Autori e testi aggiuntivi Parte prima L’età del Barocco Parte prima L’età del Barocco autori e testi Tommaso Campanella La vita e le opere Giovan Domenico Campanella nacque il 5 settembre del 1568 a Stilo, in Calabria, da modesta famiglia contadina. Nel 1583, appena quindicenne, entrò a far parte dell’Ordine domenicano, assumendo il nome di Tommaso. Dopo essere stato in vari conventi calabresi, dove compì gli studi assicurandosi una salda preparazione filosofica, nel 1589, senza il permesso dei superiori, si trasferì a Napoli. Qui acquisì immediatamente un’ampia fama, grazie alla sua vasta cultura, e pubblicò la sua prima opera, La filosofia dimostrata con i sensi (Philosophia sensibus demonstrata). 2 Alcuni atteggiamenti di Campanella e soprattutto l’avvicinamento a posizioni non molto ortodosse (lo scrittore tra l’altro mostrò interesse per la teoria copernicana) gli guadagnarono la diffidenza dei superiori. Nel 1592, sotto l’accusa di possedere un demone familiare, il frate domenicano fu sottoposto a processo, al termine del quale gli fu imposto di ritornare in Calabria. Campanella, però, non obbedì e iniziò a vagabondare per l’Italia: fu a Roma, a Firenze e poi a Padova, dove conobbe Galilei e maturò un sempre maggiore interesse per le questioni politiche. Ma, ben presto, fu arrestato; rilasciato poco dopo, fu nuova- Parte prima | L’età del Barocco mente arrestato dall’Inquisizione nel 1594, con l’accusa di essere autore di opere blasfeme. Condotto a Roma, fu duramente torturato e costretto ad abiurare. Dopo un periodo di prigionia nelle carceri del Sant’Uffizio (dove, in quel periodo, era rinchiuso anche Giordano Bruno), fu rimandato in Calabria nel piccolo Convento di Santa Maria del Gesù di Stilo. L’insofferenza, da tempo provata da Campanella, per le ingiustizie e le ipocrisie dilaganti nella società contemporanea, crebbe quando egli constatò la miseria e l’oppressione in cui versava la Calabria, giungendo nel 1599 a organizzare un’insurrezione che mirava ad abbattere il potere spagnolo ed ecclesiastico e a creare un governo di tipo comunistico. Ma la congiura, che pur aveva potuto contare sull’appoggio non solo di molti contadini ma anche di gruppi di nobili e uomini di Chiesa, fu scoperta e Campanella venne arrestato il 6 settembre dello stesso anno. Mentre gli spagnoli scatenavano una feroce repressione contro i ribelli, il frate domenicano fu condotto a Napoli, dove fu processato sia per eresia che per tentativi sovversivi e condannato alla carcerazione perpetua, dopo che egli, per scampare alla pena capitale, si era finto pazzo e con grande coraggio aveva sopportato ogni sorta di tortura. Nelle carceri napoletane, dove sarebbe rimasto per ben ventisette anni, Campanella subì inizialmente trattamenti molto duri (per quattro anni, tra il 1604 e il 1608, fu recluso nella “fossa” di Castel Sant’Elmo), ma poi gli fu concesso di ricevere visite e di tenere corrispondenze epistolari con alcuni intellettuali del tempo. Durante i lunghi e drammatici anni di prigionia, il filosofo scrisse instancabilmente numerosi testi, tra cui le Poesie, Città del Sole, la sua opera più nota, e l’Apologia di Galilei (Apologia pro Galilaeo), in cui, in occasione del processo a cui fu sottoposto Galilei nel 1616, si pronunciava a favore dello scienziato toscano (anche se esprimeva delle riserve sulla validità del sistema eliocentrico). Campanella, intanto, mostrava di adeguarsi a posizioni ortodosse, pur continuando a farsi promotore di una riforma in seno alla cristianità; di conseguenza controversi e instabili furono i rapporti con la Chiesa, che a volte assunse atteggiamenti concilianti altre volte molto duri, giungendo a sequestrare al filosofo tutti i suoi manoscritti. Nel 1626 Campanella fu liberato dalle autorità spagnole e consegnato all’Inquisizione romana. Costretto al domicilio forzato nel Palazzo del Sant’Uffizio, riuscì ad accattivarsi le simpatie del pontefice Urbano VIII e a stabilire con lui un rapporto di amicizia; nel 1629 ottenne finalmente la libertà e la cancellazione del suo nome dall’Indice. Un nuovo rischio per Campanella si delineò quando, nel 1633, a Napoli fu sventata una congiura ordita da un suo discepolo: di fronte al pericolo di essere nuovamente arrestato dagli spagnoli, lo scrittore abbandonò l’Italia e si rifugiò a Parigi. Grazie alla benevola accoglienza del cardinale Richelieu e del re Luigi XIII e a una pensione assegnatagli dal sovrano, il frate domenicano trascorse serenamente gli ultimi anni della sua vita, dedicandosi alla riorganizzazione e alla stampa dei suoi numerosissimi scritti. Morì il 21 maggio del 1639. Il profilo letterario L’esistenza di Campanella, segnata da esperienze estreme e drammatiche, dalla lunga prigionia, dalle torture più atroci, dalla simulazione della pazzia, è una delle vicende più emblematiche dell’Italia del Seicento, soggiogata dalla Chiesa della Controriforma e dominata in gran parte dalla monarchia spagnola, la cui politica fu spesso repressiva e vessatoria. Nato in Calabria da una famiglia contadina, Campanella proveniva da una condizione di marginalità sociale e geografica: la Calabria, infatti, era una regione che, come tante altre zone del Meridione, versava in una situazione di miseria e di abbandono ed era notevolmente separata dalla realtà culturale del resto d’Italia; egli, inoltre, apparteneva a una classe sociale Tommaso Campanella come quella contadina che, povera e oppressa, non di rado conosceva esplosioni di rabbia e di rivolta. Ciò dovette incidere non poco sul carattere del filosofo di Stilo, già per natura energico, volitivo e insofferente verso ogni autoritarismo e dogmatismo. Alcuni aspetti caratteristici della cultura contadina e meridionale, come le superstizioni e le credenze magiche, esercitarono senza dubbio il loro fascino su Campanella che, ingegno brillante, precoce e animato da una spiccata curiosità intellettuale, giunse a possedere una formazione filosofica vastissima ed eclettica. Il giovane frate domenicano, infatti, studiò i testi più disparati (molto spesso anche quelli proibiti dalla Chiesa) con l’ansia conoscitiva tipica di chi si interro3 Parte prima | L’età del Barocco ga costantemente e non si accontenta di un’unica verità. Tutto ciò portò Campanella a mostrare una decisa insofferenza verso l’aristotelismo; positivo, invece, fu l’incontro con l’opera del conterraneo Bernardino Telesio (1509-1588) intitolata La natura secondo i suoi propri princìpi (De rerum natura iuxta propria principia), che, in divergenza con l’interpretazione aristotelica, proponeva di spiegare la natura sulla base di princìpi a essa consoni quali il “caldo” e il “freddo” e l’azione da questi esercitata sulla “massa corporea”. La visione di tipo naturalistico, suggerita dalla lettura di Telesio, coniugandosi con gli interessi per la magia e l’astrologia (del tutto estranei, invece, alla prospettiva del filosofo cosentino), condussero Campanella a concepire il mondo come un grande organismo vivente, in cui tutti gli esseri sono accomunati da una stessa sensibilità; e l’uomo può cogliere questo “senso” comune, entrare in contatto con la natura e intervenire su di essa attraverso la magia. Questa profonda unità e comunione tra tutti gli elementi, per Campanella, avrebbe dovuto tradursi in una condizione di concordia universale, in cui ogni essere supera l’egoismo individuale. Questa la prospettiva alla base dei suoi scritti filosofici: La filosofia dimostrata con i sensi, in otto libri, pubblicati nel 1591, e il Del senso delle cose e della magia (1604) in quattro libri. Il pensiero filosofico si saldava strettamente con la dimensione etica, con l’esigenza di una riforma morale all’interno del mondo cristiano, ispirata a un ritorno all’autenticità del messaggio evangelico; e la prospettiva religiosa, a sua volta, si legava con quella politica. Il principio di uguaglianza del Cristianesimo delle origini si traduceva, infatti, nell’aspirazione a una società di tipo comunistico, in cui gli individui avrebbero condiviso tutto: abolita la proprietà privata, vista da Campanella come la causa dell’“amor proprio” ovvero dell’egoismo che offusca l’amore per il bene comune e rende gli uomini nemici, essa avrebbe garantito l’abolizione di ogni distinzione sociale ed economica, salvo quelle gerarchie, non stabilite in base alla ricchezza o a princìpi di carattere ereditario, bensì determinate dalle inclinazioni naturali di ciascuno, per cui a ogni individuo spetta nella società il posto che naturalmente gli compete. Il pensiero di Campanella, dunque, non è mera speculazione, non rimane su un piano esclusivamente teorico, ma intende incidere sulla realtà, promuovere la rigenerazione della società, trasformare il mondo. Il carattere fortemente “militante” della sua filosofia, d’altra parte, si espresse chiaramente nel fallito tentativo insurrezionale del 1599, che mirava ad abolire in Calabria il potere spagnolo ed ecclesiastico e a dare vita a una società di tipo comunistico, non esaurendosi neanche nella lunga e drammatica esperienza della detenzione nelle carceri napoletane. Chiuso in prigione e vista annientata ogni possibilità di azione, il filosofo di Stilo individuò nella scrittura l’unico strumento per continuare a intervenire sulla realtà. Il suo progetto di riforma della Chiesa e della società prende corpo in numerose opere, tra cui il trattato (oggi andato perduto) La monarchia dei Cristiani, in cui l’autore proponeva la sua idea di un mondo unito sotto un unico ordinamento religioso e politico. Questo ideale veniva ripreso, con alcune sostanziali modifiche, nella più tarda opera La monarchia di Spagna del 1600, in cui lo scrittore individuava nella monarchia spagnola il potere capace di realizzare l’unificazione universale. Nei Discorsi ai principi d’Italia, poi, Campanella invitava gli uomini politici italiani a sostenere l’operato della Spagna. L’ideale campanelliano di una società riformata in direzione di un assetto comunistico, in cui gli uomini vivono secondo natura e in pace, trova un’esposizione più chiara e affascinante nella Città del Sole, composta nei primi anni della detenzione nelle carceri napoletane. Città del Sole La Città del Sole, ideata e composta nel 1602, quando Campanella era recluso nel carcere napoletano di Castel Nuovo, conobbe una prima redazione in volgare, rimasta a lungo inedita e pubblicata soltanto agli inizi del Novecento, e una successiva 4 Autori e testi aggiuntivi stesura in latino, stampata a Francoforte nel 1623, a cura dell’amico dell’autore, Tobia Adami. L’operetta è strutturata secondo il modello dell’“utopia”, consistente nel delineare una società ideale, presentata come realmente esistente in un luogo lontano; tale modello si rifaceva alla Repubblica del filosofo greco Platone (428/27-347 a.C.) ed era già stato ripreso dallo scrittore inglese Thomas More (1478-1535) nella sua Utopia del 1516. Campanella immagina un dialogo tra due personaggi, un Ospitalario, cioè un religioso appartenente all’Ordine cavalleresco degli Ospitalieri di San Giovanni a Gerusalemme, e un Genovese, nochiero (timoniere) di Colombo. Quest’ultimo, che ha viaggiato per il mondo intero e conosciuto innumerevoli paesi e popoli, racconta al suo interlocutore di essere stato nella remota isola di Taprobana, dove sorge la Città del Sole. Con dovizia di particolari, il Genovese descrive la configurazione, l’organizzazione sociale e le istituzioni politiche della città, rispondendo alle domande e alle obiezioni avanzate dall’Ospitalario. La città, il cui popolo che ignora la rivelazione cristiana è devoto al Sole, è retta da un Principe Sacerdote, il Metafisico, coadiuvato da tre ministri, Pon, Sir e Mor ovvero Potestà, Sapienza e Amore. In essa vige un sistema comunistico, in base al quale i cittadini vivono in commune, condividendo ogni cosa. Non esistono, quindi, la proprietà privata e la famiglia, viste dall’autore come le cause principali della degenerazione della società, poiché da far casa appartata, e figli e moglie propria nasce l’amor proprio, che offusca l’interesse per il bene comune e mette gli uomini gli uni contro gli altri. Tutti gli abitanti della città hanno la possibilità di studiare e istruirsi e ricevono un’educazione concreta e proficua, fondata sulla Tommaso Campanella conoscenza della realtà e non su un sapere dogmatico e mnemonico. Ognuno lavora e ogni occupazione, sia manuale che intellettuale, ha la stessa dignità. Pur essendo una società di tipo comunistico, esistono delle gerarchie, determinate non dalla ricchezza o da diritti ereditari, ma da princìpi naturali: ogni individuo, infatti, occupa nella società il posto adeguato alle sue inclinazioni naturali e, perciò, la gerarchizzazione non comporta alcuna ingiustizia o privazione. Così ordinata, la Città del Sole vive in armonia e in pace. Attraverso la finzione del dialogo e dell’utopia, dunque, Campanella esponeva il suo progetto di una società razionale, regolata secondo natura e, in quanto tale, giusta, fondata su un sistema di tipo comunistico e su una religione naturale (come avrebbe potuto essere il Cristianesimo liberato da ogni dogma e ricondotto all’eguaglianza e alla tolleranza, veri e autentici princìpi del messaggio di Cristo), secondo quelle idee che avevano ispirato la tentata rivolta calabrese del 1599. Il carattere concretissimo del programma, affidato dallo scrittore a questa operetta, tuttavia, veniva attenuato per ovvie ragioni di cautela, mediante l’artificio dell’utopia, che, se da un lato permetteva di presentare questo tipo di Stato come già esistente, dall’altro garantiva una mitigazione del confronto diretto con la realtà contemporanea, sia mediante l’effetto di estraniamento assicurato dallo strumento del dialogo sia per il ricorso al personaggio fittizio del navigatore genovese, “portavoce” del pensiero dell’autore. 5 Parte prima • L’età del Barocco | autori e testi Tommaso Campanella Parte prima | L’età del Barocco Parte prima | L’età del Barocco La città che non c’è Il fascino immortale della Città del Sole di Campanella è tutto racchiuso in queste pagine iniziali del trattato, dove sono descritti i criteri organizzativi della comunità. La straordinaria armonia che governa la città è il frutto di una nuova educazione morale e spirituale, che tende ad esaltare il valore del bene comune a scapito dell’egoismo e dell’interesse individuale, elementi dominanti nelle società tradizionali. In Campanella, infatti, la prospettiva utopica non è mai disgiunta dalla polemica nei confronti della vita politica e religiosa del proprio tempo. [Città del Sole] Ospitalario Genovese Ospitalario Genovese Or dimmi degli offizi e dell’educazione e del modo come si vive1; si è republica o monarchia o stato di pochi. Questa è una gente2 ch’arrivò là dall’Indie3, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina de Mogori4 e d’altri predoni e tiranni; onde si risolsero5 di vivere alla filosofica in commune6, si ben la communità delle donne non si usa tra le genti della provinzia loro7; ma essi l’usano, ed è questo il modo8. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense9, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare10 cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria11, onde nasce l’amor proprio12; ché, per sublimar13 a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente14. Ma quando perdono l’amor proprio, resta il commune solo15. Dunque nullo vorrà fatigare, mentre aspetta che l’altro fatighi, come Aristotile dice contra Platone16. Io non so disputare, ma ti dico c’hanno tanto amore alla patria loro, che è una cosa stupenda17, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati18. E credo che li preti e monaci nostri, se non avessero li parenti e li amici19, o l’ambizione di crescere più a dignità, seriano20 più spropriati21 e santi e caritativi22 con tutti. 1. Or … vive: il cavaliere dell’Ordine degli Ospitalieri chiede al suo interlocutore, il Genovese, come si vive in questa Città del Sole sotto l’aspetto organizzativo, per quanto concerne cariche pubbliche e magistrature (offizi). 2. gente: si riferisce agli abitanti della Città del Sole. 3. Indie: all’epoca, quando si parlava di Indie, ci si riferiva genericamente all’Oriente asiatico. 4. rovina de Mogori: offensiva militare dei Tartari, chiamati Mogori dall’appellativo di Gran Mogor, dato al loro capo. I Tartari occuparono le regioni settentrionali dell’India a metà del Cinquecento e nel Seicento completarono l’occupazione estendendosi anche al resto del territorio verso nord-ovest e nord-est. 5. si risolsero: decisero. 6. vivere … commune: vivere in comunità seguendo princìpi filosofici. 7. si ben … loro: sebbene l’usanza del comune possesso delle donne non appartenga alle tradizioni della loro terra (provinzia) d’origine. 8. ma essi … modo: ma essi la praticano, ed è questa la regola. 9. ma stan … dispense: la divisione (dispense) dei beni comuni è compito dei funzionari pubblici. 10. appropriare: impadronirsi. 11. Dicono… propria: gli abitanti della Città del Sole sostengono che la proprietà nasce dal desiderio dell’uomo di possedere beni propri, separati dal resto della comunità. 6 Autori e testi aggiuntivi 12. amor proprio: qui s’intende l’egoistico attaccamento ai propri beni. 13. sublimar: innalzare. 14. ognuno … impotente: se si tratta di (sendo = essendo) un potente diventa una persona sempre più avida (rapace) di impossessarsi dei beni che appartengono alla comunità; se, invece, è un debole (impotente) diventa invidioso, quindi un pericolo per tutti. 15. Ma … solo: quando si perde l’amore o l’interesse per i propri beni, resta solamente l’amore per i beni comuni. 16. Dunque … Platone: il cavaliere obietta al Genovese che in una società organizzata con tutti i beni in comune, nessuno vorrà lavorare e fare piaceri e doni al prossimo; è la stessa obiezione che mosse il filosofo Aristotele all’altro grande filosofo greco Platone, che aveva teorizzato uno Stato ideale in un suo trattato (Repubblica). 17. stupenda: stupefacente, meravigliosa. 18. più che … spropriati: amano la patria più di quanto si dice che l’amassero i Romani perché sono meno attaccati ai loro beni (più spropriati). 19. li parenti e li amici: Campanella allude alla pratica del nepotismo molto in uso nella Chiesa del tempo. 20. seriano: sarebbero. 21. spropriati: disinteressati. 22. caritativi: caritatevoli. Ospitalario Genovese Ospitalario Genovese Ospitalario Genovese Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere l’un l’altro. Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non ponno23 donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune; e molto guardano gli offiziali, che nullo abbia più che merita24. Però quanto è bisogno25 tutti l’hanno. E l’amico si conosce tra loro nelle guerre, nell’infirmità, nelle scienze, dove s’aiutano e s’insegnano l’un l’altro. E tutti li gioveni s’appellan frati26 e quei che son27 quindici anni più di loro, padri, e quindici meno figli. E poi vi stanno l’offiziali a tutte cose attenti, che nullo possa all’altro far torto nella fratellanza28. E come? Di quante virtù noi abbiamo, essi hanno l’offiziale: ci è un che si chiama Liberalità, un Magnanimità, un Castità, un Fortezza, un Giustizia criminale e civile, un Solerzia, un Verità, Benficenza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a ciascuno di questi si elegge29 quello, che da fanciullo nelle scole si conosce inchinato30 a tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocini, né assassinii, né stupri ed incesti, adultèri, delli quali noi ci accusamo31, essi si accusano d’ingratitudine, di malignità, quando uno non vuol far piacere onesto32 di bugia, che abborriscono più che la peste; e questi rei per pena son privati della mensa commune, o del commerzio33 delle donne, e d’alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli34. Or dimmi, come fan gli offiziali? Questo non si può dire, se non sai la vita loro. Prima è da sapere che gli uomini e le donne vestono d’un modo atto a guerregiare, benché le donne hanno la sopraveste fin sotto al ginocchio, e l’uomini sopra. E s’allevan tutti in tutte l’arti. Dopo li tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura35, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano ed insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapigli36, fin alli sette anni, e li conducono nell’officine dell’arti, cositori37, pittori, orefici, ecc.; e mirano l’inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro ore tutte quattro squadre si spediscono38; perché, mentre gli altri si esercitano il corpo, o fan li publici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto fanno, o di quell’arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna, nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno ad imparare; e quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null’arte imparano e stanno oziosi e tengono in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica39. Gli offiziali poi s’eleggono da quelli quattro capi, e dalli mastri40 di quell’arte, li quali molto bene sanno chi è più atto a quell’arte o virtù, in cui ha da reggere, e si propongo- 23. ponno: possono. 24. molto… merita: i funzionari (gli offiziali) controllano con molta attenzione che nessuno abbia di più di quanto merita. 25. quanto è bisogno: quanto è indispensabile. 26. frati: fratelli. 27. quei che son: coloro che hanno. 28. che nullo … fratellanza: che nessuno possa far torto a un altro e venir meno al patto di fratellanza. 29. si elegge: si sceglie. 30. inchinato: portato, incline. 31. accusamo: incolpiamo. 32. onesto: sincero. Tommaso Campanella 33. commerzio: godimento. 34. finché … ammendarli: secondo il parere del giudice, per correggerli (o, come sostiene il critico Firpo, per punirli, quindi «a titolo di ammenda»). 35. nelle mura: nella città. 36. scapigli: a capo scoperto. 37. cositori: sarti. 38. si spediscono: sono avviate alle lezioni. 39. Onde … republica: essi, i “solari”, ridono di noi che consideriamo spregevoli i lavoratori, mentre riteniamo nobili quelli che non conoscono alcuna arte e vivono nell’ozio lasciando che vada in rovina lo Stato. 40. mastri: maestri. 7 Parte prima • L’età del Barocco | autori e testi Tommaso Campanella Parte prima | L’età del Barocco Parte prima | L’età del Barocco Ospitalario Genovese no in Consiglio, e ognuno oppone quel che sa di loro41. Però non può essere Sole42 se non quello che sa tutte l’istorie delle genti e riti e sacrifizi e republiche ed inventori di leggi ed arti. Poi bisogna che sappia tutte l’arti meccaniche, perché ogni due giorni se n’impara una, ma l’uso qui le fa saper tutte, e la pittura43. E tutte le scienze ha da sapere, matematiche, fisiche, astrologiche. Delle lingue non si cura, perché ha l’interpreti, che son i grammatici loro. Ma più di tutti bisogna che sia Metafisico e Teologo, che sappia ben la radice e prova d’ogni arte e scienza44 e le similitudini e differenze delle cose, la Necessità, il Fato e l’Armonia del mondo, la Possanza, Sapienza ed Amor divino e d’ogni cosa, e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose celesti, terrestri e marine; e studia molto bene nei Profeti ed astrologia. Dunque si sa chi ha da esser Sole, e se non passa trentacinque anni, non arriva a tal grado; e questo offizio è perpetuo, mentre45 non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al governo. E chi può saper tanto? Anzi non può saper governare chi attende alle scienze. Io dissi a loro questo, e mi risposero: «Più certi semo noi, che un tanto letterato sa governare, che voi che sublimate l’ignoranti, pensando che siano atti perché son nati signori, o eletti da fazione potente46. Ma il nostro Sole sia pur tristo in governo, non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa47. Ma sappiate che questo è argomento che può tra voi dove pensate che sia dotto chi sa più grammatica e logica d’Aristotile o di questo o quello autore48, al che ci vol sol memoria servile, onde l’uomo si fa inerte49, perché non contempla le cose ma li libri, e s’avvilisce l’anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d’ingegno ad ogni cosa, onde è sempre attissimo50 al governo. Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola, non sa quella né l’altre bene; e che colui che è atto ad una sola, studiata in libro, è inerte e grosso51. Ma non così avviene alli pronti d’ingegno e facili ad ogni conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s’imparano le scienze con facilità tale, come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi, e mira in questi fanciulli52». Nel che io restai confuso per le ragioni sue e la prova di quelli fanciulli, che intendevano la mia lingua; perché d’ogni lingua sempre han d’esser tre che la sappiano53. E tra loro non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti, ché però vanno in campagna a correre, a tirar dardo, sparar archibugi, seguitar fiere, lavorare, conoscer l’erbe54, mo una schiera, mo55 un’altra di loro. 41. ognuno … loro: ognuno esprime ciò che conosce di loro. 42. Sole: è il capo supremo della città, il Principe Sacerdote, con poteri spirituali e materiali; è chiara l’allusione a Dio, che tutto regge e governa con la sua onnipresenza. 43. Poi … pittura: tra le qualità di Sole c’è anche un’infinita conoscenza, che spazia in tutte le arti e si fonda sulla pratica. 44. che sappia … scienza: che conosca le origini e gli aspetti di ogni arte e scienza. 45. mentre: finché. 46. Più certi … potente: siamo più sicuri noi nel ritenere che un uomo di così vasta cultura sappia governare, rispetto a voi che innalzate al potere uomini ignoranti per il solo fatto che sono nobili o perché sono eletti da una potente fazione politica. 47. Ma … sa: ma il nostro Sole, poiché sa tanto, pur se fosse incapace nell’esercizio del potere, mai potrebbe essere crudele, scellerato o tiranno. 48. Ma sappiate … autore: il Genovese spiega al suo interlocutore che i “solari” non concordano con il resto dell’umanità nell’at- 8 Autori e testi aggiuntivi tribuire saggezza a coloro che conoscono meglio la grammatica e la logica del grande Aristotele o di qualsivoglia autore. 49. al che … inerte: per la qual cosa (ossia conoscere solo ciò che è scritto nei libri) basta solo la memoria e l’uomo di conseguenza diviene passivo. 50. attissimo: adattissimo. 51. grosso: ignorante. 52. mira … fanciulli: osserva questi fanciulli (per avere la prova che qui da noi s’impara più rapidamente). 53. perché … sappiano: per ogni lingua è necessario che vi siano tre fanciulli che la conoscano. 54. E tra … erbe: tra questi scolari non esiste l’ozio, se non quello che consente loro di imparare comunque; infatti, tra le altre attività, ci sono quelle all’aria aperta dove imparano le tecniche del tiro con l’arco o come si spara con gli archibugi (antiche armi da fuoco) oppure a cacciare gli animali selvatici (fiere) o ancora a conoscere il mondo vegetale (erbe). 55. mo … mo: ora … ora. Parte prima | L’età del Barocco Il dialogo che apre le pagine iniziali del trattato si svolge tra un cavaliere dell’Ordine degli Ospitalieri, denominato appunto l’Ospitalario, e il Genovese, così chiamato perché aveva ricoperto l’incarico di timoniere di Cristoforo Colombo. Il Genovese espone all’Ospitalario i basilari princìpi organizzativi della Città del Sole; in questo dialogo tra i due, il nocchiero, attraverso una serie di argomentazioni, supera tutte le obiezioni del cavaliere, spingendolo a condividere la società perfetta cui egli aspira. Ripercorriamo tutte le tappe dell’efficace argomentazione; come sarà organizzata questa città e come si vivrà in essa? La pace e l’armonia generale sono assicurate dalla comunione di tutti i beni, comprese le donne. La pratica quotidiana della solidarietà e del rispetto degli altrui bisogni tiene al riparo gli abitanti dal rischio dell’amor proprio, quel sentimento, cioè, che nelle società occidentali genera l’egoismo, la sopraffazione e la brutale avidità di guadagno. In luogo dell’amor proprio, nella Città del Sole fiorisce invece l’“amor comune”, ovvero quello spirito di fratellanza che induce gli uomini ad aiutarsi gli uni con gli altri e a sentirsi appartenenti ad un’unica grande famiglia. Sebbene in questa società ideale regni una generale concordia che trae vigore dall’equa distribuzione delle ricchezze in base alle necessità e ai meriti, non manca la pratica della giustizia che è affidata agli offiziali. Essi badano esclusivamente al rispetto dei princìpi morali (Liberalità, Magnanimità, Castità, Fortezza ecc.) che regolano i rapporti tra gli abitanti. Le colpe di cui si macchiano i “solari”, infatti, non sono mai di natura criminale, perché l’educazione alla libertà che essi hanno ricevuto sin da bambini ha eliminato le tendenze brutali e ha esaltato, invece, quella naturale disposizione al bene che, secondo Campanella, in opposizione alle teorie di Machiavelli, è presente in tutti gli uomini. Le mancanze che si manifestano nella Città del Sole, pertanto, riguardano solo il grado di intensità e di disinteresse con cui si opera il bene. Le pene, inoltre, non hanno un carattere punitivo e coercitivo, come nei comuni organismi statali del tempo, ma si prefiggono un fine esclusivamente educativo: esse mirano a correggere l’errore e a rieducare il colpevole attraverso una sua temporanea esclusione dal godimento delle pratiche comunitarie. Il rilievo dato qui, come in tutto il trattato, all’equità del sistema giuridico non può non essere avvertito come una reazione di Campanella alla persecutoria giustizia dell’Inquisizione e del governo spagnolo, che lo condannarono al carcere perpetuo e a pene crudelissime. Nella Città del Sole l’istruzione è impartita in egual misura a ogni abitante e riguarda tutte le materie, sia quelle scientifiche che quelle concernenti i lavori manuali. Al governo della comunità è posto il Sole che si distingue dagli altri per un maggiore grado di sapienza, soprattutto nella metafisica e nella teologia. Nel suo bagaglio culturale non può mancare, però, anche una profonda conoscenza di tutte le altre discipline, comprese quelle tecniche e manuali. Il sistema educativo e i requisiti ritenuti indispensabili per guidare la comunità dei “solari” risultano, a ben vedere, in aperta opposizione con quelli presenti nelle società occidentali, dove le classi dirigenti, di origine aristocratica, disprezzavano i lavori produttivi e vivevano nell’ozio, a danno della moralità individuale e pubblica, e dove i governanti erano designati alla guida dello Stato non in base alla cultura e alla rettitudine, ma esclusivamente per la discendenza e per la forza della propria fazione politica. Il sapiente, secondo la prospettiva di CamTommaso Campanella 9 Parte prima • L’età del Barocco | autori e testi Tommaso Campanella Leggere e interpretare Parte prima | L’età del Barocco panella, pur se inesperto, risulterà sempre più adatto a governare rispetto a un uomo ignorante e ozioso, in quanto la sua sensibilità culturale e la sua umanità gli impediranno, in ogni caso, di agire con cattiveria e crudeltà. Al di là del valore specifico che viene attribuito a un’attività o all’altra, in questa società ideale è la stessa impostazione culturale ad essere completamente diversa da quella tradizionale. Infatti, anziché lo studio ripetitivo dei libri di Aristotele che, secondo Campanella, rende passiva l’intelligenza degli studenti e avvilisce l’anima, a fondamento della pratica didattica della Città del Sole è posta la diretta osservazione della natura, l’unica esperienza che può condurre alla vera conoscenza e che consiste nel sapere come Dio regga le cose. Alessandro Tassoni La vita e le opere Di origini aristocratiche, Alessandro Tassoni nacque a Modena nel 1565; rimasto orfano in giovanissima età, fu allevato dal nonno materno e da uno zio. Dopo un’adolescenza particolarmente turbolenta, durante la quale studiò a Bologna e Ferrara, si laureò in giurisprudenza nel 1592, ma continuò a distinguersi per il suo carattere irrequieto e litigioso, ritrovandosi spesso invischiato in liti giudiziarie e risse varie. Nel 1599 divenne primo segretario del cardinale Ascanio Colonna, al seguito del quale si recò a Madrid, dove soggiornò fino al 1603, anno in cui fece ritorno a Roma in veste di amministratore dei beni dell’alto prelato. Alla fine dello stesso anno, sospettato di essere l’autore di due Filippiche contro gli Spagnuoli (edite nel 1615 e probabilmente scritte da lui, anche se le rinnegò con un solenne giuramento), lasciò la famiglia Colonna, ricevendo ospitalità ora dal cardinale Alessandro d’Este ora presso il principe sabaudo Carlo Emanuele I di Savoia, che Tassoni, in alcuni suoi “avvisi” confluiti poi nel fitto epistolario, definì il «più magnanimo principe» del tempo. Nel 1618 venne nominato segretario dell’ambasciata piemontese a Roma, città che lasciò nel 1620 per raggiungere Torino; l’anno seguente, tuttavia, fece ritorno nella capitale al seguito del duca Maurizio di Savoia per assisterlo in occasione dell’elezione del nuovo papa. Dopo quest’ultimo incarico, si ritirò a vita privata in una piccola abitazione presa in affitto alla Lungara, dove si dedicò completamente ai suoi studi. Nel 1632, intanto, veniva invitato alla corte estense dal duca Francesco I che lo nominò “gentiluomo di belle lettere” e a Modena, sua città natale, si spense serenamente nel 1635. Tassoni fu autore di molte opere, tra cui la più famosa è il poema eroicomico La secchia rapita, pubblicato nel 1622 a Parigi. Prima del suo capolavoro aveva scritto le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca (1609), nelle quali attaccava con tono fortemente polemico i petrarchisti e la tradizione classicista, e la Varietà di pensieri di Alessandro Tassoni (uscita in diverse edizioni nel 1608, nel 1612 e nel 1620), un bizzarro e affastellato insieme di pensieri, nozioni e ragionamenti vari. Compose, infine, anche liriche di tipo burlesco, presenti in un’esigua raccolta intitolata Rime. La secchia rapita Dopo una lunga circolazione manoscritta (in dieci canti) con il titolo La secchia, il capolavoro di Tassoni venne pubblicato per la prima volta (in dodici canti) con il titolo La secchia rapita nel 1622 a Parigi per sfuggire 10 Autori e testi aggiuntivi alla censura ecclesiastica; infine fu definitivamente edito a Venezia nel 1630. Si tratta di un poema eroicomico, genere inventato da Tassoni stesso con la fusione di ingredienti letterari epici e comici. I fatti storici narrati Parte prima | L’età del Barocco risalgono al 1325, ma a essi l’autore mescola, con un evidente anacronismo, l’evento della battaglia di Fossalta (1249) fra i bolognesi guelfi e i modenesi ghibellini e quello della cattura del re Enzo, figlio di Manfredi. La disorganicità del racconto, ottenuta peraltro con la contaminazione di riferimenti storici ed elementi narrativi diversi, è la spia della crisi del genere epico, nella quale l’autore si inserisce con personali valutazioni negative sull’assurdo campanilismo delle città italiane, a cui collega anche la sua satira antispagnola e anticlericale. La trama Il canto I narra il saccheggio di Modena da parte dei bolognesi, che però subiscono dai modenesi, grazie all’intervento di Manfredi a favore di questi ultimi, il furto di una secchia di legno. Dopo lo scoppio della guerra fra le due città, a cui par- tecipano anche gli dei dell’Olimpo, e l’intervento, al fianco dei modenesi, di Enzo, che tuttavia viene catturato dai bolognesi (canti II-VI), si crea a Modena, per difendere la città, un esercito di donne, capeggiato da Renoppia: si giunge così a una tregua (canti VII-VIII). Di Renoppia s’innamora il cavaliere Melindo, che però viene sconfitto dal conte di Culagna, ipocrita, vile e ambizioso, il quale, per avere l’amore di Renoppia, progetta di uccidere la moglie. Costei, scoperto il piano del marito grazie al suo amante Titta, fa bere al conte una sostanziosa purga con effetti comici prevedibili (canti IXX). Dopo un duello fra Titta e il conte di Culagna, si giunge a un’altra tregua, dopo la quale si decide che i bolognesi mantengano prigioniero il re Enzo e i modenesi si tengano la ormai famosa secchia, oggetto dell’aspra contesa (canti XI-XII). Uno dei momenti clou della Secchia rapita è il fallimento del “delitto perfetto” ordito dal conte di Culagna ai danni della moglie. Costei, però, gli gioca un brutto tiro: una vendetta a base di purghe. Estremamente comiche e pungenti, queste ottave sembrano ispirarsi al famoso proverbio: «Chi la fa, l’aspetti». [La secchia rapita, X, ott. 50-53] 50 Il Conte in fretta mangia e si diparte1, ché non vorria veder la moglie morta. Vassene2 in piazza, ov’eran genti sparte3 chi qua chi là, come ventura porta4. Tutti, come fu visto, in quella parte trassero per udir ciò ch’egli apporta5. Egli, cinto6 d’un largo e folto cerchio, narra fandonie fuor d’ogni superchio7. 