sii solo, e non sarai nessuno ANNO 4 NUMERO 34 SABATO 20 AGOSTO 2005 A 1,50 POSTE ITALIANE SPA SPED.ABB.POST. - 45% ART.2 COMMA 20/b LEGGE 662/96 D.C. MILANO storia, pericoli, frontiere sociali e digitali dell’identità al punto di vista pratico ciascuno di noi sa bene che cos’è l’identità: conosciamo bene chi siamo. I problemi cominciano al momento in cui dobbiamo dimostrarlo ad altri. Come si fa a certificare il fatto che noi siamo proprio noi? Soprattutto, come si fa a riuscirci con assoluta certezza in un’epoca, la nostra, dove la riproducibilità tecnologica di qualsiasi documento – inteso come prova d’accertamento burocraticoamministrativo – e l’accessibilità universale tramite l’internet hanno messo radicalmente in crisi qualsiasi materiale estrinseco d’identificazione? La carta d’identità, così come la conosciamo, non basta più. I processi storici di accertamento dell’identità conoscono nell’era digitale una crisi profonda. Per questo i governi di tutto il mondo, compreso il nostro, hanno avviato una riforma radicale dei documenti identitari (la carta d’identità e il passaporto), che ne faranno nel giro di pochi anni un microcomputer contenente elementi inequivocabili e incontraffacibili del rapporto unico e univoco che esiste fra certe caratteristiche fisico-corporee e quel certo, preciso, individuo umano. Cioè, fra ognuno di noi e il suo corpo, la sua dimensione fisicofisiologica. Saranno fotografie ad alta risoluzione, sarà la configurazione della cornea, delle vene, delle mani, D William Shakespeare (1564-1616)) REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI MILANO N.362 DEL 17/06/2002 REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE VIA SENATO 12, 20121 MILANO TELEFONO 02 36560007 E-MAIL: [email protected] ESSERE E CHI ESSERE QUESTO È IL PROBLEMA POLIS Libertà religiosa. Il “Rapporto 2005” John Randolph a pagina 2 WELFARE Nella giungla delle definizioni a pagina 2 DISCUSSIONI Pera, Romano, Napolitano: libertà e totalitarismi con Alessandro Turci a pagina 3 AUSTRALIA Ma quale genocidio di aborigeni! Massimo Introvigne a pagina 3 FINESTRE APERTE È tornata la trascendenza, nel pensiero e nella scrittura Mariano Fazio alle pagine 6 e 7 GRAAL LETTERARI Le misure antiterrorismo funzioneranno se ci rispetteranno per quelli che siamo delle orecchie, del volto, delle ossa. Saranno altri e sempre più sofisticati metodi di prelievo e di confronto. I provvedimenti proposti dopo la strage di Londra dal ministro degli Interni Giuseppe Pisanu per far fronte alla minaccia terrorista vanno compatti in questa direzione. Tutto questo porta a nuovi sviluppi tecnologici. Ma anche umanistici. Nel senso che la questione dell’identità è importante anche a livello di quel “riconoscimento” personale e sociale che non deve vedersela tanto con i sistemi di sicurezza e d’individuazione pubblica, quanto con quell’altro universo d’identificazione che è composto dai sistemi di valore, da quell’affollamento eterogeneo di riferimenti che rende le nostre società simili a “supermercati di pluralismi”. Anche davanti a questa constatazione alcuni studiosi di antropologia affermano che le identità sociali, oggi, si costruiscono per contrapposizione. Ciò spiegherebbe l’affermarsi di società a matrice religiosa soprattutto fra popoli e nazioni in via di affermazione territoriale e politica. La Polonia, in questa prospettiva, sarebbe stata “molto cattolica” perché e finché l’Urss era molto oppressiva. E il terrorismo islamico sarebbe tanto più vivo quanto più si confronta con modelli e stili di vita opposti al suo. Analisi interessanti. Ma insufficienti, se raffrontate al principio in cui radica la definizione dell’individuo umano e della sua singolarità: una dignità personale che precede qualsiasi specificazione e che, pur nativamente relazionale, nasce prima come “io” per poi potersi confrontare con i “tu”. Non la si può confinare a un “accertamento negativo”: per descrivere chi sono io non basta dire che io-sono-io perché non-sono-gli-altri, che io-credo-questo perché altri credono-non-questo. Sono campi difficili, impervi. Proprio mentre ci tuffiamo nell’equiparazione tecnologizzata fra corpo e identità, i progressi nel campo della clonazione e le conquiste raggiunte in quello dei trapianti ci fanno riflettere sul fatto che anche quella del “mio” corpo non è detto sia l’ultima frontiera. E qual è, allora, l’ultima frontiera di noi stessi? È questa, ancora e sempre, oltre qualsiasi tecnologia e sociologia, la definitiva domanda sull’identità, sulla libertà. Giuseppe Romano [email protected] [email protected] Giù nel profondo Sud degli States Marco Respinti a pagina 5 CLASSICI YANKEES Che fior fior di scrittori ribelli Davide Brullo a pagina 5 CINEMA di Emilio Mordini a biometria fa parte di quelle tecnologie complessivamente chiamate AIDC (Automatic Identification and Data Capture), che comprendono, oltre la biometria, le smart card, i codici a barre, i dispositivi RFID, le carte magnetiche e OCR, i microchip impiantabili, ecc. Si tratta di tecnologie che hanno in comune la capacità di estrarre dati attraverso un meccanismo elettronico automatizzato e quindi di processarli in sistemi controllati da microprocessori, quali, per esempio, computer. Della biometria in generale abbiamo già parlato in un recente articolo de il Domenicale (n° 17, sabato 23 aprile 2005). Ora ci occuperemo delle sue implicazioni sociali e politiche. La biometria può sembrare a prima vista una tecnologia fra le tante, forse provvista di qualche maggiore pericolosità per la privacy, ma sostanzialmente con minore impatto etico e sociale di altre tecnologie, in particolare quelle nate in ambito biomedico (biotecnologie, tecnologie di imaging, neurorobotica, ecc.). Non è così. In realtà la biometria è probabilmente una delle tecnologie con maggiori probabilità di cambiare le no- L Dammi il tuo corpo e ti dirò chi sei: le più recenti tecnologie biometriche sembrano riportarci indietro fino all’antichità classica, quando il proprio corpo era la misura unica della certezza identitaria. E così, complici le misure antiterrorismo e l’elettronica, torna di moda la bio-politica stre vite nel prossimo futuro: tutto dipenderà se si svilupperà una massa critica di applicazioni sufficiente da imporla come standard identificativo. Se così fosse – e al momento appare difficile fare previsioni in un senso o nell’altro – nulla sarà più uguale. Cercheremo ora di spiegare perché. Il cuore della “questione biometrica” sta nel problema dell’identificazione. I tecnologi e gli ingegneri che lavorano sulla biometria tendono spesso a banalizzare questo fatto, sostenendo che la biometria non rappresenta null’altro se non una soluzione tecnica a una questione pratica creata dalla crescente interconnessione del mondo. Proprio questa considerazione dovrebbe, invece, avvertire della centralità del tema. La questione dell’identità personale è una delle questioni fondamentali della nostra epoca, che la si chiami “post moderna”, “tardo moderna”, “sopra moderna” o altro ancora. La questione fu prima sollevata tra la fine degli anni 1950 e ’60 in ambito anglosassone dai filosofi della mente, quindi divenne alla moda nei circoli post-analitici variamente influenzati dal pensiero psicoanalitico e femminista. È del 1976, per esempio, un volume collettaneo curato BACETTI Ahò, ma chi è ’sto furbetto del quartierino al cellulare ra che l’estate comincia a declinare, e fossimo D’Annunzio comporremmo i «di terre lontane», non resta che fare un piccolo bilancio. Questa del 2005 è l’estate non del bikini, dell’i-pod, dei bambini fanno ooh, dei vipsss,della crisi dell’euro, della leadership a destra e sinistra, e solite cose. No, se dovessimo ricordarla la ricorderemmo per le intercettazioni dei telefonini che hanno messo alla berlina uomini di tutto rispetto, chessò Preziosi e Fazio. Il primo intento a indirizzare le sorti del suo amato Genoa, il secondo interessato a conoscere gli esiti delle varie Opa bancarie. Certo, casi diversi, diversissimi, impossibili da accostare, se non fosse O per le modalità attraverso le quali è scoppiato il caso (l’intercettazione) e per il tono dei discorsi intercettati. L’ingenua ammissione di Ricucci «stamo a fa’ i furbetti del quartierino» dovrebbe essere presa come la vera colonna sonora dell’estate 2005, perché ciò che sorprende è la leggerezza con cui tutte le persone coinvolte nei vari casi discutevano bellamente al cellulare, con quella impudenza tipica dei potenti resa comica dal lato umano, talvolta vernacolare, delle frasi. Altro che “furbetti”. A pensarci, è scandaloso che la libertà personale venga tanto vilipesa dalla magistratura che da anni usa le intercettazioni come armi improprie, so- prattutto quando poi vengono date in pasto ai giornali. Ma davanti all’involontaria comicità di ’sti “furbetti” che parevano Totò spy-story con appuntamenti segreti, entrate laterali nei palazzi, schede telefoniche sicure, mentre il Grande Fratello tranquillamente li registrava, viene quasi da ridere più che da indignarsi. E per fortuna che nessuno aveva pensato di usare il videotelefono, altrimenti sai che telenovela. Le registrazioni, specie quelle inerenti a membri del salotto buono della nostra finanza, sono tra le cose più spassose che si sono potute leggere nell’estate. Una radiodramma esilarante, protagonisti i potenti dell’Italia, con mogli, confesso- ri, amici, amichetti, con la rappresentazione più stucchevole e consueta del potere romano, seppure i fini delle operazioni non fossero tutti disdicevoli, gli intenti perfino buoni. D’altronde, molti credono che parlare al telefonino sia lo stesso che pensare in silenzio chiusi a chiave nel proprio bagno. Ma così non è. In bagno ci si chiude per non mostrare le proprie debolezze animali, mentre al cellulare si dimentica il confine tra pubblico e privato. Ma se non c’è nessuna registrazione delle nostre flatulenze, molte ne esistono delle nostre conversazioni telefoniche. Per cui più che un galateo del cellulare, occorrerebbe un po’ di pudore. Angelo Crespi da Amelie Rorty su Identities of Persons con interventi, tra gli altri, di Derek Parfit, Daniel Dennet, Ronald de Sousa. Negli anni 1980 e ’90 la riflessione nell’ambito sociologico (Giddens, Luhman, Beck) e delle correnti di pensiero “postmoderne” si indirizzò sempre di più al tema dell’identità personale che finì per diventare primario non solo da un punto di vista teorico ma anche da un punto di vista politico. La bioetica, l’integrazione degli immigrati, i processi di inclusione sociale, le forme di democrazia partecipativa, il confronto tra localismo e cosmopolitismo, il dibattito sul comunitarismo e sulla società di rete sono tutti esempi di terreni politici “fertilizzati” dalla discussione sull’identità personale. Ma cosa si intende esattamente con “identità personale”? Quando, in seno alla filosofia, si parla del problema della “identità personale”, ci si riferisce al problema di comprendere e spiegare come una persona possa rimanere la stessa pur attraverso i cambiamenti fisici, psichici, esistenziali cui va incontro nell’arco della sua vita. Si tratta di un problema che risale all’origine stessa del filosofare e che torna ciclicamente di moda. Il pro-segue a pagina 10 L’arte di scegliere quale film vedere in famiglia Francesca D’Angelo a pagina 9 MOSTRE La pittura “ideista” di Vittore Grubicy Beatrice Buscaroli a pagina 11 PROFETI IN MUSICA E poi a parlare furono le rockstar Bruno Giurato a pagina 11 E LE NOSTRE RUBRICHE: Lo scaffale dei piccoli e grandi editori; L’angolo delle mostre; e poi il cinema e i dvd POLIS 2 IL DOMENICALE LETTERE FIRMATE Caro Direttore, ho letto con molto interesse il n.31 dello scorso 30 luglio. E ho riflettuto con la calma dell’estate (finalmente) su alcuni temi trattati, come quello di copertina, dove Giuseppe Romano racconta il Crichton antiecologista che punta il dito contro la “paura globale ambientale” indotta per distrarci dalle vere paure dei nostri giorni, e l’altro articolo di Fulvio Di Blasi a pagina 2, dove si contrappongono individualismo e bene comune. E mi viene da chiederle: d’accordo, ci stiamo autoingannando con paure apocalittiche per non confrontarci con quelle reali, indotte dal nostro assoluto individualismo: non è forse l’angoscia, la depressione, il male dei nostri giorni? Ma se è così, perché non dire chiaro che è tutto il meccanismo della società moderna a essere distorto, e che la paura non è che l’altra faccia di una medaglia, quella del desiderio, che è il motore del marketing e della pubblicità? Mi spiego meglio. Credo sia esperienza comune, di tutti noi, aver desiderato un oggetto, magari un libro, un vestito, un telefonino, un’auto, una vacanza. Per poi scoprire, come bambini capricciosi, che il desiderio di averlo era molto superiore al piacere del possesso. Che, in altre parole, a muoverci era una sorta di fantasma, una smania di appagamento che poi non si esauriva nel bene materiale. Credo sia proprio questo lo scopo della pubblicità, farci desiderare cose che forse non ci servono in un modo superiore al bisogno reale. E non vorrei buttarla definitivamente sul filosofico, ma siete stati voi a mettere, proprio su quel numero del Domenicale, la bella frase di Montaigne sul fatto che l’uomo non sa fare un verme ma si fa dèi a dozzine. Dunque è sicuramente pazzo, concludeva lo scrittore francese, e mi sembra di poter concordare, anche se interrogativamente: siamo tutti pazzi? Luigi Varedo Chissà, forse siamo tutti pazzi, o forse è un modo come un altro di cercare il meglio, a tentoni e per passi nel buio. Certo, la nostra società ha giocato molte carte sulle aspettative, più di quante non ne abbia tenute in serbo per le certezze. 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E non solo nelle regioni tradizionalmente associate a regimi dispotici e totalitari, o dove l’intolleranza di alcune fedi maggioritarie si tramuta anche in persecuzione amministrativa, sociale e politica per gli altri, ma pure in alcuni anfratti del cosiddetto “mondo libero”. Anche quest’anno, dunque, il Segretariato italiano dell’opera di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) stila e pubblica il prezioso Rapporto sulla Libertà Religiosa nel Mondo, che censisce e dettaglia i casi di abuso contro i cattolici L nel kerala i centri cristiani d’istruzione assicurano la carriera anche ai “paria”. ma gl’induisti li distruggono a motivo della fede nel corso del 2004. È la settima edizione annuale del Rapporto e la situazione continua a essere in molti casi sorprendente e talvolta persino imbarazzante. Analizzando le situazioni singole di ogni Paese dei cinque continenti, il documento di fatto si chiede cosa sia peggio per i cristiani costretti a “scegliere” tra fondamentalismo islamico, regimi comunisti e dispotismo del relativismo. È questo infatti il “nuovo” persecutore, in realtà mai assente dagli scenari della persecuzione, ma oggi, soprattutto in Occidente, il più temibile e agguerrito. Anzitutto perché, “persecutore soft”, si fa complice di discriminazioni gravi, poi perché, incapace di elaborare una giusta cultura della resistenza contro i “persecutori hard”, consente la conculcazione, fuori dall’Occidente, del primo dei diritti umani da parte dei fondamentalismi di ogni fatta. Quest’anno la presentazione ufficiale del Rapporto si è svolta il 30 giugno alla Camera dei Deputati, con la presenza del presidente Pierferdinando Casini e con la partecipazione del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, cosa questa che – ha affermato Attilio Tamburrini, direttore del Segretariato italiano dell’ACS – configura «l’istituzionalizzazione» del Rapporto, un atto pubblico e formale «oggettivamente importante perché la denuncia delle violazioni della libertà religiosa, che noi documentiamo da circa sette anni, ha prodotto gradualmente un maggior interesse sia dello Stato italiano sia della Chiesa. Il che fa ben sperare per il futuro». Nel cosiddetto “mondo libero”, infatti, l’unico Paese che abbia un organismo che si occupa a livello istituzionale della libertà religiosa sono gli Stati Uniti d’America. Si tratta di una Commissione istituita già dal presidente Bill Clinton che raccoglie informazioni, esamina situazioni, s’incontra periodicamente con La persecuzione anticristiana continua a essere uno dei grandi mali del mondo, anche occidentale il capo dell’esecutivo, con il Senato e con la Camera, e dà indicazioni concrete e dirette a proposito dei Paesi che appunto violano la libertà religiosa, con conseguenze pratiche dal punto di vista dei rapporti economici e diplomatici. Mentre in Europa – ha affermato Tamburrini nel corso di una intervista rilasciata all’agenzia internazionale Zenit – «non esiste nemmeno l'idea che uno Stato si possa occupare delle violazioni della libertà religiosa». Al massimo si può arrivare «a commissioni o gruppi che si occupano in generale del rispetto dei diritti umani». Ecco dunque tutta l’eccezionalità e l’importanza della “istituzionalizzazione” del Rapporto ACS 2005. Tutte le novità dell’anno 2004 Rispetto alle edizioni precedenti, cioè alle situazioni censite negli anni scorsi, di grande importanza si è rivelata, nel corso del 2004, la crescita del fondamentalismo induista, in grado di manifestarsi oggi con particolare virulenza. «È preoccupante – dice Tamburrini – vedere che negli Stati dove il partito induista è largamente maggioritario la tendenza a identificare l’appartenenza religiosa con quella dello Stato». Gli assalti a chiese e a moschee da parte di fanatici induisti, e addirittura gli assalti ai centri d’istruzione cristiana – come documenta costantemente l’agenzia internazionale Asia News, diretta da Bernardo Cervellera, del Pontificio Istituto Missioni Estere –, si ripetono infatti con intensità crescente e preoccupante. Gli attacchi sono peraltro facilmente possibili perché i centri cristiani – appunto d’istruzione – sono aperti a tutti e non discriminano alcuno, nemmeno il paria, il quale, frequentando una università cristiana, può addirittura giungere a diventare, che so, un medico, laddove invece nel sistema castale della tradizione indiano-induista la sola idea di questo resta pervicacemente improponibile. Colpisce del resto una notizia recen- una buona notizia c’è. in egitto è stata introdotta nel calendario la festività del natale te, che ha generato pure la protesta formale dei vescovi indiani. Nello Stato indiano del Kerala, dove più del 20% della popolazione è cristiana, si è verificato il primo caso in cui un ordine professionale, quello degli avvocati, abbia rifiutato l’abilitazione professionale a una suora della Congregazione Madre del Carmelo in quanto «già impegnata in attività religiose». La religiosa, suor Teena Jose, è laureata in Giurisprudenza alla Mahatma Gandhi University di Kottayam, nel Kerala, e, come altri religiosi, svolge pure la professione di avvocato onde poter difendere gli strati più poveri della popolazione della sua regione. Quanto sostenuto all’Ordine degli avvocati introduce quindi un principio di discriminazione che contrasta apertamente con la Costituzione. E per di più stabilisce un precedente pericoloso che in futuro potrebbe interdire le attività professionali a persone impegnate in attività religiose cristiane. Altro scenario importante è quello islamico. Qui vi è da segnalare qualche progresso. Il Marocco, per esempio, ha riformato il diritto di famiglia in senso più paritario nel rispetto delle donne. L’Egitto ha introdotto nel calendario la festività cristiana del Natale e ha autorizzato un'ora di cultura cristiana nelle scuole: un riconoscimento sostanziale e ufficiale, questo, dell’esistenza nel Paese di cristiani autoctoni (sempre negata), la quale peraltro continua a convivere con diversi atti d’intolleranza. I cittadini marocchini ed egiziani che abbandonano l’islam per il cristianesimo continuano infatti a essere fatti oggetto di persecuzioni sistematiche. Il Qatar ha poi stabilito relazioni diplomatiche con la Santa Sede e permetterà la costruzione di una chiesa cattolica. Eppure nei Paesi islamici continua lo scontro, sanguinoso, fra moderati e fondamentalisti, le cui conseguenze si riverberano anche sui cristiani. L’Iran, per esempio, ha fatto registrare forme di notevole radicalizzazione; eppure anche qui non mancano segni in controtendenza: c’è infatti chi, nella popolazione islamica, pensa sul serio che con i cristiani ci si debba convivere. Per molti versi, è una novità