camusso, indicando che non sarà sulla base del documento presentato governo sul mercato del lavoro che si svilupperà una base di discussione. E ha aggiunto: «Le parti sociali al tavolo sono tutte d’accordo sul fatto che non si può superare la cassa integrazione straordinaria», quella tipologia di ammortizzatore sociale, prevista in caso di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale o a impresa assoggettata a procedura concorsuale di fallimento e liquidazione coatta. E anche Raffaele Bonanni, segretario Cisl, è sembrato piuttosto scettico sull’eventuale riforma degli ammortizzatori sociali: «Gli attuali ammortizzatori possono essere una chance molto importante anche per il futuro». «Con la cassa integrazione in deroga e la cassa integrazione straordinaria abbiamo coperto tutti come mai successo e, per fortuna, l’abbiamo fatto in questo momento di crisi», ha ricordato. «Se c’è da rivedere il loro funzionamento in termini di finanziamento della formazione durante la sosta, anche noi- ha detto Bonannisiamo favorevoli a una misura drastica per tagliare l’evasione sulla formazione. Ma limitatamene a questo e non su altro». Marcegaglia: no al salario minimo. Ammortizzatori vanno mantenuti almeno per i prossimi due anni (ilsole24ore.com, 25 gennaio 2012) No al salario minimo «che rischia di disincentivare al lavoro» e sì al mantenimento dell’attuale assetto degli ammortizzatori, cig straordinaria e mobilità, «per far fronte alle moltissime ristrutturazioni da gestire». Sono questi i punti che per la leader di Confindustia, Emma Marcegaglia, dovrebbero tornare al centro del confronto tra governo e parti sociali per la riforma del mercato del lavoro. «Noi rimaniamo convinti che in una situazione come quella italiana il salario minimo rischia di disincentivare al lavoro: abbiamo un tasso di occupazione troppo basso e rischiamo di avere, a salario minimo, 20 milioni di persone», spiega lasciando viale dell’Astronomia al termine di un convegno sull’Expo. Non solo. «Abbiamo già detto che per i prossimi due anni abbiamo moltissime ristrutturazioni da gestire e quindi abbiamo bisogno di tutti gli strumenti che abbiamo, cig straordinaria e mobilità che oltre tutto ci autofinanziamo», aggiunge, ribadendo come gli imprenditori «per il futuro siano anche disposti a ragionare su una nuova architettura» che però è ancora tutta da verificare. «Dobbiamo vedere qual è la più efficiente, questa o quella che ha in mente il ministro con una cig ridotta, sussidi di disoccupazione e salario minimo», prosegue. Confindustria, ribadisce ancora Marcegaglia, «è aperta ad un ragionamento con numeri alla mano, in modo serio senza voler erigere nessuna barriera contro». Ma, ripete ancora, «i prossimi due anni, due anni e mezzo dobbiamo poter avere questi strumenti a disposizione perchè avremo molte ristrutturazioni da gestire». Marcegaglia ha anche annunciato che Confindustria e sindacati si incontreranno la prossima settimana per mettere a punto una “lettura” congiunta sulla futura riforma del mercato del lavoro dopo l’incontro con il governo dei giorni scorsi: «Su alcuni punti mi pare abbiamo visioni comuni, dagli ammortizzatori sociali alla flessibilità in entrata. Sugli altri punti vedremo perchè noi vogliamo anche parlare di flessibilità in uscita», aggiunge. Un incontro, quello tra imprenditori e Cgil Cisl e Uil che, secondo alcuni, potrebbe avvenire giá martedì o mercoledì prossimi. «No al salario minimo, meglio la Cig» La Marcegaglia contro il progetto del governo di riforma degli ammortizzatori sociali (corriere.it, 25 gennaio 2012, 16:28) Governo bocciato sul fronte della riforma del lavoro. E questa volta a parlare non sono i sindacati, ma Confindustria. Almeno per i prossimi due anni «abbiamo bisogno di tutti gli strumenti che abbiamo». La presidente dell’Associazione degli industriali Emma Marcegaglia lo dice parlando della riforma degli ammortizzatori sociali. E aggiunge: «Abbiamo detto al ministro che siamo anche disponibili a ragionare su una nuova architettura però poi bisogna verificare bene qual’è la più efficiente». RISTRUTTURAZIONI IN ARRIVO – Confindustria, ribadisce ancora Marcegaglia, «è aperta ad un ragionamento con numeri alla mano, in modo serio senza voler erigere nessuna barriera contro». Ma, ripete ancora, «i prossimi due anni, due anni e mezzo dobbiamo poter avere questi strumenti a disposizione perchè avremo molte ristrutturazioni da gestire». SALARIO MINIMO – Marcegaglia, boccia l’ipotesi di un salario minimo. «Noi rimaniamo convinti – spiega a margine di un convegno – che in una situazione come quella italiana il salario minimo rischia di disincentivare il lavoro». In Italia, secondo il numero uno degli industriali «abbiamo un tasso di occupazione troppo basso e rischiamo di avere a salario minimo venti milioni di persone». Comunque Marcegaglia si dice «aperta a ragionare con i numeri, in modo serio» e ribadisce che Confindustria non erige «nessuna barriera contro». Una lettera per la Camusso che viene da lontano di Eugenio Scalfari (repubblica.it, 29 gennaio 2012) Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea. La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra. Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati. Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale. Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese. Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l’ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d’una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse. Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama. Quella stessa Federazione fu poi l’elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei “servizi deviati” che facevano capo a Gladio e alla P2. Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l’altra politica. Chiedevano, e nell’intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale. Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell’82 e nell’84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell’84 la Federazione si ruppe. D’altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l’urto delle nuove tecnologie produttive e dell’economia globalizzata e finanziarizzata. Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo – già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani – di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall’emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d’interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L’emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l’interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell’intervista sopracitata) che anteponga l’interesse generale del Paese al “particulare” delle singole categorie. Perciò l’intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d’interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune. Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell’economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. “No taxation without representation”, questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d’una società come la nostra dove l’85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell’Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati. I principali interessati al rinnovamento del Paese - ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato - sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l’interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l’equità impedisca la macelleria sociale. La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l’agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l’avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l’Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l’Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch’essi inesistenti dell’immensa platea dei migranti. Ecco perché l’agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall’emergenza e dalla necessità di farvi fronte. Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell’economia italiana. Dipende dall’Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo. La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d’un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione. Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l’avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l’ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta. Quante differenze dagli anni di Lama. Oggi la precarietà è il primo problema di Susanna Camusso (repubblica.it, 30 gennaio 2012) Caro Direttore, nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un’intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell’accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell’Eur. La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall’inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d’acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado. La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei “capitalisti”, a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati. Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l’idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa. Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi. Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro. Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell’intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera “assicurazione” o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo. Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore. A noi è chiara l’emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l’età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro. Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all’immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco. Il coro sull’importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l’assurdità che sarebbe per colpa dell’articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l’occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi. Per noi l’urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall’intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l’emergenza con l’idea che “qualunque cosa può essere fatta”. Siamo i primi ad apprezzare che l’Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l’equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il ” nuovo” con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l’Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie. Questa è un’ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l’abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l’orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell’industria in cinque anni. Se non ora quando? di Irene Tinagli (La Stampa, 1° febbraio 2012) Ormai non fa più nemmeno notizia: la disoccupazione giovanile in Italia non accenna a scendere. Anzi, su base annua, continua a salire. Secondo i dati resi noti ieri dall’Istat è al 31%. Fin dove dovrà arrivare perché questo Paese si decida a far qualcosa e a farlo subito? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a politici, sindacalisti e amministratori di vario livello e colore che continuare ad ignorare il problema, ricordandosene solo per qualche slogan nei comizi, non farà cambiare direzione a questo trend. Ma soprattutto qualcuno dovrebbe ricordare loro che questo andamento ci porterà dritti dritti verso una situazione di gravissima insostenibilità sociale ed economica. Non si tratta solo dei giovani, ma di tutti noi. Per capirsi: dire che stiamo mangiando il futuro dei giovani è una sciocchezza. Perché in realtà stiamo mangiando quello di tutta la nazione, incluso quello di tante signore e signori che oggi guardano con compassione e commiserazione questi «poveri ragazzi». Perché tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. Continuare a dire che stiamo danneggiando il loro futuro, quindi, è miope e fuorviante. È come guardare un orto che avvizzisce e pensare «povere piantine», scordandoci che senza quelle piantine resteremo presto tutti senza mangiare. È stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo confezionando e su cui siamo seduti. E come molti ancora pensino che semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i figli, senza rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui entrambi salteranno con le gambe all’aria. E i primi assaggi li avremo presto, quando migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione resteranno scoperti. Perché la cassa integrazione straordinaria, lo sappiamo bene, non ha fatto che finanziare una lenta agonia, ma non ha reso né le aziende né i lavoratori più forti e competitivi sul mercato. E anche quella bomba, presto, esploderà. Domani inizia il tavolo tra ministro del Welfare e parti sociali. I segnali «preparatori» di questi giorni non sono molto incoraggianti, con le parti sociali che hanno già lanciato veti e allarmi preventivi. I sindacati hanno messo le mani avanti su cassa integrazione e articolo 18, intoccabile perché questione di «civiltà» (qualcuno dovrà prima o poi dire a Francia, Danimarca, Spagna, Inghilterra e a molti altri Paesi europei quanto siano incivili). E anche Confindustria pare molto allarmata per l’ipotesi di riformare la cassa integrazione straordinaria un costo di miliardi di euro che lo Stato si sta sobbarcando da anni per dare tempo alle imprese di «ristrutturarsi» (un tempo che però sembra non arrivare mai). La convergenza di interessi tra sindacati e industria su alcuni dei temi chiave della riforma che da domani sarà in discussione dà un’idea abbastanza chiara delle cause dell’ingessamento della nostra economia, e dell’incapacità di una buona parte del nostro sistema produttivo di aprirsi ai giovani così come alle nuove tecnologie e all’innovazione. È in parte comprensibile che una parte sociale che ha impostato tanta parte della sua ragion d’essere sul tema della difesa del posto di lavoro prima ancora che del lavoratore in sé (perché prima si difende il posto, l’«inamovibilità», poi si parla di formazione, crescita, competenze etc.) sia pronta a dar battaglia sul comma di un articolo. Così come può essere comprensibile che un’associazione di industriali che tanto hanno beneficiato (e spesso approfittato) degli aiuti dello Stato siano adesso spaventati da riforme che potrebbero rendergli la strada più difficoltosa. E c’è da riconoscere che la crisi non ha aiutato: con essa sono aumentate paure e insicurezze, ed è più facile per rappresentanti politici e di categoria cavalcare certe paure che assumersi la responsabilità di un’azione coraggiosa che le sfidi. Ma quando domani si troveranno tutti allo stesso tavolo per discutere una riforma che, pur non essendo l’unica soluzione al problema dei giovani, rappresenta un tassello fondamentale dell’insieme di misure che il governo sta attuando, c’è da sperare che le varie parti ritrovino questo coraggio. E che preferiscano sfidare le paure e gli interessi di parte per il bene comune, piuttosto che restare schiavi di un copione che l’Italia legge ormai da troppi anni. Posto fisso, Camusso contro Monti: «Si vogliono togliere tutele ai lavoratori» Il segretario generale Cgil interviene anche su Mirafiori: «Svoltiamo verso l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?» (corriere.it, 2 febbraio 2012, modificato il 3 febbraio 2012) «Questa polemica sul fatto che non è più il tempo del posto fisso è un po’ stantia, non è tanto moderna, e nasconde l’idea che bisogna togliere tutele ai lavoratori». È critica Susanna Camusso sulla frase del premier Mario Monti, che mercoledì aveva definito «monotono» il posto fisso. La segretaria generale della Cgil è ospite della trasmissione di Michele Santoro «Servizio pubblico». Una puntata dedicata a rispondere alla domanda «L’eguaglianza, in questa crisi, dov’è? Si salverà l’Italia, o solo una sua parte?». Tema caldo, il precariato, con Sandro Ruotolo in collegamento dal centro sociale Tpo di Bologna. Oltre alla Camusso, in studio c’è il giuslavorista Michele Tiraboschi. CAMUSSO – «Il 30% dei giovani è senza lavoro, vuol dire che uno su tre vorrebbe poter annoiarsi» ironizza la segretaria generale Cgil . «La verità è che si è voluta creare una giungla di rapporti di lavoro per inseguire la flessibilità – prosegue -. Dobbiamo tornare ad un mercato del lavoro normale». «Un medico ha la possibilità di cambiare, ma se uno fa il saldatore non può andare a fare il chirurgo. C’è un rapporto con le professionalità che ci sono e con il modello che proponi al Paese: se proponi di cambiare è per abbassare la condizione delle persone» argomenta la Camusso. CRISI – Nel corso della serata si parla anche di crisi. E la Camusso torna all’attacco: «In questo momento nel Paese il pensiero è che siamo sull’orlo del baratro e che questo governo ci salverà. Ma non sono così convinta che la ricetta europea di rigore finanziario ci porterà fuori dalla crisi. Per noi vuol dire recessione». FIAT – Nella seconda parte della trasmissione, c’è spazio per la Fiat. «Né la Fiom né la Cgil hanno mai detto che non volevano investimenti a Mirafiori, anzi» precisa la Camusso. Quindi spiega: «Vorremmo sapere quali investimenti si vogliono fare. La domanda che rimane legittima è se si deve lavorare in qualunque condizione, perché poi c’è lo schiavismo alla fine di questo discorso. Siamo sicuri che non si stia pensando di dismettere la produzione Fiat nel Paese? Siamo sicuri di volere non investire in tecnologie alternative? Possiamo fare queste domande a Fiat? Svoltiamo verso l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?». Marcegaglia: articolo 18 è sul tavolo, reintegro valga per licenziamenti discriminatori (ilsole24ore.com, 2 febbraio 2012) «Nessun documento è stato presentato dal ministro Fornero, che ha indicato gli obiettivi che il Governo si pone con questa riforma ricordando che è importante per l’Europa e i mercati». Lo riferisce la leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, dopo il tavolo a Palazzo Chigi sulla riforma del mercato del lavoro. Che aggiunge: «Abbiamo ribadito con forza che l’Europa, i mercati, gli investitori aspettano di vedere come faremo questa riforma, è un elemento essenziale. Questa riforma è fondamentale». Articolo 18? Reintegro valga per licenziamenti discriminatori Gli industriali dunque sostengono la road map fissata oggi dall’esecutivo e e mettono in fila anche le loro priorità. A cominciare da un diverso perimetro di applicazione per l’articolo 18. «Pensiamo – ha sottolineato – che il tema del reintegro deve valere per tutti i casi di licenziamenti discriminatori o casi per cui la legge dice che il licenziamento è nullo. Ci sono casistiche molto chiare per cui la reintegra deve valere. È un fatto di civiltà. In tutti gli altri casi – ha aggiunto la leader degli industriali – dobbiamo diventare europei. Ci deve essere un’indennità di licenziamento». Secondo Marcegaglia quello dell’articolo 18 è un «tema da porre in modo più ampio. È sul tavolo, può essere un modo per aumentare l’occupazione. Sono d’accordo con quanto detto da Monti: non deve essere più in tabù. È un tema posto, è sul tavolo». La leader degli industriali: la cassa integrazione straordinaria sarà mantenuta Quanto agli altri tasselli all’esame del tavolo esecutivo-parti sociali, come la possibilità di intervenire sulla cassa integrazione, Marcegaglia è chiarissima. «La Cig e la Cigs saranno mantenute». Il muro eretto dai sindacati regge dunque. E trova una spona nelle imprese. «Abbiamo tutti ribadito e mi pare il ministro sia d’accordo che in un momento difficile come questo con aziende in difficoltà non possiamo toccare gli attuali strumenti». Altrimenti, avverte, «il lavoratore resta senza aiuto. Poi si potrà disegnare più avanti una presenza maggiore dei sussidi di disoccupazione e meno strumenti sulla mobilità». Marcegaglia: riforma va fatta, su alcuni punti accordo possibile Intanto per Marcegaglia si può lavorare di più «sulle politiche attive del lavoro» e sull’apprendistato che «va usato meglio». Infine bisogna fare in modo che un lavoratore che percepisce un sussidio e non accetta una proposta di lavoro «perda il sussidio». La trattativa dunque va avanti e Marcegaglia si dice d’accordo con la volontà del Governo di portare a casa il risultato. «Siamo d’accordo che la riforma vada fatta» e, assicura il presidente degli industriali, «faremo tutti gli sforzi possibili per lavorare e avere, su alcuni punti, l’accordo tra tutte le parti». Marcegaglia: “Il sindacato non protegga i ladri”. Reazione infuriata: “parole offensive” Il leader degli industriali ha detto di non volere l’abolizione dell’art 18, ma invita i sindacati a non proteggere i «fannulloni» (corriere.it, 21 febbraio 2012, 21:54) È bufera sul presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che parlando di articolo 18 ha invitato i sindacati a «non proteggere ladri e fannulloni». Affermazioni che hanno mandato su tutte le furie il sindacato con in testa il leader della Cgil Camusso che parla di «affermazioni offensive» «Noi non vogliamo abolire l’articolo 18 – aveva detto Emma Marcegaglia – il reintegro deve rimanere per i casi discriminatori, ma vogliamo poter licenziare le persone che non fanno bene il loro mestiere». E poi rivolta ai sindacati: «Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro». CATTIVA FLESSIBILITA’ – La presidente di Confindustria ha sottolineato come anche gli industriali vogliono una revisione della «flessibilità cattiva» in entrata, ossia «siamo consapevoli che ci sono stati degli abusi e questi vanno combattuti». Ma d’altra parte «vogliamo rivedere anche la flessibilità cattiva in uscita». A questo proposito, ha ricordato l’episodio