La riforma del mercato del lavoro
Articolo 18 e non solo
Aprile 2012
www.100news.it
Il 5 agosto dello scorso anno la Banca centrale europea inviò all’Italia una
lettera, firmata sia dall’allora presidente Jean-Claude Trichet che dal suo
successore Mario Draghi, con una serie di richieste al governo di Roma,
che andavano dalle pensioni alla flessibilità del lavoro e alle norme sui
licenziamenti. Temi rilanciati poi dalla stessa Commissione europea a
novembre in un documento con 39 domande al governo italiano.
Sarà Mario Monti, insediatosi proprio in quei giorni a Palazzo Chigi al
posto di Berlusconi, a doversi assumere l’onere della risposta.
I tempi dei mercati - lo sa pure il professore - non sono normalmente quelli
della politica, ma questa volta occorre sbrigarsi. E Monti non si fa
attendere: «Dobbiamo vincere la sfida del riscatto e dell’equità», dichiara
ottenendo la fiducia delle Camere. In quel brevissimo richiamo al
programma che intende attuare, molti osservatori intravedono l’antipasto
di una minestra che tutti gli italiani dovranno deglutire.
Una partita inedita anche per Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani,
perché i «sacrifici» invocati dal presidente del Consiglio si tradurranno
certamente anche in interventi sulle pensioni e sul lavoro. Il Pd potrà
votare le severe misure di un governo tecnico, sostenuto anche dal centro
destra, con la Cgil in piazza a protestare? Non sarà facile.
Lo dimostrano il confronto e il dibattito di questi ultimi mesi, le
dichiarazioni, le interviste, le proteste, le spaccature. Uno scontro che vede
nell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori l’origine di tutti i guai del
nostro Paese o - sul fronte opposto - la trincea invalicabile della nuova
resistenza di classe.
In questo dossier - in cui raccogliamo gli interventi più significativi di
questi ultimi mesi su tali temi - pubblichiamo anche integralmente il
documento unitario “per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e fiscale”
presentato al governo da Cgil-Cisl-Uil e le proposte di riforma del mercato
del lavoro presentate alle parti sociali dal ministro del Lavoro Elsa
Fornero.
Sommario
Il risanamento pilotato. Cosa ci chiede l’Europa
Aumento dell’età pensionabile, pressing sul lavoro
di Francesca Basso e Giovanni Stringa
(corriere.it, 14 novembre 2011, 10:05)
Monti studia le prime misure
Il vertice con imprese e sindacati, un decreto per patrimoniale e Ici
di Alessandro Barbera
(lastampa.it, 14 novembre 2011)
Ma i democratici sono già divisi su pensioni e mercato del lavoro.
Il gelo della Cgil su Monti spaventa il partito
Posizioni opposte sulle ricette anti crisi. Morando: ma non siamo succubi della
Camusso
di Roberto Mania
(la Repubblica, 15 novembre 2011)
Il merito del Pd
di Alfredo Reichlin
(l’Unità, 15 novembre 2011)
Pro-memoria lavoro
di Francesco Riccardi
(avvenire.it, 15 novembre 2011)
Ichino: «Sul lavoro il Pd non può star fermo»
(unita.it, 22 novembre 2011)
Solo un giovane su 10 entra in azienda con tutte le garanzie
Il Contratto unico punta a eliminare almeno in parte l’enorme massa di lavoratori
precari
di Tonia Mastrobuoni
(lastampa.it, 23 novembre 2011)
Pd, Liberal contro Fassina: “Si dimetta”. Bersani: “Una richiesta che
non capisco”
Nel mirino il responsabile economico dei democratici dopo le critiche alle richieste
fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli Rehn. “Su
pensioni e lavoro è in minoranza”
(repubblica.it, 23 novembre 2011)
Pd, Ichino chiede le dimissioni di Fassina
(unita.it, 23 novembre 2011)
Caso Fassina nel Pd: i Liberal chiedono le dimissioni, Bersani cade dalle
nuvole
Secondo il gruppo guidato da Enzo Bianco, le posizioni espresse dal responsabile
Economia dei democratici non rappresentano tutte le varie anime del Pd e sono in
netto contrasto con la linea scelta dal segretario, che però difende l’accusato
(ilfattoquotidiano.it, 23 novembre 2011)
Il “caso Fassina” apre la resa dei conti nel Partito democratico
Troppo di sinistra, i liberal chiedono la testa del responsabile economia del
partito, Bersani lo difende. È il fischio di inizio della battaglia interna del Pd
contro il segretario, dopo la tregua sul governo Monti
di Daniela Preziosi
(ilmanifesto.it, 24 novembre 2011)
Intervista a Damiano (Pd): “40 è il numero magico. Camusso ha
ragione”
di Frida Nacinivich
(liberazione.it, 1° dicembre 2011)
Gli italiani in pensione a 58,7 anni. L’Inps: “Siamo lontani dall’Europa”
I dati del’Istituto rivelano che due terzi dei pensionati per anzianità nel 2010 sono
usciti con 40 anni di contributi. Il presidente Mastrapasqua: “Con il sistema
contributivo diventa obbligatorio aumentare il ricorso alle integrative”.
(repubblica.it, 1° dicembre 2011)
Reddito minimo garantito. Lo strumento per recuperare chi ha perso il
lavoro
In Italia ha visto solo una breve sperimentazione
di Raffaello Masci
(stampa.it, 2 dicembre 2011)
La Fornero e le pensioni: punto all’addio all’anzianità dal 2018
Il ministro lo ha detto durante un’audizione alla Camera. «È una soluzione
drastica, abbiamo usato l’accetta»
(corriere.it, 6 dicembre 2011, 14:32)
In pensione più tardi. Via dal lavoro sei anni dopo
Che cosa cambia con la riforma, età per età 2012 Dal 1° gennaio sistema
contributivo per tutti
di Domenico Comegna
(corriere.it, 6 dicembre 2011, 8:03)
Neoliberisti, ecco come ci portano alla catastrofe
di Stefano Fassina
(unita.it, 12 dicembre 2011)
Riforma del lavoro, Ichino striglia il Pd: “Deve scegliere con chi stare”
In un’intervista il giuslavorista apre alla riforma Monti e rilancia la sua proposta.
“Un anno fa il partito ne ha preso le distanze, ma a gennaio sarà costretto a
riflettere”
di Stefano Feltri
da Il Fatto Quotidiano del 18 dicembre 2011
Camusso rompe con il governo: «Sulle pensioni un intervento folle»
«La Fornero aggredisce i lavoratori». Il contratto unico? Sarebbe solo un nuovo
apartheid a danno dei giovani
di Enrico Marro
(corriere.it, 19 dicembre 2011, 11:46)
Articolo 18, sindacati all’attacco. Fornero: “Reazione che preoccupa”
Camusso: “È una norma di civiltà che dice che nessun datore di lavoro può
licenziare qualcuno perché gli sta antipatico, perché non ha opinioni, perché è
iscritto a un sindacato o fa politica”. Il ministro: “Contro di me linguaggio del
passato”. Il presidente di Confindustria Marcegaglia: “Serve serietà e
pragmatismo”
(repubblica.it, 19 dicembre 2011)
Bonanni: «Articolo 18? Pagare di più il lavoro flessibile». Camusso:
«Venite nel paese reale»
Protesta a Roma contro la manovra, Piazza Montecitorio piena. Bonanni (Cisl):
Fornero fa la maestrina, metta incentivi per precari
A. D. G.
(corriere.it, 19 dicembre 2011, 14:16)
L’inutile ossessione della flessibilità in uscita
di Massimo D’Antoni
(unita.it, 19 dicembre 2011)
«Alzare i salari, sfidiamo la Fornero». E lei: «Manovra equa, io la
difendo»
Bonanni in pressing: «Parliamone». E il ministro apre. Ma sull’articolo 18 è
scontro governo-sindacati
(corriere.it, 20 dicembre 2011, 17:24)
Fornero: “Bisognerebbe alzare i salari”. La Cgil: stesse idee del vecchio
governo.
Bonanni avverte: se si tocca l’articolo 18 coesione sociale. E sfida il ministro
sull’aumento degli stipendi
(lastampa.it, 20 dicembre 2011)
Il rimedio miracoloso
di Loris Campetti
(ilmanifesto.it, 20 dicembre 2011)
Modifiche all’articolo 18: no di Bersani
Il leader del Pd: «Roba da matti toccarlo ora quando il problema è entrare nel
mondo del lavoro, non uscirne».
(corriere.it, 21 dicembre 2011, 17:51)
Articolo 18, quel «deterrente» poco usato dalle imprese
di Rocco Di Michele
(ilmanifesto.it, 21 dicembre 2011)
Ichino: «Riforma del lavoro urgente come le altre»
di Simone Collini
(unita.it, 29 dicembre 2011)
L’obiettivo di un contratto unico contro la giungla dei lavori flessibili
Il governo alla ricerca di una soluzione per uscire dal dualismo del mercato del
lavoro, dove c’è chi è garantito e chi non ha praticamente protezioni: una
strategia che Monti e il ministro Fornero studiano mentre preparano il difficile
confronto con i sindacati. Ecco le alternative
di Roberto Mania
(repubblica.it, 2 gennaio 2012)
Oggi più che mai è il lavoro la vera priorità
di Guglielmo Epifani
(l’Unità, 2 gennaio 2012)
La Cgil al governo: «Parli chiaro sulla riforma del lavoro, Cisl e Uil
solisti stonati»
«Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento e
formazione per cancellare i contratti precari»
(corriere.it, 4 gennaio 2012, 14:42)
Monti: «Non occorrono altre manovre»
Il presidente del consiglio: «Dobbiamo ammodernare alcuni aspetti del mercato
del lavoro e degli ammortizzatori sociali»
di Fabio Savelli
(corriere.it, 8 gennaio 2012, 23:15)
Bersani: «Art. 18, unico tabù è buonsenso»
Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il Partito
democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma del mercato del
lavoro. Il documento è stato messo a punto dal dipartimento Lavoro guidato da
Stefano Fassina. L’art.18 sulla carta non si tocca, ma governo potrebbe provare a
forzare, chiedendo anche un sacrificio, magari parziale.
(unita.it, 9 gennaio 2012)
Articolo 18, Marcegaglia all’attacco: “Il reintegro è un’anomalia
italiana”
La leader di Confindustria vede il ministro Fornero: ora riforma. Camusso: “La
Cgil è seriamente interessata ad trovare un’intesa”
(lastampa.it, 11 gennaio 2012)
Il documento dei sindacati per il lavoro, la crescita, l’equità sociale e
fiscale
Pubblichiamo il testo integrale del documento presentato al governo Monti da
Cgil-Cisl-Uil
Roma, 17 gennaio 2012
Intervista ad Anna Finocchiaro: «Cancellare subito la vergogna delle
dimissioni in bianco»
La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare l’articolo
18. Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra dovrà cedere
all’indignazione»
di Maria Zegarelli
(l’Unità, 21 gennaio 2012)
Intervista a Susanna Camusso. «Vogliono fare i liberisti colpendo il
costo del lavoro»
Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei servizi
pubblici. Si torni a parlare sul serio di occupazione»
di Oreste Pivetta
(l’Unità 22 gennaio 12)
Oggi il tavolo sulla riforma del lavoro. Fornero vuole cause di lavorolampo
Incontro governo-parti sociali, l’idea dell’esecutivo è quella di rendere standard
gli indennizzi
di Fabio Martini
(lastampa.it, 23 gennaio 2012)
Tre proposte sul tavolo per riformare il lavoro
L’obiettivo: rilancio del Pil cercando nuove regole
di Roberto Bagnoli
(corriere.it, 23 gennaio 2012, 8:27)
Lavoro, le linee del governo in cinque capitoli. «Uso limitato della cassa
integrazione»
Reddito minimo. Indennità risarcitoria in caso di perdita del lavoro. Flessibilità
più cara. Cgil sulle barricate
(corriere.it, 23 gennaio 2012, 15:45)
Marcegaglia: no al salario minimo.Ammortizzatori vanno mantenuti
almeno per i prossimi due anni
(ilsole24ore.com, 25 gennaio 2012)
«No al salario minimo, meglio la Cig»
La Marcegaglia contro il progetto del governo di riforma degli ammortizzatori
sociali
(corriere.it, 25 gennaio 2012, 16:28)
Una lettera per la Camusso che viene da lontano
di Eugenio Scalfari
(repubblica.it, 29 gennaio 2012)
Quante differenze dagli anni di Lama. Oggi la precarietà è il primo
problema
di Susanna Camusso
(repubblica.it, 30 gennaio 2012)
Se non ora quando?
di Irene Tinagli
(La Stampa, 1° febbraio 2012)
Posto fisso, Camusso contro Monti: «Si vogliono togliere tutele ai
lavoratori»
Il segretario generale Cgil interviene anche su Mirafiori: «Svoltiamo verso
l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?»
(corriere.it, 2 febbraio 2012, modificato il 3 febbraio 2012)
Marcegaglia: articolo 18 è sul tavolo, reintegro valga per licenziamenti
discriminatori
(ilsole24ore.com, 2 febbraio 2012)
Marcegaglia: «Il sindacato non protegga i ladri». Reazione
infuriata:«parole offensive»
Il leader degli industriali ha detto di non volere l’abolizione dell’art 18, ma invita i
sindacati a non proteggere i «fannulloni»
(corriere.it, 21 febbraio 2012, 21:54)
Scontro Marcegaglia-sindacati. Bersani: ‘Senza intesa, sì non scontato’
La leader degli industriali durissima contro i rappresentanti dei lavoratori che
difendono “ladri e assenteisti cronici”. Poi la parziale rettifica: “Nessuna
mancanza di fiducia”. Gelida la replica di Susanna Camusso: “La trovo offensiva”.
Dal segretario del Pd avviso a Monti: “Non condivido la tesi di andare avanti
anche senza accordo”
(repubblica.iit, 21 febbraio 2012)
Riforma lavoro, tensione nel Pd. Bersani: il sì non è scontato, art. 18
principio civiltà
«No all’idea di andare avanti senza intesa tra le parti». La posizione del
segretario allarma l’area montiana del partito
(ilmessaggero.it, 21 febbraio 2012, 22:53)
Riforma delle pensioni, per la Cgil “un furto legalizzato”
Centinaia di migliaia di lavoratori fuori dal lavoro e senza pensione, oppure
costretti a pagare una seconda volta i contributi previdenziali. Il patronato Inca
Cgil non usa mezzi termini per definire la “ricongiunzione onerosa” dei contributi.
Domanda a Fornero: “Può una nuova legge cancellare contratti e accordi già
firmati?”
di Francesco Piccioni
(ilmanifesto.it, 22 febbraio 2012)
Riprende la trattativa: il nodo degli ammortizzatori
Il premier Monti vuole varare la riforma “entro marzo”. Il cuore del modello
Fornero è la riduzione degli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti. È questo
il grande inganno della contrapposizione tra “garantiti” e “senza protezioni”. Cgil:
“Non faremo come con le pensioni”.
di Francesco Piccioni
(ilmanifesto.it, 12.03.2012)
In attesa della riforma del lavoro i collaboratori e i parasubordinati
Sono 1,5 milioni, sono sotto i 10mila euro annui Sono dipendenti di fatto e sognano
il posto fisso
di Walter Passerini
(lastampa.it, 15 marzo 2012)
Lavoro, la mossa di Cgil, Cisl e Uil: contro-proposta sull’articolo 18
Documento da presentare al governo con l’appoggio del Pd. Oggi il vertice fra i tre
leader. Bersani: “La via è il modello tedesco”. Bonanni regista della mediazione:
“Non facciamoci distruggere”
di Roberto Mania
(repubblica.it, 19 marzo 2012)
Ministero: “Statali esclusi da nuovo art. 18″. Giuslavoristi:
“Concessioni, governo mente”
Una nota del dipartimento della funzione pubblica dice che le novità sui
licenziamenti si applicheranno anche ai dipendenti pubblici. E scatena la
polemica. Camusso e Angeletti: “Non è vero”. Alla fine Patroni Griffi chiarisce con
una nota. Intanto 53 esperti da Bologna accusano: alcune tutele erano già
previste: o il governo è “disinformato” o è “spregiudicato”
(repubblica.it, 21 marzo 2012)
Riforma articolo 18 per gli statali, estensione possibile, ma non subito
Il Testo Unico del 2001 impone l’applicazione dello Statuto dei lavoratori anche ai
dipendenti pubblici, ma prevede discipline normative diverse anche sui
licenziamenti che il governo si riserva di valutare
di V. Gualerzi
(repubblica.it, 22 marzo 2012)
La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
Il documento di riforma del mercato del lavoro presentato alle parti sociali dal
ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali
(Consiglio dei Ministri, 23 marzo 2012)
Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano
Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne
ostaggio
di Francesco Verderami
(corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:31)
L’abc della riforma del mercato del lavoro in 43 voci, dagli
ammortizzatori sociali agli stage
di Nicoletta Cottone e Vittorio Nuti
(ilsole24ore.com, 24 marzo 2012)
Una trincea ideologica
di Ferruccio de Bortoli
(corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:27)
Governo e sindacato uniti nell’errore
di Eugenio Scalfari
(repubblica.it, 25 marzo 2012)
Lettere, avvocati e tribunali. Così i nuovi licenziamenti
Senza conciliazione, il lavoratore dovrà dimostrare la sua utilità
di Isidoro Trovato
(corriere.it. 25 marzo 2012 | 15:50)
Battaglia decisiva
di Claudio Sardo
(unita.it, 25/3/2012)
Sulla riforma dell’articolo 18 Monti paventa la crisi di governo
Il premier Monti: “Se la riforma non passa il governo potrebbe non restare”.
Damiano (Pd): “Meglio discuterne dopo le amministrative. Potrebbe servire tutta
l’estate”. Fassina (Pd): “Il governo deve rassegnarsi: siamo in una Repubblica
parlamentare”.
(ilmanifesto.it, 26/3/2012)
Lavoro, 700mila precari a rischio. Dalla riforma nessun
ammortizzatore
di Giusy Franzese
(ilmessaggero.it, 26/3/2012)
Partite Iva, così funziona la stretta. Circa 400mila le finte consulenze
di Rossella Lama
(ilmessaggero.it, 26/3/2012)
Poteri di veto e costituzione
di Angelo Panebianco
(corriere.it, 26/3/2012)
Al buon cuore del padrone
di Alessandro Robecchi
(ilmanifesto.it, 26/3/2012)
L’estremismo del capitale
di Guido Viale
(ilmanifesto.it, 27/3/2012)
Manifestazione unitaria dei sindacati: «Contro l’intervento disastroso
sulle pensioni»
Mobilitazione delle tre maggiori sigle sindacali per risolvere il nodo della platea di
“esodati”: esclusi dal mondo del lavoro ma non ancora in possesso dei requisiti
pensionistici
(corriere.it, 28/3/2012)
Pensioni, Cgil, Cisl, Uil e Ugl in piazza contro la riforma
(repubblica.it, 28/3/2012)
Sciopero unitario sulle pensioni contro la Fornero anche Cisl e Uil
Il segretario della Cgil Susanna Camusso per la prima volta usa twitter per
annunciare la mobilitazione di tutte le sigle sindacali. Sugli esodati c’è intesa con
Bonanni: È iniquo far pagare a loro tutto il peso della riforma pensionistica
lasciandoli in mezzo alla strada e senza ammortizzatori
(ilmanifesto.it, 28/3/2012)
L’articolo 18 e la Costituzione
Lettera di Gianluigi Pellegrino al direttore del quotidiano la Repubblica
(la Repubblica, 28/3/2012)
Pensioni, proposta di legge Pd per gli esodati. Nori (Inps): non sono
350mila non abbiamo il numero
(ilsole24ore.com, 29/3/2012)
Il risanamento pilotato.
Cosa ci chiede l’Europa
Aumento dell’età pensionabile, pressing sul lavoro
di Francesca Basso e Giovanni Stringa
(corriere.it, 14 novembre 2011, 10:05)
Il 5 agosto scorso la Banca centrale europea ha inviato una lettera all’Italia, firmata
dall’allora presidente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, con
una serie di richieste al governo, che vanno dall’intervento su pubblico impiego e
pensioni alla flessibilità del lavoro (rivedendo anche la norma sui licenziamenti),
passando per le privatizzazioni. Temi rilanciati dalla Commissione europea l’8
novembre scorso in un documento con 39 domande al governo italiano sui tempi
dell’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione, su infrastrutture,
scuola, concorrenza e costi della politica.
Statali
Taglio dei costi e mobilità
Nella lettera della Bce all’Italia del 5 agosto scorso si chiedeva al governo di
«valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le
regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Sul tema torna anche
la Commissione europea, che chiede conto dei tempi della modernizzazione della
pubblica amministrazione. Bruxelles vuole sapere quando sarà completamente
operativa, e come e quando saranno attuate le misure di mobilità e di flessibilità per
i dipendenti statali, anche in relazione alla soppressione delle Province. Inoltre
viene chiesto di dettagliare i progressi concreti prodotti dalla riforma Brunetta. La
legge di Stabilità, contenente il maxi emendamento del governo, promulgata
venerdì, prevede che gli statali in soprannumero potranno essere posti «in
disponibilità» con un’indennità pari all’80% dello stipendio per due anni. Inoltre
saranno soppresse alcune indennità e rimborsi per trasferimento.
Fisco
Le nuove tasse e la crescita
Poche parole, una sola domanda, ma molta sostanza. «Come verrà spostata la
tassazione dal lavoro ai consumi e alla proprietà immobiliare?», ha chiesto
l’Europa. L’Iva è già stata alzata di un punto percentuale, ora toccherà alla casa?
L’eventuale reintroduzione dell’Ici sulla prima casa porterebbe nelle casse dello
Stato un gettito di circa 3,5 miliardi di euro, è stata la risposta di Giulio Tremonti.
L’idea di fondo suggerita dall’Europa è quella di spostare il peso della tassazione dal
lavoro — per rilanciare l’occupazione —alle imposte indirette e al mattone,
considerato meno determinante per la crescita del Paese. Quest’ultima, però, non
viene certo aiutata —almeno in modo diretto —dall’inasprimento dell’Iva, o anche
dal calo del reddito disponibile per l’aumento delle tasse sugli immobili. Resta il
fatto che il debito pubblico va riequilibrato, e l’indirizzo sembra chiaro: meno debito
grazie al mattone, più crescita grazie al lavoro.
Servizi
Più mercato meno privilegi
La liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali— ha chiesto
la Banca centrale europea— deve essere «piena». E nei servizi locali vengono
auspicate «privatizzazioni su larga scala». Inoltre, per l’Europa, gli introiti stimati
delle vendite ai privati in generale devono essere al netto dei minori dividendi e del
maggior costo per gli affitti. Auspicati più poteri all’Antitrust, l’abolizione delle
barriere d’accesso alle professioni e le liberalizzazioni dai servizi postali ai trasporti.
Lavoro
Contratti locali e licenziamento
Uno dei punti chiave della lettera della Bce riguarda il lavoro. Bruxelles sottolinea
«l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale
collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa». La Banca centrale europea
chiede anche «un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il
licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla
disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in
grado di facilitare la riallocazione delle risorse».
Pensioni
«Quota 67» non basterà
«L’età pensionabile a 67 anni nel 2026 è sufficiente?». La domanda, arrivata
direttamente a Roma dalla Commissione europea, lascia capire che, forse, gli sforzi
già messi in campo a livello previdenziale potrebbero non bastare. La Banca
centrale europea ha poi chiesto di «intervenire ulteriormente nel sistema
pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità
e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con
quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012».
Non è quindi sotto la lente dell’Europa solo la «quota (anagrafica) 67 anni» nel
2026, ma ci sono anche le pensioni di anzianità, che oggi consentono di andare in
pensione prima di 65 anni (pur con requisiti sempre più stringenti), e le dipendenti
d’azienda. Che, stando agli auspici europei, potrebbero andare in pensione dai 65
anni d’età già dall’anno prossimo.
Monti studia le prime misure
Il vertice con imprese e sindacati, un decreto per patrimoniale e Ici
di Alessandro Barbera
(lastampa.it, 14 novembre 2011)
I tempi dei mercati non sono quelli della politica, ma questa volta occorre bruciare i
tempi. Lo ricordava ieri Napolitano: di qui ad aprile vanno a scadenza 200 miliardi
di euro di titoli pubblici. I primi tre miliardi di Btp quinquennali sono all’asta oggi
stesso, quando i mercati riapriranno per la prima volta dopo il conferimento
dell’incarico. Comunque vada, Mario Monti deve accelerare. Per questo, mentre
cerca l’accordo sui ministri, proseguirà con gli incontri per discutere del primo
decreto da approvare entro la prima metà di dicembre. L’incontro più importante
sarà quello di domani, finora tenuto riservato, con sindacati e imprese. Non è detto
che per allora il premier incaricato abbia giurato, ma a questo punto poco importa.
Il primo punto di cui dovrà discutere con le parti sociali è come recuperare
credibilità sui mercati e convincerli che il pareggio di bilancio al 2013 è possibile. E
poiché questa è la priorità, avrà di fronte a sé – almeno per ora un fronte favorevole
alla introduzione di una nuova tassa sui patrimoni, mobiliari e immobiliari.
«Dobbiamo vincere la sfida del riscatto e dell’equità». Ieri, in quel brevissimo
richiamo di Monti al programma che intende attuare, molti hanno intravisto
l’antipasto di una minestra che gli italiani più ricchi dovranno deglutire. L’ultimo
raffronto fatto dal Fondo monetario nel 2010 su dati del 2007 – quando ancora
c’era l’Ici sulla prima casa – dice che in Italia il peso delle imposte sul patrimoni,
con la sola eccezione della Germania, resta fra i più bassi del mondo. Se in Italia
quel tipo di imposta valeva il 2,1% del prodotto interno lordo, negli Stati Uniti era il
3,1%, in Gran Bretagna il 4,5%.
Ciò detto, nei sindacati e fra le imprese ciascuno è convinto di avere la ricetta
migliore. Confindustria non vuole la reintroduzione dell’Ici e propone l’1,5 per mille
annuo sui patrimoni superiori a un milione e mezzo di euro, la Cgil chiede l’1%
annuo sui patrimoni superiori a 800mila euro e l’Ici sulla prima casa. Guido
Tabellini, il papabile ministro dell’Economia, ha più volte proposto una soluzione
intermedia che, a differenza di una patrimoniale «alla francese» (lì si paga sopra 1,3
milioni di patrimonio), colpirebbe anche la rendita immobiliare: una tassa del
cinque per mille annuo sui patrimoni finanziari e le rivalutazioni delle rendite
catastali.
Nella lettera di risposta all’Ue sui 39 quesiti posti la scorsa settimana, Giulio
Tremonti ha ricordato che la reintroduzione dell’Ici varrebbe da sola 3,5 miliardi
l’anno, poco più di ciò che l’erario ha perso con la sua abolizione. Ma la stessa
lettera ricorda un altro dettaglio: con l’introduzione dell’Imu – Imposta municipale
unica – il governo ha già previsto la reintroduzione della tassazione sulla prima casa
già dal prossimo anno. Lo ha fatto dopo le proteste dei Comuni per i troppi tagli
nella manovra estiva e successivamente nel decreto del 24 ottobre che (in via
preliminare) modifica la legge sul federalismo fiscale. «Il decreto – si legge nella
lettera prevede una diversa forma di tassazione dei servizi offerti dai comuni agli
occupanti di proprietà residenziali, anche nel caso che queste vengano usate come
prima casa». Insomma, se Monti vorrà, la strada per la reintroduzione dell’Ici è
spianata dallo stesso governo che nel 2008 aveva decisa di abolirla.
È però improbabile che il nuovo governo, se vorrà mostrarsi «equo» si fermi a
questo: in Italia otto persone su dieci sono proprietarie della casa in cui vivono. A
quello stesso ceto medio il nuovo governo dovrà chiedere altri sacrifici come
l’aumento dell’età pensionabile. Di qui la probabile richiesta di un contributo ai più
ricchi, sempre che il Pdl, da sempre contrario alla patrimoniale, non dica no.
Ma i democratici sono già divisi su pensioni e
mercato del lavoro.
Il gelo della Cgil su Monti spaventa il partito
Posizioni opposte sulle ricette anti crisi. Morando: ma non siamo succubi
della Camusso
di Roberto Mania
(la Repubblica, 15 novembre 2011)
La Cgil ago della bilancia. La posizione che Corso d´Italia assumerà sul nascituro
governo Monti peserà eccome sul Partito democratico, sui suoi equilibri interni e
sulle sue alleanze future. Questa è una partita inedita per Susanna Camusso e per
Pier Luigi Bersani. Un crocevia decisivo. Perché i «sacrifici» richiamati già ieri dal
presidente del Consiglio incaricato si possono tradurre, più semplicemente, in
interventi sulle pensioni e sul lavoro per quanto temperati da un´eventuale
patrimoniale in versione soft.
Il Pd potrà votare misure severe di un governo tecnico, sostenuto anche dal centro
destra, con la Cgil in piazza a protestare? Un dilemma. O addirittura il dilemma di
queste ore per la sinistra laburista italiana. Si confida nella tradizionale lentezza di
maturazione della confederazione rossa e sulla cautela che ha già mostrato Monti.
Ma le incognite restano tutte. Non è lo scenario dei primi anni Novanta con i partiti
in ritirata per via di Tangentopoli e le forze sociali costrette ad assumere un ruolo di
supplenza attraverso la concertazione. Oggi c´è il bipolarismo e ci sono i partiti,
ciascuno pronto a giocarsi le sue carte in vista delle prossime elezioni.
Ieri la Camusso ha riunito fino a sera la segreteria confederale per prepararsi all
´incontro di oggi a Palazzo Giustiniani. La Cgil è stata l´unica organizzazione di
interessi a non aver sottoscritto la scorsa settimana l´ultimo appello a favore di un
governo Monti in tempi rapidi. Uno sganciamento che ha lasciato perplessi i
piddini. Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, aveva personalmente
telefonato alla Camusso per convincerla. «No, noi non firmiamo», è stata la
risposta. D'altra parte all´inizio di questa crisi politica, Camusso ha sposato l´idea
delle elezioni subito, per poi ripiegare sull´opzione del governo di emergenza. In
ogni caso non aveva e non ha alcuna intenzione di schierarsi a sostegno di un
esecutivo che dovrà ridurre in tempi rapidi la spesa corrente i cui capitoli sono
sanità, pubblico impiego e previdenza.
E, infatti, il leader della Cgil anche ieri ha ribadito la linea: «Non si fa cassa con le
pensioni». Altro discorso ha aggiunto è parlare delle future pensioni dei giovani. Su
questo concorda la maggioranza del Pd. Dice Cesare Damiano, ex ministro del
Lavoro, esponente di AreaDem, la componente di Dario Franceschini, ma
soprattutto uomo di cerniera con la Cgil: «Le pensioni non debbono di nuovo essere
toccate. Mi piacerebbe che si contassero i miliardi che si sono risparmiati con gli
ultimi interventi sulle pensioni e se ne cercassero altrettanti dai grandi patrimoni,
dalle rendite e dagli speculatori. Vorrei proprio vedere se si vuole obbligare chi è
entrato in fabbrica a quindici anni a rimanerci per 45 e passa anni». Barricate,
dunque. Al pari di quelle della Cgil. O di quelle innalzate sull´articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, un altro campo socialmente sensibile, dal giovane membro
della segreteria bersaniana Matteo Orfini: «Nominare Ichino ministro sarebbe, per
il Pd, una vera e propria provocazione». Parole molto gradite alla Cgil ma che hanno
indignato i veltroniani. Ancora ieri il liberal Enrico Morando: «Parole veramente
tristi. Questo governo può essere un´occasione formidabile per affrontare i temi del
mercato del lavoro senza pregiudizi. È finita la stagione della nostra subalternità nei
confronti della Cgil». Ma se saltasse il patto di non belligeranza Bersani-Camusso
cambierebbe la geografia del Pd. E Vendola e Casini sono gli spettatori più
interessati.
Il merito del Pd
di Alfredo Reichlin
(l’Unità, 15 novembre 2011)
Questo è davvero un grande passaggio per l’Italia. Sul governo (ministri,
programmi, governo di emergenza, di transizione ecc.) non ho nulla da aggiungere.
Sono molto colpito dal modo come si è mosso il Presidente della Repubblica: uno
statista. Propongo solo qualche riflessione sull’insieme della situazione. Prima di
tutto sul ruolo che ha giocato il Pd e che è stato a mio parere molto grande.
Con serietà e pacatezza la nostra leadership ha ben compreso la grandezza del
problema. Di fatto, noi stiamo pilotando una crisi che è anche la crisi di un semiregime, durato quasi un ventennio. Qualcosa che ricorda il passaggio del 1901. Di
questo si tratta. Non solo di ritrovare la fiducia dei cosiddetti mercati ma di
sgombrare le macerie create anche (ma non solo) da un lungo regime populistico,
guidato dall’uomo più ricco d’Italia.
Non l’hanno ancora capito quelli che adesso si stracciano le vesti perché la “politica
uscirebbe umiliata dal governo dei professori” Sciocchezze. Che cos’è per costoro la
politica? La politica non è quel triste gioco per cui una bella donna può
indifferentemente passare dai night club alla direzione di un ministero della
Repubblica e non è la formazione di una maggioranza parlamentare grazie alla
compravendita di alcuni deputati. La politica è quello che abbiamo visto,
finalmente, in questi giorni. È l’assumere la responsabilità di governare questo
passaggio drammatico in nome della polis (la politica, appunto) e cioè degli
interessi generali e della consapevolezza dei rischi terribili che corre questo Paese.
La politica è l’idea dell’Italia. Questa nostra Italia che è arrivata a un appuntamento
con la sua vicenda storica. Dopotutto, una grande storia. Poche settimane fa nel
salone della Banca d’Italia Gianni Toniolo ci ricordava che il reddito per abitante, al
momento dell’unità d’Italia era grossomodo equivalente a quello medio attuale
dell’Africa sub-sahariana. La vita media era di circa 30 anni, una famiglia operaia
viveva nelle stamberghe e spendeva solo per il cibo tre quarti del suo salario. In 150
anni il reddito per abitante è aumentato di 13 volte e la vita media è arrivata a 82
anni.
Ci rendiamo conto di cosa significa soprattutto per i nostri figli e nipoti la paurosa
marcia indietro che è avvenuta sotto i nostri occhi in questi ultimi anni? Sta
tornando la povertà, quella vera. Il nostro debito pubblico è arrivato a 1900 miliardi
di euro e su questa montagna di soldi dobbiamo pagare interessi crescenti che si
mangiano le spese per i servizi sociali, l’occupazione, il sostegno all’economia reale.
Per pagare gli interessi stiamo bruciando i mobili di famiglia: il capitale umano, i
giovani. E ci siamo così indeboliti che i francesi si sono già comprati a prezzi di
saldo la Bnl, la Parmalat, la Edison, le industrie della moda e tanto altro. La Fiat sta
traslocando in America. Anche questo è il lascito del lungo regno del “bungabunga”. Adesso basta. Deve finire, anche a sinistra il chiacchiericcio su chi comanda
e sui piccoli giochi di schieramento. Il bisogno di restituire all’Italia una dignità
perduta e di impedire la bancarotta di un grande Stato che dopotutto è la settima
economia del mondo, è assoluto.
È del tutto evidente che dobbiamo affrontare l’emergenza e che da qui è necessario
partire. Ma per andare in quale direzione? Il bisogno che sento è questo. È rendere
molto chiara la direzione di marcia e la svolta che è ormai necessaria. Basta
guardare al dibattito europeo per capire che sta diventando evidente il fatto che non
solo l’Italia ma l’Europa rischiano di essere travolte se il potere politico non riesce a
imporre una nuova regolazione allo strapotere di una certa oligarchia finanziaria.
Una finanza che si mangia l’economia reale e il capitale sociale e umano. È chiaro
che il mondo non può essere governato in questo modo. Ed è per una ragione di
fondo, oggettiva, non ideologica che proprio da questa stessa crisi, ormai
conclamata, può nascere l’esigenza di un nuovo compromesso tra il capitalismo e la
democrazia. È solo una speranza ma il grande tema del riformismo europeo è
questo: la lotta per un nuovo ordine economico, ciò che fece Roosevelt.
Resta da capire se le classi dirigenti italiane e i loro intellettuali si rendano conto
che non solo i poveracci ma l’insieme di quella che chiamiamo civiltà occidentale
rischia di non sopravvivere se continua questa crescita spaventosa e immorale delle
disuguaglianze. Il rapporto tra il salario di un operaio e i guadagni di un grande
manager sono passati da un rapporto di 1 a 30 a un rapporto di 1 a 300. Stiamo
molto attenti. Questa non è più solo un problema di equità, sta diventando una
questione antropologica. Ce lo dicono tante cose: della massa dei giovani cacciati
nel limbo di chi ha finito gli studi e non ha prospettive di lavoro, alla vergogna dei
braccianti di colore ridotti nelle campagne del Sud a quasi schiavi. Anche la Chiesa
si è resa conto (uso le sue parole) che siamo di fronte a gravi perdite di identità
dell’individuo, sempre più indotto a consumare a debito cose di cui non ha bisogno,
che perde il senso della cittadinanza, cioè dei diritti e dei doveri, e al limite non sa
più distinguere tra il bene e il male.
Queste sono le macerie. Certo non è colpa solo di Berlusconi. Ma è in questo quadro
più ampio che il populismo di quel signore straricco si è inserito portando al
governo l’Italia delle “veline” e delle consorterie. Rimuovere queste macerie non
sarà facile. Ma chi può farlo? Ed è così che arrivo a una grande domanda che mi
preme assai. Io penso che proprio alla luce di questo interrogativo può (e deve)
cambiare parecchio il modo di essere del Pd e la sua cultura politica ancora in
formazione.
Ma deve cambiare anche il modo di guardare ad esso da parte di mondi diversi dalla
sinistra storica. Dovete farvene una ragione, cari amici con la puzza sotto il naso.
Dovete riconoscere che per fortuna c’è Napolitano ma dovete aggiungere che per
fortuna è rimasta in vita la grande tradizione democratica del vero riformismo
italiano. Parlo di una idea anti-notabilare della democrazia intesa come democrazia
che si organizza perché solo così essa offre alle classi subalterne lo strumento per
contare, per lottare in nome della giustizia, per partecipare alla vita statale, per dare
uno sbocco di governo ai movimenti.
Lo sforzo di mescolare questa tradizione con quelle del mondo cristiano e del
cattolicesimo, raccogliendo anche il meglio della cultura liberale e repubblicana, è
stata una grande idea. Certo non ci siamo ancora e c’è un grande lavoro da fare.
Però in solo quattro anni siamo già diventati il primo partito italiano. Se ne facciano
una ragione i nostri critici che affollato i talk show televisivi. La ricostruzione
dell’Italia non è un problema di tecnici più bravi. Essa dipende in larga misura dalla
capacità del Pd di dar vita a un nuovo blocco storico in alternativa a quello della
destra. Io non dimentico che la destra ci ha governato per tanto tempo non solo
perché c’è una cattiva legge elettorale ma perché i riformisti avevano perso
l’egemonia culturale e sociale.
Pro-memoria lavoro
di Francesco Riccardi
(avvenire.it, 15 novembre 2011)
Ci sono cifre che non vengono più strillate sui media, coperte come sono dal
fragoroso impennarsi degli spread, ma che non per questo sono meno
drammatiche. Si tratta dei tassi di occupazione, mai così bassi nel nuovo secolo.
Della disoccupazione, a malapena contenuta. Del precariato ormai endemico.
Peggio: dell’inattività divenuta sistemica. Non indici freddi, ma istantanee roventi
della realtà, fotografie drammatiche, nelle quali sono fissati volti, persone giovani e
anziane, famiglie e interi pezzi d’Italia. E allora, per il governo che si appresta a
prendere forma, tra le emergenze da affrontare c’è una missione che merita di
essere considerata con appassionata dedizione: il lavoro.
In questi tre anni di crisi – grazie a un uso sapiente e massivo della cassa
integrazione da parte dell’esecutivo uscente – si è riusciti a contenere l’ondata di
esuberi e licenziamenti che ha caratterizzato la gran parte delle economie europee e
mondiali. Ma la rete di protezione, pur allargata, non ha coperto tutti allo stesso
modo. I giovani, gli autonomi, i diversi parasubordinati, hanno pagato per primi e a
prezzo più caro, la recessione: restando senza posto e senza ammortizzatori.
Quasi un terzo dei giovani è disoccupato, ma quel che è peggio, da noi solo 1 ragazzo
su 5 lavora. In Germania sono 1 ogni 2, in Francia 1 su 3, persino in Spagna, che
pure detiene il record europeo della disoccupazione, va un po’ meglio con 1 ogni 4.
Ci sono poi 2,2 milioni di persone del tutto inattive: non studiano né lavorano né
sono inserite in un programma di formazione. Altri 2 milioni e 764mila italiani –
per più della metà donne – pur essendo disponibili a lavorare non cercano più un
posto, perché sono scoraggiati. E ancora ci sono i sottoccupati. E quelli che l’Istat
classifica come occupati, ma hanno lavorato solo 1 ora nella settimana di
rilevazione. E ancora cifre e ancora analisi che portano a conclusioni univoche: non
possiamo permetterci un così basso numero di cittadini che lavorano e non
possiamo più accettare disparità di trattamento tanto forti.
Il lavoro va assolutamente rilanciato, rivalorizzato, riportato al centro dell’azione
politica. Sì, politica. Anche nell’era di un governo ad alto tasso tecnico come quello
al quale Mario Monti sta lavorando in queste ore. Le ultime misure adottate
dall’esecutivo Berlusconi sull’apprendistato – contratto a tempo indeterminato con
contenuto formativo e una flessibilità limitata ai primi anni – vanno nella direzione
giusta. Ma non bastano: è necessario (ri)costruire un mercato del lavoro dove
anzitutto non ci siano lavori di serie A per gli italiani e di serie B per gli stranieri,
dove le occupazioni manuali abbiano pari dignità e valore e prevedano un salario
equo rispetto a quelle intellettuali. Nel quale alle attività in nero si fa una lotta
serrata come e, se possibile, di più che all’evasione fiscale. Un mercato, con
ammortizzatori sociali universali, senza apartheid per i giovani e che non discrimini
gli “anziani”. Perché – e le imprese debbono assumersene la responsabilità – non si
può spingere per l’innalzamento dell’età pensionabile e contemporaneamente
considerare obsoleto o troppo costoso un dipendente cinquantenne.
Sono risposte, queste all’emergenza lavoro, che dobbiamo a noi stessi, assai prima
che ai mercati finanziari. Perché dietro quelle cifre sull’occupazione ci siamo noi, ci
sono i nostri ragazzi. Senza retorica, c’è il futuro di questo Paese, del Nord e del Sud
assieme. E non c’è speculatore, non c’è istituzione internazionale, per quanto
autorevole, che possa imporci cosa vogliamo essere, quale Paese vogliamo
diventare.
Non abbiamo bisogno di ricette preconfezionate, di modelli da applicare
pedissequamente, di trofei ideologici da ostentare. Soprattutto non possiamo
invertire l’eventuale approdo finale con la mossa di partenza. Abbiamo competenze
e disponibilità, abbiamo forze sociali ormai abbastanza riformiste e consapevoli
della portata della sfida per poter rimodellare con un progetto originale il nostro
modello di coesione sociale. Agendo con rigore ed equità, favorendo sì lo sviluppo
ma solo attraverso l’inclusione.
Ichino: «Sul lavoro il Pd non può star fermo»
(unita.it, 22 novembre 2011)
All’inizio di questa legislatura erano due i grandi temi caldi della politica del lavoro
individuati dal manifesto programmatico del Partito democratico, sotto il titolo Per
dare valore al lavoro. Il primo era quello dello spostamento del baricentro della
contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro.
Uno spostamento pensato anche per aprire il Paese agli investimenti stranieri e ai
piani industriali più innovativi che essi sovente portano con sé. Il secondo era
quello del superamento del dualismo del nostro mercato del lavoro, del regime
attuale di feroce apartheid fra lavoratori protetti e non protetti, attraverso il nuovo
disegno di un diritto del lavoro capace di applicarsi in modo davvero universale a
tutti, conciliando il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il
massimo possibile di sicurezza economica e professionale per i lavoratori nel
mercato del lavoro.
Nel 2009 i due punti programmatici vengono tradotti in altrettanti disegni di legge,
rispettivamente n. 1872 e n. 1873, presentati da 55 senatori (la maggioranza del
gruppo Pd al Senato). Il primo dedicato alla riforma del sistema delle relazioni
industriali e della contrattazione collettiva, con la previsione della derogabilità del
contratto nazionale da parte di quello aziendale, nell’ambito di regole precise di
democrazia sindacale. Il secondo dedicato al disegno di un nuovo diritto del lavoro
capace di applicarsi in modo universale, ricomprendendo davvero tutti i nuovi
rapporti di lavoro dipendente destinati a costituirsi da qui in avanti, voltando
pagina rispetto al dualismo attuale. Entrambi i disegni di legge, però, a seguito della
conferenza programmatica del partito del maggio 2010, sono stati accantonati dalla
nuova maggioranza nata dall’ultimo congresso.
Per quel che riguarda la prima questione, la critica rivolta nel 2010 dai responsabili
del Lavoro e dell’Economia al ddl n. 1872 è quella di attentare al ruolo centrale e
insostituibile del contratto collettivo nazionale di lavoro, riducendo la sua
inderogabilità. Senonché, collocandosi su questa posizione, il Pd si trova
impreparato di fronte alla vicenda degli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori (poi
anche Grugliasco), contenenti alcune deroghe al contratto nazionale; basti
ricordare, in proposito, il commento imbarazzato e inadeguato dei vertici del partito
al primo dei tre accordi: «Sì, purché sia un’eccezione». Quella stessa vicenda
sindacale è destinata, però, a determinare nel giro di un anno, una svolta epocale
nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali, con la firma – anche da
parte della Cgil – dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. L’elemento di
maggiore novità in questo accordo è costituito proprio dal rilevantissimo
ampliamento della possibilità di deroga al contratto nazionale ad opera del
contratto aziendale, nel rispetto di regole precise di democrazia sindacale (altro che
«eccezione»!): sostanzialmente, si tratta della stessa riforma che è prevista nel ddl.
n. 1872. A me sembra evidente che, se il Pd nel 2009 e 2010 avesse confermato la
linea cui si ispira quel disegno di legge, la vicenda degli accordi Fiat nel 2010 si
sarebbe svolta in modo molto meno lacerante. Il Pd ci arriva, invece, solo dopo
l’accordo del giugno 2011. Meglio tardi che mai. D’accordo. Ma non sarebbe stato
inutile che qualcuno dei protagonisti della linea precedentemente tenuta, i quali
oggi fanno propria come Bibbia la linea sancita dall’accordo interconfederale di
giugno, riconoscesse almeno la bontà dell’idea che era alla base del progetto
contenuto nel ddl n. 1872. Desse atto, cioè, ai 55 senatori che lo avevano sostenuto
di aver visto giusto. Di questo non si è sentita, invece, neppure mezza parola.
Qualche cosa di strettamente analogo sembra ora destinato ad accadere anche sul
secondo versante, quello del superamento del regime di apartheid fra lavoratori
protetti e non protetti. Perché il progetto flexsecurity contenuto nel ddl n. 1873, il
secondo della coppia proposta due anni fa dalla maggioranza dei senatori del Pd, ha
raccolto in questi ultimi mesi il consenso della quasi totalità degli altri gruppi
parlamentari; e giovedì scorso è stato inequivocabilmente indicato come base per la
riforma da Mario Monti nel primo atto del suo nuovo governo, cui il Pd ha
promesso pieno sostegno.
La proposta uscita, su questo terreno, dalle ultime due assemblee programmatiche
del Pd (2010 e 2011) – cioè quella di aumentare i contributi previdenziali degli
“atipici” – è già stata prontamente attuata dalla “legge di stabilità”, ultimo atto del
governo Berlusconi; e con tutta evidenza non basta per affrontare incisivamente il
problema. Il Pd – come ciascuna delle altre forze politiche che fanno parte della
nuova maggioranza – ora può proporre delle modifiche o integrazioni al progetto
che il governo indicherà come base di discussione; ma è difficile pensare che possa
schierarsi contro un’iniziativa mirata a riunificare progressivamente il mondo del
lavoro allineandolo ai migliori standard europei, e che comunque non pregiudica in
alcun modo la posizione di chi un rapporto di lavoro stabile regolare già oggi ce l’ha.
Non può davvero essere il partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” a
chiedere al nuovo governo di restare fermo su questo terreno.