assoluta. Altro scenario caldo, la Cina, la quale continua a rappresentare un caso davvero strano. Totalitarismo politico e aperture in campo economico, soprattutto verso l’estero. Oggi il grande problema di Pechino è quello di tenere sotto controllo lo sviluppo. Non si potrà cioè continuare a battere la strada del capitalismo selvaggio usufrendo di quella manodopera pressoché schiavistica che la chiusura su di sé del regime garantisce, impedendo ogni riforma sociale e politica. Sul fronte religioso, le nuove aperture del governo cinese nei confronti del taoismo rispondono peraltro esattamente all’esigenza – oramai all’urgenza – di tamponare una situazione esasperata, aprendo qualche valvola di sfogo che sia però sempre in teoria controllabile e quindi possibilmente distraente. Il buio del Continente Nero Intanto cresce, nel Sud del mondo, la preoccupazione per il protrarsi degli scontri a sfondo religioso in Nigeria, dove, nel solo 2004, si sono registrati oltre 12mila morti che vanno ad aggiungersi alle decine di migliaia di vittime degli anni scorsi, di parte cristiana e musulmana, da che è stata proclamata la shar’ia in 12 Stati del settentrione. La guerra civile, come continua a evidenziare il caso del Ruanda, non esaurisce infatti i propri effetti nel momento in cui cessano le ostilità, e porta con sé strascichi giudiziari e civili che protraggono e approfondiscono la divisione tra le nazioni, le etnie e i gruppi religiosi. In Sudan, quindi, anche se sembra essere stato raggiunto un fragile accordo di pace, la ricostruzione del tessuto sociale lacerato da decenni di massacri non sarà certo immediata. Allarmante resta anche la situazione dell’Uganda, analogamente funestato dagli scontri tra ribelli e truppe governative. In più, proprio nelle aree dove l’azione pacificatrice della Chiesa cattolica e delle altre comunità religiose sarebbe più preziosa, si assiste invece a una discriminazione che non accenna a diminuire, soprattutto nei Paesi a maggioranza islamica, con il divieto di costruire luoghi di culto e di prestare assistenza alle popolazioni in difficoltà. L’offensiva del fondamentalismo islamico non risparmia del resto nemmeno il Kenya, il Malawi, il Sudafrica e l’arcipelago di Zanzibar, in Tanzania. Le vergogne dell’Occidente stanco Da ultimo, ma non per ultimo, il cosiddetto “mondo libero”. Tamburrini lo descrive citando Papa Giovanni Paolo II: «il sistema democratico che perde di vista i valori di riferimento si trasforma in una dittatura». Papa Benedetto XVI la definisce dittatura del relativismo, in francia ti fai un anno dentro se critichi i gay. e i preti debbono levarsi la talare quando entrano nelle scuole quella che vive anche di un’attenzione esagerata, spasmodica e ovviamente strumentale verso quella difesa dei “diritti delle minoranze” che consente facilmente e legalmente di calpestare i diritti delle maggioranze, storici e sociali, comprese le maggioranze che di fatto s’identificano con la storia stessa dei Paesi occidentali. In Francia, per esempio, in nome della tutela della minoranza omosessuale, è stato varato un disegno di legge che punisce con un anno di reclusione e ingenti multe chiunque critichi, anche solo verbalmente, gli omosessuali. Ovvio, i cristiani sono già nel mirino. Infatti, il cardinale Jean-Marie Lustiger ha rilevato che, sulla base di una tale legislazione, misure repressive potrebbero essere applicate a chiunque esprima l’opinione della Bibbia o del Catechismo della Chiesa Cattolica in materia di famiglia o di orientamento sessuale. Sempre in Francia è divenuta inoltre operativa la legge sulla libertà religiosa, che, in nome di una netta separazione tra Stato e Chiese (il 2005 è il centenario della laïcité francese, la rigida separazione giuridica fra Stato e Chiesa che ammonta a una vera e propria dichiarazione di guerra, per quanto debolisitica, al cristianesimo) ha generato situazioni paradossali e spiacevoli. In base a questa legge, per esempio, ai cappellani cattolici di scuole pubbliche è vietato presentarsi negli edifici scolastici indossando la veste talare o altri segni di appartenenza religiosa. • John Randolph LA DEFINIZIONE DI “WELFARE” PUÒ ESSERE UNA GIUNGLA. UNO STUDIO NE OFFRE UNA GUIDA i sono tanti modi di dire welfare in Italia. Ci sono mondi lontanissimi, in cui parlare di servizi alla persona, sanità, lavoro, non ha mai lo stesso significato. Come un prisma dalle molte facce, le politiche sociali cambiano di regione in regione. Uno studio IREF dello scorso anno ha trovato almeno quattro “mondi del welfare”: quello “munifico” delle regioni autonome del nord; quello “efficiente” delle regioni settentrionali; quello “sotto pressione” del centro; e quello “fragile” del profondo sud. Una babele, insomma. La colpa, secondo i più agguerriti critici, sarebbe naturalmente della devoluzione, del decentramento amministrativo, delle spinte liberiste e privatizzanti. Un refrain che accade spesso di ascoltare nel dibattito pubblico del nostro stanco Paese. Un motivetto scontato, politicamente corretto, dalle dubbie fondamenta razionali ma graniticamente certo delle propria autoevidenza. Eppure, basta dare un’occhiata all’evoluzione storica del welfare italico per capire che le colpe sono molto più antiche. Anzi, verrebbe da dire che sono tutte negli inizi, da quel 1970 in cui le Regioni furono (finalmente) istituite, assumendo ampi poteri di scelta sui temi del welfare non tanto per propria volontà, ma per altrui insipienza. Ecco allora il vero colpevole: il legislatore nazionale, insomma lo Stato. Inadem- C piente per ben trent’anni dal legiferare in maniera unitaria sul tema: si dovrà attendere infatti il 2000 per veder licenziare una “Legge quadro” (la numero 328), nell’intenzione di mettere ordine in una materia ampia e complessa. Una legge, però, arrivata fuori tempo massimo rispetto allo spirito devolutivo dei tempi, che un anno dopo avrebbe portato a una riforma della Costituzione (in particolare il discusso Titolo V) che di fatto consegnava nuovamente tutto il potere alle Regioni su una serie di temi, tra cui per l’appunto quelli relativi all’assistenza sociale. Una storia piena di contraddizioni, dunque, ricostruita da Luca Pesenti (sociologo dell’Università Cattolica di Milano) in Il welfare in transizione (Edizioni Lavoro, Roma 2005, pp. 240, ¤12,00), indagine composita capace di restituire una fotografia completa del complesso processo di applicazione del principio di sussidiarietà nel campo delle politiche sociali, mostrando come due casi (Lombardia e Toscana) si pongano come modelli esemplari che si confrontano e, a volte, si combattono aspramente. Da un lato la welfare society, figlia della tradizione cattolico-liberale; dall’altro, il modello “lib-lab”, radicato nella subcultura rossa e nel civismo delle Cento Città. L’immagine che ne esce è di un’Italia in cui si confrontano modelli, espe- rienze e proposte molto diverse. È l’Italia in cui, a seconda di come la si guardi, la sussidiarietà può significare tutto e il suo contrario. Può essere un modo scaltro per occultare pratiche di esternalizzazione di servizi, ad esempio, attraverso percorsi in cui l’ente pubblico resta saldamente il detentore del potere di scelta reale sulla sostanza dei servizi. Oppure può essere il modo in cui realmente si prova a sperimentare nuove IN ITALIA SI CONFRONTANO DUE TRADIZIONI, QUELLA DI MATRICE CATTOLICO-LIBERALE E QUELLA DEL CIVISMO ROSSO E DELLE “CENTO CITTÀ” strade, rendendo i soggetti privati (innanzitutto quelli no profit) veri protagonisti delle politiche sociali. Si scontano dunque ritardi culturali, differenziazioni ideologiche ancora profonde quando si parla del rapporto pubblico-privato, resistenze al cambiamento da parte degli enti pubblici. L’Italia descritta dal saggio di Pesenti è un paese in cui la cultura della sussidiarietà anche quando sperimentata (per esempio in Lombardia) deve fare i conti con un mondo troppo abituato ad abiti mentali comodamente statalisti. Gli attori principali delle politiche sociali, quei soggetti del terzo settore che producono servizi indispensabili per anziani, disabili, minori e altre categorie deboli, non sembrano essere pronti alla grande rivoluzione sussidiaria in atto, come mostra l’ultimo capitolo de Il welfare in transizione. Si concepiscono molto spesso come servitori silenziosi, dipendenti in tutto e per tutto (non solo finanziariamente) da quel che decide il Principe, più propensi a dialogare con l’ente locale di turno che con il resto del terzo settore. E se non bastasse, si ritrovano anche assediati da una cultura mercantile che ne minaccia la mission originaria, svuotando troppi soggetti della loro identità più profonda. Sarà forse per questo che così spesso vengono trattati da utili idioti, caricati di compiti che gli enti locali vorrebbero senza più poterli sostenere. Tutto il contrario della vera sussidiarietà, insomma; da quella descritta, per esempio, da due “guru” della sociologia sul terzo settore, i bolognesi Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi, nel recentissimo La sussidiarietà: che cos’è e come funziona (Carocci, Roma 2005, pp.176, ¤16,90), che la descrivono come un vero meccanismo architettonico della società di domani. Per questo, la lunga transizione del welfare sembra essere appena cominciata. • L’ALTRA STORIA S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 IL DOMENICALE 3 Simposio sulla libertà. E sui totalitarismi Marcello Pera, Sergio Romano e Giorgio Napolitano rispondono sulle fallite ideologie novecentesche, sui cattivi maestri e sui buoni (Solz̆enicyn), sulle distinzioni da farsi tra le diverse utopie capovolte tà, e questo spiega anche altre ideologie perniciose del XX secolo, come il nazismo. di Alessandro Turci IDEOLOGIA E VIOLENZA Aleksandr Solz̆enicyn ha definito gli eroi negativi di Shakespeare individui incapaci di andare oltre i dieci omicidi perché non hanno ancora scoperto l’ideologia. Credete che il ruolo dell’ideologia sia stato davvero così decisivo nelle repressioni e negli stermini di massa del Novecento? che avevano un’esperienza sessantottina, si erano formati sulle barricate e nelle assemblee del maggio ’68 e, grazie a Solz̆enicyn, cominciarono a sviluppare una forte critica dell’Unione Sovietica e del “socialismo realizzato”. In Italia questo non accadde perché anche gli intellettuali di sinistra che avevano ormai maturato una certa diffidenza nei confronti di Mosca non ebbero il coraggio, o la forza, o la voglia di sfidare a tal punto l’ideologia. Prevalse in loro la convinzione che in un sistema politico come quello italiano, dove il dirimpettaio era la Democrazia Cristiana con i suoi alleati, non si potesse distruggere la casa madre, non la si potesse aggredire con il coraggio e il vigore di cui dettero prova gli intellettuali francesi. Sergio Romano In altre parole, il terrore è un elemento fondamentale della preservazione del potere nei regimi totalitari, ed è stato particolarmente evidente nel caso dell’Unione Sovietica in almeno due fasi, quella iniziale, il terrore leninista per intenderci, e quella delle grandi purghe, tra il 1935 e la vigilia della guerra. Marcello Pera Un’ideologia che cos’è? È un’idea o un ideale che si trasforma in dogma. Un’idea serve solitamente per descrivere e spiegare; un’ideale serve per indicare un corso di azione o per suggerire un obiettivo. Un dogma serve invece per fissare una verità. La differenza è notevole, perché mentre l’ideale è rivedibile, alla luce dell’esperienza, è ed correggibile, un dogma – proprio perché indica un’unica verità, o un unico obiettivo, della vita individuale o della storia – è irrivedibile. Ed è irrivedibile a pena di violenza. Sergio Romano Perché uomini ricorrano allo sterminio di massa, perché divengano complici ed esecutori dello sterminio di massa, occorre che non sentano alcun sentimento di colpa. Debbono considerarsi automaticamente assolti, e l’assoluzione viene impartita per l’appunto dall’ideologia. Marcello Pera Chi non conosce la verità è di norma considerato un individuo che non vuole accettare la verità. Capostipite di questa suggestione è il mito della caverna di Platone. Dunque, quando l’ideologia si è trasformata in dogma e ha indicato la verità, coloro che si rifiutano di aderirvi sono individui che come minimo devono essere corretti, e se non si correggono devono essere convertiti, e se non si convertono devono essere violentati. Giorgio Napolitano Io penso che gli stermini, i massacri, le repressioni, le deportazioni abbiano avuto una radice in quelli che possiamo definire “deliri ideologici”. E credo che il totalitarismo abbia rappresentato una degenerazione del sistema politico scaturita da due ideologie, il nazismo e il comunismo, che pure erano contrapposte l’una all’altra. L’UTOPIA CAPOVOLTA Ritenete che l’opinione pubblica europea giudichi il totalitarismo nazista e quello comunista alla medesima stregua, o invece applichi giudizi di natura differente? Sergio Romano Una prima differenza è dovuta alla convinzione molto radicata ancora oggi nelle società europee, o almeno in una parte delle società europee, che fra nazismo e comunismo esista pur sempre una differenza. Il comunismo si era proposto un ideale positivo, e se anche tutto quello che aveva commesso lungo la strada era stato riprovevole, non gli si poteva negare una specie di attenuante storica. Il nazismo si era invece proposto un ideale negativo, l’idea che una razza fosse superiore alle altre e che una nazione meritasse un destino diverso da quello delle altre. Marcello Pera Spesso agisce nei confronti del comunismo, e non ugualmente nei confronti del nazismo, una sorta di pregiudizio favorevole. Si tende a pensare che il comunismo sia, in quanto idea, un’idea generosa e nobile, perché postula la fine dell’alienazione dell’uomo, la fine dello sfruttamento e l’inizio dell’uguaglianza, non soltanto formale, bensì sostanziale e materiale. Si pensa quindi che questa idea nobile e generosa sia stata storicamente mal realizzata, a causa di fattori esterni. Sergio Romano C’è la vicenda famosa di un colonnello dei servizi segreti sovietici che negli anni delle grandi purghe era adibito al compito di boia, ed era diventato uno straordinario esecutore di massa. Quando doveva uccidere vestiva un grande camice di cuoio, (il sistema sovietico della pallottola alla nuca sporcava molto) e procedeva a esecuzioni che potevano, in alcuni casi, eliminare più di duecento persone in una notte. Giorgio Napolitano Marcello Pera Questa è l’applicazione su scala di massa dell’ideologia, ovvero ciò che è accaduto nel XX secolo con il comunismo. E questo spiega anche il gulag, dove sono stati imprigionati coloro che si rifiutavano di accettare l’unica veri- Per quello che riguarda il totalitarismo comunista si può dire ch’esso abbia finito per dar luogo a un fenomeno di “utopia capovolta”, per usare un’espressione di Norberto Bobbio. L’ideologia comunista era cioè nata come l’ideologia del passaggio dal regno della necessità al I COMUNISTI SENZA COMUNISMO LAGER E GULAG: UN CONVEGNO A BERLINO intervista che appare in questa pagina è stata sintetizzata dal video documentario Simposio sulla Libertà firmato da Alessandro Turci sul tema dei totalitarismi del Novecento, che verrà proiettato in anteprima a Berlino il prossimo 8 novembre nell’ambito di un convegno organizzato sul tema dall’Istituto italiano di Cultura di Berlino, dai Comitati per la Libertà e dalla Fondazione Adenauer. Prodotto dall’IIC di Berlino e realizzato con il sostegno del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, il video ospita testimonianze dei tre autorevoli esponenti delle istituzioni e della cultura ed è incorniciato dalla lettura di alcuni brani di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solz̆enicyn da parte di Giorgio Albertazzi. L’ regno della libertà: un’ideologia liberatrice basata su principi di uguaglianza fra gli uomini, che poi si è rovesciata nel suo contrario. Penso che una radice di questa aberrazione fosse nel principio della dittatura del proletariato, di cui naturalmente si dava una spiegazione complessa in termini teorici e scientifici, in quanto si assumeva che le democrazie borghesi fossero forme di dittatura della borghesia e che quindi il comunismo, per un periodo transitorio, dovesse assumere la forma della dittatura del proletariato. Ma in realtà, in quel principio, c’era già in radice lo stalinismo. Marcello Pera L’idea del comunismo è un’idea giacobina; è un’idea che vuole fare l’uomo nuovo a tavolino. È un’idea che vuole consegnare all’uomo la verità, che vuole conculcare nell’uomo tutti i diritti, appurato che gli unici diritti validi sono quelli professati dall’ideologa: ma è l’idea in sé che è sbagliata, perché è un’idea illiberale, che non riconosce all’individuo nessuna autonomia, nessuna propria capacità critica, nessun diritto di costituirsi una vita propria o un ideale proprio. Anzi, tutto questo gli viene imposto. Allora il pregiudizio favorevole dovrebbe cadere, se si riflettesse di più, rifiutando il principio che l’idea è buona ma mal realizzata, e che ci sono stati incidenti di percorso come i gulag. Non si tratta di incidenti di percorso, ma di conseguenze drammatiche che sono implicite nell’idea di fondo. Sergio Romano E questo è il dramma: uccidono credendo di fare una cosa buona, una cosa positiva. L’ARCIPELAGO GULAG Ricordate quale fu l’impatto di Arcipelago Gulag (1973) di Aleksandr Solz̆enicyn sugli intellettuali europei? Giorgio Napolitano Il libro di Solz̆enicyn ebbe un impatto forte. Bisogna però tenere conto che esso apparve dopo le dichiarazioni fatte da Nikita Chrus̆c̆ëv al XX congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica, e in quel cosiddetto rapporto segreto era già detto tutto. Quindi fu una conferma e fu una conferma drammatica, vissuta dall’interno, ed espressa in una forma letteraria elevata, di tutto quello che Chrus̆c̆ëv aveva denunciato come delitti dello stalinismo. Marcello Pera Provocò in coloro che professavano l’ideologia comunista un profondo smarrimento; Solz̆enicyn produsse sorpresa e smarrimento anche in altri, che non erano sospettabili di simpatie con il comunismo, ma che non conoscevano in termini così diretti ed efficaci quella realtà. Sembrava un romanzo ma non era un romanzo, era un documento impietoso che contribuì molto, in Occidente, a far mutare la percezione del fenomeno del comunismo. Arcipelago Gulag è stato un documento letterario di grande importanza, che ha cambiato la vita di molti intellettuali. Sergio Romano Il paese che ebbe la reazione più interessante a Solz̆enicyn e ad Arcipelago gulag fu la Francia. In Francia assistemmo a una generazione di intellettuali (i cosiddetti nouveaux philosophes) Quindi la condanna senza appello nei confronti del nazismo, non è altrettanto severa nei confronti del comunismo? Marcello Pera In certi ambienti c’è ancora indulgenza; lo si vede non tanto nel caso della Corea del Nord, quanto in quello di Cuba. Spesso ritorna nei confronti di Cuba quel pregiudizio favorevole a cui ho fatto riferimento in precedenza. Spesso assistiamo anche a fenomeni di rimozione della vista, come se alcune situazioni di palese violazione di alcuni diritti non fossero vere, e sempre per effetto del pregiudizio favorevole. Direi tuttavia che il mondo è cambiato dopo il 1989: con la fine dell’Unione Sovietica il comunismo non ha più uno Stato imperiale come punto di riferimento per altri paesi. ramente una personalità dotata di fascino, è un hidalgo e affascina anche me. So che cosa ha fatto, che cosa sta facendo e quali sono i suoi metodi di governo; ma ho l’impressione che se continua a governare nel mondo attuale – orfano dell’Unione Sovietica e con la Cina divenuta capitalista – lo debba soprattutto al fatto che una parte della sua opinione pubblica, come una parte dell’opinione pubblica latino-americana, lo considera l’ultimo dei libertadores. E questo lo colloca in una categoria a sé, gli da un po’di credito, lo salva insomma dalla condanna totale. CATTIVI MAESTRI Quale ruolo giocano, oggi, gli intellettuali nella formazione del consenso per un movimento politico di ispirazione totalitaria o nella sua valutazione storica? Sergio Romano Innanzitutto: ci sono ancora i maîtres à penser, quelle figure che hanno una cattedra intellettuale e morale dalla quale impartiscono il verbo? Non ne sono sicuro. Certo, quando esistevano ideologie forti, l’intellettuale organico, vale a dire