Seconda Parte IL LIBRO DEI SALMI STORIA DELL’INTERPRETAZIONE DEI SALMI QUESTIONI INTRODUTTORIE SAGGI DI ESEGESI STORIA DELL’INTERPRETAZIONE DEI SALMI* Nota preliminare In genere le introduzioni generali al salterio terminano con un breve riferimento alla storia dell’interpretazione, molto breve, confrontata con l’informazione su problemi e discussioni attuali. A noi interessa invece inserirci saldamente in una grande tradizione esegetica. A tal fine ripercorreremo in una visione panoramica le principali tappe dell’interpretazione, segnalando i problemi dominanti, i metodi applicati, alcuni nomi più significativi. Cominceremo dal tempo dell’Antico Testamento, quando il salterio si stava formando. Ci soffermeremo sull’epoca fiorente dei Padri. Del Medioevo segnaleremo tre movimenti: la lectio monastica, la lectio scholastica e la rivoluzione critica dei maestri giudei. L’insegnamento di questi ultimi penetra e si estende attraverso Nicola di Lira e feconda una nuova fioritura nei secoli XV-XVII. Alla fine del XVIII secolo arriva l’epoca della critica in cui ci troviamo. All’interno di questa, H. Gunkel è la vetta che imprime un cambio di direzione, anche se non esaurisce le possibilità e le esigenze dell’interpretazione. Per questo parleremo, infine, di lavori o compiti in sospeso da tenere in conto. Questo percorso ci permetterà di apprezzare come gli antichi furono già coscienti di molti problemi che oggi trattiamo con altri metodi. La panoramica storica ci guarisce dal provincialismo, denuncia le pretese monopolizzanti di un metodo, allarga il nostro orizzonte attuale. I. PERIODO DELLA FORMAZIONE DELL’ANTICO TESTAMENTO 1. Interpretazione incorporata al testo La distinzione tra interpretazione riproduttiva ed interpretazione esplicativa1 trova una speciale applicazione nel caso dei salmi. Questo perché i salmi, in modo del tutto particolare, na* L. ALONSO SCHÖKEL – C. CARNITI, I salmi, vol. 1 (Commenti biblici), Roma 1992, 11-87. «Emilio Betti, nella sua Teoria generale della interpretazione, Milano 1955, 343-349, propone una classificazione delle diverse tipologie di interpretazione che possono venire applicate nell’esercizio dell’interpretazione di testi letterari, secondo la loro rispettiva funzione. Così, stabilisce vi possano essere l’interpretazione riproduttiva (o rappresentativa), quella esplicativa e quella normativa. a) L’interpretazione riproduttiva consiste nel rendere presente il testo. Per esempio, un rapsodo quando recita un poema, la rappresentazione di un’opera teatrale, l’esecuzione di un brano musicale, la lettura personale di un testo: sono tutte azioni che riproducono, rappresentano il messaggio che si comunica e che è conservato in un determinato registro. L’esempio teatrale esprime molto bene questo tipo di rappresentazione. L’attore interpreta un personaggio, nella messa in scena non sviluppa un’azione banale, ma riproduce il suo ruolo, dando vita al personaggio che incarna: così l’opera scritta recupera la sua esistenza autentica nella funzione teatrale. L’interpretazione dell’attore riproduce, dà vita, col rappresentarlo, al personaggio. b) L’interpretazione esplicativa presuppone il fatto che si arriverà all’interpretazione riproduttiva, che è la più importante, perché rappresenta, dà vita al messaggio. A volte, nella comunicazione del messaggio, l’uditore non coglie il significato. Interviene allora l’interpretazione esplicativa, che cerca di mediare il significato o di arricchirlo. Se ascolto l’aria “Recitar” dell’opera I pagliacci, capto una melodia e delle parole nelle quali si palpa un’intensa drammaticità, l’espressione di sentimenti profondi, la tristezza e la rabbia che scaturiscono unite... Poco dopo trovo il libretto dell’opera, leggo il testo dell’aria; tramite un critico musicale, giungo a conoscere la situazione del personaggio: un pagliaccio che deve svolgere la sua funzione di uomo del circo in una situazione, intima e personale, di dolore per l’amore tradito. Quando torno ad ascoltare l’aria, la gusto maggiormente. Può servirci anche l’esempio di un interprete di lingue: è mediatore di significato tra due persone che non condividono lo stesso linguaggio. La sua funzione è quella di aiutare a comprendere e, nello svolgere la sua traduzione simultanea, egli realmente viene a favorire la riproduzione del messaggio attraverso il suo lavoro di mediazionespiegazione. c) La funzione normativa è ancora nel campo del significato del testo. È la funzione che stabilisce il significato del testo, che può essere norma di intelligenza o di azione. Prendiamo l’esempio di Gv 14,28: «Se mi amaste, 1 Storia dell’interpretazione dei Salmi 135 scono o sono destinati all’esecuzione: devono essere recitati o cantati. I loro interpreti primari sono coloro che li recitano o li cantano. È vero che qualsiasi testo letterario per vivere deve essere riprodotto, almeno nella mente silenziosa di un lettore. Altri testi però, nascono semplicemente per essere ascoltati: i salmi per essere pregati. Se il poeta lirico fa parlare il suo io nel poema, l’autore dei salmi si sacrifica, si ritira ed esce di scena, affinché altri che verranno, forse anonimi e lontani dal suo tempo, si approprino dei suoi versi e possano dire in essi «io». Con una identificazione reale, non con la finzione dell’attore drammatico. Nella Bibbia ebraica e nella traduzione greca dei Settanta, sono restate le vestigia di questa destinazione alla recitazione e al canto, come vedremo più avanti. Nelle pagine che seguiranno, tratteremo in primo luogo della interpretazione esplicativa. Infatti, prima della fissazione definitiva del testo ebraico dei salmi, il lavoro di interpretazione accompagnava il testo e talvolta diventava tutt’uno con esso, incorporandosi in esso. Quella che nel linguaggio tecnico di alcuni esegeti viene chiamata «storia della redazione» si riferisce per buona parte ad un lavoro di spiegazione e di adattamento, che si sedimenta su un testo provvisoriamente costituito. Qui ci interessa l’interpretazione che resta fuori dal testo, quando questo è già fissato in modo definitivo. 2. Processo di formazione Parallelo al precedente, un altro fatto importante va tenuto in conto, per ciò che è capitato ai salmi nella storia di Israele: il processo di canonizzazione. Non siamo in grado di ricostruire tappe e cronologie di detto processo, però possiamo certo riflettere sulle sue implicazioni e conseguenze ermeneutiche. I salmi non vengono conservati come un cimelio nazionale o un monumento funebre, come meri ricordi storici; vengono conservati e tramandati come un repertorio a disposizione per un uso continuo. Pur essendo contenuti e racchiusi in un canone, restano istituzionalmente aperti. Altre persone potranno e dovranno immedesimarsi nell’io dell’orante originale; altre situazioni analoghe si imporranno come riferimento del testo originale. Questo è ovvio nei salmi che nascono come brani di repertorio già predisposti per certe situazioni, però questo capita anche per i salmi che sgorgano da una situazione o circostanza unica, storicamente determinata. Si distaccano da essa, come modelli di nuove situazioni simili o analoghe: un esilio può diventare allora modello di un altro, un ritorno può diventare il modello di un altro ritorno, una vittoria l’archetipo di un’altra vittoria. La canonizzazione dei salmi è un atto interpretativo. C’è un momento storico o un principio teorico che chiude l’apertura descritta? Si potrà fissare un limite numerico artificiale, quello di 150; ma è un limite così artificiale che non convince. Si potranno compilare collezioni diverse per estensione. La disponibilità dei salmi, il loro uso e la loro apertura, come diritto di nascita o privilegio acquisito nella canonizzazione, non può essere abolita. Che questo comporti amplificazioni e trasposizioni di senso, specialmente dei simboli, è una conseguenza inevitabile e necessaria della disponibilità; non deplorevole ma felice, perché è segno di ricchezza espansiva. Se nell’orizzonte dell’autore e di alcune generazioni di oranti l’espressione «per sempre» significava «per la vita», ecco che un giorno questo «per sempre» si prolungherà ben al di là dello spazio e del tempo fisico annullati dalla morte, ad un’altra vita che non conosce tramonto. Non si tratta di una deformazione o di una perdita di senso; al contrario, le parole riacquistano tutto il loro spessore, si riempiono del loro senso. Se un salmo canta che «il Signore verrà», chi oserà o potrà fissare limiti al modo della sua venuta? Fin dove può spingersi l’assidersi alla destra di Dio? vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me». Nelle dispute cristologiche del IV secolo, questo versetto veniva usato come argomentazione dagli ariani; con esso, costoro volevano difendere la loro posizione che il Figlio può essere concepito come creatura della volontà del Padre. Tuttavia, la Chiesa stabilisce con la sua autorità che il testo non può essere inteso come un’espressione di inferiorità ontologica del Figlio in rapporto al Padre. Questa è un’interpretazione normativa, che è vincolante nell’ordine del credere» (L. ALONSO SCHÖKEL – J. M. BRAVO ARAGÓN, Appunti di ermeneutica [Studi biblici 24], Bologna 1994, 13-14). 136 Storia dell’interpretazione dei Salmi 3. Titoli e collezioni I primi visibili processi e conseguenze di questo lavoro interpretativo sono le collezioni e i titoli. Riunire i salmi in cinque libri o collezioni non è un semplice espediente pratico, ma denota una opzione ermeneutica che mira ad instaurare una corrispondenza interpretativa tra il corpus delle preghiere ufficiali e il Pentateuco. Come dicevano gli antichi autori, «in modo che il salterio sia un altro Pentateuco». Grazie a questo artificio, a prima vista così estrinseco, il Davide bardo ideale dei salmi replica al Mosè della Torāh. I titoli biblici e le didascalie preposte ai salmi, rivelano più direttamente questo lavoro interpretativo per due aspetti: il riferimento storico e la denominazione del genere. Riferimento storico. Spesso, leggendo le pagine dell’Antico Testamento, da Es 15 a Gdt 16, ci imbattiamo in salmi o cantici incastonati in un episodio storico o in una trama narrativa2. Si tratta di un artificio narrativo che arresta o ristagna il flusso del racconto, che eleva a Dio l’esperienza storica, che invita il lettore ad una simpatia e ad un coinvolgimento più intenso. Inoltre, il ricorso riflette probabilmente pratiche liturgiche e risulta correlativo all’attribuzione di titoli o didascalie storiche di determinati salmi. I salmi vengono attribuiti e contestualizzati in situazioni storiche narrate. Ritroviamo questa operazione letteraria in 2Sam 22 e nel libro delle Cronache dove ci imbattiamo in brani del salterio: tale modo di procedere penetrerà abitualmente nei testi del Nuovo Testamento. Solo 23 salmi presentano nei rispettivi titoli un riferimento storico concreto, quasi sempre a qualche episodio della vita di Davide ad esempio Sal 3,1: «Quando fuggiva da suo figlio Assalonne»; Sal 34,1: «Quando si finse pazzo davanti ad Abimelek e scacciato se ne andò»; o Sal 51,1 (che non disdegna in ebraico un gioco di parole): «Quando venne da lui il profeta Natan, perché aveva avuto relazioni con Betsabea», ecc. In un certo senso, questo è un lavoro di critica storica, che ricerca nella storia conosciuta da altre fonti l’origine e la ragion d’essere di salmi individuali; indirettamente stabilisce una cronologia, anche se non approda alla descrizione di un processo storico. Nonostante sia davvero sparuto il drappello di questi brevissimi prologhi (soltanto 23), esso esercita una forza di attrazione e di espansione. Nel presentare Davide come l’autore di 72 salmi e alcuni suoi contemporanei (più o meno) di altri 23, l’interprete è invitato a ricercare nella vita di Davide la circostanza storica corrispondente al contenuto del salmo in questione. In quanto ai generi poetici dei salmi, i titoli ci lasciano un po’ frastornati, dal momento che alle loro denominazioni non corrispondono caratteristiche formali o di contenuto coerenti. Abbiamo titoli con diverse denominazioni come mizmôr, maókîl, miktām, šîr e composti. Etichettare con siffatte denominazioni un salmo è una maniera embrionale di interpretarlo. Però ci resta nascosto il criterio seguito dagli autori di tali indicazioni nei titoli. Autore, situazione storica, genere, sono le tre preoccupazioni costanti nei vecchi titoli, che perdureranno con mutamenti nel corso dei secoli. Continuamente i commentatori si domanderanno: chi ha composto il salmo? In quale circostanza? Come classificare il salmo?3 II. I SALMI NEL NUOVO TESTAMENTO 1. Interpretazione mediante citazione o allusione Il Nuovo Testamento introduce un fattore ermeneutico originale e radicale nella interpretazione dei salmi: il riferimento a Gesù, Messia venuto nel mondo da parte del Padre. I testi 2 Si veda A. GONZÁLEZ NÚÑEZ, La oración en la Biblia, Madrid 1968; F. FESTORAZZI, I Salmi: preghiera di Israele nella sua storia, in La preghiera nella Bibbia. Storia, struttura e pratica dell’esperienza religiosa, Napoli 1983, 129-155. 3 Abbiamo parlato dei titoli che appaiono nelle nostre edizioni della Bibbia ebraica, che oggi non consideriamo canonici. Storia dell’interpretazione dei Salmi 137 dell’Antico Testamento vengono riletti nel Nuovo in questa chiave cristologica fondamentale. Tra questi, Isaia e i salmi sono i libri più citati nel NT. Tra citazioni esplicite, frasi occasionali ed allusioni, reminiscenze, un editore moderno del NT può registrare qualcosa come quattrocento atti di presenza. Ci sono salmi preferiti per la loro frequenza (Sal 2; 110) o per la loro densità (Sal 22). Nell’uso i vangeli non si distinguono dagli altri scritti. «Questo significavano le mie parole che vi dicevo quando ero ancora con voi, che doveva compiersi tutto ciò che era scritto riguardo a me nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi». Sono parole di Gesù risorto ai discepoli, secondo Lc 24,44. In esse risiede la certezza di ciò che crede la comunità cristiana. In Mt 21,16, entrando in Gerusalemme, Gesù risponde alla recriminazione di alcune autorità giudaiche, sacerdoti e scribi, citando come scrittura Sal 8,3. In Mc 12,10s. Gesù cita come scrittura Sal 118,22s riferendosi a sé. In Gv 10,34 Gesù chiama «Legge» Sal 82,6, traendo da esso un argomento a fortiori in suo favore. In Gv 13,18, durante l’ultima cena Gesù cita Sal 41,10 ed afferma: «Così si compie quel passo della Scrittura»; cfr. Gv 17,12. Per non allungare la lista, ricordiamo che quaranta salmi sono esplicitamente citati nel Nuovo Testamento; alcuni versi ripetute volte. A mo’ di esempio, vedi:4 Sal 2,1.2.7: At 2,27; 4,25s; 13,33; Eb 1,5; 3,5; Ap 2,27. Sal 8,3.5-8: Mt 21,16; 1Cor 15,26; Eb 2,6-8. Sal 16,8-11: At 2,25-28; 13,35. Sal 95,8: Eb 3,7-11.15; 4,7; ecc. In questo modo si instaura un orizzonte nuovo di interpretazione e comprensione dei salmi. Che Gesù reciti liturgicamente alcuni salmi, come si dice in Mt 26,30 e Mc 14,26, tuttavia non è decisivo. Il salto ermeneutico si dà nel riferimento esclusivo preferenziale a Gesù. L’uso dei salmi nel NT si inquadra tranquillamente nell’apertura connaturale e tradizionale che abbiamo descritto più sopra. Prolunga la disponibilità di lettura, in una espansione che a volte sembra eccedere la capacità del testo. 2. Inni nuovi per imitazione Gli scrittori del NT compiono tre operazioni. Pongono sulla bocca di Gesù o di un altro personaggio un salmo o alcuni versetti, immedesimandolo nell’«io» dell’orante. Altre volte citano un salmo, o un versetto come tipo o profezia che si compie in qualche circostanza della vita di Cristo o della sua comunità, o che illumina qualche aspetto del suo mistero. Una terza operazione è la composizione, o la citazione di alcuni cantici o inni specificatamente cristiani: alcuni di taglio semitico, come il Benedictus e il Magnificat, altri invece di matrice greca, come in alcune lettere di Paolo e nell’Apocalisse5. Le tre operazioni risulteranno paradigmatiche con variabile intensità nella tradizione cristiana. Vogliamo dire che i cristiani non si accontenteranno di ripetere ciò che era stato già fatto dagli agiografi neotestamentari, ma li imiteranno; facendo proprio il principio ed osservando la sua applicazione, amplieranno l’ambito, getteranno le reti fino a catturare nelle loro maglie tutto il salterio, rispettando sempre il carattere unico del NT come parola ispirata ed ispirante. Inoltre, se il NT cita espressamente 78 versetti di diversi salmi, questa non è altro che la traccia scritta e canonizzata di una prassi consolidata presso le primitive comunità cristiane. Altri passi del NT che menzionano salmi, inni, cantici, possono considerarsi testimoni indiretti. Ad esempio in 1Cor 14,15 e Gc 5,13 troviamo impiegato il verbo psallein, che può corrispondere all’ebraico zāmar; Ef 5,19 e Col 3,16 menzionano psalmois hymnois kai o\dais. La 4 Rimandiamo a M. SIMONETTI, I salmi nel NT, in Orpheus 9 (1988) 1-20. Si veda J. KROLL, Die christliche Hymnodik bis zu Klemens von Alexandreia, Braunsberg 1921, Darmstadt 1968, 15-17. 5 138 Storia dell’interpretazione dei Salmi Chiesa primitiva non inventò un nuovo salterio che soppiantasse l’antico, ma ricevette e trasmise il salterio costituito. Aggiunse da parte sua un certo numero di inni. Non consideriamo qui testi extracanonici come le Odi di Salomone, la cui composizione è databile per alcuni al II secolo6. III. FINO AL III SECOLO Sul periodo che va dalla chiusura del NT fino a quasi tutto il III secolo, la nostra documentazione è scarsa. Le primitive comunità cristiane potevano conservare i salmi come profezia messianica e come fonte di insegnamento o catechesi, mentre componevano in forma spontanea o con consumata abilità letteraria preghiere specificamente cristiane: inni rivolti a Cristo e suppliche al Padre. A quanto pare, sorse un problema che oggi potremmo formulare in questi termini: gli antichi salmi, repertorio di preghiera di una tappa precedente della storia della salvezza, dovevano essere sostituiti con un repertorio nuovo? In tal caso si potevano mantenere senza difficoltà alcuni salmi «messianici» come il Sal 2, il Sal 8, il Sal 22 (21), il Sal 45, il Sal 110... Il resto poteva servire, in una lettura tipologica, per continuare a penetrare ed esporre il mistero di Cristo7. Diversi documenti, anche se esigui, ci attestano che le comunità cristiane composero nuovi testi, in modo particolare degli inni. Non ci risulta che il nuovo repertorio dovesse spodestare il precedente. Tuttavia, è conseguenza logica che i salmi perdessero importanza ed accoglienza. Secondo alcuni dati, anche gli eretici lavorarono alacremente all’elaborazione di inni cristiani, come mezzo di diffusione delle loro particolari dottrine del cristianesimo. Possiamo domandarci se anche le primitive comunità ecclesiali, al loro nascere, avvertissero le stesse difficoltà che avvertiamo noi oggi, in pieno rinnovamento biblico, dinanzi a molti salmi, come quelli imprecatori, pervasi da sentimenti e da espressioni a prima vista così estranee, o addirittura in contrasto con la nostra sensibilità cristiana. Così, sarebbe interessante chiedersi che cosa pensavano e sentivano i neo-convertiti, i loro catechisti ed evangelizzatori. Sfortunatamente, per l’assenza di qualsiasi documentazione, le pagine di quello che potrebbe costituire un capitolo interessante e stimolante dei salmi, visto in una prospettiva di «storia delle mentalità», restano per ora bianche. Nel IV secolo, assistiamo ad una inversione di tendenza: si tende ad escludere o limitare l’uso di composizioni specificamente cristiane non canoniche e, nel contempo, ad accordare ai salmi diritti esclusivi o a privilegiarli come testi di preghiera. Ciò esigeva una maggiore e sistematica «cristianizzazione» dei salmi. Due dati illustreranno questa inversione di tendenza. Il concilio di Laodicea (verso il 360) proibisce per la Chiesa la recita di salmi privati o non ufficiali (idio\tikous psalmous) e la lettura di altri libri non canonici. Possono essere letti soltanto i testi canonici del Nuovo e dell’Antico Testamento (ta kanonika). Da parte sua, la lettera di Atanasio a Marcellino (cfr. più sotto) insegna come pregare con i salmi canonici. Gli inni specificamente cristiani, non presentavano problemi particolari, salvo il pericolo di una contaminazione eretica, in quel tempo avvertito con particolare acutezza. Non è nostro compito descrivere qui ciò che accadde in seguito. Ci limitiamo a segnalare, in una rapida rassegna, gli avvenimenti più salienti e gli autori più importanti. I salmi entrarono e continuarono a vivere nelle comunità cristiane come repertorio ufficiale di preghiera. Si 6 A parte le monografie su ogni libro del NT, possono vedersi le esposizioni d’insieme, con rispettiva bibliografia: L. VENARD, Citations de l’AT dans le NT, in DBS 2 (1934) 23-51; G. SMITS, Oud-Testamentiche citaten in het Nieuwe Testament, Amsterdam 1952-1963. Classico resta C. H. DODD, Secondo le Scritture (Studi biblici 16), Brescia 1972. Più generale con due esempi (Sal 2 e 110) P. GRECH, Ermeneutica e teologia biblica, Roma 1986, 88-96. Sulle conseguenze teologiche della pratica si può consultare M. HENGEL, Hymn and Christology (Studia Biblica 78; JSNT Suppl. 3). 7 Si veda B. FISCHER, Die Psalmenfrömmigkeit der Märtyrerkirche, Freiburg 1949. Storia dell’interpretazione dei Salmi 139 continuò a coltivare e recitare gli inni cristiani, relegandoli però, più in Oriente che in Occidente, in una posizione di secondo piano. I nomi più celebri nel campo dell’innodia cristiana sono: Efrem il Siro (306-373), Romano il Melode che compone in greco († 565 ca.); in lingua latina Ilario († 367), Ambrogio († 397), Prudenzio († dopo il 405), Sedulio († verso la metà del V secolo), Venanzio Fortunato († dopo il 600), Beda il Venerabile († 735). Il quarto concilio di Toledo (633) difende gli inni liturgici non canonici. La convivenza dura fino ai nostri giorni. Gli inni cristiani non sono un commento dei salmi in senso stretto. Sono però una testimonianza autorevole dell’accoglienza dei salmi, di una recezione vitale che ha saputo assimilare il potere generatore dei simboli e di forme poetiche. Anche qui si potrebbe scrivere una storia interessante della interpretazione dei salmi negli inni della Chiesa. Conserviamo papiri con testi di salmi che risalgono al II e III secolo e con più abbondanza nei secoli successivi. A volte questi papiri venivano usati come amuleti8. IV. DA ORIGENE A CASSIODORO: PANORAMA A partire da Origene e terminando con Cassiodoro, dal III secolo fino a quasi tutto il VI secolo, una intensa attività intellettuale fiorisce e si sviluppa intorno ai salmi. La definiamo intellettuale per distinguerla dall’uso liturgico e spirituale, mai interrotto, che alimentava il lavoro intellettuale ed affiorava nelle sue linee. Un’attività intensa, a nostro parere, in proporzione alla cultura dell’epoca. Riesaminando ciò che ci è stato tramandato, che sicuramente non è tutto, possiamo apprezzare una ragionevole unità di criteri, una grande varietà di metodi e risultati, un ampio arco di questioni trattate. Il testo utilizzato è la versione greca dei LXX e quella latina Gallicana della Vulgata. Prima di passare in rassegna i singoli commentatori e tenendo conto della scarsa attenzione che questa epoca ha riscosso negli studi di alcuni specialisti moderni, ci sembra opportuno delineare una mappa stilizzata che permetta di comprendere ed abbracciare in una visione di insieme lo sviluppo e la ramificazione dell’esegesi dei salmi. Seguendo la tradizione giudaica di alcuni titoli, corredati da didascalie, i commentatori si interessano alla contestualizzazione storica dei salmi. Seguendo l’esempio del NT, i Padri cercano nei salmi il riferimento a Cristo, che li cita, o a proposito del quale vengono citati. Le due prospettive possono sovrapporsi ed incrociarsi. Tuttavia, è legittima la divisione principale in interpretazione storica ed interpretazione cristologica. Alcune questioni affrontate sono: il problema dell’autore o degli autori dei salmi; i generi poetici e gli argomenti; la forma di esecuzione; l’appropriazione personale del salmo. Varie sono le forme di esposizione utilizzate: l’esposizione può essere analitica o sintetica, può presentarsi come note brevi, glosse o come commentario, può adottare il genere dell’omelia e del trattato. Nella interpretazione cristologica, distingueremo vari livelli: l’interpretazione profetica, tipologica, allegorica, prosopologica. 1. Interpretazione storica Tredici salmi recano in ebraico una brevissima introduzione storica che li mette in relazione con episodi della vita di Davide, narrata nei libri di Samuele. La traduzione greca dei LXX e la Vulgata Gallicana aggiungono altri otto titoli storici. La maggioranza dei Padri, eccettuato Teodoro di Mopsuestia, accettano l’autorità dei titoli e delle didascalie storiche e, sulla falsariga di questi, si sforzano di rintracciare nella storia biblica di Davide, circostanze in cui situare storicamente gli altri salmi sprovvisti di titoli storici, salmi che la tradizione attribuisce a Davide e ai suoi contemporanei; la contestualizzazione storica può estendersi a fatti ed epoche posteriori a Davide. Teodoro di Mopsuestia († 428) non accetta i titoli tradizionali, però sposa 8 Si veda O. MONTEVECCHI, La Papirologia. Torino 1973, 301-306. 140 Storia dell’interpretazione dei Salmi con entusiasmo il criterio della contestualizzazione storica. Egli ricerca allora nel corso della storia di Israele, fino all’epoca postesilica, le circostanze e gli eventi che gli permettono, per coerenza, di situare storicamente i salmi. Pertanto, accetta avvenimenti futuri a Davide. I risultati e i frutti della sua esegesi di scuola antiochena, pesano o esercitano un indiscutibile influsso nella tradizione della chiesa siriaca. In altri termini, i Padri manifestano un interesse storico, che è critico nella misura in cui applica un criterio di coerenza; in realtà, però, risulta poco critico, perché non adotta criteri rigorosi e si contenta facilmente della coerenza o della tradizione, come criterio valido di attribuzione del salmo. Teodoro è l’unico a saper valutare criticamente con indipendenza la tradizione dei titoli, anche se non perviene ad una elaborazione criticamente controllata. Per ciò che concerne questa attività esegetica dei Padri, non possiamo parlare ante litteram, di «critica storica» nell’accezione tecnica che il termine possiede attualmente; d’altra parte, è ingiusto sostenere, come ha fatto una certa critica superficiale, che i Padri non si interessavano né alla storia né alla critica. 2. Interpretazione profetica Si può intendere la profezia in senso stretto, come predizione del futuro ed in senso lato, come visione ispirata. Come predizione del futuro, una profezia può riferirsi ad eventi della storia del popolo ebraico posteriori a Davide, supposto autore dei salmi, e può in principio avere un riferimento cristologico ed ecclesiologico: può cioè riferirsi a Cristo nella sua vita e alla sua Chiesa. Il profeta-autore esce dalla sua coordinata temporale e si proietta con il pensiero ad eventi futuri precisi, che egli conosce per rivelazione divina. Non è necessario che l’evento futuro sia di per sé omogeneo o simile alla situazione dell’autore; se si verifica questa somiglianza, questa sarà una pura coincidenza che non interessa o intacca il senso della profezia. La profezia non si pone sulla linea della continuità, ma rappresenta un salto; non annuncia il prevedibile, ma l’imprevedibile, a rischio di essere fraintesa. Teodoro di Mopsuestia, profondamente radicato nella sua esegesi minimalista del NT, accetta solo quattro salmi come profezia di Cristo: il Sal 2, il Sal 8, il Sal 22 (21), il Sal 110 (109). Considera i salmi restanti come profezia di Davide che si riferisce ad eventi futuri dei suoi discendenti e del suo popolo. Teodoro fu condannato per il suo minimalismo esegetico, che suona contrario alla prassi del NT, e le sue teorie furono rifiutate anche da altri padri della scuola antiochena, come Teodoreto di Ciro († 458). La maggioranza dei Padri ribadisce in molte occasioni che alcuni interi salmi, o alcuni versi di altri si riferiscono unicamente a Cristo e alla Chiesa, senza la mediazione di un senso storico immediato. L’assenza di mediazione, di riferimento alla propria contemporaneità, la netta proiezione verso il punto futuro, sono requisiti essenziali per la profezia. Se molti salmi o versetti sono una chiara profezia, comprovata a posteriori dagli avvenimenti (così pensano i Padri), se il più delle volte si riferiscono puramente e semplicemente all’economia salvifica cristiana, il loro autore deve essere dichiarato un profeta. Sebbene la tradizione non annoveri i salmi nella serie dei nebî’îm (Profeti), bensì tra i ketûbîm (gli Scritti), Davide è ho prophe\te\s, il profeta per antonomasia. L’abate Gerhoh di Reichersberg (XII secolo) prolunga ed amplia questa tradizione quando afferma e cerca di mostrare che nel salterio Davide è il primo a svelare il mistero della Trinità. Agli inizi del XVII secolo Lorinus si spinge ad affermare che «tutti i misteri della religione cattolica, possono essere provati con i salmi». Nel suo commentario, il cap. III della sua ampia introduzione reca questa epigrafe: «An David fuerit propheta et quamvis; et cur inter alios prophetas non censetur (Se Davide fu profeta e questo sommamente; e perché non è annoverato tra gli altri profeti)». A questo punto, possiamo definire profezia i salmi che cantano la creazione del cosmo o l’esodo dall’Egitto? Alcuni autori rispondono affermativamente ricorrendo al senso lato di profezia, come visione ispirata o illuminata di qualsiasi evento. Questa estensione di senso permette di unificare tutti i salmi come profezia e di giustificare il loro autore come profeta per antonomasia, però al prezzo dell’uso ambiguo del termine, che lo rende inservibile ai fini Storia dell’interpretazione dei Salmi 141 della nostra indagine storica. Anche Teodoro considera Davide come ispirato e come profeta, sebbene egli ritenga che soltanto quattro volte annunciò il Cristo (radicalizzando la posizione del suo maestro Diodoro di Tarso). La maggioranza dei Padri considera Davide come autore di tutti o quasi tutti i salmi, profeta di Cristo: ho prophe\te\s. 3. Interpretazione tipologica La tipologia si basa su una somiglianza tra due avvenimenti. Il termine typos, usato nel NT (Rom 5,14; 1Cor 10,6) deriva dal mondo delle arti plastiche. Significa la forma o il calco, il modello o la copia, la figura. Per questo diciamo che l’interpretazione tipologica è figurativa. In senso ampio, la tipologia si può applicare alla coincidenza o somiglianza di due avvenimenti che permette di considerarli come modello e copia o come due calchi di uno stampo di figura o di statua. Questo senso ampio del termine, di semplice coincidenza o di somiglianza umana, non è sufficiente a definire il metodo tipologico dei Padri, perché essi esigono che la corrispondenza faccia parte di un disegno o piano di rivelazione: un evento deve svilupparsi in modo da prefigurare un altro evento futuro. Come se un artista facesse un modello prima di fondere la statua: o meglio, come se facesse un bozzetto prima di realizzare l’opera definitiva. Ecco allora che a Davide perseguitato possono assomigliare innumerevoli innocenti perseguitati; questo non basta però per fare di Davide un tipo in senso tecnico. Secondo il piano prestabilito di Dio, Davide sarà perseguitato per prefigurare la persecuzione del Cristo innocente, nella sua vita e nelle sue membra. In tali condizioni, Davide è tipo di Cristo. Il tipo è una sorta di profezia dinamica, in azione, che però non resta indefinitamente aperta, né si espande senza un punto di arrivo. Un disegno superiore la polarizza e la dirige ad un punto preciso: Cristo e la sua Chiesa. Però siccome Davide agisce in una costellazione di personaggi storici, quando questi si intersecano o interagiscono con lui, possono trasformarsi in tipi di personaggi che hanno attorniato Cristo; Saul può essere tipo di Pilato; Assalonne può essere tipo del demonio che perseguita il credente... Se abbandoniamo il riferimento singolare a Cristo e al disegno di salvezza dell’intera economia salvifica, l’esemplarità tipologica si riduce a quella di un comune testo letterario, che, per generalizzazione, si applica ad una gamma più svariata di molteplici casi o esperienze umane. Un buon testo letterario può dare voce ed un’espressione singolare ad una pluralità, forse ad una universalità. Non per questo, però, è «tipo» nel senso tecnico qui descritto. L’autore deve essere cosciente del fatto che la sua esperienza si riferisce all’evento futuro preciso? Oltre a vivere nell’angoscia e poi essere liberato, Davide deve essere cosciente che in ciò egli prefigura l’angoscia e la liberazione del Messia? Se il senso tipologico deve entrare e permeare l’intenzione dell’autore umano, la risposta è affermativa. Teoricamente, anche quando l’autore umano non è cosciente ed ignora questo senso tipologico, è sufficiente il fatto che sia l’autore divino a conoscerlo. I Padri non impostano con rigore questa questione, benché il modo con cui si esprimono tenda a presupporre la coscienza riflessa di Davide. Come possiamo vedere, la tipologia può sovrapporsi alla profezia, aggiungendo la mediazione storica del fatto. 