Solo un giovane su 10
entra in azienda con tutte le garanzie
Il Contratto unico punta a eliminare almeno in parte l’enorme massa di
lavoratori precari
di Tonia Mastrobuoni
(lastampa.it, 23 novembre 2011)
È una delle poche idee che siamo riusciti anche ad esportare all’estero. Da tempo
economisti come Pierre Cahuc, Francis Kamarz, Samuel Bentolila e Juan Dolado
propongono il «contratto unico» inventato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi anche in
Francia e Spagna. Ma da noi il dibattito incontra sin dal 2002, quando è stato
proposto dai due economisti del lavoro un totem insormontabile: l’articolo 18. Il
fatto è che da quando quella norma dello Statuto dei Lavoratori è stato al centro di
uno scontro al calor bianco tra il governo Berlusconi bis e la Cgil di Sergio Cofferati
– con l’epilogo dei tre milioni a Circo Massimo – è complicato parlare di diritto del
lavoro senza scivolare sul terreno dello scontro ideologico. Elsa Fornero, neo
ministro del Lavoro ha già detto cosa ne pensa: il contratto unico è «in grado di
conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con l’aspirazione alla
stabilità rivendicata dai lavoratori». Sarà un tassello importante dell’agenda di
governo dell’economista torinese. Ma è anche uno dei motivi per cui la Cgil
continua a rimarcare la diffidenza nei confronti del governo Monti.
Il contratto unico tenta di rispondere a un mondo del lavoro che si è fortemente
precarizzato e dove si è creato un dualismo crescente tra chi è tutelato dal contratto
a tempo indeterminato e le miriadi di atipici che hanno spesso livelli salariali infimi,
non sono garantiti da contratti nazionali e sono quasi senza tutele. Soprattutto,
avendo una data scritta sul contratto, gli ormai milioni di lavoratori precari non
sanno neanche cos’è, l’articolo 18. Stiamo parlando del 90 per cento di chi comincia
oggi un lavoro: ormai solo un giovane su dieci inizia una professione o un mestiere
con un contratto a tempo indeterminato. Gli altri nove entrano con contratti a
termine, interinali, co.co.pro, eccetera. Fuori dal perimetro dello Statuto dei
lavoratori. E, molto spesso, dall’ombrello dei sindacati.
Anni fa al «contratto unico di ingresso», in breve Cui (che è confluito in una
proposta del senatore Pd Nerozzi), se n’è affiancato uno analogo del giuslavorista e
senatore Pd Pietro Ichino che ne riprende l’idea di fondo ma differisce su alcuni
punti.
Nella versione Boeri-Garibaldi è un contratto a tempo indeterminato e la difesa dal
licenziamento senza giusta causa è prevista dal primo giorno. Solo che per i primi
tre anni «il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria»,
(un’indennità pari a 5 giorni di retribuzione per ogni mese di anzianità), insomma
viene sospeso l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18. Diventa una sorta di
lungo apprendistato durante il quale anche il datore di lavoro può capire se il
dipendente corrisponde alle sue aspettative. Allo scadere dei tre anni vengono
riconosciute tutte le tutele del tempo indeterminato. Il ricorso a forme di contratti
flessibili viene scoraggiato con delle restrizioni. Infine, dettaglio rilevantissimo, il
Cui non sostituisce gli attuali contratti nazionali, ma garantisce in più tutele minime
a chi non ce l’ha – cosa che quelli flessibili oggi non fanno. A partire da un salario
minimo. Nella testa di Boeri e Garibaldi, il contratto unico dovrebbe essere
affiancato da una seria riforma degli ammortizzatori che garantisca un sussidio di
disoccupazione a tutti. Ma cosa circa 15 miliardi di euro ed è difficile che veda la
luce nel prossimo anno e mezzo. Anche nella proposta di Ichino non c’è una data sul
contratto ma viene introdotto il licenziamento «per motivi economici e
organizzativi» e non ci sono i tre anni di prova. L’articolo 18 viene depotenziato. Ma
dal 20esimo anno di anzianità «l’onere della prova circa il giustificato motivo
economico tecnico o organizzativo è a carico del datore di lavoro». Per chi perde il
lavoro viene introdotto un sistema che ricalca a quello danese della «flessicurezza».
Il datore di lavoro si impegna a ricollocare il lavoratore attraverso la riqualificazione
professionale.
Pd, Liberal contro Fassina: “Si dimetta”.
Bersani: “Una richiesta che non capisco”
Nel mirino il responsabile economico dei democratici dopo le critiche alle
richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al commissario Olli
Rehn. “Su pensioni e lavoro è in minoranza”
(repubblica.it, 23 novembre 2011)
“Fassina se ne deve andare”. L’ala Liberal del Pd si scaglia contro il responsabile
economico dei democratici chiedendone la sostituzione dopo le critiche alle
richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle al commissario Olli Rehn. In un documento
firmato da Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e Luigi De
Sena, si sostiene che le posizioni di Fassina “appaiano in netta dissonanza rispetto
alle linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente da Bersani”. Ma è lo
stesso segretario nazionale a gelare i Liberal: “Questa richiesta di dimissioni non
l’ho proprio capita”. Mentre l’ex segretario popolare Franco Marini prova a
smorzare: “Enzo Bianco è persona responsabile, basta un chiarimento. Niente
dimissioni”. “Se le dichiarazioni di Fassina fossero la politica economica di tutto il
pd, allora mi preoccuperei. Ma so che così non è…” glissa un altro ex popolare come
Beppe Fioroni.
“Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca
d’Italia e poi dalla BCE – insiste la lettera – bollare come liberiste posizioni ‘liberal’
come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture
politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il
complesso delle posizioni assunte dal Pd”. Per questo i Liberal chiedono a Fassina
“un passo indietro” in modo da poter sostenere “le sue idee liberamente, senza il
vincolo della responsabilità politica che gli è stata affidata”.
Nei giorni scorsi Fassina aveva criticato duramente le ricette del commissario Ue
Rehn per uscire dalla crisi: “”Le indicazioni riproposte oggi per la crescita dal
commissario europeo Rehn sono deprimenti sul piano intellettuale prima che
economico – aveva detto Fassina – Dopo un trentennio dominato dalla flessibilità
del lavoro e dalla moderazione salariale, le cause primarie della drammatica e
infinita crisi in cui siamo immersi, oggi il commissario europeo agli Affari
economici insiste su maggiore flessibilità del lavoro e maggiore moderazione
salariale”.
Che Fassina fosse al centro di aspre critiche da parte dell’area Liber del partito era
noto da tempo. In particolare da quando partecipò alla manifestazione della Fiom.
Solo nei giorni scorsi il responsabile economico rispondeva così a chi gli chiedeva
notizie circa le sue eventuali dimissioni: “Quando qualcuno mi chiederà
ufficialmente di dimettermi, in sede politica, risponderò. Se qualcuno metterà la
faccia intorno ai pettegolezzi affronteremo il problema, sempre che il quesito sulla
mia permanenza del Pd venga posto in maniera esplicita”. Richiesta, oggi, esaudita.
La Rete, nel frattempo, va sentire la sua voce. Ed è un coro a favore di Fassina.
“Stefano, la base di tutto il centro-sinistra è con te! non farti intimidire dai servi di
confindustria!”, scrive ad esempio Paolo Gonzaga. Questo sarà “uno spartiacque per
il pd: o un partito socialdemocratico moderno che ragiona sugli interessi del paese a
partire dalla rappresentanza politica dei lavoratori o un rifugio di ciarlatani liberali
che solo perchè si autoproclamano progressisti non sono ancora passati con Rutelli,
Fini e compagnia. Forza Stefano Fassina”, aggiunge Francesco Maria Pierri.
La discussione supera i confini del Pd e arriva a Sel. ‘È sempre imbarazzante
intervenire nella vita interna di un altro partito; quindi, parlo per me, spero
comunque che questa stagione non si sviluppi all’insegna di una sorta di
conformismo coatto” dice Nichi Vendola.
Pd, Ichino chiede le dimissioni di Fassina
(unita.it, 23 novembre 2011)
I ‘Liberal’ del Pd guidati da Enzo Bianco, a cui aderisce anche Pietro Ichino, hanno
chiesto le dimissioni di Stefano Fassina da responsabile Economia del partito, dopo
le sue ripetute critiche alle richieste fatte dalla Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri al
commissario Olli Rehn.
Bersani: «Questa richiesta non l’ho capita»
«Questa richiesta dei ‘Liberal’ non l’ho proprio capita». Così il segretario del Pd Pier
Luigi Bersani reagisce alla richiesta della componente del Pd che chiede le
dimissioni del responsabile economico del partito.
La lettera dei Liberal
«Le posizioni che Stefano Fassina ha assunto prima, durante e dopo la crisi del
governo Berlusconi – si legge nella lettera dell’ufficio di presidenza dei Liberal –
sono pienamente legittime in un partito in cui convivono sensibilità e storie diverse.
Quello che non è comprensibile è che esse siano espresse dal Responsabile
Economico del Pd, ed appaiano in netta dissonanza rispetto alle linee di
responsabilità e di rigore assunte giustamente dal Segretario Bersani».
«Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca
d’Italia e poi dalla Bce – insiste la lettera – bollare come liberiste posizioni ‘liberal’
come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture
politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il
complesso delle posizioni assunte dal Pd». «I Liberal Pd – conclude la lettera –
chiedono a Stefano Fassina di fare un passo indietro, e di sostenere le sue idee
liberamente, senza il vincolo della responsabilità politica che gli è stata affidata». Il
testo è firmato da Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci, Pietro Ichino e
Luigi De Sena.
Caso Fassina nel Pd:
i Liberal chiedono le dimissioni,
Bersani cade dalle nuvole
Secondo il gruppo guidato da Enzo Bianco, le posizioni espresse dal
responsabile Economia dei democratici non rappresentano tutte le varie
anime del Pd e sono in netto contrasto con la linea scelta dal segretario,
che però difende l’accusato
(ilfattoquotidiano.it, 23 novembre 2011)
Dimissioni. È quanto chiedono i Liberal del Pd al responsabile economico del
partito, Stefano Fassina, colpevole – a sentire il gruppo guidato da Enzo Bianco – di
aver espresso forti critiche alle richieste fatte dall’Ue all’Italia e quelle dell’altro ieri
al commissario Olli Rehn. Critiche che però non avrebbero rappresentato tutte le
anime interne al partito e, dato non di secondo piano, sarebbero state contrarie alla
linea scelta dal segretario Pier Luigi Bersani.
“Le indicazioni per la crescita riproposte sono deprimenti sul piano intellettuale
prima che economico”: così Fassina aveva commentato le affermazioni del
commissario europeo Olli Rehn. “Dopo un trentennio dominato dalla flessibilità del
lavoro e dalla moderazione salariale – aveva osservato il responsabile Economia dei
democratici – le cause primarie della drammatica ed infinita crisi in cui siamo
immersi, oggi il Commissario europeo agli affari economici insiste su maggiore
flessibilità del lavoro e maggiore moderazione salariale. Se la Commissione Ue e la
signora Merkel si ostinano ad imporre idee fallite, l’euro e l’Ue sono davvero a
rischio. Speriamo che il Governo Monti riesca a far correggere la rotta in tempo”.
Un attacco durissimo, che ha fatto andare in bestia i Liberal, i quali hanno scritto
una nota ufficiale a firma di Enzo Bianco, Ludina Barzini, Andrea Marcucci e Luigi
De Sena. Inizialmente, a quanto riferiscono le principali agenzie di stampa, in calce
alla missiva compariva anche il nome di Pietro Ichino ma poi l’adesione del
giuslavorista è stata smentita. ”Le posizioni che Stefano Fassina ha assunto prima,
durante e dopo la crisi del governo Berlusconi – si legge nella lettera dell’ufficio di
presidenza dei Liberal – sono pienamente legittime in un partito in cui convivono
sensibilità e storie diverse. Quello che non è comprensibile è che esse siano espresse
dal Responsabile Economico del Pd, ed appaiano in netta dissonanza rispetto alle
linee di responsabilità e di rigore assunte giustamente dal segretario Bersani”.
Nella motivazione del gruppo guidato da Enzo Bianco, poi, si delineano con
maggiore precisione i contorni della spaccatura all’interno del Partito democratico.
“Criticare aspramente la linea di rigore e sviluppo assunta prima dalla Banca
d’Italia e poi dalla Bce – insiste la lettera -, bollare come liberiste posizioni ‘liberal’
come quella del senatore Ichino, prospettare soluzioni ispirate alle vecchie culture
politiche del secolo passato, non è compatibile con il dovere di rappresentare il
complesso delle posizioni assunte dal Pd”.
Da questo dato di fatto, ecco la richiesta dei Libera a Stefano Fassina: “fare un passo
indietro e di sostenere le sue idee liberamente, senza il vincolo della responsabilità
politica che gli è stata affidata”.
Ricapitolando: dimissioni del responsabile dell’Economia perché con le sue idee
non rappresenta né il Pd né tantomeno la linea del segretario. La cosa strana, però,
è che quest’ultimo è sembrato cadere dalle nuvole appena appresa la mossa dei suoi
colleghi di partito. “La richiesta dei ‘liberal’? Non l’ho proprio capita. Il Pd ha idee
chiare sull’economia e sul lavoro e Fassina si rifà a documenti approvati dal partito”
ha detto Pier Luigi Bersani, a testimonianza di un’uscita, quella del gruppo di
Bianco & Co., non concordata neanche con quel segretario che si voleva difendere.
Dello stesso parere anche l’ex ministro Cesare Damiano, che, dopo aver bollato
come inopportuna l’uscita dei Liberal, ha respinto la loro richiesta, sottolineando
come “Fassina sul lavoro sostiene la posizione definita dopo che il Pd ha discusso e
approvato dei documenti”. Simile, ma molto più duro il parere di Barbara
Pollastrini, che ha definito “davvero poco ‘liberal’ chiedere di tagliare la testa di chi
la pensa in modo diverso”. Per l’esponente del Pd, “è in crisi il modello economico
occidentale. Nessuno ha la verità in tasca. Stefano Fassina ha il merito di credere in
quello che dice e di esprimersi con limpidezza e senza furberie. Peraltro – ha
concluso la deputata -la posizione del Pd sull’economia non mi risulta decisa solo da
Fassina. C’è stato un confronto che ha coinvolto una platea larga ed è in corso un
percorso programmatico, coordinato dal nostro vicesegretario, Enrico Letta“.
Nel balletto di prese di posizioni, smentite e stroncature varie, un fattore appare
chiaro: nel Pd una ‘questione Fassina’ esiste, eccome se esiste. Non ne ha fatto
mistero Ignazio Marino. ”In un partito non si chiedono le dimissioni di chi la pensa
in maniera diversa, ma certamente dobbiamo affrontare un problema che esiste” ha
detto il senatore, secondo cui “serve un chiarimento nella prossima direzione
nazionale”.
Il caso scatenante è stata la lettera della Bce all’Italia, rispetto alla quale – è stato il
ragionamento di Marino – “il Pd non può accogliere nella direzione nazionale di
luglio la nomina di Mario Draghi con scroscianti applausi e poi trasformarlo, in
quella successivamente in una figura da criticare, solo perché dice il contrario di ciò
che pensa un membro della segreteria. Quello che conta di quella lettera è il merito
e ci sono delle questioni fondamentali”. Il senatore democratico, infine, ha espresso
la sua posizione nel merito della questione lavoro, la stessa su cui sarebbe maturato
lo strappo tra Liberal e Fassina: “Noi possiamo essere in disaccordo su alcuni punti,
ma altre questioni sono ineludibili – ha detto Marino – come la flexsecurity, uno
strumento che, non togliendo i diritti acquisiti, crei nuovi diritti per i 4 milioni di
precari sul modello del contratto di lavoro unico a tempo indeterminato con reddito
di disoccupazione e formazione continua. Io ho firmato nel 2009 il disegno di legge
del senatore Pietro Ichino. Il partito ora deve dire cosa pensa con chiarezza quanto
prima”.
E il diretto interessato? Stefano Fassina ha preferito rispondere sulla sua pagina
Facebook, dove ha usato l’ironia per rispondere ai firmatari della lettera, definiti
“cari amici” a cui “per Natale regalo loro un abbonamento al Financial Times così
possono leggere il dibattito internazionale di politica economica e ritrovare le
posizioni, aggiornate e non ideologiche, della cultura liberale”.
Lo scontro odierno tra i Liberal e Fassina (difeso a spada tratta dalla base del Pd sul
Web), d’altronde, è solo l’ultimo capitolo di un rapporto non idilliaco, incrinatosi
ancor più da quando il responsabile economico del partito ha partecipato alla
manifestazione della Fiom. L’ennesima conferma cinque giorni fa, quando il diretto
interessato ha commentato le indiscrezioni che iniziavano a circolare sulla richiesta
di sue dimissioni da parte di alcune anime del partito. “Quando qualcuno mi
chiederà ufficialmente di dimettermi, in sede politica, risponderò. Se qualcuno
metterà la faccia intorno ai pettegolezzi affronteremo il problema, sempre che il
quesito sulla mia permanenza del Pd venga posto in maniera esplicita”. Oggi quel
qualcuno ha un nome, anzi più di uno: Bianco, Barzina, Marcucci, De Sena e Ichino
(con o senza firma in calce alla nota ufficiale).
Il “caso Fassina” apre la resa dei conti nel Partito
democratico
Troppo di sinistra, i liberal chiedono la testa del responsabile economia del
partito, Bersani lo difende. È il fischio di inizio della battaglia interna del
Pd contro il segretario, dopo la tregua sul governo Monti
di Daniela Preziosi
(ilmanifesto.it, 24 novembre 2011)
Finisce in un coro di no e di attestati di stima, ma la richiesta di dimissioni del
responsabile economico del Pd Stefano Fassina, arrivata ieri da parte del gruppetto
dei liberal di Enzo Bianco, è il segnale di Roncisvalle: dopo due settimane di pax
democratica sul governo Monti, la battaglia interna del Pd riprende. E come:
tirando su uno degli uomini più vicini al segretario. Era nell’aria, da giorni, la
richiesta della testa del giovane bersaniano della segreteria, l’uomo del Pd ai tavoli
riservati con gli alleati del Nuovo Ulivo e dei rapporti con la Cgil di Susanna
Camusso, sempre presente anche ai cortei della Fiom di Landini.
Non un bolscevico, però: esperto di economia, bersaniano, bocconiano. Classe ’66,
ha conosciuto nel 90, da studente della Pantera bocconiana, «ci fu», giura, all’attivo
pure una occupazione-lampo: la sua facoltà di discipline economiche e sociali
doveva essere smantellata, lui da rappresentante degli studenti andò a trattare. Con
il rettore Monti. «E lì l’ho conosciuto, la sua qualità di persona per bene. La facoltà
non fu chiusa», racconta. Ha lavorato al Fondo monetario finché nel 2006 non lo ha
chiamato Prodi.
Ieri hanno provato a dimetterlo in cinque: con Bianco, Ludina Barzini, Andrea
Marcucci, Luigi De Sena e Pietro Ichino, che poi si è dissociato. «Le sue posizioni
appaiono in netta dissonanza rispetto alle linee di responsabilità e di rigore assunte
dal segretario». Bersani dice di cadere dalle nuvole: «Questa richiesta non l’ho
proprio capita». «Fassina si rifà a documenti approvati dal partito». Quelli della
conferenza sul lavoro di Genova, lo scorso giugno. Per titoli: non contro
Marchionne ma non a favore, per la contrattazione di secondo livello ma non contro
il contratto nazionale, non contro la Bce ma non per l’Ue a trazione di destra. Ma
allora c’era Berlusconi. Ora il premier è Monti e l’area liberal-liberista Pd, dal
veltroniano Enrico Morando all’anti articolo 18 Pietro Ichino esulta e chiede il
cambio di linea.
Ma non è da qui che arriva la richiesta di dimissioni. Anzi, Veltroni prende le
distanze, con parole un po’ agre: «Il paese ha ben altri problemi». Come Letta, vice
di Bersani, altro liberal: «Occupiamoci dei problemi dell’Italia, risolveremo le
nostre vicende tra noi».
Per il resto il coro dei no alle dimissioni è unanime: Marini, Damiano, Pollastrini,
persino un gruppo di veltroniani, Meta, Lolli. Stecca solo Ignazio Marino: no alle
dimissioni ma «il problema» c’è e «serve un chiarimento nella direzione nazionale».
Non sarà una dichiarazione di guerra, ma il caso rischia di riproporsi in aula nei voti
al primo provvedimento di Monti.
I bersaniani buttano acqua sul fuoco, esibiscono certezze sul fatto che il professore
non farà proposte troppo lontane da quelle del Pd. Quanto a Fassina, «è
l’instancabile organizzatore del convegno sulla microimpresa, sabato. E di quello
del 29, sulla proposta del Vaticano di un’autorità per governare la finanza»,
affidando le conclusioni a Franco Marini. Ma qualche insofferenza filtrava anche da
quella parte, negli ultimi giorni. Lui, Fassina, ieri ha spento il cellulare, presentato
un libro sull’economia e poi è corso a Sulmona, per il Pd. Solo su facebook, dove
fioccano le dichiarazioni di affetto, ha mandato a dire: «Per Natale regalerò loro un
abbonamento al Financial Times così possono leggere il dibattito internazionale di
politica economica e ritrovare le posizioni, aggiornate e non ideologiche, della
cultura liberale».
«Il caso Fassina» del resto montava sui media che pesano, Corriere in testa. E lui,
nell’occhio del ciclone, non si è moderato, alla sinistra di Bersani (che ne ha
bisogno, visto che di destra ne ha in abbondanza). Negli ultimi mesi, poi: c’era
ancora Berlusconi quando ha detto il no alle ricette della Bce, («sbagliate e
controproducenti»). Poi la polemica con Matteo Renzi («rimpacchetta vecchie
ricette fallite»), e via via nel crescendo di questi ultimi giorni, «sbagliato per il Pd
appiattirsi su Monti», fino ai dubbi su Corrado Passera, («una persona eccezionale.
Nessuna incompatibilità. Ho molti dubbi sul piano dell’opportunità. Perché affidare
a lui il ruolo di ministro dello Sviluppo? Che cosa avrebbe detto l’opinione pubblica
se l’avesse fatto Berlusconi?»), la posizione contro il Marchionne che disdetta gli
accordi («grave e preoccupante»), fino alle ricette «depressive» del commissario
europeo Olli Rehn, qualche giorno fa.
Intervista a Damiano (Pd):
“40 è il numero magico. Camusso ha ragione”
di Frida Nacinivich
(liberazione.it, 1° dicembre 2011)
Intervento sulle pensioni, Ici sulla prima casa, aumento dell’Iva.
Damiano, ma non si era detto che con il governo Monti avrebbe pagato
chi ha di più e ha dato di meno in questi anni?
Questo governo deve essere di rigore, ma anche di crescita e di equità. Per me è
fondamentale. Ho votato per un esecutivo che deve rappresentare una chiara
discontinuità politica con il precedente. Giulio Tremonti ha basato le sue manovre
esclusivamente sul rigore. Pensiamo invece che sia necessario far crescere il paese
per salvaguardare l’occupazione. E tutti hanno l’obbligo di contribuire.
Andiamo per ordine. Le pensioni. Susanna Camusso ha appena fatto
sapere che «40 anni è il numero magico». Insomma che dopo 40 anni di
contributi uno ha il sacrosanto diritto di andare in pensione.
E io penso che Susanna Camusso abbia ragione. I lavoratori che hanno maturato 40
anni di contributi saranno costretti a prolungare la loro attività di un altro anno a
causa della cosiddetta finestra mobile, ad aggiungere altri mesi negli anni
successivi. Nel 2014 saranno necessari complessivamente 41 anni e tre mesi di
contributi. Non si può costringere questi lavoratori ad un’ulteriore prosecuzione
dell’attività. Hanno il diritto di andare in pensione. Soprattutto perché se dopo 41
anni e tre mesi di contributi avranno meno di 60 anni di età, vorrà dire che hanno
cominciato a lavorare a 15-16 anni e svolto per tutta una vita probabilmente un
lavoro manuale e faticoso. Non è giusto pretendere che operai o impiegati
prolunghino la loro attività lavorativa fino al raggiungimento 45-46 anni di
contributi.
Passiamo all’Ici. Magari cancellarla del tutto era stato un azzardo, visto
che era importante per i bilanci dei comuni. Ma reintrodurla senza aver
fatto prima una patrimoniale in un paese dove ci sono enormi ricchezze
immobiliari è tutto fuorché politica di centrosinistra.
Il governo Monti non è un governo di centrosinistra, ma un esecutivo tecnico
appoggiato anche dal centrosinistra, e dovrà tenere conto di tutte le posizioni delle
forze politiche che lo sostengono. In ogni caso l’Ici può essere considerata una
piccola patrimoniale. Personalmente sono molto affezionato al modello Prodi,
quella formula che prevedeva la tassa sulla prima casa esclusivamente per i redditi
medio alti. Un’Ici selettiva si potrebbe anche reintrodurre. Vorrei ricordare che la
sua abolizione ha comportato un risparmio per i ricchi di circa 3 miliardi annui.
Soldi che farebbero un gran comodo alle casse dello Stato.
L’ex premier Berlusconi è stato chiaro: «Sulla patrimoniale voteremo
contro». E così casca subito il governo.
Ognuno si assuma le proprie responsabilità. E comunque trovo sia giusto anche
poter pensare ad una tassa sui grandi patrimoni – magari alternativa all’Ici – con
un forte carattere progressivo. Il problema è quello di stabilire quale gettito si vuole
realizzare con queste misure.
Diamo un’occhiata alla discussione in corso nel suo partito. Vista da
“Liberazione” – ma non solo – la minoranza modem del Pd ha le stesse
identiche posizioni del Terzo polo. Soprattutto nel sostenere a testa
bassa qualunque provvedimento del governo Monti. Riuscirete a
trovare una sintesi?
Non sono d’accordo sul fatto che nel Pd ci riduciamo a due posizioni, una favorevole
e l’altra contraria alle misure straordinarie che il governo Monti si appresta a
varare. Il Pd deve avere le sue proposte, e pretendere un confronto preventivo con
l’esecutivo per trovare i giusti compromessi, senza far venir mai meno l’equità
sociale.
Però quando il responsabile economia del partito Stefano Fassina ha
criticato apertamente le politiche della Bce e della Germania, è stato
subito messo all’indice dai “liberal” di Bianco.
Ho ritenuto sbagliata e intempestiva la presa di posizione di Bianco. Soprattutto
non l’ho trovata condivisibile. E ben poco “liberal”. Per quanto riguarda l’ormai
famosa lettera della Banca centrale europea, sono d’accordo quando chiede di far
quadrare i conti e di far riferimento al patto siglato il 28 giugno scorso fra Cgil, Cisl,
Uil e industriali. Non credo invece che per far cassa sia giusto tagliare gli stipendi
dei dipendenti pubblici, liberalizzare i licenziamenti per motivi economici e tagliare
le pensioni. Ci sono altre strade.
Un’occhiata all’Europa. Anche Silvano Andriani si è reso conto – e ne ha
scritto su “l’Unità” – che se non cambia il ruolo della Bce (facendola
diventare uguale a tutte le altre banche centrali del mondo) i proventi di
ogni manovra finiranno nelle mani degli speculatori. Permetta una
domanda leninista: che fare?
Senza essere troppo estremisti, perché come diceva Lenin “l’estremismo è la
malattia infantile del comunismo”, il problema c’è e va affrontato. Il ruolo della Bce
è molto diverso da quello della Federal reserve statunitense. La Bce espone gli Stati
dell’unione alla speculazione perchè non è un pagatore di ultima istanza.
Cambiare i meccanismi si potrebbe. Ma la Germania non sente ragioni.
Una questione che va affrontata e risolta. E purtroppo il vertice Merkel-MontiSarkozy ha fatto sì fare un passo avanti all’Italia nei rapporti con la Ue, ma non ha
sciolto il nodo degli eurobond né del ruolo della Bce, complice una scelta miope da
parte della cancelliera tedesca.
Un complimento personale per i gatti che lei ama dipingere.
Gli italiani in pensione a 58,7 anni.
L’Inps: “Siamo lontani dall’Europa”
I dati del’Istituto rivelano che due terzi dei pensionati per anzianità nel
2010 sono usciti con 40 anni di contributi. Il presidente Mastrapasqua:
“Con il sistema contributivo diventa obbligatorio aumentare il ricorso alle
integrative”.
(repubblica.it, 1° dicembre 2011)
L’età media dei pensionati Inps per anzianità nei primi 10 mesi del 2011 è di 58,7
anni, in lievissimo aumento sui 58,6 anni del 2010. È quanto dicono gli ultimi dati
Inps, diffusi dall’agenzia Ansa. L’età media di uscita nel complesso (vecchiaia e
anzianità) è stata di 60,2 anni, in calo rispetto ai 60,4 anni del 2010. Se poi si
guarda solo ai lavoratori dipendenti, l’età media di uscita nel 2011 è stata, tra
vecchiaia e anzianità, di 59,7 anni e dunque la più bassa degli ultimi 3 anni; era
stata infatti di 60,9 anni nel 2009 e di 60 anni nel 2010. Per i lavoratori autonomi
l’età media complessiva di uscita è stata di 61,1 anni, in calo rispetto ai 61,4 del
2009.
Se si guarda al 2010, si nota che i due terzi dei pensionati per anzianità Inps nel
2010 sono usciti con 40 anni di contributi. Dai dati Inps risulta inoltre che sono
usciti con la pensione di anzianità indipendentemente dall’età anagrafica 116.013
sui 174.426 pensionati per anzianità dell’anno.
L’età di uscita per l’anzianità è dunque aumentata solo lievemente rispetto al 2010
quando si era attestata su 58,6 anni. Per i dipendenti è passata dai 58,3 anni in
media del 2010 ai 58,5 in media dei primi 10 mesi del 2011, mentre per gli
autonomi è addirittura scesa passando da 59,1 anni in media a 59. I dati tengono
naturalmente conto del fatto che la finestra mobile (12 mesi per i dipendenti e 18
per gli autonomi dal momento del raggiungimento dei requisiti per la pensione)
non ha ancora dispiegato i suoi effetti completamente, dato che fino a luglio è stato
possibile uscire con le vecchie regole (per i dipendenti che nel 2010 avevano
raggiunto almeno i 59 anni di età e i 36 di contributi) e le finestre vigenti nel 2010.
I lavoratori che escono con l’età di vecchiaia (65 anni gli uomini, 60 le donne)
escono in media a 62,7 anni. Nel complesso, fra anzianità e vecchiaia, le uscite nei
primi 10 mesi del 2011 sono state 224.241 con un età media di 60,2 anni. Le uscite
per anzianità sono state 136.015 (58,7 anni l’età media) e quelle per vecchiaia
appena 88.226 (62,7 anni l’età media).
Quanto agli assegni, nel 2010 l’assegno medio della pensione d’anzianità, per i
lavoratori dipendenti e autonomi, si è attestato a quota 1.675,35 euro. In
particolare, per i lavoratori dipendenti l’importo mensile medio è stato pari a
1.929,59 euro, per gli autonomi a 1.235,44 euro. L’assegno medio più alto si registra
al Centro con 1.769,21 euro (dipendenti e autonomi), contro i 1.741,10 del Nord e i
1.359,94 del Mezzogiorno.
La stragrande maggioranza di coloro che sono usciti con 40 anni di contributi
(116.013 nel 2010, i due terzi del totale delle nuove pensioni) è residente al Nord.
Nelle regioni del Settentrione – secondo i dati Inps per la prima volta disaggregati
nell’anzianità tra chi esce con le quote e chi esce con il massimo dei contributi –
sono usciti in anzianità con 40 anni (e quindi indipendentemente dall’età
anagrafica) 74.031 lavoratori a fronte dei 20.610 del Centro e i 21.372 del Sud. Con
le quote (età più anzianità) sono usciti nel 2010 rispettivamente 37.207 lavoratori
nel Nord, 10.218 nel Centro e 10.988 nel Sud. In particolare con 40 anni di
contributi nel 2010 sono usciti 66.325 dipendenti (42.145 dei quali nel Nord) e
49.688 autonomi.
I dati fanno dire al presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che “la crescita
dell’età di uscita dei pensionati per anzianità è ancora troppo lenta”. Secondo
Mastrapasqua, i lavoratori italiani sono ancora “molto lontani” dalla media di
pensionamento europea. “Dove si va in pensione più avanti – ha poi detto il
presidente dell’Istituto di previdenza a Radio anch’io – le aziende aumentano la
produttività. Ci sono studi che lo dimostrano. Se in azienda c’è un dipendente
anziano può diventare il tutor della persona che entra”. Insomma, aumentando
“l’anzianità”, secondo Mastrapasqua “aumentano la produttività e il benessere delle
persone che sono in azienda”. “Il mondo – ha aggiunto – ha bisogno di produrre e
di aumentare il pil. Dobbiamo entrare in una visione globale e non esitare in
conservatorismi che limitano la nostra produzione”.
Ragionando sul sistema italiano, Mastrapasqua ha detto che la pensione
complementare ha in Italia una penetrazione del 23%, contro il 91% raggiunto
all’estero. Il motivo dello scarso interesse nel nostro Paese per l’integrativa, ha
spiegato, è che finora non è stata ritenuta utile, ma oggi “con il sistema contributivo
non solo serve, ma è obbligatorio farla”.
Reddito minimo garantito.
Lo strumento per recuperare chi ha perso il lavoro
In Italia ha visto solo una breve sperimentazione
di Raffaello Masci
(stampa.it, 2 dicembre 2011)
Per il momento siamo ad una «preferenza personale che non impegna il
programma del governo», ma comunque la proposta è stata fatta e potrebbe
introdurre se non una rivoluzione almeno una grande innovazione nel tessuto
sociale italiano. La ministra del Welfare, Elsa Fornero, si è detta favorevole
all’istituzione di un «reddito minimo garantito». «La mia preferenza è che ci sia un
sistema di questo genere – ha detto la ministra rispondendo ad una domanda
durante la sua conferenza stampa a margine del Consiglio Affari sociali dell’Ue –
Comunque, una simile riforma va congegnata e inserita in un pacchetto più ampio
di misure».
Il reddito minimo garantito, detto anche reddito di cittadinanza, è una misura di
sostegno sociale che si applica – in genere – a categorie di cittadini che vivono un
momento di difficoltà rispetto al lavoro: giovani in attesa di prima occupazione,
ultracinquantenni disoccupati con difficoltà di reinserimento, persone in condizione
di marginalità sociale. La misura – beninteso – ha sempre un carattere temporaneo
ed è finalizzata ad un superamento della difficoltà contingente.
Il reddito minimo esiste oggi in tutti i paesi comunitari, con esclusione del nostro,
della Grecia e della Bulgaria. Sono ben quattro i provvedimenti comunitari che
sollecitano questa misura di politica sociale, il primo è del ‘92 ed è una
«Raccomandazione» del Consiglio europeo sulle politiche di protezione sociale.
L’ultimo è un documento della Commissione del 2008, relativo «all’inclusione delle
persone fuori del mercato del lavoro». Le norme che i vari stati si sono date sono
differenti così come gli effetti che hanno prodotto. L’Inghilterra, l’Olanda, la
Germania e i paesi scandinavi sono quelli che hanno attuato politiche di inclusione
sociale ed economica da più lungo tempo e con esiti più apprezzabili.
L’Italia ha sempre latitato, con una eccezione importante ma breve: le legge 328 del
2000 voluta dall’allora ministra Livia Turco, che consentì di sperimentare il reddito
minimo di inserimento in 298 comuni. Nel 2001 ci fu, però, un cambio di governo, e
con la finanziaria del 2003 la sperimentazione finì. Alcune regioni, negli anni
successivi, presero dei provvedimenti analoghi (Lazio, Campania, Basilicata, Friuli,
Trentino, Valle d’Aosta, Puglia) ma i successi e le rispettive durate furono differenti.
Se l’ipotesi Fornero dovesse conoscere degli sviluppi, saremmo di fronte ad una
importante novità, in quanto è dimostrato che il reddito di inserimento non ha solo
valenza assistenziale ma consente anche l’inclusione di alcune categorie
momentaneamente svantaggiate nella dinamica economica.
L’annuncio della Fornero è stato salutato con giubilo perfino da un leader critico nei
confronti del governo, come Nichi Vendola, per il quale «saremmo di fronte ad una
innovazione importantissima». Ed è poi ovvio, visto il precedente, che la cosa sia
piaciuta a Livia Turco (Pd): «È un fatto molto positivo – ha detto – Qualora fosse
possibile, ciò permetterebbe di colmare il grave ritardo accumulato dall’Italia».
Non contrario, ma molto perplesso, invece, il vicecapogruppo del Pdl alla Camera,
Osvaldo Napoli: «Reddito minimo garantito? Bene, ma pagato come e da chi? Con
l’Ici e la patrimoniale? O dai lavoratori che si vedono decurtato il trattamento
previdenziale? Le indiscrezioni che filtrano dagli organi di informazione delineano
un quadro, ove trovassero conferma negli atti di governo, politicamente sgradevole
per la maggioranza elettorale».
La Fornero e le pensioni:
punto all’addio all’anzianità dal 2018
Il ministro lo ha detto durante un’audizione alla Camera. «È una soluzione
drastica, abbiamo usato l’accetta»
(corriere.it, 6 dicembre 2011, 14:32)
Dal 2018 non dovrebbè più essere possibile andare in pensione anticipata rispetto
all’età di vecchiaia. Lo ha detto il ministro del Welfare, Elsa Fornero, in una
audizione alla Camera spiegando che in quella data dovrebbe concludersi la
transizione e non dovrebbe più essere possibile andare in pensione di anzianità.
SOLUZIONE DRASTICA – Parlando davanti alla commissione Lavoro di
Montecitorio, il ministro ha spiegato che la soluzione sulle pensioni di anzianità «è
stata piuttosto drastica, non lo nascondo» e ha aggiunto che l’obiettivo è «allungare
la vita lavorativa e alzare l’età media di pensionamento». Fornero ha poi ricordato
che ci sono ancora «persone che vanno in pensione a 57 e forse a 56 anni, con una
media quindi di 58,3 mesi».
USATA L’ACCETTA – L’esponente del governo ha riconosciuto che nel realizzare la
riforma si è lavorato «con l’accetta», ma «dopo l’operazione tagli» avrà un «respiro
di lungo termine in modo che gli italiani non ne abbiano un’altra tra due anni». Ha
evidenziato poi che l’obiettivo della manovra è «dare continuità e coerenza alla
riforma», dopo gli interventi passati che «non sempre» sono stati «coerenti» tra
loro. Quella varata dall’esecutivo, secondo Fornero, fornisce «maggiore
trasparenza» abolendo le «finestre» che sono «un bizantinismo vessatorio». Il
contributivo infine è «sempre sostenibile» dal punto di vista economico e
serviranno «piccoli aggiustamenti».
NUOVO MERCATO DEL LAVORO – In ogni caso, ha precisato, «la riforma punta
tutto, e fallirà se non sarà così, su un nuovo mercato del lavoro che funziona bene,
che da occupazione ad un maggior numero di persone. È un capovolgimento di
ottica». Ma per fare questo bisognerà lavorare duro, ha spiegato il ministro: «Un
mercato del lavoro più flessibile ha bisogno di ammortizzatori sociali – ha
evidenziato -. Questo richiede risorse e dobbiamo puntare alla crescita».
PARITA’ UOMINI/DONNE – Allineare le pensioni tra donne e uomini, ha poi detto
il ministro, è anche una questione di pari opportunità perchè è inaccettabile una
sorta di «compensazione». «Sono ministro anche delle pari opportunità – ha
puntualizzato -: la pari opportunità per me va conseguita da subito nella
scolarizzazione, del mercato del lavoro, nella progressione di carriere. Sono meno
tenera verso un assetto sociale che segmenta e scoraggia e poi ti dà il contentino».
Insomma «andare in pensione prima» degli uomini è «una compensazione che non
risponde a criteri di equità».
In pensione più tardi.
Via dal lavoro sei anni dopo
Che cosa cambia con la riforma, età per età 2012 Dal 1° gennaio sistema
contributivo per tutti
di Domenico Comegna
(corriere.it, 6 dicembre 2011, 8:03)
Per fare cassa non si può proprio fare a meno di intervenire sulle pensioni. Non fa
eccezione la manovra-ter, messa a punto dal nuovo governo Monti. I principi su cui
poggiano le norme sono, in sintesi: l’affermazione del metodo contributivo come
criterio di calcolo delle pensioni, in un’ottica di equità finanziaria,
intragenerazionale e intergenerazionale; la flessibilità nell’età di pensionamento,
che consente al lavoratore maggiori possibilità di scelta nell’anticipare o posticipare
il ritiro dal mercato del lavoro; la semplificazione e la trasparenza dei meccanismi di
funzionamento del sistema, con l’abolizione delle finestre e di altri meccanismi che
non rientrino esplicitamente nel modello contributivo; l’abbattimento delle
posizioni di privilegio. Si armonizzano, infatti, età, aliquote contributive e modalità
di calcolo delle prestazioni; si individuano requisiti minimi per accedere alla
pensione, in linea con la speranza di vita per le diverse fasce di età e in coerenza con
gli altri ordinamenti europei.
Da gennaio 2012 viene introdotto, secondo il meccanismo pro rata, il metodo di
calcolo contributivo. L’età di pensionamento delle donne viene alzata a 62 anni (a
63 e sei mesi per le autonome). L’equiparazione dell’età delle donne a quella degli
uomini (66 anni per i dipendenti, sei mesi in più per gli autonomi) avverrà entro il
2018, sempre tenendo conto della variazione della speranza di vita. Nel frattempo,
dall’età 62 all’età 70 vigerà il pensionamento flessibile, con applicazione dei relativi
coefficienti di trasformazione calcolati fino a 70 anni.
L’accesso anticipato alla pensione continua ad essere consentito, ma con
un’anzianità di 42 anni e un mese per gli uomini e di 41 anni e un mese per le
donne, requisiti anch’essi indicizzati alla longevità. Si prevedono penalizzazioni (2%
per ogni anno di anticipo rispetto a 62 anni) sulla quota retributiva dell’importo
della pensione, tali da costituire un effettivo disincentivo al pensionamento
anticipato rispetto a quello di vecchiaia. Vengono infine aboliti i privilegi ancora
esistenti, attraverso l’introduzione temporanea di un contributo di solidarietà per i
pensionati e gli attivi che ancora avvantaggiati da precedenti regole di maggior
favore, come i fondi speciali Inps, elettrici, telefonici, piloti e hostess.
Neoliberisti, ecco come ci portano alla catastrofe
di Stefano Fassina
(unita.it, 12 dicembre 2011)
Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia,
andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri
prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell’ultimo quarto di secolo: austerità
senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la
caduta della domanda interna depressa dall’aumento delle diseguaglianze. In
sintesi, siamo vittime del «trionfo delle idee fallite», come ripete Paul Krugman.
Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt
Gingrich.
Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina e i Giavazzi, nonostante
il Fmi qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in
un’analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un
risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono
recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli
Alesina e i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per
coprirsi le spalle rilanciano contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Stesso
schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la
giustificazione è l’equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza
imbarazzo da un classismo pesante e autolesionista. Purtroppo ideologia fallita e
interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell’euro non ha
nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul Financial Times
di mercoledì scorso per l’ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione).
È dovuta alle differenze di competitività presenti nell’area della moneta unica. È
dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della
disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa.
L’ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il
vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l’ultimo esempio. Si progetta un
trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità
suicida, in larga misura già recepita nel “six pact” (il pacchetto pro-austerity
approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli
interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel,
l’unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e
democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico
dei Paesi in difficoltà.
Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori
dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di
parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi
arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili
disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle
democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla
rottura dell’euro e della Ue e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del
vecchio continente nel secolo asiatico. La linea da seguire è opposta. La ripetono
oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,…)
sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau,
Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti
europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al
“six pact”.
La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici
all’interno dell’area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi,
allentamento dell’austerità autolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare
attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata
a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi.
Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis
innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività.
Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi
democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell’area euro. Soltanto un
paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei.
Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e
corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi. Un disastro per la
democrazia, prima che per l’economia.
Riforma del lavoro, Ichino striglia il Pd:
“Deve scegliere con chi stare”
In un’intervista il giuslavorista apre alla riforma Monti e rilancia la sua
proposta. “Un anno fa il partito ne ha preso le distanze, ma a gennaio sarà
costretto a riflettere”
di Stefano Feltri
da Il Fatto Quotidiano del 18 dicembre 2011
Il giuslavorista Pietro Ichino Il governo Monti presto costringerà il Pd a scegliere da
che parte stare. Con chi vuole difendere le tutele esistenti – a cominciare
dall’articolo 18 – o con chi le vuole ripensare per garantire più diritti a chi oggi è
fuori dal sistema, come i giovani precari e le partite Iva. “Non credo alla
licenziabilità che produce lavoro”, ha detto ieri l’ex ministro del Welfare Cesare
Damiano al Fatto. Gli risponde Pietro Ichino, senatore Pd, giuslavorista. Le sue
posizioni sono state finora minoritarie nel Pd, ma ora sembrano coincidere con la
linea del governo.
Professor Ichino, il premier Monti ha già detto che, chiusa la manovra,
una delle priorità sarà la riforma del mercato del lavoro. Cosa si
aspetta?
Convocherà partiti, sindacati, associazioni rappresentative di parti sociali
interessate e dirà loro: ‘ Dobbiamo adempiere entro maggio l’impegno con l’Unione
europea: per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, dobbiamo
emanare una disciplina che sia applicabile davvero a tutti, per voltar pagina rispetto
alla situazione attuale di apartheid fra protetti e non pro-tetti. E dobbiamo farlo
senza accollare, almeno per ora, maggiori costi allo Stato. Fermi questi punti,
chiunque abbia buone idee sul come fare, le metta subito sul tavolo’.
Cesare Damiano, sul Fatto di ieri, dice che queste sono sue posizioni
personali e non del Pd.
Il discorso programmatico di Monti ha degli evidenti punti di contatto con il mio
progetto flexsecurity. E dal maggio 2010 il Pd ha preso le distanze da questo
progetto. Ma quando, a gennaio, il governo indicherà quei punti fermi della riforma,
il Pd non potrà esimersi dal dire come intende risolvere il problema.
Damiano l’ha detto: non è un problema di disciplina dei licenziamenti,
ma solo un problema di costi. Occorre aumentare il costo del lavoro
precario ed estendere a tutti gli ammortizzatori sociali.
Per gli ammortizzatori sociali, occorre anche dire dove si reperiscono i fondi. Il mio
progetto risolve questo problema a costo zero per lo Stato, utilizzando meglio una
parte dei fondi che oggi vengono sperperati in cassa integrazione a zero ore e a
fondo perduto, per estendere a tutti un trattamento speciale di disoccupazione; e
chiedendo alle imprese di farsi carico di un trattamento complementare di
disoccupazione per i lavoratori che licenziano.
Lei sostiene che riformare il lavoro implica comunque una revisione
della normativa sui licenziamenti. Che nel dibattito pubblico diventa
“cambiare l’articolo 18”. Ma Damiano obietta: non si può abbassare le
difese contro i licenziamenti in un momento di crisi come questo.
Il mio progetto non le abbassa affatto: non le tocca proprio. La riforma riguarda
soltanto i nuovi rapporti che si costituiranno da qui in avanti. Per i quali non
abbassa le difese, ma le rende più efficaci e soprattutto più adatte ad applicarsi
davvero a tutti. È proprio in una situazione di gravissima incertezza, come questa,
che le imprese sono più riluttanti ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato e
con vincoli forti al licenziamento. È proprio ora che una disciplina più flessibile è
indispensabile per facilitare le assunzioni a tempo indeterminato.
Una delle perplessità sul suo progetto è che l’assicurazione per chi
perde il lavoro sarebbe a carico dell’impresa. Con un aumento del costo
del lavoro. Non ci sarebbe un aumento del costo del lavoro.
Oggi le imprese italiane, quando hanno necessità di sciogliere uno o più rapporti di
lavoro per ragioni economiche od organizzative, affrontano un ritardo tra i due e i
sei anni, a seconda delle dimensioni: un costo molto rilevante, anche se non è
contabilizzato come tale. La proposta è questa: risparmiate quel costo e utilizzate
una parte del risparmio per il trattamento complementare di disoccupazione a
favore dei lavoratori licenziati. I costi di mercato della parte restante del
trattamento, cioè dei servizi efficienti di outplacement e di riqualificazione mirata
può essere coperta agevolmente dalle Regioni, attingendo anche ai contributi del
Fondo Sociale Europeo.
Ma chi garantisce che le imprese non continuino ad assumere i nuovi
dipendenti con la partita Iva, o con altri sotterfugi?
Nel nuovo regime non occorreranno ispettori, avvocati e giudici per accertare il
lavoro subordinato, come accade oggi. I dati rilevanti perché si applichi
integralmente il nuovo diritto del lavoro emergeranno direttamente dai tabulati
dell’Erario o dell’Inps: carattere continuativo del rapporto, monocommittenza,
reddito medio-basso del lavoratore.
Il Pd rischia di spaccarsi sul lavoro? C’è chi parla di scissioni.
No. Accadrà soltanto che l’iniziativa decisa del governo su questo terreno
costringerà il Pd a una nuova riflessione approfondita. Occorrerà chiedersi, per
esempio, se sia davvero meglio il periodo di prova allungato a tre anni proposto da
Damiano, oppure una regola che faccia crescere gradualmente l’indennizzo a favore
per il lavoratore già dopo sei mesi di rapporto. Se sia meglio l’attuale situazione in
cui l’articolo 18 si applica a meno di metà della forza-lavoro e l’altra metà è
totalmente scoperta; oppure la mia riforma, che estende l’articolo 18 a tutti per la
parte in cui esso serve davvero, cioè la repressione delle discriminazioni, e dà a tutti
un protezione di livello scandinavo contro il licenziamento per motivi economici.