il “sacerdote” che predicava quelle ideologie in termini vibranti e accattivanti (una figura come Sartre ad esempio) godeva di un largo seguito. Marcello Pera Per quanto riguarda le classi intellettuali occidentali è sorto un atteggiamento di disincanto. Anzi, talvolta il disincanto è stato tale che il pendolo è oscillato dalla parte opposta: dall’ideologia dogmatica prima al relativismo più aperto dopo. Sergio Romano Sergio Romano Credo che il consenso per Fidel Castro sia in Italia minoritario, ma esiste. Mi ha sempre interessato cercare di capire perché questa minoranza continui a vedere in Castro un modello, o comunque un esempio positivo. Credo che giochino alcuni fattori. Innanzitutto chi continua a dichiararsi comunista ha un grosso problema: quello di poter disporre di un modello realizzato a cui fare riferimento. L’Unione Sovietica è scomparsa, come sono scomparsi del resto i paesi del blocco sovietico. La Cina è comunista formalmente e teoricamente, ma il suo regime è ormai ben diverso da quello dei paesi comunisti. Il Vietnam è cambiato, la Corea del Nord non è un modello per nessuno. Castro, quindi, continua in qualche modo a essere interessante. Prima di tutto perché è interessante fisicamente: è un libertador, qualcosa di molto diverso da un monaco della rivoluzione in stile bolscevico. È l’uomo che ha liberato il suo Paese dalla condizione di semi-colonia degli Stati Uniti. Questo fattore lo rende attraente, e non solo per i comunisti italiani. È sicu- Prenda il caso della Costituzione Europea: ci sono intellettuali europeisti e intellettuali euro-scettici; intellettuali localisti o nazionalisti; intellettuali cattolici per i quali l’Europa esiste soltanto come una res publica cristiana. C’è una grande pluralità di voci, che non mi dispiace affatto, perché non ho mai amato la dittatura degli intellettuali. Se dovessi scegliere tra la dittatura dei funzionari e quella degli intellettuali, preferirei la prima, perché i funzionari sono meno irresponsabili. Bene o male ogni giorno devono confrontarsi con problemi reali e sono consapevoli del fatto che le loro azioni e decisioni avranno ricadute pratiche. L’intellettuale invece è totalmente irresponsabile: anzi, per molti aspetti, il suo successo dipende dal suo tasso di irresponsabilità. Quanto più è stravagante, quanto più è eccentrico, quanto più è apocalittico, tanto più ha cattedra e seguito. • Al centro, una parata militare nella Piazza Rossa di Mosca, nel 1983. Sopra, Aleksandr Solz̆enicyn. A sinistra, Fidel Castro FALSI MITI LA VIOLENZA DELL’UTOPIA ROSSA NELLA RACCOLTA DI SAGGI CHE PAUL HOLLANDER PUBBLICA IN NOVEMBRE scirà in autunno e già si candida a diventare una pietra miliare degli studi sul comunismo. S’intitola From the Gulag to the Killing Fields: Personal Accounts of Political Violence and Repression in Communist States e lo pubblica l’ISI Books di Wilmington, nel Delaware, la casa editrice dell’Intercollegiate Studies Institute, uno dei maggiori think tank conservatori degli Stati Uniti con specifici scopi educativi. Gode infatti di una capillare rete di filiazioni e di corrispondenti nei campus universitari del Paese e si autodescrive come una “università alternativa”. Ha del resto una grande peculiarità l’ISI. La sua casa editrice, l’ISI Books, diretta da Jeffrey O. Nelson, vicepresidente del think tank, non è solo lo strumento per la pubblicazione di expertise, documenti e studi nati in seno alla fondazione, come lo sono un po’ tutti i marchi editoriali dei think tank americani anche importanti. È invece una vera e propria casa editrice, con una dignità e un’autonomia proprie, che pubblica titoli di qualità e di sicuro successo sul mercato. Un’intrapresa, insomma, dentro l’intrapresa, che moltiplica e diffonde i preziosi e statutari sforzi educativi della fondazione. L’annunciato From the Gulag U to the Killing Fields è una raccolta di saggi curata da Paul Hollander e introdotta da Anne Applebaum. Hollander, docente emerito di Sociologia all’Università del Massachusetts di Amherst, è membro del Davis Center for Russian and Eurasian Studies dell’Università Harvard e autore di diversi libri, fra cui indimenticabile e decisivo Pellegrini politici: intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (trad. it. il Mulino, Bologna 1988) L’Applebaum è autrice di Gulag: storia dei campi di concentramento sovietici (trad. it. Mondadori, Milano 2004) con cui lo scorso anno ha vinto il Premio Pulitzer per la saggistica. Il volume raccoglie più di 40 testimonianze della violenza utilizzata sistematicamente e per decenni come strumento di lotta politica dai regimi comunisti. Per Hollander, queste memorie mostrano come il comunismo si sia caratterizzato per essere “violenza per uno scopo superiore”, quello di creare un sistema perfetto che non solo ne risolvesse le contraddizioni, ma che anzitutto riformasse completamente il reale. Eccole le famose buone intenzioni originarie del comunismo. • M.R. Good News from Down Under. Il genocidio inventato dell’Australia, gli aborigeni e l’odio contro l’Occidente YDNEY, AUSTRALIA. Mentre la polizia confermava, in luglio, di avere sventato un nuovo attentato di Al Qaida nel Paese, intellettuali neoconservatori come John Dawson mi hanno spiegato che «la questione centrale qui resta quella degli aborigeni». A chi, venendo dall’Europa, rimane sorpreso, viene spiegato che la questione è se l’Occidente, S La “vulgata” marxista dice che gli europei hanno mietuto migliaia di vittime. Le ricerche scientifiche ne contano 125 la cui storia non è certo solo gloriosa, sia però portatore di valori che vale la pena difendere. Per la Sinistra locale la storia dell’Australia riposa su un peccato originale: il “genocidio” di decine, forse centinaia di migliaia di aborigeni da parte dei coloni bianchi, e l’“etnocidio” perpetrato dai missionari cristiani, protestanti e cattolici, che ne hanno in gran parte distrutto la cultura e la religione imponendo conversioni forzate al cristianesimo. Si domanda quindi di continuo al governo di chiedere solennemente scusa agli aborigeni e di concedere loro terre, posti di lavoro pubblici e generosi sussidi. Questa propaganda riposa su una storiografia che due generazioni di accademici marxisti e postmarxisti – generosamente finanziati dai governi socialisti qui in carica fino al 1996 – hanno imposto nei libri di testo, nei musei, nella letteratura e nel cinema. È la storia di aborigeni pacifici e gentili sterminati senza pietà dai coloni sotto l’occhio tollerante di missionari del tutto privi di misericordia verso i “pagani”. A partire dal 2002, le cose sono però cambiate. Un autorevole storico – ed ex marxista pentito diventato oggi neoconservatore -, Keith Windschuttle, ha pubblicato il primo di tre volumi di un’opera monumentale su La falsificazione della storia aborigena (The Fabrication of Aboriginal History, vol. I, Macleay, Sydney 2002), dedicato alla Tasmania, l’isola dove secondo la storiografia di sinistra sarebbe avvenuto il genocidio peggiore, con migliaia di aborigeni uccisi. Windschuttle ne riduce il numero a 125 e sostie- ne che in Australia in genere la riduzione dei 350mila aborigeni del 1800 ai 100mila del 1950 è derivata dalle malattie infettive e da violentissimi scontri intratribali ben più che da presunti massacri operati dai coloni, contro i quali non vi furono mai vere “guerre di resistenza”. Anzi, proprio grazie anche all’opera dei missionari il numero degli aborigeni è risalito oggi a oltre 400mila unità e molti di loro, in gran parte cristiani, si vanno integrando nella società australiana. Quanto ai “beneficiari” delle politiche di sussidi e di “preser- Un aborigeno in una grande città dell’Australia. Lo storico neoconservatore Keith Windschuttle ha enormemente ridimensionato la “leggenda nera” che colpisce bianchi e missionari vazione della cultura aborigena” varate dai governi socialisti, essi vivono per la maggior parte in riserve con altissimi tassi di alcolismo, violenza e uso di droga. Molti leader aborigeni denunciano questo “aborigenismo” ideologico come un totale fallimento. Windschuttle ha lasciato l’università prima di farsi buttare fuori, ma rimane lo storico australiano più noto al grande pubblico. I tentativi di demonizzarlo da parte dei suoi ex -colleghi sono per buona parte ridicoli. Per esempio, fiumi d’inchiostro sono stati versati da quegli stessi storici che avevano sostenuto per anni che le vittime in Tasmania erano state migliaia per dimostrare che gli aborigeni uccisi da bianchi nell’isola non sono stati 125, come sostiene Winschuttle, ma... 135. Dal’altra parte, la campagna contro lo storico è inquietante. Mostra che, in Australia come altrove, la costruzione di un odio verso l’Occidente da parte di una certa Sinistra non solo non si arresta di fronte alla falsificazione sistematica della storia, ma pretende di esercitare tramite la censura e l’intimidazione un vero e proprio monopolio sulla cultura. • Massimo Introvigne LA REPUBBLICA DELLE LETTERE S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 di Marco Respinti Il Graal nella letteratura del profondo Sud degli States ra passato quasi un secolo dalla Guerra che caparbiamente si continua a definire “civile”, ma per Donald G. Davidson (1893-1968) non era cambiato alcunché. Still Rebels, Still Testimonianze viventi di un’altra Yankees, and Other Essays s’intitolò in- America, di un’altrAmerica dentro l’Afatti quel suo grido – ancora – di batta- merica, di un pezzo di Europa trapiantaglia che pubblicò nel 1957 a to nel Mondo Nuovo (come quasi tre decenni di distandiceva Tate), di un modo diza da quell’altro grido, I’ll verso di essere americani. Take My Stand: The South Come definirli? Fortuand the Agrarian Tradition natamente in nessun mo(1930), che, sotto la guida do. Li si è bollati di “reaziodi Allen Tate (1899-1979), ne” e pure di “fascismo”. aveva riunito le dodici miDa noi però qualche framgliori menti e penne di quel mento lo tradussero nel Meridione degli Stati Uniti pleistocene superiore i che oggi vale solo sarcamarxisti perché una certa Robert Penn smo, barzellette e sberleffi. reazione faceva gioco conWarren Fra loro c’erano Robert tro l’industrialismo e il caPenn Warren (1905-1989), pitalismo del Nord yankee. John Crowe Ransom (1888Poi però si sono accorti che 1974) Stark Young (1881le bugie hanno le gambe 1963) ed Andrew Nelson corte e hanno smesso faLytle (1902-1995). cendo finta di nulla. Accanto a quei Dodici, Del resto, anche profesin una nicchia tutta loro, ma sionalmente, in quella lotta non meno significativa e dei “generi” letterari che ha decisamente intrecciata alle oramai surclassato la “batsorti “dei maschi”, stavano taglia dei libri”, e che tanto Andrew le donne, Caroline Gordon tanto piace ai critici profesNelson (1895-1981) – moglie di Tasionisti, questo manipolo Lytle te – e Flannery O’Connor di penne, di teste e di anime (1925-1964). Quindi i “fiancheggiatori”, spiazza. Ognuna delle loro biografie Richard M. Weaver (1910-1963), Walker sciorina infatti la variazione di una filaPercy (1916-1990) e Cleanth Brooks strocca fissa che vale più o meno uguale (1906-1994). Infine gli epigoni, da un la- per tutti. «American poet, artist, noveto Melvin E. Bradford (1934-1993), dal- list, essayst, philospher and famer». Lol’altro Wendell Berry (nato nel 1934). ro si definivano (almeno il nucleo origi- E nario) “Southern Agrarian”; noi, ammorbati dagli “-ismi” e figli dei film di Hollywood visti in traduzione, li chiamiamo con l’inesistente “sudisti”. Di agrario loro avevano tutto. Spessissimo pure la passione vera per il lavoro della terra e magari un pezzo di campo da arare; sempre la convinzione che la rural life esprima e convogli il modo più umano d’intendere il vivere sociale. Il confronto-scontro con la terra, con i suoi rigori e con le sue asprezze, poi i modi sociali che essa esige e impone, fatti di collaborazione, unità, personalità e agricoltura razionale, quindi i costumi schietti a cui essa alleva, erano e sono per i figli del Sud degli States la scuole di vita più sincera. Quelle che più schiettamente sbattono in faccia all’uomo la vita, la vita tutta, così come essa è, così come si presenta, non così come la si vorrebbe utopisticamente addomesticata. La terra, dunque, oltre che riferimento concreto e oggettivo, si fa simbolo. Non ideologia, per carità. A spese proprie, il Sud le aveva patite tutte le cariche d’artiglieria dell’ideologismo. E la terra come simbolo, raccontata e cantata in mille fogge e con mille e una maschera, è la grande intuizione che nel Sud si fa letteratura. Storica, come nel caso di Lytle e di Tate, grottesca come nel caso della O’Connor, gravida di quella che Gabriel Marcel chiama morsure du réel nel caso di Percy, ma sempre letteratura. Ossia racconto. Nel Sud è fictio infatti anche la biografia politica, anche la saggistica dedicata alla sublime arte del retore, persino la storia materiale, fattuale. Perché nel Sud nordamericano l’artista – in specifico lo scrittore – è sempre un bardo. Il cantore deputato e ufficiale di una comunità: una comunità che si raduna attorno a un fuoco che arde della fiamma imperitura (anche sotto il tiro incrociato del piombo nemico) delle sue usanze, dei suoi princìpi, dei suoi costumi. Senz’alcuna affettazione, senz’alcun tradizionalismo, ma con enormi quantità di realismo e di giudizio. Tradizionale il Sud lo è perché lo è, non perché lo fa. Tate si lamentava vistosamente delle tragedie aperte dalla Guerra “civile”: soprattutto il fatto che il Sud avesse imparato dal Nord tipi di comportamento nuovi. Ovvero a fare, invece che essere, la tradizione, a inventarsi un nuovo “io atavico”, a fingere insomma di essere Sud. Il “nuovo Sud” per Tate era la grande bestemmia dell’apostasia. Aveva, in gran parte, ragione. Mancano da tempo infatti i Davidson, i Penn Warren, le O’Connor, i Percy. E infatti la terra langue, il Sud boccheggia. È una grande parabola, quella del Sud, identica a quella che nella letteratura medioevale di genere graalico lega i destini del signore alla sua terra. Ferito l’uno, soffre l’altra. Inaridita l’una, s’impoverisce l’altro. I bardi del Sud sono sempre stati piccoli lord di una terra vivente. Oggi, a 100 anni dalla nascita di Penn Warren e a 10 dalla morte di Lytle, il grido antico riecheggia ancora, ancora ribelli noi, ancora yankee voi. È molto di più di uno slogan, è la Cerca del Graal. • STILL REBELS, STILL YANKEES Oltre il flagello e l’eucarestia della neve Ancora la roccia torturata e riluttante Riceve il sole e la pioggia offuscata. Questa è l’ora di separazione che conosciamo, Avendo visto ergersi e passare sulle colline, Caparbi e taciturni, Uomini scarni, gli unici che figuravano, Non come l’acqua o l’erba febbrile, Affratellati alla pietra selvaggia. Robert P. Warren, da Fattoria di montagna nel Kentucky, in Racconto del tempo e altre poesie 1923-1971, trad. it. di Sergio Perosa, Einaudi, Torino 1971 di Davide Brullo illiam Faulkner (1897-1962), il cui nome rintocca sovente in queste pagine, è il capobranco del “Southern novel”, categoria in verità mai coniata ma che tutti sanno cos’è (quelli che ci appartengono), e cioè quel romanzo irriducibile a “tendenze” o “classifiche” che, semplificando di molto e di brutto, è connotato da un “senso del luogo” e dunque della stirpe e della propria Storia altissimi, e da un agonistico “fare a cazzotti” con la Bibbia, o, se preferite, con le domande ancestrali e originarie che sommuovono l’essere eretto, o, se preferite ancora, con la sua antica, inestirpabile “colpa”. Detto molto e detto niente. Mastro Guglielmo focalizza assai meglio ciò che Sherwood Anderson (18761941), di cui non a caso si era nutrito abbondantemente (come Hemingway, e come lui sculacciandolo apertamente nei tempi della gioventù – tattica del parricidio – per poi rieleggerlo a maestro nella savia maturità), ha intuito, piglia di petto Mark Twain (1835-1910) e lo svuota di quel polposo umorismo, segue Melville ma non fino alle soglie della gnosi, s’inventa una contea tutta sua dove sceneggiare i suoi deliri e la zuppa è pronta. Faulkner lavora di severità e ferocia, “goticheggia”. Una stramba vulgata vuole che il Nostro abbia scritto le opere “capitali” in sette anni, dall’uscita dell’Urlo e il furore (1929) a quella di Assalonne, Assalonne! (1936), cioè gli anni in cui l’americano dannava la notte a scrivere, ossessionato da debiti e pazzie, negli anni più difficili (ma non esistono anni “facili” per chi, come disse lui, perpetua lo «splendido fallimento nella creazione dell’impossibile»). In mezzo, tra sperimenti dinamici ed eretici, capolavori come Mentre mo- W Un grazie a clanDestino, n°I 2005, (La Nuova Agape, Forlì, e7,00), e nella fattispecie ad Andrea Tontini che con il suo Omaggio ad Allen Tante, ci ha offerto il destro per questa nostra indagine. Nella rivista segnaliamo anche un’intervista a Mario Luzi a cura di Francesca Fabbri e un pensiero sui “Nuovissimi” Mondadori di Gianfranco Lauretano a cura di Fabio Canessa NESI HA SCRITTO UN BEL LIBRO, E SI MERITAVA LO STREGA doardo Nesi era il favorito del Premio Strega, ma non l’ha vinto ed è un peccato. Non perché il suo romanzo sia privo di difetti, ma perché risulta il più significativo della narrativa italiana contemporanea. Quello che con maggiore nettezza e lucidità rispecchia la generale assenza di speranze e la più totale sfiducia nel futuro di questi anni, raccontando, fra brani lirici e dialoghi serrati, il malinconico crepuscolo di un’Italia perduta. Da qualsiasi verso la si prenda: politico, sociale, familiare, esistenziale. È significativo che uno scrittore quarantenEDOARDO NESI, ne, un toscano colto L’ETÀ DELL’ORO, che dimostra anche Bompiani, Milano, pp.352, e16,00 una vena ironica e scanzonata, una buona conoscenza della letteratura, del rock e del cinema, nonché un’abilità narrativa dalle strategie brillanti e dal montaggio efficace, decida di narrare nella sua opera di maggior respiro il declino fisico ed economico di un industriale tessile pratese della generazione dei nostri padri. Seguiamo la lacerante parabola discendente di quello che un tempo fu l’uomo più ricco di Prato, dalla chiusura della ditta al tremendo verdetto di morte imposto da una malattia terminale fino al disperato viaggio con il quale, rapita da una clinica psichiatrica una povera ventenne vittima di una crudele vendetta E dell’ex-fidanzato (ha diffuso via Internet una loro prestazione erotica), cerca di avere un figlio da lei attraverso la fecondazione artificiale. I pregi del romanzo stanno nel memorabile ritratto del suo italianissimo protagonista, nella bellezza di molte pagine davvero da antologia, che farebbero la loro figura anche come racconti perfetti (si vedano i capitoli Gocce di mercurio, Stanotte, Minimal e soprattutto Una donna cannone, con la borghesia pratese al Metastasio per il concerto di De Gregori). Quel che convince meno è una certa indulgenza per lo strazio (soprattutto nel finale) e alcune lungaggini, per cui qualche taglio avrebbe reso il tutto più incisivo. Fra i capannoni in demolizione della zona industriale (cui farà da mesto pendant la clinica della speranza che i due troveranno abbandonata da tempo) e i cerotti di morfina che leniscono il dolore allo stomaco si rimpiange un’Età dell’oro che forse non c’è mai stata, s’immagina che qualcuno venga dal futuro a viaggiare nella nostra epoca perché c’è il sospetto che il domani sarà ancora peggiore dell’oggi, si riflette che «in Italia le cose e le persone più interessanti e belle sono tutte già morte» e, convinti «dell’assoluta inutilità di quel momento, di quella giornata, della tua vita», ci si perde «in questa desolazione infinita e bellissima». Ma il naufragare in questo mare è avvilente. LA BIBBIA, IL MIGLIOR LIBRO CHE POTETE LEGGERE AI FIGLI a Bibbia è il miglior libro che potremmo leggere ai nostri figli. E questo, si badi, al di fuori di qualsiasi idea o pregiudizio o concezione riguardo alla “fede”, che se verrà verrà, altrimenti è lo stesso (e Lui comunque li ghermisce tutti, uno per uno). La lettura della Bibbia è lettura “didattica” e pregevolissima. Provate ad addormentarli leggendo il Libro dei Re, o l’epopea dell’Esodo. Non si addormenteranno. Non tanto per le mirabolanti avventure capitate ai patriarchi, ma per quella nettezza e ferocia, per quella vastità d’immagini e idee con cui le cose GIUSI QUARENGHI vengono narrate. La E MICHELE FERRI, Bibbia a volte dà un TUA È LA VENDETTA, senso di