MODULO 3 FENOMENOLOGIA DELLA DEVIANZA: PERCORSI DI
INCLUSIONE ED ESCLUSIONE
INTRODUZIONE di Luigi Ciotti
LEZIONE 1………………………………………………………………………..Pag. 2
Il processo di esclusione: la sofferenza grande domanda di Leopoldo Grosso
LEZIONE 2………………………………………………………………………..Pag. 8
Minori stranieri in carcere: la scommessa di un patto per la legalità di Leopoldo Grosso
Allegato: Le convenzioni internazionali
LEZIONE 3………………………………………………………………………..Pag. 47
Il rimpatrio dei minori stranieri di Leopoldo Grosso
LEZIONE 4………………………………………………………………………..Pag. 49
La tossicodipendenza di Leopoldo Grosso
Allegato: Glossario psichedelico . Le nuove sostanze d’abuso: note di farmacologia e di
clinica di Fabrizio Schifano
LEZIONE 5………………………………………………………………………..Pag. 68
La relazione d’aiuto nel contesto della “prostituzione” di Leopoldo Grosso
LEZIONE 6……………...………………………………………………………..Pag. 76
Le comunità per minori di Luigi Ciotti
Allegato : LE COMUNITÀ PER MINORI: GOVERNARE IL PLURALE A cura di Luciano Tosco
LEZIONE 7………………………………………………………………………..Pag. 89
Minori ed organizzazioni criminali di Luigi Ciotti
Allegato: dai verbali della requisitoria finale del processo per l’assassinio di Pino Puglisi 14 aprile
1998
Allegato: L’ingresso nell’organizzazione da Cuori violenti di Crepet
BIBLIOGRAFIA…………………………………………………….…………..Pag. 97
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INTRODUZIONE di Luigi Ciotti
Vorrei partire da una considerazione:l'Italia continua a restare l'unico paese in Europa
che non ha un Dipartimento che si occupi di giovani con le adeguate attenzioni, con i
necessari investimenti di risorse e strumenti. Di loro ci si "preoccupa" ma non ce ne si
occupa veramente. L'Italia, al pari di quasi tutti i paesi industrializzati, è un paese dove
l'esclusione sociale è in progressiva espansione, dove si approfondiscono povertà
vecchie e nuove, nelle quali è sempre più facile entrare ma è sempre più difficile
fuoriuscirne. Ormai sono sempre più numerose le famiglie monoreddito che valicano la
cosiddetta "linea di povertà"; cioè avere un lavoro non è più, di per sé, garanzia
sufficiente per non essere, ufficialmente e a tutti gli effetti, poveri. Ma anche analizzando
la povertà più "tradizionale" e più estrema, possiamo renderci conto di quanto si siano
moltiplicati i volti del bisogno e di come questi si intreccino anche con la questione delle
dipendenze e del disagio giovanile. Guardiamo il "popolo della strada". Chi di noi
operava sulla strada anni fa, ricorda che negli anni '70 i cosiddetti "barboni" avevano
un'età media di 65-70 anni; oggi l'età media si è notevolmente abbassata e incontriamo
sempre più giovani sulla strada. Ma, oltre al fatto anagrafico, sono mutate altre
caratteristiche significative: è cresciuto il numero delle donne; il 16,3% ha un titolo di
studio superiore (il 13,9% ha un diploma, il 2,4% ha una laurea: rispettivamente il
39,1% e il 63,6% di questi ultimi sono stranieri); quasi il 10 % è sieropositivo e in Aids;
il 29,1% è composto da alcolisti dichiarati; almeno il 15% è formato da persone
tossicodipendenti; circa il 10% è rappresentato da ex ricoverati in ospedale psichiatrico.
Solo il 15,9% vive sulla strada per propria scelta. Il 21,7% è stato cacciato dalla
famiglia perché tossicodipendente o sieropositivo. Il 9,6% è stato abbandonato dalla
famiglia in età evolutiva, il 6,3% è figlio di genitori a loro volta senza fissa dimora. Per il
43,5% la strada è stata una conseguenza della disoccupazione.Da questa sintetica
"fotografia" ci accorgiamo che le dipendenze talvolta nascono dentro una realtà di
povertà e, in altri casi, la producono a loro volta. Questo vale anche a dire che non si
può ragionare di droghe senza misurarsi anche con i più generali contesti di bisogno e di
esclusione. Le politiche relative alle tossicodipendenze vanno sempre saldate ad una
serie di altri interventi. Per ragionare di politiche concrete, di risposte realistiche,
innanzitutto bisogna togliere questo problema dall'astrattezza e anche dall'emotività e
dalla strumentalizzazione. La questione droga entra ogni giorno nelle case di tutti con
immagini di cronaca, con un certo tipo di disinformazione, di produzione di stereotipi e
pregiudizi, che non corrispondono però alla realtà delle persone e del fenomeno.
Immagini e stereotipi che poi diventano un cavallo da cavalcare o uno spauracchio da
agitare e su cui speculare, com'è stato ai tempi della 162 per coagulare consenso sociale
intorno alla filosofia punitiva che ne è stata alla base. Ebbene, io credo che il vero
problema sia quello della verità; quella verità attenta, puntuale, scientifica che non ha
sufficienti canali di diffusione. Io credo che bisogna creare un tavolo di riflessione,
analisi e proposta, non solo degli addetti ai lavori, ma che sappia coinvolgere molte voci
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"dal di dentro", i nuovi volti del mondo giovanile, affinché possano portare dei
contributi. Altra considerazione di fondo della quale sono estremamente convinto è il
rapporto con la strada. La strada è per molti di noi il luogo di riferimento, dove siamo
nati, dove abbiamo operato, dove sono cresciuti i nostri gruppi. La strada è stata il
nostro punto di riferimento, simbolico ma anche operativo, e lo dovrebbe essere ancora
di più, anche per le istituzioni e per i servizi pubblici. La strada chiede di leggere i
cambiamenti e le trasformazioni; la strada chiede di mettere al centro la persona e i suoi
bisogni fondamentali, dunque di mettere l'accento sulla riduzione delle sofferenze e
sull'attenzione alle persone. L'abbandono, la deriva, l'esclusione, la segregazione, varie
forme di marginalità, creano un danno che progredisce in due direzioni: la prima va
verso la persona emarginata, che vede sempre più ristretti i propri spazi di
sopravvivenza, percepisce gli altri sempre più in un contesto difficile come nemici e non
solo, ma, lasciandosi travolgere dalle situazioni, dà sempre meno valore alla propria vita
ed è sempre più disposta a giocarsela per ben poco, esponendosi di più e con rischi di
conseguenze devastanti.
La seconda direzione va verso la società in cui il soggetto, la persona che fa fatica,
si muove: il danno recato a se stessi e agli altri è un danno alto, soprattutto se misurato
in relazione al poco utile ricavato dell'atto, soprattutto se misurato all'atto microdelinquenziale. E’ l'esasperazione di chi si aggrappa all'economia illegale della
sopravvivenza, la storia dei nostri amici insomma, che per farsi, per sbattersi si
aggrappano a questa economia illegale della sopravvivenza, capovolgendo le regole
della razionalità di chi intende far profitti: non gran profitto con rischi minimi, come
sarebbe la regola della razionalità, ma grandi rischi con minimi profitti, perché chi si
sbatte sulla strada e chi vive sulla strada per sopravvivere si accolla rischi alti. Allo
stesso modo il danno di chi ha avuto, per esempio, l'auto danneggiata per un furto di un
oggetto all'interno dell'auto, ma è solo un esempio, è generalmente superiore al valore
dell'oggetto di per sé, non solo a quanto viene venduto sul mercato della ricettazione.
Ecco che allora il danno recato a sé e agli altri è un danno alto, se misurato in relazione
al poco utile.
C'è un terzo passaggio: il danno per sé e per gli altri non è solo economico-legale.
La sicurezza riguarda anche la salute, per cui il danno è anche sanitario. Condizioni di
vita decenti e la possibilità di cura per le persone tossicodipendenti, per gli amici che
vengono da lontano, immigrati, irregolari, per chi è emarginato a vario titolo o non
accede ai servizi, consentono al singolo di non ammalarsi e di non peggiorare. Ma
costituiscono anche un investimento preventivo per la salute complessiva della
popolazione e della gente, perché si diminuiscono le possibilità di contagio, d'infezione,
si contiene la diffusione di malattie diverse. E' allora importante “prendersi cura”:
curare le persone ai margini significa condurre più complessivamente una vantaggiosa
politica di sanità pubblica.
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Un quarto passaggio. Sul piano dei costi sociali, dei costi dell'apparato giudiziario
e della magistratura e di tutto quello che comporta, della sanità, l'investimento di risorse
in servizi che contrastino l'emarginazione e tutelino la salute, rappresenta un risparmio
economico da non sottovalutare. Bisogna avere il coraggio di fare queste scelte e
conviene investire in questa direzione. Non è solo il considerare il costo di un carcere o
di un ospedale rispetto ad una struttura di accoglienza, che è mediamente cinque, sei,
sette volte inferiore. Certo, i conti li abbiamo fatti carta e penna alla mano con chi di
questo se ne occupa e ne ha la responsabilità a livello nazionale.
Oggi un ragazzino minore in carcere, ad esempio, costa quattro milioni al giorno;
per gli adulti i parametri sono diversi, ma bisogna considerare anche il danno recato
alle vittime dei reati, a chi subisce tutto questo, il carico degli operatori della giustizia, di
tutti i diversi apparati. Conviene non essere miopi e credere e investire gradualmente in
una direzione diversa, valorizzando le risorse, le capacità non utilizzate o mal utilizzate
delle persone che sono in difficoltà, di un mondo marginale che cerca di sopravvivere in
lotta con gli altri e che, invece, può diventare protagonista di un processo attivo, e dove
questo è stato fatto si sono ottenuti risultati concreti, che non sono fantasia, ma pratica,
quotidianità.
Ancora un quinto passaggio: sono
necessarie politiche d'integrazione,
cominciando dal sopperire ad alcuni bisogni materiali di base: un posto per dormire, per
mangiare, dove lavare i propri vestiti, fino alla possibilità di un lavoro compatibile con
la propria salute, ecc. Queste politiche sono il pilastro portante di una attività sociale
che ha ricadute fondamentali sia sul piano del problema dell'opinione pubblica che su
quello della sanità.
Le comunità devono uscire dalla convinzione di essere il toccasana. Sono una
realtà importante da sostenere, da incoraggiare. Ma è necessario anche aprire percorsi
nuovi: la riduzione del danno l'abbiamo ribattezzata “la cura della vita”, perché vuol
dire impegno per la vita. Non è facile per nessuno e nessuno ha le ricette in tasca. Però,
nessuno, in nome di partiti, di fazioni, di ideologie, di “guerre di religione”, può
impedire una ricerca che ha come obiettivo dare speranza e vita alle persone. C'è tanta
gente che ha rinunciato rispetto a questo, che ha fatto una scelta di politica tiepida,
mentre non si possono fare compromessi in questo ambito, perché c'è in gioco la vita
delle persone.
Gli interventi di strada consentono di contattare o di ricontattare le persone,
significa rimetterle nel circuito dei servizi, rioffrire un'opportunità di relazione e di
riferimenti, che non sono solo quelli materiali cui ho accennato prima, anche se c'è
bisogno pure di quello. Questo che comincia sulla strada è il primo indicatore
dell'integrazione; soprattutto, è un rimettere in gioco le risorse, le capacità di una
persona, per quanto per molti siano ridotte, limitate.
Il rafforzamento dell'autostima delle persone è possibile, come la valorizzazione
delle conoscenze che ci sono dentro ciascuno di noi. E chi di noi ha avuto l'esperienza
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della strada diretta o indiretta sa che la strada aggiunge dei modi nuovi di “sapere”, che
anche nella sua fatica è una risorsa, che tocca a noi fare in modo che diventi una risorsa,
valorizzando le conoscenze non sfruttate.
C'è un sesto passaggio che mi sta a cuore. Bisogna capire e fare capire che
l'esclusione genera violenza. Mi ricordo che all'inizio del Gruppo Abele per tre anni
scelsi di dormire sui treni di Porta Nuova a Torino con chi aveva solo quella come casa:
m'ha cambiato la vita. E me l'hanno cambiata il dormire d'inverno o d'estate sui treni, le
retate, le etichette, i giudizi, le situazioni. Pur non giustificando questo modo di vivere,
sia ben chiaro, mai: per me la legalità resta sempre un punto fermo. Ma bisogna anche
far capire che è l'esclusione che genera violenza, perché io tante volte mi sono trovato a
tirare la cinghia, a fare la fame, ad avere freddo. Non giustifico la violenza, ma a volte
non se ne poteva più: c'era rabbia dentro rispetto a chi stava dall'altra parte, che
semplificava e giudicava. La violenza a sua volta genera ulteriore esclusione, ci si ritira
sempre di più, ci si esclude sempre di più.
E' una spirale perversa in cui i timori, le paure, di una maggioranza d'inclusi che
si sentono minacciati fanno scaturire reazioni che alla fine negano agli esclusi i diritti di
cittadinanza. Io l’ho visto a Torino a San Salvario o a Porta Palazzo, ma tutti li abbiamo
visti in altre zone.
Qui c'è un problema di rispetto: il diritto alla sicurezza è un diritto sacrosanto che
tutti hanno e, quindi, c’è bisogno di attenzione nei confronti dei cittadini, delle loro ansie
e paure, quindi anche di una corretta informazione, un accompagnare le persone,
formare i formatori perché li aiutino, per far superare le scorciatoie, i timori delle
persone.
Il diritto alla sicurezza è un diritto sacrosanto che impone un rispetto per tutti i
cittadini. Però, poi nessuno deve utilizzare questo solo a sua misura; ed è un diritto che
hanno ancora maggiormente in questo senso le persone più fragili, le persone più deboli,
le persone che sono in maggiori difficoltà.
L'investimento sulla sicurezza dei cittadini passa attraverso la garanzia di diritti di
cittadinanza di tutti e nel creare opportunità, spazi, riferimento, ecc.
Un altro piccolo punto: gli interventi di riduzione del danno hanno bisogno,
secondo noi, di quattro direttive.
La prima: il lavoro di strada, di cui ho già detto. L'istituzione che incontra ancor
oggi più tossicodipendenti è il carcere: non sono i servizi, non sono le nostre comunità.
Ecco che la prima direttiva di applicazione diventa il lavoro di strada, l'agganciare,
l'accompagnare le persone.
La seconda: una politica farmacologica che, insieme con l'offerta di opportunità
sociali, come casa e lavoro, elimini il rapporto con la piazza e l'illegalità, consentendo
strategie progressive d'integrazione. Ci vuole coraggio, ma anche che noi non siamo
tiepidi nel trovare un modo per realizzare tutto questo.
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Terzo: ripari d'accoglienza e terapeutici che, a partire da una tensione e da un
indispensabile approccio, in questo senso assistenziali, possano consentire di sviluppare
relazioni, di fare uscire dall'isolamento la persona, d'innescare spinte riabilitative e di
emancipazione dalle dipendenze.
Quarto: la protezione della salute dall'overdose e dalla propagazione delle
malattie infettive.
Tutto questo significa che le politiche di riduzione del danno, nel momento in cui
riescono allo scopo dell’integrazione, hanno il duplice vantaggio di essere di aiuto alla
persona in difficoltà, ma anche di proteggere la comunità sociale dai rischi e dai danni, e
quindi svolgono un controllo sociale leggero e propositivo in questo senso; inoltre, credo
che ci sia bisogno di formazione, di informazione attenta per far crescere il grado di
conoscenza e di consapevolezza della gente, e di un grande investimento educativo del
progetto complessivo che aiuti anche a scendere in profondità rispetto a tutto questo.
In questo modo si intreccia la riduzione del danno con la prevenzione del danno, cioè si
investono di responsabilità e di proposte le istituzioni locali, le agenzie educative, le reti
di sostegno sul territorio, il sistema penale e carcerario, i centri sociali e terapeutici.
L'esperienza "sul campo" del Gruppo Abele ci ha insegnato che i processi di
emarginazione delle persone producono una loro minore responsabilizzazione. Più sei
emarginato meno hai gli strumenti, le opportunità, la capacità di progettarti, di gestirti
autonomamente. Occorre dunque rovesciare l'approccio punitivo del "fare toccare il
fondo", del "creare terra bruciata", che tanti guasti, ingiustizie e sofferenze aggiuntive
ha prodotto per tanti giovani, e valorizzare invece i percorsi di riassunzione di
responsabilità all'interno di un recupero di dignità e di qualità della vita. Ancor prima di
una scelta di astinenza. Perché la dignità e il rispetto delle persone, la tutela della loro
salute, non può essere sottoposta a condizione, pur se l'obiettivo auspicabile è
naturalmente quello di liberarsi da ogni tipo di dipendenza. È per questo che noi
crediamo moltissimo al problema della riduzione del danno, anche a costo di critiche e
incomprensioni. Contro quei facili moralismi e semplificazioni che, al di là delle grandi
affermazioni di principio, non operano per dare dignità e qualità della vita alla gente. Le
grandi e belle dichiarazioni di principio non servono, se poi si lascia tutto sulle spalle di
chi è più fragile, di chi fa più fatica, di chi viene privato di diritti e, assieme, di parola, di
responsabilità. Così intesa, la riduzione del danno può ridare autonomia alla persona e
maggiore responsabilità alle istituzioni per quello che a loro compete. Si devono mettere
insieme motivazioni, competenze, esperienze, servizi, sia nelle politiche carcerarie e
penali, sia nella lotta contro l'esclusione sociale, oltre che nello specifico delle
dipendenze. Si tratta, dunque, di mettere complessivamente in campo strumenti ed
interventi sul piano culturale, educativo, economico, sociale, per ridurre l'area
dell'esclusione e quella del disagio, per contrastare tutti quei processi di impoverimento
materiale e spirituale che colpiscono fasce sempre più larghe di persone. Ci tengo a
sottolineare questo aspetto perché le semplificazioni che sento fare in Italia sulla
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riduzione del danno non tengono conto di tutto ciò, delle evidenti implicazioni, delle
necessarie sinergie. Riduzione del danno (e lo dobbiamo gridare con forza all'esterno)
costituisce anche un contributo educativo. Ridurre i rischi non significa rinunciare ad
educare, a informare, a camminare insieme. Certamente la nostra scelta è di
accompagnare, non di portare, in un rapporto deresponsabilizzante di tutela. Ridurre i
danni non significa rinunciare ad agire sul piano della prevenzione e della dissuasione.
È uno strumento in più, non uno in meno. È una risorsa ulteriore per attivare momenti di
crescita e di riflessione pedagogica. Punire è sempre più facile che non educare.
Proibire è assai semplice, più oneroso è convincere, cioè vincere con, vincere assieme.
La riduzione del danno va vista come integrata e integrabile con l'obiettivo di liberazione
dalle sostanze: accompagnare, non portare; questa è una risposta carica di valenza
etica. Riduzione del danno, per me si traduce in cura della vita, perché siamo chiamati
ad aiutare tanta gente che vive nella strada a sopravvivere, perché un filo non si spezzi.
Così possiamo educare ed educarci a vivere. Do sempre ai miei amici quattro chiavi da
aggiungere a quelle di casa che la strada ci ha insegnato.
La prima: siamo tutti chiamati ad incontrare le persone e ad affrontare i problemi e non
viceversa.
La seconda: siamo chiamati ad accompagnare, non a portare.
La terza: non bastano le sole risposte tecniche se pure importanti, c’è bisogno di un
faccia a faccia, di una relazione.
La quarta: partire sempre dalle persone; non tanto dai loro problemi, di cui uno deve
tenere conto, ma soprattutto dai loro bisogni.
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LEZIONE 1
Il processo di esclusione: la sofferenza grande domanda di Leopoldo Grosso
Inizierei da due premesse. La prima, la deriva marginale non è quasi mai un evento
improvviso. Non è un fatto veloce, né un avvenimento a dimensione semplice. E’ invece
un processo complesso, relativamente lungo, abbastanza lento. E il paradosso è che ci
sarebbe tempo per prevenirlo. E’ il risultato, sempre, di un incrocio, di un’interazione in
negativo tra processi sociali da una parte e vissuti relazionali dall’altra parte; tra
situazioni oggettive ed impotenze soggettive. Quindi, oggettivazione e soggettivazione
dell’emarginazione sono binari intrecciati. La difficoltà, infatti, nell’affrontarla e nel
risolverla, è perché si ha a che fare con questo impasto: per cui non è sufficiente mutare
la situazione oggettiva, come non basta fare un buon lavoro col soggetto.
L’aiuto materiale, l’offerta di relazioni, la capacità di ridefinizione di sé e di usare l’aiuto
proposto, sono i tre aspetti essenziali del percorso reintegrativo, riparativo, riabilitativo:
se ne manca uno , o se i pesi specifici di ognuno di questi tre aspetti non sono ben dosati,
il rischio di fallimento cresce.
La seconda premessa riguarda la questione del dolore che ha molto a che fare con
l’emarginazione. Diciamo che è un punto di diramazione. Fare i conti o meno può essere
un punto di svolta.
Già Freud indicava tre fronti di sofferenza per l’uomo: i fattori ambientali sfavorevoli
(fame, freddo, carestia), il proprio corpo (che si ammala o con il quale non si va
d’accordo), i rapporti con gli altri. La terza fonte, dice, è forse quella che genera il dolore
più forte, più intenso. Il dolore però, in genere, offre una chance: interroga.
Una caratteristica del dolore è quella di costringere la persona ad insistere sul perché.
E’ domanda di senso. Il dolore apre l’interrogazione sul senso perché stravolge
l’ordinario. La sofferenza può diventare il luogo di una grande domanda. Una domanda
capace di escludere orizzonti impensabili ed impensati; e paradossalmente la sofferenza
può rilanciare la vita.
A volte si dice che il dolore rende migliori, fa crescere: è vero? Beh! Prima cautela:
innanzitutto il dolore devasta. La devastazione, o meglio ancora, la rielaborazione
dell’esperienza della devastazione, può aiutare, può trasformare, può aprire nuove
possibilità. Quindi il dolore può anche aiutare, ma solo nel caso 1) che sia riconosciuto,
che non sia negato; 2) che ci sia la possibilità nel frattempo, di intrecciare legami, per cui
ci si accorge che si può ancora contare per qualcuno.
Se ci sono queste due condizioni, c’è possibilità di andare oltre.
Con l’emarginazione però c’è un problema. L’emarginazione quasi sempre non affronta,
non si confronta col dolore, lo rifugge, o meglio, cerca in tutti i modi di anestetizzarlo:
che vuol dire cercare non sentirlo, cercare di non provarlo e, soprattutto, non pensarlo.
L’operazione che deve riuscire è non pensare il dolore. Quindi, rimuovere il dolore è la
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strada più affollata che l’emarginazione tenta di imboccare, ma che purtroppo non porta
molto lontano perché in qualche modo bisogna stordirsi; però l’esperienza di stordimento
non è solo con la droga o il ricorso all’alcol, c’è anche l’uso improprio delle questioni che
entrano in gioco: c’è l’attivarsi freneticamente, il fare tante cose pur di tentare, di non
pensare a questo, e questo permette e facilita la rimozione. C’è anche il consumare: le
esperienze di consumo sono speso esperienze di gratificazioni sostitutive; c’è il rischiare
( per provare più forte ancora) perché vivere al limite permette di non pensare la
sofferenza ordinaria. Ci sono altre vie classiche: l’identificarsi con l’aggressore. Tra gli
emarginati troviamo tante persone prepotenti, che quindi in qualche modo riproducono in
piccola scala, qualche genere di prepotenza subita.
Allora possiamo dire che l’emarginazione è la cronicizzazione di un disagio, di una
difficoltà mai affrontata nel modo giusto, quasi mai neanche pensata.
E’ un imbuto senza sbocco, è passività, è in qualche modo una pietrificazione dei vissuti.
E’ il progressivo venire meno. Nel marciare lentamente verso il margine sociale, dove si
è ancora emarginati, dove si spera ancora che avvenga quel qualcosa ben individuato e
precisato che, però, non avviene. Nello slittamento del margine ad oltre il margine, al di
là di esso, si comincia a sperare qualcosa di diverso, la speranza perde la sua
individuazione, rimane solo l’attesa che avvenga qualche cosa per cambiare la situazione;
quindi la speranza non è più individuata, è diventata qualcosa di più generico, di meno
afferrabile, è più collegata al bisogno di non star male, che all’individuazione precisa di
ciò di cui abbiamo bisogno per poter star meglio.
Infine, nella stagnazione cronicizzata dell’emarginazione la speranza sbiadisce del tutto.
Diventa prima luce fioca, poi viene meno e dà luogo a passività, a lasciarsi andare da una
parte, o dal vicolo cieco della rabbia non finalizzata.
E prima che la domanda si faccia muta, in genere incontriamo la pretesa. Chi sta male
dimentica spesso il garbo e non pratica la riconoscenza (forse non l’ha mai imparata). Chi
soffre si attende sempre qualcosa dagli altri, più spesso, pretende. E’ così che la domanda
di aiuto è spesso aggressiva, potremmo dire che è come una sassata sul vetro. Capita
come ai bambini, e non solo a loro, quando stanno male. Come vi dicono che stanno
male? Facendovi star male, vi “passano” la sofferenza.
Con chi ce la si prende? Con chi sta più vicino, con chi accudisce, con i familiari, con gli
infermieri, con i volontari. Ma l’aggressività la rabbia, lo sfogo, a volte la cattiveria, sono
però un segno di speranza, una prima bussola. Intanto, è un buttar fuori anziché un tenere
dentro, è un attivarsi male, anziché passivizzarsi. Winnicot infatti ha definito la
delinquenza giovanile come un segno di speranza perché c’è ancora vita, c’è ancora
protesta, c’è ancora in qualche modo, pur distorto, richiesta di relazione.
A volte invece la rabbia non c’è più, la ribellione scomposta e non finalizzata si esaurisce
anch’essa. Che succede? L’aggressività è rimasta dentro: non viene più buttata fuori
sull’altro, non permette più un movimento scomposto, comunque, di relazione ma
l’aggressività fa una manovra ad U, automobilistica, e si dirige contro se stesso; e tutte le
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volte che l’aggressività si rivolge contro il soggetto, la soluzione è sempre la stessa,
diventa depressione. Si rinuncia a combattere. I processi autodistruttivi a questo punto,
subiscono un’accelerazione e si saldano in maniera quasi definitiva, con i processi
oggettivi dell’esclusione. Sul versante oggettivo, oggi ci dibattiamo tra povertà materiali
(sette milioni di poveri in Italia, trecentomila ogni anno), culturali (i giovani ultras) e
relazionali ( i contesti di solitudine, i “ghetti” di un noi senza confronto). All’interno di
queste tre povertà, si evidenziano tre diversi insiemi di emarginati: i primi, gli emarginati
per mancanza di autonomia ( non sono solo gli anziani, i disabili, le persone smarrite, ma
anche alcuni pazienti psichiatrici cronicizzati); gli emarginati per mancanza di senso, che
in qualche modo non trovano più se stessi; e infine, gli emarginati per mancanza di diritti
( per esempio le persone extracomunitarie, ma non solo).
Questi tre “insiemi” assumono forme e configurazioni diverse, molto spesso s’incrociano,
si sovrappongono, ma i processi sono simili anche se i binari che imboccano sono
parzialmente diversi. Primo passaggio, è l’esperienza della delusione; secondo passaggio
è una reattività inconcludente all’esperienza della delusione: non si costruisce un
atteggiamento positivo, non si riesce a costruire, è qui che il disagio si cronicizza: rabbia,
risentimento, rivendicazione; e infine il terzo passaggio, è in genere la passività e insieme
ad essa, l’incalzare, in crescendo, della solitudine.
L’emarginazione non fa molti distinguo cronologici. Picchia di più sulle età più deboli,
ad esempio bambini: un solo “esempio”, le “carriere” scolastiche tutte prevedibili, ma
assolutamente al momento stesso, quasi sempre imprevedibili dei minori di famiglie
multiproblematiche, sono poi quelle che vanno ad affollare il carcere minorile e che non
arrivano alla terza media. L’altra età su cui l’emarginazione picchia duro sono gli anziani,
dove la dimensione principale è la solitudine, poiché non si conta più per qualcuno, dove
molto spesso c’è l’impossibilità di fare qualcosa, dove viene a mancare uno scopo.
Ma bambini e anziani “fondano” il loro stato marginale su un identico attore principale
che è l’adulto, il quale rende difficile, problematica e sviata la vita di entrambi. L’adulto è
il vero target preventivo. E’ l’adulto che dev’essere per primo preso in carico quando ci si
occupa dell’emarginazione di bambini e degli anziani, dei non autosufficienti.
E poi anche l’adulto è vittima di se stesso e si indebolisce: disoccupazione, alcol,
malattie, equilibri personali che vanno in crisi.
Oggi è in aumento l’emarginazione più pesante: i senza fissa dimora crescono; è
caratteristico un nuovo furto d’uso che si diffonde in città, quello dell’automobile, ma
non per farsi un giro come avveniva negli anni passati, ma per dormirci dentro al notte.
Oggi per i senza fissa dimora, dove tra atteggiamento di rabbia e passività, il confine
diventa labile, la politica di discriminazione o di accoglienza passa attraverso il diritto ad
una residenza. Per far ottenere una residenza, anche se è solo formale, è una lotta con i
comuni. E perché è importante? Perché permette di ottenere una carta d’identità e il
libretto sanitario per esercitare certi diritti di cittadinanza. Ma in molti casi i comuni non
lo fanno. Là dove c’è più emarginazione di questo tipo, c’è maggiore solitudine, c’è più
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disperazione e un minor senso di responsabilità per se stessi e gli altri. Quindi una
politica di rifiuto porta ad un’accoglienza di tutti gli aspetti negativi delle dinamiche
marginali.
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LEZIONE 2
Minori stranieri in carcere: la scommessa di un patto per la legalità di Leopoldo
Grosso
Ineguaglianza e fallimento di una giustizia a “doppio binario”
Negli istituti penali minorili del nord Italia, gli stranieri rappresentano una netta
maggioranza sul totale dei detenuti. Molti di loro, sono recidivi nel carcere, con
permanenze medie detentive di circa due mesi ogni volta. La misura a cui sono sottoposti
con la restrizione è, generalmente, la custodia cautelare. La custodia in carcere è spesso
conseguente al fallimento della misura cautelare in comunità, da cui i ragazzi si allontano
dopo solo poche ore.
Il sistema penale minorile segna un evidente empasse verso di loro: le misure alternative
per chi è senza famiglia e senza riferimenti adulti attendibili, risultano impraticabili.
Inoltre, sotto le spoglie di innumerevoli alias, i minori stessi appaiono difficilmente
identificabili per quanto riguarda l’identità personale, la nazionalità di appartenenza e la
stessa età anagrafica. La custodia cautelare in carcere si rivela l’unica misura di
contenimento praticabile sul momento, benché fallimentare in prospettiva, nell’obiettivo
di evitare la replicazione dei reati. Di fatto si assiste ad una vera e propria
differenziazione di trattamento rispetto ai minori italiani, tanto che si configura una
giustizia a doppio binario: misure alternative ed opportunità territoriali per i minori
italiani, detenzione per i ragazzi stranieri. L’ineguaglianza di fatto di fronte alla legge si
rivela anche inutile: il processo per i minori stranieri risulta molto spesso un rito celebrato
a fantasmi, burocratico e dispendioso, poiché l’iter giudiziario ha tempi lunghi ed il
minore nel frattempo, con la scadenza termini, è uscito dal carcere ed ha riguadagnato lo
stato di clandestinità.
Un penale totalmente separato e staccato dal sociale è oggi anacronistico per la realtà
minorile, in quanto depotenzia ogni possibilità riabilitativa. E’ un involucro vuoto che
rischia di alimentare contrapposizione e devianza anziché generare riparazione e
reinserimento sociale. Sganciato dagli obiettivi della riparazione, dagli strumenti
dell’accompagnamento relazionale, dall’offerta di opportunità in grado di modificare lo
stile di vita del ragazzo, il sistema penale minorile fa un passo indietro di più di
vent’anni, ritorna a essere quello che in passato è stato per i minori italiani e per i quali
oggi la funzione può già definirsi residuale. La residualità del carcere minorile, come
intervento estremo, non riguarda invece i minori stranieri, che, con la loro presenza
massiccia, e con le loro modalità reattive, rischiano di restituire all’IPM non solo una
funzione piena, ma anche modalità di gestione tradizionale, da tempo in disuso: le
pratiche dell’isolamento punitivo, del trasferimento in altri stabilimenti detentivi,
dell’esclusione dalle attività di apprendimento e socializzazione,…
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Lo “zoccolo duro” dei minori stranieri recidivi: da clandestini a piccoli scippatori
Sono soprattutto i minori stranieri maghrebini, in particolare nel nord-ovest d’Italia, a
produrre comportamenti carcerari improntati sulla durezza, sulla sfida, sulla coesione del
gruppo “contro”.
La detenzione è messa in conto, tra i rischi del loro stile di vita. Viene considerata un
incidente di percorso e costituisce solo una pausa forzata rispetto alla loro attività illecita;
non mette in crisi né le loro scelte né la determinazione con cui perseguono il loro
progetto. Ormai ai limiti della maggiore età, nell’impatto ripetuto con l’autorità
giudiziaria modificano di volta in volta le loro generalità e posticipano la data di nascita.
Esercitano tutta la resistenza possibile, finalizzata ad abbreviare la permanenza in carcere
agendo comportamenti autodistruttivi (tagli alle braccia, scioperi della fame, ingestione di
liquidi che ledono i tessuti interni,…) ed eterodistruttivi (vandalismi nelle celle,
aggressioni, ribellioni di gruppo), rivolti al richiamo dell’autorità giudiziaria, per essere
convocati dal giudice, nel tentativo di accorciare i tempi della scarcerazione. Talvolta
negano il reato anche quando colti in flagranza, accusando le forze dell’ordine di errore,
di aver teso la trappola, di persecuzione.
La loro “durezza”, almeno apparente, si è forgiata in due esperienze precedenti.
Sono prevalentemente piccoli spacciatori, con una veloce carriera che li ha portati a
vendere prima hashish e poi eroina. Vengono considerati dall’organizzazione criminale
che li arruola assai più affidabili, per l’attività di smercio al dettaglio, dei
tossicodipendenti italiani. Più determinati, non avvolti dalla spirale della dipendenza, con
un gran bisogno di denaro per sé e per la propria famiglia, fanno meno errori e
garantiscono entrate sicure.
La scelta di arruolarsi come pusher può essere precedente all’arrivo in Italia (“Pensavo di
venire qui, spacciare per un anno, mettere da parte i soldi e tornare giù”), cullando
ingenui sogni imprenditoriali; oppure successiva, a seguito di un periodo di
emarginazione protratta quale clandestino per cui la scelta deviante rappresenta un
tentativo paradossale di inclusione e di “realizzazione comunque” delle proprie speranze
migratorie. Si entra in un’organizzazione, si fa parte di un gruppo, si esercita un ruolo,
non si dipende più da nessuno, si hanno dei soldi. Non sono grandi guadagni. Le
organizzazioni non lasciano spazi di autonomia. Oggi si è “salariati” del piccolo spaccio.
La paga è di Lire 1.200.000 al mese, spese escluse. Sono le loro cupole a lucrare.
Alcuni di loro, più problematici per storia personale, più sofferenti o maggiormente
sbandati, non resisteranno né alla curiosità della droga prima, né al forte richiamo della
sostanza dopo, e diverranno dipendenti. Allora, saranno scaricati dallo spaccio
organizzato e “ripiegheranno” su attività più rischiose quali i furti e le rapine ai
malcapitati.
Ciò che fa scuola, in Italia, è la cultura della sopravvivenza, la necessità di fare soldi, di
realizzare in un modo o nell’altro il proprio progetto migratorio. C’è fretta ed il modello
vincente è rappresentato dallo spaccio di sostanze stupefacenti. Si impone anche ai
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ragazzi più sprovveduti, consegnati dalle proprie famiglie in Marocco ad adulti che li
usano in Italia nelle attività di ambulantariato di strada. Ci si socializza in fretta, in Italia,
a questo modello: c’è una contaminazione veloce, nella vita di strada, tra storie diverse
che rischiano di portare ad un unico terminale.
Anche i ragazzi che vengono dalle campagne del Maghreb finiscono per apprendere
presto le nuove modalità di adattamento, i “trucchi del mestiere”, le regole implicite ed
esplicite dell’organizzazione a cui vengono affidati e le conseguenti nuove abitudini di
vita.
Coloro invece già in stato di emarginazione a Casablanca e nelle periferie delle grandi
città del Marocco, sono addestrati e più scaltri nell’arrangiarsi e nel sopravvivere.
L’”apprendistato” al porto, prima della partenza, costituisce un tirocinio lungo e
“formativo”.
Ciò che forgia è l’anticipazione del progetto migratorio, la sua “ruminazione” interiore,
l’obiettivo ossessivo che condiziona tutto lo stile di vita. C’è chi passa tutte le notti al
porto: sono gli aspiranti all’emigrazione, ragazzi e giovani tra i 15 e i 25 anni, i “boat
people” del Maghreb.
Le destinazioni sono più immaginarie e simboliche che reali. Non sanno bene a cosa
vanno incontro. Vivono in una situazione protratta di esaltazione, in preda al sogno
migratorio che annulla le distanze della geografia ed attenua i disagi quotidiani. Non si
ascolta nessuno, non si dà retta a nessuno. Dopo un’attesa che può durare anni e che
appare interminabile, c’è il giorno in cui va bene e partono in cinquanta. “Cosa farete se
riuscirete a partire?” “Sarò salvo.” Ed in Maghreb non si muore di fame. La droga, in
qualche modo c’è già, al di là delle sostanze di soccorso all’occorrenza: è la modalità con
cui viene vissuta l’attesa pregnante.
Nel frattempo, ci si aiuta col gruppo; nelle aggregazioni coesistono crisi di violenza e
gesti di lealtà, tradimenti e solidarietà. Il gruppo aiuta a gestire il tempo indispensabile
nell’attesa della seconda nascita.
Il dopo, per molti di loro, è noto: clandestinità ed emarginazione, clandestinità e
microdelinquenza, spaccio, consumo personale, incontro col penale e il carcere, ancora
spaccio ed ancora carcere. Per qualcuno la dipendenza.
La costruzione di un patto per l’inserimento nella legalità
L’incontro con il penale, prima col CPA, poi con l’IPM, costituisce un tardivo momento
di incontro con le istituzioni. Ciò significa che l’educativo di strada, i servizi a bassa
soglia, operatori di madre lingua e mediatori culturali non sono riusciti ad intercettare
prima i minori arrivati in Italia. Quando il contatto è più precoce, coi ragazzi ambulanti,
con parcheggiatori e lavavetri abusivi, con coloro che ancora non hanno maturato o
sperimentato a fondo una scelta delinquenziale, le istituzioni riescono a mostrare un volto
più amico, offrire opportunità: di percorsi di studio, di formazione e di lavoro ricorrendo
all’istituto delle tutele civili. La convenzione di New York, a cui l’Italia ha aderito,
prevede il diritto, per i minori, di poter restare, fino alla maggiore età, nel paese di
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emigrazione, anche se giunti clandestini. La difficoltà è materializzare tale diritto,
produrre le necessarie risorse economiche ed umane per costruire utili percorsi di
integrazione, per evitare che il ragazzo sia fagocitato dalla seduzione della criminalità e
per ridurre l’insicurezza delle città. Intercettare precocemente il rischio, investire nella
prevenzione, è scelta che qualifica le città più attente, che riescono a coniugare
l’interessamento per lo sviluppo dei minori, indipendentemente dalla loro provenienza,
con la lotta alla microcriminalità e all’arruolamento di facili e utili pedine da parte della
delinquenza organizzata. Con questi ragazzi la Città deve cercare di costruire un patto,
costituito da un utile e vicendevole offerta di opportunità e rispetto della legalità
Se non c’è ancora carriera microdelinquenziale ed incontro con il penale, non c’è
necessità in tal caso di arrivare ala definizione di un patto. Vicinanza relazionale, offerta
di opportunità, la predisposizione di una tutela civile che faccia da riferimento per il
percorso di integrazione, costituiscono in genere strumenti sufficienti per contrastare il
rischio. La città compie un investimento sui ragazzi stranieri immigrati, esercitando
un’attenzione educativa il cui beneficio sarà concretamente misurabile a distanza di
qualche anno in termini di inserimento sociale pieno, di diffusione di una consapevolezza
tra i giovani immigrati che è possibile la realizzazione del progetto migratorio nel rispetto
della legalità, di disponibilità di manodopera qualificata sul mercato del lavoro.
Quando invece si è già sperimentata l’immersione nel mondo dello spaccio, dei furti su
commissione, della ricettazione o dello sfruttamento della prostituzione, allorché è già
avvenuto il confronto con il penale, l’arresto in CPA o un periodo di custodia cautelare in
IPM, si rende necessario un vero e proprio percorso di riconoscimento reciproco tra
straniero ed istituzione giudiziaria, la rifondazione di una credibilità e la costruzione di
una fiducia da parte di entrami fino alla stipulazione di un patto in cui, in cambio di
ragionevoli opportunità offerte a sostegno di un reinserimento sociale nella realtà italiana
si rinunci a comportamenti illegali.