In caso il governo presenti una riforma ispirata al suo modello, su quali
sponde può contare, tra Pd e Pdl?
Al Senato, una larga maggioranza del gruppo Pd sostiene il mio progetto. Tutte le
componenti del Terzo polo lo hanno fatto proprio. E anche il Pdl è sostanzialmente
disponibile. Già un anno fa il Senato si è pronunciato a larghissima maggioranza a
favore di una mozione di Rutelli che impegnava il governo a varare una riforma
modellata sul mio progetto. E anche alla Camera, credo che quando si entrerà nel
merito della riforma si vedrà che le obiezioni “di sinistra” non riguardano, in realtà,
questo progetto: si riferiscono a qualche cos’altro, che non è all’ordine del giorno.
La Cgil di Susanna Camusso potrebbe cercare una nuova grande
battaglia per ritrovare un po’ di compattezza.
Non lo credo proprio. Ce la vede, lei, la Cgil a fare le barricate contro una riforma
che non tocca i lavoratori regolari stabili, e a tutti i new entrant offre un rapporto a
tempo indeterminato, con articolo 18 contro le discriminazioni e una protezione di
livello scandinavo su tutti gli altri fronti?
Camusso rompe con il governo:
«Sulle pensioni un intervento folle»
«La Fornero aggredisce i lavoratori». Il contratto unico? Sarebbe solo un
nuovo apartheid a danno dei giovani
di Enrico Marro
(corriere.it, 19 dicembre 2011, 11:46)
La stangata del governo Monti ha provocato la mobilitazione di tutti i sindacati, che
cercano di dar voce alla protesta di lavoratori e pensionati. I motivi di questa
opposizione durissima e di quella che ci sarà rispetto a ogni ipotesi di modifica
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori li spiega il segretario generale della Cgil,
Susanna Camusso.
Il governo dice che la manovra ha salvato l’Italia da una situazione dove
erano a rischio i risparmi e le tredicesime. È d’accordo?
«Vedo che si autoattribuiscono il ruolo di salvatori della Patria. La realtà è che la
situazione era ed è grave, ma la ricetta giusta non è quella di Monti».
Perché?
«Perché grava sui soliti noti: chi ha un reddito Irpef dichiarato, in genere medio
basso. Perché punta a far cassa rapidamente su chi non può sottrarsi e non si è mai
sottratto al Fisco. Determina recessione e quindi non mette affatto al riparo il Paese.
Hanno solo preso tempo»
Servirà un’altra manovra?
«Di sicuro, non c’è una spinta alla crescita. C’è invece l’impoverimento di gran parte
del Paese, perché la logica è stata quella di trovare chi pagasse il prezzo del pareggio
di bilancio».
Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?
«Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle
grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo
messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e
cumuli multipli tra stipendi e pensioni d’oro. E avremmo fatto cose più incisive
sull’evasione, solo per fare qualche esempio».
La riforma delle pensioni è pesante. Ma nell’opinione pubblica c’è anche
la consapevolezza che è la conseguenza degli errori del passato.
Non crede che nel ’95 fu uno sbaglio, anche del sindacato, escludere dal
contributivo i lavoratori con più di 18 anni di servizio?
«La Cgil già allora pensava che il contributivo pro quota potesse essere una
soluzione e Sergio Cofferati lo disse pubblicamente. Oggi comunque tra i lavoratori
e i pensionati che frequento io non c’è nessuno che trovi la riforma Fornero
ragionevole. C’è una straordinaria sottovalutazione e una supponenza
impressionante da parte del governo nel non capire le conseguenze di questa
riforma, che rappresenta un intervento brutale sui prossimi 6-7 anni per tante
persone che non potranno accedere alla pensione e non avranno un sussidio. C’è un
livello di aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che, fatto da una
donna, stupisce molto».
Ma come, si dice che Fornero ministro l’abbia voluto la Cgil, sbarrando
la strada a Carlo Dell’Aringa…
«Non è vero. La Cgil non ha partecipato al totoministri e non ha posto veti di sorta.
Ma mi interessa tornare sulle pensioni perché c’è una cosa che nessuno ha notato ed
è gravissima».
Quale?
«Nella riforma c’è una norma programmatica che affida a una commissione di
studiare la possibilità che i lavoratori spostino una parte dei contributi previdenziali
dal sistema pubblico alle assicurazioni private. Questa è una riforma per smontare il
pilastro delle pensioni pubbliche. Quindi Fornero non tiri in ballo a sproposito
Lama, perché lei ha fatto esattamente una riforma contro i suoi figli, anzi i suoi
nipoti».
Mettere in sicurezza finanziaria le pensioni è un modo per garantire il
pagamento delle stesse alle prossime generazioni.
«No, no, il sistema era già in sicurezza».
Non può negare che finora chi è andato col retributivo spesso ha
ricevuto un regalo rispetto ai contributi versati.
«Guardi che il fondo lavoratori dipendenti è in attivo mentre le gestioni in passivo
sono pagate coi contributi dei parasubordinati. Ha idea invece di che dramma
sociale creerà questa riforma per i lavoratori dipendenti e i precari, determinando
insicurezza e paure? Che senso ha tutto questo? Quello di regalare il sistema alle
assicurazioni?».
Sta dicendo che Fornero lavora per le assicurazioni private?
«Se guardo la manovra, sì. Ma un governo di tecnici non può pensare di trasformare
il Welfare senza discuterne con nessuno».
Quasi quasi era meglio Berlusconi?
«No, perché se siamo arrivati a questo punto è per colpa dei suoi governi. Ma ciò
non significa che questo esecutivo possa fare qualsiasi cosa. Quando sento dire che
bisogna riformare il ciclo della vita…, ma chi sono gli unti del signore pure loro?».
Meglio andare alle elezioni anticipate?
«Questo governo è nato per affrontare un’emergenza. Trovo che ci sia un tratto
autoritario nel voler dire che sarà il grande riformatore del Paese, perché questo
spetta alla politica».
Ci saranno altri scioperi?
«Valuteremo con Cisl e Uil. Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce
qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70
anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con
infermieri settantenni? Si rende conto che c’è gente che si fa un mazzo così e non
può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la
gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c’è a
chi basta una legislatura».
Dopo le pensioni, tocca al mercato del lavoro. Fornero propone il
contratto unico per i giovani, senza le tutele al 100% dell’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori.
«Sarebbe un nuovo apartheid, a danno dei giovani. Se facciamo un’analisi della
realtà, vediamo che la precarietà c’è soprattutto dove non si applica l’articolo 18,
nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto
falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l’obbligo scolastico, si punti
sull’apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche».
Insomma per la Cgil l’articolo 18 resta un totem, come dice Fornero.
Ammetterà almeno che bisogna superare il dualismo del mercato del
lavoro tra garantiti e precari.
«Non è un totem, ma una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio
una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato
e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l’articolo 18?».
Fornero dice che le donne non devono rivendicare compensazioni ma
parità, anche nei lavori domestici. È d’accordo?
«Fornero dovrebbe intanto ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco e
farne una sulla paternità obbligatoria. Sarebbero passi in avanti concreti verso la
parità».
Articolo 18, sindacati all’attacco.
Fornero: “Reazione che preoccupa”
Camusso: “È una norma di civiltà che dice che nessun datore di lavoro può
licenziare qualcuno perché gli sta antipatico, perché non ha opinioni,
perché è iscritto a un sindacato o fa politica”. Il ministro: “Contro di me
linguaggio del passato”. Il presidente di Confindustria Marcegaglia:
“Serve serietà e pragmatismo”
(repubblica.it, 19 dicembre 2011)
È scontro duro tra il ministro del Lavoro Elsa Fornero e i sindacati. Tema del
contendere l’articolo 18 e la riforma del lavoro che la Fornero ha annunciato di voler
realizzare. E che i sindacati, in particolare sulla questione dell’articolo 18, vedono
come il fumo neglio occhi. Favorevole, invece, la Confindustria.
“Nessun tabù sull’articolo 18. La riforma del mercato del lavoro va affrontata con
molta serietà, pragmatismo e senza ideologia” dice il presidente di Confindustria,
Emma Marcegaglia che anche al sindacato chiede “grande spirito di collaborazione
e atteggiamento costruttivo”. Le parole della Marcegaglia arrivano dopo le parole
della Fornero che ha annunciato la riforma del mercato del lavoro a cui il governo
sta lavorando. I sindacati, però, non ci stanno 1. “Questa storia di voler mettere
mano all’articolo 18 proprio non la capisco. Sembra si voglia aizzare la gente alla
protesta – dice il leader della Cisl, Raffaele Bonanni – Sono molto preoccupato per
quello che sta accadendo, a 12 ore dall’approvazione della manovra già si aizza la
gente su una materia così complessa. La precarietà è il frutto della flessibilità pagata
male. L’esecutivo si deve rendere disponibile a pagare di più il lavoro flessibile”.
Durissima Susanna Camusso: “L’articolo 18 è una norma di civiltà. Questa norma
dice che nessun datore di lavoro può licenziare qualcuno perché gli sta antipatico,
perché non ha opinioni, perché è iscritto a un sindacato o fa politica. È importante
che rimanga perché è un deterrente”. Elsa Fornero, però, reagisce con nettezza:
“Rammarica e preoccupa la reazione dei sindacati. Sull’articolo 18 c’è il rischio di
implicazioni per il Paese. Siamo pronti al dialogo, anche prima di gennaio, ma senza
preclusioni”. Ma le cose dette al ministro non sono piaciute: “Sono rimasta
dispiaciuta e sorpresa per un linguaggio che pensavo appartenesse a un passato del
quale non possiamo certo andare orgogliosi. La personalizzazione dell’attacco che
non fa merito a chi lo ha condotto”.
Per Emma Marcecaglia, invece, la riforma del mercato del lavoro va affrontata “con
molta serietà, molto pragmatismo” e va affrontata “perchè abbiamo rigidità in
uscita che non hanno uguali in Europa, e, in alcuni casi, anche rigidità in entrata
che penalizzano giovani e donne. Abbiamo ammortizzatori sociali che vanno rivisti
in parte. Siamo quindi per una trattativa seria e pragmatica. Ci siederemo al tavolo
con la volontà di lavorare e collaborare perché in una situazione come questa non ci
sono più totem, non ci sono più tabù”.
Sul tema interviene anche il presidente della Camera Gianfranco Fini che chiede
una limitazione “dei contratti a termine”. “In cambio, se per le aziende le cose
dovessero andare male, la possibilità di una maggiore flessibilità in uscita,
possibilità di licenziare che oggi con l’articolo 18 è più complicato” sintetizza il
leader di Fli.
Bonanni: «Articolo 18? Pagare di più il lavoro
flessibile».
Camusso: «Venite nel paese reale»
Protesta a Roma contro la manovra, Piazza Montecitorio piena. Bonanni
(Cisl): Fornero fa la maestrina, metta incentivi per precari
A. D. G.
(corriere.it, 19 dicembre 2011, 14:16)
«In questa piazza c’è l’Italia che lavora. Le piazze del lavoro pubblico, come le altre,
dicono no a una manovra che non è sopportabile. Bisogna cancellare dal linguaggio
la parola fannulloni». Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, attacca la
manovra e il precedente governo («Fannulloni sono quelli che negli anni scorsi ci
hanno portati fino a qua») dal palco del presidio a piazza Montecitorio, in occasione
dello sciopero del pubblico impiego indetto da Cgil, Cisl, Uil e Ugl. «Non pensino
che la fiducia alla Camera e al Senato chiuda la partita. Il Paese così non va e non ci
rassegneremo, perché cambiare si può», dice la leader sindacale, che annuncia:
«Continueremo il presidio durante l’approvazione della manovra. Il 24 saremo in
piazza, non per rovinare il Natale a qualcuno, ma perchè per i lavoratori colpiti dalla
manovra non sarà un Natale sereno».
ARTICOLO 18 – La leader Cgil ha poi ribadito la sua strenua difesa dell’articolo 18:
«una norma di civiltà che dice che non si può licenziare un lavoratore perchè sta
antipatico, ha opinioni politiche o fa il sindacato. Anche se non si applica a tutti è un
deterrente contro la discriminazione. Un paese democratico e civile non può
rinunciarvi». Una posizione in piena sintonia con quella del leader di Sel Nichi
Vendola, che incontrando i giornalisti ha detto che l’articolo 18 non si può toccare.
«Siamo uniti con i sindacati sul no all’attacco ai diritti: l’articolo 18 è un punto della
civiltà del nostro Paese e se il governo dovesse mettere mano ad una riforma
regressiva, la risposta non potrebbe che essere durissima». «Confindustria dice che
lo consideriamo un argomento tabù? – ha aggiunto Vendola -. Sì, è un argomento
tabù, perché tocca la carne viva dei lavoratori».
«L’art. 18 sta diventando il bersaglio facile di chi vuole smantellare lo Statuto dei
lavoratori per fare un regalo a Confindustria e scaricare il costo della crisi sempre
sui più deboli – ha detto il presidente del Gruppo Italia dei Valori al Senato, Felice
Belisario -. Facilitare i licenziamenti, questo sì in perfetta continuità col precedente
governo, è inaccettabile. Non si tratta di difendere un totem, ma un diritto
sacrosanto conquistato con 40 anni di lotte dei lavoratori».
Ma la visione sull’articolo 18 non è unitaria: se il presidente di Confindustria, Emma
Marcegaglia, usa toni concilianti e a proposito di una possibile riforma dice:
«Nessun attacco ai sindacati, vogliamo collaborare con tutti e a breve presenteremo
uno studio sul mercato del lavoro», il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini,
sostiene invece che «L’articolo 18 non è un totem intoccabile. È ampiamente
perfettibile». E il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, sottolinea che
«La modifica dell’articolo 18 è uno dei temi «che sta nelle richieste dell’Unione
europea».
IL SIT-IN – Era stato il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ad aprire gli
interventi in una piazza Montecitorio, a Roma, gremita lunedì mattina di lavoratori
che protestavano contro la manovra del governo nel giorno dello sciopero del
pubblico impiego. Una piazza piena di bandiere dei sindacati confederali e dell’Ugl,
che ha visto avvicendarsi al microfono i big: Camusso e Angeletti, ma anche
Raffaele Bonanni (Cisl). Perchè, come ha sottolineato la ledear Cgil «questo governo
ha unito i sindacati: diciamo le stesse cose da giorni».
RICCHEZZA VA DISTRIBUITA – Angeletti ha invitato i «professori» a fare «quello
che fanno i Paesi più virtuosi, dove le cose funzionano meglio che in Italia». E cioè
«far pagare i ricchi e non sempre chi non ce la fa ad arrivare a fine mese». Dal palco
Angeletti ha invocato un po’ di coraggio. Centinaia di persone lo hanno ascoltato
dire che «la ricchezza per crescere deve essere distribuita. E non «perchè lo diciamo
noi, ma perchè in tutto il mondo funziona così». «Noi invece viviamo in un mondo
alla rovescia: i più poveri pagano le tasse in sostituzione dei più ricchi. E questo è il
mondo che non si vuole cambiare».
NESSUNA EQUITÀ – Di un governo «forte con noi deboli e debole con i forti»
parla poi Raffaele Bonanni: «Un governo che piega la testa davanti alle
corporazioni, alle casse previdenziali e alle rendite dei privilegiati». E sulla
manovra, Bonanni dice che «ha dell’inverosimile». «A Monti ricordo che aveva
promesso che il rigore sarebbe stato accompagnato dall’equità – ha continuato
Bonanni -. Ma l’equità dov’è? Non c’è, e quindi non c’è la coesione sociale che era la
raccomandazione del presidente della repubblica Giorgio Napolitano».
FLESSIBILI E PRECARI – La Cisl chiede di «fare innanzitutto qualcosa per i
precari», di mettere a disposizione incentivi per far sì che chi è flessibile non si
trasformi in precario. «Alla signora Fornero dico che se vuole fare qualcosa per i
precari, metta a disposizione gli incentivi per far si che chi è flessibile non si
trasformi in precario». «Lei che fa la maestrina – ha aggiunto Bonanni sempre
riferendosi alla Fornero – dovrebbe sapere che senza maggiore salario non si
possono avere più contributi». Un sostegno al governo, dice Bonanni, sarà possibile
solo sulla base di una discussione «aperta alla concertazione».
PAESE REALE – Secondo Susanna Camusso «bisogna cambiare strategia per dare
un futuro al Paese», perchè «non ci sono salvatori della patria con ricette giuste». E
ha invitato il governo a «ricominciare dai contratti e dal discutere». «Venite nel
paese reale e forse vi accorgerete che cambiando i criteri della previdenza il Paese
non funziona più». «Lo dico con brutalità: bisogna che il governo scenda dalle
cattedre e si metta a discutere con i lavoratori e le parti sociali», ha detto Camusso.
Che critica lo strumento del decreto per fare la riforma delle pensioni e assicura che
«la riforma così come è stata fatta, sarà cambiata».
LE RICHIESTE – Presenti in piazza, molti lavoratori della sanità (qualcuno è in
camice bianco) dei servizi pubblici, della scuola e tutte le categorie del pubblico
impiego. Tutti a chiedere «più equità nella manovra». Tra gli striscioni esposti
davanti al Parlamento campeggia quello dei medici: «Chi paga la manovra? I soliti
noti». Al centro della mobilitazione unitaria, la richiesta di modificare il testo
durante l’iter parlamentare per ottenere una riforma della previdenza che «non sia
scaricata sulle spalle di lavoratori e pensionati»; misure che colpiscano «per la
prima volta evasione e grandi patrimoni»; una riforma fiscale che alleggerisca la
tassazione sui redditi da lavoro dipendente e da pensione; una riqualificazione della
spesa pubblica che consenta di trovare le risorse per la crescita; il rinnovo dei
contratti; l’eliminazione degli ulteriori tagli alle autonomie locali per difendere il
welfare locale e la sanità; una ristrutturazione delle istituzioni centrali e locali che
«eviti affrettate operazioni mediatiche e ragionieristiche, come nel caso delle
province o degli enti previdenziali (vedi super-Inps), finalizzata a garantire la tenuta
occupazionale e a migliorare i servizi.
L’inutile ossessione
della flessibilità in uscita
di Massimo D’Antoni
(unita.it, 19 dicembre 2011)
C’è veramente necessità, oggi, in Italia, di riformare il mercato del lavoro
modificando le norme sul licenziamento? È questa la soluzione per restitutire
prospettive ad una generazione che gode di scarse tutele ed è privata di una
prospettiva di impiego stabile? Per anni la discussione degli economisti si è
concentrata principalmente sulla flessibilità «in entrata».
Si diceva che l’adozione di contratti con garanzie ridotte avrebbe incoraggiato le
imprese ad assumere, e avrebbe anzi favorito l’accesso all’impiego a tempo
indeterminato. La realtà ha smentito questa previsione. La frammentazione delle
forme contrattuali è andata ben oltre il ragionevole e viene giustamente vista come
patologica. Una presa d’atto benvenuta. Occorre dunque intervenire operando una
drastica riduzione delle forme contrattuali, che faccia sì che i contratti temporanei
siano utilizzati soltanto nei casi in cui vi sia una fondata necessità economica (ad
esempio: le attività stagionali). Occorre rendere il ricorso a tali forme contrattuali
più costoso per compensare la minore stabilità. Occorre infine riformare gli
ammortizzatori sociali, aumentando le tutele per chi perde il lavoro e in modo da
incoraggiare la riqualificazione. Su interventi di questo tipo, il governo avrebbe
certamente il sostegno compatto non solo dell’intero Partito democratico, ma
dell’insieme delle forze di centrosinistra.
La questione che solleva tanta passione riguarda semmai un altro aspetto: la
licenziabilità. Come è ben noto, la norma-simbolo da questo punto di vista è
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si sostiene da più parti che la
semplificazione delle forme contrattuali dovrebbe avere quale contropartita
l’abbandono di questa norma, sostituendo la tutela «reale» (la reintegrazione nel
posto di lavoro, prevista per il licenziamento senza giusta causa nelle imprese con
più di 15 dipendenti) con un risarcimento monetario. Una soluzione che, riducendo
i costi del licenziamento per l’impresa, rappresenterebbe una sorta di contropartita
alla riduzione di flessibilità «all’entrata» e al costo degli ammortizzatori sociali.
Le motivazioni economiche dietro a questo argomento non convincono. Per
cominciare, sgombriamo il campo da una convinzione diffusa ma infondata: come
dimostrato dalle ricerche empiriche più autorevoli, la cosiddetta flessibilità in
uscita, la licenziabilità, non ha effetti significativi e duraturi sul livello di
occupazione. In compenso, un mercato più flessibile comporta che i rischi connessi
alle fluttuazioni economiche siano sopportati in misura maggiore dai lavoratori, una
soluzione molto discutibile dal punto di vista dell’efficienza complessiva. Nemmeno
si può sostenere che l’articolo 18 sarebbe causa del così ampio ricorso a forme
atipiche di impiego. Se le cose stessero in questo modo, dovremmo riscontrare un
ridotto ricorso ai contratti a termine, e la prevalenza di assunzioni a tempo
indeterminato, nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti. I dati dicono semmai il
contrario. Ancora: se fosse vero che l’articolo 18 è un costo così rilevante, esso
dovrebbe scoraggiare la crescita delle imprese prossime alla soglia dei 15
dipendenti; ma ricerche recenti mostrano che non vi sono effetti significativi di
questo genere. Non è ovvio nemmeno quali siano i benefici dal punto di vista
dell’efficienza contrattuale.
Come ci insegna l’analisi economica dei contratti, non esiste alcuna conclusione
generale sulla superiorità del risarcimento monetario rispetto alla tutela tramite il
diritto al reintegro. Molte analisi suggeriscono semmai come maggiore flessibilità si
accompagni a minore produttività. Il motivo è chiaro: se il rapporto è meno stabile,
sarà minore l’incentivo per le parti (sia l’impresa che il lavoratore) ad investire nella
relazione. Ci chiediamo dunque in che modo gli interventi di cui si parla possano
essere considerati politiche per la crescita, se non sulla base di un erroneo
pregiudizio che considera ogni forma di regolamentazione fonte di inefficienza. È
forse proprio la difficoltà a motivare la revisione della disciplina della licenziabilità
in termini di efficienza che spinge molti sostenitori del «contratto unico» a parlare
di equità. La riforma del mercato del lavoro sarebbe motivata dalla necessità di
superare il dualismo («apartheid») nel mercato del lavoro. È però curioso che si
suggerisca, quale soluzione, che le tutele dell’articolo 18 continuino a valere per chi
è già «dentro» e siano abolite per i nuovi assunti; con il risultato di certificare dal
punto di vista giuridico una differenza di diritti tra generazioni, e di creare
all’interno di ciascuna impresa due categorie di lavoratori, con diritti e tutele
diverse.
«Alzare i salari, sfidiamo la Fornero». E lei:
«Manovra equa, io la difendo»
Bonanni in pressing: «Parliamone». E il ministro apre. Ma sull’articolo 18
è scontro governo-sindacati
(corriere.it, 20 dicembre 2011, 17:24)
Resta assai teso il confronto tra il governo e i sindacati sulla manovra e sulla
riforma del lavoro. All’indomani delle tensioni venutesi a creare sull’articolo 18, il
segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, intervistato da Agorà, su Raitre, fa appello al
ministro Elsa Fornero. «La sfido – dice il leader sindacale – a discutere come alzare
il salario ai flessibili e di come il governo debba incentivare fiscalmente e con altri
strumenti questa possibilità, questo significa andare incontro ai giovani». La replica
della titolare del Welfare non si è fatta attendere. «In linea di massima è vero che
bisognerebbe riuscire ad aumentare i salari perché sono bassi, non è una cosa che ci
sfugge – ha detto la Fornero -. Conosciamo questo divario nella distribuzione dei
redditi che si è creato negli ultimi anni, ma direi negli ultimi 15-20 anni», ha
aggiunto il ministro a margine dei lavori sulla manovra al Senato.
MANOVRA EQUA, LA DIFENDO – Il ministro ha poi difeso la manovra nel suo
complesso, sottolineando che diversamente da quello del giornalista, concentrato
sul momento, il lavoro di un ministro «deve guardare lontano». «Molti hanno
ridicolizzato la riforma delle pensioni per assenza di equità – ha detto l’esponente
del governo- ma se avessi mezz’ora potrei con un certo ardore difendere questa
riforma, pur sapendo che non c’è la perfezione a questo mondo». Fornero ha
ribadito che la riforma è «molto importante e va spiegata: non è fatta solo di tagli,
che ci sono, che non sono piccoli e che impongono sacrifici. Ma ci sono anche lati
positivi di equità». E quanto ai giornalisti, non ha rinunciato ad una piccola
frecciata: «Possiamo anche dire che la vostra categoria si è avvalsa di certi privilegi,
forse per la vicinanza al potere politico. E quindi anche la vostra categoria sta
sperimentando un mondo che non fa sconti a nessuno. La parola dura competizione
vale per l’idraulico e vale anche per il giornalista. Questo è un richiamo per voi su
cui bisogna fare una riflessione».
LA NORMA SUI LICENZIAMENTI – Ma se sui salari governo e sindacati possono
pensare di trovare un terreno comune di confronto, la norma sui licenziamenti
continua a far discutere. Una riforma del lavoro può essere fatta senza toccare
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non ci sono cose che sono terreni
inesplorati», ma – ha risposto la Fornero – «nella mia intervista (al Corriere della
Sera, ndr) non era proprio citato l’articolo 18: le mie parole erano un invito al
dialogo, poi se uno ci legge quello che non era detto, questa non è responsabilità
mia». I sindacati però restano in pressing. e l’avvertimento del numero uno della
Cisl Bonanni è chiaro: «Non capiamo che attinenza abbia l’articolo 18 rispetto ai
problemi dei giovani o dell’occupazione. È una norma che serve solo a non far
commettere abusi alle aziende. Toccandolo si mette a rischio la coesione sociale, e
senza coesione sociale una società sbrindellata come quella italiana va in pezzi».
Ancora più critica la posizione della Cgil. «Che bisogno c’era per il governo Monti e
per il suo ministro del Lavoro di recuperare il peggio dell’ideologia del governo
precedente?», è la posizione espressa dal sindacato guidato da Susanna Camusso.
Fornero: “Bisognerebbe alzare i salari”.
La Cgil: stesse idee del vecchio governo.
Bonanni avverte: se si tocca l’articolo 18 coesione sociale. E sfida il
ministro sull’aumento degli stipendi
(lastampa.it, 20 dicembre 2011)
Resta alta la tensione sull’articolo 18: dopo le dichiarazioni del ministro del Welfare,
Elsa Fornero, che ieri anticipava l’intenzione dell’esecutivo Monti di avviare una
riforma del mercato del lavoro, e la dura risposta del segretario generale della Cgil,
Susanna Camusso, oggi è intervenuto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni.
«Non capiamo che attinenza abbia l’articolo 18 rispetto ai problemi dei giovani o
dell’occupazione – ha dichiarato il segretario sindacale ad Agorà, su Rai Tre – è una
norma che serve solo a non far commettere abusi alle aziende. Toccandolo si mette
a rischio la coesione sociale, e senza coesione sociale una società sbrindellata come
quella italiana va in pezzi».
Sul tema è tornata anche la Fornero che, a margine di un’audizione in Senato, ha
sostenuto di non aver citato l’articolo 18 nella sua intervista al Corriere dela Sera:
«c’era solo un invito al dialogo, se poi qualcuno ci legge qualcosa che non ho detto,
non è responsabilità mia» ha sottolineato. In ogni caso, il ministro del Welfare ha
affermato che «non c’è nessun appuntamento» nell’agenda del governo con le parti
sociali «prima di gennaio». Sulla possibilità di attuare la riforma del mercato del
lavoro, per la Fornero «dipende se ce lo lasciano fare come tempi e disponibilità. Da
parte mia c’è piena disponibilità ma non ci devono essere preclusioni di nessun
tipo». «Non si vuole precarizzare nessuno più di quanto già lo sia» ha aggiunto il
ministro, riconoscendo che «in linea di massima è vero che bisognerebbe riuscire ad
aumentare i salari perchè sono bassi, non è una cosa che ci sfugge».
E dalla sua bacheca su Facebook, la Cgil è tornata ad attaccare il governo Monti:
«Che bisogno c’era di recuperare il peggio dell’ideologia del governo precedente?
Serve invece aprire un confronto serio, con i sindacati e le parti sociali, perché le
riforme per il Paese non si possono fare con i voti di fiducia del Parlamento», si
legge sulla pagina del sindacato. «È giusto che i sindacati si oppongano alla
cancellazione dell’articolo 18», continua la Cgil, sottolineando di aver fornito «fatti
e numeri, veri e riscontrabili, non totem».
«Il vero totem della discussione sull’articolo 18 è pensare che cancellarlo possa
aiutare il Paese a superare la recessione, farlo crescere e creare occupazione»,
sottolinea il sindacato guidato da Susanna Camusso, rispondendo implicitamente al
presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che ieri aveva invitato ad
affrontare il tema senza totem né tabù. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è
«una norma di civiltà», ribadisce il sindacato, invitando chi ne chiede l’abolizione a
liberarsi «di ideologie e pregiudizi».
Il rimedio miracoloso
di Loris Campetti
(ilmanifesto.it, 20 dicembre 2011)
Abbiamo trovato il modo per uscire dalla crisi, rilanciare l’economia e attrarre i
capitali stranieri, risolvere il problema del precariato e dare un futuro ai giovani. Se
va bene, potremmo farla finita persino con la fame nel mondo. Con la sua bacchetta
magica la ministra Elsa Fornero ha compiuto il miracolo: via l’art. 18, dice,
liberiamo le imprese da questo odioso laccio rendendo più facili i licenziamenti e
vedrete che la macchina si rimetterà in moto. Magari introducendo una norma
contro le discriminazioni politiche, ma per il resto liberi tutti. Tutti chi? I padroni,
naturalmente. Per carità, se un lavoratore è licenziato ingiustamente dev’essere
risarcito: prendi questi quattro soldi e ritenta la sorte da qualche altra parte.
Ci risiamo. Con un accanimento degno di miglior causa, finalizzato solo a regolare i
conti con il Novecento, riparte l’assalto a un diritto che, con un’operazione subdola
quanto stantia, viene declassato a privilegio. Di che stiamo parlando? Del fatto che
se un dipendente in un’azienda con più di 15 dipendenti è messo fuori e il giudice
ritiene il licenziamento ingiusto, quel lavoratore dovrà essere riassunto nello stesso
luogo a parità di trattamento. L’azienda condannata può comunque opporsi alla
sentenza, ha a disposizione altri due gradi di giudizio. Sarebbe questa la causa di
tutti mali, contro cui destre e Confindustria hanno sempre scagliato i loro strali?
Sarebbe l’art. 18 a far perdere il sonno persino a tanta intellighentia democratica?
Le armate del giuslavorista del Pd Pietro Ichino si sono infoltite con l’arrivo della
Fornero, a cui la parola sacrifici strappa lacrime mentre la sua sensibilità non
sembrerebbe colpita da chi è stato licenziato ingiustamente. Basta pagare il giusto,
ma al padrone dev’essere garantita massima flessibilità. Del resto, anche al padrone
dell’amianto Schmidheiny che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti nel
mondo e di 1.800 solo a Casale, il consiglio comunale di questa città monferrina ha
consentito di monetizzare i morti di oggi e di domani in cambio della rinuncia alla
costituzione di parte civile. La logica è la stessa: fai quel che ti pare del futuro e della
vita delle persone, purché tu sia disposto a pagare un obolo alla coscienza collettiva.
Non è sufficiente la già prevista causa di crisi a consentire i licenziamenti.
L’importante è evitare le rappresaglie politiche. E quando mai i padroni hanno
licenziato un operaio accusandolo di essere comunista, o della Fiom, o magari gay?
Ci sono molti modi più subdoli per liberare le linee o gli uffici da un «avversario».
L’ultimo imbroglio della ministra che promette «la riforma del ciclo di vita» (qui
siamo oltre il miracolo) è il tentativo maldestro, anch’esso stantio, di contrapporre i
privilegi dei «vecchi» alla condizione precaria dei giovani. C’era bisogno di
cambiare governo per continuare a sentire queste banalità? La precarietà è ancor
più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non entra:
come la mettiamo? E non basta ancora la progressiva sterilizzazione dell’art. 18
operata dal governo Berlusconi?
Era il 24 marzo del 2001 quando tre milioni di italiane e italiani occuparono Roma
in difesa dell’art. 18, il ministro dovrebbe ricordarselo. E dovrebbe ricordarsi che un
altro ministro del lavoro, piemontese come lei, aveva varato lo Statuto. Si chiamava
Donat Cattin, era democristiano. Sarebbe stato meglio morire democristiani?
Modifiche all’articolo 18:
no di Bersani
Il leader del Pd: «Roba da matti toccarlo ora quando il problema è entrare
nel mondo del lavoro, non uscirne».
(corriere.it, 21 dicembre 2011, 17:51)
La questione licenziamenti senza giusta causa, quella legata all’articolo 18, è ancora
al centro della discussione politica. E dopo i tanti avvertimenti dei giorni scorsi
arriva un no secco da parte del Pd a possibili modifiche , mentre anche il Pdl, per
bocca del presidente del Senato Schifani invita a cercare un confronto serio in un
clima privo di veleni.
BERSANI – «Roba da matti toccare ora l’articolo 18 quando il problema è entrare
nel mondo del lavoro, non uscirne» dichiara il segretario del Pd Pier Luigi Bersani
ribadendo l’impegno del suo partito sul tema. Il governo «lo capirà, lo dovrà capire,
altrimenti…», avverte il segretario del Pd.
«Avremo un anno di recessione, ormai è chiaro e partiamo da livelli già bassi di
occupazioni e redditi. Bisogna focalizzarsi sulla grande questione sociale. L’Italia
non si salva senza cambiamento e coesione» ha aggiunto Bersani. «Il paese – ha
affermato ancora il segretario Pd – non si salva senza cambiamento e coesione, ci
vogliono tutte e due le cose, pensare di salvarlo con una sola non va bene». E
coesione significa «orecchie a terra agli interlocutori sociali». Sulla questione
sociale il Pd, assicura Bersani, «riuscirà a dare qualche buon riferimento al
governo» e in un anno «non semplice l’asset del Pd è lavoro e redditi».
VENDOLA -Dalla parte di Bersani si schiera anche Nichi Vendola, presidente della
regione Puglia e leader di Sinistra Ecologia Libertà: «Credo che sia assolutamente
fondamentale definire le soglie invalicabili dal punto di vista della civiltà
democratica di questo Paese. L’idea che un governo tecnico – prosegue il leader di
Sel – possa squassare i pezzi pregiati delle conquiste che il movimento operaio ha
realizzato nel corso di una storia lunga un secolo, è politicamente irricevibile. E
quindi sono molto contento – conclude Vendola – che Bersani abbia posto i paletti
ad una discussione, che, al contrario di quello che pensa il ministro Fornero, ha
bisogno di molti paletti, molti paletti».
SCHIFANI – «L’articolo 18 va rivisitato non in un clima di veleni o
contrapposizioni, ma in un clima di responsabilità e confronto serio» spiega invece
il presidente del Senato Renato Schifani, nel tradizionale incontro con i giornalisti
dell’associazione stampa parlamentare, sottolineando che «va trovato il punto
d’incontro tra tutela di chi lavora e l’aspirazione di chi cerca lavoro». Schifani poi
aggiunge che è necessario quindi procedere con una legge e non con un decreto
legge. «Non si può parlare di rilancio senza parlare di liberalizzazioni. Ma per far
questo occorre pensare ad un pacchetto complessivo di liberalizzazioni che vada dai
servizi pubblici locali alle autostrade» ha detto poi il presidente del Senato. «Il
governo Monti è retto da una maggioranza anomala e trasversale. Ma non avrebbe
senso andare ora alle urne. I dissensi interni ai partiti più sono pubblici, più
danneggiano le forze politiche e creano sconcerto nella base elettorale» ha detto
ancora il presidente del Senato. Che ha poi sottolineato: «Non c’è un
commissariamento della democrazia, il governo ha ricevuto il voto in Parlamento e
un largo consenso. La legge elettorale in vigore non è più in sintonia con il Paese. Va
cambiata e il Parlamento ha tutto il tempo per farlo». Poi Schifani ha toccato anche
il tema dei costi della politica: «Ridurremo vitalizi e indennità, ma non vanno
delegittimati parlamentari e istituzioni».
Articolo 18, quel «deterrente»
poco usato dalle imprese
di Rocco Di Michele
(ilmanifesto.it, 21 dicembre 2011)
Sorpresa! Il tanto maledetto – dalle imprese e dalle destre – «articolo 18» dello
Statuto dei lavoratori dà luogo a un contenzioso legale minimo. Sindacalisti e
avvocati fanno fatica a ricordare casi eclatanti.
Sorpresa! Il tanto maledetto – dalle imprese e dalle varie destre di questo paese –
«articolo 18» dello Statuto dei lavoratori dà luogo a un contenzioso legale minimo.
Sindacalisti e avvocati fanno fatica a ricordare casi eclatanti. Il primo che salta alla
mente di tutti è quello di Dante De Angelis, «macchinista ferroviere», che le Fs di
Mauro Moretti hanno provato a licenziare per ben due volte. La prima perché – in
piena vertenza sindacale sull’utilizzo di quel sistema – si era rifiutato di guidare un
eurostar dotato dell’«uomo morto» (un pedale da premere ogni 55 secondi,
considerato un «sistema di sicurezza» negli anni ’30, in realtà fonte di distrazione
nella guida e quindi un pericolo in più). La seconda per un motivo ancora meno
convincente. Da delegato sindacale responsabile per la sicurezza (Rls, eletto dai
lavoratori) aveva ipotizzato una certa causa tecnica per ripetuti «spezzamenti» degli
eurostar in movimento. Le Fs ritenevano che ciò facesse «venir meno il rapporto
fiduciario» con Dante.
Nel 2006 non si arrivò neppure alla sentenza: l’azienda firmò davanti al giudice per
il reintegro del sindacalista al lavoro. La seconda volta, nel 2009, si dovette invece
aspettare che il giudice riconoscesse l’assenza di «giusta causa» per il
licenziamento, e quindi il nuovo reintegro sul lavoro. Sentenza
marchionnescamente impugnata dall’azienda, di cui si attende in gennaio il giudizio
d’appello.
Poi i ricordi si fanno scarsi e lontani, a parte il caso Pfizer, di cui parliamo in altro
articol (su il manifesto in edicola), o altri ferrovieri che avevano parlato con i
giornalisti di Report. La ragione è semplice, ci spiegano in molti. «L’art. 18 è un
semplice deterrente; se un’azienda sa di non avere un motivo giustificabile in
tribunale, non procede al licenziamento, preferisce aspettare un errore del
lavoratore preso di mira». Un altro motivo è costituito dalle lungaggini della
giustizia civile, che può comportare anche l’attesa di anni per una sentenza e costi
legali spropositati.
Nelle grandi aziende, in pratica, non si ricorre quasi mai al licenziamento
individuale – l’unico davvero «protetto». Per «motivi economici», infatti, hanno a
disposizione quelli collettivi: stato di crisi, cassa integrazione, mobilità. Fine. Per
isolare i «rompiscatole» usano altri sistemi, fino ai «reparti confino» (se l’impresa è
davvero «maxi»).
I casi più frequenti – ma di numero molto basso – si sono verificati dunque in
aziende medio-piccole (sopra i 15 dipendenti, ma meno di 500), perché qui spesso il
contatto tra lavoratore «sindacalmente attivo» e padrone è più diretto, meno
mediato da dirigenti di vario livello. E anche gli imprenditori, in questa dimensione,
dispongono più raramente di consulenti legali.
Eppure le imprese da diversi anni puntano con decisione ad ottenere la libertà di
licenziamento individuale, sostituendo la «reintegra» con un «risarcimento» in
contanti. La ragione principale è «politica»: il ricatto della licenziabilità è tale da
irregimentare in modo molto più ferreo il lavoro. Diventa «sconsigliabile»
rivendicare un diritto o sollevare problemi di ritmi, nocività, straordinari non
contrattati, ecc. Si incentiva l’obbedienza cieca e una «flessibilità» totale, quasi al
livello della macchina.
Soprattutto, una simile disciplina del lavoro azzera la presenza del sindacato. Più
difficile fare le iscrizioni, più difficile (e più drastico) organizzare uno sciopero, più
rischioso il ruolo di delegato (a meno di non far parte di quello «aziendale», tipo
Fiat del prossimo anno).
Ma c’è anche una ragione economica: un «risarcimento» di 12 o 18 mesi costa assai
meno della parcella di un avvocato. E questo governo è molto sensibile ai costi che
le imprese devono affrontare, tanto da aver abrogato con un tratto di penna (art. 6
della «manovra») anche la «causa di servizio», che obbligava l’imprenditore a
ripagare in qualche modo il lavoratore danneggiato nel fisico dalla ripetizione di
una certa prestazione.
L’insistenza con cui il ministro del welfare Elsa Fornero e la presidente di
Confindustria Emma Marcegaglia sono tornate su questo argomento, però, sembra
però preparatoria di quella radicale «riforma del mercato del lavoro» accennata nel
programma di governo ed esposta nelle linee generali dalla stessa Fornero. Una
riforma che richiederà comunque una qualche discussione con le parti sociali, dove
proporre lo scambio tra l’abrogazione dell’art. 8 della «manovra Sacconi» di agosto
e l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto. Lo schema generale c’è già: il «contratto
unico» del prof. Ichino, senza le garanzie – e le risorse – della flexsecurity
all’olandese (o alla danese), che farebbe «equità» trasformando tutti i lavoratori in
precari a vita. Senza neppure più la pensione.
Ichino: «Riforma del lavoro urgente come le altre»
di Simone Collini
(unita.it, 29 dicembre 2011)
Perché sostenere un governo che, come dice Bersani, non fa al 100 per cento quello
che farebbe il Pd? «Perché è in gioco la salvezza del Paese, la sua stessa unità e
integrità nazionale», risponde il senatore del Pd Pietro Ichino. «Perché sono in
gioco i risparmi e la sicurezza degli italiani, soprattutto i più deboli. Ma anche
perché qualche responsabilità, in questa crisi di credibilità del nostro Paese sul
piano internazionale, la hanno tutte le forze politiche, compresa la sinistra: questa
fase politica è necessaria anche per una decantazione delle faziosità e un
ripensamento critico di tutti».
Ichino è il primo firmatario di un disegno di legge (1873/2009) contenente il
cosiddetto progetto flexsecurity cui ha implicitamente fatto riferimento Mario
Monti nel discorso programmatico del 17 novembre scorso al Senato.
Professor Ichino, perché sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 è una
misura necessaria per far crescere il Paese?
«Nel mio progetto l’articolo 18, per la parte in cui esso difende libertà e dignità della
persona che lavora, non viene affatto abolito, ma vede addirittura raddoppiato il
proprio campo di applicazione. Parlo della protezione contro i licenziamenti
discriminatori, di cui oggi i co.co.co., i “lavoratori a progetto”, i lavoratori “con
partita Iva” fasulla e simili non godono per nulla e con la riforma incomincerebbero
a godere, insieme alle altre protezioni essenziali».
Resta la domanda che ha posto su questo giornale la coordinatrice di Sel
Titti Di Salvo: «In un momento di crisi come questo, il governo deve
occuparsi di licenziamenti o di come creare nuovi posti di lavoro»?
«La riforma che propongo non darebbe luogo ad alcun licenziamento, poiché è
destinata ad applicarsi soltanto ai nuovi rapporti di lavoro. D’altra parte, proprio in
un momento di gravissima incertezza circa le prospettive economiche, anche le
imprese che hanno bisogno di assumere sono più riluttanti a farlo con contratti a
tempo indeterminato rigidi. Ecco perché proprio in questo momento di crisi è
urgente sostituire, per i rapporti che si costituiranno da qui in avanti, la vecchia
tecnica protettiva con una nuova, capace di conciliare la flessibilità delle strutture
produttive con la sicurezza del lavoratore».
Ma ha senso se il 95% delle aziende italiane è escluso dal campo di
applicazione dell’articolo 18?
«Il dato che conta è costituito dal numero dei rapporti di lavoro dipendente cui
quella norma si applica, che è circa la metà del totale. In questa metà del tessuto
produttivo oggi è difficilissimo essere assunti a tempo indeterminato. Perché il
Paese torni a crescere è indispensabile che aumenti la dimensione media delle
imprese, occorre quindi eliminare il più possibile gli incentivi per le imprese a
rimanere piccole».
Ma le imprese medio-grandi già oggi possono attuare licenziamenti
collettivi e anche individuali per soppressione del posto di lavoro.
«Se le cose stessero davvero così, la sola novità portata dal mio progetto sarebbe
costituita da un trattamento di disoccupazione più robusto per i licenziati. La verità
è che oggi la riduzione degli organici, mediante licenziamento collettivo o
individuale, di fatto si può fare soltanto quando l’impresa è già in crisi, altrimenti il
rischio per l’impresa di una sentenza negativa è altissimo. In un tessuto produttivo
sano, invece, l’aggiustamento deve poter avvenire prima, per prevenire la crisi.
Quello che va garantito ai lavoratori non è, come oggi in Italia, la dilazione del
licenziamento, ma una robusta sicurezza economica e professionale nel passaggio
da vecchio al nuovo posto di lavoro».
Bersani ha spesso sottolineato che la priorità oggi non è l’articolo 18 ma
la riforma degli ammortizzatori sociali.
«La priorità è costituita senza dubbio dal sostegno del reddito a chi perde il posto.
Ma le due questioni vanno affrontate insieme. Se si offre alle imprese maggiore
flessibilità, si può chiedere loro di farsi carico di un trattamento complementare di
disoccupazione, necessario per portare il nostro trattamento complessivo ai livelli
del nord-Europa. Per altro verso, questo stesso schema consente di affidare alle
imprese di scegliere il migliore servizio di assistenza al lavoratore licenziato e di
attivare un controllo efficace sulla sua disponibilità per tutto quanto è necessario
per il reperimento della nuova occupazione».
Non pensa che nella “fase 2” del governo ci siano misure più urgenti?
«Liberalizzazioni, spending review e dismissioni del patrimonio pubblico poco o
male utilizzato per poter ridurre le tasse sul lavoro e sulle imprese, tutte queste sono
misure urgenti. Ma non lo è di meno la riforma del lavoro. Il nostro Paese ha
assoluto bisogno di attrezzarsi per il trasferimento, in condizioni di sicurezza
economica e professionale, dei lavoratori dalle imprese in declino o chiusura a
quelle in fase di espansione. Su questo terreno siamo ancora all’anno zero».
L’obiettivo di un contratto unico
contro la giungla dei lavori flessibili
Il governo alla ricerca di una soluzione per uscire dal dualismo del
mercato del lavoro, dove c’è chi è garantito e chi non ha praticamente
protezioni: una strategia che Monti e il ministro Fornero studiano mentre
preparano il difficile confronto con i sindacati. Ecco le alternative
di Roberto Mania
(repubblica.it, 2 gennaio 2012)
Regole uniche per le pensioni, regole uniche anche nel mercato del lavoro. È
l’obiettivo che si è dato il governo Monti. Dopo quindici anni di flessibilità spinta
che ha portato a oltre quaranta tipologie contrattuali (dal lavoro in affitto fino al job
on call, una vera giungla contrattuale) e che ci lascia, però, un tasso di occupazione
giovanile tra i più bassi d’Europa (circa il 47 per cento contro una media Ue che
viaggia intorno al 60 per cento), si è deciso di voltare pagina.
Non un ritorno al passato, ormai improponibile nella competizione globale, ma il
tentativo di chiudere la lunga stagione del dualismo nel mercato del lavoro: da una
parte i protetti dalle leggi e dai contratti, dall’altra i precari quasi senza leggi e diritti
contrattuali.
Si prova a chiudere, pure, la presunta contrapposizione tra padri e figli. In fondo
l’estensione nella forma pro rata del metodo contributivo per il calcolo della
pensione rappresenta il fulcro di un nuovo patto generazionale nell’epoca dei lavori
e non più del lavoro standard a tempo indeterminato.
A regime la riforma Fornero permetterà di risparmiare 20 miliardi di euro. Risorse
decisive per ridisegnare gli attuali ammortizzatori sociali, nati davvero in un’altra
epoca del lavoro.
Le proposte progressiste
Nuovi ammortizzatori sociali, dunque, e nuove regole (omogenee) nel mercato del
lavoro, due facce della stessa medaglia. Per ridurre – come ha già detto il premier
Mario Monti – l’area della precarietà. Terreno che in questi anni ha continuato a
presidiare, nonostante le tante contraddizioni, la sinistra politica.
