Domenica
La
di
DOMENICA 12 APRILE 2009
Repubblica
la società
La Pasqua dei rom e di Gomorra
MARINO NIOLA
cultura
Cacciatori e mercanti di libri perduti
PAOLO MAURI e FRANCESCO MERLO
Oltre quattromila
sono le immagini
del proprio pc
inviate dai lettori
a Repubblica.it
Ecco gli sfondi
su cui cliccano
gli italiani
MICHELE SMARGIASSI
UMBERTO ECO
«E
i sono delle cose che io non faccio e tuttavia ne riconosco l’impatto e il significato sociale. Per esempio non uso il telefonino, se non per chiamare i taxi
se sono in giro, e per il resto resta lo lascio spento
perché il fine primario della mia vita è non ricevere
mai messaggi da tutta quella gente che c’è qui intorno, e possibilmente non inviarne, se non via Repubblica. Eppure capisco come questo strumento stia cambiando la vita di
molte persone, e in certi rari casi persino in senso positivo.
Non seguo abitualmente le partite di calcio se non una volta all’anno. Quando non esisteva neppure il telefonino, un cronista
ha tentato di disturbarmi mentre ne guardavo una con mio figlio
quattordicenne, e il ragazzo ha risposto mirabilmente «papà non
può venire al telefono perché sta ascoltando Brahms». L’episodio ha fatto il giro delle redazioni sportive e da allora sono stato
lasciato in pace durante le partite di cui una volta ogni scomparsa di presule uso compiacermi se sono giocate bene.
(segue nelle pagine successive)
se non fai subito il bravo», disse Alice minacciosa al suo gattino, «ti metto dentro lo specchio, cosa ne diresti?». Quando Lewis Carrol
scriveva questo, gli specchi erano ancora
dure lastre di vetro argentato, magiche, ma
attraversabili solo con la fantasia. Oggi, che
ci vuole? Basta allungare la mano (la manina bianca con l’indice
puntato in alto) e clic, sei già dall’altra parte, in un altro mondo.
Oggi chiunque di noi sa attraversare uno specchio, lo facciamo
tutti i giorni, perché la loro diafana superficie s’è fatta davvero,
come immaginava il reverendo di Oxford, «morbida come un velo, come una specie di nebbia». Non riflette più quel che c’è di qua,
ma quel che c’è di là, il mondo catturato nella Rete. Gli specchi
elettronici davanti ai quali passiamo sempre più ore delle nostre
giornate sono interfacce, membrane osmotiche tra noi e il mondo fisico: sono gli schermi piatti o ciccioni dei nostri computer,
portatili o mastodontici, ruderi o ultimo grido, di casa o d’ufficio.
(segue nelle pagine successive)
C
FOTO CORBIS
Desktop Art
spettacoli
Gli scintillanti palcoscenici del rock
GINO CASTALDO e GIULIANO SANGIORGI
i sapori
La sfida colomba-pastiera
CORRADO ASSENZA e LICIA GRANELLO
le tendenze
Mobili anfibi, per dentro e fuori
AURELIO MAGISTÀ
l’incontro
Paolo Villaggio, l’uomo che non ride
DARIO CRESTO-DINA
Repubblica Nazionale
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 APRILE 2009
la copertina
Animali domestici e non (con il gatto al primo posto),
ritratti di figli e persone care, paesaggi desiderati e lontani
E poi divi del cinema, mostri del rock, eroi e miti politici
Ecco come illustriamo lo sfondo del nostro computer,
facendone una bacheca, un manifesto, una bandiera,
Desktop Art
uno spazio identitario e anche una nuova forma espressiva
Autobiografia collettiva
racchiusa in un clic
MICHELE SMARGIASSI
(segue nelle pagine successive)
osì permeabili che possiamo davvero metterci in castigo il micetto disobbediente, volendo. Infatti ce lo
mettiamo davvero. Il gatto: ecco il re
incontrastato dei desktop, il dominatore dei monitor, il personaggio di
gran lunga più ricorrente su tutti gli schermi. Il
campione di cui disponiamo è sufficiente per esserne certi: sono tremilaseicento i lettori di Repubblica.it che hanno accettato di mostrare a tutti «Il mio desktop», l’immagine fissa che ciascuno
di loro ha scelto come sfondo per le lunghe ore di
lavoro o divertimento davanti a un mouse e a una
tastiera. Quasi certi, perché un dubbio ci assale:
che l’autocensura dei partecipanti abbia filtrato
ed escluso i desktop del desiderio maschile, le
nuove pin-up, equivalenti elettronici dei calendari da gommista, insomma gli sfondi che vengono
di scatto coperti da noiosissimi fogli di Excel quando passa la collega d’ufficio. Scontando questa sospetta assenza, comunque i gatti sbaragliano i cani, ma anche i tramonti sul mare, le cime innevate, i prati fioriti, le vedute pittoresche. Curioso:
compriamo l’attrezzo più tecnologico oggi disponibile e lo tappezziamo di cliché visuali da vecchia
cartolina. Dev’essere un bisogno di rassicurazione, di relax, come le musichette chill-out; un modo per riscaldare il freddo dei bit (c’è anche un sorprendente numero di camini accesi, sui desktop
degli italiani). La finestra che ci si illumina davanti agli occhi ogni mattina, prima di iniziare il lavoro, deve darci un saluto benaugurante. Il desktop
è un talismano.
Desktop, nel mondo fisico, è il ripiano della scrivania, la superficie di lavoro su cui disponiamo, a
portata di mano, gli oggetti materiali di un lavoro
intellettuale. Il loro (dis)ordine è quello delle nostre
menti: «È un caos, ma io mi oriento». Nel mondo
virtuale, il desktop è tutto questo ma anche qualcosa di più: è la soglia tra noi e tutto il resto. «Una retina esterna» per il guru del virtuale Derrick De Kerchove: protesi visuale su cui viene a proiettarsi l’immagine del mondo. Una meravigliosa porta ma anche un pericoloso buco nero che può inghiottirci. I
produttori di computer lo hanno capito. E generosamente ci permettono di «personalizzare» quello
spazio di trapasso, mettendo a guardia un’immagine votiva e consolatrice (per i più timorosi) o aggressiva e seduttrice (per gli avventurosi).
È la nostra nuova porta di casa. I navigatori lo
sanno. Per questo in tanti ci hanno inviato non la
pura e semplice copia elettronica della schermata, ma una fotografia della postazione di lavoro,
della scrivania reale, di quella porzione dello studio, del salotto, dell’ufficio in cui lo schermo (spesso gli schermi, due, tre, anche sei affiancati, un vera iconostasi cibernetica) si erge solenne come
nuovo tabernacolo per il rito dell’immacolata interconnessione. Sono immagini che rincuorano:
non ci siamo ancora trasferiti a pié pari nella virtualità. Penne, fogli, post-it, ma anche tradiziona-
C
li foto dei figli in cornice, la piantina grassa, le ciabatte sul pavimento, il sacchetto delle patatine e la
tazza del tè, peluche e ninnoli sul corpo del pc come soprammobili su un comò: lo spazio del lavoro è ancora a misura d’uomo, dei suoi bisogni materiali, delle sue fatiche reali (la caffettiera su un
fornello da campo: notti insonni per consegnare in
tempo quel lavoro...). Ma il confine va sbiadendo.
L’immagine sintetica sullo schermo tende a mangiarsi il contesto reale. C’è un gatto che sonnecchia
di fianco alla tastiera: ma c’è lo stesso gatto dentro
lo schermo (sarà quello, birichino, messo in punizione da Alice). Oggetti e luoghi d’affezione, ritratti di amici e di persone care, vengono trasferiti nel
quadro luminoso. È l’ambiente reale che ingloba
l’intruso elettronico, o viceversa?
In tutti i casi quella che affiora ogni volta che accendiamo l’apparecchio è un’immagine nostra,
scelta dai nostri sentimenti profondi più che dai
nostri gusti estetici. Quello del computer, insegnano i teorici dei nuovi media, è uno spazio emotivamente sovraccaricato. Il rettangolo dello
schermo non è come la cornice sul camino, non è
un reliquiario di ricordi o una bacheca per le immagini che ci piace avere sotto gli occhi. È più simile a una seconda pelle: una superficie di contat-
La schermata che s’illumina
quando accendiamo il pc
è la soglia tra noi
e il mondo virtuale
nel quale passiamo molte ore
della nostra giornata
to con gli altri. Un’intera generazione è ormai cresciuta con questo involucro interattivo addosso,
nelle sue disparate versioni: display del cellulare,
finestra del gameboy, schermo del pc e del laptop.
Sono gli screenagers, neologismo inventato dal
mediologo Douglas Rushkoff e prontamente accolto dall’Oxford English Dictionary.
I blog dei cyberfanatici sono pieni di dichiarazioni d’amore passionale per il proprio desktop,
perfino di gelosia: «voodoobytesman» per esempio racconta che il vero strazio, quando dovette cedere il proprio laptop alla figlia seienne, non fu il
momento in cui lei cancellò tutti i suoi programmi
e i file d’archivio, ma quando sostituì il suo vecchio
desktop «con un bel cavallo al galoppo. Ho sentito
una fitta al cuore: ecco, il portatile che mi aveva accompagnato in tanti viaggi e battaglie non era definitivamente più mio». Un pezzo dell’Io, un ricettacolo d’identità: «Tanti disinibiti internauti inviano a repubblica.it la foto del loro desktop, senza pudore», confessa «nardi», «io ci ho pensato e ripensato, poi ho deciso di astenermi: il mio desktop
è una cosa privata».
Sfogliare queste migliaia di immagini fa sentire
intrusi, come chi entra in casa d’altri a guardare i
letti sfatti e i cassetti in disordine. La disposizione
delle icone tradisce la personalità dell’utente. Alcuni desktop ne sono interamente ricoperti, al
punto da rendere irriconoscibile l’immagine sullo
sfondo. Ci sono immagini scelte apposta per lasciare un angolo di sfondo uniforme in cui poggiare le icone (il cielo dei panorami, l’ombra di un ritratto) che però finiscono sempre per debordare,
straripando dove non dovrebbero. E questi sono i
disordinati, che lasciano lì dove capita cartelle di
file, collegamenti ad applicazioni, il cestino, vecchi programmi di setup ormai inutili: ci vorrebbe
una colf virtuale che venisse a rassettare ogni tanto (qualche produttore di software deve averla anche inventata). All’estremo opposto ci sono gli ordinatissimi: poche icone, disposte simmetricamente, a girotondo, in processione come vagoncini, incollate ai fogli di un quaderno disegnato, appiccicate come magneti alla foto di un frigo, appese ai rami di un finto albero di Natale. Infine, gli
organizzati: con il desktop pulsante di attività automatiche, le previsioni meteo aggiornate, i titoli
di Borsa in tempo reale, le ultime news che scorrono, l’agenda che ti avverte degli appuntamenti.