che vide al centro di una contestazione il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «La persona che aveva tirato un candelotto a Bonanni era in malattia: il datore di lavoro – ha detto – lo licenziò, il giudice lo ha riassunto». Certo, una revisione dell’art.18 «sarà molto difficile ma noi non molliamo, andiamo avanti» pur volendo comunque lasciarlo per tutti quegli atti discriminatori ma «vogliamo poter licenziare quelli che non fanno il loro lavoro». GOVERNO VADA AVANTI – Quindi l’invito al governo: «Credo che sia giusto che nel caso in cui non si arrivi ad un accordo il governo vada avanti e faccia la riforma che deve fare, stiamo lavorando con grande attenzione e senso di responsabilità». Ha comunque sottolineato che non bisogna toccare gli ammortizzatori sociali «per almeno due anni». «Adesso stiamo in un momento di crisi drammatica, di recessione anche se per il 2013 – ha affermato – si prevede una ripresa. Ma l’impatto delle ristrutturazioni e delle riconversioni industriali farà sentire i suoi effetti almeno per tutto il 2013». A fronte di questa situazione ha sottolineato come l’attuale sistema di ammortizzatori sociali «ha dimostrato di funzionare» ma gli industriali «non sono contrari a ragionare su una nuova architettura» degli ammortizzatori sociali. SINDACATI INDISPETTTI – Risentita la reazione della Cgil. Laconico il commento del segretario della Cgil Susanna Camusso: «La trovo offensiva». Più articolato il ragionamento del segretario confederale Fulvio Fammoni che parla «di cose non vere che offendono e mettono in discussione il ruolo del sindacato confederale italiano. La presidente di Confindustria deve smentire queste affermazioni» Interviene anche la Cisl: «La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale sindacato parla» afferma il segretario generale Raffaele Bonanni. «Non so di quale sindacato parla la Marcegaglia la mia organizzazione si è sempre presa le proprie responsabilità di fronte alle scompostezze degli imprenditori e pure di alcune realtà sindacali». Mentre il segretario della Uil Luigi Angeletti ha tenuto a ribadire che la sua organizzazione «non protegge assenteisti cronici nè ladri. Gli imprenditori possono dire altrettanto?». MARCEGAGLIA PRECISA – Una selva di reazioni che ha indotto il leader della confindustria a precisare: «Nessuna mancanza di fiducia e rispetto nei sindacati confederali, con i quali abbiamo firmato l’importante accordo del 28 giugno sul lavoro e con i quali stiamo conducendo una trattativa seria e costruttiva.» Ma comunque ha tenuto a puntualizzare. «Va tuttavia rimarcato che a volte l’articolo 18 diventa un alibi dietro il quale si possono nascondere dipendenti infedeli, assenteisti cronici e fannulloni». Scontro Marcegaglia-sindacati. Bersani: “Senza intesa, sì non scontato” La leader degli industriali durissima contro i rappresentanti dei lavoratori che difendono “ladri e assenteisti cronici”. Poi la parziale rettifica: “Nessuna mancanza di fiducia”. Gelida la replica di Susanna Camusso: “La trovo offensiva”. Dal segretario del Pd avviso a Monti: “Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo” (repubblica.iit, 21 febbraio 2012) Non è stata una giornata di mediazioni, sul fronte del lavoro. Prima il duro scontro tra Confindustria e sindacati dopo un’affermazione di Emma Marcegaglia: “Vorremmo un sindacato che lotta anche fortemente con noi per tutelare il lavoro, ma che non protegge assenteisti cronici, ladri e chi non fa bene il proprio lavoro” (video 1). Una battuta che ha scatenato dure reazioni dai sindacati e che ha avvelenato un clima già difficile, dopo che il presidente del Consiglio Mario Monti ha annunciato l’intenzione di andar avanti sulla riforma del lavoro 2 anche in assenza di un accordo con le parti. “Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo – ha avvertito Pierluigi Bersani dai microfoni del Tg3 – Se non ci sarà accordo, il Pd valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base delle nostre proposte”. “In questo momento di recessione – prosegue – serve la riforma ma serve anche la coesione. Serve una scommessa insieme e sono convinto che il governo è impegnato a raggiungere un accordo. Il Pd seguirà quell’accordo”. Una presa di posizione, quella della Marcegalgia, che non è piaciuta alla Cgil che, a stretto giro di posta, ha prima risposto attraverso Twitter ed è poi intervenuta attraverso il suo leader Susanna Camusso. “La trovo offensiva”, ha affermato la segretaria, mentre il commento affidato alla rete replica così: “Dire, come fa Marcegaglia, di volere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e chi non fa il proprio lavoro è davvero troppo. Sono affermazioni non vere che offendono e mettono in discussione il ruolo del sindacato confederale. Le smentisca”. Sostenere che “l’articolo 18 sia un ostacolo a licenziare – ha poi aggiunto Camusso – significa dire che si vuole una logica per cui se hai gli occhi azzurri, tu puoi essere licenziato: si chiama discriminazione”. Per questo, ha proseguito, “noi diciamo di no, non perché difendiamo i privilegi di qualcuno contro altri, ma per l’idea che quando sei un lavoratore hai dei diritti e dei doveri e se hai solo dei doveri non sei una persona libera”. Queste, ha concluso Camusso, “sembrano banalità ma non lo sono, quando in una grande impresa non si viene più assunti se hai in tasca la tessera Fiom-Cgil”. Contrattacca anche la Cisl. “La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale sindacato parla – dice il il segretario Raffael Bonanni – La mia organizzazione si è sempre presa le proprie responsabilità di fronte alle scompostezze degli imprenditori e pure di alcune realtà sindacali”. Caustica pura la battuta del leader della Uil Luigi Angeletti: “La Uil non protegge assenteisti cronici nè ladri. Gli imprenditori possono dire altrettanto?”. Così, in serata, è arrivata anche la rettifica della Marcegaglia. “Nessuna mancanza di fiducia e rispetto nei sindacati confederali, con i quali abbiamo firmato l’importante accordo del 28 giugno sul lavoro e con i quali stiamo conducendo una trattativa seria e costruttiva”, ha precisato. “Va tuttavia rimarcato – aggiunge – che a volte l’articolo 18 diventa un alibi dietro il quale si possono nascondere dipendenti infedeli, assenteisti cronici e fannulloni”. La presidente di Confindustria aveva attaccato i sindacati in un passaggio del suo intervento in cui affrontava il tema caldo dell’articolo 18: “Non vogliamo la sua abolizione, rimanga per casi di licenziamento per discriminazione”. Marcegaglia: “Riforma anche senza accordo”. Nel suo intervento, la Marcegaglia aveva affrontato a lungo i temi della crisi: “Ora siamo in una situazione drammatica e l’impatto sull’occupazione durerà più a lungo. Chiediamo che per almeno due anni non vengano toccato gli attuali ammortizzatori sociali”. Poi l’affondo: “Credo che sia giusto che nel caso in cui non si arrivi ad un accordo il Governo vada avanti e faccia la riforma che deve fare”. Così Confindustria spalleggia la posizione del governo nella trattativa sul mercato del lavoro. “Stiamo lavorando – ha detto Marcegaglia – con grande attenzione e senso di responsabilità”. Posizione condivisa dal Pdl, che in serata ha replicato al monito di Bersani. Nell’incontro di domani con Mario Monti, ha detto il segretario Angelino Alfano parlando al Tg5, il Pdl chiederà di andare avanti con le riforme senza farsi condizionare”. “Se i partiti politici hanno deciso di sostenere questo governo, se il Pdl e Silvio Berlusconi hanno deciso di sostenere questo governo, lo hanno fatto nella convinzione che non si farà condizionare”, ha aggiunto. Dunque, soprattutto sul mercato del lavoro, garantisce Alfano, “noi chiederemo di andare avanti, perchè la riforma del mercato del lavoro serve per assumere di più, non per licenziare meglio”. Riforma lavoro, tensione nel Pd. Bersani: il sì non è scontato, art. 18 principio civiltà «No all’idea di andare avanti senza intesa tra le parti». La posizione del segretario allarma l’area montiana del partito (ilmessaggero.it, 21 febbraio 2012, 22:53) La riforma del mercato del lavoro rischia di diventare l’ora “x” dell’appoggio del Pd al governo Monti e della tenuta interna del Partito democratico. «Senza accordo valuteremo in Parlamento se votare sì» è la condizione che Pier Luigi Bersani pone al governo, sottolineando come l’appoggio non sia scontato. «Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo – dice Bersani – Se non ci sarà accordo, il Pd valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base delle nostre proposte. In questo momento di recessione serve la riforma, ma serve anche la coesione. Serve una scommessa insieme e sono convinto che il governo è impegnato a raggiungere un accordo. Il Pd seguirà quell’accordo». Bersani: articolo 18 principio di civiltà. Bersani oggi ha anche risposto all’attacco sferrato da Marcegaglia ai sindacati. «Conoscendola, credo che Marcegaglia si pentirà un po’ della battuta – ha detto – Nessuno difende fannulloni o ladri ma l’articolo18 è un principio di civiltà garantito anche in altri Paesi. Poi è vero che serve una manutenzione per renderlo più gestibile, ad esempio sui tempi troppo lunghi della giustizia». Alta tensione nel Pd. La posizione di Bersani sulla riforma allarma l’area “montiana” del partito, lettiani e veltroniani, già in tensione per l’annuncio del responsabile economico Stefano Fassina di partecipare alla manifestazione della Fiom, pronta alle barricate per l’articolo18. Lo scontro, apertosi dentro il Pd, dopo l’intervista di Walter Veltroni sull’articolo 18 e sul sostegno al governo Monti, non accenna a placarsi, anche se il segretario la considera “fuorviante” rispetto ai problemi del Paese e al fatto che «il Pd non è alternativo a Monti, ma respira con due polmoni e noi vogliamo essere alternativi alla destra… poi Monti e i suoi ministri potranno decidere come respirare». Un modo per ribadire la centralità dei partiti sia nella vita di questo governo ma soprattutto dopo, e uno stop a chi non esclude un governo di larghe intese, magari a guida di un tecnico, anche dopo le elezioni del 2013. Riforma del lavoro banco di prova. La riforma del mercato del lavoro si annuncia un banco di prova duro per i democratici. Fassina non ha intenzione di arretrare: ribadisce che sull’articolo 18 «il Pd non è spaccato» perché Veltroni rappresenta una minoranza. «Andare avanti a scomuniche e bolle papali distrugge tutto il buono che abbiamo costruito in questi anni» avverte Enrico Letta, in realtà preoccupato di lasciare il governo Monti alla destra. «Prendere le distanze da Monti – incalza il lettiano Francesco Boccia – è un autogol. Fassina deve semplicemente capire che nessuno deve abusare del ruolo che ricopre perché così si fanno danni alla casa comune». Perché, spiegano fonti democratiche, se il sostegno al governo dei tecnici fosse messo in dubbio si potrebbe arrivare ad una conta congressuale. Bersani: se non ci sarà accordo sulla riforma valuteremo in Parlamento. E per capire il clima, basta vedere la reazione dei lettiani all’annuncio di Fassina di partecipare alla manifestazione della Fiom: «Basta con le provocazioni, non si può condividere le posizioni della Fiom e allo stesso tempo sostenere il governo», reagisce Marco Meloni. Bersani invita a tenere i nervi saldi, fiducioso che il governo riuscirà a trovare un’intesa con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro. A quell’intesa, qualsiasi sia, però, ribadisce, è legato l’ok del Pd in Parlamento. «Non condivido la tesi – spiega il segretario Pd – di andare avanti anche senza accordo. Se non ci sarà accordo, il Pd valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base delle nostre proposte ma in questo momento di recessione serve la riforma ma serve anche la coesione». Una linea che trova d’accordo anche Rosy Bindi, anche contraria per una riforma del Porcellum che favorisca “grandi coalizioni”. «Questo governo – sostiene il presidente del Pd – ha ricevuto la nostra fiducia per portare il Paese fuori dalla crisi ma non si può pensare che in questo momento l’Italia possa permettersi di approvare importanti riforme strutturali senza la coesione e la pace sociale». Riforma delle pensioni, per la Cgil “un furto legalizzato” Centinaia di migliaia di lavoratori fuori dal lavoro e senza pensione, oppure costretti a pagare una seconda volta i contributi previdenziali. Il patronato Inca Cgil non usa mezzi termini per definire la “ricongiunzione onerosa” dei contributi. Domanda a Fornero: “Può una nuova legge cancellare contratti e accordi già firmati?” di Francesco Piccioni (ilmanifesto.it, 22 febbraio 2012) Un «furto legalizzato», ma anche «il delirio di un folle». Si sta parlando degli effetti concreti della prodigiosa «riforma delle pensioni» approvata in pochi giorni dal governo Monti. L’Inca Cgil ha voluto limitare la sua denuncia, ieri, soltanto a due «effetti diretti» di quel provvedimento, nel timore – fondato – che i giornalisti si perdessero negli infiniti meandri una una «riforma» fatta secondo criteri che ricordano il tracciamento coloniale dei confini di certi paesi sahariani: con la riga e la squadra, senza guardare chi cadeva dentro o fuori. Il primo punto riguarda i cosiddetti «esodati», lavoratori messi fuori dalla produzione grazie ad accordi sottoscritti con l’azienda e con il governo, secondo le regole pensionistiche in vigore fino al 4 dicembre 2011. Gente al momento senza pensione, senza più posto di lavoro e spesso persino senza ammortizzatori sociali. La platea identificata dall’Inca comprende quanti sono ancora in mobilità o che stavano per andarci, ma anche chi è uscito per crisi e ristrutturazione aziendale, quanti sono stati convinti dall’azienda ad uscirsene con incentivi, ché tanto le pensione era lì a un passo. La «riforma» ha confermato il taglio dei ponti alle spalle, ma ha allontanato il traguardi di molti anni (fino a 7, in alcuni casi). Il loro numero è stato quantificato dall’Inps in 70.000, inizialmente; ma si riferisce solo ai casi già arrivati all’attenzione dell’istituto, ossia accordi siglati prima del 4 dicembre. Ma da allora sono andati in porto dismissioni importanti (Termini Imerese e Irisbus, per dirne due), con migliaia di persone coinvolte. La manovra prevedeva una «cifra x», da decidere, per «coprire» queste posizioni; ma ammoniva anche che si trattava di un fondo «a esaurimento»: finché c’erano soldi si paga, poi amen. Con buona parte di un diritto fin qui certo (l’andare in pensione dopo una vita di lavoro). L’iter parlamentare del «milleproroghe», che doveva porre riparo alla «disattenzione» del governo, peggiorava addirittura la situazione: veniva allargata la platea dei possibili beneficiari, ma il fondo rimaneva uguale. La Cgil – spiegano sia Vera Lamonica (segretario confederale) che Morena Piccinini, presidente dell’Inca – chiede di sapere se «gli accordi con il governo sono validi o no?»; e, dal ministro, «qual’è l’atto riparativo riparativo che ha promesso e quando sarà deliberato». Ma il ministro Fornero, per ora, non ha mai neppure risposto. La seconda questione è in prospettiva persino più esplosiva, anche se già ora sta facendo danni formidabili. Si parla della «ricongiunzione contributiva onerosa», una misura decisa dal governo Berlusconi – ai tempi della sua «riforma delle pensioni. Avendo deciso di equiparare l’età pensionabile delle donne a quelle degli uomini, nel pubblico impiego (uno «scalone» di ben 5 anni), si pensava che molte avrebbero preferito ritirarsi subito, anche prendendo un assegno minore. Quindi, per scoraggiarle, fu deciso di far loro pagare la «ricongiunzione» tra i diversi periodi contributivi della loro vita lavorativa. Ben poche vi fecero ricorso, ma la norma è rimasta. L’attuale governo ha avuto il colpo di genio, rivelando solo qui una «competenza tecnica» degna di miglior causa: ha esteso a tutti questa norma. Con effetti letali. Misura decisa «per equità», perché «era necessario metter fine ai privilegi», dice il governo. Mentendo. La «ricongiunzione» – tra istituti che oltretutto sono in corso di unificazione, come Inpdap e Inps – è sempre stata gratuita per chi passava da un trattamento migliore a uno peggiore; onerosa solo per il viceversa. Ora pagano tutti, a prescindere. La tragedia nasce dal fatto che si è obbligati a pagare – e cifre inconcepibili, per un lavoratore dipendente: decine di migliaia di euro – se per caso, pur avendo fatto sempre lo stesso lavoro nella stessa azienda, è cambiata la «ragione sociale» della ditta. È il caso delle Poste e Ipost, con persone contributivamente trasferite – per decisione dell’allora a.d., Corrado Passera – dall’Inpdap (statali) all’Inps (privati). Ora dovrebbero ripagarsi una seconda volta tutto un (lungo) periodo contributivo già versato, altrimenti la loro pensione sarà quella di uno che ha lavorato appena 20-25 anni. Di fatto, gli anni di contributi non utilizzabili sono incamerati senza un servizio corrispettivo. È dunque legittimo parlare di «furto legalizzato», con lo Stato nella parte del ladro. Ma si trovano nella stessa situazione anche tutti coloro che sono stati «privatizzati» (le municipalizzate, Telecom, Alitalia, ecc), scorporati, esternalizzati, o riassunti da una «newco» (pensate a Fiat? toccherà anche a loro, ovvio). Per non dire dire dei giovani che, secondo gli stessi ministri, «devono abituarsi a cambiare spesso lavoro». Cosa accadrà quando, com’è giusto, dovranno «ritirarsi»? Quanto dovranno versare per «riunificare» una carriera lavorativa svolta sotto 12 o 20 società diverse, tra periodi mancanti o fasi da «partita Iva»? Di fatto, quello che era il diritto alla pensione per chi ha sempre lavorato, diventa ora «una lotteria», o un diritto puramente «ipotetico». Ossia l’esatto contrario di un diritto garantito dallo Stato. La Cgil minaccia ovviamente cause legali. Ma a lavoratori che pure hanno lo stesso problema sembra impossibile persino praticare la strada della class action. Pare che il genio legislativo che l’ha materialmente scritta l’abbia congegnata in modo tale da renderla inapplicabile; perlomeno in casi simili. Un comma 22. La domanda che anche in casa Cgil sorge al termine di questa disarmante ricognizione è abbastanza precisa: «ma una nuova legge può sciogliere contratti e regole precedenti, liberamente sottoscritti da soggetti indipendenti e persino dallo Stato?». In regime di democrazia, no. Può accadere solo in caso di golpe o di rivoluzione. Ma, quest’ultima, non l’abbiamo vista passare. Riprende la trattativa: il nodo degli ammortizzatori Il premier Monti vuole varare la riforma “entro marzo”. Il cuore del modello Fornero è la riduzione degli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti. È questo il grande inganno della contrapposizione tra “garantiti” e “senza protezioni”. Cgil: “Non faremo come con le pensioni”. di Francesco Piccioni (ilmanifesto.it, 12.03.2012) Sarà certo un caso, ma il «confronto» sulla cosiddetta riforma del mercato del lavoro riprende solo dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici. E la sensazione – forte – è che in Cisl, Uil, governo e Confindustria prevalga la tentazione di considerlo «tra parentesi», quasi un momento di sfogo purtroppo «dovuto», dopo il quale riprendere serenamente a parlar d’altro. La serie degli incontri – iniziata con il famoso «fare presto» assunto da questo esecutivo come marchio di fabbrica – era stata sospesa un paio di settimane fa per un motivo semplice: il governo non sapeva dove trovare i soldi per rendere concreta la prima delle «riforme» che compongono il pacchetto-lavoro: gli ammortizzatori sociali. È noto che il ministro Elsa Fornero ha in testa un modello alquanto spartano, rispetto all’attuale: mantenere soltanto la cassa integrazione ordinaria (durata massima 12 mesi, per le «crisi temporanee») e sostituire tutte le altre forme (cig straordinaria «per ristrutturazione», cig in deroga per i settori esclusi, mobilità fino a tre anni – per gli «over 50» dopo la chiusura dell’impresa) con un’ indennità di disoccupazione della durata massima di 12 mesi. Una perdita secca, per chi perde il lavoro «a tempo indeterminato», mal compensata dall’estensione di questa indennità anche ai precari, che attualmente non hanno alcun sostegno. «Mal compensata» perché, per questa estensione, il governo ha detto fin da subito di non avere fondi; né nell’immediato, né a regime. E risulta indigeribile per chiunque accettare che un «qualcosa di insufficiente» e «per pochi» sia sostituito dal «nulla per tutti». In queste due settimane, dunque, il governo dovrebbe aver trovato il modo di finanziare in modo stabile e continuativo questo nuovo ammortizzatore. Dando per scontato di poter far passare l’idea che minori tutele per «i garantiti» sia un gesto «equo», se accompagnato da un qualcosina per chi non ha protezioni. Resta fin qui indeterminato, comunque, l’ammontare mensile di questa – eventuale – indennità. E non è un dettaglio secondario. Gli altri capitoli del «confronto», fino al fatidico articolo 18 lasciato «per ultimo», verranno affontati nelle prossime due settimane. Ma ormai i tempi sembrano stretti: non c’è giorno in cui Mario Monti non ripeta che «la riforma sarà varata entro marzo». Con il consenso dei sindacati oppure senza. Le dichiarazioni della vigilia servono sempre a delimitare il campo di gioco, a far capire fin dove si è disposti a «concedere» alla controparte, a far intuire i «punti di caduta» che possono essere poi rivenduti – da tutti – come «vittorie». È il gioco tipico di ogni fase di trattativa. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, parlando da New York, ha messo i suoi paletti, sia rispetto al governo che davanti alle richieste interne – salite a chiare lettere da pizza S. Giovanni, venerdì – di proclamazione di uno sciopero generale di tutte le categorie. Al governo ha fatto capire che «siamo impegnati nel confronto anche per quanto riguarda gli elementi di cambiamento» e in particolare «allargare la copertura degli ammortizzatori sociali è un nostro obiettivo». Ma «senza risorse non è realizzabile». Anche perché «non è riproducibile un modello come quello utilizzato per le pensioni, in cui si toglie a chi ha e non si dà nulla a chi verrà». Al governo (e alla sinistra interna, partendo dalla Fiom) ha invece se «è in cerca dello scalpo dei licenziamenti più facili» si rischia ovviamente una risposta del movimento sindacale. Che non sarà però «una fiammata» – ovvero uno sciopero generale – ma «una tensione sociale di lungo periodo». Un accenno indeterminato, certamente, ma che è stato sufficiente a scuotere Raffaele Bonanni, capo assoluto della Cisl: «spero che il governo voglia un accordo innovativo ed equilibrato e non fornisca alibi o dia stura a chi minaccia o rincorre tensioni sociali». Sintassi faticosa, ma significato trasparente: il governo trovi qualche soldo, così non si dà spazio alla Cgil o, peggio, alla Fiom. Se si trattasse soltanto di pantomima politico-sindacale, sarebbe solo noia. Ma la recessione morde. I dati sulle richieste di cassa integrazione di gennaio sono esemplari. Un totale di 82 milioni di ore, che se fossero tutte utilizzate – il fenomeno è noto: le aziende in genere chiedono più ore di quante pensano di usarne – corrispondono a 480mila lavoratori che rischiano il posto. In un solo mese. È una tendenza generalizzata, perché cresce sia l’ ordinaria (25 milioni di ore, +23,9% rispetto a gennaio), sia la straordinaria (25 milioni, +20,4); mentre quella in deroga letteralmente esplode: 31 milioni di ore e +134% sul mese precedente. Un trend insostenibile, anche perché la cig in deroga – al contrario delle altre due forme, che sono co-finanziate con contributi da imprese e lavoratori – è totalmente a carico della fiscalità generale. A fine anno il costo totale si aggirerebbe sui 2,1 miliardi. Forse le «tensioni sociali» di cui parla Camusso possono esplodere più qui – con assai meno controllo – che non dalle mobilitazioni centellinate in base all’avanzamento di un «confronto» di cui si sa obiettivamente poco. E quel poco non è per nulla buono. Né «equo». In attesa della riforma del lavoro i collaboratori e i parasubordinati Sono 1,5 milioni, sono sotto i 10mila euro annui Sono dipendenti di fatto e sognano il posto fisso di Walter Passerini (lastampa.it, 15 marzo 2012) Un terzo dei 4,5 milioni di precari, che attendono con ansia gli esiti della trattativa per la riforma del mercato del lavoro, appartengono alla categoria dei parasubordinati. Poi ci sono le finte partite Iva. I parasubordinati sono giovani (uno su due ha meno di 40 anni), sono in continua crescita e sono relativamente poveri. Sono a metà del guado, i protagonisti di prestazioni limbiche, a metà tra l”inferno della precarietà assoluta usa e getta e il paradiso del posto fisso sognato. È in questo mare che nuotano i collaboratori di tutte le razze. Come rileva l”indagine Isfol Plus che ha elaborato i dati di fonte Inps dal 2005 al 2010, sono un esercito di 1,5 milioni di persone, con caratteristiche e sfumature diverse. Tra di loro spiccano le due sottocategorie dei più noti cocopro, i collaboratori a progetto, che sono quasi la metà (676mila), e quella degli amministratori o sindaci di società, che sono più di un terzo (497mila). Seguono i cococo presso le amministrazioni pubbliche (54mila) e i dottori e dottorandi di ricerca (49mila), ma di questa grande famiglia fanno parte anche gli associati in partecipazione (52mila), gli occasionali (autonomi e collaboratori), i venditori porta a porta e altri ancora. I meglio pagati sono gli amministratori e sindaci di società. Le cariche aziendali rendono loro oltre 31mila euro lordi annui. Sono i collaboratori più ricchi e con un”età media maggiore. I collaboratori a progetto, invece, che sono la categoria più numerosa, prendono invece meno di 10mila euro l”anno (9.885), sono i più giovani (per oltre un terzo sotto i 30 anni, quasi due terzi sotto i 39 anni), ma soprattutto nella quasi totalità (84,2%) sono a regime contributivo esclusivo, vale a dire che non hanno altre attività. In soldoni, costoro sono un esercito di 570mila cocopro, che si arrabattano e vivono in modo esclusivo con 8.500 euro lordi l”anno. Altro che Generazione mille euro. Secondo l”osservatorio Isfol Plus, un altro dato rivelatore è quello della qualità della subordinazione. I parasubordinati messi sotto la lente affermano in grande maggioranza (70%) di essere tenuti a garantire la presenza presso la sede di lavoro, di dover garantire anche un orario giornaliero di lavoro (67%) e di utilizzare nello svolgimento della loro prestazione mezzi e strumenti che appartengono allo stesso datore di lavoro. Insomma, la fotografia che ne emerge è più quella di lavoratori dipendenti che di lavoratori autonomi. Ma l”affermazione più destabilizzante è un”altra: il 70% dei collaboratori dichiara di non aver scelto spontaneamente la formula contrattuale, ma di averla dovuta adottare su esplicita richiesta del datore di lavoro. E” soprattutto su queste figure che la riforma del lavoro in corso tra governo e parti sociali dovrà accendere un faro, per dividere le vere collaborazioni autonome dai dipendenti travestiti da collaboratori. Sul totale, i parasubordinati sono spaccati anagraficamente a metà: il 49% è sotto i 39 anni, il 51% è fatto da over 40. Sempre sull”intera torta, prevalgono gli uomini (58,1%) sulle donne, mentre si riproducono e si enfatizzano alcuni dei classici differenziali di genere: se il reddito medio maschile è di 22mila euro, quello femminile è la metà (11.284 euro). Lavoro, la mossa di Cgil, Cisl e Uil: contro-proposta sull’articolo 18 Documento da presentare al governo con l’appoggio del Pd. Oggi il vertice fra i tre leader. Bersani: “La via è il modello tedesco”. Bonanni regista della mediazione: “Non facciamoci distruggere” di Roberto Mania (repubblica.it, 19 marzo 2012) USCIRE dall’angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l’accordo con le parti sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare l’ultima mossa, la “mossa del cavallo”, secondo una consumata strategia negoziale: presentarsi all’appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario sull’articolo 18. Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti all’accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E a maggio ci sono le amministrative. Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista: Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull’Aventino, dopo aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l’ipotesi di un intervento sull’articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia l’accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al “tavolo di Milano” di sabato scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di chiedere l’estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese che oggi non ce l’hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori dalla riforma del mercato del lavoro significhi “distruggere il sindacato italiano”. Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro “la nostra prerogativa più intima”, sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per rincollare tutti i cocci. Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil. Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d’Italia si pensa che Bersani, come gli altri due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. “Un pasticcio”, dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi interlocutori: “È stato un errore dire che al vertice era stato fatto l’accordo sul lavoro. L’accordo si fa al tavolo negoziale”. L’errore, il leader democrat, lo imputa – va detto – al governo. Ma Bersani dice pure – abbracciando davvero l’ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil – che “il governo si trova davanti a una alternativa: o accettare il “modello tedesco” oppure quello della deregulation americana. E l’impressione è che dentro l’esecutivo ci sia ancora qualcuno che sia tentato dallo strappo finale”. Il “modello tedesco”, dunque. Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom di Maurizio Landini in testa l’accusa di non avere alcun mandato a trattare la modifica dell’articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che solo parzialmente aderisce al “modello tedesco”. Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il “modello tedesco” stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari. Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per questi, stabilendo invece l’indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati dai sindacati. È una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo “sarebbe allora il governo – dice il laburista Fassina – a doversi assumere la responsabilità di dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino”. Ministero: “Statali esclusi da nuovo art. 18” Giuslavoristi: “Concessioni, governo mente” Una nota del dipartimento della funzione pubblica dice che le novità sui licenziamenti si applicheranno anche ai dipendenti pubblici. E scatena la polemica. Camusso e Angeletti: “Non è vero”. Alla fine Patroni Griffi chiarisce con una nota. Intanto 53 esperti da Bologna accusano: alcune tutele erano già previste: o il governo è “disinformato” o è “spregiudicato” (repubblica.it, 21 marzo 2012) ROMA – A fine serata arriva la precisazione del ministero della Pubblica amministrazione: “Le modifiche all’art.18 contenute nella riforma del mercato del lavoro non riguarderanno gli statali. Non a caso al tavolo non partecipa il ministro della Funzione Pubblica, Patroni Griffi”. Una nota che pone fine alla querelle durata per ora. Cominciata, all’inizio del pomeriggio, quando il Dipartimento della funzione pubblica fa sapere che le nuove norme sui licenziamenti si applicheranno anche agli statali. Una mezza rivoluzione rispetto a uno degli steccati storici dell’occupazione in Italia: quello che separa il lavoro nel pubblico dal privato in tema di licenziamenti. In tal caso, anche per gli statali il reintegro in caso di licenziamento ingiustificato sarebbe assicurato solo in caso di licenziamento discriminatorio. La leader Cgil Susanna Camusso, in conferenza stampa, ribatte alla “strana” nota del Dipartimento della Funzione pubblica. “Licenziamenti nel pubblico, non può essere”. Luigi Angeletti: “La legge 300 si applica al lavoro privato. Quindi l’articolo 18 in essa contenuto non si applica e non si è mai applicato al settore pubblico – dichiara il segretario generale della Uil in conferenza stampa -. Quindi, le modifiche apportate non si applicano. Se il governo ha pensato di cambiare io non ne so nulla e, comunque, non ci è stato comunicato nulla né in forma orale, né scritta. Nella pubblica amministrazione tutto viene regolato per legge: salari, regolamenti, disciplina”. Il leader Cisl Raffaele Bonanni: “Mi ricordo che la Fornero disse che il pubblico impiego non era coinvolto. A noi non risulta e comunque siamo contrari”. Alla fine, dal ministero della Pubblica amministrazione, arriva una nota: “Solo dopo la definizione del testo che riguarda la riforma del mercato del lavoro si potranno prendere in considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico”. Insomma, aspettiamo che vengano messe a punto le norme. Intanto finiscono nel mirino alcune norme presentate dal governo come una novità in sede di trattativa, quando in realtà si tratterebbe di tutele “già acquisite da anni”. È quanto sostengono da Bologna 53 personalità, tra professori ed esperti di diritto del lavoro, che giudicano “sconcertante” l’atteggiamento del governo, perché “disinformato” o, in alternativa, “spregiudicato. Primi firmatari della nota sono Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone, cui seguono i nomi di 21 esperti bolognesi e quelli di altri da Torino (tra i firmatari Luciano Gallino, professore di Sociologia all’università), Firenze, Milano e Roma. Che puntano l’indice, in particolare, sulle due normative annunciate oggi a tutela dei lavoratori: l’obbligo di assumere un lavoratore a tempo indeterminato dopo 36 mesi di contratti a termine e l’estensione dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamento discriminatorio anche in un’azienda con meno di 16 dipendenti. Tutele che, a detta degli esperti, esistono già da tempo nel nostro ordinamento, ma che il governo presenta come nuove “per far digerire la pillola delle modifiche peggiorative”. Nello specifico, i 53 giuslavoristi indicano che l’estensione dell’obbligo di reintegro nelle piccole aziende è previsto dall’articolo 3 delle legge 109 del 1990, mentre il termine massimo dei 36 mesi è previsto dall’articolo 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001. Riforma articolo 18 per gli statali, estensione possibile, ma non subito Il Testo Unico del 2001 impone l’applicazione dello Statuto dei lavoratori anche ai dipendenti pubblici, ma prevede discipline normative diverse anche sui licenziamenti che il governo si riserva di valutare di V. Gualerzi (repubblica.it, 22 marzo 2012) ROMA – Sì, no, forse. La possibilità che la modifica dell’articolo 18 decisa dal governo nell’ambito della riforma del mercato del lavoro possa essere applicata anche al pubblico impiego non è chiarissima, soprattutto se si presta attenzione ai commenti rilasciati ieri da diversi esponenti del governo e del mondo sindacale 1. Dopo un crescendo di battute e polemiche, una parola definitiva sembra essere arrivata con la precisazione serale del ministero della Pubblica Amministrazione che nel sottolineare che le modifiche all’articolo 18 “non riguarderanno gli statali”, ha ricordato come il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi non fosse neppure presente al tavolo della trattativa. Resta da capire se lo stop del governo, arrivato dopo una imbarazzante confusione che sembra andare di pari passo con le critiche rivolte alla sua comunicazione sulla riforma 2 da un gruppo di illustri giuslavoristi, sia frutto solo di una valutazione di opportunità politica o l’effetto di ostacoli oggettivi di tipo giuridico che ne potrebbero fermare l’estensione anche a fronte di un crescente movimento di opinione. La Legge 20 maggio 1970, n. 300 contenente “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” (meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori) afferma chiaramente che l’articolo 18 si applica “nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole); nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l’azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola); nelle aziende con più di 60 dipendenti”. Nessun accenno quindi al settore pubblico, al quale viene però applicato lo Statuto dei lavoratori in base al comma 2 dell’articolo 51 della legge 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) dove si afferma che “la legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Un principio ribadito anche da una importante sentenza della Cassazione (la n. 2233 dell’1 febbraio 2007) che ha stabilito come per il recesso del rapporto di lavoro degli impiegati pubblici (e dei dirigenti, a questi assimilati), valgono le stesse norme che regolano il licenziamento dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ovvero l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e il diritto alla reintegrazione. L’applicazione dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti pubblici sancito dal Testo unico prevede però una disciplina normativa diversa da quella del settore privato, compresa quella relativa ai licenziamenti. Senza contare che il punto più controverso dell’attuale modifica dell’articolo 18 riguarda il rischio di un’estensione generalizzata dei licenziamenti motivati con ragioni economiche, valutazione tipica del settore privato, ma di difficile interpretazione in quello statale. Per questo, al netto delle valutazioni di opportunità politica, la migliore fotografia della situazione sembra essere contenuta nella nota diramata nel pomeriggio di ieri dal ministero della Funzione Pubblica per chiarire che “solo all’esito della definizione del testo di riforma del mercato del lavoro si potranno prendere in considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico”. E se effetti ci saranno “si valuterà se ricorra l’esigenza di norme che tengano conto delle peculiarità del lavoro pubblico”. Insomma, alla fine la riposta ai dubbi sull’estensione della riforma dell’articolo 18 ai lavoratori pubblici potrebbe non essere né “sì”, né “no”, bensì “non ancora”. La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita Il documento di riforma del mercato del lavoro presentato alle parti sociali dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (approvato dal Consiglio dei Ministri il 23 marzo 2012) 1. PREMESSA La riforma si propone di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi. Gli interventi prefigurati si propongono di 1. ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e adeguando la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento; 2. rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive a contorno; 3. rendere premiante l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili; 4. contrastare usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti. Tra le parti esiste una forte e inscindibile connessione sistemica, che sostiene la necessità della condivisione e dell’approvazione della riforma nel suo complesso. L’efficacia della loro attuazione richiederà un impegno per accrescere l’efficacia e l’efficienza di tutte le strutture oggi preposte, a livello regionale e nazionale, a questi profili del mercato del lavoro. Questo è l’auspicio che il Governo pone nel presentare la riforma nell’interesse complessivo del Paese, per il funzionamento del mercato del lavoro, lo sviluppo e la competitività delle imprese, la tutela dell’occupazione e dell’occupabilità dei suoi cittadini. Per monitorare lo stato di attuazione della riforma e per valutare gli effetti delle sue singole componenti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità di uscita e di entrata, sarà previsto l’immediato avvio di un adeguato sistema di monitoraggio e valutazione. Con riguardo al settore del lavoro pubblico, eventuali adeguamenti alle disposizioni del presente intervento saranno demandati a successive fasi di confronto. 2. TIPOLOGIE CONTRATTUALI Una prima area di intervento riguarda gli istituti contrattuali esistenti. L’azione mira a preservarne gli usi virtuosi e a limitarne quelli impropri, al solo scopo di abbattere il costo del lavoro aggirando gli obblighi previsti per i rapporti di lavoro subordinato. L’impianto generale individua un percorso privilegiato che vede nell’apprendistato – inteso nelle sue varie formulazioni e platee – il punto di partenza verso la progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Pur mirando a favorire la costituzione di rapporti di lavoro stabili, la riforma intende preservare la flessibilità d’uso del lavoro necessaria a fronteggiare in modo efficiente sia le normali fluttuazioni economiche, sia i processi di riorganizzazione. A questo fine sono previsti: • interventi puntuali che limitino l’uso improprio e distorsivo di alcuni istituti contrattuali e, quindi, la precarietà che ne deriva; • una ridefinizione delle convenienze economiche relative dei diversi istituti contrattuali che tenga conto del rispettivo grado di flessibilità e – di conseguenza – del costo atteso a carico del sistema assicurativo che ne deriva; • una più equa distribuzione delle tutele, con interventi sulla flessibilità in uscita rivolti a reprimere pratiche scorrette (ad esempio, le cosiddette dimissioni “in bianco”), a rafforzare le tutele per licenziamenti discriminatori, ad adeguare al mutato contesto economico la disciplina dei licenziamenti individuali, in particolare quelli per motivi economici; • una adeguata modulazione del regime transitorio degli istituti. Di seguito sono illustrate le principali linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali e sulla regolazione del ricorso alle forme contrattuali flessibili. 