Le soluzioni in campo, infatti, quelle con cui il governo non potrà non fare i conti,
sono nate a sinistra e presentate in Parlamento dalla sinistra. C’è la proposta del
senatore giuslavorista Pietro Ichino che ha l’ambizione di riscrivere il diritto del
lavoro; c’è il “contratto unico” a protezione crescente, nato nelle aule universitarie (i
veri ispiratori sono gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi) e “adottato” dal
senatore Paolo Nerozzi (ex dirigente della Cgil); e c’è anche il “contratto unico di
inserimento formativo” firmato da un’ottantina di parlamentari democratici (tra i
quali l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano), una “terza via” partita in sordina
rispetto alle altre due ma, alla vigilia del confronto tra governo e parti sociali, con
qualche chance in più di arrivare al traguardo.
Perché il “contratto prevalente”, così come per ora hanno cominciato a chiamarlo i
tecnici del ministero del Lavoro somiglia molto al modello del contratto di
inserimento, concepito per tagliare via la stragrande maggioranza dei contratti di
lavoro precari.
Le differenze, il nodo dell’art.18
Ci sono differenze non di poco conto tra i tre modelli a confronto, culture diverse e
anche costi diversi a carico delle imprese. Ichino propone che le nuove assunzioni
siano tutte a tempo indeterminato. Ma che sia anche possibile il licenziamento
individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi. Senza più il reintegro nel
posto del lavoro, nel caso di licenziamento senza giusta causa (come prevede
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), bensì con un’indennità economica di tre
anni a carico in buona parte dell’impresa (da qui la sostanziale malcelata ostilità
della Confindustria) pari al 90 per cento dell’ultima retribuzione per il primo anno,
e poi all’80 e al 70 per cento.
L’idea è quella di rendere il datore di lavoro direttamente responsabile nel progetto
di ricollocazione del lavoratore licenziato. Nulla di simile c’è nella proposta Boeri e
nel disegno di legge di gran parte del Pd. Entrambi puntano a una graduale
stabilizzazione del rapporto di lavoro. Fino a tre anni di prova (l’ingresso nel
lavoro), poi il contratto a tempo indeterminato.
Nessun intento di modificare o attenuare lo spettro d’azione dell’articolo 18, mentre
c’è l’idea (ne aveva accennato, seppur a titolo personale, la Fornero) di un salario
minimo. Un tragitto che sembra aver ispirato le parole di Monti nella conferenza
stampa di fine anno sul contrasto alla precarietà, ma anche la formula del “contratto
prevalente” che si sta studiando al ministro del Lavoro.
Oggi più che mai
è il lavoro la vera priorità
di Guglielmo Epifani
(l’Unità, 2 gennaio 2012)
Il Paese a cui si è rivolto il discorso del Presidente della Repubblica è attraversato da
preoccupazioni e inquietudini grandi, come poche volte è capitato nel passato. Si
avverte l’insidia di una crisi economica e finanziaria solo in parte ascrivibile alle
responsabilità nazionali.
Una crisi su cui ora gravano il peso delle manovre di aggiustamento dei conti
pubblici; la crescita dell’inflazione e la caduta dei redditi da lavoro e pensione; la
lunghezza di un ciclo senza crescita economica e le previsioni di una ulteriore
caduta dell’occupazione e dei consumi per l’anno che si apre.
Innanzitutto grava sull’Italia il rischio di perdere altri 150mila posti di lavoro, o
forse anche di più, in tutti i settori dell’industria e dei servizi. Per questo il
presidente, senza nascondere la gravita del momento, ha esortato il Paese ad avere
fiducia rassicurando che i sacrifici serviranno a fare uscire dalla crisi di oggi sia
l’Italia che l’Europa. E parole non diverse hanno usato la cancelliera tedesca e il
presidente della Repubblica francese, il quale ha messo la questione sociale al
centro del suo discorso di fine anno.
Il punto però che continua a restare aperto soprattutto in Europa, a differenza della
situazione americana, è come evitare che le politiche di restrizione della domanda,
degli investimenti e dei consumi che sono necessarie ma sono anche causa della
recessione in corso, non determinino un aggravamento delle condizioni
dell’occupazione, del lavoro e delle prospettive comuni. E visto che non si riesce a
fare assumere a livello europeo quelle decisioni che sarebbero necessarie già da
tempo a partire dagli Eurobond per gli investimenti diventa necessario affrontare il
tema di come sia possibile, Paese per Paese, sostenere una politica anticlica nei
tempi più brevi.
Il governo Monti è chiamato a questa sfida e solo in questa prospettiva le condizioni
dell’equità e della coesione sociale possono essere ricomposte. Ancora una volta cioè
il tema non è quello dell’accettare o meno i sacrifici, ma se i sacrifici e il rigore nella
loro qualità sociale ed economica determinano o meno la possibilità di ottenere
risultati concreti, che consentano anche al nostro Paese e anche nel tempo della
globalizzazione dei mercati di riprendere la strada dello sviluppo e di una crescita
fondata su una buona e stabile occupazione.
Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso del presidente Napolitano
una isposta a osservazioni e critiche che i sindacati confederali hanno avanzato ad
alcune misure prese dal governo in materia previdenziale, di equità sociale e fiscale
e di metodo di confronto. Conoscendo il presidente questo rilievo non è fondato
mentre è stato evidente il richiamo a una comune e condivisa responsabilità sociale.
D’altra parte il sindacato italiano non si è mai sottratto a questo dovere anche
quando ha dovuto accettare una politica dei due tempi o i sacrifici spesso sono stati
a senso unico, se è vero come è vero che l’Italia è oggi tra i Paesi europei più
diseguali per distribuzione della ricchezza. Il punto di oggi è però un altro: non si
esce da questa crisi se non si cambia la qualità del nostro sistema produttivo, se non
si torna ad investire e ad innovare, se non si offre lavoro di qualità e ben
remunerato: se, insomma, non si troverà anche da noi quello che tanti giovani
trovano in giro per l’Europa o per il mondo. Troppi luoghi comuni sbagliati
continuano ad essere riproposti nel dibattito italiano dall’articolo 18 alle cause circa
il deficit di produttività del sistema e troppe scelte di questi giorni sono improntate
a continuità che andrebbero rimosse, come nel caso dell’aumento dei pedaggi
autostradali o delle accise sui carburanti; per non parlare del fatto che ancora una
volta invece di ridurre il carico fiscale sul lavoro lo si sia fatto solo a vantaggio
dell’impresa, per quanto con modalità corrette. Questo è il respiro che deve avere
una politica per la crescita e la buona occupazione. Questa la prospettiva che si deve
dare a chi perde il lavoro in questi mesi o non lo trova se non in forma precaria.
Questa la svolta di cui c’è bisogno se vogliamo lasciarci alle spalle un decennio di
declino e di arretramento anche morale e culturale.
La Cgil al governo:
«Parli chiaro sulla riforma del lavoro,
Cisl e Uil solisti stonati»
«Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento
e formazione per cancellare i contratti precari»
(corriere.it, 4 gennaio 2012, 14:42)
«Serve un piano del lavoro per i giovani. Usare il contratto di inserimento e
formazione per cancellare i contratti precari a oltranza». Anche: «Non è necessaria
la concertazione anni ’90 ma un confronto serio e onesto. Con Cisl e Uil serve
arrivarci con posizione comune». E ancora: «Il contratto unico di Ichino è
pubblicità ingannevole. Non cancella la precarietà di oggi e ne aggiungerà nuova
domani». Così su Twitter – il popolare social network su cui è approdata di recente
anche Susanna Camusso – la Cgil spiega la linea del maggiore sindacato italiano e
chiede una maggiore chiarezza all’esecutivo Monti circa l’eventuale riforma del
mercato del lavoro.
LE POSIZIONI – Dopo la netta chiusura sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori
sancita dall’intervista di un paio di settimane fa della leader della Cgil al Corriere
(che rispondeva a una precedente del ministro del Lavoro, Elsa Fornero) Susanna
Camusso apre alla proposta Damiano sull’adozione del contratto di inserimento in
ingresso nel mercato del lavoro per i giovani, boccia apertamente la flexsecurity di
Ichino che apre al contratto unico (e a tempo indeterminato) e alla possibilità del
licenziamento per motivazioni organizzative ed economici e basata sul
funzionamento dell’outplacement per i lavoratori in esubero, si mostra aperturista
sulla proposta Boeri- Garibaldi che mantiene lo schema dello statuto dei lavoratori
del ’70. Ma soprattutto attacca l’esecutivo Monti, responsabile – secondo i vertici
della Cgil – di una mancata chiarezza sul tema.
Monti: «Non occorrono altre manovre»
Il presidente del consiglio: «Dobbiamo ammodernare alcuni aspetti del
mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali»
di Fabio Savelli
(corriere.it, 8 gennaio 2012, 23:15)
«Non occorrono altre manovre». Così il presidente del Consiglio Mario Monti ospite
di RaiTre nella trasmissione «Che tempo che fa» condotta da Fabio Fazio smentisce
la necessità di altre misure di correzione dei conti pubblici e apre alla fase due della
crescita. Quella orientata a una maggiore liberalizzazione di alcuni gangli vitali
dell’economia, come i trasporti, l’energia e gli ordini professionali. E soprattutto –
ammette il premier – la linea del governo è orientata «a non dissipare il futuro dei
nostri figli e non solo perché le misure di rientro ci vengono prescritte dall’Unione
Europea».
LA FASE DUE – «L’euro non è in crisi, la moneta ha mantenuto solidamente il
rapporto di cambio con il dollaro. Il problema che incombe su di noi è che alcuni
paesi Ue hanno una crisi del debito pubblico». Ma il premier aggiunge che ci sono
alcuni Paesi – soprattutto quelli virtuosi – inquieti nei confronti di quelli meno
virtuosi. «Dobbiamo agire su molti fronti contemporaneamente, perchè la Ue ci
impone un cambiamento di rotta anche sul mercato del lavoro e sugli
ammortizzatori sociali». Il premier apre anche a un cambiamento del sistema
televisivo con una riforma della Rai: «A breve vedrà», ha detto Monti a Fazio,
facendo trapelare una necessità di intervento anche sull’emittente pubblica.
L’ITALIA – La situazione italiana – dice Monti – non è così negativa. «Anzi al netto
degli interessi sul debito pubblico il nostro Paese ha un avanzo primario del 5% per
il 2011, una situazione che ci pone in una situazione di privilegio rispetto ad altri
paesi». Riguardo al panorama globale, «la nostra è una crisi di sistema», ha
aggiunto Monti.
LE BANCHE – «Il nostro sistema bancario non è a rischio, non ci sono istituti di
credito a rischio default» di fatto tranquillizzando risparmiatori e azionisti circa il
dossier Unicredit e l’aumento di capitale varato lunedì. Monti ha poi parlato di
Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, e ha ammesso le divisioni in sede
Ue nell’applicazione o meno dell’imposta tra i desiderata francesi e le resistenze
anglo-tedesche.
FISCO – Sul capitolo evasione Monti ha ammesso di voler intervenire per regolare i
rapporti transnazionali con i paradisi fiscali. Sull’operazione Cortina – con i
controlli della Guardia di Finanza – Monti ha precisato: «Operazioni come quelli
hanno il significato simbolico di una lotta seria all’evasione fiscale. Niente
danneggia la percezione dell’Italia all’estero, quanto l’evasione fiscale. Il nostro è un
Paese ricco, perché la visibilità della ricchezza è evidente, al netto dell’alto debito
pubblico». E ancora: «Serve un rispetto per la ricchezza e lotta senza quartiere
all’evasione fiscale. Bisogna rispettare la ricchezza che è un valore a condizione che
sia il risultato di un merito, di uno sforzo produttivo e di talento. Il profitto del
monopolista e di imprese che si arricchiscono alle spalle del consumatore invece
deve essere represso. Negli Stati Uniti si va in carcere, in Europa no, dobbiamo
renderci conto che evadendo le tasse paga l’intera collettività».
ARTICOLO 18 – «Siamo in una fase di disperato bisogno di lavoro per i precari e i
giovani. Per questo non possiamo pensare soltanto alle enunciazioni di principio,
ma interrogarci su come favorire l’ingresso nel mercato del lavoro delle nuove
generazioni», ha spiegato il premier interrogato sull’art. 18 dello Statuto dei
Lavoratori.
Bersani: «Art. 18, unico tabù è buonsenso»
Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il
Partito democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma
del mercato del lavoro. Il documento è stato messo a punto dal
dipartimento Lavoro guidato da Stefano Fassina. L’art.18 sulla carta non
si tocca, ma governo potrebbe provare a forzare, chiedendo anche un
sacrificio, magari parziale.
(unita.it, 9 gennaio 2012)
Dipinto come diviso, accusato di avere tre o quattro posizioni in materia, il Partito
democratico serra i ranghi su una proposta articolata di riforma del mercato del
lavoro. Il documento è stato messo a punto dal dipartimento Lavoro guidato da
Stefano Fassina ed è la sintesi di alcuni dei disegni di legge presentati in parlamento
da esponenti del Pd. Non di quello di Pietro Ichino, però, la cui ‘flexsecurity’ ha fatto
poca breccia nella segreteria. Anche perchè, e Pier Luigi Bersani è tornato a
chiarirlo oggi, l’articolo 18 non si tocca.
La piattaforma, che sarà presentata a una riunione del forum Lavoro del partito
convocata per giovedì alla Camera, fa riferimento ai disegni di legge DamianoMadia e Nerozzi-Marini. La discussione partirà dunque nei gruppi parlamentari,
anche se appare scontato che il lavoro sarà al centro della prossima assemblea
nazionale del 20 e 21 gennaio. La proposta prevede un “contratto prevalente” per
l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro con un periodo di prova variabile a
seconda dei settori produttivi per un massimo di 3 anni. Il contratto di ingresso, con
un contenuto formativo, dovrebbe avere almeno nella fase iniziale contributi
agevolati al livello di quelli previsti per i contratti di collaborazione coordinata e
continuativa. In caso di risoluzione del rapporto prima della scadenza, ai lavoratori
dovrà essere garantita una compensazione monetaria, secondo il modello proposto
da Nerozzi che nel suo ddl ha indicato il pagamento di un’indennità pari a 5 giorni
per mese di anzianità.
Il Pd chiede poi che le agevolazioni contributive siano prolungate per incentivare la
stabilizzazione che dovrebbe scattare, alla fine del periodo di prova, secondo le
regole previste. Dunque ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti,
confermati con un contratto a tempo indeterminato, dovrà essere garantita
l’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. «A quel punto si applicano
i diritti, compreso l’art 18 che non è il problema, nessun imprenditore serio dice che
è il problema», ha ribadito il segretario Bersani a Otto e mezzo. Dunque, ha
aggiunto rovesciando la battuta di Mario Monti, «l’unico tabù è il buonsenso. Se c’è
una cosa che succede senza problema è licenziare, è facilissimo, anche l’Ocse lo dice.
La rigidità italiana è su elementi anche contrattuali che impediscono
all’organizzazione aziendale di muoversi con più flessibilità».
Ancora non è chiaro se il Governo deciderà di giocare anche la carta di chiedere
qualche modifica all’articolo 18. Bersani in privato ha ripetuto più volte al premier
che «non è la priorità», confidando nel fatto che avviando la trattativa dagli
ammortizzatori sociali e dal complesso del mercato del lavoro, la vicenda si possa
sgonfiare da sola. Di fatto, i democratici sperano che Governo e sindacati
raggiungano una intesa complessiva interessante per tutti: a quel punto il Governo
potrebbe provare a forzare, chiedendo anche un sacrificio, magari parziale,
sull’articolo 18. Qualcuno nel Pd ne ha anche già parlato: si tratterebbe della
licenziabilità individuale per motivi economici, che andrebbe sottoposta però alla
stessa disciplina dei licenziamenti individuali. O lo stesso Governo potrebbe
convincere Confindustria che il resto dell’accordo è così importante che conviene
transigere sull’articolo 18. Questo, almeno, è l’auspicio dei democratici. Monti, per
ora, non scopre le carte. Ha sposato la linea del rinvio della questione, e si limita a
dire che non accetta «tabù» ma non vuole nemmeno fare battaglia su «un simbolo».
Il segretario democratico si starebbe adoperando in queste ore (dopo averne
accennato lo scorso sabato al presidente del Consiglio Mario Monti) anche per un
documento sulle richieste italiane all’Ue da approvare in Parlamento, un testo dei
partiti su cui dovrebbero convergere almeno Pd, Pdl e Terzo polo. L’Italia, è il
pensiero del presidente del Consiglio, ha fatto la sua parte e continuerà a farla, ma
ora è l’Europa che deve dare risposte, se si vuole frenare la corsa dello spread BundBtp e, quindi, l’attacco all’euro. Un pensiero che Bersani condivide al 100%, così
come il Pdl e il terzo Polo. E allora, è l’idea del segretario Pd, mettiamo giù un
documento che fissi formalmente la posizione del Parlamento italiano, a sostegno
del Governo Monti. Un modo per fare pressione sull’Europa, sulla Germania in
particolare ancora restia ad un maggiore coinvolgimento della Bce e ad un
meccanismo automatico che metta in sicurezza i debiti sovrani.
Una convergenza che potrebbe preludere anche ad un maggior sostegno sui temi
‘interni’: il Pd pare aver disinnescato la mina dell’articolo 18, il Governo sembra
intenzionato a lasciare il tema in coda alla trattativa complessiva su ammortizzatori
e mercato del lavoro. Fatto che, secondo il Partito democratico, ma anche secondo
Monti, dovrebbe semplificare di molto il raggiungimento di un’intesa. Resta la
resistenza del Pdl sulle liberalizzazioni e sui toni usati da Monti per la lotta
all’evasione.
Sul fronte europeo, l’iniziativa del Pd intende andare di pari passo con le mosse del
Governo. Se il ministro Corrado Passera è arrivato a chiedere un ruolo più attivo
della Bce, in attesa dell’attivazione di strumenti più efficaci a tutela dei debiti
sovrani, è perché Monti ha voluto dare un messaggio chiaro alla Merkel: nessuno si
salva da solo, l’Italia ha fatto i sacrifici, continuerà a fare ciò che serve, ma bisogna
che siano visibili anche i risultati di questo sforzo, e per questo serve che l’Europa si
muova. I partiti, su questo tema, possono essere ancora più netti: intervento della
Bce, eurobond, criteri di calcolo del debito… Tutti temi sui quali l’Italia ora potrebbe
fissare formalmente la propria posizione con una risoluzione parlamentare, un
documento ufficiale che di fatto sposerebbe la linea del Governo, e che magari
potrebbe dire con ancora più nettezza alcune cose sulle quali Monti usa un
linguaggio più diplomatico.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, i colloqui di Monti con i sindacati
sembrano dimostrare che per ora il tema articolo 18 viene lasciato sullo sfondo,
come del resto aveva suggerito Bersani al premier già dopo le polemiche seguite
all’intervista del ministro Elsa Fornero. Il ‘contratto prevalentè è diventato ormai la
posizione ufficiale del Pd, il compromesso che tiene insieme l’ala filo-Cgil e i
moderati alla Ichino: fino a tre anni di prova, durante i quali il datore di lavoro
potrà licenziare; poi tutti assunti a tempo indeterminato.
Anche sul dialogo con l’ex maggiornza, Bersani ha aperto uno siraglio di dialogo:
«Io sono prontissimo a discutere con tutte le forze in parlamento una piattaforma
comune nazionale italiana interpretata dal governo», ha detto Bersani a Otto e
mezzo, riferendo di avere contatti anche con Angelino Alfano, il quale «sta facendo
la sua parte». «Sono pronto a fare la mia parte – ha aggiunto il leader del Pd -,
siamo in una fase nuova cerchiamo di guardare avanti».
«C’è da avere una posizione in Europa? il Parlamento non ce l’ha solo la Germania
– ha proseguito Bersani – ce l’abbiamo anche noi, quindi le forze politiche possono
rafforzare, con il loro pronunciamento, con il loro contatto diretto con il capo del
governo, la posizione italiana. Quindi i partiti, il parlamento devono essere coinvolti
direttamente in una discussione sulla piattaforma italiana per l’Europa».
«Se ci fa pena qualcuno, ci fa pena l’Italia, che non è ancora riuscita a costruire un
rapporto di fiducia con la politica paragonabile a quello di altri paesi», ha poi
affermato il segretario del Pd commentando quanto detto dal premier Monti, che
ieri ha affermato di provare un po’ di «pena» per la classe politica, «trattata male
dall’opinione pubblica».
«Un governo più o meno fatto così non è lontano dalla mia idea. il vero problema
politico è che non c’è una maggioranza parlamentare che sostenga il governo. Che ci
siano i tecnici – spiega Bersani – non la vedo una cosa così strana. Mi piace una
politica che sia un po’ larga di testa. abbiamo fatto un gesto politico – ribadisce – ci
siamo messi a disposizione che per un passaggio politico per salvare questo paese».
Mario Monti non è la «badante» dei partiti e i partiti non vogliono fare la
«badante» del Governo, dice ancora Bersani. «Cabina regia? I titoli usciti (sui
giornali, ndr) non corrispondono a quello che ho detto. Bisogna darsi un metodo,
non chiedo affatto di fare io il badante di Monti…
È sbagliato dire che la politica, tout court, è «sporca», secondo il segretario del Pd
«la politica non può essere vista come una cosa sporca, ci sarà politica e politica,
politici e politici… cerchiamo di non fare tutto un mucchio».
Articolo 18, Marcegaglia all’attacco:
“Il reintegro è un’anomalia italiana”
La leader di Confindustria vede il ministro Fornero: ora riforma.
Camusso: “La Cgil è seriamente interessata ad trovare un’intesa”
(lastampa.it, 11 gennaio 2012)
Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è un’anomalia del
sistema italiano. L’affondo arriva da Emma Marcegaglia. Secondo la leader degli
industriali la misura «esiste formalmente anche in qualche altro paese europeo, ma
sostanzialmente non viene usata».
La Marcegaglia oggi incontrerà il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Al termine del
direttivo degli industriali, che ha visto un’ampia partecipazione, il presidente di
Confindustria ha sottolineato che «l’articolo 18 è un tema molto ideologico e noi
non vogliamo affrontare il tema dal punto di vista ideologico. Vogliamo solo portare
un confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei». Nel capitolo “flessibilità in uscita”
in Italia si evidenziano «anomalie» proprio rispetto agli altri paesi dell’Europa. E ha
citato il caso della Francia dove il reintegro viene usato «solo per i licenziamenti
discriminatori».
La Marcegaglia porterà all’incontro con la Fornero una serie di dati ed un confronto
con gli altri paesi europei. È stato un Direttivo «molto partecipato – ha tenuto a
sottolineare Marcegaglia -, c’erano cinquanta persone, rappresentanti delle
principali imprese private ed ex pubbliche». Dunque, «la riforma del mercato del
lavoro – ha aggiunto – è un tema molto sentito e fondamentale». Il numero uno
degli industriali ha dunque spiegato che al ministro del Lavoro verranno presentati
«una serie di dati» che «dimostrano il grande problema di competitività che il paese
ha» e, poi, «un documento abbastanza ampio su un benchmark con altri paesi
europei».
Intanto il governo incassa un’importante apertura dalla Cgil. «Siamo seriamente
interessati a provare a fare un accordo sindacale con il governo ma, come sempre,
sarà il merito a decidere», ha spiegato Susanna Camusso, nella relazione
introduttiva del comitato Direttivo del sindacato di Corso Italia, in merito al
confronto che si aprirà a breve. La leader sindacale ha sostenuto che il 2012 si
preannuncia un anno «drammatico» a causa della recessione e della
disoccupazione, a rischio anche per la «tenuta sociale»: per questo, ha sottolineato,
«in una fase così difficile fare un accordo sindacale con il Governo sarebbe un
risultato molto importante, ma come sempre sarà il merito a decidere». Camusso si
è detta possibilista sulla realizzazione di una piattaforma comune con Cisl e Uil: «Ci
sono temi forti – ha detto – sui quali sembra esserci sintonia, a partire dalle
posizioni espresse sulla riforma del mercato del lavoro, la riforma fiscale, il giudizio
sulle pensioni e più in generale quello sulla manovra».
Il documento dei sindacati per il lavoro,
la crescita, l’equità sociale e fiscale
Pubblichiamo il testo integrale del documento presentato al governo Monti
da Cgil-Cisl-Uil
Roma, 17 gennaio 2012
La gravità della crisi economica che attraversa il Paese e le conseguenze negative
che colpiscono in particolare le famiglie, i giovani, i lavoratori e i pensionati
impongono un cambiamento nella politica economica del Governo il quale dopo la
manovra di fine 2011 per consolidare i conti pubblici e rientrare dal deficit bilancio
è chiamato ora a mettere in atto politiche che favoriscano la crescita, il lavoro,
l’equità sociale e fiscale, a sostenere una svolta coerente della politica economica
europea verso obiettivi di sviluppo e occupazione (Eurobond, tassa sulle transazioni
finanziarie e governo politico).
A questo fine Cgil-Cisl-Uil chiedono l’apertura di un confronto tra le parti sociali ed
il Governo sulla base delle proposte che vengono avanzate con l’obiettivo prioritario
di invertire la pericolosa tendenza recessiva in atto da alcuni mesi e di realizzare al
più presto, l’obiettivo di far ripartire la crescita.
In questo ambito vanno create tutte le condizioni necessarie per rilanciare con
l’impegno di tutti i livelli istituzionali nei tempi più solleciti, gli investimenti
infrastrutturali materiali ed immateriali, nei trasporti, nelle reti energetiche, nella
manutenzione e difesa del suolo, nell’innovazione, nella ricerca, utilizzando a
questo fine tutte le risorse pubbliche disponibili, coinvolgendo le imprese e i capitali
privati, sbloccando il patto di stabilità negli Enti Locali per gli investimenti ed
ottimizzando l’utilizzo dei Fondi nazionali ed Europei per il Mezzogiorno.
Particolare importanza potranno avere in questo quadro la definizione di intese
sindacali che in base a quanto previsto nell’accordo interconfederale del 28
giugno/21 settembre possano definire l’avvio di nuovi investimenti produttivi e
nuova occupazione, a partire dalla soluzione delle numerose crisi aziendali e
settoriali, per le quali è comunque essenziale un maggior coinvolgimento del
Governo e degli imprenditori.
Prioritariamente al rilancio dello sviluppo vanno altresì finalizzate le
liberalizzazioni, per le quali il Sindacato Confederale richiede al Governo un
confronto di merito affinchè vengano definite caratteristiche di omogeneità nei
diversi ambiti, una maggiore concorrenzialità del sistema economico e le condizioni
per realizzare nuovi investimenti e occupazione, in particolare nel settore dei servizi
pubblici locali, con il miglioramenti dei servizi e la riduzione dei costi a vantaggio
dei cittadini.
La difficile situazione occupazionale rende necessario mettere all’ordine del giorno
l’attuazione di un piano per il lavoro, a partire dall’emergenza della disoccupazione
giovanile e femminile, particolarmente accentuata nel Mezzogiorno e dalla necessità
di reimpiegare le centinaia di migliaia di lavoratori ancora coinvolti dagli
ammortizzatori sociali. A questo fine verranno presentate nell’imminente confronto
con il Ministro del Lavoro le proposte del Sindacato Confederale in materia di
incentivazione per nuova occupazione, per tutelare maggiormente il lavoro
flessibile, per riordinare ed estendere il sistema degli ammortizzatori sociali, per
una revisione e una gradualizzazione degli interventi di fine 2011 in campo
previdenziale, in particolare quelli a maggiore impatto negativo sulla situazione
occupazionale e le prospettive di vita e di reddito delle persone.
In aggiunta e in conseguenza alle diffuse difficoltà occupazionali, si è determinato
nel Paese un processo progressivo ed inesorabile di perdita del potere di acquisto
delle retribuzioni e delle pensioni, accentuato dalle manovre restrittive sul bilancio
realizzate nel 2011 che hanno inciso pesantemente in materia di costo dei
carburanti, di incremento della fiscalità locale e addizionali regionali, di aumento
delle imposte sulla prima casa e dell’Iva, mancata rivalutazione delle pensioni ed
hanno fatto aumentare in modo preoccupante situazioni di difficoltà economica e
sociale per milioni di persone.
È necessario pertanto operare un forte intervento a sostegno di salari, stipendi e
pensioni oltre che per rispondere ad un’emergenza sociale da tutti riconosciuta,
anche per dare un contributo decisivo al rilancio della domanda interna,
indispensabile per far tornare a crescere la nostra economia.
In questo quadro Cgil-Cisl-Uil ritengono indispensabile che il Governo realizzi in
tempi brevi un intervento di riduzione del carico fiscale a beneficio dei lavoratori,
dei pensionati, delle famiglie da finanziare con gli introiti a ciò appositamente
destinati di una sempre più efficace azione di contrasto all’evasione e all’elusione
fiscale, nell’ambito di una più organica riforma fiscale di carattere generale che
preveda una imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari, così da realizzare
una redistribuzione più equa della pressione fiscale sui cittadini, a vantaggio del
lavoro, delle pensioni, delle famiglie.
Ai fini del sostegno della produttività del sistema economico vanno resi strutturali e
migliorati la detassazione e la decontribuzione del salario di produttività tramite la
contrattazione collettiva aziendale e territoriale e resi maggiormente selettivi gli
incentivi e gli sgravi fiscali per le imprese ancorandoli maggiormente
all’innovazione tecnologica ed organizzativa, all’incremento dell’occupazione, alla
crescita della produttività, alla finalizzazione di comportamenti socialmente
responsabili, promuovendo anche per tale via l’avanzamento della specializzazione
e della modernizzazione del nostro sistema economico.
Le politiche di controllo selettivo della spesa pubblica sono un’occasione irripetibile
per una riorganizzazione complessiva della pubblica amministrazione improntata ai
criteri di una maggiore efficienza, della riduzione delle disfunzioni e degli sprechi,
della valorizzazione degli operatori del servizio pubblico attraverso la negoziazione
con le organizzazioni sindacali che preveda anche una redistribuzione a favore dei
lavoratori delle economie di gestione. Analogo criterio deve riguardare la
salvaguardia e la qualità della spesa per lo Stato sociale che attraverso la definizione
dei costi standard nella gestione e dei livelli essenziali delle prestazioni sociali
garantisca la continuità e l’uniformità su tutto il territorio del servizio sanitario
nazionale, dell’assistenza e delle politiche sociali, in particolare realizzando la
necessaria tutela della non –autosufficenza.
Cgil-Cisl-Uil sollecitano quindi il Governo ad aprire sul tema della crescita e
dell’equità sociale e fiscale un confronto con le parti sociali ed avanzano le loro
proposte specifiche in materia di lavoro, previdenza e liberalizzazioni.
Mercato del lavoro
Dopo tre anni di crisi e con la prospettiva di un 2012 che si preannuncia di
recessione economica, è necessario un piano organico per dare sostegno
all’occupazione, in particolare con strumenti rivolti ai giovani, alle donne, agli over
50 e al reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione e ai disoccupati, valorizzando,
con le necessarie correzioni, gli istituti esistenti che promuovono ed incentivano il
lavoro stabile. Contemporaneamente vanno ridotte e semplificate le altre tipologie
di lavoro flessibile, armonizzando costi e tutele.
Nel contempo vanno assicurate le risorse per gli ammortizzatori sociali in deroga
anche nel 2012 e successivamente va realizzato un riordino del sistema che
permetta di assicurare in via ordinaria le tutele a tutte le dimensioni di impresa nei
diversi settori e a tutte le tipologie contrattuali, in stretto collegamento con il
rafforzamento delle politiche attive del lavoro.
A tal fine si ritiene utile proporre di utilizzare il percorso connesso alle deleghe
approvate dal Parlamento (leggi 247/07 e 183/10) in materia di ammortizzatori
sociali e riordino degli incentivi per l’occupazione e servizi per l’impiego.
Tipologie d’impiego: promuovere la buona occupazione
Nel ribadire che il contratto a tempo indeterminato è la forma comune d’impiego,
vanno incentivate le tipologie contrattuali che promuovano il lavoro stabile:
- Generalizzare l’utilizzo del contratto di apprendistato professionalizzante come
canale ingresso al lavoro per i giovani e il contratto di inserimento per il reimpiego
dei lavoratori in disoccupazione, per l’occupazione femminile nelle aree ad alta
disoccupazione e per gli over 50. Per entrambe queste forme si propone di
incentivare ulteriormente, per via fiscale e contributiva, le trasformazioni a tempo
indeterminato
- Favorire il part-time per la conciliazione tra lavoro e famiglia, e anche per
governare fasi di crisi: vanno incentivati/disincentivati i part-time lunghi/brevi, in
attuazione della già citata delega e va rilanciato il ruolo della contrattazione, specie
di 2° livello, in caso di ricorso a clausole elastiche e flessibili.
- Rafforzare e rendere immediatamente esecutivo il credito di imposta occupazione
per il Mezzogiorno.
Vanno attivati percorsi che incentivino la trasformazione di contratti di lavoro oggi
impropriamente utilizzati (lavoro a progetto, associati in partecipazione, false
partite iva, tirocini) in queste forme tendenzialmente rivolte verso la stabilizzazione.
Tipologie di impiego: semplificare il lavoro flessibile
Per contrastare gli abusi ricorrenti che riguardano le tipologie di lavoro flessibile, va
introdotto il principio generale della parificazione dei costi contrattuali e
contributivi rispetto al lavoro subordinato a tempo indeterminato, maggiorati di
una quota per gli ammortizzatori sociali, sul modello del lavoro somministrato, che
in via generale potrebbe riassorbire molte delle tipologie contrattuali esistenti.
Inoltre, in termini più specifici:
- Per il contratto a tempo determinato che esplica una sua funzione soprattutto
nella stagionalità, va prevista una semplificazione riguardo alla durata, salvo il caso
del lavoro stagionale, e ad un tetto fissato dai Ccnl
- Lavoro parasubordinato: va ricondotto alla contrattazione collettiva di settore per
quanto riguarda le condizioni per ricorrervi (la definizione di un reddito annuo al di
sotto del quale non sia consentito assumere con queste tipologie di contratto)
nonché per la definizione dei compensi e di un massimale di utilizzazione di tali
rapporti in relazione alla dimensione d’impresa. Si ritiene inoltre opportuno
rivedere le direttive Ministeriali inerenti l’attività ispettiva in materia di controllo
del lavoro autonomo e parasubordinato. Per il 2012 si pone il problema di garantire
ai collaboratori a progetto una misura adeguata di salvaguardia reddituale,
intervenendo sul testo attualmente presente nel ”decreto milleproroghe”
- Voucher (lavoro accessorio): limitarne il ricorso attraverso la riduzione delle
tipologie dei committenti e dei prestatori, fissare un riferimento al compenso
orario, prevedendo che tali compensi siano utili, nel caso di cittadini stranieri, al
raggiungimento del reddito minimo necessario per l’ottenimento del rinnovo del
permesso di soggiorno;
- Tirocini: fermo restando il riparto di competenze tra Stato e Regioni previsto dal
Titolo V della Costituzione, si propone di ricondurre la fattispecie all’interno delle
attività curricolari dell’istruzione anche universitaria
Ammortizzatori sociali e servizi all’impiego
- Utilizzando i criteri presenti nelle deleghe già citate, è necessario un riordino che
dopo la positiva stagione degli ammortizzatori in deroga preveda un sistema
fondato su uno schema assicurativo con un contributo da parte di tutte le imprese
ed una valorizzazione della bilateralità contrattuale, puntando all’estensione degli
ammortizzatori sociali a tutte le tipologie di lavoro ed a tutte le dimensioni
d’azienda. Il sistema dovrà essere fondato su due strumenti, indirizzati alla
salvaguardia del reddito dei lavoratori sia in caso di sospensione per situazioni di
crisi/difficoltà di natura temporanea o strutturale dell’impresa (CIG), sia in caso di
avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro, con indennità di mobilità e/o indennità
di disoccupazione, prevedendo per quest’ultima un graduale incremento;
- vanno confermati e valorizzati i Contratti di solidarietà quale strumento
alternativo alla messa in mobilità o ai licenziamenti
- vanno ridefiniti i requisiti di accesso per la fruizione degli ammortizzatori sociali,
affinché il sistema sia maggiormente rispondente ai giovani e a chi rientra nel
mondo del lavoro
- Va data sostanza alla condizionalità già prevista dall’attuale normativa,
potenziando per tutti gli ammortizzatori sociali le politiche attive finalizzate al
reimpiego, con un rafforzamento dell’azione dei servizi per l’impiego e delle sinergie
tra servizi pubblici e privati, nonchè tra gli attori preposti alle politiche passive e
quelli che sono responsabili di quelle attive, attraverso un miglior utilizzo delle
risorse comunitarie.
Pubblico Impiego
Gli esiti del confronto con il Governo sul mercato del lavoro verranno recepiti nel
documento di Cgil-Cisl-Uil per la trattativa sulla regolazione del lavoro nel settore
pubblico.
Emergenze sociali
È necessario intrecciare la discussione sulle prospettive con una valutazione accorta
delle misure per fronteggiare le emergenze sociali di cui si indicano di seguito solo i
titoli:
- per i lavoratori in cig / mobilità colpiti dall’allungamento della vita lavorativa
disposto dalla legge 214/11, va garantita la salvaguardia dei previgenti requisiti
pensionistici o, quantomeno, la garanzia del prolungamento delle indennità di
sostegno al reddito;
- nell’attuale fase di emergenza, in attesa del riordino degli ammortizzatori sociali,
va affrontato, in via derogatoria, il problema delle tutele per quanti esauriscono,
oltre alla cassa integrazione e alla mobilità, anche l’indennità di disoccupazione.
- per i cittadini stranieri va stabilita la fruizione degli ammortizzatori sociali alle
stesse condizioni dei lavoratori italiani, prevedendo che le indennità di sostegno al
reddito siano utili ai fini del rinnovo dei permessi di soggiorno, i quali vanno inoltre
allungati ad un anno in caso di perdita di lavoro e impossibilità di accedere agli
ammortizzatori sociali; vanno poi previsti per gli stranieri in condizione di
irregolarità percorsi di emersione dal lavoro sommerso, anche attraverso interventi
di regolarizzazione individuale ed in sintonia con lo spirito della direttiva
2009/52/CE;
- integrare e coordinare le diverse attività ispettive, intrecciando le funzioni
lavoristiche e previdenziali con quelle fiscali (banche dati e risorse umane);
- ripristinare una politica inclusiva nei confronti dei lavoratori disabili;
- ripristinare strumenti di contrasto alle dimissioni in bianco.
Previdenza
La sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico resta legata alle dinamiche
future di crescita e sviluppo del Paese e all’andamento dell’occupazione. Le recenti
misure contenute nel provvedimento varato nello scorso mese di dicembre devono
essere modificate perchè sono intervenute in modo insostenibile ed iniquo sulla
struttura dei diritti previdenziali di milioni di persone senza nessuna gradualità. Si è
realizzato un intervento volto solo a fare “cassa”, prelevando ingenti risorse dai
lavoratori e dai pensionati, determinando così gravi ripercussioni anche sul mercato
del lavoro, stante l’attuale situazione di difficoltà occupazionale.
Siamo, infatti, di fronte ad una vera e propria emergenza per cui è necessario, da
subito, prevedere deroghe ed esenzioni per sostenere chi espulso dai sistemi
produttivi rimane senza lavoro e senza alcuna fonte di reddito.
È necessario monitorare e stimare se le risorse per la copertura delle esenzioni e
delle deroghe dall’applicazione della nuova disciplina previdenziale (comma 14 e 15
articolo 24) risulteranno idonee a coprire tutte le esigenze che si porranno per i
lavoratori disoccupati che concluderanno il periodo di fruizione degli
ammortizzatori sociali, per i lavoratori collocati in mobilità, mobilità lunga, in
esodo (anche volontario), a carico dei fondi di solidarietà di settore, autorizzati alla
prosecuzione volontaria della contribuzione e in esonero ex art. 72 c. 1 D.L n.
112/2008. Va data una risposta ai lavoratori che abbiano sottoscritto la risoluzione
consensuale del rapporto di lavoro per effetto di accordi che tenevano conto dei
requisiti pensionistici previgenti e che oggi si vedono, di colpo, posticipare i
requisiti per l’accesso al pensionamento.
Al tempo stesso ai fini dell’accesso al pensionamento anticipato con il requisito
contributivo è necessario eliminare, qualsiasi forma di penalizzazione per ogni anno
di anticipo rispetto ai 62 anni, così come l’aggancio del medesimo requisito
all’aumento dell’aspettativa di vita.
Si potrebbe anche sperimentare il part – time negli ultimi anni di lavoro (con una
maggiorazione incentivante della relativa copertura figurativa), rendendo più
sostenibile l’allungamento di età di accesso alla pensione.
Così come, stante il disagio provocato, prevedere l’esenzione delle norme sull’uso
del contante nel pagamento delle pensioni o l’azzeramento dei costi per l’erogazione
delle stesse.
Per Cgil, Cisl e Uil rimangono però da affrontare anche i temi relativi all’assetto di
sistema della previdenza, cosi come disegnato dalla manovra. Alle norme approvate
va, infatti, restituito un carattere di gradualità, senza il quale l’impatto sulle
condizioni di vita e di lavoro delle persone, nonché sull’occupazione dei giovani
risulta particolarmente pesante.
Occorre, inoltre, realizzare una maggiore gradualità nell’aumento dell’età anagrafica
prevista ai fini dell’accesso al pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici sia
private che pubbliche e riconoscere a tutti i lavoratori una maggiore gradualità
nell’abolizione delle cosiddette “quote” – somma di età anagrafica ed età
contributiva – per l’accesso al pensionamento. Va estesa anche ai lavoratori del
settore pubblico la norma che consente l’accesso al pensionamento ai 64 anni per
tutti coloro che maturino i requisiti pensionistici entro il 31/12/2012.
Bisogna, inoltre, prevedere un aggiornamento della normativa sui lavori
particolarmente faticosi e pesanti – d.lgs. n. 67/2011 – ampliando la platea dei
potenziali beneficiari.
Cgil, Cisl e Uil ritengono anche che vada affrontato il problema della progressiva
perdita del potere di acquisto subita dai trattamenti pensionistici in essere, a
cominciare da quelli di importo più basso.
Soprattutto per i lavoratori più giovani è indispensabile promuovere e rilanciare lo
sviluppo della previdenza complementare, mediante misure che la rendano
effettivamente disponibile ed accessibile ai lavoratori in tutti i settori, a partire da
quelli pubblici ai quali va estesa la stessa normativa fiscale già prevista nel
“privato”, senza contestualmente determinare ulteriori riduzioni della copertura
pensionistica assicurata dalla previdenza pubblica.
È importante continuare il processo di armonizzazione dei regimi previdenziali e
delle diverse aliquote contributive e tramite il ricorso ad un’ulteriore contribuzione
di solidarietà proporzionale ai maggiori benefici ottenuti in passato (anche in
termini di pensionamento anticipato) a carico dei soggetti con trattamenti
pensionistici di importo molto elevato.
Cgil, Cisl e Uil ritengono necessario aprire un confronto sulla struttura e sulla
governance del nuovo Ente previdenziale, al fine di garantire l’obbiettivo di una
vera efficienza e trasparenza, oltre che di salvaguardia dei livelli occupazionali.
Obiettivi da realizzarsi attraverso la predisposizione di un piano industriale
condiviso e l’affermazione di governance effettivamente duale.
Liberalizzazioni
Le liberalizzazioni possono essere di sostegno alla crescita del Paese a condizione
che non si traducano in un’azione indistinta, incoerente e improvvisata frutto di una
lettura affrettata ed ideologica della realtà. Va ricordato che liberalizzare non
significa automaticamente privatizzare, ed inoltre un settore liberalizzato ha
mediamente più bisogno di regole chiare e trasparenti, visto che buona parte della
difficile situazione attuale discende da una palese e dimostrata incapacità del
mercato ad autoregolarsi spontaneamente. Liberalizzare significa inoltre interagire
con il lavoro e, molto spesso, con la sfera dei diritti di cittadinanza di milioni di
persone. Per questo motivo è indispensabile che il Governo apra subito un tavolo di
confronto con le parti sociali.
I processi di liberalizzazione –che devono puntare all’obiettivo di ampliare il
mercato dei servizi – diventano elementi forti per lo sviluppo complessivo del Paese
se determinano una sana concorrenza che rispetti le regole e il lavoro, se si
traducono in un vero vantaggio, in termini di prezzi e qualità dei servizi per i
cittadini.
Alla base di questo vi sono condizioni che riteniamo fondamentali:
1. il mantenimento della proprietà pubblica degli Asset strategici che esercitano un
ruolo fondamentale, in quanto infrastrutture nodali per il Paese ed elemento
cardine del Welfare. L’acquisizione da parte del Tesoro della società Rete
Ferroviaria Italiana spa appare, così come si legge nella Bozza del decreto, troppo a
discapito di Trenitalia e pertanto va meglio verificata la sua gestibilità;
2. i processi di liberalizzazione non devono mettere in discussione i servizi
universali, che rappresentano i veri diritti di cittadinanza a prescindere dalle
condizioni socioeconomiche e geografiche. Questo riguarda, in particolare, come si
legge nella bozza del decreto, Poste Italiane e la Rete regionale Ferroviaria;
3. il rispetto dei ccnl di settore e la tutela del lavoro. In particolare la funzione dei
contratti di settore è importante per evitare il dumping contrattuale che potrebbe
derivare dall’apertura del mercato a più soggetti, creando così, oltre che un danno al
lavoro, una concorrenza sleale a scapito delle imprese sane. È indispensabile,
inoltre, dotare di adeguati ammortizzatori sociali tutti i settori coinvolti nei processi
di liberalizzazione, rendendoli strutturali e omogenei per tutte le categorie,
finalizzandoli anche alla formazione e alla riqualificazione professionale;
4. il rispetto delle competenze istituzionali a tutti i livelli, in particolare a quelle
definite dall’art. V della Costituzione, anche in riferimento agli orari degli esercizi
commerciali già fortemente liberalizzati per le aperture domenicali dalle manovre di
questi ultimi mesi e addirittura liberalizzati nell’orario notturno dall’ultima
manovra, creando fortissime ripercussione sulle lavoratrici e sui lavoratori del
settore, al di fuori di ogni regolamentazione contrattuale;
5. per quanto riguarda i Servizi pubblici locali è indispensabile l’accorpamento delle
società di servizio, al fine di ridurne il numero e realizzare, così, la costituzione di
imprese dimensionalmente più grandi in grado di competere sul mercato,
rispondenti agli ambiti o bacini ottimali del servizio come elemento di virtuosità
premiante dal punto di vista degli investimenti pubblici. I nuovi assetti
dimensionali devono prevedere nell’azionariato diffuso dei cittadini e nella
partecipazione dei lavoratori, forme di nuova governance più partecipativa e vicina
al cittadino-consumatore. Anche il tema degli investimenti, così, può trovare
positivi sviluppi;
6. estensione dell’abolizione delle tariffe minime a tutte le categorie, in maniera
omogenea e trasparente, in modo che ne derivi un vantaggio per i cittadini, ma
anche un’apertura per tanti giovani alle professioni interessate.
Infine, per garantire e controllare tutto il processo di liberalizzazione vanno
rafforzate e istituite, laddove necessario, le Autorità di vigilanza che – mantenendo
la loro indipendenza e autonomia economica – devono esercitare reali poteri
sanzionatori, essere in grado di vigilare sulla qualità dei servizi, sulla politica
tariffaria e garantire il primato della pubblica utilità sulle esigenze privatistiche.
Intervista ad Anna Finocchiaro.
«Cancellare subito la vergogna delle dimissioni in
bianco»
La presidente dei senatori Pd: «Usano questo strumento per aggirare
l’articolo 18. Noi in prima linea in una battaglia di civiltà. Il centrodestra
dovrà cedere all’indignazione»
di Maria Zegarelli
(l’Unità, 21 gennaio 2012)
Un appello alla ministra Elsa Fornero lanciato da 14 donne e subito sottoscritto da
altre 188, proprio il numero di quella legge contro le dimissioni in bianco che il
governo Berlusconi ha cancellato. E poi, un passaggio del discorso del segretario Pd,
durante l’Assemblea di ieri, affinché sul tavolo di lavoro per la riforma del mercato
entri in primo piano anche il ripristino di quelle norme di civiltà spazzate via
proprio mentre la crisi, che il centrodestra ha negato fino alla scorsa estate, logora
posti di lavoro e quelli delle donne un po’ di più.
Anna Finocchiaro, capogruppo dei democratici al Senato dice che la questione «non
è tornata al centro dell’attenzione, perché per il Pd c’è sempre stata».
Presidente, tante dichiarazioni di intenti, ma la legge ancora non c’è.
Adesso l’appello trasversale di moltissime donne al ministro. E il
Parlamento?
«Questa è una battaglia che noi democratici non abbiamo mai abbandonato. La
reintroduzione del divieto di dimissioni in bianco è stata oggetto di nostri interventi
in Aula, di emendamenti, sempre bocciati dal centrodestra, e proposte di legge sia
alla Camera sia al Senato. Sono state soprattutto le senatrici e le deputate a tenere
sempre alta l’attenzione su questo tema e lo dico non per fare una rivendicazione
fine a se stessa, ma per ribadire che questa battaglia, che ritorna oggi di attualità sui
media, grazie anche a questo appello di tante donne impegnate in politica, nel
sindacato, nel mondo dello spettacolo e della cultura, che io stessa ho sottoscritto, il
Pd non ha mai smesso di combatterla».