In questa situazione, non si tratta più di prevenire, ma di arrivare ad un accordo di
reciproca convenienza, di cessazione delle ostilità, per perseguire un risultato vantaggioso
per entrambe le parti. Ognuno deve rinunciare a qualcosa: la Magistratura
all’applicazione del principio di autorità, quantomeno nella sua declinazione autoritaria,
che richiede all’altro di adattarvisi, senza tenere conto delle difficoltà reali, e facendo
ricorso alla forza per superare le resistenze (e già si è detto dell’inefficacia complessiva di
tale approccio). Il minore straniero dovrà, per parte sua, rinunciare alle seduzioni dei
comportamenti illegali, alle illusioni dei guadagni facili, ad uno stile di vita a cui si è
abituato, spesso anche ad un ruolo sociale ed un’immagine di sé costruitasi man mano
con la conduzione di attività illecite.
Il primo passo, come sempre avviene nella logica educativa coi minori, dev’essere
compiuto dall’adulto, in questo caso dall’istituzione giudiziaria.
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E’ difficile venire incontro ad un ragazzo che rifiuta di farsi identificare, e dà
costantemente false generalità, poiché viene a mancare il presupposto per una mediazione
costruttiva: la fiducia che genera il riconoscimento.
Tuttavia, in queste situazioni, di “accanimento” difensivo, in cui i ragazzi stranieri
tentano disperatamente di proteggere quanto faticosamente “costruito” nel tempo (con
l’accumulo del denaro per la partenza, le fatiche del viaggio e il duro impatto con la
società italiana), l’acquisizione della reale identità è da considerarsi un punto di arrivo del
percorso di incontro, un esito del patto che piano piano si costruisce. La fase iniziale è la
più difficile: si tratta di raccogliere disponibilità, anche minime, per “sbloccare” una
situazione apparentemente senza via d’uscita, con obiettivi ridotti, non risolutivi né
definitivi, ma capaci di rimettere in movimento un rapporto che consenta
progressivamente un investimento reciproco di una parte sull’altra. Il patto quindi non è il
punto di partenza per una ridefinizione dei rapporti, ma già l’esito di un processo che ha
consentito di ridurre le difese, guadagnare credibilità e riporre un prima fiducia in un
rapporto che va ridefinendosi.
Gli strumenti per la costruzione di un patto
In ogni accordo, in ogni logica di mediazione educativa, nella negoziazione che si
conduce con i minori per fare accettare e condividere un progetto od un percorso di
cambiamento, sono necessari credibilità, fiducia, investimento affettivo, una relazione
autentica che tenga conto del principio di realtà e del limite, ma che sappia anche venire
incontro, assumersi il rischio dell’insuccesso, ed accettare una ragionevole percentuale di
fallimenti. Magistrati, operatori sociali del carcere, dell’USM e dei servizi sociali
territoriali concorrono tutti alla realizzazione della costruzione del patto. Al giudice
toccherà la formalizzazione; egli siglerà in un’atmosfera di maggiore solennità e col peso
della propria autorità le condizioni della “messa alla prova”. Ciò che è richiesto alle
diverse squadre di operatori è la condivisione strategica delle linee progettuali per il
reinserimento nella legalità, una congruenza di atteggiamenti e comportamenti senza la
quale non si può fare molta strada, perché verrebbe a mancare la determinazione comune
nel progetto che agli occhi del ragazzo significherebbe minor credibilità, minor garanzia,
minor fiducia, maggiore possibilità di trarre vantaggi di corto respiro e a “effetto
boomerang”, giocando sulle divisioni e con le manipolazioni. Già è difficile lavorare in
squadra, ma lavorare bene tra squadre diverse lo è ancora di più. Lo strumento della
formazione comune dovrebbe costituire un solido supporto per la comprensione delle
linee strategico-progettuali dell’intervento, per una corretta ed efficace divisione dei
compiti, per un coordinamento delle diverse azioni che ne determini e potenzi l’efficacia
complessiva.
A) Una comunità sperimentale per minori stranieri
La costruzione del patto comincia con un tempo per riflettere, per decidere. Ad oggi, tale
tempo, quando c’è. non è finalizzato, ma è puro tempo di attesa, vuoto ed inutile,
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unicamente trascorso aspettando passivamente la scadenza termini: è il tempo della
custodia cautelare in
IPM. Il tentativo è di riuscire a rendere tale tempo più produttivo, utilizzando lo
strumento della misura cautelare anziché della custodia (che oggi subentra al fallimento
della prima, come dimostra la maggioranza dei provvedimenti detentivi per gli stranieri
in IPM) ed affidando il minorenne ad una comunità per minori stranieri per la durata
della misura cautelare stessa, che è mediamente di 45-60 giorni, a seconda della tipologia
del reato commesso. Tale tempo in tale struttura dovrebbe consentire l’inizio di un
percorso in cui il minore, sostenuto da un congruo impegno di risorse educative ed a
stretto contatto con l’autorità giudiziaria, possa sperimentare l’opportunità di iniziare a
costruire un inserimento sociale nella realtà italiana nel pieno rispetto della legalità. La
scelta del percorso di comunità avviene in base ad un accordo tra minorenne e giudice,
caratterizzato da condizioni chiare e conseguenze certe. E’ preparato dal lavoro delle
assistenti sociali dell’USM e degli educatori dei Servizi Sociali del territorio nelle 96 ore
massime di arresto al CPA, in cui vengono fatti percepire tutti i vantaggi
dell’applicazione di tale misura rispetto alle altre soluzioni possibili. Tali vantaggi
vengono successivamente valorizzati da un incontro vis-a-vis col giudice stesso per
un’ulteriore rassicurazione sul significato del provvedimento che può, a sua volta,
facilitare un successivo programma di messa alla prova in grado di evitare la probabile
condanna. Il periodo successivo di messa alla prova può costituire l’inizio di un
inserimento legale nella società italiana che può concludersi, in caso di successo, col
rilascio del permesso di soggiorno.
Durante il periodo della misura cautelare in comunità vengono predisposte le risorse per
dare avvio ad una attività formativa e/o lavorativa esterna alla comunità. Le attività
includono un dignitoso riconoscimento economico dell’impegno, anche finalizzato al
creare i presupposti di una completa autonomia a percorso concluso. IL riscontro della
concretizzazione delle opportunità assume indubbia importanza agli occhi del minore
che conferisce maggiore credibilità al progetto.
Inizialmente la comunità rappresenta un ambiente totalmente nuovo, estraneo e vissuto
con diffidenza e ostilità, per le limitazioni poste alla libertà di movimento e per lo stile di
vita che richiede. Per venire progressivamente a capo degli inevitabili atteggiamenti di
chiusura difensiva o di sfida reiterata è necessario che nell’ambiente, nell’arredo, ma
soprattutto nelle modalità del personale educativo sia assente ogni richiamo alla vita
detentiva.
Il minore non è obbligato ad aderire alla proposta del percorso di comunità; può recedere
dalla scelta effettuata in un confronto con il giudice che gli sottoporrà le conseguenze
della rinuncia alla misura cautelare in comunità. Ciò deve avvenire già al momento della
scelta del percorso, con la descrizione netta delle alternative da parte del giudice.
S’impone successivamente, in caso di ricaduta nell’attività delinquenziale, una
congruenza istituzionale rispetto alle conseguenze delle decisioni prese: sia come
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sostituzione di misura cautelare, sia come esiti processuali. E’ essenziale che il minore
possa contare sulla certezza delle conseguenze, sia positive che negative, delle proprie
scelte.
La struttura residenziale si caratterizza ad esclusiva dimensione educativa. Compito degli
educatori è creare un clima di fiducia e di impegno, che consente un progressivo
coinvolgimento e un contestuale apprezzamento della scelta effettuata. Gli aspetti
affettivi e relazionali, la qualità dei rapporti, la capacità di valorizzazione delle risorse,
nonché di contenimento emotivo delle inevitabili crisi, debbono assumere priorità rispetto
a norme e regolamenti, pur necessari per la convivenza interna. Per questo motivo, la
comunità, sperimentale per soli maschi, deve poter operare con un numero ridotto di
minori, fino ad un massimo di otto, consentendo dinamiche relazionali più vicine al
modello familiare che non all’istituzione collegiale.
La comunità è intesa soprattutto come spazio abitativo e come casa con i necessari locali
per la vita in comune e per le attività ricreative anche all’aria aperta. Le attività
formative, di apprendistato, corsi di lingue, possibilità di coltivare interessi personali si
collocano soprattutto all’esterno in interazione con le risorse della città, in continuità e in
progressione tra il periodo più protetto della misura cautelare e il periodo successivo. Sta
al giudice, su proposta degli educatori, autorizzare, nelle differenti fasi dell’intervento, le
attività esterne accessibili durante la misura cautelare in comunità. La comunità potrà
sviluppare essa stessa iniziative al suo interno, con il contributo di disponibilità e
competenze operanti nel territorio, valorizzando il protagonismo dei minori.
A seconda delle situazioni individuali e soprattutto in una fase iniziale, i ragazzi vengono
accompagnati nelle attività esterne, al fine di evitare le possibili interferenze con
l’ambiente malavitoso di riferimento e disincentivare le tentazioni di allontanamento
dovute a ricorrenti e repentini momenti di sconforto che possono portare il minore ad
abbandonare il progetto.
E’ necessario che il personale di riferimento in comunità sia costituito, al 50% da
operatori etnici, in compresenza con educatori italiani. Per i ragazzi che oggi approdano
all’IPM, spesso già recidivi, si ritiene essenziale il duplice riferimento. Entrambe le
componenti agiscono a sostegno delle possibili dinamiche identificatorie, sia in
riferimento alle radici culturali, alle nome interiorizzate e ai legami parentali col paese
d’origine, sia rispetto alle aspettative nutrite nei confronti del mondo occidentale, che
possono alimentare e spingere non verso una integrazione, ma ad una contrapposizione di
modelli. Per consentire un’indispensabile individualizzazione dei rapporti personali, lo
staff educativo non può essere in numero inferiore a quello dei ragazzi, con l’integrazione
del volontariato qualificato, sia italiano che etnico a supporto delle varie iniziative che la
comunità può intraprendere in particolare per il tempo libero.
La comunità si avvale di uno stretto raccordo tra il lavoro con il singolo e il lavoro con il
gruppo, in una sapiente alternanza tra attività interne e attività esterne.
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L’individualizzazione del programma esterno che viene realizzato nell’ambito territoriale
per ciascun minore è sostenuto da un lavoro di elaborazione personale all’interno della
comunità. La riflessione è facilitata dal confronto tra pari che si misurano sulle difficoltà
comuni incontrate nei diversi percorsi esterni. Insieme si conduce un lavoro di gruppo,
ma al tempo stesso, si è anche gruppo di lavoro allorché, collettivamente, vengono
autogestite molte funzioni della vita di comunità, dalla preparazione dei pasti alla pulizia
dei locali alla lavanderia-stireria.
L’accompagnamento educativo intensivo costituisce il principale strumento di
contenimento e di controllo preventivo rispetto al rischio di abbandono della struttura.
Altri accorgimenti possono contribuire a disincentivare l’allontanamento dalla comunità:
la localizzazione della stessa, la tipologia dell’edificio, i vetri antisfondamento alle
finestre, il controllo dell’ingresso, una qualche forma di controllo perimetrale,
l’affiancamento nelle attività esterne, il rafforzamento delle presenze notturne. Tutto ciò
dovrebbe rendere più disagevole l’uscita non autorizzata, tesa a eludere il confronto con
gli operatori e l’autorità giudiziaria, e disincentivare tentativi di contatto da parte
dell’ambiente esterno non desiderato. La comunità non è che l’avvio e l’inizio di un
percorso. E’ forse il momento più delicato ed a rischio di fallimento, in quanto propone
un impatto con un ambiente totalmente rivoluzionato rispetto al precedente in cui sono
state modellate abitudini e stili di vita. Come momento maggiormente contenitivo non
può superare il tempo della misura cautelare, dando successivamente luogo ad un
proseguimento del percorso.
B) Il proseguimento del percorso: strumenti giudiziari e sociali
Il proseguimento del percorso avviene in strutture ancora guidate ma più agili e snelle
della comunità, in grado di lasciare maggior spazio alle libertà, all’autonomia ed
all’iniziativa del minore che, sperimentandosi in una nuova modalità di socializzazione
personale nella legalità, deve poter condurre esperienze in proprio sul territorio, non solo
lavorative e non sempre controllate. Il percorso prosegue quindi con un
accompagnamento più leggero anche se debitamente sostenuto da un riferimento
educativo e dalla puntualità delle verifiche.
La garanzia di dare continuità al progetto iniziato con la misura cautelare nella comunità
sperimentale e di rispettare il patto da parte delle Istituzioni significa che
l’amministrazione locale deve farsi carico, dopo la cessazione della custodia cautelare,
della disponibilità di posti in alloggi o strutture intermedie, quali luoghi di convivenza
guidata da personale educativo, come anche del sostegno all’integrazione sociale e
lavorativa (borse lavoro e non solo). In assenza, nell’insufficienza e nel mancato raccordo
temporale nell’accesso a tali risorse, il percorso, pur iniziato con successo nella comunità
sperimentale, è destinato al fallimento. L’adolescente straniero vi leggerà il mancato
rispetto del patto da parte dell’istituzione e non sarà in grado di tollerare il venire meno
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delle promesse né tantomeno comprenderà la logica delle lungaggini burocratiche ed i
tempi delle collaborazioni interistituzionali.
Allo stesso modo si rischia di andare incontro a fallimenti se l’unica risorsa attivata e
disponibile, a seguito del periodo in misura cautelare, fosse un’altra comunità
residenziale.
Per evitare questo tipo di inciampi sui quali rischiano di naufragare tutti gli sforzi
condotti, si rende necessaria una programmazione delle risorse territoriali contestuali al
numero di inserimenti annui nella comunità sperimentale per la misura cautelare: otto
minori ogni due mesi significa 48 ragazzi da gestire, per almeno un anno, sia sotto il
profilo abitativo, lavorativo, che del necessario supporto educativo, prima che il progetto
possa offrire riscontri sul piano del raggiungimento dell’autosufficienza e del rispetto
della legalità.
Per quanto riguarda gli strumenti giuridici, oltre alla misura cautelare, che ad oggi
costituisce per i minori stranieri di prima immigrazione l’unico momento di contatto
prolungato che consente un accompagnamento educativo e l’unica occasione per tentare
di costruire un percorso di emersione nella legalità, un successivo istituto da utilizzare più
ampiamente, anche per i minori stranieri è la “messa alla prova”.
In genere, il minorenne straniero arrestato e posto in custodia cautelare esce in scadenza
termini senza più comparire al processo che avviene in contumacia e si conclude con una
condanna inefficace, vanificando qualsiasi opportunità di reinserimento sociale.
Risulta pertanto indispensabile un raccordo tra tempi processuali e percorsi attuabili a
seguito della misura cautelare nella comunità sperimentale. A tale scopo, la
predisposizione di progetti di messa alla prova consente di inserire pienamente nel
procedimento penale il patto proposto al minore, dando così continuità e rendendo utile ai
fini del processo la misura cautelare. Per stare nei tempi brevi della misura cautelare, la
messa alla prova dovrebbe essere disposta all’udienza preliminare, che andrebbe
anticipata rispetto alla scadenza termini della misura cautelare. Ciò è possibile per le
scarsissime esigenze probatorie che caratterizzano i procedimenti penali che traggono
origine, nella grande maggioranza dei minori stranieri, da arresti in flagranza di reato.
L’ostacolo a questa soluzione, per garantire la continuità del percorso educativo è
rappresentato dalla eventualità che il minore neghi la sua responsabilità rispetto al reato,
il che comporterebbe l’impossibilità di giungere al dibattimento prima della scadenza
termini della misura cautelare. L’altra via percorribile è offerta dalla richiesta di giudizio
immediato per i recidivi. Esso potrebbe costituire la seconda modalità con cui giungere,
in via dibattimentale, all’attuazione di un percorso di messa alla prova, all’unica
condizione che il minore accetti. Il vantaggio di tale soluzione è che si giunge, in tempi
brevi, a dare al minore una risposta che non si caratterizza per l’assenza totale di
contenuto, come avviene nel corso di pena detentiva condizionalmente sospesa o di
concessione del perdono giudiziale.
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Un terzo strumento giuridico indispensabile per la realizzazione del patto è il rilascio del
permesso di soggiorno. La condanna penale, contenuta nei limiti del periodo già trascorso
in custodia cautelare (oppure in misura cautelare in comunità), può consentire la
concessione di un permesso di soggiorno per ragioni di protezione sociale ai sensi
dell’art.18 comma VI, T. U. sull’immigrazione. Le proposte formulate durante la misura
cautelare, che costituiscono il patto che si vuole realizzare col minore, potrebbero
opportunamente costituire la “prova concreta di partecipazione a un programma di
assistenza e integrazione sociale” ai sensi dell’art.18, comma VI. Questo percorso appare
molto utile perché consente, ai sensi dell’art.18, comma V, il mantenimento del permesso
di soggiorno al compimento della maggiore età, e addirittura la sua concessione anche da
maggiorenni, purché il reato sia stato commesso da minorenne. Infine, il permesso di
soggiorno ai sensi dell’art.18 può trasformarsi in permesso di soggiorno per ragioni di
studio o lavoro.
Conclusioni
La città di Torino deve confrontarsi oggi con circa 100.200 minori stranieri allo sbando,
già noti all’autorità giudiziaria, con i quali le risposte sino ad oggi attuate sono risultate
inefficaci. Gli strumenti utilizzati sono stati anonimi e burocratici: non hanno consentito
né riconoscimento reciproco, né dialogo.
Mancando di una logica progettuale, le varie risposte, istituzionali e penali sono inficiate
da frammentazione e disarticolazione, che non solo non consentono di produrre efficacia
alcuna, ma non vengono nemmeno capite.
Dall’ANNUARIO SOCIALE: tabelle pp. 256\257, 260\261
Allegato: Le convenzioni internazionali
Norme internazionali relative ai minori detenuti
Create nel 1945, le Nazioni Unite hanno concretizzato molto in fretta il proprio
impegno per la protezione dei diritti dell’uomo con l’adozione, sin dal 1948, della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Questo testo, assieme al Patto
internazionale inerente ai diritti civili e politici, costituisce la base giuridica
delle garanzie contro la tortura e la detenzione arbitraria. Essi affermano
peraltro il diritto a un processo equo e alla presunta innocenza.
Altri testi dell’Onu contengono disposizioni relative ai diritti delle persone
prive di libertà. Una trentina di strumenti giuridici internazionali vi fanno
esplicito riferimento.
Inoltre la protezione dei diritti dell’uomo, e in particolare di quelli delle
persone detenute, viene presa in considerazione da organismi regionali quali il
Consiglio
dell’Europa,
l’Organizzazione
degli
Stati
americani
oppure
l’Organizzazione dell’Unità Africana.
Se tutti questi strumenti hanno lo scopo di promuovere la dignità della persona
umana, non mettono tuttavia in opera gli stessi mezzi per riuscirvi e non hanno
neppure la stessa forza giuridica rispetto agli Stati firmatari. Soltanto i testi a
carattere impegnativo obbligano gli Stati ad una stretta applicazione. Peraltro i
testi rigidi sono il frutto di un impegno politico ma non giuridico.
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Spesso le organizzazioni internazionali danno il quadro generale di un testo che le
istituzioni regionali rendono preciso e impegnativo. Gli strumenti con portata
universale elaborati nell’ambito delle Nazioni Unite vengono qui presentati
separatamente da quelli con portata regionale.
REGOLE MINIME INERENTI ALL’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA PER I MINORI: REGOLE DI BEIJING
(Onu, 1985) testo adottato dall’Assemblea generale nella risoluzione 40/33 del 29
novembre 1985.
Principi generali
I. Prospettive fondamentali
I.1. Gli Stati membri si adoperano, conformemente ai loro interessi generali, a
difendere il benessere del minore e della sua famiglia.
I.2. Gli Stati membri si sforzano di creare condizioni che garantiscono al minore
una vita utile nella comunità, che possa incoraggiare in lui, nel momento della sua
vita in cui è maggiormente esposto a un comportamento deviante, un processo di
crescita personale e di educazione che sia il più lontano possibile da ogni
contatto con criminalità e delinquenza.
I.3. Occorre cercare di adottare misure positive che garantiscono la completa
mobilitazione di tutte le risorse esistenti, in particolare la famiglia, i
volontari e altri gruppi comunitari, nonché le scuole e altre istituzioni della
comunità, allo scopo di promuovere il benessere del minore e quindi ridurre il
bisogno di intervento della legge, e di trattare in modo efficace, equo e umano
l’interessato in conflitto con la legge.
I.4. La giustizia per i minori è parte integrante del processo di sviluppo
nazionale di ogni paese, nel generale ambito della giustizia sociale per tutti i
giovani, e contribuisce quindi sia alla protezione dei giovani sia al mantenimento
della pace e dell’ordine nella società.
I.5. Le modalità di applicazione del qui presente Insieme di regole dipendono dalle
condizioni economiche, sociali e culturali che esistono in ogni Stato membro.
I.6. I servizi della giustizia per i minori vanno sistematicamente sviluppati e
coordinati allo scopo di migliorare e perfezionare la competenza del personale di
questi servizi, in particolare i suoi metodi di approccio e il suo atteggiamento.
II. Ambito di applicazione dell’Insieme delle regole e delle definizioni usate
II.1. L’insieme delle regole minime che segue si applica in modo imparziale ai
delinquenti giovanili, senza alcuna distinzione, in particolare di razza, di
colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra, di origine
nazionale o sociale, di fortuna, di nascita o altra situazione.
II.2. Allo scopo del presente Insieme di regole, ogni Stato membro applica le
definizioni che seguono in modo compatibile con il proprio sistema e i suoi
concetti giuridici:
a ) Un minore è un giovane o un bambino che, riguardo al sistema giuridico in
questione, può dover rispondere di un delitto secondo modalità diverse da quelle
che vengono applicate nel caso di un adulto.
b) Un delitto indica qualsiasi comportamento (atto o omissione) punibile per legge
in virtù del sistema giuridico considerato;
c) Un delinquente giovanile è un bambino o un giovane accusato o dichiarato
colpevole di aver commesso un delitto.
II.3. Ci si sforzerà di stabilire in ogni paese una serie di leggi, regole e
disposizioni espressamente applicabili ai delinquenti giovanili, e una serie di
istituzioni e organismi incaricati dell’amministrazione della giustizia per i
minori e destinati a:
a) rispondere ai bisogni tipici dei delinquenti giovanili, proteggendone i diritti
fondamentali;
b) rispondere ai bisogni della società;
c) applicare effettivamente e in modo equo l’Insieme delle regole che segue.
III. Estensione delle regole
III.1 Le disposizioni relative al presente Insieme di regole verranno applicate non
solo ai giovani delinquenti ma anche ai minori contro i quali potrebbero essere
intentate azioni giudiziarie per qualsiasi comportamento che non fosse punibile se
commesso da un adulto.
III.2 Ci si sforzerà di estendere i principi del qui presente Insieme di regole a
tutti i minori per i quali si applicano misure di protezione e di aiuto sociale.
III.3. Si ci sforzerà anche di estendere ai giovani adulti delinquenti i principi
del qui presente Insieme di regole.
22
IV. Età della responsabilità penale
IV.1
Nei
sistemi
giuridici
che
riconoscono
la
nozione
responsabilità penale, questa non va fissata troppo presto
problemi di maturità affettiva, psicologica e intellettuale.
di
soglia
della
tenendo conto dei
V. Obiettivi della giustizia per i minori
V.1. Il sistema della giustizia per i minori ricerca il benessere del minore e fa
in modo che le reazioni di fronte ai giovani delinquenti siano sempre proporzionate
alle caratteristiche specifiche dei delinquenti e dei delitti.
VI. Portata del potere discrezionale
VI.1. Tenendo conto dei bisogni particolari e vari dei minori e della diversità
delle misure possibili, va previsto un sufficiente potere di discrezionalità ai
vari livelli della procedura e dell’amministrazione della giustizia per i minori,
in particolare durante l’istruttoria, l’azione legale, il giudizio e l’applicazione
delle misure decise.
VI.2 Ci si sforzerà tuttavia di garantire, a ogni tappa e livello, il responsabile
esercizio di questo potere discrezionale.
VI.3 Le persone che lo esercitano dovranno essere particolarmente qualificate o
formate per farne un uso giudizioso e in conformità con i rispettivi mandati e
funzioni.
VII. Diritti dei minori
VII.1 Vanno rispettate ad ogni livello della procedura, le fondamentali garanzie
quali la presunta innocenza, il diritto a essere informati dei carichi, il diritto
a mantenere il silenzio, il diritto all’assistenza di un consigliere, il diritto
alla presenza di un genitore o tutore, il diritto di interrogare e di confrontare i
testimoni e il diritto a un doppio grado di giurisdizione .
VIII. Protezione della vita privata
VIII.1 II diritto del minore alla protezione della sua vita privata va rispettato a
ogni livello, allo scopo di non causargli torto attraverso una inutile pubblicità e
attraverso la qualifica penale.
VIII.2 In via di principio nessuna informazione che possa condurre a identificare
il delinquente giovanile va pubblicata.
IX. Clausola di salvaguardia
IX.1 Nessuna disposizione del qui presente Insieme di regole va interpretata come
un’esclusione dell’applicazione dell’Insieme di regole minime per il trattamento
dei detenuti, adottato dall’Onu, e di altri strumenti e regole inerenti ai diritti
dell’uomo, riconosciuti dalla comunità internazionale e inerenti al trattamento e
alla protezione dei giovani.
Istruttoria e azioni legali
X. Primo contatto
X.1 Quando un minore viene fermato, i suo genitori o il tutore vengono
immediatamente informati o, se questo non è possibile, nel più breve tempo
possibile.
X.2 Il giudice o qualsiasi altro funzionario competente esamina senza indugio la
questione della liberazione.
X.3 I contatti tra i servizi di repressione e il giovane delinquente vengono
stabiliti in modo da rispettare lo status giuridico del minore, da privilegiare il
suo benessere e da evitare di nuocergli, tenuto debitamente in conto le circostanze
dell’accaduto.
XI. Ricorso a mezzi extragiudiziari
XI.1 Ci si sforzerà il più possibile di affrontare il caso dei delinquenti
giovanili evitando il ricorso a una procedura giudiziaria di fronte all’autorità
competente menzionata nel seguente articolo XIV.1.
XI.2 La polizia, la procura della Repubblica e gli altri servizi incaricati della
delinquenza giovanile hanno il potere di chiudere questi casi a loro discrezione,
senza applicare la procedura penale ufficiale, in conformità con i criteri fissati
a questo scopo nei loro rispettivi sistemi giuridici e anche con i principi
contenuti nel qui presente Insieme di regole.
XI.3 Ogni ricorso a mezzi extragiudiziari che implichino il rinvio ai servizi
comunitari o ad altri servizi competenti, esige il consenso dell’interessato o dei
suoi genitori o del suo tutore, inteso che questa decisione di rimandare il caso
23
possa, se ne viene fatta la richiesta, essere subordinata a un riesame da parte di
una autorità competente.
XI.4 Allo scopo di facilitare la chiusura discrezionale dei casi di delinquenti
giovanili, ci si sforzerà di organizzare programmi comunitari, in particolare di
sorveglianza e di orientamento temporaneo, e di garantire la restituzione dei beni
e l’indennizzo delle vittime
XII. Specializzazione all’interno dei servizi di polizia
XII.1 Per svolgere al meglio le proprie
hanno frequentemente o esclusivamente a
essenzialmente alla prevenzione della
un’istruzione e una formazione speciali.
polizia andrebbero creati a questo scopo.
funzioni, gli ufficiali di polizia che
che fare con minori o che si dedicano
delinquenza giovanile devono ricevere
Nelle grandi città, servizi speciali di
XIII. Detenzione preventiva
XIII.1 La detenzione preventiva può essere soltanto una misura in ultima istanza e
la durata va il più possibile abbreviata.
XIII.2 Per quanto possibile, la detenzione preventiva va sostituita con altre
misure, quali la stretta sorveglianza, un aiuto molto attento o la sistemazione in
famiglia o in istituto o comunità educativa.
XIII.3 I minori in carcere preventivo devono usufruire di tutti i diritti e
garanzie previsti dall’Insieme di regole minime per il trattamento dei detenuti,
adottato dall’Onu.
XIII.4 I minori in carcere preventivo vanno separati dagli adulti e detenuti in
istituti diversi o in una parte distinta di un istituto che ospita anche adulti.
XIII.5 Durante la detenzione preventiva, i minori devono ricevere le cure, la
protezione e tutta l’assistenza individuale – sul piano sociale, educativo,
professionale, psicologico, medico e fisico – di cui possono avere bisogno tenuto
conto della loro età, sesso e personalità.
Giudizio e chiusura dei casi
XIV. Autorità competente per giudicare
XIV.1 Se il caso di un giovane delinquente non è stato oggetto di una procedura
extragiudiziaria (prevista all’art. XI), viene esaminato dall’autorità competente
(corte, tribunale, commissione, consiglio, ecc.), in conformità ai principi di un
processo giusto ed equo.
XIV.2 La procedura seguita deve tendere a proteggere al meglio gli interessi del
giovane delinquente e si svolgerà in un clima di comprensione che permetta a questi
di parteciparvi e di esprimersi liberamente.
XV. Assistenza di un consigliere, di genitori e tutori
XV.1 Per tutto il tempo della procedura il minore ha il diritto ad essere
rappresentato da un suo consigliere o a chiedere la nomina di un avvocato
d’ufficio, quando nel paese esistono disposizioni che prevedono una simile
assistenza.
XV.2 I genitori o il tutore possono partecipare alla procedura e possono essere
pregati di farlo, nell’interesse del minore, dall’autorità competente. Questa può
tuttavia vietare loro di partecipare se ha ragioni per supporre che questa
esclusione sia necessaria nell’interesse del minore.
XVI. Relazioni di inchieste sociali
XVI.1 In tutti i casi, tranne per le piccole infrazioni, prima che l’autorità
competente giunga a una decisione definitiva preliminare alla condanna, i
precedenti del minore, le condizioni nelle quali vive e le circostanze nelle quali
è stato commesso il delitto sono l’oggetto di un’inchiesta approfondita in modo da
facilitare il giudizio del caso da parte dell’autorità competente.
XVII. principi che stanno alla base del giudizio e della decisione
XVII.1 La decisione dell’autorità competente deve ispirarsi ai seguenti principi:
a) La decisione va sempre proporzionata non solo alle circostanze e alla gravità
del delitto, ma anche alle circostanze e ai bisogni del delinquente, nonché ai
bisogni della società;
b) Vengono adottate restrizioni alla libertà personale del minore – limitandole al
minimo – solo dopo un minuzioso esame;
c) La privazione della libertà individuale viene inflitta solo se il minore è
giudicato colpevole di un delitto compiuto a un’altra persona, o per recidiva, e se
non vi sia altra soluzione che convenga;
24
d) Il benessere del minore deve essere il criterio determinante nell’esame del suo
caso.
XVII.2 La pena capitale non è applicabile ai delitti commessi dai minori.
XVII.3 I minori non vengono sottoposti a pene corporali.
XVII.4 L’autorità competente ha il potere di interrompere la procedura in ogni
momento.
XVIII. Disposizioni del giudizio
XVIII.1 L’autorità competente può garantire l’esecuzione del giudizio sotto forme
molto diverse, con grande duttilità allo scopo di evitare, per quanto possibile, la
sistemazione in istituto. Simili misure, che si possono combinare fra loro, sono
qui sotto elencate:
a) Ordinare un aiuto, un orientamento e una sorveglianza;
b) Sospensione provvisoria e condizionale della condanna;
c) Ordinare l’intervento dei servizi comunitari;
d)Ammende,indennizzo e restituzione;
e) Ordinare un regime intermedio o altro;
f) Ordinare la partecipazione a riunioni di gruppo di orientamento o altre
attività analoghe;
g) Ordinare la sistemazione in una famiglia o in un centro comunitario o altro
ambiente educativo;
h) Altre decisioni pertinenti.
XVIII.2 Nessun minore verrà sottratto alla sorveglianza dei genitori, sia in modo
parziale sia in modo totale, a meno che le circostanze rendano necessaria questa
separazione.
XIX. Ricorso minimo alla sistemazione in istituto
XIX.1 La sistemazione di un minore in istituto è sempre
istanza e la sua durata deve essere il più breve possibile.
una
misura
di
ultima
XX. Evitare i temporeggiamenti inutili
XX.1 Ogni caso va, sin dall’inizio, trattato rapidamente, senza ritardi evitabili.
XXI. Archivi
XX.1 Gli archivi riguardanti i giovani delinquenti vanno considerati strettamente
confidenziali e non possono essere comunicati a terzi. L’accesso a questi archivi è
limitato alle persone direttamente implicate nel giudizio del caso in corso o alle
persone debitamente autorizzate.
XXI.2 Non potranno essere menzionati i precedenti di un giovane delinquente in
azioni legali ulteriori contro adulti, che coinvolgono lo stesso delinquente.
XXII. Competenze professionali e formazione
XXII.1 La formazione professionale, la formazione permanente, la riqualificazione e
altri tipi idonei di insegnamento serviranno a dare e a mantenere la competenza
professionale necessaria per tutti coloro che sono incaricati dei casi riguardanti
i minori.
XX.2 Il personale della giustizia deve riflettere la diversità dei giovani che
entrano in contatto con il sistema giudiziario per i minori. Ci si sforzerà di
garantire una equa rappresentazione delle donne sposate e delle minoranze negli
organi della giustizia per i minori.
Trattamento in ambiente aperto
XXIII. Mezzi esecutori del giudizio
XXIII.1 Allo scopo di garantire l’esecuzione delle decisioni dell’autorità
competente, indicata nel suddetto art. XIV.1, l’autorità stessa o un’altra
autorità, a seconda del caso, prenderà le misure che si impongono.
XXIII.2 A questo titolo l’autorità può, se lo giudica necessario, modificare le
decisioni, se questa modifica è conforme ai principi che figurano nel qui presente
Insieme di regole.
XXIV. Assistenza ai minori
XXIV.1 Ci si sforzerà di garantire ai minori, in tutte le tappe della procedura,
un’assistenza per quanto riguarda l’alloggio, l’educazione e la formazione
professionale, il lavoro o altra forma di aiuto utile e pratico, allo scopo di
favorirne il reinserimento.
XXV. Mobilitazione di volontari e altri servizi comunitari
25
XXV.1 Verrà chiesto a volontari, organizzazioni di volontariato, istituzioni locali
e altri servizi comunitari di contribuire efficacemente al reinserimento del minore
in un ambito comunitario e, per quanto possibile, all’interno della cellula
famigliare.
Trattamento in istituto
XXVI. Obiettivi del trattamento in istituto
XXVI.1 La formazione e il trattamento dei minori sistemati in istituto hanno come
obiettivo di garantire loro assistenza, protezione, educazione e competenze
professionali, allo scopo di aiutarli ad avere un ruolo costruttivo e produttivo nella
società.
XXVI.2 I giovani sistemati in istituto riceveranno l’aiuto, la protezione e
l’assistenza – sul piano sociale, educativo, professionale, psicologico, medico e
fisico – che può essere loro necessario tenuto conto della loro età, sesso e
personalità e nell’interesse di uno sviluppo armonico.
XXVI.3 I minori sistemati in istituto vanno separati dagli adulti e detenuti in un
edificio distinto o in una parte distinta dell’edificio che ospita anche adulti.
XXVI.4 Le giovani delinquenti sistemate in un istituto devono usufruire di una
speciale attenzione per quanto riguarda i loro specifici bisogni e problemi.
Comunque sia, l’aiuto, la protezione, l’assistenza, il trattamento e la formazione
di cui usufruiscono non devono essere inferiori a quelli destinati ai giovani
delinquenti. Un equo trattamento va loro garantito.
XXVI.5 I genitori o il tutore del minore sistemato in istituto hanno diritto di
visita nel suo interesse e per il suo benessere.
XXVI.6 Verrà privilegiata la cooperazione tra i ministeri e i servizi allo scopo di
garantire una formazione scolastica o, se necessaria, professionale adeguata ai
minori sistemati in istituto, affinché non siano svantaggiati negli studi lasciando
l’istituzione.
XVII. Applicazione dell’Insieme di regole minime per il trattamento dei detenuti, adottato dall’Onu.
XXVII.1 L’Insieme di regole minime per il trattamento dei detenuti e le
raccomandazioni inerenti sono applicabili nella misura in cui riguardano il
trattamento di giovani delinquenti sistemati in istituto, compresi quelli che si
trovano in carcere preventivo.
XXVII.2 Verrà fatto tutto il possibile per mettere in opera i principi pertinenti
enunciati nell’Insieme di regole minime per il trattamento dei detenuti allo scopo
di rispondere ai vari bisogni dei minori, tipici della loro età, sesso e
personalità.
XXVIII. Applicazione frequente e rapida del regime di liberazione condizionale
XXVIII.1 L’autorità appropriata ricorrerà alla liberazione condizionale il più
spesso e il più presto possibile.
XXVIII.2 I minori posti sotto il regime della liberazione condizionale verranno
assistiti e seguiti da un’autorità idonea e riceveranno il sostegno totale della
comunità.
XXIX. Regimi di semidetenzione
XXIX.1 Ci si sforzerà di creare regimi di semidetenzione, in particolare in
istituti quali i centri intermedi di accoglienza, le comunità socio-educative, i
centri diurni di formazione professionale e altri istituti idonei e in grado di
favorire il reinserimento sociale dei minori.
Ricerca, pianificazione, elaborazione di politiche e valutazione
XXX. La ricerca, la pianificazione, l’elaborazione di politiche e la valutazione
XXX.1 Ci si sforzerà di organizzare e promuovere la ricerca necessaria
all’elaborazione efficace di piani e politiche.
XXX.2 Ci si sforzerà di rianalizzare e valutare periodicamente le tendenze, i
problemi, le cause della delinquenza e della criminalità giovanili, nonché i vari
bisogni tipici dei minori incarcerati.
XXX.3 Ci si sforzerà di integrare un dispositivo permanente di ricerca e di
valutazione nel sistema amministrativo della giustizia per i minori, nonché di
raccogliere e analizzare i dati e le informazioni pertinenti necessarie a una
valutazione
appropriata,
al
futuro
miglioramento
e
alla
riforma
dell’amministrazione.
26
XXX.4 Nell’amministrazione della giustizia per i minori, la prestazione di servizio
va sistematicamente pianificata e messa in opera ed è parte integrante dello sforzo
di sviluppo nazionale.
PRINCIPI BASE PER LA PREVENZIONE DELLA DELINQUENZA GIOVANILE:
PRINCIPI BASE DI RIYADH
(Onu, 1990), adottati e proclamati dall’Assemblea generale nella risoluzione 45/112
del 14 dicembre 1990
I. Principi fondamentali
1. La prevenzione della delinquenza giovanile è un elemento essenziale della
prevenzione del crimine. Dedicandosi ad attività leciti e utili alla società e
ponendosi nei riguardi di quest’ultima e della vita in una prospettiva umanista, i
giovani possono acquisire una mentalità non criminogena.
2. Affinché la prevenzione della delinquenza giovanile sia produttiva, occorre che
la società nel suo complesso garantisca lo sviluppo armonico degli adolescenti
rispettandone la personalità e favorendo sin dalla tenera infanzia la crescita dei
giovani .
3. Per interpretare questi principi base, converrebbe adottare un orientamento
centrato sul bambino. I giovani dovrebbero avere un ruolo attivo di partner nella
società e non essere considerati semplici oggetti di misure di socializzazione o di
controllo.
4. Per la messa in opera di questi principi base ogni programma di prevenzione
dovrebbe, in conformità con i sistemi giuridici nazionali, vertere sul benessere
dei giovani sin dalla piccola infanzia.
5. Occorrerebbe riconoscere la necessità e l’importanza di adottare politiche nuove
di prevenzione della delinquenza, nonché di studiare sistematicamente e di
elaborare misure che evitino di criminalizzare e di penalizzare un comportamento
che non causi gravi danni all’evoluzione del bambino e non rechi pregiudizio ad
altri. Queste politiche e misure dovrebbero comportare i seguenti elementi:
a) Disposizioni, in particolare in campo educativo, che permettano di far fronte
ai vari bisogni dei giovani e di costituire un quadro di sostegno che garantisca lo
sviluppo personale di tutti i giovani e, in modo particolare, di quelli che sono
evidentemente “in pericolo” o in stato di “rischio sociale” e hanno bisogno di
un’attenzione e di una protezione speciale;
b) Adozione di concetti e metodi particolarmente atti alla prevenzione della
delinquenza giovanile e concretizzati da testi di legge, processi, istituzioni,
attrezzature e una rete di servizi che mirino a ridurre la motivazione, il bisogno
e le occasioni di commettere infrazioni e a eliminare le condizioni per un simile
comportamento;
c) Intervento ufficiale che abbia quale principale scopo l’interesse generale del
minore e che si ispiri alla giustizia e all’equità;
d) Protezione del benessere, dello sviluppo, dei diritti e degli interessi di
tutti i giovani;
e) Coscienza che il comportamento o la condotta di un giovane, che non è conforme
alle norme e ai valori sociali generali, dipende spesso dal processo di maturazione
e di crescita e tende a scomparire spontaneamente nella maggior parte degli
individui con il passaggio all’età adulta;
f) Coscienza che, secondo l’opinione dominante degli esperti, dire di un giovane
che è “deviante”, “delinquente” o “pre-delinquente” contribuisce spesso da parte di
quest’ultimo allo sviluppo di un comportamento sistematicamente negativo.