Per tutti costoro l’immagine non è più importante
di una tappezzeria, qualcuno ci rinuncia e lavora
sull’azzurro Microsoft in dotazione.
Ma per la grande maggioranza la scrivania virtuale non è un piano di lavoro elegante, né una parete decorativa: è una bacheca, un manifesto, una
bandiera. Uno spazio enunciativo e identitario. Divi del cinema, mostri del rock, eroi della storia, miti politici. Quanti Obama: superano i Che Guevara.
Le falci-e-martello scomparse dalle piazze le trovate qui. E poi slogan, ironie, raffinatezze grafiche,
colpi di genio, ma per chi tutto questo esibire? La
schermologia, neodisciplina che studia le superfici mediali, ci racconta il progressivo restringimento del campo: la visione collettiva del cinema, quella familiare della tv, quella individuale del computer. Password impediscono che estranei accedano
alle nostre scrivanie elettroniche. «Il mio desktop»
è mio come il mio corpo (ecco un desk con la radiografia toracica), o come il corpo nudo dell’amata, visibile solo a me. È un’autogratificazione privata, un piacere solitario. Nessun altro può vedere
lo schermo attraverso cui vediamo tutto: è davvero
una finestra a specchio, di quelle che lasciano sbirciare solo in una direzione. Ma ne siamo proprio sicuri? I nostri desktop sembrano castelli inaccessibili, e invece sono campi di battaglia. Spazi ancora
vergini dal mercato, fanno gola alle multinazionali del software, che cercano di appropriarsene.
Ogni volta che installiamo un programma, quello
tenta di piantare la sua bandierina sul nostro schermo. La Rete è piena di siti che cercano di venderci
o regalarci strepitosi desktop interattivi, magari
con pubblicità allegata. È cominciata la colonizzazione di un territorio incautamente abbandonato
alla creatività individuale. Speriamo di veder nascere un Movimento di liberazione dei desktop.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
L’INIZIATIVA IN MOSTRA
Una foto di famiglia, uno scatto con l’amico
o la fidanzata, un disegno, una spiaggia tropicale,
un cane, un gatto, un pesciolino
L’elenco è una lunga autobiografia collettiva
È l’iniziativa Il mio desktop lanciata da Repubblica.it
a gennaio: si chiedeva ai lettori di inviare le immagini
che usano come sfondo del computer
Oggi sono state pubblicate sul sito centosessanta
gallerie (oltre quattromila immagini, alcune delle quali
riprodotte in queste pagine). E come era già accaduto
lo scorso anno con l’iniziativa Le finestre di fronte,
un’ampia selezione delle immagini inviate saranno
presentate e mostrate nell'ambito di FotoGrafia,
Festival internazionale di Roma (dal 29 maggio
al 2 agosto al Palazzo delle esposizioni)
Una rivolta a colori
contro l’anonimato
dell’era digitale
UMBERTO ECO
(segue dalla copertina)
on annuso cocaina ma sono molto soddisfatto che,
annusandone troppa, tanti grandi manager si siano
buttati in speculazioni avventate e ora siano sul lastrico. Ecco.
Ho pertanto riflettuto alla bella esposizione di desktop
che Repubblica mi ha sottoposto. Io ho un desktop pulitissimo, ovvero con colore di fondo uniforme, perché ho tante
icone di programmi di diversi che devo essere in grado di trovare subito quel che cerco e non potrei permettermi di metterle ai lati per lasciare al centro neppure un disegno di Raffaello con dedica autografa. Anche con lo screen saver mi sono ritirato, dopo molti esperimenti, su quello che mi dà gli
orologi con le ore di tutto il mondo, che almeno serve a qualcosa appena accendo il computer.
Però se molte persone si dedicano a inventare immagini,
molte originalissime, per il loro desktop, la cosa deve avere
un senso, tanto quanto parlare di calcio, e parlarne magari
al telefonino. Così di per sé non avrebbe senso sporcare i muri esterni di casa propria eppure esistono graffitari molto interessanti (che però hanno la prudenza di graffitare sui muri altrui).
Farsi un desktop alla cui invenzione si sono dedicati tempo, fatica, immaginazione e tanta passione vuole dire che,
non appena il computer si illumina, noi dobbiamo ritrovare
qualcosa di rassicurante, e di nostro. In tal senso il desktop
personale può essere un modo per reagire all’anonimato a
cui ci spinge Bill Gates. Lui ci vorrebbe tutti uguali e il desktop personalizzato sarebbe la nostra risposta rivoluzionaria.
Però ritengo significhi qualcosa di più. Che sia il sostituto
della copertina di Linus, ovvero oggetto transizionale?
Infine si potrebbe pensare al desktop come a una nuova
forma di arte. Ogni nuova tecnologia ha generato la propria
arte specifica, molti artisti avevano persino cominciato a
praticare la Fax Art, si pensi ai vari esempi di Computer Art,
in fondo nessuno se ne era reso conto ma anche il telefono
aveva generato la propria forma specifica di invenzione artistica, la telefonata poetica sussurrata, la seduzione via timpano (o coclea, o labirinto, non so bene), e in fondo una forma degenerata dell’arte telefonica è la chiamata del disturbatore notturno in preda a satiriasi.
Ed ecco dunque la Desktop Art, meno effimera di tante altre forme artistiche, e al postutto molto — come dire — libera e morale, perché prodotta per un godimento privato e non
per ottenere il plauso delle folle — salvo il caso di concorso
nazionale.
E in fondo, non si tratta neppure di qualcosa di insostenibilmente nuovo. Dall’invenzione di Gutenberg e sino a parte del Settecento, i libri venivano venduti a fogli stesi e poi
ciascuno se li faceva rilegare a proprio gusto. Per non dire
che, almeno per un secolo, le lettere iniziali si lasciavano in
bianco, in modo che il cliente potesse farle miniare dall’artista di fiducia, avendo così l’illusione di possedere ancora
un manoscritto. Amare un libro perché ha una rilegatura e
delle iniziali diverse da quelle di tutti gli altri è certamente un
piacere aristocratico (e costoso). Democratico e gratuito è
invece avere invece un computer diverso da tutti coloro che
usano il proprio senza fantasia.
E infine, se qualcuno dedica tempo costruirsi il proprio
desktop invece di perdersi in insulse spiate dal buco della
serratura su You Tube, o addirittura sui siti porno, non è forse meglio? E il ministro Brunetta potrebbe considerare fannulloni anche gli impiegati del catasto che usano le ore d’ufficio per farsi un bel desktop?
N
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 APRILE 2009
la società
Al santuario della Madonna dell’Arco, in provincia di Napoli,
accorrono a piedi ogni lunedì in Albis migliaia di fedeli
Il pellegrinaggio si tramuta in un dramma collettivo,
tra furore estatico e superstizione. È solo uno degli antichi
Altre Pasque
FOTOFOTO ALAMY
riti religiosi che sopravvivono nel nostro Paese,
trasformandosi adesso in rappresentazioni postmoderne
La Vergine invocata
dai rom e da Gomorra
MARINO NIOLA
C
SANT’ANASTASIA (Napoli)
orrono, piangono, pregano, gridano, strisciano, implorano, imprecano, si gettano in ginocchio e avanzano fino all’altare. Davanti alla Vergine risplendente d’oro culmina il concitato e drammatico pellegrinaggio che porta ogni anno, il lunedì di Pasqua, un’interminabile schiera di devoti
scalzi al santuario della Madonna dell’Arco, la potente signora dei terremoti, la «grande domatrice
della natura». Siamo a Sant’Anastasia, sotto la mole incombente e minacciosa del Vesuvio. A due
passi da Pomigliano d’Arco dove la Fiat di Marchionne produce l’Alfa Romeo GT, cassintegrazione permettendo, e dove l’industria aerospaziale
Alenia fabbrica tecnologie per la Nasa. Dal mondo
contadino a quello postindustriale. Nel volgere di
pochi anni qui tutto è diventato post.
Centocinquantamila persone rigorosamente
vestite di bianco arrivano a piedi nudi da tutta la
Campania. Sventolano stendardi coloratissimi ricoperti di banconote, portano sulle spalle ceri da
trecento chili, avanzano tra il frastuono dei tamburi e cantano antiche litanie. Un fiume candido che
irrompe tumultuoso da un passato lontano e fa tracimare sul presente tutta la sua arcaica energia. Facendo cortocircuitare la storia in un blob tutto postmoderno. Sottoproletari, precari, contadini,
operai, malati, disoccupati, cassintegrati, impiegati, immigrati, camorristi. Umanità periferiche,
vite interinali, che abitano secoli diversi della storia, si trovano tutte insieme a celebrare un rito pasquale dove la penitenza cattolica e l’esplosione
pagana della primavera, il Cristo che risorge e la na-
tura che rinasce, diventano una cosa sola.
Si chiamano fujenti, letteralmente «i fuggenti»,
questi devoti vestiti di bianco che si struggono per
una Madonna dal volto ferito, forse la prima tra le
icone che sanguinano. È proprio la ferita, simbolo
di un dolore antico, all’origine di questo culto. Si
racconta che il lunedì in Albis del 1500, un giocatore di palla a maglio (un antenato del baseball), furibondo per aver perduta la partita, colpì con la palla di legno il volto della Vergine affrescato sotto l’arco di un acquedotto romano. Le cronache dell’epoca raccontano che l’immagine cominciò a sanguinare e il giovane uomo, colto da una frenesia irrefrenabile, si mise a correre e a saltellare come un
posseduto. Era la punizione della Madonna, o almeno così venne interpretata.
Da allora questa Madonna è ritenuta l’emblema
stesso della potenza, e la sua immagine viene spia-
ta e interpretata come un segno celeste. All’indomani del terremoto del 1980 nei quartieri popolari
di Napoli si sparse la voce che la bocca della Vergine si fosse contratta in una smorfia. Come un sismografo soprannaturale che indica una corrispondenza tra la deformazione del viso e il corrugamento della terra.