2.1 - Contratto a tempo determinato I rapporti di lavoro regolati da questo istituto presentano una maggiore propensione, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato, all’attivazione di strumenti assicurativi. Coerentemente con questa caratteristica, si prevede un incremento del relativo costo contributivo (aliquota 1,4%), destinato al finanziamento dell’ASpI (vedi di seguito). Nello spirito della direttiva europea n. 99/70/CE, il contrasto ad un’eccessiva reiterazione di rapporti a termine tra le stesse parti è perseguito tramite l’ampliamento dell’intervallo tra un contratto e l’altro a 60 giorni nel caso di un contratto di durata inferiore a 6 mesi, e a 90 giorni nel caso di un contratto di durata superiore (attualmente, 10 e 20 giorni). Nel contempo, tenuto conto delle possibili esigenze organizzative delle imprese con riguardo al completamento delle attività per le quali il contratto a termine è stato stipulato, si prevede un prolungamento del periodo durante il quale il rapporto a termine può proseguire oltre la scadenza per soddisfare esigenze organizzative, da 20 a 30 giorni per contratti di durata inferiore ai 6 mesi e da 30 a 50 giorni per quelli di durata superiore. Nella logica di contrastare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato, viene previsto che il primo contratto a termine – intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa per qualunque tipo di mansione - non debba più essere giustificato attraverso la specificazione della causale di cui all’art.1 del Dlgs 368/01, fermi restando i limiti di durata massima previsti per l’istituto. Si stabilisce, inoltre, che ai fini della determinazione del periodo massimo di 36 mesi (comprensivo di proroghe e rinnovi) previsto per la stipulazione di contratti a termine con un medesimo dipendente vengano computati anche eventuali periodi di lavoro somministrato intercorsi tra il lavoratore e il datore/utilizzatore. Nel caso in cui il contratto a termine sia dichiarato illegittimo da un giudice, il regime continuerà ad essere basato sul doppio binario della “conversione” del predetto contratto e del riconoscimento al lavoratore di un importo risarcitorio compreso tra 2,5 e 12 mensilità retributive secondo quanto previsto dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010 (cd. Collegato lavoro), di recente dichiarato legittimo dalla sentenza n. 303/2011 della Corte costituzionale. Sono peraltro prefigurati, in merito a tale regime, due tipi di interventi. Da un lato, per scoraggiare il contenzioso sull’argomento, si ribadisce che l’indennità di cui sopra, in quanto prevista dalla legge come “onnicomprensiva”, copre tutte le conseguenze retributive e contributive derivanti dall’illegittimità del contratto a termine. Dall’altro lato, si propone di adeguare, tenuto conto dei nuovi termini previsti per il rinnovo il periodo per l’impugnazione stragiudiziale del contratto a termine dalla cessazione dello stesso (da 60 a 120 giorni), fermo restando – allo stato - il termine per l’impugnazione giudiziale (330). 2.2 - Contratto di inserimento Compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, si razionalizzano – concentrandole sui lavoratori ultra cinquantenni disoccupati da almeno 12 mesi - le risorse impegnate nelle agevolazioni contributive previste, allo stato, nell’ambito della forma contrattuale del contratto di inserimento (che è, come è noto, un contratto a tempo determinato). Tali agevolazioni consistono nella riduzione del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di 12 mesi nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato (e ulteriori 6 mesi nel caso di successiva stabilizzazione, da fruirsi al termine del periodo di prova ove previsto) e di 18 mesi se il lavoratore è assunto a tempo indeterminato. 2.3 - Apprendistato Sulla premessa, condivisa da tutte le parti sociali, di individuare nell’apprendistato, articolato nelle tipologie previste, il canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro, la riforma rispetta sostanzialmente l’impianto del d.lgs. n. 167/2011, della quale Regioni e parti sociali dovranno promuovere l’implementazione entro il termine attualmente fissato del 25 aprile 2012. Vengono inoltre proposti alcuni interventi volti ad enfatizzare i contenuti formativi dell’istituto: • introduzione di un meccanismo in base al quale l’assunzione di nuovi apprendisti è collegata alla percentuale di stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (50%) con l’esclusione dal computo della citata percentuale dei rapporti cessati durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa; • innalzamento del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2; • durata minima di sei mesi del periodo di apprendistato, ferma restando la possibilità di durate inferiori per attività stagionali e fatte salve le eccezioni previste nel T.U.; Si ritiene altresì che anche durante l’eventuale periodo di preavviso al termine del periodo di formazione continui ad applicarsi la disciplina dell’apprendistato. Sino a quando non sarà operativo il libretto formativo la registrazione della formazione è sostituita (come di fatto già accade, ma con incertezze degli operatori) da apposita dichiarazione del datore di lavoro. In tal senso potrà essere previsto uno schema, da definirsi in via amministrativa, per orientare il datore di lavoro. 2.4 - Contratto di lavoro a tempo parziale Al fine di incentivare l’impiego virtuoso dell’istituto, ostacolandone l’uso come copertura di utilizzi irregolari di lavoratori, si propone di istituire, nei soli casi di part-time verticale o misto, un obbligo di comunicazione amministrativa secondo modalità snelle e non onerose (sms, fax o PEC) e contestuale al già previsto preavviso di 5 giorni da dare al lavoratore in occasione di variazioni di orario attuate in applicazione delle clausole elastiche o flessibili. Si intende inoltre prevedere, in caso di rilevanti motivi personali precisati dalla legge e in altre eventuali ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, la facoltà del lavoratore di esprimere un “ripensamento” nel caso di part-time flessibile o elastico. 2.5 - Contratto di lavoro intermittente Al fine di contenere il rischio che lo strumento del contratto di lavoro intermittente, o “a chiamata”, possa essere utilizzato come copertura nei riguardi di forme di impiego irregolare del lavoro, si prevede l’obbligo di effettuare una comunicazione amministrativa preventiva, con modalità snelle (sms, fax o PEC), in occasione di ogni chiamata del lavoratore. Si intende abrogare, per ripristinare la funzione originaria dello strumento, l’articolo 34, comma 2, del d.lgs. 276/2003, secondo cui “Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati”. Si intende abrogare l’articolo 37 del D.Lgs. 276/2003, a norma del quale “Nel caso di lavoro intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana, nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali l'indennità di disponibilità di cui all'articolo 36 è corrisposta al prestatore di lavoro solo in caso di effettiva chiamata da parte del datore di lavoro. Ulteriori periodi predeterminati possono esser previsti dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”. 2.6 - Lavoro a progetto Gli interventi proposti sul regime delle collaborazioni a progetto vanno nella direzione di una razionalizzazione all’istituto, al fine di evitarne utilizzi impropri in sostituzione di contratti di lavoro subordinato. Tale obiettivo è perseguito prevedendo disincentivi tanto normativi quanto contributivi. Tra i primi, una definizione più stringente del “progetto”, che non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa committente; la tendenziale limitazione dell’istituto a mansioni non meramente esecutive o ripetitive così come eventualmente definite dai contratti collettivi, al fine di enfatizzarne la componente professionale; l’introduzione di una presunzione relativa in merito al carattere subordinato della collaborazione quando l’attività del collaboratore a progetto sia analoga a quella svolta, nell’ambito dell’impresa committente, da lavoratori dipendenti fatte salve le prestazioni di elevata professionalità; l’eliminazione della facoltà di introdurre nel contratto clausole individuali che consentono il recesso del committente, anteriormente alla scadenza del termine e/o al completamento del progetto (resterebbe ferma la possibilità di recedere per giusta causa, per incapacità professionale del collaboratore che renda impossibile l’attuazione del progetto, e per cessazione dell’attività cui il progetto è inerente); l’abolizione del concetto di “programma”. È proposta, infine, una norma interpretativa sul regime sanzionatorio, che chiarisce, d’accordo con la giurisprudenza di gran lunga prevalente (ma superando la posizione già assunta dal Ministero del lavoro con la precedente circolare n. 1/2004), che in caso di mancanza di un progetto specifico il contratto a progetto si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Sul versante contributivo, è introdotto un incremento dell’aliquota contributiva IVS degli iscritti alla Gestione separata INPS, così da proseguire il percorso di avvicinamento alle aliquote previste per il lavoro dipendente, nei termini che seguono. Aliquote non iscritti ad altra gestione Aliquota iscritti ad altra gestione o pensionati 2013 28 19 2014 29 20 2015 30 21 2016 31 22 2017 32 23 2018 33 24 2.7 - Partite IVA Per razionalizzare il ricorso a collaborazioni professionali con titolarità di partita IVA, sono proposte norme volte ad evitarne utilizzi impropri in sostituzione di contratti di lavoro subordinato. Sono introdotte norme rivolte a far presumere, salvo prova contraria (ferma restando, cioè, la possibilità del committente di provare che si tratti di lavoro genuinamente autonomo), il carattere coordinato e continuativo (e non autonomo ed occasionale) della collaborazione tutte le volte che essa duri complessivamente più di sei mesi nell’arco di un anno, da essa il collaboratore ricavi più del 75% dei corrispettivi (anche se fatturati a più soggetti riconducibili alla medesima attività imprenditoriale), e comporti la fruizione di una postazione di lavoro presso la sede istituzionale o le sedi operative del committente. Tali indici presuntivi possono essere utilizzati disgiuntamente nel corso delle attività di verifica. Qualora l’utilizzo della partita IVA venga giudicato improprio, esso viene considerato una collaborazione coordinata e continuativa (che la normativa non ammette più in mancanza di un progetto), con la conseguente applicazione della relativa sanzione di cui all’art.69 comma 1 del Dlgs 276/03. 2.8 - Associazione in partecipazione con apporto di lavoro Si prevede di preservare l’istituto solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi. 2.9 - Lavoro accessorio Sono previste misure di correzione dell’art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, come modificato dalla legge n. 33/2009 e n. 191/2009, finalizzate a restringere il campo di operatività dell’istituto e a regolare il regime orario dei buoni (voucher). Si intende inoltre consentire che i voucher siano computati ai fini del reddito necessario per il permesso di soggiorno. 2.10 - Tirocini formativi (stage) Nel rispetto dei profili di competenza regionale, si individuano, unitamente alle regioni stesse, misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei tirocini formativi e di orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato. Ciò tramite la previsione di linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale. Potranno in ogni caso essere previste misure, riconducibili alla esclusiva competenza dello Stato, volte a disciplinare i periodi di attività lavorativa che non costituiscono momenti del percorso di tirocinio formativo, ad evitare un uso strumentale e distorto delle attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio. 3. DISCIPLINA SULLA FLESSIBILITA’ IN USCITA E TUTELE DEL LAVORATORE 3.1 - Revisione della disciplina in tema di licenziamenti individuali Un passaggio significativo del disegno di riforma è l’intervento realizzato sulla disciplina dei licenziamenti individuali, per quanto concerne, in particolare, il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, cd. Statuto dei lavoratori. Va precisato subito, peraltro, che di tale regime rimane immutato il campo di applicazione, che comprende, di massima e fatte salve situazioni particolari come quelle delle organizzazioni cd. di tendenza, i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, aventi più di 15 dipendenti nell’ambito comunale, o più di 60 nell’ambito nazionale. Questo comporta che il regime applicabile ai licenziamenti illegittimi disposti dalle piccole imprese continua ad essere fissato dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (a parte l’ipotesi dei licenziamenti discriminatori su cui infra). Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 18 prefigura, fondamentalmente, l’articolazione fra tre regimi sanzionatori del licenziamento individuale illegittimo, a seconda che del licenziamento venga accertata dal giudice: a) la natura discriminatoria o il motivo illecito determinante; b) l’inesistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (licenziamenti cd. soggettivi o disciplinari); c) l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro (licenziamenti cd. oggettivi o economici). Poiché la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro diviene, nel nuovo contesto normativo, molto importante, è prevista una correzione della regola attualmente posta dall’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nel senso di rendere obbligatoria l’indicazione, nella lettera di licenziamento, dei motivi del medesimo. a) Per i licenziamenti discriminatori, le conseguenze rimangono quelle del testo attuale dell’art. 18: condanna del datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal predetto, a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a risarcire al medesimo i danni retributivi patiti (con un minimo di 5 mensilità di retribuzione), nonché a versare i contributi previdenziali e assistenziali in misura piena. Inoltre, il dipendente mantiene la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. Il medesimo regime si applica per i licenziamenti disposti nel periodo di maternità, in concomitanza del matrimonio, nonché disposti per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 del codice civile. La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane, pertanto, piena ed assoluta, comportando esso la lesione di beni fondamentali del lavoratore, di rilievo costituzionale. b) Per i licenziamenti soggettivi o disciplinari, il regime sanzionatorio prevede un’articolazione interna. Nell’ipotesi in cui accerta la non giustificazione del licenziamento per l’inesistenza del fatto contestato al lavoratore ovvero la riconducibilità dello stesso alle condotte punibili con una sanzione minore alla luce delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili (situazioni che denotano un uso particolarmente arbitrario del potere di licenziamento), il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente e al risarcimento dei danni retributivi patiti, dedotto quanto percepito o percepibile dal lavoratore, entro un massimo di 12 mensilità di retribuzione. V’è altresì condanna al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali, dedotto quanto coperto da altre posizioni contributive eventualmente accese nel frattempo. In questa ipotesi, il lavoratore mantiene, infine, la facoltà di scegliere, in luogo della reintegrazione, un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità. Il regime di cui sopra (reintegrazione) si applica anche ai licenziamenti intimati, prima della scadenza del periodo cd. di comporto, a causa della malattia nella quale versa il lavoratore, ed a quelli motivati dall’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ma trovati illegittimi dal giudice. Nelle altre ipotesi di accertata illegittimità del licenziamento soggettivo o disciplinare, non v’è condanna alla reintegrazione bensì al pagamento di un’indennità risarcitoria che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari parametri. Il regime da ultimo descritto (indennità risarcitoria) vale anche per le ipotesi di licenziamento viziato nella forma o sotto il profilo della procedura disciplinare. Tuttavia, in questi casi, se l’accertamento del giudice si limita alla rilevazione del vizio di forma o di procedura, esso comporta l’attribuzione al dipendente di un’indennità compresa fra 7 e 14 mensilità di retribuzione; ciò a meno che il giudice accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica le tutele di cui sopra. c) Per i licenziamenti oggettivi o economici, ove accerti l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro disponendo il pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari criteri. Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni, di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice applica la relativa tutela. Per questo tipo di licenziamenti è previsto, altresì, l’esperimento preventivo di una rapida procedura di conciliazione innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro, non appesantita da particolari formalità, nell’ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali, e potrà essere favorita la conciliazione tra le parti. Deve essere infatti rilevato, in generale, che la predeterminazione dei possibili importi del risarcimento che può essere preteso del lavoratore licenziato illegittimamente è rivolta a rendere tale risarcimento indipendente dalla durata del processo, e ad incoraggiare la definizione consensuale delle liti, con un benefico effetto di riduzione del contenzioso (a prescindere dalle misure processuali illustrate infra, § 3.2). Il regime di cui sopra deve essere coordinato, altresì, con quello dei licenziamenti collettivi, nei limiti in cui per essi vale l’art. 18, con l’applicazione, per i vizi di tali licenziamenti, del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti economici. 3.2 - Rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento Al fine di consentire la riduzione dei tempi del processo per quanto concerne le controversie giudiziali in tema di licenziamento, si propone, attraverso l’azione di concertazione istituzionale con il Ministero della Giustizia, l’introduzione di un rito speciale specificamente dedicato a tali controversie. Nel quadro di tale rito, una volta dettati i termini della fase introduttiva, è rimessa al giudice la scansione dei tempi del procedimento, nel rispetto del principio del contraddittorio e della parità delle armi nel processo. Si tratta di un rito con caratteristiche di celerità e snellezza, ma che, in ossequio alla specificità del processo del lavoro, rivolto tradizionalmente all’accertamento della verità materiale, prevede un'istruzione vera e propria, sia pure con l'eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio. 4. AMMORTIZZATORI SOCIALI Gli interventi previsti mirano a ripristinare la coerenza tra flessibilità e coperture assicurative, ad ampliare e rendere più eque le tutele fornite dal sistema, a limitare le numerose distorsioni e spazi per usi impropri insiti in alcuni degli strumenti attualmente esistenti. A questo scopo si riordinano e migliorano le tutele in caso di perdita involontaria della propria occupazione; si estendono le tutele in costanza di rapporto di lavoro ai settori oggi non coperti dalla Cassa integrazione e straordinaria; si prevedono strumenti che agevolino la gestione delle crisi aziendali per i lavoratori vicini al pensionamento. La proposta di riforma si articola su tre pilastri: • Assicurazione sociale per l’Impiego (ASpI), a carattere universale • Tutele in costanza di rapporto di lavoro (Cigo, Cigs, fondi di solidarietà) • Strumenti di gestione degli esuberi strutturali Un sistema siffatto è ritenuto essenziale per garantire una copertura adeguata dal rischio di disoccupazione (totale o parziale), eliminando pertanto la necessità di intervenire con provvedimenti ad hoc, caratterizzati da ampia discrezionalità (deroghe). 4.1 - Assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) Situazione a regime La riforma si caratterizza, a regime, rispetto all’attuale sistema di assicurazione contro la disoccupazione involontaria, per un incremento dell’ambito soggettivo di copertura. Dal punto di vista degli importi e delle durate vi è una convergenza rispetto agli attuali trattamenti di disoccupazione ordinaria e di mobilità. La nuova Assicurazione sociale per l’impiego è destinata a sostituire i seguenti istituti oggi vigenti: • indennità di mobilità; • indennità di disoccupazione non agricola ordinaria; • indennità di disoccupazione con requisiti ridotti; • indennità di disoccupazione speciale edile (nelle tre diverse varianti) 4.1.1 - Ambito L’ambito di applicazione viene esteso – tra i lavoratori dipendenti - agli apprendisti e agli artisti, oggi esclusi dall’applicazione di ogni strumento di sostegno del reddito. Restano coperti dalla nuova assicurazione tutti i lavoratori dipendenti del settore privato ed i lavoratori delle Amministrazioni pubbliche (art. 1, comma 2, D.Lgs. 165/2011) con contratto di lavoro dipendente non a tempo indeterminato (es. tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, etc.). Con riferimento ai collaboratori coordinati e continuativi, pur esclusi dall’ambito di applicazione dell’ASpI, si rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum oggi previsto. 4.1.2 - Requisiti Requisiti di accesso analoghi a quelli che oggi consentono l’accesso all’indennità di disoccupazione non agricola ordinaria: 2 anni di anzianità assicurativa ed almeno 52 settimane nell’ultimo biennio 4.1.3 - Durata massima 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età 18 mesi per i lavoratori con almeno 55 anni di età (nel limite delle settimane di lavoro nel biennio di riferimento) 4.1.4 - Importo • eliminazione del massimale basso (931,28); resta il massimale alto (1.119,32, rivalutati annualmente sulla base dell’indice dei prezzi FOI) • percentuale di commisurazione a scaglioni: - 75% fino alla retribuzione di 1.150 euro (rivalutati annualmente sulla base dell’indice dei prezzi FOI); - 25% per la parte di retribuzione superiore a 1.150 € e fino al massimale; • abbattimento del 15% dell’indennità dopo i primi 6 mesi e di un ulteriore 15% dopo altri 6 mesi • retribuzione di riferimento legata all’intero periodo biennale di contribuzione Importi delle indennità in relazione alla retribuzione di riferimento in base alla vecchia modalità di calcolo ed alle nuove modalità La nuova ASpI concede trattamenti iniziali pressoché analoghi all’indennità di mobilità per le retribuzioni fino a 1.200 euro mensili (comprensivi dei ratei di mensilità aggiuntive), e decisamente più elevati per quelle superiori a tale livello. In confronto con l’indennità di disoccupazione non agricola ordinaria è sempre più favorevole, fatta eccezione per le retribuzioni comprese tra 2.050 e 2.200 € mensili. 