Non ripristinare quella legge potrebbe essere ancora più drammatico
per le donne, ma anche per gli uomini, con l’acuirsi della crisi e la
recessione in atto. Perché aspettare?
«Di fronte all’incalzare della crisi e all’ulteriore mortificazione dei diritti del lavoro,
la questione è di assoluto rilievo. Per evitare la pratica delle dimissioni in bianco
non ci vogliono meccanismi complicati né costi aggiuntivi. Lo strumento c’è, è
quello sperimentato nel 2006 dal governo Prodi: le dimissioni vanno compilate in
moduli con numeri progressivi e non possono avere una data che vada più indietro
dei 15 giorni dal momento della presentazione. Non c’è motivo per rinviare, la
discussione della norma va messa immediatamente all’ordine del giorno sia alla
Camera che al Senato».
La domanda è: perché il centrodestra dovrebbe dire sì oggi quando ha
detto no fino a ieri?
«Perché potrebbe cominciare a vergognarsi se non lo facesse e a far crescere il senso
di vergogna sarebbe quel sentimento di indignazione che sta crescendo tra gli
uomini e le donne di questo Paese. Quella norma, infatti, riguarda tutti e aggiungo
che lo strumento delle dimissioni in bianco è un modo di aggirare l’articolo 18».
Il governo dice che per ora l’articolo 18 non è all’ordine del giorno. Se
dovesse tornarci, il Pd riuscirebbe a trovare una sua posizione?
«Per quanto riguarda il Pd l’articolo 18 non è in discussione e non è discutibile. Io
starei però attenta perché, mentre vedo che monta il dibattito su una presunta e
ipotetica volontà del governo di modificarlo, non noto altrettanta attenzione alle
decine e decine di posti di lavoro che saltano ogni giorno».
Il Pd appoggia questo governo con lealtà senza rinunciare a dire la
propria, ha spiegato Bersani. Insomma, ci siete ma non siete il governo.
«Noi siamo leali e lo dimostriamo ogni giorno in Parlamento. Lo siamo soprattutto
perché non rinunciamo, nelle sedi appropriate, a rappresentare le nostre posizioni, i
nostri rilievi e la posizione del nostro partito sulle questioni che stiamo affrontando
e che affronteremo in futuro. Né, d’altra parte, ci si può aspettare di meno dal più
grande partito italiano e da una forza seria e responsabile che appoggia questo
governo ma che si candida a guidare il prossimo».
Con chi lo guiderete? Bersani su questo non si è sbilanciato.
«Noi lo guideremo, questo è sicuro perché nessuna alleanza si crea a prescindere da
noi. Vediamo chi vorrà condividere il nostro progetto di Paese».
Però nel Pd c’è chi chiede un congresso anticipato per decidere la linea
politica anche in vista delle elezioni.
«Non vedo dove sta il problema. Un congresso del Pd non è come un congresso
della Lega, siamo abituati a farli e se la maggioranza lo chiede non vedo perché non
si dovrebbe fare. Mi fa aggiungere un’ultima cosa?».
Cosa vuole aggiungere?
«Osservo che i congressi servono anche a consolidare le leadership che già ci sono,
non soltanto a crearne di nuove».
Intervista a Susanna Camusso.
«Vogliono fare i liberisti
colpendo il costo del lavoro»
Il segretario Cgil: «Troppo entusiasmo, vedo rischi di smobilitazione dei
servizi pubblici. Si torni a parlare sul serio di occupazione»
di Oreste Pivetta
(l’Unità 22 gennaio 2012)
Che cosa chiederete al governo? Susanna Camusso, segretario della Cgil,
“accantona” un attimo il tema liberalizzazioni e riprende la questione del lavoro che
non c’è: «Chiederemo al governo di operare perché venga ripristinata una
condizione in cui i giovani e i cinquantenni lasciati a casa dalle loro aziende in crisi
non siano costretti a imboccare la via crucis della precarietà. L’abbiamo detto tante
volte: rimettere al centro il lavoro».
Le liberalizzazioni non creeranno appunto lavoro?
«Intanto bisognerebbe conoscere il testo. Intanto andrebbero ridimensionati certi
entusiasmi. L’enfasi mi sembra eccessiva. Non credo che liberalizzando si dia via
libera a quell’aumento pronosticato dei salari del dodici per cento. Magari
diminuirà qualche prezzo. Non credo neppure a certi automatismi, che
prometterebbero aumento dell’occupazione, anche se ovviamente c’è del buono nel
decreto legge. Un esempio? La separazione tra il soggetto che fornisce il gas e quello
che gestisce la rete distributiva».
Il cattivo sta forse nell’ennesimo attacco al contratto nazionale, questa
volta quello dei ferrovieri, con l’idea di favorire la concorrenza?
«Quando si parla di Ferrovie o di Poste bisognerebbe sempre pensare che si tratta
di servizi pubblici, che devono quindi rispondere alle necessità della collettività,
necessità che nel caso dei treni si chiamano mobilità, economicità, sicurezza. Da
qualsiasi luogo, per qualsiasi luogo. Smobilitare il contratto nazionale ha un senso
allora? Non c’è il rischio di peggiorare tutto? Vogliamo costruire una concorrenza
che concorre solo agendo sulla voce costo del lavoro? Non mi sembrerebbe un gran
segnale. Proviamo a prendere consiglio da chi con le liberalizzazioni e con le
privatizzazioni s’è sperimentato prima di noi. E non certo con risultati brillanti».
Ma i privati come li mobilitiamo?
«Il governo dovrebbe chiamare i venti più importanti attori dell’economia italiana,
chiedere loro che strategie si danno, chiedere loro progetti concreti, proporsi con
autorevolezza per discuterli e, se sono validi, per agevolarli, secondarli, contribuire.
Non si tratta di dare quattrini. Si tratta di garantire condizioni favorevoli, di
coordinare. E in primo luogo chiamare alla responsabilità davanti a un Paese in
crisi: chi può, faccia. Ovviamente se è capace…».
Le agenzie di stampa hanno riferito una sua affermazione: «Le
intemperanze liberalizzatrici ci porteranno dei guai». Conferma?
«Come può capitare, s’è colta una battuta sottraendola al suo contesto. Torno
all’osservazione di prima: eccesso di entusiasmo. Le liberalizzazioni non sono tutto
e qualche volta sono sbagliate».
Si riferiva agli orari dei negozi, ai taxi?
«In un caso bisognerebbe pensare alla qualità della vita in Italia, piuttosto che
sognare l’America, consentire la vita a una rete commerciale che significa anche
socialità e non consegnare tutto alla grande distribuzione, valutando i costi sociali
non solo economici di aperture lunghe, che costringerebbero probabilmente molti a
rivalersi sui prezzi oppure a chiudere. A danno dei cittadini, comunque, di una
cultura, di una tradizione che non sono sempre da buttare. Per quanto riguarda i
taxi, riflettiamo sulle origini: in partenza ci sono le licenze, non possiamo pensare di
cancellare di colpo quell’investimento. Magari le resistenze appaiono eccessive.
Bisogna discutere per raggiungere un punto di equilibrio. In primo piano
dovrebbero stare i bisogni reali. Altrimenti si fa solo vecchia ideologia».
Liberista: come nel caso delle municipalizzate?
«Certo, perché alla fine si trascura quello che dovrebbe essere l’obiettivo
fondamentale: l’efficienza e quindi la bontà del servizio. Aggiungo che in alcuni casi,
come quello delle farmacie, siamo solo ad un ampliamento della base. Ci saremmo
attesi altre novità».
Dunque altro che “albero scosso”, bell’Italia dell’immagine dell’Italia
che cambia. Domani il tavolo sulle questioni del lavoro. Lei raccomanda
di non aver fretta…
«Di non aver la fretta con la quale si è chiuso il capitolo delle pensioni, capitolo che
non riteniamo assolutamente chiuso, perché troppe ingiustizie sono rimaste e in
particolare è rimasta quella ingiustizia che colpisce appunto quella generazione di
ultracinquantenni che ha risposto ad una crisi aziendale progettando un altro futuro
con le carte in regola per la pensione entro pochi mesi o anni e che si è vista
cancellare un diritto acquisito. Più in generale la garanzia di una vecchiaia decente
riguarda l’intera società. Quindi credo che la discussione sulle pensioni vada ripresa
con grande serietà. Qui parlerei anche di flessibilità».
Che cosa vi aspettate che vi dica il professor Monti?
«Il governo finora non ci ha detto nulla. In compenso ha letto di sicuro il
documento di Cgil Cisl e Uil, in cui si chiedono investimenti per creare
l’occupazione, che non cresce smobilitando le regole. Abbiamo apprezzato che siano
stati sbloccati investimenti, abbiamo apprezzato l’attenzione sul Mezzogiorno.
Abbiamo apprezzato molto quanto è stato realizzato nella lotta all’evasione. Ma
vorremmo che questa volontà s’applicasse anche nei confronti del lavoro
sommerso».
Altra “voce”, di cui molto si è discusso, anche nel Partito democratico:
gli ammortizzatori sociali. Si andrà a un cambiamento?
«Siamo in un Paese in recessione e dobbiamo rispondere all’emergenza. Non ci
sono soldi per grandi riforme, per modelli danesi o altro. La cassa integrazione è
peraltro un istituto di grande valore, anche ideale: è nata per mantenere un legame
tra lavoratore e posto di lavoro. Il dovere è di garantirla a chi ne è privo. Prima di
parlare d’altro».
Oggi il tavolo sulla riforma del lavoro.
Fornero vuole cause di lavoro-lampo
Incontro governo-parti sociali, l’idea dell’esecutivo è quella di rendere
standard gli indennizzi
di Fabio Martini
(lastampa.it, 23 gennaio 2012)
È la terza tappa. Ma il Professore la considera strutturale esattamente come le
prime due (il «Salva» e il «Cresci-Italia») e dunque già da qualche giorno Mario
Monti aveva informalmente disposto un’«apparecchiatura» da grandi occasioni per
il tavolo che stamattina aprirà la trattativa per ridisegnare il mercato del lavoro nel
nostro Paese.
Una settimana fa il presidente del Consiglio aveva informato i ministri di «volere
essere presente» all’avvio della discussione e di voler aprire non solo
simbolicamente il tavolo attorno al quale si ritroveranno le parti sociali. E dunque si
parte a palazzo Chigi, alle 10, nella Sala Verde (l’ampio salone dalla tappezzeria e
dalle sedie verdi, dove si svolgono le riunioni più affollate) con un’introduzione del
presidente del Consiglio, che poi lascerà la riunione per trasferirsi all’Eurogruppo di
Bruxelles, il summit dei ministri economici dell’Eurozona e lì potrà
ragionevolmente annunciare di aver appena aperto una trattativa che si concluderà
anche questa – come i due decreti già approvati – con la terza riforma strutturale
del suo governo.
A discutere con le parti sociali, Monti lascerà ben quattro ministri, secondo un
format che sempre lui ha chiesto: oltre ad Elsa Fornero, titolare della materia in
discussione, ci saranno anche il ministro dello Sviluppo economico Corrado
Passera, il ministro dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo, il
viceministro Vittorio Grilli. Una squadra che corrisponde alla filosofia che Monti
stesso ha tenuto a sottolineare durante l’intervista televisiva rilasciata a Lucia
Annunziata in «Mezz’ora». Alla giornalista che insisteva per avere una risposta da
«titolo» sulla questione dell’articolo 18, Monti ha replicato che in qualche modo la
«notizia» l’aveva già data, collegando la questione lavoro alla crescita: «Tutto si
lega, perciò più noi agiamo sugli altri fattori e meno abbiamo bisogno di agire sul
lavoro. Ma attenzione: rimane vero che il lavoro resta comunque una quota molto,
molto grande nei costi di produzione».
Dunque, una riforma urge e si farà. Naturalmente la trattativa nelle prossime
settimane sarà condotta dal ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa
Fornero, di cui Monti apprezza la forte personalità e la proverbiale competenza, ma
il forte investimento del premier sulla questione è come se aprisse la strada,
quantomeno nella vulgata giornalistica, ad una doppia attribuzione, una sorta di
riforma Monti-Fornero. Nella prima riunione il ministro Fornero si limiterà ad
indicare gli obiettivi generali della riforma, ascolterà le parti e concluderà la
riunione, aprendo tre tavoli, uno sulle assunzioni, uno sulla formazione, uno sugli
ammortizzatori sociali.
Non è oggi che matureranno sorprese. Ma dietro le quinte stanno maturando
novità. La più interessante finora inedita – la stanno elaborando il ministro Fornero
e i suoi tecnici. E riguarda i lunghi contenziosi susseguenti alle cause da
licenziamento regolate dall’articolo 18. Si sta studiando la possibilità di formalizzare
procedure accorciate che consentano di abbreviare drasticamente i tempi delle
cause da lavoro, che attualmente si possono prolungare fino a 5-6 anni. Con costi
per le aziende e incertezze per il lavoratore. E dunque, si va verso tempi e
risarcimenti standardizzati, non è ancora chiaro se affidando il contenzioso a
sezioni specializzate della magistratura. Una soluzione che, sulla base dei primi
contatti informali con le parti sociali, potrebbe andar bene sia alle imprese che ai
sindacati.
Ma a palazzo Chigi sanno bene che su tutto questo dossier ci saranno i fucili puntati,
oltreché delle parti sociali, anche dei due principali partiti della maggioranza. Dice
Giuliano Cazzola, pdl, nei giorni scorsi consultato informalmente dal ministro: «Al
governo consiglio di non dimenticare che esiste una Delega ancora aperta, nel
Collegato lavoro, che consente all’esecutivo di fare qualsiasi riforma,
risparmiandomesi di attività legislativa. E sconsiglio di abbandonarsi alla retorica
del contratto unico: situazioni lavorative differenti non possono essere ricondotte
ad un’unica fattispecie». Sostiene Paolo Nerozzi, senatore Pd, già alto dirigente Cgil:
«Attenzione, stavolta la piattaforma sindacale oltreché credibile è realmente
unitaria: non si dimentichi che, da Amato a Dini, con la concertazione siamo andati
in Europa, senza ne stavamo uscendo».
Tre proposte sul tavolo
per riformare il lavoro
L’obiettivo: rilancio del Pil cercando nuove regole
di Roberto Bagnoli
(corriere.it, 23 gennaio 2012, 8:27)
Giovani, occupazione, crescita, redditi. Oggi a Palazzo Chigi partirà un confronto
che per importanza e intensità di attese è come quello del 1993 quando al governo
c’erano ancora dei tecnici, quella volta guidati da Carlo Azeglio Ciampi. Ma la
missione è molto diversa: allora si trattava di contenere il costo del lavoro, adesso di
rilanciare il Pil con nuove regole sul mercato del lavoro. Più flessibilità ma anche
salari più ricchi per sostenere i consumi. Tutti, governo, imprenditori e sindacati
fanno sapere di essere pronti al confronto, purché sia vero, costruttivo,
depoliticizzato e aperto al dialogo. Sul tavolo, come ha spiegato ieri il premier Mario
Monti, ci sarà innanzitutto «la semplificazione, con la riduzione delle
segmentazioni» e con un’attenzione particolare ai giovani e «al miglioramento
qualitativo del loro ingresso nel mondo del lavoro». Si partirà quindi con ogni
probabilità dalla diminuzione del numero dei contratti per l’ingresso nel mercato
del lavoro, dall’aumento della produttività media e dei salari reali, dalla ripresa
dell’occupazione e dalla riorganizzazione degli ammortizzatori sociali. Nessun tabù
– è stato lo stesso Monti a ribadirlo – sull’articolo 18 anche se la questione, già
esclusa dai sindacati, non dovrebbe essere oggetto del primo round di trattativa. La
Confindustria, con le parole del presidente Emma Marcegaglia, in questi giorni si è
appellata più volte al senso di responsabilità di tutti e si augura un dialogo
costruttivo con il sindacato. Per il segretario confederale della Cgil, Fulvio
Fammoni, occorre un «confronto vero». Ma lasciando cadere la discussione
sull’articolo 18 «considerato dai sindacati nella categoria dei diritti e non dei
problemi». Per la Cgil non c’è dunque nessuna ragione per intervenire su questo
tema.
A «costo zero»
Solo tempo indeterminato, ma le tutele sono graduali
La riforma del mercato del lavoro proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi si
caratterizza per essere a costo zero, perché è rivolta a tutti (non solo ai giovani) e
perché prevede sin da subito un contratto a tempo indeterminato anche se per i
primi tre anni viene sospesa quella parte dell’articolo 18 che prevede il reintegro in
caso di licenziamento senza giusta causa.
Il meccanismo di base di questa proposta, presentata in Senato un anno fa e firmata
anche da Franco Marini e Paolo Nerozzi, prevede che nei primi tre anni le tutele
crescano gradualmente con la durata dell’impiego fino a rendere oneroso il
licenziamento: alla fine del triennio l’imprenditore che decide di liberarsi del
dipendente gli deve riconoscere 6 mensilità. Se lo conferma, automaticamente si
estendono tutti i diritti previsti dall’articolo 18. Questo contratto, che vale solo per i
nuovi assunti, diventa «unico» ma non prevede l’abolizione di altri contratti. Solo, li
rende meno convenienti. Per esempio quelli a tempo determinato (stagionali
esclusi) si trasformano automaticamente nell’«unico» se la paga annua è inferiore a
25 mila euro lordi che salgono a 30 mila nel caso dei parasubordinati con
monocommissione (esclusi praticanti negli studi dei professionisti). Nel disegno di
legge è contemplato anche un salario orario minimo garantito, che un’apposita
commissione dovrà individuare. Volutamente nella proposta Boeri-Garibaldi non ci
sono riferimenti alla riforma degli ammortizzatori sociali con l’indennità di
disoccupazione per tutti. La decisione si spiega con la filosofia di base con la quale è
stata progettata la proposta: quella del «costo zero». Le risorse sono quelle che sono
e, come si legge nel loro libro Riforme a costo zero , «le agevolazioni fiscali nel
mondo del lavoro hanno sempre creato distorsioni del mercato».
Flexicurity
Il «modello danese», elastiche l’entrata e l’uscita
Il modello del giuslavorista Pietro Ichino, proposto in un disegno di legge
presentato al Senato nel 2009, si basa sul concetto di «flexicurity». I lavoratori, tutti
non solo i giovani, accettano un contratto di lavoro a tempo indeterminato ma reso
più flessibile con una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale.
Al termine di un periodo di prova di sei mesi, il lavoratore viene assunto ma perde
la protezione totale dell’attuale articolo 18: solo nel caso di licenziamenti per motivi
economici od organizzativi (non quelli indiscriminati) il lavoratore incassa
un’indennità che può arrivare fino a un massimo di 18 mesi di stipendio.
Contestualmente viene creata una assicurazione complementare contro la
disoccupazione (oltre agli attuali strumenti) che porta l’assegno del senza lavoro a
un livello paragonabile a quelli scandinavi. La durata è pari al rapporto intercorso
con l’impresa con un limite massimo di tre anni e una copertura iniziale del 90%
dell’ultima retribuzione decrescente nei successivi due anni fino al 70%. La
condizione per mantenere questo sussidio è che il lavoratore non si rifiuti di
accettare le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione.
Le imprese si accolleranno il costo dell’assicurazione e dei servizi collegati, affidati a
enti bilaterali costituiti di comune accordo con i sindacati, il cui costo medio
complessivo Ichino lo stima in circa 0,5% del monte salari. Il principio di base è che
più rapida è la ricollocazione del lavoratori più basso è il costo del sostegno a carico
delle imprese. La proposta Ichino è stata finora apprezzata dall’ex leader del Pd,
Walter Veltroni, e dall’ex responsabile economia Enrico Morando ma respinta da
Bersani e Fassina. La proposta di legge è stata firmata anche da esponenti del Pdl e
ha trovato condivisioni in Confindustria.
Apprendistato
Uno strumento «misto» contro la disoccupazione
L’apprendistato sembra al momento lo strumento più idoneo per affrontare senza
tanti stravolgimenti normativi il problema della disoccupazione giovanile. Sul suo
rafforzamento e maggiore estensione per renderlo davvero fruibile a tutte le
categorie di lavoratori c’è il sostanziale accordo dei sindacati e anche della
Confindustria. Anche perché affronta in modo semplice la questione dell’articolo 18,
prevedendone una sostanziale sospensione nei primi tre anni di lavoro-formazioneprova. L’apprendistato nella sua formula originaria è nato nel ’55 e ha avuto sei
successivi adeguamenti normativi, l’ultimo nel dicembre 2007. Si rivolge ai giovani
tra i 16 e i 29 anni di età. Il rapporto di lavoro concepito con questo strumento dalle
parti sociali è di «tipo misto», visto che si prevede l’onere per il datore di lavoro di
una effettiva formazione professionale, sia mediante il trasferimento di competenze
tecnico-scientifiche sia mediante l’affiancamento pratico per l’apprendimento di
abilità operative. L’assunzione di apprendisti richiede la stipula di un contratto di
lavoro in forma scritta con allegato il Piano formativo individuale, mentre il numero
degli apprendisti assunti non può superare quello dei lavoratori dipendenti
qualificati effettivi. Attualmente i contratti collettivi determinano la durata del
rapporto di apprendistato, comunque per legge non inferiore a due anni e non
superiore a sei.
Nello schema dei sindacati, per costruire su questo impianto normativo quello più
adatto ad affrontare il tema della disoccupazione giovanile, occorre rendere più
appetibile lo strumento introducendo dei forti bonus fiscali e contributivi. Come la
proposta Ichino, anche l’apprendistato ha dunque un costo e, per le imprese, una
certa controindicazione perché riconosce ai sindacati un forte potere nello stabilire
la durata del periodo di formazione.
Lavoro, le linee del governo in cinque capitoli.
Uso limitato della cassa integrazione
Reddito minimo. Indennità risarcitoria in caso di perdita del lavoro.
Flessibilità più cara. Cgil sulle barricate
(corriere.it, 23 gennaio 2012, 15:45)
Nella riforma del lavoro allo studio del governo ci sarà, ha anticipato il ministro per
il Welfare Elsa Fornero nell’incontro avuto con le parti sociali a palazzo Chigi, «uno
schema di reddito minimo», che richiede «risorse ora non individuabili». Per
questo e per «ragioni di bilancio lo schema potrebbe essere già individuato in
questa riforma ma, per le stesse ragioni, l’applicazione normativa potrebbe essere
dilazionata».
GLI AMMORTIZZATORI – Il governo propone anche di riformare il sistema di
ammortizzatori sociali puntando su un meccanismo con due possibilità: un
sostegno per le crisi temporanee e un altro per chi perde il lavoro. «Servono
ammortizzatori che facilitino la ricollocazione dei lavoratori – ha detto Fornero -.
Per raggiungere l’obiettivo sarebbe importante un passaggio ad un sistema
integrato, basato su due pilastri: uno per la riduzione temporanea dell’attività,
l’altro, per il sostegno al reddito di chi abbia perso il lavoro». «Gli ammortizzatori
saranno finanziati da contributi come avviene nel sistema assicurativo mentre la
fiscalità generale servirà per l’assistenza», ha detto il ministro. La riforma del
mercato del lavoro prevederebbe un uso limitatissimo della Cassa integrazione, e
solo di quella ordinaria nei casi in cui si possa rapidamente riprendere il lavoro.
Tutti gli altri ammortizzatori riguarderebbero interventi dopo il licenziamento con
una indennità risarcitorie.
LA PROPOSTA – Il governo ha quindi presentato alle parti sociali un documento in
cinque punti per la riforma del mercato del lavoro. Le linee guida del governo per la
riforma del mercato del lavoro, illustrate dal ministro Elsa Fornero, sono divise in
cinque capitoli: tipologie contrattuali, apprendistato, flessibilità, ammortizzatori
sociali e servizi per il lavoro. Il tavolo tra il governo e le parti sociali sul lavoro
servirà a migliorare la situazione delle imprese e dei lavoratori. È l’auspicio del
premier Mario Monti, che ha esordito dicendo: «Apriamo oggi un cantiere
importante». «Voi, forze produttive, avete il mondo dove competere, noi come
governo agiamo in Italia e abbiamo un non facilissimo lavoro da condurre in
Europa, spero che il maggiore spazio che stiamo creando per le forze produttive del
Paese vi aiuti – ha aggiunto – a far sì che quello che verrà fuori dal vostro tavolo
serva a migliorare la situazione di imprese e lavoratori ma anche la situazione
dell’Italia nella Ue».
NO AL DECRETO – Il premier ha anche rassicurato le parti sociali che non si
procederà per decreto sulla riforma del mercato del lavoro ma avverte che «i tempi
non possono essere lunghi». Secondo il ministro Fornero, la riforma del mercato
del lavoro («una riforma ambiziosa, da fare con un largo consenso») si farà insieme
alle parti sociali in tre, quattro settimane, avvalendosi del coordinamento del
Governo. «Solo alla fine del confronto – ha aggiunto la Fornero – si potrà parlare di
contratto unico». E ha aggiunto: «Occorre un contratto che evolva con l’età dei
lavoratori, piuttosto che contratti nazionali specifici che evolvono per tutte le età».
E soprattutto «la flessibilità dovrà costare di più». Il governo ha poi proposto alle
parti sociali di aprire dei gruppi tematici per lavorare via web alla riforma del
mercato del lavoro. I gruppi di lavoro informatici saranno cinque per affrontare gli
altrettanti punti proposti dal ministro Fornero nel suo documento. L’input della
discussione, avrebbe precisato il ministro, verrà dal governo e poi saranno le parti
sociali a rispondere con suggerimenti, indicazioni, critiche sui temi che a loro
interessano di più.
LA POSIZIONE DI CONFINDUSTRIA- «Nel breve periodo ci saranno forti
ristrutturazioni, quindi per ora miglioriamo quello che abbiamo», ha invece detto il
presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Ha poi aggiunto che «da noi c’è
una flessibilità minore che in Germania: noi dobbiamo concentrarci sugli abusi, non
dobbiamo toccare l’impianto delle varie forme di flessibilità». Ha ricordato che «il
tasso di occupazione italiano prima dei pacchetti Treu-Biagi era al 48%, oggi è al
58%, senza considerare la percentuale di sommerso che è altissima. Attenzionesottolinea- a ridurre forme di flessibilità in linea con l’Europa». Altra cosa sono gli
abusi: lì Confindustria è «in prima linea». Alle parti sociali «piacciono due cose in
particolare per favorire l’inserimento dei giovani: l’apprendistato e usare di più le
agenzie interinali».
IL DIKTAT DEI SINDACATI – «Non sono linee guida su cui si sviluppa il
confronto: vuol dire che non sono state condivise», precisa il leader della Cgil,
Susanna Camusso, indicando che non sarà sulla base del documento presentato
governo sul mercato del lavoro che si svilupperà una base di discussione. E ha
aggiunto: «Le parti sociali al tavolo sono tutte d’accordo sul fatto che non si può
superare la cassa integrazione straordinaria», quella tipologia di ammortizzatore
sociale, prevista in caso di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione
aziendale o a impresa assoggettata a procedura concorsuale di fallimento e
liquidazione coatta. E anche Raffaele Bonanni, segretario Cisl, è sembrato piuttosto
scettico sull’eventuale riforma degli ammortizzatori sociali: «Gli attuali
ammortizzatori possono essere una chance molto importante anche per il futuro».
«Con la cassa integrazione in deroga e la cassa integrazione straordinaria abbiamo
coperto tutti come mai successo e, per fortuna, l’abbiamo fatto in questo momento
di crisi», ha ricordato. «Se c’è da rivedere il loro funzionamento in termini di
finanziamento della formazione durante la sosta, anche noi- ha detto Bonannisiamo favorevoli a una misura drastica per tagliare l’evasione sulla formazione. Ma
limitatamene a questo e non su altro».
Marcegaglia: no al salario minimo.
Ammortizzatori vanno mantenuti
almeno per i prossimi due anni
(ilsole24ore.com, 25 gennaio 2012)
No al salario minimo «che rischia di disincentivare al lavoro» e sì al mantenimento
dell’attuale assetto degli ammortizzatori, cig straordinaria e mobilità, «per far
fronte alle moltissime ristrutturazioni da gestire». Sono questi i punti che per la
leader di Confindustia, Emma Marcegaglia, dovrebbero tornare al centro del
confronto tra governo e parti sociali per la riforma del mercato del lavoro.
«Noi rimaniamo convinti che in una situazione come quella italiana il salario
minimo rischia di disincentivare al lavoro: abbiamo un tasso di occupazione troppo
basso e rischiamo di avere, a salario minimo, 20 milioni di persone», spiega
lasciando viale dell’Astronomia al termine di un convegno sull’Expo. Non solo.
«Abbiamo già detto che per i prossimi due anni abbiamo moltissime
ristrutturazioni da gestire e quindi abbiamo bisogno di tutti gli strumenti che
abbiamo, cig straordinaria e mobilità che oltre tutto ci autofinanziamo», aggiunge,
ribadendo come gli imprenditori «per il futuro siano anche disposti a ragionare su
una nuova architettura» che però è ancora tutta da verificare. «Dobbiamo vedere
qual è la più efficiente, questa o quella che ha in mente il ministro con una cig
ridotta, sussidi di disoccupazione e salario minimo», prosegue.
Confindustria, ribadisce ancora Marcegaglia, «è aperta ad un ragionamento con
numeri alla mano, in modo serio senza voler erigere nessuna barriera contro». Ma,
ripete ancora, «i prossimi due anni, due anni e mezzo dobbiamo poter avere questi
strumenti a disposizione perchè avremo molte ristrutturazioni da gestire».
Marcegaglia ha anche annunciato che Confindustria e sindacati si incontreranno la
prossima settimana per mettere a punto una “lettura” congiunta sulla futura
riforma del mercato del lavoro dopo l’incontro con il governo dei giorni scorsi: «Su
alcuni punti mi pare abbiamo visioni comuni, dagli ammortizzatori sociali alla
flessibilità in entrata. Sugli altri punti vedremo perchè noi vogliamo anche parlare
di flessibilità in uscita», aggiunge. Un incontro, quello tra imprenditori e Cgil Cisl e
Uil che, secondo alcuni, potrebbe avvenire giá martedì o mercoledì prossimi.
«No al salario minimo, meglio la Cig»
La Marcegaglia contro il progetto del governo di riforma degli
ammortizzatori sociali
(corriere.it, 25 gennaio 2012, 16:28)
Governo bocciato sul fronte della riforma del lavoro. E questa volta a parlare non
sono i sindacati, ma Confindustria. Almeno per i prossimi due anni «abbiamo
bisogno di tutti gli strumenti che abbiamo». La presidente dell’Associazione degli
industriali Emma Marcegaglia lo dice parlando della riforma degli ammortizzatori
sociali. E aggiunge: «Abbiamo detto al ministro che siamo anche disponibili a
ragionare su una nuova architettura però poi bisogna verificare bene qual’è la più
efficiente».
RISTRUTTURAZIONI IN ARRIVO – Confindustria, ribadisce ancora Marcegaglia,
«è aperta ad un ragionamento con numeri alla mano, in modo serio senza voler
erigere nessuna barriera contro». Ma, ripete ancora, «i prossimi due anni, due anni
e mezzo dobbiamo poter avere questi strumenti a disposizione perchè avremo molte
ristrutturazioni da gestire».
SALARIO MINIMO – Marcegaglia, boccia l’ipotesi di un salario minimo. «Noi
rimaniamo convinti – spiega a margine di un convegno – che in una situazione
come quella italiana il salario minimo rischia di disincentivare il lavoro». In Italia,
secondo il numero uno degli industriali «abbiamo un tasso di occupazione troppo
basso e rischiamo di avere a salario minimo venti milioni di persone». Comunque
Marcegaglia si dice «aperta a ragionare con i numeri, in modo serio» e ribadisce che
Confindustria non erige «nessuna barriera contro».
Una lettera per la Camusso
che viene da lontano
di Eugenio Scalfari
(repubblica.it, 29 gennaio 2012)
Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione
vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso
debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro
pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli
operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire
la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai
occupati passa in seconda linea.
La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il
meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non
possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera
le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa
integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può
assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che
debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma,
mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in
permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha
puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto
che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti
sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la
forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia
aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra.
Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello
dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le
nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo
abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio
del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a
un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed
esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza
assoluta i lavoratori licenziati.
Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o
retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la
ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista
di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto
elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della
borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se
non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero
improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il
riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di
sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un
programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.
Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se
questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli
egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l’ho
scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne
condivide la sostanza. Si tratta invece d’una lunga intervista da me scritta
praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil.
Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che
culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua
esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva
uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da
Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del
Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l’elemento fondamentale della lotta al terrorismo
che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da
un lato e contro lo stragismo di destra e dei “servizi deviati” che facevano capo a
Gladio e alla P2.
Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due,
una economica e l’altra politica.
Chiedevano, e nell’intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo
e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui
temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della
distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.
Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli
anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980,
nell’82 e nell’84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità,
ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell’84 la
Federazione si ruppe. D’altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente
sfaldando sotto l’urto delle nuove tecnologie produttive e dell’economia globalizzata
e finanziarizzata.
Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo –
già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani – di fare del sindacato un
interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista
e innovatrice, che trae dall’emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare
i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai
conflitti d’interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi.
L’emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una
diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è
l’interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma
nazionale (come Lama aveva detto nell’intervista sopracitata) che anteponga
l’interesse generale del Paese al “particulare” delle singole categorie.
Perciò l’intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla
Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla
e del suo compito d’interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma
anche del bene comune.
Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli
elementi strutturali dell’economia e della politica; è cambiata la divisione
internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è
affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua
integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto
su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi
particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. “No taxation
without representation”, questo fu il motto della nascente democrazia liberale
inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d’una
società come la nostra dove l’85 per cento delle imposte personali gravano sui
lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della
vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i
miliardi che evadono secondo le stime dell’Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non
pagati.
I principali interessati al rinnovamento del Paese - ma meglio sarebbe dire alla
rifondazione dello Stato - sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se
saranno lungimiranti; se anteporranno l’interesse nazionale a quello particolare e
quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le
quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l’equità
impedisca la macelleria sociale.
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l’agenda non sia scritta dal governo
ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il
sindacato non ha. Forse l’avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l’Italia, ma
riguarda il mondo intero, riguarda l’Europa e in generale i paesi di antica opulenza
che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente
più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti
dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch’essi inesistenti
dell’immensa platea dei migranti. Ecco perché l’agenda dei problemi, delle
domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è
scritta dall’emergenza e dalla necessità di farvi fronte.
Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro
interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito.
Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo
sviluppo dell’economia italiana. Dipende dall’Europa ed ha del miracoloso il
prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione
berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla
competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la
produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal
salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il
sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà
propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni,
avrà fatto il dover suo.
La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e
neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata
se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori
sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella
macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in
presenza d’un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe
farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di
protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l’avrebbe voluto e ancora lo
vorrebbe l’ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.
Quante differenze dagli anni di Lama.
Oggi la precarietà è il primo problema
di Susanna Camusso
(repubblica.it, 30 gennaio 2012)
Caro Direttore, nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un’intervista a Luciano Lama,
della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione
“programmatica” dell’accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e
nella svolta dell’Eur.
La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre
allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall’inflazione, oggi siamo alla
perdita sistematica del loro potere d’acquisto e ciò rappresenta una ragione
importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e
retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa
diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui
le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.
La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a
reddito dei “capitalisti”, a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura
finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in
innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.
Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l’idea di
flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento
professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e
lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento
sui lavoratori dei rischi del fare impresa.
Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che
invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una
politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come
priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e
interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che
devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole
dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.
Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell’intervento pubblico, troppo
facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del
welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera
“assicurazione” o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta
propulsiva del puro consumismo.
Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non
possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero
mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo
perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche
industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il
pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è
primo indicatore.
A noi è chiara l’emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per
questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l’età
adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.
Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all’immediato e alla capacità di
programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività,
della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del
fisco.
Il coro sull’importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le
cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a
teorizzare l’assurdità che sarebbe per colpa dell’articolo 18. Al contrario, la
produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha
neanche incrementato l’occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui
sarebbe bene interrogarsi.
Per noi l’urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di
altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la
riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una
riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall’intervista di Lama è
realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che
comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una
stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere
professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della
conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori
dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l’emergenza con l’idea che
“qualunque cosa può essere fatta”.
Siamo i primi ad apprezzare che l’Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere
sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro
(nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e
l’equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la
certezza, che si affronta il ” nuovo” con uno strumento antico e che il fine non sia far
ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l’Italia ma
una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra
evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.
Questa è un’ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al
confronto su crescita e mercato dal lavoro: l’abbiamo preparato con un documento
unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l’orario
ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un
documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo
pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette
preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della
disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell’industria in
cinque anni.
Se non ora quando?
di Irene Tinagli
(La Stampa, 1° febbraio 2012)
Ormai non fa più nemmeno notizia: la disoccupazione giovanile in Italia non
accenna a scendere. Anzi, su base annua, continua a salire. Secondo i dati resi noti
ieri dall’Istat è al 31%. Fin dove dovrà arrivare perché questo Paese si decida a far
qualcosa e a farlo subito? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a politici, sindacalisti
e amministratori di vario livello e colore che continuare ad ignorare il problema,
ricordandosene solo per qualche slogan nei comizi, non farà cambiare direzione a
questo trend. Ma soprattutto qualcuno dovrebbe ricordare loro che questo
andamento ci porterà dritti dritti verso una situazione di gravissima insostenibilità
sociale ed economica. Non si tratta solo dei giovani, ma di tutti noi. Per capirsi: dire
che stiamo mangiando il futuro dei giovani è una sciocchezza. Perché in realtà
stiamo mangiando quello di tutta la nazione, incluso quello di tante signore e
signori che oggi guardano con compassione e commiserazione questi «poveri
ragazzi». Perché tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi
stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi
cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né
crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo
malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla
crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. Continuare a
dire che stiamo danneggiando il loro futuro, quindi, è miope e fuorviante. È come
guardare un orto che avvizzisce e pensare «povere piantine», scordandoci che senza
quelle piantine resteremo presto tutti senza mangiare.
È stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo
confezionando e su cui siamo seduti. E come molti ancora pensino che
semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i
figli, senza rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui
entrambi salteranno con le gambe all’aria. E i primi assaggi li avremo presto,
quando migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione resteranno scoperti.
Perché la cassa integrazione straordinaria, lo sappiamo bene, non ha fatto che
finanziare una lenta agonia, ma non ha reso né le aziende né i lavoratori più forti e
competitivi sul mercato. E anche quella bomba, presto, esploderà.
Domani inizia il tavolo tra ministro del Welfare e parti sociali. I segnali
«preparatori» di questi giorni non sono molto incoraggianti, con le parti sociali che
hanno già lanciato veti e allarmi preventivi. I sindacati hanno messo le mani avanti
su cassa integrazione e articolo 18, intoccabile perché questione di «civiltà»
(qualcuno dovrà prima o poi dire a Francia, Danimarca, Spagna, Inghilterra e a
molti altri Paesi europei quanto siano incivili). E anche Confindustria pare molto
allarmata per l’ipotesi di riformare la cassa integrazione straordinaria un costo di
miliardi di euro che lo Stato si sta sobbarcando da anni per dare tempo alle imprese
di «ristrutturarsi» (un tempo che però sembra non arrivare mai). La convergenza di
interessi tra sindacati e industria su alcuni dei temi chiave della riforma che da
domani sarà in discussione dà un’idea abbastanza chiara delle cause
dell’ingessamento della nostra economia, e dell’incapacità di una buona parte del
nostro sistema produttivo di aprirsi ai giovani così come alle nuove tecnologie e
all’innovazione.
È in parte comprensibile che una parte sociale che ha impostato tanta parte della
sua ragion d’essere sul tema della difesa del posto di lavoro prima ancora che del
lavoratore in sé (perché prima si difende il posto, l’«inamovibilità», poi si parla di
formazione, crescita, competenze etc.) sia pronta a dar battaglia sul comma di un
articolo. Così come può essere comprensibile che un’associazione di industriali che
tanto hanno beneficiato (e spesso approfittato) degli aiuti dello Stato siano adesso
spaventati da riforme che potrebbero rendergli la strada più difficoltosa. E c’è da
riconoscere che la crisi non ha aiutato: con essa sono aumentate paure e
insicurezze, ed è più facile per rappresentanti politici e di categoria cavalcare certe
paure che assumersi la responsabilità di un’azione coraggiosa che le sfidi.
Ma quando domani si troveranno tutti allo stesso tavolo per discutere una riforma
che, pur non essendo l’unica soluzione al problema dei giovani, rappresenta un
tassello fondamentale dell’insieme di misure che il governo sta attuando, c’è da
sperare che le varie parti ritrovino questo coraggio. E che preferiscano sfidare le
paure e gli interessi di parte per il bene comune, piuttosto che restare schiavi di un
copione che l’Italia legge ormai da troppi anni.
Posto fisso, Camusso contro Monti:
«Si vogliono togliere tutele ai lavoratori»
Il segretario generale Cgil interviene anche su Mirafiori: «Svoltiamo verso
l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?»
(corriere.it, 2 febbraio 2012, modificato il 3 febbraio 2012)
«Questa polemica sul fatto che non è più il tempo del posto fisso è un po’ stantia,
non è tanto moderna, e nasconde l’idea che bisogna togliere tutele ai lavoratori». È
critica Susanna Camusso sulla frase del premier Mario Monti, che mercoledì aveva
definito «monotono» il posto fisso. La segretaria generale della Cgil è ospite della
trasmissione di Michele Santoro «Servizio pubblico». Una puntata dedicata a
rispondere alla domanda «L’eguaglianza, in questa crisi, dov’è? Si salverà l’Italia, o
solo una sua parte?». Tema caldo, il precariato, con Sandro Ruotolo in collegamento
dal centro sociale Tpo di Bologna. Oltre alla Camusso, in studio c’è il giuslavorista
Michele Tiraboschi.
CAMUSSO – «Il 30% dei giovani è senza lavoro, vuol dire che uno su tre vorrebbe
poter annoiarsi» ironizza la segretaria generale Cgil . «La verità è che si è voluta
creare una giungla di rapporti di lavoro per inseguire la flessibilità – prosegue -.
Dobbiamo tornare ad un mercato del lavoro normale». «Un medico ha la possibilità
di cambiare, ma se uno fa il saldatore non può andare a fare il chirurgo. C’è un
rapporto con le professionalità che ci sono e con il modello che proponi al Paese: se
proponi di cambiare è per abbassare la condizione delle persone» argomenta la
Camusso.
CRISI – Nel corso della serata si parla anche di crisi. E la Camusso torna all’attacco:
«In questo momento nel Paese il pensiero è che siamo sull’orlo del baratro e che
questo governo ci salverà. Ma non sono così convinta che la ricetta europea di rigore
finanziario ci porterà fuori dalla crisi. Per noi vuol dire recessione».
FIAT – Nella seconda parte della trasmissione, c’è spazio per la Fiat. «Né la Fiom né
la Cgil hanno mai detto che non volevano investimenti a Mirafiori, anzi» precisa la
Camusso. Quindi spiega: «Vorremmo sapere quali investimenti si vogliono fare. La
domanda che rimane legittima è se si deve lavorare in qualunque condizione,
perché poi c’è lo schiavismo alla fine di questo discorso. Siamo sicuri che non si stia
pensando di dismettere la produzione Fiat nel Paese? Siamo sicuri di volere non
investire in tecnologie alternative? Possiamo fare queste domande a Fiat? Svoltiamo
verso l’innovazione o facciamo i cinesi d’Europa?».
Marcegaglia: articolo 18 è sul tavolo,
reintegro valga per licenziamenti discriminatori
(ilsole24ore.com, 2 febbraio 2012)
«Nessun documento è stato presentato dal ministro Fornero, che ha indicato gli
obiettivi che il Governo si pone con questa riforma ricordando che è importante per
l’Europa e i mercati». Lo riferisce la leader di Confindustria, Emma Marcegaglia,
dopo il tavolo a Palazzo Chigi sulla riforma del mercato del lavoro. Che aggiunge:
«Abbiamo ribadito con forza che l’Europa, i mercati, gli investitori aspettano di
vedere come faremo questa riforma, è un elemento essenziale. Questa riforma è
fondamentale».
Articolo 18? Reintegro valga per licenziamenti discriminatori
Gli industriali dunque sostengono la road map fissata oggi dall’esecutivo e e
mettono in fila anche le loro priorità. A cominciare da un diverso perimetro di
applicazione per l’articolo 18. «Pensiamo – ha sottolineato – che il tema del
reintegro deve valere per tutti i casi di licenziamenti discriminatori o casi per cui la
legge dice che il licenziamento è nullo. Ci sono casistiche molto chiare per cui la
reintegra deve valere. È un fatto di civiltà. In tutti gli altri casi – ha aggiunto la
leader degli industriali – dobbiamo diventare europei. Ci deve essere un’indennità
di licenziamento». Secondo Marcegaglia quello dell’articolo 18 è un «tema da porre
in modo più ampio. È sul tavolo, può essere un modo per aumentare l’occupazione.
Sono d’accordo con quanto detto da Monti: non deve essere più in tabù. È un tema
posto, è sul tavolo».
La leader degli industriali: la cassa integrazione straordinaria sarà
mantenuta
Quanto agli altri tasselli all’esame del tavolo esecutivo-parti sociali, come la
possibilità di intervenire sulla cassa integrazione, Marcegaglia è chiarissima. «La
Cig e la Cigs saranno mantenute». Il muro eretto dai sindacati regge dunque. E
trova una spona nelle imprese. «Abbiamo tutti ribadito e mi pare il ministro sia
d’accordo che in un momento difficile come questo con aziende in difficoltà non
possiamo toccare gli attuali strumenti». Altrimenti, avverte, «il lavoratore resta
senza aiuto. Poi si potrà disegnare più avanti una presenza maggiore dei sussidi di
disoccupazione e meno strumenti sulla mobilità».
Marcegaglia: riforma va fatta, su alcuni punti accordo possibile
Intanto per Marcegaglia si può lavorare di più «sulle politiche attive del lavoro» e
sull’apprendistato che «va usato meglio». Infine bisogna fare in modo che un
lavoratore che percepisce un sussidio e non accetta una proposta di lavoro «perda il
sussidio». La trattativa dunque va avanti e Marcegaglia si dice d’accordo con la
volontà del Governo di portare a casa il risultato. «Siamo d’accordo che la riforma
vada fatta» e, assicura il presidente degli industriali, «faremo tutti gli sforzi possibili
per lavorare e avere, su alcuni punti, l’accordo tra tutte le parti».
Marcegaglia: “Il sindacato non protegga i ladri”.
Reazione infuriata: “parole offensive”
Il leader degli industriali ha detto di non volere l’abolizione dell’art 18, ma
invita i sindacati a non proteggere i «fannulloni»
(corriere.it, 21 febbraio 2012, 21:54)
È bufera sul presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che parlando di
articolo 18 ha invitato i sindacati a «non proteggere ladri e fannulloni».
Affermazioni che hanno mandato su tutte le furie il sindacato con in testa il leader
della Cgil Camusso che parla di «affermazioni offensive» «Noi non vogliamo abolire
l’articolo 18 – aveva detto Emma Marcegaglia – il reintegro deve rimanere per i casi
discriminatori, ma vogliamo poter licenziare le persone che non fanno bene il loro
mestiere». E poi rivolta ai sindacati: «Vorremmo avere un sindacato che non
protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro».
CATTIVA FLESSIBILITA’ – La presidente di Confindustria ha sottolineato come
anche gli industriali vogliono una revisione della «flessibilità cattiva» in entrata,
ossia «siamo consapevoli che ci sono stati degli abusi e questi vanno combattuti».
Ma d’altra parte «vogliamo rivedere anche la flessibilità cattiva in uscita». A questo
proposito, ha ricordato l’episodio che vide al centro di una contestazione il
segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «La persona che aveva tirato un candelotto a
Bonanni era in malattia: il datore di lavoro – ha detto – lo licenziò, il giudice lo ha
riassunto». Certo, una revisione dell’art.18 «sarà molto difficile ma noi non
molliamo, andiamo avanti» pur volendo comunque lasciarlo per tutti quegli atti
discriminatori ma «vogliamo poter licenziare quelli che non fanno il loro lavoro».
GOVERNO VADA AVANTI – Quindi l’invito al governo: «Credo che sia giusto che
nel caso in cui non si arrivi ad un accordo il governo vada avanti e faccia la riforma
che deve fare, stiamo lavorando con grande attenzione e senso di responsabilità».
Ha comunque sottolineato che non bisogna toccare gli ammortizzatori sociali «per
almeno due anni». «Adesso stiamo in un momento di crisi drammatica, di
recessione anche se per il 2013 – ha affermato – si prevede una ripresa. Ma
l’impatto delle ristrutturazioni e delle riconversioni industriali farà sentire i suoi
effetti almeno per tutto il 2013». A fronte di questa situazione ha sottolineato come
l’attuale sistema di ammortizzatori sociali «ha dimostrato di funzionare» ma gli
industriali «non sono contrari a ragionare su una nuova architettura» degli
ammortizzatori sociali.