Comincia all’alba del lunedì la lunga marcia dei
fujenti. Molti partono addirittura la notte. Li attendono ore di strada e di fatica sull’antico cammino
della penitenza e della speranza. Giunti davanti alla chiesa, i volti si fanno più tesi. E il pellegrinaggio
si trasforma in dramma collettivo. Quando gli uomini vestiti di bianco varcano la soglia della basilica e vedono l’immagine della Madonna la loro
emozione precipita nei gesti da sempre ripetuti di
una ritualità millenaria. Vinti dalla stanchezza, dalla tensione e dalla sofferenza cadono in preda a un
BORMIO
FIRENZE
I “pasquali di Bormio” sono i carri allegorici
dei cinque reparti in cui si divide il centro valtellinese
che sfilano la mattina di Pasqua. La tradizione
prevedeva la sfilata di cinque agnelli ornati posti
su un carro con un bambino e un giovane,
“interpreti” di Gesù bambino e Cristo risorto
Lo scoppio del carro di fuochi d’artificio
e della colombina anima il giorno di Pasqua
a Firenze, in piazza Duomo. Il fuoco viene acceso
dalle pietre focaie che, secondo la tradizione,
provengono dal Santo Sepolcro. L’esplosione
dei fuochi ricorda l’arrivo della primavera
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
IN PROCESSIONE
FOTO MAURIZIO FRASCHETTI
Nella parte alta della pagina,
alcune immagini della festa
della Madonna dell’Arco
I diversi gruppi e comunità
di fedeli custodiscono
una loro immagine
della Madonna,
che il lunedì dell’Angelo
portano in processione
fino al santuario
Le madri di Scampia, della Sanità, dei Quartieri spagnoli
camminano in ginocchio portando in braccio i figli malati
I disoccupati gridano il loro bisogno di lavoro. Giovani
tossicodipendenti implorano di essere liberati dalla droga,
offrendo a Maria siringhe d’oro che vanno ad arricchire
la collezione di ex voto che risale ai primi del Cinquecento
Da una decina d’anni gli immigrati sono i nuovi devoti
furore estatico. Molti entrano violentemente in
trance, come accadeva anticamente nei templi
delle grandi dee mediterranee, e soprattutto in
quello di Cibele, la divina signora della fertilità. Forse non è un caso che il santuario della Madonna
dell’Arco poggi proprio sui resti del tempio di questa dea pagana.
Come in un antico rito di passaggio i pellegrini si
gettano nell’abisso del sacro a braccia aperte e con
gli occhi nel nulla. Così la devozione diventa teatro.
Alcuni intonano un canto lungo e modulato che
sta fra il richiamo del muezzin e il grido dei venditori, e che chiama a raccolta tutti i «figli della mamma
dell’Arco». L’invocazione profondissima e remota
sembra risvegliare le ombre mediterranee che non
hanno mai abbandonato questi luoghi, facendo affiorare una parentela dimenticata tra culti che si richiamano da una sponda all’altra del mare no-
strum. Dalla Grecia al Nord Africa, all’Andalusia.
Mentre da fuori giunge il battito ostinato degli
strumenti che accompagnano le tarantelle e le
tammurriate, nell’oscurità della chiesa la musica
cede il posto al grido. I fujenti urlano i loro mali, il
loro dolore, si buttano di schianto per terra e si trascinano sulle braccia fino all’altare. Alcuni strisciano la lingua per terra. Le madri di Scampia, della Sanità, dei Quartieri spagnoli camminano in ginocchio portando in braccio i figli malati. I disoccupati gridano il loro bisogno di lavoro. Giovani
tossicodipendenti implorano di essere liberati
dalla schiavitù della droga offrendo alla Vergine siringhe d’oro che vanno ad arricchire la imponente collezione di ex voto del santuario: migliaia di
pezzi dai primi del Cinquecento ad oggi, una infinita ricapitolazione di sofferenze patite e di grazie
ricevute. Ci sono perfino i guantoni che Patrizio
Oliva offrì alla Madonna dopo essere diventato
campione del mondo dei superleggeri.
Travestiti e femminielli, capelli biondo platino,
entrano in chiesa tenuti per mano dalle loro madri, donne senza età con i capelli dell’identico
biondo fai da te. Ai mille volti dolenti della tormentata umanità napoletana si aggiungono, da
una decina d’anni, schiere di nuovi devoti: filippini, srilankesi, polacchi, latino-americani e tanti,
tantissimi rom.
Di fronte alla folla ondeggiante, i padri domenicani schierati ai piedi dell’immagine sembrano fare un debole argine all’impetuosa marea umana
che monta verso l’altare. I devoti, alcuni esanimi,
altri urlanti, altri ancora irrigiditi da un tremito
convulso, vengono portati fuori da un efficientissimo servizio d’ordine.
Uno dopo l’altro, i gruppi dei devoti scorrono
davanti all’immagine come un fiume inarrestabile, dall’alba fino al tramonto. Quando il rito si avvia alla sua conclusione i pellegrini prendono la
strada del ritorno per riporre i loro stendardi fino
all’anno successivo. Molti di essi si perdono tra la
folla della fiera che si svolge nelle vie circostanti
sciogliendo la tensione del voto nell’animazione
della festa.
Di fatto è una sorta di sacralizzazione della maternità che conduce da secoli tanti uomini e donne a chiedere protezione e grazia a quella che essi
chiamano la «mamma di tutte le mamme». Un
simbolismo materno che dalle matres matutae, le
oscure madri di pietra che troneggiano nel Museo
archeologico di Capua, si snoda come una sorta di
filo rosso che giunge fino alle “madri dolorose” di
quelle periferie dove si comincia a lavorare ad otto anni e a sedici si è già espulsi dal mercato del lavoro. E dove ogni madre ha sette spade nel cuore.
SULMONA
CASTELVETRANO
Una vera e propria rappresentazione sacra
a Sulmona, con le statue dei santi Pietro e Giovanni
che bussano al portone della chiesa di San Filippo
per annunciare la Resurrezione. La statua
della Madonna fugge in piazza, scorge il Cristo,
si libera della veste nera e scopre un abito verde
In provincia di Trapani si perpetua la messa in scena
barocca dell’“Aurora”. Le statue di Cristo
e della Madonna vengono collocate in due angoli
opposti di piazza Duomo. L’Angelo Nunziante
per tre volte fa la spola tra i due finché madre
e figlio si incontrano allo scoppio dei mortaretti
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 APRILE 2009
CULTURA*
Da sempre i librai del lungosenna parigino hanno alimentato i sogni
dei bibliofili. E, nell’era degli acquisti online c’è ancora chi, rovistando
tra volumi polverosi, va a caccia dell’esemplare raro, della copia firmata
dal grande scrittore o di quella che porta sul frontespizio una dedica curiosa. Una mostra
a Roma celebra quei piccoli templi del commercio culturale tra memoria e nostalgia
Illusioni perdute
sulle bancarelle dei libri
FRANCESCO MERLO
S
PARIGI
ono “quadri mentali” i bouquinistes di Parigi, come il
caffè Flore dove “vediamo”
senza vederli gli scrittori che
al loro tavolo stanno creando i capolavori futuri, come le chiese frequentate dai
gobbi innamorati, come il Pont-Neuf
dove ci si bacia sotto la regia di Prévert.
Allo stesso modo, almeno una volta nella vita, siamo tutti caduti nell’illusione di
trovarli davvero, tra quei libri presentati
alla rinfusa, sbrandellati e coperti di polvere, i famosi stravizi dello spirito, la
grassa segatura dell’ingegno umano.
Hanno infatti la funzione simbolica e
decorativa di altari eretti al Sapere queste famose bancarelle di legno verde disposte in fila sul lungosenna. E benché
tutti sappiamo che non esiste l’oro a
buon mercato, c’è sempre il bibliofilo
improvvisato che si vanta d’avere l’occhio per individuare gli speciali colorini
e gli inequivocabili frontespizi delle edizioni preziosissime. Insomma, il Comune li mantiene a vita e li protegge come
protegge i musei, le biblioteche, le Grandi scuole e tutti gli altri luoghi che qui sono consacrati al Pensiero perché i turisti
a Parigi, come i fedeli alla Mecca, hanno
davvero bisogno di credere nella bancarella metafisica.
E difatti il mondo è pieno di feticisti
che, se bene stimolati, raccontano di
aver trovato lisciando, sfogliando e fiutando il vital nutrimento, non so quale
rarità dimenticata e pur modesta all’aspetto: un volumetto tarchiato, di colore
oscuro ma con qualcosa di irrequieto
che subito ti tocca il cuore e ti commuove. E, guarda caso, stava proprio lì dove
non può stare e dove mai l’abbiamo trovato: dal bouquiniste sulla Senna, un signore più falso dei suoi libri, patacca già
nella tunica grigia e nel baschetto nero
alla parigina, con il bricco di caffè caldo e
il sorrisetto sovvenzionato dal Comune.
Ce n’è uno, Mathieu Delarue si chiama, che al convegno turistico letterario
intitolato Papiers de Paris, Paris de papierin una sala messa a disposizione dal
Municipio del sedicesimo arrondisse-
ment in rue de la Pompe, dice di considerarsi come «un farmacista della morale». Delarue si è messo raccontare che
«tra poesie di nozze, primi saggi di poeti
falliti, romanzi rachitici, almanacchi,
vecchie copertine della Bardot, libelli,
capricci, corbellerie, cenci e cocci della
letteratura» lui regolarmente «imprigiona» lì a casaccio, come fosse un gratta e
vinci, «una perla da biblioteca dello spirito». E una volta persino ci mise — dice
— una prima edizione numerata e firmata di Victor Hugo, e un’altra il calepi-
LE COLLEZIONI ESPOSTE
Una stampa litografica di inizio Ottocento che raffigura un bouquiniste
In alto, una cartolina francese in cui si vede il Louvre. I materiali in mostra
a Roma provengono dalla collezione Ceccarius della Biblioteca nazionale
e da quella del Museo parigino a Roma
no triangolare che era stato di Breton.