4. Interpretazione allegorica Non è facile distinguerla dalla precedente. Dal momento che dobbiamo delimitarla, possiamo dire che l’allegoria spazia nel campo dei simboli letterari, dei personaggi e degli avvenimenti in quanto presentati e rappresentati in un testo. Ecco allora che la Sion del Sal 87 è simbolo della Chiesa; ciò che il salmo dice di Sion, per allegoria lo interpretiamo come detto della Chiesa. Il Mosè del Sal 106 (105) che si pone sulla breccia per sbarrare la strada alla collera divina, è simbolo di Cristo che intercede per i peccatori. Mediante l’allegoria, attribuiamo a Cristo ciò che il salmo dice del suo personaggio Mosè. I Padri procedono così, ma la loro allegoria è più spregiudicata e libera, più letteraria e poetica. Ma anche inevitabilmente più pericolosa, quando abbandona la visione globale, tota- 142 Storia dell’interpretazione dei Salmi le, del simbolo e si perde in minuzie o si frammenta nella corrispondenza dei dettagli. Allora una legittima allegoria scade in un discutibile allegorismo. A ragione scrittori antichi e moderni rifiutano l’allegorismo che rappresenta una deformazione massimalista dell’allegoria. Di rigore, l’interpretazione allegorica non nega né esclude il senso storico del salmo, anzi, solitamente ne fa il suo punto di appoggio e parte da esso come primo gradino esegetico. Che la Sion del Sal 87 simbolizzi o significhi la Chiesa, non vuol dire che la città di Sion non è mai esistita o che il salmo deve cancellarla dalla mente. Dato che la spiegazione dei Padri il più delle volte è omiletica o contemplativa, non si può sempre domandare loro una precisione su questo punto. Tuttavia, ci sono casi in cui il commentatore nega ogni riferimento del simbolo letterario ad una realtà concreta della sua epoca storica. L’interpretazione allegorica tradisce in coloro che la praticano un’acuta e raffinata sensibilità per il linguaggio simbolico, non sempre controllata da criteri razionali. Il lettore di commentari patristici sui salmi, deve sintonizzarsi con questa sensibilità nei confronti del linguaggio simbolico, poiché spesso il linguaggio simbolico risulta un fattore dominante nella poesia dei salmi. In nome della oggettività, il commentatore o l’esegeta devono rispettare il loro oggetto, ancor più quando questo è simbolico. Ma non devono confondere l’allegoria qui descritta con l’omonima figura retorica. 5. Interpretazione prosopologica L’interpretazione prosopologica è stata brillantemente studiata con particolare successo da M. Rondeau9. Se il principio che sta alla base del metodo è facile da comprendere, le sue diramazioni sono difficili da seguire. La differenza tra interpretazione tipologica e quella prosopologica sta nel fatto che il typos deriva dalle arti plastiche, mentre il proso\pon proviene dal mondo dell’arte drammatica e della lirica. In greco proso\pon può designare sia la maschera dell’attore in scena, sia il personaggio rappresentato, sia la personalità; per designare invece la persona come entità metafisica, gli autori preferiscono ricorrere al termine tecnico hypostasis. I latini hanno tradotto proso\pon con persona che può designare sia la maschera teatrale, sia il personaggio, la personalità, ma anche la persona come entità o soggetto metafisico. Come si può intuire, questo però genera ambiguità pericolose. Nel linguaggio teatrale, talvolta usano vox al posto o come sinonimo di persona. In un’opera teatrale, l’autore introduce (eisagei) o mette in scena (skhe\matizei) il suo personaggio (proso\pon): lo fa parlare o parla attraverso di lui. Uno stesso attore può rappresentare diversi personaggi o sostenere diversi ruoli (ekhein, sustinere), secondo le opere rappresentate in scena; un personaggio teatrale può ricoprire diversi ruoli, apparendo come padre, come marito, come commerciante... Anche nella poesia lirica l’autore può introdurre uno o più personaggi, può farli parlare o dialogare, può effettuare cambi di voce parlante in scena. Questa è la prosopopoia in senso lato, che i latini hanno reso con il termine personificatio. L’autore può restare al di fuori del testo e può entrarvi come voce parlante o dialogante. Come se non bastasse, i personaggi dialoganti sulla scena possono riferirsi a terzi e parlare di essi, possono citare alla lettera parole di altri, prestando loro la voce in uno stile di discorso diretto o indiretto. Un personaggio che parla, può parlare a nome di un altro o di altri, può, come rappresentante, prestare la voce ad una intera comunità, come voce, per così dire, corporativa. Il locutore deve parlare in modo coerente con il suo personaggio o con l’aspetto che è chiamato a rappresentare, l’attore deve calarsi ed adattarsi nel suo personaggio, immedesimandosi nel suo ruolo e nei suoi sentimenti. L’arte drammatica e la personificazione lirica instaurano una rete di relazioni e provocano una serie di domande: chi parla, in nome di chi parla (ek proso\pou, ex persona, ex voce), a chi 9 Cfr. M. J. RONDEAU, Les commentaires patristiques du Psautier (III-IV siècles), vol. II: Exégèse prosopologique et théologie (OrChA 220), Roma 1982-1985. Per uno sguardo cronologico cfr. DSp 12, Les commentaires 2562-2567. Storia dell’interpretazione dei Salmi 143 si rivolge, di chi parla. Un critico avvezzo non confonderà mai l’autore con il personaggio o con il locutore. Dopo aver brevemente fornito elementi di una poetica «in nuce», passiamo all’interpretazione patristica dei salmi, per entrare nei meandri e nelle molteplici diramazioni dell’interpretazione prosopologica, che dall’esegesi può facilmente assurgere alla teologia. I salmi sono stati composti dallo (hypo) Spirito Santo come autore principale, per mezzo di (dia) Davide. Il salmo introduce un soggetto parlante, l’«io» del poema, che parla in nome di, come il tal personaggio, (ek proso\pou, ex persona, ex voce), secondo questo o quel ruolo, a nome proprio o di altri o come personalità corporativa (che include un gruppo o una comunità). Quando entra in gioco la figura trascendente di Cristo, lo schema drammatico si complica, se c’è posto. Supponiamo che in un salmo Davide parli in prima persona: l’io dell’autore si identifica liricamente con l’io del salmo. Egli può parlare rappresentando il futuro Messia, ek proso\pou Christou. Supponiamo che colui che parla, l’io del salmo, sia Cristo, caso frequente secondo i Padri. Cristo può parlare come Dio e come uomo, a nome proprio o a nome dei suoi membri o, includendo ambedue, può rivolgersi al Padre o ad altri. C’è qualche criterio per definire un locutore o personaggio di un salmo o di un brano? Il criterio principale è la coerenza (harmozo\n). Nei salmi troviamo espressioni di sentimenti o di dottrine che sono convenienti al Cristo soltanto nella sua natura divina, altri invece unicamente alla sua natura umana, altre soltanto ai suoi membri peccatori, altre a Lui come testa del Corpo che include i suoi membri. All’interno di un salmo può verificarsi un cambio di persona che parla, non solo nell’interscambio esplicito del dialogo, ma nella continuità poetica del medesimo «io». Sebbene, secondo i Padri, buona parte del salterio sia pronunciata ex persona Christi, questo costituisce un principio di unità e, nel contempo, di varietà. Il principio non è un rullo compressore che livella e appiattisce con monotonia la varietà dei salmi e la sinfonia dei loro personaggi. Gli Antiocheni elaborano un metodo che designano con il nome tecnico di theo\ria. Questo metodo presuppone un’analisi psicologica: nella mente dell’autore, al riferimento storico prossimo o immediato, si sovrappone un’immagine futura analogica e maggiore della prima. Il testo significa in senso proprio il personaggio o l’evento futuro, significa inoltre per eccesso, kath’ hyperbole\n, l’evento che dovrà accadere. I casi sono contati. Non ci sembra che gli Antiocheni applichino il metodo nella loro interpretazione dei salmi. 6. Generi dei salmi e dei commentari Gli antichi commentatori sono consapevoli dei diversi generi che si trovano nel salterio, specialmente dei generi di lode e di supplica, narrativi o di consolazione. Sono anche coscienti della enorme varietà di sentimenti che vengono espressi e che, logicamente, suscitano diversi tipi di preghiera. Ciò che non hanno fatto è l’aver saputo cogliere le relazioni tra affetti, sentimenti e tematiche con le forme letterarie in cui questi venivano espressi. Per questo solitamente si limitano ad una semplice enunciazione o elenco, senza trasformare lo studio dei generi in fattore di interpretazione. Si dimostrano anche consapevoli della possibilità di redigere diversi generi di commentari. Ecco allora che, accanto al commentario erudito, ben elaborato nei concetti e nella redazione, fiorisce il commentario di tipo omiletico destinato alla comunità cristiana. Alcune volte si tratta di un commento occasionale, magari su un salmo proclamato nella liturgia, altre volte il commento nasce da una predicazione su una serie più o meno nutrita di salmi. Il lettore potrà fare un confronto tra i testi parenetici di Basilio e la elaboratissima spiegazione di dodici salmi fatta da Ambrogio o quella in due tappe di Agostino. Nell’antichità era comune l’uso della tachigrafia. Alcuni dei commentari che conserviamo si direbbero omelie predicate e successivamente riviste e corrette dall’autore in quanto a stile ed erudizione. In un caso, quello di Didimo il Cieco, sono stati conservati gli appunti di un alunno presi durante la spiegazione fatta a scuola. Un altro tipo di commentario è quello tipico 144 Storia dell’interpretazione dei Salmi proposto dall’abate o da un maestro ad una comunità di monaci. Questa poliformità di generi attesta la vitalità dei salmi nelle antiche comunità cristiane. Nel commentario di scuola si distingue talvolta tra quello che segue un metodo analitico (katamerike\) che esamina il testo verso dopo verso e parola per parola e quello che segue un metodo sintetico (epoptike\) che cerca di cogliere l’unità del salmo studiato. È la distinzione formulata più tardi da Proclo (412-485). A volte i due metodi vengono combinati, con una anticipazione dell’argomento studiato (hypothesis), prima dell’analisi di ogni verso, o di alcuni versi scelti per diversi motivi. 7. Esecuzione Infine i Padri affrontano il problema dell’esecuzione del salmo, nel suo aspetto materiale e spirituale. Ambedue gli aspetti sono pertinenti a quella che E. Betti chiama interpretazione riproduttiva, di cui abbiamo parlato all’inizio. Una interpretazione riproduttiva, ad esempio, è quella di un pianista, virtuoso o no, che esegue la sua partitura. La pratica precede la teoria e, talvolta, la polemica o la controversia costringono a chiarire posizioni e ad approfondire il problema. Nell’ambito dell’esecuzione materiale si situano il recitato e il canto. Cogliamo l’occasione, per introdurre qui un veloce e breve accenno al tema del canto, anche se anticipiamo considerazioni che faremo in seguito. Da una parte, i Padri, nel loro zelo di pastori, nella pratica e nella teoria apprezzano l’importanza del canto come forma naturale di esecuzione, di appropriazione del salmo. I sentimenti si esprimono meglio con il canto che con il parlare; da qui il detto di Agostino: «Qui bene cantat, bis orat». Il canto unifica sentimento ed espressione, manifesta e favorisce l’armonia dell’uomo, corpo e spirito, sensi ed emozioni. Se è corale, il canto unifica in una melodia la comunità, trasformandola in uno strumento ben accordato. La musica può anche simbolizzare l’armonia dell’universo, far pregustare e penetrare nell’intimo la gioia celeste. Resta da decidere come cantare i salmi: in forma semplice e piana (planus) o con vari arricchimenti melismatici (cioè dove più note vengono intonate su una sola sillaba); oppure con una formula melodica per tutti i versi o variando, con l’apporto strumentale o a cappella, oppure alternando assolo e coro. Nella liturgia della parola della Chiesa latina si passò dal salmo responsoriale, ancora conosciuto da Agostino, al «graduale» che privilegiava la musica e riduceva il testo a due o tre versetti. Due dati emergono dall’antica controversia. Primo, la preferenza accordata a melodie semplici, senza abbellimenti; secondo, un’opposizione all’accompagnamento strumentale. Le due scelte possono sorprendere quelli come noi che vivono sugli allori di una ricchissima tradizione musicale. Il testo dei salmi si presenta sovente complesso, con un cambio di voci ed un caleidoscopio di sentimenti più vari e cangianti. Possiamo chiederci se una melodia variata e ricca di modulazioni e sfumature non sarebbe stata atta ad esprimere meglio questa complessità polimorfa e polifonica. Per ciò che riguarda gli strumenti, abbiamo l’ultimo salmo del salterio, il 150, un «tutti» finale che passa in rassegna l’orchestra del tempio con i suoi strumenti e raccoglie tante indicazioni esplicite. In conto vanno tenute anche le varie didascalie dei salmi, sul modo di esecuzione, simili al nostro «sull’aria di» o «si canta come», che per la maggior parte ci restano enigmatiche10. 10 A questo punto ci limitiamo ancora una volta ad accennare un’ulteriore pista di ricerca, che esula dai fini di questo studio. Sarebbe interessante una storia dell’interpretazione musicale dei salmi, che potrebbe costituire un vero ed autonomo capitolo della storia della musica. Il salterio è il libro «musicale» per eccellenza ed è stato variamente interpretato musicalmente. Dagli octo toni gregoriani (con il tonus peregrinus) all’austera composizione dei salmi penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143) del fiammingo Roland de Lattre (Orlando di Lasso) († 1594) o dell’italiano A. Gabrieli († 1596); dalla complessità dei maestri del contrappunto come C. Monteverdi († 1643) che musicò i salmi 110; 113; 122; 127; 147 Vg; o come A. Vivaldi († 1741), alla musica barocca che trovò nel campo dei salmi un fruttuoso ambito dove cimentarsi (come esempio possiamo ricordare il napoletano F. Durante); da B. Marcello († 1739) che compose musicalmente 50 salmi, al genio di W. A. Mozart († 1791); dalla Storia dell’interpretazione dei Salmi 145 Sul versante spirituale, l’esecuzione è ciò che oggi chiamiamo appropriazione. Il credente che recita i salmi, deve fare propri i sentimenti espressi e le parole del testo, in una relazione orante, che rispetta la prosopologia, armonizza in sintonia la bocca con il cuore e tutto il suo essere con il testo ispirato. I Padri espongono la teoria o i principi relativi dell’appropriazione en passant; il principio informa vitalmente tutta la predicazione sui salmi e, indirettamente, tutto il relativo studio. Infatti i salmi, per natura, sono destinati non tanto ad essere studiati o ascoltati, bensì ad essere pregati. Avendo davanti agli occhi questa mappa semplificata di problemi, principi, metodi ed orientamenti esegetici, possiamo a questo punto seguire la storia dei principali commentatori, senza smarrirci nel percorso; in altri termini situeremo ogni autore nel suo preciso ambito spirituale. V. DA ORIGENE A CASSIODORO: AUTORI 1. Greci Origene (185-254 ca.). Dobbiamo cominciare con questo geniale commentatore della Scrittura, perché, secondo l’autorevole testimonianza di Girolamo, Origene fu il primo a commentare tutti i salmi. Realizzò il suo commento in tre forme: in scholia o brevi note esegetiche a passi scritturistici, in omelie predicate ad Alessandria (222-225) e Cesarea (239242), in tomoi cioè in volumi o commentari composti intorno agli anni 239-242. Poco ci resta di questa poderosa mole di lavoro e di erudizione: nove omelie piuttosto moraleggianti, tradotte in latino da Rufino (345-411), settantaquattro omelie tradotte e adattate in alcuni brani da Girolamo, giunte fino a noi sotto il nome di Tractatus in psalmos, attribuite a Girolamo. A ciò si aggiungono frammenti corrispondenti a 27 salmi, conservati in diverse catene11. Il magistero di Origene fu universalmente riconosciuto, il suo influsso fu senza pari. Si potrebbe dire che il suo destino fu quello di morire come un seme nella terra per moltiplicare ovunque il suo frutto. Egli che ebbe una così intensa preoccupazione pastorale e spirituale non poteva meritare destino migliore. Nel suo metodo allegorico Origene dipende da Filone; per la prosopologia da grammatici come Teone e lo Pseudo-Plutarco. Tuttavia il doctor adamantinus, come lo chiamò Girolamo, attua cambiamenti importanti ed originali. L’allegoria filoniana interpretava platonicamente i fatti di un testo biblico come simboli di idee; Origene interpreta i fatti e gli eventi del testo dell’AT come simboli dei fatti e degli eventi del NT, in prospettiva cristologica ed ecclesiologica, simboli cioè del Cristo e della Chiesa. Anche la teoria dei grammatici sui personaggi delmusica dodecafonica di A. Schönberg († 1951) con il suo Moderner Psalm alla Sinfonia dei Salmi di I. Stravinsky († 1971), non disdegnando la severa gravità delle composizioni di Gélineau o le melodie popolari che sono pullulate negli ultimi decenni. Oppure, con metodo diacronico e sincronico, sarebbe interessante studiare l’interpretazione che un salmo ha avuto nella storia della musica e della liturgia; basti pensare al Miserere, nelle diverse composizioni di J. S. Bach, di G. B. Lulli, in quella poco nota di Donizetti (1820), o dello svizzero A. Honegger (1921) o in quella ideologica di Zoltàn Kodály († 1967) che ha trasformato il Miserere in un lamento nazionale del popolo ungherese (il celebre Psalmus Hungaricus). Recentemente, un noto cantautore italiano, L. Dalla, ha composto la colonna sonora al salterio. Anche la musica, come del resto l’arte, la pittura e le incisioni, è una forma di interpretazione dei salmi. Per l’antichità possono consultarsi due opere fondamentali: J. QUASTEN, Musik und Gesang in den Kulten der heidnischen Antike und christlichen Frühzeit, Münster 1930; 1973 (trad. inglese, Washington 1983); J. MCKINNON, Music in Early Christian Literature, Cambridge 1987. Utile è anche E. GERSON KIWI, Musique, in DBS V, 1411-1468 (con ampia bibliografia). Il lettore italiano potrà trovare un’ampia panoramica in G. RAVASI, Il canto della rana. Musica e teologia nella Bibbia, Casale Monferrato 1990 (con bibliografia scelta): è una riflessione sul musicale come teologico ed una fonte di notizie sull’interpretazione musicale dei salmi nel corso dei secoli. 11 La catena è un genere esegetico secondario che inanella, come una catena o collana, i commenti in serie dei Padri su ogni verso. 146 Storia dell’interpretazione dei Salmi la narrazione (ad es. Omero), del teatro e della personificazione lirica, servono ad Origene per incontrare nei salmi la persona di Cristo come parlante, come interlocutore, come rappresentante, nella sua dimensione teandrica, cioè nel suo aspetto umano e divino. Origene cita il Cantico dei Cantici come esempio di forma drammatica, però rintraccia l’uso di vari personaggi anche nella lettera ai Romani. Senza negare il primato e la centralità di Cristo, sa identificare diversi personaggi nella voce parlante, nell’«io» orante del salmo: «Vediamo che nei salmi Dio si commuove e dice» (Hom. in Num 7, in GCS 30,37). «Il profeta dice in nome (ek proso\pou) di Dio» (In Rom 9,1, in PG 14,1207). «Il profeta aveva predetto in nome (ek proso\pou) di Gesù: la mia carne riposa nella speranza» (Sal 15 [16],10, in CGS 2,184). «Il salmo 5 si dice in nome (ex persona) della Chiesa» (CCSL 78,48). «La Chiesa di Cristo aveva detto per mezzo del profeta» (CGS 29,43). «Davide parla in nome (ex persona) del peccatore pentito» (Sal 37[38],6, in CGS 29,102). Origene cerca anche di identificare il destinatario, la persona verso cui si dirige colui che parla. Così, nel Sal 2 è Dio che parla al Figlio e il Figlio invita il Padre o lo Spirito Santo (CCSL 78,179). Origene può allora sovrapporre la prospettiva cristologica a quella storica: dal momento che Davide è figura di Cristo e ne è simultaneamente cosciente, può parlare in nome di Cristo come rappresentante di Cristo. Alternando e combinando le due prospettive, Origene può mettere l’esegesi al servizio della teologia. Se i salmi sono proclamati ex persona Christi, essi rivelano il mistero di Cristo: la sua divinità e la sua umanità, la sua anima e la sua psicologia; anche la sua missione di salvatore solidale con gli uomini. Sebbene non in modo sistematico, Origene attinge dai salmi materiale per una cristologia, per una soteriologia ed una ecclesiologia. Non possiamo dimenticare che con le sue Hesapla, l’alessandrino ha dato un contributo vigoroso e decisivo alla critica del testo biblico ed ha esercitato un notevole influsso sulle traduzioni posteriori. Possiamo concludere che nelle mani di Origene l’esegesi sistematica dei salmi nasce adulta. Eusebio di Cesarea (263 ca., † 339). Eusebio compose un commentario completo del salterio, di cui ci resta ciò che corrisponde ai Sal 51-95,3 (52-96,3). Prima della spiegazione dei salmi, propone il tema (hypothesis) o argomento. Nelle sue Eclogae propheticae talvolta commenta versetti isolati di salmi. Oggi potremmo definire il suo orientamento di tipo filologico e cristologico. Per il testo si avvale delle Hexapla di Origene; per la contestualizzazione storica di ogni salmo va alla ricerca di situazioni storiche corrispondenti nei libri di Samuele e dei Re. Inoltre legge alcuni salmi come profezie della conversione dei pagani e della vita della Chiesa. Eusebio si preoccupa di identificare il genere di ogni salmo e raccoglie, con la sua innata passione per le cose antiche, qualsiasi dato o informazioni storiche. Nella sua Demonstratio Evangelica, cita testi di salmi come profezia del NT. L’influsso di Eusebio fu notevole. Atanasio (295 ca., † 373). Più che sul suo commentario, che è meno importante, vale la pena soffermarci piuttosto sulla sua Epistola a Marcellino (PG 27,10-46). Il suo commentario adotta la forma di «argomento» corredato da brevi glosse. La sua interpretazione è di ampio respiro: attraverso l’esperienza umana di Davide e di altri, i salmi parlano di Cristo, della Chiesa e degli uomini in generale. A questo punto Atanasio introduce un concetto nuovo: ek proso\pou anthro\pote\tos = in nome dell’umanità. L’umanità è una collettività, o un concetto astratto, che per parlare, necessita di una personificazione, qual è l’«io» dei salmi. Cristo, nell’assunzione integrale dell’esperienza umana (eccetto il peccato) può prestare la sua voce all’umanità nelle parole dei salmi. La Epistola a Marcellino merita una maggiore considerazione. È una lettera a prima vista destinata alla vita monastica, alla pietà e alla contemplazione. Sceglieremo alcune tra le raccomandazioni e gli insegnamenti di questa lettera, già consolidati nel IV secolo. 2. Il libro dei salmi sovrasta tutti gli altri perché riassume quello che gli altri contengono e nel canto aggiunge ciò che ha di suo e di proprio. Ad esempio, il libro della Genesi è contenuto in Sal 18 (19) e 23 Storia dell’interpretazione dei Salmi 147 (24); Esodo, Numeri e Deuteronomio sono contenuti nei Sal 77; 113; 104-105 (78; 114; 105-106); il santuario in Sal 28 (29); Giosuè in 106 (107); i libri dei Re in 19 (20); le profezie sulla venuta di Cristo in Sal 44 e Sal 86 (45; 87); la sua umanità nei Sal 2 e 21 (22); la sua ascensione in 23 (24), ecc. 10. Ciò che contraddistingue questo libro: «contiene scritti e modellati gli affetti di ogni anima, le sue trasformazioni, i suoi pentimenti; di modo che se qualcuno vuole cogliere o comprendere da essi (come in un’immagine) ciò che egli è, per conformarvisi, è lì che lo trova scritto». Altri libri espongono la Legge, annunciano il Messia; questo libro descrive i movimenti dell’anima. In questo libro il lettore trova il modello delle parole ... I salmi ci insegnano le parole del pentimento, della pazienza, della speranza, dell’azione di grazie: [ci insegnano] cosa dire nella fuga, nella persecuzione, nella liberazione; [ci insegnano] come lodare e benedire. (Troviamo qui abbozzato il tema dei generi e dell’appropriazione di sentimenti e linguaggio). 11. In altri libri chi legge o ascolta si distingue e si distanzia dai personaggi; nel salterio può capitare la stessa cosa; però molte volte il lettore o l’ascoltatore si ritrova dentro, coinvolto, è lui il personaggio, le parole che egli pronuncia sono le sue. 13. Tutto questo è dono di Cristo, che ha assunto la nostra condizione umana. Prima di abitare tra noi, esprime nei salmi questa condizione umana ed anche la condizione divina, come esempio per l’uomo. 14. Tutta la Scrittura è maestra di virtù e di fede. I salmi presentano un modello di vita spirituale. Si diversificano in vari generi: narrativi, di supplica, di colloquio, di rendimento di grazie, di confessione, di confessione con narrazione, di lode, di ammonizione, di profezia, di esortazione, cantici, descrizione di virtù... macarismi, di dimostrazione, di esortazione al valore, di rimprovero, di invocazione, di accusa, salmi in cui ci si gloria di Dio, inno, canto di giubilo. (Nei successivi paragrafi, 15-26, dell’epistola, ricorrono diverse situazioni della vita spirituale). 27. Perché si cantano? Non basta il piacere o la soddisfazione. È l’onore stesso di Dio ad esigerlo; per esprimere l’armonia dell’anima. Affinché l’uomo sia come uno strumento ben accordato al servizio di Dio. La recita melodiosa dei salmi è immagine e modello di un’anima serena e tranquilla. Apollinare di Laodicea: († verso il 390). Ci restano alcuni frammenti conservati nelle catene, vestigia di un commentario scientifico con spiccato interesse cosmologico ed antropologico. Basilio (330-379). Di lui ci restano quindici omelie sui salmi di stile parenetico, che tradiscono una spiccata influenza origeniana. Gregorio di Nissa († 394). Compose il Tractatus in psalmorum inscriptiones, un commentario molto originale. Come scrive la Rondeau, l’intento di Gregorio è «quello di scoprire la struttura del discorso, che corrisponde ad una struttura di vita spirituale inscritta in una metafisica coerente». Vuole studiare scientificamente l’unità del salterio e di ogni singolo salmo in funzione della sua finalità. La sua prospettiva è mistica ed ascetica: il metodo è lo studio globale, unitario, più logico che filologico (Origene) o storico (Eusebio). Didimo il Cieco (313 ca.-398). Una parte dei suoi commentari ci sono pervenuti nelle catene e probabilmente grazie agli appunti di un discepolo. Pratica un’esegesi minuziosa, riservando un sufficiente spazio alla lessicografia, sulla scia di Origene. Se le sue categorie filosofiche sono platonizzanti, il metodo critico con cui lavora è aristotelico; il suo commentario ha come destinatario la vita spirituale del cristiano. I due antiocheni, Diodoro di Tarso († 394) e il suo discepolo Teodoro di Mopsuestia († 428) rappresentano un movimento di reazione critica al modo allora in voga di interpretare i salmi. Di Diodoro è giunto fino a noi il suo commento ai Sal 1-50; di Teodoro abbastanza materiale grazie alle catene. Per quanto riguarda il versante della storia, i due rifiutano i titoli e le didascalie storiche tradizionali e li sostituiscono con altri attinti alla storia del popolo di Israele. Come profezia di Cristo in senso letterale, ammettono soltanto quattro salmi: Sal 2; 8; 22 (21); 109 (110). Le restanti citazioni di salmi sono un adattamento, una rilettura accomodata del senso originale ad una nuova situazione. I due antiocheni ammettono un’altra serie di profezie davidiche, tutte riferite a fatti dell’antica economia di salvezza. In essi Davide svolge il ruolo (ek proso\pou) o la parte di un personaggio futuro, come Ezechia nel Sal 26 (27) e Geremia nel Sal 34 (35). L’autore, Davide, crea i discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi, come conviene ai loro caratteri. L’influsso di Diodoro e di Teodoro si estese soprattutto alla 148 Storia dell’interpretazione dei Salmi Chiesa siro-orientale. Il loro minimalismo teologico, che aveva provocato tra le altre conseguenze un impoverimento dell’AT, fu condannato. Evagrio Pontico (346-399). Abbiamo i suoi commenti conservati nelle catene. Hanno la forma di scholia e sono l’opera di un monaco destinata a monaci; pertanto, la tendenza è ascetica e mistica. Sebbene sia sulla scia di Origene e di Didimo il Cieco, presenta originalità nelle idee, che esprime in una prosa raffinata, alternando aforismi e sillogismi. Giovanni Crisostomo (345 ca.-407). Di questo grande predicatore conserviamo 58 commenti, scaglionati nel tempo, che egli chiama herme\neiai. A prima vista sembrano dei trattati, però potrebbero essere sermoni riveduti e corretti per la pubblicazione. Altri frammenti si conservano nelle catene. Cirillo di Alessandria († 444). Tra il poco materiale di indubbia autenticità che ci è pervenuto, possiamo apprezzare un suo commento piuttosto erudito, con scopi teologici. Teodoreto di Ciro (393 ca.-466 ca.). Uno tra i più importanti e tra quelli che ha avuto più influsso tra i Padri greci. La sua notevole personalità sembra consistere in un complesso armonioso di qualità di cui nessuna attira l’attenzione per se stessa. È un antiocheno e come tale conserva l’interesse per il senso letterale, per un lavoro filologico raffinato. La padronanza del greco e la sua probabile conoscenza dell’ebraico, gli permettono di verificare i testi originali. Quanto al metodo Teodoreto opta per una via media, molto accettabile; vuole evitare l’allegorismo e l’esuberante allegoria degli Alessandrini; d’altra parte vuole correggere il minimalismo e il letteralismo dei suoi predecessori antiocheni, che gli appare, come ad altri, giudaizzante. Uomo di vasta cultura e profonda erudizione, la mette a frutto senza ostentazione e scrive in uno stile piano e limpido. Nei suoi commenti, riaffiora il senso cristiano di non pochi salmi, quali ad esempio i Sal 15 (16), 21 (22), 39 (40), 108 (109): in essi riconosce l’«io» del Cristo. In altri casi, accetta la tipologia con moderazione. Fra tutti i Padri greci, Teodoreto è forse il più accessibile per noi. Esichio di Gerusalemme († dopo il 451). Il suo commento è dedicato ai monaci. Le sue glosse sui salmi furono stampate nella Patrologia Greca del Migne sotto il nome di Atanasio. Il suo stile indulge continuamente nelle glosse e nella parafrasi, al modo del targum. A Gerusalemme un’epoca si chiude con un monaco. Dopo di lui verrà il maestro di retorica Procopio di Gaza (ca. 460-530), che inventa le catene, seirai o eklogai. Lo studio creativo cessa e la tradizione si salva. 