SINDACATI INDISPETTTI – Risentita la reazione della Cgil. Laconico il commento
del segretario della Cgil Susanna Camusso: «La trovo offensiva». Più articolato il
ragionamento del segretario confederale Fulvio Fammoni che parla «di cose non
vere che offendono e mettono in discussione il ruolo del sindacato confederale
italiano. La presidente di Confindustria deve smentire queste affermazioni»
Interviene anche la Cisl: «La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale
sindacato parla» afferma il segretario generale Raffaele Bonanni. «Non so di quale
sindacato parla la Marcegaglia la mia organizzazione si è sempre presa le proprie
responsabilità di fronte alle scompostezze degli imprenditori e pure di alcune realtà
sindacali». Mentre il segretario della Uil Luigi Angeletti ha tenuto a ribadire che la
sua organizzazione «non protegge assenteisti cronici nè ladri. Gli imprenditori
possono dire altrettanto?».
MARCEGAGLIA PRECISA – Una selva di reazioni che ha indotto il leader della
confindustria a precisare: «Nessuna mancanza di fiducia e rispetto nei sindacati
confederali, con i quali abbiamo firmato l’importante accordo del 28 giugno sul
lavoro e con i quali stiamo conducendo una trattativa seria e costruttiva.» Ma
comunque ha tenuto a puntualizzare. «Va tuttavia rimarcato che a volte l’articolo 18
diventa un alibi dietro il quale si possono nascondere dipendenti infedeli,
assenteisti cronici e fannulloni».
Scontro Marcegaglia-sindacati.
Bersani: “Senza intesa, sì non scontato”
La leader degli industriali durissima contro i rappresentanti dei lavoratori
che difendono “ladri e assenteisti cronici”. Poi la parziale rettifica:
“Nessuna mancanza di fiducia”. Gelida la replica di Susanna Camusso:
“La trovo offensiva”. Dal segretario del Pd avviso a Monti: “Non condivido
la tesi di andare avanti anche senza accordo”
(repubblica.iit, 21 febbraio 2012)
Non è stata una giornata di mediazioni, sul fronte del lavoro. Prima il duro scontro
tra Confindustria e sindacati dopo un’affermazione di Emma Marcegaglia:
“Vorremmo un sindacato che lotta anche fortemente con noi per tutelare il lavoro,
ma che non protegge assenteisti cronici, ladri e chi non fa bene il proprio lavoro”
(video 1). Una battuta che ha scatenato dure reazioni dai sindacati e che ha
avvelenato un clima già difficile, dopo che il presidente del Consiglio Mario Monti
ha annunciato l’intenzione di andar avanti sulla riforma del lavoro 2 anche in
assenza di un accordo con le parti. “Non condivido la tesi di andare avanti anche
senza accordo – ha avvertito Pierluigi Bersani dai microfoni del Tg3 – Se non ci sarà
accordo, il Pd valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base delle nostre
proposte”. “In questo momento di recessione – prosegue – serve la riforma ma
serve anche la coesione. Serve una scommessa insieme e sono convinto che il
governo è impegnato a raggiungere un accordo. Il Pd seguirà quell’accordo”.
Una presa di posizione, quella della Marcegalgia, che non è piaciuta alla Cgil che, a
stretto giro di posta, ha prima risposto attraverso Twitter ed è poi intervenuta
attraverso il suo leader Susanna Camusso. “La trovo offensiva”, ha affermato la
segretaria, mentre il commento affidato alla rete replica così: “Dire, come fa
Marcegaglia, di volere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e chi
non fa il proprio lavoro è davvero troppo. Sono affermazioni non vere che offendono
e mettono in discussione il ruolo del sindacato confederale. Le smentisca”.
Sostenere che “l’articolo 18 sia un ostacolo a licenziare – ha poi aggiunto Camusso –
significa dire che si vuole una logica per cui se hai gli occhi azzurri, tu puoi essere
licenziato: si chiama discriminazione”. Per questo, ha proseguito, “noi diciamo di
no, non perché difendiamo i privilegi di qualcuno contro altri, ma per l’idea che
quando sei un lavoratore hai dei diritti e dei doveri e se hai solo dei doveri non sei
una persona libera”. Queste, ha concluso Camusso, “sembrano banalità ma non lo
sono, quando in una grande impresa non si viene più assunti se hai in tasca la
tessera Fiom-Cgil”.
Contrattacca anche la Cisl. “La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale
sindacato parla – dice il il segretario Raffael Bonanni – La mia organizzazione si è
sempre presa le proprie responsabilità di fronte alle scompostezze degli
imprenditori e pure di alcune realtà sindacali”. Caustica pura la battuta del leader
della Uil Luigi Angeletti: “La Uil non protegge assenteisti cronici nè ladri. Gli
imprenditori possono dire altrettanto?”.
Così, in serata, è arrivata anche la rettifica della Marcegaglia. “Nessuna mancanza di
fiducia e rispetto nei sindacati confederali, con i quali abbiamo firmato l’importante
accordo del 28 giugno sul lavoro e con i quali stiamo conducendo una trattativa
seria e costruttiva”, ha precisato. “Va tuttavia rimarcato – aggiunge – che a volte
l’articolo 18 diventa un alibi dietro il quale si possono nascondere dipendenti
infedeli, assenteisti cronici e fannulloni”.
La presidente di Confindustria aveva attaccato i sindacati in un passaggio del suo
intervento in cui affrontava il tema caldo dell’articolo 18: “Non vogliamo la sua
abolizione, rimanga per casi di licenziamento per discriminazione”.
Marcegaglia: “Riforma anche senza accordo”. Nel suo intervento, la Marcegaglia
aveva affrontato a lungo i temi della crisi: “Ora siamo in una situazione drammatica
e l’impatto sull’occupazione durerà più a lungo. Chiediamo che per almeno due anni
non vengano toccato gli attuali ammortizzatori sociali”.
Poi l’affondo: “Credo che sia giusto che nel caso in cui non si arrivi ad un accordo il
Governo vada avanti e faccia la riforma che deve fare”. Così Confindustria spalleggia
la posizione del governo nella trattativa sul mercato del lavoro. “Stiamo lavorando –
ha detto Marcegaglia – con grande attenzione e senso di responsabilità”.
Posizione condivisa dal Pdl, che in serata ha replicato al monito di Bersani.
Nell’incontro di domani con Mario Monti, ha detto il segretario Angelino Alfano
parlando al Tg5, il Pdl chiederà di andare avanti con le riforme senza farsi
condizionare”. “Se i partiti politici hanno deciso di sostenere questo governo, se il
Pdl e Silvio Berlusconi hanno deciso di sostenere questo governo, lo hanno fatto
nella convinzione che non si farà condizionare”, ha aggiunto. Dunque, soprattutto
sul mercato del lavoro, garantisce Alfano, “noi chiederemo di andare avanti, perchè
la riforma del mercato del lavoro serve per assumere di più, non per licenziare
meglio”.
Riforma lavoro, tensione nel Pd.
Bersani: il sì non è scontato, art. 18 principio civiltà
«No all’idea di andare avanti senza intesa tra le parti». La posizione del
segretario allarma l’area montiana del partito
(ilmessaggero.it, 21 febbraio 2012, 22:53)
La riforma del mercato del lavoro rischia di diventare l’ora “x” dell’appoggio del Pd
al governo Monti e della tenuta interna del Partito democratico. «Senza accordo
valuteremo in Parlamento se votare sì» è la condizione che Pier Luigi Bersani pone
al governo, sottolineando come l’appoggio non sia scontato. «Non condivido la tesi
di andare avanti anche senza accordo – dice Bersani – Se non ci sarà accordo, il Pd
valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base delle nostre proposte. In
questo momento di recessione serve la riforma, ma serve anche la coesione. Serve
una scommessa insieme e sono convinto che il governo è impegnato a raggiungere
un accordo. Il Pd seguirà quell’accordo».
Bersani: articolo 18 principio di civiltà. Bersani oggi ha anche risposto all’attacco
sferrato da Marcegaglia ai sindacati. «Conoscendola, credo che Marcegaglia si
pentirà un po’ della battuta – ha detto – Nessuno difende fannulloni o ladri ma
l’articolo18 è un principio di civiltà garantito anche in altri Paesi. Poi è vero che
serve una manutenzione per renderlo più gestibile, ad esempio sui tempi troppo
lunghi della giustizia».
Alta tensione nel Pd. La posizione di Bersani sulla riforma allarma l’area
“montiana” del partito, lettiani e veltroniani, già in tensione per l’annuncio del
responsabile economico Stefano Fassina di partecipare alla manifestazione della
Fiom, pronta alle barricate per l’articolo18. Lo scontro, apertosi dentro il Pd, dopo
l’intervista di Walter Veltroni sull’articolo 18 e sul sostegno al governo Monti, non
accenna a placarsi, anche se il segretario la considera “fuorviante” rispetto ai
problemi del Paese e al fatto che «il Pd non è alternativo a Monti, ma respira con
due polmoni e noi vogliamo essere alternativi alla destra… poi Monti e i suoi
ministri potranno decidere come respirare». Un modo per ribadire la centralità dei
partiti sia nella vita di questo governo ma soprattutto dopo, e uno stop a chi non
esclude un governo di larghe intese, magari a guida di un tecnico, anche dopo le
elezioni del 2013.
Riforma del lavoro banco di prova. La riforma del mercato del lavoro si annuncia un
banco di prova duro per i democratici. Fassina non ha intenzione di arretrare:
ribadisce che sull’articolo 18 «il Pd non è spaccato» perché Veltroni rappresenta
una minoranza. «Andare avanti a scomuniche e bolle papali distrugge tutto il buono
che abbiamo costruito in questi anni» avverte Enrico Letta, in realtà preoccupato di
lasciare il governo Monti alla destra. «Prendere le distanze da Monti – incalza il
lettiano Francesco Boccia – è un autogol. Fassina deve semplicemente capire che
nessuno deve abusare del ruolo che ricopre perché così si fanno danni alla casa
comune». Perché, spiegano fonti democratiche, se il sostegno al governo dei tecnici
fosse messo in dubbio si potrebbe arrivare ad una conta congressuale.
Bersani: se non ci sarà accordo sulla riforma valuteremo in Parlamento. E per
capire il clima, basta vedere la reazione dei lettiani all’annuncio di Fassina di
partecipare alla manifestazione della Fiom: «Basta con le provocazioni, non si può
condividere le posizioni della Fiom e allo stesso tempo sostenere il governo»,
reagisce Marco Meloni. Bersani invita a tenere i nervi saldi, fiducioso che il governo
riuscirà a trovare un’intesa con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro. A
quell’intesa, qualsiasi sia, però, ribadisce, è legato l’ok del Pd in Parlamento. «Non
condivido la tesi – spiega il segretario Pd – di andare avanti anche senza accordo.
Se non ci sarà accordo, il Pd valuterà in Parlamento quel che viene fuori sulla base
delle nostre proposte ma in questo momento di recessione serve la riforma ma serve
anche la coesione». Una linea che trova d’accordo anche Rosy Bindi, anche
contraria per una riforma del Porcellum che favorisca “grandi coalizioni”. «Questo
governo – sostiene il presidente del Pd – ha ricevuto la nostra fiducia per portare il
Paese fuori dalla crisi ma non si può pensare che in questo momento l’Italia possa
permettersi di approvare importanti riforme strutturali senza la coesione e la pace
sociale».
Riforma delle pensioni,
per la Cgil “un furto legalizzato”
Centinaia di migliaia di lavoratori fuori dal lavoro e senza pensione,
oppure costretti a pagare una seconda volta i contributi previdenziali. Il
patronato Inca Cgil non usa mezzi termini per definire la “ricongiunzione
onerosa” dei contributi. Domanda a Fornero: “Può una nuova legge
cancellare contratti e accordi già firmati?”
di Francesco Piccioni
(ilmanifesto.it, 22 febbraio 2012)
Un «furto legalizzato», ma anche «il delirio di un folle». Si sta parlando degli effetti
concreti della prodigiosa «riforma delle pensioni» approvata in pochi giorni dal
governo Monti.
L’Inca Cgil ha voluto limitare la sua denuncia, ieri, soltanto a due «effetti diretti» di
quel provvedimento, nel timore – fondato – che i giornalisti si perdessero negli
infiniti meandri una una «riforma» fatta secondo criteri che ricordano il
tracciamento coloniale dei confini di certi paesi sahariani: con la riga e la squadra,
senza guardare chi cadeva dentro o fuori.
Il primo punto riguarda i cosiddetti «esodati», lavoratori messi fuori dalla
produzione grazie ad accordi sottoscritti con l’azienda e con il governo, secondo le
regole pensionistiche in vigore fino al 4 dicembre 2011. Gente al momento senza
pensione, senza più posto di lavoro e spesso persino senza ammortizzatori sociali.
La platea identificata dall’Inca comprende quanti sono ancora in mobilità o che
stavano per andarci, ma anche chi è uscito per crisi e ristrutturazione aziendale,
quanti sono stati convinti dall’azienda ad uscirsene con incentivi, ché tanto le
pensione era lì a un passo.
La «riforma» ha confermato il taglio dei ponti alle spalle, ma ha allontanato il
traguardi di molti anni (fino a 7, in alcuni casi). Il loro numero è stato quantificato
dall’Inps in 70.000, inizialmente; ma si riferisce solo ai casi già arrivati
all’attenzione dell’istituto, ossia accordi siglati prima del 4 dicembre. Ma da allora
sono andati in porto dismissioni importanti (Termini Imerese e Irisbus, per dirne
due), con migliaia di persone coinvolte. La manovra prevedeva una «cifra x», da
decidere, per «coprire» queste posizioni; ma ammoniva anche che si trattava di un
fondo «a esaurimento»: finché c’erano soldi si paga, poi amen. Con buona parte di
un diritto fin qui certo (l’andare in pensione dopo una vita di lavoro).
L’iter parlamentare del «milleproroghe», che doveva porre riparo alla
«disattenzione» del governo, peggiorava addirittura la situazione: veniva allargata
la platea dei possibili beneficiari, ma il fondo rimaneva uguale. La Cgil – spiegano
sia Vera Lamonica (segretario confederale) che Morena Piccinini, presidente
dell’Inca – chiede di sapere se «gli accordi con il governo sono validi o no?»; e, dal
ministro, «qual’è l’atto riparativo riparativo che ha promesso e quando sarà
deliberato». Ma il ministro Fornero, per ora, non ha mai neppure risposto.
La seconda questione è in prospettiva persino più esplosiva, anche se già ora sta
facendo danni formidabili. Si parla della «ricongiunzione contributiva onerosa»,
una misura decisa dal governo Berlusconi – ai tempi della sua «riforma delle
pensioni. Avendo deciso di equiparare l’età pensionabile delle donne a quelle degli
uomini, nel pubblico impiego (uno «scalone» di ben 5 anni), si pensava che molte
avrebbero preferito ritirarsi subito, anche prendendo un assegno minore. Quindi,
per scoraggiarle, fu deciso di far loro pagare la «ricongiunzione» tra i diversi periodi
contributivi della loro vita lavorativa. Ben poche vi fecero ricorso, ma la norma è
rimasta.
L’attuale governo ha avuto il colpo di genio, rivelando solo qui una «competenza
tecnica» degna di miglior causa: ha esteso a tutti questa norma. Con effetti letali.
Misura decisa «per equità», perché «era necessario metter fine ai privilegi», dice il
governo. Mentendo. La «ricongiunzione» – tra istituti che oltretutto sono in corso
di unificazione, come Inpdap e Inps – è sempre stata gratuita per chi passava da un
trattamento migliore a uno peggiore; onerosa solo per il viceversa. Ora pagano tutti,
a prescindere.
La tragedia nasce dal fatto che si è obbligati a pagare – e cifre inconcepibili, per un
lavoratore dipendente: decine di migliaia di euro – se per caso, pur avendo fatto
sempre lo stesso lavoro nella stessa azienda, è cambiata la «ragione sociale» della
ditta. È il caso delle Poste e Ipost, con persone contributivamente trasferite – per
decisione dell’allora a.d., Corrado Passera – dall’Inpdap (statali) all’Inps (privati).
Ora dovrebbero ripagarsi una seconda volta tutto un (lungo) periodo contributivo
già versato, altrimenti la loro pensione sarà quella di uno che ha lavorato appena
20-25 anni. Di fatto, gli anni di contributi non utilizzabili sono incamerati senza un
servizio corrispettivo. È dunque legittimo parlare di «furto legalizzato», con lo Stato
nella parte del ladro.
Ma si trovano nella stessa situazione anche tutti coloro che sono stati «privatizzati»
(le municipalizzate, Telecom, Alitalia, ecc), scorporati, esternalizzati, o riassunti da
una «newco» (pensate a Fiat? toccherà anche a loro, ovvio). Per non dire dire dei
giovani che, secondo gli stessi ministri, «devono abituarsi a cambiare spesso
lavoro». Cosa accadrà quando, com’è giusto, dovranno «ritirarsi»? Quanto
dovranno versare per «riunificare» una carriera lavorativa svolta sotto 12 o 20
società diverse, tra periodi mancanti o fasi da «partita Iva»? Di fatto, quello che era
il diritto alla pensione per chi ha sempre lavorato, diventa ora «una lotteria», o un
diritto puramente «ipotetico». Ossia l’esatto contrario di un diritto garantito dallo
Stato.
La Cgil minaccia ovviamente cause legali. Ma a lavoratori che pure hanno lo stesso
problema sembra impossibile persino praticare la strada della class action. Pare che
il genio legislativo che l’ha materialmente scritta l’abbia congegnata in modo tale da
renderla inapplicabile; perlomeno in casi simili. Un comma 22.
La domanda che anche in casa Cgil sorge al termine di questa disarmante
ricognizione è abbastanza precisa: «ma una nuova legge può sciogliere contratti e
regole precedenti, liberamente sottoscritti da soggetti indipendenti e persino dallo
Stato?». In regime di democrazia, no. Può accadere solo in caso di golpe o di
rivoluzione. Ma, quest’ultima, non l’abbiamo vista passare.
Riprende la trattativa:
il nodo degli ammortizzatori
Il premier Monti vuole varare la riforma “entro marzo”. Il cuore del
modello Fornero è la riduzione degli ammortizzatori sociali, per estenderli
a tutti. È questo il grande inganno della contrapposizione tra “garantiti” e
“senza protezioni”. Cgil: “Non faremo come con le pensioni”.
di Francesco Piccioni
(ilmanifesto.it, 12.03.2012)
Sarà certo un caso, ma il «confronto» sulla cosiddetta riforma del mercato del
lavoro riprende solo dopo lo sciopero generale dei metalmeccanici. E la sensazione
– forte – è che in Cisl, Uil, governo e Confindustria prevalga la tentazione di
considerlo «tra parentesi», quasi un momento di sfogo purtroppo «dovuto», dopo il
quale riprendere serenamente a parlar d’altro.
La serie degli incontri – iniziata con il famoso «fare presto» assunto da questo
esecutivo come marchio di fabbrica – era stata sospesa un paio di settimane fa per
un motivo semplice: il governo non sapeva dove trovare i soldi per rendere concreta
la prima delle «riforme» che compongono il pacchetto-lavoro: gli ammortizzatori
sociali. È noto che il ministro Elsa Fornero ha in testa un modello alquanto
spartano, rispetto all’attuale: mantenere soltanto la cassa integrazione ordinaria
(durata massima 12 mesi, per le «crisi temporanee») e sostituire tutte le altre forme
(cig straordinaria «per ristrutturazione», cig in deroga per i settori esclusi, mobilità
fino a tre anni – per gli «over 50» dopo la chiusura dell’impresa) con un’ indennità
di disoccupazione della durata massima di 12 mesi.
Una perdita secca, per chi perde il lavoro «a tempo indeterminato», mal
compensata dall’estensione di questa indennità anche ai precari, che attualmente
non hanno alcun sostegno. «Mal compensata» perché, per questa estensione, il
governo ha detto fin da subito di non avere fondi; né nell’immediato, né a regime. E
risulta indigeribile per chiunque accettare che un «qualcosa di insufficiente» e «per
pochi» sia sostituito dal «nulla per tutti».
In queste due settimane, dunque, il governo dovrebbe aver trovato il modo di
finanziare in modo stabile e continuativo questo nuovo ammortizzatore. Dando per
scontato di poter far passare l’idea che minori tutele per «i garantiti» sia un gesto
«equo», se accompagnato da un qualcosina per chi non ha protezioni. Resta fin qui
indeterminato, comunque, l’ammontare mensile di questa – eventuale – indennità.
E non è un dettaglio secondario.
Gli altri capitoli del «confronto», fino al fatidico articolo 18 lasciato «per ultimo»,
verranno affontati nelle prossime due settimane. Ma ormai i tempi sembrano
stretti: non c’è giorno in cui Mario Monti non ripeta che «la riforma sarà varata
entro marzo». Con il consenso dei sindacati oppure senza. Le dichiarazioni della
vigilia servono sempre a delimitare il campo di gioco, a far capire fin dove si è
disposti a «concedere» alla controparte, a far intuire i «punti di caduta» che
possono essere poi rivenduti – da tutti – come «vittorie».
È il gioco tipico di ogni fase di trattativa. Susanna Camusso, segretario generale
della Cgil, parlando da New York, ha messo i suoi paletti, sia rispetto al governo che
davanti alle richieste interne – salite a chiare lettere da pizza S. Giovanni, venerdì –
di proclamazione di uno sciopero generale di tutte le categorie. Al governo ha fatto
capire che «siamo impegnati nel confronto anche per quanto riguarda gli elementi
di cambiamento» e in particolare «allargare la copertura degli ammortizzatori
sociali è un nostro obiettivo». Ma «senza risorse non è realizzabile». Anche perché
«non è riproducibile un modello come quello utilizzato per le pensioni, in cui si
toglie a chi ha e non si dà nulla a chi verrà».
Al governo (e alla sinistra interna, partendo dalla Fiom) ha invece se «è in cerca
dello scalpo dei licenziamenti più facili» si rischia ovviamente una risposta del
movimento sindacale. Che non sarà però «una fiammata» – ovvero uno sciopero
generale – ma «una tensione sociale di lungo periodo». Un accenno indeterminato,
certamente, ma che è stato sufficiente a scuotere Raffaele Bonanni, capo assoluto
della Cisl: «spero che il governo voglia un accordo innovativo ed equilibrato e non
fornisca alibi o dia stura a chi minaccia o rincorre tensioni sociali».
Sintassi faticosa, ma significato trasparente: il governo trovi qualche soldo, così non
si dà spazio alla Cgil o, peggio, alla Fiom. Se si trattasse soltanto di pantomima
politico-sindacale, sarebbe solo noia. Ma la recessione morde. I dati sulle richieste
di cassa integrazione di gennaio sono esemplari. Un totale di 82 milioni di ore, che
se fossero tutte utilizzate – il fenomeno è noto: le aziende in genere chiedono più
ore di quante pensano di usarne – corrispondono a 480mila lavoratori che
rischiano il posto. In un solo mese.
È una tendenza generalizzata, perché cresce sia l’ ordinaria (25 milioni di ore,
+23,9% rispetto a gennaio), sia la straordinaria (25 milioni, +20,4); mentre quella
in deroga letteralmente esplode: 31 milioni di ore e +134% sul mese precedente. Un
trend insostenibile, anche perché la cig in deroga – al contrario delle altre due
forme, che sono co-finanziate con contributi da imprese e lavoratori – è totalmente
a carico della fiscalità generale. A fine anno il costo totale si aggirerebbe sui 2,1
miliardi. Forse le «tensioni sociali» di cui parla Camusso possono esplodere più qui
– con assai meno controllo – che non dalle mobilitazioni centellinate in base
all’avanzamento di un «confronto» di cui si sa obiettivamente poco. E quel poco
non è per nulla buono. Né «equo».
In attesa della riforma del lavoro
i collaboratori e i parasubordinati
Sono 1,5 milioni, sono sotto i 10mila euro annui Sono dipendenti di fatto e
sognano il posto fisso
di Walter Passerini
(lastampa.it, 15 marzo 2012)
Un terzo dei 4,5 milioni di precari, che attendono con ansia gli esiti della trattativa
per la riforma del mercato del lavoro, appartengono alla categoria dei
parasubordinati. Poi ci sono le finte partite Iva. I parasubordinati sono giovani (uno
su due ha meno di 40 anni), sono in continua crescita e sono relativamente poveri.
Sono a metà del guado, i protagonisti di prestazioni limbiche, a metà tra l”inferno
della precarietà assoluta usa e getta e il paradiso del posto fisso sognato.
È in questo mare che nuotano i collaboratori di tutte le razze. Come rileva
l”indagine Isfol Plus che ha elaborato i dati di fonte Inps dal 2005 al 2010, sono un
esercito di 1,5 milioni di persone, con caratteristiche e sfumature diverse. Tra di loro
spiccano le due sottocategorie dei più noti cocopro, i collaboratori a progetto, che
sono quasi la metà (676mila), e quella degli amministratori o sindaci di società, che
sono più di un terzo (497mila). Seguono i cococo presso le amministrazioni
pubbliche (54mila) e i dottori e dottorandi di ricerca (49mila), ma di questa grande
famiglia fanno parte anche gli associati in partecipazione (52mila), gli occasionali
(autonomi e collaboratori), i venditori porta a porta e altri ancora. I meglio pagati
sono gli amministratori e sindaci di società.
Le cariche aziendali rendono loro oltre 31mila euro lordi annui. Sono i collaboratori
più ricchi e con un”età media maggiore. I collaboratori a progetto, invece, che sono
la categoria più numerosa, prendono invece meno di 10mila euro l”anno (9.885),
sono i più giovani (per oltre un terzo sotto i 30 anni, quasi due terzi sotto i 39 anni),
ma soprattutto nella quasi totalità (84,2%) sono a regime contributivo esclusivo,
vale a dire che non hanno altre attività. In soldoni, costoro sono un esercito di
570mila cocopro, che si arrabattano e vivono in modo esclusivo con 8.500 euro
lordi l”anno. Altro che Generazione mille euro. Secondo l”osservatorio Isfol Plus, un
altro dato rivelatore è quello della qualità della subordinazione. I parasubordinati
messi sotto la lente affermano in grande maggioranza (70%) di essere tenuti a
garantire la presenza presso la sede di lavoro, di dover garantire anche un orario
giornaliero di lavoro (67%) e di utilizzare nello svolgimento della loro prestazione
mezzi e strumenti che appartengono allo stesso datore di lavoro. Insomma, la
fotografia che ne emerge è più quella di lavoratori dipendenti che di lavoratori
autonomi. Ma l”affermazione più destabilizzante è un”altra: il 70% dei collaboratori
dichiara di non aver scelto spontaneamente la formula contrattuale, ma di averla
dovuta adottare su esplicita richiesta del datore di lavoro. E” soprattutto su queste
figure che la riforma del lavoro in corso tra governo e parti sociali dovrà accendere
un faro, per dividere le vere collaborazioni autonome dai dipendenti travestiti da
collaboratori. Sul totale, i parasubordinati sono spaccati anagraficamente a metà: il
49% è sotto i 39 anni, il 51% è fatto da over 40. Sempre sull”intera torta, prevalgono
gli uomini (58,1%) sulle donne, mentre si riproducono e si enfatizzano alcuni dei
classici differenziali di genere: se il reddito medio maschile è di 22mila euro, quello
femminile è la metà (11.284 euro).
Lavoro, la mossa di Cgil, Cisl e Uil:
contro-proposta sull’articolo 18
Documento da presentare al governo con l’appoggio del Pd. Oggi il vertice
fra i tre leader. Bersani: “La via è il modello tedesco”. Bonanni regista
della mediazione: “Non facciamoci distruggere”
di Roberto Mania
(repubblica.it, 19 marzo 2012)
USCIRE dall’angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l’accordo con le parti
sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta
come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare
l’ultima mossa, la “mossa del cavallo”, secondo una consumata strategia negoziale:
presentarsi all’appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario
sull’articolo 18.
Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti
all’accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per
sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito
democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione
condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei
licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E
a maggio ci sono le amministrative.
Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele
Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al
termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista:
Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull’Aventino, dopo
aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l’ipotesi di un intervento
sull’articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia
l’accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità
internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al “tavolo di Milano” di sabato
scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di
chiedere l’estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese
che oggi non ce l’hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso
Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori
dalla riforma del mercato del lavoro significhi “distruggere il sindacato italiano”.
Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema
pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro “la nostra
prerogativa più intima”, sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi
ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre
stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per
rincollare tutti i cocci.
Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil.
Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d’Italia si pensa che Bersani, come gli altri
due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le
proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il
premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. “Un
pasticcio”, dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei
toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver
schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo
conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi
interlocutori: “È stato un errore dire che al vertice era stato fatto l’accordo sul
lavoro. L’accordo si fa al tavolo negoziale”.
L’errore, il leader democrat, lo imputa – va detto – al governo. Ma Bersani dice
pure – abbracciando davvero l’ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil – che “il governo si
trova davanti a una alternativa: o accettare il “modello tedesco” oppure quello della
deregulation americana. E l’impressione è che dentro l’esecutivo ci sia ancora
qualcuno che sia tentato dallo strappo finale”. Il “modello tedesco”, dunque.
Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che
la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom
di Maurizio Landini in testa l’accusa di non avere alcun mandato a trattare la
modifica dell’articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla
Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che
solo parzialmente aderisce al “modello tedesco”.
Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento
individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a
decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo
monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il “modello tedesco”
stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari.
Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e
la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per
questi, stabilendo invece l’indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa
a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di
emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati
dai sindacati. È una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di
tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo “sarebbe allora
il governo – dice il laburista Fassina – a doversi assumere la responsabilità di
dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino”.
Ministero: “Statali esclusi da nuovo art. 18”
Giuslavoristi: “Concessioni, governo mente”
Una nota del dipartimento della funzione pubblica dice che le novità sui
licenziamenti si applicheranno anche ai dipendenti pubblici. E scatena la
polemica. Camusso e Angeletti: “Non è vero”. Alla fine Patroni Griffi
chiarisce con una nota. Intanto 53 esperti da Bologna accusano: alcune
tutele erano già previste: o il governo è “disinformato” o è “spregiudicato”
(repubblica.it, 21 marzo 2012)
ROMA – A fine serata arriva la precisazione del ministero della Pubblica
amministrazione: “Le modifiche all’art.18 contenute nella riforma del mercato del
lavoro non riguarderanno gli statali. Non a caso al tavolo non partecipa il ministro
della Funzione Pubblica, Patroni Griffi”. Una nota che pone fine alla querelle durata
per ora. Cominciata, all’inizio del pomeriggio, quando il Dipartimento della
funzione pubblica fa sapere che le nuove norme sui licenziamenti si applicheranno
anche agli statali.
Una mezza rivoluzione rispetto a uno degli steccati storici dell’occupazione in Italia:
quello che separa il lavoro nel pubblico dal privato in tema di licenziamenti. In tal
caso, anche per gli statali il reintegro in caso di licenziamento ingiustificato sarebbe
assicurato solo in caso di licenziamento discriminatorio.
La leader Cgil Susanna Camusso, in conferenza stampa, ribatte alla “strana” nota
del Dipartimento della Funzione pubblica. “Licenziamenti nel pubblico, non può
essere”. Luigi Angeletti: “La legge 300 si applica al lavoro privato. Quindi l’articolo
18 in essa contenuto non si applica e non si è mai applicato al settore pubblico –
dichiara il segretario generale della Uil in conferenza stampa -. Quindi, le modifiche
apportate non si applicano. Se il governo ha pensato di cambiare io non ne so nulla
e, comunque, non ci è stato comunicato nulla né in forma orale, né scritta. Nella
pubblica amministrazione tutto viene regolato per legge: salari, regolamenti,
disciplina”. Il leader Cisl Raffaele Bonanni: “Mi ricordo che la Fornero disse che il
pubblico impiego non era coinvolto. A noi non risulta e comunque siamo contrari”.
Alla fine, dal ministero della Pubblica amministrazione, arriva una nota: “Solo dopo
la definizione del testo che riguarda la riforma del mercato del lavoro si potranno
prendere in considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico”.
Insomma, aspettiamo che vengano messe a punto le norme.
Intanto finiscono nel mirino alcune norme presentate dal governo come una novità
in sede di trattativa, quando in realtà si tratterebbe di tutele “già acquisite da anni”.
È quanto sostengono da Bologna 53 personalità, tra professori ed esperti di diritto
del lavoro, che giudicano “sconcertante” l’atteggiamento del governo, perché
“disinformato” o, in alternativa, “spregiudicato.
Primi firmatari della nota sono Umberto Romagnoli, Luigi Mariucci, Piergiovanni
Alleva, Giovanni Orlandini e Sergio Matone, cui seguono i nomi di 21 esperti
bolognesi e quelli di altri da Torino (tra i firmatari Luciano Gallino, professore di
Sociologia all’università), Firenze, Milano e Roma. Che puntano l’indice, in
particolare, sulle due normative annunciate oggi a tutela dei lavoratori: l’obbligo di
assumere un lavoratore a tempo indeterminato dopo 36 mesi di contratti a termine
e l’estensione dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamento discriminatorio
anche in un’azienda con meno di 16 dipendenti.
Tutele che, a detta degli esperti, esistono già da tempo nel nostro ordinamento, ma
che il governo presenta come nuove “per far digerire la pillola delle modifiche
peggiorative”. Nello specifico, i 53 giuslavoristi indicano che l’estensione
dell’obbligo di reintegro nelle piccole aziende è previsto dall’articolo 3 delle legge
109 del 1990, mentre il termine massimo dei 36 mesi è previsto dall’articolo 5
comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001.
Riforma articolo 18 per gli statali,
estensione possibile, ma non subito
Il Testo Unico del 2001 impone l’applicazione dello Statuto dei lavoratori
anche ai dipendenti pubblici, ma prevede discipline normative diverse
anche sui licenziamenti che il governo si riserva di valutare
di V. Gualerzi
(repubblica.it, 22 marzo 2012)
ROMA – Sì, no, forse. La possibilità che la modifica dell’articolo 18 decisa dal
governo nell’ambito della riforma del mercato del lavoro possa essere applicata
anche al pubblico impiego non è chiarissima, soprattutto se si presta attenzione ai
commenti rilasciati ieri da diversi esponenti del governo e del mondo sindacale 1.
Dopo un crescendo di battute e polemiche, una parola definitiva sembra essere
arrivata con la precisazione serale del ministero della Pubblica Amministrazione
che nel sottolineare che le modifiche all’articolo 18 “non riguarderanno gli statali”,
ha ricordato come il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi non fosse
neppure presente al tavolo della trattativa.
Resta da capire se lo stop del governo, arrivato dopo una imbarazzante confusione
che sembra andare di pari passo con le critiche rivolte alla sua comunicazione sulla
riforma 2 da un gruppo di illustri giuslavoristi, sia frutto solo di una valutazione di
opportunità politica o l’effetto di ostacoli oggettivi di tipo giuridico che ne
potrebbero fermare l’estensione anche a fronte di un crescente movimento di
opinione.
La Legge 20 maggio 1970, n. 300 contenente “Norme sulla tutela della libertà e
dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” (meglio conosciuta come Statuto dei
lavoratori) afferma chiaramente che l’articolo 18 si applica “nelle unità produttive
con più di 15 dipendenti (5 se agricole); nelle unità produttive con meno di 15
dipendenti (5 se agricole) se l’azienda occupa nello stesso comune più di 15
dipendenti (5 se agricola); nelle aziende con più di 60 dipendenti”.
Nessun accenno quindi al settore pubblico, al quale viene però applicato lo Statuto
dei lavoratori in base al comma 2 dell’articolo 51 della legge 165/2001 (Testo unico
sul pubblico impiego) dove si afferma che “la legge 20 maggio 1970, n. 300, e
successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a
prescindere dal numero dei dipendenti”. Un principio ribadito anche da una
importante sentenza della Cassazione (la n. 2233 dell’1 febbraio 2007) che ha
stabilito come per il recesso del rapporto di lavoro degli impiegati pubblici (e dei
dirigenti, a questi assimilati), valgono le stesse norme che regolano il licenziamento
dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ovvero l’articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori, e il diritto alla reintegrazione.
L’applicazione dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti pubblici sancito dal Testo
unico prevede però una disciplina normativa diversa da quella del settore privato,
compresa quella relativa ai licenziamenti. Senza contare che il punto più
controverso dell’attuale modifica dell’articolo 18 riguarda il rischio di un’estensione
generalizzata dei licenziamenti motivati con ragioni economiche, valutazione tipica
del settore privato, ma di difficile interpretazione in quello statale.
Per questo, al netto delle valutazioni di opportunità politica, la migliore fotografia
della situazione sembra essere contenuta nella nota diramata nel pomeriggio di ieri
dal ministero della Funzione Pubblica per chiarire che “solo all’esito della
definizione del testo di riforma del mercato del lavoro si potranno prendere in
considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico”. E se effetti ci
saranno “si valuterà se ricorra l’esigenza di norme che tengano conto delle
peculiarità del lavoro pubblico”.
Insomma, alla fine la riposta ai dubbi sull’estensione della riforma dell’articolo 18 ai
lavoratori pubblici potrebbe non essere né “sì”, né “no”, bensì “non ancora”.
La riforma del mercato del lavoro
in una prospettiva di crescita
Il documento di riforma del mercato del lavoro presentato alle parti sociali
dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (approvato dal Consiglio
dei Ministri il 23 marzo 2012)
1. PREMESSA
La riforma si propone di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e
inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di
qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti
assicurativi.
Gli interventi prefigurati si propongono di
1. ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi
propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e
adeguando la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi
oggettivi alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento;
2. rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e
delle politiche attive a contorno;
3. rendere premiante l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili;
4. contrastare usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali
esistenti.
Tra le parti esiste una forte e inscindibile connessione sistemica, che sostiene la
necessità della condivisione e dell’approvazione della riforma nel suo complesso.
L’efficacia della loro attuazione richiederà un impegno per accrescere l’efficacia e
l’efficienza di tutte le strutture oggi preposte, a livello regionale e nazionale, a questi
profili del mercato del lavoro. Questo è l’auspicio che il Governo pone nel
presentare la riforma nell’interesse complessivo del Paese, per il funzionamento del
mercato del lavoro, lo sviluppo e la competitività delle imprese, la tutela
dell’occupazione e dell’occupabilità dei suoi cittadini. Per monitorare lo stato di
attuazione della riforma e per valutare gli effetti delle sue singole componenti
sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità
di uscita e di entrata, sarà previsto l’immediato avvio di un adeguato sistema di
monitoraggio e valutazione.
Con riguardo al settore del lavoro pubblico, eventuali adeguamenti alle disposizioni
del presente intervento saranno demandati a successive fasi di confronto.
2. TIPOLOGIE CONTRATTUALI
Una prima area di intervento riguarda gli istituti contrattuali esistenti. L’azione
mira a preservarne gli usi virtuosi e a limitarne quelli impropri, al solo scopo di
abbattere il costo del lavoro aggirando gli obblighi previsti per i rapporti di lavoro
subordinato.
L’impianto generale individua un percorso privilegiato che vede nell’apprendistato
– inteso nelle sue varie formulazioni e platee – il punto di partenza verso la
progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Pur mirando a favorire la costituzione di rapporti di lavoro stabili, la riforma
intende preservare la flessibilità d’uso del lavoro necessaria a fronteggiare in modo
efficiente sia le normali fluttuazioni economiche, sia i processi di riorganizzazione.
A questo fine sono previsti:
• interventi puntuali che limitino l’uso improprio e distorsivo di alcuni istituti
contrattuali e, quindi, la precarietà che ne deriva;
• una ridefinizione delle convenienze economiche relative dei diversi istituti
contrattuali che tenga conto del rispettivo grado di flessibilità e – di conseguenza –
del costo atteso a carico del sistema assicurativo che ne deriva;
• una più equa distribuzione delle tutele, con interventi sulla flessibilità in uscita
rivolti a reprimere pratiche scorrette (ad esempio, le cosiddette dimissioni “in
bianco”), a rafforzare le tutele per licenziamenti discriminatori, ad adeguare al
mutato contesto economico la disciplina dei licenziamenti individuali, in particolare
quelli per motivi economici;
• una adeguata modulazione del regime transitorio degli istituti.
Di seguito sono illustrate le principali linee di intervento sulla disciplina delle
tipologie contrattuali e sulla regolazione del ricorso alle forme contrattuali flessibili.
2.1 - Contratto a tempo determinato
I rapporti di lavoro regolati da questo istituto presentano una maggiore
propensione, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato, all’attivazione di
strumenti assicurativi. Coerentemente con questa caratteristica, si prevede un
incremento del relativo costo contributivo (aliquota 1,4%), destinato al
finanziamento dell’ASpI (vedi di seguito).
Nello spirito della direttiva europea n. 99/70/CE, il contrasto ad un’eccessiva
reiterazione di rapporti a termine tra le stesse parti è perseguito tramite
l’ampliamento dell’intervallo tra un contratto e l’altro a 60 giorni nel caso di un
contratto di durata inferiore a 6 mesi, e a 90 giorni nel caso di un contratto di
durata superiore (attualmente, 10 e 20 giorni).
Nel contempo, tenuto conto delle possibili esigenze organizzative delle imprese con
riguardo al completamento delle attività per le quali il contratto a termine è stato
stipulato, si prevede un prolungamento del periodo durante il quale il rapporto a
termine può proseguire oltre la scadenza per soddisfare esigenze organizzative, da
20 a 30 giorni per contratti di durata inferiore ai 6 mesi e da 30 a 50 giorni per
quelli di durata superiore.
Nella logica di contrastare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma
l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il
contratto a tempo indeterminato, viene previsto che il primo contratto a termine –
intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa
per qualunque tipo di mansione - non debba più essere giustificato attraverso la
specificazione della causale di cui all’art.1 del Dlgs 368/01, fermi restando i limiti di
durata massima previsti per l’istituto. Si stabilisce, inoltre, che ai fini della
determinazione del periodo massimo di 36 mesi (comprensivo di proroghe e
rinnovi) previsto per la stipulazione di contratti a termine con un medesimo
dipendente vengano computati anche eventuali periodi di lavoro somministrato
intercorsi tra il lavoratore e il datore/utilizzatore.
Nel caso in cui il contratto a termine sia dichiarato illegittimo da un giudice, il
regime continuerà ad essere basato sul doppio binario della “conversione” del
predetto contratto e del riconoscimento al lavoratore di un importo risarcitorio
compreso tra 2,5 e 12 mensilità retributive secondo quanto previsto dall’art. 32,
comma 5, della legge n. 183/2010 (cd. Collegato lavoro), di recente dichiarato
legittimo dalla sentenza n. 303/2011 della Corte costituzionale.
Sono peraltro prefigurati, in merito a tale regime, due tipi di interventi. Da un lato,
per scoraggiare il contenzioso sull’argomento, si ribadisce che l’indennità di cui
sopra, in quanto prevista dalla legge come “onnicomprensiva”, copre tutte le
conseguenze retributive e contributive derivanti dall’illegittimità del contratto a
termine. Dall’altro lato, si propone di adeguare, tenuto conto dei nuovi termini
previsti per il rinnovo il periodo per l’impugnazione stragiudiziale del contratto a
termine dalla cessazione dello stesso (da 60 a 120 giorni), fermo restando – allo
stato - il termine per l’impugnazione giudiziale (330).
2.2 - Contratto di inserimento
Compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, si razionalizzano –
concentrandole sui lavoratori ultra cinquantenni disoccupati da almeno 12 mesi - le
risorse impegnate nelle agevolazioni contributive previste, allo stato, nell’ambito
della forma contrattuale del contratto di inserimento (che è, come è noto, un
contratto a tempo determinato). Tali agevolazioni consistono nella riduzione del
50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di 12
mesi nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato (e ulteriori 6 mesi nel caso
di successiva stabilizzazione, da fruirsi al termine del periodo di prova ove previsto)
e di 18 mesi se il lavoratore è assunto a tempo indeterminato.
2.3 - Apprendistato
Sulla premessa, condivisa da tutte le parti sociali, di individuare nell’apprendistato,
articolato nelle tipologie previste, il canale privilegiato di accesso dei giovani al
mondo del lavoro, la riforma rispetta sostanzialmente l’impianto del d.lgs. n.
167/2011, della quale Regioni e parti sociali dovranno promuovere
l’implementazione entro il termine attualmente fissato del 25 aprile 2012.
Vengono inoltre proposti alcuni interventi volti ad enfatizzare i contenuti formativi
dell’istituto:
• introduzione di un meccanismo in base al quale l’assunzione di nuovi apprendisti
è collegata alla percentuale di stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (50%)
con l’esclusione dal computo della citata percentuale dei rapporti cessati durante il
periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa;
• innalzamento del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a
3/2;
• durata minima di sei mesi del periodo di apprendistato, ferma restando la
possibilità di durate inferiori per attività stagionali e fatte salve le eccezioni previste
nel T.U.;
Si ritiene altresì che anche durante l’eventuale periodo di preavviso al termine del
periodo di formazione continui ad applicarsi la disciplina dell’apprendistato. Sino a
quando non sarà operativo il libretto formativo la registrazione della formazione è
sostituita (come di fatto già accade, ma con incertezze degli operatori) da apposita
dichiarazione del datore di lavoro. In tal senso potrà essere previsto uno schema, da
definirsi in via amministrativa, per orientare il datore di lavoro.
2.4 - Contratto di lavoro a tempo parziale
Al fine di incentivare l’impiego virtuoso dell’istituto, ostacolandone l’uso come
copertura di utilizzi irregolari di lavoratori, si propone di istituire, nei soli casi di
part-time verticale o misto, un obbligo di comunicazione amministrativa secondo
modalità snelle e non onerose (sms, fax o PEC) e contestuale al già previsto
preavviso di 5 giorni da dare al lavoratore in occasione di variazioni di orario attuate
in applicazione delle clausole elastiche o flessibili.
Si intende inoltre prevedere, in caso di rilevanti motivi personali precisati dalla
legge e in altre eventuali ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, la facoltà del
lavoratore di esprimere un “ripensamento” nel caso di part-time flessibile o elastico.
2.5 - Contratto di lavoro intermittente
Al fine di contenere il rischio che lo strumento del contratto di lavoro intermittente,
o “a chiamata”, possa essere utilizzato come copertura nei riguardi di forme di
impiego irregolare del lavoro, si prevede l’obbligo di effettuare una comunicazione
amministrativa preventiva, con modalità snelle (sms, fax o PEC), in occasione di
ogni chiamata del lavoratore.
Si intende abrogare, per ripristinare la funzione originaria dello strumento,
l’articolo 34, comma 2, del d.lgs. 276/2003, secondo cui “Il contratto di lavoro
intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese
da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di
quarantacinque anni di età, anche pensionati”.
Si intende abrogare l’articolo 37 del D.Lgs. 276/2003, a norma del quale “Nel caso
di lavoro intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana, nonché nei
periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali l'indennità di
disponibilità di cui all'articolo 36 è corrisposta al prestatore di lavoro solo in caso
di effettiva chiamata da parte del datore di lavoro. Ulteriori periodi
predeterminati possono esser previsti dai contratti collettivi stipulati da
associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale o territoriale”.
2.6 - Lavoro a progetto
Gli interventi proposti sul regime delle collaborazioni a progetto vanno nella
direzione di una razionalizzazione all’istituto, al fine di evitarne utilizzi impropri in
sostituzione di contratti di lavoro subordinato.
Tale obiettivo è perseguito prevedendo disincentivi tanto normativi quanto
contributivi.
Tra i primi, una definizione più stringente del “progetto”, che non può consistere in
una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa committente; la
tendenziale limitazione dell’istituto a mansioni non meramente esecutive o
ripetitive così come eventualmente definite dai contratti collettivi, al fine di
enfatizzarne la componente professionale; l’introduzione di una presunzione
relativa in merito al carattere subordinato della collaborazione quando l’attività del
collaboratore a progetto sia analoga a quella svolta, nell’ambito dell’impresa
committente, da lavoratori dipendenti fatte salve le prestazioni di elevata
professionalità; l’eliminazione della facoltà di introdurre nel contratto clausole
individuali che consentono il recesso del committente, anteriormente alla scadenza
del termine e/o al completamento del progetto (resterebbe ferma la possibilità di
recedere per giusta causa, per incapacità professionale del collaboratore che renda
impossibile l’attuazione del progetto, e per cessazione dell’attività cui il progetto è
inerente); l’abolizione del concetto di “programma”.
È proposta, infine, una norma interpretativa sul regime sanzionatorio, che
chiarisce, d’accordo con la giurisprudenza di gran lunga prevalente (ma superando
la posizione già assunta dal Ministero del lavoro con la precedente circolare n.
1/2004), che in caso di mancanza di un progetto specifico il contratto a progetto si
considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Sul versante contributivo, è introdotto un incremento dell’aliquota contributiva IVS
degli iscritti alla Gestione separata INPS, così da proseguire il percorso di
avvicinamento alle aliquote previste per il lavoro dipendente, nei termini che
seguono.