1. si diparte: si allontana. Ancora una volta Tassoni evidenzia la viltà del conte che si allontana per non assistere alla morte della moglie. 2. Vassene: se ne va. 3. sparte: sparpagliate. 4. come ventura porta: a caso (ventura). Alessandro Tassoni 5. in quella … apporta: andarono verso quella parte per ascoltare le notizie che portava (dal campo di battaglia). 6. cinto: circondato. L’immagine del cerchio di persone che si forma intorno al conte carica l’effetto strabiliante della scena successiva. 7. fuor d’ogni superchio: al di là di ogni limite. 11 Parte prima • L’età del Barocco | autori e testi Alessandro Tassoni Veleno e purga Parte prima | L’età del Barocco 51 E tanto s’infervora e si dibatte in quelle ciance sue piene di vento, ch’eccoti l’antimonio lo combatte, e gli rivolta il cibo in un momento8. Rimangono le genti stupefatte ed egli vomitando, e mezzo spento di paura, e chiamando il confessore, dice ad ognun ch’avvelenato more. 52 Il Coltra e ’l Galïano, ambi speziali9 correan con mitridate e bollarmeno10; e i medici correan con gli orinali, per veder di che sorte era il veleno. Cento barbieri e i preti coi messali gl’erano intorno e gli scioglieano il seno11, esortandolo tutti a non temere e a dir divotamente il Miserere12. 53 Chi gli ficcava olio o triaca in gola, e chi biturro o liquefatto grasso13. Avea quasi perduta la parola e per tanti rimedi era già lasso14, quand’ecco15 un’improvvisa cacarola che con tanto furor proruppe a basso, che l’ambra16 scoppiò fuor per gli calzoni e scorse per le gambe in sui taloni. Metro: ottave di versi endecasillabi; rime a schema ABABABCC 8. E tanto … momento: l’immagine del conte che si agita nel raccontare le sue avventure e l’espressione che sembra personificare l’antimonio (ch’eccoti l’antimonio lo combatte), come se fosse un combattente, creano un effetto di grande comicità. 9. speziali: farmacisti. 10. mitridate e bollarmeno: rispettivamente un antiveleno e un calmante. 11. Cento … seno: intorno a lui c’erano cento barbieri (a quei tempi i barbieri facevano anche piccoli interventi chirurgici) e i preti con i libri da messa che gli aprivano le vesti (per farlo respirare meglio). La scena così descritta raggiunge un risultato di grande vivacità e dinamismo. 12. Miserere: è così chiamato il salmo 50, attribuito a Davide, che invoca il perdono di Dio; il Miserere si recita in cerimonie funebri. 13. Chi … grasso: con l’olio o l’antidoto contro il veleno (triaca), il burro o grasso liquefatto i presenti tentavano di provocargli il vomito. 14. lasso: sfinito. 15. quand’ecco: la comicità irrompe in maniera inaspettata con questo stacco improvviso e il successivo utilizzo di un linguaggio grossolano. 16. ambra: detta anche «ambra grigia», è una sostanza profumatissima presente nell’intestino dei cetacei ed evacuata con gli escrementi. Leggere e interpretare L’elemento tematico del “colpo di scena” domina queste ottaveu della Secchia rapita, che presentano come personaggio principale ancora il conte di Culagna. Ma vediamo brevemente cosa è accaduto in precedenza. Follemente invaghito di Renoppia, guerriera modenese, il conte decide, pur di sposarla, di avvelenare la moglie. Costei, tuttavia, scoperto l’inganno, gli fa ingoiare, con uno scambio di pietanze, una purga, i cui effetti (descritti nelle ottave riportate) si fanno 12 Autori e testi aggiuntivi Parte prima | L’età del Barocco Parte prima • L’età del Barocco | autori e testi Alessandro Tassoni sentire allorquando il conte si trova in piazza al cospetto di una consistente folla. Particolarmente sarcasticau è la scena in cui le persone accorrono in aiuto del protagonista: l’azione è fortemente movimentata, poiché tutti (dai sacerdoti pronti alle preghiere ai medici accorsi con i farmaci) pensano che il conte sia stato avvelenato. Ma la situazione tragica sfocerà alla fine in una comica sorpresa. Avvalendosi dell’uso del “meraviglioso”, in evidente chiave barocca, e della tecnica della rispondenza fra stile e contenuto, Tassoni congegna una serie di indimenticabili scene comiche aventi come protagonista il ridicolo conte. Attraverso la numerosa presenza di verbi, che ben sottolineano il carattere mosso dell’azione, e i brevi periodi si sottolinea, quasi in moderno stile giornalistico, l’immediatezza delle scene. Ne vien fuori un quadro tragicomico, che esprime peraltro la valutazione negativa dell’autore nei confronti dell’Italia del tempo. Le frequenti allitterazioniu (moglie morta, fandonie fuor, ott. 50; correan con, ott. 52) e le ripetizioni anaforicheu (chi qua chi là, ott. 50; Chi…chi, che…che, ott. 53) sono indice di una ricercata aulicità, rotta dall’introduzione di un linguaggio ironico e grottesco, culminante con la sboccata e triviale espressione quand’ecco un’improvvisa cacarola. A essa alla fine viene sostituita la raffinatissima parola ambra, indicante, invece, per un sottile gioco di antitesiu linguistica, una sostanza profumatissima. Alessandro Tassoni 13 Parte seconda L’età dell’Illuminismo Pietro Metastasio 1.La vita L’educazione presso Gian Vincenzo Gravina 14 Pietro Trapassi (questo il vero cognome dell’autore) nacque a Roma il 3 gennaio del 1698 da Felice Trapassi, piccolo negoziante originario di Assisi, e dalla bolognese Francesca Galanti. Il piccolo Pietro, all’età di soli dieci anni, mostrò un ingegno così precoce e una tale capacità a improvvisare versi da suscitare l’interesse di un intenditore quale lo scrittore Gian Vincenzo Gravina, che volle prenderlo con sé per impartirgli una solida educazione di tipo classicistico; fu proprio questi a trasformare il cognome del poeta nel grecizzante Metastasio. Nel 1712 Pietro fu mandato a Scalea, in Calabria, presso l’abate Gregorio Caloprese, uno tra i più dotti filosofi cartesiani d’Italia (cugino di Gravina), da cui il giovane ricevette una severa formazione razionalistica. Tornato a Roma, fu ospite ricercato dei più importanti salotti letterari, in cui gareggiava con Bernardino Perfetti e Paolo Rolli. Presi gli ordini minori, acquisì il titolo di abate e si dedicò agli studi giuridici. Componeva, intanto, i suoi primi scritti, tra cui una tragedia, Giustino, che furono pubblicati nel 1717. Nel 1718 Gravina morì e il poeta scrisse in memoria del suo maestro il componimento La strada della gloria, che recitò quando, nello stesso anno, fu accolto nell’Arcadia con il nome di Artino Corasio. Alla scomparsa di Gravina, Metastasio ereditò gran parte dei Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Il periodo napoletano Gli anni alla corte di Vienna L’ultimo periodo suoi averi (cosa che suscitò invidie e contrasti), che dilapidò rapidamente abbandonandosi alla mondanità della vita romana. Trovatosi quindi in una difficile condizione economica, l’autore, nel 1719, decise di trasferirsi a Napoli per far pratica e poi intraprendere la carriera giuridica; ma la vivacità dell’ambiente teatrale partenopeo lo attrasse immediatamente e favorì l’incontro con i grandi maestri della scuola operistica napoletana: Porpora, Pergolesi, Scarlatti. In questo periodo compose alcune opere, tra cui l’Epitalamio per le nozze del principe di Belmonte con Anna Pinelli di Sangro, la serenata Endimione per la nobildonna Marianna d’Althann e la cantata Gli orti esperidi. Quest’ultima fu rappresentata nel 1721, in occasione del compleanno dell’imperatrice d’Austria, e interpretata dalla cantante romana, molto famosa a quei tempi, Marianna Benti detta la «Romanina», moglie di Giuseppe Bulgarelli. Quest’ultima, alla quale il poeta si legò sentimentalmente, facilitò a Metastasio l’ingresso nel mondo teatrale e lo incoraggiò a scrivere testi da musicare. Nel 1724, accolto con grande favore di pubblico, veniva portato sulle scene del teatro napoletano di San Bartolomeo il primo melodramma metastasiano, la Didone abbandonata, con la stessa Romanina nel ruolo di Didone. Da quel momento in poi, il poeta compose altri testi per musica e melodrammi, destinati ad avere sempre un’entusiastica accoglienza, anche quando, nel 1727, lasciò Napoli e ritornò a Roma. Sull’onda del successo, nel 1729, Metastasio ricevette l’invito a recarsi a Vienna, alla corte dell’imperatore Carlo VI, per ricoprire il ruolo di poeta “cesareo” (poeta ufficiale della corte imperiale), al posto del veneziano Apostolo Zeno (1668-1750), altro celebre librettista. A Vienna, dove giunse il 17 aprile del 1730, Metastasio sarebbe rimasto per il resto della sua vita, fino alla morte. Il primo decennio trascorso lì fu un periodo di intensa creatività, in cui il poeta compose ben undici melodrammi e organizzò, per animare la vita di corte, innumerevoli spettacoli e feste teatrali. Ma questi anni, piacevoli e stimolanti, furono turbati dalla notizia della morte, nel 1734, dell’amata Romanina, con la quale l’autore aveva mantenuto una corrispondenza epistolare. Il clima a Vienna mutò notevolmente in seguito alla scomparsa, nel 1740, dell’imperatore Carlo VI e alla guerra di successione che ne derivò (al termine della quale Maria Teresa riuscì a imporsi sul trono). Sembrava, intanto, esaurirsi la stessa vena poetica di Metastasio, che compose sempre meno. A ciò si aggiunse la sofferenza provocata dalla perdita della contessa Maria Pignatelli, vedova del conte d’Althann, con la quale il poeta aveva avuto una relazione. Negli ultimi anni, l’autore condusse un’esistenza sempre più appartata, anche se fra le lodi e le cure di un ristretto nucleo di amici fidati, nella casa dei fratelli Martinez, dove fu ospite per circa cinquant’anni, rimanendo sempre fedele alla sua regina Maria Teresa, la cui morte, avvenuta nel 1780, lo fece sprofondare in un immenso dolore. Metastasio si spense il 12 aprile del 1782. Pietro Metastasio 15 Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 2.La personalità e la riforma del melodramma Pietro Metastasio ha segnato in maniera profonda e indelebile la storia del melodramma, genere attraverso il quale la letteratura e il linguaggio poetico italiano hanno conosciuto una diffusione vastissima, molto al di là dei ristretti confini nazionali. Il melodramma ai tempi di Metastasio Ai tempi di Metastasio, il melodramma appariva ormai una vera e propria degenerazione della forma originaria e di quel perfetto equilibrio tra musica e poesia che aveva caratterizzato l’opera in musica agli inizi della sua storia; e, da più parti, si avvertiva l’esigenza di una riforma (tentata, per esempio, anche da Apostolo Zeno, poeta cesareo prima di Metastasio). Ma fu Metastasio a riscattare la poesia dal ruolo di ancella della musica che, nel melodramma, le avevano assegnato autori quali lo stesso Gravina, Muratori e Crescimbeni, procedendo così a un significativo rinnovamento del genere, grazie anche alla sua innata e profonda sensibilità e alla sua salda preparazione letteraria. La formazione culturale Metastasio, infatti, era stato educato da quel Gian Vincenzo Gravina che fu uno dei fondatori dell’Arcadia e uno dei principali fautori di un gusto poetico di sapore classico, sobrio ed essenziale, contrapposto agli eccessi del barocco. Sotto la guida di Gravina, il poeta, dunque, giunse a una profonda assimilazione della tradizione letteraria e dei grandi classici latini e italiani. Nella formazione dell’autore ebbe, poi, un ruolo fondamentale la conoscenza della filosofia del grande studioso francese Cartesio (René Descartes, 1596-1650), padre del razionalismo moderno, da cui mutuò l’esigenza e l’abitudine alle idee chiare e distinte; in particolare il poeta si interessò a un trattato, Le passioni dell’anima, in cui erano indagati i vari sentimenti e stati d’animo dell’uomo quale manifestazione dell’unità fra mente e corpo. Da questa lettura Metastasio trasse l’attenzione, fondamentale in ogni suo melodramma, per i moti del cuore umano e per le diverse sfaccettature che la passione amorosa può assumere e la consapevolezza della complessità dei sentimenti, che non si manifestano in maniera limpida, ma sono sempre offuscati da dubbi e incertezze, da inganni e finzioni. La riforma metastasiana La salda formazione culturale, la fervida ispirazione poetica e la sensibilità agli aspetti musicali (lo scrittore studiò musica a Napoli) permisero a Metastasio di riportare in auge la dignità e l’importanza della parte letteraria, senza per questo minare e impoverire le altre componenti fondamentali del melodramma, cioè la musica e lo spettacolo. L’autore diede vita a un nuovo equilibrio tra parola e musica, riuscendo a far sì che il testo avesse già in sé quegli elementi melodici e scenici necessari a questo tipo di opera. Metastasio, infatti, in tutti i suoi melodrammi, è attentissimo a delineare ogni singola scena, a definire il movimento dei personaggi, a distribuire sapientemente i vari ruoli musicali (come quelli del tenore e del soprano), i “recitativi” e le “ariette” e, soprattutto, a impiegare un linguaggio fortemente musicale. Il libretto metastasiano Il libretto metastasiano segue delle regole precise e degli schemi fissi, che concorrono a dare vita a una formula quasi standardizzata. Esso è diviso in tre atti e incentrato su una materia che, come voleva la tradizione del melodramma, non è inventata ex novo dall’autore, ma è tratta dal patrimonio 16 Autori e testi aggiuntivi Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Un nuovo linguaggio amoroso I turbamenti dell’animo umano Il poeta dell’Ancien Régime o letterario o mitico o storico. Il motore principale dell’azione è generalmente l’amore, che, contrastato da ostacoli di vario tipo, alla fine riesce a trionfare (un’eccezione è rappresentata dalla Didone abbandonata) grazie o al tradizionale meccanismo dell’agnizione (riconoscimento della vera identità di un personaggio) o al cambiamento psicologico di un personaggio che prima si frapponeva tra i due amanti e poi, ricredutosi, abbandona il suo atteggiamento ostile. Gli attori sono sei, per lo più due coppie di amanti (i ruoli femminili destinati a soprani e quelli maschili a tenori) e due figure maschili (per bassi o baritoni), delle quali uno svolge la funzione di “aiutante” e l’altro di “oppositore”. L’autore interpretò in maniera sapiente l’esigenza profondamente avvertita dall’Arcadia, di cui egli fu senza dubbio l’esponente più insigne, di reagire agli eccessi del barocco, riportando il linguaggio a un nitore e a un’armonia classica. Ma, al tempo stesso, non disperdendo la lezione dello stesso Marino (inviso generalmente agli scrittori dell’Arcadia), al quale guardò soprattutto dal punto di vista ritmico, e di un poeta di forte intensità come Tasso, creò un linguaggio amoroso che nella sua semplicità ed essenzialità, caratterizzato da una sintassi lineare e da una facile musicalità, risulta espressivo; non scade mai nella banalità e nella convenzionalità e, per la prima volta, conferisce ai temi amorosi una carica di fresca e immediata spontaneità. Il poeta, nei suoi melodrammi, esplora le varie forme e le diverse sfumature che può assumere la passione amorosa, riuscendo a guardare in profondità nel cuore umano. Egli, con grande sensibilità, coglie le contraddizioni dell’animo e i conflitti e i turbamenti intimi che accompagnano ogni volta l’esperienza amorosa. In tal modo, Metastasio mette a nudo l’insita irrazionalità e la falsità che caratterizzano l’individuo e il suo rapporto con gli altri, non solo nella finzione teatrale, ma nella vita stessa dell’uomo e nell’intera società. Questa scoperta, però, non comporta una visione cupa e pessimistica, non conduce mai alla disperazione, ma si traduce piuttosto in una presa di coscienza serena e pacata, che denota un atteggiamento sostanzialmente ottimistico e una piena adesione al mondo di cui il poeta fa parte. Non a caso, nei melodrammi metastasiani (tranne qualche eccezione) ogni conflitto giunge a sfiorare il tragico per poi stemperarsi e ricomporsi in un’appagante armonia. Metastasio appare, dunque, come la critica ha più volte sottolineato, un poeta dell’Ancien Régime che, sinceramente affezionato alla famiglia imperiale, è legato al suo ruolo di poeta cortigiano e si identifica nei valori della classe aristocratica, in cui individua l’unica destinataria della sua produzione. L’atteggiamento conservatore di Metastasio risulta evidente se si considera la diffidenza che egli mostrò verso la ventata di nuove idee portate dall’Illuminismo: il poeta sentì, soprattutto nell’ultima fase della sua vita, che le cose intorno a lui stavano cambiando e si chiuse in un isolamento sempre più vistoso, accentuato dalla consapevolezza dell’inaridimento della vena poetica. In definitiva, quello di Metastasio è un teatro colto, pensato e rappresentato per le esigenze del pubblico raffinato ed elegante delle più importanti corti europee del Settecento. Pietro Metastasio 17 Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 3.Le opere La produzione di Metastasio è di vastissime dimensioni: essa, infatti, conta ben ventisei melodrammi, più di trenta azioni teatrali, trentaquattro cantate (composizioni per canto e musica costituite da “recitativi” e “ariette”), otto azioni sacre e una cospicua produzione lirica, oltre ad alcuni scritti teorici, in cui l’autore riflette sul teatro e sul linguaggio drammatico (la maggior parte dei testi furono raccolti, ancora vivo il poeta, in un’edizione in dodici volumi, uscita a Parigi tra il 1780 e il 1782). Di Metastasio ci rimangono, inoltre, numerose lettere che, scritte in uno stile chiaro e pacato, offrono un’interessante testimonianza degli anni da lui trascorsi alla corte di Vienna, delle relazioni intrattenute con molti intellettuali del tempo e di alcune caratteristiche del temperamento del poeta, sereno e cordiale, ma spesso dominato da un senso di insoddisfazione. Al periodo giovanile risale la tragedia Giustino (incentrata sulla storia d’amore di Giustino appunto, nipote dell’imperatore bizantino Giustiniano, e Sofia), la cui fonte è da individuare nel poema L’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino. L’opera, che anticipa la centralità riservata al tema amoroso in tutta la produzione di Metastasio, fu pubblicata a Napoli nel 1717 in un volume comprendente anche gli idilli Il convito degli dèi e Il ratto d’Europa, i capitoli (componimenti in terza rima) La morte di Catone e L’origine delle leggi, e l’ode Sopra il santissimo Natale. Il poeta acquisì sempre maggiore dimestichezza con la scrittura di tipo teatrale attraverso opere come la cantata Gli orti esperidi, musicata da A. Porpora, che racconta il mitico amore di Venere per lo splendido giovinetto Adone e fu rappresentata nel 1721, con la cantante Marianna Benti Bulgarelli nella parte della dea, e l’azione teatrale Galatea del 1722. E, così, l’autore approdò al suo primo melodramma, Didone abbandonata, messo in scena nel 1724, accompagnato dall’intermezzo L’Impresario delle Canarie. Nell’opera si racconta la tragica vicenda della regina di Cartagine, Didone, che quando viene abbandonata da Enea si uccide per amore. Il lieto fine caratterizza, invece, il Siroe del 1726, che fu seguito da altri melodrammi di successo, come Catone in Utica (1728), il cui protagonista è appunto l’antico romano Catone, eroico difensore della libertà repubblicana; anche Semiramide riconosciuta (1729), in cui la figura della mitica regina assira è dipinta con tinte intense e passionali, Alessandro nelle Indie (1729) e Artaserse (1730) hanno un esito positivo. Ma i grandi capolavori metastasiani, in cui l’arte del poeta giunse alla piena maturità, abbandonando le incertezze e i caratteri di sperimentazione ravvisabili nelle opere precedenti, furono i melodrammi del primo periodo viennese, che si apre con il Demetrio, scritto nel 1731. Il vero e proprio clou si ha, però, con l’Olimpiade, composta nel 1733. In quest’opera l’azione si svolge in un’imprecisata età mitica, durante la celebrazione dei giochi olimpici. Licida, figlio del re di Creta, pur legato sentimentalmente ad Argene, si invaghisce di Aristea, figlia del re di Sicione, Clistene. Ma Aristea è innamorata, ricambiata, di Megacle, amico di Licida. Clistene promette la mano della figlia a chi sarà il vincitore dei giochi. È Megacle a vincere: egli, però, del tutto inconsapevole della proposta del re, 18 Autori e testi aggiuntivi Parte seconda | L’età dell’Illuminismo ha gareggiato al posto di Licida, che quindi potrà sposare la donna. La disperazione coglie non solo Aristea e Megacle, ma anche Argene. A risolvere la drammatica situazione interviene il tradizionale meccanismo dell’agnizione: si scopre, infatti, che Licida non è figlio del re di Creta, bensì di Clistene e, così, Aristea si unisce in matrimonio con l’amato Megacle e Licida con Argene. Di notevole valore sono anche i melodrammi Demofoonte del 1733, La clemenza di Tito, scritto nel 1734, l’Achille in Sciro e il Ciro riconosciuto, entrambi del 1736. A questi anni risalgono, inoltre, le feste teatrali (composizioni per musica, generalmente meno ampie dei melodrammi, rappresentate per celebrare particolari occasioni come matrimoni o compleanni) L’asilo d’amore del 1732 e Le cinesi del 1735, e le azioni sacre Giuseppe riconosciuto, Betulia liberata e Gioas re di Giuda, scritte tra il 1733 e il 1735. Nel 1740 Metastasio compose il melodramma Attilio Regolo che, incentrato appunto sulla figura del celebre console romano, a causa della morte dell’imperatore Carlo VI, fu rappresentato solo dieci anni dopo. L’Attilio Regolo viene generalmente considerato il momento più alto e conclusivo di un periodo particolarmente ricco e intenso, a cui seguirono anni caratterizzati, invece, da un’attività creativa meno fervida, durante i quali l’autore compose l’Ipermestra e l’Antigone (entrambi del 1744), Il re pastore (1751), L’eroe cinese (1752), Nitteti (1756) e il Ruggero ovvero l’eroica gratitudine (1771). A questi anni appartiene anche la festa teatrale L’isola disabitata, composta precisamente nel 1752 e musicata da Giuseppe Bonno. Costituita da un solo atto, mette in scena la storia di due giovani sposi, Gernando e Costanza, che, approdati in seguito a un naufragio su un’isola deserta e rimasti a lungo separati, si rincontrano dopo tredici anni. Quest’opera, in cui Metastasio mescola il gusto, tipico del Settecento, per l’ambientazione esotica con la tradizione pastorale, è caratterizzata da una connotazione patetica e da un linguaggio limpido e misurato. L’impiego di una forma chiara ed equilibrata, che rinnova profondamente il tradizionale linguaggio d’amore, è propria anche dei sonetti, in cui, dopo gli eccessi del barocco, la lirica ritorna a una pacata espressione dei sentimenti e degli stati d’animo del poeta. La ricerca di una lingua nitida e musicale raggiunge l’esito più alto nelle canzonette, che rappresentano gli esempi più significativi della produzione dei poeti arcadi. Nei suoi melodrammi (come nei sonetti e nelle canzonette) Metastasio, infatti, forgiò una forma espressiva che, allontanandosi sia dal modello di Petrarca che da quello di Marino e dei marinisti, aprì una nuova strada destinata a influenzare notevolmente gli scrittori posteriori, tra cui va annoverato uno dei più grandi poeti della letteratura italiana, Giacomo Leopardi. L’ultima fase della vita e dell’attività letteraria di Pietro Metastasio è dedicata quasi esclusivamente alla stesura di opere teoriche, relative a questioni di poetica. Tra esse ricordiamo le Note all’«Arte poetica» di Orazio (iniziate nel 1749 e poi riprese tra il 1768 e il 1773) e l’Estratto della «Poetica» di Aristotile e considerazioni sulla medesima (1773), che è il lavoro più significativo in questo versante della produzione metastasiana. In conclusione, Metastasio, con la sua produzione multiforme e variegata, ha saputo cogliere i gusti di un secolo, ma soprattutto la mentalità di Pietro Metastasio 19 Parte seconda | L’età dell’Illuminismo un’epoca che comincia a interrogarsi perplessa sulla stabilità dell’esistenza umana. Si vedano talune espressioni delle “ariette”, rispettivamente tratte dall’Ipermestra e dal Demetrio; esse sono imperniate sul mito dell’araba fenice (il cui mistero richiama sia il tema della morte-rinascita sia quello dell’utopia) e sul motivo dei «mille affetti insieme/ tutti raccolti nel cuore». Questo scrittore raffinato e spesso ricercato prepara, dunque, un atteggiamento che è tutto moderno: egli esprime l’insicurezza di essere al mondo e la possibilità di vedere la realtà sotto i “mille”, diversi e contraddittori, suoi aspetti. Parte seconda L’età dell’Illuminismo i testi Rime La produzione poetica di Metastasio, testimonianza dell’ininterrotta ricerca formale dell’autore, spazia dal sonetto alle odi, dalle canzonette agli inni. Nei trentadue sonetti Metastasio si fa sapiente portavoce delle esigenze di equilibrio e armonia profondamente avvertite dall’Arcadia, anche se lo scrittore è poco incline a concludere nello spazio ristretto del sonetto le sue emozioni. Dopo l’esperienza barocca, la lirica torna a dare voce alla più intima espressione dell’Io e alla descrizione dei sentimenti e degli stati d’animo del poeta. Due sono i sonetti importanti. Nel primo, che è il più famoso, Sogni e favole io fingo (1733), risalente al periodo in cui l’autore era impegnato nella stesura del melodramma Olimpiade, il poeta scopre che la finzione non caratterizza soltanto le storie e i personaggi inventati nelle sue opere, ma la sua stessa esistenza e che tutto è menzogna e il corso intero della vita è Sogno. Questi versi fanno luce dunque sulla convinzione del carattere effimero e fittizio delle passioni umane e sull’impossibilità di avere certezze e di individuare 20 Autori e testi aggiuntivi con chiarezza la differenza tra realtà e illusione, che anima tutta l’opera metastasiana e tuttavia non si traduce mai in una visione cupa e pessimistica. Il secondo sonetto, dal titolo Questa, nata pur or qui presso al polo, fu scritto a Vienna e indirizzato a un suo caro amico, il cantante bolognese Carlo Broschi, detto «Farinelli». L’occasione fu quella dell’invio a lui del melodramma Nitteti, che doveva essere eseguito sotto la sua direzione alla corte austriaca. In questo componimento Metastasio chiama Farinelli con l’affettuoso nome di gemello, alludendo al fatto che entrambi erano, per così dire, nati insieme come artisti sulle scene di Napoli. Nella città partenopea, infatti, Broschi (chiamato da Metastasio «dell’opra eccitator primiero», cioè causa prima del suo successo) era stato ascoltato con grande ammirazione per la prima volta, cantando l’Angelica e Medoro, che fu il primo componimento di rilievo uscito dalla penna di Metastasio. In netta contrapposizione con gli eccessi del marinismo, la poesia metastasiana si dispiega in un linguaggio Parte seconda | L’età dell’Illuminismo significativamente Palinodia, scritta nel 1746; in essa il poeta, con gustoso spirito ironico, ammette di non avere mai cessato di amare Nice e confessa la sua passione. Toni languidamente sentimentali e patetici caratterizzano, invece, La partenza, anch’essa del 1746, in cui il poeta, costretto ad allontanarsi dalla sua amata Nice, le dice addio. Nelle sue canzonette Metastasio porta agli esiti più alti la tendenza della poesia arcadica a un linguaggio chiaro, equilibrato e musicale. I versi sono caratterizzati da una melodia dolce e graziosa, raggiunta soprattutto attraverso il gioco delle rime, delle allitterazioni (ripetizione di uno stesso suono), delle anafore (ripetizione di una o più parole all’inizio del verso) e delle apocopi (caduta di una o più sillabe alla fine di una parola), e, a volte, mediante l’uso di ritornelli, come nella Partenza, in cui ogni strofa si conclude con i versi e tu, chi sa se mai/ ti sovverrai di me! La libertà La libertà è la canzonetta più famosa di Metastasio, musicata dall’autore stesso e poi da Giovanni Paisiello, oggetto di molte imitazioni e tradotta in diverse lingue. Briosa e leggera, sorretta da un ritmo dinamico, canta la liberazione del poeta dal giogo amoroso di Nice, della quale, comunque, lo scrittore avverte ancora il sottile fascino. Un testo esemplare, per comprendere non solo la poesia di Metastasio ma la cultura intera del Settecento. [Rime] 4 Grazie agl’inganni tuoi, al fin respiro, o Nice1, al fin d’un infelice ebber gli dèi pietà2: sento da’ lacci suoi, 1. Grazie … Nice: alla fine mi sono liberato (respiro) dei tuoi inganni, che mi hanno rivelato il tuo vero volto. Grazie all’infedeltà della donna il poeta si è “liberato dall’amore”. Metastasio si rivolge alla sua donna che, secondo una tendenza tipica dell’ArPietro Metastasio cadiau, viene chiamata con un nome greco (Nice significa «Vittoria»). 2. ebber … pietà: compare spesso, nelle vicende narrate da Metastasio, il ricorso agli dèi. 21 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio sobrio e semplice, che non scade mai nella secchezza espressiva caratteristica di tanta poesia arcadica, ma riveste ogni sentimento e ogni emozione di fresca immediatezza. Nelle sette canzonette si rivela la migliore espressione della vena poetica di Metastasio, aderendo così alla predilezione propria dell’Arcadia per questo tipo di componimento. Costituita da strofette di versi brevi, generalmente settenari o ottonari, e destinata spesso a essere accompagnata da musica, tale struttura poetica era stata introdotta sul finire del Cinquecento dal poeta Gabriello Chiabrera (1552-1638). Tra le più apprezzate risulta La libertà, composta nel 1733, in cui l’autore si rivolge alla donna un tempo amata, cantata con il nome di Nice; ella lo ha avvinto a lungo con i suoi lacci, ma ora finalmente il poeta si è liberato del sentimento provato per lei e ha raggiunto la tranquillità. La ritrattazione di quanto affermato è affidata a un’altra canzonetta intitolata Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 8 sento che l’alma è sciolta3; non sogno questa volta, non sogno libertà4. 12 16 Mancò l’antico ardore, e son tranquillo a segno5, che in me non trova sdegno per mascherarsi amor6. Non cangio7 più colore quando il tuo nome ascolto; quando ti miro in volto più non mi batte il cor. 20 24 Sogno, ma te non miro sempre ne’ sogni miei; mi desto, e tu non sei il primo mio pensier. Lungi da te m’aggiro senza bramarti mai8; son teco, e non mi fai né pena, né piacer9. 28 32 Di tua beltà ragiono, né intenerir mi sento; i torti miei rammento10, e non mi so sdegnar. Confuso più non sono quando mi vieni appresso; col mio rivale istesso posso di te parlar11. 36 Volgimi il guardo altero, parlami in volto umano; il tuo disprezzo è vano, è vano il tuo favor12; che più l’usato impero 3. sento … sciolta: sento che la mia anima è libera dai legami amorosi con Nice. 4. non sogno libertà: questa volta la libertà, che il poeta vive, non è il frutto di un sogno, ma di una situazione reale. 5. a segno: a tal punto. 6. che in me … amor: che nel mio animo la passione (amor) non trova neppure un’ombra di sdegno per camuffarsi. 7. cangio: cambio. 8. Lungi … bramarti mai: sono (m’aggiro) lontano da te, senza provare più desiderio o nostalgia. 9. son teco … piacer: il poeta dice di non provare quando pensa a Nice né sofferenza né piacere e, dunque, di essere indifferente verso di lei; ma in realtà questo insistere sulle sensazioni, che dice 22 Autori e testi aggiuntivi di non provare, è un segno del fatto che egli avverte ancora intimamente il fascino della sua donna. 10. i torti miei rammento: ricordo le mie colpe. 11. col mio … parlar: il poeta giunge ad affermare che riesce a parlare in modo distaccato anche con il suo rivale, cioè con il nuovo amante di Nice. Questo rapporto con il rivale in amore è un elemento tipico dei rapporti galanti fra gli innamorati nella società formale del Settecento: «una specie di contraddanza dove i cavalieri si scambiavano le dame inchinandosi» (L. Russo). 12. Volgimi … favor: sia che tu mi volgi il tuo sguardo in modo altero, sia che tu mi parli in maniera cortese (in volto umano), non mi fanno effetto né il tuo disprezzo, né il tuo favor. Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 44 48 Quel, che or m’alletta, o spiace, se lieto o mesto or sono, già non è più tuo dono, già colpa tua non è: che senza te mi piace la selva, il colle, il prato; ogni soggiorno ingrato m’annoia ancor con te14. 52 56 Odi, s’io son sincero; ancor mi sembri bella, ma non mi sembri quella, che paragon non ha. E (non t’offenda il vero) nel tuo leggiadro aspetto or vedo alcun difetto, che mi parea beltà. 60 64 Quando lo stral spezzai15, (confesso il mio rossore) spezzar m’intesi il core16, mi parve di morir. Ma per uscir di guai, per non vedersi oppresso, per racquistar se stesso17 tutto si può soffrir. 68 72 Nel visco, in cui s’avvenne18 quell’augellin talora, lascia le penne ancora, ma torna in libertà: poi le perdute penne in pochi dì rinnova, cauto divien per prova19, né più tradir si fa20. So che non credi estinto in me l’incendio antico21, 13. che più … non hanno: le labbra dell’amata non hanno più potere sullo scrittore; ma non va sottaciuto che anche l’allusione alle labbra conserva un suo fascino sottilmente sensuale. 14. che senza te … con te: il poeta, dopo aver rotto la relazione amorosa con Nice, scopre che i luoghi naturali gli piacciono ugualmente in assenza della sua donna, mentre i luoghi noiosi restano tali anche se è in compagnia di lei. Insomma, la donna non ha più effetto sulle sensazioni dello scrittore. 15. Quando … spezzai: quando spezzai il dardo dell’amore che portavo conficcato nel petto, cioè quando ruppi il rapporto d’amore. Pietro Metastasio 16. spezzar … core: temetti che il cuore mi si spezzasse. 17. per racquistar se stesso: per riacquistare il dominio di se stesso. 18. s’avvenne: si impigliò. 19. per prova: per esperienza. 20. né … si fa: né si fa più ingannare. 21. So che … antico: so che tu, Nice, ritieni che non sia spenta in me la fiamma dell’amore per te. 23 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio quei labbri in me non hanno13; quegli occhi più non sanno 40 la via di questo cor. Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 76 80 perché sì spesso il dico, perché tacer non so: quel naturale istinto, Nice, a parlar mi sprona, per cui ciascun ragiona de’ rischi22 che passò. 84 88 Dopo il crudel cimento narra i passati sdegni, di sue ferite i segni mostra il guerrier così23. Mostra così contento schiavo, che uscì di pena, la barbara catena, che strascinava un dì24. 92 96 Parlo, ma sol parlando me soddisfar procuro25, parlo, ma nulla io curo che tu mi presti fé26: parlo, ma non dimando se approvi i detti miei, né se tranquilla sei nel ragionar di me. 100 104 Io lascio un’incostante27; tu perdi un cor sincero; non so di noi primiero28 chi s’abbia a consolar. So che un sì fido amante non troverà più Nice; che un’altra ingannatrice è facile a trovar29. Metro: canzonetta formata da tredici strofe, costituite ognuna da due quartine di settenari, di cui i primi tre sono piani e il quarto è tronco. Le rime sono così articolate: i primi e gli ultimi versi di ogni quartina rimano fra loro; i versi centrali di ogni quartina sono, invece, in rima baciata; lo schema è ABBC, ADDC 22. rischi: d’amore, si intende. 23. Dopo … così: il guerriero allo stesso modo, dopo una sanguinosa battaglia, racconta agli altri le sofferenze patite e mostra i segni delle sue ferite. 24. Mostra … un dì: allo stesso modo uno schiavo, che si è liberato della prigionia (uscì di pena), espone felice la barbara catena, che era prima costretto a trascinare. 25. Parlo … procuro: parlo, ma con il mio parlare, desidero soddisfare me soltanto. 26. mi presti fé: mi presti fede, mi creda. 24 Autori e testi aggiuntivi 27. Io lascio un’incostante: alla fine della canzonetta Metastasio rivela il motivo per cui ha lasciato Nice: ella è incostante nel suo amore verso il poeta. 