Tutti pensano che c’è stato un tempo
in cui le bancarelle erano davvero piene
di meraviglie, quando gli scrittori erano
pochi e quando i lettori erano gli happy
few di Stendhal o i venticinque di Alessandro Manzoni. E invece ride di compiacenza, monsieur le bouquiniste, e lascia intendere che in fondo la bancarella anche allora era già una menzogna e
che mai ci sono finiti i tesori di lettura del
funzionario ottomano caduto in disgrazia e/o del rifugiato della corte zarista. Al
punto che se oggi ci fosse davvero una
bancarella piena di libri preziosi e rari
nessun turista la frequenterebbe e il Comune costringerebbe l’incauto bouquiniste a traslocare in un vero negozio, in
una vera libreria, in un vero quartiere.
E infatti secondo lui nessuno mai si
accorge di quelle splendide fantasie dell’universo che egli cela — per celia verso
il proprio mestiere — tra tanti inutili volumetti uniformi e poveri. La gente compra invece la tazza con la Tour Eiffel da un
lato e la Giocondadall’altro. E, se proprio
si decide a prendere un libro da una di
quelle lunghe file schierate come eserciti, ebbene sceglie una banalità che abbia
però l’aria della rovina, qualcosa che altrove avrebbe guardato con indifferenza
e trattato con pochi riguardi ma che qui
diventa una copia impreziosita dalla vita, dell’Étranger di Camus per esempio:
alla Fnac, in edizione più elegante, costerebbe persino meno.
Dal bouquiniste il libro d’occasione
deve avere l’aspetto logoro che hanno i
turisti, e magari anche le sottolineature
a penna che gli danno un’aria di abito
smesso, e le pagine piegate che sporgono un po’ come una barba e i margini
che, segnati da unghie sconosciute, sono visi rugosi… Alla fine della conferenza gli chiedo se non li invecchia da sé certi libri; se non gli dà lui, per esempio, quel
fondotinta di retorica che si chiama dedica e che spinge anche un tipo scanzonato come me a sfogliare, non importa
quale titolo, per trovare in apertura di Les
effets psychologiques du vinla frase datata 13 luglio1953 «in regalo al signor prefetto di polizia da parte del compagno
socialista Bruno, tre volte arrestato tre
volte innocente: suo uguale, ma non servo». Mi racconta di una copia di Frammenti di un discorso amoroso impreziosita da una dedica in inglese che gli rese
ben 35 euro: «A Joe, l’uomo della mia vita, da parte di Dag, l’uomo della sua vita».
Io ricordo invece un Prévert che Robert comprò «per Jacqueline, compagna… delle mie vite». E ancora un Lu
Hsün con su scritto un misterioso «davvero mi rincresce di piacerti».
È probabile che esistano i collezionisti
di dediche e si sa che anche i libri possono diventare un vizio, ma non è dal bouquiniste che trova soddisfazione il pervertito che si placa quando palpa un’edizione originale e trae fremiti di voluttà
dalle copertine d’antiquariato. Per i viziosi del libro che si incapricciano di vezzose legature aristocratiche e fiutano i
frontespizi d’antan, il mercato è sempre
più specializzato. Per loro, come per i
pervertiti sessuali, la vetrina delle occasioni sta sul web, la sola bancarella piena
di sorprese che ti restituisce persino i libri che ti hanno formato e che proprio
per questo non possiedi più.
NeI libri nella mia vita, delizioso libro
sui libri, Henry Miller smonta infatti la
bibliofilia, ossessione di possedere, per-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
Gli eterni esploratori
dell’edizione alfa
PAOLO MAURI
l raccontoè sempre avvincente, dunque tanto vale ripeterlo. Il 2 febbraio del 1922, alle sette del mattino,
Sylvia Beach, che era la proprietaria a Parigi della libreria inglese Shakespeare and Company, aspettava alla Gare de l’Est il treno proveniente da Digione. Il convoglio non si era ancora fermato del tutto che un controllore le andò incontro e le porse un pacchetto: conteneva
due copie della prima edizione dell’Ulysses da lei stessa
pubblicato. Una copia fu data subito a Joyce e l’altra
messa in vetrina e ben presto attirò l’attenzione dei lettori. La copertina era blu. Quel romanzo, tirato in circa
un migliaio di copie, in parte su carta di lusso e con firma
dell’autore, in parte in forma più economica, era destinato a suscitare lo scandalo dei benpensanti, ma rappresentava una vera rivoluzione letteraria. Tra i primi illustri lettori troviamo Gide, Yeats, Pound, Eliot,
Sherwood Anderson, Dos Passos. Ma non basta: Lawrence Rainey, cui dobbiamo queste notizie (vedi Il vero
scandalo dell’Ulyssesin L’oggetto libro ’98edito da Sylvestre Bonnard) racconta anche che il ritrovamento di certi taccuini della
Beach hanno permesso di sapere chi erano i successivi e
anonimi acquirenti, visto che la
bravissima intellettuale libraia
prendeva nota di tutto.
Un caso eccezionale, non c’è
dubbio. Ma spesso capita, cercando e trovando libri vecchi o
addirittura libri antichi, di incontrare le cosiddette “tracce d’uso”,
quando non addirittura il nome di
un precedente proprietario. Talvolta notissimo. Una parte della biblioteca di Arturo Carlo Jemolo finì
in mano ai bouquinistes della capitale: uno di loro, un certo Mario, aveva una bancarella in piazza Cairoli a
Roma. Spesso con libri a prezzi stracciatissimi. Lì trovai molti anni fa un’edizione delle opere dell’Alfieri in una
trentina di volumi degli anni Venti dell’Ottocento.
Noi cerchiamo i libri e i libri cercano
noi. Giulio Einaudi, negli ultimi anni, comprava d’antiquariato i libri che lui stesso aveva pubblicato mezzo secolo prima e che aveva perduto. Anche i luoghi a volte
contano, Nel recente e appassionato libro di Giampiero
Mughini in veste di bibliofilo pubblicato da Einaudi c’è
un capitolo su Marradi (luogo di origine della famiglia
paterna) e dunque su Campana e il suo dannato esordio.
Un libretto, Canti orfici, stampato dal poeta alla bell’e
meglio a proprie spese e che oggi è quasi introvabile e
dunque molto costoso. Ironia della sorte: vivo l’autore
non si riusciva quasi a vendere. Del resto anche gli Ossi
di seppia di Montale ebbero una sorte simile, anche se
non ci fu mai quell’aura maledetta che avvolge tutta la
storia di Campana.
Cercare le prime edizioni dei nostri poeti è impresa
non semplice: erano spesso plaquettes di poche pagine,
stampate in poche centinaia di copie. Però, facendo un
salto indietro di due secoli, ho visto qualche settimana fa
sul catalogo della libreria antiquaria Mediolanum la prima edizione del Mattino di Giuseppe Parini: un libretto
di una sessantina di pagine, uscito nel 1763. Troppo cara per me, ma mi fa piacere che ci sia. A proposito di grandi lombardi e dei loro libri, mi è tornata in mente l’ultima volta che incontrai Dante Isella. Avevo appena comprato le poesie di Carl’Antonio Tanzi pubblicate postume a Milano nel 1766. Il volume ha appunto una bella introduzione del Parini, che racconta come Tanzi fosse un
uomo spiritoso e un po’ collerico, bravo soprattutto nelle poesie in dialetto milanese. Isella si complimentò: «Io
ce l’ho, naturalmente. Ma l’avrei comprato anch’io. È
una bella edizione, averne due copie non guasta. Sa che
ce n’erano anche degli esemplari su carta azzurra?»
Toccare con mano. Lo diceva bene Dionisotti che una
cosa è leggere un testo in una edizione nuova e un conto
è prendere in mano la prima edizione: fare i conti, cioè,
con l’infanzia di un’opera e magari di una grande opera.
Chi cerca un libro in particolare è meglio che si affidi a Internet mentre il bello del cercare tra bouquinistes e simili è che si va alla ventura e non si sa mai che cosa si può
trovare. Spesso, viaggiando all’estero, si possono fare
scoperte di vecchi o antichi libri nostri che chissà come,
e chissà con chi, hanno viaggiato anche loro. Negli anni
Ottanta mi capitò a Lisbona di trovare a O mundo do livro Le ultime lettere di Jacopo Ortis in una terza edizione
del 1802. È quello l’anno in cui Foscolo, dopo una disgraziata edizione pirata bolognese da lui ripudiata perché pubblicata a sua insaputa e per giunta completata da
un altro, dà alle stampe per la prima volta il suo celebre
romanzo. Oggi lo leggiamo nell’edizione zurighese di
qualche anno dopo, ma quella del 1802 è preziosa.
Qualche volta sarebbe sciocco fermarsi alla prima
edizione, che è la fissazione dei collezionisti: del Pasticciaccio, per esempio, ho comprato per niente da un libraio romano la seconda edizione del settembre 1957 (la
prima è del luglio dello stesso anno). Poi ho letto in una
nota gaddiana di Giorgio Pinotti che quella edizione risultava introvabile. Insomma andar per librerie o bancarelle è sempre un bell’andare. Pontiggia, che era un
eccellente bibliofilo, quando viaggiava visitava sempre
gli antiquari del luogo. Una volta a Buenos Aires con Nico Orengo decidemmo di andar per librerie. Siccome
pioveva senza tregua prendemmo un taxi, che lì non costa niente, e con le pagine gialle in mano girammo per
mezzo pomeriggio. La preda, naturalmente, fu un libro
di Borges.
I
SCORCI DI FINE OTTOCENTO
Nella foto sopra, caccia
al libro tra i bouquinistes
del lungosenna; da destra,
in senso orario,
una veduta di Parigi,
una figurina
con un bouquiniste romano,
una litografia di Grasset
e una stampa
dal Figaro Illustré
ché l’amore per i libri è un sentimento
ben diverso dall’amore per la lettura.
Racconta che negli scaffali che tappezzano la sua stanza non ci sono i titoli che
ha amato di più. Un libro, non appena lo
hai letto, diventa molto più bello se lo regali. Ci sono libri, che altri ci hanno dato
o abbiamo acchiappato chissà dove, che
ancora viaggiano, passano di mano e
tanto più profonda è la traccia che lasciano quanto prima ce ne sbarazziamo.
Della biblioteca di una vita rimane
dunque la bancarella con i libri da deco-
La capitale francese
li protegge come fa
con i musei e i luoghi
consacrati al Pensiero
ro, libri senza dignità che nessuno vuole,
nessuno compra e nessuno ruba. Monsieur Delarue spiega come il fenomeno
del furto del libro, che è un problema per
i librai di Parigi, sia quasi inesistente per
i bouquinistes. Appassionati, gentili e
raffinati, pieni di interessi e di sentimenti, i ladri di libri sono gli ultimi ladri perbene che ci sono in giro. I bravi librai sanno che un libro rubato è comunque un libro che sarà letto e perciò susciterà nuove curiosità e nuove letture piuttosto che
nuovi furti e nuovi crimini. Meglio dunque un libro rubato che un libro non letto: «Una volta sola mi è capitato il ladro.