6. Converebbe mettere a punto servizi e programmi comunitari di prevenzione della
delinquenza giovanile, soprattutto nei casi in cui non è ancora stato stabilito
nessun servizio di tipo classico e ricorrere ai servizi classici di controllo
sociale soltanto in ultima istanza.
II. Portata dei principi base
1. Questi principi base verranno interpretati e applicati nell’ambito del quadro
generale
della
Dichiarazione
universale
dei
diritti
dell’Uomo,
del
Patto
internazionale inerente ai diritti economici, sociali e culturali, del Patto
internazionale inerente ai diritti civili e politici, della Dichiarazione dei
diritti del bambino e nell’ambito dell’Insieme di regole minime dell’Onu circa
l’amministrazione della giustizia per i minori (Regole di Beijing), nonché di
altri strumenti e norme riguardanti i diritti, interessi e benessere di tutti i
bambini e di tutti i giovani.
27
8. Questi principi base verranno applicati nel contesto della situazione economica,
sociale e culturale propria a ogni Stato membro.
III. Prevenzione generale
9. Occorre istituire a ogni livello dell’amministrazione pubblica piani completi di
prevenzione che prevedano in particolare:
a) Approfondite analisi del problema e un inventario dei programmi, servizi,
attrezzature e risorse esistenti;
b) L’attribuzione di responsabilità chiaramente definite agli organismi e alle
istituzioni impegnati in azioni di prevenzione, nonché al personale impiegato;
c) L’esistenza di meccanismi di coordinamento delle azioni di prevenzione tra enti
governativi e non governativi;
d) La definizione di politiche, programmi e strategie fondati su analisi
pronostiche, da seguire in modo sostenuto e da valutare accuratamente durante la
loro applicazione;
e) L’adozione di metodi che permettano di ridurre efficacemente le possibilità di
commettere atti delittuosi;
f) La partecipazione della collettività grazie a un’ampia gamma di servizi e
programmi;
g) Una stretta cooperazione interdisciplinare tra potere centrale, poteri
intermedi (regioni, Stato, province) e poteri locali, che chiami in causa il
settore privato, i notabili della comunità interessata e organismi responsabili
delle questioni di lavoro, della cura dei bambini, dell’educazione sanitaria,
della protezione sociale e dell’applicazione delle leggi, nonchè istituzioni
giuridiche, affinché vengano svolte azioni concertate di prevenzione della
delinquenza giovanile;
h) La partecipazione dei giovani alle politiche e al processo di prevenzione della
delinquenza, coinvolgendo in particolare le risorse della comunità, l’assistenza
tra giovani e programmi di indennizzo e assistenza a favore delle vittime;
i) L’assunzione di personale specializzato a ogni livello.
IV. Processo di socializzazione
10. Occorre mettere l’accento su politiche di prevenzione atte a facilitare una
socializzazione e un’integrazione riuscite di tutti i bambini e di tutti i giovani
- in particolare attraverso la famiglia, la comunità, gruppi di “pari”, la scuola,
la formazione professionale e il mondo del lavoro e utilizzando organizzazioni di
volontari. Occorre prestare l’attenzione del caso alla crescita personale dei
giovani e dei bambini che andrebbero integralmente riconosciuti come partner uguali
nei processi di socializzazione e di integrazione.
A. La famiglia
11. Ogni società deve dare grande importanza ai bisogni e al benessere della
famiglia e di tutti i suoi membri.
12. Poiché la famiglia è l’unità centrale responsabile della socializzazione
primaria del bambino, andranno compiuti sforzi da parte dei poteri pubblici e degli
organismi sociali per mantenere l’integrità della famiglia, compresa quella
allargata. La società ha la responsabilità di aiutare la famiglia a fornire cure e
protezione ai bambini e a garantire loro il benessere fisico e mentale.
Occorrerebbe prevedere giardini d’infanzia in numero sufficiente.
13. Lo Stato deve prendere le misure del caso affinché i bambini vengano allevati
in un ambiente famigliare stabile e sereno. Deve in particolare fornire
l’assistenza sociale necessaria ai genitori che ne hanno bisogno per padroneggiare
situazioni di instabilità e di conflitto.
14. Quando manca da un lato un ambiente famigliare stabile e sereno e, dall’altro,
sono falliti gli sforzi della collettività per fornire ai genitori l’aiuto
necessario e non si può a questo riguardo contare sulla famiglia allargata, va
preso in considerazione il ricorso a case di sostituzione (genitori putativi o
adottivi). In queste case si dovrà ricreare, nel modo più completo possibile, un
ambiente famigliare stabile e sereno e dare al bambino un’impressione di
“continuità” che gli eviti si sentirsi “sballottato” da una casa all’altra.
15. Verrà accordata una particolare attenzione ai figli di famiglie colpite dalla
rapida e irregolare evoluzione della situazione economica, sociale e culturale, in
particolare ai bambini di famiglie di minoranze autoctone e di famiglie migranti e
rifugiate. Poiché questa evoluzione può pregiudicare la capacità sociale della
famiglia di garantire la tradizionale educazione dei bambini, spesso in seguito a
conflitti di ruoli e culture, occorre allora cercare modalità innovatrici e
socialmente costruttive di socializzazione dei bambini.
28
16. Nell’avviare le attività e i programmi necessari occorre mettere le famiglie in
condizioni di famigliarizzarsi con il ruolo e i doveri dei genitori che riguardano
lo sviluppo e le cure dei bambini, promuovere l’instaurarsi di relazioni positive
tra genitori e figli, sensibilizzare i genitori alle preoccupazioni dei bambini e
dei giovani e incoraggiare la partecipazione dei giovani alle attività famigliari e
comunitarie.
17. Lo Stato deve adoperarsi a promuovere la coesione e l’armonia della famiglia e
a scoraggiare la separazione dei bambini dai genitori, a meno che sia in causa il
benessere e il futuro del bambino.
18. È importante insistere sulla funzione socializzatrice della famiglia e della
famiglia allargata e non è meno importante riconoscere il ruolo e la responsabilità
futuri dei giovani nella società, nonché la loro partecipazione in quanto partner
uguali.
19. Per garantire il diritto del bambino a una socializzazione soddisfacente, lo
Stato e le altre istituzioni devono non solo ricorrere agli organismi sociali e
giuridici esistenti, ma anche creare o prevedere misure di un tipo nuovo quando le
istituzioni e le consuetudini tradizionali sono diventati inoperanti.
B. L’educazione
20. Lo Stato ha il dovere di garantire a tutti i giovani l’accesso alla pubblica
istruzione.
21. Oltre alla missione di insegnamento e di formazione professionale i sistemi
educativi devono badare particolarmente:
a) A insegnare al bambino i valori fondamentali e il rispetto dell’identità e
delle tradizioni culturali che gli appartengono, dei valori del paese nel quale
vive, delle civiltà diverse dalla sua, dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali;
b) A promuovere il pieno sviluppo della personalità, dei talenti e delle
attitudini fisiche e mentali dei giovani; c) A portare i giovani alla partecipazione
attiva e costruttiva al processo educativo, anziché limitarsi a subirlo;
d) A sostenere le attività che favoriscono nei giovani un sentimento di
identificazione e di appartenenza alla scuola e alla comunità;
e) A favorire nei giovani la comprensione e il rispetto dei diversi punti di vista
e opinioni, nonché delle differenze culturali e altre;
f) A fornire ai giovani informazioni e consigli in materia di formazione
professionale, di possibilità di lavoro, di prospettive di carriera;
g) A dare ai giovani un sostegno morale e a evitare di infliggere loro cattivi
trattamenti di tipo psicologici;
h) A evitare le misure disciplinari pesanti, in particolare le pene corporali.
22. Occorre che i sistemi educativi cerchino di collaborare con i genitori, le
organizzazioni comunitarie e le istituzioni che si interessano alle attività dei
giovani.
23. Occorre fare conoscere la legge ai giovani e alle loro famiglie, nonché i loro
diritti e responsabilità riguardo alla legge e il sistema universale dei valori, in
particolare gli strumenti dell’Onu.
24. Occorre che i sistemi educativi si preoccupino in modo particolare dei giovani
in situazione di “rischio sociale”. A questo scopo occorre elaborare e usare
pienamente programmi, approcci e strumenti pedagogici di prevenzione che siano
particolarmente adatti.
25. Attraverso politiche e strategie globali, occorre soffermarsi sulla prevenzione
dell’abuso di alcol, droghe e altre sostanze da parte dei giovani. Gli insegnanti e
altri educatori dovrebbero essere attrezzati per prevenire e affrontare questi
problemi. Vanno fornite informazioni sul consumo e l’abuso delle droghe, compreso
l’alcol, alla popolazione delle scuole e delle università.
26. La scuola dovrebbe fungere da centro di informazione e di orientamento per le
cure mediche, i consigli e altri servizi per i giovani, specialmente per quelli che
hanno particolari bisogni e che vengono maltrattati, trascurati, avviliti e
sfruttati.
27. Attraverso varie azioni educative, bisognerebbe sforzarsi di sensibilizzare gli
insegnanti e altri adulti, nonché l’insieme degli studenti, ai problemi, bisogni e
manifestazioni collettive dei giovani, in particolare di coloro che appartengono a
gruppi diseredati, svantaggiati e con un reddito debole, o a gruppi, etnici o
altri, di minoranza.
28. Occorrerebbe che i sistemi educativi puntassero al più alto livello
professionale e educativo possibile per quanto riguarda i programmi, metodi e
approcci didattici e pedagogici e anche per l’assunzione e la formazione di
insegnanti qualificati, e che un controllo e una valutazione permanenti dei
29
risultati venissero garantiti dagli organismi e dalle istituzioni professionali
competenti.
29. La scuola dovrebbe, in collaborazione con i gruppi della comunità, prevedere,
elaborare e portare avanti attività fuori dal programma suscettibili di interessare
i giovani.
30. Occorrerebbe aiutare in particolar modo i bambini e i giovani che hanno
difficoltà a osservare le regole della frequenza scolastica, nonché coloro che
abbandonano gli studi prima della fine.
31. La scuola dovrebbe promuovere politiche e regole giuste ed eque, e gli allievi
dovrebbero essere rappresentati negli organi decisionali incaricati della politica
scolastica, in particolare della politica in tema di disciplina e di presa di
decisioni.
C. La comunità
32. Occorrerebbe mettere a punto o rinforzare, se già esistono, servizi e programmi
su base comunitaria che rispondano ai bisogni e alle preoccupazioni dei giovani e
offrano loro, e alle loro famiglie, indicazioni e consigli adeguati.
33. Occorrerebbe che la comunità mettesse a punto o rinforzasse, se già esistono,
mezzi molto vari di assistenza comunitaria ai giovani, quali i centri di sviluppo
comunitario, attrezzature ricreative e servizi concepiti in funzione dei problemi
specifici dei bambini in situazione di “rischio sociale”. Facendo questo
occorrerebbe vigilare al rispetto dei diritti dell’individuo.
34. Specifici locali andrebbero approntati per ospitare correttamente i giovani che
non possono più vivere nella casa di famiglia o che non hanno casa.
35. Occorrerebbe mettere a punto un insieme di servizi e di misure di assistenza
per agevolare i giovani nel passaggio all’età adulta. Occorrerebbe in particolare
istituire, per i giovani tossicomani, programmi speciali che mettano l’accento
sull’assistenza, la consulenza e gli interventi a scopo terapeutico.
36. Le organizzazioni volontarie che si occupano di giovani dovrebbero ricevere
aiuti finanziari o altri da parte dello Stato e da altre istituzioni.
37. Occorrerebbe creare o rinforzare, se già esistono, organizzazioni locali di
giovani e accordare loro il pieno diritto di partecipare alla gestione degli affari
della comunità. Queste organizzazioni dovrebbero incoraggiare i giovani a farsi
promotori di azioni collettive volontarie, in particolare di progetti a favore di
giovani che necessitano di assistenza.
38. Occorrerebbe che gli enti pubblici si incaricassero in modo particolare dei
bambini senza casa o che vivono nella strada e che garantissero loro i servizi
necessari; i giovani dovrebbero poter ottenere senza difficoltà informazioni sugli
strumenti disponibili, le opportunità per l’ospitalità, le possibilità di lavoro e
altre fonti di assistenza a livello locale.
39. Occorrerebbe creare e rendere facilmente accessibili ai giovani un’ampia scelta
di opportunità e servizi ricreativi che presentino un particolare interesse.
D. I media
40. Occorrerebbe incoraggiare i media a garantire ai giovani l’accesso a
informazioni
e
a
documenti
che
provengono
da
varie
fonti
nazionali
e
internazionali.
41. Occorrerebbe incoraggiare i media a sottolineare il ruolo positivo dei giovani
nella società.
42. I media andrebbero incoraggiati a diffondere informazioni sui servizi e le
possibilità offerte ai giovani nella società.
43. Occorrerebbe in generale incitare i media, e in particolare la televisione e il
cinema, a lasciare il meno spazio possibile alla pornografia, alla droga e alla
violenza, a presentare la violenza e lo sfruttamento sotto una luce sfavorevole, a
evitare di rappresentare scene umilianti e degradanti, in particolare per quanto
riguarda i bambini, le donne e le relazioni interpersonali, e a promuovere i
principi dell’uguaglianza e i modelli egualitari.
44. I media dovrebbero essere coscienti dell’importanza del proprio ruolo e delle
proprie responsabilità sul piano sociale, nonché dell’influenza che esercitano
attraverso i messaggi sull’abuso di droghe e di alcol da parte dei giovani.
Dovrebbero porre questa influenza al servizio della prevenzione di questo abuso
diffondendo
messaggi
coerenti
e
imparziali.
Occorrerebbe
incoraggiare
l’organizzazione, a tutti i livelli, di campagne efficaci di sensibilizzazione al
problema della droga.
V. Politica sociale
45. I pubblici poteri dovrebbero accordare un’importanza fondamentale ai piani e ai
programmi destinati ai giovani e stanziare sufficienti crediti per il finanziamento
30
dei servizi, attrezzature e personale necessari per le cure mediche, di salute
mentale, di nutrizione, di alloggio e per molti altri campi, compresa la
prevenzione dell’abuso di droghe e alcol e il trattamento dei tossicomani,
vigilando sul fatto che questi fondi vengano effettivamente usati per i giovani.
46. La sistemazione di giovani in istituto dovrebbe essere soltanto una soluzione
di ultima istanza e dovrebbe durare solo il tempo strettamente indispensabile,
essendo l’interesse del bambino la considerazione principale. Occorrerebbe definire
rigidamente i criteri per interventi ufficiali di questo tipo, i quali dovrebbero
essere normalmente limitati alle seguenti situazioni:
a) il bambino o l’adolescente ha subito sofferenze inflittegli dai genitori o
tutori;
b) il bambino o l’adolescente ha subito violenze sessuali, fisiche o affettive da
parte dei genitori o tutori;
c) il bambino o l’adolescente è stato trascurato, abbandonato o sfruttato dai
genitori o tutori;
d) il bambino è minacciato fisicamente o moralmente dal comportamento dei genitori
o tutori;
e) il bambino o l’adolescente è esposto a un grave pericolo fisico o psicologico
per il proprio comportamento e, né lui né i genitori o tutori né i servizi
comunitari all’infuori dall’istituto possono porre riparo a questo pericolo con
mezzi diversi dalla collocazione in istituto.
47. Gli enti pubblici dovrebbero offrire ai giovani la possibilità di proseguire
gli studi a tempo pieno (finanziati dallo Stato quando genitori o tutori sono
incapaci di farsene carico) e di imparare un mestiere.
48. Occorrerebbe mettere a punto programmi di prevenzione della delinquenza fondati
sui
risultati
di
ricerche
scientifiche
serie,
sorvegliarne
e
valutarne
periodicamente l’applicazione e, all’occorrenza, modificarli.
49. Occorrerebbe diffondere presso gli esperti e il pubblico informazioni
scientifiche circa il tipo di comportamento e di circostanze che possono portare
alla vittimizzazione fisica o morale e allo sfruttamento dei giovani oppure che
sono sintomatiche di tale situazione.
50. Nell’insieme la partecipazione ai piani e ai programmi dovrebbe essere
volontaria e occorrerebbe che i giovani stessi prendessero parte alla concezione,
all’elaborazione e all’esecuzione di questi piani e programmi.
51. I governi dovrebbero iniziare o continuare a prendere in considerazione,
elaborare e applicare misure e strategie all’interno o all’esterno del sistema di
giustizia penale allo scopo di evitare la violenza in famiglia di cui sono vittime
i bambini e per garantire a questi ultimi un trattamento equo.
VI. Legislazione e amministrazione della giustizia per i minori
52. I governi dovrebbero adottare e applicare leggi e procedure che mirino a
promuovere e a proteggere i diritti e il benessere di tutti i giovani.
53. In particolare dovrebbero adottare e applicare una legislazione che vieti di
maltrattare e sfruttare i bambini e i giovani, nonché di usarli in attività
criminose.
54. Nessun bambino o giovane deve subire castighi o punizioni dure o degradanti sia
in casa, a scuola sia altrove.
55. Occorre promuovere l’adozione e l’applicazione di testi che mirino a
restringere e a controllare l’accesso dei bambini e dei giovani alle armi di ogni
specie.
56. Per prevenire ogni stigmatizzazione, vittimizzazione e criminalizzazione
ulteriori dei giovani, occorrerebbe adottare testi che dispongano che gli atti non
debbano essere sanzionati se vengono commessi da un giovane se questi atti non sono
considerati delittuosi e penalizzanti per gli adulti.
57. Si dovrebbe prendere in considerazione la creazione di un posto di mediatore
per i giovani, o di un organo indipendente incaricato di funzioni simili, che
vigilasse sul fatto che lo status, i diritti e gli interessi dei giovani vengano
mantenuti e che gli interessati vengano correttamente indirizzati verso i servizi
adeguati. Il mediatore, o l’altro organo indicato, fungerebbe anche da supervisore
per l’applicazione dei principi base di Riyadh, delle Regole di Beijing e delle
Regole per la protezione dei minori privati della libertà. A intervalli regolari il
mediatore pubblicherebbe una relazione sui progressi compiuti e sulle difficoltà
riscontrate nel processo di applicazione degli strumenti. Occorrerebbe anche creare
servizi incaricati di difendere la causa dell’infanzia.
58. Occorrerebbe dare al personale (uomini e donne) organi incaricati di far
rispettare la legge e altri organi competenti per la formazione affinché siano in
grado di rispondere ai particolari bisogni dei giovani, sappiano e utilizzino il
31
più possibile le possibilità e i programmi di assistenza che permettono di
sottrarre i giovani al sistema giudiziario.
59. Occorrerebbe adottare e applicare rigidamente una legislazione che miri a
proteggere i bambini e i giovani contro l’abuso e il traffico di droga.
VII. Ricerca, elaborazione di politiche e coordinamento
60. Occorrerebbe adoperarsi a promuovere, in particolare attraverso la creazione di
meccanismi appropriati, l’interazione e il coordinamento pluridisciplinari e
intrasettoriali richiesti tra organismi e servizi economici, sociali, educativi e
sanitari, il sistema giudiziario, gli organismi per i giovani, gli organismi
comunitari, gli enti per lo sviluppo e altre istituzioni interessate.
61. Occorrerebbe intensificare lo scambio, a livello nazionale, regionale e
internazionale, delle informazioni, dell’esperienza e della specializzazione
acquisite attraverso progetti, programmi, azioni e iniziative nell’ambito della
criminalità giovanile, della prevenzione della delinquenza e della giustizia per i
minori.
62. Occorrerebbe sviluppare e rafforzare ulteriormente la cooperazione regionale e
internazionale nell’ambito della criminalità giovanile, della prevenzione della
delinquenza e della giustizia per i minori, associandovi medici, esperti e
politici.
63. Occorrerebbe che la cooperazione tecnica e scientifica nell’ambito della
prevenzione della delinquenza, sia nei suoi aspetti tecnici sia nei grandi
orientamenti, in particolare per quanto riguarda la guida di azioni formative e di
progetti pilota o dimostrativi oppure se verte su temi precisi riguardanti la
prevenzione della criminalità giovanile e la delinquenza dei giovani, usufruisca di
un solido appoggio da parte di tutti i governi, dal sistema dell’Onu e da altre
organizzazioni interessate.
64. Occorrerebbe incoraggiare la realizzazione di lavori di ricerca scientifica
concertata su modalità efficaci di prevenzione della criminalità e della
delinquenza giovanili, diffonderne ampiamente e valutarne i risultati.
65. Gli organi, istituti, istituzioni e uffici competenti dell’Onu dovrebbero
mantenere fra loro stretta collaborazione e coordinamento su varie questioni
inerenti ai bambini, alla giustizia per i minori e alla prevenzione della
delinquenza.
66. La Segreteria dell’Onu dovrebbe, in base a questi principi base e in
collaborazione con le istituzioni interessate, avere un ruolo attivo nella ricerca,
la cooperazione scientifica e la formulazione di grandi opzioni, così come
nell’esame e nel controllo continuo della loro applicazione e quindi costituire una
fonte di informazioni affidabili su modalità efficaci di prevenzione della
delinquenza.
REGOLE PER LA PROTEZIONE DEI MINORI PRIVATI DELLA LIBERTÀ
(Onu, 1990), adottate dall’Assemblea generale nella
dicembre 1990.
risoluzione
45/113
del
4
I. Prospettive fondamentali
1. La giustizia per i minori deve proteggere i diritti e la sicurezza e promuovere
il benessere fisico e morale dei minori. L’incarcerazione deve essere una misura da
prendere in ultima istanza.
2. I minori possono essere privati della libertà solo in conformità con i principi
e le procedure enunciati nelle presenti Regole e nell’Insieme di regole minime
dell’Onu inerenti all’amministrazione della giustizia per i minori (Regole di
Beijing). La privazione della libertà di un minore è una misura da prendere in
ultima istanza, per il tempo minimo necessario e va limitata a casi eccezionali. La
durata della detenzione va definita dalle autorità giudiziarie, senza che venga
scartata la possibilità di una liberazione anticipata.
3. Le presenti Regole hanno lo scopo di stabilire, per la protezione dei minori
privati della libertà, sotto qualunque forma questo avvenga, regole minime
accettate dall’Onu che siano compatibili con i diritti dell’uomo e le libertà
fondamentali, e di trovare un rimedio agli effetti nefasti di ogni tipo di
detenzione nonché di favorire l’inserimento sociale.
4. Le presenti Regole vanno applicate in modo imparziale a tutti i minori, senza
alcuna distinzione di razza, colore, sesso, età, lingua, religione, nazionalità,
opinioni politiche o altre, convinzioni o pratiche culturali, fortuna, nascita o
situazione famigliare, origine etnica o sociale e incapacità. Vanno rispettati le
credenze religiose, le pratiche culturali e i precetti morali dei minori.
32
5. Le presenti Regole sono destinate a fungere da riferimento facile da consultare
e a costituire un incoraggiamento e direttive per coloro che partecipano
all’amministrazione della giustizia per i minori.
6. Le presenti Regole verranno messe a disposizione del personale della giustizia
per i minori, nella lingua nazionale. Ogni minore che non parla la lingua del
personale dell’edificio dove è detenuto avrà diritto, gratuitamente, a un
interprete quando questo sarà necessario, in particolare durante esami medici e
procedure disciplinari.
7. Gli Stati devono all’occorrenza integrare le presenti Regole nella legislazione
nazionale o modificare quest’ultima di conseguenza, e prevedere efficaci ricorsi in
caso di violazione, comprese indennità quando cattivi trattamenti vengono inflitti
ai minori. Gli Stati devono anche controllare l’applicazione di queste Regole.
8. I pubblici poteri devono sforzarsi di suscitare nel pubblico una presa di
coscienza maggiore sul fatto che il trattamento riservato ai minori privati della
libertà e la loro preparazione a un ritorno nella società rappresentano un servizio
sociale di grande importanza; a questo scopo andrebbero prese misure attive per
favorire i contatti diretti tra minori e collettività locale.
9. Nessuna disposizione delle presenti Regole va interpretata come un’esclusione
dall’applicare le norme e strumenti pertinenti dell’Onu relativi ai diritti
dell’uomo e riconosciuti dalla comunità internazionale, in un senso più favorevole
ai diritti, al trattamento e alla protezione dei minori, dei bambini e di tutti i
giovani.
10. Nel caso in cui l’applicazione pratica di certe regole contenute dalla II. alla
V. sezione inclusa presentasse una qualsiasi incompatibilità con quella delle
regole enunciate in questa sezione, varrà l’obbligo di applicare queste ultime.
II. Portata e applicazione delle Regole
11. Per le presenti Regole sono applicabili le seguenti definizioni:
a) Con minore s’intende ogni persona con meno di 18 anni di età. L’età al di sotto
della quale è vietato privare un bambino della libertà viene fissata dalla legge;
b) Con privazione di libertà s’intende ogni forma di detenzione, imprigionamento o
la sistemazione di una persona in una struttura pubblica o privata dalla quale non
è autorizzata a uscire quando vuole, su ordine di un’autorità giudiziaria,
amministrativa o altra.
12. La privazione della libertà deve avvenire in condizioni e circostanze che
garantiscono il rispetto dei diritti dell’uomo e dei minori. I minori detenuti
devono poter esercitare un’attività interessante e seguire programmi che mantengono
e rafforzano la salute e il rispetto di sé, che favoriscono il senso di
responsabilità e li incoraggiano ad adottare comportamenti e ad acquisire
conoscenze che li aiuteranno a realizzarsi in quanto membri della società.
13. I minori privati della libertà non potranno essere, per il loro status di
detenuti, privati dei diritti civili, economici, politici, sociali e culturali di
cui godono in virtù della legislazione nazionale o del diritto internazionale e che
sono compatibili con una privazione della libertà.
14. La protezione dei diritti individuali dei minori, verrà garantita dall’autorità
competente, in particolare per quanto riguarda la legalità dell’esecuzione delle
misure di detenzione; mentre verranno garantite altre forme di controllo, in
conformità alle norme internazionali e alle leggi e regolamenti nazionali,
dall’autorità regolarmente costituita abilitata a far visita ai minori e
indipendente dall’amministrazione dell’istituto permetteranno di garantire la
realizzazione degli obiettivi di integrazione sociale.
15. Le presenti Regole sono applicabili a tutti gli istituti o istituzioni nei
quali i giovani vengono privati della libertà. Le sezioni I, II, IV e V delle
Regole si applicano a tutti gli istituti e istituzioni nei quali i minori sono
detenuti, mentre la sezione III si applica ai minori in stato di arresto o in
attesa di giudizio.
16. Nell’applicazione delle presenti Regole verrà tenuto conto della situazione
economica, culturale e sociale particolare a ogni Paese.
III. Minori in stato di arresto o in attesa di giudizio
17. I minori in stato di arresto o in attesa di giudizio sono presunti innocenti e
trattati come tali. La detenzione prima del giudizio va per quanto possibile
evitata e limitata a circostanze eccezionali. Di conseguenza, va fatto tutto per
applicare altre misure. Se tuttavia il minore è in detenzione preventiva, i
tribunali per minori e le procure della Repubblica affronteranno il suo caso con la
massima diligenza affinché la detenzione sia la più breve possibile. I minori
detenuti prima del giudizio dovranno essere separati dai minori condannati.
33
18. Le condizioni nelle quali un minore non giudicato è detenuto devono essere
compatibili con le regole sotto enunciate, con riserva di speciali disposizioni
giudicate necessarie e appropriate data la presunta innocenza, la durata di questa
detenzione, la situazione legale del minore e le circostanze. Queste disposizioni
sono le seguenti, senza che questa lista sia necessariamente esaustiva:
a) I minori devono aver diritto ai servizi di un avvocato, poter chiedere
un’assistenza giudiziaria quando questa è prevista e comunicare regolarmente con il
loro consigliere. Il carattere privato e confidenziale di queste comunicazioni
dovrà essere garantito;
b) Per quanto possibile i minori potranno lavorare ed essere per questo
rimunerati, studiare o ricevere una formazione, senza esservi costretti. Questo
lavoro, questi studi o formazione non devono portare ad un allungamento della
detenzione;
c) I minori potranno ricevere e conservare materiali per il divertimento
compatibili con gli interessi dell’amministrazione della giustizia.
IV. L’amministrazione degli istituti per minori
A. Regole applicabili alle pratiche
19. Tutte le relazioni, comprese le pratiche giudiziarie, le cartelle mediche,
quelle disciplinari e qualsiasi altro documento inerente alla forma e al contenuto
del trattamento, vengono poste in una cartella individuale e confidenziale
aggiornata costantemente, consultata solo dalle persone abilitate e archiviata in
modo da essere agevolmente consultata. Il minore deve, per quanto possibile, potere
contestare ogni fatto o opinione che figura nella sua cartella, in modo da
permettere la rettifica delle menzioni inesatte o senza fondamento e, per
l’esercizio di questo diritto, saranno previste procedure che permetteranno a una
terza persona idonea di consultare su richiesta la pratica. Quando il minore verrà
liberato, la sua pratica verrà sigillata e verrà distrutta a una data idonea.
20. Nessun minore verrà ammesso in un istituto senza ordine di detenzione valido
proveniente dall’autorità giudiziaria, amministrativa o altra autorità pubblica e
le cui menzioni verranno immediatamente indicate nel registro. Nessun minore verrà
detenuto in un istituto dove non esiste simile registro.
B. Ammissione, immatricolazione, traduzione e trasferimento
21. In ogni luogo dove sono detenuti minori, va tenuto un registro dove vengono
trascritti in modo esauriente e fedele, per ogni minore ammesso:
a) Informazioni sull’identità del minore;
b) I motivi della detenzione e il testo che la autorizza;
c) Il giorno e l’ora di ammissione, del trasferimento e della liberazione;
d) Indicazioni particolareggiate sulle notifiche rivolte ai genitori o al tutore
legale inerenti a ogni ammissione, trasferimento o liberazione del minore che era
sotto la loro custodia nel momento in cui è stato incarcerato;
e) Indicazioni particolareggiate sui problemi di salute fisica e mentale, compreso
l’abuso di droghe e alcol.
22.
Le
informazioni
relative
all’ammissione,
il
luogo
di
detenzione,
il
trasferimento e la liberazione andranno fornite senza indugio ai genitori, al
tutore legale o al membro più vicino della famiglia del minore interessato.
23. Non appena possibile dopo l’ammissione, relazioni particolareggiate che
contengono tutte le informazioni pertinenti sulla situazione personale e il caso di
ogni minore verranno redatte e sottoposte all’amministrazione.
24. Al momento dell’ammissione ogni minore deve ricevere una copia del regolamento
dell’istituto e una relazione scritta dei suoi diritti in una lingua che egli
capisce, con l’indirizzo delle autorità competenti a ricevere lagnanze e quello di
organismi pubblici o privati che forniscono assistenza giudiziaria. Se il minore è
analfabeta o non legge la lingua nella quale vengono date le informazioni, queste
verranno fornite in modo che le possa capire pienamente.
25. Si deve aiutare ogni minore a capire il regolamento vigente all’interno
dell’istituto, gli obiettivi e il metodo del trattamento applicato, le regole di
disciplina, i mezzi autorizzati per ottenere informazioni e formulare lamentele, e
qualsiasi altra questione che il minore può aver bisogno di conoscere per essere in
grado di capire pienamente i suoi diritti e i suoi obblighi durante la detenzione.
26. Il trasporto dei minori va effettuato a spese dell’amministrazione con mezzi
che comportano un’aerazione e un’illuminazione sufficienti e in condizioni che non
impongono sofferenze ai minori e non ledono la loro dignità. I minori non vanno
trasferiti arbitrariamente.
C. Schedatura e sistemazione
34
27. Non appena possibile dopo l’ammissione, ogni minore va interrogato e va redatta
una relazione psicologica e sociale che indica i fattori pertinenti riguardo al
tipo di trattamento e di programma educativo e di formazione richiesto. Questa
relazione, nonché la relazione del medico che ha esaminato il minore al momento
dell’ammissione,
vanno
comunicate
al
direttore
affinché
questi
decida
l’assegnazione più idonea all’interessato nell’istituto, e il tipo di programma di
formazione richiesto. Se è necessario un programma di rieducazione, e se la durata
della permanenza nell’istituto lo permette, un membro qualificato del personale di
questo
istituto
dovrebbe
definire
per
iscritto
un
piano
di
trattamento
individualizzato che specifichi gli obiettivi del trattamento, uno scadenzario e
mezzi, tappe e fasi attraverso cui raggiungerli.
28. I minori devono essere detenuti in condizioni che tengono in debito conto il
loro status e i loro bisogni particolari in funzione dell’età, personalità, sesso,
tipo di delitto, nonché stato fisico e mentale; condizioni che li proteggono dalle
nefaste influenze e dalle situazioni a rischio. Il principale criterio per la
schedatura in varie categorie dei minori privati della libertà deve essere la
necessità di fornire agli interessati il tipo di trattamento che meglio si adatta
ai loro bisogni e di proteggere la loro integrità fisica, morale e mentale nonché
il loro benessere.
29. In tutti gli istituti i minori vanno separati dagli adulti tranne se si tratta
di famigliari o se partecipano, assieme ad adulti accuratamente selezionati, a un
programma speciale di trattamento che presenta per loro vantaggi certi.
30. Vanno creati istituti aperti per minori. Gli istituti aperti sono istituti nei
quali le misure materiali di sicurezza sono ridotte al minimo. In questi istituti
la popolazione deve essere piuttosto limitata per permettere un trattamento
individualizzato. Gli istituti per minori andrebbero decentrati e con dimensioni
tali da agevolare i contatti tra i minori e le loro famiglie. In particolare,
dovrebbero essere creati istituti piccoli di detenzione, integrati nell’ambiente
sociale, economico e culturale dei minori e nella loro comunità.
D. Ambiente fisico e alloggio
31. I minori detenuti vanno alloggiati in locali che rispondono a tutte le norme di
igiene e di dignità umana.
32. La concezione degli istituti per minori e l’ambiente fisico devono essere
conformi all’obiettivo di riabilitazione assegnato al trattamento dei minori
detenuti, tenuto in debito conto il bisogno di intimità dei minori e il bisogno che
hanno di stimoli sensoriali, offrendo loro possibilità di associarsi con i loro
simili e permettendo loro di dedicarsi ad attività sportive, di esercizio fisico e
di divertimento. La concezione e la struttura delle attrezzature per minori devono
ridurre al minimo il rischio di incendio e permettere di garantire, nella
sicurezza, l’evacuazione dei locali. L’istituto deve essere dotato di un sistema di
allarme efficace in caso d’incendio, con istruzioni scritte e esercitazioni di
allerta per garantire la sicurezza dei minori. Le attrezzature non verranno
sistemate in settori che presentano rischi noti per la salute o altri pericoli.
33. Normalmente i minori devono dormire in piccoli dormitori o in camere
individuali, pur tenendo conto delle norme locali. I locali dove dormono i detenuti
– camere individuali o dormitori – devono essere sottoposti di notte a una
sorveglianza regolare e discreta allo scopo di garantire la protezione di ognuno.
Ogni minore deve disporre, in conformità agli usi locali o nazionali, di un letto
individuale sufficiente che deve essere pulito nel momento in cui viene dato, con
effetti mantenuti in stato corretto e rinnovati in modo da garantirne la pulizia.
34. I sanitari devono essere collocati in posti correttamente scelti e rispondere a
norme sufficienti da permettere a ogni minore di soddisfare i propri bisogni
naturali nel momento voluto, in modo pulito e decente.
35. Il possesso di effetti personali è un elemento fondamentale del diritto alla
vita privata ed è essenziale al benessere psicologico del minore. Di conseguenza,
vanno pienamente riconosciuti e rispettati il diritto del minore a conservare in
suo possesso i suoi effetti personali e quello di aver la possibilità di sistemarli
in condizioni soddisfacenti. Gli effetti personali che il minore decide di non
conservare o che vengono confiscati verranno posti in un luogo sicuro. Verrà
stilato un inventario, che verrà firmato dal minore. Vanno prese misure per
conservare questi oggetti in buono stato. Questi oggetti e i soldi andranno resi al
minore al momento della liberazione, a eccezione dei soldi che è stato autorizzato
a spendere o ai soldi o oggetti che egli ha potuto spedire all’esterno. Se il
minore riceve medicine o se ne vengono trovate in suo possesso, il medico deciderà
l’uso da farne.
36. Il minore deve, per quanto possibile, aver il diritto di portare i propri vestiti.
Gli istituti devono badare al fatto che ogni minore abbia vestiti personali idonei al
35
clima e sufficienti da mantenerlo in buona salute; questi vestiti non devono in alcun
modo essere degradanti o umilianti. I minori che lasciano l’istituto o sono autorizzati
a uscirne per qualunque motivo, devono avere il permesso di portare i propri vestiti.
37. Ogni istituto deve vigilare sul fatto che il minore riceva un’alimentazione
preparata correttamente e presentata alle ore usuali per i pasti, che risponda, in
quantità e qualità, alle norme della dietetica e dell’igiene, tenuto conto della
sua salute e delle sue attività e, per quanto possibile delle esigenze della sua
religione e della sua cultura. Ogni minore deve sempre disporre di acqua potabile.
E. Educazione, formazione professionale e lavoro
38. Ogni minore in età scolare ha il diritto di ricevere un’educazione adatta ai
suoi bisogni e attitudini, e idonea a preparare il suo ritorno nella società. Per
quanto possibile questa educazione deve essere dispensata fuori dall’edificio
penitenziario in scuole comunitarie e, comunque sia, da insegnanti qualificati
nell’ambito di programmi integrati nel sistema educativo del paese affinché i
minori possano perseguire senza difficoltà i loro studi dopo la liberazione.
L’amministrazione
dell’istituto
deve
accordare
particolare
attenzione
all’educazione dei minori di origine straniera o che presentano particolari bisogni
di tipo culturale o etnico. Un insegnamento speciale va dispensato ai minori
analfabeti o con difficoltà di apprendimento.
39. I minori che hanno superato l’età della scolarità obbligatoria e che intendono
continuare gli studi devono essere autorizzati e incoraggiati a farlo; tutto va
messo in opera per aprire loro l’accesso ai programmi appropriati di insegnamento.
40. I diplomi o certificati di studi conferiti a un minore in detenzione non devono
in alcun modo indicare che l’interessato è stato detenuto.
41. Ogni istituto deve mettere a disposizione una biblioteca sufficientemente
provvista di libri istruttivi e ricreativi adatti ai minori; questi vanno
incoraggiati a utilizzarla il più possibile e messi in condizioni di farlo.
42. Ogni minore deve avere il diritto di ricevere una formazione professionale che
possa prepararlo alla vita attiva.
43. Nei limiti compatibili con una selezione professionale idonea e con le
necessità dell’amministrazione e della disciplina degli istituti, i minori devono
essere in grado di scegliere il tipo di lavoro che intendono compiere.
44. Tutte le norme nazionali e internazionali di protezione applicabili al lavoro
dei bambini e ai giovani lavoratori sono applicabili ai minori privati della
libertà.
45. Allo scopo di migliorare le loro possibilità di trovare lavoro quando
torneranno nella loro comunità, i minori devono per quanto possibile poter
esercitare un lavoro rimunerato che completi la formazione professionale che viene
loro dispensata, possibilmente all’interno della comunità locale. Il tipo di lavoro
previsto deve garantire al minore una formazione idonea in vista della sua
liberazione. L’organizzazione e i metodi di lavoro offerti negli istituti devono
assomigliare per quanto possibile a quelle di un analogo lavoro nella comunità
affinché i minori siano preparati alle condizioni di una vita professionale
normale.
46. Ogni minore che compie un lavoro ha diritto a una remunerazione equa. Gli
interessi dei minori e della loro formazione professionale non vanno subordinati a
un obiettivo di profitto per l’istituto o per una terza persona. Parte della
remunerazione deve normalmente essere riservata alla costituzione di un gruzzolo
che verrà consegnato al minore nel momento della sua liberazione. Il minore deve
essere autorizzato a usare il resto della sua remunerazione per comprare oggetti
destinati all’uso personale o per indennizzare la vittima dell’infrazione commessa,
o per mandarlo alla sua famiglia o a altre persone fuori dall’istituto.
36
F. Divertimento
47. Ogni minore deve avere diritto a un numero idoneo di ore per il libero
esercizio durante il giorno, all’aria aperta se il tempo lo permette, durante le
quali riceve normalmente un’educazione fisica e ricreativa. Vanno previsti il
terreno, le attrezzature e l’equipaggiamento necessari per queste attività. Ogni
minore deve disporre ogni giorno di un numero di ore aggiuntive per i suoi
divertimenti di cui una parte verrà dedicata, se il minore lo desidera, alla
formazione, a un’attività artistica o artigianale. L’istituto deve vigilare sul
fatto che il minore sia fisicamente atto a partecipare ai programmi di educazione
fisica che gli vengono offerti. Un’educazione fisica e una terapia correttive vanno
dispensate sotto sorveglianza medica ai minori che ne hanno bisogno.
G. Religione
48. Ogni minore va autorizzato a soddisfare le esigenze della sua vita religiosa e
spirituale, in particolare partecipando alle funzioni o riunioni organizzate
nell’istituto o entrando in contatto con i rappresentanti della sua confessione e
avendo in suo possesso i libri o articoli di pratica e istruzione religiose della
sua confessione. Se un istituto ha un numero sufficiente di minori che appartengono
a una certa religione, uno o diversi rappresentanti qualificati di questa religione
vanno nominati o accolti e autorizzati a organizzare regolari funzioni religiose e
a fare visite pastorali in privato ai minori che ne fanno richiesta. Ogni minore
deve avere il diritto di ricevere visite da parte di un rappresentante qualificato
di una religione di sua scelta, nonché quello di non prendere parte a funzioni
religiose e di rifiutare liberamente di ricevere un’educazione, consigli o
indottrinamento in questo campo.
H. Cure mediche
49. Ogni minore ha il diritto di ricevere cure mediche sia preventive sia curative,
comprese cure dentistiche, oftalmiche e psichiatriche, nonché quello di ottenere le
medicine e seguire la dieta alimentare che il medico può prescrivergli. Tutte
queste cure mediche devono per quanto possibile essere dispensate ai minori
detenuti dai servizi sanitari idonei della comunità dove si trova l’istituto, allo
scopo di evitare ogni stigmatizzazione del minore e di favorire il rispetto di sé e
l’integrazione nella comunità.
50. Sin dalla sua ammissione in un istituto per minori, ogni minore ha il diritto
di essere esaminato da un medico affinché questi constati ogni eventuale traccia di
cattivo trattamento e rilevi ogni stato fisico o mentale che giustifichi cure
mediche.
51. I servizi medici offerti ai minori devono mirare a rilevare e a trattare ogni
affezione o malattia fisica, mentale o altra, o abuso di certe sostanze che
potrebbero ostacolare l’inserimento del minore nella società. Ogni istituto per
minori deve potere accedere immediatamente a mezzi e attrezzature mediche adatte al
numero e ai bisogni dei suoi residenti ed essere dotato di un personale formato
alle cure di medicina preventiva e al trattamento delle urgenze mediche. Ogni
minore che è o si dice malato, o che presenta sintomi di turbe fisiche o mentali,
va esaminato senza indugio da un medico.
52. Ogni medico che ha motivo di credere che la salute fisica o mentale di un
minore è o sarà intaccata da una detenzione prolungata, uno sciopero della fame o
una qualunque modalità della detenzione, deve informarne immediatamente il
direttore dell’istituto nonché l’autorità indipendente incaricata della protezione
del minore.
53. Ogni minore affetto da una malattia mentale va trattato in un istituto
specializzato dotato di una direzione medica indipendente. Vanno prese misure,
secondo un accordo con gli organismi idonei, per garantire all’occorrenza il
proseguimento del trattamento psichiatrico dopo la liberazione.
54. Gli istituti per minori devono adottare programmi di prevenzione dell’abuso di
droghe e di riadattamento, gestiti da personale qualificato e adatto all’età, al
sesso e ai bisogni della loro popolazione; servizi di disintossicazione con
personale qualificato devono essere a disposizione dei minori tossicomani o
alcolisti.
55. Vanno somministrate medicine solo in caso di trattamento necessario per ragioni
mediche e, per quanto possibile, dopo aver ottenuto il consenso consapevole del
minore interessato. Le medicine non vanno somministrate allo scopo di ottenere
informazioni o confessioni, come sanzione o come mezzo di coercizione. I minori non
vanno mai usati come cavie per trattamenti sperimentali o per testare nuovi
farmaci. La somministrazione di qualunque farmaco va sempre autorizzata ed
effettuata da personale medico qualificato.
I. Notifiche di malattia, di incidente o di decesso
37
56. La famiglia o il tutore del minore e qualsiasi altra persona da lui indicata
hanno il diritto di essere informati dello stato di salute del minore, nonché in
caso di importanti modifiche di questo stato di salute. Il direttore dell’istituto
deve avvisare immediatamente la famiglia o il tutore del minore interessato, o
qualsiasi altra persona indicata, in caso di decesso del minore o in caso di
malattia o incidente che richiede il trasferimento del minore in un edificio medico
esterno all’istituto, o se lo stato di salute del minore necessita che questi venga
trattato nell’infermeria dell’istituto per più di 48 ore. Anche le autorità
consolari del paese di cui un minore straniero è cittadino vanno informate.
57. In caso di decesso di un minore in detenzione, il parente più vicino deve avere
il diritto di esaminare il certificato di morte e di decidere se deve essere
inumato o cremato. Quando un minore muore in detenzione, un’inchiesta indipendente
va effettuata sulle cause del decesso e il parente più vicino del minore deve avere
accesso alla relazione d’inchiesta. Va anche effettuata un’inchiesta se il decesso
del minore ha luogo nei sei mesi dopo la liberazione e se si hanno ragioni per
credere che il decesso sia legato al periodo di detenzione.
58. Ogni minore va avvertito al più presto in caso di decesso, di malattia o di
grave incidente di un parente prossimo. Deve avere la possibilità di assistere ai
funerali di un parente deceduto o di recarsi al capezzale di un parente gravemente
ammalato.
J. Contatti con l’esterno
59. Tutto va messo in opera affinché i minori abbiano sufficienti contatti con il
mondo esterno poiché questo è parte integrante del diritto di essere trattati
umanamente ed è indispensabile per preparare i minori al ritorno nella società. I
minori vanno autorizzati a comunicare con le famiglie, nonché con i membri o
rappresentanti di organizzazioni esterne con buona fama, a uscire dall’istituto per
recarsi a casa e in famiglia e a ottenere permessi speciali di uscita per
importanti motivi di tipo educativo, professionale o altro. Se il minore sconta una
pena, il tempo passato fuori dall’istituto va computato nella durata di questa
pena.
60. Ogni minore ha il diritto di ricevere visite regolari e frequenti di membri
della sua famiglia, generalmente una volta alla settimana e non meno di una volta
al mese, in condizioni che tengano conto del bisogno del minore di parlare senza
testimone, di avere contatti e di comunicare senza restrizione con i membri della
sua famiglia e i suoi difensori.
61. Ogni minore ha il diritto di comunicare per iscritto o per telefono almeno due
volte alla settimana con la persona di sua scelta, salvo interdizione legale e
all’occorrenza ricevere un’assistenza allo scopo di potere effettivamente godere di
questo diritto. Ogni minore deve avere il diritto di ricevere corrispondenza.
62. I minori devono avere la possibilità di essere tenuti regolarmente al corrente
dell’attualità
attraverso
la
lettura
di
quotidiani,
periodici
o
altre
pubblicazioni, attraverso l’accesso a trasmissioni radiofoniche o televisive e a
proiezioni di film, nonché ricevendo la visita di rappresentanti di club o
organizzazioni lecite alle quali si interessano.
K. Misure di coercizione fisica e ricorso alla forza
63. È vietato l’uso di strumenti di coercizione, qualunque ne sia il motivo, tranne
nei casi indicati nella regola 64 sottocitata.
64. I mezzi e strumenti di coercizione possono essere utilizzati solo in casi
eccezionali e quando gli altri mezzi di controllo si sono rivelati inoperanti e se
sono espressamente autorizzati e definiti dalle leggi e regolamenti; non devono
essere umilianti e possono essere utilizzati solo per la più breve durata possibile
e su ordine del direttore, se sono falliti gli altri mezzi per padroneggiare il
minore, allo scopo di impedire al minore di causare danni a sé o ad altri, oppure
gravi danni materiali. In casi simili, il direttore deve consultare urgentemente il
medico e relazionare alla superiore autorità amministrativa.
65. Il porto e l’uso di armi da parte del personale va vietata in ogni istituto che
accoglie minori.
L. Provvedimenti disciplinari
66. Ogni misura o provvedimento disciplinare deve garantire il mantenimento della
sicurezza e il buon ordine della vita comunitaria ed essere compatibile con il
rispetto della dignità inerente del minore e l’obiettivo fondamentale del
trattamento in istituto, ovvero inculcare il senso della giustizia, il rispetto di
sé e il rispetto dei diritti fondamentali di ognuno.
67. Tutte le misure disciplinari che costituiscono un trattamento crudele, inumano
o degradante, come le pene corporali, la reclusione in cella oscura, in una segreta
o in isolamento, e qualsiasi punizione che possa pregiudicare la salute fisica e
38
mentale di un minore vanno vietate. La riduzione del cibo e le restrizioni o il
divieto dei contatti con la famiglia sono da escludere per qualunque motivo. Il
lavoro va sempre considerato come strumento educativo e mezzo per inculcare al
minore il rispetto di sé, per prepararlo al ritorno nella sua comunità, e non deve
essere imposto come sanzione disciplinare. Nessun minore può essere punito più di
una volta per la stessa infrazione alla disciplina. Vanno vietate le sanzioni
collettive.
68. Le leggi o regolamenti adottati dall’autorità amministrativa competente devono
fissare norme relative agli elementi sotto-elencati, tenendo pienamente conto delle
caratteristiche, dei bisogni e dei diritti fondamentali dei minori:
a) Comportamento che costituisce un’infrazione alla disciplina;
b) Natura e durata delle sanzioni disciplinari che possono essere inflitte;
c) Autorità abilitata a pronunciare queste sanzioni;
d) Autorità abilitata a esaminare i ricorsi.
69. Ogni relazione per cattiva condotta va prontamente presentata all’autorità
competente che deve sentenziare entro termini ragionevoli. L’autorità competente
deve esaminare il caso in modo approfondito.
70. Un minore può essere oggetto di una sanzione disciplinare solo nei limiti
stretti delle disposizioni legali o regolamentari in vigore. Nessun minore può
essere punito senza essere stato informato in un modo che gli sia del tutto
comprensibile dell’infrazione che gli viene rimproverata, e senza avere avuto
l’occasione di presentare la propria difesa e in particolare di fare ricorso di
fronte a un’autorità imparziale competente. Tutto quello che riguarda misure
disciplinari va consegnato per iscritto.
71. Nessun minore può essere incaricato di funzioni disciplinari tranne nell’ambito
del controllo di certe attività sociali, educative, sportive o di programmi che
prevedono da parte del minore il farsi carico di se stesso.
M. Procedure di reclamo e ispezioni
72. Qualificati ispettori, o un’autorità equivalente debitamente costituita e che
appartiene all’amministrazione, vanno abilitati a procedere a regolari ispezioni e
ad avviare di propria iniziativa ispezioni non annunciate e devono godere di tutte
le garanzie d’indipendenza nell’esercizio di questa funzione. Gli ispettori devono
avere accesso senza restrizioni a tutte le persone impiegate o che lavorano in ogni
istituto dove minori sono o possono essere privati della libertà, a tutti i minori
e a tutte le pratiche di tali istituti.
73. Medici qualificati incaricati dall’autorità responsabile per le ispezioni o
dall’amministrazione della sanità pubblica devono partecipare alle ispezioni,
valutando il rispetto delle regole relative all’ambiente fisico, all’igiene, i
locali di detenzione, l’alimentazione, l’esercizio fisico e i servizi medici,
nonché qualsiasi altro aspetto della vita in istituto che tocchi la salute fisica e
mentale dei minori. I minori devono avere il diritto di conversare in modo
confidenziale con ogni ispettore.
74. Dopo ogni ispezione, gli ispettori devono presentare una relazione su quello
che hanno constatato. La relazione comprende una valutazione della misura in cui
l’istituto si conforma alle qui presenti Regole e alle disposizioni della
legislazione nazionale e raccomandazioni relative a tutte le misure giudicate
necessarie per garantire l’applicazione di queste regole e disposizioni. Ogni fatto
scoperto da un ispettore, che sembra indicare che vi sia stata violazione delle
disposizioni legali relative ai diritti dei minori o al funzionamento di un
istituto per minori, va segnalato alle competenti autorità per inchiesta e azioni
giudiziarie.
75. Ogni minore deve avere modo di presentare richieste o lagnanze al direttore
dell’istituto o al suo rappresentante autorizzato.
76. Ogni minore deve avere il diritto di rivolgere, nel modo prescritto, senza
censura per quanto riguarda il contenuto, una richiesta o una lamentela
all’amministrazione centrale degli istituti per minori, all’autorità giudiziaria o
ad altre autorità competenti, e di essere informato senza indugio della risposta.
77. Conviene sforzarsi di creare un servizio o di nominare un difensore civico che
possa, in tutta indipendenza, ricevere le lagnanze formulate dai minori privati
della libertà, svolgere un’inchiesta su queste e aiutare a mettere a punto
regolamenti equi.
78. Ogni minore deve avere il diritto di chiedere assistenza a membri della sua
famiglia, a consiglieri giuridici, a gruppi umanitari o altri là dove questo è
possibile, allo scopo di formulare la sua lagnanza. I minori analfabeti devono
potere utilizzare i servizi di organismi pubblici o privati che forniscono
un’assistenza giudiziaria o sono abilitati a ricevere le lagnanze.
39
N. Ritorno nella comunità
79. Ogni minore deve usufruire di disposizioni che mirano ad agevolare il suo
ritorno nella società, in famiglia, nell’ambiente scolastico o nella vita attiva
dopo la liberazione. Devono essere concepite specialmente a questo scopo alcune
procedure, in particolare la liberazione anticipata.
80. Le autorità competenti devono fornire o garantire servizi che mirano ad aiutare
i minori liberati a ritrovare il proprio posto nella società, nonché a ridurre il
pregiudizio riguardo a questi minori. Questi servizi dovranno vigilare, nella
misura in cui questo è necessario, sul fatto che il minore ottenga una casa, un
lavoro e dei vestiti corretti, nonché i mezzi sufficienti per vivere durante il
periodo che segue la sua liberazione, in modo da facilitare il suo reinserimento in
buone condizioni. I rappresentanti degli organismi dispensatori di tali servizi
devono avere accesso all’istituto e ai minori e vanno consultati durante la
detenzione per quanto riguarda l’aiuto da dare al minore quando tornerà nella
collettività.
V. Personale
81. Il personale deve comprendere un numero sufficiente di specialisti, quali
educatori, istruttori, consiglieri, lavoratori sociali, psichiatri e psicologi
qualificati. Queste persone e gli altri specialisti vanno normalmente impiegati in
modo permanente, ma questo non impedisce di impiegare ausiliari a tempo parziale o
volontari se l’appoggio e la formazione che questi possono dare sono adeguati e
benefici. L’istituto deve ricorrere a tutte le fonti e forme di assistenza
curativa, scolastica, morale, spirituale e altra che sono indicate e disponibili e
deve sforzarsi di impiegarle secondo i bisogni e i problemi individuali del
trattamento dei minori.
82. L’amministrazione deve scegliere con cura il personale di ogni grado e
categoria, poiché dalla sua integrità, dalla sua umanità, dalla sua capacità ad
occuparsi di minori, dalle sue capacità professionali e dalla sua generale
attitudine al lavoro in questione dipende una buona gestione degli istituti per
minori.
83. Affinché gli scopi sopracitati possano essere raggiunti, i membri del personale
vanno assunti come funzionari e correttamente rimunerati affinché si possano
scegliere uomini e donne capaci. Il personale degli istituti per minori deve essere
continuamente incoraggiato a esercitare le sue funzioni con umanità, dedizione ed
efficacia e a comportarsi, in ogni momento, in modo da meritare il rispetto dei
minori e a dare loro l’esempio di un comportamento e di prospettive positive.
84. L’amministrazione deve instaurare forme di organizzazione e di gestione atte ad
agevolare la comunicazione tra le varie categorie del personale in ogni istituto,
allo scopo di garantire la cooperazione tra i vari servizi che si occupano dei
minori, nonché tra il personale e l’amministrazione, in modo che il personale
direttamente in contatto con i minori sia in grado di lavorare in condizioni
favorevoli all’efficace esercizio delle sue funzioni.
85. Il personale deve ricevere una formazione che gli permetta di svolgere in modo
efficace i suoi compiti in materia di riadattamento, e che comporti in particolare
una
formazione
nel
campo
della
psicologia
del
bambino,
della
protezione
dell’infanzia e delle norme internazionali relative ai diritti dell’uomo e ai
diritti del bambino, in particolare le qui presenti Regole. Lungo la sua carriera,
il personale dovrà mantenere e perfezionare le sue conoscenze e la sua capacità
professionale seguendo corsi di perfezionamento che verranno periodicamente
organizzati.
86. Il direttore dell’istituto deve essere sufficientemente qualificato per il suo
compito; deve possedere le capacità amministrative, la formazione e l’esperienza
necessarie e deve dedicare tutto il suo tempo alla sua funzione.
87. Nell’esercizio delle sue funzioni, il personale dell’istituto deve rispettare e
proteggere la dignità umana e i diritti individuali fondamentali di tutti i minori.
In particolare:
a) Per nessun pretesto e in nessun caso, un membro del personale dell’istituto può
infliggere, provocare o tollerare una misura disciplinare o punitiva, un atto di
tortura, una pena o trattamenti crudeli, inumani o degradanti;
b) Il personale dell’istituto deve opporsi in modo rigoroso a ogni atto di
corruzione, combattere tutti gli atti di questo genere e segnalarli senza indugio
alle competenti autorità;
c) Il personale dell’istituto è tenuto a rispettare le qui presenti Regole. Ogni
agente che ha motivo di pensare che c’è stata, o sta per esserci, una violazione
delle
qui
presenti
Regole,
deve
segnalarla
alle
autorità
superiori
e,
all’occorrenza, ad altre autorità o organi idonei dotati del potere di esame o di
sanzione;
40
d) Il personale dell’istituto deve garantire la protezione integrale della salute
fisica e mentale dei minori, in particolare la protezione contro gli abusi e lo
sfruttamento sessuali, fisici ed emozionali, e prendere misure immediate affinché i
minori usufruiscano di cure mediche ogni volta che questo è necessario;
e) Il personale dell’istituto deve rispettare il diritto del minore alla vita
privata e deve in particolare preservare la confidenzialità di tutto quello che ha
saputo nell’esercizio delle sue funzioni, riguardo ai minori e alla loro famiglia;
f) Il personale dell’istituto deve sforzarsi di ridurre al minimo le differenze
tra la vita all’interno e quella all’esterno dell’istituto che tendono a
pregiudicare il rispetto delle dignità dei minori in quanto esseri umani.
CONVENZIONE N° 29 SUL LAVORO FORZATO O OBBLIGATORIO
(Organizzazione Internazionale del Lavoro, 1930)
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO
(Onu, 1948)
Art. 5: “Nessuno verrà sottoposto a tortura né a pene o trattamenti crudeli,
inumani o degradanti”.
Art. 7: “Tutti sono uguali davanti alla legge e hanno diritto senza distinzione a
una protezione uguale contro ogni discriminazione che violerebbe la presente
Dichiarazione e contro ogni istigazione a tale discriminazione”.
LE QUATTRO CONVENZIONI DI GINEVRA DEL 1949 E I DUE PROTOCOLLI
AGGIUNTIVI DEL 1977
(Comitato Internazionale della Croce-Rossa)
CONVENZIONE RELATIVA ALLA PROTEZIONE DELLE PERSONE CIVILI IN TEMPO DI GUERRA
Art. 68: “In nessun caso la pena di morte potrà essere pronunciata contro una
persona protetta con meno di diciotto anni al momento dei fatti”.
Art. 76: “Verrà tenuto conto del regime speciale previsto per i minori”.
PROTOCOLLO AGGIUNTIVO RELATIVO ALLA PROTEZIONE DELLE VITTIME
DI CONFLITTI ARMATI INTERNAZIONALI
(Prot. n°1)
Art. 77 §4: “Se vengono arrestati, detenuti o internati per ragioni legate al
conflitto armato, i bambini verranno tenuti in locali separati da quelli per
adulti, tranne nel caso di famiglie alloggiate in quanto unità famigliari”.
CONVENZIONE RELATIVA ALLO STATUS DEI RIFUGIATI
(Onu, 1951)
Art. 16: 1. Ogni rifugiato avrà, sul territorio degli Stati contraenti, libero e
facile accesso ai tribunali.
2. Nello Stato contraente dove ha abituale residenza, ogni rifugiato godrà dello
stesso trattamento di un cittadino per quanto riguarda l’accesso ai tribunali,
compresa l’assistenza giuridica e l’esenzione della causa judicatum solvi.
3. Negli Stati contraenti diversi da quelli in cui ha abituale residenza, e per
quanto riguarda le questioni indicate nel paragrafo 2, ogni rifugiato godrà dello
stesso trattamento di un cittadino del paese nel quale ha abituale residenza.
CONVENZIONE RELATIVA ALLO STATUS DI APOLIDE
(Onu, 1954)
Art. 16: 1. Ogni apolide avrà, sul territorio degli Stati contraenti, libero e
facile accesso ai tribunali.
2. Nello Stato contraente dove ha abituale residenza, ogni apolide godrà dello
stesso trattamento di un cittadino per quanto riguarda l’accesso ai tribunali,
compresa l’assistenza giuridica e l’esenzione della causa judicatum solvi.
3. Negli Stati contraenti diversi da quelli in cui ha abituale residenza, e per
quanto riguarda le questioni indicate nel paragrafo 2, ogni apolide godrà dello
stesso trattamento di un cittadino del paese nel quale ha abituale residenza.
INSIEME DELLE REGOLE MINIME PER IL TRATTAMENTO DEI DETENUTI
(Onu, 1955 e 1977)
Art. 5: 1. Queste regole non hanno lo scopo di determinare l’organizzazione degli
istituti per giovani delinquenti (istituti Borstal, istituti di rieducazione,
ecc.). Tuttavia, in modo generale, la prima parte dell’Insieme delle regole può
essere considerata applicabile anche a questi istituti.
41
2. La categoria dei giovani detenuti deve in ogni caso comprendere i minori che
dipendono dalle giurisdizioni per bambini. In regola generale, questi giovani
delinquenti non dovrebbero essere condannati a pene carcerarie.
Art. 8: Le varie categorie sociali di detenuti vanno sistemate in istituti
distinti, tenendo conto del sesso, dell’età, dei precedenti, dei motivi della
detenzione e delle esigenze del trattamento. E quindi
...d) I giovani detenuti vanno separati dagli adulti.
Art. 21 §2: I giovani detenuti e gli altri detenuti le cui età e condizione fisica
lo consentono devono ricevere, durante il periodo riservato all’esercizio,
un’educazione
fisica
e
ricreativa.
A
questo
scopo,
le
attrezzature
e
l’equipaggiamento andrebbero messi a loro disposizione.
Art. 71 §5: “Occorre dare una formazione professionale utile ai detenuti che sono
in grado di trarne giovamento e in particolare ai giovani”.
Art. 77 §1: “Vanno prese disposizioni per sviluppare l’istruzione di tutti i
detenuti capaci di trarne giovamento, compresa l’istruzione religiosa nei paesi in
cui questo è possibile. L’istruzione degli analfabeti e dei giovani detenuti deve
essere obbligatoria, e l’amministrazione dovrà badarci attentamente”.
Art. 85 §2 (Persone arrestate o in detenzione preventiva): I giovani imputati vanno
separati dagli adulti. In via di principio, devono essere detenuti in istituti
distinti.
CONVENZIONE N° 105 SULL’ABOLIZIONE DEL LAVORO FORZATO
(Organizzazione Internazionale del Lavoro, 1957)
CONVENZIONE SULL’ELIMINAZIONE DI OGNI FORMA
DI DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
(Onu, 1965)
Art. 5 : “In conformità agli obblighi fondamentali enunciati all’art. 2 della qui
presente Convenzione, gli Stati-parti si impegnano a vietare e a eliminare la
discriminazione razziale in tutte le sue forme e a garantire il diritto di ognuno
all’uguaglianza davanti alla legge senza discriminazione di razza, colore o origine
nazionale o etnica...”.
PATTO INTERNAZIONALE INERENTE AI DIRITTI CIVILI E POLITICI
(Onu, 1966)
Art. 6 §5: “Una sentenza di morte non può essere imposta per i crimini commessi a
persone con meno di 18 anni e non può essere eseguita contro le donne incinte”.
Art.7: “Nessuno verrà sottoposto a tortura né a pene o trattamenti crudeli, inumani
o degradanti. In particolare, è vietato sottoporre una persona senza il suo libero
consenso a un esperimento medico o scientifico”.
Art. 10 §2: “b. I giovani imputati vengono separati dagli adulti e il loro caso
viene deciso il più rapidamente possibile.
c. Il regime carcerario comporta un trattamento dei condannati, il cui essenziale
scopo è il loro recupero e la loro riqualificazione sociale. I giovani delinquenti
vengono separati dagli adulti e sottoposti a un regime idoneo alla loro età e al
loro status legale”.
Art. 14 §1: “Tutti sono uguali davanti ai tribunali e alle corti di giustizia. Ogni
persona ha diritto al fatto che la sua causa sia giudicata equamente e
pubblicamente da un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito
dalla legge, che deciderà sia della fondatezza di ogni accusa in campo penale
diretta contro questa persona sia delle contestazioni dei suoi diritti e obblighi a
carattere civile. Può essere ordinato che le udienze siano a porte chiuse per tutta
la durata del processo o per parte di esse sia nell’interesse dei buoni costumi,
dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale sia quando l’interesse della vita
privata delle parti in causa lo esige sia ancora nella misura in cui il tribunale
lo riterrà assolutamente necessario quando, date le particolari circostanze del
caso, la pubblicità nuocerebbe agli interessi della giustizia; tuttavia ogni
giudizio reso in campo penale e civile sarà pubblico, tranne se l’interesse di
minori esige che sia diversamente o se il processo verte su disaccordi matrimoniali
o sulla tutela dei bambini”.
Art. 14 §4: “La procedura applicabile ai giovani che non sono ancora maggiorenni
rispetto alla legge penale terrà conto della loro età e dell’interesse
rappresentato dalla loro rieducazione”.
Art. 24 §1: “Ogni bambino, senza alcuna discriminazione fondata su razza, colore,
sesso, lingua, religione, origine nazionale o sociale, fortuna o nascita, ha
diritto, da parte della sua famiglia, della società e dello Stato, alle misure di
protezione richieste dalla sua condizione di minore”.
42
CODICE DI COMPORTAMENTO PER I RESPONSABILI DELL’APPLICAZIONE
DELLE LEGGI
(Onu, 1979)
Art. 3: “I responsabili dell’applicazione delle leggi possono ricorrere alla forza
solo se questo è strettamente necessario e nella misura richiesta dall’adempimento
delle loro funzioni”.
Commento: c) L’uso di armi da fuoco viene considerato un mezzo estremo. Tutto
dovrebbe essere fatto per escludere l’uso di armi da fuoco, in particolare contro i
bambini”.
CONVENZIONE SULL’ELIMINAZIONE DI TUTTE LE DISCRIMINAZIONI VERSO
LE DONNE
(Onu, 1979)
Art. 15 §1: “Gli Stati-parti riconoscono alla donna l’uguaglianza con l’uomo di
fronte alla legge”.
PRINCIPI DI ETICA MEDICA APPLICABILI AL RUOLO DEL PERSONALE SANITARIO,
IN PARTICOLARE AI MEDICI, NELLA PROTEZIONE DEI PRIGIONIERI E DETENUTI
CONTRO LA TORTURA E LE ALTRE PENE O TRATTAMENTI CRUDELI,
INUMANI E DEGRADANTI
(Onu, 1982)
CONVENZIONE CONTRO LA TORTURA E ALTRE PENE O TRATTAMENTI CRUDELI,
INUMANI E DEGRADANTI
(Onu, 1984)
GARANZIE PER LA PROTEZIONE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PASSIBILI
DI PENA DI MORTE
(Onu, 1984)
Art. 3: “Le persone con meno di 18 anni nel momento in cui commettono un crimine
non verranno condannate a morte e la sentenza non verrà eseguita nel caso di una
donna incinta, della madre di un giovane bambino o di persone colpite da
alienazione mentale”.
PRINCIPI FONDAMENTALI RELATIVI ALL’INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA
(Onu, 1985)
CONCLUSIONE N°44 SULLA DETENZIONE DEI RIFUGIATI E DELLE PERSONE
IN CERCA DI ASILO
(Alto commissariato per i rifugiati, 1986)
INSIEME DEI PRINCIPI PER LA PROTEZIONE DI TUTTE LE PERSONE SOTTOPOSTE
A UNA QUALUNQUE FORMA DI DETENZIONE O IMPRIGIONAMENTO
(Onu, 1988)
Principio 5 §2: “Le misure applicate in conformità alla legge e destinate a
proteggere i diritti e la condizione particolare delle donne, soprattutto delle
donne incinte e delle madri di bambini piccoli, dei bambini, adolescenti, delle
persone anziane, malate o handicappate non sono considerate misure discriminatorie.
Il loro carattere necessario e la loro applicazione potranno essere oggetto di un
esame da parte dell’autorità giudiziaria o altra”.
Princ. 16 §3: “Nel caso di un adolescente, o di una persona incapace di capire
quali sono i suoi diritti, l’autorità competente dovrà, di sua iniziativa,
procedere alla notifica di quanto indicato in questo principio. Si adopererà in
particolar modo per avvertire i genitori o tutori”.
CONVENZIONE INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DEL BAMBINO
(Onu, 1989)
2. PROTOCOLLO FACOLTATIVO INERENTE AL PATTO INTERNAZIONALE RELATIVO AI DIRITTI CIVILI E
POLITICI E DESTINATO AD ABOLIRE
LA PENA DI MORTE
(Onu, 1989)
PRINCIPI RELATIVI ALLA PREVENZIONE DELLE ESECUZIONI EXTRAGIUDIZIARIE, ARBITRARIE E
SOMMARIE
(Onu, 1989)
43
REGOLE MINIME PER L’ELABORAZIONE DI MISURE NON PRIVATIVE
DELLA LIBERTÀ
(Onu, 1990)
PRINCIPI BASE INERENTI AL RUOLO DEL FORO
(Onu, 1990)
PRINCIPI BASE SUL RICORSO ALLA FORZA E L’USO DI ARMI DA FUOCO
DA PARTE DEI RESPONSABILI DELL’APPLICAZIONE DELLE LEGGI
(Onu, 1990)
CONVENZIONE DI SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI
(Consiglio d’Europa, 1950)
Art. 3: “Nessuno può esser sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o
degradanti”.
Art. 5 §1: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può
essere privato della libertà, tranne nei seguenti casi e secondo le vie legali:
...d) Se si tratta della detenzione regolare di un minore, decisa per la sua
educazione sorvegliata o la sua regolare detenzione, allo scopo di tradurla davanti
all’autorità competente”.
Art. 6 §1: “Ogni persona ha diritto al fatto che la sua causa sia giudicata
equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale
indipendente e imparziale, stabilito dalla legge, che deciderà sia delle
contestazioni dei suoi diritti e obblighi a carattere civile sia della fondatezza
di ogni accusa in campo penale diretta contro questa persona. Il giudizio deve
essere reso pubblicamente ma l’accesso alla sala di udienza può essere vietato alla
stampa e al pubblico per tutta la durata del processo o per parte di essa
nell’interesse della moralità, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in
una società democratica, quando gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa lo esigono, o ancora nella misura giudicata
strettamente necessaria dal tribunale quando, in particolari circostanze, la
pubblicità sarebbe di natura tale da pregiudicare gli interessi della giustizia”.
REGOLE CARCERARIE EUROPEE
(Consiglio d’Europa, 1973 e 1987)
Art. 11 §4: “I giovani detenuti devono essere ospitati in condizioni che li
proteggono il meglio possibile da ogni influenza nefasta e devono usufruire di un
regime che tenga conto dei particolari bisogni della loro età”.
Art. 71 §5: “Occorre dare una formazione professionale in mestieri utili ai
detenuti che sono in grado di trarne giovamento, e in particolare ai giovani”.
Art. 79: “L’educazione dei giovani detenuti, in particolare quelli di origine
straniera o quelli con particolari bisogni culturali per la loro etnia, dovrebbe
essere
oggetto
di
particolare
attenzione
da
parte
delle
amministrazioni
carcerarie”.
PROTOCOLLO N°6 ALLA CONVENZIONE DI SALVAGUARDIA
DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI
CIRCA L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE
(Consiglio d’Europa, 1986)
CONVENZIONE EUROPEA PER LA PREVENZIONE DELLA TORTURA
(Consiglio d’Europa, 1987)
CARTA EUROPEA DEI DIRITTI DEL BAMBINO
(Parlamento europeo, 1992)
Art. 1: “S’intende per bambino ogni essere umano che ha meno di 18 anni, tranne se
la maggior età viene raggiunta prima, in virtù della legislazione nazionale a
questa applicabile; allo scopo di applicare il diritto penale, l’età di 18 anni
viene considerata età minima affinché si possa chiedere a un essere umano di
rispondere dei propri atti”.
Art. 15: “Ogni bambino i cui genitori, o uno dei genitori, scontano una pena
carceraria deve potere mantenere con loro contatti idonei: i bambini piccoli che
vivono con la madre in prigione devono potere usufruire delle infrastrutture e
delle cure idonee; gli Stati membri devono garantire a questi bambini una
formazione scolastica all’infuori dell’universo carcerario”.
44
Art. 20: “La Comunità e gli Stati membri devono includere nel loro programma di aiuto
allo sviluppo specifici progetti di collaborazione con paesi terzi per combattere sia
la delinquenza giovanile organizzata sia la brutale repressione dei bambini”.
Art. 22: “Ogni bambino ha diritto alla libertà; nessun bambino può essere oggetto
di detenzione o di segregazione illegale o arbitraria”.
Art. 23: “Ogni bambino ha diritto alla protezione giuridica; i bambini sospettati
di aver commesso un delitto hanno il diritto di usufruire di tutte le garanzie per
un regolare processo, compreso il diritto a un’assistenza giuridica speciale e
idonea per la presentazione della loro difesa; nel caso in cui un bambino viene
dichiarato colpevole di un delitto, si eviterà che venga privato della libertà o
posto in un’istituzione penitenziaria per adulti; in questo caso, un trattamento
idoneo verrà dispensato al bambino, attraverso le cure di personale specializzato,
nella prospettiva della sua rieducazione e del suo ulteriore reinserimento
sociale”.
DICHIARAZIONE AMERICANA DEI DIRITTI E DOVERI DELL’UOMO
(Organizzazione degli Stati Americani, 1948)
CONVENZIONE AMERICANA INERENTE AI DIRITTI DELL’UOMO
(Organizzazione degli Stati Americani, 1969)
Art. 4 §5: “La pena di morte non può essere inflitta a persone che, al momento in
cui è stato commesso il crimine, avevano meno di 18 anni o più di 70 anni; allo
stesso modo non può essere applicata alle donne incinte”.
Art. 5 §2: “Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti
crudeli, inumani o degradanti. Ogni persona privata della sua libertà verrà
trattata con il rispetto dovuto alla dignità inerente alla persona umana”.
Art. 5 §5: “Quando l’imputato è minore, va separato dagli adulti e tradotto con la
massima celerità possibile davanti a un tribunale specializzato dove riceverà un
trattamento idoneo al suo status”.
Art. 19: “Ogni bambino ha diritto alle misure di protezione richieste dalla sua
condizione di minore, da parte della famiglia, della società e dello Stato”.
CONVENZIONE INTERAMERICANA DI PREVENZIONE E REPRESSIONE
DELLA TORTURA
(Organizzazione degli Stati Americani, 1985)
CARTA AFRICANA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEI POPOLI
(Organizzazione dell’Unità Africana, 1981)
Art. 5: “Ogni individuo ha diritto al rispetto della dignità inerente alla persona
umana e al riconoscimento della sua personalità giuridica. Sono vietate qualsiasi
forma di sfruttamento e di avvilimento dell’uomo, in particolare la schiavitù, la
tratta delle persone, la tortura fisica e morale e le pene o trattamenti crudeli,
inumani o degradanti”.
Art. 18 §3: “Lo Stato ha il dovere di badare all’eliminazione di ogni
discriminazione contro la donna e di garantire la protezione dei diritti della
donna e del bambino così come stipulati nelle dichiarazioni e convenzioni
internazionali”.
CARTA AFRICANA DEI DIRITTI E DEL BENESSERE DEL BAMBINO
(Organizzazione dell’Unità Africana, 1990)
Art. 4 §2: “In ogni procedura giudiziaria o amministrativa che colpisce un bambino
capace di comunicare, si farà in modo che i punti di vista del bambino possano
essere sentiti sia direttamente sia attraverso un rappresentante imparziale che
prenderà parte alla procedura, e i suoi punti di vista vengono presi in
considerazione dall’autorità competente in conformità con le disposizioni delle
leggi applicabili in materia”.
Art. 5 §3: “La pena di morte non è pronunciata per crimini commessi da bambini”.
Art. 17.1: Ogni bambino accusato o dichiarato colpevole di aver infranto la legge
penale ha diritto a un trattamento speciale compatibile con il senso che il bambino
ha della propria dignità, del proprio valore e adatto a rinforzare il rispetto del
bambino per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali degli altri.
2. Gli Stati-parti della qui presente Carta devono in particolare:
a) badare al fatto che il bambino detenuto o imprigionato, o in altro modo privo
della propria libertà, non venga sottoposto a tortura o a trattamenti o castighi
inumani o degradanti;
45
b) badare al fatto che qualsiasi bambino accusato di aver infranto la legge
penale;
I) sia presunto innocente fino al momento in cui verrà debitamente riconosciuto
colpevole;
II) sia informato prontamente e in modo particolareggiato delle accuse portate
contro di lui e usufruisca dei servizi di un interprete se non può capire la lingua
usata;
III) riceva un’assistenza legale o altra idonea per preparare la sua difesa;
IV) veda il suo caso deciso il più rapidamente possibile da un tribunale
imparziale e, se riconosciuto colpevole, abbia la possibilità di fare appello
presso un tribunale di istanza maggiore;
V) non sia costretto a testimoniare o a dichiararsi colpevole;
d) vietare alla stampa e al pubblico di assistere al processo.
3. Lo scopo essenziale del trattamento del bambino durante il processo, anche se è
dichiarato colpevole di aver infranto la legge penale, è il suo ricupero, la
reintegrazione all’interno della famiglia e la sua riabilitazione sociale.
4. Va fissata un’età minima al di sotto della quale si presume che i bambini non
abbiano la capacità di infrangere la legge penale.
Art. 19 §4: “Se un bambino viene fermato da uno Stato-parte, i genitori o il tutore
ne vengono informati da detto Stato il più rapidamente possibile”.
46
LEZIONE 3
Il rimpatrio dei minori stranieri di Leopoldo Grosso
Sotto il profilo educativo e della promozione del minore, il rimpatrio può costituire una
reale opportunità per il minore, adolescente o preadolescente, solo ad alcune condizioni,
precise e verificate:
* Allorché vengano individuate nel paese d’origine, e non solo come titolari di doveri e
responsabilità giuridiche, ma come portatori di reali capacità educativa, coloro che si
possono occupare del minore in oggetto.
La verifica di tali capacità, allo stato attuale, è molto difficile. Generalmente il minore
straniero che giunge in Italia come clandestino, viene affidato a parenti e conoscenti,
talvolta “affidato” a connazionali all’insaputa del minore stesso, portatore comunque di
un progetto immigratorio “indiretto”, in modo da badare economicamente a se stesso, o
che la “famiglia” possa contare su alcune sue rimesse. È già capitato che, dopo il
rimpatrio, lo stesso minore venisse di nuovo introdotto clandestinamente in Italia o, in
vece sua, un fratello o un cugino.
* Allorché, insieme alle reali capacità educative delle persone a cui viene affidato,
vengono individuate le ipotesi progettuali per il suo reinserimento nel paese d’origine:
scolarizzazione, formazione professionale, tirocinio pre-lavorativo…
La definizione del progetto, rispetto al quale si impegnano le persone a cui viene affidato
il minore, che a loro volta vengono supportate con le risorse economiche necessarie per
realizzarlo, deve prevedere l’adesione volontaria e la partecipazione attiva da parte del
minore stesso.
?? Un rimpatrio mirato, per costituire un risorsa per il minore e perché abbia successo,
deve quindi ottemperare a condizioni:
- l’individuazione di responsabilità educative reali e non solo formali nel paese
d’origine;
- la definizione di un progetto di reinserimento;
- la disponibilità a sostenerlo economicamente nel breve-medio periodo;
- l’adesione volontaria e la condivisione del progetto di rimpatrio da parte del minore;
- la possibilità di verifica del percorso nel paese d’origine.
?? L’esperienza, benché frammentaria ed “impressionistica”, condotta fino ad oggi ci
dimostra che, in mancanza di tali condizioni, il rimpatrio non è strumento utile alla
promozione del minore, ma tende invece:
- a ripristinare le condizioni di una situazione di sfruttamento e/o di marginalità
preesistente;
- ad essere solo una tappa per un nuovo rientro clandestino in Italia o altrove in Europa;
47
- a creare “addizionali” problemi di reinserimento nel proprio paese dopo un periodo
significativo di “occidentalizzazione” e di conseguente interiorizzazione del progetto
immigratorio.
?? In mancanza, oggi, di una verifica dell’esito dei progetti di rimpatrio già effettuati
sarebbe opportuno creare le condizioni per un’adeguata sperimentazione di tale
strumento.
L’ambito della sperimentazione dovrebbe collocarsi all’interno di un accordo con le
autorità locali che si occupano di minori sotto il profilo educativo, con l’aiuto di ONG nei
paesi di rimpatrio che potrebbero monitorare e sostenere da vicino, anche
economicamente, tali progetti, nonché condurre una verifica degli esiti nel tempo.
