Fratelli di Gesù
LE BEATITUDINI
IL VANGELO DELLA FELICITA’
BEATI I POVERI
IN SPIRITO
PERCHE’
DI ESSI E’
IL REGNO DEI CIELI
Ogni persona umana porta in sé il grande desiderio
della felicità e il Vangelo risponde: a questo
desiderio Gesù Cristo offre concretamente la
possibilità di realizzazione. La chiama
«beatitudine», ma il concetto è esattamente lo
stesso. La «beatitudine» è quella che noi definiamo
«felicità»; i «beati» sono le persone realizzate, che
hanno raggiunto la pienezza del loro essere.
Dunque, le beatitudini che Gesù proclama sono
l’annuncio della felicità, sono il centro della
predicazione di Gesù: centro o vertice, sono
l’elemento fondamentale, il cardine, è questo il
Vangelo.
Le beatitudini mostrano il volto di Dio,
le beatitudini mostrano l’autentico volto di
Gesù, più direttamente.
In altre parole, è Gesù il «povero in
spirito», è Gesù il «mite», è Gesù il
«misericordioso», è Gesù l’«operatore di
pace», e così via: è lui che realizza
pienamente queste indicazioni. Le
caratteristiche che vengono delineate nelle
beatitudini servono per tracciare
l’autentico ritratto di Gesù: in questo
modo, nella nostra riflessione, noi
comprenderemo chi è Gesù, ne studieremo
il volto. Ma «chi vede me vede il Padre» ha detto Gesù a Filippo - allora, «vedere il
volto di Gesù» coinciderà per noi con
«vedere il volto di Dio Padre», perché il
Figlio è proprio simile al Padre, tale e
quale.
Allora, iniziamo il nostro studio delle
beatitudini, una per una;
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il
regno dei cieli».
Noi seguiamo il testo di Matteo. Voi sapete
che le beatitudini sono presenti sia nel
Vangelo di Matteo sia nel Vangelo di Luca,
con forme differenti: in Matteo sono otto,
mentre in Luca sono quattro; in Matteo
sono formulate in terza persona - «Beati i
poveri ...» - in Luca sono formulate in
seconda persona - «Beati voi, poveri ...»
In Luca, alle quattro beatitudini fanno
seguito quattro «guai», cioè quattro
annunci di sciagura, mentre in Matteo ci
sono otto «guai», che però si trovano in
fondo al Vangelo, al capitolo 23.
Sono già sufficienti come differenze,
eppure la radice è la stessa, l’elemento
fondamentale è unico. Come si spiegano
allora queste differenze?
Si spiegano con il fatto che c’è stato un lavoro di
redazione, come ben sappiamo per averlo già detto
in tante altre occasioni: il Vangelo non è la
registrazione dei discorsi di Gesù che qualcuno ha
«sbobinato», ma è la trasmissione orale di questa
esperienza che ha subito un notevole lavoro di
redazione da parte della comunità cristiana, quindi
c’è l’intervento della «tradizione». Matteo e Luca
dipendono da un unico elemento, ma lo hanno
sviluppato in modo differente: Matteo ha ritoccato in
diversi modi il testo primitivo, eppure la
formulazione di Matteo è più fedele. Si tratta di una
frase provocatoria, e credo che si possa vedere molto
bene con la prima beatitudine.
I poveri in spirito
In Luca noi troviamo l’espressione: «Beati voi
poveri, perché vostro è il regno di Dio»; in Matteo
leggiamo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è
il regno dei cieli».
Due sono le differenze sostanziali, a parte la
persona seconda o terza: Matteo adopera «regno
dei cieli» al posto di «regno di Dio», ma si tratta di
espressioni equivalenti, per cui la differenza
sostanziale è in realtà una sola; Matteo ha in più
una parola: «spirito»: «Beati i poveri in spirito ...»,
mentre in Luca c’è solo: «Beati i poveri ...».
Il problema dello studioso consiste nell’accertare se
questa parola c’era nell’originale pronunciato da
Gesù in lingua semitica, oppure se si tratta di
un’aggiunta di Matteo. La risposta è unanime e
convinta: sicuramente non c’era, quindi la
formulazione primitiva è quella di Luca. Tuttavia,
per rendere fedelmente il pensiero di Gesù era
necessario aggiungere in greco questa parola, per
cui l’espressione di Matteo, anche se non rende alla
lettera l’elemento originale di Gesù, è quella che
comunica meglio l’idea che voleva comunicare
Gesù.
L’espressione «in spirito» è praticamente
intraducibile in ebraico o in lingua
semitica; quindi, sicuramente, è
un’espressione greca, aggiunta dal
redattore greco. Ci chiediamo allora per
quale motivo è stata aggiunta; il motivo è
che il termine «povero», da solo, non
rendeva l’idea.