Mi aveva rubato — pensate — Le suicidologe,dizionario dei suicidi celebri edito da Le Castor Astral. L’ho invitato a cena e gli ho salvato la vita».
LA MOSTRA
Con Les Bouquinistes - Librai ambulanti
tra Parigi e Roma la Biblioteca nazionale
centrale di Roma propone dal 21 aprile
al 20 giugno una carrellata di immagini
(alcune sono in queste pagine)
e documenti dell’editoria parigina a cavallo
tra Ottocento e Novecento
L’evento si inserisce nella rassegna
Sous le ciel de Paris 2009
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 APRILE 2009
La sobrietà di Springsteen, le invenzioni dei Pink Floyd,
gli scenari alieni di David Bowie, le macchine febbrili degli U2
Per ogni loro concerto, un luogo e una scenografia diversa,
spesso rivoluzionaria, a volte semplice guscio vuoto della caduta creativa. Ora un libro
SPETTACOLI
raccoglie i dietro le quinte dei luoghi in cui si celebra
l’unico rito pagano collettivo, il live
THE WALL WORLD TOUR
Sopra, disegno quadrangolare
di Mark Fisher per il Wall World Tour
dei Pink Floyd; nella foto grande,
i Pink Floyd a Torino
per il Division Bell Tour
Nell’altra pagina dall’alto,
Ligabue, Madonna,
i Radiohead e i Rolling Stones
GINO CASTALDO
ietro i palcoscenici del
rock c’è tutta l’ambiziosa
magia del sogno, la virtù
illusionistica di una cultura che ha coltivato l’insano desiderio di creare
eventi dello spazio-tempo fuori dalla
normalità della percezione quotidiana.
Quella delle scenografie del rock è una
storia nella storia, una definizione artistica degli spazi che ha assorbito (come
del resto il rock ha fatto a partire dalle sue
matrici musicali) linguaggi diversi: il teatro, la mimica, la pittura, l’architettura, il
cinema e la fotografia, spesso mescolandoli con spudoratezza, con audacia,
creando magnifiche illusioni, a volte
fraudolente, per coprire con sfarzi inimmaginabili un vuoto di creatività artistica, altre volte generando moduli avanzati e spiazzanti, idee innovative che poi
sono stati riassorbite dalle stesse discipline saccheggiate inizialmente dalla
onnivora e tentacolare natura del rock.
Grazie al rock sono state possibili ricerche notevolmente avanzate a livello
tecnologico, talvolta spericolate, audaci
anche nelle proporzioni, vista l’attitudine ai grandi spazi, alle adunate oceaniche di cui il rock ha dato prova in molte
occasioni. Fronte del palco aveva intitolato Vasco Rossi il suo celebre doppio live del 1990 registrato nel Blasco Tourdell’anno prima richiamando gli echi di lotta nei docks di New York di Fronte del
porto. Fatica e violenza, energia e catarsi, buio e colpi di tamburo, Vasco e Marlon Brando. Tutto insieme, tutto dal vivo
e nell’unico luogo in cui il più grande
rocker italiano continua a dare il meglio
di sé, sul palco.
D
Le effimere cattedrali rock
Lo stesso vale per chi ha avuto il privilegio di “vedere” i concerti storici dei
Pink Floyd (The Wallin primo luogo), le
geniali mise en scene di Peter Gabriel
(che una volta creò un sistema di luci
mobili che interagivano con lui come
personaggi incombenti) o le macchinazioni febbrili e multiple degli U2, ha
vissuto i vertici assoluti della costruzione spettacolare, una globalità coinvolgente ed estrema, la sperimentazione
di una frontiera che non ha avuto confronti possibili con nessun’altra forma
di spettacolo.
I Kraftwerk usarono
quattro robot
al loro posto:
volevano mostrare
che si poteva fare
a meno degli artisti
Serge Latouche
in libreria
Mondializzazione
e decrescita
L’alternativa africana
prefazione di M. Giannini
e V. D’Amico
www.edizionidedalo.it
Questa unicità è ben messa in rilievo
da un libro, On the stage. I grandi palchi
del rock di Cesare Molinari con fotografie di Bruno Marzi (Stampa Alternativa)
nel quale viene descritta la natura ibrida
e multilinguistica dello spettacolo rock.
«Il palco è il luogo della luce, della presenza, della rilevanza. La platea il luogo
dell’ombra, dell’assenza, del sogno. La
penombra in cui è adagiata la platea determina una situazione favorevole agli
incantesimi dell’immaginazione e
marca una soglia invalicabile nei confronti della rappresentazione che avviene sul palco», racconta Molinari. Ma è
anche la celebrazione di un rito, la più
grande festa pagana concessa alla modernità, una sfida di emozioni forti pronunciata con gli strumenti musicali,
certo, ma anche con fasci di luce, enormi pupazzi semoventi, schermi potenti, robot, fumi, oggetti immaginifici. E
c’è un mondo di cose da riepilogare, da
fotografare, da analizzare, per costruire
una possibile storia di questa speciale,
imparagonabile, estrema branca della
dimensione spettacolare.
Il rock ha davvero praticato ogni sentiero possibile, ha cercato spesso avvolgenti minimalismi, la scena l’ha a volte
negata, rifiutata, oppure blandita, suggerita, o esaltata, lanciata verso costruzioni smisurate. Difficile dire se il rock
nella sua essenza ha davvero bisogno di
queste complesse costruzioni. Ovvio
che quando la musica perde di tensione
creativa, gli allestimenti perdono di originalità in maniera direttamente proporzionale. Le cattedrali che girano oggi negli stadi del mondo sono spesso gusci fragorosi e poco nutriti all’interno di
adeguata sostanza, ma è indubbio che
in passato i palchi del rock abbiano vis-
suto momenti inarrivabili, sprazzi di sognate avanguardie, soluzioni avvincenti e perfettamente adeguate alla proposta musicale.
Da un estremo all’altro delle possibilità. A uno come Bruce Springsteen non
serve molto, la sobria crudezza dei suoi
palchi corrisponde al messaggio, la scena è appena un contenitore dove possono materializzarsi energie fiammeggianti, una tavola che deve rimanere
neutra in attesa di pennellate musicali.
Ma pensiamo ai Pink Floyd. Cosa sarebbe stata la loro musica senza le geniali
mise en scene che hanno fatto epoca? I
loro allestimenti sono giustamente passati alla storia perché rappresentavano
molto di più di una semplice illustrazione, andavano oltre i limiti imposti dalla
traduzione di quanto veniva già prodotto nei dischi. Ogni volta che andavano in
tour la scena occupava gran parte dei loro pensieri. C’era un’attenzione maniacale, un punto di vista progettuale, raffinatissimo. Il prodotto finale era, in linea
con la totalità che il teatro musicale aveva sperimentato nella classicità del melodramma, un’opera audiovisuale
completa, nella quale i musicisti (in
controtendenza col culto della personalità diffuso nel rock) quasi scomparivano, annullati da macchine di proporzioni disumane.
La scena può essere ogni cosa, anche
il suo esatto contrario, come quando i
Kraftwerk misero sul palco quattro robot al loro posto, come dire una costruzione talmente autosufficiente da poter
fare a meno perfino degli stessi musicisti. Ma quella era una provocazione, un
monito sugli artifici che stavano minacciosamente prendendo il posto degli individui. Anche Peter Gabriel una volta
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
IL LIBRO
Si intitola On the Stage
I grandi palchi del rock
(Stampa Alternativa,
167 pagine, 25 euro,
in libreria dal 15 aprile)
il libro di Cesare Molinari
con fotografie di Bruno
Marzi che raccoglie idee,
soluzioni, progetti
e segreti
delle scenografie
di memorabili concerti
da The Wall in Berlin
dei Pink Floyd
alle performance
barocche dei Rolling
Stones, alle idee
di Peter Gabriel e David
Bowie al PopMart Tour
degli U2 a Vasco
fino a Madonna
ZOOTV TOUR
FOTO BRUNO MARZI
Accanto, progetti per il palco dello
ZooTV Tour degli U2; sotto,
il progetto Gigabyte City
del Voodoo Lounge Tour
dei Rolling Stones
e uno storyboard
di Mark Fisher
per The Wall
Dr. Dre,
Eminem e Snoop Dogg
proiettavano video
con rapinatori
Poi chiedevano:
“Spariamo?”
volle svelare l’illusione che era
sottintesa a ogni spettacolo musicale.
Aprì una valigia al centro del palcoscenico e come un provetto prestigiatore ci fece entrare tutti i musicisti e poi lui stesso,
scomparendo dalla scena. E ai suoi tempi migliori Michael Jackson chiese aiuto
al mago dei maghi, David Copperfield,
per mettere a punto un momento del
suo show in cui spariva all’improvviso
da un lato del gigantesco palco e riappariva istantaneamente dal lato opposto.
Senza arrivare a tanto ci sono state
scenografie che hanno tradotto in sogni
visivi quello che gli artisti predicavano:
la teatrale fantascienza di David Bowie,
le lunatiche alchimie dei Radiohead, i
disgustosi demoni horror dei metallari,
gli afrori erotici di Prince e perfino il rap
ha avuto i suoi fasti scenici, quando una
volta Dr. Dre, Eminem e Snoop Dogg si
cimentarono in una faraonica tournée
in cui da scenette girate in video si passava magicamente al palcoscenico. Sul
video fermavano dei rapinatori, li bloccavano puntandogli delle pistole alla
tempia e poi dal vivo chiedevano al pubblico: «Che facciamo, spariamo, o no?».
Noi, monaci profani
al servizio della musica
GIULIANO SANGIORGI
er antonomasia: l’abito non fa il monaco, soprattutto
se il monaco in questione è ROCK... così dovrebbe andare. Il rock, coerentemente con i suoi principi di
“strafottenza” estetica e noncuranza della forma, penserebbe solo alla sostanza della sua voce: la musica. Per cui, peso
non avrebbero alcuno, ai fini della sua essenza, abiti da cerimonia, luoghi più o meno sacri, illuminazioni idolatranti o
immaginette iconografiche. Basterebbe un posto qualsiasi,
un buio o un abito qualsiasi perché quel monaco rock entri
in scena a professare “substantia”: e musica sarebbe ovunque! Così dovrebbe andare.