2. Latini I Padri latini ci offrono un raccolto più modesto. Lasciamo da parte i Padri che commentano uno o l’altro salmo nelle loro omelie o trattati, come Zenone di Verona, Priscilliano, Gregorio di Elvira, Cromazio di Aquileia, Massimo di Torino, Pietro Crisologo. È sufficiente una rapida citazione di ripetitori, come Eusebio di Vercelli († ca. 371), che traduce, espurgandolo, il commentario di Eusebio di Cesarea; come Ambrogio († 397) che nelle sue Enarrationes commenta in chiave allegorico-morale 12 salmi; o come Prospero di Aquitania che riassume Agostino. Ci restano sette commentatori che possono interessarci per meriti diversi. Ilario di Poitiers (315 ca.-367). Del suo Tractatus super Psalmos, che probabilmente era completo, ci resta oggi il commento a 58 salmi. Appare come una redazione rielaborata di sermoni predicati. Ilario segue Origene, però con una sua spiccata personalità. Vale la pena leggere l’ampia introduzione al Sal 1, nella quale espone i suoi principi ermeneutici, con chiarezza e lucidità: Per comprendere un salmo, dobbiamo sapere chi è che parla e a chi parla. La persona che parla può essere il Padre, normalmente è il Cristo. Dobbiamo anche sapere «di chi si parla». E anche se ogni profezia si riferisce in qualche modo a Cristo, «bisogna discernere scientificamente quando si riferisce direttamente a Lui». Il criterio principale è la coerenza. Storia dell’interpretazione dei Salmi 149 Girolamo (347 ca.-419). Ci interessa come eco e come conservatore di Origene. Cammina sulla sua scia e sceglie nei suoi Commentarioli settanta pagine di note concise ed essenziali; traduce l’Alessandrino senza dirlo, con alcuni interventi personali nei Tractatus (verso il 400). Se tace il nome di Origene, il silenzio è forse dovuto alla crisi origeniana dell’epoca. Più duratura è l’opera di Girolamo come traduttore dei salmi. Nel 384 corresse secondo il testo greco una traduzione latina allora in uso; tra il 389 e il 392 ne operò una revisione secondo le Hexapla: è la versione denominata «Gallicana»; nel 392-393 traduce direttamente dall’ebraico, «iuxta hebraicam veritatem»12. Citiamo Niceta di Remesiana († dopo il 414) semplicemente per il suo piccolo trattato De utilitate hymnorum, nel quale giustifica l’uso liturgico dei salmi. Alla fine del IV secolo questo uso stava acquistando la sua forma definitiva. Giuliano di Eclana († 454). È l’unica presenza antiochena in Occidente, poiché opera un adattamento, conformemente alle sue teorie, del commentario di Teodoro di Mopsuestia. Limita la profezia alla storia di Israele e pratica un’esegesi strettamente ancorata alla littera. Il più grande dei Latini è Agostino (354-430). Dei salmi 1-32 ci ha lasciato appunti che prolungano la tradizione precedente. A partire dal salmo 33, dispiega il suo genio teologico e letterario. Le sue Enarrationes in Psalmos brillano come una delle sue opere esegetiche fondamentali, forse il più grande commentario vergato sui salmi. Agostino non è assolutamente un filologo alla maniera di Teodoreto o di Girolamo: la sua esegesi è piuttosto una lettura che si muove in profondità alla ricerca dell’unità. Potremmo affermare che il commentatore si inabissa nelle profondità di una esperienza religiosa, di comprensione del mistero, di cui il testo è soltanto una piccolissima superficie per cui entrare. In questa profondità s’imbatte in correnti e relazioni nuove, in illuminazioni sorprendenti; da queste riemerge con ciò che ha scoperto e trovato. Agostino trova l’unità nel profondo. Per questo può succedere che le cose migliori su un verso di un salmo si leggano quando egli ne commenta un altro. Il suo modo di collegare i testi biblici può risultare discutibile in termini filologici, molte volte è abilmente indovinato e quasi sempre suggestivo, a volte soltanto ingegnoso. Egli esprime la sua ricerca, che è preghiera, in un’ammirabile prosa latina, con frasi piane e nitide, in una progressione lucida e rigorosa, traboccante di entusiasmo ed affettività che giocano sulla tastiera del lirico e del retorico. Perdoniamo ad Agostino il suo compiacersi, talvolta, su giochi di parole; le sue digressioni sul tema però ne valgono la pena. Chi ha letto attentamente le Enarrationes avrà acquisito una comprensione globale e vitale dei salmi, che in seguito potrà affinare e precisare con altri strumenti filologici. La Rondeau segnala tre contributi importanti del maestro di Ippona. Un primo contributo è squisitamente teologico: è la visione del Cristo totale, corpo e membra, sposo e sposa, assimilato ai suoi per assimilarli a sé. Un secondo contributo, è la nascita dal precedente di un nuovo repertorio di testi del NT messi in relazione con il salterio: l’immagine del corpo, l’immagine coniugale, l’identificazione di Paolo con Cristo. Un terzo contributo è di ordine pastorale ed è la consuetudine di Agostino di rivolgersi al popolo. Citiamo di passaggio Arnobio il Giovane († dopo il 455), la cui esegesi si muove sulla scia di Agostino, anche se confuta la teoria agostiniana della predestinazione. Per ultimo passiamo a colui che è stato chiamato l’esecutore testamentario dell’antichità: Cassiodoro (ca. 485-583). Raccoglie gli elementi della tradizione, specialmente da Agostino, con un intento scolastico. Notevole è il contributo della sua erudizione nelle scienze profane, specialmente nel campo della retorica. La sua Expositio Psalmorum respira la temperie spiri- 12 Discute quest’ultimo C. ESTIN, Les psautiers de Jerôme à la lumière des traductions juives antérieures, Roma 1984. 150 Storia dell’interpretazione dei Salmi tuale del suo tempo, anche se il modello resta fortemente agostiniano. Cassiodoro con le sue Institutiones rappresenta la fine di un’epoca. Fra i Padri siriaci che commentarono i salmi, ricordiamo Efrem il Siro († 373) e nel Medioevo Ishodad (che svolse la sua attività verso l’850) e Gregorio Bar-ebreo (1222-1286). Crediamo che questa breve rassegna abbia mostrato la ricchezza e la varietà dell’esegesi patristica dei salmi: l’ampia gamma delle questioni puntualmente segnalate e trattate con rigore, l’esercizio consapevole di metodi di interpretazione, la visione di storia, profezia e figura, l’osmosi di filologia e teologia, lo studio permeato dalla pietà e dalla preghiera e finalizzato all’esperienza cristiana, la perspicace sensibilità per il linguaggio simbolico. Misconoscere e rompere con questo patrimonio ci sembra un impoverimento; disprezzarlo con superiorità suona come un atto di arroganza; occultare tutte queste ricchezze con l’alibi dell’«allegorismo», come chi nasconde la spazzatura sotto il tappeto, non è prova di discernimento13. VI. DA CASSIODORO A NICOLA DI LIRA I manuali di storia ci hanno abituato a considerare a parte il Medioevo, come epoca storica distinta. Questa periodizzazione ordinaria non vale per la storia dell’interpretazione, perché verso la metà del XIV secolo comincia una rivoluzione nel campo dell’esegesi. Cassiodoro suggella come esecutore testamentario l’Antiquitas. Il francescano Nicola di Lira segna il preludio e l’avvio di una nuova temperie e di un nuovo modo di pensare nel mondo dell’esegesi cristiana. All’interno di questo periodo dobbiamo distinguere l’epoca monastica e l’epoca scolastica. 1. Lectio monastica A partire da Cassiodoro, tutta la corrente tradizionale trova il suo alveo di trasmissione nelle catene, nella copia alacre dei manoscritti, nella vita liturgica e contemplativa dei cristiani. Da questa corrente emergono alcuni autori con una spiccata personalità. Tra questi notiamo Beda il Venerabile, eco e cassa di risonanza dell’antichità in un momento di rinascita e di rinnovamento intellettuale; Aimone, testimone dell’interpretazione allegorica e spiritualista; Walafrido Strabone (nome latino di Alfredo lo Strabico) che avvia il genere della «glossa», simile a quello della catena; la corrente di cui fu l’iniziatore acquistò consistenza e portata con vari affluenti, che oggi appaiono riuniti nella Glossa Ordinaria. A dominare il campo sono vescovi e abati, il che significa tutto un orientamento pastorale e spirituale; questa tendenza favorisce il terreno e lo prepara per una interpretazione cristiana secondo il senso allegorico, tropologico ed anagogico. Lo studio filologico e storico non si apre la strada; tuttavia il testo viene rispettato, senza manipolazione. Un autore così creativo nei suoi commentari come Ruperto di Deutz, liquida frettolosamente i salmi, imponendo loro una unità ed uno sviluppo dottrinale artificiosi. Di questo periodo selezioniamo due nomi, come rappresentanti di molti altri: il greco Eutimio Zigabeno ed il latino Gerhoh. Eutimio. Nell’introduzione al suo commento dei salmi, Eutimio si interessa ad una serie di questioni tradizionali, cui fornisce delle risposte. Sulla questione dell’autore, Eutimio risponde che l’autore è stato Davide. Se vengono citati altri nomi, si tratta di esecutori. Per ciò che concerne la situazione storica per cui il salmo è stato composto, Eutimio la rintraccia di volta 13 Oltre all’opera citata di M. J. Rondeau, cfr. C. ANDERSEN, Zur Entstehung und Geschichte der trinitarischen Personenbegriffes, in ZNTW 52 (1961) 1-39; La Bible de tous les temps, vol. I, Paris 1984: sui Padri greci: vol. II, Paris 1985; sui Padri latini: C. ESTIN, Les psautiers de Jerôme à la lumière des traductions juives antérieures, Roma 1984; P. CANIVET, Histoire d’une entreprise apologétique au Ve siècle, Paris 1958; W. HULST, Hymni latini antiquissimi, Heidelberg 1956; C. EMERREAU, Hymnographi graeci (1922-1926). Storia dell’interpretazione dei Salmi 151 in volta in alcuni episodi della vita di Davide. Le tematiche sono storiche e messianiche. I generi sono di vario tipo: di lode, di ringraziamento, suppliche, voto, di incoraggiamento (di fiducia?), di esortazione, di istruzione morale. Eutimio si sofferma sulla spiegazione dei titoli e sull’importanza dell’esecuzione musicale. Per ciò che concerne le profezie, ribalta la posizione di Teodoreto di Ciro. Quest’ultimo affermava che le profezie risultano chiare, una volta che si è visto il loro adempimento. Eutimio sostiene che Davide profetizzò sul Messia in maniera oscura, velata, per evitare che gli Ebrei distruggessero le sue profezie. Il principio della oscurità profetica, in mano agli investigatori delle profezie, si trasforma in un criterio ambiguo e pericoloso. Infine Eutimio dice che il salmo può essere adattato (prosarmozein) alla vita del cristiano. Gerhoh. Scrisse per i suoi monaci ed il suo commento riscosse una certa fortuna nel Medioevo. Nel commentare i salmi, va alla ricerca dell’intelligenza spirituale, occultata sotto il velame dei simboli. L’autore dei salmi è Davide, che è il primo profeta ad aver attestato la Trinità, tema che Gerhoh sviluppa adducendo vari passi del salterio. In seguito, tratta i temi seguenti: la materia dei salmi è il Cristo totale, ossia il Cristo con la sua Chiesa (sulla scia di Agostino); l’intenzione o la finalità è che le membra si conformino alla testa (in questo mette a fuoco l’aspetto ascetico, tropologico). Gerhoh distingue nella Bibbia tre modi di esposizione: narrativa, quando a parlare è l’autore o i personaggi esplicitamente introdotti dall’autore; drammatica, quando sono i personaggi a parlare direttamente (come nel Cantico dei Cantici); di tipo misto, che domina nella letteratura profetica e salmica, particolarmente adatto ad esporre i misteri della salvezza. Il lettore è chiamato ad appropriarsi vitalmente dei sentimenti e delle emozioni dei salmi: «affinché nel salmodiare congiungiamo il nostro sentimento al sentimento dei salmi» (come si comporta un attore teatrale con il suo personaggio). «Dobbiamo conformarci ai sentimenti di quelli alle cui parole facciamo eco... Il solo Davide infatti rappresentò in sé molte persone [prosopologia], di molte persone i sentimenti, fattosi perciò tutto a tutti, non solo lo [Cristo] preconizzò a parole, ma lo prefigurò con la vita [tipologia]». Segue una enumerazione spiegata di alcuni sentimenti o affetti espressi e combinati nei salmi; il cambiamento e l’intreccio di sentimenti o di affetti all’interno di un salmo è un fatto che non va sottovalutato e trascurato. 2. Lectio Scholastica La Scolastica apporta un metodo nuovo o una tecnica nuova nell’esegesi dei salmi. Si tratta della tecnica e degli strumenti concettuali della nuova scienza che irrompe e si instaura in Occidente, trionfa e produce nell’arco di due secoli opere di pensiero magistrali. La Scolastica applicata a commentare i salmi dà risultati piuttosto discutibili, perché il suo metodo opera più sul versante speculativo che su quello filologico. Prima di tutto lo scholasticus è un professore: la lectio scholastica ruba il campo alla lectio monastica per coesistere pacificamente o in antagonismo con essa. La separazione o la dissociazione comporta una specializzazione che in passato esisteva appena: il professore o l’universitario, nell’esercizio del proprio magistero, può prescindere dall’aspetto pastorale o si basa per deduzione sulle conseguenze e le implicazioni del suo discorso. Lo scolastico è un professore che si accinge a commentare i salmi con un sistema formale di concetti e di categorie, che si possono dividere e suddividere ed organizzare logicamente. Nel contempo, tende a sviluppare la disputatio, che invaderà l’esegesi biblica lanciando le sue quaestiones, domande o problemi da risolvere con il metodo dialettico. Possiamo ora vedere come funziona il nuovo metodo di spiegazione nelle mani del suo rappresentante più estremo, Ugo di S. Caro († 1263). Cominciamo con il suo commento al Sal 1. Già la presentazione che Ugo fa ci orienta, poiché è fornita di chiavi interpretative che distribuiscono secondo un ordine logico i materiali del salmo, dopo un’astrazione in concetti: 152 Storia dell’interpretazione dei Salmi «La beatitudine consiste in: immunità da triplice peccato: Dell’opera “colui che non cammina operando nel consiglio degli empi”, Del cuore “e non dimora nella via dei peccatori”, Della bocca “e non siede su una cattedra di pestolenza”. Nella buona volontà... “la sua volontà”. Nella meditazione della legge divina “e nella legge...”. Nella buona operazione... “darà il suo frutto”. Nel buon parlare “le sue foglie non cadranno”. Nella perseveranza... “sempre prospereranno”. La beatitudine è: Via Sinistra: Sal 143... Destra...: Mt 5. Patria: Lc 14. Per questa beatitudine è richiesto: Evitare, piangere, non rendere pubblico il peccato. Futuro. Passato. Presente. Volere il bene, conoscere il bene, potere il bene. Tendere con l’opera. Discrezione. Modestia. Pazienza. Volere il bene “la sua volontà”, conoscere il bene “mediterà”, potere il bene “l’albero piantato”». È vero che il Sal 1 non è un capolavoro di immagini originali e felici, però in una certa misura suggerisce la vitalità spirituale in termini botanici, di foglie e di frutti. Il cardinale Ugo, con la sua bacchetta magica di buon scolastico, trasforma la foglia non caduca in «parola che non si abbassa, in modestia nel parlare» e il frutto maturo diviene «l’esecuzione del bene e la discrezione». Trasformate in concetti, le immagini divengono «intellegibili», possono essere raggruppate in articolazioni logiche rigorose o approssimate. Possiamo vedere un altro esempio: Sal 2,2: «Congiurano contro il suo Signore e contro il suo Messia». Spiega Ugo: «Contro il Signore abusano dei doni della natura, contro il suo Unto abusano dei doni della grazia». Così entra nel salmo la distinzione tra natura e grazia. Leggiamo nel Sal 18,34: «Mi dà piedi di cervo». Avendo in mente 1Gv 2,16: «concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita», così spiega Ugo: «... i miei piedi, cioè i miei sentimenti, che passino saltando attraverso tutte le cose di questo mondo. I cervi infatti attraversano luoghi paludosi, spinosi e fossi e per mezzo di queste tre cose vengono designate le cose del mondo». Il commento di Ugo, nella bellissima edizione del 1754, occupa 1432 colonne di pagine in folio: concretamente dieci colonne o venti pagine di oggi, per salmo. Non dobbiamo lasciarci ingannare, quando leggiamo al margine «allegorice de Christo», «moraliter», pensando che egli continui l’esegesi tradizionale per sensus. Questa persiste come schema subordinato alla concettualizzazione scolastica. Nel linguaggio esegetico subentrano l’astrazione e una nuova terminologia. Il tessuto biblico è intellettualizzato. Sulla stessa linea di una concettualizzazione ben sistematizzata, ha lavorato s. Tommaso d’Aquino (ha commentato 51 salmi nella sua Expositio in Psalmos Davidis). Commentando Sal 46,5: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio», l’Aquinate descrive tre qualità della città che è la Chiesa: «La prima cosa è che cosa si intenda per moltitudine di liberi ... La seconda è che abbiano a sufficienza per sé... La terza è l’unità dei cittadini... ». Ogni qualità viene comprovata da una citazione biblica: Gal 4,31, Sal 65,5; Gv 17,22. Più moderato nella distinzione, anche se simile nella trasmutazione delle immagini in concetti, è il seguente commento, attinto ad un’opera falsamente attribuita a s. Bonaventura. A proposito di Sal 97,5, che descrive la teofania e reca l’immagine dei «monti che si squagliano come cera», così spiega il commento: «Qui mostra la superbia dove dice monti, l’instabilità dove dice che come cera si squagliano». Una volta che questo metodo è applicato sistematicamente al salterio, si dilegua la fantasia, il corporeo si spiritualizza, il sentimento viene congelato. È come se un bel dipinto o affresco, ricco di forme e di colori vivi, si trasformasse in un freddo reticolato nero su bianco. Quanto alle quaestiones, un esempio ci è offerto da un commento di Riccardo di san Vittore. Sal 2,4 nel testo della Vulgata recita «qui habitat in coelis». Un’analisi filologica preciserebbe che il termine ebraico yāšab significa qui «sedersi, essere intronizzato, governare»; l’analisi letteraria spiegherebbe che «cielo» è una rappresentazione spaziale simbolica, comune a molte religioni. Riccardo allora imposta un problema, una quaestio: «Se il Signore è in ogni luogo, perché si dice che sta in cielo e non ovunque? E se sta in cielo, come possiamo credere che Egli è dappertutto?» Storia dell’interpretazione dei Salmi 153 Proseguendo nel suo ragionamento, Riccardo cerca una risposta appellandosi al concetto di essere visto, mostrarsi (che è poco convincente). Nel complesso, il metodo scolastico non arricchì l’intelligenza e la comprensione dei salmi e, nella metà del XIV secolo, provocò una salutare reazione. Per comprenderla, dobbiamo gettare uno sguardo su un’altra tradizione importante e decisiva. A mo’ di complemento, diremo qualcosa sui titoli latini e i capitoli. Introduciamo qui questo argomento, perché la composizione di molti e la diffusione di tutti, caratterizza precipuamente questo secondo periodo della storia dell’esegesi. I «tituli psalmorum» servono per guidare la preghiera e facilitano l’interpretazione cristiana. Tendono ad amplificare, a spiegare. I capitoli sono riassunti articolati, offrono l’argomento del salmo per sezioni successive, del tipo «primo...secondo...terzo...». Sono più vicine allo studio intellettuale che alla preghiera14. 3. I maestri giudei Quali energie misteriose, quali condizioni o fattori ambientali, fanno sì che un giorno dalla materia si sprigioni la scintilla vivida della vita? Quali correnti spirituali, quali venti invisibili spingono e provocano quel contatto o quella congiunzione in cui qualcosa di nuovo comincia? Mentre il Medioevo cristiano scorre tranquillamente e si appresta al violento e brusco trapasso culturale della Scolastica, fra i commentatori giudei si verifica un’autentica rivoluzione copernicana che si coagula intorno a tre personalità, i cui nomi rispondono a quelli di Raši (1040-1105), di Abraham Ibn Ezra (1089-1164) e di David Kimchi (1160-1235). Occorre risalire a più di un secolo prima, per poter capire questa rivoluzione esegetica. L’esegesi giudaica dei salmi, come del resto della Bibbia, procede per il percorso serrato dell’ esegesi targumica e per quello più ampio ed aperto dell’esegesi midrašica15. Nella prima metà del X secolo, mettendo a frutto il retaggio e i risultati della cultura greca classica trasmessi dagli Arabi, un geniale rabbino in Egitto getta le fondamenta di uno studio scientificofilologico della Bibba ebraica. Questo rabbino egiziano è il gaon (= maestro) Saadia al Fayyumi (di Fayyum). Il frutto dei suoi studi lessicografici e grammaticali e delle sue traduzioni si propaga per il Nord-Africa, risale al Sud della Spagna e attecchisce in una scuola di grammatici e di maestri di retorica eccezionali. I centri di questo vivace movimento intellettuale sono Cordoba e Lucena. Citiamo i due maestri, rivali fra loro, Menachem Ibn Saruk e Dunash Ibn Labrat (vissuti nel X sec.), alcuni discepoli minori e il maestro incontrastato Abulwalid = Ibn Yanah († 1050), esperto in grammatica e versato nella retorica. In quest’ultima disciplina eccelle fra tutti Mosè Ibn Ezra. Con questi antecedenti, nell’arco di un secolo, l’esegesi letterale e filologica del testo biblico fiorisce e raggiunge il suo culmine. Questa ricerca del senso letterale-filologico è chiamato dai rabbini pešaè (= semplice) per distinguerlo dal deraš (= ricerca). Non ci è pervenuto il commentario sui salmi di Mosè Ibn Gikatilla di Cordoba, né di Jehudah Ibn Balaam di Toledo (vissuti entrambi nell’XI sec.). Li conosciamo per citazioni occasionali, raccolte dal famoso commentatore Abraham Ibn Ezra, detto anche Abenestra (10891164), anche lui di Toledo. Con quest’ultimo, l’esegesi letterale trionfa su quella midrašica. Ibn Ezra fece diversi viaggi e soggiornò alcuni anni a Roma e in diverse località della Francia. 14 P. SALMON, Les tituli psalmorum des manuscrits latins (CBLa 12), Roma 1959; H. BOESE, Capitula Psalmorum, in RBen 91 (1981) 131-163. Per un’informazione sui nomi di quest’epoca e delle seguenti: H. HURTER, Nomenclator litterarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-1913, nonché le opere di carattere generale come la Cambridge History of the Bible e La Bible de tous les temps nei loro volumi corrispondenti; utili anche H. DE LUBAC, Esegesi medievale, 2 voll., Roma 1972; B. SMALLEY, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, Bologna 1972; P. RICHÉ - J. CHATILLON - J. VERGER, Lo studio della Bibbia nel Medioevo latino, Brescia 1989. Inoltre la serie esaustiva di F. STEGMÜLLER, Repertorium biblicum Medii Aevi, Madrid 1940-1980 (11 volumi). Per eventuali aggiornamenti Medioevo latino (bollettino bibliografico della cultura europea VI-XIII s.; Spoleto) e il Bulletin de la Bible latine pubblicato nella Révue Rénédictine. 15 Il midraš è una traduzione e nel contempo una parafrasi ed un commento spirituale del testo, che mira all’edificazione. 154 Storia dell’interpretazione dei Salmi Nei suoi scritti si oppone alla prolissa e soverchia erudizione dei ge’onim, maestri, al rifiuto della tradizione orale rabbinica dei Karaiti che ritenevano soltanto la Scrittura, all’allegoria e al deraš. Il suo influsso si estende a giudei e cristiani. I suoi commenti saranno un fermento ed avranno una risonanza duratura. Qualche tempo prima e attraverso i suoi maestri Saruk e Labrat, Rabbi Šelomoh ben Jitzchak di Troyes (1040?-1105), più comunemente conosciuto con il nome di Raši (sigla del suo nome), aveva scoperto l’esegesi letterale o pešaè ed aveva cercato di armonizzare i suoi risultati esegetici con alcuni elementi tradizionali del midraš. Il suo commento al Pentateuco è il più importante fra quelli dell’esegesi giudaica medievale e quello sui salmi rivaleggiò con l’altro di Ibn Ezra nell’influsso sui contemporanei e sui posteri. Un secolo più tardi, a Narbona visse e lavorò David Kimchi (1160-1235), detto Radak. Il suo commentario si distingue per l’acribia filologica, per lo sviluppo di argomenti di carattere filosofico, per la ricerca che si attiene al senso semplice ed ovvio. È strano che dovesse ricercare l’ovvio... Il suo pregevole commento esercitò un influsso su tutti, nonostante le inesattezze e le distorsioni polemiche contro i cristiani, c’è chi pensa che il suo commentario fu il più influente. Dopo il trionfo dell’esegesi letterale, tornò ad imporsi l’esegesi di tipo midrašico, senza tuttavia cancellare o annullare l’influsso della precedente. Alla fine del XV secolo, viene stampato per la prima volta a Napoli, il commentario di Kimchi; agli inizi del secolo seguente si stampano a Venezia e in altre città, alcuni commentari giudaici classici; a Napoli dal 1487, a Venezia dal 1525. Famose sono le collezioni di Athia (1549) e di Fagius (1542) e il commento ai salmi di Obadia ben Jaakob Storno (1586). Nel 1712, Bashuysen pubblicò una importante collezione ad Amsterdam. Con influssi della Cabbala (il termine designa il complesso delle dottrine ritenute tradizionali, di carattere mistico e teosofico) si segnalano un commento pubblicato a Sabbioneta nel 1556 ed un altro commento di Israel Ben Mosè del 159216. VII. DA NICOLA DI LIRA FINO ALL’EPOCA STORICO-CRITICA 1. XIV secolo Così, all’improvviso, eccoci a Nicola di Lira. Forse non proprio all’improvviso, visto che il suo libro reca un titolo curioso: Postillae. Vale a dire post illa, ciò che segue dopo quello. Ma a quale «quello» ci si riferisce? Al testo biblico che egli commenta, che egli «postilla», cioè chiosa con note. Però, per un momento, ci sia concesso stravolgere il senso del termine, per dare un’altra accezione ad illa. Nicola di Lira viene post illas, cioè dopo la lectio monastica e dopo la lectio scolastica. Ambedue avevano diminuito e sbiadito il realismo e la corporeità dei salmi: la prima in una eccessiva spiritualizzazione del testo; la seconda in una astrazione e in un concettualismo condotti all’estremo. L’esegesi monastica conservava almeno la capacità di ascoltare i simboli, la tensione di vibrare emotivamente per risonanza. La seconda era invece più arida e fredda. In ambedue, i salmi avevano smarrito il fresco profumo dell’humus bagnato della terra nativa. Dopo di loro viene Nicola di Lira (1270-1340). Nicola di Lira dipende dai commentatori giudei. Egli trasmette ai cristiani le teorie ed i metodi propri dell’esegesi giudaica in modo originale e con contributi personali. Può svolgere 16 W. BACHER, Die Bibelexegese, in J. WINTER - A. WÜNSCHE, Geschichte der rabbinischen Literatur während des Mittelalters und ihrer Nachblüte in der neueren Zeit, Hildesheim 1965; B. BLUMENKRANZ, Les auteurs chrétiens latins du Moyen Âge sur le juifs et le judaïsme, Paris 1963; S. LEHMANN, Saadia al-Fajjumi’s arabische Psalmenübersetzung und Kommentar, Berlin 1902; YAFET BEN HELI DE BASORA, Liber Psalmorum David Regis et Prophetae, a R. Y. karaita auctore decimi saeculi arabice concinnatum (ed J. J. L. BARGÉS), Paris 1861; F. TALMAGE, David Kimchi. The Man and the Commentaries, Cambridge Massachusetts-London 1975. Su Kimchi è disponibile in italiano L. CATTANI (a cura di), Commento ai salmi 1-50, Roma 1991; Commento ai salmi 51-100, Roma 1995; Commento ai salmi 101-150, Roma 2001, con ampia bibliografia. Storia dell’interpretazione dei Salmi 155 tranquillamente questa opera di mediazione culturale, perché è un cristiano; figlio fedele di s. Francesco, devoto discepolo di s. Bonaventura, formato alla scuola della Scolastica (suo è un commento alle Sententiae di Pietro Lombardo). Fu chiamato doctor planus e doctor utilis: il suo stile piano, lungi dall’essere povertà, ci evita di inciampare, la sua utilità è poliedrica. È come se le sue postille togliessero la ruggine o i detriti sedimentati sopra il testo, o rimuovessero le squame dagli occhi dei lettori. Egli inaugura ed instaura un nuovo modo di leggere e comprendere l’Antico Testamento. A partire da Nicola, è raro trovare un commentatore che si sente dispensato dall’analisi del senso letterale di un testo. Le Postillae riscossero una grande accoglienza, insieme alle 1100 «aggiunte» critiche dell’ebreo convertito Paolo di Burgos e le 400 «repliche» del francescano Mattia Döring. Della seconda metà del XIV secolo si conservano oltre 700 copie integre o parziali. L’opera fu stampata per la prima volta nel 1471; nel corso del XVI secolo raggiunse le oltre 140 edizioni. Per più di tre secoli fu l’opera biblica più usata. L’influsso delle Postillae cessò di essere così esclusivo agli inizi del XVI secolo, che conobbe altre opere originali di grammatica e lessicografia. 2. XV secolo Del secolo XV, nel Nomenclator di Hurter contiamo sette autori: Michael Ayguanus (Angrianus) (1320 ca.-1400) Giovanni di Torquemada (1388-1468) Enrico di Loe († 1481) Giovanni di Waldheim († 1482) Giacomo Pérez di Valencia († 1490) Tommaso di Oppenheim († 1493) Tommaso Schifaldis († 1495) Il commento di Ayguanus, la cui datazione apre il campo a congetture, riscosse diversi giudizi favorevoli della critica posteriore; tuttavia, continuò ad essere dato alle stampe, molte volte senza il nome dell’autore. Presenta con sobrietà il senso letterale. L’opera di Torquemada (da non confondere con l’omonimo inquisitore, suo nipote) raggiunse un buon numero di edizioni (1470, 1474, 1476, 1485, 1513, 1524, ecc.) ed adempie soprattutto un compito di trasmissione, poiché il suo commento è in gran parte copia o sunto di Girolamo, Agostino, Cassiodoro e Remigio. Se ricordiamo che Girolamo è un traduttore e un divulgatore che rielabora Origene e che Cassiodoro è il grande collettore del VI secolo, vediamo che Torquemada ripete a distanza questa funzione di catena di trasmissione. Il più importante in questo secolo è senza dubbio Pérez di Valencia. Il suo commento fu pubblicato a Valencia nel 1484 e nel 1493, a Parigi nel 1509 e nel 1518, a Lione nel 1499 e nel 1514, a Venezia nel 1526 e nel 1586, ecc. Segue Nicola di Lira per la sua esegesi letterale: presenta il quadruplice senso tradizionale (storico, allegorico, tropologico ed anagogico) con una grande ricchezza di pensiero e chiarezza di esposizione, nonostante qualche prolissità. Non è esagerato affermare che, con Pérez di Valencia, si inaugura il grande secolo di splendore dell’esegesi. Se il rigido confine delle date non si interponesse, collocheremmo la data del 1490 nella prossima sezione. Accettando la tirannia delle date, potremmo dire che il 1490 segna una vigilia solenne di un secolo solenne 3. XVI e XVII secolo: l’esegesi cattolica Durante il XVI secolo si consuma il dramma della divisione della cristianità d’Occidente nel duplice movimento, contrastato e polemico, che prende il nome di Riforma e Controriforma. Non dimentichiamo il precedente ed intenso movimento spirituale, denominato da una certa storiografia «Preriforma», che si fa sentire in tutta l’Europa verso la fine del XV secolo e gli inizi del XVI. Nel campo biblico il fenomeno è chiaro. Lo studio delle lingue bibliche, i lavori sul testo e le traduzioni, la fondazione dell’università di Alcalà, quell’opera importante e sorprendente che è la Poliglotta di Alcalà, sono alcuni segni cospicui. 156 Storia dell’interpretazione dei Salmi Il movimento è tanto più vigoroso ed unitario, di quanto sia meno decisiva la divisione in esegesi tra cattolici e protestanti. Se non si tocca una questione teologica controversa, l’esegesi cattolica e quella protestante di un salmo non sono così diverse. Lutero è debitore a Nicola di Lira e cristologico al pari di uno qualsiasi degli esegeti cattolici. Forse lo sviluppo di una teologia specificamente di controversia fu un vantaggio, perché sgombrò da polemica, anche se non completamente, il campo dell’esegesi. È ancora da farsi, e sarebbe interessante e proficuo, un lavoro che metta a raffronto gli esegeti cattolici e protestanti del XVI secolo e della metà del XVII. L’esegesi dei salmi potrebbe essere un ottimo banco di prova, perché si continuò a pregare il salterio in ambedue le parti della cristianità divisa e non v’è dubbio che molte preghiere pronunciate così, con parole ispirate, furono accolte da Dio senza distinzione di persone. Se l’Alto Medioevo fu dominato da monaci e da vescovi, il periodo che va dal XVI al XVII secolo, come quello precedente, conobbe l’egemonia dei professori universitari. Il carattere universitario dell’esegesi non annullò, né attenuò, l’ansia pastorale e la preoccupazione spirituale: impresse loro soltanto un sigillo nuovo, più speculativo, più colto. La maggior parte dei capi spirituali dell’epoca ricevette la sua formazione in università e collegi. Predicatori come Alonso de Cabrera, maestri spirituali come Giovanni de los Angeles, poeti come Lope de Vega e Giovanni della Croce si formarono in aule universitarie o si ispirarono a libri di esegesi universitaria. Sebbene il metodo non sia cambiato radicalmente, questo periodo conosce il perfezionamento estremamente notevole degli strumenti di lavoro; grazie all’invenzione della stampa, dizionari, grammatiche, testi in varie lingue, nuove traduzioni latine dall’ebraico e dal greco, enciclopedie sulle antichità bibliche, concordanze, diventano più accessibili e consultabili. La stampa avvicina e diffonde opere un tempo quasi inaccessibili, propaga con rapidità quelle nuove per tutta l’Europa e il nuovo mondo, in quella lingua franca che è il latino. I tipografi dell’epoca, ammirabili nell’arte di comporre e distribuire il testo in colonne e note marginali, non meritano la stessa ammirazione per la loro capacità di riprodurre testi ebraici e greci. Con moltissima ed allarmante frequenza, ricadono negli stessi errori di confondere le lettere degli alfabeti non latini. Si continua a commentare sulla scia del quadruplice senso o di altri equivalenti, un po’ meno per quaestiones. La Scolastica continua a essere presente e non scompaiono gli allegorismi concettuali: così il cardinal Bellarmino commenta il cedro del Libano di Sal 92,13: «Moltiplicati i rami delle buone opere, appoggiati su salde radici di perseveranza, non li abbatterà nessun vento di tentazioni. Finalmente, saranno utili per decorare, come pannelli di cedro, il soffitto a cassettoni del Re dei re, nella Gerusalemme celeste». In questo contesto globale, germina e si sviluppa una fioritura esegetica, all’interno della quale dobbiamo contemplare l’esegesi dei salmi. È raro l’esegeta o il commentatore che non si attenga in qualche maniera al senso letterale, fondato sul testo ebraico. Anche dopo il decreto Tridentino sulla Vulgata, l’esegeta consulta, se può, l’originale ebraico ed espone il suo senso. Alcuni autori si sforzano nel concordare ed armonizzare il latino con l’ebraico, anche a prezzo di ingegnose acrobazie. Non manca chi scende in campo a difendere la superiorità del testo latino (riscuote un enorme favore s. Girolamo, come testimonia anche la pittura e la scultura dell’epoca). Grazie all’affermazione incontrastata e all’invasione pacifica dello studio del senso letterale, un principio, dapprima più dichiarato che praticato, può dar origine ad una sintesi nuova: historia est fundamentum. Questo significa che il senso letterale è la base del senso spirituale. Inoltre, le quaestiones vengono normalmente risolte ricorrendo allo stesso senso letterale, metodo che preconizzava già s. Tommaso. Cominciamo la rassegna degli autori e delle opere di questo periodo con le catene. Spiccano fra tutte quella dei Padri greci tradotti in latino compilata da Daniele Barbaro († 1587) e pubblicata nel 1572. Baldassarre Corderius (Cordier, 1582-1650) compilò una catena greca, Storia dell’interpretazione dei Salmi 157 pubblicata nel 1630. Di minore importanza è la catena o compilazione di F. Dupuy († 1521) pubblicata nel 151017. Per il testo e le versioni, basta menzionare due autori. Giovanni Pocken pubblicò nel 1518 un salterio quadrilingue, in ebraico, greco, latino ed aramaico (o caldaico, come si diceva allora), in anticipo sulla data di pubblicazione, ma non nel lavoro di preparazione, della Poliglotta di Alcalà. Un’opera che spicca fra tutte per la sua poderosa erudizione è la Ottapla di Agostino Giustiniani (1536), che offre in otto colonne il testo ebraico, il greco della LXX, la Vulgata, l’aramaico, l’arabo e tre versioni latine di quelle anteriori. Alcuni autori commentano i salmi come parte di un commentario completo alla Scrittura o all’Antico Testamento. In tal caso il commentario può essere breve, a guisa di note o scholia. Oggi lo chiameremmo manuale: nella sua epoca svolse una funzione equivalente. Un enorme successo riscosse quello di F. Titelmans, Elucidationes in Psalterium, Paris 1545, riedito, letto e citato come autorità con notevole frequenza. La sua esegesi trionfa nella parafrasi descrittiva o retorica del testo, allora molto in auge, secondo i gusti dell’epoca. Ecco, per esempio, il commento al Sal 75,9: «Nella mano del Signore è un calice ricolmo di vino drogato» «La concessione di una degna retribuzione, la distribuzione di un salario meritato, stanno nella mano del Giudice, come una coppa sta nella mano di un uomo; una coppa ricolma di vino inebriante e non potabile, mescolato a feccia ed impurità, tutto torbido di fondi, a tal punto che dà nausea in chi lo beve. È la coppa dell’ira e della collera di Dio onnipotente, che contiene il castigo più amaro, il giudizio più insopportabile che è come vino ad alta gradazione, inebriante, amarissimo, torbido di feccia, impossibile a bersi». Simile in autorità, un po’ inferiore quanto al numero delle edizioni, fu l’opera di F. Vatablus (=Watebled), scritta in forma di scolii (l’edizione più valida è la seconda, del 1584). Un altro autore, Manuel Sa compose un prontuario breve, preciso, nel quale affrontava specialmente la discussione di passi difficili. La sua opera continuò ad essere pubblicata per tutto il XVII secolo. Meno conosciuto è il commentario a modo di glosse di Giovanni de Mariana. Di Tommaso di Maluenda parleremo più avanti. Del XVII secolo segnaliamo come eminenti A. Alleret, J. Gordon, J. S. Menochio, J. Tirino e L. I. Le Maître de Saci. J. de la Haye pubblicò la sua Biblia Magna nel 1643 e la sua Biblia Maxima nel 1660: opera fondamentalmente di compilazione, con note di erudizione. È strano che nell’opera magna di Cornelio a Lapide manchi proprio un commento ai salmi. Alcuni commentatori meritano una speciale menzione per l’attenzione dedicata all’ebraico e al senso letterale. Iniziamo con Ottmar Luscinius (Nachtigall), che dedicò tre opere al salterio: una versione dall’ebraico e dal greco, corredata da succinte note di tipo morale, una versione in tedesco, alcuni compendi. Sulla sua scia Agazio di Giudici, professore di ebraico, che traduce dall’ebraico e commenta i Sal 1-24 (1540). Felice da Prato, rabbino convertito, realizza una traduzione letterale dall’ebraico. Mathias Bredenbach segue fedelmente il testo originale ebraico, tenendo conto delle antiche versioni. In pieno XVII secolo, in polemica con la tendenza che privilegia la Vulgata, spicca la personalità di S. de Muis, autore che si concentra sul senso storico e letterale, accordando la sua preferenza quasi esclusiva ad autori rabbinici. Tommaso di Maluenda, domenicano (1566-1628), è un caso speciale. Prima di tutto occorre rettificare il suo nome, solitamente storpiato in Malvenda (Maluenda è un villaggio vicino Calatayud). Autodidatta, nella sua fervida attività interrotta solo dalla morte, scrisse commentari a quasi tutta la Bibbia (5 volumi in folio), in cui si compiace nel raccogliere e moltiplicare le traduzioni possibili di parole ed espressioni ebraiche. Non è chiaro se per sfoggio di erudizione o per il fatto che egli non si pronunci per qualcuna in particolare, o perché si presenti come un precursore inconsapevole della teoria della polisemia o del testo aperto. Offriamo un esempio del tipo di commento che fa Tommaso, vale la pena leggerlo più ampiamente: Sal 104,15: «Per far brillare il volto con l’olio». Il verbo ßāhal qui all’hiphil si legge soltanto all’infinitivo: lo rendono in vari modi. I. Per far brillare i volti con l’olio. II. Per rendere mondo, ossia 17 Cfr. R. DEVREESSE, Chaînes exégétiques gresques, in DBS 1 (1928) 1114-1140 (sotto la voce Psaumes). 158 Storia dell’interpretazione dei Salmi splendente, il volto per l’olio [min comparativo]... IV. Per far sì che risplenda il volto per l’olio... VI. Propriamente, per far nitrire i volti dall’olio; cioè affinché i volti impregnati di olio per lo splendore e la gioia sembrassero gridare e gesticolare sfacciatamente e lascivamente: metafora. Acutamente Forsterus congettura che forse lehaßhîl sta al posto di lehaßhîr... come se dicessi, per oleificare i volti dell’olio. Altri rendono così questo verso allo scopo di evidenziarne la limpidezza...». Per riassumere: fornisce tre traduzioni del verbo ebraico: rallegrare, risplendere, nitrire. Due traduzioni della preposizione: causale e comparativa. Conclude il verso la versione di Buchanan dei vv. 14-15 in tre esametri latini. Quanto al valore dei commentari, meritano una menzione di onore quattro autori, che sanno integrare buona conoscenza delle lingue, interpretazioni dei molteplici sensi, tradizione e originalità. Si tratta di Cornelio Giansenio, Gilbertus Genebrardus, che abbina tradizione rabbinica e tradizione patristica, Antonio Agellio acuto, sicuro e brillante nelle spiegazioni, e la monumentale opera di J. Lorinus (Jean de Lorin 1559-1634). Ci soffermeremo di più su quest’ultimo, perché nell’attività di questo gesuita, esegeta e teologo, vissuto a Roma, Parigi, Milano, dove insegnò, confluiscono molte opere e tendenze precedenti. Il suo commentario è un’opera poderosa, ricca, prolissa, fatta più per la consultazione che per una lettura continua. La consultazione è alquanto facilitata dalla catena di informazioni o riferimenti marginali al lato delle pagine, che indicano temi ed autori. L’introduzione, in 17 paragrafi, mostra l’ampio respiro degli interessi dell’autore. Il commento di ogni salmo procede con diffusa ampiezza e si compiace nell’abbondanza del materiale. Prima espone il titolo. Per secondo l’argomento, riportando le varie proposte e le auctoritates: senso storico, Davide; o profetico del popolo, ad esempio l’esilio; o messianico nell’attesa di Israele; o di Cristo, la Chiesa e del singolo fedele; per questa vita e per quella futura. Per terzo, viene l’analisi e lo studio di ogni versetto. Ogni verso merita un’ampia parafrasi che amplifica e mostra l’inserimento e la funzione nello sviluppo. C’è l’esposizione del senso letterale sulla base dell’originale ebraico, o greco e anche latino, con l’appoggio delle varie auctoritates, in particolare di Nicola di Lira. Presenta poi altri sensi (per sensus), allegando abbondanti citazioni dei Padri o di altri, sottoposte ad un vaglio critico. A mo’ di excursus può trattare la teologia che soggiace ad un termine come luce, verità, o ad un tema squisitamente di erudizione. Se si presenta un problema (quaestio), viene discusso. Il commento ad ogni verso occupa ordinariamente poco più di una pagina in folio a due colonne. Secondo il costume dell’epoca, il commentario ai salmi di Lorinus è tutta una biblioteca sacra, con digressioni profane. Tuttavia ci fu chi lo superò, se non nel valore, almeno per l’ampiezza: in pieno XVII secolo, Tommaso Le Blanc, ha la bizzarra idea di comporre un commentario in 6 volumi. Nella seconda metà del XVII secolo questo fervore creativo sembra affievolirsi e comincia un periodo di decadenza. Proprio al tramonto del secolo, ricordiamo C. Bossuet (1627-1704), che preparò per il clero della sua diocesi di Meaux un Liber Psalmorum (1690) seguito da alcune Notae in Psalmos (Lyon 1691). 4. XVI-XVII secolo: l’esegesi protestante È logico che il movimento della Riforma protestante abbia dato un notevole impulso all’uso dei salmi nella pietà dei suoi seguaci. I suoi principali capi ed ispiratori scrissero subito dei commenti ai salmi. Lutero nella sua Auslegung der Psalmen (1525) continua con talento ed intelligenza originali la lettura cristologica dei salmi; ciò che fa raccomandare i suoi commenti, non è tanto la novità di principi o metodi ermeneutici, quanto la loro qualità; per il senso letterale, Lutero preferisce Girolamo e Nicola di Lira. Calvino si attiene di più al senso storico-letterale, la sua attitudine è più intellettuale, a giudicare dalle citazioni degli autori moderni, il suo commento (Commentarii in Psalmos) è uno dei più durevoli della Riforma. Zwingli compose soltanto un Enchiridion. Storia dell’interpretazione dei Salmi 159 La Riforma non produce nei primi secoli commenti paragonabili per erudizione a quelli di Genebrardus, Maluenda o Lorinus. Si concentra piuttosto su alcuni autori riconosciuti di cui si moltiplicano le edizioni. Pescatore (Johann Piscator o Fisher 1546-1625), teologo calvinista, espone in ogni salmo una analysis o argomento per sezioni e genere, scolii che spiegano i passi difficili, osservazioni teologiche e pastorali. I generi che egli trova sono undici, secondo una denominazione latina: didascalici, epaenetici (di lode), eucharistici, gloriabundi, contestativi, epangeletici, paraenetici, confessorii, querulativi, euctici (di supplica), consolatorii. Matteo Polo (Mattheus Polus, Pole) raccoglie le opinioni di autori diversi, includendo nella sua silloge santi Padri ed alcuni autori cattolici. I suoi preferiti sembrano essere Cocceius (Johannes Koch, 1603-1669), ritenuto caposcuola dei «figuristi», Simeon Marotte de la Muis (1587-1644), versatissimo nell’ebraico biblico e rabbinico, Moller e Geier. Polus discute il senso letterale, parola per parola. Dobbiamo usare l’edizione emendata di Frankfurt (1712). Con Pole possiamo comodamente chiudere un’epoca. 5. XVIII secolo Accettando le frontiere artificiali di cento anni, questo secolo ci si presenta come un’epoca di transizione: nascono e maturano i primi germi di un grande movimento critico e, nel contempo, assistiamo ai prodromi di un certo avvicinamento e convergenza tra le diverse confessioni. A metà secolo, si danno appuntamento tre eventi. Il vescovo anglicano Robert Lowth (1710-1787) pubblica in latino il suo studio sulla poesia ebraica De sacra poësi hebraeorum (1753), aprendo la strada all’apprezzamento e allo studio letterario della Bibbia; nel libro, i salmi occupano un posto importante. Il medico francese di origine catalana Jean Astruc (1684-1766) (si ricordi il medievale Bonastruc Saporta) pubblica anonimamente nel 1753 uno studio sul Pentateuco, aprendo la strada all’analisi delle fonti. C. F. Houbigant (1686-1783), oratoriano, orientalista, pubblica la sua edizione critica della Bibbia18. Nel libro di Lowth, a parte numerosi riferimenti, i salmi occupano quasi interamente le prae-lectiones XXV-XXIX. Ogni praelectio si chiude con una traduzione in versi latini (esametri, anapesti, coriambi, strofa alcaica). Fra i cattolici persiste la tradizione; solo che il lavoro scientifico sembra aver ceduto il posto ad opere di pietà e di divulgazione. Questo significa che, nell’ambito della innegabile decadenza degli studi biblici, specialmente nei paesi latini, i salmi continuano ad alimentare la pietà cristiana. Vengono tradotti dall’ebraico: M. F. Dantine (Parigi 1739). Oppure si commenta la Vulgata. Oppure si parafrasano in francese: C. L. Dugard (Parigi 1754). Con note brevi o ridondanti, di cui si può avere idea leggendo un paio di titoli: F. BELLENGER, Liber Psalmorum Vulgatae editionis cum notis, in quibus titulus, occasio, argumentum cuiusque psalmi, sensus litterales mysticus etc., explicatur, Parigi 1727. A. KALKSTEIN, Elucubrationes litterales, allegoricae, morales et anagogicae in totam S. Scripturam, Breslavia 1727-1754. Il più notevole e di maggior influsso per la sua concentrazione sul senso letterale, fu quello di A. Calmet (1672-1757), che costituisce parte della sua opera La Bible en latin et en français (1707-1716). Da parte protestante ebbe una particolare accoglienza il commento in forma di note sul senso letterale di J. D. Michaelis (1771). Verso la fine del secolo, il nuovo movimento critico biblico si compendia nella famosa introduzione di Eichorn e nei lavori di Semler. 18 Nel 1751 il fiorentino Antonio Casini aveva pubblicato il suo libro De divina poësi sive de psalmis, canticis deque omni re poetica S. Scripturae, opera che però non ebbe successo. 160 Storia dell’interpretazione dei Salmi Nel campo dell’esegesi ebraica, c’è da segnalare la corrente di rinnovamento di Mosè Mendelssohn (1729-1786) che, grazie alla sua formazione filosofica aperta alle correnti di pensiero contemporanee, si fa campione dell’Haskalah (Illuminismo ebraico) della apertura e dell’interscambio culturale tra la cultura ebraica e la cultura moderna cominciando dal campo degli studi della Bibbia. La sua traduzione tedesca dei salmi costituì la base di alcuni commentari. Influenzato da Lowth ed Herder, sottolineò l’importanza lirica dei salmi come pura espressione di poesia, liberata da tutti quei significati teologici e mistici soverchi in taluni interpreti cristiani ed ebrei e rivalutò l’indagine grammaticale. VIII. L’EPOCA CRITICA FINO A GUNKEL Man mano che ci avviciniamo alla nostra epoca, diventa meno indispensabile tracciare un quadro generale dei movimenti e delle correnti di pensiero. Sappiamo cosa fu e rappresentò l’Illuminismo, la sua potenza rinnovatrice, la congerie crescente di scoperte, i fermenti e le idee di un ottimismo critico, la Weltanschauung che ha creato e che ci ha lasciato come retaggio culturale. La nostra scienza biblica attuale, vive nell’epoca critica inaugurata dai pionieri del XVIII secolo. Il XIX secolo è un periodo di splendore dell’esegesi critica, preparata dagli studi grammaticali e lessicografici di Gesenius ed Ewald. In Italia G. B. De Rossi pubblica I Salmi di Davide tradotti dal testo originale (1808), corredati di brevissime note. Nel 1816 apparve il Salterio ebraico italianizzato, versificato da G. Gazola sulla italianizzazione dell’abate G. Venturi. La ricerca si sviluppa al ritmo dell’epoca ed oggi può sembrarci lento. Per la stragrande maggioranza, gli studiosi di una certa originalità e i ricercatori creativi sono protestanti. I cattolici, con rare eccezioni, sembrano arroccati, se non ripiegati, su posizioni apologetiche, ancora diffidenti verso molte istanze filosofiche che di fatto ispiravano la ricerca biblica. Cominciamo con F. C. Rosenmüller (1821) e W. M. L. de Wette (1811). Il primo prende in esame, più tradizionalmente, l’origine, la cronologia, gli autori, le collezioni e la divisione, il numero e i titoli dei salmi. Il secondo allarga lo sguardo nel suo Kommentar über die Psalmen (1823): 1. Stile poetico e contenuto: antologia di poemi lirici, tipi o generi poetici. 2. Origine e formazione della lirica ebraica: Davide e Samuele. 3. Autori dei salmi. 4. Originalità ed imitazione, opere antiche e tardive. 5. Collezione e divisione. 6. Titoli. 7. Ritmo e musica. Il verso ebraico, il parallelismo, la sonorità, altri ricorsi poetici. 8. Interpretazione storica: circostanze, situazione. L’influsso di Lowth e di Herder è evidente. È curioso osservare come ritornano in una impostazione ed una prospettiva nuove i problemi che Atanasio già affrontava nella sua Epistola a Marcellino. Lo studio storico-critico domina il commentario e questo sarà una costante negli autori successivi. L’attenzione prestata agli aspetti letterari eserciterà un influsso su alcuni autori posteriori. H. Ewald (1826) è importante per i suoi contributi agli studi della grammatica ebraica. E. W. Hengstenberg (1842-1847) si distingue per il suo studio dell’unità e dello sviluppo di ogni salmo. G. Phillips (1849) si dimostra un eccellente filologo. J. Olshausen (1853) si rese famoso e fu contestato per la sua datazione, che ascriveva quasi tutto il salterio all’epoca maccabaica. Anche J. Wellhausen e B. Duhm (1899) situavano il salterio tra i prodotti del tardo giudaismo, in particolare dell’epoca maccabaica. Famosa resta la frase di Wellhausen: «Non si tratta di sapere se il salterio contiene salmi posteriori all’esilio babilonese, ma se ne contiene di anteriori». In ambito cattolico, proliferano i commenti di tipo devozionale o di divulgazione, come nel secolo precedente, fra i quali spicca l’opera in vari volumi di M. Wolter (18681890). Fra i commenti scientifici, menzioneremo quello di Schegg (1845-1847), di G. C. Reischl (1873) e di H. Lesêtre (1886). Storia dell’interpretazione dei Salmi 161 In ambito italiano, l’unico commento di un certo rilievo è quello dell’erudito esegeta F. S. Patrizi, Cento salmi tradotti letteralmente dal testo ebraico e commentati (in folio), Roma 1875, con una introduzione al salterio ed una traduzione che conserva, con soverchio letteralismo in italiano, la costruzione ebraica. Di minor importanza, i commenti di C. M. Curci (1883) e R. A. Franchini, quest’ultimo moraleggiante (1889). Ricordiamo di passaggio anche la versione dei salmi in veneziano, con parafrasi di L. C. Borghi (1889), in siciliano di F. Arceri (1896). La versione più pregevole, direttamente sul testo ebraico con versione e note fu quella di S. Menocchi (1895). Nel campo dell’esegesi ebraica, dobbiamo segnalare H. Graetz (Breslavia 1882-1883), S. R. Hirsch (Francoforte 1883), A. B. Erlich (1905), J. Nobel (1911) ed il commento in ebraico di Z. P. Chaiess, inserito nella Bibbia di A. Kahana (1904-1930). A questo punto affideremo il compito di rappresentare questa epoca al più insigne dei protestanti, F. Delitzsch e ad uno dei commentatori cattolici più significativi, H. Lesêtre. Il secondo ci fa conoscere i suoi problemi e i suoi interessi in una diffusa introduzione di 92 pagine: A parte le questioni risapute, come storia, titoli ecc., vale la pena mettere in rilievo alcuni punti. Ci offre una breve storia di commentari, con nomi e critica. Studia le origini della poesia ebraica: le attitudini poetiche del popolo ebraico e della lingua ebraica. Descrive alcuni ricorsi poetici principali e parla della esecuzione musicale. Distingue i generi seguenti: salmi di adorazione, di ringraziamento, di petizione, penitenziali, didattici, storici, liturgici, messianici, di ascensione. Termina con una sintesi della dottrina e della morale che si trovano nel corpo del salterio Franz Delitzsch è uno dei più grandi commentatori dei salmi di tutte le epoche. A distanza di un secolo e mezzo, la lettura della sua opera può, o dovrebbe essere interessante e proficua. La relativa introduzione ci darà un saggio del respiro e dell’ampiezza della sua visione, dei suoi interessi e dei suoi obiettivi di ricerca privilegiati: 1. Collocazione del salterio tra gli agiografi o ketûbîm, in particolare fra i libri poetici. 2. Nome del salterio. 3. Storia della composizione dei salmi. La poesia ebraica comincia con Mosè che compose un inno, Es 15, una elegia, Sal 90, ed un poema profetico-didattico, Dt 32. Giunge alla maturità con Davide: prima di essere unto, compose i Sal 8 e 144; in seguito i salmi che gli sono attribuiti ed altri ancora. Descrizione dello stile poetico di Davide. Con Salomone comincia la decadenza, nella quale si salvano Giosafat ed Ezechia. Subentra un periodo caratterizzato da imitazioni, fino all’esilio: alla poesia subentra la profezia. Ci sono salmi maccabaici? Non è impossibile, però sembra improbabile. 4. Origine della collezione, data, limite. 5. Distribuzione e titoli; relazioni tematiche; collezioni compilate secondo criteri eterogenei. 6. Metrica: metro, ritmo, rima, parallelismo, strofa. Musica del tempio e salmodia: testimoni. 8. Traduzioni. 9. Storia dell’interpretazione. 10. Osservazioni teologiche preliminari. Senso messianico. Nel suo commento Delitzsch abbina la perizia del filologo consumato all’intuito dell’afflato e dei contenuti spirituali. È erudito, ma al tempo stesso uomo di preghiera, senza sbavature o forzature. La sua ricostruzione storica è oggi insostenibile per la sua mancanza di atteggiamento critico; non realizzò neppure lo studio dei generi. Delitzsch e Lesêtre condividono un interesse che è decaduto e di cui non si trova traccia nei commentari recenti: la storia dell’interpretazione. Curiosamente, in nome del metodo storico-critico, abbiamo messo alla porta, senza un’autentica critica, tutta la storia che è trascorsa fra i salmi e noi. Le storie dell’interpretazione delineate da H. Lesêtre e da F. Delitzsch sono superficiali, sbrigative, forse troppo sommarie; Delitzsch, ad esempio, non ha saputo liberarsi dalle pastoie di certi pregiudizi. Nel 1926 a Göttingen, un solitario maestro dell’esegesi tedesca, dava alle stampe il suo commento sui salmi, seguito dall’incompiuta Einleitung in die Psalmen (1928-1933, completata da J. Begrich). Questo maestro si chiama H. Gunkel (1862-1932). Con lui si inaugura una nuova e decisiva tappa nella storia dell’interpretazione, la nostra. 162 Storia dell’interpretazione dei Salmi IX. GUNKEL: OPERA E INFLUSSO 1. Hermann Gunkel Trascinandosi dietro un retaggio di romanticismo tardivo, Hermann Gunkel aspirava a penetrare nella mente dell’autore per immedesimarsi in lui. Intendeva arrivare all’esperienza religiosa originale dell’autore passando attraverso la catalogazione e descrizione dei generi letterari adottati dall’autore stesso. In questo modo combinava l’aspetto psicologico con quello oggettivo o testuale. Sosteneva che gli antichi erano maggiormente legati alle convenzioni di stile, fra le quali occupava un posto di primo piano la forma tipica o «genere letterario», convenzione sociale ed artistica. Di propria iniziativa, Gunkel introduce nel suo programma un concetto nuovo, inedito nella scienza esegetica a lui contemporanea: il contesto vitale o situazione (Sitz im Leben) di origine ed uso, che per i salmi era normalmente il culto comunitario o almeno pubblico. In questo modo ai fattori psicologico e testuale si aggiungeva il fattore sociale della situazione o contesto. Dei generi o forme, catalogati secondo temi o affetti e sentimenti, si erano già occupati antichi e moderni. Fra questi si è soliti citare de Wette, Tholuck, Hupfeld, Buhl. La novità del metodo morfocritico di H. Gunkel è consistita nel far assurgere ciò a un principio sistematico di interpretazione. Anche gli antichi avevano fatto riferimento al culto, e la prassi della Chiesa manteneva viva la tradizione millenaria. Gunkel riconquistò per i salmi il culto come contesto vitale per cui erano destinati ed eseguiti. Mediante l’idea di forma ripetibile, di brano di repertorio, Gunkel si allontanava dalla spiegazione storica di moltissimi esegeti. Grazie al recupero del culto, si metteva contro una potente corrente protestante. Gunkel definiva il genere letterario attraverso un tema peculiare, uno schema o modello proprio, ed alcuni procedimenti stilistici caratteristici. Il tema si articolava in motivi letterari, che consentivano l’accesso al mondo spirituale del salmo e del genere (Welt der Frömmigkeit). Fedele all’orientamento storico della scienza a lui contemporanea, dal momento che non poteva contestualizzare ogni salmo nella storia di Davide o di Israele, si accinse all’opera di comporre una storia dei generi, per cui stabilì uno schema fisso di evoluzione. Il genere nasce come forma pura e semplice, si sviluppa poi per addizione o sottrazione di elementi, per divisione e contaminazione, fino a che il genere si dissolve. Il suo schema storico non era un risultato cui era pervenuto per induzione, ma una ipotesi fabbricata a priori, praticamente impossibile da verificare. Il vasto programma di Gunkel trovò la sua applicazione più coerente e felice nello studio del salterio, Die Psalmen, Göttingen 1926. I suoi sforzi si coagularono in un’opera postuma, pubblicata dal suo discepolo J. Begrich. La sua Einleitung in die Psalmen (1933; 21966) è oggi un classico indispensabile della nostra scienza esegetica19. 2. Influsso immediato Ben pochi si chiusero al suo metodo, anche se restarono alcuni focolai isolati di resistenza, che non si allearono in un fronte unitario20. La stragrande maggioranza dei commentatori ha seguito Gunkel, ripetendo o prolungando il suo programma. Con l’opera di Gunkel si apre una nuova e feconda era. Intendiamo mostrarne la novità mettendo a confronto due autori di spicco, che si segnalano prima e dopo Gunkel. A distanza di un secolo emergono e si distinguono due commenti influenti: nel 1859-1860 F. Delitzsch pubblicava la prima edizione del suo commento; nel 1960 19 Trad. ingl. di J. D. Nogalski, Introduction to the Psalms: The Genres of the Religious Lyric of Israel, Macon, GA, 1998. Si può consultare W. KLATT, Hermann Gunkel. Zu einer Theologie der Religiongeschichte und zur Entstehung der formgeschichtlichen Methode (FRLANT 100), Göttingen 1969. 20 E. König ebbe appena il tempo per conoscere o assimilare il nuovo metodo. Ricordiamo J. Calès, H. Erkenne, M. Buttenwieser, B. D. Eerdmans, M. Dahood. Storia dell’interpretazione dei Salmi 163 J. Kraus pubblicava la sua21. Le loro rispettive introduzioni costituiscono un terreno adatto per il confronto. Per Delitzsch si veda più sopra il riassunto della sua introduzione. Ci limitiamo a ricordare ciò che dice su Mosè, Davide e la monarchia fino all’esilio. Kraus, dopo aver trattato i temi tradizionali come testo, titolo, collezioni, generi, stile, ecc., abborda nel paragrafo 7 il problema della storia: la relazione dei salmi con la storia di Israele non è immediata né lineare: non è sufficiente il culto come unico denominatore. Datazione e la storia dei salmi: la lingua, lo stile ed alcune allusioni storiche possono orientare; tuttavia fanno difficoltà la datazione e la ripetizione convenzionale di temi e formule, gli adattamenti e le attualizzazioni. Come destinazione indica il culto ed anche la pietà individuale. Termina con un paragrafo sulla teologia dei salmi22. Delitzsch e Kraus coincidono in alcune questioni tradizionali. L’ampio paragrafo descrittivo dei generi letterari non esisteva nell’opera di Delitzsch. Cambia notevolmente l’impostazione dell’analisi storica. Delitzsch ricostruiva una storia della letteratura salmica per epoche, stabilendo gli autori e definendo congiunture storiche in cui ogni composizione era sorta. Kraus riconosce nei salmi una qualche relazione con la storia: puntuale in pochi casi, normalmente generica. Si chiede piuttosto dove sorga e si trasmetta il salmo, quale destinazione abbia. L’ordine o il genere stabilito conta più dell’individualità del poeta, la destinazione condiziona l’origine. Come si vede, per l’impatto della teoria del contesto vitale, si è spostata la focalizzazione dello studio storico. Non meno profonda è la differenza nel paragrafo sulla teologia dei salmi. Delitzsch si interroga sul senso cristiano dei salmi; in seguito su un tema squisitamente protestante, la giustificazione per fede; infine su due temi genericamente cristiani, come l’amore verso i nemici e la vita futura. Kraus incentra la sua esposizione su due dati correlativi: la presenza del Signore in Sion, nel tempio, e la comunità che si rivolge a Lui per lodarlo, supplicarlo, per affrontare dinanzi a lui i grandi problemi dell’esistenza umana. In Kraus è scomparso il riferimento al senso cristiano così come la storia dell’interpretazione. Non si imposta neppure il problema dell’appropriazione. In un secolo di studio, non tutto si è rivelato un guadagno. 