Aliquote non iscritti ad altra
gestione
Aliquota iscritti ad altra gestione o
pensionati
2013
28
19
2014
29
20
2015
30
21
2016
31
22
2017
32
23
2018
33
24
2.7 - Partite IVA
Per razionalizzare il ricorso a collaborazioni professionali con titolarità di partita
IVA, sono proposte norme volte ad evitarne utilizzi impropri in sostituzione di
contratti di lavoro subordinato.
Sono introdotte norme rivolte a far presumere, salvo prova contraria (ferma
restando, cioè, la possibilità del committente di provare che si tratti di lavoro
genuinamente autonomo), il carattere coordinato e continuativo (e non autonomo
ed occasionale) della collaborazione tutte le volte che essa duri complessivamente
più di sei mesi nell’arco di un anno, da essa il collaboratore ricavi più del 75% dei
corrispettivi (anche se fatturati a più soggetti riconducibili alla medesima attività
imprenditoriale), e comporti la fruizione di una postazione di lavoro presso la sede
istituzionale o le sedi operative del committente. Tali indici presuntivi possono
essere utilizzati disgiuntamente nel corso delle attività di verifica.
Qualora l’utilizzo della partita IVA venga giudicato improprio, esso viene
considerato una collaborazione coordinata e continuativa (che la normativa non
ammette più in mancanza di un progetto), con la conseguente applicazione della
relativa sanzione di cui all’art.69 comma 1 del Dlgs 276/03.
2.8 - Associazione in partecipazione con apporto di lavoro
Si prevede di preservare l’istituto solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1°
grado o coniugi.
2.9 - Lavoro accessorio
Sono previste misure di correzione dell’art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, come
modificato dalla legge n. 33/2009 e n. 191/2009, finalizzate a restringere il campo
di operatività dell’istituto e a regolare il regime orario dei buoni (voucher). Si
intende inoltre consentire che i voucher siano computati ai fini del reddito
necessario per il permesso di soggiorno.
2.10 - Tirocini formativi (stage)
Nel rispetto dei profili di competenza regionale, si individuano, unitamente alle
regioni stesse, misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei
tirocini formativi e di orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini
di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto
dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato. Ciò tramite la
previsione di linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della
disciplina sul territorio nazionale.
Potranno in ogni caso essere previste misure, riconducibili alla esclusiva
competenza dello Stato, volte a disciplinare i periodi di attività lavorativa che non
costituiscono momenti del percorso di tirocinio formativo, ad evitare un uso
strumentale e distorto delle attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio.
3. DISCIPLINA SULLA FLESSIBILITA’ IN USCITA E TUTELE
DEL LAVORATORE
3.1 - Revisione della disciplina in tema di licenziamenti individuali
Un passaggio significativo del disegno di riforma è l’intervento realizzato sulla
disciplina dei licenziamenti individuali, per quanto concerne, in particolare, il
regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, previsto dall’art. 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300, cd. Statuto dei lavoratori.
Va precisato subito, peraltro, che di tale regime rimane immutato il campo di
applicazione, che comprende, di massima e fatte salve situazioni particolari come
quelle delle organizzazioni cd. di tendenza, i datori di lavoro, imprenditori e non
imprenditori, aventi più di 15 dipendenti nell’ambito comunale, o più di 60
nell’ambito nazionale. Questo comporta che il regime applicabile ai licenziamenti
illegittimi disposti dalle piccole imprese continua ad essere fissato dall’art. 8 della
legge 15 luglio 1966, n. 604 (a parte l’ipotesi dei licenziamenti discriminatori su cui
infra).
Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 18 prefigura, fondamentalmente,
l’articolazione fra tre regimi sanzionatori del licenziamento individuale illegittimo, a
seconda che del licenziamento venga accertata dal giudice: a) la natura
discriminatoria o il motivo illecito determinante; b) l’inesistenza del giustificato
motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (licenziamenti cd.
soggettivi o disciplinari); c) l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto
dal datore di lavoro (licenziamenti cd. oggettivi o economici).
Poiché la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro diviene, nel
nuovo contesto normativo, molto importante, è prevista una correzione della regola
attualmente posta dall’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nel senso di rendere
obbligatoria l’indicazione, nella lettera di licenziamento, dei motivi del medesimo.
a) Per i licenziamenti discriminatori, le conseguenze rimangono quelle del testo
attuale dell’art. 18: condanna del datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal predetto, a
reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a risarcire al medesimo i danni
retributivi patiti (con un minimo di 5 mensilità di retribuzione), nonché a versare i
contributi previdenziali e assistenziali in misura piena. Inoltre, il dipendente
mantiene la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della
reintegrazione, il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, la
cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
Il medesimo regime si applica per i licenziamenti disposti nel periodo di maternità,
in concomitanza del matrimonio, nonché disposti per motivo illecito ai sensi
dell’art. 1345 del codice civile.
La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane, pertanto, piena ed
assoluta, comportando esso la lesione di beni fondamentali del lavoratore, di rilievo
costituzionale.
b) Per i licenziamenti soggettivi o disciplinari, il regime sanzionatorio prevede
un’articolazione interna.
Nell’ipotesi in cui accerta la non giustificazione del licenziamento per l’inesistenza
del fatto contestato al lavoratore ovvero la riconducibilità dello stesso alle condotte
punibili con una sanzione minore alla luce delle tipizzazioni di giustificato motivo
soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili (situazioni che
denotano un uso particolarmente arbitrario del potere di licenziamento), il giudice
annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del
dipendente e al risarcimento dei danni retributivi patiti, dedotto quanto percepito o
percepibile dal lavoratore, entro un massimo di 12 mensilità di retribuzione. V’è
altresì condanna al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali, dedotto
quanto coperto da altre posizioni contributive eventualmente accese nel frattempo.
In questa ipotesi, il lavoratore mantiene, infine, la facoltà di scegliere, in luogo della
reintegrazione, un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità.
Il regime di cui sopra (reintegrazione) si applica anche ai licenziamenti intimati,
prima della scadenza del periodo cd. di comporto, a causa della malattia nella quale
versa il lavoratore, ed a quelli motivati dall’inidoneità fisica o psichica del
lavoratore, ma trovati illegittimi dal giudice.
Nelle altre ipotesi di accertata illegittimità del licenziamento soggettivo o
disciplinare, non v’è condanna alla reintegrazione bensì al pagamento di
un’indennità risarcitoria che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità
di retribuzione, tenuto conto di vari parametri.
Il regime da ultimo descritto (indennità risarcitoria) vale anche per le ipotesi di
licenziamento viziato nella forma o sotto il profilo della procedura disciplinare.
Tuttavia, in questi casi, se l’accertamento del giudice si limita alla rilevazione del
vizio di forma o di procedura, esso comporta l’attribuzione al dipendente di
un’indennità compresa fra 7 e 14 mensilità di retribuzione; ciò a meno che il giudice
accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso
applica le tutele di cui sopra.
c) Per i licenziamenti oggettivi o economici, ove accerti l’inesistenza del giustificato
motivo oggettivo addotto, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro disponendo
il pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva,
che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto
conto di vari criteri.
Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti
oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni, di natura discriminatoria o
disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è
stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice
applica la relativa tutela.
Per questo tipo di licenziamenti è previsto, altresì, l’esperimento preventivo di una
rapida procedura di conciliazione innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro, non
appesantita da particolari formalità, nell’ambito della quale il lavoratore potrà
essere assistito anche da rappresentanti sindacali, e potrà essere favorita la
conciliazione tra le parti.
Deve essere infatti rilevato, in generale, che la predeterminazione dei possibili
importi del risarcimento che può essere preteso del lavoratore licenziato
illegittimamente è rivolta a rendere tale risarcimento indipendente dalla durata del
processo, e ad incoraggiare la definizione consensuale delle liti, con un benefico
effetto di riduzione del contenzioso (a prescindere dalle misure processuali
illustrate infra, § 3.2).
Il regime di cui sopra deve essere coordinato, altresì, con quello dei licenziamenti
collettivi, nei limiti in cui per essi vale l’art. 18, con l’applicazione, per i vizi di tali
licenziamenti, del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti economici.
3.2 - Rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento
Al fine di consentire la riduzione dei tempi del processo per quanto concerne le
controversie giudiziali in tema di licenziamento, si propone, attraverso l’azione di
concertazione istituzionale con il Ministero della Giustizia, l’introduzione di un rito
speciale specificamente dedicato a tali controversie.
Nel quadro di tale rito, una volta dettati i termini della fase introduttiva, è rimessa
al giudice la scansione dei tempi del procedimento, nel rispetto del principio del
contraddittorio e della parità delle armi nel processo.
Si tratta di un rito con caratteristiche di celerità e snellezza, ma che, in ossequio alla
specificità del processo del lavoro, rivolto tradizionalmente all’accertamento della
verità materiale, prevede un'istruzione vera e propria, sia pure con l'eliminazione
delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio.
4. AMMORTIZZATORI SOCIALI
Gli interventi previsti mirano a ripristinare la coerenza tra flessibilità e coperture
assicurative, ad ampliare e rendere più eque le tutele fornite dal sistema, a limitare
le numerose distorsioni e spazi per usi impropri insiti in alcuni degli strumenti
attualmente esistenti. A questo scopo si riordinano e migliorano le tutele in caso di
perdita involontaria della propria occupazione; si estendono le tutele in costanza di
rapporto di lavoro ai settori oggi non coperti dalla Cassa integrazione e
straordinaria; si prevedono strumenti che agevolino la gestione delle crisi aziendali
per i lavoratori vicini al pensionamento.
La proposta di riforma si articola su tre pilastri:
• Assicurazione sociale per l’Impiego (ASpI), a carattere universale
• Tutele in costanza di rapporto di lavoro (Cigo, Cigs, fondi di solidarietà)
• Strumenti di gestione degli esuberi strutturali
Un sistema siffatto è ritenuto essenziale per garantire una copertura adeguata dal
rischio di disoccupazione (totale o parziale), eliminando pertanto la necessità di
intervenire con provvedimenti ad hoc, caratterizzati da ampia discrezionalità
(deroghe).
4.1 - Assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) Situazione a regime
La riforma si caratterizza, a regime, rispetto all’attuale sistema di assicurazione
contro la disoccupazione involontaria, per un incremento dell’ambito soggettivo di
copertura.
Dal punto di vista degli importi e delle durate vi è una convergenza rispetto agli
attuali trattamenti di disoccupazione ordinaria e di mobilità.
La nuova Assicurazione sociale per l’impiego è destinata a sostituire i seguenti
istituti oggi vigenti:
• indennità di mobilità;
• indennità di disoccupazione non agricola ordinaria;
• indennità di disoccupazione con requisiti ridotti;
• indennità di disoccupazione speciale edile (nelle tre diverse varianti)
4.1.1 - Ambito
L’ambito di applicazione viene esteso – tra i lavoratori dipendenti - agli apprendisti
e agli artisti, oggi esclusi dall’applicazione di ogni strumento di sostegno del reddito.
Restano coperti dalla nuova assicurazione tutti i lavoratori dipendenti del settore
privato ed i lavoratori delle Amministrazioni pubbliche (art. 1, comma 2, D.Lgs.
165/2011) con contratto di lavoro dipendente non a tempo indeterminato (es.
tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, etc.).
Con riferimento ai collaboratori coordinati e continuativi, pur esclusi dall’ambito di
applicazione dell’ASpI, si rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum
oggi previsto.
4.1.2 - Requisiti
Requisiti di accesso analoghi a quelli che oggi consentono l’accesso all’indennità di
disoccupazione non agricola ordinaria: 2 anni di anzianità assicurativa ed almeno
52 settimane nell’ultimo biennio
4.1.3 - Durata massima
12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età
18 mesi per i lavoratori con almeno 55 anni di età (nel limite delle settimane di
lavoro nel biennio di riferimento)
4.1.4 - Importo
• eliminazione del massimale basso (931,28); resta il massimale alto (1.119,32,
rivalutati annualmente sulla base dell’indice dei prezzi FOI)
• percentuale di commisurazione a scaglioni:
- 75% fino alla retribuzione di 1.150 euro (rivalutati annualmente sulla base
dell’indice dei prezzi FOI);
- 25% per la parte di retribuzione superiore a 1.150 € e fino al massimale;
• abbattimento del 15% dell’indennità dopo i primi 6 mesi e di un ulteriore 15%
dopo altri 6 mesi
• retribuzione di riferimento legata all’intero periodo biennale di contribuzione
Importi delle indennità in relazione alla retribuzione di riferimento in base alla
vecchia modalità di calcolo ed alle nuove modalità
La nuova ASpI concede trattamenti iniziali pressoché analoghi all’indennità di
mobilità per le retribuzioni fino a 1.200 euro mensili (comprensivi dei ratei di
mensilità aggiuntive), e decisamente più elevati per quelle superiori a tale livello. In
confronto con l’indennità di disoccupazione non agricola ordinaria è sempre più
favorevole, fatta eccezione per le retribuzioni comprese tra 2.050 e 2.200 € mensili.
4.1.5 - Nuova occupazione
Si prevede che i periodi di lavoro inferiori a 6 mesi sospendano il trattamento, con
ripresa alla fine del periodo di lavoro (ai fini dell’applicazione del decalage). I
periodi di lavoro superiori a 6 mesi fanno ripartire il trattamento (in presenza dei
requisiti contributivi).
4.2 - Assicurazione sociale per l’Impiego – trattamenti brevi (MiniASpI)
Viene del tutto modificato l’impianto dell’attuale indennità di disoccupazione con
requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di
disoccupazione. L’indennità viene pagata nel momento dell’occorrenza del periodo
di disoccupazione e non l’anno successivo.
Il requisito di accesso è la presenza di almeno 13 settimane di contribuzione negli
ultimi 12 mesi (mobili).
L’indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per l’ASpI.
La durata massima è posta pari alla metà delle settimane di contribuzione negli
ultimi 12 mesi detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo. Sarà
tuttavia prevista la sospensione dell’erogazione del beneficio per periodi di lavoro
inferiori a 5 giorni.
4.3 - Contribuzione
La contribuzione sarà ovviamente estesa a tutti i lavoratori che rientrino nell’ambito
di applicazione della nuova indennità, nella seguente misura:
• Aliquota pari a 1,31% per i lavoratori a tempo indeterminato (sarà mantenuta
l’attuale aliquota di copertura dell’assicurazione contro la disoccupazione
involontaria)1 (1 Restano pertanto in vigore le eventuali riduzioni del costo del
lavoro operate dalla legge n. 388/2000 (art. 120) e 266/2005 (art. 1, comma 361)
nonché le misure compensative di cui al D.L. 203/2005.)
• Aliquota aggiuntiva del 1,4% per i lavoratori non a tempo indeterminato
L’aliquota aggiuntiva non si applicherà ai lavoratori assunti in sostituzione di altri
lavoratori.
Saranno inoltre esclusi dall’applicazione della contribuzione addizionale i lavoratori
stagionali di cui al D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modifiche e
integrazioni, valutando, eventualmente, anche quanto sinora previsto dai contratti e
accordi collettivi.
L’aliquota aggiuntiva non si applicherà inoltre agli apprendisti (in quanto contratti
di lavoro a tempo indeterminato).
Con riferimento ai lavoratori in somministrazione a tempo determinato l’aliquota
aggiuntiva dell’1,4% sarà compensata da una riduzione di pari importo dell’aliquota
di cui all’articolo 12, comma 1, del D.Lgs. 276/2003.
In caso di trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato si avrà
una restituzione pari all’aliquota aggiuntiva versata, con un massimo di 6 mensilità;
la restituzione avviene al superamento del periodo di prova, ove previsto.
Sarà inoltre previsto un contributo di licenziamento da versare all’Inps all’atto del
licenziamento (solo per rapporti a tempo indeterminato), pari a 0,5 mensilità di
indennità per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni (compresi
i periodi di lavoro a termine); si applica anche agli apprendisti nei casi diversi da
dimissioni (si applica anche nel caso di recesso alla fine del periodo di
apprendistato).
La contribuzione sopra descritta sostituirà le seguenti aliquote oggi a carico dei
datori di lavoro:
Disoccupazione involontaria: 1,31
Aliquota aggiuntiva per disoccupazione nel settore edile: 0,80
Mobilità: 0,30
4.4 Abrogazioni
La riforma comporterà l’abrogazione delle seguenti norme:
• Indennità di mobilità (L. 223/1991, artt. da 4 a 7; l’articolo 4, commi da 2 a 12 e
15-bis e l’art. 5, commi da 1 a 5, vanno ripresi e inseriti nell’articolo 24);
• Incentivi per iscritti nelle liste di mobilità (art. 8 e art. 25, comma 9);
• Disoccupazione nei casi di sospensione (D.L. 185/2008, art. 19, comma 1, lett. a) e
b));
• Disoccupazione per apprendisti (D.L. 185/2008, art. 19, comma 1, lett. c);
• Misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato (art. 13 D.Lgs. 276/2003)
4.5 - Cassa Integrazione Straordinaria
La necessità di eliminare, a decorrere dal 2014, i casi in cui la CIGS copre esigenze
non connesse alla conservazione del posto di lavoro induce a ritenere necessaria
l’eliminazione della causale per procedura concorsuale con cessazione di attività
(art. 3, L. 223/1991).
4.6 - Addizionale comunale sui diritti di imbarco
A decorrere dal 1° gennaio 2016 le maggiori somme di cui all'articolo 6-quater,
comma 3, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7, convertito, con modificazioni,
dalla legge 31 marzo 2005, n. 43 sono riversate alla gestione degli interventi
assistenziali e di sostegno dell’Inps, a parziale ristoro degli incrementi di spesa
derivanti dalla riforma degli ammortizzatori sociali.
4.7 - ASPI – Transizione
4.7.1 - Importo
Subito a regime
4.7.2 - Durata
Crescente negli anni secondo lo schema seguente:
2013
2014
2015
2016
fino a 50
8
8
10
a regime (12)
50‐54
12
12
12
a regime (12)
55 e oltre
12
14
16
a regime (18)
4.8 - Assicurazione sociale per l’Impiego – trattamenti brevi (MiniASpI)
Transizione
Già dal 2013 calcolata con il nuovo metodo, anche con riferimento ai periodi 2012
(l’anno mobile al 1° gennaio 2013 riguarda tutto l’anno 2012).
4.9 - Indennità di mobilità
4.9.1 - Durata
Durate massime decrescenti in base all’anno di liquidazione, secondo il seguente
prospetto:
2013
2014
2015
2016
2017
Cn fino a 39 anni
12
12
12
ASpI (12)
ASpI (12)
Cn da 40 a 49 anni
24
24
18
ASpI (12)
ASpI (12)
Cn da 50 a 54 anni
36
30
24
18
ASpI (12)
Cn 55 e oltre
36
30
24
ASpI (18)
ASpI (18)
Sud fino a 39 anni
24
18
12
ASpI (12)
ASpI (12)
Sud da 40 a 49 anni
36
30
24
18
ASpI (12)
Sud da 50 a 54
48
42
36
24
ASpI (12)
Sud da 55 anni
48
42
36
24
ASpI (18)
4.9.2 - Importo
Secondo le regole oggi vigenti
4.10 - Contributo di finanziamento
Nuove regole sin dal 2013 (compresa la maggiorazione per il tempo determinato ed
il contributo di licenziamento)
5. ESTENSIONE DELLE TUTELE IN COSTANZA DI
RAPPORTO DI LAVORO
5.1 - Previsione di fondi di solidarietà bilaterali per la tutela in costanza di
rapporto di lavoro per i settori non coperti dagliinterventi di integrazione
salariale
Allo scopo di estendere le tutele in costanza di rapporto di lavoro anche ai settori
oggi non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale straordinaria,
rispettando al contempo le specificità settoriali, si propone l’introduzione di una
cornice giuridica per l’istituzione, presso l’Inps, di fondi di solidarietà. I fondi
saranno volti a finanziare la prestazione di trattamenti di integrazione salariale per i
casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa dovuti a causali previste dalla
normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria.
Una particolare modalità di assicurare la suddetta tutela è derivabile dai contratti di
solidarietà, difensivi ed espansivi.
Resta impregiudicata l’attuale normativa in materia di cassa integrazione ordinaria
e straordinaria (salvo quanto previsto al punto 4.5.) e quella relativa ai contratti di
solidarietà ex L. 863/1984.
5.1.1 - Procedura di istituzione dei fondi
I fondi di solidarietà saranno istituiti con decreto del Ministro del Lavoro e delle
Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sulla
base di accordi collettivi e contratti collettivi, anche intersettoriali, stipulati dalle
organizzazioni comparativamente rappresentative a livello nazionale ed avranno
validità erga omnes.
L’accordo determinerà l’ambito di applicazione del fondo con riferimento al settore
ed alla classe di ampiezza dei datori di lavoro. Il superamento dell’eventuale soglia
dimensionale fissata per la partecipazione al fondo si verificherà mensilmente con
riferimento alla media del semestre precedente.
5.1.2 - Funzionamento fondi
• Obbligo di bilancio in pareggio (compresi i costi di amministrazione),
• Impossibilità di erogare prestazioni in carenza di risorse
• Modifiche al regolamento in relazione all’importo delle prestazioni o alla misura
dell’aliquota sono adottate, anche in corso d’anno, con decreto direttoriale dei
Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’Economia e delle Finanze sulla
base di una proposta del comitato amministratore
• Determinazione (o modifica) dell’aliquota di contribuzione in maniera da
assicurare il pareggio sulla base di bilanci di previsione a 8 anni basati sullo
scenario macroeconomico del MEF
• In caso di necessità di assicurare il pareggio di bilancio ovvero di far fronte a
prestazioni già deliberate o da deliberare, i Ministeri vigilanti possono adeguare
l’aliquota contributiva anche in mancanza di proposta del comitato amministratore
• Contribuzione a carico del datore di lavoro e dei lavoratori (2/3 e 1/3)
5.1.3 - Obblighi
L’istituzione dei fondi deve essere obbligatoria per tutti i settori, anche attraverso
formule intersettoriali, in relazione alle imprese sopra i 15 dipendenti. Ove già
esistenti, verrà stabilito un termine per il loro eventuale adeguamento ai criteri
stabiliti con decreto. Per le imprese sotto i 15 dipendenti, saranno stabiliti, sentite le
Parti Sociali, criteri di estensione dell’istituto in parola e modalità di promozione,
anche in considerazione delle esperienze ad oggi osservabili.
Per i settori per i quali non siano stipulati accordi collettivi volti all’attivazione del
fondo di solidarietà viene istituito, con decreto interministeriale, un fondo di
solidarietà residuale, con le seguenti regole:
• prestazione di importo pari all’integrazione salariale
• contribuzione a carico del datore di lavoro e dei lavoratori (2/3 e 1/3)
• durata non superiore a 1/8 delle ore complessivamente lavorabili da computare in
un biennio mobile
• causali previste dalla normativa in materia di cassa integrazione ordinaria e
straordinaria
5.2 - Fondi interprofessionali per la formazione continua
Gli accordi possono prevedere la riconversione dei fondi interprofessionali per la
formazione continua.
In tal caso il gettito dello 0,30% viene devoluto al fondo di solidarietà, con obbligo
di vincolarne una quota parte al finanziamento di formazione continua durante i
periodi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.
5.3 - Messa a regime della Cassa Integrazione Straordinaria per alcuni
settori
Vengono portate a regime le estensioni dell’ambito della Cassa Integrazione
Straordinaria rinnovate annualmente:
• imprese del commercio tra 50 e 200 dipendenti
• agenzie di viaggio sopra i 50
• imprese di vigilanza sopra i 15
Si estende a tali settori la contribuzione dello 0,9%.
Viene inoltre confermata a regime l’applicazione della normativa CIGS ai settori del
trasporto aereo e dei servizi aeroportuali.
5.4 - Indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per i
lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle cmpagnie
portuali. Messa a regime
• Messa a regime dell’indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per
i lavoratori delle società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali (da
ultimo contenuta nell’art. 19, comma 12, D.L. 185/2008).
• Obbligo, per le società derivate dalla trasformazione delle compagnie portuali, di
versare una contribuzione in misura pari a quella prevista per la CIGS (0,9% di cui
0,3% a carico dei lavoratori).
6. PROTEZIONE DEI LAVORATORI ANZIANI
6.1 - Tutela addizionale in caso di perdita del posto di lavoro. Cornice
giuridica
Creazione di una cornice giuridica per gli esodi con costi a carico dei datori di
lavoro, sulla falsa riga di quanto previsto dai fondi di solidarietà ex L. 662/1996.
Facoltà delle aziende di stipulare accordi con i sindacati maggiormente
rappresentativi, finalizzati ad incentivare l’esodo dei lavoratori anziani.
6.1.1 - Requisiti dei lavoratori
Lavoratori che raggiungano i requisiti per il pensionamento nei successivi 4 anni,
sulla base della normativa vigente.
6.1.2 - Requisiti aziendali
Presentazione di idonee garanzie da parte dell’azienda (es. fidejussione bancaria)
6.1.3 - Procedura
Domanda da presentare all’Inps, che effettua l’istruttoria in ordine alla presenza dei
requisiti in capo al lavoratore ed al datore di lavoro;
6.1.4 - Contribuzione
Obbligo dell’azienda a versare mensilmente all’Inps la provvista per la prestazione e
per la contribuzione figurativa.
6.1.5 - Prestazione
Prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle
regole vigenti.
6.1.6 - Contribuzione
Contribuzione IVS parametrata sulla retribuzione media degli ultimi 5 anni.
6.1.7 - Transizione
Per gli esodi fino al 2016 il primo periodo può essere coperto (per i lavoratori
licenziati con procedura di mobilità) dall’indennità di mobilità, fermo restando il
requisito di 4 anni dal momento dell’esodo a quello del pensionamento.
6.1.8 - Istituzione di fondi per interventi complementari
Contestualmente alla progressiva riduzione dell’indennità di mobilità e della
corrispondente aliquota, sarà previsto che la parte di tale aliquota via via liberata
possa essere destinato, previo accordo tra le parti, ad un fondo di solidarietà per il
finanziamento parziale di prestazioni complementari all’ASpI. Resta ferma la
condizionalità della fruizione dell’ASpI e delle altre prestazioni di sostegno al
reddito. Analogamente potrà essere disporsi in relazione all’indennità di
disoccupazione speciale in edilizia
7. INTERVENTI PER UNA MAGGIORE INCLUSIONE DELLE
DONNE NELLA VITA ECONOMICA
Si prevedono interventi che favoriscono la maggiore inclusione delle donne in
contesti caratterizzati da una limitata partecipazione delle stesse rispetto agli
uomini e donne, con l’obiettivo di diminuire il divario particolarmente ampio nel
Mezzogiorno e tra le fasce meno qualificate, ma che risulta presente anche tra le
fasce qualificate e nelle posizioni di vertice.
Nella convinzione che la mancanza e il costo elevato dei servizi di supporto nelle
attività di cura rappresentano un ostacolo per il lavoro a tempo pieno e per
l’ingresso nel mercato del lavoro per migliaia di donne, si introducono misure atte a
garantire maggiori servizi e una organizzazione del lavoro tali da consentire ai
genitori una migliore assistenza dei propri figli, rafforzando contestualmente la
tutela della genitorialità.
7.1 - Tutela della maternità e paternità e contrasto del fenomeno delle
dimissioni in bianco
Si introduce, a favore di tutti i lavoratori, per quanto il fenomeno riguardi
prevalentemente le lavoratrici, la disposizione volta a contrastare la pratica delle
cosiddette “dimissioni in bianco”, con modalità semplificate rispetto a quelle
previste dalla abrogata L. 188/2007, e senza oneri per il datore di lavoro e il
lavoratore. Inoltre, viene rafforzato il regime della convalida delle dimissioni rese
dalle lavoratrici madri.
In particolare, la prima sezione della norma estende la convalida anche all’ipotesi
della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che precedentemente veniva
utilizzata per aggirare la disciplina delle dimissioni.
Si estende da uno a tre anni di vita del bambino (con corrispondenti adeguamenti
per l’ipotesi di adozione o affidamento, anche internazionale) il periodo entro il
quale le dimissioni della lavoratrice o del lavoratore devono essere convalidate dal
servizio ispettivo del Ministero del lavoro per poter acquisire efficacia.
Rimane inalterato, invece, il periodo coperto dal divieto di licenziamento, nonché il
periodo, che è sempre di un anno dalla nascita del bambino, previsto dall’art. 55
comma 1 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, entro il quale le dimissioni, se rese dalla
lavoratrice o dal lavoratore che fruisca del congedo di paternità, danno luogo alla
spettanza delle indennità previste per il caso di licenziamento, cioè in pratica
all’indennità sostitutiva del preavviso, come se si tratti di dimissioni rese per giusta
causa.
La seconda parte della disposizione comporta, ai fini dell’efficacia delle dimissioni e
della risoluzione consensuale, che la volontà risolutoria venga espressa attraverso
modalità comunque volte ad accertare l’autentica genuinità e contestualità della
manifestazione di volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro. Ciò
avverrà tramite modalità alternative tra loro. Una prima modalità contempla che le
parti possano rivolgersi al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro per la
convalida. Una seconda modalità è la sottoscrizione di un’apposita dichiarazione in
calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di
lavoro che il datore è già tenuto ad inviare al Centro per l’impiego ai sensi dell’art.
21 della legge n. 264/1949; con la precisazione che, effettuandosi tale
comunicazione in forma telematica, lo scarico della ricevuta di trasmissione non
comporta tempi di ulteriore attesa. La nuova procedura, che si estrinseca in fasi ben
determinate, tutela sia la posizione del lavoratore sia quella del datore di lavoro.
Infatti, la norma, nel dare contezza degli effetti derivanti da ciascun comportamento
che il prestatore di lavoro pone in essere, da un lato tutela la libertà della
lavoratrice/lavoratore, in quanto prova l’autentica volontà degli stessi di dimettersi
o di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, dall’altro, tutela l’affidamento
del datore di lavoro conseguente ai comportamenti del lavoratore.
Altre modalità, sempre funzionali alla semplificazione, potranno essere individuate
con decreto ministeriale anche in funzione dell’evoluzione dei mezzi tecnologici e
informatici.
In ogni caso è prevista una sanzione amministrativa qualora risulti l’abuso del foglio
firmato in bianco, fermo restando l’eventuale applicazione della sanzione penale,
ove possano riscontrare gli estremi di reato.
Qualora emerga evidenza di dimissioni in bianco, le dimissioni sono da considerarsi
licenziamento discriminatorio con tutte le conseguenze che questo comporta.
7.2 - Conciliazione e disciplina del congedo di paternità obbligatorio
Per favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli
all’intero della coppia, si sono previste alcune modifiche al T.U. sulla maternità e
l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, in linea con quanto previsto in
altri paesi e con la Direttiva 2010/18/EU.
In particolare, il congedo di paternità obbligatorio è riconosciuto al padre lavoratore
entro 5 mesi dalla nascita del figlio e per un periodo pari a tre giorni continuativi.
Agli oneri derivanti da tali interventi, si provvederà con l’utilizzo parziale delle
risorse di cui fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento
dell’occupazione giovanile e delle donne (comma 27, art. 24, L. 214/11).
7.3 - Misure volte a favorire la conciliazione vita lavoro
Al fine di promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro, si intende
disporre l’introduzione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting. Le
neo mamme avranno diritto di chiedere la corresponsione di detti voucher dalla fine
della maternità obbligatoria per gli 11 mesi successivi in alternativa all’utilizzo del
periodo di congedo facoltativo per maternità. Il voucher è erogato dall’INPS. Tale
cifra sarà modulata in base ai parametri ISEE della famiglia. Le risorse a sostegno di
questo intervento saranno reperite nell’ambito del già citato fondo per il
finanziamento di interventi a favore dell’incremento dell’occupazione giovanile e
delle donne.
8. EFFICACE ATTUAZIONE DEL DIRITTO AL LAVORO DEI
DISABILI
Al fine di favorire maggiormente l’inserimento e l’integrazione nel mondo del lavoro
di categorie svantaggiate quali i disabili, sono previsti interventi che incidono sulla
vigente normativa (L. 68/99), estendendone il campo di applicazione.
In particolare, si intende includere nel numero di lavoratori utilizzato quale base
per il calcolo della quota di riserva per l’assunzione dei disabili tutti i lavoratori
assunti con vincolo di subordinazione, con l’esclusione di alcune tipologie (i disabili
già in forza, i dirigenti, i soci delle cooperative, i contratti di reinserimento, i
lavoratori assunti per attività da svolgersi all'estero, i lavoratori interinali occupati
presso l'impresa utilizzatrice, i lavoratori socialmente utili assunti, i lavoratori a
domicilio, lavoratori che aderiscono al programma di emersione)
È inoltre necessario contrastare l’abuso dell’istituto degli esoneri, totale o parziale,
che nella normativa vigente permette ad alcuni datori di lavoro che operano in
particolari settori, per le speciali condizioni della loro attività e per determinate
mansioni, l'esclusione dall'obbligo di assunzione di persone con disabilità.
Conseguentemente, il rispetto della previsione di un numero garantito di posti di
lavoro per disabili, di cui all'art.3 della legge 68/99, richiede maggiori e più incisivi
controlli da parte dell'Ispettorato del ministero del lavoro, finalizzati a verificare la
correttezza dei prospetti informativi delle quote di riserva cui sono tenute le aziende
pubbliche e private.
9. INTERVENTI VOLTI AL CONTRASTO DEL LAVORO
IRREGOLARE DEGLI IMMIGRATI
Per evitare che la crisi economica determini l'irregolarità dei lavoratori stranieri che
abbiano perso il posto di lavoro, occorre adottare misure che ne facilitino il
reinserimento nel mercato, favorendo l’offerta che provenga dal bacino di immigrati
già all'interno del paese piuttosto che ricorrendo a nuovi flussi dall'estero.
Pertanto, la perdita del posto di lavoro non può comportare la revoca del permesso
di soggiorno del lavoratore extracomunitario e dei suoi familiare, ma occorre
prolungare il periodo in cui lavoratore può essere iscritto nelle liste di collocamento,
estendendolo anche a tutto il periodo in cui sia ammesso a una prestazione per
disoccupazione. In tal senso, si intende intervenire nel concerto con il Ministero
dell’Interno.
10. POLITICHE ATTIVE E SERVIZI PER L’IMPIEGO
10.1 - Obiettivi
Una ulteriore area di intervento riguarda le politiche attive e i servizi per l’impiego.
In questa area, che prevede un forte concerto tra Stato e Regioni, ci si propone di
rinnovare le politiche attive, adattandole alle mutate condizioni del contesto
economico e assegnando loro il ruolo effettivo di accrescimento dell’occupabilità dei
soggetti e del tasso di occupazione del sistema mediante:
• attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o
soprattutto beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca
attiva di una nuova occupazione
• qualificazione professionale dei giovani che entrano nel mercato del lavoro
• formazione nel continuo dei lavoratori
• riqualificazione di coloro che sono espulsi, per un loro efficace e tempestivo
ricollocamento
• collocamento di soggetti in difficile condizione rispetto alla loro occupabilità.
Occorre altresì creare, attraverso le politiche attive, canali di convergenza tra
l’offerta di lavoro (nuova o connessa a perdita del posto di lavoro) e la domanda
(valutazione dei fabbisogni delle imprese e coerenza dei percorsi formativi dei
lavoratori e delle professionalità disponibili), in un’ottica di facilitazione del punto
di incontro tra chi offre lavoro e chi lo domanda. Gli interventi di attivazione
devono sottendere un patto di mutua responsabilità/obbligazione tra enti che
offrono servizi per il lavoro, lavoratori, datori di lavoro.
La presenza d’un regime di sussidi di disoccupazione rafforza la necessità di tener
conto d’una finalità particolare dell’intervento pubblico: al generico “aiuto” ai
soggetti deboli ed a rischio di emarginazione si aggiunge infatti l’esigenza di
contrastare abusi e disincentivi connessi con l’operare dei sussidi. Questa esigenza
implica che in molti casi non ci si limiterà a “mettere a disposizione” servizi (che
altrimenti la logica di mercato potrebbe non fornire o non fornire a tutti a
condizioni adeguate), ma si arriverà a voler “imporre” determinati interventi
concreti, in una logica tutoria e di prevenzione, rispetto a possibili abusi e derive di
emarginazione.
10.2 - Principi generali
Ferme restando le competenze concorrenti, occorre concretizzare un accordo
puntuale, per target, finalità e tempi e nel rispetto dei ruoli tra Stato, Regioni, Parti
Sociali in ordine a meccanismi, anche di riforma istituzionale, che permettano una
gestione sinergica delle politiche di attivazione, formazione e di sostegno del
reddito, sulla base di una comune identificazione delle platee di beneficiari. I punti
essenziali di questo accordo sono inseriti nel testo di riforma, suggellati da una loro
condivisione da parte del Governo e delle Regioni, e rinvieranno alle sedi istruite
dalla conferenza Stato-Regioni.
10.3 - Il ruolo dei servizi per l’impiego e delle strutture che li offrono
Un intervento fondamentale in questo quadro riguarda il rinnovamento del ruolo
dei servizi per l’impiego e la riorganizzazione delle strutture che li offrono. Occorre
definire una governance del sistema, attraverso, in primis, standard nazionali di
riferimento.
Per i centri per l’impiego, è necessario individuare Livelli Essenziali di Servizio
omogenei. I centri possono erogare direttamente o esternalizzare ad agenzie private
i servizi in parola. Vanno definite premialità e sanzioni per incentivare l’efficienza
dei servizi per il lavoro e per spingere a comportamenti virtuosi sia i soggetti che
erogano i servizi, sia le persone/lavoratori che beneficiano dei servizi e dei sussidi.
Occorre prevedere un accordo fra Stato e Regioni (con la condivisione delle Parti
Sociali) per la piena realizzazione di una dorsale informativa unica e l’utilizzo dei
flussi congiunti, per testa, provenienti non solo dalla banca dati percettori, ma
soprattutto dai sistemi informativi lavoro delle Regioni. Il sistema informativo
unico, caratterizzato da codifiche uniformi e da standard statistici condivisi, è
condizione essenziale per il corretto ed efficace utilizzo dei flussi e, di conseguenza,
per realizzare la convergenza tra politiche passive e attive.
Un primo passo deve consistere nell’accelerazione del processo di informatizzazione
dei servizi per il lavoro (rilascio delle certificazioni, istituzione del fascicolo
personale web).
Per rafforzare la governance del sistema e garantirne la effettività ed efficacia dei
servizi, si intendono approfondire alcune ipotesi di intervento emerse in sede di
confronto con le Regioni. In particolare, si tratterà di valutare la creazione di una
sede unica, localmente insediata, per accedere a politiche passive e attive (accordo
Inps e enti coinvolti nella gestione dei servizi per l’impiego. Da questo punto di
vista, l’attuale quadro istituzionale prevede che le politiche attive siano assegnate
alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni (rientrano nella nozione
di “tutela e sicurezza del lavoro”), mentre quelle passive (rientrando nella nozione
di “previdenza sociale”), sono di competenza esclusiva dello Stato.
Lo Stato e le Regioni concordano sulla opportunità di attivare un percorso che, sulla
base degli obiettivi e dei principi generali enunciati, consenta di pervenire alla
stipula di un accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni entro il 30 giugno 2012,
che identifichi le linee di indirizzo della riforma e gli eventuali riassetti di enti ed
organismi ritenuti necessari, ivi inclusa la proposta del governo di creare una
Agenzia unica nazionale per la gestione in forma integrata delle politiche attive e
dell’ASpI, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome e caratterizzata da
forte autonomia territoriale.
10.4 - Interventi per l’apprendimento permanente
Nell’ambito della riforma, in modo condiviso con il competente Ministero (MIUR),
saranno previste norme generali sull’apprendimento permanente, intese a definire
il diritto di ogni persona all’apprendimento permanente e collegarlo, in modo
sistemico, alle strategie per la crescita economica, accesso al lavoro dei giovani,
riforma del welfare, invecchiamento attivo, esercizio della cittadinanza attiva, anche
da parte degli immigrati. A tal fine, in particolare, saranno individuate linee guida
per la costruzione, in modo condiviso con le Regioni e nel confronto con le parti
sociali, di sistemi integrati territoriali, caratterizzati da flessibilità organizzativa e di
funzionamento, prossimità ai destinatari, capacità di riconoscere e certificare le
competenze acquisite dalle persone.
Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano
Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne
ostaggio
di Francesco Verderami
(corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:31)
Non è vero che solo i bambini possono meravigliarsi. Ieri, per esempio, anche Monti
si è meravigliato, è rimasto colpito dal linguaggio adottato da Bersani e da D’Alema:
«Non mi sarei mai aspettato certi toni».
Ed è vero che si fa sempre in tempo ad imparare, ma il premier non immaginava
tanta virulenza verbale da parte dei maggiorenti del Pd, sebbene fosse consapevole
che il tema del lavoro è materiale incandescente, che dietro un numero — l’articolo
18 — ci sono persone in carne e ossa, e che la riforma da lui voluta tocca la storia e la
ragione sociale di quel partito.
Epperò i limiti di una sobria dialettica politica sono stati superati, se riservatamente
il segretario dei Democratici ha sentito il bisogno di chiarirsi con il premier. E in
pubblico, dopo aver detto che «non si può mettere a tacere il Parlamento in nome
dei mercati », ha poi spiegato che «noi immaginiamo un’alternativa alla destra
populista, non a Monti». Ma l’ago della retorica non ricuce lo strappo.
Il punto tuttavia non è se oggi il Professore—manco fosse la torre di Pisa del Palazzo
— ora pende a destra, se con la loro offensiva i Democrat lo hanno regalato agli
avversari. Anche perché nel Pdl ieri è montata la protesta contro il premier, reo di
non aver scelto per la riforma del lavoro la procedura d’urgenza, ma l’andamento
lento del disegno di legge. Tutti sono rimasti colpiti dal fatto che il governo abbia
adottato due pesi e due misure, rispetto all’utilizzo dei decreti per le liberalizzazioni
e le semplificazioni.
È proprio l’uso reiterato di questo strumento che Napolitano ha opposto a Monti
per sconsigliargli di adoperarlo anche sul tema del lavoro: «Non è possibile andare
avanti solo con questa procedura». Una motivazione che il Quirinale ha ripetuto ad
alte cariche istituzionali e rappresentanti di partito. Chissà se anche in questo caso
il premier si è meravigliato, se è vera la sua «delusione» verso il Colle, come
racconta un autorevole esponente del governo.
Di sicuro nei colloqui intercorsi ieri sera tra i dirigenti del Pdl con il loro segretario
Alfano, tutti hanno convenuto che la mossa del capo dello Stato è stata una
«copertura politica» offerta al Pd in vista delle Amministrative. D’un tratto la
baraonda che fino a ieri regnava tra i Democratici si è spostata tra i berlusconiani. Il
tramestio è destinato a proseguire anche nel rapporto con gli alleati- avversari del
Pd, ed è evidente che lo scontro non giova al premier e al suo governo.
Monti, che finora aveva dettato il passo al Parlamento, ora rischia di diventarne
ostaggio, di restarne prigioniero. Ripiegando sul disegno di legge, finisce infatti per
infilarsi nel pantano dei regolamenti di Camera e Senato, nel ginepraio delle
procedure, nei possibili agguati dei voti in commissione, nelle estenuanti trattative
in cui potrebbero infilarsi altre trattative: perché non solo di lavoro si discute in
Parlamento, ma anche di Rai e di giustizia…
Il Professore avrebbe volentieri optato per il decreto, ma senza la copertura del
Colle non poteva forzare la mano. È vero che per questa riforma il governo chiederà
la «corsia preferenziale » nei due rami delle Camere, e in tal senso Monti avrebbe
ricevuto garanzie da Bersani. Peccato però che il segretario del Pd non ne abbia
offerte sull’articolo 18.
Così il vecchio metodo della concertazione, che il premier aveva messo fuori dalla
porta nelle trattative con le parti sociali, rientra prepotentemente dalla finestra in
Parlamento. E se i Democratici possono contare sulla Lega per far saltare la nuova
formulazione della norma sui licenziamenti, il Pdl ha i numeri per ripristinare una
forte flessibilità in entrata. In questo caso del progetto di modernizzazione del
mercato del lavoro non resterebbe nulla.
Di necessità virtù, il Professore cercherà di sfruttare a proprio vantaggio il tempo: se
ne servirà per far raffreddare il clima politico e sociale, per far comprendere meglio
la riforma e levigare le asprezze sull’articolo 18. Intanto confida che il disegno di
legge venga interpretato a livello internazionale come un messaggio rassicurante, la
garanzia che questo è lo schema su cui si muove il governo. È da vedere però se
questo schema reggerà in Parlamento, o se per evitare correzioni di rotta il premier
giocherà la carta della fiducia, che già aveva messo nel conto.
Il problema politico e d’immagine è comunque evidente. E se Monti è rimasto
meravigliato per le sortite dei dirigenti del Pd, non si è stupito per quel che è
accaduto sui mercati: «Le incertezze degli ultimi giorni si sono riflesse sullo spread,
che è tornato a salire», ha ammonito. La speranza è che sia solo un avvertimento,
ma sarà complicato dare garanzie sui tempi di approvazione della riforma. Chissà se
davvero le nuove norme sul lavoro saranno legge prima dell’estate. La sortita di ieri
del presidente del Senato non era altro che un auspicio, un modo per esorcizzare il
timore dell’empasse.
Nonostante la richiesta della corsia preferenziale, agenda alla mano, il governo è
consapevole che sarà difficile, se non impossibile, centrare l’obiettivo: intanto
perché le Camere chiuderanno un paio di settimane per le vacanze di Pasqua e le
elezioni amministrative. Contando poi i decreti, che hanno la precedenza, non c’è
spazio per chiudere entro luglio. E siccome alla ripresa di settembre c’è
l’appuntamento con la sessione di bilancio…
Ecco il pasticciaccio brutto che mette all’angolo Monti. La «strana maggioranza»,
che era la sua forza, ora rischia di trasformarsi nella sua debolezza. E quella foto che
mostrava a Palazzo Chigi l’ABC della politica sbiadisce in mano a Casini. Perché con
Bersani in affanno e Alfano in difficoltà, salta anche lo schema di gioco del leader
centrista. Ma di questo nessuno si meraviglia.
L’abc della riforma del mercato del lavoro in 43
voci, dagli ammortizzatori sociali agli stage
di Nicoletta Cottone e Vittorio Nuti
(ilsole24ore.com, 24 marzo 2012)
Il Consiglio dei ministri ha approvato, «salvo intese», il disegno di legge di riforma
del mercato del lavoro. In 26 pagine e dieci punti il documento presentato dal
ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e approvato dal Consiglio dei ministri, ha
l’obiettivo di favorire una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego,
contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi
vent’anni e adeguando all’attuale contesto economico la disciplina del
licenziamento individuale. C’è un nuovo assetto degli ammortizzatori sociali e delle
relative politiche attive, ci sono elementi di premialità per l’instaurazione di
rapporti di lavoro più stabili. L’obiettivo è anche quello di contrastare con maggiore
incisività l’elusione degli obblighi contributivi e fiscali. Sono coinvolti gli istituti
contrattuali, le tutele dei lavoratori nel caso di licenziamento illegittimo, la
flessibilità e le coperture assicurative, i fondi di solidarietà, l’equità di genere e le
politiche attive. Ecco un abc delle principali novità contenute nel documento del
ministro del Welfare.
Ammortizzatori sociali, tre pilastri tra novità e conferme
Apprendimento permanente, arrivano le linee guida
Apprendistato, canale privilegiato di accesso al lavoro per i giovani
Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego: tutela estesa a più soggetti
Aspi, durata dell’indennità: a regime 18 mesi per gli over 55
Associazione in partecipazione con apporto di lavoro solo per i familiari
Cassa integrazione straordinaria, messa a regime per alcuni settori
Cassa integrazione straordinaria, niente sussidio se cessa l’attività
Centri per l’impiego, arrivano le pagelle
Conciliazione vita-lavoro, voucher per servizi di baby-sitting
Congedo di paternità obbligatorio, tre giorni continuativi
Contratto di inserimento, riduzione dei contributi
Contratto di lavoro a tempo parziale, obbligo di comunicazione amministrativa
Contratto di lavoro intermittente, comunicazione preventiva snella
Contratti a tempo determinato, sale il costo contributivo
Contribuzione, obbligo per tutti i lavoratori “coperti” dall’Aspi
Dimissioni in bianco, contrasto della pratica
Diritti di imbarco, incremento dell’addizionale girato all’Inps per i nuovi
ammortizzatori
Disabili, diritto al lavoro dei disabili: si amplia la quota di riserva
Donne, inclusione nella vita economica
Fondi di solidarietà, finanzieranno trattamenti di integrazione salariale
Fondi di solidarietà, funzionamento
Fondi di solidarietà, istituzione
Fondi di solidarietà, obblighi
Fondi interprofessionali per la formazione continua
Immigrati, la perdita del posto non comporterà la perdita del permesso di soggiorno
Indennità di mobilità, staffetta con l’Aspi dal 2016
Indennità per le giornate di mancato avviamento al lavoro per lavoratori di ex
compagnie portuali
Lavoratori anziani, tutela addizionale in caso di perdita del posto di lavoro
Lavoro accessorio, voucher computati ai fini del reddito per il permesso di
soggiorno
Lavoro a progetto, un freno all’uso improprio
Licenziamenti discriminatori, rimane la piena tutela
Licenziamenti individuali, le modifiche all’articolo 18
Licenziamenti oggettivi o economici, prevista anche una rapida proicedura di
conciliazione
Licenziamenti, rito processuale veloce per le controversie
Licenziamenti soggettivi o disciplinari, la nuova articolazione
Mini-Aspi, durata di un anno dal 1° gennaio 2013
Mini Aspi, sussidio in tempi rapidi
Partite Iva, razionalizzazione
Politiche attive, stimoli alla ricerca concreta del lavoro
Quadro normativo del lavoro, abrogazioni
Stage, in arrivo linee guida nazionali
Una trincea ideologica
Ferruccio de Bortoli
(corriere.it, 24 marzo 2012 | 7:27)
La riforma del mercato del lavoro è molto più ampia della revisione dell’articolo 18.
Estende gli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente escluse,
riduce la precarietà. Aspira a stabilizzare e a rendere più facili le assunzioni
definitive. È emendabile, ma va nella direzione giusta. Un licenziamento dovuto a
ragioni disciplinari, per il quale il giudice può ordinare il reintegro, è aggirabile con
una motivazione economica e il solo risarcimento da 15 a 27 mensilità? Certo, lo è.
L’abuso va contrastato con norme chiare e rigorose.
Le reazioni sindacali sono tutte comprensibili. Meno i ripensamenti di Bonanni e
Centrella che al tavolo con il governo dicono una cosa e poi se la rimangiano, magari
dopo aver ascoltato un esponente dell’episcopato. Il travaglio interno del Pd è da
rispettare. La dialettica fra laburisti e liberali vivace e salutare. Colpiscono, però, sia
la durezza di D’Alema, che parla del governo come un «vigilante di norme confuse»,
sia di Bersani che teme l’esautorazione delle Camere. Il Parlamento, ai tempi della
concertazione, ratificava soltanto gli accordi tra le parti sociali. Il segretario del Pd
se ne è uscito anche con la seguente frase: «Non morirò monetizzando il lavoro».
Nobile e curioso. Solo l’1 per cento delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola
Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri. E poi: gli accordi sui
prepensionamenti e sugli esodi incentivati che cosa sono se non una monetizzazione
di posti di lavoro che spariscono?
I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese
irreale. Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non
corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro.
Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati
che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. Come se adesso le
aziende in crisi, e non sono poche purtroppo, non riducessero l’occupazione e non vi
fosse il dramma di tanti lavoratori abbandonati in cassa integrazione o senza sussidi
e possibilità di un reimpiego. E come se l’Italia non fosse ricca di tantissime realtà,
grandi e piccole, in cui il lavoro è difeso e rispettato. E, ancora, tanti imprenditori e
dipendenti non condividessero le stesse ansie e lo stesso amore per ciò che
producono e per i valori comuni di cui sono portatori. Sono commenti che
paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di
conquiste dei lavoratori.
Scrive Guido Viale su il manifesto: «I capi girano nei reparti e minacciano i delegati
non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro annunciando:
appena passa l’abolizione dell’articolo 18 siete fuori!». Davvero è questo il clima che
si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio? O è una ripetizione
logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico, una
trincea fra capitale e lavoro, la costruzione artificiosa di un nemico di classe?
Lo Statuto dei lavoratori fu, nel 1970, un’importante conquista sociale. Sono passati
42 anni, la società è cresciuta, i diritti sono meglio protetti. Ma in parti del
sindacato e della sinistra la nostalgia per quegli anni di lotte operaie e studentesche
è forte. La storia andrebbe riletta, anche per risparmiarci le code spiacevoli e le
derive violente di cui dovremmo coltivare la memoria.
Governo e sindacato uniti nell’errore
di Eugenio Scalfari
(repubblica.it, 25 marzo 2012)
Due simbolismi contrapposti: l’ha detto Giorgio Napolitano definendo
perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell’articolo 18.
Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno
egemonizzato i media, l’opinione pubblica e il dibattito politico.
I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all’estremo. E poiché
ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la
vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una
tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla
sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno
scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate
che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l’uccisione del delfino degli
Asburgo da parte d’un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che
provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta
milioni, genocidio della Shoah a parte.
Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso
sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe
cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra
italiana finirebbe in soffitta, lo “spread” potrebbe tornare a livelli intollerabili con
conseguenze nefaste per tutta l’Europa e tutto questo perché le due parti
contrapposte vogliono stabilire - mi si passi un’espressione scurrile ma appropriata
- chi ce l’ha più lungo.
Infatti il peso e l’importanza dell’articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è
stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano
al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo
dell’economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell’articolo gli
investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati
bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui
presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile,
essa è già contenuta in leggi precedenti all’articolo 18 e può essere sempre sollevata
dinanzi al magistrato.
Conosco bene l’obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri
sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione
con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda
a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti
ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d’una propria valutazione. Mi
domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma
determinassero uno sconquasso sociale.
Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del “salva Italia” ha
trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere
innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no
ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar
per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai
fini della crescita.
Infine osservo che l’articolo 1 della Costituzione recita che l’Italia è una Repubblica
fondata sul lavoro. Si tratta d’una banalità o d’un principio che deve ispirare il
legislatore?
Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin
dall’inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo
siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le
sue parti, nella lotta al precariato, nell’estensione delle tutele a tutta la platea dei
disoccupati, nell’estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità
all’entrata ed anche all’uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di
irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo
tecnico – come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere – ma è
un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.
Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l’errore
modificando il testo del governo per quanto riguarda l’articolo 18. I partiti della
maggioranza saranno concordi su questa questione?
Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni
fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché
anch’essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che
Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e
dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante
possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il
compromesso sul quale sarebbe d’accordo il sindacato. Il modello tedesco sui
licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri
affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è
vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che
vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte
positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla
posizione che l’articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti
valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere
l’intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende
che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo
quelli della legalità, dell’etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.
Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i
lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove
è stato violato va assolutamente recuperato.
L’articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità
della sua applicazione non è intoccabile.
Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai
un’intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero
oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di
Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del
sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.
La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori
ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C’era un
solo modo di realizzare quell’obiettivo: fare della classe operaia la principale e
coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in
seconda fila i suoi interessi particolari di classe.
Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale.
Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l’articolo 18.
Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche
dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto
per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due
si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi.
Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono
fatti sentire all’interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio
Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d’allarme.
Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano
agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della “strana” maggioranza si deve
chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.
Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da
ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra
l’imprenditore e il sindacato d’azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche
le trattative fallite sono soltanto l’11 per cento dei casi) si va dal magistrato del
lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo
indennizzo.
Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D’Alema, a Franceschini, a Letta, a
Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione.
Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare
questa soluzione.
L’incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito.
Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in
questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione
sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la
riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti
verso l’equità e la pre-condizione d’una crescita che d’ora in avanti dovrà essere la
sola preoccupazione e obiettivo di tutti.
Lettere, avvocati e tribunali.
Così i nuovi licenziamenti
Senza conciliazione, il lavoratore dovrà dimostrare la sua utilità
di Isidoro Trovato
(corriere.it. 25 marzo 2012 | 15:50)
In un contesto in piena evoluzione non è semplice tracciare un percorso prevedibile.
Ma quale scenario avremmo provando a verificare il percorso giuridico di una causa
per licenziamento per motivi economici? Basandoci sugli elementi ancora
incompleti che abbiamo in mano, emerge un quadro «verosimile». Il licenziamento
per motivi economici è quello che prevede il maggior numero di novità: per motivi
economici non si intende lo stato di crisi, ma ragioni di gestione aziendale.
Un’impresa può decidere di licenziare il suo centralinista perché ritiene più utile
acquistare un software che gestisca il traffico telefonico. Si tratta di una motivazione
economica e pertanto inizia l’iter previsto dalla riforma.
Il primo atto è l’invio di una lettera alla direzione territoriale del lavoro. Nella
lettera l’azienda comunica la volontà di licenziare il suo centralinista spiegando i
motivi gestionali legati alla decisione. Si istituisce una commissione per gestire la
conciliazione. Il decreto appena varato prevede che la commissione convochi le
parti entro sette giorni dal ricevimento della lettera. Questo è il punto che suscita
più perplessità tra gli addetti ai lavori: pare improbabile che la convocazione possa
avvenire entro una settimana in città come Milano in cui si registrano 20 mila
nuove cause di lavoro all’anno. Si ricorda ancora il fallimento della conciliazione
obbligatoria in tema di lavoro che accumulava molto ritardo. Tra l’altro, notano gli
esperti, nel testo manca un riferimento al tetto massimo di attesa: di solito, decorsi
60 giorni, si considera espletato il passaggio amministrativo. Invece in questo caso
l’azienda non potrà licenziare finché non avrà completato la conciliazione.
Quando la commissione avrà convocato le parti inizierà il confronto in cui l’azienda
dovrà dimostrare che non esiste alternativa all’indennizzo e il lavoratore cercherà di
sostenere le ragioni per cui il suo licenziamento è infondato, indicando magari
opzioni alternative di ricollocamento. Il testo della riforma sottolinea che il
comportamento delle parti davanti alla commissione di conciliazione sarà registrato
in un verbale e consegnato al giudice nel caso in cui la conciliazione dovesse fallire.
Il giudice valuterà e sanzionerà atteggiamenti scorretti. La commissione di
conciliazione alla fine dei confronti può comunque formulare la sua proposta. Se le
parti la rifiutano, la causa passa al dibattimento in tribunale.
Superata la fase conciliatoria, il datore di lavoro può mandare la sua raccomandata
di licenziamento al lavoratore il quale ha 60 giorni per impugnarla (basta una
lettera) e 270 giorni (dal ricorso) per depositare l’impugnazione. A questo punto si
verifica spesso che il lavoratore, avendo ricevuto la lettera, si metta in malattia. La
condizione di malattia infatti sospende l’efficacia del licenziamento. La legge
prevede, al minimo, 180 giorni di malattia ma alcuni contratti collettivi ne
prevedono da 12 a 18 mesi.
Ma torniamo all’iter normale: gli esperti prevedono che quando l’azienda
comunicherà il licenziamento per motivi economici, la maggioranza dei lavoratori
reagirà impugnando il licenziamento e cercando di dimostrare che avviene per
motivi disciplinari o discriminatori (che prevedono il reintegro). Toccherà al giudice
accertare se si tratti di motivo economico mascherato o meno, tenendo presente che
il giudice, nel caso accertasse che i motivi sono realmente legati alla gestione, non
può entrare nel merito della scelta aziendale. In poche parole se il giudice accerta
che un’impresa ha realmente licenziato un centralinista per motivi strategici e non
disciplinari, non può chiedere all’azienda conto del perché preferisca un software a
una persona.
Per questa fase del dibattimento il decreto del Consiglio dei ministri ha applicato il
rito abbreviato. Le cause per i licenziamenti dunque dovranno avere una corsia
rapida. Diverse le ipotesi: dall’aumento del personale dedicato a queste cause alla
creazione di un tetto ai rinvii (per esempio massimo sette giorni) fino all’adozione
della procedura d’urgenza dell’articolo 700. In questo caso infatti il lavoratore dovrà
dimostrare di avere tali problemi economici da non poter sostenere il normale iter
della causa (rimanendo senza stipendio).
La causa abbreviata deve permettere al giudice di accertare prima se realmente la
ragione del licenziamento è economica. Se questo aspetto non è accertato il
licenziamento verrà dichiarato nullo, se è confermato, si passerà alla
quantificazione dell’indennizzo che va da 15 a 24 mensilità. In questo frangente il
giudice terrà conto anche di un eventuale rifiuto del lavoratore di accettare
l’intervento di un’agenzia di ricollocamento. Espletato il primo grado, la causa
procede poi verso gli altri gradi di giudizio.
Battaglia decisiva
di Claudio Sardo
(unita.it, 25/3/2012)
La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali,
volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel
contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni
incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus
del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella
riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il
licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque
all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro
che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti.
Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale
all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale
di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere
peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al
giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il
reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il
duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che
disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del
riformismo e dell’innovazione.
È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità,
anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che
giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello
«strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il
destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La
disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio
del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa
riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di
questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il
premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai
mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da
subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante.
L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo
Ciampi.
Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali,
che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul
lavoro» – espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste – e pone
dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento,
anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà
del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale
alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di
segno riformista.
Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la
spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?».
Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier,
ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel veterolaburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una
modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva
«facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria,
Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare
lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore
«ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più
vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»).
Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale
fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di
serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto
che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune. La
coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile
rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le
potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il
Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del
Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il
passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua
missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base
di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E
perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita.
Sulla riforma dell’articolo 18
Monti paventa la crisi di governo
Il premier Monti: “Se la riforma non passa il governo potrebbe non restare”.
Damiano (Pd): “Meglio discuterne dopo le amministrative. Potrebbe servire tutta
l’estate”. Fassina (Pd): “Il governo deve rassegnarsi: siamo in una Repubblica
parlamentare”.
(ilmanifesto.it, 26/3/2012)
Inizio settimana con nebbia sulla riforma del lavoro firmata da Elsa Fornero. Dopo
la chiusura delle trattative con le parti sociali, e l’unica concessione (sempre per
intercessione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nume tutelare del
governo Monti) di approvare la riforma tramite disegno di legge, e quindi con la
partecipazione del Parlamento, ora il braccio di ferro tra governo e partiti entra nel
vivo.
Il presidente del Consiglio Mario Monti stamattina in viaggio verso Seul sull’aereo
di Stato ha parlato con i giornalisti. E, come suo solito, è stato chiarissimo: “Ci
rendiamo conto delle difficoltà di ciascuno, e ci rendiamo conto che alla fine deve
essere il Parlamento a decidere – ha concesso – Ed è responsabilità del governo
quella di presentargli una proposta che riteniamo equa e abbastanza incisiva”. Ma la
proposta è quella e “il testo approvato non dovrà discostarsi troppo da quello
approvato dal consiglio dei ministri”. L’autonomia parlamentare, insomma, è a
vista. I tempi? “Non devono essere troppo lunghi”.
Invece, è proprio sui tempi che la partita è aperta. Il testo del Consiglio dei ministri
è irricevibile per la Cgil e il Pd si trova nella difficile situazione di dover mediare tra
il governo che sostiene e il sindacato di sinistra che è uscito sconfitto dalla trattativa
con l’esecutivo. Sarà per questo che stamattina alla trasmissione Agorà Cesare
Damiano ha detto: “Sulla riforma del mercato del lavoro mi pare che l’orientamento
sia, visto che a maggio ci sono le elezioni amministrative, che la discussione del
testo possa essere rimandata”. E dopo maggio c’è l’estate che secondo Damiano
potrebbe “essere tutta impegnata” per discutere un testo che si occupa di una
“materia complessa”.
“Il testo che è uscito dal Consiglio dei ministri- ha spiegato Damiano – è fatto di 25
pagine e 10 capitoli e non riguarda solo l’art.18. Anche se questo rimane un punto
cruciale”. Combattivo stamattina anche Stefano Fassina, responsabile Laoro del Pd
che ultimamente ha avuto anche le sue personali soddisfazioni dentro un partito
piuttosto spaccato su come affrontare la “patata bollente” della riforma, nel ruolo di
partito di lotta e di governo: “Siamo ancora in una Repubblica parlamentare dove le
leggi le fa il Parlamento e non il governo. Credo che Fornero si debba rassegnare a
quelle che saranno le scelte del Parlamento”, ha specificato a “La Telefonata” di
Maurizio Belpietro, promettendo di essere in piazza insieme alla Cgil “se ci saranno
manifestazioni sul punto specifico che anche noi vogliamo affrontare”.
Intanto a Sant’Andrea delle Fratte è appena iniziato il direttivo del partito. Ordine
del giorno sulla riforma Fornero e sulle amministrative. E le cosiddette “sfumature”
– ovvero le posizioni diverse che convivono dentro al Pd – su una delle riforme più
importanti per il paese si faranno sentire, in particolare sulla riforma dell’articolo
18. Tutti vogliono modificare il testo del governo, ma sul come ci sono divergenze.
«L’intervento governativo sull’art.18 – sottolinea entrando il senatore e
giuslavorista Pietro Ichino – va nella direzione giusta, con delle imperfezioni che
vanno corrette». Secondo Stefano Fassina, d’altra parte, va corretta la norma
riguardante i licenziamenti per cause economiche: «Se vengono riconosciuti
illegittimi dal giudice, va previsto il reintegro». «C’è una larghissima condivisione –
sottolinea – anche nell’opinione pubblica, che la norma, così com’è, non va».
Sullo sfondo, anche quanto proposto dal presidente del Pd, Rosy Bindi, sull’ipotesi
che il partito organizzi manifestazioni per spiegare la propria posizione sul lavoro.
«Ciascuno – commenta in proposito Beppe Fioroni – se evita di parlare quando non
serve, fa un’opera di bene… il Pd deve migliorare il testo in Parlamento, è un errore
dare fuoco alle polveri». D’accordo con Bindi, invece, Fassina: «C’è un confronto in
Parlamento – evidenzia – ma può essere utile anche avere un momento di incontro
con i nostri elettori per dire chiare le nostre proposte non solo su questo».
Lavoro, 700mila precari a rischio.
Dalla riforma nessun ammortizzatore
di Giusy Franzese
(ilmessaggero.it, 26/3/2012)
ROMA – Li hanno battezzati ”generazione mille euro”, sulla scia del successo di un
libro e di un film del 2008. Poco più che trentenni, con un percorso formativo alle
spalle fatto anche di laurea e specializzazioni, e un presente lavorativo di precariato
e instabilità. Che ha un nome ben preciso: contratto a progetto, altrimenti detto
co.co.pro. Un mese fa l’Isfol ha scattato una nuova fotografia di questo fetta di
precari: sono circa 676.000, per lo più hanno meno di 40 anni e un reddito medio al
di sotto di 10.000 euro l’anno. Quindi, nemmeno li raggiungono quei famosi mille
euro al mese.
Sono i più indifesi, i meno tutelati nel mercato del lavoro italiano. Il governo Monti
aveva promesso che nella riforma avrebbe trovato delle formule per includerli, per
migliorare la loro situazione. Non lo ha certamente fatto per gli ammortizzatori
sociali. I co.co.pro. sono fuori adesso e lo saranno anche quando varranno le nuove
regole della riforma. Ha invece aumentato le aliquote dei contributi previdenziali:
un provvedimento che avrà effetti positivi sull’assegno pensionistico futuro, ma che
nel presente – in assenza di minimi contrattuali – potrebbe essere «compensato»
dal datore di lavoro con una retribuzione più bassa.
Niente Aspi. Questi lavoratori, autonomi spesso solo sulla carta in realtà
subordinati low cost, non hanno diritto alla nuova Aspi, l’assicurazione sociale per
l’impiego che scatta nel momento in cui si perde il posto di lavoro. È vero: finora
non avevano diritto nemmeno all’indennità di disoccupazione, ma era stato il
governo a parlare di «maggiore inclusione».
La promessa. La riforma fa una promessa, peraltro abbastanza vaga: «Si
rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum oggi previsto».
Attualmente l’una tantum è pari al 30% del reddito dell’anno precedente, con un
massimale di 4.000 euro. Ma per ottenerla sono previsti requisiti molto stringenti:
nessun lavoro da almeno 2 mesi, un reddito tra 5.000 euro e 20.000 euro, tre mesi
di contributi nell’anno precedente la richiesta e almeno 1 mese di contributi versati
nell’anno in corso, ultimo rapporto di lavoro di monocommittenza. Dal 2007 al
2010 sono riusciti a usufruirne solo il 6,2% dei collaboratori a progetto che hanno
perso il lavoro (149.000). In media hanno avuto un indennizzo di 2.536 euro. Molti
nemmeno ci hanno provato a fare domanda, altri sì ma evidentemente qualche
requisito mancava: su 34.185 domande ne sono state accolte solo 9.249, ben 24.372
sono state respinte.
La stangata sui contributi. Nei prossimi sei anni le aliquote contributive da
versare alla gestione separata dell’Inps saranno equiparate a quelle dei lavoratori
dipendenti, passando dal 27,72% attuale al 33% nel 2018. L’aumento sarà di un
punto percentuale all’anno, già a partire dal 2013. Nel caso di lavoratori iscritti
anche ad altra gestione o pensionati si passerà dal 18% al 24% nel 2018.
La stretta sul «progetto». Secondo l’indagine Isfol circa il 70% dei co.co.pro va
tutti i giorni, con un orario determinato, in azienda e lì utilizza strumenti e mezzi
dell’impresa per il suo lavoro: per la stragrande maggioranza di questi casi, si tratta,
quindi di vero lavoro subordinato, però pagato meno e con meno garanzie. Per
evitare usi impropri la riforma introduce disincentivi normativi, a cominciare da
una definizione più stringente di «progetto» e l’introduzione di limitazioni nel caso
di mansioni ripetitive. La sanzione è la trasformazione del contratto in subordinato
a tempo indeterminato. È vietato l’inserimento di clausole che consentono il recesso
prima della fine del progetto, escluse le situazioni di giusta causa e incapacità
professionale del collaboratore.
Partite Iva, così funziona la stretta.
Circa 400mila le finte consulenze
di Rossella Lama
(ilmessaggero.it, 26/3/2012)
ROMA – Consulenti a partita Iva sulla carta, ma nella realtà lavoratori dipendenti
di serie b, senza tutele, senza contributi e copertura assicurativa. È un popolo
sempre più numeroso quello delle false partite Iva. Si stima che siano almeno 400
mila le persone che svolgono attività assimilabili a quelle dei loro colleghi più
stabili, ma alle aziende costano la metà di un lavoratore dipendente, e anche meno
di un lavoratore a progetto. Risultato, le partite Iva non per scelta, ma per
condizione posta dal datore di lavoro, dilagano. In tutti i settori e in tutte le aree
geografiche del paese, dal nord alla Sicilia.
È la forma più diffusa di quella flessibilità malata che la riforma del lavoro targata
Fornero cerca attraverso alcuni paletti di scoraggiare. Se un rapporto di lavoro dura
più di sei mesi nell’arco di un anno con un singolo committente, o se i soldi che si
percepiscono dal datore di lavoro superano il 75% dei ricavi complessivi, allora non
siamo di fronte a rapporti di collaborazione, ma a forme di lavoro dipendente.
Questo dicono le nuove regole. Gli ispettori del lavoro dovranno vigilare, e le
aziende fuori legge dovranno mettersi in regola.
Indagini condotte dall’Isfol e dall’Ires-Cgil sulle partite Iva fotografano questa
diffusissima realtà di abuso, letteralmente dilagata durante la crisi. Nello studiare il
lavoro atipico hanno trovano di tutto, bibliotecari con partite Iva, addetti alle buste
paga con partita Iva, insegnanti sempre con partita Iva. Il 55% degli intervistati
dall’Isfol ha dichiarato di lavorare per una sola società, e quasi il 20% del campione
ha persino concordato un orario di lavoro per svolgere le proprie mansioni.
Con queste caratteristiche è chiaro che non siamo di fronte a liberi professionisti, a
consulenti, a lavoratori autonomi, ma a precari per obbligo, per imposizione, che in
ogni momento possono perdere il posto. Per lo più giovani, poco pagati, i veri paria
del pianeta delle partite Iva. Un pianeta che in Italia assume dimensioni doppie se
non triple rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna. Nel nostro paese sono 8
milioni e 800 mila. Secondo l’Agenzia delle Entrate ce ne sono però almeno 2
milioni di inattive, che entro il 31 marzo verranno chiuse come prevede il decreto
Milleproroghe. Le partite Iva intestate alle persone fisiche sono 5 milioni e mezzo,
che vuol dire quasi un quarto della popolazione attiva italiana. Più di un milione
sono gli iscritti agli albi professionali, un esercito che comprende avvocati,
architetti, giornalisti, pubblicitari, medici, consulenti aziendali, e via dicendo.
Mentre gli autonomi delle professioni non regolamentate sono circa 3 milioni e
mezzo. In un primo momento il governo aveva deciso che la riforma non riguardava
gli iscritti agli Ordini, poi ha valutato invece di includerli, almeno stando al
documento in circolazione.
Secondo il Codice civile il lavoro autonomo si contraddistingue per il fatto che
l’attività è svolta senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente,
decidendo tempi, modi e mezzi necessari per il compimento dell’opera, nel rispetto
ovviamente degli obiettivi concordati con l’azienda. Tutte caratteristiche che
mancano alle partite Iva di nome, ma non di fatto, che non sono altro che lavoratori
dipendenti senza ferie, riposi per malattia, con straordinari non pagati, e la
possibilità di venire lasciati a casa da un giorno all’altro. Sul sito Networkers.it, il
sociologo Patrizio De Nicola, spiega come si è arrivati a questa situazione. Nel ’96,
quando anche gli autonomi sono stati per legge obbligati a versare contributi alla
gestione separata dell’Inps, l’aliquota era del 10%, ma negli anni è arrivata al 27%. A
quel punto le aziende che nei rapporti collaborazione dovevano accollarsene i due
terzi, hanno cominciato a trasformare i co.co.co e i collaboratori a progetto in
partite Iva, dove i contributi restano sulle spalle dei lavoratori. La riforma del lavoro
del governo Monti, che sta per approdare al Senato, cerca di cambiare le cose.
Poteri di veto e costituzione
Di Angelo Panebianco
(corriere.it, 26/3/2012)
Gli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma
messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o
accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli
oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un
problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del
nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene
detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di
veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta
trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso
secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si
regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde
democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto
equivalga a mettere in discussione la democrazia.
Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è
stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta
no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di
ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione,
la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime
di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il
potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio
sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a
coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza
parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne
toccato, il governo uscì sconfitto.
In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati
aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista
ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate
persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e
Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il
caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da
Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di
classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i
potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per
conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra
con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e
dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci
facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo
pochi mesi fa.
Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in
Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o
riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti
oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo
simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono
proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose.
Al buon cuore del padrone
di Alessandro Robecchi
(ilmanifesto.it, 26/3/2012)
Se vi piacciono i testacoda, se avete una passione per gli autogol e provate
ammirazione per l’autolesionismo, le argomentazioni degli smantellatori
dell’articolo 18 vi suoneranno divertenti.
Impagabile il professor Monti: fare una legge e dire mentre la si fa «Vigileremo sugli
abusi», significa sapere che ci saranno abusi. È come se il chirurgo che opera un
paziente e dicesse al suo staff: «Mi raccomando, delicatezza, poi quando dite ai
parenti che è morto».
Il presidente della Repubblica, da primo sostenitore del governo Monti (più di certi
ministri, a dar retta alle cronache), difende a spada tratta la riforma, e nel contempo
dice che il problema non è l’articolo 18, ma «il crollo di determinate attività
produttive». Che crollano perché le amministrazioni non pagano le imprese, perché
i picciotti ti taglieggiano, perché i politici chiedono mazzette, perché le sentenze si
aspettano per anni. Di leggi su queste cose non se ne vedono, e sull’articolo 18
invece sì. Saranno anche professori, ma non di logica.
Ferruccio De Bortoli sul Corriere rimprovera (proprio a noi del manifesto, wow,
siamo famosi!) «Una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di
creare un solco ideologico». E perché? Perché pensiamo, e scriviamo, che con una
legge che rende facili i licenziamenti, gli imprenditori licenzieranno più facilmente.
Siamo proprio scemi: pensiamo che con una legge che abolisce le strisce pedonali ci
saranno più pedoni investiti. Ma come ci viene in mente! Ideologici, eh! Nel
frattempo, il Corriere, che è poco ideologico, mette a pagina 53 la sentenza sugli
operai Fiom della Fiat di Melfi, reintegrati dalla magistratura, che con la nuova
legge sarebbero disoccupati «legali».
Insomma: cari imprenditori, vi facciamo una legge per licenziare, ma voi, mi
raccomando, non usatela troppo. Ci appelliamo al vostro buon cuore. Parafrasando
Jessica Rabbit, quello schianto di cartoon: «I padroni non sono cattivi, è che quelli
del manifesto li disegnano così!».
L’estremismo del capitale
di Guido Viale
(ilmanifesto.it, 27/3/2012)
Ferruccio de Bortoli in un suo editoriale sul Corriere della Sera di sabato ritiene che
il rischio che le imprese usino la riforma dell’art. 18 per liberarsi anche dei
lavoratori scomodi (come ho sostenuto sul manifesto) oltre che di quelli anziani o
logorati dal lavoro (come ipotizzato lo stesso giorno dal prof. Mariucci su l’Unità)
rispecchi «una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe che non
corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro». Poi
si chiede se le minacce dei capi a cui facevo riferimento nel mio articolo del giorno
prima – «Appena passa l’abolizione dell’art. 18 siete fuori!» – rappresentino
effettivamente «il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato
episodio». Rispondo: forse non in tutte; ma in molte aziende certamente sì.
Altrimenti non si capirebbe come mai decine di migliaia di lavoratori abbiano
risposto immediatamente, superando spesso anche le divisioni sindacali, alla
dichiarazione di sciopero di Fiom e Cgil.
Questo è sicuramente il clima che si respira negli stabilimenti Fiat, dove una
sentenza di appello ha sancito che il licenziamento di tre operai, iscritti o delegati
della Fiom, è stata una rappresaglia antisindacale. Da mesi poi si ripetono, su
giornali e talk show, denunce del fatto che dalle riassunzioni nello stabilimento Fiat
di Pomigliano sono stati esclusi completamente gli iscritti alla Fiom.
È noto che le rappresentanze della Fiom sono state “espulse” da tutti gli stabilimenti
Fiat. Ma c’è di più: il manifesto ha riportato, senza essere smentito né denunciato,
che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai nello stabilimento di
Pomigliano – e che tanto sono piaciute al prof. Pietro Ichino, in visita guidata alla
fabbrica (una visita di tipo “sovietico”) – sono state usate a fine turno per
«processare» e umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i
nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare «sono un uomo di merda».
Risultano anche numerose le pressioni su mogli di operai Fiom in cassa
integrazione perché inducano i mariti ad abbandonare l’organizzazione se vogliono
tornare in fabbrica. Di fronte a notizie del genere il direttore di un giornale avrebbe
forse dovuto affidare a un suo inviato un’inchiesta sul posto. Non se ne ha notizia.
Ferruccio de Bortoli si è dimostrato spesso attento alle discriminazioni razziali del
passato. Colpisce la sua disattenzione per le discriminazioni del presente verso i
lavoratori. Sono episodi isolati? No. Nella competizione per la nomina del nuovo
Presidente di Confindustria, il candidato perdente Bombassei è stato apertamente
appoggiato dall’amministratore delegato della Fiat e lo ha ricambiato dicendo che
condivideva le scelte nelle relazioni sindacali. Ha perso solo per pochi voti: non dice
niente questo sul clima che aleggia in molte aziende? E se così non fosse, perché
mai verrebbe data tanta importanza all’art. 18?
L’accusa di estremismo che De Bortoli mi rivolge ha una spiegazione chiara
nell’elzeviro di un altro ex autorevole direttore del Corriere dedicato al segretario
della Fiom (Repubblica, 22.3). Che «non accetta – per Piero Ottone – il mondo
come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell’offerta, e
manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle
ferriere; oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e la)… Al centro del
suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratori, col pieno diritto, sacro e
inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di
mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più
lavorare». E ancora: «A me sembra – aggiunge Ottone – che l’impostazione
sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro,
diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda,
offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai
lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo… figlio dell’estremismo di
sinistra». E allora? La verità è che la lotta di classe «novecentesca», esecrata da
entrambi i giornalisti, è più viva che mai. È quella del capitale contro il lavoro
raccontata da Luciano Gallino nel suo ultimo libro, che non è mai venuta meno.
Ogni tanto, e si spera in crescendo, c’è anche quella dei lavoratori contro il capitale.
Manifestazione unitaria dei sindacati:
«Contro l’intervento disastroso sulle pensioni»
Mobilitazione delle tre maggiori sigle sindacali per risolvere il nodo della platea di
“esodati”: esclusi dal mondo del lavoro ma non ancora in possesso dei requisiti
pensionistici
(corriere.it, 28/3/2012)
MILANO – Manifestazione unitaria, di Cgil, Cisl e Uil, il 13 aprile a Roma, contro
«l’intervento disastroso sulle pensioni», per il nodo della «platea di esodati» e sul
«tema delle ricongiunzioni onerose». Lo annuncia la leader Cgil, Susanna Camusso,
spiegando che sarà quindi anticipata l’iniziativa Cgil prevista per il 17. «Abbiamo
deciso comunemente con Cisl e e Uil, di anticipare al 13 aprile la manifestazione di
tutti i lavoratori» – spiega Camusso – «per tutti quei soggetti che pagano un prezzo
altissimo di una riforma che è stata fatta senza considerare la realtà». E rincara:
«Tensioni sociali già evidenti, in un Paese attraversato da scioperi e
manifestazioni».
LA CGIL CONTRO LA UE – Al netto della manifestazione unitaria si apre un altro
fronte che vede protagonista la Cgil che lancia l’allarme dopo l’approvazione del
testo varato mercoledì dalla Commissione Europea. «Si tratta di una decisione che
con il pretesto di tutelare i diritti dei cittadini prefigura un’inaccettabile e indebita
ingerenza nel contrasto di interessi che vive nella normale dialettica tra lavoro e
impresa». Lo sostiene Fabrizio Solari, segretario confederale della Cgil, a proposito
del testo varato dalla Commissione Europea e che ora sarà sottoposto alla
discussione del Parlamento di Strasburgo. «La ragione alla base della scelta del
sindacato confederale italiano di adottare codici di autoregolamentazione
nell’esercizio dello sciopero nei servizi pubblici – spiega Solari – riguarda la
doverosa tutela dei diritti costituzionali dei cittadini da contemperare con
l’altrettanto doverosa tutela del diritto di sciopero per tutti i lavoratori. La
successiva legge 146 del 1990 e le modifiche introdotte nel 2000, pur mantenendo
margini di criticità riguardo l’eccesso di vincoli burocratici a cui è sottoposta la
possibilità di effettuare azioni di lotta, non ha mai superato questi limiti».
LA REPLICA (INDIRETTA) DELL’INPS – Sul numero dei cosiddetti esodati «non
c’è ancora un dato definitivo, ma è un fatto certo che c’è un tavolo che sta lavorando
alacremente per rispettare la scadenza fissata dal Parlamento». Il presidente
dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, interviene così sulla questione dei lavoratori che
hanno lasciato il posto di lavoro in base ad accordi aziendali ma che non incassano
ancora la pensione a causa della recente riforma sui limiti d’età. Nel corso di
un’audizione in commissione Lavoro alla Camera, Mastrapasqua ha ricordato
«l’impegno pubblico del ministro Fornero» sulla definizione di un decreto
interministeriale entro giugno. Ma, avverte, «sicuramente ci sono difficoltà nella
definizione delle platee, spero e credo che il decreto venga emanato entro il 30
giugno».
Pensioni, Cgil, Cisl, Uil e Ugl
in piazza contro la riforma
(repubblica.it, 28/3/2012)
Dopo anni i sindaca tornano a protestare in maniera unitaria. Gli “esodati” e le
ricongiunzioni onerose fra gli obiettivi della protesta. Per Camusso è il segnale di
una ritrovata unità. Napolitano: “Sulle questioni sollevate il governo sta studiando
una soluzione”
ROMA – Manifestazione unitaria, di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, il 13 aprile a Roma, contro
“l’intervento disastroso sulle pensioni 1″, per il nodo della “platea di esodati”, e sul
“tema delle ricongiunzioni onerose”. Lo annuncia la leader Cgil, Susanna Camusso,
spiegando che sarà quindi anticipata l’iniziativa Cgil prevista per il 17.
Parlando a margine di un incontro alla stampa estera, Camusso ha spiegato:
“Abbiamo comunemente deciso, con Cisl e Uil, di anticipare al 13 aprile una
manifestazione di tutti i lavoratori per l’intervento della cosiddetta riforma delle
pensioni, per gli esodati e di tutti quei lavoratori che si trovano a dover riaffrontare
ricongiunzioni molto onerose. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a
una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in
essere dei lavoratori”, ha detto il segretario della Cgil.
Poco dopo l’annuncio, anche l’Ugl ha reso noto che si unirà agli altri sindacati nella
protesta di piazza. “Resta fermo il nostro no a un provvedimento iniquo, che ha
colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i
cosiddetti ‘esodati’, a coloro che erano ormai vicini alla pensione”, ha detto il
segretario generale Giovanni Centrella. “Le modifiche attuate successivamente –
prosegue il sindacalista – non sono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma
che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi”.
Secondo Camusso, la manifestazione unitaria può rappresentare un segnale di una
ritrovata unità sindacale. “Proviamo a interpretarlo così”, ha risposto ai giornalisti a
margine di un incontro alla stampa estera sulla possibilità che la manifestazione
possa, appunto, essere il segnale di una ritrovata unità.
Sul nodo degli “esodati” è intervenuto anche il presidente della Repubblica: “C’è una
questione aperta della quale i sindacati chiedono una modifica e credo che il
governo stia studiando la soluzione”, ha detto Giorgio Napolitano.
Sciopero unitario sulle pensioni.
Contro la Fornero anche Cisl e Uil
Il segretario della Cgil Susanna Camusso per la prima volta usa twitter per
annunciare la mobilitazione di tutte le sigle sindacali. Sugli esodati c’è intesa con
Bonanni: È iniquo far pagare a loro tutto il peso della riforma pensionistica
lasciandoli in mezzo alla strada e senza ammortizzatori
(ilmanifesto.it, 28/3/2012)
Anche Susanna Camusso ormai usa i social network come mezzo diretto e efficace
per diffondere le informazioni e per la prima volta in questa maniera annuncia
addirittura lo sciopero unitaria di Cgil, Cisl e Uil sulle pensioni. Il Il 13 aprile a
Roma ci sarà un’iniziativa nazionale unitaria sugli “effetti disastrosi” della riforma
delle pensioni , su “esodati e ricongiunzioni onerose”, scrive su Twitter il segretario
generale. Quindi spiega che sarà “una manifestazione di tutte le organizzazioni
sindacali e di tutti quei soggetti che pagano il prezzo altissimo di una riforma che è
stata fatta senza tener conto della realtà presente e dei diritti in essere dei
lavoratori”. Una manifestazione “di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che
con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere
alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di
una soluzione”. Ma anche “di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle
finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni
molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche”.
La conferma arriva anche dalla Cisl: “Il governo e il parlamento devono risolvere il
problema di centinaia di migliaia di persone che sono rimaste già senza stipendio e
senza pensione per effetto della riforma – dice Raffaele Bonanni – questo sarà
l’obiettivo della manifestazione unitaria che abbiamo organizzato per il 13 aprile”. Il
segretario generale poi precisa: “Il Ministro Fornero ha annunciato nell’ultimo
incontro di Palazzo Chigi un tavolo di confronto con il sindacato su questo tema.
Noi aspettiamo di essere convocati. Ma deve essere chiaro che su questo problema
delle pensioni non faremo sconti a nessuno”. E infine sugli esodati ribadisce: “È una
questione di giustizia sociale e di equità. Non possiamo far pagare a questi
lavoratori ‘esodati’ il prezzo della riforma delle pensioni che si scarica
essenzialmente su di loro, visto che sono rimasti senza ammortizzatori e senza
pensione”.
L’articolo 18 e la Costituzione
Lettera di Gianluigi Pellegrino al direttore del quotidiano la Repubblica
(la Repubblica, 28/3/2012)
Caro direttore, un mio diritto ed il potere del giudice a riconoscerlo possono
dipendere dalla mera volontà del mio avversario in causa? Sicuramente no per
fondamentali principi costituzionali. È allora in poche righe del documento
approvato dal Governo il 23 marzo la sostanziale confessione dell’incostituzionalità
(che sembra davvero manifesta) della previsione che si vorrebbe inserire nel nuovo
testo dell’art. 18, là dove a pag. 10 si legge che ad assumere importanza decisiva ai
fini dell’intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è “la motivazione
attribuita al licenziamento dal datore di lavoro”.
Questo infatti vuol dire, come esplicitato nello stesso capitolo del testo governativo,
che a parte l’ipotesi del licenziamento discriminatorio o disciplinare camuffato, in
tutti gli altri casi di licenziamento pure manifestamente illegittimo perché arbitrario
(non essendovi né ragioni disciplinari né ragioni economiche per disporlo), il diritto
del lavoratore al possibile reintegro viene assurdamente condizionato al tipo di
“bugia” che l’imprenditore ha ritenuto di inserire nella lettera di licenziamento
(appunto la decisiva “motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro”).
Se il datore di lavoro avrà arbitrariamente allegato inesistenti cause disciplinari
allora il lavoratore ha diritto al reintegro; se invece l’imprenditore avrà allegato,
altrettanto arbitrariamente, inesistenti ragioni economiche, solo per questo il
reintegro è escluso!
L’incostituzionalità è quindi intrinseca a questo progetto di riscrittura dell’art. 18 e
riguarda i cittadini in quanto tali prima ancora che come lavoratori. Principi
fondamentali della nostra Costituzione impediscono che l’ambito di tutela di
ciascuno di noi dipenda dalla volontà della nostra controparte (art. 24). Ed è
sempre la Costituzione che impedisce che situazioni identiche vengano trattate in
modo diverso (art. 3). E non c’è dubbio che un licenziamento privo dei requisiti di
legge, lo è allo stesso modo a prescindere da quale sia la falsa allegazione che lo
supporta.
Il progetto del Governo invece consegnerebbe la seguente assurda situazione. Se un
imprenditore vuole semplicemente licenziare (non per discriminazione ma) per
semplice voglia di farlo senza che ve ne siano le sole ragioni che l’ordinamento
prevede per giustificarlo, ebbene l’ambito di tutela del lavoratore dipenderà
incredibilmente da quale falsa ragione il datore di lavoro deciderà di allegare
nell’illegittimo ben servito. Se scriverà che è per ragioni disciplinari, il giudice che
ne accerta l’inesistenza potrà reintegrare il lavoratore. Ma se invece il capo azienda
scriverà che è per ragioni economiche, il diritto al reintegro del lavoratore svanirà di
incanto, e il giudice che pure accerti l’inesistenza anche di quel motivo, viene per
legge costretto a poter accordare solo l’indennizzo. E ciò solo in ragione di ciò che il
datore di lavoro ha (falsamente) dichiarato.
L’incostituzionalità è quindi intrinseca nel progetto del Governo per una sua
clamorosa contraddittorietà interna. Perché da un lato afferma il giusto principio
generale in base al quale in caso di licenziamento illegittimo può esservi anche il
diritto al reintegro (a seconda dei casi che verranno accertati dal giudice); però poi
d’improvviso crea una fessura dove questo diritto svanisce di incanto e per sola
volontà della parte che ha interesse a farlo svanire. Una fessura che all’evidenza
rischia di diventare voragine contraddicendo lo stesso impianto che il Governo ha
stabilito di seguire.
A ciò si aggiunga che la salvaguardia infine inserita dal Ministro Fornero per i casi
in cui il lavoratore riesca a dimostrare che si sia camuffato un licenziamento
discriminatorio o disciplinare, non solo non risolve la questione ma rende
l’ingiustizia ancora più clamorosa. Ed infatti arriviamo al paradosso che dinanzi a
un licenziamento non discriminatorio ma arbitrario che allega inesistenti ragioni
economiche, ha maggiore tutela il lavoratore che possa dire di essersi macchiato di
qualche colpa disciplinare rispetto a quello che invece nessuna colpa possa
attribuirsi!
Il punto è che Costituzione alla mano, a parte le ipotesi di nullità del licenziamento
per discriminazione, tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo devono avere lo
stesso ambito di tutela, quale esso sia. È senz’altro legittima l’opzione del Governo
di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema più flessibile
dove l’intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto. Ma così deve
essere sempre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Non può certo una delle
parti in causa determinare quali siano i diritti della controparte e quali siano i poteri
del giudice, pena la frontale violazione dell’art. 24 della Costituzione che garantisce
ad ogni cittadino (lavoratore o meno che sia) la quantità e l’intensità delle tutele
apprestate dall’ordinamento, non certo dalla volontà del suo avversario in causa. È
davvero sorprendente che si stia creando tutto questo sconquasso su una ipotesi
normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami
di costituzionalità.
Pensioni, proposta di legge Pd per gli esodati.
Nori (Inps): non sono 350mila non abbiamo il
numero
(ilsole24ore.com, 29/3/2012)
Una proposta di legge per intervenire sul caso dei cosidetti esodati. Si tratta di quei
lavoratori «prossimi alla pensione che sono rimasti intrappolati» dalla riforma
previdenziale «in una condizione drammatica: senza stipendio e senza pensione».
La proposta del Pd è stata presentata questa mattina da Cesare Damiano (Pd), ex
ministro del Lavoro del governo Prodi. Sui numeri – 350mila sostiene il Pd – è
guerra. Cazzola del Pdl lo contesta, l’Inps fa sapere che attualmente non esiste un
numero certo.
La proposta Fornero entro giugno
Un contributo, spiega Damiano, per il ministro Elsa Fornero che «ha promesso di
presentare una proposta ad hoc sugli esodati entro giugno. Noi stimoliamo affinchè
questo avvenga realmente» e perché si stanzino risorse adeguate.
In aula 18 interrogazioni su casi di persone esistenti
Il Pd preme dunque perchè Fornero rispetti l’impegno. «Porteremo in aula anche
un pacchetto di 18 interrogazioni a Fornero. Si tratta di 18 casi di persone esistenti.
Questo per dimostrare che noi lavoriamo sulla realtá sociale, non su teorie».
Le modifiche proposte
Damiano ha spiegato che la proposta di legge presentata è semplice. «Noi abbiamo
presentato una pdl molto semplice. C’è un solo articolo che comprende due punti e
che è la traduzione degli ordini del giorno approvati al termine del dibattito sul
decreto milleoproroghe. Il primo punto riguarda i lavoratori che hanno sottoscritto
un accordo di mobilitá e si consente a questi lavoratori di poter fruire delle vecchie
regole». Il secondo punto è una modifica interpretativa tesa ad allagare la platea di
chi, sottoscritto un accordo di mobilitá, può fruire delle vecchie regole: «In questa
nuova versione si dice che i lavoratori che potranno fruire delle vecchie regole sono
quelli che hanno maturato la decorrenza del trattamento pensionistico entro due
anni dall’approvazione della riforma delle pensioni ovvero il 6 dicembre 2011,
quindi entro il 6 dicembre 2013». Infine, le ricongiunzioni onerose. Il Pd preme
perchè si trovi una soluzione: «Si tratta di una misura sbagliata, costosa e ingiusta
per i lavoratori».
Cazzola contesta il numero degli esodati
Il Pd stima la platea degli esodati in 350mila. «Pensioni: i problemi sono tanti – ha
commentato Giuliano Cazzola del Pdl – che bisognerebbe evitare di sparare sulla
Croce Rossa. È in atto una campagna mediatica irresponsabile, secondo la quale ci
sarebbero 350mila lavoratori che, pur essendo privi di retribuzione e protezione
sociale, non avrebbero accesso alla pensione in conseguenza delle nuove regole
introdotte dalla riforma Fornero». Per Cazzola le cose stanno diversamente.
«Esodati, lavoratori in mobilità, in prosecuzione volontaria, inseriti nei Fondi di
solidarietà, a fronte dei requisiti previsti, mantengono le regole previgenti; sono
quindi tutelati dal contesto normativo, anche se esso non fornisce piena copertura a
tutti i casi che presentano dei problemi. Il fatto è che gli stanziamenti finanziari
sono insufficienti, perchè si è allargata la platea dei soggetti derogati senza ampliare
la copertura. Il Governo si è impegnato a provvedere, come previsto entro il mese di
giugno. La legge, comunque, contiene una clausola di garanzia che individua un
percorso di copertura finanziaria (l’aumento delle aliquote dei contributi per gli
ammortizzatori sociali) che sarebbe opportuno evitare per non incrementare il
costo del lavoro», conclude.
Nori (Inps): il numero esatto non si conosce ancora
Non sono 350mila gli «esodati», le persone rimaste prive sia della copertura degli
ammortizzatori sociali che della pensione a seguito del decreto Salva italia, secondo
il direttore generale dell’Inps, Mauro Nori. «Il numero potrebbe anche essere
superiore, o inferiore, dipende dalle scelte che verranno fatte», ha detto Nori a
margine del convegno ‘L’Inps dopo il decreto del Governo Montì. «Il numero va
definito nel momento in cui verranno chiariti alcuni passaggi organizzativi», ha
spiegato.
Credit
www.100news.it è una rassegna stampa di articoli, materiali e interviste comparsi
sul web o sulla stampa italiana e internazionale.
Giancarlo Dosi, Autore
Rosa Schiavello, Graphic Designer
Informazioni e contatti:
[email protected]
Alcuni testi o immagini inserite sono tratte da internet e, pertanto, considerate di
pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore,
vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi.
Scarica

Untitled - 100news.it