Ma il monaco rock, fin dalla notte dei tempi, in verità sceglie e sceglie una chiesa povera a un’altra sfarzosa e ricca e, quando può, si lascia investire dalla luce di un occhio di
bue che simuli quella divina e lasci, così, l’odore e la scia di un’icona di se stesso nei secoli dei secoli, almeno spera. È
allora che arriva il miracolo. È allora che
si ascolta, si sente, si respira e si vede il
suo credo. Così il rock sceglie ogni cosa
sia necessaria a restare nelle orecchie,
negli occhi, nelle narici, nelle mani, sulla pelle dei suoi seguaci. E prima di tutto seleziona il luogo e la maniera migliore per rendere quest’ultimo “il più
sacro possibile”. Così va.
Eccezion fatta per frati come noi (conventuali devoti al dio bacco Negramaro)
che cercano di percorrere una via nel
mezzo di questa strada. Obiettivo comune è scegliere luoghi tanto sacri
quanto pagani, tanto celebrativi quanto
“casual”. Per cui, sia che si tratti di un
piccolo teatro o di un grande palazzetto
o di un infinito stadio, il nostro atteggiamento è pensare a uno scenario che sia
da un lato rispettoso del sacro, dall’altro,
ossequioso del profano.
Per un palco-evento, abbiamo optato
per una struttura imponente e in acciaio
che riproponesse, semplicemente, l’ossatura ferrosa del rock. Tralicci giganti
hanno creato uno scheletro su cui reggere la pelle sudata di un concerto “vero”, basato sulla sola cruda essenza della musica. Solo due schermi giganti all’esterno palco che rendessero visibile
da ogni distanza quello che in scena sarebbe successo di lì a poco. Ci è sembrato un gesto rispettoso nei confronti di un
altare da attraversare in punta di piedi.
Differente è stato per le scene usate
nell’ultimo tour nei palazzetti dello
sport di tutta Italia. Qui, siamo già più di
casa. Abbiamo optato per soluzioni che
si spingessero un po’ più oltre nell’utilizzo di materiale visual, restando pur
sempre a servizio completo della musica, unica, assoluta e indiscussa protagonista. Proiezioni su tela bianca entravano in scena solo quando avrebbero
dovuto sostenere, con più forza e vigore, il nostro suono. Per ogni tipo di palco e di location cerchiamo sempre di dare un unico concept
artistico, coerente con il mood dell’ultimo album. Così, in linea con il nostro ultimo lavoro La finestra, il comune denominatore, nella scelta di scene e scenografia, è stato l’utilizzo di impalcature che meglio rappresentassero fisicamente
questo grande oblò da cui guardare il mondo. In tour diversi, con strutture diverse, grandi finestre sono state padrone
della scena. Nei teatri con dimensioni e illuminazioni molto
intime. Nei palazzetti dello sport con estensioni più grandi e
con luci più oniriche e diffuse per tutto il tempio. Nello stadio con unica finestra, grande tutto il palco.
L’autore è il cantante dei Negramaro
P
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Sfide di primavera
DOMENICA 12 APRILE 2009
L’una ha avuto successo come prodotto industriale; l’altra,
fragile costruzione che vive di freschezza e di fragranza,
è invece patrimonio e creazione esclusivamente famigliare
Entrambe sono al meglio quando escono dalle mani
di straordinari artigiani. Per contendersi il posto d’onore
al termine del pasto festivo, nel giorno della Resurrezione
LICIA GRANELLO
«C
olomba pasquale Motta, il dolce che sa di primavera». Era il 1934, e
nel bel manifesto disegnato da Adolphe
Mouron Cassandre per
la ditta dell’ex fornaio Angelo Motta, due colombe — l’uccello bianco e il dolce — si sovrapponevano in un fazzoletto di cielo azzurrissimo. Un esempio raffinato di marketing
alimentare, perfetta coincidenza di produzione industriale e sentimento popolare.
Da allora la colomba non ha più smesso di
essere identificata con la celebrazione gastronomica della Pasqua, miscellanea sapiente di valenza simbolica e offerta golosa.
In teoria, il posto d’onore nel menù dei dolci
pasquali dovrebbe essere condiviso con l’uovo di cioccolato. Ma i due dolci non sono assimilabili: dove la colomba è tutto uno sbriciolio di granella e soffice affondar di denti, l’uovo si frammenta in un attimo per svelare la
sorpresa, sua vera ragion d’essere, mentre il
contenitore viene smangiucchiato, senza
troppo curarsi della qualità. E infatti, se per
l’uovo valgono le indicazioni stabilite nel
2003 a carico del cioccolato (minimo 43 per
cento per la dizione “finissimo”, obbligo di citazione di grassi diversi dal burro di cacao), da
quattro anni la colomba gode di un disciplinare tutto suo, che obbliga i produttori a utilizzare lievito naturale e vieta i grassi idrogenati.
La pastiera, invece, non è mai stata oggetto
di normative specifiche perché è impossibile
produrla industrialmente: troppo fragile la
costruzione di un dolce che, tra pasta frolla e
farcitura, vive di freschezza e fragranza. Come per il casatiello (la ciambella salata pasquale), le melanzane al cioccolato o la minestra maritata, ogni famiglia vanta un’interpretazione originale, un primato di sapori
con cui è impossibile scendere a patti.
Così, in un ideale giro di compasso che ingloba Napoli e Costiera, la settimana pre-Pasqua viene vissuta casa per casa in un tormentone di grani bolliti e stampi imburrati.
Ma scegliere la ricotta più setosa o procurarsi
le uova dal parente contadino non basta. Nella ricerca della perfezione culinaria, che fa del
pranzo pasquale napoletano una passerella
trionfale di carni e primizie, da un anno all’altro si programmano la giornata giusta, il nu-
Due modi italiani di dire
Pasqua con dolcezza
Colomba
contro
Pastiera
‘‘
Per far sorridere mia moglie
ci voleva la pastiera
Ora dovrò aspettare la prossima Pasqua
per vederla sorridere di nuovo
FERDINANDO II DI BORBONE su Maria Teresa
d’Austria, “La regina che non sorrideva mai”
mero di pastiere, e soprattutto si sceglie la cucina con il forno migliore: lì, al mattino presto,
comincia la produzione in serie, con tre,
quattro famiglie e rispettivi vicinati da accontentare.
Se i dolci non sono esattamente la vostra
specialità, la pasta frolla si spezza solo a guardarla o siete turbati dalle trentacinque ore di
lievitazione complessive della colomba, attingete senza pudore al meglio dell’arte bianca, regalandovi una super-pastiera artigianale, la sfiziosa colomba al mandarino tardivo di
Ciaculli — creata da Loison in accordo con il
presidio Slow Food — o quella squisita prodotta dai detenuti del carcere di Padova
(commercializzata anche on line su
www.idolcidigiotto.it).
In caso di avanzi, invece di riesumare il caffelatte d’antàn, fate un tortino freddo con la
colomba a cubetti, cioccolato bianco e fondente sciolti a bagnomaria, latte, colla di pesce ammollata e panna montata. Lo chef milanese Giancarlo Morelli garantisce una Pasquetta golosamente memorabile.
itinerari
Simone Finazzi è il pasticciere di “Vittorio”,
ristorante bistellato vicino a Bergamo. Per la sua colomba,
farina con germe di frumento, burro di panna,
miele di zagara e mandorle siciliane biologiche
RINOMATA OFFELLERIA
PERBELLINI
PASTICCERIA
VENETO
DOLCIARIA
MANERA
AL DOLCE
FORNO
PREGIATA
FORNERIA LENTI
Via Vittorio Veneto 46
Bovolone (Vr)
Tel. 045-7100599
Via Salvo D’Acquisto 8
Brescia
Tel. 030-392586
Via Pietragalletto 5
Fossano (Cn)
Tel. 0172-692404
Via Di Lucciano 33/39
Quarrata (Pt)
Tel. 0573-738657
Via Raffaello 11
Grottaglie (Ta)
Tel. 099-5665376
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
Colomba
Il tempo, il grano, l’acqua
gli ingredienti sono gli stessi
L’alter ego primaverile del panettone
diventato dolce-simbolo di Pasqua
grazie alla Motta negli anni Trenta,
è protetto da una legge che vieta
l’uso di grassi idrogenati
Lievito madre
La miscela di acqua e farina,
costantemente rinfrescata
e nutrita con succhi di frutta
e miele, può durare anche
anni. Così l’impasto subisce
una lievitazione naturale
che garantisce la fragranza
Mandorle
Intere, dimezzate,
polverizzate o tagliate
in lamelle, le mandorle
tostate vengono usate
per preparare la glassa
Nelle produzioni industriali
si trovano spesso le armelline
Glassa
Bianchi d’uovo, zucchero
a velo e frusta: così si lavora
la ghiaccia che rifinisce
la colomba. Prima
di spalmare l’impasto
si aggiungono
le mandorle macinate
Uova
Freschissime le uova
da inserire a una a una
nell’impasto, cominciando
dai tuorli e dimezzando
la quota albumi. Nella ricetta
vegana, le uova vengono
sostituite dall’olio di mais
Pastiera
La profumata torta di pasta frolla
ripiena di un impasto a base di ricotta,
uova e grano cotto, nasce come cibo
primaverile. Il nome deriva dalla pasta
cotta con cui veniva farcita
CORRADO ASSENZA
ono stato invitato come arbitro imparziale — vivo su un’isola dove non c’è
tradizione né di colomba, né di pastiera — di una disfida a suon di dolci primaverili, profumi di bontà. Al di là della ricorrenza religiosa, votata alla pace e alla riconciliazione, il periodo tormentato della vita delle gente che nel nostro Paese vive e lavora mi suggerisce di frugare tra similitudini e sintonie più che
occuparmi di chi primeggia e siede sul trono.
Li definirei entrambi dolci sapienti. La colomba, quella industriale padana, è
generata dalle esigenze di una produzione stagionale (il panettone), per la necessità di ammortizzare i costi degli impianti. La pastiera, figlia della generosa cultura partenopea, solare, mediterranea, è intrisa di mille leggende e novelle che ne
datano alla notte dei tempi le forme più ancestrali. Simile, in questo, all’altro dolce bandiera della cultura gastronomica del Sud Italia: la cassata siciliana.