claustrofoSan Paolo, Milano, pp.32, e5,00 bia, viene da gettarla fuori dalla finestra. È logico, così capita di fronte a chi ti sbatte, muso duro e senza museruole, una certa, inscalfibile verità sull’uomo. Più tardi, in altra misura, capiranno, i nostri piccoli, che lo stesso accade con i “giganti” della letteratura, gente che in altro modo (più modesto o semplicemente più umano?), se li sapranno ascoltare, salverà loro la vita complicandola. Già, perché la lettura della Bibbia, semplificando le questioni fino alla propria radice ossea, non calma, inquieta. Il mistero del male, della giustizia, della L eppe Sebaste non ha vinto lo Strega perché non è entrato nella cinquina. Altrimenti, afferma con certezza il suo editore, non ci sarebbe stata partita. Poiché non siamo indovini, non abbiamo la stessa sicurezza, ma dobbiamo riconoscere che il libro di Sebaste ci fa l’impressione di una boccata d’aria BEPPE SEBASTE, fresca in mezzo a H.P. L’ULTIMO AUTISTA DI LADY tanta desolazione. DIANA, Quiritta, Intanto lo spunto è Roma, pp.240, s13,00 assai originale: tracciare l’identikit di una comparsa della nostra storia recente, come fu lo sfortunato autista Henry Paul, che guidava la Mercedes di Lady Diana Spencer e Dodi Al Fayed la tragica notte dell’incidente mortale nel tunnel parigino, si dimostra un’idea vincente. Che poi Sebaste articoli il suo libro come un’inchiesta rigorosa e ricca di suggestioni, B Storia in pillole del “Southern novel”, tra Faulkner e Wolfe rivo (1930) e Luce d’agosto (1932). Ma sezionare Faulkner è un’idiozia. Agli anni della “ricerca” e della “fondazione” seguono quelli dell’“istituzionalizzazione della legge”, in cui il progetto dell’unica, biblica epopea si salda al di là di ogni possibile immaginazione. Go down, Moses (1942), romanzo epocale in forma di racconti, è un caposaldo del genere, Requiem per una monaca (1951) una perla assoluta, la trilogia de Il borgo (1940), La città (1961) e Il palazzo (1963), lo stemma conclusivo, la fibbia che sigilla, istoriata dal perfetto I saccheggiatori (1962). Impossibile fare di meglio. James Agee (1909-1955) tentò di raccontare la disperazione del Sud e dei suoi vinti nel suggestivo Sia lode ora agli uomini illustri (1941), ma l’idea che sta al fondo è radicalmente distante dalle peripezie, anche linguistiche, in cui la lingua è tuttuna con il suo detto, faulkneriane. Flannery O’Connor (1925-1964) devia dalla rotta di Mastro Guglielmo da par suo, con furore terrestre e mistico assoluto, mettendo LO SCAFFALE DEI GRANDI E PICCOLI EDITORI vendetta, della colpa e della redenzione. Domande così originarie da subito colmeranno le menti dei piccoli che riguardo a ciò hanno insperata sveltezza, capacità vivace di comprendere e assumere. Perché a loro parla lo stupore prima che l’intelletto. Ecco allora che questa serie di volumi (sono già otto), lievi e lieti, efficacemente illustrati da Michele Ferri, sono utilissimi a un primo, ma non meno ferino, approccio con il testo sacro. È la penna di Giusi Quarenghi a rendere più digeribile alla capacità di lettura dei piccini i Salmi biblici, dunque alcune delle pagine in cui maggiormente risuonano quegli interrogativi, quelle capitali questioni di cui dicevamo. In questo volumetto ad esempio, che mima il Salmo 73 (al termine del libro l’interpretazione “facilitata” della Quarenghi è messa sinotticamente al fianco dell’originale), si parte con la terribile domanda che Giobbe rifarà da par suo: «Sei buono con chi è buono/ ma con i cattivi sei più buono./ Tratti bene gli innocenti/ ma i malvagi li tratti meglio». I Salmi quasi sempre terminano con un “abbraccio” al divino, ma è chiaro che un simile interrogativo, sporto a giovani mascelle, non potrà che produrre capaci pensieri. I piccoli hanno bisogno di petrosi interrogativi fin da subito. E in quanto alle risposte, le sanno trovare meglio di noi. E.A. STORIA DI HENRY PAUL, L’AUTISTA DI LADY DIANA Allen Tate, ©CORBIS Le colline sono stanche, svaniti gli uomini scarni; Le rocce sono colpite, e finalmente il gelo Ne ha frantumato la base corrugata; Gli atomi infranti sono ora portati Dall’acqua scorrente nell’alta, profonda Ombra degli abissi assoluti, In cui mai sopito si muove lo spirito Che tenne il piede fra le rocce, serrò La mano stanca sull’aratro caparbio, Avvinse la carne all’osso affamato, La gemma rossa al ramo carbonizzato e spezzato, Tese i tendini amari della pietra. IL DOMENICALE 5 un tassello imprescindibile al “Southern novel”. La trafila giunge fino al più importante scrittore americano vivente, Cormac McCarthy (1933), in cui la coerente lettura dei maestri (il legame con Faulkner e la O’Cormac Connor si consuma nel roMcCarthy manzo, pure già estremo, petroso, Il buio fuori, del 1968) si sfarina nella creazione di un universo che gli uomini non sanno più comprendere, in cui gli dèi sono manufatti maligni che sovvertono le leggi comuni nell’unica legge della violenza e dell’usurpazione. La nudità quasi folle delle storie e la lingua che procede per elementi primi e rocciosi, priva di precedenti, ormai priva di quei compiti “cronachistici” di un Faulkner o “redentivi” di una O’Connor, tocca la vetta in Meridiano di sangue (1985). Sulla sponda opposta a Faulkner, della stessa generazione e come lui considerato fin dagli inizi uno dei migliori dei “perduti” che avrebbero scombussolato le lettere non solo degli States, sta Thomas Wolfe (1900-1938), che non lasciò epigoni (e come avrebbe potuto vista la sua assoluta eccentricità?) e la cui opera, pur celebrata per mari e monti, ancora fa discutere. Forse per quello spirito un tanto naïf che la pervade, per quella lingua tortuosa, magmatica, “cosmica” che la rende un tanto ostica. E che guarda da sempre a Withman più che ai padri del Sud. Per questo forse uno spirito acuto come Robert Penn Warren, che pure adorava Faulkner (si veda la curatela a Faulkner: a collection of critical essays, del 1966), lo trovava, pur riconoscendogli parecchie dosi di talento, un poco indigesto, e gli era inconcepibile quella facilità a disperdersi piuttosto che “centrare il punto” (si veda un suo saggio in The Enigma of Thomas Wolfe, 1953). Fu proprio lui, Wolfe, tra l’altro, autore di un libro di successo come Angelo, guarda il passato (1929), cronaca della leggendaria famiglia Gant che poi continuò nel solo libro diviso per tre (un unico immane libro di “cronache” Thomas come Faulkner) da MaxWolfe well Perkins Il fiume e il tempo (1935), La ragnatela e la roccia (1939) e Non puoi tornare a casa (1940), a dire, nella fondamentale ermeneutica sua, di lui e dei suoi testi, passata come Storia di un romanzo (1935): «So che la porta non è ancora aperta, so che la lingua, la parola, il linguaggio che io cerco non è stato ancora trovato, ma credo con tutto il cuore di aver trovato la via, di aver aperto un varco, di aver mosso il primo passo». Colpevolmente pionieri, questi sudisti, sempre, dal primo all’ultimo. • raccontando, attraverso una minuziosa ricerca di testimonianze di chi lo conobbe, il ritratto di un uomo, per comporre man mano i tasselli di un puzzle che riserva molte sorprese a chi, di quei fatti, fu un distratto lettore delle cronache, rende avvincente la narrazione. Svolgendo con acume e pazienza la matassa dei processi e delle versioni ufficiali e raffreddando con la precisione dei dati la carica emotiva che forse alterò la dinamica della vicenda, Sebaste procede senza pregiudizi né tesi a priori. Solo con una dichiarata simpatia per un poveretto che rischia di essere stato il capro espiatorio di uno scenario molto più grande di lui. Si esce dalla lettura senza una soluzione sicura, ma con molti dubbi. Fertili anche per meditare non solo su quell’avvenimento, ma sull’intera società contemporanea. E sulle sciagure private degli umili che si stagliano sullo sfondo della storia pubblica dei potenti. NON SOLO GLI AMERICANI SANNO SCRIVERE THRILLER... doardo Montolli non poteva vincere lo Strega, perché nessuno penserebbe mai a selezionare per quel premio un romanzo di genere, un thriller a tinte forti che mantiene quel che promette (e forse un po’ di più). Invece non ve ne pentirete se, girando alla larga dalla nobile noia di tanti autori velleitari, sceglierete di portarvi sotto l’ombrellone questo efferato noir, nutrito delle EDOARDO ossessioni e della MONTOLLI, competenza nel raIL BOIA, Hobby & Work, mo di un giornalista Milano, pp.258, che si è dedicato, e16,50 per vocazione e curiosità, alla cronaca che più nera non si può. Affidando la scena al suo alter ego Manuel Montero, un giornalista alcolizzato specialista di perversioni sessuali, che passa le notti al cimitero per dormire al fianco della tomba della sua innamorata suicida, Montolli imbastisce un plot a tinte forti, con un serial killer che fa cose pochissimo belle. Ne E fanno le spese prima un monsignore orribilmente straziato, poi un guardone obeso e un notaio che finisce impalato al posto di uno spaventapasseri. Ma siamo solo all’inizio. Il succulento menù ci riserva altre pietanze per stomaci forti, servite calde da una scrittura mai morbosa o compiaciuta, anzi asciutta e incalzante. Qualche ingenuità gliela perdoniamo volentieri, perché il giallo ci appassiona e la lettura procede a ritmo trascinante, spronata dal gusto del raccapriccio e incurante di certe inverosimiglianze. L’inchiesta procede spedita fra macabri colpi di scena, un commissario alla tenente Colombo che fiuta l’aria e sente odore di morte, whisky e sigarette a gogò come si addice al genere, alberghi sordidi e club sadomaso dove il più pulito ha la rogna, vestiti gualciti e tetre filastrocche che siglano ogni delitto. Mentre un pazzo criminale, chiuso in manicomio, disegna in anteprima le gesta dell’assassino. Chi ha detto che solo gli americani conoscono la ricetta per un buon thriller? FINESTRE APERTE 6 IL DOMENICALE ILLUMINISMO E ROMANTICISMO SONO LE MATRICI DELLA MODERNITÀ: L’UNA SPREZZA IL DIVINO COME SUPERSTIZIONE, L’ALTRA SE LO “FA DA SÉ” go gli intricati sentieri moderni si trovano baracche gelide, dove gli na delle esperienze più ag- uomini non trovano riposo, e aughiaccianti che può vivere tentiche case, focolari dove posun uomo è quella di fare siamo dimorare senza che ci si geuna visita al campo di concentra- li il sangue. mento di Auschwitz. Sorprende SECOLARIZZAZIONI trovare lì una folla di turisti che Non di rado si identifica la Monon gridano, né corrono né mangiano hamburger o salatini. È una dernità con un processo di secolafolla composta, rispettosa, silen- rizzazione. Se l’identificazione si ziosa. Entrare nelle baracche dove fermasse lì, avremmo una visione venivano ammucchiati esseri della storia occidentale bipartita, dove si opporrebbero un umani trattati come numeMedioevo cristiano e ri di una crudele contauna Modernità sebilità colpisce procolarizzata. Ma né fondamente, gela il il Medioevo è sangue. Tutto è completamente freddo, squallicristiano né la do, inumano. La Modernità è presenza del macompletamente le —presenza misecolarizzata. steriosa, ma reale Anzi, si potrebbe — pesa sul cuore dire che la Moderdel visitatore. Ma in Fëdor Dostoevskij nità è più cristiana riquesto paesaggio di spetto al Medioevo, aluna tristezza sconfinata meno per quanto riguarda il c’è una baracca un po’ diversa. È quella della cella nella quale rapporto tra ordine naturale e sotrascorse i suoi ultimi giorni un prannaturale: il clericalismo di francescano polacco, canonizzato molte delle strutture sociali e polida Giovanni Paolo II, Massimiliano tiche medievali, che confonde Kolbe. Lì, in una atmosfera pesan- questi due ambiti, identificando il te e chiusa, solidificazione del ri- potere politico con quello spirituafiuto alla trascendenza, si respira le, e la cittadinanza della Città celesperanza, pace, gioia. Sembra co- ste con quella della Città degli uome se in quell’angolo si ritrovasse mini, viene superato a partire dal l’umanità disprezzata e calpestata Sedicesimo secolo da una visione nei vicini forni di cremazione. En- cristiana e non clericale dell’uotrare nella cella di san Massimilia- mo, che riscopre il valore della nano è tornare a casa, riscoprire la tura umana. Secondo questa antropologia propria dell’umanesipropria identità di figli di Dio. Ritengo che questa esperien- mo cristiano, di origine tomista, za, è applicabile ai diversi percor- l’elevazione all’ordine della grazia si culturali della Modernità. Lun- non toglie nessun valore alla natu- di Mariano Fazio* U S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 LIBERTÀ, NAZIONE, CLASSE ECONOMICA E SCIENZA SONO ESSENZIALI PER COMPRENDERE L’UOMO, MA QUANDO DIVENGONO IDEOLOGIE... ra, poiché ius divinum, quod est ex gratia, non tollit ius humanum, quod est ex naturali ratione (S. Th. II-II, q.10, a.10). Quindi se identifichiamo Modernità con secolarizzazione, bisogna sottolineare la presenza di una versione della secolarizzazione intesa come sclericalizzazione, come distinzione tra gli ordini naturale e sovrannaturale, come presa di coscienza dell’autonomia relativa del temporale. Questa versione della secolarizzazione è profondamente cristiana, molto di più del clericalismo di un certo Medioevo. Esempi di questa sclericalizzazione, su cui purtroppo non potremo soffermarci, sono le dottrine della seconda scolastica spagnola — in particolare, la Scuola di Salamanca fondata da Francisco de Vitoria —, il liberalismo moderato di Alexis di Tocqueville nel XIX secolo, o le affermazioni a favore della secolarità nei documenti del Concilio Vaticano II, e più in concreto, nella Gaudium et spes e nella Dignitatis humanae. Se questa sclericalizzazione percorre l’intero arco della Modernità, c’è un’altra versione della secolarizzazione, che potremmo definire come l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo, che porta ad una chiusura rispetto alla trascendenza, e configurante una certa Modernità in opposizione alla visione cristiana dell’uomo e della storia. In questo àmbito, sì, possiamo dire che il Medioevo, a paragone con questa Modernità appena descritta, ci appare come un periodo cristiano, profondamente permeato dal senso trascen- dente della vita. Di fronte alle domande sul senso dell’esistenza umana, il Medioevo si costituisce come un’epoca sensata, cioè portatrice di senso: la cultura circostante forniva delle risposte alle domande sull’origine e il destino finale dell’uomo sulla terra. Oggi, invece, dopo secoli di riaffermazione dell’autonomia assoluta dell’umano, mancano in molti settori le risposte al perché. La Modernità, quindi, si presenta ambivalente: se da una parte c’è una Modernità più cristiana rispetto al Medioevo in quanto esiste una consapevolezza più matu- L’epoca moderna assiste a una profonda crisi della fede; le certezze cadono e con esse l’idea di un aldilà ra dell’armonico rapporto tra gli ordini naturale e sovrannaturale, dall’altra parte c’è una Modernità chiusa alla trascendenza, con pretese di autospiegazioni sul senso ultimo dell’esistenza umana che finirà, dopo l’atteggiamento prometeico del XIX e XX secolo, nel nichilismo contemporaneo. Due Modernità diverse, dove ci sono case e baracche. RELATIVO ASSOLUTO E “SPIRITO DISEREDATO” Secolarizzazione non equivale a perdita del senso religioso. Il processo di secolarizzazione inteso in senso forte porta, utilizzando il famoso concetto di Max Weber, al disincantamento del mondo. Durante l’epoca moderna c’è una crisi della fede che si manifesta nella demitizzazione e razionalizzazione del mondo, nella crescente perdita di ogni trascendenza che rimanda aldilà del visibile, dell’afferrabile. Con parole di Kahn si può dire che la crisi della fede «significa perdita di una immagine del mondo unitaria e globale sicura, nella quale, tutte le parti si rapportavano a un centro: perdita del centro dunque. In quanto questa immagine del mondo con la certezza del suo centro era eredità nostra, si può parlare proprio di uno “spirito diseredato”, di un “disinherited mind”» (in Letteratura e crisi della fede, Città Nuova, Roma 1978, p.49). Ma crisi della fede non è la stessa cosa della scomparsa del senso religioso. Se ciò che sparisce è la fede in un Dio personale e trascendente, il senso religioso inerente allo spirito umano trova altri centri, che vengono assolutizzati: si sacralizzano elementi terreni che forniranno le basi per religioni sostitutive. Se questo processo è evidente nelle ideologie contemporanee, già nella prima tappa della Modernità si verificherà questo trasferimento di centro. Basta pensare alla ragione illuministica, al sentimento romantico o all’Io assoluto dell’idealismo tedesco. Se prendiamo in esame le principali correnti culturali e le ideologie della Modernità, vediamo subito che assolutizzano un elemento relativo della realtà, diventato la chiave per spiegare il mondo, la storia e l’esistenza umana. Precisamente questa spiegazione globale è stato il compito delle religioni storiche. Perciò, le nuove correnti di pensiero che avocano a sé questo ruolo ben possono definirsi “religioni del temporale” (Julien Benda, La trahison des clercs, 1927) o “religioni secolarizzate” (Raymond Aron, L’âge des empires et l’avenir de la France, 1945). L’uomo non può vivere a suo agio in un mondo senza punti di riferimento saldi. Perciò, questa dinamica di assolutizzazione del relativo o di sacralizzazione del temporale obbedisce ad una necessità antropologica: se non possiamo abitare più nella “casa” che offriva il senso trascendente della vita, dobbiamo costruire delle baracche che ci possano offrire almeno l’apparenza di una certa abitabilità. Le diverse costruzioni teoriche della Modernità secolarizzata hanno in comune il fondarsi su un elemento importante che costituisce la parte centrale dell’esistenza umana. Elemento importante ma relativo, che viene assolutizzato. Nessuno negherà l’importanza della ragione, dei sentimenti, della libertà, dell’appartenenza ad una comunità culturale, dell’economia, della scienza. Sono tutte realtà fondamentali della nostra vita e del nostro inserimento nel mondo. Ma allo stesso tempo ci rendiamo conto che sono elementi relativi; visti da una prospettiva integrale della persona umana, nessuno di loro, da solo, può fornire una spiegazione completa del mondo e della storia. ILLUMINISMO E ROMANTICISMO Malgrado ciò, dalla metà del XVIII secolo in poi c’è un’autentica galleria di spiegazioni unilaterali, che si fondano sull’assolutizzazione del relativo. Nell’elenco delle correnti culturali moderne occupa un posto di particolare importanza l’Illuminismo del Settecento, una delle due matrici, insieme al romanticismo, della cultura contemporanea. La fiducia nella capacità della ragione si manifesterà in un concetto chiave per capire l’Illuminismo: la nozione di progresso. L’intellettuale di questo periodo considera che l’estensione dei lumi porterà ad una vita più umana, più saggia e più confortevole. L’Illuminismo sarà il primo periodo della storia in cui sorgerà una disciplina mai esistita prima: la filosofia della storia. Con essa si intraprende l’analisi della storia umana da un punto di vista universale e progressivo. La storia è lo sviluppo della ragione, che fa sì che l’uomo esca dalle tenebre del Medioevo per entrare nel regno della razionalità. Questa visione ottimista e progressiva della storia è molto legata Che cosa è stato il fenomeno della Modernità? Che cosa ha prodotto il pensiero nichilista? Davvero l’uomo non ha più risposte e i suoi atti, infine, si riducono a una inutile idiozia, al moto impazzito di una marionetta? Con puntualità un illustre studioso tenta di descrivere panorami, seguendo le tracce luminose di alcuni grandi filosofi, romanzieri, poeti Marc Chagall (1887-1985), Il sogno di Giacobbe, olio su tela, Musée National Message Biblique, Nizza IL RITORNO D ad un’altra caratteristica della ra- realtà, il romanticismo continua gione illuministica: il rifiuto della sulla scia secolarizzatrice dell’Illutradizione. Ogni fenomeno sociale minismo. La differenza radica nei o spirituale che non possa essere valori che adesso vengono messi al spiegato dalla ragione umana è per centro dell’attenzione dell’uomo. l’Illuminismo un mito o una super- Non sarà più la ragione scientifica, ma l’amore, l’arte, la vita, la soffestizione. L’Illuminismo presenta diversi renza, che occuperanno il posto volti: a partire dal materialismo dell’Assoluto. In questo senso, il completamente chiuso allo spirito romanticismo si presenta nella sua di D’Holbach o di La Mettrie fino radicale