sii solo, e non sarai nessuno
ANNO 4 NUMERO 34
SABATO 20 AGOSTO 2005 A 1,50
POSTE ITALIANE SPA SPED.ABB.POST. - 45% ART.2 COMMA 20/b LEGGE 662/96 D.C. MILANO
storia, pericoli,
frontiere sociali e
digitali dell’identità
al punto di vista pratico
ciascuno di noi sa bene che
cos’è l’identità: conosciamo
bene chi siamo. I problemi cominciano
al momento in cui dobbiamo
dimostrarlo ad altri. Come si fa
a certificare il fatto che noi siamo
proprio noi? Soprattutto, come si fa
a riuscirci con assoluta certezza
in un’epoca, la nostra, dove
la riproducibilità tecnologica
di qualsiasi documento – inteso come
prova d’accertamento burocraticoamministrativo – e l’accessibilità
universale tramite l’internet hanno
messo radicalmente in crisi qualsiasi
materiale estrinseco d’identificazione?
La carta d’identità, così come
la conosciamo, non basta più.
I processi storici di accertamento
dell’identità conoscono nell’era
digitale una crisi profonda. Per questo
i governi di tutto il mondo, compreso
il nostro, hanno avviato una riforma
radicale dei documenti identitari (la
carta d’identità e il passaporto), che
ne faranno nel giro di pochi anni un
microcomputer contenente elementi
inequivocabili e incontraffacibili del
rapporto unico e univoco che esiste
fra certe caratteristiche fisico-corporee
e quel certo, preciso, individuo
umano. Cioè, fra ognuno di noi e
il suo corpo, la sua dimensione fisicofisiologica. Saranno fotografie ad alta
risoluzione, sarà la configurazione
della cornea, delle vene, delle mani,
D
William Shakespeare (1564-1616))
REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI MILANO
N.362 DEL 17/06/2002
REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
VIA SENATO 12, 20121 MILANO
TELEFONO 02 36560007
E-MAIL: [email protected]
ESSERE E CHI ESSERE
QUESTO È IL PROBLEMA
POLIS
Libertà religiosa.
Il “Rapporto 2005”
John Randolph a pagina 2
WELFARE
Nella giungla
delle definizioni
a pagina 2
DISCUSSIONI
Pera, Romano,
Napolitano: libertà
e totalitarismi
con Alessandro Turci a pagina 3
AUSTRALIA
Ma quale genocidio
di aborigeni!
Massimo Introvigne a pagina 3
FINESTRE APERTE
È tornata
la trascendenza,
nel pensiero
e nella scrittura
Mariano Fazio
alle pagine 6 e 7
GRAAL LETTERARI
Le misure
antiterrorismo
funzioneranno
se ci rispetteranno
per quelli che siamo
delle orecchie, del volto, delle ossa.
Saranno altri e sempre più sofisticati
metodi di prelievo e di confronto.
I provvedimenti proposti dopo
la strage di Londra dal ministro degli
Interni Giuseppe Pisanu per far fronte
alla minaccia terrorista vanno
compatti in questa direzione.
Tutto questo porta a nuovi sviluppi
tecnologici. Ma anche umanistici. Nel
senso che la questione dell’identità
è importante anche a livello di quel
“riconoscimento” personale e sociale
che non deve vedersela tanto con
i sistemi di sicurezza e d’individuazione
pubblica, quanto con quell’altro
universo d’identificazione che
è composto dai sistemi di valore,
da quell’affollamento eterogeneo
di riferimenti che rende le nostre
società simili a “supermercati
di pluralismi”.
Anche davanti a questa constatazione
alcuni studiosi di antropologia
affermano che le identità sociali, oggi,
si costruiscono per contrapposizione.
Ciò spiegherebbe l’affermarsi di società
a matrice religiosa soprattutto
fra popoli e nazioni in via
di affermazione territoriale e politica.
La Polonia, in questa prospettiva,
sarebbe stata “molto cattolica” perché
e finché l’Urss era molto oppressiva.
E il terrorismo islamico sarebbe tanto
più vivo quanto più si confronta con
modelli e stili di vita opposti al suo.
Analisi interessanti. Ma insufficienti,
se raffrontate al principio in cui
radica la definizione dell’individuo
umano e della sua singolarità: una
dignità personale che precede
qualsiasi specificazione e che, pur
nativamente relazionale, nasce prima
come “io” per poi potersi confrontare
con i “tu”. Non la si può confinare
a un “accertamento negativo”: per
descrivere chi sono io non basta dire
che io-sono-io perché non-sono-gli-altri,
che io-credo-questo perché altri
credono-non-questo.
Sono campi difficili, impervi. Proprio
mentre ci tuffiamo nell’equiparazione
tecnologizzata fra corpo e identità,
i progressi nel campo della clonazione
e le conquiste raggiunte in quello dei
trapianti ci fanno riflettere sul fatto che
anche quella del “mio” corpo non è
detto sia l’ultima frontiera.
E qual è, allora, l’ultima frontiera di
noi stessi? È questa, ancora e sempre,
oltre qualsiasi tecnologia e sociologia, la
definitiva domanda sull’identità, sulla
libertà.
Giuseppe Romano
[email protected]
[email protected]
Giù nel profondo
Sud degli States
Marco Respinti a pagina 5
CLASSICI YANKEES
Che fior fior
di scrittori ribelli
Davide Brullo a pagina 5
CINEMA
di Emilio Mordini
a biometria fa parte di quelle tecnologie complessivamente chiamate AIDC (Automatic Identification and Data Capture), che comprendono, oltre la biometria, le smart card, i
codici a barre, i dispositivi RFID, le carte
magnetiche e OCR, i microchip impiantabili, ecc. Si tratta di tecnologie che
hanno in comune la capacità di estrarre
dati attraverso un meccanismo elettronico automatizzato e quindi di processarli in sistemi controllati da microprocessori, quali, per esempio, computer.
Della biometria in generale abbiamo già
parlato in un recente articolo de il Domenicale (n° 17, sabato 23 aprile 2005).
Ora ci occuperemo delle sue implicazioni sociali e politiche.
La biometria può sembrare a prima
vista una tecnologia fra le tante, forse
provvista di qualche maggiore pericolosità per la privacy, ma sostanzialmente
con minore impatto etico e sociale di altre tecnologie, in particolare quelle nate
in ambito biomedico (biotecnologie,
tecnologie di imaging, neurorobotica,
ecc.). Non è così. In realtà la biometria è
probabilmente una delle tecnologie con
maggiori probabilità di cambiare le no-
L
Dammi il tuo corpo
e ti dirò chi sei:
le più recenti
tecnologie biometriche
sembrano riportarci
indietro fino
all’antichità classica,
quando il proprio
corpo era la misura
unica della certezza
identitaria. E così,
complici le misure
antiterrorismo
e l’elettronica,
torna di moda
la bio-politica
stre vite nel prossimo futuro: tutto dipenderà se si svilupperà una massa critica di applicazioni sufficiente da imporla come standard identificativo. Se
così fosse – e al momento appare difficile fare previsioni in un senso o nell’altro
– nulla sarà più uguale. Cercheremo ora
di spiegare perché.
Il cuore della “questione biometrica” sta nel problema dell’identificazione. I tecnologi e gli ingegneri che lavorano sulla biometria tendono spesso a banalizzare questo fatto, sostenendo che
la biometria non rappresenta null’altro
se non una soluzione tecnica a una questione pratica creata dalla crescente interconnessione del mondo. Proprio
questa considerazione dovrebbe, invece, avvertire della centralità del tema.
La questione dell’identità personale è
una delle questioni fondamentali della
nostra epoca, che la si chiami “post moderna”, “tardo moderna”, “sopra moderna” o altro ancora. La questione fu
prima sollevata tra la fine degli anni
1950 e ’60 in ambito anglosassone dai filosofi della mente, quindi divenne alla
moda nei circoli post-analitici variamente influenzati dal pensiero psicoanalitico e femminista. È del 1976, per
esempio, un volume collettaneo curato
BACETTI
Ahò, ma chi è ’sto furbetto del quartierino al cellulare
ra che l’estate comincia a declinare, e fossimo D’Annunzio comporremmo i «di terre lontane»,
non resta che fare un piccolo bilancio. Questa del 2005 è l’estate non del bikini, dell’i-pod,
dei bambini fanno ooh, dei
vipsss,della crisi dell’euro, della
leadership a destra e sinistra, e
solite cose. No, se dovessimo ricordarla la ricorderemmo per le
intercettazioni dei telefonini
che hanno messo alla berlina
uomini di tutto rispetto, chessò
Preziosi e Fazio. Il primo intento
a indirizzare le sorti del suo
amato Genoa, il secondo interessato a conoscere gli esiti delle varie Opa bancarie. Certo,
casi diversi, diversissimi, impossibili da accostare, se non fosse
O
per le modalità attraverso le
quali è scoppiato il caso (l’intercettazione) e per il tono dei discorsi intercettati.
L’ingenua ammissione di
Ricucci «stamo a fa’ i furbetti
del quartierino» dovrebbe essere presa come la vera colonna
sonora dell’estate 2005, perché ciò che sorprende è la leggerezza con cui tutte le persone
coinvolte nei vari casi discutevano bellamente al cellulare,
con quella impudenza tipica dei
potenti resa comica dal lato
umano, talvolta vernacolare,
delle frasi. Altro che “furbetti”.
A pensarci, è scandaloso
che la libertà personale venga
tanto vilipesa dalla magistratura che da anni usa le intercettazioni come armi improprie, so-
prattutto quando poi vengono
date in pasto ai giornali.
Ma davanti all’involontaria
comicità di ’sti “furbetti” che
parevano Totò spy-story con
appuntamenti segreti, entrate
laterali nei palazzi, schede telefoniche sicure, mentre il Grande Fratello tranquillamente li
registrava, viene quasi da ridere
più che da indignarsi. E per fortuna che nessuno aveva pensato di usare il videotelefono, altrimenti sai che telenovela.
Le registrazioni, specie
quelle inerenti a membri del salotto buono della nostra finanza, sono tra le cose più spassose
che si sono potute leggere nell’estate. Una radiodramma esilarante, protagonisti i potenti
dell’Italia, con mogli, confesso-
ri, amici, amichetti, con la rappresentazione più stucchevole
e consueta del potere romano,
seppure i fini delle operazioni
non fossero tutti disdicevoli, gli
intenti perfino buoni.
D’altronde, molti credono
che parlare al telefonino sia lo
stesso che pensare in silenzio
chiusi a chiave nel proprio bagno. Ma così non è. In bagno ci
si chiude per non mostrare le
proprie debolezze animali,
mentre al cellulare si dimentica
il confine tra pubblico e privato.
Ma se non c’è nessuna registrazione delle nostre flatulenze, molte ne esistono delle nostre conversazioni telefoniche. Per cui più che un galateo
del cellulare, occorrerebbe un
po’ di pudore. Angelo Crespi
da Amelie Rorty su Identities of Persons
con interventi, tra gli altri, di Derek Parfit, Daniel Dennet, Ronald de Sousa.
Negli anni 1980 e ’90 la riflessione nell’ambito sociologico (Giddens, Luhman, Beck) e delle correnti di pensiero
“postmoderne” si indirizzò sempre di
più al tema dell’identità personale che
finì per diventare primario non solo da
un punto di vista teorico ma anche da
un punto di vista politico. La bioetica,
l’integrazione degli immigrati, i processi di inclusione sociale, le forme di democrazia partecipativa, il confronto tra
localismo e cosmopolitismo, il dibattito
sul comunitarismo e sulla società di rete
sono tutti esempi di terreni politici “fertilizzati” dalla discussione sull’identità
personale. Ma cosa si intende esattamente con “identità personale”?
Quando, in seno alla filosofia, si
parla del problema della “identità personale”, ci si riferisce al problema di
comprendere e spiegare come una persona possa rimanere la stessa pur attraverso i cambiamenti fisici, psichici, esistenziali cui va incontro nell’arco della
sua vita. Si tratta di un problema che risale all’origine stessa del filosofare e
che torna ciclicamente di moda. Il pro-segue a pagina 10
L’arte di scegliere
quale film vedere
in famiglia
Francesca D’Angelo a pagina 9
MOSTRE
La pittura “ideista”
di Vittore Grubicy
Beatrice Buscaroli a pagina 11
PROFETI IN MUSICA
E poi a parlare
furono le rockstar
Bruno Giurato a pagina 11
E LE NOSTRE RUBRICHE:
Lo scaffale dei piccoli
e grandi editori;
L’angolo delle mostre;
e poi il cinema e i dvd
POLIS
2 IL DOMENICALE
LETTERE
FIRMATE
Caro Direttore,
ho letto con molto interesse il n.31
dello scorso 30 luglio. E ho riflettuto
con la calma dell’estate (finalmente) su
alcuni temi trattati, come quello di copertina, dove Giuseppe Romano racconta il Crichton antiecologista che
punta il dito contro la “paura globale
ambientale” indotta per distrarci dalle
vere paure dei nostri giorni, e l’altro articolo di Fulvio Di Blasi a pagina 2, dove si contrappongono individualismo e
bene comune.
E mi viene da chiederle: d’accordo,
ci stiamo autoingannando con paure
apocalittiche per non confrontarci con
quelle reali, indotte dal nostro assoluto
individualismo: non è forse l’angoscia,
la depressione, il male dei nostri giorni? Ma se è così, perché non dire chiaro
che è tutto il meccanismo della società
moderna a essere distorto, e che la paura non è che l’altra faccia di una medaglia, quella del desiderio, che è il motore del marketing e della pubblicità?
Mi spiego meglio. Credo sia esperienza comune, di tutti noi, aver desiderato un oggetto, magari un libro, un
vestito, un telefonino, un’auto, una
vacanza. Per poi scoprire, come bambini capricciosi, che il desiderio di
averlo era molto superiore al piacere
del possesso. Che, in altre parole, a
muoverci era una sorta di fantasma,
una smania di appagamento che poi
non si esauriva nel bene materiale.
Credo sia proprio questo lo scopo della
pubblicità, farci desiderare cose che
forse non ci servono in un modo superiore al bisogno reale. E non vorrei buttarla definitivamente sul filosofico,
ma siete stati voi a mettere, proprio su
quel numero del Domenicale, la bella
frase di Montaigne sul fatto che l’uomo non sa fare un verme ma si fa dèi a
dozzine. Dunque è sicuramente pazzo,
concludeva lo scrittore francese, e mi
sembra di poter concordare, anche se
interrogativamente: siamo tutti pazzi?
Luigi Varedo
Chissà, forse siamo tutti pazzi, o
forse è un modo come un altro di cercare il meglio, a tentoni e per passi nel
buio. Certo, la nostra società ha giocato molte carte sulle aspettative, più di
quante non ne abbia tenute in serbo
per le certezze.
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S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
Un’analisi del Rapporto 2005 sulla Libertà Religiosa nel Mondo, pubblicato dall’Aiuto alla Chiesa che Soffre
I DIRITTI NEGATI DEI CRISTIANI
Il fondamentalismo indù, le ambiguità degl’islamici moderati, le contraddizioni della Cina, il relativismo dell’Occidente
a libertà religiosa dovrebbe essere il
primo dei diritti umani e invece
continua a essere conculcato e denegato in vaste aree del mondo. E non solo nelle regioni tradizionalmente associate a regimi dispotici e totalitari, o dove
l’intolleranza di alcune fedi maggioritarie si tramuta anche in persecuzione amministrativa, sociale e politica per gli altri, ma pure in alcuni anfratti del cosiddetto “mondo libero”.
Anche quest’anno, dunque, il Segretariato italiano dell’opera di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)
stila e pubblica il prezioso Rapporto sulla
Libertà Religiosa nel Mondo, che censisce
e dettaglia i casi di abuso contro i cattolici
L
nel kerala i centri
cristiani d’istruzione
assicurano la carriera
anche ai “paria”. ma
gl’induisti li distruggono
a motivo della fede nel corso del 2004.
È la settima edizione annuale del
Rapporto e la situazione continua a essere in molti casi sorprendente e talvolta persino imbarazzante.
Analizzando le situazioni singole di
ogni Paese dei cinque continenti, il documento di fatto si chiede cosa sia peggio per i cristiani costretti a “scegliere”
tra fondamentalismo islamico, regimi
comunisti e dispotismo del relativismo.
È questo infatti il “nuovo” persecutore, in realtà mai assente dagli scenari
della persecuzione, ma oggi, soprattutto in Occidente, il più temibile e agguerrito. Anzitutto perché, “persecutore
soft”, si fa complice di discriminazioni
gravi, poi perché, incapace di elaborare
una giusta cultura della resistenza contro i “persecutori hard”, consente la
conculcazione, fuori dall’Occidente,
del primo dei diritti umani da parte dei
fondamentalismi di ogni fatta.
Quest’anno la presentazione ufficiale del Rapporto si è svolta il 30 giugno
alla Camera dei Deputati, con la presenza del presidente Pierferdinando Casini
e con la partecipazione del cardinale
Renato Raffaele Martino, presidente del
Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, cosa questa che – ha affermato Attilio Tamburrini, direttore del
Segretariato italiano dell’ACS – configura «l’istituzionalizzazione» del Rapporto, un atto pubblico e formale «oggettivamente importante perché la denuncia
delle violazioni della libertà religiosa,
che noi documentiamo da circa sette
anni, ha prodotto gradualmente un
maggior interesse sia dello Stato italiano sia della Chiesa. Il che fa ben sperare
per il futuro».
Nel cosiddetto “mondo libero”, infatti, l’unico Paese che abbia un organismo che si occupa a livello istituzionale
della libertà religiosa sono gli Stati Uniti
d’America. Si tratta di una Commissione
istituita già dal presidente Bill Clinton
che raccoglie informazioni, esamina situazioni, s’incontra periodicamente con
La persecuzione anticristiana continua a essere uno dei grandi mali del mondo, anche occidentale
il capo dell’esecutivo, con il Senato e con
la Camera, e dà indicazioni concrete e dirette a proposito dei Paesi che appunto
violano la libertà religiosa, con conseguenze pratiche dal punto di vista dei
rapporti economici e diplomatici.
Mentre in Europa – ha affermato
Tamburrini nel corso di una intervista rilasciata all’agenzia internazionale Zenit
– «non esiste nemmeno l'idea che uno
Stato si possa occupare delle violazioni
della libertà religiosa». Al massimo si
può arrivare «a commissioni o gruppi che
si occupano in generale del rispetto dei
diritti umani». Ecco dunque tutta l’eccezionalità e l’importanza della “istituzionalizzazione” del Rapporto ACS 2005.
Tutte le novità dell’anno 2004
Rispetto alle edizioni precedenti, cioè
alle situazioni censite negli anni scorsi, di
grande importanza si è rivelata, nel corso
del 2004, la crescita del fondamentalismo
induista, in grado di manifestarsi oggi
con particolare virulenza. «È preoccupante – dice Tamburrini – vedere che negli Stati dove il partito induista è largamente maggioritario la tendenza a identificare l’appartenenza religiosa con quella
dello Stato». Gli assalti a chiese e a moschee da parte di fanatici induisti, e addirittura gli assalti ai centri d’istruzione cristiana – come documenta costantemente
l’agenzia internazionale Asia News, diretta da Bernardo Cervellera, del Pontificio Istituto Missioni Estere –, si ripetono
infatti con intensità crescente e preoccupante. Gli attacchi sono peraltro facilmente possibili perché i centri cristiani –
appunto d’istruzione – sono aperti a tutti
e non discriminano alcuno, nemmeno il
paria, il quale, frequentando una università cristiana, può addirittura giungere a
diventare, che so, un medico, laddove invece nel sistema castale della tradizione
indiano-induista la sola idea di questo resta pervicacemente improponibile.
Colpisce del resto una notizia recen-
una buona notizia c’è.
in egitto è stata introdotta
nel calendario
la festività del natale
te, che ha generato pure la protesta formale dei vescovi indiani. Nello Stato indiano del Kerala, dove più del 20% della
popolazione è cristiana, si è verificato il
primo caso in cui un ordine professionale, quello degli avvocati, abbia rifiutato
l’abilitazione professionale a una suora
della Congregazione Madre del Carmelo
in quanto «già impegnata in attività religiose». La religiosa, suor Teena Jose, è
laureata in Giurisprudenza alla Mahatma
Gandhi University di Kottayam, nel Kerala, e, come altri religiosi, svolge pure la
professione di avvocato onde poter difendere gli strati più poveri della popolazione della sua regione. Quanto sostenuto
all’Ordine degli avvocati introduce quindi un principio di discriminazione che
contrasta apertamente con la Costituzione. E per di più stabilisce un precedente
pericoloso che in futuro potrebbe interdire le attività professionali a persone impegnate in attività religiose cristiane.
Altro scenario importante è quello islamico. Qui vi è da segnalare qualche
progresso. Il Marocco, per esempio, ha riformato il diritto di famiglia in senso più
paritario nel rispetto delle donne. L’Egitto
ha introdotto nel calendario la festività
cristiana del Natale e ha autorizzato
un'ora di cultura cristiana nelle scuole:
un riconoscimento sostanziale e ufficiale, questo, dell’esistenza nel Paese di cristiani autoctoni (sempre negata), la quale peraltro continua a convivere con diversi atti d’intolleranza. I cittadini marocchini ed egiziani che abbandonano
l’islam per il cristianesimo continuano
infatti a essere fatti oggetto di persecuzioni sistematiche.
Il Qatar ha poi stabilito relazioni diplomatiche con la Santa Sede e permetterà la costruzione di una chiesa cattolica.
Eppure nei Paesi islamici continua
lo scontro, sanguinoso, fra moderati e
fondamentalisti, le cui conseguenze si
riverberano anche sui cristiani. L’Iran,
per esempio, ha fatto registrare forme di
notevole radicalizzazione; eppure anche qui non mancano segni in controtendenza: c’è infatti chi, nella popolazione islamica, pensa sul serio che con i
cristiani ci si debba convivere. Per molti
versi, è una novità assoluta.
Altro scenario caldo, la Cina, la quale
continua a rappresentare un caso davvero strano. Totalitarismo politico e aperture in campo economico, soprattutto verso l’estero. Oggi il grande problema di Pechino è quello di tenere sotto controllo lo
sviluppo. Non si potrà cioè continuare a
battere la strada del capitalismo selvaggio usufrendo di quella manodopera
pressoché schiavistica che la chiusura su
di sé del regime garantisce, impedendo
ogni riforma sociale e politica.
Sul fronte religioso, le nuove aperture del governo cinese nei confronti del
taoismo rispondono peraltro esattamente all’esigenza – oramai all’urgenza
– di tamponare una situazione esasperata, aprendo qualche valvola di sfogo
che sia però sempre in teoria controllabile e quindi possibilmente distraente.
Il buio del Continente Nero
Intanto cresce, nel Sud del mondo,
la preoccupazione per il protrarsi degli
scontri a sfondo religioso in Nigeria, dove, nel solo 2004, si sono registrati oltre
12mila morti che vanno ad aggiungersi
alle decine di migliaia di vittime degli
anni scorsi, di parte cristiana e musulmana, da che è stata proclamata la shar’ia in 12 Stati del settentrione. La guerra civile, come continua a evidenziare il
caso del Ruanda, non esaurisce infatti i
propri effetti nel momento in cui cessano le ostilità, e porta con sé strascichi
giudiziari e civili che protraggono e approfondiscono la divisione tra le nazioni, le etnie e i gruppi religiosi. In Sudan,
quindi, anche se sembra essere stato
raggiunto un fragile accordo di pace, la
ricostruzione del tessuto sociale lacerato da decenni di massacri non sarà certo
immediata. Allarmante resta anche la
situazione dell’Uganda, analogamente
funestato dagli scontri tra ribelli e truppe governative.
In più, proprio nelle aree dove l’azione pacificatrice della Chiesa cattolica e
delle altre comunità religiose sarebbe più
preziosa, si assiste invece a una discriminazione che non accenna a diminuire, soprattutto nei Paesi a maggioranza islamica, con il divieto di costruire luoghi di culto e di prestare assistenza alle popolazioni in difficoltà. L’offensiva del fondamentalismo islamico non risparmia del resto
nemmeno il Kenya, il Malawi, il Sudafrica e l’arcipelago di Zanzibar, in Tanzania.
Le vergogne dell’Occidente stanco
Da ultimo, ma non per ultimo, il cosiddetto “mondo libero”. Tamburrini lo
descrive citando Papa Giovanni Paolo
II: «il sistema democratico che perde di
vista i valori di riferimento si trasforma
in una dittatura». Papa Benedetto XVI la
definisce dittatura del relativismo,
in francia ti fai un anno
dentro se critichi i gay.
e i preti debbono levarsi
la talare quando
entrano nelle scuole
quella che vive anche di un’attenzione
esagerata, spasmodica e ovviamente
strumentale verso quella difesa dei “diritti delle minoranze” che consente facilmente e legalmente di calpestare i diritti delle maggioranze, storici e sociali,
comprese le maggioranze che di fatto
s’identificano con la storia stessa dei
Paesi occidentali.
In Francia, per esempio, in nome
della tutela della minoranza omosessuale, è stato varato un disegno di legge
che punisce con un anno di reclusione e
ingenti multe chiunque critichi, anche
solo verbalmente, gli omosessuali. Ovvio, i cristiani sono già nel mirino. Infatti, il cardinale Jean-Marie Lustiger ha rilevato che, sulla base di una tale legislazione, misure repressive potrebbero essere applicate a chiunque esprima l’opinione della Bibbia o del Catechismo della Chiesa Cattolica in materia di famiglia o di orientamento sessuale.
Sempre in Francia è divenuta inoltre
operativa la legge sulla libertà religiosa,
che, in nome di una netta separazione
tra Stato e Chiese (il 2005 è il centenario
della laïcité francese, la rigida separazione giuridica fra Stato e Chiesa che
ammonta a una vera e propria dichiarazione di guerra, per quanto debolisitica,
al cristianesimo) ha generato situazioni
paradossali e spiacevoli. In base a questa legge, per esempio, ai cappellani
cattolici di scuole pubbliche è vietato
presentarsi negli edifici scolastici indossando la veste talare o altri segni di
appartenenza religiosa.
•
John Randolph
LA DEFINIZIONE DI “WELFARE” PUÒ ESSERE
UNA GIUNGLA. UNO STUDIO NE OFFRE UNA GUIDA
i sono tanti modi di dire welfare in
Italia. Ci sono mondi lontanissimi, in cui parlare di servizi alla
persona, sanità, lavoro, non ha mai lo
stesso significato. Come un prisma dalle molte facce, le politiche sociali cambiano di regione in regione. Uno studio
IREF dello scorso anno ha trovato almeno quattro “mondi del welfare”: quello
“munifico” delle regioni autonome del
nord; quello “efficiente” delle regioni
settentrionali; quello “sotto pressione”
del centro; e quello “fragile” del profondo sud. Una babele, insomma.
La colpa, secondo i più agguerriti
critici, sarebbe naturalmente della devoluzione, del decentramento amministrativo, delle spinte liberiste e privatizzanti. Un refrain che accade spesso di
ascoltare nel dibattito pubblico del nostro stanco Paese. Un motivetto scontato, politicamente corretto, dalle dubbie
fondamenta razionali ma graniticamente certo delle propria autoevidenza.
Eppure, basta dare un’occhiata all’evoluzione storica del welfare italico
per capire che le colpe sono molto più
antiche. Anzi, verrebbe da dire che sono tutte negli inizi, da quel 1970 in cui le
Regioni furono (finalmente) istituite,
assumendo ampi poteri di scelta sui temi del welfare non tanto per propria volontà, ma per altrui insipienza. Ecco allora il vero colpevole: il legislatore nazionale, insomma lo Stato. Inadem-
C
piente per ben trent’anni dal legiferare
in maniera unitaria sul tema: si dovrà
attendere infatti il 2000 per veder licenziare una “Legge quadro” (la numero
328), nell’intenzione di mettere ordine
in una materia ampia e complessa. Una
legge, però, arrivata fuori tempo massimo rispetto allo spirito devolutivo dei
tempi, che un anno dopo avrebbe portato a una riforma della Costituzione (in
particolare il discusso Titolo V) che di
fatto consegnava nuovamente tutto il
potere alle Regioni su una serie di temi,
tra cui per l’appunto quelli relativi all’assistenza sociale.
Una storia piena di contraddizioni,
dunque, ricostruita da Luca Pesenti (sociologo dell’Università Cattolica di Milano) in Il welfare in transizione (Edizioni Lavoro, Roma 2005, pp. 240,
¤12,00), indagine composita capace di
restituire una fotografia completa del
complesso processo di applicazione del
principio di sussidiarietà nel campo delle politiche sociali, mostrando come
due casi (Lombardia e Toscana) si pongano come modelli esemplari che si
confrontano e, a volte, si combattono
aspramente. Da un lato la welfare society, figlia della tradizione cattolico-liberale; dall’altro, il modello “lib-lab”,
radicato nella subcultura rossa e nel civismo delle Cento Città.
L’immagine che ne esce è di un’Italia in cui si confrontano modelli, espe-
rienze e proposte molto diverse. È l’Italia in cui, a seconda di come la si guardi,
la sussidiarietà può significare tutto e il
suo contrario. Può essere un modo scaltro per occultare pratiche di esternalizzazione di servizi, ad esempio, attraverso percorsi in cui l’ente pubblico resta
saldamente il detentore del potere di
scelta reale sulla sostanza dei servizi.
Oppure può essere il modo in cui realmente si prova a sperimentare nuove
IN ITALIA SI CONFRONTANO
DUE TRADIZIONI,
QUELLA DI MATRICE
CATTOLICO-LIBERALE
E QUELLA
DEL CIVISMO ROSSO
E DELLE “CENTO CITTÀ”
strade, rendendo i soggetti privati (innanzitutto quelli no profit) veri protagonisti delle politiche sociali. Si scontano
dunque ritardi culturali, differenziazioni ideologiche ancora profonde quando
si parla del rapporto pubblico-privato,
resistenze al cambiamento da parte degli enti pubblici.
L’Italia descritta dal saggio di Pesenti è un paese in cui la cultura della sussidiarietà anche quando sperimentata
(per esempio in Lombardia) deve fare i
conti con un mondo troppo abituato ad
abiti mentali comodamente statalisti.
Gli attori principali delle politiche sociali, quei soggetti del terzo settore che
producono servizi indispensabili per
anziani, disabili, minori e altre categorie deboli, non sembrano essere pronti
alla grande rivoluzione sussidiaria in
atto, come mostra l’ultimo capitolo de Il
welfare in transizione.
Si concepiscono molto spesso come
servitori silenziosi, dipendenti in tutto e
per tutto (non solo finanziariamente)
da quel che decide il Principe, più propensi a dialogare con l’ente locale di
turno che con il resto del terzo settore. E
se non bastasse, si ritrovano anche assediati da una cultura mercantile che ne
minaccia la mission originaria, svuotando troppi soggetti della loro identità
più profonda. Sarà forse per questo che
così spesso vengono trattati da utili
idioti, caricati di compiti che gli enti locali vorrebbero senza più poterli sostenere. Tutto il contrario della vera sussidiarietà, insomma; da quella descritta,
per esempio, da due “guru” della sociologia sul terzo settore, i bolognesi Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi, nel recentissimo La sussidiarietà: che cos’è e come
funziona (Carocci, Roma 2005, pp.176,
¤16,90), che la descrivono come un vero meccanismo architettonico della società di domani. Per questo, la lunga
transizione del welfare sembra essere
appena cominciata.
•
L’ALTRA STORIA
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
IL DOMENICALE 3
Simposio sulla libertà. E sui totalitarismi
Marcello Pera, Sergio Romano e Giorgio Napolitano rispondono sulle fallite ideologie novecentesche,
sui cattivi maestri e sui buoni (Solz̆enicyn), sulle distinzioni da farsi tra le diverse utopie capovolte
tà, e questo spiega anche altre ideologie perniciose del XX secolo, come il
nazismo.
di Alessandro Turci
IDEOLOGIA E VIOLENZA
Aleksandr Solz̆enicyn ha definito
gli eroi negativi di Shakespeare
individui incapaci di andare
oltre i dieci omicidi perché non
hanno ancora scoperto l’ideologia.
Credete che il ruolo dell’ideologia
sia stato davvero così decisivo
nelle repressioni e negli stermini
di massa del Novecento?
che avevano un’esperienza sessantottina, si erano formati sulle barricate e
nelle assemblee del maggio ’68 e, grazie
a Solz̆enicyn, cominciarono a sviluppare
una forte critica dell’Unione Sovietica e
del “socialismo realizzato”. In Italia questo non accadde perché anche gli intellettuali di sinistra che avevano ormai
maturato una certa diffidenza nei confronti di Mosca non ebbero il coraggio, o
la forza, o la voglia di sfidare a tal punto
l’ideologia. Prevalse in loro la convinzione che in un sistema politico come quello italiano, dove il dirimpettaio era la
Democrazia Cristiana con i suoi alleati,
non si potesse distruggere la casa madre,
non la si potesse aggredire con il coraggio e il vigore di cui dettero prova gli
intellettuali francesi.
Sergio Romano
In altre parole, il terrore è un elemento fondamentale della preservazione del potere nei regimi totalitari, ed è
stato particolarmente evidente nel caso
dell’Unione Sovietica in almeno due
fasi, quella iniziale, il terrore leninista
per intenderci, e quella delle grandi purghe, tra il 1935 e la vigilia della guerra.
Marcello Pera
Un’ideologia che cos’è? È un’idea o
un ideale che si trasforma in dogma.
Un’idea serve solitamente per descrivere e spiegare; un’ideale serve per indicare un corso di azione o per suggerire
un obiettivo. Un dogma serve invece
per fissare una verità. La differenza è
notevole, perché mentre l’ideale è rivedibile, alla luce dell’esperienza, è ed
correggibile, un dogma – proprio perché
indica un’unica verità, o un unico obiettivo, della vita individuale o della storia
– è irrivedibile. Ed è irrivedibile a pena
di violenza.
Sergio Romano
Perché uomini ricorrano allo sterminio di massa, perché divengano
complici ed esecutori dello sterminio di
massa, occorre che non sentano alcun
sentimento di colpa. Debbono considerarsi automaticamente assolti, e l’assoluzione viene impartita per l’appunto
dall’ideologia.
Marcello Pera
Chi non conosce la verità è di norma
considerato un individuo che non vuole
accettare la verità. Capostipite di questa
suggestione è il mito della caverna di
Platone. Dunque, quando l’ideologia si
è trasformata in dogma e ha indicato la
verità, coloro che si rifiutano di aderirvi
sono individui che come minimo devono essere corretti, e se non si correggono devono essere convertiti, e se non si
convertono devono essere violentati.
Giorgio Napolitano
Io penso che gli stermini, i massacri,
le repressioni, le deportazioni abbiano
avuto una radice in quelli che possiamo
definire “deliri ideologici”. E credo che il
totalitarismo abbia rappresentato una
degenerazione del sistema politico scaturita da due ideologie, il nazismo e il
comunismo, che pure erano contrapposte l’una all’altra.
L’UTOPIA CAPOVOLTA
Ritenete che l’opinione pubblica
europea giudichi il totalitarismo
nazista e quello comunista alla
medesima stregua, o invece
applichi giudizi di natura
differente?
Sergio Romano
Una prima differenza è dovuta alla
convinzione molto radicata ancora oggi
nelle società europee, o almeno in una
parte delle società europee, che fra
nazismo e comunismo esista pur sempre una differenza. Il comunismo si era
proposto un ideale positivo, e se anche
tutto quello che aveva commesso lungo
la strada era stato riprovevole, non gli si
poteva negare una specie di attenuante
storica. Il nazismo si era invece proposto un ideale negativo, l’idea che una
razza fosse superiore alle altre e che
una nazione meritasse un destino
diverso da quello delle altre.
Marcello Pera
Spesso agisce nei confronti del
comunismo, e non ugualmente nei confronti del nazismo, una
sorta di pregiudizio favorevole. Si tende a pensare
che il comunismo sia, in
quanto idea, un’idea
generosa e nobile, perché
postula la fine dell’alienazione dell’uomo, la fine
dello sfruttamento e l’inizio dell’uguaglianza, non
soltanto formale, bensì
sostanziale e materiale. Si
pensa quindi che questa
idea nobile e generosa sia
stata storicamente mal
realizzata, a causa di fattori esterni.
Sergio Romano
C’è la vicenda famosa
di un colonnello dei servizi segreti sovietici che
negli anni delle grandi
purghe era adibito al
compito di boia, ed era
diventato uno straordinario esecutore di massa.
Quando doveva uccidere
vestiva un grande camice
di cuoio, (il sistema
sovietico della pallottola
alla
nuca
sporcava
molto) e procedeva a esecuzioni che potevano, in
alcuni casi, eliminare più
di duecento persone in
una notte.
Giorgio Napolitano
Marcello Pera
Questa è l’applicazione su scala di
massa dell’ideologia, ovvero ciò che è
accaduto nel XX secolo con il comunismo. E questo spiega anche il gulag,
dove sono stati imprigionati coloro che
si rifiutavano di accettare l’unica veri-
Per quello che riguarda il totalitarismo comunista si può dire ch’esso abbia
finito per dar luogo a un fenomeno di
“utopia capovolta”, per usare un’espressione di Norberto Bobbio. L’ideologia
comunista era cioè nata come l’ideologia
del passaggio dal regno della necessità al
I COMUNISTI
SENZA COMUNISMO
LAGER E GULAG: UN CONVEGNO A BERLINO
intervista che appare in questa pagina è stata sintetizzata dal video documentario Simposio sulla Libertà firmato da Alessandro Turci sul tema
dei totalitarismi del Novecento, che verrà proiettato in anteprima a Berlino il prossimo 8 novembre nell’ambito di un convegno organizzato sul tema
dall’Istituto italiano di Cultura di Berlino, dai Comitati per la Libertà e dalla
Fondazione Adenauer. Prodotto dall’IIC di Berlino e realizzato con il sostegno
del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, il video ospita testimonianze dei tre autorevoli esponenti delle istituzioni e della cultura ed è incorniciato dalla lettura di alcuni brani di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solz̆enicyn
da parte di Giorgio Albertazzi.
L’
regno della libertà: un’ideologia liberatrice basata su principi di uguaglianza fra
gli uomini, che poi si è rovesciata nel suo
contrario. Penso che una radice di questa aberrazione fosse nel principio della
dittatura del proletariato, di cui naturalmente si dava una spiegazione complessa in termini teorici e scientifici, in quanto si assumeva che le democrazie borghesi fossero forme di dittatura della
borghesia e che quindi il comunismo,
per un periodo transitorio, dovesse assumere la forma della dittatura del proletariato. Ma in realtà, in quel principio,
c’era già in radice lo stalinismo.
Marcello Pera
L’idea del comunismo è un’idea giacobina; è un’idea che vuole fare l’uomo
nuovo a tavolino. È un’idea che vuole
consegnare all’uomo la verità, che
vuole conculcare nell’uomo tutti i diritti, appurato che gli unici diritti validi
sono quelli professati dall’ideologa: ma
è l’idea in sé che è sbagliata, perché è
un’idea illiberale, che non riconosce
all’individuo nessuna autonomia, nessuna propria capacità critica, nessun
diritto di costituirsi una vita propria o
un ideale proprio. Anzi, tutto questo gli
viene imposto. Allora il pregiudizio
favorevole dovrebbe cadere, se si riflettesse di più, rifiutando il principio che
l’idea è buona ma mal realizzata, e che
ci sono stati incidenti di percorso come
i gulag. Non si tratta di incidenti di percorso, ma di conseguenze drammatiche
che sono implicite nell’idea di fondo.
Sergio Romano
E questo è il dramma: uccidono credendo di fare una cosa buona, una cosa
positiva.
L’ARCIPELAGO GULAG
Ricordate quale fu l’impatto
di Arcipelago Gulag (1973)
di Aleksandr Solz̆enicyn
sugli intellettuali europei?
Giorgio Napolitano
Il libro di Solz̆enicyn ebbe un impatto forte. Bisogna però tenere conto che
esso apparve dopo le dichiarazioni fatte
da Nikita Chrus̆c̆ëv al XX congresso del
partito comunista dell’Unione Sovietica,
e in quel cosiddetto rapporto segreto era
già detto tutto. Quindi fu una conferma
e fu una conferma drammatica, vissuta
dall’interno, ed espressa in una forma
letteraria elevata, di tutto quello che
Chrus̆c̆ëv aveva denunciato come delitti dello stalinismo.
Marcello Pera
Provocò in coloro che professavano
l’ideologia comunista un profondo smarrimento; Solz̆enicyn produsse sorpresa e
smarrimento anche in altri, che non
erano sospettabili di simpatie con il
comunismo, ma che non conoscevano in
termini così diretti ed efficaci quella realtà. Sembrava un romanzo ma non era un
romanzo, era un documento impietoso
che contribuì molto, in Occidente, a far
mutare la percezione del fenomeno del
comunismo. Arcipelago Gulag è stato un
documento letterario di grande importanza, che ha cambiato la vita di molti
intellettuali.
Sergio Romano
Il paese che ebbe la reazione più
interessante a Solz̆enicyn e ad Arcipelago gulag fu la Francia. In Francia assistemmo a una generazione di intellettuali (i cosiddetti nouveaux philosophes)
Quindi la condanna senza appello
nei confronti del nazismo,
non è altrettanto severa
nei confronti del comunismo?
Marcello Pera
In certi ambienti c’è ancora indulgenza; lo si vede non tanto nel caso
della Corea del Nord, quanto in quello
di Cuba. Spesso ritorna nei confronti di
Cuba quel pregiudizio
favorevole a cui ho fatto
riferimento in precedenza. Spesso assistiamo
anche a fenomeni di
rimozione della vista,
come se alcune situazioni
di palese violazione di
alcuni diritti non fossero
vere, e sempre per effetto
del pregiudizio favorevole. Direi tuttavia che il
mondo è cambiato dopo il
1989:
con
la
fine
dell’Unione Sovietica il
comunismo non ha più
uno Stato imperiale come
punto di riferimento per altri paesi.
ramente una personalità dotata di fascino, è un hidalgo e affascina anche me.
So che cosa ha fatto, che cosa sta facendo e quali sono i suoi metodi di governo;
ma ho l’impressione che se continua a
governare nel mondo attuale – orfano
dell’Unione Sovietica e con la Cina divenuta capitalista – lo debba soprattutto al
fatto che una parte della sua opinione
pubblica, come una parte dell’opinione
pubblica latino-americana, lo considera
l’ultimo dei libertadores. E questo lo colloca in una categoria a sé, gli da un po’di
credito, lo salva insomma dalla condanna totale.
CATTIVI MAESTRI
Quale ruolo giocano, oggi,
gli intellettuali nella formazione
del consenso per un movimento
politico di ispirazione totalitaria
o nella sua valutazione storica?
Sergio Romano
Innanzitutto: ci sono ancora i maîtres à penser, quelle figure che hanno
una cattedra intellettuale e morale
dalla quale impartiscono il verbo? Non
ne sono sicuro. Certo, quando esistevano ideologie forti, l’intellettuale
organico, vale a dire il “sacerdote” che
predicava quelle ideologie in termini
vibranti e accattivanti
(una figura come Sartre
ad esempio) godeva di
un largo seguito.
Marcello Pera
Per quanto riguarda
le classi intellettuali occidentali è sorto un atteggiamento di disincanto.
Anzi, talvolta il disincanto è stato tale che il pendolo è oscillato dalla
parte opposta: dall’ideologia dogmatica prima al
relativismo più aperto
dopo.
Sergio Romano
Sergio Romano
Credo che il consenso per Fidel
Castro sia in Italia minoritario, ma esiste.
Mi ha sempre interessato cercare di
capire perché questa minoranza continui
a vedere in Castro un modello, o comunque un esempio positivo. Credo che giochino alcuni fattori. Innanzitutto chi
continua a dichiararsi comunista ha un
grosso problema: quello di poter disporre di un modello realizzato a cui fare
riferimento. L’Unione Sovietica è scomparsa, come sono scomparsi del resto i
paesi del blocco sovietico. La Cina è
comunista formalmente e teoricamente,
ma il suo regime è ormai ben diverso da
quello dei paesi comunisti. Il Vietnam è
cambiato, la Corea del Nord non è un
modello per nessuno. Castro, quindi,
continua in qualche modo a essere interessante. Prima di tutto perché è interessante fisicamente: è un libertador, qualcosa di molto diverso da un monaco
della rivoluzione in stile bolscevico. È
l’uomo che ha liberato il suo Paese dalla
condizione di semi-colonia degli Stati
Uniti. Questo fattore lo rende attraente, e
non solo per i comunisti italiani. È sicu-
Prenda il caso della Costituzione Europea: ci sono intellettuali europeisti e intellettuali euro-scettici; intellettuali localisti o nazionalisti; intellettuali cattolici
per i quali l’Europa esiste soltanto come
una res publica cristiana. C’è una grande
pluralità di voci, che non mi dispiace affatto, perché non ho mai amato la dittatura degli intellettuali. Se dovessi scegliere
tra la dittatura dei funzionari e quella degli intellettuali, preferirei la prima, perché i funzionari sono meno irresponsabili. Bene o male ogni giorno devono confrontarsi con problemi reali e sono consapevoli del fatto che le loro azioni e decisioni avranno ricadute pratiche. L’intellettuale invece è totalmente irresponsabile: anzi, per molti aspetti, il suo successo dipende dal suo tasso di irresponsabilità. Quanto più è stravagante, quanto più
è eccentrico, quanto più è apocalittico,
tanto più ha cattedra e seguito.
•
Al centro, una parata militare nella Piazza
Rossa di Mosca, nel 1983. Sopra, Aleksandr
Solz̆enicyn. A sinistra, Fidel Castro
FALSI MITI
LA VIOLENZA DELL’UTOPIA ROSSA
NELLA RACCOLTA DI SAGGI CHE PAUL
HOLLANDER PUBBLICA IN NOVEMBRE
scirà in autunno e già si candida a diventare una pietra
miliare degli studi sul comunismo. S’intitola From the Gulag to
the Killing Fields: Personal Accounts of Political Violence and Repression in Communist States e lo
pubblica l’ISI Books di Wilmington,
nel Delaware, la casa editrice dell’Intercollegiate Studies Institute,
uno dei maggiori think tank conservatori degli Stati Uniti con specifici
scopi educativi. Gode infatti di una
capillare rete di filiazioni e di corrispondenti nei campus universitari
del Paese e si autodescrive come
una “università alternativa”.
Ha del resto una grande peculiarità l’ISI. La sua casa editrice, l’ISI
Books, diretta da Jeffrey O. Nelson,
vicepresidente del think tank, non è
solo lo strumento per la pubblicazione di expertise, documenti e studi nati in seno alla fondazione, come
lo sono un po’ tutti i marchi editoriali dei think tank americani anche importanti. È invece una vera e propria
casa editrice, con una dignità e
un’autonomia proprie, che pubblica titoli di qualità e di sicuro successo
sul mercato. Un’intrapresa, insomma, dentro l’intrapresa, che moltiplica e diffonde i preziosi e statutari
sforzi educativi della fondazione.
L’annunciato From the Gulag
U
to the Killing Fields è una raccolta
di saggi curata da Paul Hollander e
introdotta da Anne Applebaum.
Hollander, docente emerito di
Sociologia all’Università del Massachusetts di Amherst, è membro del
Davis Center for Russian and Eurasian Studies dell’Università Harvard
e autore di diversi libri, fra cui indimenticabile e decisivo Pellegrini politici: intellettuali occidentali in
Unione Sovietica, Cina e Cuba
(trad. it. il Mulino, Bologna 1988)
L’Applebaum è autrice di Gulag: storia dei campi di concentramento sovietici (trad. it. Mondadori, Milano 2004) con cui lo scorso anno ha vinto il Premio Pulitzer
per la saggistica.
Il volume raccoglie più di 40
testimonianze della violenza utilizzata sistematicamente e per decenni come strumento di lotta politica dai regimi comunisti. Per Hollander, queste memorie mostrano
come il comunismo si sia caratterizzato per essere “violenza per
uno scopo superiore”, quello di
creare un sistema perfetto che non
solo ne risolvesse le contraddizioni, ma che anzitutto riformasse
completamente il reale.
Eccole le famose buone intenzioni originarie del comunismo. •
M.R.
Good News from Down Under. Il genocidio inventato
dell’Australia, gli aborigeni e l’odio contro l’Occidente
YDNEY, AUSTRALIA. Mentre la polizia confermava, in
luglio, di avere sventato un
nuovo attentato di Al Qaida nel
Paese, intellettuali neoconservatori come John Dawson mi hanno
spiegato che «la questione centrale qui resta quella degli aborigeni». A chi, venendo dall’Europa,
rimane sorpreso, viene spiegato
che la questione è se l’Occidente,
S
La “vulgata” marxista
dice che gli europei
hanno mietuto
migliaia di vittime.
Le ricerche scientifiche
ne contano 125
la cui storia non è certo solo gloriosa, sia però portatore di valori
che vale la pena difendere.
Per la Sinistra locale la storia
dell’Australia riposa su un peccato originale: il “genocidio” di decine, forse centinaia di migliaia di
aborigeni da parte dei coloni
bianchi, e l’“etnocidio” perpetrato dai missionari cristiani, protestanti e cattolici, che ne hanno in
gran parte distrutto la cultura e la
religione imponendo conversioni
forzate al cristianesimo. Si domanda quindi di continuo al governo di chiedere solennemente
scusa agli aborigeni e di concedere loro terre, posti di lavoro pubblici e generosi sussidi.
Questa propaganda riposa su
una storiografia che due generazioni di accademici marxisti e
postmarxisti – generosamente finanziati dai governi socialisti qui
in carica fino al 1996 – hanno imposto nei libri di testo, nei musei,
nella letteratura e nel cinema. È la
storia di aborigeni pacifici e gentili sterminati senza pietà dai coloni sotto l’occhio tollerante di
missionari del tutto privi di misericordia verso i “pagani”.
A partire dal 2002, le cose sono però cambiate. Un autorevole
storico – ed ex marxista pentito
diventato oggi neoconservatore -,
Keith Windschuttle, ha pubblicato il primo di tre volumi di un’opera monumentale su La falsificazione della storia aborigena
(The Fabrication of Aboriginal History, vol. I, Macleay, Sydney
2002), dedicato alla Tasmania, l’isola dove secondo la storiografia
di sinistra sarebbe avvenuto il genocidio peggiore, con migliaia di
aborigeni uccisi. Windschuttle
ne riduce il numero a 125 e sostie-
ne che in Australia in genere la riduzione dei 350mila aborigeni
del 1800 ai 100mila del 1950 è derivata dalle malattie infettive e
da violentissimi scontri intratribali ben più che da presunti massacri operati dai coloni, contro i
quali non vi furono mai vere
“guerre di resistenza”. Anzi, proprio grazie anche all’opera dei
missionari il numero degli aborigeni è risalito oggi a oltre 400mila unità e molti di loro, in gran
parte cristiani, si vanno integrando nella società australiana.
Quanto ai “beneficiari” delle
politiche di sussidi e di “preser-
Un aborigeno
in una grande città
dell’Australia.
Lo storico
neoconservatore
Keith Windschuttle
ha enormemente
ridimensionato
la “leggenda nera”
che colpisce bianchi
e missionari
vazione della cultura aborigena”
varate dai governi socialisti, essi
vivono per la maggior parte in riserve con altissimi tassi di alcolismo, violenza e uso di droga.
Molti leader aborigeni denunciano questo “aborigenismo” ideologico come un totale fallimento.
Windschuttle ha lasciato l’università prima di farsi buttare
fuori, ma rimane lo storico australiano più noto al grande pubblico.
I tentativi di demonizzarlo da parte dei suoi ex -colleghi sono per
buona parte ridicoli. Per esempio,
fiumi d’inchiostro sono stati versati da quegli stessi storici che avevano sostenuto per anni che le vittime in Tasmania erano state migliaia per dimostrare che gli aborigeni uccisi da bianchi nell’isola
non sono stati 125, come sostiene
Winschuttle, ma... 135.
Dal’altra parte, la campagna
contro lo storico è inquietante.
Mostra che, in Australia come altrove, la costruzione di un odio
verso l’Occidente da parte di una
certa Sinistra non solo non si arresta di fronte alla falsificazione sistematica della storia, ma pretende di esercitare tramite la censura
e l’intimidazione un vero e proprio monopolio sulla cultura. •
Massimo Introvigne
LA REPUBBLICA DELLE LETTERE
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
di Marco Respinti
Il Graal nella letteratura
del profondo Sud degli States
ra passato quasi un secolo dalla
Guerra che caparbiamente si continua a definire “civile”, ma per Donald G. Davidson (1893-1968) non era
cambiato alcunché. Still Rebels, Still
Testimonianze viventi di un’altra
Yankees, and Other Essays s’intitolò in- America, di un’altrAmerica dentro l’Afatti quel suo grido – ancora – di batta- merica, di un pezzo di Europa trapiantaglia che pubblicò nel 1957 a
to nel Mondo Nuovo (come
quasi tre decenni di distandiceva Tate), di un modo diza da quell’altro grido, I’ll
verso di essere americani.
Take My Stand: The South
Come definirli? Fortuand the Agrarian Tradition
natamente in nessun mo(1930), che, sotto la guida
do. Li si è bollati di “reaziodi Allen Tate (1899-1979),
ne” e pure di “fascismo”.
aveva riunito le dodici miDa noi però qualche framgliori menti e penne di quel
mento lo tradussero nel
Meridione degli Stati Uniti
pleistocene superiore i
che oggi vale solo sarcamarxisti perché una certa
Robert Penn
smo, barzellette e sberleffi.
reazione faceva gioco conWarren
Fra loro c’erano Robert
tro l’industrialismo e il caPenn Warren (1905-1989),
pitalismo del Nord yankee.
John Crowe Ransom (1888Poi però si sono accorti che
1974) Stark Young (1881le bugie hanno le gambe
1963) ed Andrew Nelson
corte e hanno smesso faLytle (1902-1995).
cendo finta di nulla.
Accanto a quei Dodici,
Del resto, anche profesin una nicchia tutta loro, ma
sionalmente, in quella lotta
non meno significativa e
dei “generi” letterari che ha
decisamente intrecciata alle
oramai surclassato la “batsorti “dei maschi”, stavano
taglia dei libri”, e che tanto
Andrew
le donne, Caroline Gordon
tanto piace ai critici profesNelson
(1895-1981) – moglie di Tasionisti, questo manipolo
Lytle
te – e Flannery O’Connor
di penne, di teste e di anime
(1925-1964). Quindi i “fiancheggiatori”, spiazza. Ognuna delle loro biografie
Richard M. Weaver (1910-1963), Walker sciorina infatti la variazione di una filaPercy (1916-1990) e Cleanth Brooks strocca fissa che vale più o meno uguale
(1906-1994). Infine gli epigoni, da un la- per tutti. «American poet, artist, noveto Melvin E. Bradford (1934-1993), dal- list, essayst, philospher and famer». Lol’altro Wendell Berry (nato nel 1934).
ro si definivano (almeno il nucleo origi-
E
nario) “Southern Agrarian”; noi, ammorbati dagli “-ismi” e figli dei film di
Hollywood visti in traduzione, li chiamiamo con l’inesistente “sudisti”.
Di agrario loro avevano tutto. Spessissimo pure la passione vera per il lavoro della terra e magari un pezzo di campo da arare; sempre la convinzione che
la rural life esprima e convogli il modo
più umano d’intendere il vivere sociale.
Il confronto-scontro con la terra, con
i suoi rigori e con le sue asprezze, poi i
modi sociali che essa esige e impone,
fatti di collaborazione, unità, personalità e agricoltura razionale, quindi i costumi schietti a cui essa alleva, erano e sono
per i figli del Sud degli States la scuole di
vita più sincera. Quelle che più schiettamente sbattono in faccia all’uomo la vita, la vita tutta, così come essa è, così come si presenta, non così come la si vorrebbe utopisticamente addomesticata.
La terra, dunque, oltre che riferimento concreto e oggettivo, si fa simbolo. Non ideologia, per carità. A spese
proprie, il Sud le aveva patite tutte le cariche d’artiglieria dell’ideologismo.
E la terra come simbolo, raccontata e
cantata in mille fogge e con mille e una
maschera, è la grande intuizione che nel
Sud si fa letteratura. Storica, come nel caso di Lytle e di Tate, grottesca come nel caso della O’Connor, gravida di quella che
Gabriel Marcel chiama morsure du réel
nel caso di Percy, ma sempre letteratura.
Ossia racconto. Nel Sud è fictio infatti
anche la biografia politica, anche la saggistica dedicata alla sublime arte del retore, persino la storia materiale, fattuale.
Perché nel Sud nordamericano l’artista – in specifico lo scrittore – è sempre
un bardo. Il cantore deputato e ufficiale
di una comunità: una comunità che si
raduna attorno a un fuoco che arde della
fiamma imperitura (anche sotto il tiro
incrociato del piombo nemico) delle sue
usanze, dei suoi princìpi, dei suoi costumi. Senz’alcuna affettazione, senz’alcun tradizionalismo, ma con enormi
quantità di realismo e di giudizio.
Tradizionale il Sud lo è perché lo è,
non perché lo fa. Tate si lamentava vistosamente delle tragedie aperte dalla
Guerra “civile”: soprattutto il fatto che il
Sud avesse imparato dal Nord tipi di
comportamento nuovi. Ovvero a fare,
invece che essere, la tradizione, a inventarsi un nuovo “io atavico”, a fingere insomma di essere Sud. Il “nuovo Sud” per
Tate era la grande bestemmia dell’apostasia. Aveva, in gran parte, ragione.
Mancano da tempo infatti i Davidson, i
Penn Warren, le O’Connor, i Percy.
E infatti la terra langue, il Sud boccheggia. È una grande parabola, quella
del Sud, identica a quella che nella letteratura medioevale di genere graalico lega
i destini del signore alla sua terra. Ferito
l’uno, soffre l’altra. Inaridita l’una, s’impoverisce l’altro. I bardi del Sud sono
sempre stati piccoli lord di una terra vivente. Oggi, a 100 anni dalla nascita di
Penn Warren e a 10 dalla morte di Lytle,
il grido antico riecheggia ancora, ancora
ribelli noi, ancora yankee voi. È molto di
più di uno slogan, è la Cerca del Graal. •
STILL REBELS, STILL YANKEES
Oltre il flagello e l’eucarestia della neve
Ancora la roccia torturata e riluttante
Riceve il sole e la pioggia offuscata.
Questa è l’ora di separazione che conosciamo,
Avendo visto ergersi e passare sulle colline,
Caparbi e taciturni,
Uomini scarni, gli unici che figuravano,
Non come l’acqua o l’erba febbrile,
Affratellati alla pietra selvaggia.
Robert P. Warren, da Fattoria di montagna nel Kentucky, in Racconto del tempo e altre poesie
1923-1971, trad. it. di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1971
di Davide Brullo
illiam Faulkner (1897-1962), il
cui nome rintocca sovente in
queste pagine, è il capobranco
del “Southern novel”, categoria in verità
mai coniata ma che tutti sanno cos’è
(quelli che ci appartengono), e cioè quel
romanzo irriducibile a “tendenze” o
“classifiche” che, semplificando di molto
e di brutto, è connotato da un “senso del
luogo” e dunque della stirpe e della propria Storia altissimi, e da un agonistico
“fare a cazzotti” con la Bibbia, o, se preferite, con le domande ancestrali e originarie che sommuovono l’essere eretto, o, se
preferite ancora, con la sua antica, inestirpabile “colpa”. Detto molto e detto niente.
Mastro Guglielmo focalizza assai meglio ciò che Sherwood Anderson (18761941), di cui non a caso si era nutrito abbondantemente (come Hemingway, e come lui sculacciandolo apertamente nei
tempi della gioventù – tattica del parricidio – per poi rieleggerlo a maestro nella
savia maturità), ha intuito, piglia di petto
Mark Twain (1835-1910) e lo svuota di
quel polposo umorismo, segue Melville
ma non fino alle soglie della gnosi, s’inventa una contea tutta sua dove sceneggiare i suoi deliri e la zuppa è pronta.
Faulkner lavora di severità e ferocia, “goticheggia”. Una stramba vulgata vuole
che il Nostro abbia scritto le opere “capitali” in sette anni, dall’uscita dell’Urlo e il
furore (1929) a quella di Assalonne, Assalonne! (1936), cioè gli anni in cui l’americano dannava la notte a scrivere, ossessionato da debiti e pazzie, negli anni più
difficili (ma non esistono anni “facili” per
chi, come disse lui, perpetua lo «splendido fallimento nella creazione dell’impossibile»). In mezzo, tra sperimenti dinamici ed eretici, capolavori come Mentre mo-
W
Un grazie a clanDestino, n°I 2005,
(La Nuova Agape, Forlì, e7,00),
e nella fattispecie ad Andrea Tontini
che con il suo Omaggio ad Allen
Tante, ci ha offerto il destro
per questa nostra indagine.
Nella rivista segnaliamo anche
un’intervista a Mario Luzi
a cura di Francesca Fabbri
e un pensiero sui “Nuovissimi”
Mondadori di Gianfranco Lauretano
a cura di Fabio Canessa
NESI HA SCRITTO UN BEL LIBRO, E SI MERITAVA LO STREGA
doardo Nesi era il favorito del Premio Strega, ma non l’ha vinto ed è
un peccato. Non perché il suo romanzo sia privo di difetti, ma perché risulta il più significativo della narrativa italiana contemporanea. Quello che con
maggiore nettezza e lucidità rispecchia la
generale assenza di speranze e la più totale sfiducia nel futuro di questi anni, raccontando, fra brani lirici e dialoghi serrati, il malinconico crepuscolo di un’Italia
perduta. Da qualsiasi verso la si prenda:
politico, sociale, familiare, esistenziale. È
significativo che uno
scrittore quarantenEDOARDO NESI,
ne, un toscano colto
L’ETÀ DELL’ORO,
che dimostra anche
Bompiani, Milano,
pp.352, e16,00
una vena ironica e
scanzonata,
una
buona conoscenza della letteratura, del
rock e del cinema, nonché un’abilità narrativa dalle strategie brillanti e dal montaggio efficace, decida di narrare nella
sua opera di maggior respiro il declino fisico ed economico di un industriale tessile pratese della generazione dei nostri
padri. Seguiamo la lacerante parabola discendente di quello che un tempo fu
l’uomo più ricco di Prato, dalla chiusura
della ditta al tremendo verdetto di morte
imposto da una malattia terminale fino al
disperato viaggio con il quale, rapita da
una clinica psichiatrica una povera ventenne vittima di una crudele vendetta
E
dell’ex-fidanzato (ha diffuso via Internet
una loro prestazione erotica), cerca di
avere un figlio da lei attraverso la fecondazione artificiale. I pregi del romanzo
stanno nel memorabile ritratto del suo
italianissimo protagonista, nella bellezza
di molte pagine davvero da antologia,
che farebbero la loro figura anche come
racconti perfetti (si vedano i capitoli Gocce di mercurio, Stanotte, Minimal e soprattutto Una donna cannone, con la
borghesia pratese al Metastasio per il
concerto di De Gregori). Quel che convince meno è una certa indulgenza per lo
strazio (soprattutto nel finale) e alcune
lungaggini, per cui qualche taglio avrebbe reso il tutto più incisivo. Fra i capannoni in demolizione della zona industriale
(cui farà da mesto pendant la clinica della
speranza che i due troveranno abbandonata da tempo) e i cerotti di morfina che
leniscono il dolore allo stomaco si rimpiange un’Età dell’oro che forse non c’è
mai stata, s’immagina che qualcuno venga dal futuro a viaggiare nella nostra
epoca perché c’è il sospetto che il domani
sarà ancora peggiore dell’oggi, si riflette
che «in Italia le cose e le persone più interessanti e belle sono tutte già morte» e,
convinti «dell’assoluta inutilità di quel
momento, di quella giornata, della tua
vita», ci si perde «in questa desolazione
infinita e bellissima». Ma il naufragare in
questo mare è avvilente.
LA BIBBIA, IL MIGLIOR LIBRO CHE POTETE LEGGERE AI FIGLI
a Bibbia è il miglior libro che potremmo leggere ai nostri figli. E
questo, si badi, al di fuori di qualsiasi idea o pregiudizio o concezione riguardo alla “fede”, che se verrà verrà, altrimenti è lo stesso (e Lui comunque li ghermisce tutti, uno per uno). La lettura della
Bibbia è lettura “didattica” e pregevolissima. Provate ad addormentarli leggendo il
Libro dei Re, o l’epopea dell’Esodo. Non si
addormenteranno. Non tanto per le mirabolanti avventure capitate ai patriarchi,
ma per quella nettezza e ferocia, per quella vastità d’immagini
e idee con cui le cose
GIUSI QUARENGHI
vengono narrate. La
E MICHELE FERRI,
Bibbia a volte dà un
TUA È LA VENDETTA,
senso di claustrofoSan Paolo, Milano,
pp.32, e5,00
bia, viene da gettarla
fuori dalla finestra. È
logico, così capita di fronte a chi ti sbatte,
muso duro e senza museruole, una certa,
inscalfibile verità sull’uomo. Più tardi, in
altra misura, capiranno, i nostri piccoli,
che lo stesso accade con i “giganti” della
letteratura, gente che in altro modo (più
modesto o semplicemente più umano?),
se li sapranno ascoltare, salverà loro la vita
complicandola. Già, perché la lettura della
Bibbia, semplificando le questioni fino alla
propria radice ossea, non calma, inquieta.
Il mistero del male, della giustizia, della
L
eppe Sebaste non ha vinto lo Strega perché non è entrato nella cinquina. Altrimenti, afferma con
certezza il suo editore, non ci sarebbe stata partita. Poiché non siamo indovini,
non abbiamo la stessa sicurezza, ma dobbiamo riconoscere che il libro di Sebaste ci
fa l’impressione di
una boccata d’aria
BEPPE SEBASTE,
fresca in mezzo a
H.P. L’ULTIMO
AUTISTA DI LADY
tanta desolazione.
DIANA, Quiritta,
Intanto lo spunto è
Roma, pp.240, s13,00 assai originale: tracciare l’identikit di
una comparsa della nostra storia recente,
come fu lo sfortunato autista Henry Paul,
che guidava la Mercedes di Lady Diana
Spencer e Dodi Al Fayed la tragica notte
dell’incidente mortale nel tunnel parigino, si dimostra un’idea vincente. Che poi
Sebaste articoli il suo libro come un’inchiesta rigorosa e ricca di suggestioni,
B
Storia in pillole del “Southern
novel”, tra Faulkner e Wolfe
rivo (1930) e Luce d’agosto (1932). Ma sezionare Faulkner è un’idiozia. Agli anni
della “ricerca” e della “fondazione” seguono quelli dell’“istituzionalizzazione
della legge”, in cui il progetto dell’unica,
biblica epopea si salda al di là di ogni possibile immaginazione. Go down, Moses
(1942), romanzo epocale in forma di racconti, è un caposaldo del genere, Requiem
per una monaca (1951) una perla assoluta, la trilogia de Il borgo (1940), La città
(1961) e Il palazzo (1963), lo stemma conclusivo, la fibbia che sigilla, istoriata dal
perfetto I saccheggiatori (1962).
Impossibile fare di meglio. James
Agee (1909-1955) tentò di raccontare la
disperazione del Sud e dei suoi vinti nel
suggestivo Sia lode ora agli uomini illustri (1941), ma l’idea che sta al fondo è radicalmente distante dalle peripezie, anche linguistiche, in cui la lingua è tuttuna
con il suo detto, faulkneriane. Flannery
O’Connor (1925-1964) devia dalla rotta
di Mastro Guglielmo da par suo, con furore terrestre e mistico assoluto, mettendo
LO SCAFFALE DEI GRANDI
E PICCOLI EDITORI
vendetta, della colpa e della redenzione.
Domande così originarie da subito colmeranno le menti dei piccoli che riguardo a
ciò hanno insperata sveltezza, capacità vivace di comprendere e assumere. Perché
a loro parla lo stupore prima che l’intelletto. Ecco allora che questa serie di volumi
(sono già otto), lievi e lieti, efficacemente
illustrati da Michele Ferri, sono utilissimi a
un primo, ma non meno ferino, approccio
con il testo sacro. È la penna di Giusi Quarenghi a rendere più digeribile alla capacità di lettura dei piccini i Salmi biblici, dunque alcune delle pagine in cui maggiormente risuonano quegli interrogativi,
quelle capitali questioni di cui dicevamo.
In questo volumetto ad esempio, che mima il Salmo 73 (al termine del libro l’interpretazione “facilitata” della Quarenghi è
messa sinotticamente al fianco dell’originale), si parte con la terribile domanda che
Giobbe rifarà da par suo: «Sei buono con
chi è buono/ ma con i cattivi sei più buono./ Tratti bene gli innocenti/ ma i malvagi li tratti meglio». I Salmi quasi sempre
terminano con un “abbraccio” al divino,
ma è chiaro che un simile interrogativo,
sporto a giovani mascelle, non potrà che
produrre capaci pensieri. I piccoli hanno
bisogno di petrosi interrogativi fin da subito. E in quanto alle risposte, le sanno trovare meglio di noi.
E.A.
STORIA DI HENRY PAUL, L’AUTISTA DI LADY DIANA
Allen Tate, ©CORBIS
Le colline sono stanche, svaniti gli uomini scarni;
Le rocce sono colpite, e finalmente il gelo
Ne ha frantumato la base corrugata;
Gli atomi infranti sono ora portati
Dall’acqua scorrente nell’alta, profonda
Ombra degli abissi assoluti,
In cui mai sopito si muove lo spirito
Che tenne il piede fra le rocce, serrò
La mano stanca sull’aratro caparbio,
Avvinse la carne all’osso affamato,
La gemma rossa al ramo carbonizzato e spezzato,
Tese i tendini amari della pietra.
IL DOMENICALE 5
un tassello imprescindibile al “Southern
novel”. La trafila giunge fino al più importante scrittore americano vivente, Cormac McCarthy (1933), in cui la coerente
lettura dei maestri (il legame con Faulkner e la O’Cormac
Connor si consuma nel roMcCarthy
manzo, pure già estremo,
petroso, Il buio fuori, del
1968) si sfarina nella creazione di un universo che gli
uomini non sanno più comprendere, in cui gli dèi sono
manufatti maligni che sovvertono le leggi comuni nell’unica legge della violenza
e dell’usurpazione. La nudità quasi folle delle storie e
la lingua che procede per
elementi primi e rocciosi,
priva di precedenti, ormai
priva di quei compiti “cronachistici” di un Faulkner o
“redentivi” di una O’Connor, tocca la vetta in Meridiano di sangue (1985).
Sulla sponda opposta a
Faulkner, della stessa generazione e come lui considerato fin dagli inizi uno
dei migliori dei “perduti”
che avrebbero scombussolato le lettere non solo degli
States, sta Thomas Wolfe (1900-1938),
che non lasciò epigoni (e come avrebbe
potuto vista la sua assoluta eccentricità?) e la cui opera, pur celebrata per mari
e monti, ancora fa discutere. Forse per
quello spirito un tanto naïf che la pervade, per quella lingua tortuosa, magmatica, “cosmica” che la rende un tanto ostica. E che guarda da sempre a Withman
più che ai padri del Sud. Per questo forse
uno spirito acuto come Robert Penn
Warren, che pure adorava Faulkner (si
veda la curatela a Faulkner: a collection
of critical essays, del 1966), lo trovava,
pur riconoscendogli parecchie dosi di
talento, un poco indigesto, e gli era inconcepibile
quella facilità a disperdersi piuttosto che “centrare
il punto” (si veda un suo
saggio in The Enigma of
Thomas Wolfe, 1953).
Fu proprio lui, Wolfe,
tra l’altro, autore di un libro di successo come Angelo, guarda il passato
(1929), cronaca della leggendaria famiglia Gant che
poi continuò nel solo libro
diviso per tre (un unico immane libro di “cronache”
Thomas
come Faulkner) da MaxWolfe
well Perkins Il fiume e il
tempo (1935), La ragnatela e la roccia (1939) e Non
puoi tornare a casa (1940),
a dire, nella fondamentale
ermeneutica sua, di lui e
dei suoi testi, passata come Storia di un romanzo
(1935): «So che la porta
non è ancora aperta, so che
la lingua, la parola, il linguaggio che io cerco non è
stato ancora trovato, ma credo con tutto il
cuore di aver trovato la via, di aver aperto
un varco, di aver mosso il primo passo».
Colpevolmente pionieri, questi sudisti,
sempre, dal primo all’ultimo.
•
raccontando, attraverso una minuziosa
ricerca di testimonianze di chi lo conobbe, il ritratto di un uomo, per comporre
man mano i tasselli di un puzzle che riserva molte sorprese a chi, di quei fatti, fu un
distratto lettore delle cronache, rende avvincente la narrazione. Svolgendo con
acume e pazienza la matassa dei processi
e delle versioni ufficiali e raffreddando
con la precisione dei dati la carica emotiva
che forse alterò la dinamica della vicenda,
Sebaste procede senza pregiudizi né tesi
a priori. Solo con una dichiarata simpatia
per un poveretto che rischia di essere stato il capro espiatorio di uno scenario molto più grande di lui. Si esce dalla lettura
senza una soluzione sicura, ma con molti
dubbi. Fertili anche per meditare non solo
su quell’avvenimento, ma sull’intera società contemporanea. E sulle sciagure
private degli umili che si stagliano sullo
sfondo della storia pubblica dei potenti.
NON SOLO GLI AMERICANI SANNO SCRIVERE THRILLER...
doardo Montolli non poteva vincere lo Strega, perché nessuno
penserebbe mai a selezionare per
quel premio un romanzo di genere, un
thriller a tinte forti che mantiene quel che
promette (e forse un po’ di più). Invece
non ve ne pentirete se, girando alla larga
dalla nobile noia di tanti autori velleitari,
sceglierete di portarvi sotto l’ombrellone
questo
efferato
noir, nutrito delle
EDOARDO
ossessioni e della
MONTOLLI,
competenza nel raIL BOIA,
Hobby & Work,
mo di un giornalista
Milano, pp.258,
che si è dedicato,
e16,50
per vocazione e curiosità, alla cronaca
che più nera non si può. Affidando la scena al suo alter ego Manuel Montero, un
giornalista alcolizzato specialista di perversioni sessuali, che passa le notti al cimitero per dormire al fianco della tomba
della sua innamorata suicida, Montolli
imbastisce un plot a tinte forti, con un serial killer che fa cose pochissimo belle. Ne
E
fanno le spese prima un monsignore orribilmente straziato, poi un guardone
obeso e un notaio che finisce impalato al
posto di uno spaventapasseri. Ma siamo
solo all’inizio. Il succulento menù ci riserva altre pietanze per stomaci forti, servite calde da una scrittura mai morbosa o
compiaciuta, anzi asciutta e incalzante.
Qualche ingenuità gliela perdoniamo
volentieri, perché il giallo ci appassiona e
la lettura procede a ritmo trascinante,
spronata dal gusto del raccapriccio e incurante di certe inverosimiglianze. L’inchiesta procede spedita fra macabri colpi
di scena, un commissario alla tenente
Colombo che fiuta l’aria e sente odore di
morte, whisky e sigarette a gogò come si
addice al genere, alberghi sordidi e club
sadomaso dove il più pulito ha la rogna,
vestiti gualciti e tetre filastrocche che siglano ogni delitto. Mentre un pazzo criminale, chiuso in manicomio, disegna in
anteprima le gesta dell’assassino. Chi ha
detto che solo gli americani conoscono la
ricetta per un buon thriller?
FINESTRE APERTE
6 IL DOMENICALE
ILLUMINISMO E ROMANTICISMO SONO LE MATRICI
DELLA MODERNITÀ: L’UNA SPREZZA IL DIVINO
COME SUPERSTIZIONE, L’ALTRA SE LO “FA DA SÉ”
go gli intricati sentieri moderni si
trovano baracche gelide, dove gli
na delle esperienze più ag- uomini non trovano riposo, e aughiaccianti che può vivere tentiche case, focolari dove posun uomo è quella di fare siamo dimorare senza che ci si geuna visita al campo di concentra- li il sangue.
mento di Auschwitz. Sorprende
SECOLARIZZAZIONI
trovare lì una folla di turisti che
Non di rado si identifica la Monon gridano, né corrono né mangiano hamburger o salatini. È una dernità con un processo di secolafolla composta, rispettosa, silen- rizzazione. Se l’identificazione si
ziosa. Entrare nelle baracche dove fermasse lì, avremmo una visione
venivano ammucchiati esseri della storia occidentale bipartita,
dove si opporrebbero un
umani trattati come numeMedioevo cristiano e
ri di una crudele contauna Modernità sebilità colpisce procolarizzata. Ma né
fondamente, gela il
il Medioevo è
sangue. Tutto è
completamente
freddo, squallicristiano né la
do, inumano. La
Modernità
è
presenza del macompletamente
le —presenza misecolarizzata.
steriosa, ma reale
Anzi, si potrebbe
— pesa sul cuore
dire che la Moderdel visitatore. Ma in
Fëdor Dostoevskij
nità è più cristiana riquesto paesaggio di
spetto al Medioevo, aluna tristezza sconfinata
meno per quanto riguarda il
c’è una baracca un po’ diversa. È quella della cella nella quale rapporto tra ordine naturale e sotrascorse i suoi ultimi giorni un prannaturale: il clericalismo di
francescano polacco, canonizzato molte delle strutture sociali e polida Giovanni Paolo II, Massimiliano tiche medievali, che confonde
Kolbe. Lì, in una atmosfera pesan- questi due ambiti, identificando il
te e chiusa, solidificazione del ri- potere politico con quello spirituafiuto alla trascendenza, si respira le, e la cittadinanza della Città celesperanza, pace, gioia. Sembra co- ste con quella della Città degli uome se in quell’angolo si ritrovasse mini, viene superato a partire dal
l’umanità disprezzata e calpestata Sedicesimo secolo da una visione
nei vicini forni di cremazione. En- cristiana e non clericale dell’uotrare nella cella di san Massimilia- mo, che riscopre il valore della nano è tornare a casa, riscoprire la tura umana. Secondo questa antropologia propria dell’umanesipropria identità di figli di Dio.
Ritengo che questa esperien- mo cristiano, di origine tomista,
za, è applicabile ai diversi percor- l’elevazione all’ordine della grazia
si culturali della Modernità. Lun- non toglie nessun valore alla natu-
di Mariano Fazio*
U
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
LIBERTÀ, NAZIONE, CLASSE ECONOMICA E
SCIENZA SONO ESSENZIALI PER COMPRENDERE
L’UOMO, MA QUANDO DIVENGONO IDEOLOGIE...
ra, poiché ius divinum, quod est ex
gratia, non tollit ius humanum,
quod est ex naturali ratione (S. Th.
II-II, q.10, a.10).
Quindi se identifichiamo Modernità con secolarizzazione, bisogna sottolineare la presenza di una
versione della secolarizzazione intesa come sclericalizzazione, come distinzione tra gli ordini naturale e sovrannaturale, come presa
di coscienza dell’autonomia relativa del temporale. Questa versione
della secolarizzazione è profondamente cristiana, molto di più del
clericalismo di un certo Medioevo.
Esempi di questa sclericalizzazione, su cui purtroppo non potremo
soffermarci, sono le dottrine della
seconda scolastica spagnola — in
particolare, la Scuola di Salamanca
fondata da Francisco de Vitoria —,
il liberalismo moderato di Alexis di
Tocqueville nel XIX secolo, o le affermazioni a favore della secolarità nei documenti del Concilio Vaticano II, e più in concreto, nella
Gaudium et spes e nella Dignitatis
humanae.
Se questa sclericalizzazione
percorre l’intero arco della Modernità, c’è un’altra versione della secolarizzazione, che potremmo definire come l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo, che
porta ad una chiusura rispetto alla
trascendenza, e configurante una
certa Modernità in opposizione alla visione cristiana dell’uomo e
della storia. In questo àmbito, sì,
possiamo dire che il Medioevo, a
paragone con questa Modernità
appena descritta, ci appare come
un periodo cristiano, profondamente permeato dal senso trascen-
dente della vita. Di fronte alle domande sul senso dell’esistenza
umana, il Medioevo si costituisce
come un’epoca sensata, cioè portatrice di senso: la cultura circostante forniva delle risposte alle
domande sull’origine e il destino
finale dell’uomo sulla terra. Oggi,
invece, dopo secoli di riaffermazione dell’autonomia assoluta dell’umano, mancano in molti settori
le risposte al perché.
La Modernità, quindi, si presenta ambivalente: se da una parte
c’è una Modernità più cristiana rispetto al Medioevo in quanto esiste una consapevolezza più matu-
L’epoca moderna
assiste a una profonda
crisi della fede; le
certezze cadono e con
esse l’idea di un aldilà
ra dell’armonico rapporto tra gli
ordini naturale e sovrannaturale,
dall’altra parte c’è una Modernità
chiusa alla trascendenza, con pretese di autospiegazioni sul senso
ultimo dell’esistenza umana che
finirà, dopo l’atteggiamento prometeico del XIX e XX secolo, nel nichilismo contemporaneo. Due
Modernità diverse, dove ci sono
case e baracche.
RELATIVO ASSOLUTO
E “SPIRITO DISEREDATO”
Secolarizzazione non equivale
a perdita del senso religioso. Il processo di secolarizzazione inteso in
senso forte porta, utilizzando il famoso concetto di Max Weber, al
disincantamento del mondo. Durante l’epoca moderna c’è una crisi
della fede che si manifesta nella
demitizzazione e razionalizzazione del mondo, nella crescente perdita di ogni trascendenza che rimanda aldilà del visibile, dell’afferrabile. Con parole di Kahn si può
dire che la crisi della fede «significa
perdita di una immagine del mondo unitaria e globale sicura, nella
quale, tutte le parti si rapportavano
a un centro: perdita del centro dunque. In quanto questa immagine
del mondo con la certezza del suo
centro era eredità nostra, si può
parlare proprio di uno “spirito diseredato”, di un “disinherited
mind”» (in Letteratura e crisi della
fede, Città Nuova, Roma 1978,
p.49). Ma crisi della fede non è la
stessa cosa della scomparsa del
senso religioso. Se ciò che sparisce
è la fede in un Dio personale e trascendente, il senso religioso inerente allo spirito umano trova altri
centri, che vengono assolutizzati:
si sacralizzano elementi terreni
che forniranno le basi per religioni
sostitutive. Se questo processo è
evidente nelle ideologie contemporanee, già nella prima tappa della Modernità si verificherà questo
trasferimento di centro. Basta pensare alla ragione illuministica, al
sentimento romantico o all’Io assoluto dell’idealismo tedesco.
Se prendiamo in esame le principali correnti culturali e le ideologie della Modernità, vediamo subito che assolutizzano un elemento
relativo della realtà, diventato la
chiave per spiegare il mondo, la
storia e l’esistenza umana. Precisamente questa spiegazione globale è stato il compito delle religioni storiche. Perciò, le nuove correnti di pensiero che avocano a sé
questo ruolo ben possono definirsi
“religioni del temporale” (Julien
Benda, La trahison des clercs,
1927) o “religioni secolarizzate”
(Raymond Aron, L’âge des empires
et l’avenir de la France, 1945).
L’uomo non può vivere a suo
agio in un mondo senza punti di riferimento saldi. Perciò, questa dinamica di assolutizzazione del relativo o di sacralizzazione del temporale obbedisce ad una necessità
antropologica: se non possiamo
abitare più nella “casa” che offriva
il senso trascendente della vita,
dobbiamo costruire delle baracche
che ci possano offrire almeno l’apparenza di una certa abitabilità.
Le diverse costruzioni teoriche
della Modernità secolarizzata hanno in comune il fondarsi su un elemento importante che costituisce
la parte centrale dell’esistenza
umana. Elemento importante ma
relativo, che viene assolutizzato.
Nessuno negherà l’importanza
della ragione, dei sentimenti, della
libertà, dell’appartenenza ad una
comunità culturale, dell’economia, della scienza. Sono tutte realtà fondamentali della nostra vita e
del nostro inserimento nel mondo.
Ma allo stesso tempo ci rendiamo
conto che sono elementi relativi;
visti da una prospettiva integrale
della persona umana, nessuno di
loro, da solo, può fornire una spiegazione completa del mondo e della storia.
ILLUMINISMO
E ROMANTICISMO
Malgrado ciò, dalla metà del
XVIII secolo in poi c’è un’autentica
galleria di spiegazioni unilaterali,
che si fondano sull’assolutizzazione del relativo. Nell’elenco delle
correnti culturali moderne occupa
un posto di particolare importanza
l’Illuminismo del Settecento, una
delle due matrici, insieme al romanticismo, della cultura contemporanea.
La fiducia nella capacità della
ragione si manifesterà in un concetto chiave per capire l’Illuminismo: la nozione di progresso. L’intellettuale di questo periodo considera che l’estensione dei lumi porterà ad una vita più umana, più
saggia e più confortevole. L’Illuminismo sarà il primo periodo della
storia in cui sorgerà una disciplina
mai esistita prima: la filosofia della
storia. Con essa si intraprende l’analisi della storia umana da un
punto di vista universale e progressivo. La storia è lo sviluppo della
ragione, che fa sì che l’uomo esca
dalle tenebre del Medioevo per entrare nel regno della razionalità.
Questa visione ottimista e progressiva della storia è molto legata
Che cosa è stato
il fenomeno della
Modernità? Che
cosa ha prodotto
il pensiero
nichilista?
Davvero l’uomo
non ha più
risposte e i suoi
atti, infine, si
riducono a una
inutile idiozia, al
moto impazzito di
una marionetta?
Con puntualità un
illustre studioso
tenta di descrivere
panorami,
seguendo le tracce
luminose di alcuni
grandi filosofi,
romanzieri, poeti
Marc Chagall
(1887-1985), Il sogno di
Giacobbe, olio su tela,
Musée National Message
Biblique, Nizza
IL RITORNO D
ad un’altra caratteristica della ra- realtà, il romanticismo continua
gione illuministica: il rifiuto della sulla scia secolarizzatrice dell’Illutradizione. Ogni fenomeno sociale minismo. La differenza radica nei
o spirituale che non possa essere valori che adesso vengono messi al
spiegato dalla ragione umana è per centro dell’attenzione dell’uomo.
l’Illuminismo un mito o una super- Non sarà più la ragione scientifica,
ma l’amore, l’arte, la vita, la soffestizione.
L’Illuminismo presenta diversi renza, che occuperanno il posto
volti: a partire dal materialismo dell’Assoluto. In questo senso, il
completamente chiuso allo spirito romanticismo si presenta nella sua
di D’Holbach o di La Mettrie fino radicale ambiguità: allontanandoalle posizioni più moderate di si dal freddo razionalismo del SeCondillac o di Montesquieu. An- colo dei lumi, apparentemente
che se non si possono negare tanti apre le porte verso il soprannaturameriti al pensiero settecentesco, le. Se questo è vero per alcuni rocome ad esempio l’aver creato un mantici, per i rappresentanti di
ambiente propizio allo sviluppo maggiore spicco di questo moviscientifico, o l’aver obbligato i cre- mento culturale i valori succitati
denti a purificare la loro fede di patiscono un processo di divinizzazione che finisce
quanto poteva esnel sostituire il Dio
serci di superstiziocristiano trascenne o di tradizioni
dente con un valomeramente umare umano elevato
ne, non c’è dubbio
fino all’ordine del
che l’Illuminismo
divino. La secolacreò un mondo più
rizzazione del rofreddo, meno abimanticismo non
tabile, perché l’uosignifica, dunque,
mo non è soltanto
la scomparsa della
razionalità.
religiosità, ma il
L’Illuminismo
trasferimento del
tentò di capire tutsuo oggetto: dal
to. Ben presto altri
Dio trascendente
intellettuali avreb- Gilbert K. Chesterton
ad una divinità in
bero detto anni docerta misura creata
po che gli illuminidall’uomo.
sti non avevano caQueste
due
pito nulla. Il romatrici della cultumanticismo tentara contemporanea
va di recuperare i
— Illuminismo e
mondi dimenticati
romanticismo —
dall’Illuminismo:
sono la base delle
del mistero, della
ideologie che hantradizione popolano segnato i due ulre, delle passioni
timi secoli del predel cuore.
cedente millennio.
Se abbiamo deThomas
S.
Eliot
Liberalismo, nafinito il romanticizionalismo, sociasmo in opposizione
all’Illuminismo, bisogna adesso lismo e positivismo sono le quattro
chiarire che Illuminismo e roman- ideologie più influenti. Libertà, naticismo non sono movimenti filo- zione, classe economica, scienza
sofico-culturali completamente sono nozioni centrali per capire
opposti, perché hanno in fondo con completezza la natura umana.
una matrice ideologica comune: Ma quando vengono assolutizzal’autonomia dell’uomo. Il roman- te, quando si afferma che l’uomo
ticismo sostituisce la ragione con il non è altro che..., si finisce per cosentimento, ma è un sentimento struire spiegazioni riduttive del
non regolato, che tende all’infini- mondo e della storia, case troppo
to, che deve provare tutto, assag- strette, dove gran parte della realtà
giare tutto, senza porre limiti ai resta fuori.
propri desideri. Sotto questa proIDEOLOGICAMENTE
spettiva, oggi viviamo ancora nel
Basterà fare qualche esempio
romanticismo. L’artista romantico
— l’esempio più chiaro è forse per dimostrare l’asserto precedenLord Byron (1788-1824) —, mo- te. Il liberalismo manchesteriano,
dello di uomo sregolato e diverso, identificando la libertà con le leggi
ci può dare la chiave per capire co- del mercato, costruì una mansione
me l’autonomia assoluta dell’uo- confortevole, un focolare all’inglemo continua ad essere presente al- se. Ma la maggioranza delle persola base di questo movimento. In ne restava fuori: è il mondo della
FINESTRE APERTE
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
IL DOMENICALE 7
LA PRIMA GUERRA MONDIALE FU UN PORTENTOSO SHOCK
CULTURALE: DA UN LATO C’È STATO CHI RISPOSE CON
IL NICHILISMO, DALL’ALTRO FIOCCARONO LE CONVERSIONI
DELLA TRASCENDENZA
povera gente descritto magistralmente da Dickens. Paradossalmente, leggendo i romanzi dickensiani, uno si trova molto più a proprio agio nelle dimore dei poveri,
dove mancano mezzi materiali ma
ci sono tante virtù umane e cristiane, che nelle mansioni dei benestanti, che teoricamente avevano
raggiunto, secondo le categorie del
paleo-liberalismo, la libertà e la
pienezza del loro essere.
Se da una parte
vi sono le risposte di
un Camus e di un
Hemingway, dall’altra
parla Dostoevskij
La visione del nazionalismo,
esclusiva ed escludente, provocò
autentiche tragedie nella storia
contemporanea. L’identificazione
dell’uomo con la sua appartenenza ad una nazione, etnia, razza o
cultura determinate toglie alla persona umana una delle sue proprietà più essenziali: la sua apertura
interpersonale. L’uomo diventa
più uomo, si fa più degno, nella misura in cui comunica o entra in comunione con gli altri. Questa apertura — che ha una dimensione etica e un’altra più originaria, che è
ontologica — implica il rispetto alla diversità, la promozione del dialogo interculturale e la coscienza
della radicale unità del genere
umano, fondata sull’identica dignità di ogni persona. Il nazionalismo chiude gli orizzonti esistenziali, e impedisce alle singole persone e ad intere comunità la possibilità di arricchirsi con i doni della
comunicazione interpersonale. La
casa del nazionalista resta piccola,
povera e buia, perché è una casa
con la porta chiusa.
Forse un esempio estremo di riduzionismo antropologico, di
chiusura alla trascendenza e di sacralizzazione dell’umano, è rappresentato dal marxismo. Secondo
Marx è necessario abolire la religione come gioia illusoria perché
l’uomo possa godere della sua
gioia reale. È necessario far sparire
l’aldilà per preoccuparci dell’al di
qua. L’homo oeconomicus, dopo la
critica dell’alienazione religiosa,
diventa un dio. Purtroppo, la divinizzazione dell’uomo marxista
porta ad abitare non nelle dimore
celesti, ma nei diversi Arcipelaghi
Gulag della storia recente.
Per quanto riguarda il positivi-
smo, erede legittimo della ragione
settecentesca, il mondo si presenta
come pienamente spiegabile se ci
atteniamo ai fatti, lasciando da
parte ogni spiegazione metafisica
o teologica. Le scienze possiedono
l’ultima parola sul mondo. Il positivismo è una lettura della scienza
che pretende andare oltre la scienza stessa, ed erigersi a spiegazione
totale del destino dell’uomo. In
quanto riduttivo e pretesamente
totalizzante, il positivismo si può
definire come ideologia. Inoltre, la
caratterizzazione del progresso
dell’umanità quale fede razionale
in un futuro felice e giusto per tutti
manifesta in un modo palese l’elemento di sostituzione che ogni
ideologia porta con sé.
L’assolutizzazione del relativo, asse portante del pensiero
ideologico, comporta una visione
ottimista del futuro dell’umanità.
Le ideologie, in quanto religioni
sostitutive, sono anche escatologie
secolarizzate, promettono cioè la
felicità propria del paradiso celeste, ma su questa terra. Non nell’aldilà trascendente ma nell’al di
qua intramondano.
E DOPO LA GRANDE
GUERRA, LA GRANDE CRISI
Abbiamo avuto l’opportunità
di sottolineare l’importanza che riveste nel pensiero ideologico l’elemento escatologico o utopico: il
trionfo dell’ideologia avrebbe portato con sé l’avvicinarsi di un futuro felice e più degno dell’uomo.
Fatte queste premesse, è facile
rendersi conto che l’avvento della
Prima guerra mondiale sarebbe
stato un autentico shock culturale:
invece di pace, libertà, giustizia e
benessere, la Modernità sfociava
in un conflitto bellico di dimensioni mai viste nella storia. Logicamente, il 1919 segnerà l’inizio di
una consapevolezza sempre più
acuta della crisi della cultura.
Unanimità nel constatare la
crisi, diversità nell’interpretarne
le cause. Penso che si potrebbe
parlare di tre possibili risposte alla domanda sulla causa della crisi
culturale. La prima risposta la fornisce il pensiero ideologico. Secondo alcuni autori, per risolvere
la crisi bisogna spingere le ideologie fino in fondo; così troveremo i
totalitarismi del XX secolo. La seconda risposta parte dalla costatazione del non senso dell’esistenza umana, e si installa in un
comodo relativismo: bisogna abbandonare la pretesa di conoscere la verità. Pretesa che, secondo
questa prospettiva, è stata la causa dei disastri della guerra. L’ulti-
ma risposta è quella del pensiero
aperto alla trascendenza.
Il nichilismo assimila il supposto radicale non senso dell’uomo e
della storia. Il nichilismo può affluire nel totalitarismo: se la vita
dell’uomo non ha senso, la volontà
umana deve fornire arbitrariamente di senso la vita e la storia. Se non
c’è un ordine morale oggettivo, bisogna creare una morale soggettiva
forte, che tramite la volontà e la potenza riempia di senso un mondo
senza significato. Nell’àmbito politico europeo, la crisi del liberalismo
e la debolezza delle democrazie
parlamentari fece sì che apparisse
come qualcosa di appettibile la volontà di potenza del fascismo, l’affermazione cieca dei valori irrazionali del nazionalsocialismo, o la
pianificazione statalista di Stalin.
Ma il nichilismo può anche
portare a ciò che oggi chiamiamo
pensiero debole: non affermare
nessuna verità assoluta, tollerare,
tentare di convivere con il poco di
felicità che questa vita senza senso può fornire. Gli uomini devono
accettare il non senso della storia,
assimilare la propria finitezza,
convivere con l’assurdità quotidiana, con il fatto che l’essere è il
“troppo”, come afferma l’esistenzialismo sartriano. Così abbiamo
una lunga serie di manifestazioni
intellettuali — artistiche, letterarie, filosofiche — che possiamo
racchiudere sotto la denominazione di nichilismo debole. Se nulla
ha senso, è inutile stabilire oggettivamente il bene e il male, proibire o permettere.
Un pensatore chiave per capire
entrambe le derivazioni dal nichilismo è Friedrich Nietzsche. Il nichilismo, secondo Nietzsche, è la
svalutazione di tutti i valori. «Cosa
significa il nichilismo? Che i valori
supremi si sono svalutati. Manca
la fine; manca la risposta al perché? Tutto è invano» (Wille zur
Macht, I, fr.2). Nel Crepuscolo degli
idoli, Nietzsche spiega il processo
di come il vero mondo sia diventato
una fiaba. I passi compiuti dall’u-
manità sono: platonismo, cristianesimo, kantismo, positivismo,
nichilismo (Incipit Zarathustra).
L’eredità di Nietzsche è duplice: da un lato, i regimi totalitari
fondati sulla potenza ed il volontarismo; dall’altro l’eredità del pensiero debole, del relativismo morale, del soggettivismo scettico di
fronte ad ogni presunto valore o
pretesa verità. Questa versione
light del nichilismo — in realtà si
tratta di un nichilismo non superato, di un Nietzsche a metà — sarà
presente in molti scrittori del Novecento. I romanzi, le opere di teatro, i racconti del periodo tra le due
guerre, sono popolati di personaggi perduti nell’esistenza, che non
hanno punti fermi di riferimento e
che si interrogano sulla finalità della vita, senza poter fornire una risposta valida.
In un breve racconto, intitolato
Un posto pulito, illuminato bene,
Ernest Hemingway (1899-1960)
metteva sulle labbra di un camerie-
Più che i contenuti
teorici dei molti
“riscopritori” del
sacro, sono d’interesse
le esperienze personali
re spagnolo una preghiera nichilista: «Nada nostro che sei nel nada,
nada sia il nome tuo. Il regno tuo
nada. Sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in
nada ma liberaci dal nada; pues
nada. Ave niente pieno di niente,
niente sia con te» (I quarantanove
racconti, Mondadori, Milano 1988,
p.364). I personaggi di Hemingway — soldati, pugili, cacciatori,
toreri — non riescono mai a finire
una preghiera e si identificano con
la loro forza e con la loro volontà di
DA ULISSE A DON CHISCIOTTE
Il testo di Mariano Fazio da noi pubblicato in queste pagine è
stato “discusso” in un interessante convegno sul tema
“Poetica&Cristianesimo” tenutosi a Roma alla Pontificia
Università della Santa Croce il 28 e 29 aprile scorsi, dal titolo Il
ritorno a casa. Il convegno, che ha “spremuto” l’omerico ed
evangelico tema (il ritorno di Ulisse a Itaca e quello del “figliol
prodigo” nella casa paterna, ma pure i tanti “ritorni all’origine”
che poeti come Walcott ed Heaney dicono nelle loro pagine), ha
celebrato uno dei tanti spunti del Meeting di Rimini 2005, cioè la
vicenda del Chisciotte a 400 anni dalla sua prima edizione.
potenza. Ma alla fine vengono
sconfitti da un destino assurdo e
cieco, come gli squali che divorano
il pesce nel suo celebre racconto Il
vecchio e il mare. La parabola esistenziale di Hemingway finirà con
il suicidio.
Contemporaneamente, nelle
sue prime opere, Heidegger considera l’uomo come un Sein-zum-Tode, un essere-per-la-morte. L’uomo è gettato nell’esistenza, in
mezzo ad un mondo di oggetti. L’esistenza umana è un continuo fare
progetti, che finiscono inesorabilmente con la morte. In questo senso, la comprensione di se stessi è il
cogliere che l’esistenza umana è
una totalità finita. Liberarsi dalla
morte significa capire che la morte
pone un punto finale, ultimo, definitivo ai nostri progetti esistenziali. La consapevolezza della finitezza umana porta ad una vita autentica che non si disperde nell’esterno, nel mondo degli oggetti. La tecnologia contemporanea, con la
sua brama di dominare il mondo,
da questa prospettiva, è un nichilismo, giacché ci distrae dalla considerazione del dato ineluttabile: la
morte. Ma la stessa morte smette di
essere un fatto ineluttabile nel momento in cui diventa la scelta di noi
stessi: «quanto più questa possibilità è compresa senza veli, tanto
più acutamente la comprensione
penetra nelle possibilità in quanto
impossibilità dell’esistenza in generale» (Essere e tempo, Longanesi, Milano 1979, p.393).
Abbiamo citato uno scrittore
ed un filosofo, adesso è il turno di
un intellettuale che si colloca tra la
filosofia e la letteratura: Albert Camus (1913-1960). Camus parte
dalla constatazione del non senso
della vita quotidiana, che produce
stanchezza e noia. Bisogna prendere distanza dalla vita ordinaria,
per poterne capire la sua assurdità.
Questo estraniarsi produce l’angoscia di percepire la vita come nient’altro che il cammino verso la
morte. Ma l’opera di Camus non gira attorno alla morte, bensì all’assurdità della vita. L’unico problema filosofico serio è stabilire se vale la pena vivere la vita.
Due risposte a questa domanda sono sbagliate: il suicidio e la
speranza. La prima soluzione non
è valida, perché con il suicidio facciamo scomparire la luce che ha
scoperto l’assurdità della vita, cioè
la nostra coscienza lucida, l’unica
cosa che deve essere protetta e sviluppata. Nemmeno la speranza è
una soluzione, perché presuppone
l’esistenza di un Dio ordinatore
dell’Universo, mentre il mondo ci
dimostra il disordine e l’assurdità.
La speranza è un suicidio morale
che porta alla morte della coscienza lucida. L’unica risposta è la ribellione. L’uomo in rivolta, è l’uomo che ha scoperto la futilità della
vita e aiuta gli altri a scoprirla.
Questo atteggiamento esistenziale
si manifesta nella sua opera Le
mythe de Sisyphe.
Con Camus la crisi della cultura della Modernità arriva a uno dei
suoi momenti paradigmatici. Senza il riferimento alla Trascendenza, la vita umana cade nell’assurda
opacità di un periodo di tempo destinato alla morte. I valori che ancora sono presenti nel suo umanesimo rischiano di scomparire per
mancanza di radici. Più coerente
sarà Jean-Paul Sartre, il quale trarrà dal suo nichilismo conseguenze
antropologiche che, malgrado siano da lui stesso definite umaniste,
sono la negazione filosofica della
dignità dell’uomo: l’essere è il
troppo, la vita è una passione inutile, l’inferno sono gli altri.
L’esito radicale del nichilismo
contemporaneo si può spiegare a
partire dall’atmosfera culturale
creata dai cosiddetti “maestri del
sospetto”. Infatti, Marx, Nietzsche e Freud concepiscono il soggetto umano non come originario
e reale, ma come derivazione necessaria di forze non razionali che
si trovano dietro ad ogni manifestazione umana. Di fronte ad ogni
fenomeno umano bisogna scoprire “cosa c’è dietro”.
LA NUOVA ALBA
DELLA COSCIENZA
Di fronte alla tragedia della Prima guerra mondiale si aprivano diverse strade per lo spirito umano.
In molti si resero conto che si trattava di una crisi di valori. In quegli
anni si verificò un movimento di
avvicinamento al religioso, alla
trascendenza. Ci furono conver-
sioni al cattolicesimo o ad altre
confessioni cristiane da parte di alcuni intellettuali occidentali (T.S.
Eliot, G.K. Chesterton, J. Maritain,
G. Marcel, N. Berdiaeff, E. Waugh,
S. Undset, ecc.), originate in parte
dal rifiuto dell’essenza delle ideologie moderne, cioè l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo (cfr. F. Gugelot, La conversion des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), CNRS,
Paris 1998; J. Pearce, Litterary Converts, Harper Collins, London
1999). Ci furono correnti filosofiche che “ossigenarono” l’atmosfera chiusa del positivismo, dell’idealismo e del materialismo decimononico, quali lo spiritualismo
(Bergson), il personalismo (Mounier, Guardini, Wojtyla), la filosofia dell’azione (Blondel), il neotomismo (Maritain, Gilson, Fabro);
altri proposero “filosofie dei valori” come tentativi per arginare la
decomposizione sociale e spirituale dopo la Grande Guerra (M. Scheler, N. Hartmann); contemporaneamente, alcuni storici guardarono al passato per trovarvi punti di
riferimento che potessero servire
per costruire sulle macerie della
guerra (W. Jaeger, J. Huizinga, H.
Belloc, C. Dawson).
Caratteristica comune di questi critici è il rendersi conto che la
causa ultima della crisi era una
sbagliata concezione della natura
umana. Se l’affermazione assoluta
dell’autonomia dell’uomo, con la
sempre più generalizzata libertà di
coscienza – la coscienza non
avrebbe nessun parametro oggettivo con cui misurarsi, e quindi rimane completamente libera e padrona di sé –, portò allo scontro tra
milioni di uomini, era forse perché
l’uomo non è un individuo assolutamente autonomo, o perché le diverse nazioni, idolatrate dal nazionalismo, in realtà non incarnano i
valori più alti.
Albert Camus
Questa apparizione così variegata di correnti culturali e filosofiche aperte alla trascendenza non è
stato soltanto un fenomeno congiunturale. Lungo la Modernità, il
pensiero aperto si sviluppò in molti modi, percorse diversi sentieri.
Basti pensare a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicolò Cusano
nel Rinascimento italiano; Tommaso Moro, Juan Luis Vives e Erasmo da Rotterdam nell’Umanesimo; Francisco de Vitoria, Domingo
de Soto e Francisco Suárez nella
Seconda Scolastica; Pascal e Vico
nell’epoca del razionalismo. L’Ottocento, il secolo di Marx e di
Nietzsche, è anche il secolo di Kierkegaard e di Dostoevskij.
IL RUSSO E IL DANESE
Il pensatore danese, in rapporto dialettico con l’idealismo hegeliano, trova la pienezza del singolo
non nell’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo, ma nel
riconoscimento della sua fondazione trascendente: «Mettendosi
in rapporto con se stesso, volendo
essere se stesso, egli si fonda in trasparenza nella potenza che lo ha
posto» (La malattia mortale, in
Opere, Sansoni, Firenze 1973,
p.627), cioè nella Potenza divina.
Mentre l’individuo che ha una pretesa di autofondazione assoluta finisce necessariamente nella disperazione, considerata da Kierkegaard la malattia mortale della cultura contemporanea.
Dostoevskij, da parte sua, è
consapevole delle conseguenze
della perdita della trascendenza,
come lo era Nietzsche, però attraverso la sua opera apre le porte alla
necessità della Redenzione. Per
l’autore dei grandi romanzi russi,
se non si ammette la trascendenza,
la vita aldilà della morte, non c’è
più morale né differenza tra il bene
e il male. Lasciamo parlare uno dei
fratelli Karamazov: «se distruggete
nell’uomo la fede nella propria im-
mortalità, subito si inaridirà in lui
non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non ci sarà più niente di
immorale, tutto sarà permesso,
perfino l’antropofagia. Ma non basta ancora: egli conclude affermando che per ogni singolo individuo, come noi adesso per esempio,
il quale non creda né in Dio, né nella propria immortalità, la legge
morale naturale deve trasformarsi
subito nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e l’egoismo, portato anche fino al delitto,
deve essere non solo permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, la
più ragionevole, e direi la più nobile, nelle sue condizioni» (I fratelli
Karamazov, I parte, II, 5).
Sarebbe lungo elencare le manifestazioni culturali di apertura
alla trascendenza durante il XX secolo. Più interessanti che i contenuti teorici sono le storie di conversione – religiosa o intellettuale – di
tanti pensatori: un Maritain positivista proclive al suicidio, che scopre un nuovo mondo nello spiritualismo di Bergson e nella poesia
cristiana di Léon Bloy; un Marcel
scettico e idealista che trova la fede
quando si interroga sugli scomparsi della Prima guerra mondiale,
aprendosi al mistero dell’essere;
un Chesterton che si riempie di
gioia nello scoprire che la sua filosofia del buon senso e dell’etica
delle fiabe per bambini coincide
con il Credo degli apostoli; un
Dawson che arriva alla Chiesa Cattolica dopo aver letto lo scientista
Harnack; Gilson, che si sorprende
con i tesori della philosophia perennis studiando i testi del razionalismo cartesiano.
In molti di questi casi, si trattò
di un autentico ritorno a casa. Emblematica è la prima pagina di Ortodossia, di Chesterton. Lì, l’ingleErnest Hemingway
se racconta di un navigatore che
partendo dall’Inghilterra è deciso a
fare un viaggio per scoprire le bellezze delle isole tropicali. Dopo alcune settimane, arriva ad un’isola
molto bella. Gli piace moltissimo,
ma gli risulta famigliare. Poco dopo, il navigatore si rende conto che
era tornato in Inghilterra. Chesterton utilizza quest’immagine per
spiegare il suo percorso spirituale:
dopo tanto cercare in scuole e
gruppi alla moda una verità per la
quale vivere, si rende conto che la
verità si trovava lì, accanto alla
porta di casa sua: era il cristianesimo, il vecchio Credo degli apostoli.
Ma apertura alla trascendenza
non è soltanto un affare di libri e di
scuole filosofiche. L’umanità ha
sempre avuto delle spie dell’eternità in mezzo al mondo, anche in
mezzo alla Modernità secolarizzata, disincantata e nichilista. Queste spie sono i santi, chiamati da
Giovanni Paolo II “esperti in umanità”. Sono testimonianze di luce
nelle case buie delle ideologie: Alfonso Maria de’ Liguori tra i philosophes razionalisti, il santo curato
d’Ars tra i piccoli borghesi del Secondo Impero, Padre Damiano tra i
lebbrosi, vittime dell’imperialismo europeo a Molokai, nel sud
Pacifico, il Cardinale Newman nel
liberalismo decimononico, tutta la
schiera di martiri del nazismo —
Massimiliano Kolbe, Edith Stein e
tanti altri —, del marxismo in Russia, in Spagna, in Messico, Josemaría Escrivá nella società materialista e agnostica del XX secolo, Madre Teresa di Calcutta nel mondo
pervaso dalla cultura della morte.
Tutte queste persone manifestano
esistenzialmente la presenza della
Trascendenza in un modo molto
più efficace delle teorie, perché più
autentico e attraente, perché è testimonianza di vita.
•
*Rettore della Pontificia
Università della Santa Croce
LABIRINTI DELLA COMUNICAZIONE
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
IL DOMENICALE 9
DVD
West Side Story,
Bernstein edition
Un volume di critica
cinematografica,
sotto forma di una
collezione di schede,
disciplina con senso
pratico il percorso
dello spettatore consapevole
L’ARTE
DI ANDARE
AL CINEMA
Hotel Rwanda
di Francesca D’Angelo
ual è il modo migliore per spiegare la grandezza del cinema come
arte? Semplicemente, indicandola. Ossia mostrando al grande pubblico
la grandezza di un film. Ecco l’intuizione alla base di Scegliere un film 2005
(Ares, Milano 2005,pp.452, e19,00), a
cura di Armando Fumagalli e Luisa Cotta Ramosino insieme a una nutrita équipe di collaboratori (molti dei quali noti
ai lettori del “Dom”). Questo volume si
propone di ripercorrere la stagione cinematografica appena trascorsa, dal giugno 2004 al maggio 2005, e lo fa con un
taglio di originalità e freschezza capace
allo stesso tempo di recuperare la dimensione fondamentale del cinema:
quella narrativa. In questo il volume ricalca la precedente edizione, relativa al
2003-2004, con la sicurezza di chi sta
consapevolmente scavando il solco di
una tradizione.
Q
Subito al dunque
Fin dalle prime pagine il libro si distingue per la sua impostazione peculiare: una breve introduzione per poi
entrare subito in media res, con una serie di recensioni (più di 150), che con
agilità e spirito critico commentano la
recente stagione cinematografica. Nessun discorso quindi sui massimi sistemi
cinematografici, ma solo, e crudamente, i film, con critica e stellette di giudizio al seguito. Una critica che, però, non
ha nulla a che vedere con l’approccio
nozionistico-intellettuale tipico di molti
dizionari del cinema in circolazione.
Qui, infatti, il taglio è prettamente antropologico e l’analisi si concentra sulla
componente narrativa del film: i valori
che vuole trasmettere, la struttura della
storia, la caratterizzazione dei personaggi, la coerenza dell’intreccio ecc.
Questa impostazione ha due grandi
meriti: da un lato, quello di rendere il libro uno strumento di lavoro ottimale,
utile sia ai professionisti sia a chi desidera affinare il suo approccio critico al
mondo del grande schermo. Dall’altro
lato ha il merito di sottolineare la dimensione fondamentale del cinema,
quella che ne costituisce il reale fascino.
Cosa che non solo non è assolutamente scontata, ma è anche dimenticata
da molti. Con l’andare degli anni, infatti,
circola sempre di più l’idea che la bellezza di un film sia data soprattutto dalla regia delle immagini o dalle originali soluzioni del montaggio. Questo perché il
film sarebbe prima di tutto “ciò che vedo”. Il team di giovani critici che ha dato
corpo, ma soprattutto anima, a questo
volume, dimostra invece il contrario.
Leggendo la raccolta delle loro critiche,
emerge con evidenza che ciò che rende
grande un film non è l’immagine, ma la
storia. Se la storia funziona, solo allora, il
film è buono e avrà successo.
Prima di loro lo sosteneva esplicitamente già l’americano Robert McKee,
docente di sceneggiatura, quando scriveva che le persone, andando al cinema, non volevano fuggire la vita, ma
trovarla. I personaggi, con le loro peripezie, ci suggeriscono infatti modi nuovi di usare la nostra intelligenza, di percepire il mondo, di vivere l’affettività.
La storia, se ben scritta, ha un eccezionale portato esistenziale e culturale,
che le immagini si limitano a valorizzare, in un rapporto di funzionalità. La no-
Spiderman 2
stra società estetizzante e razionalista
tende invece a lasciarsi distrarre, durante il film, dai coreografici esercizi di stile, per poi, in fase di giudizio, attardarsi
in vaghe dissertazioni manieristiche.
Basta con lo stimolo e la reazione
Se si vuole capire un film e scovare
le ragioni del nostro amore per esso, occorre quindi approfondire l’intreccio
narrato. Ma quand’è che una storia lascia il segno? Quando c’è in gioco un dilemma etico. I personaggi ci devono ritrarre poeticamente, ma soffrire delle
nostre stesse passioni. Desideriamo vederli lottare e vincere, o inevitabilmente
morire secondo i casi, in uno scontro
quand’è che una storia
lascia il segno? quando
è in gioco un dilemma
etico. quando i personaggi
lottano, soffrono, sperano
(personale, sociale, politico o economico) di un certo spessore. Giustamente,
quindi, gli autori di Scegliere un film
2005 si soffermano molto sulla tematica
dei film, perché è, appunto, l’ideale
quello che, tra le diverse storie narrabili, fa la differenza.
Su questo piano due sono le trappole in cui sono caduti non pochi autori cinematografici. La prima è il meccanicismo. Che non vuol dire solo prevedibilità della storia. Quest’ultima infatti è solo la sua conseguenza. Per meccanicismo intendiamo soprattutto il rischio di
concepire l’intera narrazione come un
monumentale processo di stimolo-reazione. Del tipo: il problema è “x”? Bene,
la soluzione è “y”. Questo genera nel
migliore dei casi film noiosi; nel peggiore, film smaccatamente falsi, perché
nella vita non esistono soluzioni pronte
all’uso. Aristotele precisava che la domanda centrale sull’esistere non è “che
cosa devo fare”, ma “qual è la vita buona, qual è la vita degna di essere vissuta”. Nella vita non ci sono altre reali dinamiche educative all’infuori dell’avvenimento e dell’esempio. Da qui, d’altronde, nasce l’importanza ancestrale
della figura del maestro. La storia, con i
suoi personaggi, deve assolvere a questo processo, proponendoci una serie di
“vite possibili” a cui poter attingere e
trarre ispirazione.
La seconda trappola è quella di dimenticare la speranza. In un cinismo dilagante, troppo spesso i film perdono il
loro originario carattere propulsore, di
stimolo al rinnovamento. Fumagalli e
Cotta Ramosino valorizzano, quindi, le
pellicole che si chiudono con un sentimento di positività, permettendo al
pubblico di tornare a casa con un senso
di bellezza nel cuore.
Hanno amato l’Uomo Ragno
Qui sta, per esempio, la ragione delle cinque stellette (l’eccellenza) attribuite a Spiderman 2: un film godibile e
ben fatto, capace di trasmettere a un
grande pubblico tematiche impegnative («non accettare la responsabilità di
essere un supereroe equivale a non accettare la responsabilità di essere un uomo», p.358).
Il fascino del cinema risiede quindi
nelle sue storie, grandi in statura d’im-
E quante porte chiuse da non aprire
Nelle paludi del Mississippi, un horror che incatena alla sedia e al buon senso
osa si nasconde nella stanza
della soffitta (ma anche nell’armadio, nella cantina, in
fondo al giardino, ecc.)? Non è forse sempre la stessa domanda che
vibra sotto i racconti thriller-horror destinati a far saltare sulla poltrona gli spettatori di mezzo mondo? Così mentre con la fine della
precedente stagione cinematografica a trionfare è stato l’Uomo Nero, hanno aspettato l’inizio della
nuova – il 16 settembre nelle sale
d’Italia – gli autori di The Skeleton
Key (chissà perché non trovare un
buon titolo italiano) per servire la
loro versione di brividi e scricchiolii, preannuncio di un mistero
snocciolato tra le strade variopinte
di New Orleans e i bayou dei suoi
dintorni.
Interessante lo spunto scelto
dallo sceneggiatore Ehren Kruger
(lo stesso del secondo Ring americano); quando inizi a credere inizia la paura recita la frase di lancio
C
e, senza rovinare la sorpresa finale
della pellicola, bisogna ammettere
che tra queste parole si nasconde
bene l’intuizione di fondo di una
storia che procede con mestiere attraverso tutti i passi di un viaggio
dell’eroe in lotta con l’invisibile (se
non attraverso gli specchi) minaccia di antichi stregoni hoodoo.
Questo sistema di credenze
magiche popolari non è una religione vera e propria come il vudù
haitiano, ma una sincretica commistione di pratiche di stregoneria
di origine diversa (importate dagli
schiavi africani, ma anche coltivate dai nativi americani) unite a elementi della religione cristiana e
ebraica. La versione più misteriosa
e inquietante del melting pot (che è
imparentata anche con la wicca, la
religione neopagana talmente diffusa negli USA da consentire ai
suoi sacerdoti/sacerdotesse di accompagnare i loro fedeli che fanno
parte dell’esercito), che molto deTHE
SKELETON KEY
REGIA DI
IAIN SOFTLEY
SCENEGGIATURA
DI EHREN
KRUGER
CON
KATE HUDSON,
PETER
SARSGAARD,
GENA
ROWLANDS
PRODOTTO DA
UNIVERSAL
STUDIOS,
USA 2005
iaccia o no, susciti ammirazione o
fastidio, sia considerato un capolavoro o una musichetta, West side story, nato nel 1961 da un’idea di Jerome Robbins, con libretto di Arthur Laurents e musiche di Leonard Bernstein, è
uno dei musical di Broadway più chiacchierati, ascoltati e commercialmente
sfruttati del XX secolo. Per via del film che
le ha rese note in tutto il mondo, ancor di
più che la versione teatrale, le sue melodie, le danze, perfino le frasi, sono diventate dei veri tormentoni, e Maria è molto
più di una canzone di successo.
Nel 1984 lo stesso Bernstein decise di
incidere West side story, con un cast che
comprendeva la grande Kiri Te Kanawa e
José Carreras. Delle sedute di incisione è
rimasta una ripresa video che, arricchita
di testimonianze, interviste, commenti e
battute dell’ineffabile Lenny, è diventata
un film per la regia di Christopher Swann:
a suo modo un “classico del classico”.
Nell’era del Dvd la Deutsche Grammophon – Unitel sta riversando tutti i film di
opere in dvd: e The making of West side
story non poteva mancare. Quello che invece doveva esserci nel dvd è un doppiaggio in italiano dei fitti dialoghi (o almeno, dei sottotitoli). I sottotitoli in realtà
ci sono: ma in castigliano, francese tedesco e giapponese. Chi non abbia dimestichezza con alcuna
delle tre lingue citate e non capisca una
parola di angloamericano rinunci a
comprare il dvd e
scriva una lettera di
protesta alla casa
discografica per la
mancanza di tatto
nei confronti dei
clienti italiani: che
sono del resto snobbati anche quando acquistano la maggior
parte dei (carissimi) cd e sfogliano i libretti di accompagnamento.
Peccato comunque perdersi l’avventura dell’incisione: uno spettacolo nel
quale la creatività si manifesta in quella
dimensione artigianale e in quel procedere perfettibile che, spesso, non si possono immaginare nel risultato finito. E
peccato anche non godersi la scena di
Bernstein che si arrabbia (o finge, perché
Lenny non si arrabbiava mai) per un errore nella preparazione del materiale d’orchestra. Tutto è rimasto nella testimonianza video: compresa l’imprecazione
di Carreras (l’unica cosa che anche un italiano capisca, purtroppo) mentre tenta,
con scarso successo, di incidere Maria.
Nel dvd sono anche visionabili altri 3 titoli: ma sono semplice pubblicità di altre
produzioni video della casa discografica.
Giorgio Vitali
P
ve a processi di autosuggestione e
al carisma personale di chi la pratica, diventa la chiave per costruire
un racconto in cui il credere diventa realmente fondamentale per la
risoluzione.
La protagonista Kate Hudson/Caroline (che veste i panni di
una giovane aspirante infermiera
che, dopo la morte del padre, si dedica alla cura dei malati terminali,
forse come forma di riscatto per
non aver assistito il genitore da cui
si era allontanata), infatti, nata a
New Orleans, ma vissuta nel Garden State, il prosaico New Jersey, è
tratteggiata come una ragazza
pragmatica e di buon senso, ma
anche sinceramente dedita al suo
lavoro. Come spiega alla sua amica
Joy: se non ti prendi a cuore anche
le persone destinate a morire in
breve tempo, tanto vale lasciarle
morire da sole.
Così quando la fatidica “offerta
che non si può rifiutare” (un lavoro
in mezzo alle paludi nella casa dei
signori Deveraux, moglie e marito
paralizzato da un ictus) colpisce il
suo sguardo dopo l’ennesimo decesso ospedaliero, Caroline carica
sul bel maggiolone i suoi pochi
averi e imbocca la strada che, in
poco più di un’ora, la porta dritta
nel cuore di un mondo altro, fra teschi, ossa e miscugli innominabili,
cantilene incomprensibili (in cui il
francese, orrore ben più grave di
tanti scongiuri, la fa da padrone) e
leggende di morte. E come nella
migliore tradizione, che abbraccia
le spose di Barbablù e tanti altri
personaggi da favola nera, Caroline non può che lasciarsi trascinare
dalla spirale di mistero innescata
dal mistero di una casa dalle molte
porte (ma c’è una sola chiave che
le apre tutte e che Caroline, attenzione attenzione, ha in mano fin
dal primo giorno), mossa prima di
tutto dal desiderio di aiutare il suo
muto paziente.
È curioso che le ragionevoli
obiezioni a tale incauto procedere,
portate avanti dall’amica Joy, nera
e molto più saggia, forse, di quella
“saggezza del sangue” di cui parlava Flannery O’Connor, riecheggino le avvertenze che la Chiesa cattolica dà nei confronti delle pratiche magiche anche più apparentemente innocue (le carte, le
finte/vere sedute spiritiche): non
aprire una porta da cui in ogni caso
il Maligno può farsi strada… Del
resto, come dimenticare che la piccola vittima del Diavolo ne L’esorcista, prima di “ammalarsi”, giocava con una di quelle tavole per le
evocazioni che tanto spesso arredano i film horror americani? In
un’America contemporanea un
po’ spaesata e spiritualmente incerta, a caderne vittime possono
essere sia gli scettici (per quanto di
buon cuore come Caroline) che i
formalisti (il notaio dei Deveraux
dice di essere nato battista), forse
perché disposti fin troppo rapidamente a lasciarsi travolgere dal fiume della superstizione.
Skeleton Key è un solido horror
psicologico che si avvale di un ottimo cast: oltre alla Hudson, efficace e sensibile indagatrice del mistero, azzeccato l’investimento
per avere Gena Rowlands e John
Hurt nei panni degli anziani proprietari della casa stregata, mentre
l’inquietante Peter Sarsgaard
(L’inventore di favole, Kinsey, La
mia vita a Garden State) tiene tesa
la corda della tensione con un misto di ingenuità e minaccia. Un
horror di qualità anche dal punto
di vista registico; Iain Softley (autore del niente affatto memorabile
K-Pax) sa creare atmosfera e, salvo
qualche snodo un po’ telefonato,
lo spettatore potrà dirsi soddisfatto per la sua “dose” di paura tra le
suggestive paludi di un Sud americano ancora da scoprire.
•
Luisa Cotta Ramosino
magini e passionalità, che propongono
intuizioni per la vita. Ecco perché – al di
là del fatto che, usandolo come strumento di assistenza familiare, spesso lo
si consulterà per decidere quale dvd noleggiare per una serata – è interessante
la provocazione sottesa a questo insolito “dizionario cinematografico”: rimandare la lettura critica del film alla fine della visione.
Solitamente, questa pratica è solo
degli addetti ai lavori o di qualche cinefilo che popola i circuiti d’essai. I più
consultano trame e giudizi prima di andare al cinema, per non sbagliare film.
Invece, leggere una recensione solamente dopo essere usciti dalla sala è
davvero utile. In questo modo, durante
il film, ci si lascerà avvincere dalla narrazione senza anticipazioni e pregiudizi, per poi confrontarsi con ragion veduta in merito al giudizio. Sapremo se un
film è davvero bello, infatti, solo se uniremo l’emozione provata durante la visione con un approfondimento a posteriori delle intuizioni percepite a caldo.
L’intero processo necessita, però, di
un fattore preciso, che è uno degli altri
grandi meriti di questo libro: l’identità.
Per cimentarsi nell’arte della critica, soprattutto se cinematografica, occorre
avere e mostrare una propria visione
della vita. La lettura data dai critici di
Scegliere un film 2005 non fa mistero
della sua impostazione cattolica. Indipendentemente dalla specifica religiosa, è importante recuperare il proprio
bagaglio culturale per poter leggere un
film, qualsiasi esso sia. Perché, prima
ancora che nella sua estetica, la grandezza del cinema come arte sta tutta nel
suo saperci svelare la vita.
•
Rodio e Cammio epurati. Quanto
sarebbe diverso il De bello gallico...
allia est omnis divisa in partes tres,
quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani,
tertiam qui ipsorum lingua
Celtae, nostra Galli appellantur». È uno degl’incipit più famosi della storia quello del De
bello gallico di Caio Giulio Cesare, scaltrissima opera di
propaganda che impera da
duemila anni e che per molti
versi è il prologo alla vicenda
di cui le idi di marzo saranno
l’epilogo. Ma se sfogliate i
suoi sette libri, uno per ognuno dei sette anni di guerra tra
Roma e i celti, non troverete
né il nome di Caio Rodio né
quello del guerriero gallico
Cammio.
Non ci sono perché la loro cancellazione da quel famoso testo che ha eternato le
prime glorie imperiali di Roma è il prezzo
che Rodio chiese a Cesare di pagare in
cambio del suo oblio e del suo silenzio.
L’oblio e il silenzio sul fatto che Cesare
aveva deciso l’assassinio a tradimento del
proprio pupillo Rodio, dopo avergli affidato l’assassinio di Cammio, il barbaro che
Rodio aveva allevato dopo averne sterminato la famiglia e la tribù sulle sponde del
lago Lemano, e che ora era il capo supremo delle orde giunte da nord a dare manforte a Vercingetorige assediato ad Alesia.
Rodio, duro, freddo, implacabile, era
infatti il simbolo vivente della repubblica a
cui Cesare stava per assestare il colpo di
grazia. Non poteva permettersi, Cesare, la
vita di un così potente avversario. Per questo lo convinse dapprima a uccidere – per
il bene di Roma, disse, o della repubblica,
se così più piaceva credere a Rodio – il barbaro Cammio, che a Rodio era legato come
un figlio. Poi inviò una squadra che di soppiatto tese un’imboscata a Rodio e ai suoi
inseparabili quattro compagni di battaglie
e di vita, decimandoli tutti tranne appunto
Rodio, che se la cavò, e Massimo, il traditore ambizioso. Rodio sopravvisse perché,
persi tre compagni, sventò la congiura e
sfidò Massimo, uccidendolo. Poi, Rodio,
«G
L’ultima
battaglia,
soggetto
e sceneggiatura
di Tito Faraci,
disegni e colori
di Daniel
Brereton,
Buena Vista,
Milano 2005,
pp. 82, E6,50
che dava ordini con la voce di
un dio (come diceva Cammio), disperse i soldati congiurati e salvò lo sventurato
gallo, svelandogli di essere
l’assassino di sua madre e di
suo padre.
Tutto oramai era perduto: Roma, la Roma che Rodio amava, era oramai definitivamente avviata sul viale del tramonto. Valeva la
pena di farla finita.
Rodio si presentò a Cesare, che si aspettava di saperlo presto morto. Si presentò da Cesare con la testa
di Massimo, il traditore. Cesare si scosse solo un poco.
Che poteva oramai fare quel
guerriero pur potente di fronte al nuovo
corso? Cosa era rimasto della repubblica
all’incedere dell’impero? Rodio non spaventava Cesare e Rodio lo sapeva, Cesare pure. Chiese allora solo l’oblio e il silenzio, i suoi e quelli di Cesare. Che il
suo nome venisse cioè tolto dal De bello
gallico, come se quel fiero soldato, quel
nobile testimone di Roma non fosse mai
esistito, non fosse mai nato. Né lui, né le
sue imprese, né la sua fedeltà, né il suo
protetto Cammio, nemico di Roma.
Roma, la Roma di Rodio, era morta.
Non c’era più spazio sul Tevere per Rodio e Rodio se ne andò. Dove? Nemmeno
Cesare può possedere il mondo intero.
Da qualche parte un angolo esisterà. Resta dove sei, o Cammio. Io Rodio non ti
chiederò di lasciare la lotta, il tuo popolo. Io che uccisi i tuoi, io che ti debbo la
vita, io che ti ho salvato la pelle, io che
sono tuo “padre” e tuo nemico. So che
con me non verresti e mai sopporterei un
rifiuto. Un rifiuto da te, mio... “figlio”.
Cammio comprese. E, voltato il cavallo, lo seguì. Gl’incubi erano finiti, Roma anche. Ma la vita non è solo guerra.
L’ultima battaglia di Tito Faraci e Daniel Brereton, il primo albo a fumetti della
serie Buena Vista Lab, è crudo ed essenziale come la vita. Bello come la vita. •
Samwise
PROFILI
10 IL DOMENICALE
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
LA “MODERNITÀ LIQUIDA” HA GENERATO UNA GRAN MASSA DI UOMINI E DONNE CHE NON SI POSSONO IDENTIFICARE CON I METODI TRADIZIONALI
L’epoca del nome e cognome è terminata
L’era digitale ha chiuso il cerchio: torniamo a farci riconoscere tramite la fisicità. E siamo a chiederci, di nuovo, che peso dare al corpo e ai suoi segni
non si affermi – il sistema di riconoscimento anagrafico rimarrà centrale. Ma
già adesso, per citare un esempio sufficientemente evocativo, è accaduto che
una corte inglese accettasse di emettere
una sentenza nei confronti di un frammento di DNA. In un caso di stupro, infatti, pur non essendo stato identificato lo
stupratore, è stato possibile tracciarne il
profilo genetico a partire dai resti organici
lasciati sulla vittima. La sentenza è stata
dunque emessa nei confronti di un profilo genetico, e sarà eseguita quando e se si
identificherà colui che lo possiede. In
modo meno suggestivo, ma sostanzialmente analogo, l’Unione Europea si è dotata di una banca dati centralizzata che
raccoglie le impronte digitali – e nel futuro anche altri dati biometrici – dei richiedenti asilo respinti da uno dei paesi dell’Unione, in modo tale che nessuno di
questi si possa ripresentare sotto diversa
identità alle frontiere di un altro paese.
Anche in questo caso i dati fisici non sono
collegati in modo significativo a nessun
elemento anagrafico, e gli individui sono
identificati solo tramite le proprie impronte digitali.
-segue da pagina 1
blema filosofico sfuma nel problema psicologico e questo in quello più propriamente sociologico. Indubbiamente ogni
essere umano ha bisogno di “conoscere
la propria identità”, ossia di possedere di
se stesso un’immagine unitaria – una
narrazione biografica – che possa dare un
senso alle sue azioni e alla sua vita. L’immagine di sé, però, non si radica soltanto
in una memoria individuale, in una dimensione psicologica, ma trova linfa anche nella memoria collettiva del gruppo e
dei gruppi di appartenenza. Così identità
personale, memoria individuale e collettiva – incarnata dalla tradizione e dalle
varie forme di trasmissione consce e inconsce della cultura – costituiscono un
intreccio ricco e complesso. Si è detto che
il problema dell’identità è un problema tipico dei periodi di transizione e di crisi
(ellenismo, tardo antico, Seicento, inizi
Novecento) ma è una tesi difficile da sostenere poiché non c’è periodo storico
che non possa essere detto “di crisi”. Più
probabilmente la filosofia rispecchia – almeno in questo caso – un problema concreto che le società umane si sono trovate
ad affrontare, sotto forme diverse, in determinati periodi storici, cioè il problema
di come verificare che un individuo sia
chi pretende di essere. Siccome questo
problema sorge in momenti di sovvertimento sociale – una società stabile, infatti, si basa anche su modi consolidati di riconoscimento dei suoi membri – ecco
che inevitabilmente si associano a esso
concetti tra loro eterogenei come quello
di perdita di ruolo sociale, di perdita dei
valori con cui identificarsi, di perdita di
una tradizione fondativa.
MESSO, FATTI RICONOSCERE
Se ci riferiamo, per esempio, alle epoche più recenti, si sa che un periodo in cui
il tema dell’identità diventa centrale nella filosofia, nella letteratura, nel teatro e
nell’arte è il periodo barocco. Proprio
questo periodo – da metà del 1500 sino a
tutto il 1600 – corrisponde al consolidarsi
di nuovi metodi di identificazione personale. Nella seconda metà del Quattrocento l’intensificarsi di rapporti commerciali
ed economici tra le varie città e regioni
europee aveva portato a un incremento
rapido e drammatico della corrispondenza scritta ufficiale, fenomeno soprattutto
evidente nell’Europa continentale. L’in-
nel quattrocento
lo sviluppo del commercio
portò all’incremento
della corrispondenza
scritta ufficiale in europa
cremento della corrispondenza scritta
comportò di necessità un incremento nel
numero di messi che circolavano per
l’Europa. Si trattava di persone che recavano informazioni di natura militare ed
economica spesso vitali: proprio per questo era cruciale la loro corretta identificazione. Daniel Nordman ha dimostrato come in Europa, tra la fine del Quattrocento
e l’inizio del Cinquecento, si sviluppi un
sistema di lasciapassare e passaporti a
uso di questi messi, e come questo sistema funga da modello per lo sviluppo successivo dei documenti di identità. È tuttavia con le guerre di religione del Seicento,
con il grande movimento di truppe e comunità civili che esse comportarono, e
con il consolidarsi di Stati nazionali ristretti in ben definiti confini territoriali,
che la necessità di accertare l’identità degli individui divenne cruciale. Per secoli,
infatti, la comunità locale era stata la
principale garante dell’identificazione
personale. Le identità erano certificate
dalla testimonianza diretta. Agli inizi del
Cinquecento la trasmissione del patronimico trovò una sua prima stabilizzazione
nei registri parrocchiali di nascita, che
vennero appunto introdotti in questo periodo. La certificazione ecclesiastica di
nascita fu utilizzata anche come prova
della raggiunta maggiore età a fini ereditari e di usufrutto di benefici.
Questo nascente sistema subì una
grave crisi con la rottura provocata dalla
Riforma. I protestanti – come prima gli
ebrei – non comparivano nei registri parrocchiali cattolici e in molti paesi dell’Europa continentale si interruppe la rete di
registrazione civile basata sulle strutture
ecclesiastiche. Nel frattempo i processi di
migrazione interni ai paesi europei si accentuarono e la capacità di identificazione connessa all’appartenenza a una comunità preesistente s’indebolì. In Francia il sistema dei registri di nascita divenne progressivamente statale ed entro la
metà del Seicento sostituì completamente il sistema di accertamento dell’identità
tramite testimoni. Altri paesi europei seguirono un doppio regime – religioso, civile – mentre in Gran Bretagna il sistema
dell’identificazione anagrafica rimase
fluttuante sino alla Prima guerra mondiale1. Non avrebbe senso in questa sede dilungarsi oltre sulla nascita del sistema dei
documenti d’identità se non per evidenziarne la struttura. A tal fine si può ricordare la descrizione che ne fece il filosofo
tedesco Johann G. Fichte nei Fondamenti
del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza del 1796, in un
momento in cui, cioè, il processo di costruzione dell’identità civile è ormai
giunto al suo compimento2: «Il principio
cardine di uno Stato ben regolato dalla
polizia è questo: ogni cittadino dovrà essere in ogni momento ed in ogni posto
[…] riconoscibile come questa o quella
persona. Nessuno deve rimanere sconosciuto alla polizia. Questo può essere ottenuto con certezza solo nel seguente
modo. Ciascuno deve sempre portare
con sé un documento firmato dal rappresentante del governo a lui più vicino
in cui la sua persona è descritta con accuratezza […] Nessuno quindi dovrebbe essere accolto in nessun luogo se non
rendendo noto tramite il suo documento il proprio ultimo luogo di residenza e
il suo nome». Il fondamento dell’identificazione personale, la sua fonte di legittimità, risiede quindi nello Stato: è lo
Stato, tramite un suo funzionario, che
assicura il legame certo tra un documento e colui che lo possiede. In altri
termini è lo Stato che risponde alla domanda «Chi è la persona con cui io debbo trattare?», domanda che diventa presto fondamentale in un mondo che, tra
il 1500 e il 1700 vede lo svilupparsi del
primo grande tentativo di globalizzazione economica dell’epoca moderna.
Non è quindi per caso che i processi di
globalizzazione che hanno investito il
mondo nella seconda metà del Novecento abbiano messo in crisi anche la pretesa
che le identità siano certificate dagli Stati
nazionali. Anche oggi l’addetto al controllo alla frontiera accerta solamente che
un governo riconosciuto attesti l’esistenza di un cittadino di quella nazionalità,
con quel nome, nato quel giorno di quel
mese di quell’anno, e residente in quel
luogo. La foto, non diversamente da un
PIN o una password, serve unicamente a
verificare che colui che porta il documento ne sia il legittimo possessore, ma chi
certifica l’identità è lo Stato che ha emesso il documento. Tant’è vero che se lo Stato certifica una nuova identità (come nei
casi di collaboratori di giustizia inseriti in
un programma di protezione o di persone
che hanno cambiato sesso), questa diventa l’unica vera identità.
L’11 Settembre rappresenta un punto
di rottura emblematico di questo appa-
BIBLIOGRAFIA
MINIMA
• Francesco D’Agostino, Bioetica,
Giappichelli, Torino 1996
• Anthony Giddens, Modernity and
Self Identity, Polity Press,
Cambridge UK 1991
• Samir Nanavati, Michael Thieme,
Raj Nanavati, Biometrics: Identity
Verification in a Networked World,
J.Wiley & Sons, New York 2002
• Amelie Rorty (ed.), The Identities of
Persons, University of California
Press, Berkeley 1976
rato. Da questo momento in poi si fa
strada la convinzione che il sistema otto-novecentesco dei passaporti e dei documenti di identità sia diventato obsoleto. Gli Stati non garantiscono più proprio perché il sistema globale vede all’opera sempre più attori che, seppure formalmente appartengano ancora a Stati
sovrani, rispondono in realtà ad agenzie
transnazionali e sopranazionali. Organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, organizzazioni non governative, rifugiati politici, persone espulse
dai territori d’origine da disastri naturali, apolidi provenienti da regioni occupate o teatro di guerra, cartelli mafiosi di
vario tipo, reti terroristiche internazionali: sono tutti esempi di questo magma
eterogeneo di persone in movimento attraverso le frontiere che sfuggono in
buona parte ai controlli degli Stati nazionali. Ma se la certificazione degli Stati
non possiede più un grado di sicurezza
sufficiente, dove radicare i processi di
identificazione? La risposta giunge quasi scontata: nel corpo. Si erano del resto
avute già sufficienti avvisaglie.
FINE DELLE CERTIFICAZIONI
La prima globalizzazione – quella tra
il Cinquecento e il Settecento – aveva
avuto necessità di creare lo standard aureo per fondare le transazioni economiche su un valore riconosciuto internazionalmente; la globalizzazione contemporanea ha la necessità di trovare uno standard comune per fondare le transazioni
elettroniche. Le transazioni elettroniche,
a differenza di quelle monetarie, sono volatili, difficili da cristallizzare. Eppure la
mobilità di persone e merci richiede
transazioni sicure e certe. Dal turista che
usa una stessa carta di credito in ogni parte del globo, dall’immigrato regolare che
vuole usufruire dei benefici dello Stato
sociale che lo ospita, sino al finanziere
che muove in tempo reale ingenti capitali
da una nazione all’altra, l’esigenza è la
medesima: assicurare l’accesso logico o
fisico al sistema solo a coloro che ne hanno diritto. Lo sviluppo delle tecnologie di
Automatic Identification and Data Capture risponde essenzialmente a questa
esigenza. La maggior parte di queste tecnologie ripete lo schema tradizionale dei
documenti di identità, seppure in modo
tecnicamente più sofisticato. Si tratta di
sistemi basati sul possesso di qualcosa.
Così come nel sistema tradizionale l’identità è certificata dal possesso di un documento rilasciato da un’autorità statale
– «tu sei colui che porta legittimamente
quel documento che attesta chi tu sei» –
le identità elettroniche sono certificate
dalla corrispondenza tra i dati contenuti
in un oggetto (carta di credito, RFID,
smart card, microchip, ecc.) e la conoscenza che ciascuno ha di un determinato codice (PIN, password, firme elettroniche). La conoscenza di quel codice identifica perché un’autorità (banca che ha
emesso la carta di credito, sistema sanitario nazionale, sistema di certificazione
elettorale, ecc.) certifica che colui che conosce quel determinato codice è colui
che afferma di essere. Questo sistema
presenta numerose falle perché password, PIN, firme elettroniche possono
essere, con diversi gradi di difficoltà, “rubate”, permettendo automaticamente di
“rubare le identità”. Per esempio la scarsa
sicurezza delle transazioni economiche
via internet costituisce ancora oggi il fat-
tore limitante principale allo sviluppo
dell’ e-commerce.
Se password e PIN non cambiano sostanzialmente lo scenario, non si può dire lo stesso per la biometria. La biometria
è la risposta al problema della verifica
dell’identità così come è posto in modo
originale dalla network society, cioè da
una società che, nella definizione che ne
dà Manuel Castells, è principalmente caratterizzata dalla crisi dello Stato-nazione. La biometria si distingue tra tutte le
tecnologie di Automatic Identification
and Data Capture perché il riconoscimento non è più basato sul possesso di
qualcosa che ci è stato dato o comunicato
da un’autorità garante, ma su ciò che si è,
sul proprio corpo. Questa soluzione è solo a prima vista scontata: in realtà, pur rifacendosi in apparenza ai sistemi premoderni basati sul riconoscimento fisico, rappresenta una vera rivoluzione. Infatti il sistema tradizionale dei documenti di identità era nato proprio come risposta all’inaffidabilità del semplice riconoscimento tramite testimoni. Nulla è più
mutabile e camuffabile dell’aspetto fisico: si cresce e si invecchia, i capelli incanutiscono e cadono, si ingrassa e dimagrisce, la voce diventa più roca e basta mutare direzione dello sguardo per
cambiare fisionomia. Persino nell’epoca trionfante della fotografia, l’affidabilità del riconoscimento visivo diretto è sempre stata
scarsa. Un vecchio trucco da “malavitosi”, per esempio, insegna a esercitarsi a
rilasciare completamente i muscoli facciali nel momento della foto segnaletica.
Nove volte su dieci la foto sarà completamente diversa dal volto “originale”. È per
questo motivo che i messi del Quattrocento usavano lasciapassare e sigilli per
testimoniare la propria identità, piuttosto
che ritratti o testimoni oculari. L’identificazione basata su dati fisici diventa attendibile solo nel momento in cui si individuano caratteristiche fisiche invarianti
nel tempo e non (facilmente) alterabili o
copiabili. La nascita della biometria forense, abbiamo visto, risale agli inizi del
Novecento, con le ricerche dei primi genetisti di popolazione e con l’introduzione delle impronte digitali nella pratica
criminologica. Bisogna però arrivare alla
rivoluzione genetica, con la possibilità
del riconoscimento basato sull’analisi
della sequenza di frammenti del DNA,
per giungere al primo – e sinora insuperato – standard di riconoscimento basato
direttamente sul corpo. Lo sviluppo delle
tecniche biometriche attuali – lettori di
impronte digitali, scanner dell’iride, riconoscimento della geometria facciale, ecc.
– è la logica conseguenza di questo primo
passo.
Alcuni studiosi hanno obiettato che
si tratterebbe di una novità solo apparente: infatti spetterebbe sempre agli Stati
certificare alla fine l’associazione tra una
determinata caratteristica biometrica e
l’identità di una persona. Non è vero.
Certo, sino a che la biometria non si sarà
affermata come standard – e nel caso che
RICORDATE CHI ERA QUEEQUEG?
Se la biometria diventa lo standard, il
concetto stesso di identificazione è destinato a cambiare. Non importerà collegare l’individuo a un nome e a un cognome,
a una città e a una nazione, a una data e a
un luogo di nascita, e nemmeno a un sesso o a una professione: tutti questi dati diventeranno inessenziali. Basterà collegarlo a una sua caratteristica fisica immutabile, unica e non riproducibile, che
possa essere estratta tramite un algoritmo e collezionata in una banca dati. Se si
presta attenzione, questo processo rivoluziona non solo il sistema di documenti
di identità basato sull’autorità degli Stati
nazionali, ma anche ogni precedente sistema di identificazione. Il sistema nome
e patronimico come forma di identificazione, infatti, si stabilizza nel Seicento
ma ha origini antichissime, coeve alla nostra stessa civiltà: «Titide magnanimo
perché mi domandi la stirpe? Come stirpi
di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune le getta il vento a terra, altre la
selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce
una, l’altra dilegua. Se anche questo però
vuoi sapere, per conoscerla bene la stirpe
mia, molti la sanno fra gli uomini […]»
(Iliade, VI, 145-150, trad. R. Calzecchi
Onesti). L’identificazione attraverso il
ghene è ciò che distingue l’uomo dalla natura, le generazioni degli uomini da quelle delle foglie. Certo, è una distinzione
sottile e fragile, forse illusoria – dice il
poeta – ma è tutto
ciò che possediamo,
tanto che dopo che
il giovane Glauco
avrà declinato le sue
origini, il potente
Diomede lo riconoscerà e lo risparmierà: «Ma dunque tu
sei ospite ereditario
e antico per me! […]
Scambiamoci le armi l’un l’altro; anche costoro sappiano che ci vantiamo
di essere ospiti antichi» (Iliade, VI, 210,
230). La biometria, quindi fa parte – almeno in un senso molto generale – di
quel processo di ridefinizione dei processi identitari che caratterizza l’epoca contemporanea. L’identità non trova più le
sue radici nell’ordine delle famiglie ma si
fonda direttamente sulla biologia, sulla
physis.
In un altro senso, infine, la biometria
appartiene interamente alla tarda modernità: nel suo essere radicata sul corpo e
nel suo basarsi sulla corporeità. Il corpo è
il luogo in cui si incrociano le scommesse
più ardite e più pericolose della contemporaneità. La tecnologia infatti sembra
poter ridisegnare una soggettività mutante, una corporeità programmata, clonata, replicata. A questo proposito si parla di superamento dell’essere biologico,
di una nuova carne sintetica, di un corpo
postorganico. Il corpo sembra poter diventare una superficie informatizzata,
un corpo-segno totalmente formalizzato,
come viene in qualche modo preannunciato nella top model o nel body-builder.
Si apre un orizzonte postumano, l’orizzonte del cyber-Golem. Francesco D’Agostino usa la descrizione di Queequeg, il
selvaggio dal corpo interamente tatuato
descritto da Hermann Melville in Moby
Dick, come metafora della corporeità
umana. Queequeg ha inscritta sul proprio corpo l’intera storia del mondo ma
non la sa leggere: «Non è facile per l’uomo accettare e farsi una ragione di tale
rapporto paradossale che si dà tra lui e il
suo corpo. La tentazione di negare in noi
l’esistenza di ogni mistero o almeno di ridurre a enigmi irrilevanti, mistificanti, infantili quelli che, nella loro portata ontologica, misteri ci appaiono, è sempre stata presente nell’uomo. Fanciullesco, per
lo Zarathustra di Nietzsche, l’atteggia-
i corpi umani classici sono
lisci, perfetti. la pratica
del tatuaggio, invece,
testimonia il corpo come
possesso, come assemblaggio
mento di chi vede nel corpo qualcosa di
ulteriore rispetto al corpo stesso […] A
Zarathustra l’umile Queequeg insegna
piuttosto il contrario: proprio perché vede nel suo corpo qualcosa che è al di là del
suo corpo, egli lo onora e lo rispetta». La
storia di Queequeg è però più che una
metafora. È vero che il corpo, con le sue
rughe e le sue cicatrici, può esser concepito come un libro dove è scritta la storia
di ciascuno – e in questo senso va anche
la riflessione di uno psicoanalista francese che alla pelle ha dedicato molto del suo
lavoro di ricerca, Didier Anzieu – ma il
corpo è anche la stele dove realmente si
scolpiscono le vicissitudini dei soggetti.