Ma la cosa che più di tutte le accosta è il loro stretto legame con la cultura del
tempo lento (parlo ovviamente delle preparazioni artigianali dei grandi interpreti delle due ricette). Il tempo diventa ingrediente: la lunga preparazione del lievito madre, le ripetute lievitazioni dell’impasto nella colomba, la preparazione del
grano ammollato per giorni e cotto a fiamma bassissima nella pastiera. Al di là della frenesia della vita moderna, il tempo, tanto, tutto quello necessario, riesce come valore intrinseco delle due specialità, restituisce la giusta immagine alla cura
che il singolo artigiano pone nella preparazione del proprio capolavoro.
Il tempo e gli ingredienti. I più poveri, i più umili: il grano e l’acqua. Il primo, sotto forma di farina nella colomba e in forma propria nella pastiera, ha fondamentale importanza nella leggerezza e nel profumo che il dolce emana a partire dagli
impasti preliminari fino all’arrivo in tavola. Abbiamo imparato quali varietà adottare per la preparazione di una grande pasta lievitata, che la parte proteica del grano deve reggere, sostenendone lo sviluppo in cottura. La stessa scienza ci regala
indicazioni valide per scegliere il grano da pastiera, che deve reggere il lungo ammollo ed esprimere delicata fragranza, una volta miscelato con la ricotta e gli altri
ingredienti aromatici. La seconda ha un ruolo vitale per la miriade di microelementi che contiene ed è generatrice di vita nel lievito madre, coccola estrema durante l’ammollo e la cottura di un cereale dall’involucro tenace come il grano. Usare acque di sorgente o acque clorate d’acqedotto fa una differenza incredibile...
Due diversi bouquet, un solo obbiettivo: proclamare a bocca piena l’arrivo della primavera. Impossibile scegliere una delle due. Appartengono entrambe ai
dolci che amo realizzare, sapienti, capaci di raccontare la cultura della gente che
li produce, la bontà della terra e il lavoro dei contadini. Un insegnamento per gli
artigiani di domani, purché ancora disposti, a discapito di qualche sacrificio, a
sfornare dolci come questi, fragranti profumi di primavera. Che sia Pasqua, buona Pasqua.
L’autore, uno dei più rinomati artigiani dolciari italiani,
gestisce il “Caffè Sicilia” di Noto (Siracusa)
S
Ricotta
Di pecora e mucca insieme,
o di sola pecora (secondo
i puristi), va setacciata
e lavorata con gli altri
ingredienti. La sua
freschezza è importante
per bilanciare le note dolci
Grano
Lasciato a lungo in ammollo
(cambiando l’acqua), viene
cotto lentamente nel latte
Può essere tritato per meglio
impastarlo con la ricotta
Nella farcitura tradizionale
i chicchi sono interi
Fiori d’arancio
L’essenza ottenuta lasciando
in infusione i fiori di arancio
amaro (zagare) per un giorno
intero in acqua, scuotendo
e filtrando il liquido,
è la “firma” della pastiera
Si trova anche in fialetta
Canditi
Ben diversi dai tocchetti
di rapa colorata di certe
produzioni a basso costo,
si producono con scorze
di agrumi biologici cotte
a bassa temperatura in bagni
di sciroppo di zucchero
itinerari
Mario Iaccarino dirige il ristorante di famiglia,
il glorioso “Don Alfonso” sulla costiera sorrentina
Nel menù primaverile, uno strepitoso soufflé di pastiera
con sorbetto di fiori di zagara
PASTICCERIA
ALFONSO PEPE
SCATURCHIO
PASTICCERIA
SCHETTINO
MOCCIA
PASTICCERIA
MARIGLIANO
Via Nazionale 2/4
S. Egidio del Monte
Albino (Sa)
Tel. 081-5154151
P.zza San Domenico
Maggiore19
Napoli
Tel. 081-5516944
Via Napoli 129
Castellammare
di Stabia (Na)
Tel. 081-8725203
Via S. Pasquale 77
Napoli
Tel. 081-42506
Via D’Annunzio 7
San Gennarello
di Ottaviano
Tel. 081-5296831
Repubblica Nazionale
DOMENICA 12 APRILE 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
le tendenze
Società liquida
Gli spazi della casa si ibridano sempre più e gli arredi
non sono da meno: tavolini-sgabelli, cucine-armadio,
poltrone-chaise longue... I materiali seguono: plastica, pietra,
ferro invadono anche l’interno dell’appartamento
INTRECCI D’AUTORE
NON SOLO VASO
VESTIVAMO ALLA MARINARA
DESIGN D’ANTAN
Vegetal si ispira alla topiaria,
antica arte dei giardini
Dei fratelli Bourollec per Vitra
Cubalibre di Plust,
a forma di bicchiere tumbler,
ha illuminazione interna
Marseille è una delle quattro poltrone
Dedon Dress Code che Jean-Marie
Massaud “veste” con texture moda
Patricia Urquiola reinterpreta
il passato con Re-Trouvé
In tondino di ferro, per Emu
Mobilianfibi
(ECO)LOGICAL MIND
COME TESSUTO
Dalla prima collezione esterni Roche
Bobois, Bel Air, con seduta profonda
e rivestimento riciclabile
L’effetto ondulato del policarbonato
cita il tessuto plissé. Impilabile
e in sei colori, è Frilly di Kartell
AURELIO MAGISTÀ
nche il design si fa liquido.
Peccato che la metafora di
Zygmunt Bauman, per
colpa della troppa fortuna, sia un po’ inflazionata,
ben oltre i significati che il
sociologo polacco gli attribuiva nel saggio
Modernità liquida. Quindi è quasi con riluttanza che la decliniamo nel design, ma
è la riluttanza dell’inevitabile. Perché la
metafora della liquidità allude alla mutevolezza dei liquidi, che non hanno forma
ma assumono quella del recipiente che li
contiene. Il design è elaborazione di forme. E il design contemporaneo è davvero,
appunto, liquido. Liquido perché crea
forme mutevoli, destinate a mettere in
crisi classificazioni e definizioni consuete, e i caratteri che lo
dominano sono l’eclettismo, la polifunzionalità, la trasformabilità.
Gli spazi della casa
si ibridano: il soggiorno con la cucina, la
camera da letto con il
bagno, fino al caso
estremo dello spazio
unico, sia il loft dei
ricchi che il monolocale di chi, single o
giovani coppie, fa di necessità virtù. Nello
stesso modo, le distinzioni dei mobili tradizionali si indeboliscono: tavolini-sgabelli, cucine-armadio, poltrone-chaise
longue... Le strutture dei mobili incorporano snodi e parti che si muovono e parti
che possono essere aggiunte oppure tolte
per assecondare i bisogni del momento:
l’ormai antico divano letto ha fatto lezione fino a diventare paradigmatico.
Le principali tendenze che già si intui-
A
OTTOCENTO CONTEMPORANEO
Crinoline di B&B Italia ha schienale alto
e rigido - come l’accessorio moda da cui
prende nome - fatto in corda intrecciata
scono del prossimo Salone del mobile, in
programma alla fiera di Rho dal 22 al 27
aprile, sono quasi tutte nel segno di questa liquidità. Fra queste scegliamo quella
più adatta a far da esempio: mobili ibridi
in spazi ibridi. La casa è per definizione
uno spazio chiuso che si definisce come
in, dentro, in opposizione a un out, fuori.
Ma la casa ha le sue eccezioni, spazi di
compromesso e di confine, spazi liquidi
che generano mobili anch’essi ibridi:
giardini, terrazze, balconi, porticati, verande. In concreto questo che cosa significa? Non solo rimandi di elementi stilistici fra mobili da esterno e mobili da interno. Ma anche materiali tipicamente
da esterno come le plastiche, la pietra, il
ferro, che contagiano i mobili da appartamento, mentre i mobili per esterno diventano raffinati ed eleganti: hanno imbottiture, cuscini,
dettagli in tessuto.
Tutto apparentemente poco pratico,
ma si tratta quasi
sempre di elementi
staccabili che possono essere presi e
messi al riparo
quando serve.
La contaminazione fra in e out, poi, è
suggerita da altri dettagli che alludono al
portare dentro e fuori, come le ruote per
chaise longue, tavoli e divani, l’ampliabilità (tavoli allungabili), la chiudibilità (sedie pieghevoli), per una casa dove il movimento degli arredi racconta una vita di relazione altrettanto movimentata. Una
volta si diceva: vestiti, usciamo. Adesso il
fuori, grazie al design, viene risucchiato
dentro. Vengono gli amici e si sta in terrazza, in balcone se di più non si può. I mobili lo permettono, e costa molto meno.
Buoni per dentro e fuori
adatti a una vita in movimento
DOPPIA VOCAZIONE
Alison è il sistema divani per interni e esterni di Rodolfo Dordoni
per Minotti. In legno massello d’iroko, stabilizzato in forni di essiccazione
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 APRILE 2009
l’incontro
Non è più nessuno dei personaggi
televisivi che gli dettero fama:
Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz
A settantasette anni è un narratore
di nostalgie e di amici
scomparsi: De André,
Gassman, Tognazzi...
Gli sono compagne
la memoria, l’intelligenza
acuminata, la scrittura
Mentre sta per uscire
il suo nuovo libro, lui si guarda
indietro e conclude: “Sì, posso dire
di essere stato molto felice”
Solitari
Paolo Villaggio
on riesce a ridere. Sotto il
vetro della sua terrazza
romana di via Anapo ti
aspetti che prima poi
una risata si liberi dalla sua grande pancia o dalla barba bianca o dalla voce da
rodomonte e finalmente ti contagi. Ma
non succede. Attorno tutto è semplice,
essenziale, un po’ triste. Un divano di
tela grezza, una scrivania di legno sottile, un computer, una risma di fogli pieni di appunti, due bicchieri di acqua naturale. Paolo Villaggio non è più Fantozzi, non è più Fracchia, non è più il
cattivo tedesco, il professor Kranz. È un
narratore di nostalgie, di rimpianti, di
amici che sono scomparsi e si sono rivelati insostituibili, di solitudini con le
quali bisogna fare conti che non quadrano mai. I ricordi volano come piume
uscite da un cuscino, sono difficili da
raccogliere. Villaggio usa una memoria
che appare intatta, un’acuminata e diabolica intelligenza e la tenacia presa in
prestito dal fratello gemello. «Piero è un
marziano. Da ragazzo ogni giorno studiava a memoria cento versi dell’Iliade
tradotta da Vincenzo Monti. Lo trascinavo a fatica nelle partite di pallone,
non rivolgeva parola a nessuno. Correva sul campo ripetendo a alta voce la
morte di Ettore. Alla fine la sapevano
tutti, arbitro compreso».