3. I salmi e la storia Nell’instaurare il contesto vitale, sociologico, ripetibile, Gunkel ha abolito la situazione o circostanza storica irripetibile. Il tema merita un breve sviluppo. Abbiamo visto che i titoli storici dei salmi erano un tentativo di storicizzarli, e come tali furono ricevuti dagli autori antichi e nel corso dei secoli occuparono un posto di primo piano nell’esegesi. Teodoro di Mopsuestia, che rifiutava i titoli storici tradizionali, li sostituiva con altri, farina del suo sacco, per un criterio di coerenza. Delitzsch tuttavia si aggrappava alla spiegazione storica dell’origine di ogni salmo e metteva al servizio di tale spiegazione la sua acutezza e la sua erudizione. Alla fine del secolo, corifeo di molti, Lesêtre tracciava in tre pagine un quadro cronologico di tutti i salmi, lasciando spazio a dubbi ed alternative. Se autori come Ewald, Hitzig e Cheyne si sforzavano di datare i salmi, Hupfeld e Smend si mostravano scettici o cauti: nel contempo, su un altro fronte si scatenava la battaglia sulla datazione maccabaica23. Caratteristica del fatto storico è la sua unicità, il suo essere irripetibile come tale. Se Davide ha composto un salmo mentre si nascondeva nella caverna di Adullam, il salmo non è stato composto da uno dei profeti jahvisti nascosti nelle caverne, di cui ci parla 1Re 18. Gli investigatori biblici, come Wellhausen, Olshausen ecc., che assegnano la maggior parte dei salmi al 21 H. J. KRAUS, Die Psalmen (BKAT XV/1.2), Neukirchen-Vluyn 1960. Tema al quale ha dedicato più tardi un intero volume, La teologia dei Salmi, Brescia 1989: l’edizione originale tedesca è del 1979. 23 Sul XIX secolo ci veda la sintesi informativa: Historical sketch of Psalms criticism, in J. ROBERTSON, The poetry and religion of the Psalms, Edinburgh-London 1898. 22 164 Storia dell’interpretazione dei Salmi periodo maccabaico, cercano nella storia dei Maccabei l’intersezione storica precisa dove è sorto il salmo che si vuole datare. Gunkel ha annullato il presupposto e lo ha sostituito con un altro. I salmi sorgono e si recitano in situazioni sociali tipiche, ripetibili. In questo caso non abbiamo a che fare con la persecuzione di Davide da parte di Saul, ma con la persecuzione di un qualsiasi innocente. Il tipico si contrappone all’unico: la tipicità all’irripetibilità. I salmi sono utilizzabili e adattabili fin dalla nascita e non per un adattamento successivo o avventizio. In questo senso Gunkel si oppone energicamente alla corrente storicizzante, ed ha ragione. Non c’è un adattamento: c’è un puro senso letterale secondo l’intenzione dell’autore. Allora lo studio storico è superfluo? Gunkel è fedele alla sua epoca e alla sua formazione, appartiene alla scuola della Religionsgeschichte. Per questo torna ad introdurre la critica storica da un’altra porta. Traccerà la storia di ogni genere letterario secondo un processo ed una traiettoria rigorosi. Il male è che, per tracciare la sua storia, Gunkel inventa come ipotesi lo schema di evoluzione. I critici letterari come Viëtor, Pesch ed altri che scrivono la storia dei generi letterari, operano induttivamente su testi previamente datati. La costruzione (non ricostruzione) storica di Gunkel è il tallone d’Achille del suo programma. È chiaro che la situazione sociale ripetibile ed il culto sono fatti storici, appartengono alla fenomenologia storica e religiosa di Israele, e in questo senso Gunkel non rinnega la critica storica. Negli ultimi decenni spunta un tentativo diverso di storicizzazione. Consiste nell’introduzione del fattore processo all’interno di salmi visti nella loro individualità. Secondo i sostenitori di questa teoria, il salmo non nasce come un’unità poetica in una circostanza irripetibile o tipica, ma i suoi versi nascono a mano a mano e attecchiscono ai precedenti in una successione di epoche o tappe storiche. Il salmo che oggi leggiamo può essere il prodotto di secoli, di apporti anonimi accumulatisi in un processo di sedimentazione. Come una cattedrale che conserva nelle linee e nelle pietre la testimonianza dei secoli di costruzione, i mutamenti e le differenze di artisti e di stili. Che alcuni salmi si prestarono ad attualizzazioni, che ricevettero aggiunte a seconda delle situazioni, è una ipotesi plausibile, che si conferma in un’analisi senza pregiudizi (ad es. Sal 2; 14; 51). La teoria cui facciamo riferimento non si limita a riconoscere casi isolati, ma li eleva a principio generale, a criterio che orienta e guida l’investigazione esegetica. Prima ipotesi: supponiamo che all’inizio i poeti compongano con estremo nitore e rigore, nel pieno rispetto dei canoni convenzionali, secondo esigenze dell’uso liturgico e della pietà. Ne consegue che il salmo che ora stiamo esaminando non riproduce questo profilo puro e semplice: segno che questo salmo ha patito elaborazioni di varia portata e in tappe scaglionate. Come investigatori, è nostro compito identificare i brani avventizi, attribuire ad ognuno la sua epoca ed il suo motivo di composizione, per isolare alla fine il suo antico nucleo originario (se fortunatamente si conserva nella sua integrità). In un caso contrario – seconda ipotesi – supponiamo che i poeti compongano con maggiore libertà e con maggior o minore talento, che la vita, anche quella del culto, sia meno lineare e differenziata e che le convenzioni poetiche siano più flessibili o meno rigide. In questo caso, i salmi che oggi leggiamo o studiamo, salvo eccezioni, si spiegano come opera di poeti ufficiali o privati. Come rappresentanti della prima ipotesi (di sedimentazione successiva) possiamo citare Beyerlin, Loretz e LipiÓski (che informa sul tema). Abbiamo parlato di due ipotesi che guidano la ricerca esegetica e l’investigazione scientifica dei salmi. La prima prende in considerazione precetti astratti e scuole anonime, la seconda accorda più importanza ai poeti (di cui sfortunatamente non conosciamo il nome). In teoria, l’esistenza della scuola x può essere tanto storica come l’esistenza del poeta y. Dobbiamo dire però, che la seconda ipotesi rispetta maggiormente i fatti e lavora meno con costruzioni speculative. Storia dell’interpretazione dei Salmi 165 4. Sigmund Mowinckel Con le sue due grandi opere, Psalmenstudien I-V, Oslo 1921-1924 e The Psalms in Israel’s worship I-II (traduzione riveduta di Offersang og Sangoffer, Oslo 1951), il norvegese S. Mowinckel (1884-1965) è la figura più importante dopo Gunkel. Dal maestro riprende come ineludibile lo studio tipologico e riafferma con energia il principio del radicamento cultico dei salmi. Polemizza contro coloro che sostengono una religione senza culto, puramente interiore; idea che «si fonda su una falsa concezione della religione e del culto». Le sue tesi, originali e formulate in modo radicale, hanno suscitato fino ad oggi vivaci e dure reazioni, ma hanno costretto gli studiosi a confrontarvisi. Per Gunkel, molti salmi sono nati nell’ambiente del culto. Mowinckel è più radicale: tutti i salmi hanno un Sitz im Leben cultuale, ad eccezione soltanto dei Sal 1; 112 e 127 (ai quali, nel corso delle sue pubblicazioni, Mowinckel sembra disposto ad aggiungere qualche altro salmo). La festa principale, nel quadro della quale va collocata la maggior parte dei salmi, è la festa del Nuovo Anno, nella quale si celebrava la intronizzazione di YHWH come re dell’universo. Tale festa non è mai menzionata nella Bibbia, ma Mowinckel suppone che anche gli Israeliti la celebrassero a somiglianza dei Babilonesi, presso i quali tale ricorrenza era chiamata Akitu. La festa di Akitu. La celebrazione dell’Akitu è un dramma cultuale, nel quale si rappresenta e si rivive la fine e la rinascita dell’universo. Il rito non è inteso come mero simbolo, ma produce ciò che significa. Attraverso il dramma cultuale, le realtà salvifiche sono ripresentate, attualizzate e vissute dai partecipanti al culto. La festa durava una settimana e comprendeva queste fasi. Rituale della morte della divinità. La festa iniziava con un rito «funebre», ossia con preghiere di lamento e di cordoglio per la morte della divinità. In queste preghiere si esprime il dolore e il lamento sia della divinità sia dei suoi fedeli. Nella lamentazione si esprime anche la convinzione che l’intero universo, con la morte della divinità, è piombato nel caos. L’ordine cosmico infatti era pensato come legato alla vita del dio che si venerava. Per tre giorni continuava questo rito. Lettura del racconto della creazione (Enuma Eliš). Il quarto giorno della festa era dedicato alla lettura, fatta dallo urigallu, del poema Enuma Eliš. In questo poema si racconta che all’inizio esisteva soltanto l’Oceano primordiale o il Caos, al quale presiedeva il dio malefico Tiamat. Contro tale dio si ribellano le altre divinità, a capo delle quali si mette Marduk, il dio di Babilonia. In un aspro e crudele corpo a corpo, Marduk riesce con la sua spada a uccidere il dio Tiamat. Con i suoi resti costruisce l’universo, poi crea l’umanità mescolando il sangue di un dio ribelle, uno degli aiutanti di Tiamat, con della creta. Alla fine il dio Marduk viene incoronato re nel suo tempio e un inno canta i suoi cinquanta titoli. Il mito recitato non fa che esprimere quello che viene «vissuto» e si attua nel rito. Umiliazione e trionfo del re. Nel quinto giorno della festa, i templi di Marduk e di Nabu sono purificati mediante vari riti: aspersione con l’acqua del fiume, offerta dell’incenso, sacrificio di un montone, pulizie del tempio. Segue poi il rito della «umiliazione» del re, che viene spogliato di tutte le sue insegne e, prostrato a terra, professa la sua innocenza davanti al dio. Allora il re riprende le sue insegne e il rito si conclude con l’offerta di un sacrificio di un bue bianco, che rappresenta Kingu, lo sposo di Tiamat. Dopo la sua «morte-umiliazione», il re «risuscita» e viene di nuovo incoronato, il giorno seguente, in mezzo ai canti che esaltano la sua sovranità e la regalità della divinità. È la vittoria del re e di Marduk, che il re rappresenta sulla terra. Processione e matrimonio sacro. L’ottavo giorno si fa una processione portando le statue di Marduk in un santuario di campagna, il «tempio di Akitu». La festa termina con il matrimonio sacro, cioè con l’unione di Marduk con Sarpanit. Tutto lo svolgimento della festa era accompagnato da numerosi canti, paragonabili ai nostri salmi biblici. In Israele, fino all’epoca di Giosia, che fece della festa primaverile di Pasqua la festa principale, l’anno cominciava in autunno, con la festa delle Tende. Era la stagione in cui le prime 166 Storia dell’interpretazione dei Salmi piogge autunnali ridavano vita alla terra disseccata. Secondo Mowinckel, anche gli Israeliti avrebbero celebrato tale festa, in modo analogo a quella babilonese: l’espressione jhwh mālak, che Mowinckel traduce «YHWH diventa re» (Sal 93,1; 96,10; 97,1; 99,1), sarebbe l’indice di una celebrazione di intronizzazione divina simile a quella del trionfo di Marduk. Interpretazione dei salmi. Secondo Mowinckel, molti salmi sono da collocare nell’ambito della festa di intronizzazione di YHWH. In primo luogo, i salmi sulla regalità di YHWH intendono far «rivivere» la sua intronizzazione all’inizio del Nuovo Anno per proclamare il suo trionfo sulle forze del caos e celebrare YHWH come garante dell’ordine cosmico. Anche i salmi di supplica o lamentazione, che secondo Mowinckel formano un terzo dell’intero salterio, devono essere collocati nella prima fase della celebrazione della festa. Molti altri salmi possono essere pure collegati con questa festa e i suoi diversi momenti: così per gli inni, salmi di pellegrinaggio, salmi liturgici, ecc. Il dibattito sulla tesi di Mowinckel. La proposta radicale di Mowinckel ha scatenato un ampio e acceso dibattito. Alcuni studiosi (come M. Noth, A. Alt e H. Schmidt) hanno reagito piuttosto positivamente, avanzando tuttavia riserve e proponendo modifiche. Altri esegeti (come O. Eissfeldt, R. Tournay, R. de Vaux, ecc.) hanno rifiutato decisamente la tesi di Mowinckel. Gli studi di Mowinckel hanno avuto la più consistente eco in Inghilterra, con la cosiddetta scuola «Myth and Ritual», e negli ambienti scandinavi dell’università di Uppsala. L’opera collettiva, edita nel 1933 a Oxford a cura di S. H. Hooke, si intitolava Myth and Ritual. Tale scuola usa, nell’interpretazione dei salmi, le teorie proposte dall’antropologo V. Groenbech per lo studio della storia delle religioni. Gli esegeti di questa scuola (come I. Engnell, G. Widengren, G. W. Ahlstroem, A. Bentzen e A. R. Johnson), con sfumature di posizioni e di accentuazioni, sostengono l’esistenza di una festa israelitica del Nuovo Anno, nella quale il re tiene ritualmente il ruolo della divinità, di cui attualizza ritualmente la passione, morte e risurrezione, come anche il matrimonio sacro e la sua intronizzazione in Sion. La «Myth and Ritual School» si affidava a un uso abbondantissimo dei paralleli sumerici, assiro-babilonesi, hittiti, egiziani e soprattutto ugaritici. Due studiosi, A. Weiser e M. Mannati, riprendono da Mowinckel l’idea della festa del Nuovo Anno come quadro liturgico di molti salmi, ma sostengono che quella festa aveva caratteristiche tipicamente israelitiche, cioè era una festa del rinnovamento dell’alleanza. La celebrazione era incentrata sulla «memoria» della storia salvifica sperimentata da Israele, a partire dall’esilio fino all’ingresso nella terra promessa. H. J. Kraus invece suppone che la festa in questione sarebbe stata una celebrazione di Sion e della dinastia davidica, nella quale l’arca aveva un ruolo centrale. Tutta questa serie di studi ha attirato l’attenzione dei biblisti su due campi: il culto come ambiente d’origine dei salmi e i paralleli extrabiblici. Valutazione critica. Anzitutto la festa di ro\š ha-šānāh, Nuovo Anno, non è mai esistita nell’Antico Testamento. Essa compare, in Israele, verso gli inizi dell’era cristiana. La festa delle Tende, certamente del periodo preesilico, era una festa agricola per ringraziare dei frutti della terra, comprendente pellegrinaggi al tempio, azioni di grazie e gioia popolare. In epoca più tarda, essa è stata messa in rapporto con il soggiorno del popolo nel deserto, dove abitava nelle tende. Inoltre le teorie suesposte sembrano peccare di pancultualismo. È innegabile che certi salmi abbiano un nesso più o meno stretto con il culto, ma voler spiegare tutti i salmi in funzione del culto e, in particolare, del rito dell’intronizzazione di YHWH sembra inaccettabile. Anche i paralleli extrabiblici sono sfruttati senza molto discernimento. Per es., uno studio recente sul culto a Ugarit conclude che in quella città-stato non si parlò mai di «regalità divina» o «regalità» sacrale24. 24 Cfr. M. Paris 1980. DE TARRAGON, Le culte à Ugarit d’après les textes de la pratique en cunéiformes alphabétiques, Storia dell’interpretazione dei Salmi 167 Infine, l’espressione jhwh mālak sembra doversi tradurre non con «YHWH diventa re», come vorrebbe Mowinckel, ma semplicemente con «YHWH regna»25. 5. Tendenze principali A partire da Gunkel, l’investigazione esegetica sui salmi è stata alacre e produttiva. Per orientarci nel campo delle ultime ricerche, possiamo tracciare tre linee o delimitare tre settori. a) In un nutrito gruppo centrale, situiamo i commentari con il loro seguito di introduzioni e sintesi di teologia o di spiritualità. Ogni anno si arriva a pubblicare fino a dieci nuovi commentari, fra opere specializzate, scientifiche, divulgative o di meditazione spirituale. Per definizione i commentari procedono in un alveo centrale, aperto a molteplici affluenti, grati o critici o tolleranti. Gli affluenti di solito sono di portata un po’ scarsa, nati in questo secolo. È raro il commento che sa allacciarsi alla tradizione dei Padri, del Medioevo o del Rinascimento. Una citazione occasionale di Lutero o di Calvino o di Agostino è la rara traccia dichiarata del passato. Come se Gunkel avesse prosciugato o cancellato la storia precedente. b) In un settore a lato procedono gli studi tradizionali di critica testuale, di lessicografia, di filologia, di istituzioni, di aspetti letterari, ecc. I risultati di questa investigazione paziente e certosina si stanno travasando lentamente nei commentari per trasformarsi in un bene comune. c) In un altro settore o filone collochiamo gli studi monografici su problemi già sollevati e non risolti o su problemi che nascono sotto l’impulso delle circostanze o sono suscitati dal potere di scavo o di indagine di un ricercatore. L’esito della ricerca di Gunkel approdò ad una costruzione sistematica, attuata con rigore moderato, e nella combinazione di fattori di forma e di contenuto. A nostro parere questa moderazione nel rigore è un pregio e non un difetto di Gunkel. Essa permise di elaborare un sistema abbastanza completo e funzionale. Quando si ha a che fare con la poesia, il rigore meticoloso o fanatico non è il miglior consigliere. Il suo sistema è servito inoltre come una coordinata per la ricerca. Nella cornice dei generi letterari si ricerca l’origine di un genere nuovo o di alcuni dei suoi temi, la nascita cultica di un brano, la sua esecuzione liturgica. Ad esempio, la preghiera penitenziale sarebbe un brano postesilico staccato dalla supplica collettiva, che cominciava con la confessione delle colpe del popolo. La teofania come venuta del Signore non deriverebbe dall’esperienza storica del Sinai, dove il Signore stava e non veniva, bensì da modelli mitici extrabiblici. La visione di Sion come città protetta dal Signore non sarebbe una scoperta provocata dalla disfatta di Sennacherib, ma sarebbe ispirata a concezioni mitiche di città o territori sacri. Nelle liturgie di ingresso, il Sal 118 si spiega descrivendo il cerimoniale di esecuzione. Sulla preghiera dell’innocente accusato che si appella al tribunale del tempio ci si domanda in quale momento del processo venga pronunciato il salmo in questione. L’analisi dei generi continua con l’identificazione o descrizione di supposti generi nuovi, con la differenziazione in due di un genere già registrato, o sfruttando ed approfondendo il suo significato religioso. Ad esempio, H. Schmid introduce il genere dell’innocente ingiustamente accusato che si appella al tempio. J. Jeremias propone la teofania come genere autonomo. Crüsemann tende a distinguere tipi di inni secondo criteri rigorosamente formali, come l’uso di participi come predicati, del coortativo con YHWH alla 2a o 3a persona, dell’ottativo. Il suggerimento di Gunkel sui salmi di intronizzazione o della regalità di YHWH crebbe smisuratamente nella costruzione di Mowinckel. Il tema della regalità, di Dio e del monarca umano, ha polarizzato un’enorme quantità di studi. Coloro che ne seguono la pista ideologica si appel25 Alcuni studi recenti hanno ripreso il problema con risultati diversi: D. MICHEL, Studien zu den sogenannten Thronbesteigungspsalmen, in VT 6 (1956) 40-68; J. H. ULRICHSEN, JHWH malak: einige sprachliche Beobachtungen, in VT 27 (1977) 361-374; P. WELTEN, Königsherrschaft Jahwes und Thronbesteigung. Bemerkungen zu unerledigen Fragen, in VT 32 (1982) 297-310. 168 Storia dell’interpretazione dei Salmi lano con facilità a concezioni straniere, all’ideologia regale; solo in seconda istanza si interrogano sulla proiezione messianica del tema. Nel quadro dei generi l’obiettivo è anche l’identificazione dei personaggi che intervengono nei testi salmici: in prima persona come locutore/orante, alla seconda persona come destinatario, alla terza come riferimento. In prima persona: parla un singolo o la comunità, oppure un re che rappresenta la comunità? Con ruoli specifici: talvolta parla un malato, o un perseguitato, oppure un innocente accusato ingiustamente. La seconda persona provoca di rimbalzo un’altra domanda: se qualcuno si rivolge all’orante, individuo o comunità, chi è che parla? È un profeta del culto, pressoché funzionario del tempio? Oppure un sacerdote, addetto per mestiere all’oracolo di risposta, a consultazioni o suppliche? Oppure è una voce interiore che l’orante oggettiva poeticamente? Oltre a ciò un’analisi simile porta a ipotizzare che determinate suppliche fossero interrotte da oracoli il cui testo non è stato incorporato nella supplica in quanto estraneo ed eterogeneo. Alla terza persona: ciò che ha destato soprattutto curiosità ed interesse è la presenza di nemici o rivali, empi o malfattori, che sembrano assediare sempre il malato. Una modificazione o attenuazione del metodo di Gunkel consiste nel concedere più spazio alla creazione poetica d’imitazione delle forme cultuali, ormai slegata dall’esecuzione cultuale. Questo spiega meglio molte irregolarità formali o tematiche. Ciò non contraddice, anzi prolunga un po’ quanto era stato suggerito da Gunkel. Senza rinnegare i generi e senza ricorrere sistematicamente ad essi, procede lo studio letterario che si può chiamare retorico o poetico o stilistico. In maniera generale lo coltivano Ridderbros ed Aletti-Trublet; Girard e Auffret studiano le strutture; Monloubou e Keel analizzano il linguaggio delle immagini; Culley studia le formule. Questo drappello, ancor oggi sparuto, potrà ampliarsi ed ingrossare le sue file perché la materia abbonda ed è stata poco studiata. Con questo concludiamo e ci accingiamo a varcare la soglia dei «lavori» o compiti da fare, che costituirà l’oggetto di un altro breve capitolo. X. LAVORI IN SOSPESO Si ha l’impressione di essere giunti alla fine di questa rassegna storica sino ai nostri giorni, quand’ecco che ci si prospetta un lavoro immane. Così immane che, invece di realizzarlo, ci limiteremo timidamente a descriverlo nei punti più nodali. Per quanto concerne gli autori dei salmi, si dovranno delineare le loro concezioni teologiche, i loro sentimenti, il loro linguaggio. Per quanto riguarda i recettori e i fruitori dei salmi, dobbiamo trattare dell’appropriazione e dell’esecuzione. 1. Concezioni teologiche In generale i salmi non espongono dottrina. Quando mi rivolgo a Dio, non lo faccio come maestro. E se insegno qualcosa all’assemblea, forse come liturgo che guida la celebrazione, è perché l’assemblea si volga a Dio. Posso, questo sì, riflettere ad alta voce, per il bene di coloro che ascoltano, certo non per istruire Dio: Is 40,13s: «Chi ha sondato lo Spirito del Signore? Chi gli ha suggerito il suo progetto? Con chi si è consigliato per comprendere, perché gli insegnasse la strada giusta? Perché gli insegnasse il sapere, gli suggerisse il metodo intelligente?». Il Sal 49 suona come un’istruzione e non come una preghiera. Come se fosse una breve esortazione spirituale pronunciata dinanzi ad un uditorio devoto. Da un punto di vista formale, la preghiera non sta nelle parole di colui che parla, ma nella reazione di coloro che ascoltano. a) Sebbene i salmi non espongano dottrina, certamente però professano o presuppongono credenze, concezioni ed anche credulità. Quando queste vengono professate, possiamo isolarle facilmente e potremmo raccoglierle e sistematizzarle per comporre una teologia dei salmi. Storia dell’interpretazione dei Salmi 169 Quando sono solo presupposte, dobbiamo rintracciarle e tirarle in superficie. Forse non possiamo tirare l’intera rete di credenze che oscilla nella profondità e si nasconde alla superficie del testo. Le relazioni sottomarine di questo lago o mare profondo possono essere istruttive o suggestive. Vale la pena però ricordare che alcune idee non sono credenze ma credulità e perciò dobbiamo procedere con un sano atteggiamento critico, onde una nostra maggiore comprensione del mistero. b) Le concezioni sono molte, ramificate o intrecciate: credenze su Dio, sull’uomo e sulla natura e le rispettive relazioni di creazione e salvezza. C’è però dal di sotto un credo fondamentale che le sostiene tutte: il credere profondamente che pregare Dio ha senso e valore. Nel mero fatto di pregare l’uomo crede di fare qualcosa che vale la pena. Si situa nel suo posto di uomo, umile, nobilissimo. Umile, perché prende coscienza di essere una creatura dinanzi al Creatore; nobilissimo, perché si sa interlocutore di Dio. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, «come parla un uomo con un amico» (pānîm ’el pānîm, Es 33,11; cfr. Dt 34,10) e gli Israeliti ricorrevano alla mediazione di Mosè. Ebbene i salmi democratizzano l’esperienza: chiunque è chiamato a trattare con Dio faccia a faccia, come ognuno parla ad un amico. In questo modo i salmi, globalmente, anticipano l’esperienza di Gesù che parla con il Padre suo e l’esperienza dei discepoli che parlano con Gesù e poi con il Padre. c) Si può obiettare, come si è obiettato, che la preghiera è inutile: perché Dio sa già tutto, perché non Gli diamo niente, perché Egli non interviene. Il salterio risponde alle obiezioni in azione. «La parola non è arrivata sulla mia bocca e Tu Signore, già la conosci interamente» (Sal 139,4); chi parla, continua pronunciando parole che Dio conosce già. Potevamo collocare questo verso nel frontespizio di tutto il salterio e non lo avrebbe certo invalidato. Sal 50,13 ci ricorda la domanda ironica di Dio: «Mangerò io carne di tori, berrò sangue dei capri?» (Sal 50,13). Neppure con la nostra lode, più spirituale della carne degli animali sacrificati, aggiungiamo qualcosa alla gloria e alla felicità di Dio. Nonostante questo, l’israelita continua a cantare i suoi inni e a recitare i suoi rendimenti di grazie. Che Dio non intervenga è semplicemente l’opinione o la credulità interessata dell’empio e dell’insensato: «Il Signore non lo vede, il Dio di Giacobbe non vi fa attenzione» (Sal 94,7); al contrario l’israelita fedele può avere fiducia perché sa che Dio agirà (Sal 37,5). d) Un altro modo di obiettare è affermare che i salmi sono un semplice monologo in forma di interpellazione, un atto immanente al soggetto: nel migliore dei casi, un autoincitamento benefico; nel peggiore, una illusione ingannevole. La risposta del salterio a questa obiezione si situa nell’ambito o contesto della fede: se preghiamo, è perché Dio vuole che lo facciamo, è perché Dio ci concede udienza. Pregare i salmi non è recitare monologhi, ma dialogare con un amico faccia a faccia. La prima metà del Sal 77 mostra l’esito inconcludente della preghiera ridotta a monologo, o la sua funzione preparatoria e dialettica per slanciarsi in una preghiera efficace. e) È impossibile intentare qui una esposizione sistematica ed esaustiva delle credenze o concezioni teologiche formulate nel salterio. Crediamo più realizzabile e produttivo richiamare l’attenzione sull’illocuzione o sul modo in cui sono proposte. Queste credenze solitamente hanno la consistenza di convinzioni, sebbene in alcuni dibattiti interiori (ad es. Sal 73) l’orante lotti con il dubbio. Le credenze possono venir formulate in atti di professione, di proclamazione, di semplice comunicazione, di testimonianza personale; possono essere tema di riflessione o contemplazione. La proclamazione, la testimonianza, possono risiedere semplicemente nell’esecuzione pubblica; a volte vengono tematizzate: «Ti renderò grazie in eterno perché hai agito; proclamerò dinanzi ai tuoi fedeli che il tuo nome è buono» (52,11)26. 26 Si veda J.-N. ALETTI – J. TRUBLET, Approche poétique et théologique des Psaumes, Paris 1983. 170 Storia dell’interpretazione dei Salmi 2. I sentimenti Non meno importante del mondo delle credenze, ben più complesso e abbastanza trascurato è il mondo dei sentimenti nei salmi. Il salterio è stato per Israele una grande scuola di lirica, intendendo questo termine come espressione verbale dell’esperienza personale o altrui. I salmi sono soprattutto espressione, più che informazione o interpellazione. L’uomo può gridare o urlare direttamente i suoi sentimenti e le sue emozioni, esprimerli in parole approssimate o generiche. Il poeta trasforma in parola il suo proprio sentire e quello di altri. A questo scopo comincia con il distanziarsi dall’esperienza per osservarla ed analizzarla. Successivamente plasmerà o levigherà il suo linguaggio per dare una forma comunicabile al sentimento. Queste operazioni, che abbiamo distinto per la preoccupazione di chiarezza, in realtà si sovrappongono. Molte volte, la necessità di esprimere obbliga ad analizzare. In questo senso il salterio è un apporto letterario che si distingue radicalmente dalla narrazione, così oggettiva e così poco psicologica, di Israele. Il salterio è una autentica fucina poetica dove viene forgiata o creata una lingua dell’interiorità. L’aspetto corporeo, che un tempo era un mero sintomo, come il tremare di paura, l’arrossire di vergogna, si tramuta a poco a poco in un universo di simboli descrittivi ed espressivi. «Tremo di paura» è oggettivo, immediato; «il terrore mi attanaglia» è una trasformazione espressiva perché personifica il sentimento e presenta l’orante come vittima di tale personificazione. Quando in Sal 55,5 l’orante dice che il «cuore gli si attorciglia/spasima dentro» questo spasmo non è una mera descrizione fisiologica. Suppone innanzitutto la concezione antropologica degli antichi che vedevano il cuore come sede dell’interiorità (i greci la immaginavano nel diaframma, phrenes); immagina poi un movimento di attorcigliamento (torcere, torqueo) dell’organo, e con il soggetto ed il verbo vuole far comprendere una esperienza unitaria, in cui il poeta forse non distingue ancora fra dimensione fisica e spirituale. Se continuiamo, segue l’espressione «piombano su di me terrori mortali»: la morte come potenza ha un seguito di subalterni, una sorta di squadrone di sgherri che sono i terrori. L’io dell’orante sente che si avventano contro di lui, lo caricano, piombano su di lui e lo schiacciano. Neppure questa è descrizione fisica. Per quale motivo, allora, non cerchiamo di stilare una catalogazione di sentimenti con le loro espressioni, come Gunkel aveva catalogato i generi dei salmi? Perché è impossibile. Abbiamo già visto quanto sia poco rigorosa la classificazione di Gunkel e come negli anni seguenti non sia migliorata di molto. L’impossibilità nasce dal fatto che il mondo dei sentimenti si presenta molto più complesso, il passaggio dall’uno all’altro è più fluido, si combinano e si sovrappongono più liberamente, sono capaci di lottare fra loro, si mascherano e si dileguano in un gioco caleidoscopico. Neppure gli psicologi moderni che si sono accinti a questo tipo di lavoro sono pervenuti ad una classificazione comunemente accettata. La classificazione stoica delle passioni (pathe\) con la sua primaria quadruplice divisione di base e le sue sottodivisioni, nonostante sia millenaria, continua ad avere la sua utilità. Altre classificazioni possono fornire distinzioni di orientamento o strumenti di analisi. Inoltre non dobbiamo dimenticare la nostra lingua moderna con il suo ricco repertorio non sistematizzato. Recentemente è stata pubblicata un’opera dedicata allo studio di un sentimento davvero fondamentale: la paura27; sono più di 300 pagine di analisi e di sintesi. A questa possiamo aggiungere un articolo sul tema fondamentale dell’angoscia28. Altrettanto si dovrebbe fare con sentimenti come la fiducia, l’amore e l’odio, il desiderio e l’apatia, l’ira e la mitezza, la tristezza e l’allegria, la compassione e la crudeltà, l’invidia e l’ammirazione. Oppure intraprendere lo studio di sentimenti più sottili come il risentimento, il rancore, l’inquietudine, la nostalgia o i loro antonimi. Il nostro linguaggio moderno ci offre un copioso repertorio, un campo semantico non ancora ridotto a campo lessicale. 27 28 B. COSTACURTA, La vita minacciata, Roma 1988. T. J. RAJA RAO, Agony and anguish: the Psalmist in his sufferings, in JES 18 (1988) 94-100. Storia dell’interpretazione dei Salmi 171 Passiamo ora ad esaminare succintamente alcuni sentimenti ed atteggiamenti che nel salterio occupano un posto di primo piano. a) Iniziamo con la lode, proprio dell’inno. Chi loda riconosce ed afferma la bontà dell’altro (prescindiamo dalla lode di se stessi). La lode significa un’apertura all’essere come vero o conoscibile e come buono. La lode semplice non ha secondi fini, né è interessata. La bontà riconosciuta genera gioia e per questo la lode è gioiosa. Si oppone all’invidia, che è provare dispiacere del bene altrui, alla meschinità degli spiriti gretti ed è il contrario della calunnia. La lode è generosa e con la sua generosità arricchisce o nobilita colui che la sperimenta e la pronuncia. La lode è estroversa, in quanto si dirige all’oggetto; tuttavia, nel lodare, uno esprime la sua gioia, si corrobora in essa e la condivide. Nel lodare gli Israeliti hanno scoperto la bellezza/bontà dell’universo, la meraviglia della loro storia. Il lodare è la prima forma di mettersi in relazione con Dio. b) Se il bene altrui ci è stato comunicato come dono, favore, grazia, allora proviamo gratitudine, esprimiamo la nostra riconoscenza. La parola riconoscere racchiude un conoscere accettato, la parola gratitudine contiene la grazia ricevuta. Nonostante non sia interessata, la gratitudine è meno gratuita della lode. In qualche modo, in essa si insinua un sentimento d’obbligo; l’altro mi ha fatto un favore, mostrandomi la sua bontà cordiale ed io non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche la gratitudine solitamente è gioiosa e nobile. Consideriamo biasimevole l’ingratitudine. Talvolta qualcuno non vorrebbe dover essere riconoscente o grato ad un altro: se ci chiediamo perché, la risposta è il fatto che essere debitori di un favore ad un altro, ci vincola, ci priva della nostra autonomia ed il fatto di ricevere ci sembra una forma di inferiorità. Però la gratitudine può essere una scuola o un tirocinio di generosità. c) La fiducia è una sicurezza fondata in un altro (prescindiamo dalla fiducia in se stessi, che non ha accesso nella preghiera). La fiducia è nemica del timore e del dubbio. Può stare all’inizio di un processo o alla sua fine. Non supplichiamo la persona di cui diffidiamo, da cui, in qualche modo, disperiamo di ottenere ciò che desideriamo. Anche la fiducia afferma la bontà dell’altro, ma in più aggiunge il suo potere e la sua disponibilità. Però, non sempre cominciamo da questo sentimento; anzi può essere il risultato finale di un processo. A volte l’orante desidera confidare, e questo è un atteggiamento incerto, dai toni non ancora chiari. Se vuole, è perché ancora non confida, tuttavia confida di poter giungere ad una fiducia. Ha fiducia a metà, fra dubbi che cerca di dissipare e certezze che ripete a se stesso. La fiducia può esprimersi nei salmi in un tono tranquillo e categorico, oppure con drammatica ambiguità. L’orante del Sal 27 non sta rincuorando se stesso? Se è così sicuro, perché tante richieste? Alcuni commentatori spezzano il salmo in due brani autonomi ed opposti; da ciò che si vede, non credono nel dramma della coscienza. d) Il pentimento è un altro sentimento complesso. Non è il dispiacere di ciò che mi è successo, ma di ciò che ho fatto, con un giudizio di valore negativo, con il desiderio di distruggere quanto ho fatto. La coscienza di un uomo si sdoppia in giudice di se stessa o in un inquisitore che persegue un colpevole che è lui stesso. A perseguitarci sono le conseguenze e molto di più l’accaduto, la nostra stessa azione. Per i suoi motivi può aggrovigliare e complicare il suo profilo. Molte volte l’orante prova rincrescimento per ciò che ha compiuto, perché gli rincresce ciò che gli è accaduto dopo, siano esse delle conseguenze immanenti dell’azione, sia esso un castigo esterno a lui. Nel salterio la sofferenza è molte volte una realtà che rivela il peccato e provoca il pentimento. Però il motivo può essere il fatto che Dio detesta il peccato (Sal 51): il giudizio della coscienza si concilia con il giudizio di Dio ed il Dio adirato diventa il Dio protettore. L’uomo non può distruggere quanto ha commesso, Dio invece può perdonarlo. Quanto l’uomo ha fatto, si incorpora come brano di una biografia, nella speranza che le sue conseguenze siano minime. Dio «si dimentica». Dal perdono sgorga un tranquillo sentimento di gioia e di serenità, oppure un giubilo che grida e si comunica (Sal 28 e 51). La felicità di essere stato perdonato è un sentimento complesso di alcuni salmi. 172 Storia dell’interpretazione dei Salmi e) La sorpresa. Ecco qui un altro sentimento non normale, non catalogato dagli Stoici. La sorpresa è qualcosa di più di ciò che è impressionante. R. Otto, descrivendo la categoria del «sacro», parlava di sintesi del fascinosum ac tremendum. Dinanzi all’oggetto che lo oltrepassa e lo sovrasta, l’uomo discopre e avverte la sua piccolezza e resta sorpreso, intimorito. La maestosità di una catena montuosa, l’impeto di una cateratta, la vastità di una catastrofe. L’orante del salterio sperimenta questo sentimento dinanzi a Dio e alle sue opere o segni: «gli abitanti delle estremità dell’orbe si sgomentano dinanzi ai tuoi segni» (Sal 65,9). Ammirazione, sgomento, stupore, si inquadrano nel paragrafo precedente ed appartengono al mondo della lode. I greci dicevano che l’ammirazione è madre della scienza o della conoscenza. Il salterio fa dell’ammirazione una scala per la conoscenza di Dio. Modello di una contemplazione ammirata, quasi incantata della natura, sono il Sal 104 e Sir 43. Il Sal 8 vibra di meraviglia davanti al firmamento di una notte stellata e dall’ammirazione passa alla domanda, all’enigma dell’uomo. Un passaggio significativo. f) La pena o afflizione è un sentimento provocato da un male presente e, molto umanamente, occupa una buona parte del salterio e si esprime in svariate maniere. Una forma particolare consiste nel sentire come propria la pena o male altrui, e questa la definiamo compassione. Molto vicina è la pietà, anche se gli antichi riservavano la pietà alle relazioni familiari o con la divinità. Chi non prova sentimenti di compassione è crudele o spietato, un tipo che nel salterio appare e si concretizza nella persona del nemico. Di rigore, pietà e compassione si riferiscono a persone; per estensione possono dirigersi ad altri oggetti. È notevole e commovente un verso per la capitale distrutta: «I tuoi servi amano le sue pietre, addolorati persino per la sua polvere» (102,15). Dio deve avvicinarsi provando pietà e compassione per il suo popolo, per il povero e l’abbandonato, per il peccatore pentito, nel qual caso si suppone che il sentimento si tradurrà in azione. Può accadere il contrario, cioè che l’uomo provi pietà di Dio? Oggettivamente questo è privo di senso: psicologicamente però l’orante prende sopra di sé le offese inferte a Dio: «Lo zelo del tuo tempio mi divora e gli insulti di chi ti insulta ricadono sopra di me» (69,10). La pena normalmente tende a calmarsi con una rimozione delle cause. Curiosamente, la pena cerca talvolta di prolungarsi, quasi assaporando l’elenco dei propri mali, o come sentendosi protagonista che provoca ed accentra su di sé la compassione. L’uomo non vuole essere un disgraziato, però, giacché lo è, vuole essere compatito, e sente che l’ultima istanza di pietà e compassione si trova in Dio: «Anche se mio padre e mia madre mi abbandonano, il Signore mi accoglierà» (27,10). Esprime sentimenti di compassione Sal 35,14: «Come per un amico o un fratello andavo in lutto triste e a capo chino come per una madre». Sal 69,21 va alla ricerca della compassione altrui: «M’aspetto compassione e non c’è, consolatori e non li trovo». g) Contraria alla pietà è la crudeltà, la quale assume a volte la forma di superiorità e di disprezzo e si esprime nel riso sarcastico o trionfale. È il sentimento del vincitore che si accanisce sulla sua vittima. L’orante lo descrive nei suoi avversari: «Quando mi affliggo con i digiuni, mi scherniscono; quando mi vesto di sacco, mi dan la baia» (69,12-13). O ancor più duramente come in Sal 35,21: «Sghignazzano sguaiati di me – Ah, ah, lo stiamo vedendo». Ride bene però chi ride ultimo, perché un giorno sarà Dio che li deriderà (2,2; 37,13); allora «si ritireranno svergognati coloro che mi deridono» (70,4). h) Solitamente non collochiamo tra i sentimenti il desiderio, nonostante il desiderio venga vissuto molte volte con una forte carica emozionale: come ansia, anelito, aspettativa, brama. È un sentimento che si sperimenta nello spirito e nel corpo, e si esprime probabilmente con sospiri: «La mia carne ha ansia di te» (63,2); «la mia anima si consuma anelando» (84,3). i) Sentimento della soddisfazione e di vanità. La soddisfazione o compiacimento può avere un oggetto diverso dal soggetto, la vanità prende il soggetto come oggetto. In Sal 49,19 si riporta il commento soddisfatto di un ricco: «Eppure nella sua vita si congratulava: si complimentano per come te la passi bene»: è un compiacimento o soddisfazione di secondo grado, della lode che strappa ad altri. Egli se la passa bene, gli altri lo lodano, egli si gonfia di piacere. Il salmista Storia dell’interpretazione dei Salmi 173 pronuncia il suo giudizio su tutto il complesso psicologico e sociale. Altri «si compiacciono nella menzogna» (62,5), Ci provano gusto. Il piacere deliberato e cosciente nel male è una colpa aggravante. Compiacimento nasconde nell’etimo il termine piacere, di qualcosa di proprio o di altri. Se di altri, può esprimersi in auguri, complimenti, elogi. Il compiacimento o soddisfazione può essere sociale e pubblico e generare la festa. Al di sopra di tutti celebriamo e festeggiamo Dio: il piacere è tripudio, giubilo e può esprimersi sonoramente. l) L’indignazione si accende principalmente dinanzi all’ingiustizia e all’abuso. Giunge al colmo dinanzi all’ingiustizia dei governanti di fronte all’abuso contro i deboli, e può sfociare in imprecazioni appassionate e persino violente. Violenza verbale. È il sentimento che occupa un posto di primo piano nei salmi cosiddetti di imprecazione, è il volto coraggioso e legittimo della vendetta illegale o perversa. Nell’indignazione si rivela l’amore della giustizia. Si possono citare il Sal 58 che interpella governanti e il Sal 137 che prende di mira gli stranieri. In questo settore possono trovar posto sentimenti come l’ira, la collera, il furore, che animano molti salmi. L’indifferenza o passività non è biblica. m) Che grande capitolo si dovrebbe redigere sui sentimenti dell’amore e dell’odio, del rancore e della tenerezza, dell’affetto e dell’indifferenza! Si definiscono mediante i loro oggetti: chi o che cosa ama l’orante? Prima di tutto Dio, il suo popolo, la patria e la capitale, il tempio, la legge, la famiglia; detesta gli empi, gli idolatri, gli intrighi e le macchinazioni, la menzogna e la doppiezza. Però, nonostante sia così centrale, l’amore viene enunciato senza aggiungere altro, non analizzato nelle sue sfaccettature, nelle sue tonalità e nei suoi processi. n) L’introspezione raggiunge il suo acme quando l’orante osserva in sé una lotta di sentimenti, come pubblico di un pezzo drammatico che si rappresenta dentro di lui, o che lui rappresenta. L’orante di Sal 42-43 si dibatte tra la speranza e la disperazione, e nel ritornello torna a farsi coraggio ben tre volte. Nel Sal 73 ad angosciare l’orante è un problema vitale ed egli si dibatte tra la coscienza della sua rettitudine, il successo degli empi e il fallimento della teologia della retribuzione; in un monologo fra sé e sé dice: «il mio cuore inacidiva, nel mio intimo/reni fitte lancinanti» (73,21). L’orante del Sal 77 si dibatte tra la sua fede tradizionale nella protezione divina e l’esperienza allucinante di un presente di abbandono. L’orante del Sal 39 si dibatte tra parlare e tacere, per timore di dire sciocchezze. «Restai in silenzio rassegnato, mi contenni inutilmente, la mia ferita peggiorò, il cuore mi ardeva dentro; al ripensarci ridivampava, finché sciolsi la lingua» (39,4). 3. Il linguaggio Qualcosa è già emerso riguardo all’espressione verbale dei sentimenti, ora facciamo alcune altre osservazioni di carattere generale. La formulazione di un sentimento lo prolunga, lo intensifica o lo acquieta, lo esaurisce o lo rinnova, lo rende chiaro alla coscienza. Non basta la sincerità dinanzi a Dio e agli uomini; è necessario anche un linguaggio adeguato e pertinente. Però, è possibile dare una forma verbale alla nostra interiorità, alla profondità della nostra relazione con Dio? È possibile fino ad un certo punto, mediante la stilizzazione della complessità, attraverso la mediazione dei simboli. È questo precisamente uno dei compiti dei compositori dei salmi: dare un’adeguata forma verbale ai sentimenti religiosi, in presenza di Dio e dell’assemblea. La lode può adottare il linguaggio descrittivo, fatto di brevi tratti, piccoli o grandiosi, quotidiani o cosmici: può lavorare con affermazioni o per allusione. Se narra, può congelare un fatto o una serie in participi predicativi, in titoli; molte volte, supponendo che la storia sia conosciuta, le basta solamente soffermarsi in un momento culminante o farvi allusione. La supplica adotta il linguaggio retorico della persuasione. Ama l’amplificazione e l’accumulazione, non teme l’iperbole, insiste, ripete continuamente. L’espressione psicologica può apparirci sorprendente per la sua corporeità, che testimonia la coscienza dell’unità dell’uomo, prima di qualsiasi dicotomia. I sentimenti possono venir espressi direttamente, in interiezioni, oppure possono venir tematizzati. L’arsenale di immagi- 174 Storia dell’interpretazione dei Salmi ni e di simboli è ben fornito ed abbondante. A volte assistiamo allo sdoppiamento dell’io parlante. Per concludere, ricordiamo il linguaggio dell’interpellazione profetica, il linguaggio performativo che convoca alla lode e alla celebrazione, il linguaggio della teofania. XI. L’APPROPRIAZIONE 1. I salmi come espressione Ci rimane un punto importante, forse il più importante: l’appropriazione, il far nostro il salmo come preghiera, come espressione efficace dei nostri sentimenti rivolta a Dio. Possiamo comprendere i salmi come un documento insolito o singolare di una cultura antica. Non è questo il senso autentico ed originale dei salmi, che furono composti per essere pregati e meditati. Il senso originario di un salmo si consuma ogni volta che un uomo lo pronuncia come preghiera sua a Dio29. I salmi sono anche poesia. Mediante i salmi, un credente o una comunità professano il loro credo, esprimono i loro sentimenti spirituali, si esortano all’azione; i tre atti religiosi possono fondersi e rimanere tali nella parola poetica, nel carme. Possiamo studiare il profilo o l’aspetto artistico del salmo e fare poetica o stilistica; possiamo studiare il profilo religioso e fare teologia. Se per questioni di metodo separiamo l’aspetto poetico da quello religioso è perché in seguito si fondano nella nuova, viva preghiera del credente e del suo orizzonte. Uno studioso di ottica può analizzare e separare i colori; un pittore può applicare direttamente il colore verde senza dar prima uno strato di azzurro e poi uno di giallo. I salmi sono poesia e preghiera: sono espressione di esperienze religiose, rivolta a Dio. Se prendiamo in considerazione il complemento di termine Dio, i salmi interpellano; se prendiamo in considerazione l’orante, i salmi esprimono. In questo modo possiamo distinguere questo corpus letterario dalla profezia, che è interpellazione di Dio all’uomo, e dalla storia, che è primariamente informazione. È vero che ogni parola di Dio all’uomo lo interpella; anche i salmi. Tuttavia, e all’interno di questa potenzialità generale, i salmi possiedono un proprio statuto, perché collocano in primo piano il protagonismo dell’uomo. Come portatori di Spirito (parola ispirata), rendono l’uomo capace di rivolgersi efficacemente ed autenticamente a Dio, in spirito e con verità. Il protagonismo dell’uomo può avere diversi gradi di personalità. Nella preghiera privata si hanno momenti di assoluta personalità irripetibile. Nei salmi, si sacrifica il radicalmente personale o individuale per esprimere quello che una comunità in questo momento condivide o ciò che è condivisibile da diversi individui. Soltanto che ognuno condivide a modo suo. I salmi, in quanto preghiera, impostano acutamente il problema dell’esperienza religiosa. Se è vero che quanto riusciamo a capire di Dio lo raggiungiamo dal nostro punto di appoggio, anche se elevati dallo Spirito, e lo cogliamo in quanto ci sfiora o ci invade, è anche vero che la preghiera spinge l’orante in primo piano. L’espressione si fa in prima persona: nel pregare l’uomo si avvicina e sembra prendere l’iniziativa, anche se mosso dallo Spirito. 2. Comprendere i salmi Comprendere l’esperienza umana religiosa espressa poeticamente non è ricadere nello psicologismo? No, perché non cerchiamo di penetrare nella mente dell’autore per ripetere la sua esperienza, ma ci atteniamo a testi poetici per realizzare un’esperienza simile o equivalente, la nostra. Il salmo dà voce ad una esperienza umana, non necessariamente però, né immediatamente, a quella dell’autore. Non necessariamente, perché il poeta può aver composto un car29 Cfr. A. SCHENKER, Das Gebet im Lichte der Psalmen, in BiKi 35 (1980) 37-41. Storia dell’interpretazione dei Salmi 175 me su commissione, senza essere passato personalmente per la situazione presunta; non immediatamente, perché si interpone l’opera foriera di senso. Per comprendere i salmi come preghiera, occorre entrare in sintonia con essi. Se è difficile capire testi religiosi quando non si crede, è difficilissimo capire delle preghiere quando uno è incapace di pregare. L’analogia potrà tendere un ponte levatoio, ma al termine ci imbatteremo in un portone sbarrato. Si paragonino le frasi: «accade un po’ così, come quando...» e «proprio quello che mi succede». Non può bastarci il colore che può immaginare un uomo cieco fin dalla nascita. Dobbiamo comprendere i salmi come poemi, come opere di poesia. Non facciamo ricorso ad una sorta di telepatia spirituale che mette in contatto due menti senza una mediazione verbale. Il poema è qui ed è il nostro oggetto primario di studio. In poesia non conta ciò che di fatto sentì l’autore, ma la sua espressione che resta valida: valida ed efficace principalmente per il lettore che la fa sua. In un poema, conta prima di tutto il suo universo poetico, il suo linguaggio e la sua organizzazione30. Il contesto vitale o situazione di cui parlava Gunkel, ad esempio l’uso di un carme in una cerimonia liturgica, può risultare superficiale rispetto alla coscienza di coloro che pregano. Una cosa è descrivere una liturgia penitenziale, con le sue parti e i suoi attori, un’altra cosa è la coscienza del peccato e della condizione di peccatori, come ci vengono descritti da Paolo in Rom 7 o come ci vengono espressi nel Sal 51. All’inizio la comprensione dell’esperienza religiosa o di fede è più profonda ed importante della descrizione, più utile, indubbiamente, di una situazione o contesto di uso. 3. Appropriazione e mediazione Il salmo, che un tempo ha dato voce nella sua espressione all’esperienza di un uomo o di una comunità, deve trasformarsi in una espressione religiosa di un nuovo uomo o di una nuova comunità. A tal scopo, deve aver luogo una esperienza analoga o equivalente ed il salmo deve trasformarsi nella sua espressione efficace e valida. Sulla radicale unità umana agisce l’unico Spirito: «Le due cose sono vere: che sono voce nostra e che non lo sono, che sono voce dello Spirito e che non lo sono. Sono dello Spirito di Dio perché, se non fosse lui ad ispirarle, non le diremmo, non sono dello Spirito, perché non ha bisogno né soffre. Queste voci sono proprie di gente bisognosa che soffre. Sono nostre, perché esprimono la nostra necessità; non sono nostre, perché è un dono suo anche la nostra capacità 31 di gemere» . Oltre ad offrirsi come espressione valida di una esperienza, i salmi possono mediare una esperienza analoga o vicaria, con la quale vi sia una inclinazione o affinità di base. Lo Spirito che ha ispirato i salmi e continua a soffiare in essi promuove in noi una esperienza di fede somigliante: «Se il salmo prega, pregate: se geme, gemete... Tutto ciò che vi si trova scritto, è uno specchio che ci ri32 flette» . Attraverso la comprensione, tendiamo all’appropriazione; tuttavia questa permette una migliore comprensione: così, in una alternanza che intensifica o in una spirale che si allarga33. 30 Per più dettagli rimandiamo il lettore a L. ALONSO SCHÖKEL, Manuale di poetica ebraica, Brescia 1989. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos XXVI,1. 32 AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos XXXIII,1. 33 Cfr. S. SCHNEIDER, Das Denken in Bildern als Voraussetzung für das persönliche Psalmenbeten, in BiKi 35 (1980) 47-59. 31 176 Storia dell’interpretazione dei Salmi 4. La verità dei salmi Un poema ha un senso ed ha un valore. Se ci sono cattivi poemi o non genuini, non ci occupiamo adesso di questi. Anche ciò che gli anglosassoni chiamano non-sense ha il suo senso. Affermare che i salmi sono poemi religiosi non significa svalutarli, ma esaltarne il valore. Chi colloca la poesia nello stesso settore o ambito dei cruciverba o della letteratura di evasione non dovrebbe dedicarsi alla poesia né opinare in proposito. Un poema ha il suo senso e la sua verità. Un poema di tipo «espressivo» ha il suo senso e la sua verità riferiti all’esperienza espressa. Possiamo sfogare il nostro sentimento in una interiezione, in un grido appena articolato. Possiamo descriverlo in un discorso enunciativo, come molte volte fanno i novellisti. Un poeta lirico trasforma il sentimento proprio o altrui in un poema: si veda il Sal 133. Diciamo che l’esperienza è vera, quando raggiunge il suo fine reale. In altre parole, l’esperienza non è puramente immanente, perché tende ad un fine estrinseco ad essa; non è mera illusione, perché in qualche modo raggiunge il suo fine. Colui che prega recitando un salmo raggiunge veramente il Dio vero, lo adora in spirito e verità. L’espressione o la formulazione dell’esperienza può essere sincera, finta o fittizia. È sincera se l’espressione corrisponde al sentimento, se le labbra concordano con il cuore. L’espressione è finta quando non corrisponde al sentimento: chi parla finge, è un ipocrita o recita come un pappagallo. Più sottile è la categoria del fittizio, che non è in contrasto con la verità. Anche se il poeta non lo sente personalmente, fa suo il sentimento di altri per dargli una forma poetica vera e sincera. L’espressione non corrisponde all’«io» del poeta, è fittizia; corrisponde all’«io» del poema, non è finta. In cambio colui che si appropria di questa espressione per pregare, non ha diritto di fingere. Il poema deve essere vero come espressione valida dell’esperienza umana. Non solo per la coerenza interna del proprio universo poetico, ma per il suo riferimento al sentimento da cui sgorga. In qualche modo il poeta generalizza: sceglie da ciò che è individuale quello che può essere condiviso, fa assurgere a categoria esemplare il dato individuale. Il salmo rivela l’uomo toccato da Dio, e Dio che tocca l’uomo. Il suo senso può essere attualizzato proprio grazie all’appropriazione. 5. Una preghiera che è nostra Arriviamo alla tappa finale, quella decisiva, che giustifica tutto ciò che abbiamo detto precedentemente; per spiegarla, ricorriamo a due esempi. Il primo è quello dell’innamorato che si imbatte con la lirica che esprime ciò che egli prova e non sa dire. Sarebbe capace di firmare il poema e farlo recapitare alla sua amata (anche se oggi non va più di moda comporre dichiarazioni d’amore in versi). È un caso fra molti altri simili, poiché una parte della letteratura funzionale viene composta affinché altri se ne approprino, sia personalmente, sia collettivamente: pensiamo ad un inno nazionale, un canto di resistenza, o ad inni di gruppi o squadre. Nell’ambito civile come in quello religioso, il poeta raccoglie il sentimento di molti e mette sulla loro bocca le parole che egli compone. Un caso correlativo è quello di colui che si contagia con le parole del poema, da sole o in comune con altri. Comincia a provare ciò che non provava, ciò che era una semplice formula acquista sincerità, cresce e si afferma ciò che insinuava. Il Cyrano de Bergerac ci fornisce un caso più sottile e complesso. Un altro esempio è quello dell’attore drammatico, già suggerito nella prosopologia dei Padri ed esplicito in un testo dell’abate medievale Gerhoh. L’attore drammatico studia il suo personaggio per entrare in esso o per immedesimarsi in lui. Deve incarnarlo con le sue parole ed i suoi gesti. Quando un attore studia la sua parte, non esercita soltanto la memoria e l’intelligenza, ma mette in azione tutte le sue facoltà. La fantasia si trasferisce nella situazione del personaggio, entrano in gioco emozioni, forti o sottili, flessibili e sfumate, la dizione attinge ad una gamma di ricorsi espressivi e ci si serve di un ampio repertorio di gesti a disposi- Storia dell’interpretazione dei Salmi 177 zione. Quando l’attore entra nel ruolo e rappresenta il suo personaggio, presenta una verità, che è una verità dell’uomo o riguardo all’uomo. Tuttavia tocca un limite: quando abbandona la scena, smette di essere quel personaggio e ritorna alla sua personalità, anche se si registrano casi di contagio o di transfert artistico in cui la rappresentazione trasforma l’attore; oppure situazioni in cui realtà e finzione si sovrappongono (si pensi a Pirandello), bivalenza sfruttata in Un drama nuevo di Tamayo y Baus (sec. XIX) e in opere simili. Gli esempi sono superati dal credente che prega un salmo. Infatti egli non rappresenta un altro, ma si dà con la sua persona alla preghiera. Fa sue le parole del salmo, assoggettandosi ad esse. Senza finzione né rappresentazione fittizia, egli rivive un’esperienza vicaria mediata dal salmo, per poi esprimerla sinceramente ed efficacemente con le parole del salmo. Egli si identifica non con l’autore, ma con l’«io» del poema, con l’orante del salmo. Adesso «egli» o «loro» sono l’orante. Questo è stato compreso e formulato molto bene dagli antichi commentatori dei salmi. 6. Preghiera cristiana Ripetere un’esperienza equivalente, fare proprie le parole del poema non significa rinunciare o abdicare alla nostra personalità, né al nostro mondo e al suo orizzonte. Non dobbiamo fare un viaggio nel passato per pregare i salmi come gli Ebrei di venticinque secoli fa. Al contrario, trasferiamo i salmi nella nostra epoca per pregarli come cristiani. Questo comporta un significativo cambio di orizzonte, con tutte le sue conseguenze. Neppure un ebreo di oggi prega nella stessa maniera di un contemporaneo di Ezechia, perché non cerca né può abolire la sua modernità e la storia che si è interposta da allora ad oggi. Nel caso dell’orante cristiano, si sovrappone la novità ricreatrice del mistero pasquale di Gesù Cristo e della sua rivelazione. Esplicitamente o implicitamente, un cristiano si rivolge sempre a Dio Padre «per Gesù Cristo nostro Signore». Se cercasse di escluderlo espressamente, cesserebbe di pregare. Questo fatto fondamentale, garantito dallo Spirito che ci insegna a pregare, può essere spiegato e accresciuto con dati forniti dal NT, dai Padri, dalla liturgia e da altri commenti tradizionali. A tal fine non cambiamo il testo dei salmi, ma li trasportiamo in una nuova chiave, li collochiamo nell’orizzonte della rivelazione e dell’esperienza cristiana. 7. Altri salmi Una volta assimilati i salmi come preghiera, essi possono tramutarsi in matrice generatrice di testi simili, per imitazione diretta o per ispirazione globale. In questa attività, il linguaggio dei salmi dispiega di nuovo la sua inesausta potenzialità. In questa casella entrano gli inni cristiani di cui abbiamo parlato nell’esposizione storica e molti altri di altrettanti poeti che si sono lasciati ispirare dai salmi biblici. INTRODUZIONE AI SALMI* I. I SALMI COME LIBRO 1. Il nome I salmi sono una raccolta di poesie-preghiere, un repertorio di orazioni collezionate insieme per farne un «libro di preghiere». Costituiscono dunque un «libro», che chiamiamo Salterio1. Secondo la Bibbia ebraica, esso appartiene al gruppo dei ketûbîm, cioè «Scritti», secondo la triplice divisione che comprende anche la tôrâ e i nebî’îm. Il termine «salmo» è la semplice traslitterazione della parola greca psalmós, con cui la Bibbia greca dei LXX rende l’ebraico mizmôr, che significa un canto da eseguirsi con accompagnamento musicale. Il verbo zāmar infatti significa «suonare musica», come in Sal 71,22: «Ti canterò sulla cetra, o santo di Israele». Nei cosiddetti «titoli», apposti dalla tradizione giudaica precedente la LXX che già mostra di non comprenderli, 75 salmi sono definiti mizmôr. Poiché questi titoli danno soprattutto indicazioni per il canto e la musica, abbiamo una preziosa testimonianza antica che i salmi non sono da leggere con gli occhi, ma anzitutto dovrebbero essere cantati e recitati. Nella Bibbia ebraica, però, per designare i salmi si usa il termine tehillîm, plurale irregolare di tehillâ, lode. Anche questa designazione è una chiave di lettura interessante: infatti le due forme fondamentali della preghiera sono la supplica e la lode. Anzi, la lode è l’espressione perfetta della preghiera e della salvezza quando è insieme supplica e lode quali ritmi di un unico respiro. I salmi sono chiamati anche šîr, canto, titolo che appare per i salmi 120-134. È pure usato il termine tephillâ, supplica, come in Sal 72,20. 2. Numerazione Il salterio forma un vasto continente di 150 componimenti poetici2; la versione greca dei LXX ne propone un 151° non canonico. Questi componimenti sono numerati da 1 a 150. La loro suddivisione, o raggruppamento, non è identica nel testo ebraico e greco; ne risulta una differenza nella numerazione, come appare nella tavola seguente: * Cfr. A. BONORA, I Salmi, in Gli «Scritti» dell’Antico Testamento (Il messaggio della salvezza 5), Leumann (TO) 1985, 183-230; L. MONLOUBOU, I salmi, in J. AUNEAU (ed.), I salmi e gli altri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica 5), Roma 1991, 13-88; T. BALLARINI, Salmi: Questioni introduttorie, in T. BALLARINI (a cura di), Ultimi storici, salmi, sapienziali (Introduzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 219ss; A LANCELLOTTI, I salmi (NVB 18), Paoline, Cinisello Balsamo 31990, 6ss; V. MORLA ASENSIO, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 233-322. 1 Il nome psalterion, salterio, non ricorre mai nella LXX e nel NT; lo incontriamo per la prima volta nel Codice Alessandrino (V sec. d.C.). Il termine designava originariamente qualunque strumento a corda. 2 Al di fuori del salterio è possibile rintracciare testi di salmi nei libri narrativi, «storici», dell’Antico Testamento: Es 15,1-18.21; Dt 32,1-43; 33; Gdc 5; 1Sam 2,1-10; 2Sam 22; 1Cr 16,8-36; Ne 9,5-37; Tb 3,2-6.11-15; 8,5-7.15-17; 11,14s; 13; Gdt 9; 16,1-17; Est 4, e del Nuovo: Lc 1,46-55.68-79; 2,29-32; 10,21s. Negli scritti profetici: Is 12,1-6; 21,1-5(+9); 26,1-19; 38,9-20; 42,10-17; 59; 63,7-64,11; Am 4,13; 5,8s; 9,5s (+ Ger 10,12s+31,35); Gio 2,3-10; Mic 7,18-20; Na 1,2-8; Ab 3; Sof 3,14-17; Dan 2,20-23; 3,26-45. Nelle riflessioni sapienziali: il libro di Giobbe e il Siracide contengono dei veri e propri salmi: Gb 6,9-16; 9,4-12; 11,10s; 12,13-25; 26,5-14; 34,18-30; 36,22-37,13; Sir 36,1-17; 51,1-12. Introduzione ai Salmi Testo ebraico 179 LXX, Volgata, liturgia 1-8 9-10 11-113 114-115 116 117-146 147 9 10-112 113 114-115 116-145 146-147 148-150 Bisogna tener presente che le bibbie moderne seguono la numerazione ebraica, aggiungendo abitualmente tra parentesi quella greca, che è la stessa delle versioni latine (Volgata) e della liturgia. 3. Raccolte e formazione del Salterio Raccolta di raccolte A prima vista si può osservare che il Salterio non costituisce l’opera di un solo autore né è il risultato di un’unica compilazione. Si tratta piuttosto di una raccolta di raccolte3. È praticamente impossibile ricostruire gli stadi della formazione del Salterio, che fu certamente il frutto di un lungo e complicato processo all’interno del culto sinagogale, iniziato con probabilità intorno al 200 a.C. Queste affermazioni poggiano su diversi argomenti. Nel Salterio si può osservare una serie relativamente ampia di doppioni (ad es. Sal 14 e 53; 40,14-18 e 70, ecc.). D’altra parte in alcune sezioni del Salterio si nota un uso non indiscriminato dei nomi del Dio d’Israele: YHWH ed Elohim. In particolare nel blocco 42–83 si segnala l’uso quasi esclusivo di Elohim (200 occorrenze contro le 43 di YHWH); questo dato è tanto più degno di nota se si considera che nel resto del Salterio viene impiegato di norma il nome YHWH (642 occorrenze; Elohim ricorre soltanto 29 volte). Simili incongruenze non possono essere accidentali. Secondo alcuni sarebbero imputabili a una «revisione elohista» del Salterio. Tuttavia bisogna supporre l’esistenza di almeno due raccolte, una jahvista e l’altra elohista, altrimenti non si comprenderebbe come mai la revisione elohista si limiti al solo blocco 42–83. L’annotazione di 72,20 («qui terminano le preghiere di Davide») significa che l’editore non conosceva altri salmi di Davide oppure che questa particolare raccolta finiva in quel punto. In ogni caso non si deve dimenticare che altri salmi catalogati in seguito (ad es. 86; 138–145) sono del pari attribuiti a Davide. Un altro elemento importante è collegato ai titoli dei Salmi. Mentre il blocco 90–150 è in gran parte anonimo, in 1–89 i poemi sono attribuiti a Davide, Asaf, Etan e ai figli di Core. Tutta questa serie di dati confermerebbe che il Salterio, così com’è giunto a noi, costituisce una grande raccolta composta di raccolte minori. Gruppi di salmi all’interno della raccolta Il blocco 3–41 rappresenta evidentemente una raccolta di salmi attribuita a Davide4. Con l’eccezione dei Sal 10 e 33, tutti sono contrassegnati dal nome del re di Gerusalemme. In realtà il Sal 10 (da lamed a tau) è la seconda parte di un acrostico alfabetico che inizia con il Sal 9 (da ’alef a kaf) e quest’ultimo riporta la dizione «di Davide». Per quanto riguarda il 33, è probabile che esso abbia perso questo titolo nel corso del processo di redazione o di raccolta, poiché il titolo compare nella versione greca. Si è già parlato della «raccolta elohista» (Sal 42– 83). Il blocco 84–89, attribuito (con l’eccezione dell’86) a diversi cantori del tempio, che non 3 Sul tema cfr. H. GUNKEL, Introducción, 451-473; S. MOWINCKEL, Israel’s Worship II, 193-206; P.D. MILInterpreting the Psalms, Philadelphia 1986, 14-15; J. DAY, Psalms, Sheffield 1990, 109-122. Con i loro inviti a osservare la torāh e a credere nel messia i salmi 1 e 2 rivelano l’intento di costituire una sorta di prologo all’intero Salterio. La loro collocazione risale, probabilmente, all’ultimo raccoglitore. LER JR., 4 180 Introduzione ai Salmi compaiono più in seguito, costituisce un’altra raccolta. La dossologia finale di 89,52, segno della fine di una raccolta, dovrebbe indicare che anche questo piccolo gruppo fa parte del complesso 42–83. Essendo stati aggiunti più tardi, non sarebbero stati sottoposti alla «revisione elohista». All’interno del grande gruppo 90–150, forse la parte più disorganica dell’intero Salterio, si possono individuare quattro piccole raccolte: 90–104, in cui sono raccolti quasi tutti i salmi d’intronizzazione e terminerebbe con i Salmi 105–107, del tipo hôdû «rendete grazie»; 108–110 («di Davide»), con una serie conclusiva di salmi in «alleluia» (che probabilmente fanno parte di un’altra raccolta); 120–134, canti di pellegrinaggio o salmi delle salite, che terminerebbe con un salmo in «alleluia» e altro del tipo «rendete grazie»; infine 138– 145 («di Davide»), gruppo che si concluderebbe con i salmi in «alleluia» 146–150. Tutti questi grandi blocchi sono, a loro volta, probabilmente composti di raccolte minori. Evoluzione del Salterio L’evoluzione del Salterio potrebbe essere descritta come una progressiva aggiunta di altre raccolte al nucleo 3–41, probabilmente il più antico. D’altra parte si tratta di poemi collegati in prevalenza più con le necessità dell’individuo che con interessi comunitari. Benché sia quasi impossibile ricostruire la storia della raccolta di questi poemi5, è lecita una ipotesi. Parallelamente al nucleo sopra menzionato circolava una seconda «raccolta davidica» (51–72), che probabilmente ha una storia indipendente e diversa dalla prima. Col passare del tempo fu aggiunto a quest’ultima il gruppo dei salmi «di Asaf» (74–82, inquadrato da 73 e 83); il Sal 50 rappresenterebbe il salmo introduttivo all’unione di queste raccolte minori. In un terzo stadio editoriale venne incluso il blocco dei salmi «dei figli di Core» (42–49). L’insieme risultante (42–83) sarebbe stato sottoposto a una profonda rielaborazione, che comportò, tra l’altro, la sostituzione di YHWH con Elohim («recensione elohista»). I Salmi 84–89 costituiscono una sorta di appendice, mentre il Sal 2 rappresenta un prologo. Il grande gruppo risultante (2–41 più 42–89) si ampliò gradualmente mediante l’incorporazione delle piccole raccolte (di diversa epoca e provenienza) ricordate in precedenza e di diversi salmi isolati. La storia del blocco 90–119 è piuttosto complessa. Come si è visto, si tratta di una miscellanea che comprende diversi tipi di salmi e alcune appendici inniche (111–114; 116–118). In quest’ultimo blocco sorprende, per la sua eccezionale lunghezza, il Sal 119 (serie di variazioni su uno stesso tema: la parola di Dio); ciò fa pensare a una regola aurea etico-religiosa offerta da un compilatore che intendeva apporre un «punto finale» al gruppo di salmi precedenti. Questi elementi sottolineano ancor più il significato e la portata del Sal 119 se paragonato al Sal 1. Si riscontrano tre punti di contatto: il carattere «sapienziale»; l’inizio di entrambi con un macarismo («Beato l’uomo» Sal 1; «Beati gli uomini d’integra condotta» Sal 119); il riferimento alla legge (1,2; 119,1b). Queste coincidenze formali e di contenuto, che caratterizzano i due salmi come formanti un’«inclusione», troverebbero spiegazione se il resto del Salterio (120–150) fosse stato incorporato gradualmente al grande blocco 1–119. Poco di più di quanto si è detto può essere proposto a titolo d’ipotesi6. Se, secondo quanto è stato esposto, si suppone che il Salterio continuò ad accrescersi dall’inizio alla fine e i gruppi di salmi con la numerazione più bassa sono i più antichi, si potrà osservare l’evoluzione dell’intento fondamentale che i vari redattori e compilatori hanno impresso al Salterio. È probabile che le «raccolte davidiche», nelle quali sono frequenti i poemi in prima persona singolare e che presentano un numero relativamente ampio di circostanze della vita di Davide, fossero dirette alla coltivazione individuale della fede in YHWH e avessero una funzione più didascalica che liturgica. Così s’impose l’eredità teologica e cultuale della 5 Non si può negare, all’interno di questa prima collezione «davidica», la presenza di sotto-gruppi minori (3– 5; 18–21; 26–28; 38–41). 6 Per tutto quanto riguarda la formazione e l’edizione del Salterio cfr. G.H. WILSON, The Editing o f Hebrew Psalter, Chico, Cal. 1985. Si veda inoltre IDEM, The Use of Royal Psalms at the «seams» of the Hebrew Psalter, in JSOT 35 (1986) 85-94. Introduzione ai Salmi 181 tradizione di Sion, città di Davide, che chiedeva al singolo di coltivare la fede preesilica nella salvezza emanata da Sion. La prospettiva cambiò con l’inclusione di modelli «corali» e liturgici provenienti dai circoli di cantori e leviti; il Salterio acquistò un nuovo profilo, divenendo un libro di preghiere e di canti più che di devozione7. L’inclusione dei Salmi 1 e 119 comportava nuovi accenti. La nuova raccolta trascurava l’interesse liturgico e affrontava il Salterio come documento della rivelazione divina: un manuale che forniva istruzioni in ordine alla salvezza. Se il quadro qui delineato non è senza fondamento, probabilmente esso cominciava a essere considerato «sacra Scrittura». Con l’incorporazione delle ultime addizioni (120–150), per lo più di carattere innico, riprendono forza gli interessi liturgici. A quest’epoca risalgono verosimilmente le indicazioni musicali delle intestazioni di alcuni salmi, atte a facilitarne l’esecuzione nella pratica del culto. A mano a mano andava imponendosi nell’uso della sinagoga, il Salterio prese a essere suddiviso in cinque libri (1–41; 42–72; 73–89; 90–106; 107–150)8, conclusi da altrettante dossologie9. La ragione di questa suddivisione quinaria non è molto chiara, anche se è stato avanzato il sospetto di una certa arbitrarietà nella disposizione, perché il modello di cui ci si servì furono probabilmente i cinque libri della torāh. Di fatto, una simile suddivisione non corrisponde a interessi di carattere letterario, come potrebbe essere la disposizione per tipi o generi, giacché questi ultimi sono disseminati lungo tutti i suddetti cinque libri. 4. Datazione del Salterio10 Preferiamo parlare di datazione del Salterio, anziché di salmi individuali, poiché di questi non è possibile conoscere neppure la data approssimativa di composizione. Gli sforzi in questa direzione si sono rivelati infruttuosi. Mentre alcuni ritengono che la maggior parte dei salmi sia stata composta nel periodo dei Maccabei11, Mowinckel e la «scuola mito e rituale» pensano alla monarchia come epoca aurea dei salmi12. Tuttavia nessuno dei principi metodologici presi in considerazione (eventi storici riscontrabili nei Salmi, presunte indicazioni liturgiche, uso di forme letterarie arcaiche, analisi linguistiche) ha condotto sinora a risultati nettamente convincenti. Se si riesce a dimostrare che un certo salmo riflette una situazione storica determinata13, si potrà tutt’al più dedurne di trovarsi di fronte al suo termine temporale a quo. Sarebbe parimenti incoerente dal punto di vista metodologico affidarsi all’analisi di ar7 Tuttavia è dubbio che queste caratteristiche abbiano avuto qualche crisma «ufficiale» in età intertestamentaria; cfr. N. FÜGLISTER, Die Verwendung und das Verständnis der Psalmen und des Psalters um die Zeitenwende, in J. SCHREINER (ed.), Beiträge zur Psalmenforschung, Würzburg 1988, 350. 8 Sulle suddivisioni del Salterio cfr. G.H. WILSON, Evidence of Editorial Divisions in the HebrewPsalter, in VT 34 (1984) 337-352. 9 Questo impiego liturgico contribuirebbe a spiegare il numero di 150, ricordando le 153 sezioni in cui la torāh era suddivisa. Non sorprenderebbe che ciascuna delle suddette sezioni terminasse con il canto di un salmo. Tuttavia alcuni ritengono che l’articolazione attuale del Salterio in 150 unità non ha probabilmente niente a che fare con i sedārîm o sezioni liturgiche della torāh e che, per quanto i salmi potessero essere letti in un ciclo triennale, ciò non implicherebbe necessariamente che il Salterio fosse organizzato su questa base; cfr. G.H. WILSON, The Editing of the Hebrew Psalter, 203. 10 Nonostante il metodo discutibile e talune deduzioni inaccettabili, merita attenzione R. TOURNAY, Recherches sur la chronologie des Psaumes, in RB 65 (1958) 321-327; 66 (1959) 161-190. 11 Cfr. B. DUHM, Die Psalmen, Tübingen 1899. Studi recenti di stilistica comparata tra i salmi canonici e quelli di Qumran dimostrano l’impossibilità della presenza nel nostro Salterio di composizioni del periodo maccabaico. S. MOWINCKEL, Israel’s Worship II, 154s. assume una posizione critica al riguardo; cfr. A. WEISER, I Salmi. Parte prima: Ps. 1–60, Brescia 1984, 97. 12 Si veda, in particolare, S. MOWINCKEL, Israel’s Worship II, 146-158. 13 Su questo terreno viene messa alla prova la nostra prudenza. Non soltanto è molto difficile determinare rigorosamente quale sia l’evento storico adombrato nel salmo – per l’assenza di particolari e la descrizione stilizzata di «situazioni emotive» più che di «situazioni storiche» –, ma è pure da considerare che un fatto storico può essere assurto col tempo alla categoria di prototipo ermeneutico, come nel caso dell’esodo, ed essere utilizzato secoli dopo senza alcun riferimento a fattori di carattere storico. 182 Introduzione ai Salmi caismi formali o di elementi linguistici per procedere alla datazione di un salmo14, dal momento che la poesia religiosa sia israelita sia medio-orientale è caratterizzata, tra l’altro, dalla tendenza a imitare modelli precedenti e dall’uso di un lessico arcaizzante15. D’altra parte, come si vedrà al momento opportuno, i salmi sono stati sottoposti a un complicato processo di sviluppo16 e adattamento17. Non vi è dubbio che, prima di Davide, in Israele si coltivava – non si sa su quale scala – la poesia religiosa. Lo confermano esempi decisamente antichi come Es 15,1-18 e Gdc 5. D’altro canto se la maggior parte dei salmi sono, almeno in origine, poemi cultuali, alcuni modelli potrebbero risalire ai primordi dell’istituzione del culto a Gerusalemme con Davide e Salomone. Altri parlano dell’esilio di Babilonia (Sal 137). Alcuni, infine, sono a tal punto correlati con le preoccupazioni e i connotati letterari del mondo dei sapienti, da dover pensare necessariamente al periodo postesilico avanzato18. Di conseguenza il Salterio è una raccolta di poemi composti lungo un arco temporale di vari secoli. Come termine ad quem per la prima redazione si dovrà pensare al III/II secolo a.C. Secondo quanto si è suggerito, è indubbia l’esistenza di un processo storico di reinterpretazione di questi poemi religiosi. Alcuni di essi rivelano chiaramente la loro natura di opere letterariamente riformulate, sia come risultato dell’unione di parti già esistenti19 sia come segmenti di salmi reinterpretati alla luce di un nuovo contesto storico20. Numerosi salmi costituiscono senza dubbio il risultato dell’attività, durante il periodo esilico o postesilico, di scribi preoccupati degli aspetti pietisti della torāh o della sapienza21 più che della dimensione cultuale. Così si spiegano le «antologie» rappresentate da Sal 25; 33; 34; 103; 119, ecc. 5. Il testo dei salmi Testo masoretico22 Il testo ebraico dei salmi offre molte difficoltà, e spesso si è ripetuto che è tra quelli meno ben conservati della Bibbia. Di conseguenza, la critica testuale ha trovato un immenso campo di lavoro con le opinioni più svariate circa il valore del TM. Non possiamo qui entrare nei dettagli, per i quali rimandiamo ai commentari ai salmi. Oltre a quelli abituali e comuni ad altri testi, quali cause possono aver concorso in modo particolare per i salmi a «corrompere» il testo come si trova nel textus receptus della tradizione masoretica? Possiamo enumerarle ipoteticamente: 14 Nonostante le argomentazioni di M. DAHOOD, Psalms III (AB), New York 1970, XXXIV-XXXVII. In effetti lo stesso fenomeno è riscontrabile tanto nella poesia quanto nella narrativa. 16 Si veda L. SABOURIN, Le livre des Psaumes, Montréal-Paris 1988, 35. 17 Alcuni drammatici avvenimenti storici – ad esempio la caduta della monarchia e la distruzione del primo tempio, l’esilio babilonese o la soggezione ai persiani – resero certamente necessaria la rilettura di alcuni salmi. 18 Probabilmente i salmi 90; 129 e altri che, come questi, implicano uno stato permanente di dolore e rispecchiano la necessità di un’immediata restaurazione. 19 Al riguardo è evidente il rapporto tra i salmi 18 e 144, o tra 115 e 135, così come l’identità dei salmi 70 e 40,14-18 e la composizione del salmo 108 a partire da 57,8-12 e 60,7-14. Cfr. P.D. MILLER, Interpreting the Psalms, 12. 20 Questo aspetto della reinterpretazione è riscontrabile nella trasformazione di poemi preesilici individuali in salmi comunitari, avvenuta durante il periodo esilico o postesilico, processo nel quale l’«io» individuale originario si è trasformato nell’«io» della comunità israelitica. Le diverse circostanze storiche produssero un nuovo significato di questi poemi. In proposito cfr. J. BEGRICH, Israel deutet seine Psalmen. Urform und Neuinterpretation in den Psalmen, Stuttgart 21967, 24-35. 21 Sulla progressiva influenza della tradizione sapienziale e della torāh nella formazione del Salterio cfr. N. FÜGLISTER, art. cit., 354-365. Sulla torāh e i salmi in particolare si veda B. DE PINTO, The Torah and the Psalms, in JBL 86 (1967) 154-174; J. REINDL, Weisheitliche Bearbeitung von Psalmen, in VTS 32 (1981) 333-356. 22 Cfr. E. BEAUCAMP, Psaumes, in DBS 9 (1979) 190-206; B. D. EERDMANS, Essays on Masoretic Psalms (OTS 1/2.3), Leiden 1942; l’edizione diplomatica del testo masoretico nella Biblia Hebraica Stuttgartensia, Stuttgart 1977, è stata curata da H. BARDTKE. 15 Introduzione ai Salmi 183 – la frequente trascrizione del testo salmico, che fu senz’altro tra i più usati e, quindi, più bisognosi di copiature; gli ebrei non scrivevano più su tavolette, il materiale usato (papiro o pergamena) si logorava facilmente; – la lingua poetica dei salmi, talora arcaica o arcaizzante, non fu probabilmente sempre compresa nel variare delle epoche nelle quali i salmi erano recitati o cantati; – possibili ritocchi attualizzanti, per adattare la preghiera a nuove e mutate condizioni, potrebbero aver «forzato» il testo tramandatoci; – caratteristiche della poesia ebraica, specialmente delle sue leggi metriche, possono «giustificare» certe apparenti incongruenze, presunti errori o licenze poetiche. Avendo sempre presenti queste possibili cause, considerate nella prospettiva storica di un testo che si è formato non a tavolino ma nella temperie culturale-religiosa di molti secoli e nel crogiuolo infuocato di un’esistenza complessa e drammatica di un popolo intero, si può accostare con fiducia il testo ebraico dei salmi. L’edizione diplomatica della Biblia Hebraica Stuttgartensia contiene molte proposte correzionali in meno rispetto alle edizioni precedenti: forse anche questo è un segno di maggior cautela nel ritenere corrotto il TM. Recentemente, soprattutto ad opera di M. Dahood, si è tentato di comprendere meglio i salmi biblici con l’ausilio della lingua ugaritica. Dahood sostiene che il testo consonantico conservatoci dai masoreti è molto buono, ma va vocalizzato spesso in modo differente, tenendo conto della lingua e della poesia ugaritica. L’interpretazione dei salmi alla luce dell’ugaritico ha suscitato perplessità e riserve23. Anche la scoperta dei manoscritti di Qumrân, particolarmente il rotolo proveniente dalla grotta 11, indicato con la sigla 11QPsa, ha indotto a maggior cautela nel proporre correzioni del TM. Una migliore conoscenza dell’ebraico, della poesia e della metrica ebraica, delle lingue affini, e un confronto accurato con i testi di Qumrân ci daranno la possibilità di evitare un’ingenua fiducia nel TM, ma anche un radicalismo critico che tende a vedere corruzioni del testo ad ogni piè sospinto. La traduzione greca dei LXX24 La versione dei LXX è stata definita, riguardo ai salmi, troppo materialmente letterale, fino a ricalcare le parole, a costo di sacrificare il senso. Ciò supporrebbe dimostrato che i LXX traducono un testo ebraico identico al nostro TM. Ma nonostante la materiale aderenza al testo da cui dipende, la versione dei LXX differisce notevolmente dal TM. È possibile pensare che i LXX avessero di fronte un testo ebraico diverso dal nostro TM. I frammenti greci del salterio, scoperti a Qumrân, sarebbero, secondo D. Barthélemy25 un primo tentativo di revisione del testo dei LXX in base all’ebraico, che diverrà poi il TM. Oggi si tende a non esagerare le differenze tra i LXX e il TM, ma nello stesso tempo si fa strada l’opinione che l’originale ebraico che sta alla base della versione greca fosse diverso dal TM. Ciò suppone che i LXX rispecchino un testo ebraico forse più antico? Non ci è possibile qui una discussione più dettagliata, che si può trovare nei commentari. Così pure ad essi rimandiamo per notizie sulle versioni di Aquila, Teodizione e Simmaco. 23 Cfr. per es. H. DONNER, Ugaritismen in Psalmenforschung, in ZAW 79 (1967) 322-350. Cfr. A. RAHLFS, Psalmi cum Odis (Septuaginta Societatis Scientiarum Gottingensis auctoritate edidit, 10), Göttingen 1931; IDEM, Septuaginta id est Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes, vol. 2, Stuttgart 1935, 1-164; G. BERTHRAM, Praeparatio evangelica in der Septuaginta, in VT 7 (1957) 225-249; J. GRIBOMONT – A. THIBAUT, Méthode et esprit des traducteurs du Psautier grec, in Richesses et déficiences des anciens Psautiers latins (CBLa 13), Città del Vaticano 1959, 51-105; S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968; A. PIETERSMA, The Greek Psalter. A Question of Methodology and Syntax, in VT 26 (1976) 60-69. 25 D. BARTHELEMY, Redécouverte d’un chaînon manquant a l’histoire de la Septante, in RB 60 (1953) 18-19. 24 184 Introduzione ai Salmi I salmi a Qumrân26 Nelle celebri grotte di Qumrân furono scoperti numerosi frammenti di salmi canonici, in totale più di 30. Le più ricche di testi dei salmi sono state la grotta 4 (18 manoscritti) e 11 (5 manoscritti). Ricordiamo in particolare il rotolo contrassegnato con la sigla 11QPsa che contiene 41 salmi su 28 colonne. I testi di Qumrân sono di circa 1000 anni anteriori al nostro TM. Lo studio dei salmi scoperti a Qumrân confrontati con il TM sembra documentare uno stadio di graduale fissazione del salterio canonico che, nel sec. I a.C., godeva ancora di un certo stato di fluidità. A Qumrân sono stati trovati anche salmi propri della comunità che vi risiedeva, come per es. il Sal 151, presente anche nei LXX. Non possiamo dire con sicurezza se ciò significhi che non esisteva ancora una «serie canonica» autoritativa di salmi, ma sembra più verosimile pensare che non esistesse ancora chiara consapevolezza su un elenco canonico chiuso dei salmi. Le varianti offerte dai testi di Qumrân rispetto al TM sono di grande valore per ricostruire il testo più attendibile possibile. È da notare che alcune di esse coincidono con quelle dei LXX. La Pešièta27 Un’antichissima versione, che dipende in parte dai LXX, è quella siriaca detta Pešièta, ossia «comune» o «semplice», del sec. I-II d.C. Discusso è il valore critico testuale di questa versione, sia per i suoi rapporti con i LXX sia per le differenze rispetto al TM. L’importanza della Pešièta per la critica testuale si può misurare anche dal rilievo datole nell’apparato critico dell’edizione rinnovata della Bibbia ebraica, curata in passato da Kittel e collaboratori e ora edita come Biblia Hebraica Stuttgartensia. Traduzioni latine28 Le traduzioni latine, conosciute soprattutto dalle tre versioni latine preparate da san Girolamo29, non offrono grande aiuto per la critica testuale. Sono interessanti, come anche la versione targumica aramaica, soprattutto per la storia dell’esegesi sia nell’ambiente giudaico (per quanto riguarda i «targumîm», che erano versioni aramaiche libere), sia in quello cristiano (per le versioni latine). La Vulgata ha avuto grande importanza per il riconoscimento ricevuto da una secolare tradizione ecclesiastica che ne ha fatto la versione usata nella liturgia. Il Concilio di Trento ne aveva riconosciuto anche il valore di testo giuridicamente «autentico». Ovviamente non ha 26 Cfr. J. A. SANDERS, The Psalms Scroll of Qumran Cave 11 (11QPsa), in Discoveries in the Judaean Desert of Jordan, IV, Oxford 1965; IDEM, Pre-Masoretic Psalter Texts, in CBQ 27 (1965) 114-123; IDEM, The Psalter at the Time of Christ, in BiTod 22 (1966) 1462-1469; IDEM, The Dead Sea Psalms Scroll, Ithaca/N.Y. 1967; P. W. SKEHAN, The Apocriphal Psalm 151, in CBQ 25 (1963) 407-409; IDEM, A Psalm Manuscript from Qumran (4QPs), in CBQ 26 (1964) 313-322; IDEM, The Biblical Scrolls from Qumran and the Text of the Old Testament, in BA 28 (1965) 87-100.97-115; J. OUELLETTE, Variantes qumrâniennes du livre des Psaumes, in RdQ 7 (1969) 105-123; M. DELCOR, Zum Psalter von Qumrân, in BZ 10 (1966) 15-29; L. MORALDI, I manoscritti di Qumran, Torino 21986; G. H. WILSON, The Qumran Psalms Manuscripts and the Consecutive Arrangement of Psalms in the Hebrew Psalter, in CBQ 45 (1983) 377-388. 27 Cfr. A. VOGEL, Studien zum Pešièta-Psalter. Besonders im Hinblick auf sein Verhältnis zu Septuaginta, in Bib 32 (1951) 32-56; P. A. H. DE BOER, The Book of Psalms (Pešièta), Leiden 1980. 28 Cfr. A. BEA, La nuova traduzione latina del salterio, in Bib 26 (1945) 203-237; IDEM, I primi dieci anni del nuovo salterio, in Bib 36 (1955) 161-181; V. HAMP, Nova Vulgata – Neo-Volgata, in BZ 22 (1978) 284-285; N. M. LOSS, Annotazioni sul salterio della Neo-Volgata nella nuova «Liturgia Horarum», in Sal 36 (1974); J. H. MARKS, Der textkritische Wert des Psalterium Hieronymi iuxta Hebraeos, Winterthur 1956; F. MINUTO, Dopo la nuova versione latina dei Salmi, in Aevum 28 (1954) 301-329; H. DE SAINTE-MARIE, Sancti Hieronymi Psalterium iuxta Hebraeos (CBLa 11), Città del Vaticano 1954. 29 Nel 384 corresse secondo il testo greco una traduzione latina allora in uso; tra il 389 e il 392 ne operò una revisione secondo le Hexapla: è la versione denominata «Gallicana»; nel 392-393 tradusse direttamente dall’ebraico, «iuxta hebraicam veritatem» Introduzione ai Salmi 185 più quel valore da quando la riforma liturgica, dopo il Concilio Vaticano II, ha introdotto le versioni in varie lingue dai testi originali. Recentemente è stata pubblicata una riedizione, corretta secondo le moderne conoscenze esegetiche, della Vulgata con l’appellativo di Neo-Vulgata perché conserva lessico e stile, per quanto è possibile, dell’antica versione (anno di pubblicazione 1979). La trasmissione testuale La critica specialistica distingue quattro stadi di trasmissione testuale. Il primo, oggetto di studio della critica letteraria, corrisponde alla composizione del testo nella forma originale; si cerca di ricostruirlo «depurandolo» dalle alterazioni alle quali può essere stato sottoposto nel corso del tempo. Il secondo stadio, campo di lavoro della critica testuale, corrisponde alla forma testuale più antica. Poiché il testo, «redatto» in forma stabilita normativamente per una funzione determinata, è stato copiato molte volte, il critico deve cercare di fissare la forma più antica a partire dallo studio particolareggiato delle varianti testuali. Nel terzo stadio i rabbi portano a compimento la sistemazione del testo consonantico a partire dal 70 d.C. (textus receptus). L’importanza di tale «testo protomasoretico» è stata apprezzata paragonandolo alla tradizione testuale greca e ai testi di Qumran. Questo terzo stadio deriva dalla convinzione che i Salmi sono parte della sacra Scrittura e perciò è possibile una sola forma testuale. Il quarto stadio corrisponde all’opera dei masoreti (in particolare a Tiberiade, IX-X secolo d.C.): un sistema di vocalizzazione e di accenti tendente a proteggere il testo sacro da eventuali manipolazioni. I più antichi testimoni di quest’opera sono i codici di Aleppo e di Leningrado. 6. I titoli Le Bibbie moderne hanno l’abitudine di assegnare un titolo ad ogni salmo; qui però non ci interessiamo a questi, ma a quelli che seguono e che vengono contati nella numerazione dei versetti; per esempio, 84,1; 85,1; 88,1; ecc. «L’oscurità dei titoli tiene nascosta, e nel modo più irritante, la chiave dell’enigma del salterio e delle sue origini. Dovrebbe trovarsi lì la testimonianza irrecusabile di ciò a cui serviva lo scritto, ma questa testimonianza rimane indecifrabile. In mancanza di informazioni chiare, si può supporre il genere delle informazioni che essi volevano trasmettere»30. Sebbene sia ormai fuori discussione la non appartenenza dei titoli al testo sacro, tuttavia essi meritano una certa attenzione e anche un certo rispetto per la loro antichità. Essi sono conosciuti dai LXX e tradotti, sebbene spesso non siano stati compresi; e già al tempo della composizione delle Cronache il loro esatto significato era andato irrimediabilmente perduto. Abbiamo così: 1) Titoli riguardanti in qualche modo il genere letterario, quali: a) mizmôr, 57 volte), che i LXX traducono per lo più con psalmós, «salmo», cioè: canto accompagnato dal suono di uno strumento (dal verbo zāmar, «cantare al suono di uno strumento»). b) šîr (canto, 30 volte); in Sal 45 abbiamo: šîr jedîdôt, «canto d’amore», oppure «epitalamio». c) maókîl (13 volte), «salmo sapienziale» (?). d) miktām (Sal 16 e 56-60), «salmo allusivo» (?), oppure, secondo altri, «preghiera segreta» (dal verbo kātam, «nascondere»), oppure, secondo l’interpretazione dei LXX, «canto da iscrivere su stele» (?). e) šîggāyôn (Sal 7), «lamento», oppure «salmo penitenziale» (cfr. l’accadico šegû). f) tefillāh (Sal 17; 86; 90; 142 e alla fine del Sal 72), «preghiera». 30 BEAUCAMP, Psaumes, 137. 186 Introduzione ai Salmi 2) Titoli riguardanti annotazioni musicali: a) higgājôn (Sal 9,17; 92,4), «meditazione», oppure «musica meditativa». b) selāh, 71 volte in 31 salmi. Incerta è la sua etimologia, come anche il suo significato. Trovandosi alla fine di una strofa, forse indica una pausa, una specie di «intermezzo», per consentire alla folla di prostrarsi in adorazione. Secondo altri, al contrario, selāh starebbe ad indicare un «crescendo» della salmodia o del suono degli strumenti. c) binegînôt (Sal 4; 6; 54; 55, 61; 67; 76), «su strumenti a corda». d) ’el hanne˙îlôt (Sal 5), «per strumenti a fiato». e) ‘al haššemînît (Sal 6; 12), «sull’ottava (= in tono di basso)»; oppure «sull’ottava (corda dell’arpa)». 3) Titoli indicanti melodie o arie popolari: a) ‘al haggîttît (Sal 8; 81; 84), «sulla (melodia) ghittita», che si riferisce probabilmente a un canto proprio del corpo di guardia di Davide proveniente dalla città di Gat (cfr. 2Sam 15,18). Altri pensano a uno strumento caratteristico portato da Davide da Gat. In tal caso l’annotazione farebbe parte del gruppo precedente. b) ‘al yedûtûn (Sal 62 e, con variante yedîtûn, Sal 39 e 77), «secondo (la maniera o la melodia) di Yedutun». Yedutun figura nelle Cronache (cfr. 1Cr 16,41 e 2Cr 5,12) come uno dei più importanti maestri di coro al tempo di Davide. c) ‘al mût labbe\n (Sal 9), «secondo Morte al figlio», oppure «sull’aria di La morte del figlio». d) ‘al ajjelet hašša˙ar (Sal 22), «secondo (l’aria di) La cerva del mattino». e) ‘al šôšannîm (Sal 45; 69), «secondo (l’aria di) I gigli». f) ‘al šûšan ‘edût (Sal 60 e con la variante šôšannîm in Sal 80), «secondo (l’aria di) Il giglio (var.: I gigli) della testimonianza». g) ‘al jônat e\lem re˙oqîm (Sal 56), «secondo (l’aria di) La colomba dei terebinti lontani(?)». h) ’al-taš˙e\t (Sal 57-59; 75), lett.: «Non distruggere»; ma del tutto incerto rimane il significato di questa espressione. 4) Titoli che si riferiscono al culto o in qualche modo all’impiego liturgico del salmo: a) lejôm haššabbat (Sal 92), «per il giorno del sabato». b) lehazkîr (Sal 38; 70), lett.: «per ricordare» («in memoria»), in riferimento forse all’offerta dell’incenso o, secondo alcuni, al sacrificio della ’azkārāh (per il quale cfr. Lev 2,2ss). c) letôdāh (Sal 100), «per il rendimento di grazie», in riferimento al sacrificio di ringraziamento, che più volte viene menzionato nei salmi di lamentazione e di ringraziamento (cfr. inoltre Lev 7,12). d) lelamme\d (Sal 60), lett.: «per insegnare». e) šîr hamma¨’alôt (Sal 120-134), lett.: «canto delle ascensioni» (così le versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione), con riferimento al pellegrinaggio (ma‘a¨lāh, «salita») alla Città santa. Altri preferiscono tradurre con «canto graduale» in riferimento ai gradini della scalinata che conduceva al tempio. 