28. primiero: per primo. 29. So … trovar: il poeta sa che Nice non troverà mai più un amante fedele come lui, mentre per lui sarà facile trovare un’altra ingannatrice come lei. L’appellativo ingannatrice, riferito dallo scrittore alla donna, riprende, con una sorta di struttura circolare, l’identica accusa che l’autore ha già rivolta a Nice all’inizio della lirica (Grazie agl’inganni tuoi). Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Dal testo alla produzione 1. Descrivi il rapporto che lega i due ex amanti. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 2. Perché il poeta fa ricorso agli dèi al verso 4? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 3. Il testo è tutto giocato sulla presenza della funzione emotiva (riferita al mittente «io») e di quella conativa (riferita al destinatario «tu»). Fornisci qualche esempio di tale caratteristica formale e spiegane il senso. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 4. Il ritmo incalzante dell’ultima anafora Parlo…parlo…parlo (vv. 89-93) non ti sembra contrastare con il concetto di indifferenza, espresso nei versi precedenti? O pensi di poter fornire una tua interpretazione di tale dinamismo stilistico? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... Il melodramma Didone abbandonata segna il debutto di Metastasio e fu rappresentato in occasione del carnevale nel teatro San Bartolomeo di Napoli nel 1724, su musica di Domenico Sarro e con la partecipazione, nel ruolo di Didone, di Marianna Benti Bulgarelli, detta la «Romanina». Il melodramma riscontrò un immediato e trionfale successo, che si perpetuò a lungo; fu, infatti, più volte riproposto e musicato da vari compositori, sia italiani, come Scarlatti, Galluppi, Cherubini e Paisiello, che stranieri, quali i tedeschi Handel e Hasse. Secondo l’abituale preferenza di Metastasio a trarre la materia del dramma o dalla tradizione letteraria o dal mito o dalla storia, in quest’opera viene portata in scena la tragica vicenda di Didone, leggendaria regina di Cartagine, che, abbandonata dall’amato Pietro Metastasio Enea, si uccide. Le fonti impiegate sono costituite dal IV libro dell’Eneide di Virgilio e dai Fasti di Ovidio, ma l’autore non manca di inserire qualche episodio e personaggio nuovo. La trama L’opera, in tre atti, ha inizio nel momento in cui Enea, che da tempo dimora presso Didone, della quale è innamorato, deve comunicarle la sua partenza; egli, infatti, è stato destinato dagli dèi ad arrivare in Italia, dove darà vita a una nuova stirpe, da cui avrà origine Roma. La regina, intanto, è pretesa dal re di Libia, Iarba, aiutato da Osmida, fiduciario della sovrana, mentre Enea è amato anche dalla sorella di Didone, Selene, di cui è innamorato Araspe, amico di Iarba. Alla fine, Enea, dopo atroci incertezze e lancinanti dubbi, lascia Cartagine e Didone, che, disperata, si suicida. 25 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio Didone abbandonata Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Il melodramma si basa dunque su un sistema di sei personaggi (elemento caratteristico dei melodrammi metastasiani), legati tra loro da un intricato intreccio di amori infelici. Tra tutti spiccano Didone ed Enea; mentre Didone è tratteggiata nella sua intensa e prorompente passionalità e nella sua rabbia di donna offesa e tradita, l’eroe troiano è fissato nella sua lacerante incertezza, nel drammatico conflitto tra l’amore per la regina, che lo spingerebbe a restare, e il dovere di rispettare la volontà degli dèi: E intanto, confuso/ nel dubbio funesto,/ non parto, non resto,/ ma provo il martìre,/ che avrei nel partire,/ che avrei nel restar (“aria” di Enea alla fine del primo atto). Al centro della Didone abbandonata, come nella maggior parte dei melodrammi metastasiani, vi è, dunque, un amore contrastato che, a differenza di quanto accade nelle altre opere, non si stempera certo in un lieto fine, ma va incontro a un tragico destino. L’autore, esperto e colto, dimostra di saper egregiamente penetrare nelle pieghe dei sentimenti dei personaggi. Questi ultimi sono presentati come degli esseri tormentati e dilacerati, lungo una dialettica che sinteticamente si può definire il binomio natura-ragione. In Enea, infatti, convivono il suo carattere razionale e consapevole da un lato e la tendenza passionale dall’al tro, mentre in Didone il senno, dote necessaria per una regina, non è di- 26 Autori e testi aggiuntivi sgiunto dalla predisposizione a deliranti monologhi o a scatti d’ira e di dolore. Questa drammatica vicenda, a cui Metastasio conferisce una connotazione patetica e languidamente sentimentale, è descritta attraverso un linguaggio sobrio, chiaro e di facile musicalità, caratterizzato dalla predilezione per un lessico semplice e tradizionale e per una costruzione sintattica lineare e simmetrica. Spesso tale grazia espositiva prevale anche nelle fasi di tensione del melodramma. Basti citare un punto, che avrebbe dovuto essere uno dei momenti culminanti dell’azione, cioè il momento dello scontro-addio fra Didone ed Enea, nel quale l’autore usa un registro che è stato definito a giusta ragione, “involontariamente comico”. È evidente come, per l’autore, era necessario avvalersi di toni leggeri, per abbassare il livello del tragico. In questo senso hanno visto giusto molti critici, con in testa Luigi Russo, i quali hanno interpretato il rapporto tra Enea e Didone, nella Didone abbandonata, come la trasposizione sulla scena di una schermaglia galante fra un cavaliere impregnato di decoro borghese e una donna del Settecento tutta orgogliosa del ruolo sociale da lei impersonato e al tempo stesso segnata da una grazia e una squisitezza comportamentistiche e psicologiche. Ciò giustifica i toni da commedia che spesso assume questo melodramma, ma anche tutta la produzione artistica di Metastasio. Parte seconda | L’età dell’Illuminismo La morte di Didone Frutto di un’originale rivisitazione di testi classici, le scene conclusive della Didone abbandonata si presentano come un testo molto mosso e articolato. Di sicuro effetto scenico risultano l’ambientazione dell’azione nel drammatico incendio della città e la solitudine tragica della protagonista, che si vede abbandonata da tutti. Già dalla lettura dei versi si percepisce il tono di un’alta e solenne sinfonia. [Didone abbandonata, atto III, scene 17-20, vv. 260-362] Iarba Fermati. Didone Oh dèi! Iarba Dove1 così smarrita? Forse al fedel troiano2 corri a stringer la mano? Va pure, affretta il piede, 265 che al talamo reale ardon le tede3. Didone Lo so, questo è il momento delle vendette tue; sfoga il tuo sdegno or che ogni altro sostegno il Ciel mi fura4. Iarba Già ti difende Enea; tu sei sicura 270 Didone E ben sarai contento. Mi volesti infelice? Eccomi sola, tradita, abbandonata, senza Enea, senza amici, e senza regno. Debole mi volesti? Ecco Didone 275 ridotta al fine a lagrimar. Non basta? Mi vuoi supplice ancor? Sì, de’ miei mali chiedo a Iarba ristoro5: da Iarba per pietà la morte imploro. Iarba (Cedon6 gli sdegni miei). Selene (Giusti numi, pietà!) (Soccorso, o dèi!) 280 Osmida Iarba E pur, Didone, e pure sì barbaro non son, qual tu mi credi. 1. Dove: è sottinteso il verbo «vai». 2. fedel troiano: Iarba, re dei Numidi innamorato di Didone, è ironicou verso il rivale Enea, da lui definito fedel verso la regina. Siamo al punto in cui Iarba, dopo essere stato vinto da Enea in duello, sta per appiccare il fuoco alla reggia cartaginese. 3. al talamo … tede: le fiaccole (tede) nuziali ardono nella stanza da letto (talamo) della reggia di Didone. Continua la sferzante ironia di Iarba, il quale sottolinea che l’eroe troiano è venuto meno alle sue promesse di matrimonio nei confronti di Didone. Pietro Metastasio 4. mi fura: mi sottrae. Il verbo «furare» è un latinismo e deriva dal sostantivo fur-furis, che significa «ladro» (di qui anche il termine italiano «furto»). 5. de’ miei mali … ristoro: chiedo a Iarba la soluzione (ristoro) delle mie sofferenze. Qui Didone chiede a Iarba di ucciderla, affinché la morte possa placare il suo dolore: si tratta, rispetto al testo virgiliano, di un inserimento contenutistico e tematico del tutto originale da parte dell’autore, che qui vuole sottolineare un rapporto di contrasto fra i personaggi. 6. Cedon: si attenuano. 27 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio Scena 17 Iarba con guardie, Didone, Selene e Osmida Parte seconda | L’età dell’Illuminismo 285 Didone 290 Iarba 295 Selene Iarba 300 305 Del tuo pianto ho pietà; meco ne vieni7. L’offese io ti perdono, e mia sposa ti guido al letto e al trono8. Io sposa d’un tiranno, d’un empio, d’un crudel, d’un traditore, che non sa che sia fede, non conosce dover, non cura onore9? S’io fossi così vile, saria10 giusto il mio pianto. No, la disgrazia mia non giunse a tanto. In sì misero stato insulti ancora11! Olà, miei fidi12, andate: s’accrescano le fiamme. In un momento si distrugga Cartago, e non vi resti orma d’abitator che la calpesti. (partono due guardie). Pietà del nostro affanno! Or potrai con ragion dirmi tiranno. Cadrà fra poco in cenere il tuo nascente impero, e ignota al passeggiero Cartagine sarà13. Se a te del mio perdono meno è la morte acerba14, non meriti, superba, soccorso né pietà. (parte). Scena 18 Osmida, Selene e Didone Osmida Selene 310 Didone 315 Cedi a Iarba, o Didone. Conserva con la tua la nostra vita. Solo per vendicarmi del traditore Enea, che è la prima cagion de’ mali miei, l’aure vitali io respirar vorrei15. Ah! faccia il vento almeno, facciano almen gli dèi le mie vendette16. 7. meco ne vieni: vieni via con me. Iarba è pronto a dimenticare il rifiuto di Didone nei suoi confronti. 8. mia sposa … trono: ti conduco come sposa al letto nuziale e dunque ti associo al regno di Numidia. Iarba offre dunque il matrimonio e il trono all’amata Didone. 9. Io sposa … onore?: alle offerte di Iarba Didone reagisce duramente e orgogliosamente, incurante della morte. 10. saria: sarebbe; forma aulica e letteraria. 11. In sì … ancora!: Iarba afferma con veemenza che Didone, pur in una tale condizione di infelicità (misero stato), continua a rifiutarlo. 28 Autori e testi aggiuntivi 12. fidi: fedeli. 13. Or … sarà: Iarba, rivolto a Didone, afferma provocatoriamente che ormai ella potrà, a buon diritto, chiamarlo tiranno, poiché egli sta per distruggere l’intera reggia cartaginese. 14. Se … acerba: se per te la morte è meno gravosa del mio perdono. 15. l’aure … vorrei: io vorrei respirare l’aria della vita. Qui Didone afferma che vorrebbe continuare a vivere, solo per vendicarsi di Enea, da lei chiamato traditore. 16. facciano … le mie vendette: che almeno gli dèi vendichino il mio dolore. Parte seconda | L’età dell’Illuminismo E folgori e saette, e turbini e tempeste rendano l’aure e l’onde a lui funeste17. Vada ramingo e solo; e la sua sorte 320 così barbara sia, che si riduca ad invidiar la mia18. Selene Deh modera il tuo sdegno. Anch’io l’adoro19, e soffro il mio tormento. Didone Adori Enea! Selene Sì, ma per tua cagione… Didone Ah disleale20! Tu rivale al mio amor? 325 Selene Se fui rivale, ragion non hai… Didone Dagli occhi miei t’invola21; non accrescer più pene ad un cor disperato. Selene (Misera donna, ove la guida il fato!) (parte) 330 Osmida Didone 335 340 Osmida Didone Osmida Crescon le fiamme, e tu fuggir non curi22? Mancano più nemici? Enea mi lascia, trovo Selene infida, Iarba m’insulta, e mi tradisce Osmida23. Ma che feci, empi numi? Io non macchiai di vittime profane i vostri altari: né mai di fiamma impura feci l’are fumar per vostro scherno24. Dunque perché congiura tutto il Ciel contro me, tutto l’inferno? Ah pensa a te; non irritar gli dèi. Che dèi? Son nomi vani, son chimere sognate25, o ingiusti sono (Gelo a tanta empietade26, e l’abbandono). (parte. Poco dopo si vedono cadere alcune fabbriche, e dilatarsi le fiamme nella reggia) 17. E folgori … funeste: tutte le forze della natura rendano avversi a lui (a Enea) i venti e le onde, cioè lo colpiscano con bufere marine. 18. la mia: è sottintesa la parola «sorte». 19. Anch’io l’adoro: Selene, sorella di Didone, confessa a costei di essere anch’ella innamorata di Enea. 20. disleale: sleale. 21. t’invola: sottraiti. 22. non curi: non ti preoccupi. Pietro Metastasio 23. Osmida: è il fiduciario della regina. 24. né mai … scherno: né mai feci fumare gli altari (l’are) di fiamma impura durante i sacrifici, per prendermi gioco di voi (degli dèi). 25. son chimere sognate: sono personaggi immaginari, presenti solo nei sogni. Didone rivolge la sua ira contro gli dèi, ritenendoli vuote idee. 26. Gelo a tanta empietade: mi sento gelare di fronte a tale empietà. 29 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio Scena 19 Osmida e Didone Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Scena ultima Didone sola Ah che dissi, infelice! A qual eccesso 345 mi trasse il mio furore? Oh Dio, cresce l’orrore! Ovunque io miro, mi vien la morte e lo spavento in faccia: trema la reggia e di cader minaccia. Selene, Osmida! Ah! tutti, 350 tutti cedeste alla mia sorte infida27: non v’è chi mi soccorra, o chi m’uccida. Vado… Ma dove? Oh Dio! Resto… Ma poi… Che fo28? Dunque morir dovrò 355 senza trovar pietà? 360 E v’è tanta viltà nel petto mio? No no, si mora29, e l’infedele Enea abbia nel mio destino un augurio funesto30 al suo cammino. Precipiti Cartago31, arda la reggia; e sia il cenere di lei la tomba mia. Metro: versi endecasillabi e settenari, spesso a rima baciata 27. tutti … infida: tutti vi siete tirati indietro di fronte alla mia sorte avversa. 28. Che fo?: che cosa posso fare? 29. si mora: che io muoia. Didone è ormai disperata e decisa irrevocabilmente a morire. 30. un augurio funesto: un presagio apportatore di morte. Qui la parola augurio è una “voce media”, nel senso che in questo contesto assume il significato generico di «presagio». 31. Precipiti Cartago: che precipiti pure Cartagine. Leggere e interpretare Momento cruciale della Didone abbandonata è il passo finale (attou III, sceneu 17-20), in cui Didone, regina dei Cartaginesi, respinta la richiesta di matrimonio e di associazione al trono da parte di Iarba, re dei Numidi, si getta nell’incendio della reggia causato dall’attacco di questi, accecato dall’ira per il rifiuto di Didone. Il brano è incentrato sullo scontro fra vari personaggi. Innanzitutto fra Iarba, vanamente innamorato della regina Didone, e quest’ultima, che, pur abbandonata dall’eroe troiano Enea, ormai da lei odiato, respinge, a costo della vita, l’estrema offerta d’amore da parte del suo spasimante. Ma il testo presenta anche lo scontro fra Didone e la sorella Selene (che sostituisce la virgiliana Anna), la quale, anch’ella innamorata di Enea, rivela a lei il suo segreto e tormentato sentimento: ciò provoca l’ira di Didone, che accusa di slealtà la sorella, vedendola come propria rivale. Altrettanto significativo è il dialogo fra Didone e Osmida, il suo fiduciario, che in precedenza ha cercato di favorire la partenza di Enea e qui cerca di convincere la regina a cedere all’amore offertole da Iarba. Infine è possibile intravedere un quarto contrasto, qui assente ma 30 Autori e testi aggiuntivi implicito e latente, fra Didone ed Enea, che è ormai pronto alla partenza in ossequio al volere degli dèi. È chiaro, dunque, che in questi quattro contrasti è possibile rintracciare due caratteristiche comuni. La prima è costituita dal fatto che in essi esiste un personaggio fisso, che è la protagonista Didone, intorno a cui ruotano gli altri personaggi: ciò conferisce organicità e compattezza al testo metastasiano. La seconda è rappresentata dal fatto che il personaggio a cui si contrappone Didone è una persona che è soggetta a un processo di mutamento, perché ognuna di esse tradisce la regina cartaginese: Iarba da innamorato diventa accanito nemico distruttore della sua reggia, Selene da affettuosa sorella si tramuta in rivale, Osmida da fido consigliere in alleato di Iarba, Enea da amante in seduttore che la abbandona. La conclusione della Didone abbandonata si presenta come un testo stilisticamente raffinato nei suoi toni cupi e grandiosi. Il ritmo, concitato e dinamico, è dato dalla voluta alternanza fra interventi brevi e concisi di alcuni personaggi e interventi più ampi e articolati da parte di altri. Il registro maggiormente presente è quello iussivo, espresso con l’adozione del modo imperativo, di cui forniamo qualche esempio (Fermati, v. 261; Va pure, v. 264; sfoga, v. 267; meco ne vieni, v. 283; andate, v. 294): esso conferisce un tono deciso e perentorio alle azioni. Non manca il registro esclamativo teso a sottolineare richiesta di aiuto e orribile sgomento (Giusti numi, pietà! Soccorso, o dèi!, v. 280 e oh, Dio, cresce l’orrore!, v. 346) e, ancor più frequentemente, il registro interrogativo che rimarca la certezza della sofferenza (Non basta?/ Mi vuoi supplice ancor?, vv. 275-276) o viceversa il dubbio circa gli errori commessi (A qual eccesso/ mi trasse il mio furore?, vv. 344-345). Il ritmo incalzante è reso anche con altre modalità stilistiche, tra cui va segnalato l’uso della coordinazione (Enea mi lascia, / trovo Selene infida, / Iarba m’insulta, e mi tradisce Osmida, vv. 331-333), delle ripetizioni anaforicheu (Son nomi vani, / son chimere sognate, vv. 341-342), dei valori fonico-timbrici orientati verso il dinamismo (nell’ultima scena, ad esempio, prevale la consonante rotolante r: trema la reggia e di cader minaccia, v. 348) e degli enjambementu, di cui esempio splendido è quello finale (sia/ il cenere, vv. 361-362) che, avvalendosi anche del rilievo dato dalla funzione emotivau (mia), contribuisce a creare un clima di solitudine gigantesca e tragica da parte di Didone campeggiante sulla scena. Pietro Metastasio 31 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | i testi Pietro Metastasio Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Giambattista Vico Il profilo letterario Di «natura malinconica ed acre» (come l’autore stesso si definisce nella sua autobiografia), Giambattista Vico (Napoli 1668-1744) appare un intellettuale di straordinario fascino, un uomo che individuò nella dedizione agli studi, nella comprensione dell’uomo e della sua storia, nella realizzazione della Scienza nuova (testo che si configura come l’opera di tutta la vita) le ragioni profonde della propria esistenza. Sostanzialmente incompreso e trascurato dai contemporanei, il suo pensiero, di un vigore e di una densità ineguagliabili, fu rivalutato dal Romanticismo e ancora oggi non smette di rivelare la sua modernità e originalità. Vico, infatti, è a ogni evidenza un precursore: a lui si devono un approccio del tutto nuovo all’indagine storica, l’introduzione di un’ottica antropologica, di cui saranno debitrici le moderne scienze umane, e una nuova sensibilità nei confronti del linguaggio, che non viene più considerato un sistema di segni meramente convenzionali, ma un’espressione immediata, una sorta di traduzione, sul piano fonico, dell’elaborazione delle immagini e dei concetti; foriera di grandi sviluppi futuri sarà anche la sua concezione della poesia. Il punto di partenza della filosofia vichiana è la critica al razionalismo cartesiano, che dominava incontrastato nella cultura del tempo. La polemica contro Cartesio, già presente nell’orazione De nostri temporis studiorum ratione e precisatasi nel corso del tempo, si sostanzia di due motivi fondamentali: Vico muove alla scuola cartesiana l’accusa di aver contribuito ad affermare il primato assoluto delle scienze e di aver di conseguenza offuscato le materie umanistiche, di cui vengono rivendicate tutta l’importanza e la centralità; poi, colpendo il sistema cartesiano al “cuore”, ne nega la pretesa di poter conoscere compiutamente la realtà naturale. Prendendo le mosse dal presupposto fondamentale che si verifica vera conoscenza di un determinato fenomeno quando c’è identità tra soggetto conoscente e causa agente (più semplicemente, che l’uomo è in grado di conoscere solo ciò di cui è causa, solo ciò che fa) Vico esclude la possibilità di una conoscenza effettiva del mondo naturale, che appunto non è opera dell’uomo, ma di Dio. Nella filosofia vichiana il principio primo non è più il cogito ergo sum (penso dunque sono) cartesiano – che per Vico è 32 Autori e testi aggiuntivi del tutto insufficiente a legittimare la conoscenza della causa dei fenomeni, vero compito della scienza – ma verum ipsum factum, ossia «è vero solo ciò che è stato fatto». Soltanto Dio, dunque, può conoscere la natura, mentre l’uomo deve accontentarsi di una conoscenza congetturale e approssimativa di essa; può, invece, conoscere ciò di cui è artefice. E di che cosa l’essere umano può dirsi con sicurezza fautore se non della storia? Il processo storico: questo l’oggetto della “nuova scienza”. Il filosofo napoletano riconosce così alla storia il pieno diritto di essere materia di una trattazione scientifica, anzi la erge a unico campo di indagine e conoscenza da parte dell’uomo (l’altra scienza pienamente conoscibile dall’essere umano in quanto suo prodotto è la matematica, ma è troppo astratta e lontana dalla realtà). In questo modo Vico rivoluzionava la lunga tradizione che partiva dal filosofo greco Aristotele (384-322 a. C.), secondo cui non poteva esistere una scienza storica; e non solo affermava il rigore scientifico della ricerca storica, ma ne indicava anche i due strumenti fondamentali: la filologia e la filosofia. La prima, “scienza del certo”, serve a verificare ciò che è realmente accaduto e a ricostruire lo svolgimento degli avvenimenti, mentre la seconda, “scienza del vero”, ha il compito di interpretare e spiegare i fatti che sono stati accertati attraverso la disciplina filologica. L’uomo dunque artefice della storia. Vico tuttavia non esclude l’esistenza di Dio né tanto meno quella di un ordine provvidenziale. Ciò può apparire una contraddizione insanabile, ma che tutto risponda a un disegno superiore non significa certo che non sia stato l’uomo a “fare” la storia: è stato lui il protagonista assoluto e indiscusso della grande evoluzione che lo ha visto approdare dalla prima fase di bestioni all’età civile; è stato lui a dare vita alle pratiche religiose, alla poesia, all’istituto familiare, alle organizzazioni politiche e così via. Con un’ottica del tutto inedita, Vico sofferma la propria attenzione su aspetti della storia umana generalmente trascurati, quali i costumi, le abitudini, le forme di conoscenza, la mentalità e finisce per individuare l’esistenza di sviluppi comuni a tutti i popoli nonostante le diversità apparenti. Non a caso presso ogni popolazione si sono affermate usanze e modalità di Parte seconda | L’età dell’Illuminismo vita analoghe come la religione, la celebrazione di matrimoni solenni e la pratica della sepoltura dei morti. Unica appare dunque a Vico l’evoluzione della spiritualità umana. In uno dei postulati della Scienza nuova (precisamente nella degnità LIII) si legge: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Queste tre modalità conoscitive corrispondono alle tre età in cui secondo Vico si articola la storia umana: non diversamente da quanto accade per il singolo individuo, la cui esistenza è scandita dall’infanzia, dalla giovinezza e dall’età adulta, così l’umanità ha vissuto l’età degli dei, caratterizzata dal prevalere dei sensi, l’età degli eroi, in cui dominano la fantasia e le passioni, e l’età degli uomini, in cui si afferma appieno la razionalità. L’individuazione di un sentire e di un percorso comuni a tutti gli uomini porta Vico a insistere con forza sull’esistenza di un diritto naturale condivisibile da tutti i popoli; e in questo lo studioso è memore della lezione dell’umanista e giurista olandese Grozio, da lui considerato un maestro ideale accanto al filosofo greco Platone, allo storico latino Tacito e al filosofo inglese Bacone. Giambattista Vico damentale importanza è il secondo, intitolato Degli elementi, che contiene centoquattordici Degnità, ossia i princìpi generali della “nuova scienza” (il termine degnità ha il significato di «proposizione degna di essere conosciuta» ed è una sorta di corrispondente latino del termine di origine greca «assioma», che deriva da aksiòs, «degno»). Nel secondo libro, Della sapienza poetica, il più ampio dei cinque (occupa circa la metà dell’opera) e diviso in undici sezioni, sono racchiuse alcune delle più grandi intuizioni di Vico. Il filosofo indaga sulle modalità di conoscenza dell’umanità primitiva e individua nella poesia e nel mito le forme in cui i primi uomini, che erano dotati di fantasia ma non di raziocinio, elaborarono la loro visione della realtà e il loro modo di rapportarsi al mondo. Queste forme di conoscenza, la cui interpretazione è fondamentale per capire un’importante fase della storia umana, si avvalgono di un particolare modo di espressione. Si basano, infatti, su un linguaggio che traduce immediatamente ogni idea e ogni sentimento in immagine. D’altra parte, per Vico il linguaggio nasce contemporaneamente all’elaborazione dei 33 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | autori e testi Il grande capolavoro di Giambattista Vico conobbe una lunga e complessa elaborazione e tre redazioni. La prima versione della Scienza nuova uscì a Napoli nel 1725, per i tipi di Felice Mosca, con il titolo Princìpi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, per la quale si ritruovano i princìpi di altro sistema del diritto naturale delle genti. Non pienamente soddisfatto della sua opera, il filosofo sottopose il testo a un capillare lavoro di correzione e riscrittura: nacque così la seconda edizione, pubblicata nel 1730 sempre da Mosca (Cinque libri di G. B. Vico de’ princìpi d’una scienza nuova dintorno alla comune natura delle nazioni). Pur lasciandone invariata la struttura, Vico non mancò di apportare all’opera ulteriori correzioni e annotazioni, che confluirono nella terza redazione apparsa nel 1744, poco dopo la sua morte, presso gli editori Gaetano e Stefano Elia (con il titolo Princìpi di scienza nuova dintorno alla comune natura delle nazioni). Nella sua stesura definitiva la Scienza nuova si presenta divisa in cinque libri, preceduti da un’introduzione e seguiti da una conclusione. Il primo libro, Dello stabilimento dei princìpi, è costituito da quattro capitoli, di cui di fon- Giambattista Vico Scienza nuova Parte seconda | L’età dell’Illuminismo concetti, prima come linguaggio muto che impiega figure e simboli, poi come linguaggio articolato. In base alla prospettiva delineatasi nel secondo libro, la poesia di Omero (del quale il filosofo nega l’esistenza come individuo storico) appare come un grande esempio di poesia primitiva, in cui si riflettono la visione della realtà e le forme della vita sociale degli uomini dell’epoca; di ciò si discute nel terzo libro, dal titolo Della discoverta del vero Omero. Nel quarto libro, Del corso che fanno le nazioni, sono indicate e descritte le tre età in cui, secondo Vico, si articola la storia umana. La prima è l’età degli dèi, in cui gli uomini sono dominati dai sensi, identificano le forze della natura con le divinità e si esprimono con un linguaggio muto. La seconda è l’età degli eroi, in cui prevalgono la fantasia e le passioni e in cui alcuni uomini, quelli che figurano nel mito appunto come eroi, riescono a imporre il loro dominio sugli altri e danno vita all’istituto della famiglia. La terza, infine, è l’età degli uomini, in cui si afferma la razionalità, nasce la filosofia e si realizzano appieno le organizzazioni civili. Sul piano storico questa età si identifica con la Grecia classica, la Roma repubblicana e la civiltà moderna. Può accadere a volte che la civiltà umana, arrivata al suo massimo sviluppo, ritorni nuovamente alla fase iniziale: questo il tema del quinto libro, Del ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni. Un esempio emblematico di questa ciclicità della storia si rintraccia, secondo Vico, nel Medioevo che, se da un lato conosce una perdita di quei valori elaborati dal mondo classico, dall’altro vede un rifiorire della fantasia e dell’immaginazione, delle quali è grande espressione la poesia di Dante. La prosa della Scienza nuova spazia dal carattere conciso e sentenzioso delle Degnità allo stile ampio e articolato delle parti dedicate alla trattazione vera e propria. Qui il periodare si fa complesso, non di rado arduo, colmo com’è di subordinate e incisi; il lessico è ricco di latinismi e di espressioni erudite. Lo stile vichiano tuttavia non è mai sovraccarico ed estenuante: i preziosismi, le figure retoriche, i periodi lunghi e avvolgenti non rispondono alla logica dell’artificio fine a se stesso, ma rendono vigorosa e vibrante la prosa, riflettendo appieno il modo commosso e partecipe con cui il filosofo napoletano racconta e interpreta i grandi eventi della storia dell’umanità. Il primo passo verso la civiltà Una violenta tempesta si abbatte sulla Terra: il cielo si illumina di spaventosi fulmini e tutt’intorno rimbombano terrificanti tuoni. I primi uomini, che, fanciulli del nascente genere umano, sono dotati di grande fantasia ma privi di raziocinio, sono atterriti e immaginano che l’artefice sia un dio, Giove. Nascono così il mito, la sapienza poetica e le pratiche religiose e, con essi, la civiltà. [Scienza nuova, II, 1] […] Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità , dovette incominciare da una metafisica2, non ragionata ed astratta qual è questa or degli ad1 1. gentilità: pagani. 34 2. metafisica: teologia, seppure di carattere ancora ingenuo. Autori e testi aggiuntivi Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Giambattista Vico 10 15 20 25 11. come nelle … Lattanzio: Vico si riferisce alla degnità XXXVIII, in cui cita un passo tratto dalle Divinae institutiones (Le istituzioni divine) dell’apologeta cristiano Lattanzio Firmiano (270 ca-320 ca), dove si spiega l’origine dell’idolatria con lo stupore provato dagli uomini primitivi di fronte a persone dotate di capacità prodigiose o in grado di imporre la propria forza e il proprio dominio. 12. americani: gli indios. 13. picciola capacità: piccola possibilità di comprensione. 14. il Mar Agghiacciato: l’oceano glaciale artico. 15. Tacito: Cornelio Tacito, storico latino (55 ca-120 ca); il riferimento è alla sua opera storica la Germania in cui descrive le popolazioni e i luoghi tra il Reno e il Danubio. 16. alle cose ammirate … fanciulli: a tutto ciò che suscitava loro meraviglia (alle cose ammirate) attribuivano il carattere di realtà concrete (l’essere di sostanze) sulla base del proprio modo di interpretare le cose (dalla propia lor idea), il che (ch’è) è tipico dei bambini. 17. una degnità: si tratta della degnità XXXVII (cfr. nota 7). 18. quali gli … cose: come abbiamo spiegato nelle Degnità, essi creavano le cose sulla base del proprio modo di sentire e di interpretare; si tratta precisamente della degnità XXXII, in cui si legge: «Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producono le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno alle cose la loro propia natura». 19. perocché: perché. 20. intendimento: intelligenza, intelletto. 21. robusta ignoranza: nota la contrapposizione tra la robusta ignoranza dei primi uomini e il purissimo intendimento di Dio. 22. corpolentissima: robustissima; il carattere della fantasia propria dei primi uomini è sottolineato dall’uso del superlativo assoluto, ripetuto immediatamente dopo. Ritorna quel concetto fondamen- 35 Giambattista Vico 3. addottrinati: gli uomini colti dell’età civile, i filosofi. 4. tai: tali. 5. siccome quelli ch’erano: dal momento che essi erano. 6. di niuno … stabilito: i primi uomini avevano sensi e fantasia molto sviluppati (tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie) a fronte della mancanza di raziocinio, come – ricorda l’autore – è stato affermato in una delle Degnità (precisamente la degnità XXXVI), in cui si legge che «La fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio». Le Degnità sono una sorta di postulati (contenuti nel libro I, capitolo 2), che Vico pone a fondamento della sua “scienza nuova”. 7. Questa fu … forniti: in questi uomini la poesia fu una facultà naturale proprio perché essa nasceva spontaneamente dai sensi e dalla fantasia di cui erano forniti per natura; la poesia – afferma Vico nella degnità XXXVII – consiste nel dare «senso e passione» alle cose inanimate, non diversamente da quanto fanno i bambini che, nella loro fantasia, giocano e parlano con gli oggetti come se fossero «persone vive»; gli uomini dell’età primitiva, “fanciulli” del genere umano, furono quindi «sublimi poeti». 8. da ignoranza di cagioni: dalla non conoscenza e non comprensione delle cause dei vari fenomeni. 9. la qual … Degnità: l’autore fa ancora una volta riferimento alle Degnità, in particolare alla degnità XXXV, in cui si afferma che «la maraviglia è figliuola dell’ignoranza», nasce cioè proprio dal non conoscere le cause dei fenomeni; e quanto più potente appare il fenomeno di cui non si comprende il principio scatenante tanto più grande è la «maraviglia». 10. Tal poesia … dèi: la poesia fu divina poiché in una prima fase gli uomini attribuivano al volere di divinità le cause dei fenomeni a cui non riuscivano a dare una spiegazione. 5 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | autori e testi dottrinati3, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai4 primi uomini, siccome quelli ch’erano5 di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie, com’è stato nelle Degnità stabilito6. Questa fu la loro propria poesia, la qual in essi fu una facultà loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti7), nata da ignoranza di cagioni8, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, come si è accennato nelle Degnità9. Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, essere dèi10, come nelle Degnità il vedemmo con Lattanzio11 (ed ora il confermiamo con gli americani12, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacità13 dicono esser dèi; a’ quali aggiugniamo i germani antichi, abitatori presso il Mar Agghiacciato14, de’ quali Tacito15 narra che dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava per mare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci dànno ad intendere molto più di questi autori della gentilità, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciulli16, che, come si n’è proposta una degnità17, osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive. In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisati, dalla lor idea criavan essi le cose18, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché19 Iddio, nel suo purissimo intendimento20, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza21, il facevano in forza d’una corpolentissima22 fantasia, e, perch’era Parte seconda | L’età dell’Illuminismo corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità23, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi24 che fingendo25 le si creavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori»26. Che sono gli tre lavori che deve fare27 la poesia grande, cioè di ritruovare favole28 sublimi confacenti all’intendimento popolaresco29, e che perturbi30 all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare31, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora32 si mostrerà. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà33, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque34». Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanità gentilesca quando – dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che35, disseccata dall’umidore dell’universale innondazione36, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini37) – il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi38 nell’aria la prima volta un’impressione39 sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino40, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione41, alzarono gli occhi ed avvertirono42 il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura43, come si è detto nelle Degnità44, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano45 le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser46 un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori47», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualtale a cui Vico ha già fatto riferimento: gli uomini quanto più sono “ignoranti” e “privi di raziocinio” tanto più sono “fantasiosi”. 