Non è forse inconsapevolmente che
D’Agostino ha scelto il corpo tatuato di
Queequeg come simbolo del corpo contemporaneo. Il corpo greco – così come,
in un diverso modo, il corpo ebreo – sono
corpi lisci, privi di iscrizioni, di segni, di
tatuaggi e scarificazioni. Il corpo greco è
un corpo che ha l’ossessione della pelle,
levigata, liscia, priva di ogni segno per essere perfetta. Il corpo ebreo è un corpo
che presenta un unico segno, quel taglio
che sancisce l’alleanza con Dio e che, proprio per avere significato, non deve essere accompagnato da nessun altro segno.
Per greci ed ebrei sono gli “altri”, i barbari
e i gentili, che marcano la propria pelle
con tatuaggi, scarificazioni, incisioni. Di
nuovo la tarda modernità presenta una
rottura con tutta la tradizione precedente.
La trasformazione chirurgica del corpo
diventa non solo e non tanto “normale”
(si tratterebbe in definitiva solamente
dell’ affermazione di nuove prassi sociali), ma il corpo stesso è pensato come risultato di un assemblaggio. Chirurgia cosmetica, chirurgia per la rettificazione del
sesso, protesica, impianti di biochips, tatuaggi, piercing, scarificazioni, body art,
trapianti di organi: non si può credere che
il concentrarsi di tante diverse pratiche –
però con una simile ratio – sia casuale e
privo di effetti antropologici.
La biometria si inserisce in un processo più generale di parcellizzazione del
corpo umano in oggetti parziali. Da un
punto di vista evolutivo questo processo
corrisponde a una regressione complessiva della nostra società a uno stato infantile. La nostra società è la società in cui il
corpo è percepito attraverso le sue parti
disarticolate, in cui la perversione sessuale ha sostituito la sessualità adulta, in
cui il processo primario e la soddisfazione immediata del desiderio (anche come
strategia consumistica) hanno sostituito
la capacità di procrastinare la soddisfazione. Una dimostrazione che la biometria si inserisce in questa tendenza si ritrova nelle forme delle sue applicazioni
che rimandano ai deliri paranoici e schizofrenici (il corpo come veicolo di messaggi, la lettura di parti del corpo, la possibilità di un controllo totale, ecc.). Il corpo informatizzato, di cui parlano Stefano
Rodotà e altri studiosi, è certamente una
realtà, almeno nel senso che il corpo si
trova a essere descritto da rapporti prodotti da algoritmi matematici. In un qualche senso si realizza l’antico sogno pitagorico-platonico di rappresentare il reale
per tramite di relazioni geometriche. Ma
questo processo non rende il corpo più
degno di onori, piuttosto lo trasforma,
definitivamente, in un cadavere.
Soma, sema; corpo, tomba: mai fu
più vero l’antico gioco di parole.
•
Emilio Mordini
Psicoanalista, direttore del Centro
per la Scienza, la Società e la Cittadinanza
(Roma), coordina il Progetto UE
“Biometric Identification Technology Ethics”
NOTE
1
Sino al 1916 ogni cittadino inglese poteva mutare il proprio nome e cognome semplicemente dandone comunicazione all’autorità. Questa possibilità rimase in vigore, almeno teoricamente, sino al
1971. La disputa nata nel Regno Unito dopo l’11 Settembre sull’introduzione di documenti di identità obbligatori dovrebbe essere sempre letta alla luce di questi dati.
2
La prima legge in Europa che fissa immutabilmente l’identità personale all’anagrafe è del 23 agosto
1794 in Francia. In questa legge viene fatto divieto a chiunque di utilizzare nome e patronimico diversi da quelli che gli furono assegnati alla nascita.
ARTE E DINTORNI
S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5
ca scienza della divisione dei colori che in
Italia si praticava più con i filamenti e le linee che non con l’originario punto francese, si accompagnò a questa visione
simbolista dei contenuti.
Dunque tecnica e scopo dell’arte divergevano assolutamente, mostrando un
eccentrico connubio di aspirazione a una
sorta di verità scientifica e una contemporanea tensione di rappresentare contenuti spirituali e indicibili: «Io credo anzi –
diceva Grubicy – che quando l’artista ha
per obiettivo di esprimere quegli esseri
assoluti ed essenziali che si chiamano
idee, gli oggetti che concorrono a esprimerle non debbano aver valore in sé come oggetti, ma solo come segni, come lettere di un alfabeto…».
Che la mente si culli
Paradossalmente il maggior teorico
della pittura divisionista, il critico militante, il conoscitore delle avanguardie
postimpressioniste francesi e belghe, il
difensore di Previati e il consigliere di Se-
IL DOMENICALE 11
che sintetizzi forme, linee e colori […] e
costringa la mente del riguardante a lasciarsi cullare dal simbolismo decorativo
complessivo della mia idea».
Il vago e l’indefinito
Assoluta la fiducia nelle possibilità
della pittura, da raggiungere attraverso
un’educazione alla tecnica paziente e
un’umile osservazione della natura. «Nei
miei scritti troverai […] tutto uno studio
per portare l’arte nettamente sulla nuova
via, dopo essere però passati da serii e
ben nutriti studi sulla Natura libera nella
sua luce», scriveva a Segantini nel 1891. I
suoi paesaggi sono soprattutto visioni di
montagne, spesso riuniti in gruppo in
modo da formare poemi naturali nell’idea di raggiungere il «mistero di esecuzione» che egli rimpiangeva in Segantini,
la realizzazione del “vago” e dell’“indefinito” che serviva a rendere misteriosa e
piena di simboli la natura.
Trentaquattro dipinti, sei disegni e diciannove acqueforti di Grubicy sono ra-
La pittura “ideista” di GRUBICY
L’intellettuale e mercante, l’amico di Segantini che impugnò la tavolozza e ora impazza da Torino a Trento a Milano
di Beatrice Buscaroli
rima fu mercante, poi fu critico
d’arte e scrittore. Alla fine Vittore
Grubicy (1851-1920) divenne pittore, quasi volesse arrivare al cuore di quel
che aveva fatto con gli altri e per gli altri,
superando qualsiasi mediazione. Restò
pittore per dieci anni compresi tra la fine
dell’attività di mercante e la morte dell’amico Segantini. Aveva ricevuto la prima
scatola di colori a olio da un amico olandese della scuola dell’Aja, negli anni Ottanta, ma allora aveva ancora la galleria.
Aveva iniziato a cimentarsi con la pittura a trentatré anni, incominciando dal
disegno e dall’acquerello; alcuni anni dopo, perduta la galleria d’arte nella lite col
fratello Alberto, divenne il suo scopo primario. Vi si avvicinò come a un dovere,
quasi cercasse di rendere reali le idealità e
i pensieri che aveva espresso nel suo lavoro di critico, quasi cercasse di usare per
sé i precetti che aveva cercato di trasmettere agli altri. «Il bisogno di solitudine e di
studio combinato con la scarsità di pecunia mi hanno spinto ad accettare per cinque anni l’ospitalità di una casa vuota
d’inverno sopra una montagna qualunque, priva di risorse, grandi cose, senza
primi piani…».
Pittura come esercizio mentale e morale, pittura come lungo tirocinio. «Dopo
questa ginnastica, la più difficile di tutte,
un motivo largo, semplice, melodico, diventa per me facile», scriveva a un amico
nei primi anni del Novecento.
P
Dieci anni prima, con la presenza di
Segantini e di Previati alla prima Triennale di Brera a Milano, la pittura “simbolista” aveva fatto la sua apparizione in Italia. Angeli, madri, madri buone, madri
cattive, madri mucche e pastorelle si sarebbero diffuse rapidamente intorno a
quel cenacolo lombardo di cui Vittore
Grubicy era l’intellettuale e il mercante.
Volevano rappresentare i grandi concetti della vicenda umana, la vita, la morte, l’amore, la speranza, le fede ed erano
dipinti con uno stile nuovo, nato in Francia ma trasformatosi radicalmente nella
sua ripresa italiana. Il colore diviso aveva
attirato gli artisti pointilliste per la presunta scientificità nell’uso dei colori. Era
un refolo di positivismo che s’addentrava
nella pittura dopo quindici anni di impressioni, attimi, variazioni, tonalità, nuvole di passaggio, luci, ombre.
L’impressionismo aveva la fretta di
ingannare l’occhio dandogli tutto e tutto
insieme: fumo, treno, nebbia. Troppo in
fretta. Il pointillisme fermò il colore in
una sua stasi primordiale cambiando la
sequenza dei tempi. Il colore non si unisce sulla tela ma direttamente sulla rètina. La teoria divisionista fu accompagnata da volumi di ottica e di teoria dei colori:
quel che ne derivò, cercando nella scienza un aiuto per tornare a valori di realtà e
di oggettività che invece si erano persi per
sempre e per ragioni diverse, è uno stile
che rovescia completamente il senso della pittura da cui era nato. Inoltre, la teoriVITTORE GRUBICY
E L’EUROPA.
ALLE RADICI
DEL DIVISIONISMO
TORINO, GALLERIA D’ARTE
MODERNA E
CONTEMPORANEA,
FINO AL 9 OTTOBRE
TRENTO, MART, PALAZZO
DELLE ALBERE,
DAL 28 OTTOBRE
AL 15 GENNAIO 2006
MILANO, CIVICHE
RACCOLTE D’ARTE
MODERNA, FINO
AL 15 GENNAIO 2006
MUSICA
Altro che Bono Vox, il grande è Pinone
elice era il tempo antico in cui le
rockstar si drogavano un sacco, facevano parties psichedelici, trombavano le groupies sgallettate. Felice era
il tempo in cui Ozzy Osbourne sul palco
staccava la testa a un pipistrello con un
morso, in cui Jimmy Page dei Led Zeppelin comprava il maniero dello spiritista
inglese Aleister Crowley. Tristi tempi i
nostri, in cui le rockstar risolvono il problema della fame in Africa con un concerto, s’impegnano socialmente per tutte le nobili cause, mostrano bontà e rettitudine. Da vendere. Una volta Red Ronnie vide scendere Bono Vox dalla scalinata di un albergo: tale era l’atteggiamento messianico del cantante degli U2
che al buono Red venne da prostrarsi e
da baciare la pantofola.
Gli è che la musica è la vera lingua
della metafisica, come avevano già nota-
F
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Numero chiuso in redazione il 28/07/05
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to i romantici. La musica è senza contenuto – hai voglia a metterci dentro le parole, il “messaggio”, a far finta di scrivere
canzoni: è al di qua e al di là delle parole.
È troppo intelligente o troppo stupida,
non ci sono vie di mezzo (e ai poveracci
che fanno critica musicale non resta che
mettere insieme qualche frase tendenziosa e qualche insulto, fare polemica come
si fa un brindisi in una tavolata di cumpari, cercando la rima).
Togli The Edge e hai gli Spandau
Per questo quando leggiamo le serie
considerazioni sull’impegno di Bono Vox
o sull’ultimo disco di Jovanotti ci prende
il raptus faux-illuministe e ci viene voglia
di spiattellarlo a tutti, il segreto di Pulcinella. Tutta la potenza delle canzoni degli
U2 non viene dalle fesserie a volte magnifiche dette o cantate da Bono, ma dalla
chitarrina di The Edge. Prendiamo uno
dei pezzi rock più belli di tutti i tempi, Pride (In the name of love). Cosa sarebbe
senza il riff di chitarra? Un pezzo degli
Spandau Ballett sarebbe. The Edge ha inventato il modo contemporaneo di fare
rock ‘n roll con la chitarra: scarno, basato
su ostinati che cambiano di funzione armonica a seconda del basso, pieno di echi
che ribattono le note creando quel senso
di “sovrabbondanza” ritmica surreale.
Un suono così forte che è stato copiato da
tutti: così come ritroviamo Picasso o Van
Gogh pure nei cartelloni pubblicitari, risentiamo The Edge in tutta la musica:
dalla Pausini ai Dream Theather.
Lo stesso vale per Jovanotti. Nelle
settimane scorse quanti giudizi intorno al
suo ultimo disco. Ma le sue tiritere, a volte genialmente ossessive nulla sarebbero
senza il basso di Saturnino Celani, un
marchigiano che suona il funk meglio di
un negro. Togli le linee di basso a Jovanotti e ti ritroverai con un Biagio Antonacci qualunque, ma peggio.
Il principio vale anche per i cosiddetti
grandi cantautori, quelli che troviamo
anche nelle antologie delle scuole medie.
De André, per esempio, il “poeta”. Bene,
lo diciamo – citando lo ‘ndranghetista del
bar del paese – con “pochi danari e poca
paura”: il suo miglior disco è senza dubbio il live con la Pfm, un manipolo di scatenati che costruiscono attorno alle sue
canzoni, spesso musicalmente povere,
una ragnatela sbrilluccicante di melodie,
invenzioni, suoni. Il solo di chitarra di
Amico fragile, fatto da Franco Mussida,
vale un’intera Recherche. Sarà un caso
che fino all’ultima tournée, cambiati i
musicisti, gli arrangiamenti di molte canzoni fossero ancora quelli dalla Pfm?
Sulla base di questo metro di giudizio, quello popolare del suono e del ritmo, le gerarchie sui cantautori verrebbero ribaltate. Pollice verso per De Gregori ,
il Bob Dylan de noantri, ma senza lo
swing implacabile del menestrello americano. Da riscoprire Pino Daniele.
Il Pinone ha inventato un genere in
cui la tradizione napoletana e quella
afroamericana si mischiano in modo viscerale: rithm ‘n blues, tammuriàta e
canzone, con un tocco di Sudamerica e
una congenita incazzatura di fondo.
Grandi melodie, da quelle semplici, (Napul’è, Je sto vicino a te), a quelle che sarebbero perfette come arie d’opera (Lazzari felici), ai vocalizzi jazz trasformati in
canzoni bizzarre (Ma che mania). Brani
che entrano di diritto nel pantheon della
canzone napoletana (Viento, E cerca e
‘me capì, Appucundria), rock blues nervosi e pezzi che hanno scoperto la world
music (Mo basta) ben prima che diventasse retorica posticcia per intellettuali
stonati ansiosi d’incontri con “l’Altro”. E
poi, chi non ha vagheggiato amori possibili intonati su Quanno chiove? I testi:
musichevole e swingante mix d’italiano,
napoletano e inglese. Rigorosamente antiletterari, al limite del calembour ritmico. Pino Daniele è il più bravo di tutti.
Naturalmente parliamo del grande
Pino Daniele, quello che va da Terra mia
fino al live Sciò. Poi è subentrato un progressivo addormentamento che il ricorso a grandi jazzisti come accompagnatori non basta a nascondere. La voce si
sfina, le musiche si illanguidiscono, e
anche i testi: da «Si m’intosta ‘a nervatura metto tutti a faccia ‘o muro» (Je so’
pazzo) a «Che male c’è/ che c’è di male/
Se la mia vita ti appartiene/ ed è normale», la caduta è inquietante. Ma va bene
così. Basta cercare i dischi vecchi, che si
trovano pure a pochi euri. Pochi danari,
poca paura e bella musica.
•
Bruno Giurato
gantini da pittore aveva abitudini diverse.
Aveva messo a punto una tecnica che nasceva dalla mediazione tra il purismo di
Georges Seurat e del divisionismo classico e la maniera tradizionale di aggiungere strati di vernici e lacche successivi. Riprendeva le stesse tele a distanza di anni
e le ritoccava – «tu sai per quanto anni
consecutivi e quante volte ho rimesso sul
cavalletto le stesse tele» – le modificava,
passava la «vernis à retoucher Vibert per
riaprire i pori della pittura precedente e
predisporla ad immedesimarsi…».
Sostenitore della pittura «ideista»,
dell’«arte di immaginazione», Grubicy
aveva salutato con favore il tramonto del
naturalismo e del verismo, ben felice di
assistere alla rinascita della scuola lombarda di cui avevano fatto parte gli amati
Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni.
Tra aspirazioni e fallimenti, tra la brutale uscita dal mondo del mercato e il
sommesso ingresso in quello della pratica artistica, che si chiuse in modo egualmente brutale dopo la morte del sodale
Segantini – sua primaria fonte d’ispirazione nonostante il continuo tentativo di
educarlo e orientarne i gusti –, Grubicy
aveva stretto con la pittura un patto difficile. I suoi dipinti recano un senso sognante di naturale nostalgia, una tendenza trasfiguratrice che trasforma il paesaggismo classico e olandese in un luogo
senza spazio e senza tempo: «Dunque
cercherò qualche mezzo che mantenga al
mio pensiero il suo carattere vago, oscillante di visione o di sogno indeterminato
dunati per la prima volta nell’idea di seguire il pensiero dell’artista nell’evolversi
della sua ricerca, dei suoi accostamenti e
allontanamenti dalla pittura, nel suo finale di ossessiva rielaborazione di quanto aveva fatto. Laghi, boschi, nebbie costituiscono l’illustrazione di questa vita
che forse chiedette troppo alla pittura.
Grubicy le chiese la sua minima porzione
d’immortalità scegliendo con cura i musei italiani a cui lasciare il suo lavoro.
Era difficile portare la pittura a quel
che Grubicy desiderava ed era impossibile farlo con le mani degli altri. A Giovanni
Segantini Grubicy aveva insegnato a scrivere, aveva mostrato immagini e modelli,
l’aveva supportato e consigliato. Poi, come sempre accade, i due si erano allontanati e in una delle ultime lettere Segantini
diceva: «Caro Vittore, leggendo la tua lettera vi trovai qualche cosa di triste e di ironico… Amesso che l’arte moderma debba maturare nel vero ebbene credo sia
meglio di parlarme più». La grafia di Segantini non era ancora perfetta e l’idea
comune tramontava.
Dipingere l’idea non era semplice, soprattutto quando le idee erano diverse come «20 organeti suonati insieme ciascum
suonando la su arieta. Mi capirai, ciao,
tuo Segantini».
•
Al centro: Vittore Grubicy (1851-1920), Rio
di Venezia, 1897-1907, Milano, Enrico
Gallerie d’Arte; a sinistra: Giovanni Segantini
(1858-1899), Ritratto di Vittore Grubicy,
1887, Lipsia, Museum der Bildenden Künste
L’ANGOLO
DELLE MOSTRE
— Man Ray. Magie
Merano, Kunst Meran/o arte,
fino al 18 settembre
«Dipingo ciò che non posso fotografare. Fotografo ciò che non voglio
dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile». Man Ray, lo scopritore moderno della schiena femminile,
ingegnoso voyeur a metà tra dadaismo e surrealismo, ha fondato una fotografia densa d’incanto erotico ed
estetico. Ma è stato anche pittore, regista, disegnatore, grafico e scultore,
inventandosi tecniche nuove e grafismi indimenticabili. Ottantacinque
fotografie (una decina d’inediti), dieci
oggetti e una parte della sua produzione cinematografica allargano la visuale ai molti modi in cui Man Ray riusciva a cogliere quell’incanto, tra la
Parigi e la New York dei Quaranta.
— Tom Wesselman
Roma, Macro, fino al 18 settembre
Nudi monumentali di due metri e
mezzo, nature morte imbandite di
toast e coca cola, sigarette protese da
bocche lucide e carnose, giochi di fiori
e di colori che s’inseguono in un balletto astratto. È la prima mostra italiana
dedicata a Tom Wesselman (1931)
protagonista insieme a Warhol, Lichtenstein, Oldenburg e Rauschenberg
della grande stagione Pop americana.
Edonismo, consumismo e iconografia
dell’advertising percorsi dall’erotismo
velato-sfacciato delle femmine di
Wesselman: grandi labbra rosse, chiome platinate, capezzoli color fragola,
denti bianchissimi e unghie laccate.
Una retrospettiva pensata da Wesselman in collaborazione con il Whitney
Museum pochi mesi prima di morire,
nel dicembre 2004.
— Jet-Lag. Bernardo Siciliano
Milano, Palazzo della Ragione,
fino al 4 settembre
Esce dalla prolifica scuderia di Italian Factory questo trentacinquenne
che vola tra Roma e New York, ha imparato l’olio da Cèzanne, fa pensare a
Hopper e dice di amare più i quadri
“letti” nei libri che visti nei musei perché «gli piace la cornice della pagina
bianca». Forte di una mano fine di disegnatore, di uno spiccato senso grafico e della possibilità di variare i suoi panorami (molto) intellettuali, Siciliano
porta in mostra gli ultimi cinque anni di
pittura, lasciando a casa i ritratti per
mandare avanti le sue vedute. Asfalti e
ingorghi, parchi e semafori, volumi di
chiese e di monumenti per la Roma
natia, che brulica di traffico e sole. Voli
d’uccello più vertiginosi per l’adottiva
New York, che si frammenta in trittici
maestosi di ponti, baie, highways,
campi da baseball tra i grattacieli.
Pia Capelli
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essere e chi essere