ambiguità: allontanandoalle posizioni più moderate di si dal freddo razionalismo del SeCondillac o di Montesquieu. An- colo dei lumi, apparentemente che se non si possono negare tanti apre le porte verso il soprannaturameriti al pensiero settecentesco, le. Se questo è vero per alcuni rocome ad esempio l’aver creato un mantici, per i rappresentanti di ambiente propizio allo sviluppo maggiore spicco di questo moviscientifico, o l’aver obbligato i cre- mento culturale i valori succitati denti a purificare la loro fede di patiscono un processo di divinizzazione che finisce quanto poteva esnel sostituire il Dio serci di superstiziocristiano trascenne o di tradizioni dente con un valomeramente umare umano elevato ne, non c’è dubbio fino all’ordine del che l’Illuminismo divino. La secolacreò un mondo più rizzazione del rofreddo, meno abimanticismo non tabile, perché l’uosignifica, dunque, mo non è soltanto la scomparsa della razionalità. religiosità, ma il L’Illuminismo trasferimento del tentò di capire tutsuo oggetto: dal to. Ben presto altri Dio trascendente intellettuali avreb- Gilbert K. Chesterton ad una divinità in bero detto anni docerta misura creata po che gli illuminidall’uomo. sti non avevano caQueste due pito nulla. Il romatrici della cultumanticismo tentara contemporanea va di recuperare i — Illuminismo e mondi dimenticati romanticismo — dall’Illuminismo: sono la base delle del mistero, della ideologie che hantradizione popolano segnato i due ulre, delle passioni timi secoli del predel cuore. cedente millennio. Se abbiamo deThomas S. Eliot Liberalismo, nafinito il romanticizionalismo, sociasmo in opposizione all’Illuminismo, bisogna adesso lismo e positivismo sono le quattro chiarire che Illuminismo e roman- ideologie più influenti. Libertà, naticismo non sono movimenti filo- zione, classe economica, scienza sofico-culturali completamente sono nozioni centrali per capire opposti, perché hanno in fondo con completezza la natura umana. una matrice ideologica comune: Ma quando vengono assolutizzal’autonomia dell’uomo. Il roman- te, quando si afferma che l’uomo ticismo sostituisce la ragione con il non è altro che..., si finisce per cosentimento, ma è un sentimento struire spiegazioni riduttive del non regolato, che tende all’infini- mondo e della storia, case troppo to, che deve provare tutto, assag- strette, dove gran parte della realtà giare tutto, senza porre limiti ai resta fuori. propri desideri. Sotto questa proIDEOLOGICAMENTE spettiva, oggi viviamo ancora nel Basterà fare qualche esempio romanticismo. L’artista romantico — l’esempio più chiaro è forse per dimostrare l’asserto precedenLord Byron (1788-1824) —, mo- te. Il liberalismo manchesteriano, dello di uomo sregolato e diverso, identificando la libertà con le leggi ci può dare la chiave per capire co- del mercato, costruì una mansione me l’autonomia assoluta dell’uo- confortevole, un focolare all’inglemo continua ad essere presente al- se. Ma la maggioranza delle persola base di questo movimento. In ne restava fuori: è il mondo della FINESTRE APERTE S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 IL DOMENICALE 7 LA PRIMA GUERRA MONDIALE FU UN PORTENTOSO SHOCK CULTURALE: DA UN LATO C’È STATO CHI RISPOSE CON IL NICHILISMO, DALL’ALTRO FIOCCARONO LE CONVERSIONI DELLA TRASCENDENZA povera gente descritto magistralmente da Dickens. Paradossalmente, leggendo i romanzi dickensiani, uno si trova molto più a proprio agio nelle dimore dei poveri, dove mancano mezzi materiali ma ci sono tante virtù umane e cristiane, che nelle mansioni dei benestanti, che teoricamente avevano raggiunto, secondo le categorie del paleo-liberalismo, la libertà e la pienezza del loro essere. Se da una parte vi sono le risposte di un Camus e di un Hemingway, dall’altra parla Dostoevskij La visione del nazionalismo, esclusiva ed escludente, provocò autentiche tragedie nella storia contemporanea. L’identificazione dell’uomo con la sua appartenenza ad una nazione, etnia, razza o cultura determinate toglie alla persona umana una delle sue proprietà più essenziali: la sua apertura interpersonale. L’uomo diventa più uomo, si fa più degno, nella misura in cui comunica o entra in comunione con gli altri. Questa apertura — che ha una dimensione etica e un’altra più originaria, che è ontologica — implica il rispetto alla diversità, la promozione del dialogo interculturale e la coscienza della radicale unità del genere umano, fondata sull’identica dignità di ogni persona. Il nazionalismo chiude gli orizzonti esistenziali, e impedisce alle singole persone e ad intere comunità la possibilità di arricchirsi con i doni della comunicazione interpersonale. La casa del nazionalista resta piccola, povera e buia, perché è una casa con la porta chiusa. Forse un esempio estremo di riduzionismo antropologico, di chiusura alla trascendenza e di sacralizzazione dell’umano, è rappresentato dal marxismo. Secondo Marx è necessario abolire la religione come gioia illusoria perché l’uomo possa godere della sua gioia reale. È necessario far sparire l’aldilà per preoccuparci dell’al di qua. L’homo oeconomicus, dopo la critica dell’alienazione religiosa, diventa un dio. Purtroppo, la divinizzazione dell’uomo marxista porta ad abitare non nelle dimore celesti, ma nei diversi Arcipelaghi Gulag della storia recente. Per quanto riguarda il positivi- smo, erede legittimo della ragione settecentesca, il mondo si presenta come pienamente spiegabile se ci atteniamo ai fatti, lasciando da parte ogni spiegazione metafisica o teologica. Le scienze possiedono l’ultima parola sul mondo. Il positivismo è una lettura della scienza che pretende andare oltre la scienza stessa, ed erigersi a spiegazione totale del destino dell’uomo. In quanto riduttivo e pretesamente totalizzante, il positivismo si può definire come ideologia. Inoltre, la caratterizzazione del progresso dell’umanità quale fede razionale in un futuro felice e giusto per tutti manifesta in un modo palese l’elemento di sostituzione che ogni ideologia porta con sé. L’assolutizzazione del relativo, asse portante del pensiero ideologico, comporta una visione ottimista del futuro dell’umanità. Le ideologie, in quanto religioni sostitutive, sono anche escatologie secolarizzate, promettono cioè la felicità propria del paradiso celeste, ma su questa terra. Non nell’aldilà trascendente ma nell’al di qua intramondano. E DOPO LA GRANDE GUERRA, LA GRANDE CRISI Abbiamo avuto l’opportunità di sottolineare l’importanza che riveste nel pensiero ideologico l’elemento escatologico o utopico: il trionfo dell’ideologia avrebbe portato con sé l’avvicinarsi di un futuro felice e più degno dell’uomo. Fatte queste premesse, è facile rendersi conto che l’avvento della Prima guerra mondiale sarebbe stato un autentico shock culturale: invece di pace, libertà, giustizia e benessere, la Modernità sfociava in un conflitto bellico di dimensioni mai viste nella storia. Logicamente, il 1919 segnerà l’inizio di una consapevolezza sempre più acuta della crisi della cultura. Unanimità nel constatare la crisi, diversità nell’interpretarne le cause. Penso che si potrebbe parlare di tre possibili risposte alla domanda sulla causa della crisi culturale. La prima risposta la fornisce il pensiero ideologico. Secondo alcuni autori, per risolvere la crisi bisogna spingere le ideologie fino in fondo; così troveremo i totalitarismi del XX secolo. La seconda risposta parte dalla costatazione del non senso dell’esistenza umana, e si installa in un comodo relativismo: bisogna abbandonare la pretesa di conoscere la verità. Pretesa che, secondo questa prospettiva, è stata la causa dei disastri della guerra. L’ulti- ma risposta è quella del pensiero aperto alla trascendenza. Il nichilismo assimila il supposto radicale non senso dell’uomo e della storia. Il nichilismo può affluire nel totalitarismo: se la vita dell’uomo non ha senso, la volontà umana deve fornire arbitrariamente di senso la vita e la storia. Se non c’è un ordine morale oggettivo, bisogna creare una morale soggettiva forte, che tramite la volontà e la potenza riempia di senso un mondo senza significato. Nell’àmbito politico europeo, la crisi del liberalismo e la debolezza delle democrazie parlamentari fece sì che apparisse come qualcosa di appettibile la volontà di potenza del fascismo, l’affermazione cieca dei valori irrazionali del nazionalsocialismo, o la pianificazione statalista di Stalin. Ma il nichilismo può anche portare a ciò che oggi chiamiamo pensiero debole: non affermare nessuna verità assoluta, tollerare, tentare di convivere con il poco di felicità che questa vita senza senso può fornire. Gli uomini devono accettare il non senso della storia, assimilare la propria finitezza, convivere con l’assurdità quotidiana, con il fatto che l’essere è il “troppo”, come afferma l’esistenzialismo sartriano. Così abbiamo una lunga serie di manifestazioni intellettuali — artistiche, letterarie, filosofiche — che possiamo racchiudere sotto la denominazione di nichilismo debole. Se nulla ha senso, è inutile stabilire oggettivamente il bene e il male, proibire o permettere. Un pensatore chiave per capire entrambe le derivazioni dal nichilismo è Friedrich Nietzsche. Il nichilismo, secondo Nietzsche, è la svalutazione di tutti i valori. «Cosa significa il nichilismo? Che i valori supremi si sono svalutati. Manca la fine; manca la risposta al perché? Tutto è invano» (Wille zur Macht, I, fr.2). Nel Crepuscolo degli idoli, Nietzsche spiega il processo di come il vero mondo sia diventato una fiaba. I passi compiuti dall’u- manità sono: platonismo, cristianesimo, kantismo, positivismo, nichilismo (Incipit Zarathustra). L’eredità di Nietzsche è duplice: da un lato, i regimi totalitari fondati sulla potenza ed il volontarismo; dall’altro l’eredità del pensiero debole, del relativismo morale, del soggettivismo scettico di fronte ad ogni presunto valore o pretesa verità. Questa versione light del nichilismo — in realtà si tratta di un nichilismo non superato, di un Nietzsche a metà — sarà presente in molti scrittori del Novecento. I romanzi, le opere di teatro, i racconti del periodo tra le due guerre, sono popolati di personaggi perduti nell’esistenza, che non hanno punti fermi di riferimento e che si interrogano sulla finalità della vita, senza poter fornire una risposta valida. In un breve racconto, intitolato Un posto pulito, illuminato bene, Ernest Hemingway (1899-1960) metteva sulle labbra di un camerie- Più che i contenuti teorici dei molti “riscopritori” del sacro, sono d’interesse le esperienze personali re spagnolo una preghiera nichilista: «Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo. Il regno tuo nada. Sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada; pues nada. Ave niente pieno di niente, niente sia con te» (I quarantanove racconti, Mondadori, Milano 1988, p.364). I personaggi di Hemingway — soldati, pugili, cacciatori, toreri — non riescono mai a finire una preghiera e si identificano con la loro forza e con la loro volontà di DA ULISSE A DON CHISCIOTTE Il testo di Mariano Fazio da noi pubblicato in queste pagine è stato “discusso” in un interessante convegno sul tema “Poetica&Cristianesimo” tenutosi a Roma alla Pontificia Università della Santa Croce il 28 e 29 aprile scorsi, dal titolo Il ritorno a casa. Il convegno, che ha “spremuto” l’omerico ed evangelico tema (il ritorno di Ulisse a Itaca e quello del “figliol prodigo” nella casa paterna, ma pure i tanti “ritorni all’origine” che poeti come Walcott ed Heaney dicono nelle loro pagine), ha celebrato uno dei tanti spunti del Meeting di Rimini 2005, cioè la vicenda del Chisciotte a 400 anni dalla sua prima edizione. potenza. Ma alla fine vengono sconfitti da un destino assurdo e cieco, come gli squali che divorano il pesce nel suo celebre racconto Il vecchio e il mare. La parabola esistenziale di Hemingway finirà con il suicidio. Contemporaneamente, nelle sue prime opere, Heidegger considera l’uomo come un Sein-zum-Tode, un essere-per-la-morte. L’uomo è gettato nell’esistenza, in mezzo ad un mondo di oggetti. L’esistenza umana è un continuo fare progetti, che finiscono inesorabilmente con la morte. In questo senso, la comprensione di se stessi è il cogliere che l’esistenza umana è una totalità finita. Liberarsi dalla morte significa capire che la morte pone un punto finale, ultimo, definitivo ai nostri progetti esistenziali. La consapevolezza della finitezza umana porta ad una vita autentica che non si disperde nell’esterno, nel mondo degli oggetti. La tecnologia contemporanea, con la sua brama di dominare il mondo, da questa prospettiva, è un nichilismo, giacché ci distrae dalla considerazione del dato ineluttabile: la morte. Ma la stessa morte smette di essere un fatto ineluttabile nel momento in cui diventa la scelta di noi stessi: «quanto più questa possibilità è compresa senza veli, tanto più acutamente la comprensione penetra nelle possibilità in quanto impossibilità dell’esistenza in generale» (Essere e tempo, Longanesi, Milano 1979, p.393). Abbiamo citato uno scrittore ed un filosofo, adesso è il turno di un intellettuale che si colloca tra la filosofia e la letteratura: Albert Camus (1913-1960). Camus parte dalla constatazione del non senso della vita quotidiana, che produce stanchezza e noia. Bisogna prendere distanza dalla vita ordinaria, per poterne capire la sua assurdità. Questo estraniarsi produce l’angoscia di percepire la vita come nient’altro che il cammino verso la morte. Ma l’opera di Camus non gira attorno alla morte, bensì all’assurdità della vita. L’unico problema filosofico serio è stabilire se vale la pena vivere la vita. Due risposte a questa domanda sono sbagliate: il suicidio e la speranza. La prima soluzione non è valida, perché con il suicidio facciamo scomparire la luce che ha scoperto l’assurdità della vita, cioè la nostra coscienza lucida, l’unica cosa che deve essere protetta e sviluppata. Nemmeno la speranza è una soluzione, perché presuppone l’esistenza di un Dio ordinatore dell’Universo, mentre il mondo ci dimostra il disordine e l’assurdità. La speranza è un suicidio morale che porta alla morte della coscienza lucida. L’unica risposta è la ribellione. L’uomo in rivolta, è l’uomo che ha scoperto la futilità della vita e aiuta gli altri a scoprirla. Questo atteggiamento esistenziale si manifesta nella sua opera Le mythe de Sisyphe. Con Camus la crisi della cultura della Modernità arriva a uno dei suoi momenti paradigmatici. Senza il riferimento alla Trascendenza, la vita umana cade nell’assurda opacità di un periodo di tempo destinato alla morte. I valori che ancora sono presenti nel suo umanesimo rischiano di scomparire per mancanza di radici. Più coerente sarà Jean-Paul Sartre, il quale trarrà dal suo nichilismo conseguenze antropologiche che, malgrado siano da lui stesso definite umaniste, sono la negazione filosofica della dignità dell’uomo: l’essere è il troppo, la vita è una passione inutile, l’inferno sono gli altri. L’esito radicale del nichilismo contemporaneo si può spiegare a partire dall’atmosfera culturale creata dai cosiddetti “maestri del sospetto”. Infatti, Marx, Nietzsche e Freud concepiscono il soggetto umano non come originario e reale, ma come derivazione necessaria di forze non razionali che si trovano dietro ad ogni manifestazione umana. Di fronte ad ogni fenomeno umano bisogna scoprire “cosa c’è dietro”. LA NUOVA ALBA DELLA COSCIENZA Di fronte alla tragedia della Prima guerra mondiale si aprivano diverse strade per lo spirito umano. In molti si resero conto che si trattava di una crisi di valori. In quegli anni si verificò un movimento di avvicinamento al religioso, alla trascendenza. Ci furono conver- sioni al cattolicesimo o ad altre confessioni cristiane da parte di alcuni intellettuali occidentali (T.S. Eliot, G.K. Chesterton, J. Maritain, G. Marcel, N. Berdiaeff, E. Waugh, S. Undset, ecc.), originate in parte dal rifiuto dell’essenza delle ideologie moderne, cioè l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo (cfr. F. Gugelot, La conversion des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), CNRS, Paris 1998; J. Pearce, Litterary Converts, Harper Collins, London 1999). Ci furono correnti filosofiche che “ossigenarono” l’atmosfera chiusa del positivismo, dell’idealismo e del materialismo decimononico, quali lo spiritualismo (Bergson), il personalismo (Mounier, Guardini, Wojtyla), la filosofia dell’azione (Blondel), il neotomismo (Maritain, Gilson, Fabro); altri proposero “filosofie dei valori” come tentativi per arginare la decomposizione sociale e spirituale dopo la Grande Guerra (M. Scheler, N. Hartmann); contemporaneamente, alcuni storici guardarono al passato per trovarvi punti di riferimento che potessero servire per costruire sulle macerie della guerra (W. Jaeger, J. Huizinga, H. Belloc, C. Dawson). Caratteristica comune di questi critici è il rendersi conto che la causa ultima della crisi era una sbagliata concezione della natura umana. Se l’affermazione assoluta dell’autonomia dell’uomo, con la sempre più generalizzata libertà di coscienza – la coscienza non avrebbe nessun parametro oggettivo con cui misurarsi, e quindi rimane completamente libera e padrona di sé –, portò allo scontro tra milioni di uomini, era forse perché l’uomo non è un individuo assolutamente autonomo, o perché le diverse nazioni, idolatrate dal nazionalismo, in realtà non incarnano i valori più alti. Albert Camus Questa apparizione così variegata di correnti culturali e filosofiche aperte alla trascendenza non è stato soltanto un fenomeno congiunturale. Lungo la Modernità, il pensiero aperto si sviluppò in molti modi, percorse diversi sentieri. Basti pensare a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Nicolò Cusano nel Rinascimento italiano; Tommaso Moro, Juan Luis Vives e Erasmo da Rotterdam nell’Umanesimo; Francisco de Vitoria, Domingo de Soto e Francisco Suárez nella Seconda Scolastica; Pascal e Vico nell’epoca del razionalismo. L’Ottocento, il secolo di Marx e di Nietzsche, è anche il secolo di Kierkegaard e di Dostoevskij. IL RUSSO E IL DANESE Il pensatore danese, in rapporto dialettico con l’idealismo hegeliano, trova la pienezza del singolo non nell’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo, ma nel riconoscimento della sua fondazione trascendente: «Mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, egli si fonda in trasparenza nella potenza che lo ha posto» (La malattia mortale, in Opere, Sansoni, Firenze 1973, p.627), cioè nella Potenza divina. Mentre l’individuo che ha una pretesa di autofondazione assoluta finisce necessariamente nella disperazione, considerata da Kierkegaard la malattia mortale della cultura contemporanea. Dostoevskij, da parte sua, è consapevole delle conseguenze della perdita della trascendenza, come lo era Nietzsche, però attraverso la sua opera apre le porte alla necessità della Redenzione. Per l’autore dei grandi romanzi russi, se non si ammette la trascendenza, la vita aldilà della morte, non c’è più morale né differenza tra il bene e il male. Lasciamo parlare uno dei fratelli Karamazov: «se distruggete nell’uomo la fede nella propria im- mortalità, subito si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, perfino l’antropofagia. Ma non basta ancora: egli conclude affermando che per ogni singolo individuo, come noi adesso per esempio, il quale non creda né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale naturale deve trasformarsi subito nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e l’egoismo, portato anche fino al delitto, deve essere non solo permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e direi la più nobile, nelle sue condizioni» (I fratelli Karamazov, I parte, II, 5). Sarebbe lungo elencare le manifestazioni culturali di apertura alla trascendenza durante il XX secolo. Più interessanti che i contenuti teorici sono le storie di conversione – religiosa o intellettuale – di tanti pensatori: un Maritain positivista proclive al suicidio, che scopre un nuovo mondo nello spiritualismo di Bergson e nella poesia cristiana di Léon Bloy; un Marcel scettico e idealista che trova la fede quando si interroga sugli scomparsi della Prima guerra mondiale, aprendosi al mistero dell’essere; un Chesterton che si riempie di gioia nello scoprire che la sua filosofia del buon senso e dell’etica delle fiabe per bambini coincide con il Credo degli apostoli; un Dawson che arriva alla Chiesa Cattolica dopo aver letto lo scientista Harnack; Gilson, che si sorprende con i tesori della philosophia perennis studiando i testi del razionalismo cartesiano. In molti di questi casi, si trattò di un autentico ritorno a casa. Emblematica è la prima pagina di Ortodossia, di Chesterton. Lì, l’ingleErnest Hemingway se racconta di un navigatore che partendo dall’Inghilterra è deciso a fare un viaggio per scoprire le bellezze delle isole tropicali. Dopo alcune settimane, arriva ad un’isola molto bella. Gli piace moltissimo, ma gli risulta famigliare. Poco dopo, il navigatore si rende conto che era tornato in Inghilterra. Chesterton utilizza quest’immagine per spiegare il suo percorso spirituale: dopo tanto cercare in scuole e gruppi alla moda una verità per la quale vivere, si rende conto che la verità si trovava lì, accanto alla porta di casa sua: era il cristianesimo, il vecchio Credo degli apostoli. Ma apertura alla trascendenza non è soltanto un affare di libri e di scuole filosofiche. L’umanità ha sempre avuto delle spie dell’eternità in mezzo al mondo, anche in mezzo alla Modernità secolarizzata, disincantata e nichilista. Queste spie sono i santi, chiamati da Giovanni Paolo II “esperti in umanità”. Sono testimonianze di luce nelle case buie delle ideologie: Alfonso Maria de’ Liguori tra i philosophes razionalisti, il santo curato d’Ars tra i piccoli borghesi del Secondo Impero, Padre Damiano tra i lebbrosi, vittime dell’imperialismo europeo a Molokai, nel sud Pacifico, il Cardinale Newman nel liberalismo decimononico, tutta la schiera di martiri del nazismo — Massimiliano Kolbe, Edith Stein e tanti altri —, del marxismo in Russia, in Spagna, in Messico, Josemaría Escrivá nella società materialista e agnostica del XX secolo, Madre Teresa di Calcutta nel mondo pervaso dalla cultura della morte. Tutte queste persone manifestano esistenzialmente la presenza della Trascendenza in un modo molto più efficace delle teorie, perché più autentico e attraente, perché è testimonianza di vita. • *Rettore della Pontificia Università della Santa Croce LABIRINTI DELLA COMUNICAZIONE S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 IL DOMENICALE 9 DVD West Side Story, Bernstein edition Un volume di critica cinematografica, sotto forma di una collezione di schede, disciplina con senso pratico il percorso dello spettatore consapevole L’ARTE DI ANDARE AL CINEMA Hotel Rwanda di Francesca D’Angelo ual è il modo migliore per spiegare la grandezza del cinema come arte? Semplicemente, indicandola. Ossia mostrando al grande pubblico la grandezza di un film. Ecco l’intuizione alla base di Scegliere un film 2005 (Ares, Milano 2005,pp.452, e19,00), a cura di Armando Fumagalli e Luisa Cotta Ramosino insieme a una nutrita équipe di collaboratori (molti dei quali noti ai lettori del “Dom”). Questo volume si propone di ripercorrere la stagione cinematografica appena trascorsa, dal giugno 2004 al maggio 2005, e lo fa con un taglio di originalità e freschezza capace allo stesso tempo di recuperare la dimensione fondamentale del cinema: quella narrativa. In questo il volume ricalca la precedente edizione, relativa al 2003-2004, con la sicurezza di chi sta consapevolmente scavando il solco di una tradizione. Q Subito al dunque Fin dalle prime pagine il libro si distingue per la sua impostazione peculiare: una breve introduzione per poi entrare subito in media res, con una serie di recensioni (più di 150), che con agilità e spirito critico commentano la recente stagione cinematografica. Nessun discorso quindi sui massimi sistemi cinematografici, ma solo, e crudamente, i film, con critica e stellette di giudizio al seguito. Una critica che, però, non ha nulla a che vedere con l’approccio nozionistico-intellettuale tipico di molti dizionari del cinema in circolazione. Qui, infatti, il taglio è prettamente antropologico e l’analisi si concentra sulla componente narrativa del film: i valori che vuole trasmettere, la struttura della storia, la caratterizzazione dei personaggi, la coerenza dell’intreccio ecc. Questa impostazione ha due grandi meriti: da un lato, quello di rendere il libro uno strumento di lavoro ottimale, utile sia ai professionisti sia a chi desidera affinare il suo approccio critico al mondo del grande schermo. Dall’altro lato ha il merito di sottolineare la dimensione fondamentale del cinema, quella che ne costituisce il reale fascino. Cosa che non solo non è assolutamente scontata, ma è anche dimenticata da molti. Con l’andare degli anni, infatti, circola sempre di più l’idea che la bellezza di un film sia data soprattutto dalla regia delle immagini o dalle originali soluzioni del montaggio. Questo perché il film sarebbe prima di tutto “ciò che vedo”. Il team di giovani critici che ha dato corpo, ma soprattutto anima, a questo volume, dimostra invece il contrario. Leggendo la raccolta delle loro critiche, emerge con evidenza che ciò che rende grande un film non è l’immagine, ma la storia. Se la storia funziona, solo allora, il film è buono e avrà successo. Prima di loro lo sosteneva esplicitamente già l’americano Robert McKee, docente di sceneggiatura, quando scriveva che le persone, andando al cinema, non volevano fuggire la vita, ma trovarla. I personaggi, con le loro peripezie, ci suggeriscono infatti modi nuovi di usare la nostra intelligenza, di percepire il mondo, di vivere l’affettività. La storia, se ben scritta, ha un eccezionale portato esistenziale e culturale, che le immagini si limitano a valorizzare, in un rapporto di funzionalità. La no- Spiderman 2 stra società estetizzante e razionalista tende invece a lasciarsi distrarre, durante il film, dai coreografici esercizi di stile, per poi, in fase di giudizio, attardarsi in vaghe dissertazioni manieristiche. Basta con lo stimolo e la reazione Se si vuole capire un film e scovare le ragioni del nostro amore per esso, occorre quindi approfondire l’intreccio narrato. Ma quand’è che una storia lascia il segno? Quando c’è in gioco un dilemma etico. I personaggi ci devono ritrarre poeticamente, ma soffrire delle nostre stesse passioni. Desideriamo vederli lottare e vincere, o inevitabilmente morire secondo i casi, in uno scontro quand’è che una storia lascia il segno? quando è in gioco un dilemma etico. quando i personaggi lottano, soffrono, sperano (personale, sociale, politico o economico) di un certo spessore. Giustamente, quindi, gli autori di Scegliere un film 2005 si soffermano molto sulla tematica dei film, perché è, appunto, l’ideale quello che, tra le diverse storie narrabili, fa la differenza. Su questo piano due sono le trappole in cui sono caduti non pochi autori cinematografici. La prima è il meccanicismo. Che non vuol dire solo prevedibilità della storia. Quest’ultima infatti è solo la sua conseguenza. Per meccanicismo intendiamo soprattutto il rischio di concepire l’intera narrazione come un monumentale processo di stimolo-reazione. Del tipo: il problema è “x”? Bene, la soluzione è “y”. Questo genera nel migliore dei casi film noiosi; nel peggiore, film smaccatamente falsi, perché nella vita non esistono soluzioni pronte all’uso. Aristotele precisava che la domanda centrale sull’esistere non è “che cosa devo fare”, ma “qual è la vita buona, qual è la vita degna di essere vissuta”. Nella vita non ci sono altre reali dinamiche educative all’infuori dell’avvenimento e dell’esempio. Da qui, d’altronde, nasce l’importanza ancestrale della figura del maestro. La storia, con i suoi personaggi, deve assolvere a questo processo, proponendoci una serie di “vite possibili” a cui poter attingere e trarre ispirazione. La seconda trappola è quella di dimenticare la speranza. In un cinismo dilagante, troppo spesso i film perdono il loro originario carattere propulsore, di stimolo al rinnovamento. Fumagalli e Cotta Ramosino valorizzano, quindi, le pellicole che si chiudono con un sentimento di positività, permettendo al pubblico di tornare a casa con un senso di bellezza nel cuore. Hanno amato l’Uomo Ragno Qui sta, per esempio, la ragione delle cinque stellette (l’eccellenza) attribuite a Spiderman 2: un film godibile e ben fatto, capace di trasmettere a un grande pubblico tematiche impegnative («non accettare la responsabilità di essere un supereroe equivale a non accettare la responsabilità di essere un uomo», p.358). Il fascino del cinema risiede quindi nelle sue storie, grandi in statura d’im- E quante porte chiuse da non aprire Nelle paludi del Mississippi, un horror che incatena alla sedia e al buon senso osa si nasconde nella stanza della soffitta (ma anche nell’armadio, nella cantina, in fondo al giardino, ecc.)? Non è forse sempre la stessa domanda che vibra sotto i racconti thriller-horror destinati a far saltare sulla poltrona gli spettatori di mezzo mondo? Così mentre con la fine della precedente stagione cinematografica a trionfare è stato l’Uomo Nero, hanno aspettato l’inizio della nuova – il 16 settembre nelle sale d’Italia – gli autori di The Skeleton Key (chissà perché non trovare un buon titolo italiano) per servire la loro versione di brividi e scricchiolii, preannuncio di un mistero snocciolato tra le strade variopinte di New Orleans e i bayou dei suoi dintorni. Interessante lo spunto scelto dallo sceneggiatore Ehren Kruger (lo stesso del secondo Ring americano); quando inizi a credere inizia la paura recita la frase di lancio C e, senza rovinare la sorpresa finale della pellicola, bisogna ammettere che tra queste parole si nasconde bene l’intuizione di fondo di una storia che procede con mestiere attraverso tutti i passi di un viaggio dell’eroe in lotta con l’invisibile (se non attraverso gli specchi) minaccia di antichi stregoni hoodoo. Questo sistema di credenze magiche popolari non è una religione vera e propria come il vudù haitiano, ma una sincretica commistione di pratiche di stregoneria di origine diversa (importate dagli schiavi africani, ma anche coltivate dai nativi americani) unite a elementi della religione cristiana e ebraica. La versione più misteriosa e inquietante del melting pot (che è imparentata anche con la wicca, la religione neopagana talmente diffusa negli USA da consentire ai suoi sacerdoti/sacerdotesse di accompagnare i loro fedeli che fanno parte dell’esercito), che molto deTHE SKELETON KEY REGIA DI IAIN SOFTLEY SCENEGGIATURA DI EHREN KRUGER CON KATE HUDSON, PETER SARSGAARD, GENA ROWLANDS PRODOTTO DA UNIVERSAL STUDIOS, USA 2005 iaccia o no, susciti ammirazione o fastidio, sia considerato un capolavoro o una musichetta, West side story, nato nel 1961 da un’idea di Jerome Robbins, con libretto di Arthur Laurents e musiche di Leonard Bernstein, è uno dei musical di Broadway più chiacchierati, ascoltati e commercialmente sfruttati del XX secolo. Per via del film che le ha rese note in tutto il mondo, ancor di più che la versione teatrale, le sue melodie, le danze, perfino le frasi, sono diventate dei veri tormentoni, e Maria è molto più di una canzone di successo. Nel 1984 lo stesso Bernstein decise di incidere West side story, con un cast che comprendeva la grande Kiri Te Kanawa e José Carreras. Delle sedute di incisione è rimasta una ripresa video che, arricchita di testimonianze, interviste, commenti e battute dell’ineffabile Lenny, è diventata un film per la regia di Christopher Swann: a suo modo un “classico del classico”. Nell’era del Dvd la Deutsche Grammophon – Unitel sta riversando tutti i film di opere in dvd: e The making of West side story non poteva mancare. Quello che invece doveva esserci nel dvd è un doppiaggio in italiano dei fitti dialoghi (o almeno, dei sottotitoli). I sottotitoli in realtà ci sono: ma in castigliano, francese tedesco e giapponese. Chi non abbia dimestichezza con alcuna delle tre lingue citate e non capisca una parola di angloamericano rinunci a comprare il dvd e scriva una lettera di protesta alla casa discografica per la mancanza di tatto nei confronti dei clienti italiani: che sono del resto snobbati anche quando acquistano la maggior parte dei (carissimi) cd e sfogliano i libretti di accompagnamento. Peccato comunque perdersi l’avventura dell’incisione: uno spettacolo nel quale la creatività si manifesta in quella dimensione artigianale e in quel procedere perfettibile che, spesso, non si possono immaginare nel risultato finito. E peccato anche non godersi la scena di Bernstein che si arrabbia (o finge, perché Lenny non si arrabbiava mai) per un errore nella preparazione del materiale d’orchestra. Tutto è rimasto nella testimonianza video: compresa l’imprecazione di Carreras (l’unica cosa che anche un italiano capisca, purtroppo) mentre tenta, con scarso successo, di incidere Maria. Nel dvd sono anche visionabili altri 3 titoli: ma sono semplice pubblicità di altre produzioni video della casa discografica. Giorgio Vitali P ve a processi di autosuggestione e al carisma personale di chi la pratica, diventa la chiave per costruire un racconto in cui il credere diventa realmente fondamentale per la risoluzione. La protagonista Kate Hudson/Caroline (che veste i panni di una giovane aspirante infermiera che, dopo la morte del padre, si dedica alla cura dei malati terminali, forse come forma di riscatto per non aver assistito il genitore da cui si era allontanata), infatti, nata a New Orleans, ma vissuta nel Garden State, il prosaico New Jersey, è tratteggiata come una ragazza pragmatica e di buon senso, ma anche sinceramente dedita al suo lavoro. Come spiega alla sua amica Joy: se non ti prendi a cuore anche le persone destinate a morire in breve tempo, tanto vale lasciarle morire da sole. Così quando la fatidica “offerta che non si può rifiutare” (un lavoro in mezzo alle paludi nella casa dei signori Deveraux, moglie e marito paralizzato da un ictus) colpisce il suo sguardo dopo l’ennesimo decesso ospedaliero, Caroline carica sul bel maggiolone i suoi pochi averi e imbocca la strada che, in poco più di un’ora, la porta dritta nel cuore di un mondo altro, fra teschi, ossa e miscugli innominabili, cantilene incomprensibili (in cui il francese, orrore ben più grave di tanti scongiuri, la fa da padrone) e leggende di morte. E come nella migliore tradizione, che abbraccia le spose di Barbablù e tanti altri personaggi da favola nera, Caroline non può che lasciarsi trascinare dalla spirale di mistero innescata dal mistero di una casa dalle molte porte (ma c’è una sola chiave che le apre tutte e che Caroline, attenzione attenzione, ha in mano fin dal primo giorno), mossa prima di tutto dal desiderio di aiutare il suo muto paziente. È curioso che le ragionevoli obiezioni a tale incauto procedere, portate avanti dall’amica Joy, nera e molto più saggia, forse, di quella “saggezza del sangue” di cui parlava Flannery O’Connor, riecheggino le avvertenze che la Chiesa cattolica dà nei confronti delle pratiche magiche anche più apparentemente innocue (le carte, le finte/vere sedute spiritiche): non aprire una porta da cui in ogni caso il Maligno può farsi strada… Del resto, come dimenticare che la piccola vittima del Diavolo ne L’esorcista, prima di “ammalarsi”, giocava con una di quelle tavole per le evocazioni che tanto spesso arredano i film horror americani? In un’America contemporanea un po’ spaesata e spiritualmente incerta, a caderne vittime possono essere sia gli scettici (per quanto di buon cuore come Caroline) che i formalisti (il notaio dei Deveraux dice di essere nato battista), forse perché disposti fin troppo rapidamente a lasciarsi travolgere dal fiume della superstizione. Skeleton Key è un solido horror psicologico che si avvale di un ottimo cast: oltre alla Hudson, efficace e sensibile indagatrice del mistero, azzeccato l’investimento per avere Gena Rowlands e John Hurt nei panni degli anziani proprietari della casa stregata, mentre l’inquietante Peter Sarsgaard (L’inventore di favole, Kinsey, La mia vita a Garden State) tiene tesa la corda della tensione con un misto di ingenuità e minaccia. Un horror di qualità anche dal punto di vista registico; Iain Softley (autore del niente affatto memorabile K-Pax) sa creare atmosfera e, salvo qualche snodo un po’ telefonato, lo spettatore potrà dirsi soddisfatto per la sua “dose” di paura tra le suggestive paludi di un Sud americano ancora da scoprire. • Luisa Cotta Ramosino magini e passionalità, che propongono intuizioni per la vita. Ecco perché – al di là del fatto che, usandolo come strumento di assistenza familiare, spesso lo si consulterà per decidere quale dvd noleggiare per una serata – è interessante la provocazione sottesa a questo insolito “dizionario cinematografico”: rimandare la lettura critica del film alla fine della visione. Solitamente, questa pratica è solo degli addetti ai lavori o di qualche cinefilo che popola i circuiti d’essai. I più consultano trame e giudizi prima di andare al cinema, per non sbagliare film. Invece, leggere una recensione solamente dopo essere usciti dalla sala è davvero utile. In questo modo, durante il film, ci si lascerà avvincere dalla narrazione senza anticipazioni e pregiudizi, per poi confrontarsi con ragion veduta in merito al giudizio. Sapremo se un film è davvero bello, infatti, solo se uniremo l’emozione provata durante la visione con un approfondimento a posteriori delle intuizioni percepite a caldo. L’intero processo necessita, però, di un fattore preciso, che è uno degli altri grandi meriti di questo libro: l’identità. Per cimentarsi nell’arte della critica, soprattutto se cinematografica, occorre avere e mostrare una propria visione della vita. La lettura data dai critici di Scegliere un film 2005 non fa mistero della sua impostazione cattolica. Indipendentemente dalla specifica religiosa, è importante recuperare il proprio bagaglio culturale per poter leggere un film, qualsiasi esso sia. Perché, prima ancora che nella sua estetica, la grandezza del cinema come arte sta tutta nel suo saperci svelare la vita. • Rodio e Cammio epurati. Quanto sarebbe diverso il De bello gallico... allia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur». È uno degl’incipit più famosi della storia quello del De bello gallico di Caio Giulio Cesare, scaltrissima opera di propaganda che impera da duemila anni e che per molti versi è il prologo alla vicenda di cui le idi di marzo saranno l’epilogo. Ma se sfogliate i suoi sette libri, uno per ognuno dei sette anni di guerra tra Roma e i celti, non troverete né il nome di Caio Rodio né quello del guerriero gallico Cammio. Non ci sono perché la loro cancellazione da quel famoso testo che ha eternato le prime glorie imperiali di Roma è il prezzo che Rodio chiese a Cesare di pagare in cambio del suo oblio e del suo silenzio. L’oblio e il silenzio sul fatto che Cesare aveva deciso l’assassinio a tradimento del proprio pupillo Rodio, dopo avergli affidato l’assassinio di Cammio, il barbaro che Rodio aveva allevato dopo averne sterminato la famiglia e la tribù sulle sponde del lago Lemano, e che ora era il capo supremo delle orde giunte da nord a dare manforte a Vercingetorige assediato ad Alesia. Rodio, duro, freddo, implacabile, era infatti il simbolo vivente della repubblica a cui Cesare stava per assestare il colpo di grazia. Non poteva permettersi, Cesare, la vita di un così potente avversario. Per questo lo convinse dapprima a uccidere – per il bene di Roma, disse, o della repubblica, se così più piaceva credere a Rodio – il barbaro Cammio, che a Rodio era legato come un figlio. Poi inviò una squadra che di soppiatto tese un’imboscata a Rodio e ai suoi inseparabili quattro compagni di battaglie e di vita, decimandoli tutti tranne appunto Rodio, che se la cavò, e Massimo, il traditore ambizioso. Rodio sopravvisse perché, persi tre compagni, sventò la congiura e sfidò Massimo, uccidendolo. Poi, Rodio, «G L’ultima battaglia, soggetto e sceneggiatura di Tito Faraci, disegni e colori di Daniel Brereton, Buena Vista, Milano 2005, pp. 82, E6,50 che dava ordini con la voce di un dio (come diceva Cammio), disperse i soldati congiurati e salvò lo sventurato gallo, svelandogli di essere l’assassino di sua madre e di suo padre. Tutto oramai era perduto: Roma, la Roma che Rodio amava, era oramai definitivamente avviata sul viale del tramonto. Valeva la pena di farla finita. Rodio si presentò a Cesare, che si aspettava di saperlo presto morto. Si presentò da Cesare con la testa di Massimo, il traditore. Cesare si scosse solo un poco. Che poteva oramai fare quel guerriero pur potente di fronte al nuovo corso? Cosa era rimasto della repubblica all’incedere dell’impero? Rodio non spaventava