?? Il rimpatrio, a precise condizioni, può quindi costituire una tra le opportunità possibili
per il minore in Italia, clandestino e reo. Il rimpatrio non costituisce invece
opportunità, bensì danno allorché:
- non è “mirato”, ma diventa misura giuridico amministrativa generalizzata, pur
nell’ambito di accordi internazionali;
- è mirato, ma non è affiancato da risorse umane ed economiche in grado di garantire la
riuscita del progetto, nonché la sua verifica;
- viene vissuto dal minore come una modalità punitiva per i propri atti devianti e per il
proprio stato di clandestinità.
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LEZIONE 4
La tossicodipendenza di Leopoldo Grosso
Quando una famiglia “scopre” la tossicodipendenza del figlio si notano, in genere, due
comportamenti contrapposti, entrambi disfunzionali alla situazione.
Dal non voler vedere, al dramma (gli estremi si toccano).
Se la realtà fa troppo male, se sembra accadere quello che non si sarebbe mai voluto che
accadesse, i genitori tendono a non “vedere” i fatti, a interpretare in senso benigno i
comportamenti del ragazzo, a credere acriticamente a tutte le sue spiegazioni. ~ il
meccanismo di difesa di negazione della realta, troppo dolorosa da accettare, per cui ci si
illude, chiudendosi gli occhi, che tutto vada nella direzione di sempre, che nulla
eccessivamente perturbante sia successo. ~ cosi che spesso una madre quando,
riassettando il giubbotto del figlio, vi trova in tasca una siringa, e chiede ansiosamente
spiegazioni, si accontenta di risposte tipo: <<E di un mio amico che si fa, e siccome sua
madre lo perquisisce quando rientra, mi ha chiesto di tenergliela>>. oppure: <<Tutti oggi
hanno provato a farsi, ma cosa credi, io non sono stupido...>>. Il meccanismo di
negazione della realta, se serve a salvaguardare il sistema di sicurezze dei genitori, non
aiuta invece il figlio a rendersi pienamente conto dei suoi problemi, a compiere scelte
diverse, a far ricorso a qualcuno che possa dargli una mano. Si protrarra inutilmente nel
tempo un confronto che e necessario, invece, anticipare rispetto a una verita che solo
episodi eclatanti quali l’intervento di Pronto Soccorso, l’arresto da parte delle forze
dell’ordine, la comparsa di una malattia, si svelera successivamente in tutta la sua
durezza.
Altre volte le famiglie reagiscono in senso opposto. L’uso di una droga da parte del figlio
viene iperdrammatizzato, quasi senza fare distinzione alcuna tra le diverse sostanze e la
loro differente pericolosita. Il comportamento di esasperazione assume modalita
differenti a seconda che prevalgano, di volta in volta, la rabbia, la depressione, l’ira o il
ricatto affettivo.
Molto spesso il comportamento di disperazione e aggressivita si traduce nell’espulsione
del figlio da casa, che rappresenta da una parte la punizione per il dolore arrecato,
dall’altra una difesa da una situazione giudicata insostenibile sia per i componenti della
famiglia, sia socialmente per l’esposizione al giudizio altrui.
Imparare a convivere con il pro~3lema senza vergogna e senza sensi di colpa
Dopo la prima fase di shock, la famiglia deve spesso fare i conti con altre due reazioni
che, a poco a poco, rischiano di prendere il soprawento e di interferire negativamente con
le scelte razionali e la tranquillita emotiva che, per quanto possibile, fungono da
presupposti a un ruolo di aiuto. Sono i sentimenti di vergogna e di colpa. La vergogna e
provata nei confronti dei parenti, degli amici, dei conoscenti, collegata all’esposizione di
un fallimento familiare, rispetto al quale si temono giudizi, commenti maligni, rifiuti... La
colpa e collegata all’idea, che si insinua immediatamente, di non essere stati bravi
49
genitori, difficilmente capaci di tutelare il figlio da un pericolo da cui bisognava stare in
guardia.
La famiglia si colpevolizza e, al suo interno madre e padre spesso si rimandano l’un
l’altro gli errori presunti, i reciproci sbagli educativi. Tra colpa e vergogna si apre una
spirale negativa in cui la famiglia rischia di precipitare. La vergogna che si coglie nel
dover sostenere lo sguardo degli altri si scarica nella colpevolizzazione tra i coniugi. Il
risultato e il difficile raggiungimento di uno stato di tranquillita e di “tregua” sia
all’interno della casa che fuori. Se si sta male in casa non ci si puo rifugiare fuori e
viceversa. Ci si sente attanagliati dal problema, senza possibilita di luoghi in cui si e
compresi, accettati, aiutati. Non a caso emergono fantasie di fuga, a volte realizzate.
Sappiamo di una famiglia che si e addirittura trasferita all’estero, in una citta in cui no~
c’era alcuna persona e ne attivita ad attenderla, unicamente per cercare di liberarsi dai
sensi di vergogna e di colpa e sperando che il figlio, cambiando completamente ambiente,
potesse sradicarsi dalla dipendenza.
Una proposta percorri1oile: lasciarsi aiutare
Se la vergogna e la colpa non prendono il soprawento in maniera distruttiva, il dolore e la
sua elaborazione possono portare ad atteggiamenti costruttivi. La famiglia puo contenere
il dolore impegnandosi direttamente nel percorso riabilitativo accanto al figlio:
favorendolo, accompagnandolo, ottenendo i primi risultati parziali quali la
disassuefazione e la stabilizzazione dello stato di remissione. Per poter aiutare nel modo
piu opportuno, la famiglia deve essere ella stessa in grado di chiedere aiuto, superare il
muro della vergogna, voler fare i
conti con i propri sensi di colpa, colpe reali o presunte, mettersi in discussione e rendere
in qualche misura visibile la propria difficolta. Bisogna quindi che compia due primi
passi:
?? riconoscere la gravita del problema;
?? riconoscere la necessita di chiedere aiuto.
Sara poi la competenza e la disponibilita degli specialisti (servizi per le
tossicodipendenze, associazioni del privato-sociale) ad aiutare i genitori a non
commettere sbagli, a non fare errori di precipitazione, ad assumere gli atteggiamenti piu
idonei. Non bisogna illudersi che ci siano facili scorciatoie: che con una disintossicazione
si risolva il problema, che basti chiudere la porta in faccia al figlio per fargli “toccare il
fondo” al piu presto, affinche chieda aiuto. Ne i viaggi della speranza verso cliniche
costose che compiono solo un intervento parziale, ne “sbatterli fuori casa” nella speranzaillusione che subito si rawedano e nel frattempo non capiti il peggio, aiutano le famiglie a
superare le diffficolta. ~ piu utile un impegno costante, paziente, in cui ogni giorno si e
disponibili al confronto, con atteggiamenti fermi, tenaci, ma anche flessibili, poiche ogni
persona tossicodipendente e in parte simile, ma in parte anche diversa da un’altra nella
50
stessa situazione, per cui gli interventi adeguati agli uni si rivelano ineffficaci o
controproducenti agli altri.
Quando il ‘gruppo” aiuta
Il confronto settimanale con altre famiglie che hanno o hanno avuto la stessa diffficolta
costituisce uno strumento utile per affrontare la situazione e contribuire a rendere i
genitori un valido aiuto per il percorso riabilitativo del figlio. Nel gruppo tra famiglie si
condividono le stesse sofferenze, si confrontano esperienze simili, si socializzano i
diversi sforzi compiuti.
Come una famiglia ha affrontato un problema, puo offrire un’indicazione. Quei genitori
che possono affermare di avercela fatta consentono importanti iniezioni di speranza e di
fiducia. Anche per chi, insieme al figlio, sta attraversando momenti drammatici, la
vicinanza e la presenza di altri genitori si rivelano di conforto e di aiuto.
~ fondamentale, soprattutto all’inizio, quando si deve fare i conti con il convincere il
figlio a farsi aiutare, attingere dall’esperienza delle altre famiglie non solo le conoscenze
per meglio poter prevedere le conseguenze delle proprie scelte e dei propri atteggiamenti,
ma soprattutto il sostegno psicologico e affettivo che fa sentire meno soli e meno
impotenti.
Far parte di gruppi di familiari per molti genitori rappresenta l’unico momento di reale
comunicazione e di contatto con l’esterno.
Le famiglie con un problema di tossicodipendenza che riguarda un figlio tendono a
chiudersi, a evitare un difficile confronto con i parenti, a “tagliare” tutti i rapporti sociali,
perche vissuti ormai come “super~ui” oppure impregnati di vergogna, se non addirittura
sfiorati dalla colpa, come “svago” oggi non piu meritato.
La tossicodipendenza del figlio, che per molti genitori significa anche sostenere un peso
economico non indifferente in quanto ricadono su di essi i diversi costi dell’esperienza
della droga (non a caso molti genitori non consentono al figlio di mantenere la residenza
formale presso il proprio nucleo), significa soprattutto isolamento relazionale e sociale.
Le associazioni di familiari, in collegamento con le comunita e con i servizi pubblici,
rappresentano un punto di riferimento importante, non solo come orientamento e
sostegno nelle battaglie per l’emancipazione dallo stato di tossicodipendenza del figlio,
ma anche per consentire la conservazione degli equilibri psicologici tra i genitori, un
aiuto alle loro dinamiche relazionali, uno spazio di apertura e di confronto sistematico.
La
prevenzione
attiva
alle
dipendenze
Leopoldo
Grosso
Vorrei iniziare parlando dei concetto di bisogno: innanzi tutto dobbiamo fare una
distinzione fra bisogno fisiologico e bisogno psichico. Normalmente parliamo del primo
con un'accezione positiva: è contestuale all'epoca della vita, è uno stimolo, una molla
verso il cambiamento. Solitamente il cambiamento", si impoverisce nel suo aspetto di
risorsa nel momento in cui "si cronicizza, ed esistono dei chiari indicatori di
impoverimento: I. le risorse che stanno intorno vengono a mancare, diventano
51
inuùlizzabili; 2. la progressiva incapacità del soggetto di vedere e utilizzare queste
risorse; 3. un indicatore più soggettivo, ma forse più pregnante: l'eclissi progressiva della
speranza di cambiare, il cui correlato comportamentale è una sempre minore attivazione
dei soggetto nel tentativo di cambiare. Questo processo comporta tre diversi
atteggiamenú: a) " tento di cambiare agendo sulla situazione, per trasformarla". Si tratta
di cercare di creare un contesto diverso come se questo magicamente comportasse un
proprio cambiamento; b) "mi capiterà qualcosa che mi cambierà"; manca lo sforzo attivo
di cambiare la situazione, ma si vive in attesa. Questo è l'atteggiamento, per esempio,
della ragazza tossicodipendente che rimane incinta e ritiene che quell'evento le cambierà
tutta la vita; e) l'ultimo atto: la constatazione che " non capita mai nulla e quindi tanto
vale..."; è la nazionalizzazione dei comportamenti, il passaggio dall'atteggiamento
passivo-fatalistico ad uno passivo-nichilista, per cui l'impossibilità di cambiare è
teorizzata e nazionalizzata, e di conseguenza ci si adagia sui vantaggi minimali della
situazione esistente. Questo ci porta a fare delle osservazioni: innanzi tutto notiamo che la
cronicizzazione dei disagio ha degli elementi sia in senso oggettivo sia in senso
soggettivo. Inoltre il disagio si mescola presto, pur con modalità differenti, all'uso di
sostanze; questi due problemi (disagio cronicizzato e uso di sostanza) miscelati fra di
loro, costituiscono un tutt'uno e vanno trattati insieme: non si possono ritenere prioritari
l'uno o l'altro. Infine, possiamo osservare che anche nella cronicizzazione rimane
un'enorme differenza delle situazioni di disagio, rispetto all'origine, agli sviluppi e ai
quadri di consistenza. Il rischio che corriamo è quello di farci omologare ad un'unica
visione del disagio e di usare sempre gli stessi strumenti; pur rimanendo nel campo della
dipendenza che comporta l'adeguamento totale della persona a certi modelli, noi
dobbiamo fare questo sforzo a ritroso di differenziazione. La prevenzione secondaria
agisce su un disagio già presente e volto verso la cronicizzazione. Io non affermo affatto
che si debba rinunciare a questo tipo di intervento, ma ritengo che ci si debba prima
interrogare su quale sia il materiale su cui lavorare: dobbiamo prevenire il rischio in cui
un ragazzo può incorrere con più probabilità, o i rischi che sono in circolazione? Nel
primo caso, prevenzione secondaria significa prendere in carico il ragazzo (dunque il
singolo e il suo contesto); fare prevenzione primaria vuol dire invece prendere in carico il
contesto sociale: sono entrambe necessarie, dobbiamo mettere in moto processi in
entrambe le direzioni. Nella strutturazione del disagio possiamo tipologizzare (pur nei
limiti che tutte le tipologie possiedono) tre percorsi, tre stili di vita che devono incrociarsi
con fattori protettivi, per non sfociare nell'ingresso al consumo e alla dipendenza da
sostanze. Il primo è quello tipico, classico, "lo zoccolo duro della successiva
dipendenza": emarginazione e processo deviante; il secondo percorso è costituito dalla
marginalità e dalla spirale dell'inconcludenza; il terzo è un percorso più difficile da
riscontrare e da riconoscere (perché più raro e coinvolge utenti che non ci arrivano
subito), ossia la compatibilità dell'uso di sostanze con il lavoro, la famiglia, una buona
immagine sociale. Proviamo ad analizzare più approfonditamente i singoli percorsi citati:
52
Prima tipologia: emarginazione e processo deviante. Questo è un percorso in genere già
prevedibile e profetizzabile fin da quando i soggetti sono bambini, ma, paradossalmente,
è anche quello sul quale è più difficile intervenire, sul quale i nostri strumenti non hanno
successo, si infrangono. Sono stato riscontrati, a questo riguardo, quattro elementi
ricorrenti: I. una famiglia multiproblematica 2. le difficoltà affettive che agiscono sul
motore dell'apprendimento, cioè sulla capacità di attenzione e concentrazione, con
conseguenti effetti sull'ingresso a scuola e sul percorso scolastico in genere. Questi
bambini non si fermano mai, hanno difficoltà a soffermarsi, non perché incapaci di
apprendere, ma per una serie di fattori, fra i quali il gap con cui arrivano già a scuola (per
es., per quanto riguarda gli aspetti linguistici). Alle scuole elementari, con le tre maestre,
il bambino riesce ancora ad adattarsi; non recupera sul piano dell'apprendimento, ma è
contenuto il terzo passaggio: 3. la reazione compensativa del bambino, che diventa
ragazzino, sul piano comportamentale: "Io non ho una identità scolastica di successo,
cercherò di procurarmene una compensativa"; questa è la storia di tutti i ragazzini che la
vecchia nosografia definiva "caratteriali". Questo passaggio, più contenuto durante la
scuola dell'obbligo, avviene generalmente durante il cielo secondario, quando la capacità
di bolding che esiste nella scuola primaria, con più insegnanti attente e coordinate,
scompare, nonostante la buona volontà di molti insegnanti. Questo divorzio si consumerà
durante la scuola media, e sarà consensuale: il bambino non andrà più a scuola, dove non
si trova bene, mentre gli insegnanti e la classe in qualche modo "se ne liberano" (pensate
a tutte le difficoltà che incontrano i progetti che combattono la dispersione scolastica). 4.
la reazione della scuola alle difficoltà che sono portate dal ragazzo, di fatto la messa alla
prova della sua capacità di holding. Il seguito di questa storia è noto: dopo l'evasione
scolastica vengono la strada, la micro- delinquenza, le bande di quartiere, l'avvicinamento
alle sostanze che prima costituiscono una modalità per procurarsi i soldi, poi divengono
oggetto di consurno e dipendenza, e tutti gli altri rischi (sanitari, sociali e giudiziari).
Questi ragazzi dimostrano che la tossicodipendenza non è interclassista fino in fondo: chi
più rischia, più paga. Dobbiamo allora prepararci accuratamente un programma di
intervento preventivo. Le sue caratteristiche dovrebbero essere: a) la precocità; questa è
importantissima, ma lo è altrettanto la modalità con cui l'intervento precoce avviene,
ossia la segnalazione: deve essere intelligente, perché spesso le segnalazioni si riducono a
richieste fatte dalla scuola, da un insegnante d'appoggio, o ad una certificazione medica.
Agendo così non facciamo prevenzione, ma mettiamo una ipoteca pesante sul ragazzo,
inserendolo in circuiti relazionali differenziati rispetto alla classe. Dunque, è importante
che l'intervento sia precoce e che parta con le modalità giuste: bisogna fare un'analisi
della domanda. b) una presa in carico "soft": non psicologica/psichiatrica, ma educativa,
capace di avvalersi di competenze "psi-", ma in retrovia (altrimenti si passa
all'etichettamento). Inoltre, la presa in carico deve essere in continuità con l'ambiente del
ragazzo, e l'operatore deve operare un innesto dolce, accettato, accreditato agli occhi del
ragazzo nel suo ambiente. Non si tratta di creare un nostro setting, ma di inserirci in
53
quello del ragazzo. e) la continuità personale dell'operatore che attua l'intervento (si
tratta di interventi lunghi, che vanno dalla scuola elementare fino ai 14-18 anni): è
necessaria per evitare delle fratture nei passaggi fra servizi e operatori; su questi elementi
micro si gioca talvolta la riuscita dell'intervento. Possiamo definire la continuità
dell'intervento con un ternúne forte: "adozione di professionismo". Il problema
principale, rispetto a questi percorsi, è riuscire a lavorare insieme tra squadre diverse,
innescare delle collaborazioni forti fra assistenti sociali del territorio, preventori dei
Ser.T, educativa territoriale, neuropsichiatria infantile: tutti questi sono referenti che
fanno parte di squadre diverse, che talvolta rispondono a logiche diverse, che hanno
funzioni diverse nel corso dell'intervento, il quale richiede una riprogrammazione, un
monitoraggio e una valutazione continua. Il primo obiettivo che vogliamo raggiungere è
che queste squadre si parlino e definiscano insieme un progetto competente; altrimenti
questi ragazzi rimarranno i più prevedibili ma i meno "prevenibiii".
Seconda tipologia: marginalità e spirale dell'inconcludenza. Un indicatore forte di
questo percorso è ancora una volta il fallimento scolastico, che non avviene più alla
scuola dell'obbligo, ma durante il biennio delle superiori: si tratta di una situazione di
marginalità progressiva e non di emarginazione. Questo fallimento non avviene per le
capacità del ragazzo, per un minore investimento della famiglia su un eventuale
proseguimento degli studi superiori o per la ferita affettiva che diviene cognitiva (perché
agisce sul motore dell'apprendimento), ma per il tratto più tipico delle situazioni di
tossicodipendenza: la scarsa problematico . Gli studi superiori coinvolgono una serie di
microfattori del disagio: sono più faticosi, più lunghi, portano fuori casa, possono
risultare inutili dai racconti di chi ha già finito, il confronto con il successo è più
stringente, sono richieste maggiori capacità di tolleranza. Tutti questi fattori, cumulati, ci
permettono di comprendere la curva dell'abbandono scolastico, che ha due picchi: il
primo si verifica subito dopo le vacanze di Natale, perché un ragazzino capisce che a casa
sta meglio ed ha tempo per riaprire la prospettiva lavorativa (che in realtà è molto più
dura di quella scolastica); il secondo avviene immediatamente prima del termine ultimo
per ritirarsi: è ovvio che un ragazzino si ritiri prima di vedere segnato in rosso sul
tabellone “respinto", magari per la seconda volta. Può per esempio avvenire che il primo
anno sia respinto, il secondo ritenti, poi molli tutto; oppure non abbia successo la
trattativa con la famiglia, frequenti le scuole private di recupero anni scolastici, paghi,
recuperi magari un paio di anni, poi... Sostanzialmente, gli anni che vanno dai 14 ai 18
(dalla terza media al servizio militare per i maschi) diventano gli anni dell'inconcludenza:
non si ottiene un diplorna, non si riceve una formazione reale, non si ha un lavoro e non
si porta a casa uno stipendio per avere la propria legittimità sociale, la propria "seconda
pelle" sociale. Questi, che dovrebbero essere gli anni della formazione, sono anni
decisivi: si sta sempre più fuori casa, anche perché in famiglia l'atmosfera diventa pesante
ed i genitori non accettano che il ragazzo non lavori e si rivolga a loro per pagarsi gli
svaghi serali. In questi ragazzi si struttura dentro un senso di diversità molto più sottile
54
rispetto ai ragazzi della precedente tipologia, un senso di identità e un vissuto
fallimentare, distorto (di cui l'insuccesso scolastico è il segno esteriore) che costituisce
una minaccia permanente all'autostima e che progredisce verso tre atteggiamenti in
successiva radicazione: a) opposizione per la famiglia b) omologazione nei confronti del
gruppo dei pari e) compensazione verso le sostanze. Questi tre fattori soggettivi fanno da
correlato a tre elementi oggettivi, di contesto, strutturali: a) la mancanza di un percorso
formativo, anche alternativo al percorso scolastico classico b) l'assenza di un altro
"contenitore" come l'ambiente di lavoro (che certamente ha aspetti positivi e negativi, ma
in questo caso prevarrebbero quelli positivi) c) la progressiva ed oggettiva difficoltà a
comunicare, con un padre che diventa sempre più insofferente a questa situazione e una
madre che, secondo lo stereotipo classico, ha sempre maggiori difficoltà a mediare. In
situazioni come queste, esistono due modalità di intervento. La prima agisce sulla spirale
dell'inconcludenza, e richiede un collegwnento organico con la scuola, per riuscire ad
offrire opportunità a chi "aderisce": tutte le ricerche sottolineano una forte
sovrapposizione fra abbandono scolastico (anche alle scuole superiori) ed uso di sostanze.
La seconda tipologia di intervento agisce invece sulla marcia di avvicinamento alle
sostanze: nel percorso verso l'abuso e la dipendenza da sostanze, sono generalmente
distinte quattro fasi: avvicinamento, luna di miele, stabilizzazione, dipendenza; qui siamo
ancora nella fase di avvicinamento, nel pieno della prevenzione. Questa soluzione si è
rivelata meno valida. Gli strumenti disponibili nel campo della prevenzione secondaria
possono agire: - sul singolo, per cui è possibile un trattamento con caratteristiche più
informali e mediato dalla sua richiesta d'aiuto, dalla quale non dobbiamo allontanarci sulla famiglia (se il soggetto ci concede il passaporto d'accesso), in una forma più
moderata della terapia familiare - sul gruppo, inserendo elementi di anticonfonnismo
"nell'anticonformismo omologante" del gruppo. Nel libro "Jack Frusciante è uscito dal
gruppo", per esempio, si cita una rock-band alternativa che ha successo, esce dai localini
underground, inizia un tour nazionale, ma uno di loro non ci sta, lasciando tutti sbalorditi:
la notizia è «Jack Frusciante è uscito dal gruppo!». Noi dovremmo riuscire a sbloccare
certi processi di omologazione conforrnistica pesante presente in certe culture chiuse. Gli
aspetti di prevenzione primaria sono tutta un'altra cosa:scuola, lavoro, occupazione.
Il terzo percorso: la compatibilità. I ragazzi appartenenti a questa categoria vanno a
scuola, hanno una immagine di "bravi ragazzi", la famiglia non sa niente dell'uso di
sostanze, la fidanzata sa e non sa, spera che non sia... Questi soggetti riescono a rimanere
nella clandestinità anche 3-4-5 anni (magari mandando l'amico a prendere la roba in
piazza); tuttavia, se non ci fosse la dipendenza, il lavoro, i rapporti, ecc. non starebbero in
piedi: la sostanza è funzionale all'equilibrio. In casi come questi, l'intervento è più
tardivo, perché è possibile solo quando emergono le prime contraddizioni relative
all'abuso di sostanze; questo avviene relativamente presto, perché la soglia di tolleranza
per questi ragazzi è molto bassa. Un intervento, per essere efficace in casi come questi,
55
deve prefiggersi tre obiettivi: 1 - lo stanamento (uno strumento pensato in realtà per le
vittime dell'emarginazione: siringhe pulite, acqua distillata, preservativi, ecc.)
2- rimanere fedeli al tipo di richiesta dei ragazzi, che è quella di rientrare nella
compatibilità, di un momento di tregua. 3- riuscire a passare da questa richiesta di
tregua al bisogno della persona, con l'apertura di uno spazio per capire i bisogni, le
contraddizioni, le difficoltà. Gli strumenti sono dunque l'out-reach (dobbiamo "stanare"
queste persone), la mediazione farrnacologica, l'apertura di uno spazio relazionale.
Le domande di prevenzione non sempre sono facili da interpretare: possono essere mute
(non ci arrivano), aggressive (trasmesse non attraverso le parole ma con i
comportamenti), o mediate da un terzo. Dobbiamo allora prestare molta attenzione per
evitare alcuni errori, quali pensare che la domanda non esista quando essa è muta;
aspettare (pur pensando che la domanda esista) che emerga da sola (nella
tossícodipendenza il paradigma «se non c'è domanda non c'è aiuto» non è poi tanto vero,
il problema è come farla emergere, come esplicitarla); aspettare che la domanda sia ben
esposta (la domanda è sempre "sporca", questi soggetti ci portano in genere
comportamenti auto- o etero- aggressivo ). Vorrei precisare un'altra importante questione. i termini della prevenzione sono "andare incontro", "mediare": mediare fra le culture, i
desideri, i comportamenti; tra l'onnipotenza e l'irrealisticità di certi progetti e l'assoluta
incapacità di concretizzare qualsiasi iniziativa. Si possono distinguere interventi diretti e
interventi che avvengono in stretta collaborazione con gli alleati possibili, che chiamiamo
indiretti. Gli interventi diretti devono avere le seguenti caratteristiche: - una bassa soglia una estrema vicinanza relazionale: se questa manca, l'intervento resta a bassa soglia, e
poiché non facciamo crescere una domanda, non possiamo portarlo a raggiungere una
soglia più elevata.. Fondamentale è l'accoglienza e la prima dimensione dell'accoglienza è
il rispetto. La riduzione del danno non è teorizzata per categorie di persone, né si fa per
certi periodi, in certe situazioni, non esistono categorie di persone condannate per sempre
alla riduzione del danno. Essa è utile quando permette di creare spazi di vicinanza
relazionale. - capacità di creare spazi di protagonismo dell'utente: è questa tutta la
tematica dell'empowerment, che significa passare da un atteggiamento passivo ad uno più
attivo, con tutte le mediazioni del caso. Durante un intervento con un'unità di strada, i
ragazzi ci hanno detto: "Noi ci facciamo tutto il giorno, ma vorremmo fare qualcos'altro".
Questa affermazione sottende una richiesta: "Fateci fare qualcosa!". Se la
tossicodipendenza è per definizione ambivalenza (voler continuare ad essere tossici e
sperare di non esserlo più), esistono delle risorse che possono essere utilizzate: una di
queste potrebbe essere la concessione di borse-lavoro, perlomeno con i soggetti che
stanno tentando di uscire dalla tossicodipendenza con l'aiuto dei metadone; ciò che conta
è approfondire degli strumenti per dare spazio a risorse di contrasto con la
tossicodipendenza, che sono presenti anche in loro. Noi abbiamo cominciato con una
attività banale: siamo andati per le strade con dei sacchi per raccogliere le siringhe
sporche; in seguito è stato aperto il giornale di strada, poi sono state utilizzate le
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competenze dei ragazzi per capire meglio cosa succeda in strada, per fare dei volantini
importanti sul Darkene, sulla pericolosità di certi miscugli, per i salvataggi dall'overdose;
tutto questo lavoro è stato finalizzato al potenziamento ed allo sviluppo di atteggiamenti
costruttivi. Abbiamo capito che non c'è un empowerinent pre-definito: esso deve mediare
con le persone e i gruppi. Esiste un secondo tipo di intervento, che abbiamo chiamato
"indiretto", e che agisce in stretta collaborazione con gli alleati "naturali": scuola,
associazioni giovanili, adulti. L'ultima categoria descritta, in particolare, comprende un
target fondamentale, costituito dai cosiddetti "operatori grezzi", ossia quegli adulti con i
quali i ragazzi non scelgono di avere a che fare ma con i quali comunque interagiscono: il
barista, il vigile, ecc.. (i mediatori dell'interfaccia adulta molto spesso danno una
connotazione sociale adulta a questi ragazzi).Dovrebbe inoltre essere incentivato un selfhelp fra le famiglie che non hanno ancora problemi, ed i luoghi privilegiati per
incentivarlo sono le scuole, in stretta alleanza con gli insegnanti interessati. Un ulteriore
tipo di intervento possibile dovrebbe formare le persone a saper usufruire delle
opportunità esistenti. Gli interventi in questo campo devono indirizzarsi al soggetto, al
singolo, nelle forme possibili relativamente all'offerta di possibilità reali; se uno dei due
elementi viene meno, l'intervento fallisce. Il lavoro con il singolo non è soltanto "psi-",
ma si deve avvalere di altri strumenti e puntare, per esempio, a favorire la capacità di
"influire su" ed a saper vedere le risorse esistenti.
L’insinuarsi dell ‘alcoldipendenza di Leopoldo Grosso
L’emarginazione prodotta dalle situazioni di alcoldipendenza è insidiosa e progressiva.
Chi, abitualmente forte bevitore, tende a lasciarsi andare e ha sempre piu bisogno di
sostanze alcoliche non si rende conto di scivolare, lentamente, ma spesso inevitabilmente,
nell’alcoldipendenza.
Le “ragioni” del bere
L’etilismo, anche se l’aumento di alcolisti giovani è aumentato in modo rilevante negli
ultimi anni, è stato, ed è ancora prevalentemente, un fenomeno che riguarda le crisi di
mezza eta. Una grave delusione sul lavoro (un licenziamento improwiso, un’aspettativa a
lungo covata e poi andata drasticamente delusa...), una scontentezza sempre piu marcata e
inquietante rispetto alla propria vita quotidiana (che sembra mancare di vere
soddisfazioni, che non riesce a “volare” oltre il grigiore della routine, faticosa e sempre
uguale a se stessa...), una delusione affettiva (un abbandono, un non ritrovarsi piu con il
proprio coniuge,una relazione che non si realizza...), sono tutti elementi che, con
prevalenze diverse, convergono a determinare la crisi, la voglia di lasciarsi andare,
inversamente proporzionale alla capacita di superare gli ostacoli e venir fuori dal
momento difficile.
E’ tra i 30 e i 40 anni che l’alcoldipendenza spesso prende piede. Si innesta su
un’abitudine al bere in genere gia ben consolidata. All’inizio non ci si accorge nè del
rischio, nè dello stato di dipendenza. Anzi di fronte alle prove della realtà (incidenti,
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litigi, esami di laboratorio...) si tende ripetutamente a negare l’evidenza. E quando, a
denti stretti, si è obbligati a riconoscere il dato di fatto, subentra l’illusione di voler
risolvere il problema da soli, di non aver bisogno di aiuti.
Le conseguenze del bere: in casa e sul posto di lavoro
I familiari (la moglie/il marito, i figli, i genitori, gli altri parenti) vivono anch’essi, di
riflesso, la situazione di alcoldipendenza. Altre volte il coniuge e uno dei genitori e
talmente coinvolto nelle dinamiche relazionali con chi manifesta il sintomo della
dipendenza che, nel gergo degli operatori che si occupano del problema, viene definito
come “bevitore asciutto”, in contrapposizione, ma non in antagonismo, al “bevitore
bagnato”, cioe a colui che abusa. Gli effetti protratti dell’abuso di alcol finiscono per
avere conseguenze devastanti nei rapporti familiari. Dopo una fase in cui, generalmente
invano, i familiari tentano di risolvere il problema facendo ricorso a ripetuti ricoveri nelle
case di cura, subentra sfiducia, colpevolizzazione del coniuge che beve, un atteggiamento
di progressiva indifferenza. Le conseguenze dell’etilismo, a medio termine, si fanno
sentire anche sull’attivita lavorativa. Molti sono coloro che hanno perso il lavoro a causa
del bere smodato o hanno usufruito di lunghi periodi di aspettativa non retribuita.
La mancata prestazione lavorativa, la conseguente diminuzione di reddito, non puo non
riflettersi a sua volta nelle relazioni familiari, aggravandole ulteriormente fino alla
minaccia della rottura. Aiutarsi, lasciarsi aiutare, frequentare “il” gruppo.
L’intervento piu valido è il lavoro di gruppo tra le famiglie che vivono il problema
dell’alcoldipendenza. L’auto-mutuo-aiuto interfamiliare si esercita settimanalmente sia
nel momento della riunione, sia tra una riunione e l’altra sostenendosi reciprocamente
quando si è in difficolta, sia promuovendo iniziative sul territorio con lo scopo di
sensibilizzare le persone al problema e scuotere l’indifferenza della gente.
Il lavoro di gruppo arresta la deriva marginale della famiglia, che non si sente piu sola e
isolata, che relativizza il problema vivendolo sì con drammaticita, ma riaprendo le porte
alla speranza del cambiamento.
Quando vince l’alcol, la droga legale
Alcune famiglie non ce la fanno. L’aggressivita, la depressione, l’egoismo apparente di
chi è indifferente alla sofferenza degli altri, il subentrare delle malattie alcol-correlate,
determinano a volte l’irreparabile rottura della solidarietà e dei legami intrafamiliari,
lasciando la persona con gli irrisolti problemi di alcoldipendenza nelle mani degli
specialisti, delle organizzazioni di volontariato, sola con se stessa.
Spesso alla disoccupazione, all’isolamento e alla solitudine, apparentemente mascherate
dalla frequentazione dei bar, si aggiunge anche il problema dell’abitazione a cui non si è
piu in grado di provvedere, nè economicamente, nè materialmente. Sono le situazioni di
emarginazione grave in cui il passo a trasformarsi in persone senza fissa dimora, è
estremamente breve. Rispetto all’alcoldipendenza non si riscontra solo un’emarginazione
della famiglia, un’emarginazione dentro la famiglia e dalla famiglia, ma spesso anche
un’emarginazione da parte dei servizi e delle istituzioni.
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L’alcol, droga legale, non è pienamente assunto, nelle sue conseguenze, come problema
di rilievo sul quale investire in termini di prevenzione, riabilitazione, riduzione del danno.
L’intervento di prevenzione e riabilitazione degli stati di alcoldipendenza è ancora,
spesso, terra di nessuno e zona di forte controversia tra i servizi (la psichiatria, gli
ospedali, i servizi per le tossicodipendenze). Gli strumenti amministrativi, a sostegno
degli interventi di cura e di riabilitazione, non sono ben definiti. Eppure l’alcol e la droga
che in Italia, come in Europa, ha creato piu persone dipendenti, ha prodotto piu danni e
mietuto piu vittime. L’emarginazione delle persone alcoldipendenti e delle loro famiglie è
anche il risultato di una sottovalutazione storica del problema.
Consumo, abuso e politossicodipendenza di Leopoldo Grosso
Hashish, marijuana, anfetamine, cocaina, ecstasy, eroina, allucinogeni…. La geografia
delle tante sostanze stupefacenti che, leggere o pesanti, naturali o sintetiche, legali o
illegali, offrono piacere e sollievo è vasta e sparpagliata.
Diverse sono inoltre le modalità di assunzione: le varie droghe possono essere inalate,
fumate, masticate, bevute, mangiate, “sniffate”, iniettate.
Ogni sostanza stupefacente è radicata, come madre e figlia al tempo stesso, all’interno di
una specifica cultura. Intorno al valore d’uso attribuito a ciascuna droga vengono
elaborati riferimenti esistenziali, modi di essere e di esprimersi, modalità di intendere i
rapporti umani, percezioni della vita e del mondo. Tanto più pregnante è l’effetto
attribuito alle sostanze, tanto più totalizzante è il significato che assume la cultura che la
circonda e viceversa. Si creano nicchie, annidate qui e là nei molti interstizi delle aree
metropolitane, che intorno a un comportamento di consumo, creano codici, generano
linguaggi, selezionano adepti.
Diverse sono le sostanze, differenti le modalità di assunzione, variegate le configurazioni
culturali da cui attingono e a cui conferiscono significato. Il primo compito, che compete
a chi, a vario titolo impegnato nell’ambito educativo e preventivo, oppure dedito al
sostegno e all’Aiuto di quei ragazzi che manifestano difficoltà, consiste nel rendersi
conto della rilevanza delle differenze, di annoverare le tante diversità che si coniugano
con i comportamenti di consumo, di abuso, di dipendenza.
Le variazioni sono numerose e sempre significative.
Chi è in discoteca con gli amici e “cala” nel corso della nottata due pastiglie di ecstasy,
non è omologabile a chi, in uno stadio in uno stadio in una curva di ultras, si “scalda” con
l’alcol e ingurgita anfetamine che lo caricano di aggressività. Chi si fa di coca, anche
emozionalmente, vagheggiando di potenziare le proprie prestazioni sessuali, ha poco da
spartire con chi, la stessa sera, sta da solo davanti al televisore con una bottiglia di whisky
su tavolino.
Nel tenere conto delle molte specificità e situazioni che si articolano intorno al consumo
di droga, a volte vistose, più spesso sottili ma non meno importanti, significa incorrere
nell’errore più grave e diffuso: la superficialità di “fare d’ogni erba un fascio”,
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comprendere l’intero fenomeno droga con un’unica chiave di lettura, con una sola
modalità interpretativa.
Le spiegazioni semplici a questioni complesse, ottengono effetti, all’apparenza, più
rassicuranti; in realtà illusori e tendenzialmente generatori di ulteriori errori. Chi ancora
accomuna, come spesso è accaduto in passato, un quindicenne che fuma hashish con un
trentenne alle prese con la ritualità quotidiana della siringa e del buco in vena, o chi
confonde consumatori occasionali con le persone politossicodipendenti, sotto l’unico
appellativo di “drogato” e “tossico”, si aggrappa a una rappresentazione univoca e
stereotipata della problematica, che se aiuta a fornire un’unica immagine a tutto campo
del pericolo temuto, nell’illusione di riuscire meglio a controllarlo, in realtà nella
dinamica sociale produce danni accertati. La semplificazione produce etichette che,
quando vengono appiccicate, non aiutano né la comprensione dei fenomeni e tantomeno
le persone a cui stanno strette e nelle quali si inducono comportamenti reattivi.
“Etichettare” è comodo: non costa fatica e impegno di approfondimento, basta attingere
nel “grande magazzino” delle interpretazioni sociali; contribuisce alla creazione di capri
espiatori evitando di mettersi in discussione individualmente. Le ansie e le paure sono
riposte in un pericolo fuori di noi, possibilmente ben individuato e definito, rispetto al
quale salgono le richieste di controllo.
Il cortocircuito delle semplificazioni circa la tossicodipendenza non è ininfluente rispetto
ai tanti ragazzi che consumano sostanze. Quando lo sguardo altri diventa “pesante”, in
molti di coloro che fanno uso si creano difese, aumentano le barriere comunicative, si
generano atteggiamenti controaggressivi.
L’etichetta di “tossico” è penalizzante. Chi si sente tale tende a eclissare i propri
comportamenti e, se ha bisogno, non chiede aiuto.
Chi invece, a torto o a ragione, non ha tale percezione di sé, si sente frainteso, giudica a
sua volta con altrettanta semplificazione il proprio interlocutore e si chiude al confronto.
Soprattutto tra i consumatori, e in particolare tra i consumatori problematici, l’etichetta
fornisce e rinforza processi si identità deviante, finendo per alimentare il protagonismo in
negativo.
La doverosa capacità di differenziare si costruisce tenendo conto dell’intreccio di almeno
tre piani di analisi. In primo luogo le caratteristiche proprie di ogni sostanza, con gli
effetti che produce (pur nella variabilità tra i singoli soggetti assunti) e con gli specifici
aspetti di attrazione che conferiscono un valore simbolico d’uso, un vero e proprio valore
aggiunto. In secondo luogo i comportamenti degli assuntori che si distinguono a loro
volta in base a quantità ingerite, frequenza del consumo e modalità d’uso. In terzo luogo
le motivazioni all’assunzione che incrociano propensioni personali, vicissitudini
relazionali e situazioni contestuali.
Ogni sostanza non è tossica allo stesso modo. Rispetto alla stessa eroina ricerche ed
evidenze cliniche tendono a dimostrare che anche l’abuso protratto tende a non
distruggere i neuroni e il danno eventuale è limitato ad aree cerebrali molto ben definite.
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L’alcol e i solventi utilizzati per le colle risultano droghe molto più cerebrolesive. Il
concetto di tossicodipendenza è improprio, se ne discende che ogni sostanza stupefacente
sia tossica e che sia nociva allo stesso modo. Improprio è il concetto di
tossicodipendenza, se ne discende che ogni consumo divenga automaticamente
compulsivo.
Un compito fondamentale è pertanto distinguere tra consumo, abuso e dipendenza.
- Per uso si intende un consumo di sostanze psicoattive che non comporta
necessariamente n complicazioni, né danni, ma espone la persona a dei rischi diretti e
a condotte a rischio. Per alcune sostanze emerge, nei comportamenti giovanili, un
ampio uso controllato e limitato, che, come per l’alcol, se non sfocia in abuso, non
viene percepito come nocivo. Questa definizione di consumo non è unanime ed è
oggetto di intensa controversia culturale e politica, prima ancora che scientifica.
- Per abuso si intende invece un consumo suscettibile di indurre danni di tipo fisico,
relazionale, psicologico e sociale, sia per il soggetto stesso che per il suo ambiente.