23. con una maravigliosa sublimità: con un’efficacia sorprendente. 24. tal e tanta … medesimi: a tal punto che essi stessi ne venivano turbati. 25. fingendo: il verbo è qui utilizzato nel significato originario del latino fingere, «modellare, dar forma». 26. onde furon … «criatori»: il termine greco poietés, da cui il latino poeta, significa appunto «colui che fa, creatore» e indica sia la creazione materiale sia quella ideale. 27. gli tre … fare: i tre scopi (lavori) che deve avere, a cui deve mirare. 28. favole: narrazioni. 29. confacenti all’intendimento popolaresco: adeguate alla comprensione del popolo, di facile fruizione. 30. perturbi: colpisca, scuota. 31. ch’ella … operare: che la poesia (ella) si è riproposta, cioè educare il popolo (d’insegnar il volgo) ad agire virtuosamente. 32. or ora: subito. 33. propietà: caratteristica (degli uomini). 34. fingunt simul creduntque: la citazione è tratta dagli Annales (V, 10) e significa «immaginano (qualcosa) e al tempo stesso lo credono vero». 35. tanto di … stato che: fu necessario (v’abbisognò) un periodo di tempo così lungo (tanto di tempo, latinismo) perché la Terra ritornasse nella condizione in cui… 36 Autori e testi aggiuntivi 30 35 40 45 50 36. l’universale innondazione: il diluvio universale. 37. mandasse … fulmini: emanasse esalazioni secche, ossia (o sieno) sostanze infuocate (ignite dal latino ignis, «fuoco»), nell’aria generando così i fulmini; secondo la fisica del tempo, che ignorava l’esistenza dell’elettricità atmosferica, i fulmini si originavano infatti da vapori secchi e caldi esalati dalla superficie terrestre. 38. per introdursi: perché si introducesse. 39. impressione: pressione. 40. eglino: essi, forma arcaica. 41. spaventati … cagione: gli uomini rimangono spaventati e attoniti nel vedere i fulmini saettare nel cielo e nel sentire il roboante rumore dei tuoni, fenomeni di cui non conoscono la causa (non sapevano la cagione) e quindi non sanno darsi una spiegazione. 42. avvertirono: volsero la mente a (dal latino advertere animum, «volgere l’animo, l’attenzione a»); si coglie appieno il significato profondo di avvertirono se si ricorda la degnità LIII in cui Vico delinea i tre momenti dello sviluppo della mente umana: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». 43. E perché … natura: la natura umana primitiva tendeva a spiegare l’effetto (cioè il fenomeno, “effetto” di una “causa”) attribuendo, trasferendo a esso la propria natura. 44. come … Degnità: nella degnità XXXII (cfr. nota 18). 45. spiegavano: esprimevano, esternavano. 46. si finsero il cielo esser: si figurarono il cielo come. 47. maggiori: antiche (latinismo da maiores, «più grandi»). Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Giambattista Vico 60 65 70 59. conforme … divisato: secondo quanto è stato stabilito nelle Degnità; qui il riferimento è in particolare alla degnità XXXII (cfr. nota 18). 60. teologi: vengono definiti tali poiché tendono ad attribuire una natura divina a ogni aspetto della realtà. 61. la più grande … dèi: immaginano l’esistenza di un’entità superiore, Giove, re e padre degli uomini e degli dèi: nascono così il mito e la prima forma di religione. 62. in atto di fulminante: se lo raffigurarono nell’atto di scagliare fulmini. 63. popolare … insegnativa: (riferiti a prima favola divina) universale (popolare), in grado di suscitare emozioni (perturbante) e istruttiva (insegnativa). 64. ch’essi stessi … credettero: a tal punto che proprio loro che lo avevano immaginato (sel finsero) lo credettero vero (sel credettero). Vico ribadisce il concetto precedentemente affermato attraverso la citazione tratta dagli Annales di Tacito «fingunt simul creduntque» (cfr. nota 34). 65. religioni: riti. 66. osservarono: obbedirono. 67. E per quella … Tacito: l’autore si riferisce alla degnità XXXIV in cui si sofferma sul concetto di superstizione citando un’espressione tratta dagli Annales di Tacito (I, 28), Mobiles ad superstitionem perculsae simul mentes, che egli stesso parafrasa così: «ch’una volta che sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiamano tutto ciò ch’essi immaginano, vedono e che fanno». 68. di cui potevan esser capaci: di cui riuscivano ad avvertire l’esistenza. 69. l’essere: la proprietà, la consistenza. 70. Ch’è … plena: qui si rintraccia l’origine storica di quel modo di dire, Iovis omnia plena, cioè «tutte le cose sono piene di Giove»; si tratta di una citazione dalle Bucoliche di Virgilio (III, 60). 37 Giambattista Vico 48. che col fischio … cosa: gli uomini primitivi dunque immaginano un dio che si esprima come loro, non attraverso il linguaggio ma urlando e brontolando, nel suo caso col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni. 49. celebrare: esercitare, praticare (dal latino celebrare, «praticare, esercitare»). 50. Elementi: Vico si riferisce ancora una volta alle Degnità. Nella degnità XXXIX si legge che «la curiosità, propietà connaturale dell’uomo, figliuola dell’ignoranza, che partorisce la scienza … porta questo costume (modalità): ch’ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodì (stella visibile in pieno giorno), subito domanda che tal cosa voglia dire o significare»; tale concetto viene ripetuto subito dopo con parole molto simili. 51. La qual natura: tale atteggiamento. 52. ch’ove veggano: ogni qual volta vedano; nota la costruzione a senso, per cui il tempo verbale è impiegato al plurale (veggano) con il soggetto singolare (volgo). Il popolo dunque non “illuminato” da una conoscenza profonda e specifica si comporta allo stesso modo dei primi uomini. 53. parelio: formazione di dischi luminosi intorno al Sole, provocata dalla rifrazione dei raggi dalle nubi più alte. 54. subito dànno nella curiosità: immediatamente danno libero sfogo alla curiosità. 55. tutti … significare: tutti ansiosi (anziosi) nel ricercare si chiedono che cosa quel fenomeno significhi. 56. come se … degnità: si tratta della degnità XXXIX (cfr. nota 50). 57. gli stupendi … ferro: l’attrazione esercitata dalla calamita sul ferro è uno dei fenomeni che suscita la meraviglia e la curiosità del volgo. 58. in questa … colà: pur in questa epoca in cui le menti sono ormai rese più avvedute (più scorte) e addirittura (benanco) erudite dalle scienze giungono a questa conclusione (escono colà). 55 Parte seconda • L’età dell’Illuminismo | autori e testi che cosa48, e sì incominciarono a celebrare49 la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la maraviglia, come tra gli Elementi50 ella sopra si è diffinita. La qual natura51 tuttavia dura ostinata nel volgo, ch’ove veggano52 o una qualche cometa o parelio53 o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente nell’aspetto del cielo, subito dànno nella curiosità54 e, tutti anziosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare55, come se n’è data una degnità56; ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro57, in questa stessa età di menti più scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colà58: che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e sì fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni ed effetti, conforme nelle Degnità anco si è divisato59. […] In tal guisa i primi poeti teologi60 si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi61, ed in atto di fulminante62; sì popolare, perturbante ed insegnativa63, ch’essi stessi, che sel finsero, sel credettero64 e con ispaventose religioni65, le quali appresso si mostreranno, il temettero, il riverirono e l’osservarono66. E per quella proprietà della mente umana che nelle Degnità udimmo avvertita da Tacito67, tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano ed anco essi stessi facevano, credettero esser Giove, ed a tutto l’universo di cui potevan esser capaci68 ed a tutte le parti dell’universo diedero l’essere69 di sostanza animata. Ch’è la storia civile di quel motto: «…Iovis omnia plena70» […] Parte seconda | L’età dell’Illuminismo Leggere e interpretare Forma primigenia della conoscenza umana, la sapienza poetica fu elaborata dai primi uomini, che erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie. La poesia fu una facoltà naturale degli uomini primitivi perché sgorgava spontaneamente dalla meraviglia che essi provavano di fronte a tutto ciò che li circondava e di cui non sapevano darsi una spiegazione. L’ignoranza infatti – afferma l’autore – è madre di maraviglia di tutte le cose, dal momento che ogni cosa di cui non si conosce l’origine genera stupore. I primi uomini, quindi, non potevano non provare meraviglia di fronte alla varietà e complessità della realtà naturale e finirono con l’attribuire i vari fenomeni a un’entità a loro superiore: è così che nascono gli dèi nell’immaginario dell’umanità. Gli uomini presuppongono l’esistenza di una divinità che generi i fenomeni e attribuiscono a essa le loro caratteristiche. I primi uomini, che non sono altro che i fanciulli del nascente gener umano, proprio come i bambini immaginano che ogni cosa sia viva, animata e che si esprima come loro. Per questo, di fronte allo spettacolo spaventoso dei folgori e dei tuoni, immaginano il cielo come un gran corpo animato, a cui danno il nome di Giove e che manifesta i propri sentimenti col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni. Prendono forma, così, il primo grande mito e il timore reverenziale nei confronti degli dei, dal quale a loro volta si originano le forme di adorazione e le pratiche religiose. Tutto questo fa compiere all’uomo il primo passo verso la civiltà. Questo brano getta luce piena su alcuni nodi fondamentali del pensiero vichiano. Nell’ottica di Vico, dunque, la poesia è una forma di conoscenza, diversa da quella razionale ma non per questo meno importante e significativa; diversa perché attiene alla sfera fantastica e istintiva della mente umana. Appare, poi, in tutta la sua chiarezza la concezione che il filosofo napoletano ha del mito: esso è un “documento” della storia umana, un’espressione importantissima di una fase della mentalità, delle usanze e della vita sociale degli uomini. 38 Autori e testi aggiuntivi Parte terza L’età napoleonica Parte terza L’età napoleonica autori e testi Friedrich Schiller La vita e le opere Friedrich Schiller nasce a Marbach (Stoccarda) nel 1759. Il padre è chirurgo militare al servizio del duca Karl Eugen e impartisce al figlio un’educazione molto severa. Ancora giovane, per seguire la volontà del duca e del padre, Schiller entra all’accademia militare diretta dal duca stesso, dove studia giurisprudenza, poi medicina, dedicando però gran parte del suo tempo alla lettura di autori quali Goethe, Bürger, Klopstock. Nell’accademia si applica una rigida disciplina che alimenta in lui il risentimento e la voglia di ribellarsi. La scuola dispone dei migliori insegnanti e Friedrich riceve un’ottima istruzione che dà subito i suoi frutti: mentre lavora alla tesi di laurea ha già scritto il primo dramma, I masnadieri (1781), che fa pubblicare a sue spese. È un’opera che parla di rivolta, di nobili uomini che diventano briganti, masnadieri appunto, per ribellarsi all’ordine sociale stabilito da un tiranno; una trama che rispecchia la situazione in cui lo stesso scrittore si trova, situazione che gli diventa sempre più insopportabile. Diventato medico militare ancora al servizio del duca, si reca senza permesso alla rappresentazione del suo dramma e per questo viene punito; nel 1782 allora fugge, compiendo un inaudito atto di ribellione per l’epoca. Si reca a 39 Parte terza | L’età napoleonica Mannheim, poi a Francoforte e inizia seriamente la sua carriera di scrittore. Pubblica nel 1783 Fiesco, storia drammatizzata della rivolta di Genova, ancora una tragedia della tirannia; scrive Intrigo e amore (1784), imperniato sull’amore tra un giovane nobile e una povera fanciulla, osteggiato dal padre di lui. Del 1785 è l’Ode alla Gioia, in cui si canta la gioia come passione, amore e fratellanza. Nel 1787 Schiller termina la stesura del Don Carlos, che in un primo momento aveva composto in versi: è un dramma storico in cui lo scrittore riprende i temi dell’insofferenza all’autorità, dell’amore contrastato e dell’amicizia fraterna. Il 1787 è l’anno in cui si stabilisce a Weimar, fervido centro culturale dell’epoca, dove frequenta i circoli letterari e incontra Goethe. Questi riconosce presto i meriti di poeta e di storico del giovane Friedrich, che per la stesura del Don Carlos e di alcuni scritti storici, come la Storia dell’insurrezione dei Paesi Bassi (1788) e la Storia della guerra dei Trent’anni (179192), ha compiuto lunghi studi, che gli valgono la chiamata all’Università di Jena per insegnare, appunto, storia. L’amicizia con Goethe si consolida e nasce una lunga collaborazione: i due scrittori compiono insieme studi scientifici, discutono di letteratura, storia, filosofia e scienze naturali, tanto che ancora oggi i loro nomi sono sempre accostati a indicare il periodo di maggior splendore dello Sturm und Drang e del successivo classicismo tedesco. Nel periodo weimariano Schiller compone ancora liriche, saggi storici e filosofici, scritti di estetica e inizia la sua trilogia del Wallenstein, pubblicata nel 1799, che comprende Il campo di Wallenstein (1796), I Piccolomini (1797-98) e La morte di Wallenstein (1798-99): si tratta ancora una volta di un dramma storico, che narra della guerra dei Trent’anni e contrappone drammaticamente il realismo politico al bisogno di libertà; anche qui compare, come in altre opere, l’eroe romantico ribelle e geniale, destinato a soccombere all’arte della politica. Nel 1801 viene rappresentata con enorme successo la tragedia Maria Stuarda, considerata il suo capolavoro teatrale, in cui presenta una bellissima figura di donna vittima anch’ella della ragione politica e di un amore sfortunato. Il Guglielmo Tell (1804) è l’ultimo dramma di Schiller, un inno alla libertà e alla concordia, non intese in senso generico bensì come libertà civica e sintonia tra cittadini, un’esortazione alla rivolta contro i tiranni quando questi attentano alla libertà individuale e collettiva. Ma il genio di Schiller sta lentamente spegnendosi, la malattia e il lavoro incessante lo hanno molto debilitato; la morte sopraggiungerà nel 1805, dopo lunghe sofferenze. Il profilo letterario Il desiderio di libertà e fratellanza è forse l’elemento più caratteristico dell’opera e della vita di Schiller. Nella Germania del XVIII secolo la maggior parte dei cervelli promettenti è destinata a servire il regnante di turno, che nel migliore dei casi può essere un sovrano illuminato ma che pretende in ogni caso assoluta obbedienza. Come tanti altri giovani Schiller sente insopportabile tutto ciò e chiede di essere libero da qualsiasi tirannia. I suoi eroi ci riescono forse più di lui, costretto comunque a fare i conti con prìncipi e politici per poter sopravvivere nella sua carriera di scrittore. Grande drammaturgo, Schiller mette in scena conflitti che sono in primo luogo scontri di idee: l’ideale e la realtà, il prorompente desiderio di libertà e il meschino, ma necessario, realismo politico. Tra i due poli si dibatte egli stesso, diviso sempre tra la volontà di essere scrittore indipendente e l’ammirazione per 40 Autori e testi aggiuntivi coloro che sanno affermarsi nella vita: si dice spesso che nell’animo ribelle di Schiller c’è molto del despota, perché per affermarsi egli tiranneggia se stesso, costringendosi al duro lavoro e perché col suo impeto tende sempre a imporsi agli altri nella vita letteraria. Primo vero rappresentante dello Sturm und Drang, specialmente nella sua prima produzione, Schiller, è uno scrittore impetuoso, che riversa nelle opere uno slancio drammatico prorompente; spesso inizia direttamente con l’azione principale, catapultando lo spettatore al centro di essa senza quasi aver spiegato l’antefatto; e così il dramma acquista un ritmo inarrestabile e corre verso la tragica fine. I suoi sono drammi storici in cui l’individuo si oppone all’autorità e finisce spesso per avere la peggio. La libertà cantata dall’autore tedesco è soprattutto interiore; l’altra libertà, quella politica, può diventare una colpa: dopo la Rivoluzione francese e l’assassinio dei Parte terza | L’età napoleonica regnanti in quel paese, che atterrisce in Europa anche quanti, come Schiller, avevano gridato alla rivolta, lo scrittore si fa più cauto nell’incitare alla ribellione e più attento a studiare i risvolti psicologici e filosofici degli eventi storici; e così l’eroe schilleriano per rimanere puro non deve “abbassarsi” alla vita politica, che inevitabilmente rende impuri e immorali. A questa conclusione Schiller giunge comunque dopo aver sperimentato a sue spese determinate situazioni, dopo essersi, appunto, “abbassato e macchiato”. Nella sua drammaturgia il contrasto tra il tiranno e il ribelle si ripresenta spesso nel conflitto tra padre e figlio, anch’esso costruito sull’esperienza personale dello scrittore, e si riflette nelle storie d’amore: quelli di Schiller sono amori contrastati, hanno la qualità dell’ideale e contribuiscono a fare degli eroi schilleriani personaggi che anelano continuamente a qualcosa che non riescono a ottenere. Tutto ciò conferisce alle opere di questo scrittore un senso drammatico ancora più forte. Non bisogna credere però che la produzione di Schiller sia tutta improntata alla tragedia; uno dei suoi capolavori è infatti l’Ode alla gioia, che sarà messa in musica da Beethoven (1770-1827) e che esprime, in un bellissimo crescendo, l’amore tra gli uomini, che da solo muove cielo e stelle: Schiller è in fin dei conti un entusiasta e un idealista. Friedrich Schiller tica. Maria è stata condannata e un gruppo di persone che credono la pena ingiusta, tra cui il nobile Leicester, amante della regina Elisabetta, si adoperano per farle avere la grazia. Ma Elisabetta, anche se tra mille dubbi, non mostra pietà e punisce anche il suo amante. Le due donne si sono dunque contese non solo il potere, ma anche l’amore di un uomo, Leicester. L’antitesi tra amore e politica si esprime nel conflitto tra il mondo di Maria, prima vera eroina schilleriana, bella, nobile e passionale, e quello di Elisabetta, sovrana ipocrita e calcolatrice. E a dimostrazione che amore e politica non vanno d’accordo, Maria vince in amore, ma perde in politica, mentre Elisabetta perde Leicester ma vince il trono. Maria alla fine accetta la sua morte come espiazione delle colpe passate e così diventa eroina drammatica e conquista dignità morale, mentre Elisabetta paga a caro prezzo il suo trionfo, perché pur riuscendo a mantenere la corona, ci appare in tutta la sua crudeltà e inumanità. Il fascino della tragedia dipende molto dai due personaggi femminili: due fortissime figure di donna, due caratteri opposti che però hanno in comu41 Parte terza • L’età napoleonica | autori e testi Tragedia analitica in cinque atti, rappresentata con grande successo nel 1801, Maria Stuarda è ispirata alle vicende della Casa reale inglese dei Tudor. Figlia di Giacomo V Stuart e nipote di Enrico VIII, Maria diventa sovrana di Scozia. Qui è protagonista di diversi intrighi e si inimica il suo popolo, anche perché cattolica; costretta a fuggire dalla Scozia, cerca rifugio in Inghilterra, appellandosi a Elisabetta I, che invece, per paura che Maria possa pretendere il trono, l’accusa di aver congiurato contro la Corona e la fa imprigionare, condannandola poi all’esecuzione capitale, che avviene nel 1587. Maria Stuarda nella realtà storica si è trovata al centro di vari complotti e non v’è dubbio che sia stata il punto di riferimento per molti cattolici che speravano in un ritorno al potere a scapito degli anglicani. Schiller però, più che dalla verità dei fatti, è affascinato dal contrasto tra le due regine e così costringe l’azione del dramma nel breve periodo che intercorre tra la condanna di Maria e la sua esecuzione. La tragedia sta nelle contrapposizioni dei caratteri e nello scontro psicologico, più che nell’azione dramma- Friedrich Schiller Maria Stuarda Parte terza | L’età napoleonica ne la grande forza di volontà. Elisabetta è determinata a tenere stretti nelle sue mani la corona d’Inghilterra e il suo amante, il conte di Leicester. È una donna inasprita dal potere e da questo resa ipocrita e insensibile: scarica la responsabilità della decapitazione di Maria su un segretario, e questo abile colpo di maestria da parte di Schiller drammaturgo, la rende definitivamente odiosa agli occhi del pubblico. Dal canto suo Maria non è certo priva di colpe: si dice abbia partecipato o almeno non abbia impedito l’assassinio di suo marito, lord Darnely, ad opera del conte di Bothwell, cui pare si sia anche concessa; di mariti ne ha avuti più d’uno e così di amanti; ma ha accettato di pagare e la vediamo avviarsi con grande nobiltà verso il patibolo come se cercasse la liberazione da una condizione troppo umiliante per la sua regalità e, insieme, una necessaria espiazione. È questo dunque il dramma di Schiller in cui la contrapposizione tra idealismo e realismo politico si traduce con più immediatezza, con una semplicità e assolutezza da tragedia greca. Infatti lo scrittore, grande studioso dei classici greci, costruisce l’opera con una simmetria di azioni e personaggi che ci permette di seguire la vicenda in tutti i suoi risvolti. Inoltre egli ottiene un effetto altamente tragico e di grande coinvolgimento emotivo, circoscrivendo l’azione al periodo che intercorre tra la condanna a morte e l’esecuzione di Maria, e ordina gli eventi, gli incontri e gli scontri tra i personaggi in un crescendo che, dopo il faccia a faccia tra le due rivali, culmine dell’azione, corre irrimediabilmente verso la catastrofe finale. L’incontro Lord Leicester crea un’occasione di incontro tra Elisabetta e Maria, credendo di poter indurre la prima a concedere la grazia alla seconda, ma la riconciliazione, purtroppo, si rivela impossibile. [Maria Stuarda, atto III, scena 4] Elisabetta, Maria, Shrewsbury e Leicester […] Maria1 si fa forza2 e vuole avvicinarsi ad Elisabetta3, ma a metà strada si ferma rabbrividendo. I suoi gesti tradiscono la lotta più violenta4. Elisabetta Ma come, signori? Chi mi parlava di una donna prostrata e sottomessa5. Io vedo una donna altera, per nulla piegata dalla sventura. 1. Maria: Maria Stuarda (1542-87) fu regina di Scozia fino al 1567. Venne proclamata regina appena nata, figlia di Giacomo V e Maria di Guisa. Educata in Francia, vi sposò Francesco II (1558), alla morte del quale, due anni dopo, tornò in Scozia. Qui nel 1565 sposò in seconde nozze lord Darnely, un cattolico, il che compromise notevolmente l’equilibrio che si era stabilito tra le fazioni religiose e quelle nobiliari. Costretta perciò ad abdicare nel 1567, si rifugiò in Inghilterra, ma, coinvolta in una congiura contro la regina Elisabetta I, venne fatta giustiziare da quest’ultima con la motivazione di alto tradimento. 42 Autori e testi aggiuntivi 2. si fa forza: alla notizia dell’arrivo di Elisabetta, pur se informata del tentativo di Leicester, Maria ha avuto un momento di smarrimento; incontrando il suo sguardo ha sentito di non avere speranze. 3. Elisabetta: Elisabetta I Tudor (1533-1603) regnò in Inghilterra dal 1558, succedendo alla sorellastra Maria la Cattolica. 4. la lotta più violenta: è la lotta tra il suo orgoglio di regina e il desiderio di riconciliarsi con Elisabetta e avere salva la vita. 5. Chi mi … sottomessa: Maria ha conquistato diverse persone, tra cui lo stesso Leicester, che l’hanno vista cambiata dalla prigionia. Elisabetta Maria Elisabetta Maria E sia! Mi assoggetterò anche a queste! Vattene, inutile fierezza dell’animo! Dimenticherò chi sono e tutto quello che ho patito, mi abbasserò di fronte a chi mi ha gettato in questa vergogna6. (Si rivolge alla regina) Il cielo è dalla tua parte, sorella7! La vittoria incorona il tuo capo fortunato e io adoro in te la divinità che ti innalza. (Le cade ai piedi) Ma ora sii generosa, sorella! Non lasciarmi qui vergognosamente prostrata, tendi la mano, la tua destra regale, e rialzami dalla mia caduta8. (ritraendosi) Siete al posto che vi siete meritata, Lady Maria, e io lodo la grazia del mio Dio, che non ha permesso che giacessi io ai vostri piedi come voi ora ai miei9! (con crescente intensità) Pensa all’instabilità di tutto ciò che è umano. C’è una divinità che punisce l’orgoglio10! Venerala e temila, questa terribile forza divina che mi getta ora ai tuoi piedi… Ma per gli estranei che ci guardano, onora in me te stessa11, non sconsacrare, non esporre alla vergogna il sangue dei Tudor, che scorre nelle mie vene, come nelle tue! O Dio del cielo! Non rimanere rigida e inaccessibile, come lo scoglio a cui il naufrago cerca invano, lottando, di aggrapparsi12! Tutto per me, la mia vita, il mio destino, dipende dalle mie parole, dalla forza delle mie lacrime: scioglimi il cuore che possa toccare il tuo13! Se mi fissi con quello sguardo di ghiaccio, il cuore mi si stringe rabbrividendo, le lacrime indurite non scorrono più, e lo sgomento trattiene la supplica nel petto raggelato. (fredda e severa) Cos’avete da dirmi, Lady Stuard? Volevate parlarmi? Io ora dimentico di essere la regina che avete gravemente offeso14, per adempiere solo ad un compito pietoso di sorella e vi concedo la consolazione della mia presenza15. Per ascoltare l’invito della generosità, mi espongo ad un giusto biasimo per essere scesi così in basso… sapete bene che volevate farmi uccidere16. Come posso cominciare, come posso disporre, le mie parole, perché ti tocchino il cuore, ma non l’offendano17. O Dio, da’ forza alle mie parole e togli loro ogni aculeo18 che potrebbe ferire! Non posso parlare in mio favore senza accusarti duramente, e proprio questo non voglio… Mi hai trattata ingiustamente, perché io sono una regina come te, e tu mi hai tenuta prigioniera; io sono venuta a te supplicando e tu hai sprezzato le sante leggi dell’ospitalità e il sacro diritto delle genti e mi hai rinchiuso tra le mura di un carcere. Mi hanno sottratto crudelmente amici e servitori, mi hanno costretta a indegna privazione e infine trascinata davanti ad un tribunale vergognoso19… Ma non ne voglio parlare più! Un eterno oblio ricopra tutte le crudeltà che ho patito. Ma sì, attribuirò tutto al destino; tu non sei colpevole, e neppure io lo sono, uno spirito maligno è salito dagli abissi e ha acceso nei nostri cuori quell’odio che fece di noi, ancor fanciulle, due nemiche. Esso è cresciuto con noi, e uomini malvagi hanno attizzato col fiato l’infausta fiamma20. Pazzi 6. Dimenticherò … vergogna: si propone l’umiltà, una delle fondamentali virtù cristiane. 7. sorella: sono entrambe eredi, anche se per diverse vie, di Enrico VIII e della Casa dei Tudor. 8. Non lasciarmi … caduta: è questa la prima appassionata invocazione di pietà. 9. Siete al posto … miei: la gela subito umiliandola e lasciandola a terra. 10. C’è una divinità … l’orgoglio: si richiama alla fede religiosa. 11. onora in me te stessa: la esorta a essere veramente regina e a non versare, uccidendola, il suo stesso sangue, il sangue della sua famiglia. 12. Non rimanere … aggrapparsi: paragoneu appropriato perché Maria è davvero naufragata scappando dal suo paese e ha realmente cercato di aggrapparsi a Elisabetta. 13. Tutto per me … il tuo: lo sguardo gelido di Elisabetta rischia di raggelare anche le lacrime di Maria, che già qui sente di non poter resistere a lungo. Friedrich Schiller 14. Io ora dimentico … offeso: Elisabetta pecca di orgoglio e non sa in nessun modo mostrarsi pietosa. 15. per adempiere … mia presenza: la regina rimane sul suo piedistallo, nonostante voglia far credere di essere ben disposta. 16. Per ascoltare … uccidere: vuol passare per sovrana generosa, salvo riaffermare la colpa di Maria. 17. Come posso … non l’offendano?: Maria si accorge che deve stare attenta. 18. aculeo: punta aguzza, spina. 19. Mi hai trattata … vergognoso: Maria rievoca, senza biasimare la regina, tutte le sofferenze che ha patito. 20. Ma sì … fiamma: qui e di seguito si ascolta lo Schiller storico che, a distanza di secoli, giudica le lotte fratricide caratteristiche della Corona inglese. 43 Parte terza • L’età napoleonica | autori e testi Maria Friedrich Schiller Parte terza | L’età napoleonica Parte terza | L’età napoleonica Elisabetta Maria Elisabetta Maria Elisabetta fanatici si sono armati, non richiesti, di spada e pugnale21. È il destino dei sovrani: le loro discordie precipitano nell’odio il mondo intero e ogni loro dissidio scatena le furie. Ora non c’è più tra di noi una bocca estranea (le si avvicina confidenzialmente e le parla in tono accarezzante), ora siamo solo noi, una di fronte all’altra. Parla ora, sorella22! Dimmi la mia colpa, voglio dartene piena soddisfazione. Ah, mi avessi prestato orecchio allora, quando imploravo di vederti! Non si sarebbe giunti a questo punto, e non sarebbe questo triste parco il luogo del nostro doloroso incontro23. La mia buona stella mi ha preservata, allora dal mettermi la serpe in seno con le mie stesse mani24. Non accusate le stelle, ma la vostra anima nera e la selvaggia ambizione della vostra casa. Fra noi non c’era ombra di discordia, allorquando vostro zio, quel prete superbo e avido di dominare, che non cessa di allungare la mano verso le corone degli altri, mi lanciò la sfida, e indusse voi ad assumere il mio stemma, ad impossessarvi del mio titolo regale e ad iniziare con me un duello all’ultimo sangue25. E chi non ha cercato di aizzare contro di me? La lingua dei preti e la spada dei popoli, e tutte le armi terribili del fanatismo religioso, perfino qui, nella pace del mio impero, ha attizzato le fiamme della sommossa26… Ma Dio è con me, e quel prete superbo non è padrone del campo… Il suo colpo mirava al mio capo, ma sarà il vostro a cadere! Sono nelle mani di Dio. Non approfitterai in modo così cruento della tua potenza27. E chi mi lo impedirà? Vostro zio ha mostrato a tutti i re del mondo come si fa la pace coi propri nemici: la mia scuola sia la notte di San Bartolomeo28! Che m’importa dei vincoli del sangue e dei diritti dei popoli? La chiesa affranca da ogni legame, la chiesa santifica regicidio e spergiuro. Io non faccio che applicare gli insegnamenti dei vostri preti29. Ma dite, su, che pegno garantirebbe per voi, se generosa vi togliessi le catene30? Quale serratura terrebbe custodita la vostra parola, che le chiavi di San Pietro31 non possano aprire? Nella forza sta la mia sola sicurezza32, non si può scendere a patti con i viscidi serpenti. Oh, credimi, sei tu la causa del nostro dissidio, con questa tua triste, cupa diffidenza! Vedesti sempre in me un’estranea, una nemica: se tu mi avessi dichiarata tua erede33, come mi spetta, amore e gratitudine avrebbero fatto di me una fedele amica e una cara parente. Non son qui i vostri amici, Lady Stuard, la vostra casa è il papato, vostri fratelli i monaci… Voi mia erede! Volete mettermi in trappola34! E io dovrò permettere che voi, mentre 21. Pazzi fanatici … pugnale: questi sono gli anni delle lotte tra cattolici e protestanti; nella realtà Elisabetta I ha affrancato lo Stato dalla Chiesa, continuando l’opera del padre. 22. Parla ora, sorella!: sarebbe un’ottima occasione per riconciliare il piano umano con quello politico, ma per Schiller ciò è impossibile. 23. Ah … incontro: la biasima di aver anteposto la ragion di Stato al cuore. 24. La mia buona … mani: Elisabetta sembra inattaccabile. 25. Fra noi … all’ultimo sangue: i cattolici consideravano Maria la loro sovrana e ordirono complotti per detronizzare Elisabetta, regina anglicana; la Casa di Maria sosteneva il Cattolicesimo ed era alleata del papa. 26. La lingua … sommossa: Schiller prende chiaramente posizione contro le guerre religiose, che vengono usate dai sovrani per raggiungere i propri scopi. 27. Non approfitterai … potenza: Maria cede: lei parla di amore e clemenza e Elisabetta le risponde con una lezione di storia! 28. notte di San Bartolomeo: la notte di San Bartolomeo del 1572 ci fu in Francia una violenta repressione degli ugonotti, comunità calvinista che rivendicava la libertà contro l’assolutismo regio; 44 Autori e testi aggiuntivi dopo aver condannato il fanatismo, Elisabetta non si rende conto di quanto risulti anche lei tale, quando dice di volersi vendicare di questo massacro religioso. Scomunicata dal papa Pio V nel 1570, avendo riconfermato l’autonomia della Chiesa Anglicana da Roma, Elisabetta continuò nella persecuzione dei cattolici in Inghilterra e nel suo appoggio agli ugonotti, sia francesi che olandesi. 29. Io non faccio … preti: il desiderio di vendetta è il sentimento dominante in Elisabetta; i preti a cui si riferisce sono i preti cattolici. 30. Ma dite … catene?: è una domanda retorica: anche se ci fosse un pegno, Maria non sarebbe al sicuro. 31. le chiavi di San Pietro: fa riferimento al papa che spalleggiava Maria e le rivolte cattoliche. 32. Nella forza … sicurezza: è la verità che rappresenta il realismo politico; chi vuole mantenere il potere deve esercitare la forza. 33. se tu … erede: è qui l’errore più grave di Maria. 34. Volete … trappola!: Elisabetta crede che la supplica sia una finzione. Elisabetta Maria Elisabetta Maria Elisabetta Maria 35. Armida: personaggio di un’opera di Torquato Tasso (15441595), simbolo di un amore libero privo di vincoli morali e orientato all’esaltazione dei sensi. 36. irretiate: sottomettiate con l’inganno, ammaliate. 37. la nobile … lascivi: si riferisce al fascino che Maria ha sui giovani; Maria Stuarda aveva avuto molti amanti. 38. Governa … regno: Maria rinuncia definitivamente alle pretese sul trono. 39. la grandezza … più: la politica non l’attira più. 40. onta: offesa, vergogna. 41. Hai raggiunto … fioritura: queste parole rappresentano indubbiamente un grosso atto di sottomissione. 42. Dilla … beffarti di lei: Maria non crede ancora alla crudeltà di Elisabetta. 43. Una parola … cancellato: Maria ha scelto da che parte stare, vuol mettere fine a una storia di intrighi e violenze. Friedrich Schiller 44. L’attendo … davanti a me!: da notare l’abilità retorica di Maria, che tenta disperatamente di trasformare la rivale in un angelo, in modo da non considerarla per sempre un diavolo. 45. Così vi riconoscete … paladini?: Elisabetta continua a beffarsi di Maria. 46. Non alletta … tutti!: ecco sferrato il colpo decisivo: l’accusa, al tempo stesso, di adulterio e di assassinio. Pare infatti che Maria non sia stata del tutto estranea all’assassinio di suo marito (lord Darnely), perpetrato dal suo amante (il conte di Bothwell). 47. Eh … di tutti: l’infierire di Elisabetta è davvero gratuito, ma giustificato: la regina vuole distruggere la rivale agli occhi dell’amato Leicester. 48. Ho errato … apparenze: Maria riacquista qui tutta la sua dignità. 45 Parte terza • L’età napoleonica | autori e testi Maria sono ancora in vita, seduciate il mio popolo con le vostre arti da Armida35, e irretiate36 la nobile gioventù del mio regno nei vostri lacci lascivi37; dovrò sopportare che tutti si volgano al nuovo astro che sorge, mentre io… Governa in pace! Rinuncio ad ogni mia pretesa su questo regno38. Ahimè, le ali del mio spirito sono spezzate, la grandezza non mi attira più39. Ci sei riuscita: non sono che l’ombra della Maria di un tempo. L’orgoglio del mio animo ha ceduto all’onta40 del lungo carcere… Hai raggiunto lo scopo, mi hai distrutto in piena fioritura41. Ma ora poni fine al tormento, sorella! Dilla, la parola per la quale sei venuta, ché non posso credere che tu sia qui di fronte alla tua vittima solo per beffarti di lei42. Pronuncia questa parola! Dimmi: «Sei libera, Maria! Hai provato la mia forza, ora venera la mia grandezza d’animo». Dillo, e io riceverò vita e libertà come un dono dalle tue mani… Una parola, e il passato è cancellato43. L’attendo, oh, non farmela aspettare troppo a lungo! Guai a te se non la pronuncerai! Ché se non te ne andrai via da me come una splendente divinità apportatrice di salvezza, sorella!, né per tutta questa terra ricca e benedetta, né per tutte le terre che il mare circonda, vorrei mai star io davanti a te, come tu ora davanti a me44! Così vi riconoscete vinta, finalmente? Avete finito di tessere intrighi? Non ci sono assassini in agguato? Non ci sono più avventurieri che si addossino il triste compito di essere vostri paladini45? Sì, è finita, Lady Maria, non sedurrete più nessuno. Il mondo ha altri crucci. Non alletta nessuno la prospettiva di essere il vostro quarto marito, perché, mariti o pretendenti, voi li uccidete tutti46! (sussultando) Sorella! Sorella! Oh Dio, fa’ che possa trattenermi! (la guarda a lungo con disprezzo e alterigia) Così, Lord Leicester, queste sarebbero le seduzioni che nessun uomo può contemplare impunemente, con cui nessuna donna può osare confrontarsi! Eh, certo… È una fama conquistata a buon mercato: non costa nulla essere per tutti una bellezza, se si accetta di essere la bellezza di tutti47. Questo è troppo! (ridendo sprezzante) Ora mostrate il vostro vero viso, finora non era che una maschera. (infiammata dall’ira, ma con dignità) Ho errato come errano gli esseri umani. Ero giovane, allora, e il potere mi seduceva. Ma non l’ho mai tenuto nascosto: ho sempre amato la lealtà e sdegnato le false apparenze48. Il mondo conosce il peggio di me, ma io posso dire: sono migliore della mia fama. Guai a te, invece, se un giorno alzerai il mantello di onorabilità che ricopre le tue azioni e sotto il quale nascondi ipocritamente Friedrich Schiller Parte terza | L’età napoleonica Parte terza | L’età napoleonica Shrewsbury Maria Shrewsbury Leicester Maria l’ardore sfrenato di passioni clandestine49! Non è certo l’onore l’eredità di tua madre: tutti sanno per quali virtù Anna Bolena50 salì il patibolo! (s’intromette tra le due regine) Dio del cielo! A questo punto si doveva arrivare! È questo la moderazione, l’umiltà, Lady Maria51? Moderazione! Umiltà! Ho sopportato tutto quello che un essere umano può sopportare52. Ora vattene, calma pecorile, torna al cielo, paziente sopportazione, spezza finalmente i vincoli che ti trattengono, vieni fuori dal tuo nascondiglio, ira troppo a lungo repressa… Tu, che desti al basilisco infuriato lo sguardo che uccide53, concedi alla mia lingua la freccia avvelenata… È fuori di sé! Perdona le sue smanie, è stata provocata! (tenta agitatissimo di condur via Elisabetta) Non ascoltarla, è fuor di senno! Via, via da questo luogo infausto! Il trono d’Inghilterra è sconsacrato da una bastarda54, il nobile popolo inglese ingannato da un’astuta ciarlatana! Se regnasse giustizia saresti tu ora davanti a me nella polvere, perché io sono la tua regina. Elisabetta esce in fretta55. I lords la seguono coi segni del più profondo sgomento. [Trad. di M. D. Ponti] 49. Guai a te … clandestine: Elisabetta ha accusato Maria di lascivia, ma anche lei nasconde amori illeciti. 50. Anna Bolena: cortigiana amante di Enrico VIII, il padre di Elisabetta. 51. Dio … Maria?: a parlare è Shrewsbury, uomo della corte di Elisabetta, d’accordo con Leicester nell’organizzazione dell’incontro. 52. Ho sopportato … sopportare: ormai l’umiliazione è troppo forte: la scena si capovolge. 53. basilisco … uccide: nella mitologia medievale il basilisco era un mostro terrificante che uccideva con lo sguardo. 54. bastarda: Elisabetta era chiamata dai cattolici bastarda, perché non nata da un matrimonio consacrato; era infatti figlia di Enrico VIII e Anna Bolena. 55. Elisabetta esce in fretta: vincitrice o vinta? Leggere e interpretare L’incontro tra Elisabetta e Maria, che Schiller ci propone nel terzo attou, a circa metà della tragediau, nella realtà storica non è mai avvenuto. È un episodio inventato dallo scrittore come culmine drammatico della storia. Elisabetta è stata condotta con uno stratagemma al luogo in cui Maria è tenuta prigioniera: il nobile Leicester, favorito della regina, ma segretamente innamorato della bella Maria, vuole indurla a un atto pietoso. Per tutte e due le donne è molto difficile sostenere un confronto diretto. Maria fa appello a tutte le sue forze per mettere da parte l’orgoglio, anche se si accorge al primo sguardo di trovarsi di fronte a una donna senza cuore. Tutta la scenau è costruita come un combattimento: all’inizio Maria è sulla difensiva, cerca parole che non feriscano l’avversaria, che chiama sorella per sottolineare il legame di sangue che le unisce. Elisabetta, tratta forse in inganno dall’atteggiamento sottomesso di Maria, ne approfitta per attaccare: le sue parole sono sempre più sferzanti e non concedono davvero nulla all’avversaria; la sovrana sembra acquietarsi solo quando Maria si dice vinta e disposta a rinunciare al trono, non più attirata dalla grandezza politica. Nemmeno con la dichiarazione di sconfitta e dopo l’ennesima richiesta di conciliazione, però, la regina si sente appagata e passa addirittura agli insulti. La situazione allora si capovolge, l’ira di Maria rimonta e le sue parole, estremamente dignitose, rivendicano la sua sincerità e smascherano l’ipocrisia di Elisabetta, che non è più sorella, ma bastarda e ciarlatana. 46 Autori e testi aggiuntivi Parte terza | L’età napoleonica Parte terza • L’età napoleonica | autori e testi Friedrich Schiller Schiller mantiene la tensione costantemente alta. Lo spettatore sa che dal colloquio dipende la sorte di Maria, ma in un certo qual modo anche quella di Elisabetta: si dimostrerà clemente, quindi vera regina, o abuserà del suo potere? Dunque si può ben dire che questa scena è il culmine del dramma. I due personaggi principali sono qui colti nella loro forza e nella loro abilità oratoria, che rispecchia le differenze del loro carattere: Maria non si vergogna di svelare la sua paura e le sue debolezze, mentre Elisabetta è meschina nei suoi discorsi e mantiene un atteggiamento beffardo e di superiorità; Maria si sforza di essere conciliante e invoca dalla regina un atto di pietà, Elisabetta al contrario dà sfogo alla sua aggressività verbale. Poi gli atteggiamenti si capovolgono, Maria si riappropria del suo orgoglio e della sua dignità, diremmo squisitamente femminile, ed Elisabetta deve andar via in fretta. Attraverso l’espediente scenico del capovolgimento, che avviene sempre al culmine di un’azione e la rende più tragica, Schiller risolve il conflitto tra le due protagoniste e ci suggerisce la sua tesi, secondo cui l’eroe è puro e nobile, mentre chi vuole occuparsi di politica deve per forza risultare impuro, rinunciando all’integrità morale. Alla fine dell’incontro le due donne raggiungono ognuna uno scopo, una sul piano umano, l’altra su quello politico. Friedrich Schiller 47 Parte quarta L’età del Romanticismo Ippolito Nievo 1.La vita L’esordio letterario 48 Ippolito Nievo nacque a Padova il 30 novembre 1831 da nobile famiglia. Il padre, l’aristocratico Antonio Nievo, era un magistrato di origini mantovane, la madre, la veneziana Adele Marin, discendeva dai Colloredo di Mont’Albano nel Friuli. Grazie alla diversa provenienza dei genitori, Ippolito durante l’infanzia viaggiò moltissimo, legandosi particolarmente al nonno materno che risiedeva a Verona. Proprio lì il futuro scrittore frequentò gli studi collegiali fino ai sedici anni, quando poi si stabilì a Mantova, una città che, insieme al Friuli, sarebbe rimasta nel suo cuore, divenendo lo sfondo di tanta parte della sua narrativa. Durante il 1848, l’anno che vide il propagarsi dei moti rivoluzionari in varie città italiane, Nievo fu tra coloro che parteciparono alle insurrezioni che coinvolsero Mantova. Nello stesso anno intrecciò una relazione con Matilde Ferrari, il primo grande amore della sua vita, alla quale, suggestionato anche dalla lettura dell’Ortis foscoliano, scrisse e indirizzò una settantina di lettere. Al 1851 risale la sua prima opera, l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, rimasta a lungo inedita e pubblicata soltanto nel 1956. Si tratta di un romanzo ironico non esente da influenze sterniane, dove veniva posta la parola fine alla storia d’amore con la Ferrari, ma in cui non mancava la riflessione sulla situazione politica e sociale del tempo. L’interesse di questa prova Parte quarta | L’età del Romanticismo giovanile risiede non soltanto nei tratti che anticipano l’opera più matura dello scrittore, le Confessioni di un italiano (pensiamo, ad esempio, al personaggio di Fanny, che prefigura la successiva Pisana), ma anche nell’espressione di uno stile narrativo che si allontanava dal sentimentalismo dominante in quegli anni in Italia soprattutto grazie all’opera di Prati e Aleardi. Avviatosi agli studi giuridici, Nievo si laureò a Padova nel 1855. Gli anni successivi al 1857, dopo il trasferimento a Milano, furono segnati da un altro grande amore, quello per Beatrice Melzi, sposata a un suo cugino, alla quale lo scrittore tra il 1858 e il 1861 indirizzò numerose lettere, destinate a confluire nel suo epistolario. L’attività giornalistica Intanto, già dagli anni universitari, egli aveva avuto modo di farsi conoscere e apprezzare per la sua attività giornalistica, che condusse, con notevole impegno, per diverse testate. Nacquero in questi anni numerosi scritti letterari sia in prosa sia in versi che, secondo un costume all’epoca assai diffuso, egli andava pubblicando sui vari giornali raccogliendoli in volume in un secondo momento. In questa fase Nievo dovette anche affrontare problemi di natura giudiziaria legati alla pubblicazione sul «Panorama universale» di Milano della novella L’avvocatino che gli costò un processo, risoltosi fortunatamente con il solo pagamento di un’ammenda, con l’accusa di aver adoperato espressioni ingiuriose contro la gendarmeria. La partecipazione all’impresa dei Mille Nel 1859 militò nelle file dei garibaldini prendendo parte, l’anno successivo, all’impresa dei Mille e combatté nelle battaglie di Calatafimi e di Palermo meritando da Garibaldi prima il grado di capitano, poi di maggiore. In Sicilia, tuttavia, svolse soprattutto incarichi amministrativi in qualità di vice-intendente della spedizione e per questo motivo non seguì tutte le tappe dell’avanzata garibaldina. Dopo un breve rientro in famiglia, ai primi del 1861 fece ritorno a Palermo per raccogliere i documenti necessari a difendere l’amministrazione dei garibaldini dalle accuse del nuovo Stato unitario ma, partito alla volta di Napoli il 4 marzo sul piroscafo «Ercole», non giunse mai a destinazione. L’imbarcazione, infatti, scomparve tra i flutti senza lasciare traccia né di sé né del suo carico umano. 2.La figura di intellettuale e l’impegno sociale Una riscoperta tardiva Il percorso esistenziale e artistico di Ippolito Nievo può senza dubbio essere considerato uno dei più movimentati all’interno del panorama letterario dell’Ottocento. Morto giovanissimo, lo scrittore visse tuttavia in modo intenso, lasciando di sé l’immagine di un ingegno straordinariamente vivace e di una personalità poliedrica, per molti versi ancora da esplorare, a causa di uno strano destino che ha riservato a lui e a molte delle sue opere, tra cui lo stesso capolavoro, una riscoperta piuttosto tardiva. Per la pubblicazione di molti dei testi nieviani, infatti, si è dovuto attendere il Novecento, quando finalmente si è registrata una fioritura di studi critici sull’autore padovano (la cui circolazione tra i narratori del Novecento era stata favorita, in prossimità del centenario della sua nascita, da Riccardo Bacchelli e Giovanni Comisso), che avrebbero ben presto portato a una piena rivalutazione di Nievo e della sua produzione letteraria. Già ai contemporanei dello scrittoIppolito Nievo 49 Parte quarta | L’età del Romanticismo L’impegno sociale re, tuttavia, non era sfuggita la versatilità del suo talento e l’impegno al servizio della causa risorgimentale che gli aveva fatto guadagnare quell’appellativo di «poeta-soldato» con cui lo aveva definito uno dei suoi primi e maggiori biografi, Dino Mantovani. Non soltanto sul versante politico si espresse l’impegno di Nievo, ma anche su quello sociale. Ricordiamo, in particolare, l’attenzione nei confronti del mondo contadino, indiscusso protagonista del Novelliere campagnuolo, pur se in merito alle sue posizioni ideologiche non poche sono state le questioni sollevate, in special modo «sui connotati ad un tempo populistici e paternalistici del progetto campagnolo e più in generale sui lineamenti riformisti dell’ideologia nieviana» (Nozzoli). Nella rappresentazione del mondo contadino il contributo maggiore è forse dato dalla ricerca di tecniche narrative adeguate e soprattutto dalle scelte linguistiche che si allontanano dal modello manzoniano. I dialetti, nella mescidata prosa nieviana, si affiancano al toscano e ai numerosi francesismi in un risultato composito, reso ancor più complesso dalla compresenza di vari registri linguistici, dall’aulico al colloquiale, che rendono oralità e scrittura meno distanti tra loro. 3.Le opere Sin dall’esordio della sua attività letteraria, che lo portò in seguito a cimentarsi nella pratica di una vasta gamma di generi letterari, Nievo tentò di dare un assetto teorico alla sua produzione e di definire la propria poetica. Sotto tale aspetto significativi appaiono gli scritti da lui pubblicati nel 1854 sul periodico «L’alchimista friulano» sotto il titolo Studii sopra la poesia popolare e civile massimamente in Italia, in cui precisava la sua concezione di una poesia che, pur non rivolgendosi in modo esclusivo al popolo, ne promuovesse l’elevazione morale. Come modelli venivano proposti Dante, Parini, Foscolo e Manzoni, ma un ruolo importante era riconosciuto anche al poeta satirico Giuseppe Giusti, che probabilmente lo scrittore aveva tenuto presente nella stesura di quella che possiamo ritenere la sua prima opera letteraria, l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, il libello che sancì la rottura del suo legame con Matilde Ferrari. Alla composizione di questo testo, attraversato da una pungente ironia, non rimase estranea l’influenza di Sterne, con la cui opera Nievo si era incontrato sia indirettamente (attraverso la traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale) sia direttamente con la lettura del romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy. Tra il 1854 e il 1855 Nievo dava alle stampe due raccolte poetiche dal titolo Versi. Vari sono i motivi toccati, da quello amoroso a quello patriottico o storico, ma non manca l’attenzione alle condizioni del popolo e alla vita quotidiana. Sicuramente più corpose appaiono le successive raccolte, Le lucciole, contenenti poesie composte dal 1855 al 1857 per un totale di ben seimila versi, e Amori garibaldini, apparsa nel 1860, in cui Nievo giunse a migliori esiti artistici. Feconda appare anche l’attività di traduttore, a cui si dedicò per gran parte della sua vita prediligendo i canti popolari e le poesie del tedesco Heine, che sentiva particolarmente vicino per le comuni simpatie “democratiche”. Come nel caso dell’Antiafrodisiaco, anche le traduzio50 Autori e testi aggiuntivi Parte quarta | L’età del Romanticismo ni rimasero a lungo inedite dopo la morte dell’autore e sono state pubblicate solo in anni a noi vicini. Ancora più travagliata è la storia editoriale della produzione teatrale di Nievo, rimasta nella maggior parte dei casi poco nota o addirittura inedita. Essa consta di due drammi, Emanuele (1852) e Gli ultimi anni di Galileo Galilei (1854, l’unico rappresentato), tre commedie di stampo goldoniano (Pindaro Pulcinella del 1855, I beffeggiatori e Le invasioni moderne del 1857) e due tragedie, I Capuani e Spartaco, entrambe del 1857. Destinata a maggior fortuna, e senza dubbio artisticamente più riuscita, risulta invece la produzione novellistica di Nievo, raccolta nel volume Novelliere campagnuolo. Prima di giungere al suo capolavoro, le Confessioni di un italiano, lo scrittore si cimentò anche in una produzione romanzesca che presenta caratteri di non trascurabile interesse. Oltre al Conte pecoraio, del 1857, che possiamo ricondurre alla produzione “campagnola”, ricordiamo Angelo di bontà, un romanzo che può essere definito “storico” in quanto ambientato nella Venezia del secolo precedente. Accanto alla protagonista, Morosina, compaiono sulla scena personaggi di vario genere (in questa sapiente capacità di delineare i caratteri risiede una delle maggiori qualità del Nievo narratore), che si muovono sullo sfondo delle vicende che segnano la fine della Repubblica veneta. Curiosa, infine, è l’esperienza del romanzo Il barone di Nicastro (1857), pubblicato a puntate sul «Pungolo» di Milano con il sottotitolo Le disgrazie del Numero Due. Il romanzo si incentra sulla storia di un nobile sardo, seguace delle dottrine pitagoriche, che parte alla ricerca della virtù, riconducibile alla perfezione del numero tre. Dopo varie peripezie, causategli dal numero due, simbolo della contraddizione che domina il mondo, l’intellettuale torna, senza essere riuscito a ottenere lo scopo che si era prefisso, nella sua terra. Originale nella concezione, al romanzo non è estranea la riflessione filosofica, che trova il suo più diretto antecedente letterario nel Candido di Voltaire, opera alla quale si accosta anche per il tono ironico. Al racconto filosofico, inoltre, può essere ricondotto uno scritto del 1860, Storia filosofica dei secoli futuri, in cui Nievo immagina di percorrere la storia dell’uomo dal 1859 (anno in cui si erano conclusi gli eventi bellici che avevano condotto alla pace di Zurigo) all’anno 2222. Partendo dalle considerazioni sulla situazione politica contemporanea, l’autore estende il suo racconto fino a immaginare un mondo senza guerre e senza distinzioni tra classi sociali. Nell’opera troviamo un rovesciamento della posizione espressa da Nievo sul pamphlet, rimasto anonimo, Venezia e la libertà d’Italia, in cui egli aveva levato la sua protesta contro l’armistizio di Villafranca, registrando invece un’incondizionata accettazione dell’accordo franco-piemontese con l’Austria. Più esplicitamente politico appare invece il saggio Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (a lungo noto con il titolo Frammento sulla rivoluzione nazionale con cui apparve nella prima – e anche stavolta tarda – edizione del 1929), risalente al periodo immediatamente precedente all’impresa dei Mille, in cui l’autore riflette, in maniera limpida e lucida, sui moti risorgimentali. Ippolito Nievo 51 Parte quarta | L’età del Romanticismo Parte quarta L’età del Romanticismo i testi Confessioni di un italiano L’opera maggiore di Nievo è il romanzo Confessioni di un italiano, scritto quasi di getto, in pochi mesi, tra il 1857 e il 1858, e pubblicato postumo nel 1867. Articolato in ventitré capitoli, nei quali si ripercorrono le vicende, dall’infanzia fino alla vecchiaia, di Carlino Altoviti, nato veneziano e in attesa di morire finalmente italiano, il romanzo intreccia la storia personale del protagonista – alla cui voce si deve la narrazione in prima persona – alle vicende storiche susseguitesi tra il 1775 e il 1855: la caduta della Repubblica veneziana, la dominazione francese, la Restaurazione, i moti risorgimentali. La trama Il romanzo può essere suddiviso in tre blocchi narrativi che corrispondono ad altrettanti momenti della vita del protagonista. Nel primo di essi, che comprende i sette capitoli iniziali, Nievo si sofferma sull’infanzia e sulla pubertà di Carlino Altoviti, che viene accolto nel castello della contessa di Fratta, sua zia materna, in seguito all’abbandono da parte dei genitori. In questa prima parte del romanzo entrano in scena alcuni dei personaggi che avranno un peso de terminante sulla vita e sulla formazione del protagonista nonché sullo sviluppo successivo delle vicende narrate: le due cugine, innanzitutto, Clara e Pisana (destinata, quest’ultima, a intrecciare con Carlino un intenso quanto travagliato rapporto d’amore durato un’intera esistenza), ma anche Lucilio, il giovane studente di medicina amato ardentemente da Clara, e so52 Autori e testi aggiuntivi prattutto Martino, il vecchio servitore, che nelle lunghe giornate trascorse nella cucina del castello circonda Carlino della sua protezione e del suo affetto paterno. La parte centrale del romanzo, che si estende dall’ottavo al diciassettesimo capitolo, si sofferma sulle vicende della giovinezza e dell’età adulta di Carlino, la cui storia si interseca con gli eventi storici e politici del tempo. Avvicinatosi agli ideali di libertà e di uguaglianza che animano le prime sommosse locali ispirate alla Rivoluzione francese e respinto nel frattempo dalla Pisana, che sposa un altro uomo, il protagonista si sposta da Venezia, dove ritrova il padre, a Milano, entrando infine nella legione della Repubblica cisalpina, dove ha modo di incontrare Ugo Foscolo. Nel corso degli avvenimenti tumultuosi che segnano questi anni, la sua storia si intreccia ripetutamente con quella della Pisana: incontratala in modo fortuito durante un combattimento, Carlino le salva la vita; successivamente la donna riesce a liberarlo dalla prigionia cui egli era stato sottoposto in seguito agli scontri del 1799 a Napoli, durante i quali suo padre aveva perso la vita. L’ultimo blocco narrativo si estende dal capitolo diciottesimo al ventitreesimo. Sono gli anni della maturità del protagonista che vede nuovamente incrinarsi il suo rapporto con la Pisana; la donna, infatti, lo spinge al matrimonio con una sua amica, Aquilina, dalla quale Carlino avrà due figli. Ancora una volta coinvolto nei moti in- Centrale appare nel romanzo il rapporto tra Carlino e la Pisana, la cugina con cui egli trascorre l’infanzia e che esercita su di lui un fascino prepotente quanto ambiguo, destinato a lasciare un’impronta indelebile. La protagonista delle Confessioni può senza dubbio essere considerata una delle più riuscite creazioni letterarie del nostro Ottocento. Personaggio originale, lontano da qualunque altro modello femminile (pensiamo, ad esempio, alla distanza che la separa dalla Lucia manzoniana), la Pisana suscitò molto scalpore e rese questo romanzo, una volta di più, “scomodo”, perché poco rispondente all’immagine che la società borghese e la morale cattolica intendevano dare della donna. Accanto a Carlino e alla Pisana si muove uno stuolo di personaggi minori, sapientemente caratterizzati da Nievo, abile allestitore di scene indimenticabili come quelle che si svolgono, durante Ippolito Nievo l’infanzia di Carlino, presso il castello di Fratta. Pur essendo debitore nei confronti di diversi modelli italiani ed europei, il romanzo di Nievo appare senz’altro originale nel suo impianto narrativo. Notevole è, infatti, l’oscillazione tra il tempo del racconto e il tempo della storia, le cui fila vengono tenute insieme dall’unicità del narratore-protagonista. Il Carlino ormai ottantenne interviene nel racconto delle sue vicende passate cambiando continuamente l’angolo prospettico e combinando il punto di vista di se stesso giovane con quello raggiunto con la maturità e la vecchiaia. Ne scaturisce un racconto quanto mai mobile e vivace, soprattutto nei primi capitoli del romanzo, in cui la distanza temporale rispetto al Carlino ottantenne risulta maggiore. La vivacità narrativa del testo nieviano, inoltre, viene sostenuta dall’ironia (che si colora talvolta di sfumature autoironiche) sottesa all’intero romanzo con l’intento, spesso, di ammonire il lettore a non prendere eccessivamente sul serio le vicende raccontate. In tale scrittura Nievo non trova i suoi modelli nella tradizione letteraria nostrana, bensì nel coevo panorama europeo e, in particolar modo, nella narrativa di Sterne. Originali si rivelano, inoltre, le scelte linguistiche dell’autore che, allontanandosi dalla soluzione manzoniana, adotta un sapiente mixage di registri linguistici differenti, in cui si combina una variegata gamma di elementi dialettali, in special modo lombardi e friulani. 53 Parte quarta • L’età del Romanticismo | i testi surrezionali del 1821, viene imprigionato e condannato ai lavori forzati, ma è nuovamente salvato dalla Pisana. Si trasferiscono insieme a Londra, dove entrambi, però, conducono una vita grama: la Pisana è costretta a elemosinare per lui, che nel frattempo ha perso la vista; ma sarà lei, infine, ad ammalarsi e a morire. Carlino, guarito, torna a Venezia, dove perde un figlio a causa di un’epidemia. Con l’altro figlio, Giulio, partecipa ai moti quarantottini in seguito al cui fallimento è costretto a riparare in America, dove muore nel 1855. Ippolito Nievo Parte quarta | L’età del Romanticismo Parte quarta | L’età del Romanticismo Una vita avventurosa Siamo alle prime battute del romanzo. Il protagonista, ormai vecchio, si confessa rievocando i momenti salienti della sua vita avventurosa… [Confessioni di un italiano, I] Ovvero breve introduzione sui motivi di queste mie Confessioni, sul famoso castello di Fratta1 dove passai la mia infanzia, sulla cucina2 del prelodato castello, nonché sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e sui gatti che lo abitavano verso il 1780 – Prima invasione di personaggi3; interrotta qua e là da molte savie considerazioni sulla Repubblica Veneta, sugli ordinamenti civili e militari d’allora, e sul significato che si dava in Italia alla parola patria, allo scadere del secolo scorso. Io nacqui Veneziano4 ai5 18 Ottobre del 1775, giorno dell’Evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano6 quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente7 quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati. Sono vecchio oramai più che ottuagenario8 nell’anno che corre dell’era cristiana 18589; e pur10 giovine di cuore forse meglio che nol’ fossi11 mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità12. Molto vissi e soffersi13; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni14 che sempre paiono soverchie15 alla smoderatezza e cascaggine16 umana, pur sollevano l’anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. La mia indole, l’ingegno, la prima 1. castello di Fratta: si trovava nel comune di Portogruaro, nella zona orientale di Venezia, luogo familiare a Nievo perché vi abitava lo zio materno. Di questo castello, costruito nel XII secolo, restava in verità ben poco ai tempi dello scrittore, che nel descrivere l’ambiente del suo romanzo tenne presente, evidentemente, anche altre dimore gentilizie della zona e, in particolare, il castello della nonna Ippolita. 2. cucina: la cucina in questa prima sezione del romanzo assume una notevole importanza in quanto è il luogo intorno al quale ruotano le vicende e i personaggi ed è soprattutto il luogo in cui avvengono i primi rapporti sociali di Carlino. 3. Prima … personaggi: l’abilità nel ritrarre i personaggi viene avvertita consapevolmente da Nievo come una delle più felici caratteristiche della sua scrittura e uno degli elementi peculiari del romanzo; perciò, sin da questa prima introduzione, egli richiama l’attenzione del lettore sul numero degli attori che contribuiscono a creare il grande affresco delle Confessioni. 4. Veneziano: il protagonista, Carlino Altoviti, era nato nella Repubblica di Venezia negli ultimi anni della sua indipendenza. 5. ai: il. 54 Autori e testi aggiuntivi 5 10 15 6. morrò … Italiano: pur non essendosi ancora realizzata l’Unità, il protagonista prefigura la sua morte finalmente da Italiano. Nota la forza di quell’indicativo futuro (morrò) che presenta come un’irrevocabile certezza ciò che all’epoca è ancora una speranza. È, infatti, nel 1858 che si colloca tanto la narrazione di Carlino nella finzione letteraria, come si vedrà più avanti, quanto la stesura stessa del romanzo da parte dello scrittore. 7. ingenuamente: in maniera semplice. 8. ottuagenario: ottantenne. 9. 1858: in realtà le vicende di Carlino terminano con la sua morte, avvenuta nel 1855. Il 1858, invece, è l’anno in cui Nievo terminava il romanzo. 10. e pur: eppure. 11. forse … fossi: forse più di quanto non lo fossi realmente. 12. nella combattuta … virilità: nella giovinezza agitata e nella maturità segnata dalla stanchezza. 13. soffersi: soffrii. 14. tribolazioni: sofferenze. 15. soverchie: eccessive. 16. cascaggine: sfinimento. Parte quarta | L’età del Romanticismo Ippolito Nievo 25 30 35 40 45 27. acciacchi: malanni. 28. temperanza: moderazione; in questo caso vale «saggezza». 29. stoica: impassibile. Lo stoicismo fu una dottrina filosofica che nacque ad Atene nel III secolo a.C. a opera di Zenone. Il principio fondamentale da essa perseguito è la pratica della fermezza e dell’imperturbabilità di fronte agli avvenimenti (sia positivi sia negativi) che caratterizzano l’esistenza umana. 30. assorbe: racchiude. 31. raffazzonarsi: riassestamento. 32. a sbalzi … memoria: le Confessioni, dunque, non sono frutto di una sistematica o programmatica elaborazione, ma rispondono all’urgenza dei ricordi così come essi si presentano alla mente del narratore, a sbalzi. 33. pertinace: estremamente tenace. 34. traverso: attraverso. 35. persuadermi … passate: Carlino è convinto che il presente possa giustificare maggiori e più robuste speranze rispetto a quelle nutrite in un passato contrassegnato dalla debolezza e dalla sconfitta. È chiaro qui il riferimento alla vita politica italiana e alle speranze, ormai prossime al compimento, di unificazione nazionale, così tenacemente affermate nell’autopresentazione del personaggio (morrò … Italiano). 55 Ippolito Nievo 17. indiscreto: contrario alle regole della discrezione, della buona educazione. La discrezione indicava il criterio della “misura” perseguito dalle norme di comportamento del Rinascimento (si vedano, ad esempio, due testi significativi come Il cortegiano di Baldassar Castiglione o Il Galateo di Monsignor Della Casa). 18. anco: anche. 19. a cavalcione: a cavallo. 20. massime: latinismo; vuol dire «soprattutto». 21. diedero … reale: videro la realizzazione. 22. Macchiavello: Niccolò Machiavelli (1483-1540). 23. Filicaia: Vincenzo Filicaia, vissuto tra la seconda metà del Seicento e i primi anni del Settecento, era stato autore di sonetti politici. Come gli altri autori citati, ben più noti di lui, era considerato un importante punto di riferimento nella nascita della coscienza politica in Italia. 24. soccorrono: vengono in mente. 25. divisamento: determinazione; espressione letteraria. 26. veduto … provato: si noti l’assenza di congiunzioni (asindeto) tra i participi passati che indicano le diverse sfere in cui si collocano le esperienze del narratoreu (gli avvenimenti di cui è stato testimone o di cui ha sentito parlare, gli eventi che lo hanno visto protagonista, i sentimenti che ha provato durante la sua lunga esistenza). 20 Parte quarta • L’età del Romanticismo | i testi educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di bene e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto17 di modestia potrei anco18 aggiungere che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da esser narrato, se la mia vita non correva a cavalcione19 di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime20 nella storia italiana. Infatti fu in questo mezzo che diedero primo frutto di fecondità reale21 quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello22, di Filicaia23, di Vico e di tanti altri che non soccorrono24 ora alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria. La circostanza, altri direbbe la sventura, di aver vissuto in questi anni mi ha dunque indotto nel divisamento25 di scrivere quanto ho veduto sentito fatto e provato26 dalla prima infanzia al cominciare della vecchiaia, quando gli acciacchi27 dell’età, la condiscendenza ai più giovani, la temperanza28 delle opinioni senili e, diciamolo anche, l’esperienza di molte e molte disgrazie in questi ultimi anni mi ridussero a quella dimora campestre dove aveva assistito all’ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale. Né il mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di quella che avrebbe una nota apposta da ignota mano contemporanea alle rivelazioni d’un antichissimo codice. L’attività privata d’un uomo che non fu ne tanto avara da trincierarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto stoica29 da opporsi deliberatamente ad esse, né tanto sapiente o superba da trascurarle disprezzandole, mi pare in alcun modo riflettere l’attività comune e nazionale che la assorbe30; come il cader d’una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Così l’esposizione de’ casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi31 dei presenti composero la gran sorte nazionale italiana. […] a sbalzi e come suggerivano l’estro e la memoria32 venni scrivendo queste note. Le quali incominciate con fede pertinace33 alla sera d’una grande sconfitta e condotte a termine traverso34 una lunga espiazione in questi anni di rinata operosità, contribuirono alquanto a persuadermi del maggior nerbo e delle più legittime speranze nei presenti, collo spettacolo delle debolezze e delle malvagità passate35. Parte quarta | L’età del Romanticismo Ed ora, prima di prendere a trascriverle, volli con queste poche righe di proemio definire e sanzionar36 meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno37 insegnare la malagevole38 arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de’ buoni lettori mi terrà vece di gloria39. […] 36. sanzionar: confermare, precisare. 37. indarno: inutilmente. 38. malagevole: difficile, perché non praticata abitualmente. 50 39. la simpatia … gloria: la simpatia che mi accorderanno i buoni lettori sarà la mia gloria. È una sorta di captatio benevolantiaeu che ricorda i «venticinque lettori» dei Promessi sposi. Dal testo alla produzione 1. Dividi il brano in sequenze ed esponi in breve il contenuto di ognuna. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 2. Quali sono i motivi per cui Carlino decide di scrivere le proprie memorie? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 3. A quale scopo viene sottolineata l’ignoranza di Carlino? Su quale base poggia dunque la “morale” del suo racconto? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 4. Individua nel testo tutte le espressioni in cui Carlino confronta il vecchio con il nuovo e le argomentazioni di cui si serve per sostenere che il presente sia migliore del passato. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 5. Ricerca tutte le espressioni in cui il protagonista denuncia di non avere una formazione letteraria. ............................................................................................................................................................. ............................................................................................................................................................. 6. Confronta la posizione di Nievo con quella di Manzoni relativamente al rapporto tra storia e finzione letteraria. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 7. Esamina le posizioni di Manzoni e di Nievo relativamente alle scelte linguistiche proposte nei loro due romanzi e confrontale con quelle di altri scrittori all’interno del dibattito ottocentesco sulla lingua. Traccia infine per iscritto una breve sintesi delle diverse prospettive esaminate. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 56 Autori e testi aggiuntivi Parte quarta | L’età del Romanticismo Un rivoluzionario per caso Nel brano seguente Carlino, poco lontano dal castello di Fratta, si imbatte in un gruppo di facinorosi nel pieno di una sommossa; i ribelli, vedendolo a cavallo, non esitano a sceglierlo come improvvisato capopopolo. [Confessioni di un italiano, X] Ippolito Nievo 10 15 20 25 14. padre Pendola: il gesuita padre Pendola era riuscito a spingere Carlino a denunciare gli studenti durante la rivolta avvenuta a Padova. 15. uomini d’Atene e di Sparta: in senso lato, uomini appartenenti a due grandi civiltà del passato come quella ateniese o spartana. 16. al crocchio del Senatore: nel salotto del senatore che Carlino abitualmente frequentava. 17. le legislazioni di Licurgo e di Dracone: Licurgo e Dracone, rispettivamente di Sparta e di Atene, furono autori di due legislazioni fondamentali nelle loro città. 18. si avrebbe litigato: si sarebbe messo in discussione, si sarebbe negato. 19. sberrettate: l’azione di togliersi il berretto in segno di saluto. 20. dappocaggine: scarso valore, inettitudine. 21. baccanale: rito in onore del dio Bacco; per estensione, «azioni sfrenate», «orge». 22. liberti: schiavi liberati. 23. caporione: colui che è a capo di un gruppo di facinorosi, capopopolo. 57 Ippolito Nievo 1. birbaccioni: furfanti. 2. mettevano a ruba: saccheggiavano. 3. vapori: treni a vapore. 4. da far: da poter fare. 5. laonde: per cui. 6. Portogruaro: la rivolta di Portogruaro descritta in queste pagine è invenzione di Nievo. Tuttavia nella cittadina una sommossa avvenne realmente nel 1848. In quella circostanza monsignor Fontanini dal balcone dell’episcopio benedisse la folla tumultuante. 7. un parapiglia del diavolo: un’enorme confusione. L’espressione è tratta dal linguaggio popolare. 8. a frotte: in gruppo. 9. birri: sbirri. 10. stendardo: insegna. 11. albero della libertà: palo su cui veniva collocato un berretto rosso. 12. m’abbia: abbia. 13. quel sito: quel luogo. 5 Parte quarta • L’età del Romanticismo | i testi […] Ma così non poteva stare; tanto più che i birbaccioni1 dei dintorni assicurati dal comune spavento imbaldanzivano, e mettevano a ruba2 or questo or quello dei luoghi più appartati e mal difesi. […] Misi dunque la sella al cavallo di Marchetto che poltriva nella scuderia da una settimana e via di galoppo a Portogruaro. Le notizie, signori miei, non avevano a quel tempo né vapori3 né telegrafi da far4 il giro del mondo in un batter d’occhio. A Fratta poi esse giungevano sull’asino del mugnaio, o nella bisaccia del cursore; laonde5 non fu meraviglia se appena lontano tre miglia dal castello trovassi delle gran novità. A Portogruaro6 era a dir poco un parapiglia del diavolo7; sfaccendati che gridavano; contadini a frotte8 che minacciavano; preti che persuadevano; birri9 che scantonavano, e in mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo10, un famoso albero della libertà11, il primo ch’io m’abbia12 veduto, e che non mi fece un grande effetto in quei momenti e in quel sito13. Tuttavia era giovine, era stato a Padova, era sfuggito alle arti del padre Pendola14, non adorava per nulla l’Inquisizione di Stato e quel vociare a piena gola come pareva e piaceva, mi parve di botto un bel progresso. – Mi persuadetti quasi che i soliti fannulloni fossero divenuti uomini d’Atene e di Sparta15, e cercava nella folla taluno che al crocchio del Senatore16 soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo e di Dracone17. Non ne vidi uno che l’era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova, usciti non si sapeva dove; gente a cui il giorno prima si avrebbe litigato18 il diritto di ragionare e allora imponevano legge con quattro sberrettate19 e quattro salti intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non armata certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine20 dei caduti faceva la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale21 dei liberti22 che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo di doverlo essere era già qualche cosa. Io pure dall’alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto fiato avevo in corpo; e certo fui giudicato un caporione23 del tumulto, Parte quarta | L’età del Romanticismo perché tosto mi si radunò intorno una calca scamiciata e frenetica24 che teneva bordone alle mie grida25, e mi accompagnava come in processione. Tanto può in certi momenti un cavallo26. Lo confesso che quell’aura di popolarità mi scompigliò il cervello27, e ci presi un gusto matto a vedermi seguito e festeggiato da tante persone, nessuna delle quali conosceva me, come io non conosceva loro. Lo ripeto, il mio cavallo ci ebbe un gran merito, e fors’anco28 il bell’abito turchino di cui era vestito; la gente, checché se ne dica, va pazza delle splendide livree, e a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d’aver guadagnato un terno al lotto29 col trovar un caporione così bene in arnese30, e per giunta anco a cavallo. Fra quel contadiname riottoso che guardava di sbieco l’albero della libertà31, e pareva disposto ad accoglier male i suoi coltivatori32, v’avea taluno della giurisdizione di Fratta che mi conosceva per la mia imparzialità, e pel mio amore della giustizia. Costoro credettero33 certo che io m’intromettessi ad accomodar tutto per lo meglio, e si misero a gridare: – Gli è il nostro Cancelliere! – Gli è il signor Carlino! – Viva il nostro Cancelliere! – Viva il signor Carlino! La folla dei veri turbolenti cui non parea vero di accomunarsi in un uguale entusiasmo con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo grado se non il cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: – Viva il signor Carlino! – Largo al signor Carlino! – Parli il signor Carlino! Quanto al ringraziarli di quegli ossequii e all’andar innanzi io me la cavava ottimamente; ma in punto a34 parlare, affé35 che non avrei saputo cosa dire; fortuna che il gran fracasso me ne dispensava36. Ma vi fu lo sciagurato che cominciò a zittire, a intimar silenzio; e a pregare che si fermassero ad ascoltar me, che dall’alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell’abito prometteva di esser per narrar loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non possono andar innanzi; gli ultimi domandano37 cos’è stato. – È il signor Carlino che vuol parlare! Silenzio! Fermi! Attenti! … Parli il signor Carlino! – Oramai il cavallo era assediato da una folla silenziosa, irrequieta, e sitibonda38 di mie parole. Io sentiva lo spirito di Demostene39 che mi tirava la lingua; apersi le labbra … – Ps, ps! … Zitti! Egli parla! – Pel primo esperimento non fui molto felice; rinchiusi le labbra senza aver detto nulla. – Avete sentito? …Cosa ha detto? – Ha detto che si taccia! – Silenzio dunque! …Viva il signor Carlino! Rassicurato da sì benigno compatimento apersi ancora la bocca e questa volta parlai davvero. – Cittadini40 – (era la parola prediletta di Amilcare41) – cittadini, cosa chiedete voi? 24. calca scamiciata e frenetica: l’abbigliamento scomposto di questa massa di diseredati, in maniche di camicia, rende l’idea della confusione che regna intorno a Carlino. 25. teneva bordone alle mie grida: accompagnava le mie grida. 26. Tanto … cavallo: l’esclamazione, quasi epigrammatica, fortemente ironicau, risulta particolarmente efficace. 27. mi scompigliò il cervello: mi diede alla testa. 28. fors’anco: forse anche. 29. parve d’aver guadagnato un terno al lotto: parve di aver ricevuto un ottimo vantaggio. 30. così bene in arnese: così ben vestito. 31. contadiname … della libertà: l’espressione indica il gruppo dei contadini che guarda con diffidenza il simbolo dei ribelli: il palo della libertà. 32. i suoi coltivatori: continua la metaforau dell’albero: i coltivatori sono coloro che hanno alzato il palo della libertà. 58 Autori e testi aggiuntivi 30 35 40 45 50 55 60 33. Costoro credettero: l’equivoco continua a essere alimentato: Carlino viene riconosciuto da alcuni suoi compaesani, i quali ritengono che egli in quella circostanza abbia un ruolo di tutto rilievo. E così Carlino diviene un improvvisato capopopolo… 34. in punto a: in quanto a. 35. affé: in fede. 36. me ne dispensava: mi consentiva di non parlare. 37. si fermano … domandano: nota il passaggio dei tempi verbali al presente che conferisce una maggiore vivacità al racconto di Carlino. 38. sitibonda: assetata. 39. Demostene: famoso oratore greco del IV secolo a.C. 40. Cittadini: nel rivolgersi alla folla intorno a lui, Carlino si serve di questo appellativo, che aveva assunto una forte valenza durante gli anni della Rivoluzione francese. 41. Amilcare: è l’amico che aveva avvicinato Carlino agli ideali liberali. Parte quarta | L’età del Romanticismo 42. Doge, Senato, Maggior Consiglio, Podesteria e Inquisizione: sono le istituzioni della Repubblica di Venezia. 43. non li discerneva più: non riuscivo più a distinguerli. 44. Washington: George Washington (1732-1799) guidò la Rivoluzione americana (1776) e divenne il primo presidente degli Stati Uniti d’America. 45. a cavallo fra un tafferuglio di pedoni senza cervello: nota l’antitesti tra il Washington a cavallo, solitario nella sua grandezza, e la massa informe (tafferuglio) di pedoni senza cervello. Ippolito Nievo 65 70 75 80 90 95 46. mestieranti: artigiani. 47. Pane … Polenta!: nota l’accostamento di elementi tanto diversi tra loro richiesti a gran voce dai ribelli, che non hanno certamente le idee chiare: la Libertà è addirittura gridata tra il Pane e la Polenta! 48. La corda ai mercanti!: vengano impiccati i mercanti! 49. era imbrogliato a rispondervi: non sapevo rispondervi. 50. dinotava: denotava. 51. Si metta in berlina: si esponga all’accusa. 52. Episcopio: vescovato. 59 Ippolito Nievo 85 Parte quarta • L’età del Romanticismo | i testi L’interrogazione era superba più del bisogno: io distruggeva d’un soffio Doge, Senato, Maggior Consiglio, Podesteria, e Inquisizione42; mi metteva di sbalzo al posto della Provvidenza, un gradino più in su d’ogni umana autorità. Il castello di Fratta e la Cancelleria non li discerneva più43 da quel vertice sublime; diventava una specie di dittatore, un Washington44 a cavallo fra un tafferuglio di pedoni senza cervello45. – Cosa chiediamo? – Cosa ha detto? – Ha domandato cosa si vuole! – Vogliamo la libertà! …Viva la libertà! – Pane, pane! …Polenta, polenta! – gridavano i contadini. Questa gridata del pane e della polenta finì di mettere un pieno accordo fra villani di campagna e mestieranti46 di città. Il Leone e San Marco ci perdettero le ultime speranze. – Pane! pane! Libertà!… Polenta47!… La corda ai mercanti48! Si aprano i granai!… Zitto! Zitto!… Il signor Carlino parla!… Silenzio!… Era vero che un turbine d’eloquenza mi si levava pel capo e che ad ogni costo voleva parlare anch’io giacché erano tanto ben disposti ad ascoltarmi. – Cittadini, – ripresi con voce altisonante – cittadini, il pane della libertà è il più salubre di tutti; ognuno ha diritto d’averlo perché cosa resta mai l’uomo senza pane e senza libertà?… Dico io, senza pane e senza libertà cos’è mai l’uomo? Questa domanda la ripeteva a me stesso perché davvero era imbrogliato a rispondervi49; ma la necessità mi trascinava; un silenzio più profondo, un’attenzione più generale mi comandava di far presto; nella fretta non cercai tanto pel sottile, e volli trovare una metafora che facesse colpo. – L’ultimo – continuai – resta come un cane rabbioso, come un cane senza padrone! – Viva! viva! – Benissimo! – Polenta, polenta! – Siamo rabbiosi come cani! Viva il signor Carlino!… – Il signor Carlino parla bene! – Il signor Carlino sa tutto, vede tutto! Il signor Carlino non avrebbe saputo chiarir bene come un uomo senza libertà, cioè con un padrone almeno, somigliasse ad un cane che non ha padrone e che ha per conseguenza la maggior libertà possibile; ma quello non era il momento da perdersi in sofisticherie. – Cittadini, – ripresi – voi volete la libertà; per conseguenza l’avrete. Quanto al pane e alla polenta io non posso darvene: se l’avessi vi inviterei tutti a pranzo ben volentieri. Ma c’è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei! Un mormorio lungo e diverso, che dinotava50 qualche disparità di pareri, accolse questa mia proposta. Poi successe un tumulto di voci, di gridate, di minacce e di proposte che dissentivano alquanto dalle mie. – Ai granai, ai granai! – Eleggiamo un Podestà! – Si corra al campanile! – Si chiami fuori Monsignor Vescovo! – No no! Dal Vice-capitano! – Si metta in berlina51 il Vicecapitano!… Vinse l’impeto di coloro che volevano ricorrere a Monsignore; ed io sempre col mio cavallo fui spinto e tirato fin dinanzi all’Episcopio52. […] Parte quarta | L’età del Romanticismo Leggere e interpretare L’episodio appena descritto presenta evidenti analogie con la rappresentazione dei tumulti milanesi delineata da Manzoni nei capitoli XI, XII e XIII dei Promessi sposi. La prospettiva ideologica dei due narratoriu appare però differente. In Manzoni, di posizioni moderate, si registra infatti un totale rifiuto delle sommosse popolari, in quanto in esse lo scrittore vedeva una manifestazione irrazionale e assolutamente inutile, se non addirittura dannosa, per gli stessi artefici. Nievo, invece, nonostante riconosca evidenti limiti all’azione delle masse, descritte nella loro ignoranza e nella loro irragionevolezza, parte dalla prospettiva democratica di chi ha partecipato alle lotte risorgimentali e ha una considerazione tutto sommato positiva delle rivolte del popolo, pur restando in fondo scettico sulle concrete possibilità di quest’ultimo di incidere sulla realtà politica e sociale del tempo. Nota, inoltre, la sottesa polemica nei confronti di Manzoni che accompagna la rappresentazione della Provvidenza, chiamata in causa da un impacciato Carlino in veste di deus ex machina in grado di risolvere gli urgenti problemi del sostentamento materiale (Ma c’è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei!). La critica che Nievo conduce nei confronti di quanti pretendevano di migliorare le condizioni del popolo prima di affrontare il problema della sua sopravvivenza è sviluppato, in particolare, nel Frammento sulla rivoluzione nazionale. È da rilevare, inoltre, come la storia individuale del protagonista coincida con quella collettiva e abbia per sfondo le vicende storiche del periodo considerato (carattere rinvenibile in tanti altri punti del romanzo, come nel brano Carlino a Milano). Dal punto di vista stilistico, il passo proposto si distingue innanzitutto per la presenza di numerose espressioni che tendono a rendere la vivacità del linguaggio parlato e a rappresentare realisticamente le modalità espressive del popolo (La corda ai mercanti! …Siamo rabbiosi come cani!). Particolarmente marcato appare il caratteristico umorismo dello stile di Nievo che connota in questo caso la descrizione che Carlino fa di se stesso (ad ogni costo voleva parlare anch’io giacché erano tanto ben disposti ad ascoltarmi… Questa domanda la ripeteva a me stesso perché davvero era imbrogliato a rispondervi) e dei personaggi che gli si agitano intorno (a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d’aver guadagnato un terno al lotto col trovar un caporione così bene in arnese, e per giunta anco a cavallo). A tal proposito appare opportuno sottolineare lo sdoppiamento di prospettiva tra il Carlino protagonista e il Carlino narratore che giudica (spesso con ironiau) il se stesso di tanti anni prima. 60 Autori e testi aggiuntivi Parte quarta | L’età del Romanticismo Edgar Allan Poe La carriera letteraria di Edgar Allan Poe (Boston 1809 - Baltimora 1849) comincia tra il 1827 e il 1829 quando pubblica rispettivamente Tamerlano e altre poesie e Al Aaraaf, Tamerlano e altre poesie brevi. Già in questi primi esperimenti l’autore chiarifica il suo pensiero sulla composizione lirica, ampiamente espresso nel saggio Il principio poetico, uscito postumo nel 1850: secondo il parere di Poe, fortemente influenzato dall’estetica romantica inglese, la sua poesia, trattando temi quali la decadenza, l’inesorabile trascorrere del tempo e la morte, deve essere caratterizzata da abbondante simbolismo, ritmo possente e fulminante brevità. Infatti, lo scopo precipuo è quello di trasmettere un’emozione istantanea, più che elaborare un messaggio, avendo come proprio oggetto il piacere della lettura e non già la ricerca della verità assoluta. Tali sono i principi anche alla base delle opere in prosa di Poe, date alle stampe dal 1833 in poi. Il romanzo Il manoscritto trovato in una bottiglia (1833) viene seguito dal più famoso Le avventure di Gordon Pym, pubblicato a New York nel 1838. Pur trattandosi di opere di un certo rilievo, l’autore evidenzia tutta la sua perizia narrativa nei suoi volumi di Racconti del grottesco e dell’arabesco (1840) e Racconti (1845), dove riesce a dare piena espressione al suo estro immaginativo e alla sua scrittura dinamica. Ritornato alla poesia con il poemetto Il corvo (1845), ottiene un folgorante successo in tutto il paese. Nel 1846 esce l’importantissimo saggio La filosofia della composizione contenente le sue teorie estetiche sul romanzo e sul racconto. Poe fornisce uno dei primi esempi di scrittore per il quale vita e carriera artistica vengono a coincidere perfettamente: spesso egli si confonde con il disturbato e insofferente “io narrante” delle sue storie, nel tentativo di esprimere il suo incessante sforzo di stabilire una relazione con un’umanità incapace di comprenderlo pienamente. In realtà, la chiave di lettura di tutta la sua complessa arte risiede proprio nella travagliata esistenza che l’autore ha condotto: abbandonato sin dall’infanzia, Poe sviluppa un atteggiamento ribelle e anticonformista al solo fine di occultare il suo desiderio di affetti veri e duraturi. La sua insistente frequentazione dei salotti americani più alla moda, dove si reca abbigliato come il sinistro “corvo” protagonista del suo poema maggiormente noto, o la sua strenua difesa a favore dell’uso di alcool e droghe di ogni tipo, non hanno altro scopo che Edgar Allan Poe quello di colpire l’opinione pubblica, al solo fine di procacciarsi in tal modo stima e riconoscimenti, ma si tratta di un’errata valutazione, perché essi tardano ad arrivare a causa del moralismo imperante in patria. La situazione peggiora ulteriormente quando Poe si unisce alla tredicenne Virginia, dalla quale lo separano ben quattordici anni di differenza d’età: eppure, il sentimento che l’autore avverte per questa esile creatura, capace di incarnare con la sua fragilità e il suo candore l’ideale di bellezza eterea celebrato nelle sue poesie, non presenta alcuna caratteristica di morbosità. In effetti, il loro affiatamento è perfetto e il periodo del loro matrimonio diventa il più fecondo nell’attività creativa dello scrittore. Tuttavia, la solitudine, compagna inossidabile di tutta un’esistenza condotta sempre sui binari della trasgressione, è ancora in agguato. La morte improvvisa della ragazza chiude questa fase felice, gettando l’autore nella più profonda disperazione. La sua vita si conclude perciò, con un atto finale di abbandono, così come era cominciata: viene trovato morente in un angolo di strada in preda a quel “delirium tremens” di cui spesso avevano sofferto anche i suoi indimenticabili personaggi. Il pubblico americano, in realtà, non ha mai perdonato a Poe la sua ostinazione a non voler contribuire alla creazione di una tradizione letteraria autoctona che in quegli anni si andava formando. All’acceso nazionalismo di scrittori come Fenimore Cooper e Irving, entrambi uomini d’affari convertiti alla scrittura esclusivamente per dare voce al nuovo orgoglio della razza americana finalmente liberata da modelli culturali di derivazione europea, Poe oppone un insistente ricorso a una tradizione lirica e narrativa mutuata direttamente dalla vecchia Inghilterra. Certamente, la sua predilezione per una scrittura rapida ed essenziale o per figure e temi non letterari e la sua smania di innovare e provocare lo rendono un perfetto figlio dello spirito pionieristico che anima la giovanissima letteratura americana agli inizi dell’Ottocento, ma rimane incomprensibile a lettori culturalmente poco preparati come apparivano appunto gli americani a lui contemporanei, l’originale universo simbolico al quale l’autore fa sovente ricorso. Quest’ultimo diventa polo d’attrazione per due poeti francesi decadenti come Charles Baudelaire (1821-1867) e Stéphane Mallarmé (1842-1898), traduttori delle opere di Poe e convinti assertori dell’importanza dell’autore quale maestro del movimento simbolista. 61 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Edgar Allan Poe Il profilo letterario e le opere Parte quarta | L’età del Romanticismo Racconti I Racconti (1845) rappresentano il punto più alto della produzione in prosa di Edgar Allan Poe. Infatti, se nel romanzo Le avventure di Gordon Pym egli cerca di adeguarsi alla tradizione imperante in patria, è soltanto nei Racconti che l’autore riesce ad applicare le sue teorie narrative espresse nel già citato La filosofia della composizione. In effetti, la storia breve, essendo circoscritta in un lasso di tempo piuttosto limitato, ha il solo scopo di mostrare personaggi ritratti non già nel loro processo di maturazione, bensì in momenti ben precisi che evidenziano crisi e successive rivelazioni, sia interiori che esteriori. Allo scrittore non interessa descrivere dettagliatamente lo spazio, che spesso risulta di difficile identificazione, ma piuttosto creare un’atmosfera di suspense capace di coinvolgere emotivamente il lettore. Il tipico schema di un racconto di Poe consta, in effetti, di un’introduzione (che presenta i personaggi fornendo qualche cenno sullo scenario), di un elemento chiave (un avvenimento, un oggetto o persino un animale, con lo scopo precipuo di catalizzare la curiosità del fruitore, rendendo in tal modo più interessante il prosieguo della storia), di un acme (la situazione risolutiva che spesso giunge inattesa) e di una conclusione (che può essere varia: può infatti ristabilire l’ordine iniziale, rappresentare un radicale cambiamento rispetto a esso oppure lasciare i conflitti irrisolti). Tali sono appunto le caratteristiche che ritroviamo in tutte le storie contenute nella raccolta. Bisogna però distinguere i racconti “raziocinanti o investigativi”, in cui si muove come protagonista l’eccentrico, arrogante investigatore Auguste 62 Autori e testi aggiuntivi Dupin, capace di risolvere i suoi casi sia ricorrendo al ragionamento logico, che all’analisi psicologica dei sospettati, da quelli di pura “immaginazione”. In questi ultimi sono presenti molteplici effetti che tendono a spaventare il lettore, propri dei romanzi inglesi di Mary Shelley, Horace Walpole e Ann Radcliffe o delle trame di terrore di matrice tedesca. Ma tale tradizione gotica è quasi ignorata da Poe: in effetti, la paura non sorge mai da situazioni esterne al personaggio, bensì dalla sua mente e dalle sue allucinazioni; inoltre le sue storie sono normalmente ambientate in un presente non databile con certezza e in sfondi metropolitani sicuramente molto lontani da quelli isolati e tempestosi di un vecchio castello o di un’abitazione in cui abbondano fantasmi e segreti cunicoli. I temi maggiormente ricorrenti nei Racconti sono: la crudeltà, spesso presentata in forma di perversione (Il gatto nero); la bellezza, osservata nella sua intima connessione con il desiderio di morte (Il ritratto ovale); il “doppio”, al fine di raffigurare le differenti identità coesistenti nel medesimo individuo (Il crollo della casa Usher) e, soprattutto, la follia, considerata da Poe come unico stato di completa coscienza. Molti dei suoi personaggi, infatti, solo attraverso la perdita di ogni contatto con la realtà e il rifugio in un personale universo, riescono a sviluppare un’acuta sensibilità e una piena consapevolezza delle infinite possibilità umane. I personaggi stessi sono perciò costruiti in maniera tale da essere funzionali esclusivamente alla trama che si sta raccontando. Di solito, riferendosi a essi, i critici hanno parlato Parte quarta | L’età del Romanticismo di «figure…tanto poco realistiche che non sembrano avere neppure una consistenza fisica». In effetti, tali caratteri sembrano mossi da un movimento fittizio (una sorta di “trance” da terrore) provocato solo dalla grande varietà di stati d’animo ed emozioni che essi sono in grado di avvertire e restituire al lettore in lunghi monologhi interiori narrati in prima persona. Il gatto nero Amante degli animali, il protagonista della vicenda possedeva uno splendido gatto nero, a cui era molto affezionato. Ma con il passare degli anni, sotto gli effetti dell’alcool, cominciò a provare verso di lui ribrezzo e insofferenza. Iniziò così una storia da brividi… [Racconti] 1. succinto: breve, sintetico. 2. baroques: grotteschi (parola francese). 3. ridurrà … luogo comune: considererà normale, comune ciò che invece a me fa orrore. Edgar Allan Poe 5 10 15 20 25 4. gretta: interessata. 63 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Edgar Allan Poe Per il racconto più fantastico e nello stesso tempo più semplice che mi accingo a scrivere, non m’aspetto né pretendo d’essere creduto. Pazzo sarei davvero se mi aspettassi ciò, in un caso in cui i miei stessi sensi respingono la loro propria testimonianza. Eppure pazzo non sono, e certissimamente non sto sognando. Ma domani morrò, e oggi vorrei alleggerire la mia anima. Il mio scopo immediato è quello di porre innanzi al mondo, in modo piano, succinto1 e senza commenti, una serie di semplici eventi domestici. Nelle loro conseguenze, questi eventi mi hanno atterrito, mi hanno torturato, mi hanno distrutto. Eppure non tenterò di spiegarli. Per me essi hanno rappresentato poco meno che orrore, a molti essi sembreranno meno terribili che non baroques2. Più in là, forse, si potrà trovare qualche intelletto che ridurrà il mio fantasma allo stato di luogo comune3, qualche intelletto più calmo più logico e di gran lunga meno eccitabile del mio, che ravviserà nelle circostanze ch’io narro con spavento nulla di più di un’ordinaria successione di naturalissime cause ed effetti. Fin dalla mia infanzia ero stato notato per la docilità e l’umanità del mio carattere. La mia tenerezza di cuore era tanto manifesta da rendermi oggetto di beffe da parte dei miei compagni. Volevo specialmente bene agli animali, e i miei genitori mi avevano regalato una grande varietà di animali favoriti. Con questi io trascorrevo la maggior parte del mio tempo, e non ero mai più felice di quando potevo dar loro da mangiare e accarezzarli. Questa disposizione particolare del mio carattere crebbe insieme con la mia crescita e, divenuto uomo, ne derivai una delle mie principali fonti di piacere. Non occorre ch’io spieghi a coloro che abbiano provato un affetto per un cane fedele e intelligente, la natura o l’intensità del diletto che se ne può trarre. Vi è qualcosa nell’amore disinteressato e devoto fino al sacrificio di una bestia che va direttamente al cuore di colui che ha avuto occasione di verificare la gretta4 amicizia e la tenue fedeltà del mero Uomo. Mi sposai presto, e fui felice di trovare in mia moglie una disposizione non incompatibile con la mia. Notando la mia preferenza per gli animali domestici, ella non perse alcuna occasione di procurarmi quelli di specie più gradevole. Avevamo uccelli, pesci rossi, un bel cane, conigli, una scimmietta e un gatto. Parte quarta | L’età del Romanticismo Quest’ultimo era un animale di notevole grandezza e bellezza, completamente nero e d’un intelligenza stupefacente. Parlando della sua intelligenza, mia moglie, che in cuor suo era alquanto superstiziosa, faceva frequenti allusioni all’antica credenza popolare che considerava tutti i gatti neri come streghe travestite. Non che fosse sempre seria su questo argomento; se ne faccio menzione è soltanto perché mi capita di ricordarlo proprio ora. Pluto – così si chiamava il gatto – era il mio beniamino e compagno di giuochi. Io soltanto gli davo da mangiare, ed egli mi seguiva dovunque andassi per casa. Mi era addirittura difficile impedirgli che mi venisse dietro per la strada. La nostra amicizia durò, in questo modo, per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento e il mio carattere – per opera del demone dell’intemperanza5 – avevano (arrossisco nel confessarlo) subìto in genere una trasformazione radicale verso il peggio. Ero divenuto, di giorno in giorno, più scontroso, più irritabile, più irriguardoso6 dei sentimenti altrui. Mi permisi di usare un linguaggio sconveniente con mia moglie. Alla fine arrivai persino alle percosse. Naturalmente, i miei animali dovettero risentire del mutamento del mio carattere. Non solo li trascuravo, ma li maltrattavo. Quanto a Pluto, tuttavia, conservavo ancora un certo riguardo, sufficiente a trattenermi dal picchiarlo, mentre non mi facevo scrupolo di percuotere i conigli, la scimmia, persino il cane, quando essi per caso o per affetto mi venivano tra i piedi. Ma il mio male s’aggravava – quale male infatti è paragonabile all’alcool? – e alla fine anche Pluto, che ormai invecchiava ed era perciò alquanto stizzoso7, anche Pluto cominciò a provare gli effetti del mio pessimo carattere. Una notte, tornando a casa ubriaco fradicio da uno dei ritrovi che frequentavo in città, mi misi in mente che il gatto cercasse di evitare la mia presenza. Lo afferrai; spaventato dalla mia violenza, mi produsse sulla mano una lieve ferita con i denti. La furia di un demonio istantaneamente s’impossessò di me. Non mi riconoscevo più. La mia anima originaria sembrò, a un tratto, fuggire dal mio corpo, e un malanimo più che diabolico, alimentato dal gin8, penetrò ogni fibra del mio essere. Trassi un temperino dalla tasca del mio panciotto, l’aprii, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente gli feci saltare un occhio dall’orbita! Arrossisco, divampo, rabbrividisco mentre scrivo questa dannabile atrocità. Quando la ragione tornò col mattino, quando sbollirono i fumi dell’orgia notturna, provai un sentimento ch’era metà di orrore metà di rimorso per il delitto di cui mi ero reso colpevole; ma fu nella migliore delle ipotesi un sentimento incerto ed equivoco, e l’anima ne rimase estranea. Mi rituffai negli eccessi, e presto affogai nel vino ogni ricordo del fatto. Nel frattempo il gatto era lentamente guarito. L’orbita dell’occhio perduto presentava, è vero, un aspetto pauroso, ma sembrava che la bestia non soffrisse più alcun dolore. Essa vagava per la casa come al solito, ma com’era da aspettarsi fuggiva in preda a un folle terrore non appena mi avvicinavo. Mi era rimasto abbastanza del mio vecchio cuore perché io dapprima soffrissi di questa evidente antipatia da parte di una creatura che mi aveva un tempo tanto amato. Ma questo sentimento lasciò ben presto il posto all’irritazione. E poi sopravvenne, quasi come finale ed irrevocabile caduta, lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito, la filosofia non tiene alcun conto. Ep5. demone dell’intemperanza: l’incostanza, l’inquietudine viene descritta come una forza diabolica in grado di distruggere un uomo. 6. irriguardoso: non rispettoso. 64 Autori e testi aggiuntivi 30 35 40 45 50 55 60 65 70 7. stizzoso: scontroso, irrequieto. 8. gin: alcolico ad alta gradazione, molto diffuso nei paesi anglosassoni. Parte quarta | L’età del Romanticismo 9. a repentaglio: in pericolo, a rischio. 10. cortine: tende del letto a baldacchino. 75 80 85 90 95 100 105 110 115 11. la mia sostanza: i miei averi, ciò che possedevo. Edgar Allan Poe 65 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Edgar Allan Poe pure io non sono più sicuro che la mia anima viva di quanto sia convinto che la perversità sia uno degli impulsi primordiali del cuore umano, una di quelle indivisibili facoltà primarie, o sentimenti, che dànno una direzione al carattere dell’uomo. Chi non ha sorpreso se stesso, cento volte, nell’atto di commettere un’azione vile o sciocca, per l’unica ragione che egli sa che non dovrebbe commetterla? Non abbiamo forse una perpetua inclinazione, a dispetto del nostro miglior giudizio, a violare ciò che è Legge semplicemente perché tale la riconosciamo? Questo spirito di perversità, ripeto, sopravvenne a rendere più completa la mia rovina. Era questa insondabile brama dell’anima di torturare se stessa, di far violenza alla propria natura, di fare il male soltanto per amor del male, che mi sollecitava a continuare e finalmente a consumare l’offesa che avevo inflitto alla bestia inoffensiva. Un mattino, a sangue freddo, le feci scivolare un cappio attorno al collo e la impiccai sul ramo di un albero; la impiccai, con le lacrime che mi sgorgavano dagli occhi e col più amaro rimorso nel cuore; la impiccai perché sapevo che mi aveva amato, e perché sentivo che essa non mi aveva dato motivo alcuno di offesa; la impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe messo a repentaglio9 la mia anima immortale fino al punto da porla, se una cosa simile fosse possibile, persino al di là dalla sfera dell’infinita misericordia del Più Misericordioso e Più Terribile Dio. La notte del giorno in cui avevo compiuto questo crudele misfatto venni svegliato nel sonno dal grido di «Al fuoco!». Le cortine10 del mio letto erano in fiamme. L’intera casa ardeva. Con grande difficoltà mia moglie, una domestica e io stesso ci salvammo dall’incendio. La distruzione fu completa. Tutta la mia sostanza11 fu inghiottita, e da quel momento mi abbandonai alla disperazione. Io sono superiore alla debolezza di cercare di stabilire una relazione di causa ed effetto tra il disastro e l’atrocità. Ma io sto esponendo una catena di fatti, e non desidero che vi sia la possibilità anche di un solo anello imperfetto. Il giorno successivo all’incendio, visitai le macerie. Tutti i muri erano crollati ad eccezione di uno. Quest’eccezione era data da un muro divisorio, non molto spesso, che si trovava circa nel mezzo della casa e contro il quale aveva poggiato la testata del mio letto. Qui l’intonaco aveva resistito, in gran parte, all’azione del fuoco, cosa ch’io attribuii al fatto ch’esso era stato applicato di fresco. Intorno a questo muro una fitta folla era raccolta e molte persone parevano intente ad esaminare una particolare parte di esso con minuziosa e profonda attenzione. Le parole «Strano!» – «Singolare!» e altre simili espressioni eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita in bassorilievo sulla bianca superficie, la figura di un gigantesco gatto. L’impressione era resa con esattezza veramente meravigliosa. C’era una corda intorno al collo dell’animale. Quando vidi dapprima quest’apparizione – infatti non potevo considerarla in altro modo – la mia meraviglia e il mio terrore furono enormi. Ma infine la riflessione venne in mio soccorso. Il gatto, ricordai, era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa. Quando era stato dato l’allarme d’incendio, questo giardino si era immediatamente gremito di folla, e qualcuno doveva aver tolto l’animale dall’albero, scagliandolo nella mia stanza attraverso una finestra aperta. Questo era stato fatto probabilmente allo scopo di destarmi dal sonno. La caduta delle altre pareti doveva aver compresso la vittima della mia crudeltà nello strato di intonaco spalmato di fresco, la calce del quale, con le fiamme e l’ammoniaca della carcassa, avevano poi compiuto il ritratto quale lo vedevo. Parte quarta | L’età del Romanticismo Sebbene io procurassi così prontamente una giustificazione alla mia ragione, se non proprio alla mia coscienza, per il fatto sorprendente ora esposto, questo non mancò di imprimersi profondamente nella mia fantasia. Per mesi e mesi non riuscii a sbarazzarmi del fantasma del gatto; e durante questo periodo, il mio spirito fu ripreso da una specie di sentimento che sembrava rimorso, ma non lo era. Arrivai al punto di rimpiangere la perdita dell’animale, e di guardarmi attorno, nei posti abbietti12 ch’io ora frequentavo abitualmente, in cerca di un altro animale della stessa specie e di un aspetto in qualche modo simile, che potesse prendere il suo posto. Una notte, mentre sedevo mezzo istupidito in una taverna più che malfamata, la mia attenzione fu attratta all’improvviso da una cosa nera, che posava sul coperchio di una delle tante enormi botti di gin o di rum che costituivano l’ammobiliamento principale del locale. Avevo lo sguardo fisso sul coperchio di questa botte già da qualche minuto, e quel che ora mi causava stupore era il fatto di non aver notato prima l’oggetto che vi stava sopra. Mi avvicinai, e lo toccai con la mano. Era un gatto nero, grandissimo, esattamente della grandezza di Pluto, al quale assomigliava assolutamente per ogni riguardo13, tranne uno. Pluto non aveva nemmeno un pelo bianco in qualsiasi parte del corpo; ma questo gatto aveva una larga ma indefinita chiazza bianca che gli ricopriva quasi tutta la regione del petto. Appena l’ebbi toccato, egli si alzò immediatamente, fece le fusa, si strofinò contro la mia mano, e sembrava felice del mio interessamento. Questa, dunque, era proprio la creatura che cercavo. Offersi subito al padrone di comprarlo; ma quest’ultimo non lo rivendicò14, non ne sapeva nulla, non l’aveva mai veduto prima. Continuai ad accarezzarlo, e quando mi accinsi a ritornare a casa, l’animale dimostrò un’evidente disposizione ad accompagnarmi. Lasciai che mi seguisse, e di quando in quando mi chinavo a lisciarlo mentre procedeva. Quando fu in casa si trovò subito a suo agio e divenne immediatamente il gran beniamino di mia moglie. Da parte mia notai ben presto che in me andava sorgendo un’antipatia per l’animale. Questo era proprio l’opposto di quanto avessi previsto; ma, non so come o per qual ragione, la sua evidente tenerezza per me quasi mi disgustava e mi infastidiva. Un po’ alla volta, questi sentimenti di disgusto e di fastidio raggiunsero l’amarezza dell’odio. Evitavo la creatura; un certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impedivano di maltrattarlo fisicamente. Per alcune settimane non lo battei né gli feci del male altrimenti; ma gradualmente, molto gradualmente, giunsi a considerarlo con inesprimibile ribrezzo15 e a fuggire in silenzio la sua odiosa presenza, come un’esalazione pestilenziale16. Quel che aumentò il mio odio verso la bestia fu, senza alcun dubbio, la scoperta da me fatta la mattina dopo ch’io l’ebbi portato a casa che, come Pluto, anch’esso era stato privato d’un occhio. Questa circostanza però, lo rese soltanto più caro a mia moglie, la quale, come ho già riferito, possedeva in sommo grado quell’umanità di sentimenti che era stata un tempo il mio tratto caratteristico e la fonte di molte delle mie gioie più semplici e più pure. Tuttavia, con il crescere della mia avversione per questo gatto, la sua preferenza per me sembrava aumentare. Seguiva i miei passi con un’ostinazione che sarebbe difficile far comprendere al lettore. Quando mi sedevo, soleva accovacciarsi sotto la mia seggiola, 12. abbietti: malfamati, squallidi. 13. per ogni riguardo: in ogni aspetto. 14. non lo rivendicò: non ne rivendicò la proprietà: il gatto non era suo. 66 Autori e testi aggiuntivi 120 125 130 135 140 145 150 155 160 15. ribrezzo: disgusto. 16. come un’esalazione pestilenziale: come se fosse l’insopportabile puzzo emanato da un malato di peste. Parte quarta | L’età del Romanticismo 17. da una delle più perfette chimere: da una delle più straordinarie fantasticherie. 18. Ed ora io ero … dolore!: una personalità bruta e bestiale si è impadronita del protagonista, annientando quella parte mite e Edgar Allan Poe 165 170 175 180 185 190 195 200 205 buona (il fratello) che era in lui, condannandolo alla sofferenza della perdizione! 67 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Edgar Allan Poe o saltarmi sulle ginocchia, e coprirmi con le sue odiose moine. Se mi alzavo per passeggiare, mi veniva tra i piedi e mi faceva quasi cadere, oppure ficcando i suoi lunghi e aguzzi artigli nella mia veste si arrampicava a questo modo fino al mio petto. In quei momenti, benché bruciassi dal desiderio di distruggerlo con un colpo, ero tuttavia trattenuto dal fare ciò in parte dal ricordo del mio precedente delitto, ma soprattutto – lasciate che lo confessi subito, – da un profondo terrore che l’animale m’ispirava. Questo terrore non era esattamente il terrore di un male fisico, e tuttavia non saprei come altrimenti definirlo. Ho quasi vergogna di confessare – sì, persino in questa cella di criminale ho quasi vergogna di confessare – che il terrore e l’orrore che mi ispirava l’animale era stato reso più intenso da una delle più perfette chimere17 che sia possibile immaginare. Mia moglie aveva più di una volta richiamato la mia attenzione al carattere della macchia di pelo bianco di cui ho parlato, e che costituiva la sola visibile differenza tra questa bestia ignota e quella che avevo ucciso. Il lettore ricorderà che questo segno, benché grande, era stato originariamente molto indefinito; ma, per lenti gradi – gradi quasi impercettibili, e che per lungo tempo la mia ragione si sforzò di respingere come una cosa fantastica, – aveva finito col prendere un’estrema precisione di contorno. Era diventato ora la rappresentazione di un oggetto ch’io rabbrividisco al solo nominarlo, – e per questo, soprattutto, odiavo, e temevo il mostro, e avrei voluto sbarazzarmene se avessi osato – era ora, – ripeto, l’immagine di una cosa orrenda, spettrale, l’immagine della FORCA! oh, lugubre e terribile macchina di orrore e di delitto, di agonia e di morte! Ed ora io ero in verità un essere miserrimo di là dalla miseria possibile dell’umanità; e una bestia bruta di cui avevo sprezzantemente distrutto il fratello, una bestia bruta che doveva generare per me, – per me, uomo, fatto a somiglianza dell’Altissimo Iddio – tanto insopportabile dolore18! Ahimè! né di giorno né di notte conobbi più la benedizione del riposo! Durante il giorno la creatura non mi lasciava solo per un istante; e, durante la notte, mi svegliava di soprassalto, ad ogni ora, da sogni d’indicibile angoscia, per sentirmi il caldo fiato della cosa sulla faccia, e il suo immenso peso, – un incubo notturno incarnato che non avevo la forza di scrollarmi di dosso – gravarmi eternamente sul cuore! Sotto il peso di tormenti di questo genere, quel poco di buono che ancora restava in me soccombette. Pensieri malvagi divennero i miei soli compagni, i pensieri più foschi e più malvagi. La scontrosità della mia solita indole crebbe fino all’odio per tutte le cose e per tutta l’umanità; mentre la mia rassegnata moglie, ahimè! era la vittima più abituale e più paziente degli scoppi improvvisi frequenti e intrattenibili di una furia alla quale io ora mi abbandonavo ciecamente. Un giorno ella mi accampagnò, per qualche faccenda domestica, nella cantina del vecchio edificio che la nostra povertà ci costringeva ora ad abitare. Il gatto mi seguì giù per quei ripidi scalini e, facendomi quasi cadere a capofitto, mi esasperò fino alla follia. Sollevando un’ascia e scordandomi, nella mia collera, del terrore puerile che fino a quel momento aveva trattenuto la mia mano, diressi sull’animale un colpo che certamente sarebbe stato instantaneamente fatale se si fosse abbattuto come volevo. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. Spinto da questo intervento Parte quarta | L’età del Romanticismo in una rabbia più che demoniaca, liberai il mio braccio dalla sua stretta e affondai l’ascia nel cervello di lei. Ella cadde morta sul posto senza emettere un gemito. Compiuto questo orrendo delitto, immediatamente e con fredda deliberazione19 mi misi all’opera per nascondere il corpo. Sapevo che non avrei potuto rimuoverla dalla casa, né di giorno né di notte, senza il rischio di essere notato dai vicini. Molti progetti mi vennero in mente. In un certo momento pensavo di tagliare il cadavere in minuti frammenti e di distruggerli col fuoco. In un altro stabilivo di scavare una fossa nel pavimento della cantina. E ancora, ebbi l’idea di gettarlo nel pozzo del cortile, oppure di metterlo in una cassa e di farne un collo come se fosse una merce e di incaricare un facchino di trasportarlo fuori di casa. Finalmente trovai quel ch’io considerai essere il migliore espediente di tutti. Mi determinai di murare il corpo nella cantina, come si dice che solessero murare le proprie vittime i monaci del Medio Evo. La cantina era molta adatta a uno scopo di questo genere. Le sue pareti erano costruite alla buona ed erano state tutte intonacate recentemente con una malta20 grossolana cui l’umidità dell’aria aveva impedito di indurirsi. Inoltre, in una delle pareti v’era una sporgenza, forse dovuta a un falso caminetto, o a un focolare, che era stata riempita e poi murata in modo da assomigliare al resto della cantina. Non avevo il minimo dubbio di poter prontamente rimuovere i mattoni in quel punto, inserirvi il cadavere e murare il tutto come prima, in modo che nessun occhio sarebbe riuscito a scoprire alcunché di sospetto. E non fui deluso nel mio calcolo. Per mezzo di una piccola leva rimossi facilmente i mattoni, e dopo aver deposto con cura il corpo contro la parete interna, lo puntellai in quella posizione, mentre con poca fatica rimisi a posto come prima l’intera struttura muraria. Essendomi procurato malta, sabbia e crine21 con ogni possibile precauzione preparai un intonaco che non si sarebbe potuto distinguere dal vecchio, e con questo spalmai accuratissimamente la nuova opera muraria. Quando ebbi finito, vidi con soddisfazione che tutto andava bene. Il muro non presentava la minima traccia della manomissione. Raccolsi con cura estrema i calcinacci sul pavimento. Mi guardai in giro trionfalmente e dissi a me stesso: «Qui dunque almeno la mia fatica non è stata inutile». Il mio passo successivo fu quello di cercare la bestia che era stata la causa di tanta sciagura; avevo infatti fermamente risolto di ucciderla. Se mi fosse capitata a tiro in quel momento il suo destino sarebbe stato indubbiamente segnato; ma sembrava che il furbo animale si fosse inquietato per la violenza della mia collera di dianzi22, ed evitasse di farsi vedere nello stato presente del mio umore. È impossibile descrivere o immaginare il profondo, beato senso di sollievo che l’assenza della creatura detestata mi produsse in cuore. Essa non fece la sua apparizione durante la notte, e così, almeno per una notte, da quando era entrata in casa, io dormii profondamente e tranquillamente; sì, dormii, persino col peso del delitto sull’anima. Passarono il secondo e il terzo giorno, e ancora il mio tormentatore non compariva. Tornai a respirare come un uomo libero. Il mostro, nel suo terrore, aveva fuggito i luoghi per sempre! Non lo avrei più veduto! La mia felicità era suprema! La colpa del mio tenebroso misfatto non mi infastidiva molto. Mi vennero poste delle domande alle quali risposi con disinvoltura. Era stata persino ordinata un’inchiesta, ma naturalmente non si poté scoprire nulla. Consideravo ormai assicurata la mia futura felicità. 19. deliberazione: determinazione. 20. malta: tipo di intonaco, formato da sabbia e cemento. 68 Autori e testi aggiuntivi 210 215 220 225 230 235 240 245 250 21. crine: pennello (fatto di crine di cavallo) per stendere l’intonaco. 22. di dianzi: di prima. Parte quarta | L’età del Romanticismo 255 260 265 270 275 280 285 [Trad. di E. Ferrari] 23. cantuccio: posticino. 24. esultanza: gioia. 25. proferendo: affermando, dicendo. 26. millanteria: spavalderia, ostentazione di bravura. Edgar Allan Poe 69 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Edgar Allan Poe Il quarto giorno dopo l’assassinio, una squadra della polizia venne del tutto inaspettatamente in casa, e procedette di nuovo ad una rigorosa investigazione dei locali. Sicuro tuttavia dell’impenetrabilità del nascondiglio, non mi sentivo per nulla imbarazzato. I funzionari di polizia mi ordinarono di accompagnarli nelle loro ricerche. Non lasciarono nessun angolo o nessun cantuccio23 inesplorato. Infine ridiscesero in cantina per la terza o la quarta volta. Non un muscolo tremava in me. Il mio cuore batteva calmo come il cuore di chi è immerso nel sonno dell’innocenza. Camminavo nella cantina da un capo all’altro. Incrociai le braccia sul petto e mi aggirai qua e là disinvolto. I poliziotti furono pienamente soddisfatti e si prepararono ad andarsene. L’esultanza24 del mio cuore era troppo forte perché potessi trattenerla. Bruciavo dal desiderio di dire una sola parola, in segno di trionfo e di rendere doppiamente certa la loro sicurezza della mia innocenza. – Signori, – dissi infine, mentre la squadra già saliva i gradini, – sono felice di aver alleviato i vostri sospetti. Auguro a tutti voi buona salute e un po’ più di cortesia. Tra parentesi, signori, questa... questa è una casa assai ben costruita. – (Nell’insensato desiderio di dir qualcosa con disinvoltura, mi rendevo appena conto di ciò che stavo proferendo25). – Posso ben dire, una casa eccellentemente ben costruita. Questi muri – ve ne andate già, signori? – questi muri sono solidamente innalzati – e a questo punto, in un atto di frenetica millanteria26, colpii fortemente, con un bastone che tenevo in mano, proprio su quella parte dell’opera muraria dietro la quale stava il cadavere della sposa del mio cuore. Ma possa Iddio proteggermi e liberarmi dalle zanne dell’Arcidemonio! Non appena gli echi dei miei colpi si spensero nel silenzio, una voce mi rispose dall’interno della tomba! un lamento, dapprima smorzato e rotto, come il singhiozzare di un bambino, che poi andò gonfiandosi rapidamente in un lungo, forte, continuo urlo, assolutamente anormale ed inumano… un ululato!... un urlo straziante per metà di orrore e per metà di trionfo, quale solo avrebbe potuto levarsi dall’inferno congiuntamente dalle gole dei dannati nella loro agonia e dei demòni esultanti nella dannazione. Sarebbe follia parlare dei miei propri pensieri. Sentendomi venir meno, barcollai verso la parete opposta. Per un attimo i poliziotti rimasero immobili sulla scala, sconvolti dal terrore e dalla paura. Un istante dopo una dozzina di braccia robuste aggredirono la parete. Questa cadde tutt’insieme. Il cadavere, già molto decomposto e chiazzato di sangue rappreso, stava eretto dinanzi agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, con la rossa bocca spalancata e l’unico occhio di fiamma, sedeva l’orrenda bestia la cui malizia mi aveva indotto al delitto, e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia. Avevo murato il mostro entro la tomba! Parte quarta | L’età del Romanticismo Dal testo alla produzione 1. Distingui le sequenze del testo in cui il protagonista racconta eventi concreti e quelle in cui si sofferma sulle sue riflessioni e sensazioni. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 2. Da che cosa è provocata l’inquietudine che turba il protagonista? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 3. Individua tutti gli elementi che generano suspense. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 4. Il brano è disseminato di iterazioni (in particolare di anafore): prova a individuarne qualcuna e a spiegare l’effetto espressivo che producono. .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 5. In quali momenti del brano, secondo te, spiccano maggiormente le ossessioni maniacali del protagonista? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... 6. Perché, a tuo avviso, il protagonista, che sembrerebbe averla fatta franca, si comporta in modo tale da “incastrarsi” con le sue stesse mani? .......................................................................................................................................................... .......................................................................................................................................................... Stendhal Il profilo letterario e le opere Stendhal (pseudonimo di Marie Henri Beyle, scelto in onore della città prussiana, Stendal, che dette i natali a Johann Winckelmann) nasce a Grenoble nel 1783. Perde presto l’adorata madre e trascorre l’infanzia, ricordata come solitaria e infelice, con il temuto padre e l’odiata zia Stephanie. Tiranneggiato anche dalla figura opprimente del suo precettore, l’abate Raillane (uno dei principali motivi per cui detesterà la religione e la monarchia), trova conforto solo negli affascinanti racconti del premuroso nonno Gagnon, grazie al quale impara ad amare la filosofia e la letteratura, ereditan70 Autori e testi aggiuntivi done quello spirito libero che lo animerà sempre. Attratto da una vita avventurosa, nonostante gli studi matematici e di disegno intrapresi, rinuncia a frequentare il Politecnico di Parigi e si arruola nell’esercito nel 1800. Giunto a Milano, scopre l’Italia e i suoi piaceri (la musica, il teatro, l’amore) e comincia a redigere un «Giornale», pubblicato postumo. Ritornato a Parigi, inizia a frequentare i salotti intellettuali e trova un posto di prestigio nell’amministrazione statale. Dal 1805 al 1814 è impegnato in diverse missioni all’estero (Russia, Italia, Austria, Germania) al segui- to di Napoleone, alternandole a lunghi soggiorni nella capitale francese. Nel 1814, a causa della caduta dell’imperatore e della Restaurazione, sceglie di stabilirsi a Milano, dove trascorre anni frenetici e attivi accanto alla donna più importante della sua vita, Matilde Dembowska. In questa città si avvicina agli ambienti liberali e romantici del «Conciliatore», ma nel 1821, divenuto sospetto per il governo austriaco, è costretto ad abbandonare Milano e a fare ritorno a Parigi, dove trascorre anni contrassegnati da un’enorme creatività. Dopo la Rivoluzione del 1830 è nominato console di Francia a Trieste, ma gli austriaci, temendo le sue idee liberali, lo costringono a trasferirsi a Civitavecchia. Tra questa città e Parigi egli trascorre gli ultimi anni della sua vita. Si spegne nella capitale francese nel 1842. Le prime opere (Vite di Haydn, Mozart e Metastasio, 1815, e La storia della pittura in Italia, 1817), pur se ricalcate su lavori analoghi (la prima deriva da Giuseppe Carpani, la seconda dall’abate Lanzi), evidenziano una certa originalità di scrittura e un tentativo di realizzare una sociologia dell’arte. Nel 1817 viene pubblicato Roma, Napoli e Firenze, volume ricco di intelligenti osservazioni sui costumi italici. Il tormentato amore con Matilde gli ispira Dell’amore (1822), una sorta di trattato filosofico (per alcuni una singolare monografia psicologica) denso di spunti autobiografici. In questi anni si getta a capofitto nella polemica tra classicisti e romantici, pubblicando un pamphlet intitolato Racine e Shakespeare (1823-25), nel quale appoggia la concezione letteraria del Romanticismo, a suo giudizio più moderna e realistica. Il primo romanzo, Armance, risale al 1827 e dà inizio al cosiddetto “realismo romantico” (la storia si svolge a Parigi ai tempi della Restaurazione e qui avviene il suicidio finale del protagonista, causato dalla sua incapacità di amare). Seguono Passeggiate a Roma (1829), Il Rosso e il Nero (1830-31) e Memorie di un turista (1838). Nel 1839 termina (in appena cinquantadue giorni) uno dei suoi romanzi più riusciti, La Certosa di Parma, nel quale si assiste a un progresso della poetica stendhaliana: dalla storia considerata come una “cronaca” del presente, infatti, egli si muove verso una concezione della storia stessa in cui il presente è un momento significativo dell’esperienza umana nel suo insieme. L’eroe di quest’opera (Fabrizio del Dongo) è caratterizzato, a differenza del protagonista del romanzo Il Rosso e il Nero, da una visione della vita meno inquieta, nella quale l’ansia distruttiva viene sostituita da una rassegnazione meditativa, che porta infine il protagonista a ritirarsi nella Certosa di Parma (monumento nato dall’immaginazione dell’autore). Durante la sua permanenza a Civitavecchia comincia a comporre i romanzi Lucien Leuwen (basato sulle disillusioni di un giovane borghese), Lamiel e l’autobiografia (dall’infanzia al primo soggiorno milanese) La vita di Henri Brulard, rimasti purtroppo incompiuti e pubblicati postumi. Dopo la morte vengono dati alle stampe anche la versione completa delle Cronache italiane (modellate su testi italiani del Rinascimento) e Ricordi di egotismo (nel quale recupera gli anni parigini dal 1821 al 1830). Solo nell’ultima parte della sua vita, Stendhal inizia a godere di un riconoscimento da parte dei contemporanei (importantissima, a tal scopo, risulta la pubblicazione del saggio sulla Certosa di Parma da parte di Honoré de Balzac nel 1840), ma è soprattutto tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo che autori come Taine, Zola e Nietzsche rivalutano appieno le caratteristiche di vitalità (prodotta dall’incessante ricerca della felicità e dal culto dell’egotismo individualista sostenuti dall’autore nella vita e nell’arte), realismo e approfondimento psicologico, fortemente radicate in tutta la produzione stendhaliana. Il Rosso e il Nero Il Rosso e il Nero è indubbiamente il romanzo più noto di Stendhal e uno dei suoi più imponenti capolavori. Pubblicata negli ultimi mesi del 1830 (anche se con la data del 1831) e divisa in due parti (formate rispettivamente da trenta e quarantacinque capitoli), questa cronaca del XIX seStendhal colo (come lo stesso sottotitolo indica) riscrive, in maniera sicuramente originale e ricca di spunti autobiografici (l’ambiente di Grenoble è presente in tutta l’opera: alcuni personaggi ricordano il nonno, i genitori, i maestri o, addirittura, semplici conoscenti), la vicenda dolorosa del seminarista An71 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Stendhal Parte quarta | L’età del Romanticismo Parte quarta | L’età del Romanticismo toine Berthet, processato e con dannato a morte nel 1827 per aver ferito, per vendetta, Madame Michaud. Quest’ultima (madre dei bambini ai quali Berthet faceva da precettore) era infatti la sua amante; la donna, abbandonata per la figlia di Monsieur de Cordon, rende pubblica la notizia della relazione impedendo di fatto le nozze tra i due giovani. Gli elementi innovativi di questo straordinario romanzo di Stendhal sono innumerevoli, ma isoleremo principalmente quelli legati al contenuto, ai personaggi e allo stile. Il tema centrale del romanzo Il Rosso e il Nero è, senza dubbio, quello dell’ascesa sociale e della conseguente lotta di classe. Mai nessun romanziere, prima di Stendhal, aveva trattato in maniera così analitica e realistica tale scottante problema della Francia contemporanea. Julien, figlio perfetto di un mondo in graduale cambiamento, capace di proporre nuove gerarchie sociali, si rende ben presto conto che l’egoismo e l’astuzia sono le due doti abilitate ad assicurare il trionfo nella società che conta. In effetti, a dispetto delle sue aspirazioni militari (egli è, infatti, un ammiratore di Napoleone), tra il Rosso (l’Esercito, emblema della Francia napoleonica) e il Nero (la Chiesa, simbolo della Francia della Restaurazione), il protagonista sceglie il secondo, poiché, dopo un’attenta e calcolata valutazione, gli sembra un universo maggiormente ordinato, in grado di offrirgli, attraverso la sua secolare tradizione, la continuità di quel compromesso da lui tanto agognato. Stendhal, vittima anch’egli di una profonda disillusione provocata dal fallimento degli ideali napoleonici e dalla successiva Restaurazione, pare immergersi nelle tristi vicende di Julien, osservato, nonostante la sua 72 Autori e testi aggiuntivi evidente negatività, con uno sguardo non troppo malevolo dal suo creatore. Ed è proprio una certa compassione di fondo a permettere all’autore la penetrazione profonda nella psicologia del protagonista: Julien Sorel (ammirato anche da Honoré de Balzac) si propone come un personaggio a tutto tondo, analizzato con onestà nei suoi contraddittori pensieri e comportamenti, in grado di presentarsi al lettore, anche contemporaneo, quale significativo testimone di quella sintesi tra Romanticismo e realismo, che in quegli anni si andava compiendo, soprattutto nel romanzo. Egli, se da un lato appare ancora legato alla tradizione degli eroi romantici, tragicamente predestinati al fallimento delle proprie aspirazioni, dall’altro diviene il simbolo incarnato del nuovo individuo borghese che, messa al bando ogni attitudine eroica, si limita a trarre il massimo profitto dalle situazioni contingenti impiegando il minimo sforzo. In effetti, solo tenendo conto della sua matrice romantica, si può spiegare l’istintiva reazione finale, che, facendogli mettere da parte per un attimo ogni ragionevole prudenza, gli causa la totale distruzione di quanto aveva freddamente calcolato e realizzato. La trama L’azione del romanzo ha come sfondo la Francia della Restaurazione, realisticamente resa in tutta quell’atmosfera di compromesso e perbenismo che – inevitabilmente – influenza i suoi appartenenti, e vede il protagonista Julien Sorel, di origini contadine, impegnato nella sua rapida ascesa sociale. Il giovane, infatti, desideroso di conquistarsi un posto di rilievo nella società, sfrutta la propria intelligenza e il proprio fascino, diventando precettore dei pargoli del benestante Monsieur de Rênal (sindaco di Verrières, cittadina della Franca con- Parte quarta | L’età del Romanticismo tea, dove si svolge la vicenda). Ben presto inizia una relazione con la moglie di questi, ma l’intrigo viene scoperto. Per evitare uno scandalo, Sorel è allontanato dalla residenza dei Rênal ed entra nel seminario di Besançon. Grazie a una raccomandazione dell’abate Pirard, diventa segretario del marchese de la Mole. La figlia del marchese, Mathilde, conquistata dal- la determinazione di Julien, se ne innamora; ma quando il giovane sta per realizzare i suoi sogni di gloria, avendo ottenuto un titolo nobiliare e una promessa di matrimonio, viene raggiunto dalla vendetta dell’antica amante, che con una lettera svela tutta la verità. Assalito dal rancore, Julien Sorel spara in chiesa a Madame de Rênal ed è perciò condannato alla ghigliottina. La vendetta di Julien Ricevuta la lettera di Madame de Rênal, Julien è assalito dal rancore e decide di vendicarsi. [Il Rosso e il Nero, II, 35] «Dov’è la lettera1 della signora de Rênal?» disse freddamente2 Julien. «Eccola3. Non ho voluto mostrartela prima che tu fossi preparato». 1. la lettera: Julien si riferisce alla lettera inviata da Madame de Rênal al marchese de la Mole. 2. freddamente: l’avverbio sottolinea la premeditata crudeltà del personaggio. 3. Eccola: ora la lettera è in possesso di Mathilde. 4. Quello … scandalo: Madame de Rênal appare una donna romanticamente prostrata dalle sofferenze d’amore, ma anche attenta a preservare una moralità messa in serio pericolo dal suo spregiudicato comportamento. 5. talvolta … onesta: indubbiamente la personalità di Julien è complessa e indecifrabile per la sua infelice vittima. Stendhal 5 10 15 6. J.: è l’iniziale di Julien: Madame de Rênal non scrive per intero il nome del suo antico amante nell’inutile tentativo di salvare un onore già ampiamente perso. Inoltre, al fine di rendere maggiormente realistico il tono della lettera, si cela l’identità per mantenere la riservatezza, come era in uso negli scambi epistolari del tempo. 7. secondo … religioso: la devota e onesta Madame de Rênal delle righe precedenti, ora, pur se tra mille giustificazioni morali (sono costretta a credere), evidenzia una voglia di vendetta contro Julien assieme a una chiara prevenzione nei confronti di persone provenienti da classi sociali più basse. 73 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Stendhal «Quello che devo alla santa causa della religione e della morale mi obbliga, signore, al passo penoso che sto per compiere presso di voi; una regola infallibile mi ordina in questo momento di fare del male al mio prossimo, ma allo scopo di evitare un più grande scandalo4. Il dolore che provo deve essere vinto dal sentimento del dovere. È anche troppo vero, signore: la condotta della persona a proposito della quale mi chiedete tutta la verità è potuta apparire talvolta inesplicabile e talvolta addirittura onesta5. Si è potuto credere opportuno nascondere o mascherare in parte la realtà delle cose: ciò era richiesto dalla prudenza quanto dalla religione. Ma questa condotta, che desiderate conoscere, è stata in effetti del tutto condannabile, e più di quanto io possa dire. Povero e avido, servendosi della più consumata ipocrisia e seducendo una donna debole e infelice, quest’uomo ha cercato di farsi una posizione e di diventare qualcuno. Fa parte del mio penoso dovere aggiungere che il signor J.6, secondo quanto sono costretta a credere, non ha nessun principio religioso7. In coscienza devo ritenere che uno dei suoi mezzi per riuscire in una casa consista nel sedurre la donna che gode di maggiore influenza. Protetto da un apparente disinteresse e ricorrendo a frasi da ro- Parte quarta | L’età del Romanticismo manzo, egli non ha altro scopo oltre quello di riuscire a disporre del padrone di casa e della sua fortuna8. Egli si lascia alle spalle sventure ed eterni rimorsi9…» ecc. ecc. Questa lettera lunghissima e semicancellata dalle lacrime10 era sicuramente scritta dalla signora de Rênal; era anche scritta con maggior cura del solito. «Non posso biasimare il marchese11», disse Julien quando l’ebbe finita. «Egli è giusto e prudente. Quale padre vorrebbe dare la sua figlia prediletta a un uomo simile? Addio12!». Julien saltò giù dalla carrozza e corse verso la diligenza ferma all’angolo della strada. Mathilde, di cui egli sembrava essersi dimenticato13, fece qualche passo per seguirlo; ma gli sguardi dei negozianti che facevano capolino alle porte delle botteghe e che la conoscevano, la costrinsero a rientrare precipitosamente in giardino14. Julien era partito per Verrières15. Durante quel rapido viaggio non riuscì a scrivere a Mathilde come aveva in progetto di fare: la sua mano non tracciava sulla carta che dei segni illeggibili16. Arrivò a Verrières una domenica mattina. Entrò dall’armaiolo, che lo colmò di complimenti per la sua recente fortuna17. Era la novità del paese18. Julien durò19 molta fatica a fargli capire che voleva un paio di pistole. L’armaiolo le caricò dietro sua richiesta. Suonavano i tre tocchi20: è questo un segnale ben noto nei villaggi francesi, e dopo i diversi scampanii mattinali21 annuncia l’inizio immediato della messa. Julien entrò nella chiesa nuova di Verrières. Tutte le finestre alte dell’edificio erano coperte con tende di color cremisi22. Julien venne a trovarsi qualche passo dietro il banco della signora de Rênal. Gli sembrò che ella pregasse con fervore23. La vista di quella donna che lo aveva tanto amato24 fece tremare a tal punto il braccio di Julien, che sulle prime egli non potè mettere in atto il suo disegno. «Non posso», si disse. «Fisicamente, mi è impossibile25». In quel momento il chierichetto che serviva messa suonò per l’elevazione26. La signora de Rênal chinò il capo, che per un attimo rimase quasi interamente nascosto 8. Protetto … fortuna: la donna, in questo caso, sottolinea quanto Julien sia mostruoso nell’utilizzare espedienti tipicamente romanticiu (il disinteresse economico, la poesia) per ottenere obiettivi puramente materiali (il denaro altrui). 9. eterni rimorsi: naturalmente sono quelli di Madame de Rênal, che si sente una peccatrice senza possibilità di perdono. 10. lacrime: il dettaglio realistico puntualizza la natura appassionata della donna. 11. biasimare il marchese: dar torto al marchese. 12. Addio!: in questo saluto definitivo è racchiusa tutta l’essenza del romanticismo di Julien, creatura in fondo istintiva, che va incontro alla propria fine predestinata. 13. Mathilde … dimenticato: accecato dalla volontà di vendetta. 14. fece … in giardino: la marchesina è descritta come una fanciulla aristocratica, immersa nelle proprie illusioni amorose, anche se attenta al corretto comportamento sociale (ella seguirebbe d’istinto l’amato, ma rientra in casa intimorita dagli sguardi dei negozianti). 15. Verrières: graziosa cittadina provinciale, situata nel centro della Francia, dettagliatamente descritta nel primo capitolo dell’opera. 74 Autori e testi aggiuntivi 20 25 30 35 40 45 16. la sua mano … illeggibili: Julien, in preda alla rabbia, non riesce più ad avere controllo sulle sue azioni. 17. recente fortuna: il matrimonio con la marchesina. 18. Era la novità del paese: la frase sintetizza tutto il provincialismo degli abitanti di Verrières. 19. durò: impiegò. 20. i tre tocchi: si noti come Stendhal, amante della scrittura “intellegibile”, si sforzi di spiegare al lettore ogni minimo dettaglio. 21. mattinali: del mattino. 22. tutte le … cremisi: dopo una veloce carrellata sui movimenti del personaggio principale (la partenza di Julien dalla casa di Mathilde e il suo arrivo a Verrières), l’autore si sofferma sulla descrizione dell’interno della chiesa, al fine di rallentare il ritmo e preparare il lettore alla scena culminante. Cremisi: color rosso vivo e brillante. 23. con fervore: per cercare di alleviare il proprio senso di colpa. 24. lo aveva tanto amato: Madame de Rênal esce vincente dal confronto poiché sinceramente innamorata di Julien. 25. fece tremare … impossibile: una sorta di romantica tenerezza si impossessa, per un attimo, del crudele Julien. 26. l’elevazione: il momento di maggiore spiritualità dell’intera celebrazione religiosa. Parte quarta | L’età del Romanticismo dalle pieghe dello scialle. Julien non la riconosceva più con sicurezza. Sparò contro di lei un colpo di pistola, e fallì la mira: sparò un secondo colpo, ed ella cadde27. [Trad. di M. Lavagetto] 27. Sparò … cadde: si noti il sostenuto ritmo della descrizione, molto più vicino alla tecnica del montaggio cinematografico che a quello della narrazione tradizionale. Il brano è estratto dal trentacinquesimo capitolo della seconda parte, intitolato Un uragano. Il passaggio racconta il momento culminante dell’intera vicenda, ovvero la lettura dell’epistola inviata da Madame de Rênal al padre di Mathilde per informarlo della vera natura di Julien. Il ritratto che la disillusa e romantica signora (figura che per molti critici ricorda la madre di Stendhal) fa del giovane amante, se da un lato puntualizza in maniera eloquente gli aspetti fortemente negativi della sua sfaccettata personalità (egli appare infatti, avido, ipocrita e seduttore di una donna debole e infelice), dall’altro sottolinea quanto siano ancora effettive le discriminazioni di casta (lo definisce appunto Povero) nella società francese dell’Ottocento. Nonostante il suo passato coinvolgimento sentimentale con un uomo di classe inferiore, ora Madame, anche se in preda a un insostenibile dolore (che ella definisce, invece, sentimento del dovere, al fine di evitare un più grande scandalo), tende a evidenziare il fatto che la meschinità d’animo di Julien è direttamente collegabile alla sua umile origine (egli non ha altro scopo oltre quello di riuscire a disporre del padrone di casa e della sua fortuna). Ed è proprio il tema centrale dell’ascesa sociale a tutti i costi a differenziare la calcolata crudeltà di Julien Sorel (Egli si lascia alle spalle sventure ed eterni rimorsi) da quella di Valmont (protagonista delle Relazioni pericolose, 1780-82, di Choderlos de Laclos), che, per certi versi, può essere considerato il suo antecedente letterario più diretto. In realtà, Valmont (ultimo rappresentante dell’Illuminismou settecentesco) studia perverse strategie seduttive per semplice diletto personale (egli, infatti, scommette sul suo sicuro successo) o addirittura per mettere alla prova la sua resistenza razionale di fronte all’impeto dell’altrui passione (sceglie, accuratamente, donne inesperte e apparentemente inaccessibili, in quanto secondo il suo parere maggiormente influenzabili), mentre Julien usa il fascino di romantico figlio del popolo (Protetto da un apparente disinteresse e ricorrendo a frasi da romanzo…) per migliorare semplicemente la propria posizione iniziale. Quest’ultimo, pur se di provenienza proletaria, si dimostra un perfetto prodotto della mentalità borghese medio-alta, incarnandone la costante smania di riconoscimento sociale da parte di aristocratici ormai disorientati dal cambiamento e per questo motivo facile preda dell’arrivismo della classe media. Certamente la voglia di vendetta (al di là delle catastrofiche conseguenze) e una certa titubanza nel mettere in atto il suo disegno denunciano il possesso di requisiti anche romantici e istintivi da parte del giovane, che però, alla fine, fa prevalere il suo spirito profondamente laico e sacrilego (non dimentichiamo che egli intraprende la carriera religiosa per convenienza e non per vocazione), violando un atto assolutamente spirituale come quello dell’elevazione. Il suo unico scopo è infatti quello di riaffermare la natura pragmatica e materialista del nuovo homo economicus che, ad ogni costo, desidera mettere a segno, nonostante inevitabili errori di valutazione (Sparò contro di lei …e fallì la mira), tutti gli obiettivi prefissati (sparò un secondo colpo, ed ella cadde). Stendhal 75 Parte quarta • L’età del Romanticismo | autori e testi Stendhal Leggere e interpretare Parte quinta L’età del realismo Parte quinta L’età del realismo autori e testi Lev Nikolaevič Tolstoj La vita e le opere Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il 28 agosto 1828 nella tenuta paterna di Jasnaja Poljana, nella provincia di Tula, in una famiglia appartenente all’antica nobiltà russa. La madre, principessa Volkonskaja, ispirerà allo scrittore il personaggio della principessa Marja in Guerra e pace (1863-69) e il padre quella del principe Nikolaj. Rimasto orfano di madre a due anni e di padre a nove, trascorre l’infanzia tra Mosca e Jasnaja Poljana, insieme a una zia, Mademoiselle Érgolskij, alla quale era stata affidata la sua educazione. Nel 1844 si iscrive all’Università di Kazan, dove studia prima lingue orientali e poi legge, ma non termina gli studi. Negli anni dell’uni76 versità e nel periodo immediatamente successivo conduce l’esistenza sregolata tipica dei giovani della sua classe, ma si stanca presto di questa vita e si arruola come junker (volontario non graduato di famiglia nobile) presso un’unità di artiglieria stanziata nel Caucaso. L’esperienza del Caucaso gli ispirerà più tardi uno dei suoi migliori racconti, I cosacchi (1863), dal quale emerge la nostalgia per un mondo primitivo e per una vita a contatto con la natura così diversa da quella dell’ipocrita società cittadina. Nel 1852 scrive la sua prima opera, Infanzia, che appare nelle pagine della rivista «Il contemporaneo», Parte quinta | L’età del realismo Il profilo letterario Tolstoj è contemporaneo di altri grandi romanzieri russi, tra cui Dostoevskij, Turgenev, Gončarov, ma la sua fama oltre i confini della Russia è certamente maggiore rispetto agli altri e lo è diventata ancora di più tra le generazioni successive. C’è qualcosa nel realismo di Tolstoj che lo differenzia dagli altri scrittori e che lo rende universale, qualcosa che non solo va oltre la visione oggettiva della poetica realista, ma contempla anche il suo contrario: la soggettività. Il critico Černysevskij, esaminando le prime opere dello scrittore, affermò che l’originalità di Tolstoj stava nella capacità di guardare dentro se stesso per riuscire a capire la psicologia degli altri. La vicenda artistica e umana dell’autore di Guerra e pace non farà che confermare questa tesi, perché tutta la sua Lev Nikolaevič Tolstoj vita fu spesa nella ricerca di una religione interiore, di uno scopo che fosse socialmente utile, quasi una missione evangelica. Il primo passo verso la redenzione è il superamento dell’egoismo, il più diffuso dei difetti umani. Molti dei suoi personaggi seguono lo stesso percorso di redenzione morale attraverso la sofferenza, come Pierre Bezuchov in Guerra e pace, attraverso l’esperienza della guerra, o Nechljudov in Resurrezione, che sceglie di seguire in Siberia la donna della cui condanna si sente responsabile. La rigenerazione della società nell’etica tolstojana parte dall’individuo. La rinascita morale di ciascun singolo individuo produce la nascita di una società nuova meglio di quanto possa fare una rivoluzione di massa. 77 Lev Nikolaevič Tolstoj le che egli stesso propaganda anche impegnandosi in iniziative umanitarie, come fa durante la carestia del 1893. La conversione produce un grande mutamento anche nella produzione narrativa. Tolstoj abbandona i modelli tipici del realismo che caratterizzano la sua prima arte e adotta una visione della realtà che supera i confini dello spazio e del tempo. Nella produzione matura dello scrittore la tematica contemporanea è assente, com’è assente la Russia del tempo. I temi affrontati nelle opere tarde (Anna Karenina; La morte di Ivan Il’ič, 1887-89; La sonata a Kreutzer, 1889-90; Resurrezione, 1889-99) sono di natura morale e psicologica, mai sociale, e acquistano perciò una valenza universale. La crisi spirituale dell’autore si risolve in una sua personale religione, approdando alla concezione che solo l’amore e il perdono possono dare un senso alla vita. Gli effetti della crisi spirituale si ripercuotono sul suo lavoro di scrittore: già nel 1891 aveva deciso di rinunciare ai diritti d’autore delle opere composte dopo il 1880, affermando che «da quando l’arte è diventata una professione, si è indebolita la sua caratteristica fondamentale: la sincerità». Le sue idee di non ricavare vantaggi materiali dalla sua professione, non condivise dalla moglie, scatenano accesi litigi in famiglia. Il 28 ottobre del 1910 Tolstoj si allontana di nascosto da casa per raggiungere la Crimea, ma si ammala di polmonite e muore nella cittadina di Astapovo. Parte quinta • L’età del realismo | autori e testi riscuotendo un immediato successo. Nel novembre del 1854 raggiunge la guarnigione di Sebastopoli e partecipa alla guerra di Crimea. Tra il dicembre del ’54 e l’agosto del ’55 scrive I racconti di Sebastopoli che vengono pubblicati sul «Contemporaneo» mentre l’assedio alla città è ancora in corso e sono accolti con vivo interesse dal pubblico dei lettori. Dopo la resa di Sebastopoli si congeda e frequenta per qualche tempo gli ambienti letterari di Mosca e Pietroburgo, dove ormai è considerato uno scrittore affermato. In questi anni viaggia all’estero, poi torna a Jasnaja Poljana e realizza il suo antico progetto di fondare una scuola per i figli dei contadini. Due eventi segnano una svolta nella vita di Tolstoj: il matrimonio e la conversione religiosa. Il matrimonio con Sofja Andrèevna Behrs (dopo un primo tentativo fallito con Mademoiselle Arsènev) gli procura finalmente la serenità che aveva sempre cercato. La moglie, oltre a occuparsi della casa e dei numerosi figli, diventa una collaboratrice indispensabile nel lavoro: è noto come ricopiò ben sette volte Guerra e pace. La conversione avviene nel periodo in cui Tolstoj è intento a scrivere Anna Karenina (1873-77) ed è descritta in Una confessione (1882). All’inizio la sua ricerca di una risposta al significato della vita lo avvicina alla Chiesa ortodossa, ma un esasperato razionalismo lo spinge a rifiutare le dottrine teologiche e a formulare una religione mora- Parte quinta | L’età del realismo Guerra e pace Guerra e pace (1863-69) è un grande affresco della società russa del primo Ottocento, ai tempi dell’invasione napoleonica. Gli eventi narrati vanno dalla sconfitta di Austerlitz del 1805 alla guerra patria del 1812. Come nel titolo si contrappongono guerra e pace, sullo sfondo della vicenda si contrappongono l’ambiziosa “aggressività” dell’invasore Napoleone e la saggia passività del generale Kutuzov, che riesce a liberare la terra russa facendo presa sull’unità delle masse nella difesa della patria. I personaggi principali appartengono alla nobiltà di Mosca e di Pietroburgo, ma è il popolo, in senso corale, che si erge sulla scena come protagonista di questo momento storico. «Quando non ci sarà più un impero russo – disse un critico contemporaneo di Tolstoj – i popoli stranieri impareranno su Guerra e pace quale fu il popolo russo». La trama A costituire la trama del romanzo sono le vicende di due famiglie nobili, i Bolkonskij e i Rostov, e la storia della maturazione interiore di Pierre Bezuchov, amico di entrambe le famiglie, diventa il filo conduttore dell’intreccio narrativo. Pierre torna in patria dall’estero, dove ha studiato, si ritrova erede del patrimonio del principe Bezuchov. Sposa la bella e corrotta Elena Kuragina e, quando questa lo tradisce, si batte in duello con il rivale. Si separa dalla moglie, entra a far parte della massoneria con il progetto di realizzare l’emancipazione dei servi. Intanto Andrej Bolkonskij, giovane brillante, ma insoddisfatto anche a causa di un matrimonio infelice, si arruola nell’esercito e viene ferito ad Austerlitz. Tornato a casa in licenza, 78 Autori e testi aggiuntivi assiste alla morte per parto della moglie Lisa. Una sera a un ballo incontra Natas]a Rostova che si innamora di lui. Anche Andrej ne è affascinato e decide di sposarla, ma il dispotico principe Bolkonskij non approva la scelta del figlio e i due si lasciano. Pochi giorni dopo Natas]a conosce Anatolij Kuragin, giovane aristocratico vizioso e spregiudicato, se ne invaghisce e progetta una fuga con lui, che viene però sventata da Pierre. È il 1812. L’armata napoleonica invade la Russia. Andrej, ancora innamorato di Natas]a, si arruola nell’esercito di Kutuzov. Anche Pierre, deluso della vita di società, sceglie l’esperienza della guerra, dalla quale tornerà completamente cambiato. Andrej viene ferito nella battaglia di Borodino; nell’infermeria di campo incontra Anatolij Kuragin morente e cancella ogni rancore nei suoi confronti. Natas]a viene a sapere che Andrej è ferito e si precipita ad assisterlo, ma il principe muore. Intanto a Mosca scoppia un incendio e la popolazione si dà alla fuga. Pierre, rimasto in città, medita di uccidere Napoleone per mettere fine alle violenze. Mentre sta per attuare il suo progetto, viene arrestato. In carcere incontra un umile soldato, Platon Karataev, che gli fa capire come l’unica legge importante per gli uomini sia il perdono. I francesi iniziano la ritirata portandosi dietro i prigionieri. Pierre riesce a fuggire e torna a Mosca, dove rivede Natas]a. La vicenda si conclude con il matrimonio di Pierre e Natas]a e quello di Marija Bolkonskaja, sorella di Andrej, con Nikolaj Rostov. I due eroi, l’energico Andrej Bolkonskij e il timido Pierre Bezuchov, per vie diverse e con diverso epilogo, hanno percorso lo stesso itinerario verso la rinascita morale. Parte quinta | L’età del realismo Il principe Andrej viene ferito ad Austerlitz La battaglia di Austerlitz, con la quale i francesi hanno sbaragliato l’esercito russo, si è appena conclusa, lasciando sul campo morti e feriti. Tra questi c’è il principe Andrej, che ha tentato coraggiosamente di raccogliere i soldati in fuga, ma è rimasto ferito e giace in stato di semincoscienza mentre i francesi perlustrano il campo di battaglia. [Guerra e pace, I, 19] 1. Pratzen: la collina che i francesi avevano conquistato. 2. Auhest: la diga verso la quale si era diretto l’esercito russo in rotta diventando facile bersaglio per i francesi. 3. De beaux hommes: begli uomini! 4. Les … èpsisées sire!: le munizioni per l’artiglieria pesante sono finite, sire! L’ufficiale si rivolge a Napoleone. Lev Nikolaevič Tolstoj 5 10 20 25 30 5. Faites … réserve: fate avanzare quelle di riserva. 6. Voilà … mort: ecco una bella morte! 7. Napoleone, il suo eroe: si riferisce all’ammirazione che il giovane Bolkonskij aveva sempre nutrito per le imprese militari di Napoleone. 79 Lev Nikolaevič Tolstoj 15 Parte quinta • L’età del realismo | autori e testi Sull’altura di Pratzen1, nello stesso punto dov’era caduto con l’asta della bandiera in mano, giaceva il principe Andrej Bolkonskij; perdeva sangue e, senza averne coscienza, si lamentava con un gemito fioco, querulo e infantile. Verso sera smise di gemere e rimase immobile e silenzioso. Non si rese conto di quanto fosse durato il suo stato di incoscienza. All’improvviso si sentì nuovamente vivo e sofferente per un dolore al capo lancinante e lacerante. «Dov’è quel cielo così alto che io finora non conoscevo e che ho veduto poco fa?» fu il suo primo pensiero. «E anche questa sofferenza non la conoscevo», pensò. «Sì, finora non sapevo niente, niente. Ma dove sono»? Si mise in ascolto. Udì uno scalpitare di cavalli che si avvicinavano e il suono di voci che parlavano in francese. Spalancò gli occhi. Sopra di lui c’era lo stesso alto cielo con le nuvole che fluttuavano e si erano levate ancora più in alto, in mezzo alle quali si scorgeva l’immensità dell’azzurro. Non girò la testa e non vide coloro che, a giudicare dal rumore degli zoccoli e delle voci, erano giunti fino a lui e si erano fermati. Quei cavalieri erano Napoleone e due aiutanti di campo che lo accompagnavano. Percorrendo il campo di battaglia, Bonaparte dava le ultime disposizioni per il rafforzamento delle batterie che facevano fuoco sulla diga di Auhest2 e osservava i morti e feriti rimasti sul terreno. «De beaux hommes3!» disse Napoleone, guardando un granatiere russo ucciso, che giaceva sul ventre, il volto premuto sul terreno e la nuca annerita, protendendo lontano un braccio già rigido. «Les munitions des pieces deposition sont èpsisées sire4!» disse in quel momento un ufficiale proveniente dalla batteria che faceva fuoco su Auhest. «Faites avancer celles de la réserve5», disse Napoleone e, allontanatosi di qualche passo, si fermò davanti al principe Andrej che giaceva supino con l’asta della bandiera accanto (la bandiera era già stata presa dai francesi come trofeo). «Voilà une belle mort6», disse Napoleone, guardando Bolkonskij. Il principe Andrej comprese che si parlava di lui e colui che parlava era Napoleone. Aveva udito chiamare sire l’uomo che pronunciava queste parole. Ma le aveva udite come si ode il ronzio di una mosca: non soltanto non lo interessavano, ma nemmeno vi prestò attenzione e le dimenticò subito. La testa gli scoppiava; sentiva di perdere sangue e vedeva sopra di sé il cielo, lontano, alto ed eterno. Sapeva che quell’uomo era Napoleone, il suo eroe7, ma in quel momento Napoleone gli sembrava un uomo meschino e insignificante in confronto a ciò che accadeva fra la sua anima e quell’al- Parte quinta | L’età del realismo to cielo sconfinato sparso di nuvole fuggenti. In quel momento gli era del tutto indifferente chi gli stava dinanzi, chi parlava di lui; ma era contento che davanti a lui si fossero fermati degli uomini e desiderava soltanto che quegli uomini lo aiutassero e lo restituissero alla vita, che gli sembrava così bella, perché adesso la comprendeva in modo così diverso. Raccolse tutte le sue forze per muoversi ed emettere qualche suono. Fece un debole movimento con una gamba ed emise un gemito fioco e doloroso che impietosì lui per primo. «Ah! è vivo», disse Napoleone. «Sollevate questo giovane, ce jeune homme, e trasportatelo al posto di medicazione!». Detto questo, Napoleone spinse avanti il cavallo per andare incontro al maresciallo Lannes, il quale si era tolto il cappello e si avvicinava all’imperatore congratulandosi sorridente per la vittoria. Il principe Andrej non intese più nulla; perse conoscenza per il dolore lancinante che gli provocarono il sollevamento sulla barella, le scosse durante il trasporto e il sondaggio della ferita al posto di medicazione. Si riebbe soltanto verso la fine della giornata, quando lo trasportarono all’ospedale insieme con altri ufficiali russi feriti e prigionieri. Allora si sentì un poco più sollevato; poté guardarsi attorno e perfino parlare. Le prime parole che udì quando tornò in sé furono quelle di un ufficiale francese di scorta che diceva in fretta: «Bisogna fermarsi qui. Adesso passerà l’imperatore; gli farà piacere vedere questi signori prigionieri». «I prigionieri sono tanti, tutto l’esercito russo o quasi. Ormai devono essergli venuti a noia», disse un altro ufficiale. «Tuttavia dicono che costui era il comandante di tutta la Guardia dell’imperatore Alessandro», replicò il primo, indicando un ufficiale russo ferito rivestito della bianca uniforme di cavaliere della Guardia. Bolkonskij riconobbe il principe Repnin, che aveva conosciuto nei salotti di Pietroburgo. Accanto a lui c’era un altro ufficiale della Guardia, un ragazzo di diciannove anni, anch’egli ferito. Bonaparte arrivò al galoppo e fermò il suo cavallo. «Chi è il più alto di grado?» disse, guardando i feriti. Fu pronunciato il nome del colonnello, il principe Repnin. «Siete voi il comandante del reggimento dei cavalieri della Guardia dell’imperatore Alessandro?» domandò Napoleone. «Io comandavo uno squadrone», rispose Repnin. «Il vostro reggimento ha compiuto con onore il suo dovere», disse Napoleone. «La lode di un grande condottiero è la migliore ricompensa per un soldato», disse Repnin. «Sono lieto di accordarvela», rispose Napoleone. «Chi è questo giovane accanto a voi?». Il principe Repnin pronunciò il nome del sottotenente Suchtelen. Dopo averlo guardato, Napoleone disse sorridendo: «Il est venu bienjeune sefrotter à nous8». «La giovinezza non impedisce di essere valorosi», proferì Suchtelen con voce rotta. «Magnifica risposta», disse Napoleone, «giovanotto, voi andrete lontano!». Il principe Andrej, anch’egli messo in prima fila per rendere più completo questo trofeo di prigionieri, proprio sotto gli occhi dell’imperatore, non poteva non attirare la sua attenzione. Evidentemente Napoleone si ricordò di averlo veduto sul campo di 8. Il est … à nous: è venuto proprio giovane a scontrarsi con noi. 80 Autori e testi aggiuntivi 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 Parte quinta | L’età del realismo 9. mon brave: mio prode. 10. icona: immagine sacra. 11. principessina Mar’ja: la sorella di Andrej, che viveva con il padre nella tenuta di famiglia. Lev Nikolaevič Tolstoj 85 90 95 100 110 115 120 12. sul figlio nascituro: la moglie di Andrej, Lisa, in attesa di un figlio, morirà di parto. 13. Lysja Gory: la residenza di campagna dei Bolkonskij. 81 Lev Nikolaevič Tolstoj 105 Parte quinta • L’età del realismo | autori e testi battaglia e gli si rivolse chiamandolo ancora giovanotto, jeune homme, l’epiteto col quale Bolkonskij gli si era impresso per la prima volta nella memoria. «Et vous, jeune homme? E voi, giovanotto?» gli disse. «Come vi sentite, mon brave9?». Sebbene cinque minuti prima il principe Andrej fosse riuscito a dire qualche parola ai soldati che lo trasportavano, adesso rimase in silenzio fissando gli occhi su Napoleone. Gli sembravano così insignificanti, in quel momento, tutti gli interessi che occupavano Napoleone; così piccolo gli sembrava il suo stesso eroe, con quella meschina vanità e gioia della vittoria, in confronto a quel cielo così alto, così giusto e saggio che egli aveva veduto e capito, che non poté neppure rispondergli. E poi tutto sembrava così inutile e insignificante, ora, in confronto a quel corso di pensieri severo e maestoso che suscitavano in lui la debolezza per il sangue perduto, per la sofferenza e l’attesa della morte imminente. Guardando gli occhi di Napoleone, il principe Andrej pensò alla nullità della grandezza, alla nullità della vita, della quale nessuno può comprendere il significato, e all’ancor maggiore nullità della morte, il cui senso nessun vivente può comprendere e spiegare. L’imperatore si voltò senza aspettare la risposta e, allontanandosi, si rivolse a uno dei comandanti: «Che questi signori siano trattati con ogni cura e trasportati al mio bivacco; e che Larrey, il mio dottore, esamini le loro ferite. Arrivederci, conte Repnin». Spronò il cavallo, galoppò via. I soldati che trasportavano il principe Andrej e gli avevano tolto la piccola icona10 d’oro appesa al collo del fratello dalla principessina Mar’ja11, vedendo con quanta affabilità l’imperatore si fosse rivolto ai prigionieri, si affrettarono a rimetterla a posto. Il principe Andrej non vide chi e come gliel’avesse rimessa, ma a un tratto si ritrovò sul petto, sopra l’uniforme, la piccola icona appesa alla sottile catenina d’oro. «Sarebbe bello», pensò il principe Andrej, guardando quell’immagine che la sorella gli aveva appesa al collo con tanto sentimento e devozione, «sarebbe bello se tutto fosse così chiaro e semplice come sembra alla principessina Mar’ja. Come sarebbe bello saper dove cercare aiuto in questa vita e che cosa doversi attendere dopo di essa, laggiù, nella tomba! Come sarei felice e tranquillo se adesso potessi dire: Signore, abbi pietà di me!… Ma a chi dirlo? La forza indeterminata inconcepibile, alla quale non soltanto non posso rivolgermi, ma che non posso nemmeno esprimere a parole, è il tutto o il nulla», diceva a se stesso, «oppure è quel Dio cucito in questo amuleto dalla principessina Mar’ja? Non c’è nulla, nulla di sicuro, ad eccezione della nullità di tutto ciò che capisco e la grandezza di qualcosa che non capisco, ma che è molto importante!». La barella si mosse. A ogni scossa egli sentiva di nuovo un dolore atroce; lo stato febbrile si accentuò ed egli cominciò a delirare. Quelle fantasticherie sul padre, sulla moglie, sulla sorella, sul figlio nascituro12, la tenerezza che aveva provato la notte della vigilia della battaglia, la figura del piccolo insignificante Napoleone e, sopra tutto, il cielo alto, sublime dominavano le sue visioni febbrili. La vita tranquilla e la calma felicità familiare a Lysja Gory13 si presentavano alla sua mente. Egli godeva già di quella felicità, quando a un tratto appariva il piccolo Napoleone col suo sguardo indifferente, limitato e felice dell’infelicità altrui, e comin- Parte quinta | L’età del realismo ciavano i dubbi, i tormenti, e solo il cielo prometteva pace. Verso la mattina tutti questi fantasmi si mescolarono e si fusero nel caos tenebroso dell’incoscienza e dell’oblio, stato che, secondo l’opinione di Larrey, il medico di Napoleone, doveva molto più risolversi con la morte che con la guarigione. «C’est un sujet nerveux et bilieux – disse Larrey – il n’en réchappera pas14». 125 [Trad. di P. Zveteremich] 14. C’est … pas: è un temperamento nervoso e bilioso, non si salverà. Leggere e interpretare Nell’episodio della battaglia di Austerlitz Tolstoj ricorre a una tecnica già largamente sperimentata nei racconti precedenti: lo straniamentou. Si tratta di un procedimento narrativo che consiste nel riportare i fatti attraverso il punto di vista di un personaggio che li osserva come se non li comprendesse. Questa prospettiva ha la funzione di smascherare l’assurdità o la convenzionalità delle situazioni: spesso, infatti, la realtà viene osservata con gli occhi di un bambino o addirittura di un animale e, dalla visione ingenua di chi è “al di fuori delle convenzioni”, emerge quanto di grottesco o di incomprensibile è nascosto nelle vicende umane. Nel brano esaminato il punto di vista non è costituito dalla prospettiva storica, ma dalle considerazioni personali di Andrej ferito, il quale, in stato di semincoscienza, e quindi fuori della realtà, riflette sul mistero della vita e della morte. Tutto ciò che lo circonda assume allora un aspetto diverso. Il grande Napoleone, a cui sono legati i destini d’Europa, appare in tutta la sua meschinità …così piccolo gli sembrava… con quella meschina vanità della gloria e della vittoria, in confronto a quel cielo così alto… Anche le sue espressioni in francese, il suo tono cinico (begli uomini), sembrano fuori luogo in quel panorama di morte che è il campo dopo la battaglia. Tutto ciò che è passato su quel terreno, la guerra, i soldati, le armi, le vite umane, l’imperatore sono destinati a finire, a non lasciare traccia: Guardando gli occhi di Napoleone, il principe Andrej pensò alla nullità della grandezza, alla nullità della vita, della quale nessuno può comprendere il significato, e all’ancor maggiore nullità della morte, il cui senso nessun vivente può comprendere e spiegare. Il cielo che sovrasta la piana di Austerlitz è, invece, la metaforau dell’eternità, della grandezza della coscienza umana di fronte agli eventi grandi e piccoli che fanno la storia. I pensieri di Andrej oscillano tra la sublimità del cielo e la materialità della guerra e dei suoi protagonisti. Con l’esperienza della battaglia il principe Bolkonskij, che ha deciso di partecipare alla guerra per soddisfare la sua sete di gloria, attraverso la visione della morte raggiunge finalmente una verità che ha il suo fondamento nella comprensione e nella pietà per il prossimo e che diventerà la religione morale dell’ultimo Tolstoj. 82 Autori e testi aggiuntivi Parte quinta | L’età del realismo Emily Dickinson Emily Dickinson Artista dal fascino enigmatico, Emily Dickinson viene oggi ricordata sia per l’eccezionale qualità della sua poesia che per la sua scelta, inderogabile, di confinarsi nella casa paterna, anzi nella sua piccola stanza che dava sul lussureggiante giardino. Tale decisione, incomprensibile allora per i suoi familiari e amici e ancora oggi avvolta dal mistero, ha eccitato la curiosità del pubblico e della critica letteraria. In realtà nessuno può asserire, con certezza, quali siano state le vere motivazioni che spinsero l’autrice a fare ciò (ella stessa parla di un imprecisato episodio definito con il termine perentorio di terror, «terrore»), ma il desiderio di isolamento può leggersi come un atto di ribellione contro la puritana società del New England, che non concepiva il sacrosanto diritto di una donna a esprimersi compiutamente al di là della contrazione di un matrimonio vantaggioso o del duro lavoro di educare i figli. Emily “la folle” (come la chiamavano nella sua città natale) non accetta di seguire la strada segnata da tali scelte obbligate, per cui decide di rimanere da sola, anzi di allontanarsi dal mondo circostante, per muoversi con maggiore profondità nell’universo intimo che è già di per sé sconfinato. La sua camera diviene un luogo simbolico nel quale si agitano presenze spirituali, mosse solo dall’alito potente della poesia pura. In effetti è proprio per donare più purezza alla sua vena lirica, che la Dickinson si mette a osservare gli altri da una porta socchiusa, immaginando un’esistenza forse non reale, ma sicuramente originale e non convenzionale. Metafora del suo voler permanere inviolata dalle ansie mondane è, perciò, il vestito bianco, candido che ella indossa come una sorta di corazza protettiva onde impedire che l’altrui tocco (o sguardo solamente) sporchi, corrompa la sua preziosa libertà interiore. I suoi unici compagni (esclusi i tre uomini ai quali le Lettere sono indirizzate, che rappresentano amori esclusivamente spirituali, idealizzati e successivamente rifiutati) rimangono, per tutta la vita, la Bibbia, l’innocenza dei suoi nipotini e la sua adorata solitudine: nulla ha mai potuto scalfire la portata di tali relazioni, neanche l’accusa di “immoralità” mossale dalla cognata Sue Gilbert, incapace di comprendere la genialità di una donna unica, inorgoglita dal suo voler vivere oltre i limiti imposti dal comune vivere sociale. 83 Parte quinta • L’età del realismo | autori e testi Emily Dickinson nasce ad Amherst, Stato del Massachusetts, nel 1830. Cresce in una famiglia benestante, a stretto contatto con la sorella minore Lavinia (affettuosamente soprannominata Vinnie), e frequenta il liceo locale, ricevendo un’educazione rigidamente puritana. Nel 1844 compie un primo viaggio a Boston (che rimane uno dei pochissimi della sua vita; ce ne sarà un secondo diretto verso la stessa città per curare una malattia agli occhi nel 1864). Gli anni tra il 1861 e il 1862 sono cruciali nella sua vita poiché la Dickinson decide di rinchiudersi in casa, non desiderando di uscirne quasi mai più. L’improvvisa scomparsa del padre e del nipotino (a cui era legatissima) ne mina talmente la salute da condurla alla morte, avvenuta nel 1886 ad Amherst. L’attività poetica comincia nel 1852 quando la scrittrice pubblica una poesia (Così passa la gloria terrena) su una rivista. A questa seguiranno altre uscite di singole liriche sempre su differenti riviste letterarie (Assaggio un liquore mai distillato prima, 1861; Sicuri nelle loro camere d’alabastro, 1862; Alcuni osservano la domenica andando in chiesa e Fiammeggiante in oro e spento in porpora, 1864; Un essere sottile nell’erba, 1866). In effetti si tratta delle uniche sei poesie apparse durante la vita di Emily Dickinson, laddove le opere successive Poesie e Lettere sono state conosciute dal grande pubblico postume e rispettivamente nel 1890 e nel 1894. La prima edizione delle Lettere è stata curata dall’amica Mabel Loomis Todd e contiene testimonianza del fitto carteggio intercorso tra la Dickinson e gli uomini e le donne con i quali, di volta in volta, stabiliva profondi legami d’amicizia (e persino d’amore) a dispetto del volontario isolamento. Alcune di esse sono indirizzate alla famiglia, mentre la maggior parte hanno quali destinatari Otis P. Lord, Samuel Bowles e il critico Thomas Wentworth Higginson (forse la più grande passione vissuta dalla poetessa). Ed è proprio grazie a tale prosa coinvolgente, venata di lirismo (a tratti alternata, infatti, con straordinari versi poetici), che veniamo a conoscenza del modo originale dell’autrice di interpretare la vita, e ancor di più della sua estrema vitalità e della sua profondità intellettuale nonostante la reclusione tanto agognata. Emily Dickinson Il profilo letterario e le opere Parte quinta | L’età del realismo Poesie Poesie contiene 1175 testi dei quali solo sei sono stati pubblicati durante la vita dell’autrice (secondo molti critici ciò è dovuto a un’ostinazione della stessa Dickinson di rimanere inedita per tutelare quello spazio di libertà, non soggetto a costrizioni o regole di alcun tipo, che lo scrivere versi le assicurava). La prima edizione a stampa, che include centoquindici liriche (divise dall’editore per temi in maniera piuttosto arbitraria), esce nel 1890. Il suo successo è immediato per cui già l’anno seguente l’amica Mabel Loomis Todd (in collaborazione con la sorella della poetessa, Vinnie) cura una seconda e più estesa edizione. In realtà le poesie inserite in questi primi due volumi vengono sottoposte ad alcune correzioni, resesi necessarie al fine di adeguarle al gusto di un pubblico ancora poco avvezzo alle novità. Solo nel 1955 appare una raccolta completa delle sue poesie, a cura di Thomas Johnson, che finalmente le riporta alla forma originaria nella quale erano state magistralmente composte. Già a una prima lettura ci si accorge del perché Emily Dickinson è considerata la più grande poetessa americana dell’Ottocento. In componimenti brevi, a volte fulminanti, ella è capace di captare l’attenzione del lettore, chiaramente disorientato dinanzi a geometrie verbali che tuttora conservano il loro straordinario valore rivoluzionario. La poetessa non solo supera, d’un tratto, la tradizione tardo-romantica imperante in patria, ma inserisce ele- 84 Autori e testi aggiuntivi menti di assoluta diversità sia nei contenuti che nella forma, anticipando il clima intellettuale del Novecento. Combinando le tante influenze derivanti dalle sue letture (i rinascimentali inglesi Shakespeare, Milton e Donne, i suoi contemporanei Emily Brontë e Robert Browning e i romanzieri gotici), ella cerca di toccare temi di portata universale, osservati, di volta in volta, da un “Io” che si trasforma in ape, in ragno, in erba, in qualche altro essere: il tempo, la morte, l’eternità occupano un ruolo privilegiato nella sua poesia, assieme all’immancabile spazio dedicato all’amore che tutto in sé racchiude e conclude. Pur non parlando mai direttamente della sua vita (raramente si trovano nei suoi testi cenni autobiografici), l’autrice carica tali temi di tutte le tonalità derivanti dalla sua inimitabile esperienza interiore: la morte (sia commentata dal punto di vista della persona defunta o del semplice testimone oppure considerata come presagio della propria dipartita) rimane un gran mistero che, tuttavia, conserva un calamitante fascino per la Dickinson, poiché connesso sempre all’idea di eternità e di liberazione da ogni preoccupazione terrena. L’amore (poco vissuto esternamente ma molto interiorizzato) è invece esplorato, spesso, sotto il disturbante profilo della separazione momentanea onde poi ritrovare nella finale unione spirituale la possibilità di infinito, da sempre concessa a chi sa amare al di fuori dei costringenti limiti spaziotemporali. Parte quinta | L’età del realismo Fammi un quadro del sole Può la sola forza dell’immaginazione aiutarci a superare i limiti imposti dalla realtà? [Poesie] Fammi un quadro del sole – Posso appenderlo in camera mia1 e fingere2 di scaldarmi mentre gli altri lo chiamano «Giorno3»! 5 Disegna per me un pettirosso – su un ramo – così sognerò di sentirlo cantare e quando nei frutteti cesserà il canto – ch’io deponga l’illusione4. 10 15 Dimmi se è vero che fa caldo a mezzogiorno – se sono i ranuncoli che «volano» o le farfalle che «fioriscono5». E poi, sfuggì il gelo sopra i prati e la ruggine sugli alberi6. Dammi l’illusione che questi due – ruggine e gelo – non debbano arrivare mai7! come i ricorrenti segni d’interpunzione aumentino l’atmosfera di sospensione in attesa dell’assoluto, al quale tutta la poesia tende. 5. Dimmi … fioriscono: la poetessa si affida all’altrui sensibilità sia per la scoperta delle cose più ovvie dell’esistenza (fa caldo a mezzogiorno) sia per gli infiniti voli dell’immaginazione (i ranun coli che «volano», le farfalle che «fioriscono»). Le virgolette enfatizzano la straordinarietà che entra nel quotidiano solo tramite la forza immaginativa. Il ranuncolo è una pianta erbacea diffusa nelle zone fredde e temperate. 6. E poi … alberi: fervente è anche il tono di quest’invocazione: insegnami con la tua saggezza a superare i confini del tempo che scorre inesorabilmente (metaforicamente rappresentati dal gelo sopra i prati e dalla ruggine sugli alberi). 7. Dammi … mai!: e grazie all’energia della tua immaginazione indirizzami verso l’eternità dove ruggine (simbolo di consunzione) e gelo (metaforau della morte) mai realmente approdano! Leggere e interpretare «Molto è successo, caro zio, dall’ultima volta che ti ho scritto – tanto, che mentre scrivo, barcollo per l’aculeo del ricordo… Non posso vedere la luce – dimmi, ti prego, se splende». Queste parole, indirizzate dalla Dickinson all’amato zio Sweetser nel 1858, possono già interpretarsi come annuncio della futura scelta dell’isolamento e sicuramente chiariscono chi, in realtà, sia il «tu» (sottinteso) al quale la lirica Fammi un quadro del sole (1860) è diretta. Nelle Emily Dickinson 85 Parte quinta • L’età del realismo | autori e testi 1. Fammi … mia: pur se la data ufficiale dell’inizio dell’isolamento di Emily risale al 1861-62, l’intenzione è già leggibile in questa appassionata esortazione (datata 1860 e quasi sicuramente diretta allo zio Sweetser) a disegnarle un sole (ovvero a regalarle un’illusione), affinché si illumini la solitudine del suo ritiro. 2. fingere: è naturale che la Dickinson comprenda quanto sia importante il ricorso alla fantasia nel suo nuovo stato. 3. Giorno: in questa parola è sintetizzato il suo rifiuto delle convenzioni comunemente accettate: l’autrice intende dire, qui, che non ha bisogno di vedere la luce per dar vita a un nuovo giorno poiché è dentro ognuno di noi, e non fuori, che le nascite e le morti avvengono. 4. Disegna … l’illusione: gli elementi della natura, pur se non osservati direttamente, sono sempre presenti nel ricordo e nell’immaginazione della poetessa; deponga qui significa «abbandoni». Intendi: fin quando il mio cuore sarà impegnato nella ricerca dell’eterno, non cesserà mai di palpitare e di avvertire fremiti. Nota Emily Dickinson [Trad. di G. Sobrino] Parte quinta | L’età del realismo prime due quartine la poetessa già si osserva rinchiusa nella sua stanza (camera mia), convinta a non voler più partecipare direttamente alla festa della vita (rappresentata dal sole, dal pettirosso e dai frutteti) e demandando le emozioni ad altri (Fammi un quadro… nel senso di «disegna per me») al fine di vivere un’esistenza di riflesso (fingere di scaldarmi…) che assolutamente rifiuta la realtà circostante (…sognerò di sentirlo cantare… ch’io deponga l’illusione). Nei sette versi che seguono implora un miracolo ancora più grande ovvero che le sia regalata, attraverso gli altrui occhi, l’illusione che la vita vera sia solo quella che noi immaginiamo (i ranuncoli che «volano» o le farfalle che «fioriscono») poiché ci permette di sfuggire l’usura del tempo (…il gelo sopra i prati / e la ruggine sugli alberi) e perseguire un’idea assoluta di eternità (… ruggine e gelo– / non debbano arrivare mai!). La lirica, pur se appartenente ai primi anni della sua produzione, già racchiude temi reiteratamente proposti nelle successive composizioni: l’isolamento quale benefica fuga da una realtà insoddisfacente e l’eternità come punto d’approdo più alto dell’essere umano. Anche lo stile è ampiamente esemplificativo delle scelte future dell’autrice: all’interno di una struttura basata su strofe asimmetriche e su rime irregolari, assume un’importanza fondamentale l’utilizzo di un lessico quotidiano che diventa metafora di realtà più complesse (la poetessa sembra suggerirci che bisogna sempre guardare ben al di là delle ingannevoli apparenze!) e di segni d’interpunzione (i punti esclamativi e interrogativi, presenti questi ultimi solo nella versione originale, i trattini e le virgolette), i quali più che esprimere certezze, affermazioni (tipiche del suo conterraneo e contemporaneo Walt Whitman), incrementano il senso di suspense, di attesa, di improvvisa intuizione che sempre accompagnano la sublime poesia di Emily Dickinson. 86 Autori e testi aggiuntivi