4.1.5 - Nuova occupazione Si prevede che i periodi di lavoro inferiori a 6 mesi sospendano il trattamento, con ripresa alla fine del periodo di lavoro (ai fini dell’applicazione del decalage). I periodi di lavoro superiori a 6 mesi fanno ripartire il trattamento (in presenza dei requisiti contributivi). 4.2 - Assicurazione sociale per l’Impiego – trattamenti brevi (MiniASpI) Viene del tutto modificato l’impianto dell’attuale indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione. L’indennità viene pagata nel momento dell’occorrenza del periodo di disoccupazione e non l’anno successivo. Il requisito di accesso è la presenza di almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi (mobili). L’indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per l’ASpI. La durata massima è posta pari alla metà delle settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo. Sarà tuttavia prevista la sospensione dell’erogazione del beneficio per periodi di lavoro inferiori a 5 giorni. 4.3 - Contribuzione La contribuzione sarà ovviamente estesa a tutti i lavoratori che rientrino nell’ambito di applicazione della nuova indennità, nella seguente misura: • Aliquota pari a 1,31% per i lavoratori a tempo indeterminato (sarà mantenuta l’attuale aliquota di copertura dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria)1 (1 Restano pertanto in vigore le eventuali riduzioni del costo del lavoro operate dalla legge n. 388/2000 (art. 120) e 266/2005 (art. 1, comma 361) nonché le misure compensative di cui al D.L. 203/2005.) • Aliquota aggiuntiva del 1,4% per i lavoratori non a tempo indeterminato L’aliquota aggiuntiva non si applicherà ai lavoratori assunti in sostituzione di altri lavoratori. Saranno inoltre esclusi dall’applicazione della contribuzione addizionale i lavoratori stagionali di cui al D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modifiche e integrazioni, valutando, eventualmente, anche quanto sinora previsto dai contratti e accordi collettivi. L’aliquota aggiuntiva non si applicherà inoltre agli apprendisti (in quanto contratti di lavoro a tempo indeterminato). Con riferimento ai lavoratori in somministrazione a tempo determinato l’aliquota aggiuntiva dell’1,4% sarà compensata da una riduzione di pari importo dell’aliquota di cui all’articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 276/2003. In caso di trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato si avrà una restituzione pari all’aliquota aggiuntiva versata, con un massimo di 6 mensilità; la restituzione avviene al superamento del periodo di prova, ove previsto. Sarà inoltre previsto un contributo di licenziamento da versare all’Inps all’atto del licenziamento (solo per rapporti a tempo indeterminato), pari a 0,5 mensilità di indennità per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni (compresi i periodi di lavoro a termine); si applica anche agli apprendisti nei casi diversi da dimissioni (si applica anche nel caso di recesso alla fine del periodo di apprendistato). La contribuzione sopra descritta sostituirà le seguenti aliquote oggi a carico dei datori di lavoro: Disoccupazione involontaria: 1,31 Aliquota aggiuntiva per disoccupazione nel settore edile: 0,80 Mobilità: 0,30 4.4 Abrogazioni La riforma comporterà l’abrogazione delle seguenti norme: • Indennità di mobilità (L. 223/1991, artt. da 4 a 7; l’articolo 4, commi da 2 a 12 e 15-bis e l’art. 5, commi da 1 a 5, vanno ripresi e inseriti nell’articolo 24); • Incentivi per iscritti nelle liste di mobilità (art. 8 e art. 25, comma 9); • Disoccupazione nei casi di sospensione (D.L. 185/2008, art. 19, comma 1, lett. a) e b)); • Disoccupazione per apprendisti (D.L. 185/2008, art. 19, comma 1, lett. c); • Misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato (art. 13 D.Lgs. 276/2003) 4.5 - Cassa Integrazione Straordinaria La necessità di eliminare, a decorrere dal 2014, i casi in cui la CIGS copre esigenze non connesse alla conservazione del posto di lavoro induce a ritenere necessaria l’eliminazione della causale per procedura concorsuale con cessazione di attività (art. 3, L. 223/1991). 4.6 - Addizionale comunale sui diritti di imbarco A decorrere dal 1° gennaio 2016 le maggiori somme di cui all'articolo 6-quater, comma 3, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43 sono riversate alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno dell’Inps, a parziale ristoro degli incrementi di spesa derivanti dalla riforma degli ammortizzatori sociali. 4.7 - ASPI – Transizione 4.7.1 - Importo Subito a regime 4.7.2 - Durata Crescente negli anni secondo lo schema seguente: 2013 2014 2015 2016 fino a 50 8 8 10 a regime (12) 50‐54 12 12 12 a regime (12) 55 e oltre 12 14 16 a regime (18) 4.8 - Assicurazione sociale per l’Impiego – trattamenti brevi (MiniASpI) Transizione Già dal 2013 calcolata con il nuovo metodo, anche con riferimento ai periodi 2012 (l’anno mobile al 1° gennaio 2013 riguarda tutto l’anno 2012). 4.9 - Indennità di mobilità 4.9.1 - Durata Durate massime decrescenti in base all’anno di liquidazione, secondo il seguente prospetto: 2013 2014 2015 2016 2017 Cn fino a 39 anni 12 12 12 ASpI (12) ASpI (12) Cn da 40 a 49 anni 24 24 18 ASpI (12) ASpI (12) Cn da 50 a 54 anni 36 30 24 18 ASpI (12) Cn 55 e oltre 36 30 24 ASpI (18) ASpI (18) Sud fino a 39 anni 24 18 12 ASpI (12) ASpI (12) Sud da 40 a 49 anni 36 30 24 18 ASpI (12) Sud da 50 a 54 48 42 36 24 ASpI (12) Sud da 55 anni 48 42 36 24 ASpI (18) 4.9.2 - Importo Secondo le regole oggi vigenti 4.10 - Contributo di finanziamento Nuove regole sin dal 2013 (compresa la maggiorazione per il tempo determinato ed il contributo di licenziamento) 5. ESTENSIONE DELLE TUTELE IN COSTANZA DI RAPPORTO DI LAVORO 5.1 - Previsione di fondi di solidarietà bilaterali per la tutela in costanza di rapporto di lavoro per i settori non coperti dagliinterventi di integrazione salariale Allo scopo di estendere le tutele in costanza di rapporto di lavoro anche ai settori oggi non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale straordinaria, rispettando al contempo le specificità settoriali, si propone l’introduzione di una cornice giuridica per l’istituzione, presso l’Inps, di fondi di solidarietà. I fondi saranno volti a finanziare la prestazione di trattamenti di integrazione salariale per i casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa dovuti a causali previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria. Una particolare modalità di assicurare la suddetta tutela è derivabile dai contratti di solidarietà, difensivi ed espansivi. Resta impregiudicata l’attuale normativa in materia di cassa integrazione ordinaria e straordinaria (salvo quanto previsto al punto 4.5.) e quella relativa ai contratti di solidarietà ex L. 863/1984. 5.1.1 - Procedura di istituzione dei fondi I fondi di solidarietà saranno istituiti con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sulla base di accordi collettivi e contratti collettivi, anche intersettoriali, stipulati dalle organizzazioni comparativamente rappresentative a livello nazionale ed avranno validità erga omnes. L’accordo determinerà l’ambito di applicazione del fondo con riferimento al settore ed alla classe di ampiezza dei datori di lavoro. Il superamento dell’eventuale soglia dimensionale fissata per la partecipazione al fondo si verificherà mensilmente con riferimento alla media del semestre precedente. 5.1.2 - Funzionamento fondi • Obbligo di bilancio in pareggio (compresi i costi di amministrazione), • Impossibilità di erogare prestazioni in carenza di risorse • Modifiche al regolamento in relazione all’importo delle prestazioni o alla misura dell’aliquota sono adottate, anche in corso d’anno, con decreto direttoriale dei Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’Economia e delle Finanze sulla base di una proposta del comitato amministratore • Determinazione (o modifica) dell’aliquota di contribuzione in maniera da assicurare il pareggio sulla base di bilanci di previsione a 8 anni basati sullo scenario macroeconomico del MEF • In caso di necessità di assicurare il pareggio di bilancio ovvero di far fronte a prestazioni già deliberate o da deliberare, i Ministeri vigilanti possono adeguare l’aliquota contributiva anche in mancanza di proposta del comitato amministratore • Contribuzione a carico del datore di lavoro e dei lavoratori (2/3 e 1/3) 5.1.3 - Obblighi L’istituzione dei fondi deve essere obbligatoria per tutti i settori, anche attraverso formule intersettoriali, in relazione alle imprese sopra i 15 dipendenti. Ove già esistenti, verrà stabilito un termine per il loro eventuale adeguamento ai criteri stabiliti con decreto. Per le imprese sotto i 15 dipendenti, saranno stabiliti, sentite le Parti Sociali, criteri di estensione dell’istituto in parola e modalità di promozione, anche in considerazione delle esperienze ad oggi osservabili. Per i settori per i quali non siano stipulati accordi collettivi volti all’attivazione del fondo di solidarietà viene istituito, con decreto interministeriale, un fondo di solidarietà residuale, con le seguenti regole: • prestazione di importo pari all’integrazione salariale • contribuzione a carico del datore di lavoro e dei lavoratori (2/3 e 1/3) • durata non superiore a 1/8 delle ore complessivamente lavorabili da computare in un biennio mobile • causali previste dalla normativa in materia di cassa integrazione ordinaria e straordinaria 5.2 - Fondi interprofessionali per la formazione continua Gli accordi possono prevedere la riconversione dei fondi interprofessionali per la formazione continua. In tal caso il gettito dello 0,30% viene devoluto al fondo di solidarietà, con obbligo di vincolarne una quota parte al finanziamento di formazione continua durante i periodi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. 5.3 - Messa a regime della Cassa Integrazione Straordinaria per alcuni settori Vengono portate a regime le estensioni dell’ambito della Cassa Integrazione Straordinaria rinnovate annualmente: • imprese del commercio tra 50 e 200 dipendenti • agenzie di viaggio sopra i 50 • imprese di vigilanza sopra i 15 Si estende a tali settori la contribuzione dello 0,9%. Viene inoltre confermata a regime l’applicazione della normativa CIGS ai settori del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali. 5.4 - Indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per i lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle cmpagnie portuali. Messa a regime • Messa a regime dell’indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per i lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali (da ultimo contenuta nell’art. 19, comma 12, D.L. 185/2008). • Obbligo, per le società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali, di versare una contribuzione in misura pari a quella prevista per la CIGS (0,9% di cui 0,3% a carico dei lavoratori). 6. PROTEZIONE DEI LAVORATORI ANZIANI 6.1 - Tutela addizionale in caso di perdita del posto di lavoro. Cornice giuridica Creazione di una cornice giuridica per gli esodi con costi a carico dei datori di lavoro, sulla falsa riga di quanto previsto dai fondi di solidarietà ex L. 662/1996. Facoltà delle aziende di stipulare accordi con i sindacati maggiormente rappresentativi, finalizzati ad incentivare l’esodo dei lavoratori anziani. 6.1.1 - Requisiti dei lavoratori Lavoratori che raggiungano i requisiti per il pensionamento nei successivi 4 anni, sulla base della normativa vigente. 6.1.2 - Requisiti aziendali Presentazione di idonee garanzie da parte dell’azienda (es. fidejussione bancaria) 6.1.3 - Procedura Domanda da presentare all’Inps, che effettua l’istruttoria in ordine alla presenza dei requisiti in capo al lavoratore ed al datore di lavoro; 6.1.4 - Contribuzione Obbligo dell’azienda a versare mensilmente all’Inps la provvista per la prestazione e per la contribuzione figurativa. 6.1.5 - Prestazione Prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti. 6.1.6 - Contribuzione Contribuzione IVS parametrata sulla retribuzione media degli ultimi 5 anni. 6.1.7 - Transizione Per gli esodi fino al 2016 il primo periodo può essere coperto (per i lavoratori licenziati con procedura di mobilità) dall’indennità di mobilità, fermo restando il requisito di 4 anni dal momento dell’esodo a quello del pensionamento. 6.1.8 - Istituzione di fondi per interventi complementari Contestualmente alla progressiva riduzione dell’indennità di mobilità e della corrispondente aliquota, sarà previsto che la parte di tale aliquota via via liberata possa essere destinato, previo accordo tra le parti, ad un fondo di solidarietà per il finanziamento parziale di prestazioni complementari all’ASpI. Resta ferma la condizionalità della fruizione dell’ASpI e delle altre prestazioni di sostegno al reddito. Analogamente potrà essere disporsi in relazione all’indennità di disoccupazione speciale in edilizia 7. INTERVENTI PER UNA MAGGIORE INCLUSIONE DELLE DONNE NELLA VITA ECONOMICA Si prevedono interventi che favoriscono la maggiore inclusione delle donne in contesti caratterizzati da una limitata partecipazione delle stesse rispetto agli uomini e donne, con l’obiettivo di diminuire il divario particolarmente ampio nel Mezzogiorno e tra le fasce meno qualificate, ma che risulta presente anche tra le fasce qualificate e nelle posizioni di vertice. Nella convinzione che la mancanza e il costo elevato dei servizi di supporto nelle attività di cura rappresentano un ostacolo per il lavoro a tempo pieno e per l’ingresso nel mercato del lavoro per migliaia di donne, si introducono misure atte a garantire maggiori servizi e una organizzazione del lavoro tali da consentire ai genitori una migliore assistenza dei propri figli, rafforzando contestualmente la tutela della genitorialità. 7.1 - Tutela della maternità e paternità e contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco Si introduce, a favore di tutti i lavoratori, per quanto il fenomeno riguardi prevalentemente le lavoratrici, la disposizione volta a contrastare la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”, con modalità semplificate rispetto a quelle previste dalla abrogata L. 188/2007, e senza oneri per il datore di lavoro e il lavoratore. Inoltre, viene rafforzato il regime della convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri. In particolare, la prima sezione della norma estende la convalida anche all’ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che precedentemente veniva utilizzata per aggirare la disciplina delle dimissioni. Si estende da uno a tre anni di vita del bambino (con corrispondenti adeguamenti per l’ipotesi di adozione o affidamento, anche internazionale) il periodo entro il quale le dimissioni della lavoratrice o del lavoratore devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro per poter acquisire efficacia. Rimane inalterato, invece, il periodo coperto dal divieto di licenziamento, nonché il periodo, che è sempre di un anno dalla nascita del bambino, previsto dall’art. 55 comma 1 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, entro il quale le dimissioni, se rese dalla lavoratrice o dal lavoratore che fruisca del congedo di paternità, danno luogo alla spettanza delle indennità previste per il caso di licenziamento, cioè in pratica all’indennità sostitutiva del preavviso, come se si tratti di dimissioni rese per giusta causa. La seconda parte della disposizione comporta, ai fini dell’efficacia delle dimissioni e della risoluzione consensuale, che la volontà risolutoria venga espressa attraverso modalità comunque volte ad accertare l’autentica genuinità e contestualità della manifestazione di volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro. Ciò avverrà tramite modalità alternative tra loro. Una prima modalità contempla che le parti possano rivolgersi al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro per la convalida. Una seconda modalità è la sottoscrizione di un’apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro che il datore è già tenuto ad inviare al Centro per l’impiego ai sensi dell’art. 21 della legge n. 264/1949; con la precisazione che, effettuandosi tale comunicazione in forma telematica, lo scarico della ricevuta di trasmissione non comporta tempi di ulteriore attesa. La nuova procedura, che si estrinseca in fasi ben determinate, tutela sia la posizione del lavoratore sia quella del datore di lavoro. Infatti, la norma, nel dare contezza degli effetti derivanti da ciascun comportamento che il prestatore di lavoro pone in essere, da un lato tutela la libertà della lavoratrice/lavoratore, in quanto prova l’autentica volontà degli stessi di dimettersi o di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, dall’altro, tutela l’affidamento del datore di lavoro conseguente ai comportamenti del lavoratore. Altre modalità, sempre funzionali alla semplificazione, potranno essere individuate con decreto ministeriale anche in funzione dell’evoluzione dei mezzi tecnologici e informatici. In ogni caso è prevista una sanzione amministrativa qualora risulti l’abuso del foglio firmato in bianco, fermo restando l’eventuale applicazione della sanzione penale, ove possano riscontrare gli estremi di reato. Qualora emerga evidenza di dimissioni in bianco, le dimissioni sono da considerarsi licenziamento discriminatorio con tutte le conseguenze che questo comporta. 7.2 - Conciliazione e disciplina del congedo di paternità obbligatorio Per favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia, si sono previste alcune modifiche al T.U. sulla maternità e l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, in linea con quanto previsto in altri paesi e con la Direttiva 2010/18/EU. In particolare, il congedo di paternità obbligatorio è riconosciuto al padre lavoratore entro 5 mesi dalla nascita del figlio e per un periodo pari a tre giorni continuativi. Agli oneri derivanti da tali interventi, si provvederà con l’utilizzo parziale delle risorse di cui fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento dell’occupazione giovanile e delle donne (comma 27, art. 24, L. 214/11). 7.3 - Misure volte a favorire la conciliazione vita lavoro Al fine di promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro, si intende disporre l’introduzione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting. Le neo mamme avranno diritto di chiedere la corresponsione di detti voucher dalla fine della maternità obbligatoria per gli 11 mesi successivi in alternativa all’utilizzo del periodo di congedo facoltativo per maternità. Il voucher è erogato dall’INPS. Tale cifra sarà modulata in base ai parametri ISEE della famiglia. Le risorse a sostegno di questo intervento saranno reperite nell’ambito del già citato fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento dell’occupazione giovanile e delle donne. 8. EFFICACE ATTUAZIONE DEL DIRITTO AL LAVORO DEI DISABILI Al fine di favorire maggiormente l’inserimento e l’integrazione nel mondo del lavoro di categorie svantaggiate quali i disabili, sono previsti interventi che incidono sulla vigente normativa (L. 68/99), estendendone il campo di applicazione. In particolare, si intende includere nel numero di lavoratori utilizzato quale base per il calcolo della quota di riserva per l’assunzione dei disabili tutti i lavoratori assunti con vincolo di subordinazione, con l’esclusione di alcune tipologie (i disabili già in forza, i dirigenti, i soci delle cooperative, i contratti di reinserimento, i lavoratori assunti per attività da svolgersi all'estero, i lavoratori interinali occupati presso l'impresa utilizzatrice, i lavoratori socialmente utili assunti, i lavoratori a domicilio, lavoratori che aderiscono al programma di emersione) È inoltre necessario contrastare l’abuso dell’istituto degli esoneri, totale o parziale, che nella normativa vigente permette ad alcuni datori di lavoro che operano in particolari settori, per le speciali condizioni della loro attività e per determinate mansioni, l'esclusione dall'obbligo di assunzione di persone con disabilità. Conseguentemente, il rispetto della previsione di un numero garantito di posti di lavoro per disabili, di cui all'art.3 della legge 68/99, richiede maggiori e più incisivi controlli da parte dell'Ispettorato del ministero del lavoro, finalizzati a verificare la correttezza dei prospetti informativi delle quote di riserva cui sono tenute le aziende pubbliche e private. 9. INTERVENTI VOLTI AL CONTRASTO DEL LAVORO IRREGOLARE DEGLI IMMIGRATI Per evitare che la crisi economica determini l'irregolarità dei lavoratori stranieri che abbiano perso il posto di lavoro, occorre adottare misure che ne facilitino il reinserimento nel mercato, favorendo l’offerta che provenga dal bacino di immigrati già all'interno del paese piuttosto che ricorrendo a nuovi flussi dall'estero. Pertanto, la perdita del posto di lavoro non può comportare la revoca del permesso di soggiorno del lavoratore extracomunitario e dei suoi familiare, ma occorre prolungare il periodo in cui lavoratore può essere iscritto nelle liste di collocamento, estendendolo anche a tutto il periodo in cui sia ammesso a una prestazione per disoccupazione. In tal senso, si intende intervenire nel concerto con il Ministero dell’Interno. 