In greco si adopera, sia in Matteo che in
Luca, il termine ptochòs, una parola che
indica il povero radicalmente povero dalla stessa radice, in italiano, deriva
«pitocco» - quindi non la persona che non
è nell’abbondanza economica, ma proprio
il misero, il barbone.
Nel linguaggio greco comune si intendeva
con «povero» la persona che deve lavorare
per vivere - il concetto di «ricco» equivale
a chi ha un patrimonio sufficiente per cui
non deve lavorare - , mentre il termine
ptochòs indica colui che si trova nella
miseria più nera, il mendicante.
Ora, i primi traduttori del Vangelo non
erano «professori» di entrambe le lingue,
erano persone semplici e non erano partite
con l’intenzione di compiere un lavoro
filologico, ma, ricevuta un’espressione da
Gesù, hanno cercato di comunicare le
stesse idee a persone che parlavano
un’altra lingua, sono stati costretti a
tradurre.
La domanda che ci siamo fatti verte allora
sulla parola che avrà adoperato Gesù;
anche qui gli studiosi sono convinti che la
parola ebraica adoperabile era anawîm, un
termine tecnico per indicare sì i poveri, ma
un certo tipo di poveri: gli anawîm sono i
«poveri di Dio», nel senso di persone con
una particolare spiritualità, le persone che
si fidano di Dio e si affidano a lui.
Luca mette in scena diversi personaggi del
genere, ad esempio nei Vangeli
dell’infanzia: Zaccaria, Elisabetta,
Simeone, Anna, Maria e Giuseppe; essi
sono caratterizzati come gli anawîm,
secondo un linguaggio tradizionale dei
profeti e della religiosità giudaica.
Ma il concetto di anawîm, tipicamente
semitico, non è assolutamente reso bene in
greco con ptochòs; si tratterebbe di una
traduzione «a calco», una parola che ne
rende un’altra meccanicamente; ma
cambiando cultura non si può fare questo
passaggio meccanico. Ecco allora che la
redazione di Matteo, proprio per essere
fedele all’originale, deve aggiungere
qualcosa e decide di aggiungere un dativo
di relazione: poveri to pneumati.
Quello «spirito» è inteso proprio in senso
greco e non significa «poveri di spirito»,
cioè che ne hanno poco; «poveri in spirito»
indica una ben precisa specie di povertà,
dove lo spirito determina la condizione,
l’ambiente, il pensiero: non quelli che
hanno poco pensiero, poco spirito, poca
intelligenza, poca coscienza, ma quelli che
sono «poveri» e hanno la consapevolezza
di esserlo. Dunque, l’atteggiamento che è
messo in evidenza è proprio quello della
consapevolezza della propria «povertà».
Non è un discorso di tipo economico o sociale, non
è una povertà determinata dal conto in banca o
dalla condizione sociale, dal mestiere o da altre
situazioni del genere: è una povertà «in spirito»,
cioè il riconoscimento della propria povertà
personale.
Ci chiediamo allora che cosa significhi «povertà» in
questo senso e potremmo comprenderne meglio il
significato adoperando la parola «dipendenza»: il
povero non è autonomo, non è indipendente, il
povero dipende da qualcuno, da un altro.
La persona umana prende consapevolezza
di essere «dipendente», di avere bisogno
di un altro, riconosce il proprio limite, la
propria debolezza, le proprie mancanze, la
propria fragilità.
Il contrario di «povero in spirito» non è
semplicemente «ricco in spirito», ma è
superbo, presuntuoso, arrogante.
Il contrario di questa povertà è il concetto
di «autarchia», è l’idea di chi pensa: io
basto a me stesso, io faccio da solo, sono
autosufficiente, non voglio darti a vedere
di avere bisogno, non voglio dipendere. È
questo il contrario della «povertà in
spirito», mentre il concetto di anawîm è
quello di colui che, riconoscendo la propria
povertà e debolezza, riconosce di
dipendere da Dio.
Umanamente, chi si scopre in questa
situazione di debolezza sembra afflitto,
triste, sente questa propria dipendenza,
sente il proprio limite come un elemento
negativo che pesa, che schiaccia, che
umilia. Il Vangelo di Gesù invece vuole
evidenziare come proprio questa
consapevolezza del proprio limite, della
propria debolezza sia la condizione della
felicità. Abbiamo allora colto abbastanza il
concetto di povertà: non è economico e
non è sociologico, è spirituale, indica la
persona, l’atteggiamento della persona.
L’elemento decisivo delle beatitudini è
nella motivazione, tutto il peso della frase
di Gesù cade sul «perché»: Beati i poveri,
non in quanto tali, ma perché di essi è il
regno dei cieli.
Allora dobbiamo dedicare attenzione a questa
causa, il Vangelo è questa seconda parte. Infatti,
se proviamo a prendere in esame una ad una
queste motivazioni vediamo che la prima
corrisponde all’ottava, per cui si crea quella che in
letteratura si definisce un’«inclusione», cioè una
forma che racchiude in un’unità letteraria l’inizio
e la fine, uguali fra loro: la prima e l’ottava
beatitudine hanno la stessa motivazione ed hanno
il verbo al presente: « (...) perché di essi è il regno
dei cieli», mentre le altre sei intermedie hanno
tutte il verbo al futuro e sono delle specificazioni
della prima e dell’ottava.
Provate a estrarle ed a metterle insieme, ne
avrete il Vangelo di Gesù, cioè la «buona
notizia»: «saranno consolati»,
«erediteranno la terra», «otterranno
misericordia», «saranno chiamati figli di
Dio» ..... È l’annuncio della felicità
possibile. Dietro tutti questi passivi c’è
sempre l’idea dell’azione di Dio: «saranno
consolati» significa che Dio li consolerà e,
analogamente, che Dio lascia loro in
eredità la terra, che Dio li tratta con
misericordia, che Dio li accoglie nella sua
famiglia. Questo, è il Vangelo.
Il regno dei cieli
Proviamo ora ad approfondire il concetto
di «regno dei cieli».
Come prima cosa sappiamo che
corrisponde all’altra espressione «regno di
Dio»; è infatti un’abitudine del mondo
giudaico evitare il più possibile il nome di
Dio e spesso si usa il termine «cielo»
proprio per sostituire il termine «Dio»,
come del resto facciamo talvolta anche noi
nel nostro linguaggio abituale: «Voglia il
cielo» significa «Voglia Dio».
Stabilita quindi l’identità fra «regno dei
cieli» e «regno di Dio», cerchiamo di
capire che cosa significhi quest’ultima
espressione. Essa indica il «regnare» di
Dio, non inteso come il territorio su cui
Dio regna, né il periodo di tempo del regno
come si usa nel linguaggio comune
riferendosi ad altri re, ma il modo di
regnare di Dio, il suo modo di essere, il suo
modo di comandare l’universo, di gestire
l’insieme.
Il concetto di re, però, al di là
dell’evocazione della potenza, dice anche
«relazione»: bisogna essere re di qualcuno.
Allora, indica anche una relazione
personale: Dio regna laddove l’uomo lo
lascia regnare.
Vediamo ora che cosa significa: «vostro è il
regno dei cieli» o, nella formulazione di
Matteo: «perché di essi è il regno dei
cieli».
Certamente non è nel senso di «possesso».
Allora che cosa può significare «possedere
il regno dei cieli»?
Non si tratta del paradiso. Proviamo
anzitutto a sgombrare il campo da alcuni
fraintendimenti.
Talvolta il regno di Dio viene inteso in
senso terreno: c’è stato un tempo in cui si
amava dire che la Chiesa è il regno di Dio,
oggi è chiarissimo che questa
affermazione è scorretta: la Chiesa è al
servizio del regno di Dio ma non si
identifica con esso, la Chiesa lavora
perché venga il regno di Dio ma non è la
struttura ecclesiastica ad identificarsi con
il regno.
D’altra parte, l’interpretazione da darsi a questa
espressione non è neppure escatologica,
ultraterrena, come se «regno di Dio» fosse
semplicemente sinonimo di paradiso: il regno di
Dio non è l’altra vita, l’altro mondo.
Allora, l’unica interpretazione corretta è «il modo
di essere di Dio» e quindi la relazione che ciascuno
di noi ha con Dio: «vostro è il regno di Dio»
significa che Dio, in quanto re, è «vostro», non però
nel senso che sia in vostro possesso, ma nel senso
che ha relazione con voi, usando il nostro
linguaggio diremmo che «è dalla vostra parte».
È un modo per parafrasare questo
aggettivo possessivo, per cui l’espressione
«vostro è il regno» si può tradurre così:
«Dio, Signore onnipotente, Signore
dell’universo, capo assoluto di tutto, è
dalla vostra parte».
Proviamo ora a mettere insieme i vari elementi:
«Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei
cieli». Una cosa importantissima che bisogna avere
ben chiara è che le beatitudini non sono una serie
di precetti morali; talvolta, infatti, sono stati
interpretati come tali, come se potessero diventare
degli imperativi. Si potrebbe dire «Siate
misericordiosi», come pure «Siate operatori di
pace»; ma si può dire «Siate afflitti»? Certamente
no, non funziona, perché non suona neppure sulla
bocca di Gesù, e non l’ha mai detto. Allo stesso
modo non si può dire «Siate perseguitati», in
quanto non è questo un impegno morale, non
funziona.
Non funziona neppure nella prima
beatitudine, non avrebbe senso infatti dire
«Siate poveri in spirito»: non si tratta di
impegnarsi per essere poveri, si tratta di
riconoscere che già lo siamo. Quando
parafrasiamo le beatitudini non dobbiamo
usare il verbo «dovere», bensì il verbo
«potere» e allora non si può tradurre la
prima beatitudine con «dovete essere
poveri in spirito se volete conquistare il
regno dei cieli»; questo sarebbe solo un
tentativo di spiegazione, ma non è
Vangelo.
La parafrasi corretta è «potete essere poveri in
spirito perché è vostro il regno dei cieli».
Cercando di rendere più chiara l’espressione
possiamo tradurre con «potete tranquillamente
riconoscere quanto siete deboli, non abbiate
paura di riconoscere la vostra debolezza, non
vergognatevi di essere dipendenti; potete
tranquillamente riconoscere che siete poveri,
toglietevi la maschera, non difendetevi con
l’arroganza e con la presunzione, potete lasciarvi
andare, potete riconoscere di essere nudi perché
Dio, il Signore onnipotente, è dalla vostra parte.
Non dovete dimostrargli niente, non
dovete conquistarlo, non avete bisogno di
far vedere che siete, potete riconoscere di
essere poveri, perché dalla vostra parte
avete il Signore assoluto. Beati voi!
Possedete una fortuna!». Questa è la bella
notizia.
Ed è proprio in questo riconoscimento
della nostra debolezza che passa la
«condizione», non è la causa ma la
condizione: il regno dei cieli è vostro, non
perché ve lo meritiate come «premio» per
avere riconosciuto di essere poveri, ma
perché la condizione per accogliere Dio
come vostro re è proprio quella di
riconoscere che ne avete bisogno. Non è
ciò che vi fa «meritare» il paradiso, ma è la
condizione per cui potete vivere in buona
relazione con Dio.
Non si tratta quindi dell’impegno di un’azione,
ma è il riconoscimento reale, sincero, schietto,
di quello che siamo: è la nudità di Adamo.
Ricordate infatti l’immagine fondamentale del
libro della Genesi quando l’uomo, dopo il
peccato, si nasconde perché sente Dio: «Dove
sei?», «Mi sono nascosto perché sono nudo e
ho avuto paura; allora ho bisogno di vestirmi,
di farmi vedere diverso». È l’atteggiamento che
noi abbiamo in genere con le persone, basta
pensare al nostro vissuto quotidiano: con le
persone della famiglia alle quali vogliamo bene
e di cui siamo sicuri possiamo tranquillamente
essere noi stessi, possiamo farci vedere anche
in tenuta non rigorosa senza alcun problema; è
tutto diverso, invece, se dobbiamo
«comparire», a seconda della persona a cui
vogliamo fare effetto.
Oppure, possiamo parlare tranquillamente
di certe nostre cose, anche le più personali,
ad un amico; ma ad una persona di cui non
ci fidiamo non possiamo dire quelle stesse
cose: ed è questo il nascondersi, il ripararsi
dalla persona di cui non ci si fida ed alla
quale vogliamo fare un’impressione
diversa da ciò che realmente siamo.
Il motivo di questo modo di comportarci è
che con le persone di casa, a cui vogliamo
bene, abbiamo una relazione molto più
schietta, più semplice. Talvolta, ad
esempio, succede che una persona sul
lavoro si presenta gentile e premuroso,
poi, una volta a casa, perde subito la
pazienza con i figli o con la moglie.
Questa diversità di comportamento dipende dalla
differente situazione: un conto è operare nell’ambito
del lavoro, dove bisogna compiere lo sforzo di apparire
come occorre per ottenere un determinato risultato,
per cui si ha un rapporto interessato con le persone;
diversa è la situazione di fronte alla famiglia, cioè a
persone di cui ci fidiamo e delle quali non dobbiamo
conquistare l’amicizia, per cui ci liberiamo, ci
mostriamo per quello che siamo e possono venir fuori i
nostri lati negativi. Tutto questo avviene se si ha la
certezza dell’amore dell’altra persona, se non si ha il
fine di conquistarla, un po’ come avviene fra un
giovane e una ragazza durante il corteggiamento: una
volta avvenuta la conquista, terminata cioè la fase di
tensione, segue il rilassamento con tutto ciò che viene
fuori. La realtà però è quella di dopo, mentre quella di
prima è l’armamento di caccia per ottenere il risultato,
ma non è la verità: la verità è l’atteggiamento normale,
gratuito, schietto.
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