L’abuso è una modalità di utilizzo inadeguato di una sostanza, che conduce a
un’alterazione significativa delle funzioni e a una sofferenza, quindi pregiudizievole
per la salute propria e altrui.
- Per dipendenza si intende, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un
comportamento recidivante e cronico, configurabile come vera e propria malattia,
caratterizzato da:
- a) un desiderio prepotente e irrefrenabile (compulsivo) di utilizzare una sostanza
psicoattiva;
- b) incapacità o grande difficoltà nell’interrompere l’abitudine;
- c) sindrome di astinenza fisiologica allorché la persona interrompe l’assunzione. La
dipendenza implica un abbandono progressivo di altre fonti di gratificazione e di
interesse a esclusivo vantaggio del rapporto con la sostanza che non viene interrotto
nonostante il sopraggiungere di conseguenze evidentemente nocive.
Appunti per una lettura problematizzante delle nuove droghe di Leopoldo Grosso
Kurt Levin ha detto: «Se si vuole conoscere un problema, bisogna cominciare a
cambiarlo, a lavorarci sopra». Così è per il fenomeno delle nuove droghe: solo da quando
abbiamo tentato di entrare dentro tale realtà abbiamo acquisito una serie di conoscenze. E
un interrogativo è subito emerso: «Perché l’ecstasy è diversa dalle altre droghe, non solo
da un punto di vista chimico?». È differente perché si lega a un luogo specifico di
assunzione: la discoteca, i party, e a un tipo particolare di musica. Ciò che la caratterizza
è non solo la sostanza di per sé, ma soprattutto l’abbinamento secco, rigido, con il luogo
in cui viene consumata. Questo significa che è un consumo ancora legato al contesto di
assunzione. Non si registra, cioè, quella che è stata la deriva progressiva del consumo di
tutte le altre droghe dai loro contesti iniziali. È accaduto per l’eroina, è accaduto e accade
per l’hashish. Uno spostamento graduale dall’abbinamento con i luoghi del consumo, che
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non sembra avvenire per l’ecstasy. L’ecstasy «tiene» rispetto al contesto (ormai è dal
1989 che questo problema è emerso) e continua a far coppia con esso.
Cosa significa che il setting di assunzione è una costante del consumo? Significa che
prevale l’aspetto aggregativo, il fare gruppo, che sono dominanti le identificazioni
collettive comuni, che predomina il riconoscersi, la ritualità o, come qualcuno ha
suggerito, la «tribalità». Tutto ciò prevale rispetto al rapporto più stretto e privatistico
«io-tu» con la sostanza, rispetto a una personalizzazione più avanzata del rapporto —
paradigmatico in questo senso è il rapporto con l’eroina — che diventa estraniante da
tutto il resto ed esclusivo della persona con la sostanza: non prevale dunque ancora l’uso
autoterapeutico o il processo duale di dipendenza.
Se sono questi gli aspetti specifici e caratteristici della sostanza, ne deriva che la
dipendenza psicologica — o bio-psicologica — ha sostanzialmente due padroni. Il primo
è la sostanza di per sé, il secondo è il gruppo, il contesto, la musica, il luogo in cui viene
consumata. E dobbiamo sempre tener conto di questi due padroni, di questi due elementi.
Infatti, se non c’è lo scenario adeguato, non c’è assunzione. E questo scenario è
individuabile nello «sfondamento della notte» e del week-end da parte di fasce consistenti
di giovani. Giovani che, tra l’altro, hanno un peso decisamente maggiore all’interno della
società rispetto ai loro coetanei dipendenti da eroina, non solo perché numericamente
maggioritari, ma anche perché sono cittadini apparentemente ben integrati; nel loro caso
si è di fronte semmai a un altro tipo di scissione: quella tra integrazione oggettiva nella
società e una dissociazione di tipo soggettivo.
Questi giovani «pesano» nella società in quanto costituiscono un target, sia dal punto di
vista del mercato del divertimento, che della droga. Sono in maggioranza persone non
dipendenti, che non usano le siringhe (la siringa è il simbolo della droga e non è questo il
loro vissuto), che fanno un uso ricreativo e contestuale delle sostanze, tendenzialmente
una volta alla settimana. Il loro stile di vita non è dimensionato sulla droga, ma sulla
discoteca e quindi, fondamentalmente, sul week-end. Questo è un fenomeno che si è già
visto in alcuni gruppi di ultras, di hooligans, di persone che frequentano abitualmente lo
stadio, che dimensionano il loro stile di vita unicamente sul fine settimana, sulla trasferta,
sulla partita, sul seguire la squadra. Tutto il resto della settimana si svolge in parte al bar
dello sport, comunque all’interno del loro gruppo, in un tempo unicamente dimensionato
e proiettato su ciò che sarà il sabato e la domenica. Tutto il mondo vitale viene
circoscritto e condensato nell’avvenimento del week-end.
È significativa, in questo senso, la similitudine tra l’esperienza della discoteca e
l’astronave. Si tratta in effetti di una fuga di gruppo dalla realtà; non è la fuga individuale
che si mette in atto con la sostanza «classica» (con l’eroina, per eccellenza, e in parte
anche con i cannabinoidi). Si tratta di una «fuga attiva di gruppo» in un contesto che è
fuori dall’ordinario, fuori dal grigio dei cinque giorni feriali, quando tutto è shit — cacca
—, un contesto che rappresenta l’unico ambito importante, vitale, in cui ci si può
realizzare.
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Il problema è che questo tipo di cultura — un sociologo direbbe sub-cultura — è
diventato e sta diventando maggioritario all’interno di tutta una serie di fasce giovanili.
Da dove partire per cercare di capire? Quali bisogni si coagulano, al di là del
denominatore chimico?
Un effetto ricercato nella sostanza è, anzitutto, la capacità di modificare il modo di
stare con gli altri. E per riuscire a farlo bisogna mutare la capacità di stare con se stessi,
percepirsi meglio. Bisogna porsi in uno stato d’animo che entri più in sintonia con gli
altri, che li faccia sentire più vicini, che consenta di superare le difficoltà di rapporto; si
cerca, insomma, un miglior contatto col proprio mondo interno per sentirsi più integrati
con quello esterno. E qui sta la differenza fondamentale rispetto alle sostanze tradizionali,
anche se l’effetto principale rimane l’euforia seguita da sensazioni di benessere, comune
al ciclo, all’andamento, alla farmacocinetica anche di altre sostanze.
Si tratta di una droga che integra in un gruppo, che fa star bene con chi si è scelto di
stare. Una sostanza di tipo edonistico, che mira a contrastare la difficoltà di stare a
proprio agio in situazioni comuni. In primo luogo elimina le insicurezze personali, e
quindi le difficoltà a far emergere se stessi pienamente e a valorizzarsi nei rapporti
interpersonali. Migliora i rapporti sociali, affettivi e anche sessuali. La ricerca della
soddisfazione sessuale è infatti contestuale ad alcuni usi, come avviene anche rispetto ad
altre droghe. L’eroina, ad esempio, viene utilizzata in alcuni casi per la risoluzione di
problematiche di tipo sessuale, quale l’eiaculazione precoce. Tali usi parziali, particolari,
costituiscono dei vantaggi secondari dell’uso delle sostanze.
In secondo luogo, alle nuove sostanze viene attribuito il potere di ribaltare il grigiore
dell’insoddisfazione quotidiana, e viene delegata la funzione di contrasto alle frustrazioni,
al senso del limite, alla noia e all’apatia dei vissuti giovanili in una sorta di
compensazione di gruppo nella rivincita del fine settimana.
Il contesto e le sostanze soddisfano infine un altro bisogno, in cui la ritualità costituisce
la cornice indispensabile, cioè il mettersi in mostra, il farsi notare, l’attirare lo sguardo
degli altri su di sé; il che vuol dire, ad esempio, tenere il centro della pista della discoteca
magari per tre o quattro ore consecutive. È un bisogno di essere protagonisti nella
modalità in cui ci si è identificati.
Ricordo un questionario, oggi un po’ invecchiato, che era stato fatto sulle coste della
cosiddetta «California italiana» (Rimini, Riccione, ecc.); conteneva una serie di domande
tra cui quella essenziale era: «Qual è per te il sabato sera ideale?». La risposta più
«gettonata» conferma la tradizione: «Un romantico incontro a due». La seconda risposta,
in ordine di preferenza, insisteva sull’aspetto divertimento: «Una grande festa». La terza
risposta, quella che a noi qui più interessa, denunciava: «La possibilità di far vedere chi
sono», cioè il bisogno di mostrarsi, di esibirsi, di essere visto, di essere guardato.
L’aspetto, l’atteggiarsi, l’apparire, il look, prevalgono completamente sulla parola, non
solo perché in discoteca è difficile sentirsi e dialogare (non sono discorsi, sono
comunicazioni brevi nell’orecchio di qualcuno), ma perché la parola, paradossalmente,
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espone e mette più a nudo di quanto invece non faccia la corazza dell’abbigliamento, la
gestualità, il codice di difesa e dei modi di essere all’interno dell’ambiente della
discoteca.
Anche all’interno delle nuove droghe, è fondamentale effettuare delle differenziazioni.
Non dobbiamo commettere l’errore di classificarle secondo un unico termine contenitore
e «fare di ogni droga un fascio» — vecchio sbaglio del passato — perché, accanto
all’ecstasy, sono apparsi progressivamente tutti gli ecstasy like e i «simil-ecstasy» con le
varie specifiche caratteristiche.
Inoltre non bisogna dimenticare mai di differenziare tra uso e abuso, tra i consumatori
di nuove sostanze e tra i diversi contesti: dalle discoteche alle discoteche di tendenza, ai
rave, agli after-hours, che aggregano persone parzialmente diverse. All’interno di una
prevenzione mirata il discorso deve essere sempre tarato e specificato. Ne deriva la
necessità di fare rigorose distinzioni tra le combinazioni delle varie poliassunzioni e tra
gli stessi differenti tipi di pastiglie.
Il trend di crescita a cui si è assistito in questi anni riguarda soprattutto le problematiche
dell’intossicazione acuta e cronica. Ormai i decessi per ecstasy in Italia sono una decina,
contro la sessantina che conta l’Inghilterra. È stato condotto uno studio epidemiologico,
secondo cui il rischio di morte pare essere uno ogni 6.800.000 assunzioni di ecstasy. Se
ne potrebbe concludere che, da questo punto di vista, il rischio sia decisamente basso.
Tuttavia il problema riguarda anche gli effetti protratti e gli stati di intossicazione.
All’ecstasy, come alle altre sostanze, il corpo di ognuno reagisce con modalità diverse e
non sempre prevedibili; ciò che magari inizialmente a una persona provoca euforia, ad
un’altra invece può richiedere l’intervento del pronto soccorso. Alcuni assuntori
sviluppano anche problematiche psicopatologiche: comportamenti molto marcati,
ossessivi; uno stato di maniacalità protratto; una chiusura del pensiero entro alvei
ripetitivi e fortemente enfatizzati... Il ritorno alla realtà è lento e graduale e necessita
dell’intervento specialistico della psichiatria.
Un altro rischio da sottolineare consiste nel fatto che alcuni consumatori, col tempo, si
rivolgano ad altre sostanze, anche a quelle «tradizionali», come l’eroina, che inizialmente
sono invece trascurate e anche demonizzate e derise. C’è il rischio di un «contagio», di
un passaggio, per cui l’ecstasy, per una parte degli assuntori, potrebbe significare
un’iniziazione al consumo successivo di tutte le sostanze.
Non va sottovalutato anche il problema dell’apertura di un nuovo mercato e delle
possibilità di guadagno che ne derivano: anche per l’ecstasy e gli ecstasy-like si è ormai
allargato il mercato del narcotraffico. Tuttavia, come per tutte le economie, i battipista
sono stati i «piccoli imprenditori», a un livello più artigianale. Come per le altre droghe
anche per l’ecstasy c’è stata inizialmente la possibilità di piccoli business, per cui le
prime pastiglie sono state importate dall’Olanda, dall’Inghilterra, attraverso giri ristretti
di amici, che sicuramente non configuravano, benché precursori, le holding del mercato
illegale createsi successivamente.
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Non è da trascurare infine il ruolo dell’alcol, troppo spesso sottovalutato; prima di
andare in discoteca (cioè prima della mezzanotte), ci si ritrova in qualche locale dove si
«tardeggia», ma dove soprattutto si beve, e quindi in qualche modo ci si prepara e ci si
carica per quello che verrà dopo.
A livello preventivo sono importanti alcune indicazioni. Prima di tutto è necessario
uscire dall’ambulatorio, andare là dove questi ragazzi sono, perché al SERT arrivano dopo
un’ampia selezione e solo una minima parte. Ma uscire dall’ambulatorio, se è importante,
non è ancora sufficiente. È necessario anche trasformarlo per affrontare il problema.
Prioritaria diventa la questione dell’informazione. È stato detto che, come per tutte le
altre forme di prevenzione, il messaggio terroristico sicuramente non funziona; è un
errore già fatto, di cui facciamo tesoro. L’informazione corretta, tuttavia, conserva una
funzione fondamentale; il che significa abbandonare atteggiamenti di demonizzazione
della sostanza e invece, ad esempio, effettuare interventi come quelli che si fanno in
Olanda, dove fuori dalle discoteche, o addirittura in qualche sala delle stesse, c’è una
persona incaricata di analizzare sul posto, con un laboratorio da campo, la composizione
della pastiglia, che viene poi restituita con le indicazioni sul suo contenuto chimico e la
descrizione dei rischi connessi all’uso. Non una demonizzazione del fenomeno delle
discoteche, non una esorcizzazione della sostanza di per sé, ma un’informazione corretta
e l’acquisizione consapevole di ciò che può succedere.
Da una parte, allora, si provvede a tutto un congegno di misure nella direzione di
ridurre i rischi, per aiutare le persone ad attraversare senza danni l’esperienza che hanno
scelto di fare, perché il trend non è altrimenti arrestabile. Deve esserci quindi non solo
una disponibilità a informare, ma soprattutto a predisporre misure affinché ci possa essere
una discoteca sicura (gli anglosassoni dicono safer dancing) e anche un più sicuro afterdancing: gli after-hours. Per questo è importante poter non solo valutare la pericolosità
delle sostanze, evitare di mischiarle, effettuare i controlli, prendere precauzioni sulla
guida — per cui è buona regola che anche tra i consumatori di ecstasy, così come tra
quelli di alcol, ci sia all’interno del gruppo uno che alla sera non «cali», perché è quello
che dovrà poi guidare la macchina e portarti a casa -, ma anche la disponibilità nelle
discoteche di chilling rooms, cioè di sale dove uno possa far decantare il frastuono, il
calore e l’affaticamento, dove ci sia la possibilità di bere acqua che può prevenire il
rischio correlato all’heat stroke (il «colpo di calore»).
È importante far arrivare queste informazioni ai destinatari attraverso un canale
privilegiato: gli stessi consumatori; quindi non solo «lavorare con», ma far sì che siano le
stesse persone a «lavorare fra» di loro, portando ogni tipo di informazione, anche le
esperienze negative legate al consumo eccessivo, solitamente rimosse e solo raramente
raccontate. Bisogna inoltre costruire delle «alleanze» per la prevenzione: con i dj
anzitutto, poi con i gestori delle discoteche, i gruppi musicali, le radio locali; perché
sarebbe ingenuo pensare che siano gli operatori a fare prevenzione da soli. C’è bisogno di
mediatori con il mondo giovanile a noi sconosciuto, e costoro devono costituire i nostri
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principali alleati. Ma questi avranno bisogno, a loro volta, di consulenti tecnici specifici
che sappiano dare loro le altre informazioni di cui necessitano. Unendo insieme le forze
sarà possibile imbastire una prevenzione più efficace.
Nel campo della riabilitazione, infine, noi conosciamo il problema da tre «porte di
servizio»: il pronto soccorso psichiatrico, dove ci chiamano per intervenire dopo che i
ragazzi sono stati trattati per la fase acuta; la prefettura, che, su segnalazione delle forze
dell’ordine, invia le persone ai SERT; la terza è rappresentata dalle persone che già
conosciamo per il consumo di altre sostanze, più pesanti, in qualche modo pervenute a
una remissione totale o parziale dall’eroina o altro, che si sono poi aggregate alle nuove
mode e sono approdate all’ecstasy. Queste persone, che sono state tossicomani, portano
una modalità di consumo dell’ecstasy propria della tossicodipendenza e costituiscono
coloro tra i consumatori che tendono a «sfondare» la soglia delle dosi che permette di
«contenere» la tossicità della sostanza, inducendo così uno stile di abuso che può creare
adepti.
La difficoltà sta nell’aprire la quarta «porta», quella principale. Si tratta di far emergere
una richiesta di aiuto spontanea, uscendo dall’ambulatorio e trasformandolo, perché,
assodata la scarsissima identificazione con il mondo degli eroinomani, è necessario creare
spazi diversificati di accoglienza e trattamento.
La sottovalutazione del consumo di cocaina
L’abbassamento del prezzo dello spaccio illegale al minuto, che ha reso la cocaina
competitiva anche economicamente con l’eroina risponde a una aggiornata strategia del
narcotraffico, sensibilissimo nel cogliere nuove propensioni al consumo di segmenti di
giovani e meno giovani che tramite l’abbondanza dell’offerta vengono indirizzati verso le
sostanze più convenienti al momento. Il consumo di cocaina oggi non riguarda solo
alcune tipologie “tradizionali” di soggetti tra cui alcune culture malavitose, enti, ambienti
d’arte e spettacolo, determinati ceti professionali ossessionati dal successo delle
prestazioni, o tossicomani incalliti che alternano l’uso delle droghe con determinati effetti
di mix (lo speedball). Il consumo di cocaina è diffuso oggi in quasi tutti gli strati sociali.
Secondo l’OMS l’uso di cocaina sarebbe in aumento in tutto il mondo. Lo stupefacente si
è rivelato la droga preferita da un numero crescente di persone con un minimo di agio
economico nel Nord America e in Europa. Rispetto alla diffusione si valutano in
5.000.000 i consumatori nei soli USA, che diventerebbero 8.000.000 secondo le stime
Ansa. La cocaina è droga d’ambiente, eccitante e di prestazione.
Si afferma in Italia negli anni ’80, gli anni yuppies. Alla fine di quel decennio in Italia i
consumatori erano stimati in 600.000, il doppio tra tossicomani e tossicofili da eroina.
L’età media dei consumatori di cocaina è tradizionalmente superiore a quella dei
consumatori di altre droghe: la classe di età più rappresentata è tra i 31-40 anni. Tuttavia
negli anni ’90 si è assistito ad una progressiva diminuzione dell’età. Oggi l’età media del
primo incontro con la cocaina è intorno ai 23 anni. Dati non confermati, utilizzabili solo
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come indizio, suggerirebbero un quadro in cui si registra una diminuzione dei
consumatori occasionali a favore di un contemporaneo aumento di quelli abituali.
Nell’inchiesta “Drugs” di Comunità Nuova emerge da parte degli studenti milanesi che la
cocaina occupa il 3° posto dopo cannabis e alcol tra le droghe più usate.
La cocaina dà dipendenza. Possiede un elevato potere di reclutamento: si stima che circa
il 15% delle persone che iniziano a usare la sostanza a scopo ricreazionale sviluppano in
seguito una dipendenza conclamata.
L’area dei consumatori problematici è valutata intorno al 30% (200.000 persone). La
gravità della dipendenza è correlata all’età di iniziazione e alla durata della
cronicizzazione del consumo.
Ai Ser.T, da ormai più di qualche anno, si sono rivolti cocainisti “puri” e non solo più
eroinomani con un uso secondario della cocaina.
Nonostante la gravità dei danni psicofisici che l’abuso di cocaina produce e per la sua
capacità di indurre dipendenza in un numero considerevole di consumatori, la diffusione
del consumo di cocaina è stato ampiamente sottovalutata.
Nella campagna di informazione e prevenzione la cocaina non ha ancora il posto che le
spetta, per estensione del consumo, gravità dei danni d’abuso e rischi che comporta.
A New York le autopsie hanno rivelato la presenza di cocaina in oltre il 18% di tutti gli
incidenti automobilistici mortali. Un certo numero di infortuni e di ictus in età ancora
giovane si spiegherebbe con l’uso protratto e con l’abuso di cocaina. Sul piano psichico
l’uso cronico può provocare l’insorgenza di disturbi di tipo paranoide alterando
l’equilibrio mentale.
La cocaina libera l’aggressività, rompe i freni inibitori e non è casuale che il suo utilizzo
si diffonda tra soldati e miliziani nei conflitti bellici. Tra i giovani è spesso concausa di
risse, di prevaricazioni violente, sia individualmente che in gruppi. Il contesto di
assunzione non è indifferente, poiché sottoculture violente, condizionamento di gruppo e
stimolazione cocainica si alimentano e potenziano vicendevolmente.
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LEZIONE 5
La relazione d’aiuto nel contesto della “prostituzione” di Leopoldo Grosso
La relazione di aiuto e le problematiche del rapporto, oltre alle difficoltà intrinseche,
devono fare i conti con i contesti e le situazioni contingenti in cui avvengono e si
svolgono. I luoghi dell’incontro, le buone pratiche e i setting delle consultazioni
tradizionali non ci sono molto d’aiuto; spesso non c’è a disposizione un ufficio apposito,
un ambulatorio in cui le persone si prenotano, vengono, bussano e pongono domande.
E’ più probabile che l’incontro avvenga nei luoghi in cui le persone esercitano o in
situazioni di emergenza. In un’attività di “aggancio” tendenzialmente il luogo privilegiato
dell’incontro è la strada. In questo caso, al contrario di un ambiente predisposto, chiuso e
rassicurante, protetto da possibili interferenze esterne, il contesto dell’incontro è esposto
all’imprevisto, a pericoli esterni che interagiscono con la fragilità di una relazione che,
con fatica, si tenta di costruire. Se il luogo d’incontro non è la strada, può essere il pronto
soccorso di un ospedale o il carcere, posti dove le persone, al di là della loro situazione
stanno vivendo una sofferenza aggiuntiva. In questi contesti e per il tipo di problematica
di cui sono portatrici, le persone non sono sempre in grado di esporre una domanda
chiara, che risulta in genere confusa e molto incerta. Difficilmente ci si confronta con
atteggiamenti ben definiti; si tratta di svolgere un ruolo attivo nell’andare incontro a tali
domande, e ci viene richiesto un comportamento in parte opposto a quello che abbiamo
tradizionalmente imparato nella relazione di aiuto. Comunemente nella relazione di aiuto
c’è un “cliente” che porta una domanda e il compito di chi aiuta è di cercare insieme una
risposta idonea a tale domanda. Nei contesti in cui abbiamo scelto di muoverci non è
così. Siamo noi che ci avviciniamo, che avanziamo piccole offerte, facciamo proposte
minimali attorno alle quali si inizia a imbastire una relazione. E’ importante che con tali
modalità la relazione sia sempre mediata da un aiuto materiale riuscire ad offrire un aiuto
concreto che in qualche modo risponda al bisogno emergente del momento, consente di
mostrare disponibilità e crea vicinanza. Un qualsiasi aiuto concreto, che può consistere
nell’offerta di un riparo, di un medicinale, è utile nel generare domande aggiuntive.
Dobbiamo evitare due tipi di errore. Il primo è di sviluppare un rapporto fondato
unicamente sulle parole, sull’accompagnamento verbale delle persone. Le parole devono
essere sostenute e supportate da una reale offerta materiale, perché l’opportunità effettiva
che si mette a disposizione rende credibili le parole, rende più visibile e percepibile una
disponibilità disinteressata. E’ essenziale offrire risposte concrete: è il “pretesto” su cui
spesso si riesce ad instaurare una relazione, senza il quale è più difficile e si rende più
incomprensibile l’intrusione. Molte di queste persone dovranno affidarsi a noi ma per
potersi affidare a noi si devono fidare di noi. Il presupposto per affidarsi è fidarsi e
l’atteggiamento di fiducia si ottiene con l’essere capaci di risposte concrete ai bisogni che
emergono e alle necessità materiali che si evidenziano. La seconda questione che
dobbiamo avere chiara nell’andare incontro alla problematica è che in genere la persona
che viene prostituita e la persona che si prostituisce rappresentano un continuum in cui
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non è sempre facile trovare la soluzione di continuità. Ciò pone un problema delicato: il
problema della scelta della persona. La persona che viene prostituita non sceglie di farlo e
si parla quindi di tratta. Ciò si colloca ad un polo di un continuum in cui si evidenziano
situazioni di “moderna” schiavitù, che scivolano dal condizionamento espresso attraverso
una coercizione, come l’utilizzo del noto rito voodoo per le nigeriane, etc... alle minacce
per la vita delle ragazze e dei loro famigliari, come avviene in alcuni clan albanesi.
Si osservano situazioni di estrema violenza e quindi di totale impedimento della libertà e
situazioni in cui è difficile capire, nell’ambito della ambiguità della proposta emigratoria
nei paesi occidentali, quale sia stata la possibilità di scelta delle ragazze, allettate da
offerte di lavoro da parte di compatrioti, quali accompagnatrice nei locali notturni,
mansioni in locali turistici e centri di bellezza. Il prostituirsi o l’essere prostituita si
collocano lungo un continuum in cui è difficile dire fino a che punto c’è un consenso, o
un imbroglio, o c’è un consenso estorto con diverse modalità. La scelta può diventare
successiva, di comodo, perché ad dato un punto della vicenda si apprezzano alcuni
vantaggi secondari. E’ importante essere consapevoli delle ambivalenze e delle ambiguità
per evitare di immaginare unicamente una persona ridotta in schiavitù. Non è così. Se
alcune situazioni sono veramente intollerabili e gridano vendetta, altre situazioni sono
quantomeno più confuse, dove una visione unicamente dicotomica, quale vittimacarnefici, può risultare semplicistica e fuorviante. Non dobbiamo percepire la ragazza
sulla strada solo e unicamente come la vittima. In una situazione di privazione e semi
ambiguità che si crea intorno alla proposta del progetto emigratorio, è sempre la
speranza/illusione di approdare in un luogo in cui la propria vita cambia e migliora.
Dietro ad ogni progetto emigratorio c’è sempre una speranza di emancipazione: dalla
povertà, dalle condizioni di vita del luogo di provenienza, da una condizione femminile
che molto spesso è opprimente e insopportabile. Una spinta fondamentale nella scelta di
venire in occidente è dettata dal desiderio di emancipazione. Alcune intuiscono quale sarà
il percorso e lo temono, altre ne sono consapevoli, altre vengono ingannate; nel
complesso è un terreno molto magmatico in cui bisogna sempre differenziare situazione
per situazione. Il resto del percorso avverrà nel rapporto con i clienti perché tramite
l’interazione lavorativa con loro e non solo, cambia il tenore di vita, cambiano le
abitudini radicalmente, oltre alla totale e indifesa esposizione alle sirene del consumismo
occidentale. I proventi dell’attività di molte ragazze russe e ucraine vengono reinvestiti
nell’acquisto di beni di consumo, dai cosmetici alle lavatrici, che vengono inviati ai loro
paesi d’origine, con un’attività di rivendita che genera ulteriore business. I meccanismi
sono complicati, i vissuti differenziati e si intrecciano con le culture d’origine e con il
disegno criminale e mafioso delle organizzazioni, che ne approfittano. Lo sfruttamento
non è sempre brutale, non si limita a prostituire la ragazza e a prendersene i proventi, ma
a volte vi è un vero e proprio “contratto’ in cui si consente alla ragazza di mandare alla
famiglia alcune rimesse che possono garantire una vita migliore a chi è rimasto in patria e
consentire una buona reputazione e immagine nel paese d’origine. Perché questa
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digressione? Perché non dobbiamo fare l’errore di considerare la scelta di stare sulla
strada come una scelta totalmente subita, dato che non è sempre così. Inizialmente può
essere cosi, poi si può sviluppare “acculturazione” e produrre un certo consenso, che però
è oscillante, maggiore o minore in certi periodi in rapporto alle vicende attraversate e ai
rapporti che si riescono a ridefinire con la propria organizzazione di sfruttamento. E’ dato
di base con cui si ha a che fare è l’ambivalenza rispetto a ciò che si fa; da una parte c’è
repulsione e dall’altra ci si abitua e si produce, come per le sostanze stupefacenti, una
certa assuefazione. Il dato di ripulsione e rifiuto viene progressivamente meno; si
apprezzano sempre di più i vantaggi, (vestiti, conoscenze diverse, giri in cui si viene
inseriti) e il discorso diventa molto individualizzato, persona per persona. Si vorrebbe
fare qualcos’altro ma non è semplice. A volte capita di offrire loro un lavoro con
l’opportunità di un guadagno di un milione e mezzo al mese e di sentirsi rispondere che è
una cifra abitualmente “fatturata” in una giornata o due di lavoro sulla strada, ben poca
cosa in termini di tenore di vita, in termini di possibilità di consumi e di invio di rimesse
per il mantenimento della famiglia di origine. Ci troviamo davanti a paradossali
contraddizioni, per cui non dobbiamo sottovalutare la grande attrazione che l’attività
progressivamente esercita. E’ l’ambivalenza di fondo che farà si che alcuni percorsi di
uscita non funzioneranno, perché alla fine prevarrà il richiamo del “giro” e di tutto ciò
che consente di realizzare. Se l’organizzazione non esercita la forza bruta ma si avvale di
condizionamenti più sottili riesce ad ottenere un’adesione più forte e convinta. Se siamo
di fronte a una scelta che non è totalmente una scelta ma può diventare parzialmente una
scelta, se essa è in molte situazioni governata d’ambivalenza, noi non dobbiamo cadere in
due fondamentali pregiudizi: il pensare che la ragazza sia una prostituta sempre
prostituita e di conseguenza sempre vittima, induce a generare un atteggiamento sempre
giustificazionista e impedirà di intravedere la resistenza al cambiamento e la necessità di
differenziare strategie e anche obiettivi dell’intervento. Diversamente, percepita
l’ambivalenza, cadere nel comportamento opposto, in un atteggiamento moralistico, di
rifiuto e di condanna. Occorre tenere una posizione di equilibrio, non scivolare nei due
comportamenti opposti, non adottare una logica bianco e nero; occorre riconoscere le
“complicità’ per trattarle; occorre evitare il rifiuto e non cessare l’aiuto, se la ragazza non
vuole “salvarsi”. E’ importante riuscire a creare una distinzione tra morale e moralismo.
Ciò non significa abdicare alle nostre valutazioni morali. Il moralismo è una morale a
scartamento ridotto, una morale senza conoscenza, che tiene in gran conto i principi, ma
non li articola con l’esperienza ulteriore della realtà e non fa uno sforzo di conoscenza,
per cogliere tutti gli aspetti di una realtà in cui si cerca di tenere viva la tensione sui
principi, pur a certe condizioni. Occorre evitare l’errore giustificazionista tout court e
quello moralista. Sull’ambivalenza si lavora senza scandalizzarsi e senza tirarsi indietro,
al di là della qualità delle scelte delle ragazze: scelte non libere, condizionate, scelte
parzialmente condivise. Ciò determina il modo in cui noi ci posizioniamo di fronte al
problema e di fronte alle ragazze che hanno questo problema. Dobbiamo sempre
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chiederci qual è la nostra posizione sapendo che dev’essere nel nostro repertorio tollerare
la confusione dei percorsi a zig zag, perché ciò che li genera è un’ambivalenza che si può
chiarire e risolvere solo in un secondo tempo. Occorre cercare di capire quali sono nelle
ragazze gli atteggiamenti più tipici che ci troviamo ad affrontare. Alcuni atteggiamenti
sono comuni a tutte, perché sono il risultato di una condizione comune. Il primo è la loro
paura. L’atteggiamento sviluppato verso l’altro, verso il bianco in particolare, verso ciò
che è straniero, per loro è combattuto: da una parte si intende il bianco come potenziale
risorsa, ma lo si percepisce anche come pericolo. Il primo problema che si pongono è
capire se l’altro con cui si rapportano è una risorsa o un pericolo. Devono essere aperte,
ma anche guardinghe, andare incontro ma anche essere pronte alla difesa. Al di là di
questo atteggiamento generale, le paure sono specifiche, ben precisate. La paura è il
rapporto con la loro organizzazione. Se sono sulla strada e non riescono a tirar su i soldi
che devono portare ogni mattina, la paura di non riuscire a raggiungere il fatturato
richiesto è direttamente proporzionale alla prepotenza dell’organizzazione che le
controlla. Là dove non c’è tolleranza ed elasticità e vengono utilizzati i metodi più
violenti, la paura di veni- re picchiata e sfigurata esiste ed è reale. La seconda paura è
quella di essere scoperta a trasgredire sulla strada le regole della organizzazione. Con i
clienti spesso alzano il prezzo, vengono richieste prestazioni particolari e le ragazze
hanno la possibilità di “fare la cresta” sul guadagno, ma se l’organizzazione le scopre le
punisce severamente. La terza paura è quella del cliente. I clienti si articolano in una
vasta gamma di tipologie. Quello sconosciuto e totalmente imprevedibile è quello che fa
più paura. Un’altra paura riguarda le forze dell’ordine, che possono scoprire la loro
identità clandestina e rimpatriarle. C’è un’ultima paura, banale ma non sottovalutabile,
che è il freddo, soprattutto per le ragazze africane; l’arrivo del cliente è una buona
occasione per salire sulla macchina e condurre la contrattazione al caldo. Gli interventi di
strada con un camper che offre un riparo e bevande calde sono un piccolo aiuto materiale
che facilita il rapporto. Si è di fronte a un coacervo di paure che le persone vivono e ci
permettono di capire alcuni atteggiamenti. Non scordiamo che la paura genera
aggressività. Un secondo atteggiamento tipico è quello della diffidenza, inevitabile in un
primo periodo di conoscenza: c’è una distanza da colmare e nel momento in cui
cerchiamo di avvicinarci, le ragazze ci guardano con sospetto; è questo il primo muro da
superare per poter instaurare la relazione. Si capovolge il paradigma della relazione di
aiuto- normalmente si instaura da una domanda che ci viene proposta, qui siamo noi che
sollecitiamo l’incontro. Per riuscire a sgretolare il muro della diffidenza, il primo sistema
per guadagnarsi la fiducia è di offrire un aiuto concreto facilmente fruibile: dai cinque
minuti passati al caldo alla possibilità di fare una visita ginecologica. Ci troviamo di
fronte a persone che nella loro vita non hanno sistematicamente vissuto esperienze di
rispetto. E’ importante che, nella nostra comunicazione nei loro confronti, sappiano
cogliere questa dimensione profonda, che noi le rispettiamo comunque come persone, al
di là dell’attività che conducono. Noi non ci rapportiamo con quello che fanno ma ci
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rapportiamo con quello che sono. Non con il loro ruolo, ma con la persona. In un saggio
intitolato “Stigma, l’identità negata’, E. Goffman descrive quanto sia importante la prima
immagine che una persona offre nel definire come ci si rapporta con lei, nel determinare
la distanza relazionale che si costruisce. Goffman fa l’esempio di un cieco che attraversa
la strada con un cane con tanto di bastone bianco; in quanto cieco evoca la percezione che
le persone hanno di lui e le modalità con cui ci si rapporta: non con la persona, in realtà
ma con la sua cecità. Solo se noi ne approfondiamo la conoscenza si scoprirà che
sopperisce alla sua cecità con altre risorse: solitamente con una cultura molto ampia, con
delle riflessioni profonde. In tal modo conosciamo una persona che non è solo cieca e nel
frattempo definiamo in maniera diversa la nostra relazione con lui e la distanza
diminuisce. Ruolo e aspetti esteriori definiscono il modo di relazionarsi. Dobbiamo
essere capaci di andare oltre, non fermarci alle prime apparenze e tantomeno ai ruoli. Il
rispetto è una modalità che ci fa guadagnare fiducia. Rispettare vuol dire non giudicare e
accettare ciò che sta avvenendo nella situazione. Le ragazze in strada vanno riconosciute
non per ciò che fanno, ma anche per quello che vorrebbero essere, per quello a cui
aspirano. Il rispetto è comunicato non solo verbalmente, ma soprattutto dal non verbale,
da come le guardiamo, che distanza fisica teniamo. Rispettare non vuol dire essere troppo
guardinghi, perché in questo modo non si è comunicativi in senso affettivo; è necessaria
una certa vicinanza, ma non troppo perché può essere fraintesa e percepita come
invadenza. Una comunicazione è rispettosa quando sa vedere la persona al di là del ruolo.
La modalità del rispetto si concretizza nel caratterizzare la relazione nel momento in cui
si offrono dei servizi. C’è sempre il rischio di organizzare dei servizi molto estesi e molto
importanti, però anche molto routinari, in cui si perde l’elemento di umanità e quindi
attenzione e rispetto; si rischia di diventare dei servizi “bancomat”. Qualcuno viene,
suona il campanello e si eroga il servizio. Rispettare una persona, significa farle percepire
che è importante per noi, riuscire a far passare un tipo di comunicazione: «guarda che io
mi interesso a te, tu in realtà, al di là di quello che sta succedendo, sei importante per
me”. Questa comunicazione, anche se non arriva al primo incontro ma occorre tempo
perché sia percepita, è fondamentale. Se la persona la coglie c’è la possibilità di costruire
una relazione solida e di diventare punto di riferimento. Un altro problema con cui
dobbiamo fare i conti è l’aggressività. Un’aggressività, indipendentemente da quanto
ciascuno di noi se ne porta dentro, si apprende. Si impara molta aggressività stando sulla
strada; fa parte delle leggi della sopravvivenza: bisogna difendere quei 10, 20, 50 metri di
marciapiede dall’ingerenza della concorrenza; vuol dire reagire agli improperi che ti
lanciano certe persone quando ti passano davanti in macchina. Bisogna difendersi e
quindi bisogna imparare ad essere aggressivi. Chi non lo è, impara ad esserlo. La
domanda di aiuto già è confusa, già è ambivalente, inoltre molto spesso è mal posta. Non
è una domanda, ma è una pretesa. “tu mi devi dare questo”. Occorre gestire
l’aggressività. In psicologia si dice che l’aggressività o deriva da una situazione di
frustrazione o è una maschera, un comportamento che si apprende perché è funzionale a
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certe situazioni. Quando le persone stanno male, molto spesso usano l’aggressività per
comunicare il loro malessere, come i bimbi che quando stanno male fanno star male i
genitori, perché non sanno esprimersi: questo è un modo attraverso il quale si comunica,
si contagia una sofferenza. Di fronte a queste domande/pretese è necessario per un verso
difendersi, mettere uno scudo, ma per l’altro non è utile contro-aggredire. Le persone,
‘dimenticando” la propria, percepiscono solo la nostra aggressività, si autoidentificano
come vittime, per cui la contro-aggressione, anche solo sul piano personale, è controproducente. Se l’aggressività è un pretesto per sfogare un malessere, per tenere su una
maschera, non bisogna cercare di avere ragione sul contenuto espresso. E’ impresa vana.
E’ più utile invece stare sulla relazione, spostando il discorso dal contenuto al rapporto
che noi intratteniamo con le persone, e ragionare sulle ragioni di un buon rapporto. Non
si deve cadere nella trappola di reagire sul con- tenuto o sul piano dell’aggressivítà;
altrimenti avviene ciò che si definisce “escalation simmetrica”: di fronte ad
un’aggressività si risponde con un atteggiamento altrettanto aggressivo, l’altro reagisce
ulteriormente e si crea la spirale negativa. L’aggressività deve essere gestita. In parte la
dobbiamo assorbire (ma neanche troppo) e metabolizzare con un atteggiamento di
mantenuta calma. Ciò non vuol dire che non ci si difende dall’aggressíone, ma che ci
sono le modalità e il mantenimento di una possibilità comunicativa. Un altro
atteggiamento con cui si deve fare i conti è la passività. Sorprendentemente queste
ragazze non risultano molto intraprendenti. Al di là di ciò che hanno appreso,
strettamente connesso alla loro attività, molte di loro non si sanno orientare, tendono
molto a delegare la soluzione di problemi e si rinchiudono in un atteggiamento passivo,
regressivo, anche se ovviamente non per tutte è così. Non bisogna assolutamente
accorarsi la delega; non bisogna far nulla senza di loro; deve sempre essere stimolata una
loro compartecipazione. Il segreto della relazione di aiuto è di non fare delle cose al posto
di qualcun altro, ma di attivare l’altro, che accompagnato faccia la propria parte, perché
ciò che ci chiede riguarda lui. Contrariamente si rischia di dar luogo ad opportunismi di
ogni tipo, a sfruttamenti relazionali. Se il volontario che si attiva per far uscire una
ragazza dal giro le trova un avvocato, un medico e fa tutto da sé senza l’attivazione della
ragazza, si può anche sentire importante e realizzato, ma se la ragazza non prende
coscienza di tutto ciò e non si attiva anche lei, non riuscirà ad usufruirne pienamente, né
le apprezzerà fino in fondo, perché non se le è conquistate, non se le è guadagnate, non le
ha portate avanti lei in prima persona. Questo è un atteggiamento sbagliato perché
aumenta la passività delle persone, invece di attivarle, con un effetto paradossale: più noi
facciamo, più ci richiedono cose da fare al posto loro. Si genera così una dipendenza
relazionale. Devono pur imparare anche i meccanismi della nostra burocrazia e, finché
non si attivano, non ci riusciranno mai. K. Lewin sosteneva che il mondo impari a
conoscerlo solo se cominci a tentare di cambiarlo. Solo se ti dai da fare; il modo migliore
per prevedere il futuro è contribuire a determinarlo. Attivandoci apprendiamo e possiamo
entrare di più in relazione; se invece delego, rimango all’interno di un atteggiamento di
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passi- vità. t estremamente importante la differenza tra accompagnare le persone e portare
le persone. Portare è come se le prendessimo di peso, spostandole e sostenendo noi tutto
lo sforzo. Può capitare che loro non si rendano neanche conto di dove sono arrivate.
Invece se noi le accompagniamo, le cose vengono fatte insieme. Condividere è difficile
perché anche noi facciamo una fatica in più (i tempi si allungano, avremmo fatto prima
da soli), ma è strumento educativo ed emancipatorio. Le culture delle persone prostituite
sono molto diverse, ma un dato comune riscontrato è che molte di queste culture sono
immerse in un atteggiamento fatalistico nei confronti della vita. Non sei tu che determini
il tuo destino, ma è il tuo destino che determina te: ci si aspetta che gli avvenimenti accadano di per sé, che le cose arrivino, pensando il proprio ruolo come molto relativo. In
occidente si è sviluppato un atteggiamento di attività e di protagonismo nei confronti
dell’ambiente; da una concezione di tipo fatalistico, rispetto alla cui esasperazione si è
anche critici, discende molta più passività. Il nostro compito è, cercando di stimolare il
passaggio da un atteggiamento passivo ad uno attivo, far guadagnare maggior fiducia in
se stesse, nelle persone che aiutiamo. Spesso ci accorgiamo che c’è poca fiducia in sé,
pochissima sicurezza al cli là degli atteggiamenti appresi nel loro ruolo, in cui sanno
come devono comportarsi. Fuori dal ruolo predomina l’insicurezza. Due sono gli aspetti
da far prevalere e che sono tra di loro correlati, la fiducia di sé e la funzione della
costanza: una determinazione che sa mantenersi tale nel tempo. Per far questo è utile
porsi dei micro obiettivi di percorso più raggiungibili, che non i grandi obiettivi della
denuncia dello sfruttamento, dell’emancipazione dalla prostituzione e la costruzione di
una nuova vita subito. Il concetto che ci deve guidare nell’accompagiiare, (e non nel
portare), è quello della “frustrazione ottimale”. Ciò significa che rispetto alle capacità di
quella singola ragazza, dobbiamo porle un obiettivo in grado di essere raggiunto, con un
po’ di sforzo e con un po’ di applicazione, mettendo molto del suo pur con A nostro
aiuto. Se lei riesce a raggiungere questo obiettivo ne ha due vantaggi: è gratificata di per
sé per il successo e si rende conto che può farcela da sola, interiorizzando un
atteggiamento sulla propria capacità di attivazione. In questo unico percorso sviluppa in
sé una funzione che molto spesso è carente, affrontare le frustrazioni per raggiungere un
obiettivo che richieda un qualche sforzo, contribuendo a costruire la dimensione della
costanza. Se si sbaglia la scelta degli obiettivi, la ragazza non ce la fa, ci si sostituisce o la
ragazza non regge la frustrazione dell’insuccesso e molla ‘tutto, si demotiva e
interiorizza, confermando una inadeguata immagine di sé stessa. Prima di porci degli
obiettivi dobbiamo conoscere bene le persone, perché il rapporto e l’intervento non
possono che essere individualizzati. Il percorso stesso ha delle fasi che non sono
generalizzabili e quando vengono proposte in modo rigido vengono sconvolte dau’individualità di ogni singola ragazza. L’individualizzazione del percorso è un criterio
metodologico fondamentale. Non c’è ragazza prostituta o che si prostituisce che non porti
dentro di sé un profondo senso di colpa e un profondo senso di vergogna; anche quando
apparentemente non sembra così, vergogna e colpa sono sempre presenti, pur rimosse o
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nazionalizzate. Un aiuto, su questo piano, può consistere nel cercare di portarle alla luce,
anche se non sempre è facile né opportuno, perché non sempre ne vogliono parlare. Le
aiutiamo soprattutto in maniera indiretta, attualizzando e concretizzando la scelta che
stanno facendo. Nella rielaborazione noi siamo molto aiutati dalla scelta che le ragazze
stanno conducendo, che è quella di uscire dal giro e dall’impegno che ci stanno mettendo.
Basta “fare i conti con il passato”, anche recente, se noi riusciamo a collocarlo dentro una
storia che ripercorre tutto il progetto emigratorio, che riprende la loro condizione di vita
nei paesi d’origine, che riprende le modalità con cui sono approdate in Italia e le modalità
di esercizio della loro attività. Nel ripercorrere tutto questo percorso, ecco che possiamo
finalmente concederci di essere un po’ più giustificazionisti. Perché nei fatti c’è un
percorso d’uscita e dobbiamo arrivare ad una riconciliazione con il passato, darne una
spiegazione, consentirne una collocazione e rielaborazione. Devono essere in grado di
‘perdonarsi” in qualche modo il proprio passato se viene pesantemente vissuto con
vergogna e colpa. In tutto questo l’attenzione prioritaria è nel rispetto dei tempi, senza
forzarle a parlare o a raccontarsi.
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LEZIONE 6
Le comunità per minori di Luigi Ciotti
Uno dei diritti fondamentali di ogni minore è quello di avere una famiglia o comunque
degli adulti significativi che si occupino di lui, in una casa che sente come sua. Avere una
famiglia/casa è un obiettivo irrinunciabile per una “politica” per i minori e invece troppo
spesso anche in Italia è un diritto negato. Per molti minori la famiglia di origine non c’è
o non c’è la fa. Oppure la famiglia, per problemi, con percorsi distorsi scarica rabbia,
delusione, rancori sui figli che vengono abusati, maltrattati.
Oggi le case famiglia si ritrovano a dare risposta al posto della delega nei confronti degli
istituti per i minori, gestiti sulla base di una realtà che negli anni ha rivelato la loro
insufficienze in quanto:
1) collegi (50-100) troppo numerici
2) luoghi in cui, per il numero, prevale il rapporto con le regole, non con gli educatori
3) luoghi troppo chiusi verso l’“interno” e poco aperti esterno
Allora le “case famiglia” si collocano tra una famiglia che non c’è e un istituto che è
ormai superato. Rappresentano un passo in più correggendone i limiti: sono di piccole
dimensioni, propongono un rapporto stabile, continuativo con adulti che sono motivati da
passione e non solo dalla ricerca di un posto di lavoro. I rapporti con gli adulti sono
sempre mediati dagli adulti di riferimento, il rapporto con l’esterno avviene come
dovrebbe avvenire in ogni famiglia, quindi in un orizzonte di normalità e non di
eccezionalità. Anche se chiaramente questo non significa che i problemi non esistano:
quando un minore cambia famiglia non è mai senza difficoltà, senza lasciti, senza traumi.
Se la famiglia “non sostiene” provoca sempre delusione, rabbia, protesta oppure
colpevolizza, porta ad una svalutazione, ad una bassa stima di sé. In entrambi i casi ciò
che viene a mancare è la fiducia nell’altro e in sé stesso. Il problema è che questa eredità
non è lasciata fuori dalla porta di ingresso della nuova casa.
Ogni nuova accoglienza è sempre in salita, non può che essere condizionata da ciò che il
minore ha vissuto in precedenza. I nuovi “adulti” devono fare i conti con una sofferenza
spesso mascherata. Se i minori stanno male il loro modo di comunicare il malessere è far
stare mal chi si occupa di loro, creare problemi di rapporto. Sono quindi aggressivi,
lanciano sfide, scappano, si fanno volutamente del male. In sostanza mettono alla prova,
dopo una prima fase di annusamento del nuovo territorio (casa/famiglia) inizia il periodo
più duro la cui richiesta nascosta è “Dimostrami che posso fidarmi di te”.
All’adulto quindi è chiesta una grande pazienza, di essere fermo, saldo ma anche
flessibile ed elastico, di conquistarsi il riconoscimento da parte del minore e la sua
fiducia. La fiducia necessaria per poter chiedere aiuto.
Il percorso di crescita non è mai una linea retta , è fatto di sbalzi, discontinuità. Non
bisogna mai illudersi, ma neanche farsi prendere dalla delusione. Affinare la capacità di
sostenere e soprattutto la capacità di non deprimersi e di non abbandonare. I percorsi dei
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minori sono percorsi lunghi che devono passare attraverso lo sbagliare. Non c’è crescita
ed educazione senza esercizio di libertà, l’uso della libertà è sempre un rischio, ma non
usarla significa non crescere e rimanere dipendenti dagli altri, essere “bloccati” dalle
paure e dai limiti. Bisogna saper “tollerare” che i ragazzi si prendano dei rischi, pur
cercando di contenerli, reprimendo l’ansia che provoca la libertà.
Allegato :
LE COMUNITÀ PER MINORI: GOVERNARE IL PLURALE A cura di Luciano Tosco
Definire tipologie di comunità, requisiti e standard di funzionamento, livelli
di competenza è la premessa per uscire da una «cultura dell’emergenza» che
fa pesare sulle comunità per minori interventi che andrebbero risolti
diversamente. La strada da percorrere è verso interventi sempre più mirati
e individualizzati, attraverso la costruzione e il potenziamento di reti sociali
di supporto che favoriscano l’autonomia dei minori e grazie a una
comunità locale responsabile, capace di farsi carico dei loro problemi.
Il presente contributo completa la riflessione Le comunità per minori/1: leggere il
plurale, pubblicata sul numero di ottobre della rivista.
Sebbene non ci siano ricerche sistematiche sull’utenza delle comunità è impressione
diffusa che gli inserimenti siano sempre più attivati con la logica dell’«ultima
spiaggia». Si tratta o di emergenze che costringono all’inserimento residenziale
come soluzione inevitabile o di un ultimo tentativo dopo anni di lavoro e di
interventi che non sono riusciti. Oppure ancora di scelte residuali, perché non si
sa cosa altro fare, pur riconoscendo che la comunità non potrà certo essere
significativa
per
un’evoluzione
della
situazione.
Tale
logica
risulta
sostanzialmente diversa da quella di alcuni anni fa, quando la comunità era
percepita come situazione transitoria per prevenire quelle situazioni che invece,
oggi, portano agli inserimenti urgenti e alla necessità degli interventi
residenziali. Si ritiene dunque che la presenza nelle comunità di un’utenza sempre
più problematica sia certo dovuta a un aggravarsi delle situazioni di difficoltà ed
emarginazione. Ma l’elemento fondamentale che caratterizza la richiesta e
l’inserimento residenziale è dato dal cambiamento del ruolo della comunità da parte
dei servizi socio-sanitari, della scuola, delle autorità di pubblica sicurezza e
dell’autorità giudiziaria minorile. Tale cambiamento deriva certamente dalla sempre
maggiore presenza di servizi di sostegno al nucleo familiare e al minore in
particolare, dalla normativa vigente, dalla nuova teoria e pratica di lavoro
sociale. Risultano in aumento gli inserimenti di preadolescenti e adolescenti
border-line, senza diagnosi precisa, che hanno già ricevuto moltissimi servizi ma
anche fallimenti assistenziali, compresi numerosi soggiorni in comunità. Aumenta la
richiesta di inserimento di situazioni molto difficili, per le quali non c’è
possibilità di rientro in famiglia o di autonomia personale anche dopo il
compimento della maggiore età (ad esempio, minori con gravi disabilità abbandonati
e non adottabili). Sempre maggiori sono gli inserimenti di minori abusati, mentre
non si trovano strutture disponibili ad accogliere adolescenti con patologie
relazionali ormai strutturate o dipendenti da sostanze stupefacenti. Molte
comunità, poi, ospitano minori extracomunitari inseriti in ottemperanza ai compiti
di protezione e tutela, ma i cui bisogni potrebbero essere soddisfatti con servizi
e iniziative diverse, anche meno costose.
Tra progetto e ultima spiaggia
La comunità certo non è e non deve essere la prima risposta ai bisogni.
L’aggravamento delle situazioni che vengono inserite nelle strutture residenziali
può essere considerato positivamente in quanto indica che i minori con le
situazioni meno drammatiche, grazie ai servizi di supporto al nucleo, rimangono in
famiglia oppure vengono collocati in affidamento. D’altra parte è legittima la
richiesta degli operatori delle comunità di poter essere considerati come attori di
77
cambiamento e non solo come «ultima spiaggia» quando non si sa più cosa fare e
forse non c’è più nessuna speranza di cambiamento.
In questa situazione non è sufficiente denunciare una presunta incompatibilità tra
progettualità definita in una dimensione temporale e cultura dell’emergenza.
Occorre forse accettare la sfida di trasformare anche
l’ultima spiaggia in
progettualità innovative. Ma ciò comporta numerosi aspetti di complessità.
Bisogni e ambiti di intervento. Come già evidenziato, i bisogni sono sempre più di
difficile soluzione, differenziati e richiedono risposte diversificate. Nel
contempo,
politiche sociali innovative impongono un preciso collegamento dei
servizi con la comunità locale. Queste due esigenze, in teoria complementari, sono
invece nella realtà operativa difficilmente conciliabili. Infatti, spesso, le
comunità alloggio si caratterizzano per la loro valenza territoriale, ma non sono
in grado di rispondere a molti dei bisogni di residenzialità del territorio; oppure
per
specificità
di
intervento
per
utenza
con
determinate
situazioni
e
caratteristiche, ma hanno scarsi collegamenti con la zona in cui sono ubicate.
Pertanto le tipologie di comunità di cui si è già trattato (educative, di tipo
familiare) devono confrontarsi e considerare la variabile relativa agli ambiti di
intervento. Tali ambiti si ritiene si connotino relativamente:
all’accoglienza di minori di una determinata zona indipendentemente da bisogni e
condizioni che hanno portato alla necessità di inserimento extrafamiliare
(territorialità);
all’accoglienza di minori con problematiche specifiche e comportamenti patologici
già strutturati (terapeuticità);
all’accoglienza anche di minori con problematiche specifiche, comportamenti
devianti e patologici non ancora strutturati (specializzazione).
Vediamo ora un po’ più nel dettaglio i diversi tipi di comunità.
Comunità territoriali. Sono strutture che accolgono minori della loro zona e si
connotano per un elevato livello di apertura con la rete e le risorse locali. Il
cambiamento dei bisogni e dell’utenza impone riflessioni su questo tipo di modello
(1).
Comunità terapeutiche. Una parte dell’utenza che accede o per la quale è richiesto
l’inserimento in comunità pone il problema
di come attuare cambiamenti in
situazioni molto problematiche. Infatti un significativo numero di minori presenta
comportamenti e patologie relazionali o di rapporto con la sostanza già
strutturate.
In
questo
caso
un
«normale»
progetto
educativo
non
innesta
cambiamenti
significativi, in quanto gli stessi sono molto difficili e profondi, ma è
necessario un ambiente più specificamente «terapeutico».
Se questa analisi è condivisibile, occorre allora prevedere comunità educative
«terapeutiche» per specifiche problematiche. Ciò pone alcune questioni, come per
esempio: quali sono le problematiche di competenza di queste comunità? Quali gli
standard e i requisiti? Chi è titolare della competenza di intervento (Asl,
Comuni)? Chi decide gli inserimenti, con quali procedure e con quali garanzie per
evitare accoglienze improprie e negative per lo sviluppo del minore?
Comunità con tipologie di utenza
e situazioni prevalenti. Le comunità
terapeutiche devono essere utilizzate per situazioni molto particolari, a
condizioni e con procedure definite. In caso contrario si favorirebbero risposte
scorrette e processi di ulteriore «stigmatizzazione», con le relative deleterie
conseguenze evolutive.
Peraltro la complessità e la diversificazione delle situazioni e dei bisogni (si
pensi, per esempio, agli abusi) richiede non certo strutture particolari, ma
preparate e competenti su determinati aspetti.
Quali sono gli aspetti che necessitano di competenze specifiche (quelli generali li
abbiamo già definiti) e quindi su quali si potrebbero «specializzare» le varie
comunità?
78
La permanenza oltre i
diciotto anni. L’adolescenza e la mancanza di completa
autonomia tende sempre più a prolungarsi e già attualmente si configura di gran
lunga oltre i diciotto anni. Da questa condizione non sono certo esenti gli ospiti
delle comunità, anzi spesso le difficoltà personali e familiari rendono ancor più
difficile il raggiungimento dell’autonomia. Se è evidente come non sia possibile,
in certi casi, dimettere una persona al raggiungimento della maggiore età, quale
età anagrafica massima deve comportare comunque le dimissioni?
Come già rilevato, alcuni minori entrano in comunità senza nessuna prospettiva di
rientro in famiglia o di autonomia. Si può quindi prevedere che avranno bisogno di
protezione e tutela anche residenziale per tutta la vita. Per questi casi può
essere opportuno prevedere strutture di accoglienza che li ospitino anche dopo la
maggiore età, quindi con utenza mista, derogando al principio della temporaneità
nelle strutture residenziali per minori? Oppure occorre strutturare una rete di
servizi articolata per strutture temporanee
e strutture con compiti di cura e
mantenimento delle abilità acquisite, per un’accoglienza a tempo indeterminato?
Utenza mista minori e adulti. Nelle case famiglia, ma anche in altre strutture
quali le comunità per madre e bambino (comprese quelle terapeutiche per pazienti
psichiatrici e tossicodipendenti), è prevista la presenza di adulti, con problemi
anche gravi, insieme ai minori.
Per quanto riguarda le case famiglia, tale scelta deriva da una encomiabile opzione
valoriale di solidarietà e accoglienza che, attuata nella struttura, può diventare
anche un esempio «educativo» per gli ospiti. È legittimo però chiedersi quali
debbano essere le condizioni e le garanzie perché la presenza di adulti con gravi
problemi non sia di ostacolo allo sviluppo del minore ospite.
Nelle comunità terapeutiche per adulti il bambino segue il genitore che lì si reca
per curarsi. Anche qui occorre sempre chiedersi, caso per caso, se ciò sia
importante al fine di non spezzare legami significativi o se il bambino vada
semplicemente perché ciò è terapeutico per il genitore.
Infatti non si può derogare al principio che il bambino è soggetto di diritti e non
può essere strumento per nessuno, neanche per i propri genitori. Pertanto, anche in
queste comunità, il minore deve avere le sue attenzioni e i suoi spazi e non
semplicemente vivere in funzione dell’adulto.
Comunità e non solo
Le considerazioni precedenti richiamano due questioni generali relative all’utenza
reale e potenziale delle comunità:
da un lato problematiche sempre più difficili da affrontare e gestire, che
richiedono competenze, capacità specifiche e comportano difficoltà per i percorsi
di autonomia;
dall’altro bisogni semplici di tipo primario e di inserimento sociale, cui si
risponde con le comunità in quanto non esistono iniziative e servizi diversi e più
idonei (ad esempio, adolescenti extracomunitari soli).
Riguardo al primo aspetto, la maggiore problematicità dei minori inseriti, comporta
difficoltà maggiori nella progettazione anche relativamente ai tempi di permanenza,
alle dimissioni, all’acquisizione dell’autonomia (2).
La media di permanenza nelle comunità è di circa due anni, ma questo dato non rende
conto delle differenze tra periodi lunghi (in aumento) e pronti interventi che si
«risolvono» in poco tempo (abbandono della comunità, ritorno in famiglia dopo una
fuga, ecc.). L’aumento dei tempi di permanenza e la difficoltà ad attivare percorsi
di autonomia (3) deriva certo dalla complessità dei casi, in particolare dalle
situazioni familiari e dalle condizioni sempre più difficili per il rientro. A
fronte di questa situazione, che quindi richiederebbe un notevole investimento nei
confronti della famiglia di origine, nel momento in cui il minore viene inserito in
comunità quasi tutte le energie sono rivolte allo stesso e al suo percorso
evolutivo.
L’aumento dei tempi di permanenza e la difficoltà ad attivare percorsi di autonomia
deriva però anche dalla carenza delle reti sociali. Se si vuole contrastare la
79
tendenza a percepire e usare le comunità come contenitori per grandi emergenze, non
basta rivendicare nuovi servizi (peraltro sempre meno possibili per la diminuzione
delle risorse), ma occorre ragionare sullo spostamento dell’asse verso la
competenza della comunità locale. Non basta che la struttura di accoglienza si
ponga il problema di come far fronte alla richiesta, come dare autonomia ai
ragazzi, come trovare casa e lavoro. Non basta che questo lo facciano gli altri
servizi. La società in genere, nelle sue forme pubbliche e private, deve farsi
carico di quei «pezzi» di problemi che i servizi non possono, ma debbono prendere
su di sé. La presenza di una rete di opportunità diversificate per l’autonomia
risulta essenziale: non si possono fare progetti standardizzati validi per tutti.
Occorre, invece, poter costruire percorsi individualizzati all’interno di una rete
di occasioni non solo istituzionali e pubbliche, ma anche prodotte dal privato, sia
profit che dell’imprenditoria sociale, e dal volontariato, comprese le iniziative
connesse a specifiche situazioni locali.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, e cioè quello dell’utilizzo «improprio»
delle comunità per bisogni che potrebbero essere soddisfatti altrimenti e a costi
più bassi, si ritiene si debbano sperimentare accoglienze diverse dalle comunità.
Peraltro tali strutture servirebbero anche per favorire percorsi di autonomia dei
minori ospiti di comunità (4).
Nel caso di minori con un certo livello di autonomia, ma per i quali non è
possibile il rientro in famiglia, si ritiene opportuno il ricorso a strutture di
accoglienza
diverse
dalle
tipologie
di
comunità fin qui descritte. Tale
constatazione nasce dall’esperienza di tutela e protezione di minori soli
extracomunitari ultraquindicenni con elevato livello di autonomia, derivata dalla
cultura e storia personale, con bisogni primari di alloggio e secondari di
inserimento sociale. Per questi ragazzi la comunità si è rivelata incompatibile e
ha comportato o un’accentuata «reattività» nei confronti della struttura e degli
operatori o un adattamento passivo e una regressione rispetto ai precedenti livelli
di autonomia raggiunti. Inoltre, a fronte delle drammatiche condizioni di
emarginazione, ai limiti delle possibilità di soddisfacimento dei bisogni primari,
in cui si trovano molti di questi minori, ci si è chiesti se è meglio attivare
interventi che permettano a molti di fruire di un minimo di condizioni dignitose,
piuttosto che a pochissimi di ottenere il «tutto» di un’accoglienza in comunità.
Infine, in una situazione di non rilevante possibilità di implementazione della
spesa, le comunità non possono essere utilizzate per esigenze non coerenti con le
proprie finalità e cioè per situazioni molto problematiche a livello sociorelazionale.
I problemi della rete
La costruzione e il potenziamento di «reti» che favoriscano l’autonomia dei minori
portano necessariamente a interagire con i soggetti che a diverso titolo sono
coinvolti nella relazione con il minore: la famiglia, la comunità locale, i
servizi.
Supporto alla famiglia. Questa funzione — finalizzata alla valorizzazione e al
recupero delle competenze genitoriali relativamente al minore in comunità — è
esercitata in modo alquanto insoddisfacente dai servizi per una serie di motivi che
potrebbero essere così sintetizzati:
carenza del personale dei servizi territoriali, in particolare assistenti sociali
che, dati i carichi di lavoro, finiscono per «parcheggiare» i minori in comunità
delegando tutte le competenze, compresa quella in oggetto, agli educatori;
carenza culturale, derivata da un’idea della famiglia più come problema che come
risorsa e da politiche sociali tradizionalmente mirate a intervenire su singoli
membri e non a favore del nucleo nel suo complesso;
insufficienza, in gran parte conseguente a quanto sopra, di strumenti teorici e
operativi
e
relativa
formazione
degli
operatori
per
il
recupero
della
genitorialità, delle sue risorse e competenze.
80
Questi fattori favoriscono la tendenza, sempre presente nelle organizzazioni e
quindi anche nelle comunità, all’autoreferenzialità, al sentirsi indispensabili e
quindi
al «tenersi» i minori perché se rientrano in famiglia peggiorano e quindi
si perde tutto il lavoro fatto. Peraltro occorre interrogarsi se il rapporto con la
famiglia, nel senso del recupero delle funzioni genitoriali (quasi come un criterio
di divisione del lavoro), sia competenza dei servizi territoriali, mentre la
comunità si deve occupare del minore. Certo non è semplice lavorare con la famiglia
quando i minori arrivano in comunità con provvedimenti per abusi, maltrattamenti,
ecc. Dove però gli educatori hanno posto come obiettivo questo impegno, i risultati
spesso sono stati positivi.
Occorre fare in modo che la famiglia non senta la comunità come antagonista. Gli
educatori non sono i genitori buoni, e così non devono essere percepiti, ma dei
professionisti che aiutano nelle competenze genitoriali. Spesso, però, gli
educatori in questo percorso sono soli o perché gli altri attori hanno posizioni e
progetti diversi o perché non si interessano (anche solo per i motivi di tempo
sopra espressi). Allora la comunità diventa il solo luogo, anche per i genitori, in
cui puoi essere ascoltato, per i tuoi problemi, in tempo reale. La comunità quindi
si accolla da sola un compito non suo, con gli evidenti rischi di invasività che
distolgono dai compiti cui deve assolvere.
La comunità locale. Se è vero che le strutture residenziali non possono risolvere
tutti i problemi, il ricorso alla comunità locale e ad altre istanze e
organizzazioni sociali risulta alquanto problematico.
In primo luogo relativamente agli operatori. Riconoscere la comunità come
competente
ad
affrontare
i
problemi
significa
riconoscere
che
può
avere
rappresentazioni della realtà, obiettivi, idee di soluzioni e intervento anche
diverse dalle proprie. Significa quindi fare un lavoro di rete che non sia
strumentale e cioè non si può credere di essere i detentori del sapere sociale,
pretendere di imporre il proprio punto di vista, voler ottenere ciò che si
desidera. Implica una grande disponibilità, tutt’altro che scontata, a mettersi in
gioco.
In secondo luogo, spostare le competenze sulla comunità significa, da parte delle
pubbliche amministrazioni, attuare azioni e volontà politiche di valorizzazione
reale e non strumentale (ad esempio, utilizzo del volontariato e delle solidarietà
sociali per un ritiro almeno parziale dalle responsabilità e/o per diminuire i
costi dei servizi).
In terzo luogo significa avere strumenti amministrativi e finanziari molto
flessibili e «spostabili» in relazione ai bisogni e ai progetti (5).
Quali e quanti sono i vincoli che contrastano la flessibilità? Come promuovere
cultura e occasioni di accoglienza e solidarietà nella società come una funzione
attinente alle responsabilità politiche, amministrative e tecniche delle pubbliche
amministrazioni?
Il valore aggiunto nei servizi formali. La presa in carico di «pezzi» dei problemi
dei minori ospiti delle comunità dovrebbe far capo alla comunità locale, alle
istanze e organizzazioni sociali, anche se questo «spostamento» di competenze
risulta particolarmente problematico.
Altrettanto complessa è la questione riguardante il «valore aggiunto» fornito, in
un sistema di welfare mix, dal privato cui vengono affidati servizi formali. In
altri termini, è possibile che «pezzi» dei problemi dei minori in comunità vengano
assunti dall’organizzazione che gestisce la comunità stessa? Come? E quali? Oppure
l’organizzazione affidataria di un servizio deve solo fornire le prestazioni
professionali previste per lo stesso?
Di fronte alle difficoltà di presa in carico «sociale», oppure anche per scelta, le
organizzazioni che gestiscono comunità cercano di rispondere ai problemi dei minori
ospiti attraverso soluzioni «interne» all’organizzazione stessa. Tale impegno,
necessario e positivo, deve però evitare il rischio di indurre dipendenza della
81
persona dall’organizzazione. In caso contrario si finirebbe per ricreare lo spirito
dell’istituto, anche se in forme diverse, cioè quello di un’organizzazione «mamma»
che al suo interno tutto offre.
Governare il plurale
Come già accennato, le politiche sociali di welfare mix, in generale e nello
specifico quelle rivolte alla tutela delle fasce più deboli, devono da un lato
offrire servizi formali, dall’altro aiutare la comunità locale ad affrontare e se
possibile risolvere i problemi che dalla stessa emergono.
Per servizi formali si intendono prestazioni e interventi certi, continuativi, con
standard definiti, gestiti da personale qualificato. Tali servizi sono pubblici in
quanto di pubblico interesse, ma possono essere affidati in gestione al privato, in
particolare alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale e al terzo
settore, ove ciò garantisca maggiore efficacia ed efficienza.
Per quanto riguarda le comunità alloggio risulta evidente come la quasi totalità
sia a gestione privata, il che comporta, data anche l’estrema eterogeneità e
pluralità, una funzione di coordinamento e di governo da parte dell’ente pubblico.
Tale funzione comporta competenze programmatorie, di allocazione delle risorse, di
definizione degli standard, di verifica e valutazione di qualità. Risulta quindi
evidente come le politiche delle istituzioni e degli enti pubblici influiscano in
modo assolutamente significativo sulle comunità, sulla loro identità, struttura e
crescita e quindi siano estremamente importanti e strategiche per orientare lo
sviluppo delle stesse.
In particolare risulta importante evidenziare due aspetti:
il primo riguarda la definizione delle tipologie di comunità, dei requisiti e
degli standard di funzionamento (6);
il secondo è relativo alle forme di affidamento a terzi del servizio comunità da
parte degli enti pubblici titolari della competenza.
Si ritiene che le principali modalità debbano essere quelle dell’appalto e
dell’accreditamento.
Nel caso dell’appalto viene instaurato tra ente affidante ed ente gestore del
servizio un rapporto reciprocamente vincolante per un tempo definito, normato da un
capitolato su cui si basa il rapporto contrattuale. Si ritiene che questa forma sia
utile per interventi specifici relativamente ai quali è prevedibile la costanza del
bisogno e può essere utile per verificare interventi costanti per un certo periodo
di tempo (ad esempio, comunità «territoriali» che accolgono minori di una
circoscrizione cittadina e svolgono anche interventi di inserimento diurno). Oppure
deve attuarsi quando occorre attivare servizi sperimentali, necessari e non
presenti «sul mercato» (ad esempio, comunità per bambini da zero a tre anni).
Oppure, ancora, quando occorre avere sempre disponibile il servizio (si pensi alla
pronta accoglienza).
L’accreditamento consiste invece nella disponibilità di una organizzazione a
fornire parte di un servizio e nel riconoscimento
dell’ente affidante. Le
strutture pertanto vengono accreditate sulla base di determinati requisiti e
standard. Nel momento in cui sia necessaria la prestazione
(per esempio,
l’inserimento residenziale di un minore), viene scelta, tra quelle accreditate, la
struttura ritenuta più adatta. Non essendoci un rapporto esclusivo con un
determinato ente pubblico, ne deriva la possibilità per il gestore di scegliere
quali minori accogliere. È evidente quindi che l’accreditamento introduce, nel
nostro caso, una situazione di «quasi mercato». Infatti, il mercato viene
regolamentato da norme e standard, ma all’interno delle stesse si attua un rapporto
di concorrenza non solo tra le varie strutture, ma anche tra gli
enti pubblici
titolari delle competenze. Gli enti tenderanno a scegliere le strutture più
efficaci, efficienti e adatte a rispondere ai bisogni, mentre i gestori tenderanno
ad accogliere minori segnalati dagli enti che offrono loro maggiori garanzie.
L’accreditamento risulta, nel caso delle comunità, più adeguato degli appalti per
gli inserimenti a lungo termine di minori con specifici bisogni e caratteristiche,
82
in quanto permette all’ente di scegliere in modo individualizzato e differenziato
tra strutture presenti «sul mercato» senza esclusivo rapporto con l’ente stesso.
Quanto detto sopra non esclude la gestione diretta della comunità da parte degli
enti pubblici. Occorre però, a questo proposito, almeno nelle poche situazioni dove
ancora esistono comunità per minori a gestione diretta, avviare una riflessione tra
queste strutture e le altre. Finora ci si è limitati infatti a comparare i costibenefici tra le due forme, più che a individuare eventuali diverse peculiarità (7).
Non si ritiene infatti che debbano configurarsi in modo identico a quelle private,
quasi in un sistema di concorrenza peraltro difficile da sostenere, ma piuttosto
che si debbano individuare specificità per le quali è opportuna una gestione
pubblica. Per esempio, sperimentazioni, problematiche per le quali sono necessari
rapporti delicati e complessi con altre istituzioni, quali abusi, procedimenti di
adottabilità, ecc. Inoltre occorre chiedersi se l’assenza, di fatto, di comunità
gestite dagli enti titolari delle competenze di protezione e tutela dei minori non
possa essere considerata almeno inopportuna. È possibile infatti saper controllare
e valutare senza alcuna diretta esperienza gestionale?
Aspetti di complessità
Le diverse modalità di gestione delle comunità pongono una serie di nodi
problematici che vanno approfonditi.
Livelli di competenza. Questa tematica è fondamentale se si vogliono attuare
corrette politiche di accreditamento. Peraltro il Parlamento ha impegnato il
Governo a definire criteri e linee guida. Tale impegno, al momento disatteso,
richiede invece maggiore attenzione
per permettere
di avviare un riordino di
tutta la materia a livello nazionale. Questa esigenza è comunque recepita dal
disegno di legge di riforma dei Servizi sociali attualmente all’esame del Senato.
Occorre pertanto, in primo luogo, decidere i livelli di competenza. Lo Stato deve
fornire criteri, tipologie di strutture e standard generali onde evitare eccessive
differenziazioni territoriali. Le Regioni invece devono individuare tipologie e
standard più specifici. Una particolare attenzione deve essere rivolta al rapporto
tra
tipologie/standard
e
costi.
Infatti,
attualmente
i
costi
sono
molto
diversificati e non sempre a quello più alto corrispondono maggiori prestazioni e
qualità.
Poiché
nelle
comunità
spesso
esistono
disponibilità
ad
attività
volontarie, permane il problema se si paga il servizio o il costo, e quanto
quest’ultimo incide nella scelta dell’inserimento del minore in una struttura.
Autorizzazione al funzionamento e accreditamento. Una seconda questione che si pone
è quella di definire se autorizzazione al funzionamento e accreditamento si
identifichino oppure no, e quindi se gli standard siano identici o diversi.
Una prima posizione è quella di chi sostiene che l’autorizzazione al funzionamento
sia un prerequisito per l’accreditamento e che quest’ultimo debba essere qualcosa
di più della semplice autorizzazione ad aprire la struttura. In base a questa
ipotesi l’autorizzazione al funzionamento si basa su standard minimi e abilita ad
aprire la struttura. Con questa ci si può rivolgere al mercato privato (se esiste)
e/o richiedere l’accreditamento e cioè la possibilità di essere fornitore dell’ente
pubblico. Per esempio, se l’autorizzazione al funzionamento è data sulla base di un
determinato rapporto tra operatori e utenti, l’accreditamento, fatto salvo questo
rapporto, è concesso se il turnover non supera un determinato limite. Conseguenza
di questa impostazione potrebbe essere il fatto che la Regione determina i criteri
e gli standard di autorizzazione al funzionamento, mentre gli enti titolari delle
competenze quelli di accreditamento e l’accreditamento stesso? In tal caso non
sarebbero
necessarie
da
parte
delle
Regioni
provvedimenti
particolarmente
dettagliati e specifici.
La seconda posizione identifica autorizzazione al funzionamento e accreditamento.
In tal caso i provvedimenti di definizione degli standard dovrebbero essere
piuttosto dettagliati ed emanati dalle Regioni. L’accreditamento sarebbe di fatto,
quindi,
deciso
dagli
organi
competenti
a
rilasciare
l’autorizzazione
al
funzionamento.
83
Accreditamento e scelta degli inserimenti. Entrambe queste posizioni non spiegano
però i comportamenti tecnici e amministrativi necessari nel momento in cui i minori
vengono inseriti nella struttura accreditata. Infatti, pur essendo accreditate
varie strutture con identici requisiti, può essere più opportuno inserire quel
minore in una di esse perché, per esempio, più preparata nei confronti di ragazze
che hanno subito maltrattamenti in famiglia. La scelta quindi non è sulla qualità
in astratto, ma sulla qualità relativamente allo specifico bisogno. Infatti, per un
altro caso, potrebbe essere più utile un’altra struttura.
Quali gli strumenti tecnici e quelli amministrativi per assumere in modo corretto e
trasparente tali decisioni?
Accreditamento e qualità. L’accreditamento come sistema di «quasi mercato» permette
in quanto tale la qualità? Oppure, oltre alle «garanzie» della concorrenza, per
l’applicazione della qualità occorre altro?
Controllo e valutazione. Con il termine controllo si intende quel processo di
verifica
degli standard
e degli adempimenti previsti. È evidente come il
controllo non sia sufficiente soprattutto in servizi alla persona caratterizzati
dalla fornitura di prodotti che non sono fini a se stessi, ma strumenti per il
miglior benessere possibile del cliente.
Pertanto la valutazione sposta l’accento dal controllo burocratico di adempimenti
formali (pur necessario) alla qualità. Per qualità si intende un complesso
multifattoriale che comprende efficacia, efficienza, definizione e controllo dei
processi di produzione, analisi dei prodotti e dei risultati derivati dagli stessi,
soddisfazione dei clienti e degli altri attori istituzionali e sociali. Non solo,
ma la qualità comporta percorsi di autovalutazione attraverso, per esempio, veri e
propri «manuali di qualità», momenti di eterovalutazione e confronti tra i due
livelli.
Occorre aspettare che lo Stato e le sue varie articolazioni istituzionali decidano
i criteri di accreditamento e i requisiti di qualità? Oppure non è ora che gli enti
gestori delle strutture residenziali non solo si autovalutino (cosa che forse
ognuno fa al suo interno), ma portino a conoscenza i sistemi di autovalutazione e i
risultati? E ancora, il confronto, attraverso la conoscenza reciproca e i processi
di trasparenza, non è il sistema più opportuno per favorire il confronto culturale
e passare da culture di singoli servizi a indicatori e percorsi condivisi? E i
sistemi di accreditamento e qualità non possono non fondarsi su basi culturali
comuni, se non vogliono semplicemente ridursi a meri adempimenti burocraticoamministrativi (8)?
Conclusioni
Le comunità per minori, a partire dagli anni Settanta, si sono sviluppate su tutto
il territorio nazionale anche se in modo molto differenziato. Inoltre, varie leggi
e provvedimenti nazionali le hanno legittimate come importanti componenti della
rete dei servizi individuando però
genericamente obiettivi, funzioni e nulla
dicendo relativamente a tipologie e criteri per la definizione di requisiti e
standard.
Anche per i motivi di cui sopra (oltre che, naturalmente, per la diversità dei
bisogni e le peculiarità delle singole organizzazioni di gestione) queste strutture
si sono sempre più connotate in modo molto differenziato, con un insufficiente
confronto tra loro e un significativo livello di autoreferenzialità.
Oggi non si tratta sicuramente di scegliere un modello da preferire ad altri ma,
proprio perché la diversità sia ricchezza e non caos, è necessario individuare
alcuni «paletti» e «regole del gioco». A tale scopo si sono individuate le seguenti
tematiche:
definizione di comunità, finalità, obiettivi, funzioni e requisiti generali;
modelli di comunità e requisiti gestionali di ciascun modello;
84
aspetti teorici, tecnici, organizzativi connessi alla situazione e ai bisogni
dell’utenza reale e potenziale;
rapporti tra enti pubblici titolari delle competenze ed enti gestori;
riferimenti teorico-operativi nel lavoro educativo.
Si
è
cercato
di
fornire
prime
risposte
a
queste
tematiche
attraverso
approfondimenti, proposte, individuazione di ambiti di complessità. Le comunità per
minori devono tutte avere finalità e obiettivi generali comuni, connessi ai compiti
e al ruolo all’interno della rete dei servizi. Inoltre, comuni devono essere alcuni
requisiti strutturali e gestionali. Si sono qui presentate specifiche proposte in
proposito. Partendo da criteri e indirizzi omogenei le comunità si possono
articolare in tipologie diverse in base a una serie di variabili, quali numero,
tipo e professionalità degli operatori, rapporto operatori-utenti, presenza o meno
di personale residente, tempi previsti di permanenza, organizzazione per turni o
presenza stabile.
In relazione a questa e ad altre variabili sono state individuate le seguenti
tipologie: comunità educativa, comunità di pronto intervento, comunità di tipo
familiare e casa famiglia.
In particolare sono state evidenziate le differenze tra comunità educative e
comunità di tipo familiare/case famiglia. Le prime si basano su un sistema
organizzativo e sul lavoro professionale, le seconde su motivazioni valoriali e di
scelta di vita. Ci si è chiesti se tali differenze siano soltanto di tipo
«strutturale» e non incidano sulle scelte relative alla tipologia e alle condizioni
dell’utenza da inserire. E ancora, come si collochino ciascuna all’interno delle
politiche sociali di welfare mix e community care.
Inoltre sono state affrontate altre tematiche relative a questa tipologia, quali
l’opportunità di posti o di comunità di pronto intervento, l’opportunità di una
divisione per fasce d’età, la permanenza oltre i diciotto anni, la presenza di
utenza mista (minori e adulti).
Le situazioni e le caratteristiche dei minori inseriti o per i quali si richiede
l’inserimento
interrogano
le
strutture
residenziali
su
alcuni
aspetti
di
complessità. Infatti, si riscontra una sempre maggiore presenza di minori con
problematiche
personali
e
familiari
molto
gravi,
comprese
situazioni
con
comportamenti patologici già strutturati. Al contrario, si riscontrano inserimenti
di minori (in particolare adolescenti extracomunitari soli) che, per esigenze di
protezione/tutela, vengono ospitati presso queste strutture pur non avendo
necessità degli interventi delle stesse.