10. POLITICHE ATTIVE E SERVIZI PER L’IMPIEGO 10.1 - Obiettivi Una ulteriore area di intervento riguarda le politiche attive e i servizi per l’impiego. In questa area, che prevede un forte concerto tra Stato e Regioni, ci si propone di rinnovare le politiche attive, adattandole alle mutate condizioni del contesto economico e assegnando loro il ruolo effettivo di accrescimento dell’occupabilità dei soggetti e del tasso di occupazione del sistema mediante: • attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o soprattutto beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione • qualificazione professionale dei giovani che entrano nel mercato del lavoro • formazione nel continuo dei lavoratori • riqualificazione di coloro che sono espulsi, per un loro efficace e tempestivo ricollocamento • collocamento di soggetti in difficile condizione rispetto alla loro occupabilità. Occorre altresì creare, attraverso le politiche attive, canali di convergenza tra l’offerta di lavoro (nuova o connessa a perdita del posto di lavoro) e la domanda (valutazione dei fabbisogni delle imprese e coerenza dei percorsi formativi dei lavoratori e delle professionalità disponibili), in un’ottica di facilitazione del punto di incontro tra chi offre lavoro e chi lo domanda. Gli interventi di attivazione devono sottendere un patto di mutua responsabilità/obbligazione tra enti che offrono servizi per il lavoro, lavoratori, datori di lavoro. La presenza d’un regime di sussidi di disoccupazione rafforza la necessità di tener conto d’una finalità particolare dell’intervento pubblico: al generico “aiuto” ai soggetti deboli ed a rischio di emarginazione si aggiunge infatti l’esigenza di contrastare abusi e disincentivi connessi con l’operare dei sussidi. Questa esigenza implica che in molti casi non ci si limiterà a “mettere a disposizione” servizi (che altrimenti la logica di mercato potrebbe non fornire o non fornire a tutti a condizioni adeguate), ma si arriverà a voler “imporre” determinati interventi concreti, in una logica tutoria e di prevenzione, rispetto a possibili abusi e derive di emarginazione. 10.2 - Principi generali Ferme restando le competenze concorrenti, occorre concretizzare un accordo puntuale, per target, finalità e tempi e nel rispetto dei ruoli tra Stato, Regioni, Parti Sociali in ordine a meccanismi, anche di riforma istituzionale, che permettano una gestione sinergica delle politiche di attivazione, formazione e di sostegno del reddito, sulla base di una comune identificazione delle platee di beneficiari. I punti essenziali di questo accordo sono inseriti nel testo di riforma, suggellati da una loro condivisione da parte del Governo e delle Regioni, e rinvieranno alle sedi istruite dalla conferenza Stato-Regioni. 10.3 - Il ruolo dei servizi per l’impiego e delle strutture che li offrono Un intervento fondamentale in questo quadro riguarda il rinnovamento del ruolo dei servizi per l’impiego e la riorganizzazione delle strutture che li offrono. Occorre definire una governance del sistema, attraverso, in primis, standard nazionali di riferimento. Per i centri per l’impiego, è necessario individuare Livelli Essenziali di Servizio omogenei. I centri possono erogare direttamente o esternalizzare ad agenzie private i servizi in parola. Vanno definite premialità e sanzioni per incentivare l’efficienza dei servizi per il lavoro e per spingere a comportamenti virtuosi sia i soggetti che erogano i servizi, sia le persone/lavoratori che beneficiano dei servizi e dei sussidi. Occorre prevedere un accordo fra Stato e Regioni (con la condivisione delle Parti Sociali) per la piena realizzazione di una dorsale informativa unica e l’utilizzo dei flussi congiunti, per testa, provenienti non solo dalla banca dati percettori, ma soprattutto dai sistemi informativi lavoro delle Regioni. Il sistema informativo unico, caratterizzato da codifiche uniformi e da standard statistici condivisi, è condizione essenziale per il corretto ed efficace utilizzo dei flussi e, di conseguenza, per realizzare la convergenza tra politiche passive e attive. Un primo passo deve consistere nell’accelerazione del processo di informatizzazione dei servizi per il lavoro (rilascio delle certificazioni, istituzione del fascicolo personale web). Per rafforzare la governance del sistema e garantirne la effettività ed efficacia dei servizi, si intendono approfondire alcune ipotesi di intervento emerse in sede di confronto con le Regioni. In particolare, si tratterà di valutare la creazione di una sede unica, localmente insediata, per accedere a politiche passive e attive (accordo Inps e enti coinvolti nella gestione dei servizi per l’impiego. Da questo punto di vista, l’attuale quadro istituzionale prevede che le politiche attive siano assegnate alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni (rientrano nella nozione di “tutela e sicurezza del lavoro”), mentre quelle passive (rientrando nella nozione di “previdenza sociale”), sono di competenza esclusiva dello Stato. Lo Stato e le Regioni concordano sulla opportunità di attivare un percorso che, sulla base degli obiettivi e dei principi generali enunciati, consenta di pervenire alla stipula di un accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni entro il 30 giugno 2012, che identifichi le linee di indirizzo della riforma e gli eventuali riassetti di enti ed organismi ritenuti necessari, ivi inclusa la proposta del governo di creare una Agenzia unica nazionale per la gestione in forma integrata delle politiche attive e dell’ASpI, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome e caratterizzata da forte autonomia territoriale. 10.4 - Interventi per l’apprendimento permanente Nell’ambito della riforma, in modo condiviso con il competente Ministero (MIUR), saranno previste norme generali sull’apprendimento permanente, intese a definire il diritto di ogni persona all’apprendimento permanente e collegarlo, in modo sistemico, alle strategie per la crescita economica, accesso al lavoro dei giovani, riforma del welfare, invecchiamento attivo, esercizio della cittadinanza attiva, anche da parte degli immigrati. A tal fine, in particolare, saranno individuate linee guida per la costruzione, in modo condiviso con le Regioni e nel confronto con le parti sociali, di sistemi integrati territoriali, caratterizzati da flessibilità organizzativa e di funzionamento, prossimità ai destinatari, capacità di riconoscere e certificare le competenze acquisite dalle persone. Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne ostaggio di Francesco Verderami (corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:31) Non è vero che solo i bambini possono meravigliarsi. Ieri, per esempio, anche Monti si è meravigliato, è rimasto colpito dal linguaggio adottato da Bersani e da D’Alema: «Non mi sarei mai aspettato certi toni». Ed è vero che si fa sempre in tempo ad imparare, ma il premier non immaginava tanta virulenza verbale da parte dei maggiorenti del Pd, sebbene fosse consapevole che il tema del lavoro è materiale incandescente, che dietro un numero — l’articolo 18 — ci sono persone in carne e ossa, e che la riforma da lui voluta tocca la storia e la ragione sociale di quel partito. Epperò i limiti di una sobria dialettica politica sono stati superati, se riservatamente il segretario dei Democratici ha sentito il bisogno di chiarirsi con il premier. E in pubblico, dopo aver detto che «non si può mettere a tacere il Parlamento in nome dei mercati », ha poi spiegato che «noi immaginiamo un’alternativa alla destra populista, non a Monti». Ma l’ago della retorica non ricuce lo strappo. Il punto tuttavia non è se oggi il Professore—manco fosse la torre di Pisa del Palazzo — ora pende a destra, se con la loro offensiva i Democrat lo hanno regalato agli avversari. Anche perché nel Pdl ieri è montata la protesta contro il premier, reo di non aver scelto per la riforma del lavoro la procedura d’urgenza, ma l’andamento lento del disegno di legge. Tutti sono rimasti colpiti dal fatto che il governo abbia adottato due pesi e due misure, rispetto all’utilizzo dei decreti per le liberalizzazioni e le semplificazioni. È proprio l’uso reiterato di questo strumento che Napolitano ha opposto a Monti per sconsigliargli di adoperarlo anche sul tema del lavoro: «Non è possibile andare avanti solo con questa procedura». Una motivazione che il Quirinale ha ripetuto ad alte cariche istituzionali e rappresentanti di partito. Chissà se anche in questo caso il premier si è meravigliato, se è vera la sua «delusione» verso il Colle, come racconta un autorevole esponente del governo. Di sicuro nei colloqui intercorsi ieri sera tra i dirigenti del Pdl con il loro segretario Alfano, tutti hanno convenuto che la mossa del capo dello Stato è stata una «copertura politica» offerta al Pd in vista delle Amministrative. D’un tratto la baraonda che fino a ieri regnava tra i Democratici si è spostata tra i berlusconiani. Il tramestio è destinato a proseguire anche nel rapporto con gli alleati- avversari del Pd, ed è evidente che lo scontro non giova al premier e al suo governo. Monti, che finora aveva dettato il passo al Parlamento, ora rischia di diventarne ostaggio, di restarne prigioniero. Ripiegando sul disegno di legge, finisce infatti per infilarsi nel pantano dei regolamenti di Camera e Senato, nel ginepraio delle procedure, nei possibili agguati dei voti in commissione, nelle estenuanti trattative in cui potrebbero infilarsi altre trattative: perché non solo di lavoro si discute in Parlamento, ma anche di Rai e di giustizia… Il Professore avrebbe volentieri optato per il decreto, ma senza la copertura del Colle non poteva forzare la mano. È vero che per questa riforma il governo chiederà la «corsia preferenziale » nei due rami delle Camere, e in tal senso Monti avrebbe ricevuto garanzie da Bersani. Peccato però che il segretario del Pd non ne abbia offerte sull’articolo 18. Così il vecchio metodo della concertazione, che il premier aveva messo fuori dalla porta nelle trattative con le parti sociali, rientra prepotentemente dalla finestra in Parlamento. E se i Democratici possono contare sulla Lega per far saltare la nuova formulazione della norma sui licenziamenti, il Pdl ha i numeri per ripristinare una forte flessibilità in entrata. In questo caso del progetto di modernizzazione del mercato del lavoro non resterebbe nulla. Di necessità virtù, il Professore cercherà di sfruttare a proprio vantaggio il tempo: se ne servirà per far raffreddare il clima politico e sociale, per far comprendere meglio la riforma e levigare le asprezze sull’articolo 18. Intanto confida che il disegno di legge venga interpretato a livello internazionale come un messaggio rassicurante, la garanzia che questo è lo schema su cui si muove il governo. È da vedere però se questo schema reggerà in Parlamento, o se per evitare correzioni di rotta il premier giocherà la carta della fiducia, che già aveva messo nel conto. Il problema politico e d’immagine è comunque evidente. E se Monti è rimasto meravigliato per le sortite dei dirigenti del Pd, non si è stupito per quel che è accaduto sui mercati: «Le incertezze degli ultimi giorni si sono riflesse sullo spread, che è tornato a salire», ha ammonito. La speranza è che sia solo un avvertimento, ma sarà complicato dare garanzie sui tempi di approvazione della riforma. Chissà se davvero le nuove norme sul lavoro saranno legge prima dell’estate. La sortita di ieri del presidente del Senato non era altro che un auspicio, un modo per esorcizzare il timore dell’empasse. Nonostante la richiesta della corsia preferenziale, agenda alla mano, il governo è consapevole che sarà difficile, se non impossibile, centrare l’obiettivo: intanto perché le Camere chiuderanno un paio di settimane per le vacanze di Pasqua e le elezioni amministrative. Contando poi i decreti, che hanno la precedenza, non c’è spazio per chiudere entro luglio. E siccome alla ripresa di settembre c’è l’appuntamento con la sessione di bilancio… Ecco il pasticciaccio brutto che mette all’angolo Monti. La «strana maggioranza», che era la sua forza, ora rischia di trasformarsi nella sua debolezza. E quella foto che mostrava a Palazzo Chigi l’ABC della politica sbiadisce in mano a Casini. Perché con Bersani in affanno e Alfano in difficoltà, salta anche lo schema di gioco del leader centrista. Ma di questo nessuno si meraviglia. L’abc della riforma del mercato del lavoro in 43 voci, dagli ammortizzatori sociali agli stage di Nicoletta Cottone e Vittorio Nuti (ilsole24ore.com, 24 marzo 2012) Il Consiglio dei ministri ha approvato, «salvo intese», il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. In 26 pagine e dieci punti il documento presentato dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e approvato dal Consiglio dei ministri, ha l’obiettivo di favorire una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego, contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e adeguando all’attuale contesto economico la disciplina del licenziamento individuale. C’è un nuovo assetto degli ammortizzatori sociali e delle relative politiche attive, ci sono elementi di premialità per l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili. L’obiettivo è anche quello di contrastare con maggiore incisività l’elusione degli obblighi contributivi e fiscali. Sono coinvolti gli istituti contrattuali, le tutele dei lavoratori nel caso di licenziamento illegittimo, la flessibilità e le coperture assicurative, i fondi di solidarietà, l’equità di genere e le politiche attive. Ecco un abc delle principali novità contenute nel documento del ministro del Welfare. Ammortizzatori sociali, tre pilastri tra novità e conferme Apprendimento permanente, arrivano le linee guida Apprendistato, canale privilegiato di accesso al lavoro per i giovani Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego: tutela estesa a più soggetti Aspi, durata dell’indennità: a regime 18 mesi per gli over 55 Associazione in partecipazione con apporto di lavoro solo per i familiari Cassa integrazione straordinaria, messa a regime per alcuni settori Cassa integrazione straordinaria, niente sussidio se cessa l’attività Centri per l’impiego, arrivano le pagelle Conciliazione vita-lavoro, voucher per servizi di baby-sitting Congedo di paternità obbligatorio, tre giorni continuativi Contratto di inserimento, riduzione dei contributi Contratto di lavoro a tempo parziale, obbligo di comunicazione amministrativa Contratto di lavoro intermittente, comunicazione preventiva snella Contratti a tempo determinato, sale il costo contributivo Contribuzione, obbligo per tutti i lavoratori “coperti” dall’Aspi Dimissioni in bianco, contrasto della pratica Diritti di imbarco, incremento dell’addizionale girato all’Inps per i nuovi ammortizzatori Disabili, diritto al lavoro dei disabili: si amplia la quota di riserva Donne, inclusione nella vita economica Fondi di solidarietà, finanzieranno trattamenti di integrazione salariale Fondi di solidarietà, funzionamento Fondi di solidarietà, istituzione Fondi di solidarietà, obblighi Fondi interprofessionali per la formazione continua Immigrati, la perdita del posto non comporterà la perdita del permesso di soggiorno Indennità di mobilità, staffetta con l’Aspi dal 2016 Indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per lavoratori di ex compagnie portuali Lavoratori anziani, tutela addizionale in caso di perdita del posto di lavoro Lavoro accessorio, voucher computati ai fini del reddito per il permesso di soggiorno Lavoro a progetto, un freno all’uso improprio Licenziamenti discriminatori, rimane la piena tutela Licenziamenti individuali, le modifiche all’articolo 18 Licenziamenti oggettivi o economici, prevista anche una rapida proicedura di conciliazione Licenziamenti, rito processuale veloce per le controversie Licenziamenti soggettivi o disciplinari, la nuova articolazione Mini-Aspi, durata di un anno dal 1° gennaio 2013 Mini Aspi, sussidio in tempi rapidi Partite Iva, razionalizzazione Politiche attive, stimoli alla ricerca concreta del lavoro Quadro normativo del lavoro, abrogazioni Stage, in arrivo linee guida nazionali Una trincea ideologica Ferruccio de Bortoli (corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:27) La riforma del mercato del lavoro è molto più ampia della revisione dell’articolo 18. Estende gli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente escluse, riduce la precarietà. Aspira a stabilizzare e a rendere più facili le assunzioni definitive. È emendabile, ma va nella direzione giusta. Un licenziamento dovuto a ragioni disciplinari, per il quale il giudice può ordinare il reintegro, è aggirabile con una motivazione economica e il solo risarcimento da 15 a 27 mensilità? Certo, lo è. L’abuso va contrastato con norme chiare e rigorose. Le reazioni sindacali sono tutte comprensibili. Meno i ripensamenti di Bonanni e Centrella che al tavolo con il governo dicono una cosa e poi se la rimangiano, magari dopo aver ascoltato un esponente dell’episcopato. Il travaglio interno del Pd è da rispettare. La dialettica fra laburisti e liberali vivace e salutare. Colpiscono, però, sia la durezza di D’Alema, che parla del governo come un «vigilante di norme confuse», sia di Bersani che teme l’esautorazione delle Camere. Il Parlamento, ai tempi della concertazione, ratificava soltanto gli accordi tra le parti sociali. Il segretario del Pd se ne è uscito anche con la seguente frase: «Non morirò monetizzando il lavoro». Nobile e curioso. Solo l’1 per cento delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri. E poi: gli accordi sui prepensionamenti e sugli esodi incentivati che cosa sono se non una monetizzazione di posti di lavoro che spariscono? I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale. Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. Come se adesso le aziende in crisi, e non sono poche purtroppo, non riducessero l’occupazione e non vi fosse il dramma di tanti lavoratori abbandonati in cassa integrazione o senza sussidi e possibilità di un reimpiego. E come se l’Italia non fosse ricca di tantissime realtà, grandi e piccole, in cui il lavoro è difeso e rispettato. E, ancora, tanti imprenditori e dipendenti non condividessero le stesse ansie e lo stesso amore per ciò che producono e per i valori comuni di cui sono portatori. Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori. Scrive Guido Viale su il manifesto: «I capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro annunciando: appena passa l’abolizione dell’articolo 18 siete fuori!». Davvero è questo il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio? O è una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico, una trincea fra capitale e lavoro, la costruzione artificiosa di un nemico di classe? Lo Statuto dei lavoratori fu, nel 1970, un’importante conquista sociale. Sono passati 42 anni, la società è cresciuta, i diritti sono meglio protetti. Ma in parti del sindacato e della sinistra la nostalgia per quegli anni di lotte operaie e studentesche è forte. La storia andrebbe riletta, anche per risparmiarci le code spiacevoli e le derive violente di cui dovremmo coltivare la memoria. Governo e sindacato uniti nell’errore di Eugenio Scalfari (repubblica.it, 25 marzo 2012) Due simbolismi contrapposti: l’ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell’articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l’opinione pubblica e il dibattito politico. I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all’estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro. Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l’uccisione del delfino degli Asburgo da parte d’un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte. Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo “spread” potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l’Europa e tutto questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire - mi si passi un’espressione scurrile ma appropriata - chi ce l’ha più lungo. Infatti il peso e l’importanza dell’articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell’economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell’articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all’articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato. Conosco bene l’obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d’una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale. Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del “salva Italia” ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita. Infine osservo che l’articolo 1 della Costituzione recita che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d’una banalità o d’un principio che deve ispirare il legislatore? Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall’inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell’estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell’estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all’entrata ed anche all’uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico – come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere – ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave. Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l’errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l’articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione? Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch’essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d’accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l’articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l’intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell’etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge. Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato. L’articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile. Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un’intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio. La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C’era un solo modo di realizzare quell’obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe. Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l’articolo 18. Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all’interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d’allarme. Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della “strana” maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento. Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l’imprenditore e il sindacato d’azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l’11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo. Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D’Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione. L’incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l’equità e la pre-condizione d’una crescita che d’ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti. Lettere, avvocati e tribunali. Così i nuovi licenziamenti Senza conciliazione, il lavoratore dovrà dimostrare la sua utilità di Isidoro Trovato (corriere.it. 25 marzo 2012 | 15:50) In un contesto in piena evoluzione non è semplice tracciare un percorso prevedibile. Ma quale scenario avremmo provando a verificare il percorso giuridico di una causa per licenziamento per motivi economici? Basandoci sugli elementi ancora incompleti che abbiamo in mano, emerge un quadro «verosimile». Il licenziamento per motivi economici è quello che prevede il maggior numero di novità: per motivi economici non si intende lo stato di crisi, ma ragioni di gestione aziendale. Un’impresa può decidere di licenziare il suo centralinista perché ritiene più utile acquistare un software che gestisca il traffico telefonico. Si tratta di una motivazione economica e pertanto inizia l’iter previsto dalla riforma. Il primo atto è l’invio di una lettera alla direzione territoriale del lavoro. Nella lettera l’azienda comunica la volontà di licenziare il suo centralinista spiegando i motivi gestionali legati alla decisione. Si istituisce una commissione per gestire la conciliazione. Il decreto appena varato prevede che la commissione convochi le parti entro sette giorni dal ricevimento della lettera. Questo è il punto che suscita più perplessità tra gli addetti ai lavori: pare improbabile che la convocazione possa avvenire entro una settimana in città come Milano in cui si registrano 20 mila nuove cause di lavoro all’anno. Si ricorda ancora il fallimento della conciliazione obbligatoria in tema di lavoro che accumulava molto ritardo. Tra l’altro, notano gli esperti, nel testo manca un riferimento al tetto massimo di attesa: di solito, decorsi 60 giorni, si considera espletato il passaggio amministrativo. Invece in questo caso l’azienda non potrà licenziare finché non avrà completato la conciliazione. Quando la commissione avrà convocato le parti inizierà il confronto in cui l’azienda dovrà dimostrare che non esiste alternativa all’indennizzo e il lavoratore cercherà di sostenere le ragioni per cui il suo licenziamento è infondato, indicando magari opzioni alternative di ricollocamento. Il testo della riforma sottolinea che il comportamento delle parti davanti alla commissione di conciliazione sarà registrato in un verbale e consegnato al giudice nel caso in cui la conciliazione dovesse fallire. Il giudice valuterà e sanzionerà atteggiamenti scorretti. La commissione di conciliazione alla fine dei confronti può comunque formulare la sua proposta. Se le parti la rifiutano, la causa passa al dibattimento in tribunale. Superata la fase conciliatoria, il datore di lavoro può mandare la sua raccomandata di licenziamento al lavoratore il quale ha 60 giorni per impugnarla (basta una lettera) e 270 giorni (dal ricorso) per depositare l’impugnazione. A questo punto si verifica spesso che il lavoratore, avendo ricevuto la lettera, si metta in malattia. La condizione di malattia infatti sospende l’efficacia del licenziamento. La legge prevede, al minimo, 180 giorni di malattia ma alcuni contratti collettivi ne prevedono da 12 a 18 mesi. Ma torniamo all’iter normale: gli esperti prevedono che quando l’azienda comunicherà il licenziamento per motivi economici, la maggioranza dei lavoratori reagirà impugnando il licenziamento e cercando di dimostrare che avviene per motivi disciplinari o discriminatori (che prevedono il reintegro). Toccherà al giudice accertare se si tratti di motivo economico mascherato o meno, tenendo presente che il giudice, nel caso accertasse che i motivi sono realmente legati alla gestione, non può entrare nel merito della scelta aziendale. In poche parole se il giudice accerta che un’impresa ha realmente licenziato un centralinista per motivi strategici e non disciplinari, non può chiedere all’azienda conto del perché preferisca un software a una persona. Per questa fase del dibattimento il decreto del Consiglio dei ministri ha applicato il rito abbreviato. Le cause per i licenziamenti dunque dovranno avere una corsia rapida. Diverse le ipotesi: dall’aumento del personale dedicato a queste cause alla creazione di un tetto ai rinvii (per esempio massimo sette giorni) fino all’adozione della procedura d’urgenza dell’articolo 700. In questo caso infatti il lavoratore dovrà dimostrare di avere tali problemi economici da non poter sostenere il normale iter della causa (rimanendo senza stipendio). La causa abbreviata deve permettere al giudice di accertare prima se realmente la ragione del licenziamento è economica. Se questo aspetto non è accertato il licenziamento verrà dichiarato nullo, se è confermato, si passerà alla quantificazione dell’indennizzo che va da 15 a 24 mensilità. In questo frangente il giudice terrà conto anche di un eventuale rifiuto del lavoratore di accettare l’intervento di un’agenzia di ricollocamento. Espletato il primo grado, la causa procede poi verso gli altri gradi di giudizio. Battaglia decisiva di Claudio Sardo (unita.it, 25/3/2012) La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali, volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti. Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del riformismo e dell’innovazione. È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità, anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello «strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante. L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo Ciampi. Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali, che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro» – espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste – e pone dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento, anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di segno riformista. Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?». Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier, ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel veterolaburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva «facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore «ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»). Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune. La coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita. Sulla riforma dell’articolo 18 Monti paventa la crisi di governo Il premier Monti: “Se la riforma non passa il governo potrebbe non restare”. Damiano (Pd): “Meglio discuterne dopo le amministrative. Potrebbe servire tutta l’estate”. Fassina (Pd): “Il governo deve rassegnarsi: siamo in una Repubblica parlamentare”. (ilmanifesto.it, 26/3/2012) Inizio settimana con nebbia sulla riforma del lavoro firmata da Elsa Fornero. Dopo la chiusura delle trattative con le parti sociali, e l’unica concessione (sempre per intercessione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nume tutelare del governo Monti) di approvare la riforma tramite disegno di legge, e quindi con la partecipazione del Parlamento, ora il braccio di ferro tra governo e partiti entra nel vivo. Il presidente del Consiglio Mario Monti stamattina in viaggio verso Seul sull’aereo di Stato ha parlato con i giornalisti. E, come suo solito, è stato chiarissimo: “Ci rendiamo conto delle difficoltà di ciascuno, e ci rendiamo conto che alla fine deve essere il Parlamento a decidere – ha concesso – Ed è responsabilità del governo quella di presentargli una proposta che riteniamo equa e abbastanza incisiva”. Ma la proposta è quella e “il testo approvato non dovrà discostarsi troppo da quello approvato dal consiglio dei ministri”. L’autonomia parlamentare, insomma, è a vista. I tempi? “Non devono essere troppo lunghi”. Invece, è proprio sui tempi che la partita è aperta. Il testo del Consiglio dei ministri è irricevibile per la Cgil e il Pd si trova nella difficile situazione di dover mediare tra il governo che sostiene e il sindacato di sinistra che è uscito sconfitto dalla trattativa con l’esecutivo. Sarà per questo che stamattina alla trasmissione Agorà Cesare Damiano ha detto: “Sulla riforma del mercato del lavoro mi pare che l’orientamento sia, visto che a maggio ci sono le elezioni amministrative, che la discussione del testo possa essere rimandata”. E dopo maggio c’è l’estate che secondo Damiano potrebbe “essere tutta impegnata” per discutere un testo che si occupa di una “materia complessa”. “Il testo che è uscito dal Consiglio dei ministri- ha spiegato Damiano – è fatto di 25 pagine e 10 capitoli e non riguarda solo l’art.18. Anche se questo rimane un punto cruciale”. Combattivo stamattina anche Stefano Fassina, responsabile Laoro del Pd che ultimamente ha avuto anche le sue personali soddisfazioni dentro un partito piuttosto spaccato su come affrontare la “patata bollente” della riforma, nel ruolo di partito di lotta e di governo: “Siamo ancora in una Repubblica parlamentare dove le leggi le fa il Parlamento e non il governo. Credo che Fornero si debba rassegnare a quelle che saranno le scelte del Parlamento”, ha specificato a “La Telefonata” di Maurizio Belpietro, promettendo di essere in piazza insieme alla Cgil “se ci saranno manifestazioni sul punto specifico che anche noi vogliamo affrontare”. Intanto a Sant’Andrea delle Fratte è appena iniziato il direttivo del partito. Ordine del giorno sulla riforma Fornero e sulle amministrative. E le cosiddette “sfumature” – ovvero le posizioni diverse che convivono dentro al Pd – su una delle riforme più importanti per il paese si faranno sentire, in particolare sulla riforma dell’articolo 18. Tutti vogliono modificare il testo del governo, ma sul come ci sono divergenze. «L’intervento governativo sull’art.18 – sottolinea entrando il senatore e giuslavorista Pietro Ichino – va nella direzione giusta, con delle imperfezioni che vanno corrette». Secondo Stefano Fassina, d’altra parte, va corretta la norma riguardante i licenziamenti per cause economiche: «Se vengono riconosciuti illegittimi dal giudice, va previsto il reintegro». «C’è una larghissima condivisione – sottolinea – anche nell’opinione pubblica, che la norma, così com’è, non va». Sullo sfondo, anche quanto proposto dal presidente del Pd, Rosy Bindi, sull’ipotesi che il partito organizzi manifestazioni per spiegare la propria posizione sul lavoro. «Ciascuno – commenta in proposito Beppe Fioroni – se evita di parlare quando non serve, fa un’opera di bene… il Pd deve migliorare il testo in Parlamento, è un errore dare fuoco alle polveri». D’accordo con Bindi, invece, Fassina: «C’è un confronto in Parlamento – evidenzia – ma può essere utile anche avere un momento di incontro con i nostri elettori per dire chiare le nostre proposte non solo su questo». Lavoro, 700mila precari a rischio. Dalla riforma nessun ammortizzatore di Giusy Franzese (ilmessaggero.it, 26/3/2012) ROMA – Li hanno battezzati ”generazione mille euro”, sulla scia del successo di un libro e di un film del 2008. Poco più che trentenni, con un percorso formativo alle spalle fatto anche di laurea e specializzazioni, e un presente lavorativo di precariato e instabilità. Che ha un nome ben preciso: contratto a progetto, altrimenti detto co.co.pro. Un mese fa l’Isfol ha scattato una nuova fotografia di questo fetta di precari: sono circa 676.000, per lo più hanno meno di 40 anni e un reddito medio al di sotto di 10.000 euro l’anno. Quindi, nemmeno li raggiungono quei famosi mille euro al mese. Sono i più indifesi, i meno tutelati nel mercato del lavoro italiano. Il governo Monti aveva promesso che nella riforma avrebbe trovato delle formule per includerli, per migliorare la loro situazione. Non lo ha certamente fatto per gli ammortizzatori sociali. I co.co.pro. sono fuori adesso e lo saranno anche quando varranno le nuove regole della riforma. Ha invece aumentato le aliquote dei contributi previdenziali: un provvedimento che avrà effetti positivi sull’assegno pensionistico futuro, ma che nel presente – in assenza di minimi contrattuali – potrebbe essere «compensato» dal datore di lavoro con una retribuzione più bassa. Niente Aspi. Questi lavoratori, autonomi spesso solo sulla carta in realtà subordinati low cost, non hanno diritto alla nuova Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego che scatta nel momento in cui si perde il posto di lavoro. È vero: finora non avevano diritto nemmeno all’indennità di disoccupazione, ma era stato il governo a parlare di «maggiore inclusione». La promessa. La riforma fa una promessa, peraltro abbastanza vaga: «Si rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum oggi previsto». Attualmente l’una tantum è pari al 30% del reddito dell’anno precedente, con un massimale di 4.000 euro. Ma per ottenerla sono previsti requisiti molto stringenti: nessun lavoro da almeno 2 mesi, un reddito tra 5.000 euro e 20.000 euro, tre mesi di contributi nell’anno precedente la richiesta e almeno 1 mese di contributi versati nell’anno in corso, ultimo rapporto di lavoro di monocommittenza. Dal 2007 al 2010 sono riusciti a usufruirne solo il 6,2% dei collaboratori a progetto che hanno perso il lavoro (149.000). In media hanno avuto un indennizzo di 2.536 euro. Molti nemmeno ci hanno provato a fare domanda, altri sì ma evidentemente qualche requisito mancava: su 34.185 domande ne sono state accolte solo 9.249, ben 24.372 sono state respinte. La stangata sui contributi. Nei prossimi sei anni le aliquote contributive da versare alla gestione separata dell’Inps saranno equiparate a quelle dei lavoratori dipendenti, passando dal 27,72% attuale al 33% nel 2018. L’aumento sarà di un punto percentuale all’anno, già a partire dal 2013. Nel caso di lavoratori iscritti anche ad altra gestione o pensionati si passerà dal 18% al 24% nel 2018. La stretta sul «progetto». Secondo l’indagine Isfol circa il 70% dei co.co.pro va tutti i giorni, con un orario determinato, in azienda e lì utilizza strumenti e mezzi dell’impresa per il suo lavoro: per la stragrande maggioranza di questi casi, si tratta, quindi di vero lavoro subordinato, però pagato meno e con meno garanzie. Per evitare usi impropri la riforma introduce disincentivi normativi, a cominciare da una definizione più stringente di «progetto» e l’introduzione di limitazioni nel caso di mansioni ripetitive. La sanzione è la trasformazione del contratto in subordinato a tempo indeterminato. È vietato l’inserimento di clausole che consentono il recesso prima della fine del progetto, escluse le situazioni di giusta causa e incapacità professionale del collaboratore. Partite Iva, così funziona la stretta. Circa 400mila le finte consulenze di Rossella Lama (ilmessaggero.it, 26/3/2012) ROMA – Consulenti a partita Iva sulla carta, ma nella realtà lavoratori dipendenti di serie b, senza tutele, senza contributi e copertura assicurativa. È un popolo sempre più numeroso quello delle false partite Iva. Si stima che siano almeno 400 mila le persone che svolgono attività assimilabili a quelle dei loro colleghi più stabili, ma alle aziende costano la metà di un lavoratore dipendente, e anche meno di un lavoratore a progetto. Risultato, le partite Iva non per scelta, ma per condizione posta dal datore di lavoro, dilagano. In tutti i settori e in tutte le aree geografiche del paese, dal nord alla Sicilia. È la forma più diffusa di quella flessibilità malata che la riforma del lavoro targata Fornero cerca attraverso alcuni paletti di scoraggiare. Se un rapporto di lavoro dura più di sei mesi nell’arco di un anno con un singolo committente, o se i soldi che si percepiscono dal datore di lavoro superano il 75% dei ricavi complessivi, allora non siamo di fronte a rapporti di collaborazione, ma a forme di lavoro dipendente. Questo dicono le nuove regole. Gli ispettori del lavoro dovranno vigilare, e le aziende fuori legge dovranno mettersi in regola. Indagini condotte dall’Isfol e dall’Ires-Cgil sulle partite Iva fotografano questa diffusissima realtà di abuso, letteralmente dilagata durante la crisi. Nello studiare il lavoro atipico hanno trovano di tutto, bibliotecari con partite Iva, addetti alle buste paga con partita Iva, insegnanti sempre con partita Iva. Il 55% degli intervistati dall’Isfol ha dichiarato di lavorare per una sola società, e quasi il 20% del campione ha persino concordato un orario di lavoro per svolgere le proprie mansioni. Con queste caratteristiche è chiaro che non siamo di fronte a liberi professionisti, a consulenti, a lavoratori autonomi, ma a precari per obbligo, per imposizione, che in ogni momento possono perdere il posto. Per lo più giovani, poco pagati, i veri paria del pianeta delle partite Iva. Un pianeta che in Italia assume dimensioni doppie se non triple rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna. Nel nostro paese sono 8 milioni e 800 mila. Secondo l’Agenzia delle Entrate ce ne sono però almeno 2 milioni di inattive, che entro il 31 marzo verranno chiuse come prevede il decreto Milleproroghe. Le partite Iva intestate alle persone fisiche sono 5 milioni e mezzo, che vuol dire quasi un quarto della popolazione attiva italiana. Più di un milione sono gli iscritti agli albi professionali, un esercito che comprende avvocati, architetti, giornalisti, pubblicitari, medici, consulenti aziendali, e via dicendo. Mentre gli autonomi delle professioni non regolamentate sono circa 3 milioni e mezzo. In un primo momento il governo aveva deciso che la riforma non riguardava gli iscritti agli Ordini, poi ha valutato invece di includerli, almeno stando al documento in circolazione. Secondo il Codice civile il lavoro autonomo si contraddistingue per il fatto che l’attività è svolta senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente, decidendo tempi, modi e mezzi necessari per il compimento dell’opera, nel rispetto ovviamente degli obiettivi concordati con l’azienda. Tutte caratteristiche che mancano alle partite Iva di nome, ma non di fatto, che non sono altro che lavoratori dipendenti senza ferie, riposi per malattia, con straordinari non pagati, e la possibilità di venire lasciati a casa da un giorno all’altro. Sul sito Networkers.it, il sociologo Patrizio De Nicola, spiega come si è arrivati a questa situazione. Nel ’96, quando anche gli autonomi sono stati per legge obbligati a versare contributi alla gestione separata dell’Inps, l’aliquota era del 10%, ma negli anni è arrivata al 27%. A quel punto le aziende che nei rapporti collaborazione dovevano accollarsene i due terzi, hanno cominciato a trasformare i co.co.co e i collaboratori a progetto in partite Iva, dove i contributi restano sulle spalle dei lavoratori. La riforma del lavoro del governo Monti, che sta per approdare al Senato, cerca di cambiare le cose. Poteri di veto e costituzione Di Angelo Panebianco (corriere.it, 26/3/2012) Gli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia. Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto. In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa. Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose. Al buon cuore del padrone di Alessandro Robecchi (ilmanifesto.it, 26/3/2012) Se vi piacciono i testacoda, se avete una passione per gli autogol e provate ammirazione per l’autolesionismo, le argomentazioni degli smantellatori dell’articolo 18 vi suoneranno divertenti. Impagabile il professor Monti: fare una legge e dire mentre la si fa «Vigileremo sugli abusi», significa sapere che ci saranno abusi. È come se il chirurgo che opera un paziente e dicesse al suo staff: «Mi raccomando, delicatezza, poi quando dite ai parenti che è morto». Il presidente della Repubblica, da primo sostenitore del governo Monti (più di certi ministri, a dar retta alle cronache), difende a spada tratta la riforma, e nel contempo dice che il problema non è l’articolo 18, ma «il crollo di determinate attività produttive». Che crollano perché le amministrazioni non pagano le imprese, perché i picciotti ti taglieggiano, perché i politici chiedono mazzette, perché le sentenze si aspettano per anni. Di leggi su queste cose non se ne vedono, e sull’articolo 18 invece sì. Saranno anche professori, ma non di logica. Ferruccio De Bortoli sul Corriere rimprovera (proprio a noi del manifesto, wow, siamo famosi!) «Una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico». E perché? Perché pensiamo, e scriviamo, che con una legge che rende facili i licenziamenti, gli imprenditori licenzieranno più facilmente. Siamo proprio scemi: pensiamo che con una legge che abolisce le strisce pedonali ci saranno più pedoni investiti. Ma come ci viene in mente! Ideologici, eh! Nel frattempo, il Corriere, che è poco ideologico, mette a pagina 53 la sentenza sugli operai Fiom della Fiat di Melfi, reintegrati dalla magistratura, che con la nuova legge sarebbero disoccupati «legali». Insomma: cari imprenditori, vi facciamo una legge per licenziare, ma voi, mi raccomando, non usatela troppo. Ci appelliamo al vostro buon cuore. Parafrasando Jessica Rabbit, quello schianto di cartoon: «I padroni non sono cattivi, è che quelli del manifesto li disegnano così!». L’estremismo del capitale di Guido Viale (ilmanifesto.it, 27/3/2012) Ferruccio de Bortoli in un suo editoriale sul Corriere della Sera di sabato ritiene che il rischio che le imprese usino la riforma dell’art. 18 per liberarsi anche dei lavoratori scomodi (come ho sostenuto sul manifesto) oltre che di quelli anziani o logorati dal lavoro (come ipotizzato lo stesso giorno dal prof. Mariucci su l’Unità) rispecchi «una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro». Poi si chiede se le minacce dei capi a cui facevo riferimento nel mio articolo del giorno prima – «Appena passa l’abolizione dell’art. 18 siete fuori!» – rappresentino effettivamente «il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio». Rispondo: forse non in tutte; ma in molte aziende certamente sì. Altrimenti non si capirebbe come mai decine di migliaia di lavoratori abbiano risposto immediatamente, superando spesso anche le divisioni sindacali, alla dichiarazione di sciopero di Fiom e Cgil. Questo è sicuramente il clima che si respira negli stabilimenti Fiat, dove una sentenza di appello ha sancito che il licenziamento di tre operai, iscritti o delegati della Fiom, è stata una rappresaglia antisindacale. Da mesi poi si ripetono, su giornali e talk show, denunce del fatto che dalle riassunzioni nello stabilimento Fiat di Pomigliano sono stati esclusi completamente gli iscritti alla Fiom. È noto che le rappresentanze della Fiom sono state “espulse” da tutti gli stabilimenti Fiat. Ma c’è di più: il manifesto ha riportato, senza essere smentito né denunciato, che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai nello stabilimento di Pomigliano – e che tanto sono piaciute al prof. Pietro Ichino, in visita guidata alla fabbrica (una visita di tipo “sovietico”) – sono state usate a fine turno per «processare» e umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare «sono un uomo di merda». Risultano anche numerose le pressioni su mogli di operai Fiom in cassa integrazione perché inducano i mariti ad abbandonare l’organizzazione se vogliono tornare in fabbrica. Di fronte a notizie del genere il direttore di un giornale avrebbe forse dovuto affidare a un suo inviato un’inchiesta sul posto. Non se ne ha notizia. Ferruccio de Bortoli si è dimostrato spesso attento alle discriminazioni razziali del passato. Colpisce la sua disattenzione per le discriminazioni del presente verso i lavoratori. Sono episodi isolati? No. Nella competizione per la nomina del nuovo Presidente di Confindustria, il candidato perdente Bombassei è stato apertamente appoggiato dall’amministratore delegato della Fiat e lo ha ricambiato dicendo che condivideva le scelte nelle relazioni sindacali. Ha perso solo per pochi voti: non dice niente questo sul clima che aleggia in molte aziende? E se così non fosse, perché mai verrebbe data tanta importanza all’art. 18? L’accusa di estremismo che De Bortoli mi rivolge ha una spiegazione chiara nell’elzeviro di un altro ex autorevole direttore del Corriere dedicato al segretario della Fiom (Repubblica, 22.3). Che «non accetta – per Piero Ottone – il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell’offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere; oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e la)… Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratori, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare». E ancora: «A me sembra – aggiunge Ottone – che l’impostazione sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo… figlio dell’estremismo di sinistra». E allora? La verità è che la lotta di classe «novecentesca», esecrata da entrambi i giornalisti, è più viva che mai. È quella del capitale contro il lavoro raccontata da Luciano Gallino nel suo ultimo libro, che non è mai venuta meno. Ogni tanto, e si spera in crescendo, c’è anche quella dei lavoratori contro il capitale. Manifestazione unitaria dei sindacati: «Contro l’intervento disastroso sulle pensioni» Mobilitazione delle tre maggiori sigle sindacali per risolvere il nodo della platea di “esodati”: esclusi dal mondo del lavoro ma non ancora in possesso dei requisiti pensionistici (corriere.it, 28/3/2012) MILANO – Manifestazione unitaria, di Cgil, Cisl e Uil, il 13 aprile a Roma, contro «l’intervento disastroso sulle pensioni», per il nodo della «platea di esodati» e sul «tema delle ricongiunzioni onerose». Lo annuncia la leader Cgil, Susanna Camusso, spiegando che sarà quindi anticipata l’iniziativa Cgil prevista per il 17. «Abbiamo deciso comunemente con Cisl e e Uil, di anticipare al 13 aprile la manifestazione di tutti i lavoratori» – spiega Camusso – «per tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo di una riforma che è stata fatta senza considerare la realtà». E rincara: «Tensioni sociali già evidenti, in un Paese attraversato da scioperi e manifestazioni». LA CGIL CONTRO LA UE – Al netto della manifestazione unitaria si apre un altro fronte che vede protagonista la Cgil che lancia l’allarme dopo l’approvazione del testo varato mercoledì dalla Commissione Europea. «Si tratta di una decisione che con il pretesto di tutelare i diritti dei cittadini prefigura un’inaccettabile e indebita ingerenza nel contrasto di interessi che vive nella normale dialettica tra lavoro e impresa». Lo sostiene Fabrizio Solari, segretario confederale della Cgil, a proposito del testo varato dalla Commissione Europea e che ora sarà sottoposto alla discussione del Parlamento di Strasburgo. «La ragione alla base della scelta del sindacato confederale italiano di adottare codici di autoregolamentazione nell’esercizio dello sciopero nei servizi pubblici – spiega Solari – riguarda la doverosa tutela dei diritti costituzionali dei cittadini da contemperare con l’altrettanto doverosa tutela del diritto di sciopero per tutti i lavoratori. La successiva legge 146 del 1990 e le modifiche introdotte nel 2000, pur mantenendo margini di criticità riguardo l’eccesso di vincoli burocratici a cui è sottoposta la possibilità di effettuare azioni di lotta, non ha mai superato questi limiti». LA REPLICA (INDIRETTA) DELL’INPS – Sul numero dei cosiddetti esodati «non c’è ancora un dato definitivo, ma è un fatto certo che c’è un tavolo che sta lavorando alacremente per rispettare la scadenza fissata dal Parlamento». Il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, interviene così sulla questione dei lavoratori che hanno lasciato il posto di lavoro in base ad accordi aziendali ma che non incassano ancora la pensione a causa della recente riforma sui limiti d’età. Nel corso di un’audizione in commissione Lavoro alla Camera, Mastrapasqua ha ricordato «l’impegno pubblico del ministro Fornero» sulla definizione di un decreto interministeriale entro giugno. Ma, avverte, «sicuramente ci sono difficoltà nella definizione delle platee, spero e credo che il decreto venga emanato entro il 30 giugno». Pensioni, Cgil, Cisl, Uil e Ugl in piazza contro la riforma (repubblica.it, 28/3/2012) Dopo anni i sindaca tornano a protestare in maniera unitaria. Gli “esodati” e le ricongiunzioni onerose fra gli obiettivi della protesta. Per Camusso è il segnale di una ritrovata unità. Napolitano: “Sulle questioni sollevate il governo sta studiando una soluzione” ROMA – Manifestazione unitaria, di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, il 13 aprile a Roma, contro “l’intervento disastroso sulle pensioni 1″, per il nodo della “platea di esodati”, e sul “tema delle ricongiunzioni onerose”. Lo annuncia la leader Cgil, Susanna Camusso, spiegando che sarà quindi anticipata l’iniziativa Cgil prevista per il 17. Parlando a margine di un incontro alla stampa estera, Camusso ha spiegato: “Abbiamo comunemente deciso, con Cisl e Uil, di anticipare al 13 aprile una manifestazione di tutti i lavoratori per l’intervento della cosiddetta riforma delle pensioni, per gli esodati e di tutti quei lavoratori che si trovano a dover riaffrontare ricongiunzioni molto onerose. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori”, ha detto il segretario della Cgil. Poco dopo l’annuncio, anche l’Ugl ha reso noto che si unirà agli altri sindacati nella protesta di piazza. “Resta fermo il nostro no a un provvedimento iniquo, che ha colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i cosiddetti ‘esodati’, a coloro che erano ormai vicini alla pensione”, ha detto il segretario generale Giovanni Centrella. “Le modifiche attuate successivamente – prosegue il sindacalista – non sono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi”. Secondo Camusso, la manifestazione unitaria può rappresentare un segnale di una ritrovata unità sindacale. “Proviamo a interpretarlo così”, ha risposto ai giornalisti a margine di un incontro alla stampa estera sulla possibilità che la manifestazione possa, appunto, essere il segnale di una ritrovata unità. Sul nodo degli “esodati” è intervenuto anche il presidente della Repubblica: “C’è una questione aperta della quale i sindacati chiedono una modifica e credo che il governo stia studiando la soluzione”, ha detto Giorgio Napolitano. Sciopero unitario sulle pensioni. Contro la Fornero anche Cisl e Uil Il segretario della Cgil Susanna Camusso per la prima volta usa twitter per annunciare la mobilitazione di tutte le sigle sindacali. Sugli esodati c’è intesa con Bonanni: È iniquo far pagare a loro tutto il peso della riforma pensionistica lasciandoli in mezzo alla strada e senza ammortizzatori (ilmanifesto.it, 28/3/2012) Anche Susanna Camusso ormai usa i social network come mezzo diretto e efficace per diffondere le informazioni e per la prima volta in questa maniera annuncia addirittura lo sciopero unitaria di Cgil, Cisl e Uil sulle pensioni. Il Il 13 aprile a Roma ci sarà un’iniziativa nazionale unitaria sugli “effetti disastrosi” della riforma delle pensioni , su “esodati e ricongiunzioni onerose”, scrive su Twitter il segretario generale. Quindi spiega che sarà “una manifestazione di tutte le organizzazioni sindacali e di tutti quei soggetti che pagano il prezzo altissimo di una riforma che è stata fatta senza tener conto della realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori”. Una manifestazione “di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di una soluzione”. Ma anche “di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche”. La conferma arriva anche dalla Cisl: “Il governo e il parlamento devono risolvere il problema di centinaia di migliaia di persone che sono rimaste già senza stipendio e senza pensione per effetto della riforma – dice Raffaele Bonanni – questo sarà l’obiettivo della manifestazione unitaria che abbiamo organizzato per il 13 aprile”. Il segretario generale poi precisa: “Il Ministro Fornero ha annunciato nell’ultimo incontro di Palazzo Chigi un tavolo di confronto con il sindacato su questo tema. Noi aspettiamo di essere convocati. Ma deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno”. E infine sugli esodati ribadisce: “È una questione di giustizia sociale e di equità. Non possiamo far pagare a questi lavoratori ‘esodati’ il prezzo della riforma delle pensioni che si scarica essenzialmente su di loro, visto che sono rimasti senza ammortizzatori e senza pensione”. L’articolo 18 e la Costituzione Lettera di Gianluigi Pellegrino al direttore del quotidiano la Repubblica (la Repubblica, 28/3/2012) Caro direttore, un mio diritto ed il potere del giudice a riconoscerlo possono dipendere dalla mera volontà del mio avversario in causa? Sicuramente no per fondamentali principi costituzionali. È allora in poche righe del documento approvato dal Governo il 23 marzo la sostanziale confessione dell’incostituzionalità (che sembra davvero manifesta) della previsione che si vorrebbe inserire nel nuovo testo dell’art. 18, là dove a pag. 10 si legge che ad assumere importanza decisiva ai fini dell’intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è “la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro”. Questo infatti vuol dire, come esplicitato nello stesso capitolo del testo governativo, che a parte l’ipotesi del licenziamento discriminatorio o disciplinare camuffato, in tutti gli altri casi di licenziamento pure manifestamente illegittimo perché arbitrario (non essendovi né ragioni disciplinari né ragioni economiche per disporlo), il diritto del lavoratore al possibile reintegro viene assurdamente condizionato al tipo di “bugia” che l’imprenditore ha ritenuto di inserire nella lettera di licenziamento (appunto la decisiva “motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro”). Se il datore di lavoro avrà arbitrariamente allegato inesistenti cause disciplinari allora il lavoratore ha diritto al reintegro; se invece l’imprenditore avrà allegato, altrettanto arbitrariamente, inesistenti ragioni economiche, solo per questo il reintegro è escluso! L’incostituzionalità è quindi intrinseca a questo progetto di riscrittura dell’art. 18 e riguarda i cittadini in quanto tali prima ancora che come lavoratori. Principi fondamentali della nostra Costituzione impediscono che l’ambito di tutela di ciascuno di noi dipenda dalla volontà della nostra controparte (art. 24). Ed è sempre la Costituzione che impedisce che situazioni identiche vengano trattate in modo diverso (art. 3). E non c’è dubbio che un licenziamento privo dei requisiti di legge, lo è allo stesso modo a prescindere da quale sia la falsa allegazione che lo supporta. Il progetto del Governo invece consegnerebbe la seguente assurda situazione. Se un imprenditore vuole semplicemente licenziare (non per discriminazione ma) per semplice voglia di farlo senza che ve ne siano le sole ragioni che l’ordinamento prevede per giustificarlo, ebbene l’ambito di tutela del lavoratore dipenderà incredibilmente da quale falsa ragione il datore di lavoro deciderà di allegare nell’illegittimo ben servito. Se scriverà che è per ragioni disciplinari, il giudice che ne accerta l’inesistenza potrà reintegrare il lavoratore. Ma se invece il capo azienda scriverà che è per ragioni economiche, il diritto al reintegro del lavoratore svanirà di incanto, e il giudice che pure accerti l’inesistenza anche di quel motivo, viene per legge costretto a poter accordare solo l’indennizzo. E ciò solo in ragione di ciò che il datore di lavoro ha (falsamente) dichiarato. L’incostituzionalità è quindi intrinseca nel progetto del Governo per una sua clamorosa contraddittorietà interna. Perché da un lato afferma il giusto principio generale in base al quale in caso di licenziamento illegittimo può esservi anche il diritto al reintegro (a seconda dei casi che verranno accertati dal giudice); però poi d’improvviso crea una fessura dove questo diritto svanisce di incanto e per sola volontà della parte che ha interesse a farlo svanire. Una fessura che all’evidenza rischia di diventare voragine contraddicendo lo stesso impianto che il Governo ha stabilito di seguire. A ciò si aggiunga che la salvaguardia infine inserita dal Ministro Fornero per i casi in cui il lavoratore riesca a dimostrare che si sia camuffato un licenziamento discriminatorio o disciplinare, non solo non risolve la questione ma rende l’ingiustizia ancora più clamorosa. Ed infatti arriviamo al paradosso che dinanzi a un licenziamento non discriminatorio ma arbitrario che allega inesistenti ragioni economiche, ha maggiore tutela il lavoratore che possa dire di essersi macchiato di qualche colpa disciplinare rispetto a quello che invece nessuna colpa possa attribuirsi! Il punto è che Costituzione alla mano, a parte le ipotesi di nullità del licenziamento per discriminazione, tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo devono avere lo stesso ambito di tutela, quale esso sia. È senz’altro legittima l’opzione del Governo di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema più flessibile dove l’intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto. Ma così deve essere sempre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Non può certo una delle parti in causa determinare quali siano i diritti della controparte e quali siano i poteri del giudice, pena la frontale violazione dell’art. 24 della Costituzione che garantisce ad ogni cittadino (lavoratore o meno che sia) la quantità e l’intensità delle tutele apprestate dall’ordinamento, non certo dalla volontà del suo avversario in causa. È davvero sorprendente che si stia creando tutto questo sconquasso su una ipotesi normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami di costituzionalità. Pensioni, proposta di legge Pd per gli esodati. Nori (Inps): non sono 350mila non abbiamo il numero (ilsole24ore.com, 29/3/2012) Una proposta di legge per intervenire sul caso dei cosidetti esodati. Si tratta di quei lavoratori «prossimi alla pensione che sono rimasti intrappolati» dalla riforma previdenziale «in una condizione drammatica: senza stipendio e senza pensione». La proposta del Pd è stata presentata questa mattina da Cesare Damiano (Pd), ex ministro del Lavoro del governo Prodi. Sui numeri – 350mila sostiene il Pd – è guerra. Cazzola del Pdl lo contesta, l’Inps fa sapere che attualmente non esiste un numero certo. La proposta Fornero entro giugno Un contributo, spiega Damiano, per il ministro Elsa Fornero che «ha promesso di presentare una proposta ad hoc sugli esodati entro giugno. Noi stimoliamo affinchè questo avvenga realmente» e perché si stanzino risorse adeguate. In aula 18 interrogazioni su casi di persone esistenti Il Pd preme dunque perchè Fornero rispetti l’impegno. «Porteremo in aula anche un pacchetto di 18 interrogazioni a Fornero. Si tratta di 18 casi di persone esistenti. Questo per dimostrare che noi lavoriamo sulla realtá sociale, non su teorie». Le modifiche proposte Damiano ha spiegato che la proposta di legge presentata è semplice. «Noi abbiamo presentato una pdl molto semplice. C’è un solo articolo che comprende due punti e che è la traduzione degli ordini del giorno approvati al termine del dibattito sul decreto milleoproroghe. Il primo punto riguarda i lavoratori che hanno sottoscritto un accordo di mobilitá e si consente a questi lavoratori di poter fruire delle vecchie regole». Il secondo punto è una modifica interpretativa tesa ad allagare la platea di chi, sottoscritto un accordo di mobilitá, può fruire delle vecchie regole: «In questa nuova versione si dice che i lavoratori che potranno fruire delle vecchie regole sono quelli che hanno maturato la decorrenza del trattamento pensionistico entro due anni dall’approvazione della riforma delle pensioni ovvero il 6 dicembre 2011, quindi entro il 6 dicembre 2013». Infine, le ricongiunzioni onerose. Il Pd preme perchè si trovi una soluzione: «Si tratta di una misura sbagliata, costosa e ingiusta per i lavoratori». Cazzola contesta il numero degli esodati Il Pd stima la platea degli esodati in 350mila. «Pensioni: i problemi sono tanti – ha commentato Giuliano Cazzola del Pdl – che bisognerebbe evitare di sparare sulla Croce Rossa. È in atto una campagna mediatica irresponsabile, secondo la quale ci sarebbero 350mila lavoratori che, pur essendo privi di retribuzione e protezione sociale, non avrebbero accesso alla pensione in conseguenza delle nuove regole introdotte dalla riforma Fornero». Per Cazzola le cose stanno diversamente. «Esodati, lavoratori in mobilità, in prosecuzione volontaria, inseriti nei Fondi di solidarietà, a fronte dei requisiti previsti, mantengono le regole previgenti; sono quindi tutelati dal contesto normativo, anche se esso non fornisce piena copertura a tutti i casi che presentano dei problemi. Il fatto è che gli stanziamenti finanziari sono insufficienti, perchè si è allargata la platea dei soggetti derogati senza ampliare la copertura. Il Governo si è impegnato a provvedere, come previsto entro il mese di giugno. La legge, comunque, contiene una clausola di garanzia che individua un percorso di copertura finanziaria (l’aumento delle aliquote dei contributi per gli ammortizzatori sociali) che sarebbe opportuno evitare per non incrementare il costo del lavoro», conclude. Nori (Inps): il numero esatto non si conosce ancora Non sono 350mila gli «esodati», le persone rimaste prive sia della copertura degli ammortizzatori sociali che della pensione a seguito del decreto Salva italia, secondo il direttore generale dell’Inps, Mauro Nori. «Il numero potrebbe anche essere superiore, o inferiore, dipende dalle scelte che verranno fatte», ha detto Nori a margine del convegno ‘L’Inps dopo il decreto del Governo Montì. «Il numero va definito nel momento in cui verranno chiariti alcuni passaggi organizzativi», ha spiegato. Credit www.100news.it è una rassegna stampa di articoli, materiali e interviste comparsi sul web o sulla stampa italiana e internazionale. Giancarlo Dosi, Autore Rosa Schiavello, Graphic Designer Informazioni e contatti: [email protected] Alcuni testi o immagini inserite sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi.