Studio Teologico Interdiocesano
La recezione del
Concilio Vaticano II
nello Studio Teologico
Interdiocesano
Luciano Monari
Carlo Truzzi
Enrico Mazza
Paolo Losavio
Giovanni Costi
Alessandro Manenti
c 2013
Copyright Studio Teologico Interdiocesano, Reggio Emilia.
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Prima edizione, novembre 2013.
Indice
Esegesi biblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Teologia fondamentale e patristica . . . . . . . . . . . . . 13
Liturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
Filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
Teologia pastorale e catechetica . . . . . . . . . . . . . . 35
Storia della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
Psicologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
Esegesi biblica
Luciano Monari
Premessa: scrivo di cose successe quarantacinque anni fa e lo faccio senza riferirmi a documenti o memorie scritte. La mia memoria ha
perso molti contenuti particolari riguardanti i fatti di allora e probabilmente ha ristrutturato altri ricordi man mano che il mio contesto di vita
mutava. D’altra parte non ho la possibilità di documentarmi e fare una
ricerca storica metodologicamente corretta. Bisogna quindi che il lettore prenda le mie parole per quello che sono e che possono dare: da
una parte con il riconoscimenti di tanti ‘buchi’ nella documentazione;
dall’altra, spero, con l’arricchimento che viene dall’esperienza degli
anni successivi nei quali le scelte di mezzo secolo fa hanno dato frutti
e hanno mostrato limiti.
1. Il primo, fondamentale elemento che il Concilio ha sottolineato e
che ha determinato la revisione dell’insegnamento biblico nei seminari
è il posto stesso della Sacra Scrittura non solo nella teologia ma prima di
tutto nella vita della Chiesa. L’affermazione fondamentale mi sembra
quella di DV 21: “E’ necessario, dunque, che tutta la predicazione
ecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata
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Esegesi biblica
dalla Sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene
con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione
con loro; nella Parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza,
da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa
saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della
vita spirituale.” (EV 1,904)
Come il Concilio ricorda poco sopra, “la Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto con il corpo stesso del Signore” (ib.).
Questa affermazione potrebbe essere facilmente dimostrata; ma bisogna subito aggiungere che prima del Concilio il modo di approccio
alla Scrittura era di tipo apologetico e dottrinale. Apologetico: si cercava cioè di dimostrare la verità della Scrittura in quanto libro ispirato e
quindi esente da errori di qualsiasi genere. Dottrinale: dalla Scrittura si
potevano e si dovevano ricavare le affermazioni centrali della dottrina
della fede in modo che il contenuto dottrinale proposto alla fede dei
battezzati apparisse chiaramente come espressione della rivelazione
di Dio. Tenendo presenti questi obiettivi, si poteva comprendere che la
lettura diretta dei testi fosse importante per gli specialisti, ma apparisse
praticamente superflua (quando non pericolosa) per le persone comuni. Gli specialisti avevano il compito di affrontare i problemi storici,
letterari, teologici posti dal testo biblico in modo da dimostrare, con gli
strumenti della critica biblica, che la rivelazione cristiana è credibile e
che la proposta che il magistero fa del contenuto della fede è fondata. Ora, fare questo richiede strumenti culturali complessi che solo gli
studiosi sono in grado di possedere e maneggiare (conoscenza delle
lingue, della cultura ebraica, della storia dell’interpretazione biblica
. . . ); agli altri, al popolo di Dio, può servire conoscere i risultati cui giungono gli specialisti in modo da verificare che la conoscenza della fede
è corretta. Ma a che pro leggere direttamente la Bibbia? I contenuti
della fede sono esposti con maggior precisione e chiarezza in un catechismo ben fatto; le esigenze della morale cristiana sono enumerate
con maggior completezza nei manuali di morale. Per non parlare della
vita spirituale: il racconto della Bibbia contiene sì alcune affermazioni
di straordinario impatto sulla vita spirituale dei credenti, ma contiene
anche narrazioni poco esemplari che pongono problemi intricati e che
è meglio non conoscere nemmeno. Insomma, per le necessità della
fede e della morale basta il catechismo; per le necessità della vita
spirituale sono un aiuto migliore le vite dei santi e i testi raccomandati
di spiritualità. Si può lasciare la conoscenza diretta della Bibbia agli
specialisti e accontentarsi della percezione che i contenuti della fede
e della morale – così come il magistero li presenta – sono davvero
Esegesi biblica
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fondati sulla rivelazione contenuta nella Bibbia (e, naturalmente, nella
tradizione).
2. Il Concilio ha rinnovato le prospettive almeno in una duplice prospettiva. Anzitutto ha proposto una visione più ampia della rivelazione
e della fede: non solo come rivelazione di alcuni contenuti di verità
accolti come veri nella fede, ma come comunicazione di vita tra Dio
e l’uomo, una comunicazione di vita che comprende certo un contenuto dottrinale ma, insieme ad esso, tutta la gamma varia del vissuto
relazionale: “Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se
stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale
gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo
hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura.” (DV
2 = EV 873) In questa proposizione del Concilio sono ricordate le dimensioni essenziali della rivelazione (alle quali corrispondono altrettante
dimensioni della fede): dimensione trinitaria, cristologica, personale,
dialogica, storica, dottrinale, esistenziale, salvifica . . . Le conseguenze di questa affermazione, come si può immaginare, sono molte e
profonde.
Se la rivelazione è anzitutto un incontro del Dio personale con
l’uomo, la Bibbia acquista il valore originario di una parola viva che
Dio, soggetto libero mosso da un amore gratuito, rivolge all’uomo con
l’intento di suscitare in lui una risposta di amicizia e di fedeltà. Ma allora
la Bibbia non è sostituibile con un catechismo, per quanto ben fatto; e
nemmeno con i trattati teologici, per quanto perfetti; e nemmeno con i
libri di spiritualità, per quanto ricchi. La parola di Dio è parola personale
nella quale Dio stesso viene incontro agli uomini e la parola personale
non può essere surrogata in alcun modo; l’amicizia (la comunione di
vita) richiede necessariamente lo scambio personale di parole con
tutta la gamma di sentimenti che possono accompagnare questo
scambio.
3. Tutto questo ha avuto un impatto forte sulla ristrutturazione dell’insegnamento di Sacra Scrittura nel corso teologico. Prima del Concilio
l’insegnamento era concentrato (quasi unicamente) sulla ‘introduzione
alla Bibbia’ e sulla introduzione ai singoli libri biblici. Attraverso queste
‘introduzioni’ si comunicavano i dati fondamentali che dimostravano
il valore storico e teologico dei testi (della Bibbia e dei singoli libri); si
dimostrava così l’autenticità dei testi (che risalivano, cioè, all’autore cui
erano attribuiti), la attendibilità storica (che erano contemporanei agli
eventi narrati o erano fondati su fonti credibili), la correttezza teologica
(che contenevano affermazioni giuste su Dio, su Cristo, sulla Chiesa,
sul destino dell’uomo . . . ). Tutto questo armamentario poteva essere
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Esegesi biblica
offerto e recepito senza un accostamento diretto dei testi; bastava
citare e imparare quei versetti che erano decisivi per fondare una
affermazione. Non sembrava importante la lettura, ma il patrimonio di
conoscenze prodotto dalla lettura.
A questa prospettiva nell’insegnamento della Scrittura corrispondeva una prospettiva simile nell’insegnamento della teologia. Qui la
Sacra Scrittura era usata per dimostrare il valore di affermazioni desunte
dal magistero o dalla tradizione teologica. Si poneva una tesi e poi
si cercava di dimostrarne la verità usando tutti gli argomenti possibili.
Si cominciava sempre da una dimostrazione scritturistica della tesi; si
passava poi alla dimostrazione patristica, a quella magisteriale, storica,
speculativa . . . ; e si terminava attribuendo a ciascuna tesi la ‘nota
teologica’ (cioè il grado di certezza) che derivava dal tipo di prove
che si era riusciti a raccogliere.
4. La ristrutturazione dei corsi di Sacra Scrittura che si cercò allora di
impostare prevedeva anzitutto un biennio nel quale si sarebbe letta
tutta la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse in modo da acquisire una
visione diretta e completa del paesaggio biblico. Era il corso che per
molti anni insegnò soprattutto mons. Diaco; lo aveva chiesto insistentemente e lo condusse con passione per anni trasmettendo in questo
modo un amore sincero alla parola di Dio. Non solo: mons. Diaco impostava la lettura alternando Nuovo Testamento e Antico Testamento;
cominciava col vangelo secondo Matteo, poi leggeva il Pentateuco;
seguiva il vangelo secondo Marco, poi i libri storici (da Giosuè in poi);
poi Luca e i profeti e così via. Questo alternarsi tra Antico e Nuovo
permetteva di variare la lettura della Bibbia e soprattutto di darle una
forma precisa nella quale i vangeli avevano una funzione strutturale.
D’altra parte anche questa scelta corrisponde a un’indicazione del
Concilio: “A nessuno sfugge che tra tutte le scritture, anche del Nuovo Testamento, i vangeli meritatamente eccellono, in quanto sono
la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo
Incarnato, nostro salvatore.” (DV 18 = EV 1,899) Credo che questa fosse
la riforma più significativa.
L’esegesi era invece proposta nel triennio con sei corsi semestrali, tre
per il primo Testamento (Pentateuco e libri storici; profeti posteriori; libri
sapienziali e Salmi) e tre per il Nuovo (Vangeli sinottici, Paolo e lettere
cattoliche, Giovanni e letteratura giovannea). Naturalmente, si poteva
proporre solo l’esegesi di alcuni testi con attenzione particolare agli
aspetti letterari e teologici, secondo il tipo di libri che si commentavano.
Nel modo di affrontare l’esegesi era nuova l’attenzione alla dimensione
letteraria. Si può avere un’idea del cambiamento se si osserva il modo
Esegesi biblica
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in cui si faceva uso dell’analisi del ‘genere letterario’. Ai generi letterari
fa riferimento anche il Concilio quando scrive: “Per ricavare l’intenzione
degli agiografi, si deve tener conto tra l’altro anche dei generi letterari.
La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in
varia maniera storici, o profetici, o poetici, o con altri generi di espressione.” (DV 12 = EV 892) Ora, c’è una modalità apologetica di servirsi
dei generi letterari che consiste nel considerare il genere letterario un
involucro con cui è rivestito il messaggio di un testo; se si leva il genere
letterario, rimane il messaggio nudo e crudo e il testo può trasmettere
il suo messaggio senza ambiguità. Questo modo di affrontare il testo è,
però, strumentale perché non cerca di comprendere il testo ma solo
di ricavare dal testo alcune idee ritenute utili. Passare a una visione
corretta (non apologetica) del genere letterario significa rispettare il
testo per quello che è, cercare di capirlo nel modo migliore, riuscire a
gustarlo meglio e con maggior sapore.
Non è per caso che ho usato il verbo ‘gustare’: il verbo cerca di
esprimere uno dei mutamenti di accento che si sono verificati nell’accostamento alla Bibbia. Se la Bibbia è il magazzino che custodisce
le verità della fede e se dalla Bibbia, come da un magazzino, siamo
chiamati ad estrarre queste verità, la Bibbia ha bisogno solo di essere
‘capita’. Ma se la Bibbia è parola che nasce da un dialogo interpersonale e vuole dare a questo dialogo il massimo di intensità e di bellezza,
allora non basta capire, bisogna anche gustare. Più volte il Concilio
parla della Bibbia come ‘nutrimento’, come una conversazione di
amore: il nutrimento è fatto sì di grassi, zuccheri e proteine, ma è fatto
anche di sapore e di gusto; una conversazione di amore contiene anche delle idee, ma le trasmette insieme a sentimenti, desideri, attese.
Uno dei testi più citati in teologia per dimostrare l’ispirazione divina
della Scrittura è sempre stato 2Tm 3,16 che dice: “Tutta la Scrittura è
ispirata da Dio.” Quando i teologi citavano questo testo come prova teologica, si fermavano alle prime parole; il testo, però, continua
aggiungendo: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per
insegnare, convincere, correggere ed educare alla giustizia, perché
l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.”
(2Tm 3,16-17) Queste parole sembrano inutili per fondare la dottrina
teologica dell’ispirazione biblica, ma in realtà hanno un impatto forte;
dicono che la Scrittura serve a formare l’uomo credente, a far sì che
la vita cristiana maturi, mossa dallo Spirito, a suscitare il desiderio e il
coraggio e la perseveranza nelle opere buone. Ora, per raggiungere
questo obiettivo, la dimensione letteraria della Bibbia ha una rilevanza
notevole perché serve a convincere, a sentire la gioia e la bellezza
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Esegesi biblica
della vita di fede. L’esegesi deve riuscire a evidenziarla nel modo più
chiaro perché il lettore ne possa fruire.
5. Un’ulteriore differenza si coglie nella sottolineatura della dimensione teologica della Scrittura. Non c’è bisogno di dire che questa
dimensione è sempre stata considerata primaria, quasi l’obiettivo vero
dell’esegesi di cui il resto costituiva solo la preparazione. Sennonché,
come ho ricordato sopra, il messaggio teologico della Bibbia veniva
esposto prendendo l’indice dalla dogmatica (Dio uno e trino; Gesù
Cristo, figlio di Dio e redentore; la creazione e il peccato; la dottrina
dell’aldilà . . . .). In qualche modo i libri biblici venivano adagiati su un
letto di Procuste perché parlassero alla teologia nel modo in cui la
teologia lo richiedeva. Il cambiamento è stato profondo nel tentativo
di adattare l’esposizione della teologia biblica alla dinamica propria
di ciascun libro anziché a quella predefinita dalla teologia. Questo
cambiamento non è senza problemi perché il risultato diventa molto
più frammentato di quanto desidereremmo: come mettere insieme
la teologia del libro di Giobbe con quella del Deuteronomio? E soprattutto come mettere insieme la teologia del Primo con quella del
Nuovo Testamento?. Il problema di condurre a unità i diversi spezzoni
del pensiero teologico biblico diventerà sempre più forte; ma, in ogni
modo, il passaggio di prospettiva è senza ritorno.
6. Vale la pena aggiungere un altro punto. Nei programma di studi
della teologia era proposto un corso iniziale di ‘Introduzione al mistero di
Cristo.’ Si capiva l’intento di questo corso: dare a chi inizia la teologia
un orizzonte generale nel quale collocare le diverse materie che si
sarebbero affrontate nel quinquennio in modo da evitare il rischio di
una dispersione troppo ampia. È il difetto del pensiero moderno che
tende a specializzare sempre più i campi del sapere perché ritiene che
solo in questo modo sia possibile fare affermazioni serie, motivate. Il
Leonardo da Vinci, genio universale, non è più una possibilità concreta
contemplata nella cultura contemporanea. E tuttavia l’uomo è uno, il
soggetto è uno e le sue diverse conoscenze e abilità debbono, prima
o poi, rapportarsi a lui come unico soggetto.
L’intento di chi aveva proposto il corso era quindi comprensibile e
lodevole. Ma come immaginarlo? Come una sintesi del catechismo?
Come una teologia in miniatura? La scelta che si fece era quella di
strutturarlo sulla falsariga della storia della salvezza. Questo metteva
naturalmente al centro la Sacra Scrittura interpretata sul filo della storia.
I settantadue libri che costituiscono il canone riconosciuto dalla Chiesa cattolica sono quanto mai diversi per epoca storica, contenuto,
genere letterario. E però tutti questi libri diversi sono testimonianza della
Esegesi biblica
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esperienza che il popolo di Israele e la Chiesa – nuovo Israele – hanno
fatto nella storia; una esperienza determinata dal riferimento costante
a Dio come ‘partner’ dell’uomo. Il riferimento a Dio (il tema dell’alleanza) fa di questa storia una storia che tende a una meta definibile
come salvezza; in rapporto a questa meta ogni libro acquista un posto,
offre un contributo, sollecita a una risposta.
Questo riferimento alla storia della salvezza si inserisce in quella
che probabilmente è la rivoluzione più gravida di conseguenze che
il pensiero teologico sta vivendo e cioè l’ingresso della dimensione
storica nella riflessione teologica. Il Concilio ha dato impulso in questa
direzioni in due modi. Anzitutto affermando che la rivelazione è avvenuta “con eventi e parole intimamente connessi tra loro” (DV 2 = EV
873); la storia non è quindi solo lo scenario sul quale si effettua l’evento
della rivelazione, ma è il materiale con cui opera la rivelazione stessa.
Poi ricordando che “la comprensione, tanto delle cose quanto delle
parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti,
i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che
essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i
quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo
di verità.” (DV 8 = EV 883). Ma questa è la storia che si sta ancora
scrivendo.
Teologia fondamentale e patristica
Carlo Truzzi
Consegno questo scritto nell’ottica di una testimonianza. Ho iniziato
l’insegnamento presso l’Istituto nel 1973 con “Patristica” e “Etica. Principi”, chiamato da don Camillo Ruini. Ho insegnato patristica fino al 2012.
Poco dopo gli inizi, lasciato l’insegnamento dell’etica, ho insegnato a
lungo “Mediazione ecclesiale della rivelazione”, dal 1976 fino al 1998,
quando divenni parroco di Mirandola.
La recezione del Concilio ha significato un cambiamento importante nell’ordinamento degli studi, ma anche nell’insieme dell’ambiente
del seminario. L’apertura al nuovo, il dialogo tra le chiese e nelle chiese
e la loro collaborazione ne furono un segno.
Parliamo anzitutto dell’ambiente nel suo insieme.
Nel 1967-1968 i seminaristi del liceo e della teologia di Carpi entrarono nel seminario di Modena. Fui invitato dal vescovo ad accompagnarli. La diminuzione dei seminaristi, ma non solo, suggerì poi di unire
gli alunni di teologia di Carpi e Modena a quelli di Reggio nel seminario
di quest’ultima città. Nasceva così lo studio Teologico Interdiocesano,
con uno statuto abbastanza semplice e pratico, sotto l’autorità dei tre
vescovi.
In quel primo momento nell’ampio seminario di Reggio vennero
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Teologia fondamentale e patristica
ad abitare vari giovani insegnanti e il vicedirettore di Modena don
Paolo Losavio. Un primo problema fu quello dell’armonizzazione dei
programmi svolti nei tre seminari, abbastanza uniformi, ma con scansioni temporali diverse. Anche i tre corpi insegnanti confluirono in un
unico collegio docenti, nel quale figuravano molti giovani. Per l’ordinamento dei programmi di insegnamento si guardò principalmente alla
Pontificia Università Gregoriana.
Il cambiamento della figura pastorale del sacerdote indicato dal
Concilio comportò problemi di adattamento tra il clero, con riflessi
anche all’interno dei seminaristi per alcuni anni.
Non tutto era chiaro e condiviso. Fu così che, poco dopo la fusione,
gli studenti di teologia di Modena tornarono al loro seminario. Lo Studio Teologico come tale non subì contraccolpi, perché da Modena i
seminaristi continuarono a frequentare i corsi di studio fino ad oggi. Frequentavano le lezioni anche membri di varie famiglie religiose, cristiani
laici e qualche sacerdote non più giovane.
Il legame con le tre diocesi, alle quali si unì poi quella di Parma,
fu costante e sereno nella persona dei vescovi. La produzione di una
“teologia contestuale” per le chiese locali, benché da più parti auspicata, non ebbe sviluppi organici. L’affiliazione all’Anselmianum di
Roma è stata un’esperienza proficua per l’Istituto Teologico. Da qualche anno è subentrato il rapporto con la Facoltà Teologica dell’Emilia
- Romagna.
Vengo ora specificamente alle due discipline da me insegnate. La
disciplina più movimentata dal rinnovamento conciliare è stata quella
della mediazione ecclesiale della rivelazione. Il trattato di “apologetica” venne messo da parte negli anni Sessanta. Non si parlò più di
praeambula fidei, di demonstratio Christiana, di demonstratio catholica. Alcuni dei temi ora venivano organizzati in filosofia, altri nel trattato
sul “Gesù storico” e altrove.
Lo Studio Teologico scelse come testo base dell’insegnamento della “teologia sistematica” l’opera monumentale “Mysterium salutis”. È
singolare che mentre le varie parti di quell’opera vennero poi via via
abbandonate, la parte del volume II, molto ricca, riguardante la mediazione ecclesiale, sia stata usata fino ad oggi. Naturalmente non
furono trascurate le questioni di volta in volta dibattute nell’attualità come l’infallibilità del papa (H. Küng), la recezione ecclesiale (Y.
M. Congar), l’ecclesionenesi (L. Boff). Alcune volte è stata effettuata
un’analisi pratica sul campo analizzando omelie domenicali.
L’insegnamento di patristica non era considerato indispensabile.
Negli anni Sessanta poteva ancora accadere che uno concludesse
Teologia fondamentale e patristica
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gli studi teologici in seminario incontrando semplicemente brani patristici come “prova” di una dottrina teologica, insieme agli argomenti
scritturistici e magisteriali. Esisteva una antologia con brani scelti e ordinati a questo scopo. Era il noto R. de Journel, Enchiridion Patristicum.
Insomma i Padri non erano accostati come un valore in sé, ma in funzione di altro, come auctoritates a sostegno. Purtroppo un trattamento
analogo era toccato al testo biblico.
Fin dall’inizio nell’ Istituto Teologico, sotto l’impulso iniziale di mons.
Giuseppe Diaco, nel biennio si è fatta la “lectio continua della bibbia”, senza indugiare in quelle lunghe introduzioni che lasciano il testo
ispirato di fatto a una certa distanza dallo studente.
In modo analogo ho chiesto agli studenti di leggere personalmente
varie opere complete dei Padri o ampie parti, per i testi più lunghi, quali
la “Città di Dio”. Dovendo fare delle scelte e avendo in gran parte
studenti non iniziati alle lingue classiche, sono state usate le traduzioni.
Per fortuna in questi decenni le versioni sono aumentate sia come
quantità che come qualità di introduzioni e commenti.
Le singole personalità dei Padri come i problemi di evoluzione dottrinale e interazione con l’ambiente storico sono stati trattati con metodo
storico-critico.
Ho fatto delle scelte anche per quanto riguarda i contenuti. Ho
ritenuto doveroso dare un’informazione che guidasse a una visione
completa dei secoli patristici, ma di base, lasciando ai trattati di teologia sistematica più accurati approfondimenti dottrinali. Ho cercato di
mostrare la forza e la bellezza di quell’epoca particolare, ma anche la
distanza dalla nostra cultura, evidenziando anche gli aspetti esistenziali
del mondo antico sia pagano che cristiano. I Padri sono stati delle
persone e non semplicemente dei maestri.
Abbiamo cercato di cogliere frutti dall’entrata della storia nella
teologia del XX secolo. Abbiamo ascoltato questa maestra di vita.
Arrivare poi a delle conseguenze pratiche, questo, si sa, è altra cosa. Si
licet parva componere magnis, anche il Concilio Vaticano II ha tratto
linfa dal “ressourcement” in campo biblico, liturgico, patristico.
L’Istituto Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia esiste da più di
quarant’anni. È stato bello per me farne parte. Il solo fatto che sia
esistito ed esista è già una cosa importante. Mi assomiglia un po’ alla
Comunità Europea, che si è costruita non attraverso un bello schema
preordinato, ma rispondendo più o meno efficacemente ai problemi
di vari popoli, che si sono risolti meglio insieme che singolarmente.
Sono fiducioso che i problemi si potranno ancora risolvere efficacemente insieme.
Liturgia
Enrico Mazza
1. Era il 1968 è quando iniziò la nostra attività in questo Istituto teologico. Il preside Ruini preparò l’elenco delle varie discipline, per abbinarle
poi al nome dei vari insegnanti. Ricordo che ci fu, da parte sua, la
consultazione se si dovessero confermare i precedenti insegnanti del
corso di teologia del seminario di Reggio Emilia e, nel caso, quali di essi
andassero confermati. Ci furono delle riconferme sia per gli insegnanti
del seminario di Modena sia per gli insegnanti del Seminario di Reggio
Emilia, ma ci furono anche delle esclusioni laddove ci fossero nuove
forze con specifiche competenze in determinate discipline, in grado di
sostituire i precedenti insegnanti.
A me vennero affidati i corsi di liturgia, e alcuni corsi di teologia dei
sacramenti, secondo il criterio adottato dal preside Ruini per conferire l’incarico di insegnamento, che prevedeva o il dottorato in una
delle discipline teologiche oppure la licenza accompagnata da una
specializzazione in altra disciplina.
2. Effettivamente avevo conseguito la licenza in teologia e la specializzazione in liturgia pur senza avere quest’ultimo titolo dato che
stavo lavorando alla tesi per il dottorato. Un dottorato che tardò molto
a venire perché lo conseguii soltanto vent’anni dopo nel 1988. La ragio-
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Liturgia
ne di tale ritardo era molto semplice. Avevo scelto di lavorare su Basilio
Magno e per questo mi ero rivolto al maggior esperto dell’epoca, il
benedettino Jean Gribomont affinché mi seguisse in questa ricerca
quantunque egli non fosse docente al Pontificio Istituto liturgico di Sant’Anselmo bensì all’Istituto di Studi monastici; formalmente il relatore,
o moderatore, avrebbe dovuto essere il benedettino Burkhard Neunheuser che era d’accordo che io mi facessi guidare da Gribomont.
L’argomento della tesi era in linea con le scelte teologiche di Sant’Anselmo, e di Neunheuser in particolare, dato che avrei dovuto fare
ricerca sull’eucaristia come anamnesi nelle opere di Basilio Magno.
Dopo aver lavorato un anno intero, schedando ampiamente tutte
le opere di Basilio, compresi i quattro libri del trattato Contro Eunomio
che allora era considerato dubbio, mi accorsi che il materiale raccolto era veramente scarso: si trattava solo di un piccolo pacchetto di
schede, insufficiente per una tesi. Inutile dire che ero molto preoccupato e così dopo un anno di lavoro mi recai da Gribomont per fargli
vedere il mio scarso risultato. Mi accolse con la sua grande cordialità,
come sempre, e quando gli spiegai il motivo del mio disappunto egli
proruppe in una delle sue grandi risate che tutti coloro che lo hanno
conosciuto ricordano bene come sua caratteristica particolare. Di
fronte alla mia sorpresa, egli spiegò molto chiaramente la questione;
io non avevo trovato molto in Basilio, quasi nulla, per il semplice motivo che in Basilio non c’è nulla di rilevante sul concetto di liturgia o
dell’eucaristia come anamnesi. Anamnesi: un concetto che in quel
particolare momento storico era la base di tutta la concezione della
liturgia è che quindi andava indagato ad ogni costo in tutte le fonti
disponibili.
La mia indagine aveva già prodotto un risultato sicuro: l’assenza
di quella categoria teologica in Basilio. Era chiaro tuttavia che non
si poteva fare una tesi su una cosa che non c’era. Padre Gribomont
sapeva benissimo che Basilio non aveva questa concezione teologica
della liturgia, e me lo disse, aggiungendo che ero io che avevo voluto
scegliere quel tema.
Egli sperava tuttavia che, in qualche modo, io potessi trovare qualcosa di interessante — anche se non proprio la liturgia come anamnesi
— dato che lo stesso Gribomont aveva già diretto la tesi di un cistercense, psichiatra, che aveva studiato Basilio per mettere in luce
l’importanza dell’anamnesi nella vita spirituale. In conclusione, quindi,
la colpa era mia che avevo voluto studiare il tema liturgico in Basilio alla
luce di una categoria che Basilio applica, invece, alla vita cristiana.
Dato che, per i miei studi precedenti, in quel momento non riuscivo
Liturgia
19
ad immaginare altra tesi che quella, pensai bene di rinunciare a tale
argomento nella speranza che nel frattempo maturasse qualcos’altro
e che il mio dottorato potesse prendere un’altra strada.
3. I corsi di teologia sacramentaria furono affidati in parte a Faustino
Pinelli e in parte a me. Di teologia sacramentario io professavo solo
i corsi sull’eucaristia e sul matrimonio. Successivamente il corso sul
matrimonio venne affidato all’insegnante di teologia morale, dato che
la maggioranza dei temi del corso avevano una trattazione anche
in teologia morale. Era, quindi, logico unificare i due corsi in modo
da eliminare la doppia trattazione. Mi vennero affidati tutti i corsi di
liturgia ma, in pratica, svolgevo un vero programma solo per i corsi
su battesimo e cresima, eucaristia, penitenza, matrimonio. Una volta,
ma solo una volta, tenni un corso sulla preghiera all’interno del quale
presentai la riforma di Paolo VI sulla liturgia delle ore. Sull’unzione degli
infermi invece non feci mai nulla, mentre trattavo dell’anno liturgico
non all’interno di un corso apposito, ma all’interno di vari altri corsi,
seppure per accenni.
Poi, da quando iniziare la docenza in Università cattolica, nella
facoltà di lettere e filosofia, chiesi un alleggerimento del mio impegno.
Conservai solo il corso sull’eucaristia dal punto di vista teologico, e il
corso sulla penitenza che trattavo dal punto di vista liturgico. I corsi
che abbandonai, come quello sull’Iniziazione cristiana, furono affidati
a Edoardo Ruina.
4. In quell’epoca si discuteva molto se la teologia sacramentaria
dovesse essere affidata all’insegnante di liturgia o a quello di teologia
dogmatica. La discussione continua anche oggi anche se è molto meno importante. Allora si tendeva ad affidare tali corsi, preferibilmente, a
chi trattava di liturgia mentre oggi in genere si preferisce il dogmatico.
I termini della questione sono semplici. Dato che il sacramento è
un rito liturgico, sembrerebbe giusto che la trattazione sul sacramento
fosse affidata a chi conosce i riti liturgici non solo per come sono oggi,
nei libri liturgici di oggi, ma anche per il loro sviluppo storico ossia
per come furono nel passato e come si passò da una forma rituale
a un’altra per arrivare fino a oggi. Questo suppone la conoscenza
delle fonti liturgiche e, quindi, la conoscenza documentaria di un
settore molto particolare della storia della Chiesa. Non è per caso
che i grandi liturgisti del passato fossero degli storici della chiesa e non
dei dogmatici. A questo si aggiunga che, per avere la teologia del
sacramento, non è sufficiente la conoscenza della liturgia romana,
se pure nella sua evoluzione storica, ma è necessario tener conto
anche delle liturgie, ossia delle varie Chiese tanto d’Oriente quanto
20
Liturgia
dell’Occidente latino non romano. E questo comporta una precisa
conoscenza della storia delle Chiese in tutte le loro componenti. Oggi
gli studi storici sono abbastanza diffusi e, quindi, si suppone che anche
un teologo sistematico li possa possedere. È per questa ragione che è
caduta la pregiudiziale sui corsi di sacramentaria da affidarsi ai liturgisti.
Allora, assieme ai corsi di liturgia fui incaricato anche del corso
sull’eucaristia e di quello sul matrimonio. Accanto al corso di teologia
eucaristica avevo il corso di liturgia, avente anch’esso tre ore di lezione
per settimana, che trattava delle diverse maniere con le quali è stata
celebrata l’eucaristia lungo la storia. In altre parole si trattava di un corso sulle varie «Anafore» delle differenti chiese antiche. Effettivamente il
corso era indovinato, dato che, di lì a poco, sarebbe stata pubblicata
la nuova edizione del Messale Romano contenente tre nuove preghiere eucaristiche derivate dalle antiche anafore della Chiesa. Dopo 1700
anni il Canone romano cessava di essere l’unica preghiera eucaristica
della nostra liturgia. Nei Praenotanda del messale, poi, la preghiera
eucaristica veniva definita come culmine di tutta la celebrazione1 .
Si trattava di un evento epocale e quindi c’erano tutte le ragioni
per avere un corso che illustrasse questo fatto. Ma non si trattava solo
di questo. Infatti la Costituzione liturgica del Vaticano II aveva stabilito
un principio interessante per la partecipazione attiva dei fedeli alla
liturgia. La partecipazione attiva deve avvenire «per ritus et preces»2 ,
ossia attraverso i principali riti e preghiere. È la prospettiva pastorale,
dunque, che impone una particolare conoscenza della celebrazione
liturgica in modo che la partecipazione attiva sia viva e fruttuosa. Se
non c’è una profonda conoscenza di questo momento della messa,
ossia della preghiera eucaristica, si rischia che questa preghiera sia
soltanto uno dei tanti momenti della messa e non il momento culminante; in questa prospettiva si rischierebbe di considerare la preghiera
eucaristica soltanto come il contenitore della consacrazione. Un pericolo decisamente reale anche perché c’era un illustre precedente in
materia, dato che Tommaso d’Aquino considerava il canone romano
come una serie di preghiere capaci di contornare il modo devoto la
consacrazione. Ecco infatti come sia esprime a proposito del prefazio:
«primo excitatur populus ad devotionem in praefatione»3 , di cui non
1 «A questo punto ha inizio il momento centrale e culminante di tutta la celebrazione,
la Preghiera eucaristica, ossia la preghiera di azione di grazie e di santificazione» (Ordinamento generale del Messale romano, Conferenza episcopale italiana - Libreria editrice
vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 78).
2 Sacrosanctum concilium, n. 48.
3 TOMMASO D ’AQUINO , Summa theologiae, Pars III, q. 83, a. 4, corpore e, in aggiunta, cf.:
ad 1um, ove si dice che ciò che venne aggiunto alla consacrazione serviva a preparare
Liturgia
21
avvertiva il tema, che è l’azione di grazie. Per Tommaso, dunque, la preghiera eucaristica o canone romano era solo il contenitore adeguato
della consacrazione.
Con un corso di questo genere, ossia un corso sulle anafore, ci si
deve chiedere come rapportarsi al pensiero di Tommaso d’Aquino
che, in materia, presenta particolari difficoltà.
Ad esempio. L’antica liturgia hispanica e gallicana, definendo la celebrazione eucaristica in modo sacrificale, stabilisce che Gesù, nell’ultima cena, istituì l’eucaristia ossia la forma dell’eucaristia, intendendo
con questo termine la struttura liturgica della celebrazione. Successivamente, soprattutto in Tommaso d’Aquino, al Concilio di Firenze e nella
teologia neoscolastica, il termine forma designerà le parole del Signore
sul pane e sul calice che vengono definite come parole consacratorie.
Senza queste parole non ci sarebbe la forma dell’eucaristia e, quindi,
non ci sarebbe la consacrazione. Ebbene la storia ci insegna che il
racconto dell’ultima cena, con le cosiddette parole consacratorie, è
entrato nella preghiera eucaristica solo alla fine del quarto secolo, in
Oriente, mentre il Canone Romano lo ha recepito molto prima, forse
all’inizio del quarto secolo, ma anche qui si tratta di un testo avventizio.
Se fosse vero il pensiero tomista, ne seguirebbe che non ci sono
state messe ‘valide’ prima del quarto secolo. Ma c’è molto altro. Ad
esempio, Tommaso d’Aquino stabilisce che la forma dell’eucaristia,
per essere consacratoria, deve essere diretta alla materia4 . Ebbene,
nella messa, la preghiera eucaristica e l’intero racconto dell’istituzione
sono diretti a Dio Padre e non al pane e al vino. Ne seguirebbe che,
se questa concezione fosse vera, non ci sarebbe mai stata nessuna
messa ‘valida’ e neanche le messe di oggi lo sarebbero.
il popolo che faceva la comunione: «Alia vero necesse fuit addere ad praeparationem
populi sumentis, ut dictum est».
4 Tommaso, riprendendo l’argomento delle oppositiones, si chiede come vengano
dette le parole consacratorie di Cristo, recitativamente o significativamente: «. . . tota
ista locutio sumitur materialiter, cum recitative proferatur; recitat enim sacerdos Christum dixisse, Hoc est corpus meum. Sed hoc stare non potest. Quia secundum hoc,
verba non applicarentur ad materiam corporalem praesentem, et ita non perficeretur
sacramentum, dicit enim Augustinus, super Ioan. accedit verbum ad elementum et fit
sacramentum» (Summa theologiae, Pars III, q. 78, a. 5, corpore). Per Tommaso, dunque, le
parole della forma debbono essere dirette alla materia. Ecco altri testi a conferma: «Sed
sanctificatio sacramenti non fit nisi per hoc quod verba formae ordinantur ad materiam»
(Super Sent., lib. 4 d. 8 q. 2 a. 1 qc. 4 arg. 1). «Quidam enim dicunt, quod hoc pronomen
hoc nullam demonstrationem facit, quia sumitur materialiter, cum verba illa recitative a
sacerdote proferantur. Sed hoc non potest stare: quia secundum hoc verba illa nullum
ordinem haberent ad materiam praesentem, et sic non fieret sacramentum. Augustinus
enim dicit: accedit verbum ad elementum, et fit sacramentum» (Super Sent., lib. 4 d. 8 q.
2 a. 1 qc. 4 ad 1um).
22
Liturgia
Questi sono solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero fare,
ma già qui si vede la differente impostazione di un trattato che tenga
conto della storia della liturgia, dato che ci sono delle preghiere eucaristiche della Chiesa antica, anzi, tutte fino agli inizi del quarto secolo,
che non hanno il racconto dell’ultima cena con le parole che noi
definiamo consacratorie. La più famosa di queste antiche preghiere
eucaristiche è l’anafora degli Apostoli Addai e Mari, in uso ancora
oggi nella Chiesa Assira d’Oriente, ed è stata riconosciuta valida a
tutti gli effetti in ordine all’ospitalità eucaristica dei cattolici, da un documento della Santa Sede dell’anno 2001 approvato esplicitamente
da Giovanni Paolo II5 . Questo testo era particolarmente interessante
non solo per se stesso, come testimone di un’antica tradizione liturgica
ma anche perché il Cœtus X – la commissione preposta alla redazione
delle nuove preghiere eucaristiche del Messale Romano – in un primo
momento aveva pensato a questa preghiera eucaristica come modello esemplare per preparare un’anafora molto semplice per i giorni
feriali.
5. Dopo aver detto le ragioni per le quali era opportuno che l’insegnamento della teologia dei sacramenti fosse affidata a un liturgista,
bisogna sottolineare fortemente che ci sono altre ragioni in base alle
quali tale insegnamento andrebbe affidato a un teologo. Il sacramento, infatti, non è un rito come tutti gli altri studiati dall’antropologia. Esso
è dotato di una funzione e di un’efficacia invisibile, irriducibile al rito,
che deve essere oggetto di un’indagine teologica propriamente detta, con il metodo della teologia sistematica e non certo con il metodo
della storia di riti o della storia della Chiesa. Inoltre è proprio la pluralità
di liturgie e di forme rituali, pur nell’unica e identica sacramentalità, a
esigere un metodo che sappia trascendere le differenze per andare all’unico typos trasmesso da Cristo o, per usare un linguaggio scolastico,
5 TAFT R. F., Mass without the Consacration? The Historic Agreement on the Eucharist
betwen the Catholic Church and the Assyrian Church of the East Promulgated 26 October 2001, (Annual 2002 Paul Wattson - Lurana Whithe Lecture at the Centro pro Unione,
Rome, March 20, 2003), «Worship», 77 (2003) 482-509; I DEM, Messa senza consacrazione?
Lo storico accordo sull’eucaristia tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira d’Oriente
promulgato il 26 ottobre 2011, «Divinitas», Nova Series 47 (2004) 75-106 (numero speciale);
cf. anche E. M AZZA, «Le récent accord entre l’Église chaldéenne et l’Église assyrienne
d’Orient sur l’Eucharistie», in: C. B RAGA - A. P ISTOIA (édd.), Les mouvements liturgiques.
Corrélations entre pratiques et recherches, Conférences Saint-Serge. 50e Semaine d’études Liturgiques. Paris, 23-26 juin 2003, (= Ephemerides liturgicae. Subsidia 129), CLV Edizioni liturgiche, Roma 2004, pp. 205-215; I DEM, «Due differenti concezioni del racconto
dell’istituzione: ‘Consacrazione’ o ‘Trasmissione’ del typos dell’eucaristia», in: C. G IRAUDO
(ed.), La genesi anaforica del racconto istituzionale alla luce dell’anafora di Addai e
Mari, Roma Pontificio Istituto Orientale - Pontificia Università Gregoriana, 25-26 Ottobre
2011, Roma 2013, in stampa.
Liturgia
23
per andare all’unica volontà di Cristo istitutore. In questo, è il teologo a
essere avvantaggiato.
A ben vedere, non ci sono argomenti cogenti per decidere la
questione in un senso o nell’altro ossia se sia meglio affidare i corsi di
sacramentaria a un liturgista o a un sistematico. Da allora la questione
è rimasta la stessa e si continua a discutere se sia meglio l’una o
l’altra scelta. Nondimeno, oggi c’è una netta preferenza per il teologo
sistematico. La spiegazione è presto detta; la preferenza per il liturgista
si basava sulla presunzione che egli conoscesse meglio di chiunque
altro lo sviluppo storico di riti, ma oggi questo è sempre meno vero
dato che i liturgisti hanno lentamente abbandonato gli interessi storici
per rivolgersi alla spiritualità che viene colta soprattutto nei gesti e
nelle parole del rito capaci di generare un autentico valore estetico e
poetico. Al di là di ogni semplificazione, infatti, si deve riconoscere che
la cosiddetta spiritualità liturgica è più tributaria dell’estetica del rito
che del contenuto ontologico del sacramento. È ragionevole, dunque,
che oggi la teologia sacramentaria sia appannaggio del teologo
piuttosto che del liturgista. Ciò che conta non è questo; ciò che conta
è la base storicamente corretta della trattazione e la storia dei riti
liturgici oggi è sufficientemente diffusa in modo che anche il teologo vi
possa ricorrere.
6. Il corso sulle preghiere eucaristiche, o anafore, era un corso difficile. Lo sapevo benissimo, se non altro perché ero stato testimone di
un episodio a proposito di questo corso tenuto a Roma all’Università
gregoriana, dal gesuita Louis Ligier, un grande esperto in materia. Un
nostro compagno di studi, Luigi Serenthà, aveva frequentato questo
corso e all’esame non aveva riportato un punteggio molto alto, lui che
era molto attento e diligente e, come si vide poi, uno studioso di vaglia.
A chi gli obiettava che era stato penalizzato agli esami avendo scelto
un corso troppo difficile, egli rispondeva di averlo voluto frequentare
per imparare, anche se era un corso difficile, perché quello era un
corso in cui c’era veramente molto da imparare. Certo, l’argomento
era veramente difficile ma c’era molto da imparare dalla lettura di
quegli antichi testi anaforici. Ricordo che il Padre Ligier aveva scritto un
articolo in La Maison-Dieu sull’origine dell’eucaristia, argomentando in
base all’origine e alla genesi delle anafore: questo articolo era stato
portato a Paolo VI come documentazione per la riforma del messale
che introduceva le nuove preghiere eucaristiche. Paolo VI aveva letto
tutto questo articolo, ma con grande fatica perché effettivamente l’argomento era molto complesso e ostico. Era il domenicano Pierre-Marie
che ricordava questo episodio, dicendo tutta la sua ammirazione per
24
Liturgia
Paolo VI che si era cimentato con tale materia6 .
È vero che il padre Ligier scriveva in modo difficile, ma la vera
difficoltà consisteva nel fatto che le fonti utilizzate per trattare di tale
argomento, erano fonti sconosciute pressoché a tutti. La difficoltà,
cioè, non consisteva nell’argomento o nell’argomentazione, bensì
nell’ignoranza delle fonti che stavano alla base del trattato.
7. Anche a me, che tenevo il corso sulle anafore nel nostro Studio
teologico interdiocesano, capitò di dovermi scontrare con il problema.
In altri termini, era un corso troppo difficile. Mi si obiettava che non si
poteva tenere un corso così specialistico in un istituto diocesano che,
quantunque affiliato alla facoltà teologica di Sant’Anselmo, era pur
sempre un istituto seminaristico e non universitario. Era raro che un’annata si concludesse senza che io sentissi le rimostranze per un corso
troppo difficile che non si capiva a che cosa potesse servire. Non metto
in dubbio che le rimostranze fossero anche nei confronti del docente
che, evidentemente, poteva avere delle carenze didattiche. Debbo
dire che mi è sempre dispiaciuto vedere come un corso di tale importanza non fosse debitamente apprezzato. Alla fine i conti dovevano
arrivare al pettine e così fu alla fine del corso del 1978 o 1979 quando nella riunione comune dei vescovi e delle autorità accademiche
vennero palesate le rimostranze contro il corso sulle anafore eucaristiche. Venni chiamato da monsignor Gilberto Baroni che mi espresse
tali difficoltà e mi chiese, con la sua consueta delicatezza, che cosa
volevo fare. Egli lasciava a me ogni decisione in merito e io decisi di
sospendere il corso sostituendolo con la lettura di «Principi e norme
per l’uso del messale Romano», ossia dell’introduzione del messale,
che fino a quel momento avevo lasciato alla personale lettura degli
studenti. Il corso, dunque, fu soppresso. Nel 1979 la Congregazione per
l’educazione cattolica, competente per gli studi teologici nei seminari
e nelle facoltà teologiche, promulgò una nuova Ratio studiorum che
suggeriva che il corso di liturgia potesse, se possibile, avere anche una
trattazione specifica sulle anafore e eucaristiche. Ecco il testo della
Congregazione:
«Così, per quanto è possibile, si premetta la presentazione dell’orazione giudaica, come si faceva soprattutto nella
sinagoga, nelle case private e nella celebrazione pasquale
al tempo del Cristo, in modo che risalti meglio sia la somiglianza sia la novità della preghiera cristiana. Si descriva
6 L. L IGIER , De la cène de Jésus à l’anaphore de l’Église, «La Maison-Dieu», 87 (1966)
7-49.
Liturgia
25
poi l’assemblea liturgica dell’età apostolica. È desiderabile
che venga aperto agli alunni l’adito alle fonti liturgiche dei
primi secoli (per es.: la Didachè, s. Clemente Romano, s.
Giustino, s. Ireneo, Tertulliano, Ippolito Romano, s. Cipriano,
le Didascalie e le Costituzioni Apostoliche, la Peregrinazione di Egeria), ai testi scelti dalle anafore primitive e dalle
catechesi dei Padri»7 .
In questo testo non solo si suggerisce l’esistenza di tale corso, che
noi avevamo sempre fatto, ma anche si delinea il programma ossia
la traiettoria da seguire partendo dai testi del Giudaismo per passare
ai primi testi cristiani e per arrivare ai grandi testi delle preghiere eucaristiche orientali e occidentali. A questi testi andavano aggiunte
le più antiche catechesi che noi, in questo Istituto, studiavamo nel
corso sull’iniziazione cristiana. Il progetto delineato dalla Ratio studiorum, coincideva esattamente con il programma del nostro corso sulle
anafore trattato in questo Istituto. Anzi, ricordo che, in alcuni momenti,
i testi delle catechesi patristiche venivano trattati congiuntamente
da Giovanni Costi, nel corso di catechetica, e da me, nel corso sul
battesimo.
Tuttavia le difficoltà degli studenti andavano ottenute nel dovuto
conto e, pertanto, il corso sulle anafore non venne più attivato. Il corso
restò silente, anche se qualche suo tema, o spezzone, confluì nel corso
di teologia dell’eucaristia che tenevo in quegli anni e che tenni fino al
compimento del settantesimo anno di età.
8. C’è un’ultima questione alla quale vorrei accennare: si tratta
della questione dell’anamnesi con la quale abbiamo aperto questo
discorso. Il fatto che la mia tesi si fosse arenata proprio sulla questione
centrale ossia la questione dell’anamnesi, non significava che questa categoria teologica non dovesse essere al centro del mio corso
sull’eucaristia dato che era la dottrina in voga in quel momento, professata assolutamente da tutti. Infatti se andiamo a leggere il libretto
degli studenti di quell’epoca, laddove viene presentata la sintesi di
ogni corso, io riassumevo dicendo che l’eucaristia era l’anamnesi della
morte e resurrezione del Signore. Queste poche righe sintetiche che
presentavano il corso sull’eucaristia, sono rimaste immutate negli anni.
Lentamente, anno dopo anno, il mio corso subiva dei mutamenti in
base ai nuovi dati che introducevo ma la presentazione sintetica nel
libretto degli studenti rimase la stessa. Effettivamente io continuavo a
7 S ACRA C ONGREGAZIONE PER L’E DUCAZIONE CATTOLICA , Istruzione per la formazione
liturgica nei seminari, Roma 1979, n. 26.
26
Liturgia
cercare elementi che dimostrassero questa dottrina che era entrata in
vigore in quegli anni e, anche se non trovavo nulla, restavo convinto
della bontà della dottrina che tutti in quel momento professavano. È
chiaro quindi che non potevo e non dovevo cambiare la presentazione sintetica del corso anche se, alla fine, i contenuti del corso non
erano più coerenti con quella presentazione.
9. A proposito dell’eucaristia come anamnesi, c’è un episodio che
ricordo in modo molto vivo anche oggi, che testimonia questa mia
incessante volontà di trovare finalmente delle conferme a questa dottrina. Accadde proprio qui, qui a pian terreno davanti all’ingresso del
seminario mentre il professor Camillo Ruini e io ci dirigevamo verso l’ascensore; avevo appena letto da qualche parte che anche Tommaso
d’Aquino professava la dottrina dell’eucaristia come anamnesi e ne
ero felicissimo dato che, almeno quell’epoca, Tommaso era alla base
dei vari trattati teologici. Ruini conosceva molto bene la dottrina di
Tommaso sia per i suoi studi precedenti sia per la sua ricerca per la tesi
di dottorato. Quale occasione migliore per sincerarmi della posizione di
Tommaso d’Aquino a proposito dell’eucaristia come anamnesi. Gliene
parlai, il tempo di arrivare all’ascensore e di aspettare che l’ascensore
arrivasse. Con trepidazione gliene parlai; con trepidazione dato che
per me Ruini era un punto di riferimento, un’autorevole maestro; con
trepidazione perché il suo parere, per me, valeva in modo decisivo.
Devo dire che il professor Ruini era stato mio insegnante di filosofia, al
liceo, ed era stato lui che mi aveva insegnato a pensare. Sono cose
che non si dimenticano anche quando, poi, si diventa colleghi. Chi ti è
stato maestro una volta, conserva sempre l’autorevolezza del maestro.
Questo era il mio atteggiamento di allora verso Ruini e non è certo
cambiato oggi. Allora, in quel lontano giorno, eravamo dunque davanti all’ascensore e io gli avevo già esposto il mio quesito. Mentre si apriva
la porta dell’ascensore ed entravamo egli , scuotendo la testa, mi disse
molto semplicemente che in Tommaso questa dottrina non esisteva.
Rimasi esterrefatto. Com’era possibile? Tutti, fino a quel momento, mi
avevano insegnato il contrario, ossia che anche Tommaso d’Aquino
professava la dottrina dell’eucaristia come anamnesi. Poteva essere il
contrario?
La cosa tornò attuale anni dopo quando, nel 1989-1990, fui chiamato all’Università di Lovanio, a Louvain-la-Neuve, come Visiting Professor
al Collège Erasme che era un Istituto di storia medievale. Tenni una serie
di lezioni su Tommaso d’Aquino e la sua concezione dell’eucaristia; per
prepararmi lessi tutta una serie di articoli sull’argomento, tutti schierati
per la concezione anamnetica dell’eucaristia. Ma esaminando bene
Liturgia
27
la questione, mi resi conto che gli argomenti utilizzati per sostenere
questa tesi erano decisamente deboli anzi tradivano una precisa concezione ideologica, sconfessata dalle citazioni stesse di Tommaso. Mi
fu subito chiaro che Tommaso non aveva affatto questa concezione
che gli autori in questione si sforzavano di attribuirgli con lo scopo
di mostrare l’attualità di questo autore anche dopo la Costituzione
liturgica del Vaticano II. Fu in quegli anni, dunque, che mi resi conto
che aveva avuto ragione Ruini con quella frase che mi aveva detto
davanti all’ascensore; in Tommaso d’Aquino non c’è una concezione
anamnetica dell’eucaristia.
10. Uno dopo l’altro, tutti gli autori che dovevano costituire l’ossatura
di un trattato sull’eucaristia, mostravano di non avere quella concezione anamnetica che si voleva attribuire loro. Nondimeno, stante il
prevalente pensiero di quell’epoca, io continuavo a insegnare questa
interpretazione del mistero eucaristico e di conseguenza non cambiai
mai la presentazione del mio corso nel libretto degli studenti. Nel suo
insegnamento di filosofia, Ruini aveva una volta spiegato che non è
difficile trovare i punti deboli di una teoria o di una dottrina; tuttavia,
non è il caso di demolire teorie o dottrine pregresse se non c’è una
dottrina migliore per sostituirle. È un insegnamento che mi è sempre
stato caro.
11. Se dovessi scrivere oggi un breve profilo del corso sull’eucaristia,
per il libretto degli studenti, non potrei più parlare dell’eucaristia come
anamnesi. Quantunque i miei studi in materia risalgano ormai agli anni
ottanta, solo di recente sono riuscito a mettere a fuoco una dottrina interpretativa diversa da quella anamnetica: la tipologia biblica
applicata alla liturgia. A questo punto, sì, io potrei cambiare la presentazione del corso nel libretto degli studenti ma gli anni sono trascorsi –
or non è più quel tempo e quell’età! – e non professo più quel corso
per raggiunti limiti di età. E quindi la mia dottrina sulla tipologia biblica
applicata alla liturgia, non entrerà nel corso sull’eucaristia di questo
Istituto dato che non sono più io l’incaricato. Vedranno i miei successori
se sarà il caso di proseguire con la vecchia concezione anamnetica
dell’eucaristia, o di adottare la concezione tipologica come ‘altro’
metodo interpretativo, un metodo che è basato tanto sulle Scritture
quanto sulla prima patristica.
12. Per finire, debbo dire che, per me, l’appartenenza a questo
Istituto teologico è stata un grande impulso allo studio e alla ricerca.
Ora abbiamo ceduto il testimone. Dato che la conoscenza cresce
per accumulo sulle conoscenze precedenti, la cessione del testimone
ai nuovi insegnanti esprime la speranza che l’intenso lavoro di tutti
28
Liturgia
quegli anni fecondi possa servire di stimolo, in modo che questo Istituto
possa continuare ad essere un cenacolo di riflessione e di apprendimento, coerente con quella tradizione, culturale e pastorale a un
tempo, cui ho avuto l’onore di appartenere.
Filosofia
Paolo Losavio
Nel caso in cui lei abbia contribuito alla strutturazione dello STI, quali
sono state le linee ispiratrici che hanno portato alla sua nascita?
Ero allora Vice Rettore del Seminario di Modena e condussi in prima
persona per la nostra diocesi il cammino che portò alla formazione dello studio teologico interdiocesano di Re. Se la memoria non mi inganna,
gli incontri si protrassero per alcuni mesi. I primi del 1968. L’esperienza
comune iniziò infatti col nuovo anno scolastico 1968-9. L’operazione,
che portò il Seminario di Modena a rinunciare alla propria sede, certo
non fu facile: è comprensibile soltanto nel clima di rinnovamento di
quegli anni, i primi dopo la fine del Vaticano II, quella stagione singolare, che non può essere dimenticata, caratterizzata da speranze
e grandi entusiasmi. Il punto di riferimento fu ovviamente il decreto
“Optatam totius”, ma inserito in tutto il contesto dell’insegnamento del
Concilio. Il decreto sulla “Formazione sacerdotale”chiedeva la “revisione degli studi ecclesiastici” dei Seminari. La messa in comune dei
due seminari permise un più ricco e più preparato corpo insegnanti.
Molti corsi conobbero un vero salto di qualità. L’ elemento di maggiore
novità che subito fu possibile mettere in atto fu il maggiore spazio dato
30
Filosofia
alla S. Scrittura “anima di tutta la teologia” (come la definisce al n.16,
la Optatam totius), il cui primato doveva divenire la molla per il rinnovamento di tutti gli studi di teologia. La lettura continuata della Scrittura
nel primo biennio della teologia permetteva un primo approccio alla
Parola che doveva dare la possibilità fin dall’inizio di porre la Scrittura
alla base dello studio delle diverse branche della teologia. Veniva rimandato invece al triennio lo studio esegetico dei Libri Sacri. Anche la
liturgia conobbe un vero rinnovamento: non più soltanto uno studio di
tipo rubricale, ma l’approfondimento del suo senso teologico. A partire
dal 1972 fu introdotto il corso di Patristica che rendeva possibile nel
corso teologico un più curato e indispensabile studio dei Padri della
Chiesa. Infine, dal punto di vista metodologico, divennero caratterizzanti l’attenzione alla dimensione storica dei problemi, l’introduzione
dei corso speciali, dei seminari, delle esercitazioni e delle tesine.
A partire dalla disciplina da lei insegnata, quali sono state le novità
– di metodo e di contenuto – che hanno voluto esprimere gli spunti di
rinnovamento del Vaticano II?
Nei primi anni del post-Concilio si respirava talvolta un’aria di ridimensionamento della filosofia negli studi teologici. Ma questo non
avvenne a Reggio e in ogni caso l’impressione via via si è dileguata
negli anni successivi e soprattutto con l’enciclica di Giovanni Paolo
II “Fides et ratio”. Anche per quanto riguarda la filosofia, fu notevole
il ripensamento e quindi il rinnovamento dell’insegnamento. Oltre alla citata “Optatam totius” non si potè non avere presente a questo
proposito la costituzione pastorale “Gaudium et spes”.
Le maggiori novità introdotte nello STI sono state queste:
• Una prospettiva che aiutasse gli studenti a percepire come centro unificante di ogni indagine filosofica la domanda sull’uomo,
proprio sulla linea della “Gaudium et spes”che nel Proemio dice:
“E’ l’uomo dunque, ma l’uomo singolo integrale , nell’unità di
corpo e di anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà... il
cardine di tutta la nostra esposizione” Tale prospettiva permetteva
di attivare nello studente un più vivo interesse e al suo impegno,
una più chiara dimensione esistenziale.
• Una concentrazione attorno a tre temi fondamentali: uomo, mondo, Dio (sono i tre temi indicati dalla “Optatam totius” n. 15) Da
qui la scelta dei tre corsi fondamentali: antropologia filosofica,
filosofia della natura, teologia filosofica.
• Il superamento della visione tendenzialmente dualista che si era
Filosofia
31
imposta a partire dall’epoca moderna che aveva chiamato “Psicologia” il trattato sull’uomo, con la conseguente, almeno implicita, riduzione dell’uomo alla sua sola anima. Con l’Antropologia
si è recuperata l’essenziale corporeità dell’uomo. Corporeità, ma
non riducibilità dell’uomo ad essa: corporeità animata dallo spirito. Quindi spirito, ma spirito che si realizza nella corporeità. L’uomo,spirito incarnato. E la fondamentale unità corporeo-spirituale
dell’uomo (cfr. “Gaudium et spes” cap.1: La dignità della persona
umana), che fa di lui un essere finito, ma sempre aperto all’infinito.
E’ la miseria e la grandezza dell’uomo, indissolubilmente unite.
Nello STI fu così recuperata una visione dell’uomo profondamente
rinnovata.
• Il recupero dell’unità tra scienza dell’ente in quanto ente (ontologia) e scienza di Dio. Tale unità si era rotta con la cosiddetta
seconda scolastica (Suarez) nel XVI secolo, e divenuta definitiva
con Christian Wolff. In tal modo invece l’ontologia riacquista tutto
il suo significato; senza l’affermazione di Dio, infatti, resta come
sospesa a mezz’aria; non la si comprende pienamente se non
diventando teologia, come avevano intuito sapientemente Aristotele e dopo di lui S.Tommaso. Viceversa la possibilità di una
affermazione di Dio che non sia ancorata alla metafisica non
può che riuscire vana e inconsistente. Fu così recuperata con la
Teologia filosofica una riflessione su Dio rinnovata, profondamente
radicata nell’essere. Ma insieme doveva rimanere viva l’attenzione sulla problematica umana, essendo sempre il problema
Dio problema profondamente esistenziale, che chiama in causa
prima di tutto l’uomo.
• Uno studio attento dell’ateismo che la Gaudium et spes definisce
fenomeno “fra i più gravi del nostro tempo”, che “va esaminato
con diligenza ancora maggiore” (n.19). Ampio spazio è stato
dedicato alla storia dell’ateismo, in particolare alle forme e alle
cause dell’ateismo contemporaneo e ad una loro valutazione.
• Una attenzione particolare alla storia del pensiero e quindi un
recupero della dimensione storica dei problemi, come condizione per coglierli in tutta la loro profondità. In particolare si sono
introdotti corsi di filosofia contemporanea: in un primo momento
furono preferiti il marxismo e l’esistenzialismo; poi successivamente l’Ermeneutica, il Pensiero debole e il Problema comunicativo.
Questo risponde ad una preoccupazione già presente in Optatam totius e ancora più fortemente affermata nella Gaudium et
spes: la necessità cioè di inserire il pensiero cristiano dentro alla
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Filosofia
cultura e al dibattito attuale e di instaurare un dialogo, ineliminabile, con l’oggi in cui il Signore ci chiama a vivere. L’impegno
del dialogo dopo il Concilio non può non rimanere sempre una
priorità. E tale deve essere anche l’insegnamento della filosofia
nei Seminari.
In che misura questo rinnovamento teologico dello STI non si è limitato al piano intellettuale, ma ha voluto riferirsi alla formazione pastorale
degli studenti come futuri presbiteri?
Certamente questo era un obiettivo che ci si era proposti, richiesto
d’altra parte dalla stessa “Optatam totius”. Penso anche che ciò sia
avvenuto per le singole materie con buoni risultati. Questa volontà si
è accentuata quando fu introdotto il “Sesto anno”. Resta comunque
un obiettivo prezioso da perseguire, per dare pieno significato unitario
alla formazione dei futuri presbiteri.
Quali collaborazioni e quali difficoltà si sono riscontrate nel rapporto
tra STI, formazione nei seminari e pastorale della Chiesa locale?
Un primo tentativo di totale unificazione dei due seminari che riguardava non solo gli studi, ma anche la vita comune, risultò non priva
di difficoltà. La convivenza durò due anni. Fu soprattutto per volere di
Mons. Baroni che questa fu interrotta. Ciò fu giustificato dalle tensioni
che caratterizzavano quegli anni, che anche i giovani seminaristi respiravano e che rendevano non facile il cammino formativo. Con la
ripresa autonomia della vita dei seminari veniva meglio salvaguardata
la specificità di ogni Chiesa locale. Ciò portò come costo la necessità
dei viaggi e del tempo necessario per essi da parte dei seminaristi fuori
sede.
Lungo gli anni del suo insegnamento ha riscontrato dei cambiamenti, positivi o meno, nella proposta dello STI? Quali aspettative si
sono concretizzate? Quali invece sono rimaste sulla carta e perché?
Sia pure con qualche difficoltà e rallentamento, inevitabile nel cammino, non riscontrai grossi problemi per la realizzazione degli obiettivi
che ci si era proposti. Come in ogni cammino, è sempre possibile, anzi
doveroso, un continuo sforzo per migliorare. In particolare io personalmente non sono riuscito a sollecitare uno studio più partecipato e
personale degli alunni. Attribuisco questo (ma forse mi inganno) alla
Filosofia
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stessa difficoltà della materia, la filosofia, per la quale uno studio personale richiede,come condizione previa, una conoscenza della materia
che solo un corso istituzionale può dare.
Lungo gli anni del mio insegnamento noto solo due cambiamenti.
La soppressione del corso di Logica avvenuta con l’anno scolastico
1976-7 e nel corso dell’anno scolastico 1986-7 la ricomparsa dell’ontologia, distinta dalla teologia filosofica. Quanto alla prima resto abbastanza convinto della utilità formativa della logica classica e ritengo
inoltre importante oggi l’integrazione in essa della logica matematica,
diventata strumento indispensabile nella cultura odierna.. Non ricordo
per quale motivo fu introdotta di nuova la Ontologia. Forse perchè alcune questioni di Metafisica generale non potevano essere affrontate
in Teologia filosofica. Tale difficoltà fu superata quando i più recenti
documenti del Magistero sia della CEI (Regolamento degli studi teologici del 2006), sia della Congregazione per l’educazione cattolica
(Decreto di riforma degli studi ecclesiastici di filosofia del 2011), hanno
previsto un unico corso di “filosofia dell’essere e teologia filosofica”.
Non è più solo teologia filosofica, ma una piena integrazione delle due
prospettive, senza pericolo che vengano trascurate alcune importanti
questione più generali della filosofia dell’essere. Questo ha comportato
un alleggerimento del corso di teologia filosofica, che avviene con
l’inserimento di “Filosofia della religione”, anch’esso utilmente previsto
nei documenti sopra citati. Così è avvenuto allo STI a partire dagli anni
scolastici 2007-2008 e 2008-2009.
Alla luce del cammino fatto, quali intuizioni che hanno dato vita
allo STI ritiene tuttora valide e quali nuovi compiti invece dovrebbe
assumersi lo STI e la teologia in prospettiva futura?
A mio parere si deve dare un giudizio sostanzialmente positivo dello
STI e della sua ricerca di fedeltà al Concilio Vaticano II, anche se non
sono mancati lungo il cammino momenti di difficoltà e di tensioni. Le
intuizioni che hanno dato vita allo STI e che ritengo tuttora valide sono:
l’importanza della S.Scrittura, della Patristica, dello sviluppo storico dei
problemi, della attenzione data alla cultura di oggi.
Per il futuro consiglio queste attenzioni: una maggiore collaborazione tra gli insegnanti delle materie affini, una maggiore stimolazione
della partecipazione attiva degli alunni, uno stimolo sempre da rinnovare per la ricerca e il dialogo. Ci si può domandare in fine se sia
possibile una presenza più significativa e propositiva dello STI all’interno
delle nostre chiese locali, individuandone modalità e strumenti.
Teologia pastorale e catechetica
Giovanni Costi
Come premessa, posso assicurare che, come Insegnante dello S.T.I.
a partire dal 1970, fosse presente una forte istanza di rinnovamento del
piano di studio, anche in dimensione metodologica, per un’adeguata
ispirazione allo spirito e ai documenti portanti del Concilio Vaticano II.
Nel 1970 il Corso costituiva una novità nell’ordinamento del piano
organico dello S.T.I.
Mi sembra che possano essere richiamate le seguenti scelte operative:
• Il Corso di Teologia Pastorale Catechetica si fondava su una base
teoretica di teologia pastorale, con una proiezione particolare
di sottolineatura dei dati costitutivi della teologia dell’annuncio
della fede cristiana. Pur alla presenza di richiami pratici, il Corso
non mirava ad una operatività catechistica, in situazione.
• Il Corso doveva necessariamente riconoscere rapporti e interazioni con tutte le discipline ispirate alla Rivelazione cristiana: Sacra
Scrittura – Tradizione della fede – Liturgia – Storia della Chiesa . . .
e inoltre con discipline delle Scienze umane, in particolare con la
Sociologia, la Psicologia, e la Pedagogia . . .
• Il Concilio Vaticano II offriva, attraverso i documenti solenni del
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Teologia pastorale e catechetica
•
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•
•
suo magistero (L.G. - D.V. - S.C. - G.S.), le strutture portanti di
impostazione del Corso; altre istanze e precisazioni provenivano
dagli altri documenti del Concilio.
Soprattutto il Corso ha beneficiato del progetto teoretico dei
vescovi italiani [il Rinnovamento della Catechesi (1970-1983)], che
ha permesso di dare al Corso un suo preciso volto tematico sulla
missione dell’annuncio della fede da parte della Chiesa, sulla
centralità cristologica di tale annuncio, sulle fonti, sui compiti,
sui soggetti della catechesi e, in più, sulle modalità della stessa
nella pastorale della Chiesa locale, sui metodi e sugli operatori
catechisti.
Negli anni il Corso di Catechetica ha potuto riferirsi al progetto
operativo dei Catechismi della C.E.I., dal Catechismo dei Bambini
al Catechismo degli Adulti. In merito il Corso assumeva una sua
fase di pastorale pratica.
In alcuni anni scolastici, in modo più sistematico, sono stati studiati
e sperimentati, attraverso seminari di studio e di ricerca, i problemi
catechistico-pastorali per i pre-adolescenti, i giovani . . . e per
l’annuncio liturgico della omelia eucaristica.
L’Ufficio Catechistico diocesano, di cui ero responsabile, unitamente al prof. don Gianni Gariselli, ha potuto in parte beneficiare delle ricerche e delle proiezioni operative dei corsi dello
S.T.I. Sostanzialmente mi sembra di poter affermare che buona
parte degli studenti risultavano interessati e implicati dalle istanze del corso; ne è prova un numero consistente di tesine per il
bacellierato su tematiche attinenti.
Fino alla fine degli anni Ottanta, del secolo scorso, si poteva
riscontrare un certo coinvolgimento diretto dei Seminari delle Diocesi in ordine alla formazione dei seminaristi teologi in merito alla
pastorale operativa. Sono state sperimentate verifiche e accompagnamento, da parte dei responsabili dell’Ufficio Catechistico
diocesano, sulle sperimentazioni pratico-pastorali dei seminaristi
nelle parrocchie.
Come suggerimento proporrei a tutto lo S.T.I. di prevedere una
maggiore presenza diretta nella cultura della città e della Diocesi. In merito vedrei con simpatia una presenza di stimolo degli
Insegnanti dello S.T.I. nei Vicariati diocesani.
Storia della Chiesa
Giovanni Costi
Mi sembra di aver assunto il compito di Insegnante della Storia della
Chiesa nello S.T.I. nel 1985.
Ritengo di aver potuto beneficiare, per l’impostazione e la metologia dei Corsi suddetti, degli studi di Patrologia per il Corso dell’Epoca
Antica, e dei corsi preparatori alla abilitazione alla tesi di laurea presso
l’Institut Catholique di Parigi per il Corso dell’Epoca Moderna. Forse le
lezioni meglio riuscite e creative sono derivate dagli anni dei miei studi
in terra francese.
La bibliografia di riferimento per gli studenti era costituita da Storia
della Chiesa, Ed. Morcelliana, oppure dai volumi di Storia della Chiesa,
Ed. Marietti, con approfondimenti segnalati ai quattro volumi di Storia
della Chiesa di Giacomo Martina, Ed. Morcelliana. Le lezioni però
erano supportate da una lunga documentazione di testi fotocopiati,
su tematiche portanti del Corso.
Una mia preparazione personale allo svolgimento dei corsi ha avuto
un preciso riferimento nella serie dei volumi Storia della Chiesa diretti
da H. Jedin, Ed. Jaca Book.
Tutta la bibliografia indicata aveva in buona parte recepito le
istanze di rinnovamento e aggiornamento del Concilio Vaticano II.
38
Storia della Chiesa
Un certo disagio, per l’impostazione e la proposta dei corsi, consisteva nella difficoltà di cogliere gli aspetti interdisciplinari della Storia
della Chiesa con altre discipline teologiche, in molti casi direttamente
coinvolte sugli stessi problemi. Non sempre la Storia della Chiesa riusciva a dare un volto storico-situato alla Liturgia, alla Teologia sistematica,
alla Teologia pastorale, . . . per sottolineare le particolari caratteristiche
della Chiesa e della Chiesa locale, nei lunghi processi della storia.
Non sempre era possibile cogliere l’insegnamento della Storia della
Chiesa come un supporto storico concreto per la collocazione di una
particolare situazione della Chiesa stessa, a contatto e coinvolta da
vari processi politici, nazionalistici, culturali. Dato altamente significativo
in merito: la Chiesa nell’epoca della Riforma.
La trattazione delle tematiche costitutive della Storia della Chiesa
delle origini (Epoca Antica) e delle tematiche storiche della preriforma
– Riforma cattolica – Riforma protestante – Controriforma (Epoca Moderna), ritengo che abbiano potuto fornire una chiave di lettura e di
sensibilità anche per la Chiesa del nostro presente storico, impegnata
a realizzare e a vivere le prospettive di riforma del Concilio Vaticano II.
Come lato carente, nel periodo, mancava l’apertura e l’attuazione
di mirati corsi di Storia per la Chiesa locale nelle singole diocesi. In parte
oggi possono sopperire in merito i vari progetti di Storia della Chiesa
locale delle diocesi di Modena, Reggio Emilia-Guastalla, Carpi, . . .
Psicologia
Alessandro Manenti
Rientro in diocesi nel 1975 e nell’ottobre dello stesso anno inizio
l’insegnamento allo STI. I corsi che il preside Ruini mi affida sono Etica
filosofica (che insegno tuttora), Psicologia (fino al 2008), Morale della
penitenza (dal 1975 al 1994, collegato al corso di Mazza sulla penitenza), morale della vita fisica (solo per un anno). Nel 1980 (fino ad oggi)
parte il nuovo corso sulla esperienza spirituale (collegato a quello che
fu di Monari sulla spiritualità dei salmi e ora in abbinamento con quello
di Colombini). Nel sesto anno dal 1978 al 2012 insegno pastorale familiare (inizialmente con Landini) e dal 1990 al 1995 direzione spirituale e
accompagnamento. Sono preside per 2 mandati dal’95 al 2005
Inizio dopo 9 anni di studi alla Gregoriana, colmo di cultura forse,
ma certamente di entusiasmo e di umanità. Il concilio era finito da
10 anni, quindi navigavo – come tutti – sulla scia di novità che si era
infiltrata anche nei corsi che seguivo alla Gregoriana, nella facoltà di
filosofia e poi di teologia. La maggioranza dei docenti mai, in classe,
si limitava a fare il riassunto del pensiero altrui ma si lanciava in un
suo pensiero creativo che neanche nei loro libri o nei loro articoli era
possibile trovare perché da un semestre all’alto lo arricchivano e lo
rilanciavano. Professori che erano dei “mostri sacri” ma che potevi
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Psicologia
contattare, al pomeriggio, per colloqui personali. In metafisica p. Lotz
talmente coinvolgente che sembrava vedere volare in classe l’ente,
l’essere e l’essenza. P. Henrici per la storia della filosofa, e poi p. De
Finance, p. Valori, p. Selvaggi. . . . In teologia, Flick, Aklzeghy, Latourelle,
Alfaro, Martina e poi Fuks e l’indimenticabile Demmer. Nel ’71 sbarcano
da Chicago a Roma p. Rulla, p. Imoda e sr. Rydick per fondare l’istituto
di psicologia, cosa abbastanza bizzarra se teniamo conto che, in quegli
anni, psicologia voleva dire Freud, quindi pulsioni, sesso, inconscio,
ateismo e religione come nevrosi collettiva. Ma la voglia di dialogare
con il “di fuori” era grande.
E, in contemporanea, l’esperienza di 4 anni nel seminario francese e
di 5 nel collegio inglese veri e propri punti di raccolta dell’aria culturale
che in quelle chiese si respirava. Anzi fu proprio su consiglio del rettore
dell’inglese, Comac Murphy O’Connor poi cardinale di Londra che
mi iscrissi a psicologia: nei progetti del vescovo Baroni dovevo fare
teologia morale ma O’Connor venne espressamente a Reggio per
convincerlo alla psicologia, di cui mons Baroni, come me, era del tutto
ignaro di che cosa si trattasse; accettò: “mi sembra che si tratti di una
cosa utile ma tu non farti confondere la testa”.
Dico questo perché lo stesso entusiasmo di capire il mondo prima
di evangelizzarlo lo ritrovai nello STI: un corpo docente affiatato che
spingeva in avanti, ben consapvole –insieme ai rispettivi vescovi- di che
cosa volesse dire avere in diocesi uno studio teologico. Sull’orientamento di fondo, il preside Ruini fu con me molto esplicito, più preoccupato
di indicarmi quello, che i contenuti che avrei dovuto dare ai miei corsi.
Mi disse che la teologia dei seminari non doveva essere soltanto una
riflessione accademica seppur rigorosa, che, al di là dei singoli corsi
da insegnare, era importare mantenere una riflessione teologica comune e unitaria fra i docenti delle 3 diocesi coinvolte e che bisognava
tenere legata questa riflessione teologica condivisa alle esigenze delle
nostre chiese locali nel senso che doveva essere un apporto e una
garanzia di qualità per le scelte pastorali. E non furono chiacchere:
per anni i docenti dello STI hanno fatto più volte il giro della diocesi e
delle scuole di ogni livello e grado, corsi per catechisti, aggiornamento
del clero, ritiri spirituali, convegni ecclesiali, scuole per formatori della
pastorale familiare e giovanile. . . , con “pacchetti” che prevedevano,
quasi in forma monotona: Monari (Scrittura), Mazza (Liturgia), Manenti
(psicologia), Landini (morale), Costi-Gariselli (catechetica) con una
sintonia fra noi che ormai era diventata quasi automatica. Memorabili
le assemblee scolastiche sulle questioni allora emergenti circa il sesso, i
rapporti prematrimoniali, la droga. . . dove solo la maestria di Mazza ci
Psicologia
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esonerava dall’uscire spennati vivi.
In questo clima inizio i miei insegnamenti apparentemente eterogenei ma collegati fra loro da un progetto ben preciso di come “usare”
le scienze profane in uno studio addetto alle “scienze sacre” e di come pensare queste ultime anche con un utilizzo pastorale. Il corso di
psicologia esisteva già (d. Franco Marchi) ma come allora si faceva un
po’ dappertutto era un corso informativo, di solito sulle leggi dell’età
evolutiva e adolescenziale, sulle principali teorie psicologiche circa la
religione e con qualche accenno alle dinamiche di gruppo. Ma tutto
sommato, un discorso a latere del percorso teologico. Non si poteva fare diversamente dato che, negli anni ’80, parole come “integrazione”,
“accompagnamento psico-spirituale”, “antropologia della vocazione
cristiana”, “persona umana come mistero”, “mediazioni psichiche”
ecc. . . non esistevano neanche. Le riflessioni sull’ “utilizzo” della psicologia (che travalica l’approccio della psicologia della religione) per
comprendere meglio la dinamica della esperienza cristiana e la stessa
antropologia teologica erano ancora agli inizi.
Ci era chiara l’integrazione (senza confusione) di prospettive, così come affermata dal Concilio: Nella cura pastorale si conoscano
sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi della
teologia ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti
a una più pura e più matura vita di fede1 . Come si vede, la psicologia
non é vista solo in funzione di una maggiore maturità umana, né al fine
di una maggiore professionalità degli educatori né soltanto per una
maggiore specializzazione culturale, ma le si riconosce il contributo
per la maturità cristiana: vivere in maggiore profondità la sequela di
Cristo e questo attraverso un processo di integrazione progressiva fra
strutture psichiche ed esigenze oggettive poste dal messaggio rivelato.
Applicato ai nostri studenti seminaristi ciò vuol dire che senza questa
formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del
suo necessario fondamento2 .
Dunque, se il nostro STI ha fatto entrare a pieno titolo la psicologia
nell’indagine della vita di fede, il problema era come farla entrare.
Qui è stato molto feconda l’interazione con gli insegnanti di filosofia
(penso soprattutto a Losavio e a Aldini, molto attenti alla cultura con1 Gaudium et Spes, 62 (corsivo mio). Altri testi conciliari circa gli apporti delle scienze
umane allo studio della risposta umana alla divina vocazione: GS 5.52.54.62; GE 1; CD
14; OT 2. La necessità della integrazione era già stata posta nella costituzione apostolica
di Pio XII Sedes Sapientiae, cfr. AAS 48 (1956) 359.
2 E’ affermato esplicitamente nella Pastores dabo vobis al n. 43.
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Psicologia
temporanea) e con quelli di teologia (penso soprattutto a Diaco, Ruini,
Monari, Mazza, molto attenti alla mediazione del pensiero cristiano
nella cultura contemporanea). Il confronto continua tuttora. Molto
sinteticamente possiamo dire che il modo di fare entrare la psicologia
nella teologia era (ed è) quello di metterle a confronto non sui contenuti particolari ma sulle rispettive antropologie di fondo. L’oggetto di
studio – l’esperienza cristiana - è comune, la prospettiva con cui lo si osserva è diversa, ma trattandosi dello stesso oggetto ci dovrebbe essere
convergenza fra le prospettive. In altre parole, la riflessione teologica
dovrebbe stare attenta alla sua ricaduta antropologica e quella della
psicologia alla sua ricaduta teologica cosicché le due prospettive si
muovano verso un’antropologia cristiana che tenga coerentemente
e intrinsecamente uniti teocentrismo e antropocentrismo. Credo che
questo si stia tuttora facendo nello STI anche, praticamente, trattando
certi temi con la presenza dei docenti di entrambi i versanti o nelle
giornate di studio.
Qui c’è una scelta metodologica che ritengo un “fiore all’occhiello”
dello STI: rifiuta di demandare alla psicologia la riflessione sulla pratica
riservando alla teologia il ruolo della sola teoria come se alla teologia
non fosse riconosciuta la possibilità di dire o di suggerire nulla di pratico.
E viceversa, dà alla psicologia il ruolo di suggerire qualche indicazione
circa l’elaborazione della teoria (vedi settore morale) o almeno di
proporne qualche comprensione esistenziale (vedi settore dogmatico).
Ad esempio, se è vero come è vero che la Grazia va letta in chiave
personalista e relazionale, allora non si può non sapere niente su come
la persona umana si predispone a tale relazione. Oppure, se è vero
che il potere dell’azione salvifica è dello Spirito, non possiamo poi
ignorare –nei corsi di pastorale- come quel potere viene mediato da
una comunità, da un leader ecclesiale o dal direttore spirituale: se
costoro non fanno un discernimento sul loro modo (anche psichico)
di farsi mediazione, come è possibile continuare ad affermare che
il primato è dello Spirito, che il potere è realmente dello Spirito? Ciò
basta per capire che la dimensione psicologica, più che un corso
informativo a sé stante, è una dimensione trasversale della teologia
quando essa si preoccupa di dimostrare che il vangelo non solo è
un messaggio ma è un messaggio di vita e per la vita. E, viceversa,
non può una psicologia essere insegnata in un curriculum teologico
se essa non rimane in costante collegamento con il dato esegetico,
dogmatico (specialmente di antropologia teologica) e morale. Si tratta
di fare una psicologia teologicamente interpretata. Questa sensibilità
ha costituito e costituisce una prerogativa del nostro studio teologico
Psicologia
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che difficilmente è riscontrabile in altri, estranea perfino alla facoltà
a cui siamo affiliati. Chi è scettico nei confronti di una tale psicologia
non è per riserve circa la psicologia ma per ignoranza circa il dato
teologico stesso. E quando si dice che la psicologia nega la grazia o
vuole trasformare i padri spirituali in mini psicologi, si sta esprimendo
una ignoranza teologica prima che psicologica.
L’unicità dell’esperienza è ciò che la vita ci consegna. La distinzione
fra psicologico e teologico ha le sue ragioni, il suo fondamento epistemologico e, concettualmente, è perfino doverosa. Però non costituisce
il dato originario che è l’esperienza cristiana. Si deve fare, ma con la
consapevolezza che si tratta di una rielaborazione concettuale dell’esperienza in atto, non di una fenomenologia dell’esperienza stessa.
Quando, dunque, si vuole agire sulla esperienza stessa occorre ricomporre l’unità. È il lavoro di integrazione. Questa è la seconda peculiarità
–dopo l’interdisciplinarietà- che ha guidato il nostro studio teologio nel
costruire la fisionomia del sesto anno, che non è inteso come “adesso
dimenticate i corsi di teologia conclusi l’anno scorso e ora passiamo
al come si fa: dieci regole per affascinare i giovani, e 15 per come
condurre gli incontri dei fidanzati». Si tratta, in quell’anno conclusivo, di
riprendere il dato teologico - che dunque si deve chiaramente avere
in mente - per esplicitarne il potere salvifico - direi quasi diagnostico e
terapeutico - nei vari settori e periodi del vivere: pastorale giovanile,
della comunità, sociale, familiare, direzione spirituale. . . . Le qualità integrative di questi corsi erano già state accennate nei corsi sistematici e
le loro esplicitazioni nel sesto anno non raramente vedevano e vedono
a fianco del pastoralista anche i precedenti insegnanti di sistematica.
Per favorire questa circolarità fra teologia e pastorale venne anche
fatta la proposta al seminario di Reggio di mandare in parrocchia,
per il week-end, i seminaristi a due a due, con compiti mirati che durante la settimana seguente diventavano oggetto di supervisione da
parte del sottoscritto e del catecheta d. Costi (ma la cosa ebbe breve vita perché vista come limitazione all’autonomia decisionale del
seminario).
E veniamo al punto più delicato, quello sul coinvolgimento personale degli studenti.
L’impostazione così come è stata descritta – integrazione ma non
confusione fra psicologia e teologia e la confluenza delle due per un
pensare la pastorale che non si limita a valutare le esperienze messe
in atto ma a verificare il senso delle stesse prima che vengano prese comporta necessariamente il coinvolgimento personale degli studenti e la loro disponibilità a fare un discernimento personale non solo
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Psicologia
sull’attuazione della loro coscienza pastorale e vocazionale ma sulla
formazione della stessa. Il riferimento esplicito è alla teoria di Lonergan
(ripetutamente sfruttata nei corsi dello STI) circa l’educazione come
auto-appropriazione o come «conversione» ad un nuovo orizzonte
interpretativo, qualitativamente superiore a quello che il seminarista
già possedeva all’inizio del curriculum formativo: superiore non perché
semplicemente arricchito di nuovi contenuti ma di nuovi criteri per
valutare i contenuti di sempre, emergenti dal fatto che il seminarista,
grazie al contatto con la teologia si dovrebbe situare in un orizzonte
qualitativamente nuovo e più comprensivo della realtà stessa e più
rispettoso della sublimità della vocazione cristiana che sempre supera
ogni nostra conoscenza ed esperienza. La convinzione di fondo che
giustifica il legame fra STI e seminari che lo frequentano è che il legame
fra sapere teologico appreso e pastorale non è diretto ma passa attraverso la persona del seminarista e quando ciò non avviene, i contenuti
appresi verranno ben presto dimenticati per lasciare il posto alle precomprensioni personali che già il seminarista aveva prima dell’entrata
in seminario e non sottoposte nel frattempo a vaglio critico.
Quindi, lo STI come luogo di formazione e non solo di istruzione. Ad
esempio, il mio corso di etica (esperienza dei valori naturali) e di spiritualità (esperienza dei valori cristiani) sono pensati in sequenza e posti
nel biennio (dove c’è, in parallelo, anche il corso della lettura continua
della bibbia) perché - si pensa - possono essere un aiuto al discernimento circa l’ipotesi vocazionale che in quegli anni il seminarista dovrebbe
affrontare e risolvere, mentre il corso di psicologia (dinamiche psicologiche dell’esperienza cristiana) è al terzo anno perché - si pensa
- possa aiutare il seminarista a fare il successivo discernimento sulla
qualità della sua (già interiormente avvenuta) decisione vocazionale
(seguendo, in ciò, la distinzione ignaziana fra discernimento morale
e quello – successivo - di natura spirituale). Ci dovrebbe essere una
certa sincronia fra contenuto che si apprende e compito vocazionale
in atto.
Di qui il contributo dello STI alla formazione più globale dei seminaristi, materia di incontro e a volte di attrito con i seminari. Si può a
tal proposito ricordare l’offerta di un accompagnamento personale
(del tutto libero, opzionale ed extra-curriculare) di percorsi individuali di
conoscenza di sé a cui poteva seguire la frequenza alla scuola estiva
per educatori, che nel frattempo avevo iniziato in diocesi con la collaborazione di altri ex studenti di psicologia della Gregoriana in favore
della formazione dei formatori delle nostre rispettive diocesi (diventata
poi l’attuale Istituto Superiori per Formatori, con sede oggi nella diocesi
Psicologia
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di Brescia).
Qui, dunque, il punto critico tuttora sul tavolo: uno studio teologico,
fino a che punto può pretendere il coinvolgimento personale dello
studente? Va pensato solo come un polo accademico o anche come
iniziazione al pensarsi - da parte del seminarista - in un certo modo
piuttosto che in altro? Si ferma a trasmettere la immagine vera (rivelata)
di Dio o cerca anche di sconfessare o correggere le immagini interiori
che ogni seminarista ha, precedentemente, in sé di Dio? Vuole trasmettere un Dio vero o anche un Dio vivente in noi? Fino a che punto può
“pretendere” dai suoi studenti un salto qualitativo nel progettare se
stessi? Può spingersi fino a proporre esperienze che siano trasformative
e non solo conservative? A quali sfide future prepariamo i nostri seminaristi? Ci basta custodire la loro vocazione o metterla salutarmene in
crisi? Li prepariamo ad essere ministri del culto o anche a confrontarsi
con le antropologie contemporanee che, dunque, vanno conosciute,
e confrontate con la propria chiaramente differenziando il suo nucleo
dai suoi derivati? Sono questioni che noi, come corpo docente, non
abbiamo certo risolte ma le abbiamo certamente presenti (le “giornate di studio” fra i docenti sono un altro “fiore all’occhiello dello nostro
STI). E, come è ovvio, in questi anni hanno avuto risposte alterne, anche
a seconda dei vescovi e dei rettori che si sono succeduti nelle nostre
diocesi.
Limitatamente alla psicologia: dal momento che il suo modo di
essere presente nello STI interroga molto da vicino l’interiorità degli
studenti, è chiaro che non passa innocua. Una impostazione come
la nostra ha suscitato e susciterà molte obiezioni, nei seminaristi, nei
rettori e forse nei vescovi stessi. Alla radice, non sono però resistenze
alla psicologia stessa ma all’invito di essa alla (ri)elaborazione della
propria coscienza. Esprimono la difficoltà alla disponibilità di sè fino
alla revisione di sè. Le critiche sono sempre le stesse e un po’ stantie: la
psicologia non crede alla grazia, l’insegnante di dogmatica o di sacramentaria ha detto il contrario, si vuole sostituire la direzione spirituale
con la psicologia, a scuola non si legge il catechismo della chiesa
cattolica, lo STI è disfattista, gli insegnanti non sanno che cosa è la
pastorale..... Eppure, è strano: basterebbe informarsi un po’ di più sulla
produzione dello STI per capire dove sta il vero fastidio e apprezzare la
qualità veramente invidiabile del nostro studio teologico.
E in futuro? È già stato ampliamento detto da molti che l’ingresso
post-conciliare della psicologia nel mondo teologico ha avuto - fino
ad oggi - delle ricezioni identificabili in quattro passaggi: resistenza,
indifferenza, resa (da parte della teologia), integrazione (soprattutto a
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Psicologia
livello della antropologia sottesa ai due campi di indagine)3 . Dunque,
sembra pace fatta e collaborazione avvenuta. Le pubblicazioni espressive di quest’ultima fase della integrazione sono più che abbondanti
sul versante psicologico.
Ma si sta aprendo una nuova fase: quella della integrazione anestetizzata. Integrazione sì, ma talmente tanto da aver svuotato la psicologia della sua anima che non è una teoria per la consolazione
della mente ma una prassi per l’apertura del cuore. Come già fu l’intuizione del concilio, la psicologia negli studi teologici non serve per
aggiungere nuove informazioni ma per una migliore vita di fede e ciò
lo fa non quando si presenta come una teoria compatta ma perché
propone un itinerario e un metodo educativo che aiuti la persona a
tenere uniti nella sua vita l’aspetto antropologico e teologico della
sua esperienza cristiana. Ma ciò presuppone che la persona (cioè il
seminarista) ne senta il bisogno, ossia che non dia per scontata questa
unione e che non la affidi alla sola “ortodossia” della mente e “ortoprassi” della volontà. Il mondo degli affetti –nonché la parabola del
tesoro nascosto- ci informa chiaramente che a garantire la perseveranza vocazionale e l’efficacia apostolica non è la conoscenza di
un contenuto valoriale ma l’energia che si è dovuta “spendere” per
conquistarsi quel contenuto (“ortopatia”). Oggi il clima culturale non
va nella direzione di accendere queste energie, né fuori né dentro alla
chiesa (seminari). Fuori si riscontra una cultura che si appiattisce su
emozioni “tristi” e dentro un’altrettanta simpatia per l’acquiescenza
del sentire, spostando nella lotta contro il mondo la vera lotta cristiana
che è quella interiore, fra la nostra inevitabilmente piccola interiorità e
la grandezza del Dio di Gesù tanto amato ma anche inevitabilmente
strapazzato. L’eccessivo amore per l’adattamento smorza la passione
e là dove ci si accontenta che per fare un dono di sé basti l’intenzione
di farlo, certi percorsi educativi attirano solo una minoranza. La voglia
di sognare che il concilio ci aveva donato, oggi non è più un regalo
superadditum ma un tesoro da andare a cercare e penso che lo STI
debba preparasi a dare il suo contributo per la ormai inderogabile
questione del ruolo dei futuri preti nel nostro territorio.
3 B. Forte, Teologia e psicologia: resistenza,indifferenza, resa o integrazione? in F. Imoda
(a cura di), Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna, 1997, 75-95.
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La recezione del Concilio Vaticano II nello Studio Teologico