Cesare e Rodio lo sapeva, Cesare pure. Chiese allora solo l’oblio e il silenzio, i suoi e quelli di Cesare. Che il suo nome venisse cioè tolto dal De bello gallico, come se quel fiero soldato, quel nobile testimone di Roma non fosse mai esistito, non fosse mai nato. Né lui, né le sue imprese, né la sua fedeltà, né il suo protetto Cammio, nemico di Roma. Roma, la Roma di Rodio, era morta. Non c’era più spazio sul Tevere per Rodio e Rodio se ne andò. Dove? Nemmeno Cesare può possedere il mondo intero. Da qualche parte un angolo esisterà. Resta dove sei, o Cammio. Io Rodio non ti chiederò di lasciare la lotta, il tuo popolo. Io che uccisi i tuoi, io che ti debbo la vita, io che ti ho salvato la pelle, io che sono tuo “padre” e tuo nemico. So che con me non verresti e mai sopporterei un rifiuto. Un rifiuto da te, mio... “figlio”. Cammio comprese. E, voltato il cavallo, lo seguì. Gl’incubi erano finiti, Roma anche. Ma la vita non è solo guerra. L’ultima battaglia di Tito Faraci e Daniel Brereton, il primo albo a fumetti della serie Buena Vista Lab, è crudo ed essenziale come la vita. Bello come la vita. • Samwise PROFILI 10 IL DOMENICALE S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 LA “MODERNITÀ LIQUIDA” HA GENERATO UNA GRAN MASSA DI UOMINI E DONNE CHE NON SI POSSONO IDENTIFICARE CON I METODI TRADIZIONALI L’epoca del nome e cognome è terminata L’era digitale ha chiuso il cerchio: torniamo a farci riconoscere tramite la fisicità. E siamo a chiederci, di nuovo, che peso dare al corpo e ai suoi segni non si affermi – il sistema di riconoscimento anagrafico rimarrà centrale. Ma già adesso, per citare un esempio sufficientemente evocativo, è accaduto che una corte inglese accettasse di emettere una sentenza nei confronti di un frammento di DNA. In un caso di stupro, infatti, pur non essendo stato identificato lo stupratore, è stato possibile tracciarne il profilo genetico a partire dai resti organici lasciati sulla vittima. La sentenza è stata dunque emessa nei confronti di un profilo genetico, e sarà eseguita quando e se si identificherà colui che lo possiede. In modo meno suggestivo, ma sostanzialmente analogo, l’Unione Europea si è dotata di una banca dati centralizzata che raccoglie le impronte digitali – e nel futuro anche altri dati biometrici – dei richiedenti asilo respinti da uno dei paesi dell’Unione, in modo tale che nessuno di questi si possa ripresentare sotto diversa identità alle frontiere di un altro paese. Anche in questo caso i dati fisici non sono collegati in modo significativo a nessun elemento anagrafico, e gli individui sono identificati solo tramite le proprie impronte digitali. -segue da pagina 1 blema filosofico sfuma nel problema psicologico e questo in quello più propriamente sociologico. Indubbiamente ogni essere umano ha bisogno di “conoscere la propria identità”, ossia di possedere di se stesso un’immagine unitaria – una narrazione biografica – che possa dare un senso alle sue azioni e alla sua vita. L’immagine di sé, però, non si radica soltanto in una memoria individuale, in una dimensione psicologica, ma trova linfa anche nella memoria collettiva del gruppo e dei gruppi di appartenenza. Così identità personale, memoria individuale e collettiva – incarnata dalla tradizione e dalle varie forme di trasmissione consce e inconsce della cultura – costituiscono un intreccio ricco e complesso. Si è detto che il problema dell’identità è un problema tipico dei periodi di transizione e di crisi (ellenismo, tardo antico, Seicento, inizi Novecento) ma è una tesi difficile da sostenere poiché non c’è periodo storico che non possa essere detto “di crisi”. Più probabilmente la filosofia rispecchia – almeno in questo caso – un problema concreto che le società umane si sono trovate ad affrontare, sotto forme diverse, in determinati periodi storici, cioè il problema di come verificare che un individuo sia chi pretende di essere. Siccome questo problema sorge in momenti di sovvertimento sociale – una società stabile, infatti, si basa anche su modi consolidati di riconoscimento dei suoi membri – ecco che inevitabilmente si associano a esso concetti tra loro eterogenei come quello di perdita di ruolo sociale, di perdita dei valori con cui identificarsi, di perdita di una tradizione fondativa. MESSO, FATTI RICONOSCERE Se ci riferiamo, per esempio, alle epoche più recenti, si sa che un periodo in cui il tema dell’identità diventa centrale nella filosofia, nella letteratura, nel teatro e nell’arte è il periodo barocco. Proprio questo periodo – da metà del 1500 sino a tutto il 1600 – corrisponde al consolidarsi di nuovi metodi di identificazione personale. Nella seconda metà del Quattrocento l’intensificarsi di rapporti commerciali ed economici tra le varie città e regioni europee aveva portato a un incremento rapido e drammatico della corrispondenza scritta ufficiale, fenomeno soprattutto evidente nell’Europa continentale. L’in- nel quattrocento lo sviluppo del commercio portò all’incremento della corrispondenza scritta ufficiale in europa cremento della corrispondenza scritta comportò di necessità un incremento nel numero di messi che circolavano per l’Europa. Si trattava di persone che recavano informazioni di natura militare ed economica spesso vitali: proprio per questo era cruciale la loro corretta identificazione. Daniel Nordman ha dimostrato come in Europa, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, si sviluppi un sistema di lasciapassare e passaporti a uso di questi messi, e come questo sistema funga da modello per lo sviluppo successivo dei documenti di identità. È tuttavia con le guerre di religione del Seicento, con il grande movimento di truppe e comunità civili che esse comportarono, e con il consolidarsi di Stati nazionali ristretti in ben definiti confini territoriali, che la necessità di accertare l’identità degli individui divenne cruciale. Per secoli, infatti, la comunità locale era stata la principale garante dell’identificazione personale. Le identità erano certificate dalla testimonianza diretta. Agli inizi del Cinquecento la trasmissione del patronimico trovò una sua prima stabilizzazione nei registri parrocchiali di nascita, che vennero appunto introdotti in questo periodo. La certificazione ecclesiastica di nascita fu utilizzata anche come prova della raggiunta maggiore età a fini ereditari e di usufrutto di benefici. Questo nascente sistema subì una grave crisi con la rottura provocata dalla Riforma. I protestanti – come prima gli ebrei – non comparivano nei registri parrocchiali cattolici e in molti paesi dell’Europa continentale si interruppe la rete di registrazione civile basata sulle strutture ecclesiastiche. Nel frattempo i processi di migrazione interni ai paesi europei si accentuarono e la capacità di identificazione connessa all’appartenenza a una comunità preesistente s’indebolì. In Francia il sistema dei registri di nascita divenne progressivamente statale ed entro la metà del Seicento sostituì completamente il sistema di accertamento dell’identità tramite testimoni. Altri paesi europei seguirono un doppio regime – religioso, civile – mentre in Gran Bretagna il sistema dell’identificazione anagrafica rimase fluttuante sino alla Prima guerra mondiale1. Non avrebbe senso in questa sede dilungarsi oltre sulla nascita del sistema dei documenti d’identità se non per evidenziarne la struttura. A tal fine si può ricordare la descrizione che ne fece il filosofo tedesco Johann G. Fichte nei Fondamenti del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza del 1796, in un momento in cui, cioè, il processo di costruzione dell’identità civile è ormai giunto al suo compimento2: «Il principio cardine di uno Stato ben regolato dalla polizia è questo: ogni cittadino dovrà essere in ogni momento ed in ogni posto […] riconoscibile come questa o quella persona. Nessuno deve rimanere sconosciuto alla polizia. Questo può essere ottenuto con certezza solo nel seguente modo. Ciascuno deve sempre portare con sé un documento firmato dal rappresentante del governo a lui più vicino in cui la sua persona è descritta con accuratezza […] Nessuno quindi dovrebbe essere accolto in nessun luogo se non rendendo noto tramite il suo documento il proprio ultimo luogo di residenza e il suo nome». Il fondamento dell’identificazione personale, la sua fonte di legittimità, risiede quindi nello Stato: è lo Stato, tramite un suo funzionario, che assicura il legame certo tra un documento e colui che lo possiede. In altri termini è lo Stato che risponde alla domanda «Chi è la persona con cui io debbo trattare?», domanda che diventa presto fondamentale in un mondo che, tra il 1500 e il 1700 vede lo svilupparsi del primo grande tentativo di globalizzazione economica dell’epoca moderna. Non è quindi per caso che i processi di globalizzazione che hanno investito il mondo nella seconda metà del Novecento abbiano messo in crisi anche la pretesa che le identità siano certificate dagli Stati nazionali. Anche oggi l’addetto al controllo alla frontiera accerta solamente che un governo riconosciuto attesti l’esistenza di un cittadino di quella nazionalità, con quel nome, nato quel giorno di quel mese di quell’anno, e residente in quel luogo. La foto, non diversamente da un PIN o una password, serve unicamente a verificare che colui che porta il documento ne sia il legittimo possessore, ma chi certifica l’identità è lo Stato che ha emesso il documento. Tant’è vero che se lo Stato certifica una nuova identità (come nei casi di collaboratori di giustizia inseriti in un programma di protezione o di persone che hanno cambiato sesso), questa diventa l’unica vera identità. L’11 Settembre rappresenta un punto di rottura emblematico di questo appa- BIBLIOGRAFIA MINIMA • Francesco D’Agostino, Bioetica, Giappichelli, Torino 1996 • Anthony Giddens, Modernity and Self Identity, Polity Press, Cambridge UK 1991 • Samir Nanavati, Michael Thieme, Raj Nanavati, Biometrics: Identity Verification in a Networked World, J.Wiley & Sons, New York 2002 • Amelie Rorty (ed.), The Identities of Persons, University of California Press, Berkeley 1976 rato. Da questo momento in poi si fa strada la convinzione che il sistema otto-novecentesco dei passaporti e dei documenti di identità sia diventato obsoleto. Gli Stati non garantiscono più proprio perché il sistema globale vede all’opera sempre più attori che, seppure formalmente appartengano ancora a Stati sovrani, rispondono in realtà ad agenzie transnazionali e sopranazionali. Organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, organizzazioni non governative, rifugiati politici, persone espulse dai territori d’origine da disastri naturali, apolidi provenienti da regioni occupate o teatro di guerra, cartelli mafiosi di vario tipo, reti terroristiche internazionali: sono tutti esempi di questo magma eterogeneo di persone in movimento attraverso le frontiere che sfuggono in buona parte ai controlli degli Stati nazionali. Ma se la certificazione degli Stati non possiede più un grado di sicurezza sufficiente, dove radicare i processi di identificazione? La risposta giunge quasi scontata: nel corpo. Si erano del resto avute già sufficienti avvisaglie. FINE DELLE CERTIFICAZIONI La prima globalizzazione – quella tra il Cinquecento e il Settecento – aveva avuto necessità di creare lo standard aureo per fondare le transazioni economiche su un valore riconosciuto internazionalmente; la globalizzazione contemporanea ha la necessità di trovare uno standard comune per fondare le transazioni elettroniche. Le transazioni elettroniche, a differenza di quelle monetarie, sono volatili, difficili da cristallizzare. Eppure la mobilità di persone e merci richiede transazioni sicure e certe. Dal turista che usa una stessa carta di credito in ogni parte del globo, dall’immigrato regolare che vuole usufruire dei benefici dello Stato sociale che lo ospita, sino al finanziere che muove in tempo reale ingenti capitali da una nazione all’altra, l’esigenza è la medesima: assicurare l’accesso logico o fisico al sistema solo a coloro che ne hanno diritto. Lo sviluppo delle tecnologie di Automatic Identification and Data Capture risponde essenzialmente a questa esigenza. La maggior parte di queste tecnologie ripete lo schema tradizionale dei documenti di identità, seppure in modo tecnicamente più sofisticato. Si tratta di sistemi basati sul possesso di qualcosa. Così come nel sistema tradizionale l’identità è certificata dal possesso di un documento rilasciato da un’autorità statale – «tu sei colui che porta legittimamente quel documento che attesta chi tu sei» – le identità elettroniche sono certificate dalla corrispondenza tra i dati contenuti in un oggetto (carta di credito, RFID, smart card, microchip, ecc.) e la conoscenza che ciascuno ha di un determinato codice (PIN, password, firme elettroniche). La conoscenza di quel codice identifica perché un’autorità (banca che ha emesso la carta di credito, sistema sanitario nazionale, sistema di certificazione elettorale, ecc.) certifica che colui che conosce quel determinato codice è colui che afferma di essere. Questo sistema presenta numerose falle perché password, PIN, firme elettroniche possono essere, con diversi gradi di difficoltà, “rubate”, permettendo automaticamente di “rubare le identità”. Per esempio la scarsa sicurezza delle transazioni economiche via internet costituisce ancora oggi il fat- tore limitante principale allo sviluppo dell’ e-commerce. Se password e PIN non cambiano sostanzialmente lo scenario, non si può dire lo stesso per la biometria. La biometria è la risposta al problema della verifica dell’identità così come è posto in modo originale dalla network society, cioè da una società che, nella definizione che ne dà Manuel Castells, è principalmente caratterizzata dalla crisi dello Stato-nazione. La biometria si distingue tra tutte le tecnologie di Automatic Identification and Data Capture perché il riconoscimento non è più basato sul possesso di qualcosa che ci è stato dato o comunicato da un’autorità garante, ma su ciò che si è, sul proprio corpo. Questa soluzione è solo a prima vista scontata: in realtà, pur rifacendosi in apparenza ai sistemi premoderni basati sul riconoscimento fisico, rappresenta una vera rivoluzione. Infatti il sistema tradizionale dei documenti di identità era nato proprio come risposta all’inaffidabilità del semplice riconoscimento tramite testimoni. Nulla è più mutabile e camuffabile dell’aspetto fisico: si cresce e si invecchia, i capelli incanutiscono e cadono, si ingrassa e dimagrisce, la voce diventa più roca e basta mutare direzione dello sguardo per cambiare fisionomia. Persino nell’epoca trionfante della fotografia, l’affidabilità del riconoscimento visivo diretto è sempre stata scarsa. Un vecchio trucco da “malavitosi”, per esempio, insegna a esercitarsi a rilasciare completamente i muscoli facciali nel momento della foto segnaletica. Nove volte su dieci la foto sarà completamente diversa dal volto “originale”. È per questo motivo che i messi del Quattrocento usavano lasciapassare e sigilli per testimoniare la propria identità, piuttosto che ritratti o testimoni oculari. L’identificazione basata su dati fisici diventa attendibile solo nel momento in cui si individuano caratteristiche fisiche invarianti nel tempo e non (facilmente) alterabili o copiabili. La nascita della biometria forense, abbiamo visto, risale agli inizi del Novecento, con le ricerche dei primi genetisti di popolazione e con l’introduzione delle impronte digitali nella pratica criminologica. Bisogna però arrivare alla rivoluzione genetica, con la possibilità del riconoscimento basato sull’analisi della sequenza di frammenti del DNA, per giungere al primo – e sinora insuperato – standard di riconoscimento basato direttamente sul corpo. Lo sviluppo delle tecniche biometriche attuali – lettori di impronte digitali, scanner dell’iride, riconoscimento della geometria facciale, ecc. – è la logica conseguenza di questo primo passo. Alcuni studiosi hanno obiettato che si tratterebbe di una novità solo apparente: infatti spetterebbe sempre agli Stati certificare alla fine l’associazione tra una determinata caratteristica biometrica e l’identità di una persona. Non è vero. Certo, sino a che la biometria non si sarà affermata come standard – e nel caso che RICORDATE CHI ERA QUEEQUEG? Se la biometria diventa lo standard, il concetto stesso di identificazione è destinato a cambiare. Non importerà collegare l’individuo a un nome e a un cognome, a una città e a una nazione, a una data e a un luogo di nascita, e nemmeno a un sesso o a una professione: tutti questi dati diventeranno inessenziali. Basterà collegarlo a una sua caratteristica fisica immutabile, unica e non riproducibile, che possa essere estratta tramite un algoritmo e collezionata in una banca dati. Se si presta attenzione, questo processo rivoluziona non solo il sistema di documenti di identità basato sull’autorità degli Stati nazionali, ma anche ogni precedente sistema di identificazione. Il sistema nome e patronimico come forma di identificazione, infatti, si stabilizza nel Seicento ma ha origini antichissime, coeve alla nostra stessa civiltà: «Titide magnanimo perché mi domandi la stirpe? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune le getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua. Se anche questo però vuoi sapere, per conoscerla bene la stirpe mia, molti la sanno fra gli uomini […]» (Iliade, VI, 145-150, trad. R. Calzecchi Onesti). L’identificazione attraverso il ghene è ciò che distingue l’uomo dalla natura, le generazioni degli uomini da quelle delle foglie. Certo, è una distinzione sottile e fragile, forse illusoria – dice il poeta – ma è tutto ciò che possediamo, tanto che dopo che il giovane Glauco avrà declinato le sue origini, il potente Diomede lo riconoscerà e lo risparmierà: «Ma dunque tu sei ospite ereditario e antico per me! […] Scambiamoci le armi l’un l’altro; anche costoro sappiano che ci vantiamo di essere ospiti antichi» (Iliade, VI, 210, 230). La biometria, quindi fa parte – almeno in un senso molto generale – di quel processo di ridefinizione dei processi identitari che caratterizza l’epoca contemporanea. L’identità non trova più le sue radici nell’ordine delle famiglie ma si fonda direttamente sulla biologia, sulla physis. In un altro senso, infine, la biometria appartiene interamente alla tarda modernità: nel suo essere radicata sul corpo e nel suo basarsi sulla corporeità. Il corpo è il luogo in cui si incrociano le scommesse più ardite e più pericolose della contemporaneità. La tecnologia infatti sembra poter ridisegnare una soggettività mutante, una corporeità programmata, clonata, replicata. A questo proposito si parla di superamento dell’essere biologico, di una nuova carne sintetica, di un corpo postorganico. Il corpo sembra poter diventare una superficie informatizzata, un corpo-segno totalmente formalizzato, come viene in qualche modo preannunciato nella top model o nel body-builder. Si apre un orizzonte postumano, l’orizzonte del cyber-Golem. Francesco D’Agostino usa la descrizione di Queequeg, il selvaggio dal corpo interamente tatuato descritto da Hermann Melville in Moby Dick, come metafora della corporeità umana. Queequeg ha inscritta sul proprio corpo l’intera storia del mondo ma non la sa leggere: «Non è facile per l’uomo accettare e farsi una ragione di tale rapporto paradossale che si dà tra lui e il suo corpo. La tentazione di negare in noi l’esistenza di ogni mistero o almeno di ridurre a enigmi irrilevanti, mistificanti, infantili quelli che, nella loro portata ontologica, misteri ci appaiono, è sempre stata presente nell’uomo. Fanciullesco, per lo Zarathustra di Nietzsche, l’atteggia- i corpi umani classici sono lisci, perfetti. la pratica del tatuaggio, invece, testimonia il corpo come possesso, come assemblaggio mento di chi vede nel corpo qualcosa di ulteriore rispetto al corpo stesso […] A Zarathustra l’umile Queequeg insegna piuttosto il contrario: proprio perché vede nel suo corpo qualcosa che è al di là del suo corpo, egli lo onora e lo rispetta». La storia di Queequeg è però più che una metafora. È vero che il corpo, con le sue rughe e le sue cicatrici, può esser concepito come un libro dove è scritta la storia di ciascuno – e in questo senso va anche la riflessione di uno psicoanalista francese che alla pelle ha dedicato molto del suo lavoro di ricerca, Didier Anzieu – ma il corpo è anche la stele dove realmente si scolpiscono le vicissitudini dei soggetti. Non è forse inconsapevolmente che D’Agostino ha scelto il corpo tatuato di Queequeg come simbolo del corpo contemporaneo. Il corpo greco – così come, in un diverso modo, il corpo ebreo – sono corpi lisci, privi di iscrizioni, di segni, di tatuaggi e scarificazioni. Il corpo greco è un corpo che ha l’ossessione della pelle, levigata, liscia, priva di ogni segno per essere perfetta. Il corpo ebreo è un corpo che presenta un unico segno, quel taglio che sancisce l’alleanza con Dio e che, proprio per avere significato, non deve essere accompagnato da nessun altro segno. Per greci ed ebrei sono gli “altri”, i barbari e i gentili, che marcano la propria pelle con tatuaggi, scarificazioni, incisioni. Di nuovo la tarda modernità presenta una rottura con tutta la tradizione precedente. La trasformazione chirurgica del corpo diventa non solo e non tanto “normale” (si tratterebbe in definitiva solamente dell’ affermazione di nuove prassi sociali), ma il corpo stesso è pensato come risultato di un assemblaggio. Chirurgia cosmetica, chirurgia per la rettificazione del sesso, protesica, impianti di biochips, tatuaggi, piercing, scarificazioni, body art, trapianti di organi: non si può credere che il concentrarsi di tante diverse pratiche – però con una simile ratio – sia casuale e privo di effetti antropologici. La biometria si inserisce in un processo più generale di parcellizzazione del corpo umano in oggetti parziali. Da un punto di vista evolutivo questo processo corrisponde a una regressione complessiva della nostra società a uno stato infantile. La nostra società è la società in cui il corpo è percepito attraverso le sue parti disarticolate, in cui la perversione sessuale ha sostituito la sessualità adulta, in cui il processo primario e la soddisfazione immediata del desiderio (anche come strategia consumistica) hanno sostituito la capacità di procrastinare la soddisfazione. Una dimostrazione che la biometria si inserisce in questa tendenza si ritrova nelle forme delle sue applicazioni che rimandano ai deliri paranoici e schizofrenici (il corpo come veicolo di messaggi, la lettura di parti del corpo, la possibilità di un controllo totale, ecc.). Il corpo informatizzato, di cui parlano Stefano Rodotà e altri studiosi, è certamente una realtà, almeno nel senso che il corpo si trova a essere descritto da rapporti prodotti da algoritmi matematici. In un qualche senso si realizza l’antico sogno pitagorico-platonico di rappresentare il reale per tramite di relazioni geometriche. Ma questo processo non rende il corpo più degno di onori, piuttosto lo trasforma, definitivamente, in un cadavere. Soma, sema; corpo, tomba: mai fu più vero l’antico gioco di parole. • Emilio Mordini Psicoanalista, direttore del Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (Roma), coordina il Progetto UE “Biometric Identification Technology Ethics” NOTE 1 Sino al 1916 ogni cittadino inglese poteva mutare il proprio nome e cognome semplicemente dandone comunicazione all’autorità. Questa possibilità rimase in vigore, almeno teoricamente, sino al 1971. La disputa nata nel Regno Unito dopo l’11 Settembre sull’introduzione di documenti di identità obbligatori dovrebbe essere sempre letta alla luce di questi dati. 2 La prima legge in Europa che fissa immutabilmente l’identità personale all’anagrafe è del 23 agosto 1794 in Francia. In questa legge viene fatto divieto a chiunque di utilizzare nome e patronimico diversi da quelli che gli furono assegnati alla nascita. ARTE E DINTORNI S A B AT O 2 0 A G O S T O 2 0 0 5 ca scienza della divisione dei colori che in Italia si praticava più con i filamenti e le linee che non con l’originario punto francese, si accompagnò a questa visione simbolista dei contenuti. Dunque tecnica e scopo dell’arte divergevano assolutamente, mostrando un eccentrico connubio di aspirazione a una sorta di verità scientifica e una contemporanea tensione di rappresentare contenuti spirituali e indicibili: «Io credo anzi – diceva Grubicy – che quando l’artista ha per obiettivo di esprimere quegli esseri assoluti ed essenziali che si chiamano idee, gli oggetti che concorrono a esprimerle non debbano aver valore in sé come oggetti, ma solo come segni, come lettere di un alfabeto…». Che la mente si culli Paradossalmente il maggior teorico della pittura divisionista, il critico militante, il conoscitore delle avanguardie postimpressioniste francesi e belghe, il difensore di Previati e il consigliere di Se- IL DOMENICALE 11 che sintetizzi forme, linee e colori […] e costringa la mente del riguardante a lasciarsi cullare dal simbolismo decorativo complessivo della mia idea». Il vago e l’indefinito Assoluta la fiducia nelle possibilità della pittura, da raggiungere attraverso un’educazione alla tecnica paziente e un’umile osservazione della natura. «Nei miei scritti troverai […] tutto uno studio per portare l’arte nettamente sulla nuova via, dopo essere però passati da serii e ben nutriti studi sulla Natura libera nella sua luce», scriveva a Segantini nel 1891. I suoi paesaggi sono soprattutto visioni di montagne, spesso riuniti in gruppo in modo da formare poemi naturali nell’idea di raggiungere il «mistero di esecuzione» che egli rimpiangeva in Segantini, la realizzazione del “vago” e dell’“indefinito” che serviva a rendere misteriosa e piena di simboli la natura. Trentaquattro dipinti, sei disegni e diciannove acqueforti di Grubicy sono ra- La pittura “ideista” di GRUBICY L’intellettuale e mercante, l’amico di Segantini che impugnò la tavolozza e ora impazza da Torino a Trento a Milano di Beatrice Buscaroli rima fu mercante, poi fu critico d’arte e scrittore. Alla fine Vittore Grubicy (1851-1920) divenne pittore, quasi volesse arrivare al cuore di quel che aveva fatto con gli altri e per gli altri, superando qualsiasi mediazione. Restò pittore per dieci anni compresi tra la fine dell’attività di mercante e la morte dell’amico Segantini. Aveva ricevuto la prima scatola di colori a olio da un amico olandese della scuola dell’Aja, negli anni Ottanta, ma allora aveva ancora la galleria. Aveva iniziato a cimentarsi con la pittura a trentatré anni, incominciando dal disegno e dall’acquerello; alcuni anni dopo, perduta la galleria d’arte nella lite col fratello Alberto, divenne il suo scopo primario. Vi si avvicinò come a un dovere, quasi cercasse di rendere reali le idealità e i pensieri che aveva espresso nel suo lavoro di critico, quasi cercasse di usare per sé i precetti che aveva cercato di trasmettere agli altri. «Il bisogno di solitudine e di studio combinato con la scarsità di pecunia mi hanno spinto ad accettare per cinque anni l’ospitalità di una casa vuota d’inverno sopra una montagna qualunque, priva di risorse, grandi cose, senza primi piani…». Pittura come esercizio mentale e morale, pittura come lungo tirocinio. «Dopo questa ginnastica, la più difficile di tutte, un motivo largo, semplice, melodico, diventa per me facile», scriveva a un amico nei primi anni del Novecento. P Dieci anni prima, con la presenza di Segantini e di Previati alla prima Triennale di Brera a Milano, la pittura “simbolista” aveva fatto la sua apparizione in Italia. Angeli, madri, madri buone, madri cattive, madri mucche e pastorelle si sarebbero diffuse rapidamente intorno a quel cenacolo lombardo di cui Vittore Grubicy era l’intellettuale e il mercante. Volevano rappresentare i grandi concetti della vicenda umana, la vita, la morte, l’amore, la speranza, le fede ed erano dipinti con uno stile nuovo, nato in Francia ma trasformatosi radicalmente nella sua ripresa italiana. Il colore diviso aveva attirato gli artisti pointilliste per la presunta scientificità nell’uso dei colori. Era un refolo di positivismo che s’addentrava nella pittura dopo quindici anni di impressioni, attimi, variazioni, tonalità, nuvole di passaggio, luci, ombre. L’impressionismo aveva la fretta di ingannare l’occhio dandogli tutto e tutto insieme: fumo, treno, nebbia. Troppo in fretta. Il pointillisme fermò il colore in una sua stasi primordiale cambiando la sequenza dei tempi. Il colore non si unisce sulla tela ma direttamente sulla rètina. La teoria divisionista fu accompagnata da volumi di ottica e di teoria dei colori: quel che ne derivò, cercando nella scienza un aiuto per tornare a valori di realtà e di oggettività che invece si erano persi per sempre e per ragioni diverse, è uno stile che rovescia completamente il senso della pittura da cui era nato. Inoltre, la teoriVITTORE GRUBICY E L’EUROPA. ALLE RADICI DEL DIVISIONISMO TORINO, GALLERIA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA, FINO AL 9 OTTOBRE TRENTO, MART, PALAZZO DELLE ALBERE, DAL 28 OTTOBRE AL 15 GENNAIO 2006 MILANO, CIVICHE RACCOLTE D’ARTE MODERNA, FINO AL 15 GENNAIO 2006 MUSICA Altro che Bono Vox, il grande è Pinone elice era il tempo antico in cui le rockstar si drogavano un sacco, facevano parties psichedelici, trombavano le groupies sgallettate. Felice era il tempo in cui Ozzy Osbourne sul palco staccava la testa a un pipistrello con un morso, in cui Jimmy Page dei Led Zeppelin comprava il maniero dello spiritista inglese Aleister Crowley. Tristi tempi i nostri, in cui le rockstar risolvono il problema della fame in Africa con un concerto, s’impegnano socialmente per tutte le nobili cause, mostrano bontà e rettitudine. Da vendere. Una volta Red Ronnie vide scendere Bono Vox dalla scalinata di un albergo: tale era l’atteggiamento messianico del cantante degli U2 che al buono Red venne da prostrarsi e da baciare la pantofola. Gli è che la musica è la vera lingua della metafisica, come avevano già nota- F Direttore Responsabile Angelo Crespi, Redazione Marco Respinti, Davide Brullo, Giuseppe Romano, Giovanni Abruzzo, Elena Buffa (consulente grafico), Giovanna Dal Negro (segreteria di redazione) Redazione via Senato 12, 20121 Milano, Telefono 02-36560007 Fax 02-36560008, Registrazione Tribunale di Milano n.362 del 17/06/2002 Società Editrice Il Domenicale Spa Presidente Marcello Dell’Utri Vice Presidente Vicario Vittorio Farina Vice Presidente Riccardo Garosci Amministratore Delegato Riccardo Pugnalin Consiglieri d’Amministrazione Carlo Matteo Bruno Simone Chiarella Giovanni Fagioli Carlo Fulchir Giuseppe Granata Delia Merlonghi Massimo Nicolucci Ufficio pubblicità Francesca Galli, Tel. 02/36560007 Fax 02/36560008, e-mail: [email protected] Ufficio marketing Alessandra de Lassotovitch e-mail: [email protected] Stampatore Centro Stampa Quotidiani Spa, via dell’Industria 52, 25030 Erbusco (BS), Distribuzione Messaggerie Periodici (Me.Pe.SpA), via Carcano 32, 20141 Milano Numero chiuso in redazione il 28/07/05 L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per le immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte to i romantici. La musica è senza contenuto – hai voglia a metterci dentro le parole, il “messaggio”, a far finta di scrivere canzoni: è al di qua e al di là delle parole. È troppo intelligente o troppo stupida, non ci sono vie di mezzo (e ai poveracci che fanno critica musicale non resta che mettere insieme qualche frase tendenziosa e qualche insulto, fare polemica come si fa un brindisi in una tavolata di cumpari, cercando la rima). Togli The Edge e hai gli Spandau Per questo quando leggiamo le serie considerazioni sull’impegno di Bono Vox o sull’ultimo disco di Jovanotti ci prende il raptus faux-illuministe e ci viene voglia di spiattellarlo a tutti, il segreto di Pulcinella. Tutta la potenza delle canzoni degli U2 non viene dalle fesserie a volte magnifiche dette o cantate da Bono, ma dalla chitarrina di The Edge. Prendiamo uno dei pezzi rock più belli di tutti i tempi, Pride (In the name of love). Cosa sarebbe senza il riff di chitarra? Un pezzo degli Spandau Ballett sarebbe. The Edge ha inventato il modo contemporaneo di fare rock ‘n roll con la chitarra: scarno, basato su ostinati che cambiano di funzione armonica a seconda del basso, pieno di echi che ribattono le note creando quel senso di “sovrabbondanza” ritmica surreale. Un suono così forte che è stato copiato da tutti: così come ritroviamo Picasso o Van Gogh pure nei cartelloni pubblicitari, risentiamo The Edge in tutta la musica: dalla Pausini ai Dream Theather. Lo stesso vale per Jovanotti. Nelle settimane scorse quanti giudizi intorno al suo ultimo disco. Ma le sue tiritere, a volte genialmente ossessive nulla sarebbero senza il basso di Saturnino Celani, un marchigiano che suona il funk meglio di un negro. Togli le linee di basso a Jovanotti e ti ritroverai con un Biagio Antonacci qualunque, ma peggio. Il principio vale anche per i cosiddetti grandi cantautori, quelli che troviamo anche nelle antologie delle scuole medie. De André, per esempio, il “poeta”. Bene, lo diciamo – citando lo ‘ndranghetista del bar del paese – con “pochi danari e poca paura”: il suo miglior disco è senza dubbio il live con la Pfm, un manipolo di scatenati che costruiscono attorno alle sue canzoni, spesso musicalmente povere, una ragnatela sbrilluccicante di melodie, invenzioni, suoni. Il solo di chitarra di Amico fragile, fatto da Franco Mussida, vale un’intera Recherche. Sarà un caso che fino all’ultima tournée, cambiati i musicisti, gli arrangiamenti di molte canzoni fossero ancora quelli dalla Pfm? Sulla base di questo metro di giudizio, quello popolare del suono e del ritmo, le gerarchie sui cantautori verrebbero ribaltate. Pollice verso per De Gregori , il Bob Dylan de noantri, ma senza lo swing implacabile del menestrello americano. Da riscoprire Pino Daniele. Il Pinone ha inventato un genere in cui la tradizione napoletana e quella afroamericana si mischiano in modo viscerale: rithm ‘n blues, tammuriàta e canzone, con un tocco di Sudamerica e una congenita incazzatura di fondo. Grandi melodie, da quelle semplici, (Napul’è, Je sto vicino a te), a quelle che sarebbero perfette come arie d’opera (Lazzari felici), ai vocalizzi jazz trasformati in canzoni bizzarre (Ma che mania). Brani che entrano di diritto nel pantheon della canzone napoletana (Viento, E cerca e ‘me capì, Appucundria), rock blues nervosi e pezzi che hanno scoperto la world music (Mo basta) ben prima che diventasse retorica posticcia per intellettuali stonati ansiosi d’incontri con “l’Altro”. E poi, chi non ha vagheggiato amori possibili intonati su Quanno chiove? I testi: musichevole e swingante mix d’italiano, napoletano e inglese. Rigorosamente antiletterari, al limite del calembour ritmico. Pino Daniele è il più bravo di tutti. Naturalmente parliamo del grande Pino Daniele, quello che va da Terra mia fino al live Sciò. Poi è subentrato un progressivo addormentamento che il ricorso a grandi jazzisti come accompagnatori non basta a nascondere. La voce si sfina, le musiche si illanguidiscono, e anche i testi: da «Si m’intosta ‘a nervatura metto tutti a faccia ‘o muro» (Je so’ pazzo) a «Che male c’è/ che c’è di male/ Se la mia vita ti appartiene/ ed è normale», la caduta è inquietante. Ma va bene così. Basta cercare i dischi vecchi, che si trovano pure a pochi euri. Pochi danari, poca paura e bella musica. • Bruno Giurato gantini da pittore aveva abitudini diverse. Aveva messo a punto una tecnica che nasceva dalla mediazione tra il purismo di Georges Seurat e del divisionismo classico e la maniera tradizionale di aggiungere strati di vernici e lacche successivi. Riprendeva le stesse tele a distanza di anni e le ritoccava – «tu sai per quanto anni consecutivi e quante volte ho rimesso sul cavalletto le stesse tele» – le modificava, passava la «vernis à retoucher Vibert per riaprire i pori della pittura precedente e predisporla ad immedesimarsi…». Sostenitore della pittura «ideista», dell’«arte di immaginazione», Grubicy aveva salutato con favore il tramonto del naturalismo e del verismo, ben felice di assistere alla rinascita della scuola lombarda di cui avevano fatto parte gli amati Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni. Tra aspirazioni e fallimenti, tra la brutale uscita dal mondo del mercato e il sommesso ingresso in quello della pratica artistica, che si chiuse in modo egualmente brutale dopo la morte del sodale Segantini – sua primaria fonte d’ispirazione nonostante il continuo tentativo di educarlo e orientarne i gusti –, Grubicy aveva stretto con la pittura un patto difficile. I suoi dipinti recano un senso sognante di naturale nostalgia, una tendenza trasfiguratrice che trasforma il paesaggismo classico e olandese in un luogo senza spazio e senza tempo: «Dunque cercherò qualche mezzo che mantenga al mio pensiero il suo carattere vago, oscillante di visione o di sogno indeterminato dunati per la prima volta nell’idea di seguire il pensiero dell’artista nell’evolversi della sua ricerca, dei suoi accostamenti e allontanamenti dalla pittura, nel suo finale di ossessiva rielaborazione di quanto aveva fatto. Laghi, boschi, nebbie costituiscono l’illustrazione di questa vita che forse chiedette troppo alla pittura. Grubicy le chiese la sua minima porzione d’immortalità scegliendo con cura i musei italiani a cui lasciare il suo lavoro. Era difficile portare la pittura a quel che Grubicy desiderava ed era impossibile farlo con le mani degli altri. A Giovanni Segantini Grubicy aveva insegnato a scrivere, aveva mostrato immagini e modelli, l’aveva supportato e consigliato. Poi, come sempre accade, i due si erano allontanati e in una delle ultime lettere Segantini diceva: «Caro Vittore, leggendo la tua lettera vi trovai qualche cosa di triste e di ironico… Amesso che l’arte moderma debba maturare nel vero ebbene credo sia meglio di parlarme più». La grafia di Segantini non era ancora perfetta e l’idea comune tramontava. Dipingere l’idea non era semplice, soprattutto quando le idee erano diverse come «20 organeti suonati insieme ciascum suonando la su arieta. Mi capirai, ciao, tuo Segantini». • Al centro: Vittore Grubicy (1851-1920), Rio di Venezia, 1897-1907, Milano, Enrico Gallerie d’Arte; a sinistra: Giovanni Segantini (1858-1899), Ritratto di Vittore Grubicy, 1887, Lipsia, Museum der Bildenden Künste L’ANGOLO DELLE MOSTRE — Man Ray. Magie Merano, Kunst Meran/o arte, fino al 18 settembre «Dipingo ciò che non posso fotografare. Fotografo ciò che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile». Man Ray, lo scopritore moderno della schiena femminile, ingegnoso voyeur a metà tra dadaismo e surrealismo, ha fondato una fotografia densa d’incanto erotico ed estetico. Ma è stato anche pittore, regista, disegnatore, grafico e scultore, inventandosi tecniche nuove e grafismi indimenticabili. Ottantacinque fotografie (una decina d’inediti), dieci oggetti e una parte della sua produzione cinematografica allargano la visuale ai molti modi in cui Man Ray riusciva a cogliere quell’incanto, tra la Parigi e la New York dei Quaranta. — Tom Wesselman Roma, Macro, fino al 18 settembre Nudi monumentali di due metri e mezzo, nature morte imbandite di toast e coca cola, sigarette protese da bocche lucide e carnose, giochi di fiori e di colori che s’inseguono in un balletto astratto. È la prima mostra italiana dedicata a Tom Wesselman (1931) protagonista insieme a Warhol, Lichtenstein, Oldenburg e Rauschenberg della grande stagione Pop americana. Edonismo, consumismo e iconografia dell’advertising percorsi dall’erotismo velato-sfacciato delle femmine di Wesselman: grandi labbra rosse, chiome platinate, capezzoli color fragola, denti bianchissimi e unghie laccate. Una retrospettiva pensata da Wesselman in collaborazione con il Whitney Museum pochi mesi prima di morire, nel dicembre 2004. — Jet-Lag. Bernardo Siciliano Milano, Palazzo della Ragione, fino al 4 settembre Esce dalla prolifica scuderia di Italian Factory questo trentacinquenne che vola tra Roma e New York, ha imparato l’olio da Cèzanne, fa pensare a Hopper e dice di amare più i quadri “letti” nei libri che visti nei musei perché «gli piace la cornice della pagina bianca». Forte di una mano fine di disegnatore, di uno spiccato senso grafico e della possibilità di variare i suoi panorami (molto) intellettuali, Siciliano porta in mostra gli ultimi cinque anni di pittura, lasciando a casa i ritratti per mandare avanti le sue vedute. Asfalti e ingorghi, parchi e semafori, volumi di chiese e di monumenti per la Roma natia, che brulica di traffico e sole. Voli d’uccello più vertiginosi per l’adottiva New York, che si frammenta in trittici maestosi di ponti, baie, highways, campi da baseball tra i grattacieli. Pia Capelli