Gli aspetti di complessità che ne derivano sono stati così identificati:
la territorialità, intesa sempre meno come accoglienza di minori della zona e
sempre più come collegamento in rete con le risorse del territorio;
la terapeuticità, cioè la necessità di strutture specializzate per minori con
specifiche patologie relazionali o dipendenze dalle sostanze ormai strutturate. Qui
la questione riguarda quali problematiche siano di competenza di queste comunità,
chi decida gli inserimenti e con quali procedure e garanzie, per evitare
accoglienze improprie e negative per lo sviluppo del minore;
la
specializzazione,
cioè
l’accoglienza,
in
prevalenza,
di
minori
con
problematiche specifiche ma senza patologie già strutturate. In questo caso ci si
chiede per quali aspetti e problematiche sia opportuno che le comunità differenzino
le loro competenze;
il rapporto con la famiglia di origine e la mancanza di una cultura e prassi
operative di relazione con la stessa, miranti al recupero delle competenze
genitoriali;
l’utilizzo improprio delle comunità per minori con un elevato grado di autonomia e
la conseguente necessità di sperimentare un diverso tipo di strutture residenziali,
utili anche per la dimissione e l’autonomia progressiva dei minori già ospiti in
comunità;
la carenza delle reti sociali di supporto. Occorre una maggiore presa in carico da
parte della comunità locale dei bisogni dei minori presenti nelle comunità. Questa
85
giusta istanza incontra molti ostacoli, quali comportamenti autoreferenziali degli
operatori, posizioni di welfare residuale da parte di politici e amministratori
pubblici, rigidità nell’utilizzo e nella riconversione delle risorse, comprese
quelle finanziarie. Peraltro la rete è essenziale perché a situazioni e bisogni
diversificati non possono corrispondere risposte uniche e standardizzate, ma una
rete di opportunità che permetta percorsi individualizzati;
il valore aggiunto dei servizi formali. I «pezzi» di problemi dei minori
dovrebbero
essere
assunti,
oltre
che
dalla
comunità
locale,
anche
dalle
organizzazioni che gestiscono le comunità, le quali potrebbero fornire un «valore
aggiunto» alle specifiche prestazioni previste per la gestione della struttura
residenziale. Tale disponibilità, in sé positiva e auspicabile, può presentare dei
rischi se si trasforma nell’unica risorsa che il minore ha a disposizione. Ciò
infatti finirebbe per creare dipendenza dall’organizzazione che gestisce le
comunità, riproducendo di fatto le dinamiche degli istituti tradizionali.
Se, come il titolo dice, quello di comunità è un concetto plurale (tipologie,
esperienze, ecc.), ne deriva la necessità di un governo della pluralità. Governare
la pluralità significa in primo luogo definire tipologie di comunità, requisiti e
standard di funzionamento, nonché i livelli di competenza nella determinazione ed
esecuzione degli stessi. Secondo, significa definire le modalità (pur non
escludendo la gestione diretta) di affidamento a terzi da parte degli enti pubblici
titolari delle competenze. Sono state individuate come vie principali quelle
dell’appalto e dell’accreditamento.
Il sistema dell’accreditamento, quello che si prevede più diffuso per le comunità,
implica la definizione del rapporto tra autorizzazione al funzionamento e
accreditamento, nonché questioni relative alla valutazione di qualità. Infatti, la
concorrenza che l’accreditamento introduce non può da sola garantire il rispetto di
tale requisito.
Molte delle questioni trattate in questo contributo rimangono quindi ancora aperte.
Così come non è stata affrontata quella fondamentale dei modelli teorico-operativi
nella gestione delle comunità. La speranza è che qualche «paletto» sia stato posto
e l’augurio che il dibattito e il confronto continuino.
(1) Per quanto riguarda la valenza territoriale, nell’esperienza torinese, per
esempio, quasi tutte le comunità pubbliche o in convenzione si sono strutturate a
livello circoscrizionale, cioè per accogliere minori di un territorio ben definito.
Alcune poi hanno organizzato il proprio intervento in modo flessibile (con
l’educativa territoriale o accogliendo minori sia a livello residenziale che
diurno). Inoltre hanno investito molto nel lavoro di rete, non solo per i propri
ospiti, ma anche a favore di minori della circoscrizione. In sostanza, si tratta di
comunità aperte e collegate alla realtà locale.
Nonostante l’indubbia validità dell’esperienza, tali strutture non sono però in
grado di affrontare tutti i bisogni dei minori del loro territorio di riferimento.
Per esempio, le emergenze, i pronti interventi, gli allontanamenti urgenti disposti
dall’autorità giudiziaria; ma anche situazioni specifiche di esigenze di minori con
gravissimi problemi relazionali, inseriti nel circuito penale, oppure che
necessitano di un ambiente non cittadino o lontano dalle influenze negative di
gruppi di coetanei, ecc.
Il cambiamento di esigenze e tipologie di minori inseriti porta le comunità ad
accogliere sempre meno minori della circoscrizione di riferimento e, quindi, a
essere sempre meno territoriali in termini di utenza. Permane invece, e deve
ulteriormente potenziarsi, la connotazione di territorialità relativamente alla
rete di risorse e alle relazioni con le stesse. Peraltro la territorialità intesa
in questa accezione dovrebbe essere requisito di ogni comunità.
(2) A Roma, per esempio, è stato stilato un protocollo di intesa con l’autorità
giudiziaria minorile, che definisce percorsi e tempi al fine di evitare il più
possibile sia un’eccessiva permanenza nelle strutture (in particolare per i minori
da zero a tre anni), sia passaggi da una comunità all’altra per motivi prettamente
anagrafici.
86
(3) Una ricerca dell’Ufficio minori del Comune di Torino ha evidenziato la tendenza
alla «cronicizzazione» del bisogno assistenziale. Infatti il numero di minori
seguiti con interventi di educativa territoriale, centri diurni, affidamenti
familiari, strutture residenziali, negli anni tende ad aumentare non a causa di un
incremento delle situazioni nuove, ma per una diminuzione del numero di
«dimissioni». Tale trend è confermato in parte anche per le comunità, dove la
diminuzione di presenze nel 1997, rispetto all’anno precedente, è dovuta più a un
decremento delle ammissioni che a un aumento delle dimissioni.
(4) Queste considerazioni hanno portato a sperimentazioni di strutture residenziali
diverse. Per esempio, a Reggio Emilia sono sorte unità semiautonome di convivenza
guidata. A Torino (vedi anche Tosco L., Accoglienza residenziale con adolescenti
extracomunitari, in «Animazione Sociale», 8/9, 1997) sono state avviate strutture
di accoglienza per emergenze con funzione di filtro, case di ospitalità notturna
per adolescenti ultrasedicenni, alloggi per convivenze con elevato livello di
autogestione, iniziative a bassa soglia di accesso, quali mense, lavanderie, docce,
posti letto, interventi di educativa di strada, progetti di «tutela civile» a
gestione del volontariato.
Queste sperimentazioni, finora utilizzate quasi esclusivamente a favore di minori
extracomunitari, richiedono una riflessione circa l’opportunità di estensione, le
condizioni e l’età per la loro fruizione.
(5) Nel settore socio-assistenziale il Comune di Torino assegna alle circoscrizioni
risorse di personale e di servizi, mentre è praticamente irrisorio il trasferimento
di risorse finanziarie. Ciò comporta rigidità in caso di progetti innovativi. Per
esempio, se un servizio locale trova le risorse per attivare sul suo territorio una
convivenza guidata, chi paga l’affitto e le spese di gestione dell’alloggio?
Al contrario, il Comune di Roma ha decentrato alle circoscrizioni il budget
finanziario, ma le risorse di personale sono inferiori a quelle di Torino, pur
essendo gli abitanti più del doppio. In questo caso i soldi ci sono ma mancano le
risorse umane per pensare e fare progetti. Chi ha il personale per fare i progetti
non ha i soldi per attuarli e chi ha i soldi non ha il personale per farli!
(6) In mancanza di una normativa nazionale, le varie regioni hanno assunto
provvedimenti anche piuttosto diversi.
La Regione Lombardia ha individuato standard gestionali e strutturali piuttosto
articolati
e
dettagliati.
Tali
standard
definiscono
l’autorizzazione
al
funzionamento che permette eventuali convenzionamenti da parte degli enti locali.
La convenzione tipo generale con le specificazioni ulteriori per le singole
tipologie (comunità di pronto intervento, di pronta accoglienza, per progetti a
medio-lungo termine) è stata definita dalla Regione. Contestualmente è stato
avviato un piano sia per il finanziamento di ristrutturazioni che per la
riqualificazione professionale.
La Regione Emilia Romagna ha deliberato una direttiva
meno specifica di quella
della Lombardia, in cui vengono definite tipologie e requisiti minimi in base ai
quali è concessa l’autorizzazione al funzionamento. Le convenzioni tra ente
pubblico ed ente gestore sono stipulate sulla base di elenchi di strutture
«convenzionabili» decise dalla Regione.
Le Regioni Lazio e Piemonte hanno assunto deliberazioni che normano i requisiti
strutturali, mentre quelli gestionali sono piuttosto generici.
Per quanto riguarda i capoluoghi di regione, Milano ha convenzioni con circa 350
strutture e contributi a strutture gestite dal volontariato. Il Comune di Roma non
prevede contributi, ma ha convenzioni e inserimenti con pagamento «a retta». Il
Comune di Torino gestisce direttamente sette comunità, quindici tramite appalto, e
inserisce minori con il sistema «a retta» in una cinquantina di strutture.
(7) Le comunità pubbliche risultano funzionanti solo a Torino, Trieste e Parma. Non
risulta che se ne intendano aprire altre e nemmeno potenziarle dove già esistono.
(8) La Regione Lombardia ha definito i requisiti per l’autorizzazione al
funzionamento in modo molto articolato, mentre l’Emilia Romagna, pur essendosi
dotata di un provvedimento, è meno specifica. Piemonte e Lazio hanno assunto
87
provvedimenti specifici relativamente agli standard strutturali, ma molto generali
rispetto a quelli gestionali. Queste differenze sono connesse
a scelte legate al
periodo in cui i provvedimenti sono stati emessi, alla storia e alla cultura dei
servizi di quel territorio, alla situazione delle strutture, alle risorse messe in
campo per poter rispettare i criteri individuati. Le variabili che compongono le
scelte di cui sopra sono tante e complesse, così da rendere essenziale, pur
permanendo la competenza dell’ente pubblico, un’ampia consultazione con le forze
sociali e con i gestori delle strutture. Tale concertazione è da assumere non solo
in sede di istruttoria del provvedimento che definisce tipologie e standard, ma
anche successivamente in sede di monitoraggio e verifica degli effetti del
provvedimento.
Inoltre è importante definire, contestualmente alle norme transitorie, e al fine di
non rendere le stesse di fatto definitive, programmi di supporto per l’adeguamento
agli standard decisi, quali progetti di riqualificazione del personale, prestiti
agevolati per ristrutturazioni, ecc.
88
LEZIONE 7
Minori ed organizzazioni criminali di Luigi Ciotti
C’è un effetto dell’oppressione mafiosa su cui non ci si sofferma ancora a sufficienza. Ed
è quello del furto di futuro a danno delle giovani generazioni. Bisogna tagliare alla radice
le cause che sottintendono la scelta criminale e talvolta anche i destini personali. In
questo la scuola ha un ruolo determinante. Circa il 90 % dei casi della dispersione nella
scuola dell’obbligo avvengono nell’Italia meridionale, con una punta del 30 % in Sicilia.
Il 76 % dei minori che vivono ai margini della legalità è analfabeta, o al massimo ha
raggiunto la licenza elementare. E’ evidentissimo lo stretto rapporto tra criminalità
minorile, tasso di scolarizzazione e condizione sociale. Lavoro, istruzione, informazione,
salute, casa, servizi, qualità della vita sono i punti su cui lavorare, insieme, società civile
ed istituzioni. Insieme, perché solo così si costruisce in maniera duratura, mentre troppo
spesso purtroppo assistiamo ancora oggi a conflitti, a lacerazioni, all’interno spesso delle
istituzioni. Conflitti che finiscono per creare sfiducia, disorientamento; conflitti che
allontanano i cittadini dalla politica, che fanno riemergere il pessimismo. Arrestare i boss
è importante ma sicuramente non sufficiente. La mafia è un parassita: un parassita che
vive, si rafforza, si riproduce in un corpo malato, contribuendo a perpetuarne le patologie.
Allora per estirparlo fino in fondo - e veramente - occorre non soltanto attaccare le
manifestazioni del male, ma anche guarire il corpo, rigenerandone i tessuti. Occorre
predisporre strumenti di intervento mirati, che diano ai cittadini la certezza di uno Stato,
di una classe politica, sempre vigili, sempre compatti. Non di uno Stato, di una classe
politica che sanno, provvisoriamente, scuotersi dall’endemico torpore che li caratterizza
soltanto se pungolati da uno shock, da un trauma di una strage o di omicidi
particolarmente gravi, appena commessi.
Gli atti giudiziari, gli stessi certificati penali di moltissimi soggetti condannati per gravi
reati legati alle attività della mafia tracciano il percorso di una sorta di apprendistato
criminale, iniziatosi prima del compimento della maggiore età. Tragica riprova di questo
controllo sui minori operato dalle cosche sono le feroci esecuzioni riferite da alcuni
collaboratori di giustizia e di cui sono stati vittime alcuni minorenni che a Palermo, come
a Catania, non hanno rispettato le “regole” non scritte di Cosa Nostra ed hanno
commesso reati senza l’assenso di chi, in una determinata zona, rappresentava l’autorità
criminale.
Dalla manovalanza del contrabbando di sigarette e dello spaccio di droga, ai reati contro
il patrimonio, alle estorsioni, il minore viene usato ed addestrato dalla mafia. Assistiamo
così ad una serie di passaggi dei ragazzi più “svegli”, più “capaci”, che dalla rapina con il
coltello ai danni di un passante, chiamata nel loro gergo il “fermo”, giungono alla rapina
classica e poi, se veramente “affidabili”, alla commissione di omicidi per conto della
mafia.
89
Questi ragazzi sono quelli che, con un’espressione sicuramente poco felice, oggi vengono
denominati dalla stampa “baby-killers” minori la cui età anagrafica appare terribilmente
sproporzionata rispetto alla gravità dei delitti di cui si sono resi colpevoli. Per questi il
Malaspina, il carcere minorile di Palermo, è spesso una sorta di passaggio obbligato, di
attestato di professionalità nel crimine, di cui fregiarsi all’esterno con i coetanei e,
soprattutto, con quegli adulti ai cui occhi essi devono apparire sempre più bravi. Alcuni
di quei minori omicidi, poi, fatto un salto di qualità diventano affiliati di rango dei clan
mafiosi.
E’ facile per ragazzi cresciuti in famiglie mafiose o in quartieri ad alta presenza mafiosa
entrare in contatto, o anche cercare il contatto con la mafia. Molti di questi ragazzi
vivono in strada, abbandonano la scuola prestissimo e vivono alla giornata, arrangiandosi
e guardando ai boss come a coloro che ce l’hanno fatta, che vivono alla grande, che sono
superiori a tutto e a tutti. Dietro il dato puramente criminale e statistico del
coinvolgimento di minori nelle attività della criminalità organizzata c’è un universo di
devianza e disagio minorile che, neppure per un momento, può essere accantonato da chi
si trovi ad operare per contrastare tali fenomeni delinquenziali. Nella palude
dell’ignoranza e dell’abbandono in cui vivono innumerevoli nuclei familiari, nella totale
assenza di strutture sociali di aggregazione e di prevenzione, senza una scuola che abbia i
mezzi e le possibilità di svolgere adeguatamente il proprio compito, non possono che
proliferare l’arroganza e la barbarie della mafia. La potenza di tale struttura criminale non
deriva infatti soltanto dagli enormi patrimoni gestiti e dalle collusioni con le istituzioni
politiche ed economiche ma nasce e si rafforza in un profondo radicamento nel territorio
di intere regioni del nostro stato, laddove - come in Sicilia -, la mafia è capace di
controllare capillarmente il territorio. Un controllo che è, insieme, militare e sociale e che
- sotto quest’ultimo profilo - può svilupparsi proprio per l’assenza delle strutture sociali
primarie. Grazie a questa estesa e ramificata presenza della criminalità organizzata, la
devianza minorile non può costituire un fenomeno a sé. Anzi, il minore che delinque è, a
seconda dei casi, osservato, controllato e strumentalizzato dalle cosche presenti nel
quartiere in cui egli vive.
Da qualche tempo a questa parte si sono moltiplicati gli studi anche sulla psicologia dei
mafiosi. Per vedere quali sono le molle caratteriali, comportamentali, le esperienze,
anche, di vita che possono aver portato qualcuno a questa scelta.
Perché influiscono molto le compagnie. Frequentando i compagni, uno devia...
Però, magari, ero più portato ad un altro tipo di compagnie... Io penso che, non dico chiunque, però una
buona percentuale nell'infanzia si può deviare, anche se hanno dei meravigliosi genitori, se hanno dei genitori
che non gli fanno mancare niente, che gli danno un'educazione: basta una cattiva compagnia, un
coinvolgimento in un qualcosa... Io ho frequentato sempre gente più grande di me, più criminale di me. Forse
questo ha influito.
90
Perché io che ho vissuto in un certo ambiente degradato, logicamente... è stato facile per me incontrare delle
male compagnie, trovare dei ragazzi, delle conoscenze, non di gente che magari andava a studiare o andava a
lavorare - anche se ne ho avuti di questi amici così da ragazzino. Vede, un famigliare di un giudice frequenta
un certo ambiente, il nipote, il fratello, il cugino, perché sono di famiglia.
E allora se noi mettiamo poi che in Sicilia non c'è niente, che la Sicilia è abbandonata, già da ragazzini si
vive sula strada. Sarà un'altra cultura, non lo so, però è così. E allora è così che si fanno le amicizie; è così
che si inizia. Ma quando io, da ragazzino, una volta ho rubato una frutta, un'altra volta ho rubato... cioè
sono cresciuto così, chi è che me lo va a dire di cambiare? Ormai le mie amicizie me le sono scelte, ormai le
frequentazioni che io faccio già sono catalogate: io frequento delle persone che sono del mio stesso ambiente, e
quando frequento persone che sono al di fuori del mio ambiente, io mi tramuto, faccio finta che sono in un
ambiente pulito, sano.
(..) Nessuno mi diceva:
Nino, ma cosa stai facendo? Togliti da queste persone, non ti mettere in questi guai.
(…) Già c'erano delle persone che mi osservavano, a mia insaputa, che mi osservavano...Vieni guardato da
ragazzino, poi si viene inseriti in un'organizzazione, piano piano, magari facendogli fare delle piccole cose. E
poi, piano piano che si cresce, la gente vede, sempre in base all'ambiente dove si vive, dove si frequenta, e viene
osservato; viene osservato... fino a quando gli viene fatta la proposta di far parte dell’organizzazione...
Poi sono cresciuto, ormai avevo fatto la mia scelta, ormai ero dentro ad un meccanismo, forse
inconsapevolmente, ma c'ero entrato... non me ne rendevo conto, ma c'ero entrato.
(Da Vita da clan, di S. Lodato, edizione EGA)
Allegato: da VITTIME ASSOLUTE di R. Scifo
Luca è un ragazzino violento; in classe, dicono le insegnanti della scuola media che frequenta, ha
atteggiamenti da boss con i compagni che lo devono rispettare; non pretende granchè ma ogni minimo
disturbo, scherzo o atteggiamento troppo confidenziale viene sistematicamente punito con esplosioni di
violenza fisica.
Blocco drasticamente sul nascere la esplicita richiesta delle insegnanti: certificazione di handicapinsegnante di sostegno, panacea per tutti i problemi della scuola, l’unica risposta possibile, la delega, lo
scarico di responsabilità, il pragmatismo di chi la scuola la conosce e la vive tutti i giorni a differenza
del medico, estraneo, tutto teoria e niente fatti.
Il padre di Luca ha abbandonato moglie e figlio già da molti anni, si è trasferito al Nord, si fa vedere e
sentire un paio di volte l’anno. La madre è riuscita a trovare lavoro con una cooperativa di servizi di
pulizia per locali condominiali; sta fuori casa tutto il giorno. Luca aveva sostituito la figura paterna
assente con uno zio materno, aveva venticinque anni quando lo hanno ammazzato. E’ stato Luca a
trovare il cadavere, crivellato da colpi di pistola, riverso in una pozza di sangue all’interno del suo
garage in cui , spesso con l’aiuto del nipote, effettuava interventi di manutenzione della motocicletta.
Sia la madre del ragazzo che Luca negano la probabile appartenenza della vittima alla criminalità
organizzata, parlano di tragico errore di persona. Da allora, son passati ormai quattro anni, Luca non
riesce più a dormire sereno la notte, spesso chiede alla madre di ospitarlo nel suo letto. A scuola mostra
momenti di affabilità e gentilezza nei confronti di alcuni insegnanti che cercano con lui un dialogo alla
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pari, si chiude a riccio se percepisce atteggiamenti pregiudiziali, se intuisce l’etichettamento, non fa altro
che confermare il ruolo che gli viene riconosciuto. Durante il pomeriggio è completamente solo da
quando non c’è più lo zio ed è stato visto frequentare compagnie considerate nel quartiere dedite alla
microcriminalità.
La madre è molto preoccupata e sta cercando di trovare un lavoro che le permetta di essere presente in
casa al pomeriggio.
In ambulatorio Luca non mostra alcun atteggiamento tipico dei ragazzi che stanno organizzando una
personalità “sociopatica”, è molto garbato, attento, riesce a criticare le proprie azioni, ad esprimere i
propri vissuti, non mostra diffidenza nei confronti di chi lo ascolta senza giudicarlo. I suoi pensieri, le
sue fantasie, le sue angosce sono tutte venate dalla costante della perdita. Perduto il padre, perduta in
parte la madre (anch’essa vittima di abbandoni), perduto lo zio amato con l’irruzione drammatica di un
persecutore misterioso e spietato che ha fatto scempio delle sue speranze.
Le alternative per Luca erano la resa totale con la caduta nella depressione franca o la reazione
evacuativa della rabbia
interiore sotto forma di aggressività. Il meccanismo intrapsichico
dell’identificazione con l’aggressore è ben conosciuto: è lo stesso che porta genitori che da bambini
hanno subito violenze ad essere a loro volta violenti nonostante il ripudio razionale della stessa; tale
dinamica si esprime anche su identità sociali, etniche o religiosi, per cui popoli vittime di persecuzioni si
trasformano a loro volta in persecutori, la storia purtroppo ne è piena. Luca vede i propri compagni di
scuola a volte in compagnia dei genitori, immagina comunque la loro presenza, la sua autoimmagine ne
esce sistematicamente perdente, la rabbia è conseguente così come il dubbio: forse non è stato in grado
di conquistarsi l’amore paterno, non è stato in grado di difendere lo zio, di fargli bastare la sua presenza.
Luca fa un sogno: uccide con rabbia un uomo sconosciuto che però sa essere l’assassino di suo zio, con
orrore riconosce nel cadavere il volto di suo padre, si sente disperatamente solo e si rende conto di
essere anche lui un assassino. La situazione estrema vissuta dal ragazzo rende quasi inestricabili le
fisiologiche angosce edipiche (la rivalità con la figura paterna che si è sottratta, spingendo il ragazzo a
pretendere il suo posto accanto alla madre) caricandole dell’ulteriore senso di colpa per la sostituzione
affettiva del padre con lo zio.
Però Luca non sta utilizzando un modello per lui positivo, come accade nel percorso classico di iniziazione criminale e
mafiosa in particolare; Luca così facendo riesce a tirare fuori la rabbia e contemporaneamente a punirsi per le sue presunte
colpe. Per questo quando entra in rapporto con qualcuno che riconosce il suo vero ruolo di vittima assoluta, è costretto ad
abbandonare la parte del “cattivo”. Come fare però a cancellare dalla sua mente l’orrore che ha vissuto, a non pensare che ciò
che è accaduto potrà accadere di nuovo, a recuperare speranze per il futuro e fiducia in se stesso?
Abitare il territorio
Al processo degli assassini di padre Pino Puglisi, quando hanno chiesto agli accusati di
spiegare il perché di quell’uccisone, hanno risposto: ”Quel prete prendeva i ragazzi dalla
strada, ci martellava con la sua parola, ci rompeva le scatole”. Auguro a tutti, come
cittadini, come insegnanti, di essere capaci di rompere le scatole. E’ un’espressione che ci
permette di capire con molta chiarezza che rompere le scatole significa andare contro
corrente, significa amore di verità e giustizia per una società che fa emergere i diritti delle
persone. Puglisi prendeva i ragazzi dalla strada perché è importante recuperare la strada
in senso positivo. Cercava di far in modo che questi ragazzi abitassero il loro territorio.
Le mafie hanno devastato il territorio, l’hanno occupato e lo controllano. Mentre la
criminalità con tutti i suoi volti è preoccupata di controllare il territorio, don Peppino nel
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suo quartiere di Brancaccio invece faceva abitare il territorio, faceva trovare i propri spazi
ai ragazzi. Pino Puglisi aveva cercato dei locali per creare un punto di riferimento per i
suoi ragazzi che la mafia voleva per altri scopi. Si stava battendo da alcuni anni perché
nel suo quartiere venisse costruita una scuola, una scuola media. Non che non ci fosse la
scuola; ma in molte realtà del nostropaese lo Stato continua a pagare a delle imprese
l’affitto di palazzi entro i quali ci sono scuole quando la scuola che è in costruzione sta
per essere terminata. Caso vuole che puntualmente questi lavori non arrivino a termine
perché la scuola in costruzione viene bruciata o fatta saltare in aria. Perché questo, perché
si continui a pagare l’affitto alle organizzazioni mafiose. A Brancaccio c’è la scuola, ma
la scuola media di Brancaccio è in affitto e don Pino voleva fare in modo che si scrollasse
di dosso questa modalità e che si realizzasse veramente la vera scuola, per creare le
condizioni perché quel territorio i ragazzi lo potessero abitare veramente fino in fondo.
Per questo alle 20,40 del 15 settembre 1993 un colpo di pistola ha ucciso don Puglisi,
parroco della chiesa di San Gaetano, nel quartiere palermitano di Brancaccio. Un solo
colpo: alla nuca, vile, preciso e definitivo. Un colpo solo per spegnere la vita di Padre
Pino Puglisi, “tre P”, come lo chiamavano i ragazzi, non certo per minor rispetto, ma,
all’opposto, per quel profondo affetto e quell’amichevole familiarità che quell’uomo
buono e coraggioso, quel prete dallo sguardo un po’ triste e sorridente, aveva saputo
conquistarsi tra i fedeli e la gente del quartiere. Un colpo solo per zittirlo, per fargli
smettere di “invadere” il territorio organizzando centri sociali e di accoglienza, spazi e
momenti di aggregazione, come quel centro “Padre Nostro” frequentato da tanti giovani o
quel Comitato degli inquilini di via Hazon. Luoghi di incontro, veri e vivi, in cui si
disputava di come migliorare la vita del quartiere, dei problemi da affrontare e delle
attività da promuovere per risolverli, fossero questioni di chiesa o di scuola, di verde
pubblico o di famiglie in difficoltà da sostenere. La pistola degli omicidi era silenziata,
ma l’eco di quel colpo arriva forte anche ad anni di distanza. Un fragore che non cessa di
ferire le orecchie, di rimbombare nei cuori e nelle coscienze di molti, nella società civile
e forse anche in chi lo ha ucciso.
Allegato: dai verbali della requisitoria finale del processo per l’assassinio di Pino Puglisi 14 aprile
1998
Il teste Porcaro Gregorio all’udienza dell’11 novembre 1997 ha confermato le dichiarazioni rese all’udienza
(...). Aveva conosciuto padre Puglisi, quando aveva l’età di otto anni (...) gli aveva insegnato a dir messa e
con lui aveva instaurato un duraturo rapporto. Don Puglisi era divenuto il suo padre spirituale ed il suo
contatto lo aveva portato a scegliere la via del sacerdozio. Nell’ottobre del 1992 era divenuto suo viceparroco. Col padre Puglisi aveva vissuto esperienze entusiasmanti nel quartiere Brancaccio: “il suo modo di
lavorare fuori dall’ombra del campanile .... era un prete.....che appena arrivato in questo quartiere vedendo un po’ tutte le
problematiche che aveva, un quartiere senza niente, senza servizi ....... ha cominciato a sensibilizzarsi, sicuramente anche a
partire dalla storia dei bambini di questo quartiere che giocavano in mezzo alla strada oppure li vedeva rubare a destra o a
sinistra, a rompere i vetri delle macchine, rubare degli stereo e cose varie... cominciò a rivolgersi soprattutto ai bambini, ma non
solo a loro, alle ragazze, ai giovani, un po’ a tutta la gente ..... col suo modo di fare sorridente....” Era di carattere schivo e
riservato, preferendo l’impegno quotidiano alle azioni spettacolari, ma per il suo attivismo che si esprimeva
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nell’organizzazione di visite ed incontri con le Istituzioni, nella partecipazione a cortei contro il prepotere
criminale, nelle denunce del malaffare, si era esposto prima alle rappresaglie poi all’offensiva della mafia,
aveva ricevuto minacce, avvertimenti, che aveva coraggiosamente denunciato ai fedeli nelle omelie
domenicali. Era stata incendiata la porta di casa, era stato dato alle fiamme un furgone della ditta che si
occupava del restauro della sua parrocchia, erano stati minacciati suoi collaboratori e suoi parrocchiani, ma
tutto ciò non lo aveva distolto dalle sue occupazioni silenziose e quotidiane in favore della comunità:
soltanto di fronte all’azione implacabile di una mano omicida, il suo spirito indomito di religioso impegnato
sul piano etico e civile aveva dovuto soccombere, solo ed inerme. Don Porcaro ha ricordato che padre
Puglisi dicendo “Chi usa lo strumento della paura è quasi un animale” cercava di sensibilizzare la popolazione e
non solo quelli che erano venuti in chiesa, aggiungendo : “Siamo uniti e non lasciamoci schiacciare dalla paura”. (..)
Raccoglieva i giovani dalla strada, tossicodipendenti, e sbandati, utilizzando per il loro recupero e lo
svolgimento delle attività sociali luoghi che un tempo erano dominio di “cosa nostra” che li destinava
all’esercizio di attività criminali. Aveva dato vita ad un gruppo di giovani volontari diventato presto punto di
riferimento per tutti gli emarginati della zona ed aveva creato un centro di accoglienza, “Padre Nostro”,
annesso alla chiesa di San Gaetano(..), per articolare cura al recupero dei bambini del quartiere Brancaccio
che non frequentavano la scuola. Per rendere più incisiva tale opera, verso la fine del primo anno di
parroccato aveva istituito dei corsi di scuola elementare e di scuola media, maturando l’idea di creare un
centro di accoglienza. Tale idea si era concretizzata l’11 gennaio del 1991, allorché in occasione della visita
dell’arcivescovo di Palermo nella parrocchia, tutti avevano reclamato a gran voce che venisse istituito nella
zona un ordine di suore per dare assistenza ai malati, agli anziani e ai bambini. Padre Puglisi non aveva
accettato che “in un quartiere, dove c’era un disagio sociale grandissimo, si potessero spendere anche 80 milioni per delle feste,
ed entrò in contrasto con loro”. Nel gennaio 1993 i ragazzi della parrocchia, i più piccoli, gli adolescenti avevano
organizzato un presepe vivente e la manifestazione si era svolta proprio nei locali dello scantinato di Via S.
Ciro. Per l’occasione il presidente del Consiglio di Quartiere aveva invitato alcuni uomini politici della D.C. ,
che egli aveva pubblicamente ringraziato al termine dello spettacolo. Padre Puglisi aveva preso la parola,
quasi rimproverando gli illustri ospiti con un tono molto duro; aveva detto loro: “Ecco se voi siete venuti qui per
aggiustare questo quartiere siate i benvenuti, se no è meglio che non venite più, non vi fate vedere assolutamente!..... Noi
abbiamo bisogno di fatti non solo di parole o di belle parole o di ringraziamento. (...) Qui c’è una situazione nel quartiere
disagiato al massimo, senza una scuola media, gente disoccupata .... situazioni familiari assurde, promiscuità incredibile e voi
venite qui a chiedere voti, ma perché, con quale faccia vi presentate qui!”(...) Tanto fulgore del coraggioso prete che con
la sua infaticabile opera cercava di ridare dignità di “uomini liberi” a coloro che si erano persi nel sottobosco
mafioso, non poteva essere ovviamente gradito ai “potenti” della zona che fiutavano il pericolo che il loro
vivaio di giovani gregari potesse essere in qualche modo distrutto. (...) Il Graviano fece sapere che l’omicidio
non doveva apparire come un omicidio di mafia bensì come l’opera di un tossicodipendente o di un
rapinatore. (..) “Dalle rispettive autovetture siamo scesi io e lo Spatuzza. Quest’ultimo avvicinò il sacerdote gli prese il
borsello e gli disse: “Padre, questa è una rapina”. Nel frattempo io posizionandomi dietro il sacerdote esplodevo un colpo di
pistola alla nuca di quest’ultimo da brevissima distanza. Il sacerdote non si è reso conto di nulla in quanto con un sorriso si
era rivolto allo Spatuzza profferendo le seguenti parole: “... Me lo aspettavo”.
Allegato: L’ingresso nell’organizzazione da Cuori violenti di Crepet
Come si diventa cattivi? Credo che un ingresso sia quello familiare, l’altro è quello ambientale, sociale. La
famiglia è importante perché in questa realtà molti padri sono orgogliosi di avere un proprio figlio criminale:
perché così si fan i soldi che loro non sono riusciti a guadagnare, per essere qualcuno attraverso le gesta del
proprio figlio. Potrà sembrare paradossale però è così. E poi quando sei piccolo e hai degli amici che hanno
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avuto dei precedenti penali, vieni trascinato dal miraggio di guadagnare facilmente le centomila lire, si comincia
con il furtarello, con lo scippo.....come quelli che hai visto al San Paolo.
Lo si fa solo per il miraggio di guadagnare dei soldi o anche per un riconoscimento sociale?
- Il riconoscimento sociale è importantissimo anche se, ovviamente, i ragazzi non ne hanno coscienza. Se sei
cresciuto e vissuto in un determinato quartiere che è all’apice della delinquenza minorile, come è il San Paolo, lo
fai per diventare qualcuno, per diventare come loro. Il ragazzino di dodici, tredici anni inizia per imitare i più
grandi. Un bimbetto di quell’età con la pistola in mano non è che sappia sparare, lo fa per imitare il grande che
ha sparto, per fargli vedere che è anche lui capace di farlo. E’ così che questi ragazzini vengono accolti nelle
famiglie malavitose. I baby k iller sono una realtà: anche se si è cercato di nascondere la cosa, a Bari esistono
realmente. Quando in queste ultime settimane, sono successe tutte queste sparatorie, i protagonisti erano i
ragazzi , quelli che hanno tredici, quattordici anni.
Mi ricordo che un giorno passò una lavorante, una ragazza che già conoscevo da fuori: mi infilò sotto la porta un
giornale perché, teoricamente, quando stai in isolamento non devi avere nessuna notizia, nessun contatto con
l’esterno. Quando presi ‘sto giornale lessi subito gli articoli che mi riguardavano. Quelli erano i pochi contatti
che avevo con le persone che stavano fuori, era già qualcosa, anche se io sempre lì stavo e mi sentivo sempre più
angosciata.
- Cosa c’era scritto sul giornale?
- Quanto so’ scemi quelli.... avevano montato la mia storia in una maniera incredibile e mi rendevo conto che
quanto più casino avrebbe fatto la stampa tanto più sarebbe stata pesante la condanna. Infatti poi ho preso tanto
per il tipo di reato, considerate tutte le attenuanti, la minore età e tutto il resto. E però c’è il rovescio della
medaglia: se da un lato mi rendevo conto del rischio che correvo se la stampa avesse fatto scalpore, dall’altro mi
faceva piacere, perché comunque devo ammettere che questa popolarità mi piaceva. Mi avevano chiamato
addirittura la bay killer, la rapinatrice baby, mi avevano affibbiato tanti nomignoli che per certi versi mi davano
fastidio, però per altri magari mi danno un senso di popolarità che non mi dispiaceva affatto. (...)
Quando hai avuto la sensazione di essere entrato in carriera?
Quando la polizia non riusciva a prendermi, perché riuscivo sempre a sfuggire. (...) Il giorno dopo uscì un
articolo sui giornali in cui c’era scritto “Ancora una volta il bandito baby è riuscito a sfuggire alle maglie della
polizia”. Per me è stato il trionfo, la consacrazione.
- Quanti anni avevi?
- Tredici e mezzo.
- Quindi non eri ancora stato in carcere minorile?
- No, perché l’età giuridica per entrarci è quattordici anni.
- Che effetto ti ha fatto questo articolo sul giornale?
- Mi ha fatto sentire superimportante, l’ho fatto vedere pure agli amici, sul giornale avevano usato il mio
soprannome .... ma questo non lo scrivere, non mi va.
- Quindi si può dire che tu sei diventato un delinquente quando è uscito quel giornale.
- Quello fu proprio il momento in cui mi sentiii montato, pompato anche dalla gente, dagli amici che mi
conoscevano: da quel momento la strada era segnata.
- Quindi c’è una gran dose di esibizionismo.
- Forse all’inizio c’è solo quello, perché ti senti al massimo, soprattutto perché la gente comincia a temerti.
I figli dei collaboratori
I figli dei mafiosi che hanno scelto di collaborare con la giustizia, come anche i figli dei
testimoni di giustizia, subiscono spesso bruscamente una rivoluzione nell’organizzazione
della loro vita quotidiana. Questi ragazzi e bambini anche in tenera età, si trovano
sradicati dal loro ambiente e sottoposti a protezione insieme ai propri genitori, o ad uno
solo di essi. Si trovano, da un giorno all’altro, a non potere più utilizzare il proprio nome,
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a non capire la ragione per cui hanno dovuto abbandonare nonni, cugini, amici. Ci sono
famiglie (con genitori anziani, mogli che non sapevano che il marito era in
un’organizzazione criminale... ) che vengono sradicate e devono ricostruire sé stesse
nell’arco di una notte; spesso queste famiglie pagano un prezzo ingiusto. E’ necessario
affrontare la tutela di questi minori anche dal punto di vista psicologico, cercare che il
minore non venga travolto dalle vicende in cui sono coinvolti i genitori, gli adulti. Non
dobbiamo dimenticare neanche i cosiddetti “incolpevoli”, coloro che ad esempio hanno
visto uccisi dalla mafia i propri parenti e crescono immersi in quella subcultura mafiosa
dove la vendetta è una norma da rispettare, anche loro dovrebbero essere aiutati, invece
nei loro confronti purtroppo gli interventi di prevenzione sono pochi ed isolati. Il rischio
è che i bambini finiscano per pagare le colpe dei padri.
Al 30 Giugno 1999 su un totale di 4207 familiari protetti, collaboratori e testimoni, i
minorenni erano 1997, pari ad una percentuale del 47,5 %. Appaiono quindi evidenti la
complessità e la specificità di alcuni problemi collegati al mondo minorile ed ai numerosi
traumi che i minori sono costretti a subire nel corso della loro vita “blindata”. A
cominciare dal trasferimento, quasi sempre all’improvviso, in una località “protetta”,
ossia in un comune diverso e lontano da quello di abituale residenza e noto solo al
Servizio Centrale di Protezione, in un contesto ambientale e culturale ben differente da
quello di origine. E’ facile comprendere la delicatezza di tale intervento, se solo si pensa
che ciò determina lo sradicamento di interi nuclei familiari dai luoghi che, magari fin
dalla nascita, hanno rappresentato tutto il loro mondo. Si immagini quindi quali
sofferenze psicologiche possono prodursi in un bambino che perde improvvisamente i
propri punti di riferimento, quali la casa, la scuola, gli amici, i giochi, i nonni, e così via,
ed è costretto a modificare radicalmente il modo di vivere la propria infanzia. Spesso poi
le esigenze di riservatezza comportano la necessità di cambiare la località di protezione
appena prescelta, aggravando ulteriormente i problemi dei minori. I problemi scolastici
sono forse i più delicati tra quelli che quotidianamente si affrontano nell’attività di
protezione dei minori familiari dei collaboratori. Sono 466 i minori che nel corrente anno
scolastico sono stati trasferiti dal luogo d’origine ed iscritti a scuola con nominativo di
copertura: di questi, 97, avendo meno di sei anni, frequentano l’asilo nido, 217 sono
iscritti alla scuola elementare, 95, frequentano la scuola media e 57 sono iscritti alla
scuola media superiore.
Sull’Annuario Sociale: Nuovi e vecchi disagi p. 470; prostituzione pp. 573\577; persone
senza fissa dimora pp. 585\587; il gioco p. 531; la povertà p.564; Psichiatria p. 578\579,
Ristretti negli ospedali psichiatrici p. 251; bambini in carcere p.250, ingressi negli istituti
penali minorili p. 256\261; criminalità e mafie pp.265\312.
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BIBLIOGRAFIA III MODULO
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Fenomenologia della devianza - Università degli Studi della