Si comincia da Genova. Metà degli
anni Sessanta. Appena dopo l’esperienza sulla “Federico C.”, nave da crociera
della Costa. Sul ponte Villaggio e De André a fare i menestrelli. «Due piani sotto,
al night, un pianista bravissimo. Lui, Silvio Berlusconi, una voce straordinaria,
la sua vera vocazione. Un incantatore, e
continua a esserlo. Berlusconi non è un
fascista. È piuttosto un utilitarista entra-
il sodalizio con Vaime, Terzoli e Marcello Marchesi. L’incontro con Cochi e Renato: «Grandissimi, due scemi veri.
Pozzetto mi ha sempre divertito molto,
il comico deve essere uno squilibrato,
un malato di mente. Per strada la gente
lo abbracciava e rideva, a me mostravano i pugni. Mi odiavano».
Volti che si affollano. Amicizie, gesti
che sembrano muoversi ancora adesso
nell’aria di questa terrazza al sole. Vittorio Gassman: «Un genio. Lui, sì, buono
davvero, leale e per nulla ipocrita, un signore sia con gli umili sia con i potenti.
Siamo a Madrid, invitati a Villa Italia per
un ricevimento con il re Juan Carlos. Vittorio è ubriaco, precipita lungo lungo
com’è lui su un tavolo pieno di bicchieri che cadono e si frantumano con rumore orrendo. Lui grida mentre ancora
sta volando con la sua voce da baritono:
“Non vi preoccupate, rispondo di tutto…”». Ugo Tognazzi: «Il più intelligente e il più vero. Un uomo che sapeva donare allegria e che vendicava le massaie
perché era orgoglioso di essere un provinciale. Lo ricordo in un Costanzo
Show con Sgarbi e Zecchi che discutevano animatamente e dottamente di ar-
Mi piacerebbe morire
e ricominciare,
vivere nel 36.500
dopo Cristo. Oggi
abitiamo un mondo
imbarazzante,
prigionieri
del presenzialismo
e della mediocrità
FOTO FARABOLAFOTO
N
ROMA
to in politica per difendere le sue aziende e la sua felicità. Oggi è un imperatore
appena punzecchiato da una sinistra
che non esiste, con capi improvvisati
che si azzannano tra di loro con una ferocia da portineria. Veltroni ha un talento da aiuto regista, Franceschini non
so, forse ha dalla sua il vantaggio di essere un po’ più giovane…».
Genova, si diceva. Una balera, sigarette e vino bianco. Canzoni popolari
storpiate, luride, scollacciate più degli
abiti delle ragazzotte appena carine che
spiccavano in una platea in prevalenza
maschile. Paolo voce per così dire narrante, Fabrizio alla chitarra. «Una sera in
fondo alla sala compare un signore
grassottello e con i baffi che assomiglia a
Maurizio Costanzo. È proprio lui. Mi si
avvicina e mi fa: sono un giornalista di
Grazia, venga a Roma, le garantisco che
avrà un grande successo. Io lo guardo
come si guarda uno squilibrato e mi trattengo a fatica dal mandarlo a cagare».
Paolo Villaggio lavora all’Italsider, è
un impiegato di secondo livello, un
banco all’ufficio servizi, uno stipendio
di 120mila lire al mese. È Fantozzi prima della sua nascita. Nella coppia vera
la parte forte è la moglie Maura. È lei a
spingerlo al di là della sua codardia. Gli
dice, più o meno come farà qualche anno dopo la signora Pina con Ugo: «Scegli l’incerto per il certo». Gli domando se
un uomo cattivo, una carogna, è quasi
sempre anche un vigliacco. Dice: «Le
peggiori carogne sono le persone che si
ammantano di bontà. Sono stato tra le
180 suore di Calcutta e ho incontrato
madre Teresa, quando il suo sguardo si
è posato su di me non mi è piaciuto affatto, non era uno sguardo buono. Io sono soprattutto pigro, la pigrizia, come
mi disse Leo Benvenuti, mi ha impedito di diventare un grand’uomo. Sono fisicamente un vigliacco e non sono un
generoso, uso il denaro come mezzo di
corruzione. Ma non sono avaro. La leggenda sulla tirchieria dei genovesi è una
balla, gli avari autentici sono i piccoli
borghesi romani, gentaglia».
A Roma Villaggio arriva nel ‘66, sulla
scena esordisce che è ottobre. «Al “Sette per Otto” di Trastevere, via del Mattonato. Una specie di museo, un sottoscala. Ci sono Garinei, Giovannini,
Marco Ferreri incazzato in un angolo.
Tognazzi va via indispettito perché c’è
troppa gente e lui non riesce a respirare, Flaiano cade dalla sedia per il troppo
ridere, Sergio Saviane scriverà di essere
venuto a vedermi in una cantina pieno
di diffidenza e di avere scoperto uno
spettacolo straordinario e un linguaggio completamente nuovo». La strada si
trasforma in una discesa. Milano, la tv,
te e filosofia. Costanzo a un certo punto
della trasmissione gli chiede le ragioni
del suo silenzio e lui: “Mi scusi dottor
Costanzo, non ho detto una parola perché data la mia ignoranza non ho ancora capito un cazzo”». Alberto Sordi: «Il
primo comico italiano veramente cattivo. Sublime». Totò e Peppino: «Buoni,
ignoranti e poveri. Totò è il nostro Chaplin». Marco Ferreri: «Autenticamente
invidioso, a volte insopportabile, afasico, ma con un ingegno acuto e lampeggiante». Fabrizio De André: «Più simile a
me lui di mio fratello gemello. Gli piaceva giocare a fare l’esagerato, come quella volta che per fregare ventimila lire a
Gigi Rizzi mangiò un topo morto. Negli
anni del successo ci siamo un po’ persi
di vista. Fabrizio era ossessionato dal rischio dell’oblio, di essere dimenticato.
Lo vado a trovare l’ultima volta in ospedale, al San Raffaele di Milano. So che lo
troverò consumato dalla malattia. Metto su un’espressione gioiosa, voglio cercare di rasserenarlo. Lui mi vede e fa:
“Smonta quella faccia, so benissimo
quello che mi aspetta. Ricordati che
quando ti chiederanno di me, dovrai dire che non sono stato un cantautore, ma
un grande poeta”. Ecco, ora lo dico credendoci».
Paolo Villaggio ha settantasette anni.
Scrive libri. La sua Storia della libertà di
pensiero edito da Feltrinelli è stato letto
da moltissimi ragazzi tra i quindici e i diciassette anni. Tra pochi giorni uscirà da
Mondadori Storie di donne straordinarie, biografie delle mamme di uomini famosi, da Mosè a San Francesco, da Gesù
a Dante, da Proust a Hitler. Una macchina del tempo. «Mi piacerebbe morire e ricominciare, vivere nel 36.500 dopo Cristo. Oggi abitiamo un mondo imbarazzante, prigionieri del presenzialismo, della mediocrità nelle arti e della filosofia ereditata dall’America: non conta essere felici ma sembrarlo. E viviamo
nell’invenzione di Dio. Mi domando come si faccia a credere in Dio, con questo
Papa vestito da monaco medievale che
pensa di essere il solo depositario della
verità, con un Vaticano dove regnano
sodomia e pedofilia, con una Chiesa che
è stata peggio dello stalinismo, che ha
inventato la tortura e che bruciava chi
osava anche soltanto ipotizzare che forse la terra non era piatta. Abbiamo venduto tutto e buttato via tutto, anche gli
odori del mare, dei fiori, delle donne».
Torno sulla felicità, mi viene in mente che qualcuno ha detto che vivere è
una preghiera che solo l’amore di una
donna può esaudire. Villaggio mi spiega
di avere sempre evitato il dolore. «Astutamente, come un ebreo, non ho mai
cercato fortune impossibili. Ho il terro-
re delle sconfitte. Due donne, è vero, mi
hanno fatto felice. Mia madre, alla quale ho fatto credere che volevo fare l’aviatore, e mia moglie. Sì, grazie alla mia tenacia assoluta posso dire di essere stato
molto felice. Nel ’45 la guerra era appena finita quando mio padre condusse
mio fratello e me sulla spiaggia. Genova
era segnata dai bombardamenti, eravamo spaventati. Papà ci fece un sorriso
bellissimo e disse: “Non sarà sempre così, la vita è una cosa meravigliosa”. Più
tardi, col successo, mi sono gonfiato come una rana e così ho perduto mio padre. Quando ero libero invece di tornare a casa da lui preferivo andare in Sardegna a fare il coglione. È il mio più grande rimpianto, vorrei poterlo incontrare
ancora una volta, mi basterebbe un pomeriggio, sentirlo leggere per me qualche pagina di un libro. È l’ultimo pezzo
di felicità che mi manca».
Si alza dalla sedia. Deve andare in casa a prendere un’altra bottiglia d’acqua.
L’ampio saio di cotone gli copre il corpo
pallido, ma non gli stinchi che sono glabri, i vecchi si pelano come pulcini.
Quanto è lontano il ragionier Ugo Fantozzi, il suo «com’è umano lei», la sua «è
una cagata pazzesca» che fece crollare il
santuario intellettuale di sinistra della
Corazzata Potëmkin. «Eppure Fantozzi
esiste più che mai. Io l’avevo vestito da
clown, oggi si è travestito. Porta gli orecchini, esibisce l’abbronzatura artificiale e i capelli impomatati. La dittatura televisiva gli impone desideri comuni e
disperati, il confronto con Berlusconi e
i tronisti di Maria De Filippi. I Fantozzi
di oggi non ce la fanno, il mio a guardar
bene sì. È stato assunto a ventitré anni,
ha il posto fisso, una moglie che lo ama
benché ripugnante, la sua Bianchina, la
gita sul mare di Ostia e la settimana
bianca aziendale. Sta in un inferno, ma
lui ne è consapevole ed è orgoglioso delle cose semplici che possiede. In fondo
non è infelice, è soltanto sfigato».
‘‘
DARIO CRESTO-DINA
Repubblica Nazionale
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