5) Titoli che riguardano circostanze storiche. Tredici salmi recano annotazioni che si riferiscono per lo più ad alcuni momenti della vita di Davide, come la persecuzione subìta da parte di Saul (Sal 7; 34; 52; 56; 57; 59; 142), il trionfo su tutti i suoi nemici (Sal 18, riportato per intero in 2Sam 22), la guerra siro-ammonita (Sal 60), il peccato con Betsabea (Sal 51, cioè il famoso Miserere), e infine la sua fuga di fronte ad Assalonne (Sal 3; 63). 6) Titoli, infine, con il lamed (l) di autore o di attribuzione31. Più di due terzi dei salmi (101 su 150!) portano l’indicazione di un personaggio a cui viene attribuita la composizione o, se31 Questo lamed è seguito settantatré volte dal nome di Davide; si è imposta allora l’abitudine di considerare i salmi introdotti da ledāwid come dei «salmi di Davide». Progressivamente l’uso è passato dai salmi (3-41; ecc.) ai fascicoli (cfr. 72,20: «preghiere di Davide», senza lamed), e poi a tutto il libro. La realtà non è però così sem- Introduzione ai Salmi 187 condo una interpretazione più recente (basata su paralleli ugaritici), della particolare collezione a cui il salmo apparteneva prima della sua accettazione nel Salterio. Essi sono: a) ledawîd, di Davide, 73 salmi (nei LXX 84 salmi: to Daueid). b) le’āsāf, di Asaf, 12 salmi: Sal 50; 73-83. c) libenê Qora˙, dei figli di Core, 11 salmi: Sal 42; 44-49; 84-85; 87-88. d) lišelomoh, di Salomone, Sal 72; 124. e) lemôšeh, di Mosè, Sal 90. f) lehêmān, di Heman, Sal 88. g) le’êtan, di Etan, Sal 89. Qui infine va ricordata l’espressione che ricorre in ben 55 salmi, e cioè lamenaßße\a˙, che i LXX traducono con eis télos (Vg: in finem), derivando dal verbo nāßa˙: «portare a termine». Oggi si preferisce far derivare il termine dalla radice nß˙, che ricorre frequentemente nelle Cronache per indicare la «supervisione» dei lavori di costruzione del tempio, come anche delle funzioni sacre che in esso si svolgevano (cfr. 1Cr 23,4; Esd 3,8s); lamenaßße\a˙ quindi (con lamed di destinazione) significherebbe, almeno all’origine, il «supervisore» o «direttore», oppure, secondo altri, il «maestro di coro». Circa il significato e il valore dei titoli va ricordato che già al tempo di S. Girolamo, negandone alcuni l’appartenenza al testo sacro dei salmi, non vi si riconosceva autorità assoluta; anzi la Chiesa di Antiochia li rigettò come falsi e nella versione siriaca della Pešièta furono del tutto omessi. Nel sec. XVIII la critica storica, dal canto suo, ravvisò in essi non delle note introduttive atte a facilitare la comprensione del salmo, ma delle aggiunte superflue (immeritevoli perciò di qualunque considerazione) della tardiva tradizione giudaica. Analoga posizione radicale contro il valore storico e letterario dei titoli, nei tempi recenti, ha assunto lo stesso H. Gunkel. Ma oggi fra gli studiosi, come per esempio in Scandinavia la scuola di Uppsala, si sta manifestando un sempre crescente interesse per queste antichissime e, perciò, preziose annotazioni, le quali fanno intravedere, anche se non in modo sufficiememente intelligibile, una certa storia che ha accompagnato la plurisecolare trasmissione del salterio e la sua utilizzazione sia nel culto ufficiale come nella pietà privata d’Israele. plice. Innanzitutto la mentalità di questi tempi antichi non si preoccupava dell’autore reale di un’opera come lo si fa oggi. Interessandosi apparentemente a quello che noi chiamiamo «l’autore», gli antichi si preoccupavano di più di riferirsi a una personalità il cui «patronato» avrebbe aiutato a comprendere il significato del testo. «Il pensiero di una paternità letteraria sembra qui anacronistico. La Bibbia identifica, in genere, l’autore di uno scritto solo nella misura in cui viene coinvolto un preciso messaggio» (BEAUCAMP, Psaumes, 139). I compilatori del salterio propongono quindi a coloro che utilizzeranno la loro opera di cantare i salmi assimilandosi, in qualche modo, a Davide, o a Mosè (Sal 90), o a Salomone (72; 127) a meno che non propongano loro di unire le loro voci a quelle dei leviti, «figli di Asaf» e «figli di Core». Anche le interessanti notizie «storiche» contenute nei titoli di alcuni salmi, non avevano forse soprattutto lo scopo di spingere coloro che recitavano o cantavano un certo salmo etichettato come ledāwid ad «assimilarsi» al re? (cfr. il «titolo» dei Sal 3; 7; 18; 34; 51; 52; 54; 56; 57; 59; 60). Il fedele che ascolta o canta il Sal 51 può conoscere meglio, grazie alla menzione di Davide penitente, quale pentimento debba suscitare in lui la meditazione di questo cantico. Altri commentatori considerano che il lamed introduca il nome di colui che canterà il salmo; questo significato si addice abbastanza bene alla formula che fa riferimento ai leviti già menzionati, a Eman (88) e poi a Etan (89) entrambi «Ezraiti». Si comprenderebbero allora un po’ meglio le formule enigmatiche riferite ugualmente nei titoli e che sembrano regolare l’esecuzione musicale; «su strumenti a corda», dicono alcuni testi (Sal 4; 6; 54; 55, 61; 67; 76; Ab 3,19). La traduzione delle altre espressioni equivalenti è meno certo; ad ogni modo, si tratta di rubriche musicali antiche, così antiche che le stesse versioni non ne conoscono più il significato. Un buon esempio delle difficoltà incontrate nella traduzione e nell’interpretazione di questi titoli è fornita dallo studio di M. DELCOR, La portée liturgique de la suscription «Lehazkir» et des Ps 38 et 70, in Mens concordet voci... A.G. Martimort, Paris 1983, 413-422. 188 Introduzione ai Salmi 7. Autori dei salmi Contro ca. 48 salmi anonimi (secondo il TM) nel senso che i loro titoli non presentano alcun nome, gli altri ca. 102 sono così attribuiti: 73 a Davide, 12 ad Asaf, 11 ai figli di Core, 2 a Salomone, 1 a Mosè, 1 a Yeditun, 1 a Heman, 1 a Etan. E le attribuzioni aumentano nei LXX e altre versioni, continuando ad assegnare a Davide la parte del leone. La pseudonimia La tendenza ad attribuire a un autore distintosi in un determinato genere scritti similari è talmente accentuata, specialmente nella letteratura biblica sapienziale, che questa è passata in gran parte sotto il nome di Salomone, anche quando l’evidenza mostra che essa è di molto posteriore. Ed è proprio in questa assenza di preoccupazione per l’anacronismo che meglio si rivela il senso dell’attribuzione e, insieme, la comune coscienza della liceità del procedimento. La fama acquisita costituiva una specie di diritto ad accreditare con il proprio nome scritti analoghi di successive generazioni. Quello che nella nostra cultura occidentale accade per opere di autori sconosciuti di passare, in processo di tempo, sotto il nome di una celebrità, avveniva nel mondo semitico e biblico in particolare fin dall’origine dello scritto: nasceva, per deliberata volontà dell’autore vero e con l’assenso dei contemporanei, sotto il nome di un altro. Il fenomeno va tenuto presente anche in considerazione dell’amplissimo arco di tempo segnato dalla composizione dei salmi. La critica più recente, infatti, ha ridimensionato sia l’affermazione di un passato ormai remoto circa l’origine davidica di buona parte dei salmi sia il radicalismo negativo che ritardava la composizione di vari fino all’età maccabaica o asmonea32. La possibilità che i salmi vengano scaglionati nel corso di sei o più secoli spiega più facilmente l’abbondanza e la varietà della produzione salmica, della quale il nostro salterio è forse soltanto un’antologia, e la deliberata collocazione di molti salmi sotto il nome prestigioso di Davide. II. SALMI E POESIA33 Con felice intuizione, L. Alonso Schökel ha intitolato i suoi saggi di esegesi di 30 salmi «poesia e preghiera». Infatti i salmi sono poesia religiosa, ossia espressione poetica di esperienze religiose. La loro qualità poetica non è un ornamento o una qualificazione aggiunta, ma la loro propria forma di essere. Di conseguenza, i salmi non possono nemmeno essere veramente compresi e vissuti senza essere capiti e recitati come poesia. Soltanto una certa capacità di accogliere il testo dei salmi come poesia dà la possibilità di sintonizzarsi realmente con essi e di farli propri, non soltanto di «comprenderli» intellettualmente. E siccome pregare con i salmi significa fare un’esperienza religiosa equivalente a quella in essi espressa poeticamente, sarà decisiva una piena «fusione di orizzonti» (nel senso di Gadamer) con il testo stesso. Riteniamo perciò utile richiamare brevemente alcune caratteristiche della poesia ebraica, che ritroviamo anche nei salmi. Si tratta di peculiarità «significative» della poesia ebraica, cioè di fenomeni che sono rilevanti per il «senso» degli stessi componimenti poetici. Sappiamo infatti che forma e contenuto non sono adeguatamente distinti, anzi sono tra loro in stretta e intima interdipendenza. In conformità al carattere introduttivo della nostra trattazione, ci contenteremo di semplici «allusioni», ma ciò non va inteso nel senso di una minore importanza dell’argomento. 32 Sulle opinioni tuttora fortemente divergenti dei critici cfr. C. HAURET, Un problème insoluble? La chronologie des Psaumes, in RSR 35 (1961) 225-247. 33 Cfr. E. DHORME, La poésie biblique, Paris 1931; L. ALONSO SCHÖKEL, Estudios de Poética Hebrea, Barcelona 1963; IDEM, Poésie hébraïque, in DBS 8 (1972) 47-90; IDEM, Trenta salmi: poesia e preghiera, Bologna 1982; IDEM – E. ZURRO, La traducción bíblica: linguística y estilística, Madrid 1977; M. DAHOOD, Poetry, Hebrew, in IDBSuppl, Nashville 1976, 669-672. Introduzione ai Salmi 189 1. Parallelismo34 La poesia ebraica si basa fondamentalmente sul principio del parallelismo. Il parallelismo è un modo di pensare, prima ancora di essere una modalità espressiva. Esso consiste nella ripetizione o nello sviluppo di una intuizione poetica in più parti disposte in parallelo. Le due forme principali di parallelismo sono quelle del parallelismo sinonimico e antitetico. Come esempio di parallelismo sinonimico, leggiamo Sal 25,4: «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri» Oppure in Sal 6,7: «Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto»; e in Sal 143,5: «Ripenso a tutte le tue opere, medito sui tuoi prodigi». Nello stesso Sal 25, al v. 3, troviamo invece un bell’esempio di parallelismo antitetico: «Chiunque spera in te non resti deluso, sia confuso chi tradisce per un nulla». Nel parallelismo sinonimico si accoppiano dei sinonimi («fammi conoscere – insegnami»; «le tue vie – i tuoi sentieri»). Nel parallelismo antitetico, invece, la seconda parte esprime un senso che è esattamente l’antitesi della prima parte: nell’esempio citato sopra, a «chiunque spera in te» è contrapposto «chi tradisce per un nulla»; a «non resti deluso» è opposto «sia confuso». È detto sintetico il parallelismo nel quale il secondo stico non fa che completare il primo. Leggiamo, ad es., Sal 14,2: «Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio, se c’è uno che cerchi Dio». Il «saggio» è specificato e precisato da «uno che cerchi Dio» (cfr. per altri esempi Sal 2,6; 17,11-12; 23,5-6; 40,2-3). Il parallelismo climatico è quello in cui un elemento del primo membro viene ripetuto per ottenere l’effetto di climax o di culmine espressivo. Per es., Sal 24,8: «Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia». Oppure Sal 29,1: «Date al Signore, figli di Dio, date al Signore gloria e potenza». La ripetizione conferisce allo stile maggiore solennità, intensità e plasticità. 34 Cfr. R. LOWTH, De sacra poësi hebraeorum, Gottingae 1753; W. POPPER, Studies in biblical Parallelism, II, Berkeley 1923; M. PEIÑADOR, Estudios sobre el paralelismo de la poesía hebrea, in Illustración del Clero 33 (1940) 5-15.319-328; 34 (1941) 251-262; D. GONZALO MAESO, Contribución al estudio de la métrica bíblica: sobre la verdadera significación y alcance del «paralelismo», in Sefarad 3 (1943) 3-39; F. HORST, Die Kennzeichen der hebraïschen Poesie, in ThR 21 (1953) 97-121; L. ALONSO SCHÖKEL, En los orígenes de la literatura, in Razón y Fe 150 (1954) 59-76.203-218; R. G. BOLING, «Synonimous» Parallelism in the Psalms, in JSSt 5 (1960) 221-255. 190 Introduzione ai Salmi 2. Il ritornello Un altro procedimento stilistico frequente è il ritornello. Esso può avere funzioni differenti. Può servire da inclusione, essendo collocato all’inizio e alla fine (per es. Sal 8,2.10; 118,1.29). Inclusione è il fenomeno per cui un poema o parte di esso si apre e si conclude con lo stesso verso. Il ritornello può essere un mezzo per separare le differenti strofe (per es. in Sal 42,6.12 e 43,5). Nel Sal 107 c’è addirittura la presenza di due ritornelli: a) vv. 6.13.19.28; b) vv. 8.15.21.31. Nel Sal 136 la ripetizione continua di «eterna è la sua misericordia» non costituisce un ritornello, ma espressione della struttura litanica del salmo: un solista dice la prima parte di ogni verso e l’assemblea risponde coralmente con la seconda parte sempre uguale. A volte il ritornello sembra avere anche la funzione di segnalare il tema principale della composizione poetica, ripetendolo più volte. 3. Chiasmo35 Si denomina chiasmo la sequenza rovesciata di elementi secondo lo schema a-b-b’-a’. Leggiamo ad es. Sal 19,2: a: i cieli c’: l’opera delle sue mani b: narrano b’: annunzia c: la gloria di Dio a’: il firmamento. In questo esempio si sovrappongono due fenomeni: parallelismo sinonimico e struttura chiasmatica. La poesia e anche la prosa ebraica ha un gusto particolare per questo procedimento stilistico. Altro esempio, Sal 135,15-18: «Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano hanno occhi e non vedono hanno orecchi e non odono non c’è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica». Il chiasmo può dar luogo a una disposizione concentrica del tipo abcdc’b’a’ nella quale l’elemento d ha la funzione di membro centrale. 4. Effetti sonori36 La poesia, e quindi anche i salmi, non è fatta per essere letta solo con gli occhi, ma per essere recitata ad alta voce. Di conseguenza, la poesia ebraica, come ogni altra, assegna agli effetti sonori un’importanza fondamentale. Tra gli espedienti usati per ottenere effetti sonori menzioniamo: a) l’allitterazione: insistenza su una o più lettere, come per es. in Sal 127,1b (šāwe’ šāqad šômer) con la ripetizione della lettera š; b) assonanza: eguaglianza di vocali finali di più parole, mentre sono differenti le consonanti. Per es. Sal 22,17b-18a: kā’arû yāday weraglāy, hanno forato le mie mani e i miei piedi ’āsappe\r kol ‘aßmo\tāy, posso contare ogni mio osso Nota il ripetersi del suono ay. Purtroppo non è possibile rendere in traduzione gli effetti sonori dell’originale, ma una buona traduzione poetica dovrebbe tentare di crearne di equivalenti. 35 Cfr. A. DI MARCO, Il chiasmo nella Bibbia, Torino 1980; J. W. WELCH (ed.), Chiasmus in Antiquity: Structures, Analysis, Exegesis, Hildesheim 1981. 36 Cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, in DBS 8 (1972) 57-60. Introduzione ai Salmi 191 5. Ritmo37 Il ritmo è un movimento alternato e regolare (del corpo nella danza, dei suoni nella musica, delle sillabe lunghe o brevi, toniche o atone nella poesia). Il ritmo è artistico quando è un moto non solo meccanico, ma ottiene risultati di misura armoniosa e varia, piacevole e gradita. Gli antichi studiosi cercarono di spiegare la metrica ebraica o teoria del ritmo poetico ebraico con quella greca o romana, in cui il ritmo consiste nell’alternanza di sillabe lunghe e brevi. Una svolta fu impressa da E. Sievers (1901-1907) con l’affermazione che il ritmo ebraico è l’alternanza di sillabe toniche e atone. Questo studioso, dotato di una straordinaria sensibilità per gli aspetti sonori del linguaggio, segnò una tappa decisiva nella conoscenza del ritmo poetico ebraico. Oggi il consenso degli esegeti sembra orientato a ritenere che il ritmo ebraico si basi principalmente su un determinato numero di accenti intensivi di un’unità ritmica chiusa dal segno della pausa, grande o piccola. Il verso ebraico è racchiuso tra due grandi pause; l’emistichio termina con una piccola pausa. Se indichiamo con cifre il numero degli accenti e con il segno + la piccola pausa, allora potremmo rappresentare così un verso di due emistichi aventi ciascuno tre accenti: 3+3. Altro esempio: 2+2+2 è un verso con tre emistichi di due accenti ciascuno. Elemento caratteristico e fondamentale della metrica ebraica è dunque il verso, al cui interno il ritmo è deciso dall’alternanza e dal rapporto di sillabe accentate e non accentate. Per es., in Sal 18,17 leggiamo: yišlá˙ mimmārô:m yiqqā˙éni (3), stese [la mano] dall’alto e mi prese yaniše\:nî mimmáim rabbî:m (3), [mi] sollevò dalle grandi acque Si ha un verso costituito da due emistichi, ciascuno con tre accenti. È un verso molto frequente. Piuttosto raro è quello costituito da due emistichi con due soli accenti ciascuno; per es., Sal 137,3: šî:ru lánu, cantate per noi miššî:r ßiyyô:n, un canto di Sion Degno di nota è il verso chiamato qînâ (lamento), usato soprattutto nelle lamentazioni e costituito dallo schema 3+2. In ordine di frequenza, la poesia ebraica preferisce il verso secondo lo schema 3+3; meno usati: 2+2 e 3+2; meno frequenti ancora i moduli 4+4 o loro varianti. Il verso ebraico non conosce «piedi» metrici quali si trovano nella poesia greca e latina (giambo, anapesto) e che spesso non coincidono con i vocaboli. La metrica ebraica è molto semplice. E non si deve pensare che il poeta contasse gli accenti, poiché aveva la libertà di variare il metro all’interno dello stesso salmo. Ogni stico contiene da 2 a 4 accenti. Il poeta ebreo si lasciava guidare non da una rigida regola esterna, ma dalla legge vitale del suo senso del ritmo. Gli schemi da noi individuati (3+3; 2+2; ecc») non sono paragonabili a quelli della metrica greca o latina. 6. Altri procedimenti stilistici a) Espressione polare È un modo di esprimere la totalità mediante la menzione di due poli estremi. Ad es. «cielo e terra» per indicare tutto il creato; «notte e giorno» per designare la totalità del tempo. Nei salmi 37 Cfr. G. CASTELLINO, Il ritmo ebraico nel pensiero degli antichi, in Bib 15 (1934) 505-516; T. PIATTI, I carmi alfabetici della Bibbia chiave della metrica ebraica?, in Bib 31 (1950) 281-315.427-458; R. SEGERT, Vorarbeiten zur hebraïschen Metrik, in ArOr 21 (1953) 97-121; IDEM, Problems of Hebrew Prosody (VTS 7), Leiden 1960, 283-291; M. DAHOOD, A New Metrical Pattern in Biblical Poerry, in CBQ 29 (1967) 574-579. 192 Introduzione ai Salmi si ricorre spesso a questa modalità espressiva. Sovente l’espressione polare è associata al parallelismo. Per es. in Sal 22,3: «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo». Così pure in Sal 88,2: «davanti a te grido giorno e notte», cioè sempre. «Sedere e alzarsi», «camminare e riposare» sono espressioni polari per indicare l’intera esistenza, come nel Sal 139,1-3: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie». b) Merismo È la figura retorica nella quale la totalità è espressa menzionando i due estremi di una stessa categoria. Per es. in Sal 8,8: «bestiame piccolo e bestiame grosso». Due parti contrapposte, polari, rappresentano la totalità del bestiame. c) «Negatio paradoxa» Con questo termine si intende un modo espressivo con cui si nega retoricamente un termine per far risaltare l’opposto. Un bell’esempio si ha in Sal 51,18-19: «Non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi». Non si può citare questo passo per dimostrare il rifiuto dei sacrifici. 7. Verso la struttura letteraria L’individuazione dei diversi elementi stilistici utilizzati dai salmisti fa scoprire dei componimenti poetici organizzati, strutturati; gli elementi stilistici sono segni di questa organizzazione interna38. Così nel Sal 29, la menzione, sette volte, della «voce di YHWH» delimita il centro del salmo, costituito dai sette versetti che contengono questa menzione, distinguendolo dai vv. 1-2 e 9-11 che sono come la cornice di questo sviluppo centrale. Con la ripetizione in serie della formula «voce di YHWH», i vv. 3-9b mostrano che l’insistenza viene posta su questa teofania, sulla potenza terrificante di questa voce divina di cui gli sconvolgimenti cosmici sono l’espressione suggestiva. Invece la cornice del salmo contiene la ripetizione, organizzata simmetricamente da una parte e dall’altra della sezione centrale, delle parole: «gloria e potenza [...] atrio di santità», in 1-2, e «palazzo [...] gloria e potenza», in 9-11. I temi ripetuti all’inizio e alla fine del salmo sono identici, senza che però le realtà designate siano le stesse. I primi versetti esprimono una gloria e una potenza che sono beni propri di YHWH, questo Dio che la menzione, sette volte, della sua voce e la descrizione dei suoi effetti cosmici fanno apparire temibile. Eppure gli ultimi versetti affermano il dono che YHWH fa ai suoi fedeli della sua «gloria» e della sua «potenza». La ripetizione centrale viene collocata al centro del salmo per far apparire con più evidenza il contrasto segnalato dalla cornice del 38 J.-N. ALETTI – J. TRUBLET, Approche poétique et théologique des Psaumes, Paris 1983, fanno questo lavoro con molta abilità; la loro prima opera, Rhétorique e Poétique, introduce efficacemente alla lettura dei salmi. I numerosi studi di P. Auffret sulla Struttura letteraria dei salmi e altri testi sono stati pubblicati in varie riviste. Per citare una sola di esse, cfr. VT 26 (1976) 142-147; 27 (1977) 1-12; 29 (1979) 385-402; 30 (1980) 91-93; 31 (1981) 385-399; 33 (1983) 129-148; 34 (1984) 257-269. Apprezzamento di M. GIRARD, Les Psaumes. Analyse structurelle et interprétation, vol. 1, Montreal-Paris 1984, 20, nota 44. Introduzione ai Salmi 193 componimento poetico. Questa potenza, che Dio possiede in proprio e che si mostra terrificante nei suoi effetti cosmici, Dio la dona al suo popolo. Prendiamo ancora l’esempio del Sal 103; i vv. 8 e 17 sono in corrispondenza: «YHWH è [...] pieno di amore... [la sua collera] non per sempre» (v. 8s); «l’amore di YHWH [...] per sempre» (v. 17). Questa inclusione mostra l’affermazione principale del salmo; essa isola anche l’unità centrale (vv. 9-16) che fornisce dei dettagli sul significato di questa tesi principale. Questa unità è costruita su sette paragoni che spiegano tutti il v. 8: «YHWH tenerezza [...] pietà [...] grande nell’amore». I primi due paragoni sono negativi: «l’amore di YHWH non è come; non [...] come» (v. 10); gli altri cinque sono positivi (vv. 11-13.15) e riguardano «l’amore» (v. 11), la «tenerezza» (v. 13), e ancora l’amore (v. 17): questo amore è come. Inoltre, queste diverse considerazioni sono riferite a delle annotazioni temporali: «sempre» (v. 9), spaziali: «l’altezza [...] lontano» (v. 11s), e di nuovo temporali: «non più [...] mai più [...] sempre» (v. 16s). Questa unità, vv. 8-18, è così costruita su un piano concentrico che fa risaltare la somiglianza e ancor più la differenza che il salmista percepisce tra Dio e l’uomo: Dio non è come l’uomo, litigioso e astioso, ma perdona; è come l’uomo: padre tenero verso i suoi figli; non è come l’uomo, effimero: è stabile e il suo amore rimane come lui. Il Sal 132 è costituito da due sviluppi paralleli; il primo comprende i vv. 1-10: Davide è l’iniziatore delle azioni descritte; il secondo, i vv. 11-18: YHWH è il soggetto dei verbi e il locutore delle parole. All’interno di queste due parti, i versetti corrispondenti; vv. 1-2 e 11ab: Davide giurò a YHWH; YHWH giurò a Davide; 5-8 e 13-15: «dimora per YHWH [...] tuo riposo»; «YHWH ha scelto Sion [...] mio riposo»; 9 e 16: «i sacerdoti rivestiti di giustizia e i fedeli che cantano di gioia»; vv. 10 e 17s: Davide unto. Da notare che Davide viene menzionato all’inizio e alla fine di ogni sezione. Così il salmo presenta due parti parallele, e questo parallelismo esprime il rapporto dei temi sviluppati: al giuramento di Davide YHWH risponde col suo giuramento. Tra YHWH e Davide viene stabilita un’alleanza che comporta impegno reciproco. I procedimenti letterari appaiono quindi come eccellenti indizi del significato del testo. 8. Il linguaggio simbolico Occorrerebbe un libro intero per studiare il linguaggio simbolico dei salmisti39, tanto è grande l’importanza dell’elemento simbolico nella poesia del salterio. Il lettore viene molto presto sedotto dal linguaggio immaginoso utilizzato dai salmi. Con un po’ più di attenzione egli osserva che il fascino di questo linguaggio è dato dall’alternanza, irregolare, sempre inattesa, della formula realistica che esprime chiaramente la realtà: «Signore, quanti sono i miei oppressori!», e dall’espressione immaginosa che suggerisce subito qualcosa al di là di questa realtà: «Tu, Signore, scudo che mi circonda, mia gloria! Tu mi sollevi il capo» (Sal 3,2.4). Per quale magia, delle parole di tutti i giorni, destinate a indicare delle cose quotidiane, diventano capaci di suggerire qualcosa più del quotidiano? Per intravederlo è necessario fare delle considerazioni di ordine psicologico che vanno al di là di questa breve presentazione; se ne può trovare l’esposizione, molto documentata, nell’opera di Gilbert Durand40. Se è permesso riassumere in poche righe il risultato di questa ampia ricerca, diciamo che bisogna «cercare le categorie motivanti dei simboli nel comportamento elementare dello psichismo umano». «È nel campo psicologico che bisogna scoprire i grandi assi di una classificazione soddisfacente» dei simboli. Questi «grandi assi» sono i gesti elementari del corpo, infatti «esiste una stretta concomitanza tra essi e le rappresentazioni simboliche». 39 Cfr. L. MONLOUBOU, Les Psaumes - le symbole - le corps, in NRTh 102 (1980) 35-42; IDEM, L’immaginaire des psalmistes. Psaumes et Symboles (LeDiv 101), Le Cerf, Paris 1980. 40 G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972. 194 Introduzione ai Salmi Illuminato da queste riflessioni, il lettore del salterio è sensibile all’istanza con la quale i salmisti rinviano a tre atteggiamenti dell’uomo, che corrispondono alle distinzioni di G. Durand: l’uomo in piedi, l’uomo seduto, l’uomo in cammino. Si vedano i testi seguenti: Sal 1,1; 26,1.4.11s; 122,1s.5; 139,2s; cfr. anche Sal 65,5; 101,6s... L’uomo in piedi si ritrova, in qualche modo, in tutto ciò che esprime l’altezza: la montagna, l’uccello, la parola, il re, il padre; in ciò che esprime la separazione: il combattimento, la purificazione, il giudizio, il fuoco, il soffio. Gli animali, l’oscurità, la discesa, la fossa, la polvere, la rete, rinviano quest’uomo al combattimento di tutta la sua vita che egli affronta alzandosi in piedi. Seduto, l’uomo si dispone ad «assimilare per fondere nell’unità»: la casa, la città, il santuario, il volto, il nido, la caverna, la sposa-madre, la coppa, il cibo, gli sembrano una proiezione di ciò che egli prova in sé: la sua tendenza a unire, ad assimilare... Sedersi per essere con. Il tema del cammino esprime l’orientamento verso uno scopo; appoggiano questo tema i verbi: andare, salire, avvicinarsi... alzare gli occhi verso, la mano verso, voltare la faccia verso, tendere l’orecchio. Questo tema si collega con quello dell’evoluzione, del progresso: il divenire, la maturazione, la crescita; esso si esprime nell’immagine del figlio e dell’albero. Queste considerazioni astratte aiutano a una giusta valutazione della forza suggestiva di cui dispongono le immagini dei salmi. Queste immagini parlano incontrando le aspirazioni che sgorgano dal più profondo dell’uomo e mettono il messaggio del salmo alla portata del lettore, lo mostrano in intima comunione con lui. Allora questo lettore coglie le realtà ineffabili di cui gli si parla; ritrova in esse l’ardore delle proprie lotte, l’unità calorosa che desidera, la sua ostinata progressione verso un avvenire mai raggiunto. È così che il salmo 122 esprime l’azione cultuale attraverso una triplice immagine simbolica: innanzitutto il cammino che porta al santuario; giunto in questo luogo in cui si percepisce l’unità delle tribù, l’uomo è «seduto», in comunione col suo popolo, con Dio. Ma arriva la preghiera, cioè l’espressione di un desiderio, la tensione verso un obiettivo non ancora raggiunto. La «seduta» cultuale è solo momentanea; il possesso che si è raggiunto è solo un aldilà verso il quale bisogna ancora... camminare Un salmo è un componimento simbolicamente «strutturato», come è simbolicamente strutturato il discorso che questo componimento poetico tiene su Dio. Non ci può essere vera conoscenza del salterio che non passi attraverso uno studio strutturale del suo simbolismo. III. GENERI LETTERARI «I generi letterari costituiscono la chiave che apre all’intelligenza del salterio, chiave indispensabile per penetrare nel pensiero dei salmisti. Il genere letterario, infatti, è caratterizzato da una forma di espressione adeguata al contenuto che intende esprimere. È possibile cogliere l’uno solo attraverso l’altro, il contenuto solo attraverso la forma, il pensiero del salmista solo attraverso il suo modo di espressione. Non è quindi affatto sorprendente che lo studio dei generi letterari del salterio abbia dato un nuovo impulso alla comprensione dei salmi»41. 1. Il metodo morfocritico di H. Gunkel La storia delle forme, metodo di studio legato al nome di H. Gunkel (1862-1932), dimostrò la sua effettiva utilità anche nell’analisi dei salmi. Sebbene abbia avuto dei precursori, H. Gunkel fu ritenuto il fondatore della «formgeschichtliche Psalmenexegese»42. Il suo influsso nello studio dei generi letterari dei salmi perdura ancora. La Formgeschichte è un metodo di studio dei testi letterari che si applica a individuare piccole unità testuali e a determinare la forma letteraria o genere (Gattung). Tale metodo presuppone 41 E. LIPIÑSKI, Psaumes. I. Formes et genres littéraires, in DBS 9 (1979) 1. Nelle note di questo capitolo la semplice menzione del nome dell’autore rinvia a questo monumentale articolo. 42 Soprattutto con le sue opere: Die Psalmen, Göttingen 41926; 51968; Einleitung in die Psalmen. Die Gattungen der religiosen Lyrik Israels, Göttingen 1933; 21966 (opera pubblicata postuma ad opera del discepolo Joachim Begrich; trad. ingl. di J. D. Nogalski, Introduction to the Psalms: The Genres of the Religious Lyric of Israel, Macon, GA, 1998). Introduzione ai Salmi 195 pure che ogni unità letteraria sia da collegare con un preciso ambiente vitale (Sitz im Leben) che spiega la nascita di quella forma e le sue caratteristiche. La Formgeschichte presuppone anche una certa fissità ripetibile delle forme letterarie, le quali diventano così schemi letterari che si adattano a contesti differenti. Di conseguenza, si cerca di ricostruire la storia delle forme letterarie. La classificazione dei generi letterari proposta da Gunkel resta il punto di partenza obbligato per lo studio morfologico dei salmi. Nella nostra esposizione ci rifaremo alla classificazione gunkeliana, non tanto perché sia indiscussa e indiscutibile, ma piuttosto perché tutte le ipotesi successive di numerosi studiosi si fondano sulla fondamentale intuizione gunkeliana. A Gunkel sono stati mossi giustamente molti rilievi critici circa la sua impostazione filosofica e teologica (per es. circa il suo evoluzionismo storico, il deprezzamento del culto esterno che risente dell’influenza del protestantesimo liberale, l’idea che la pietà individuale dipenda e nasca dal culto pubblico, ecc.). Tali critiche non impediscono di riconoscere a Gunkel il merito di un’analisi preziosa dei generi letterari. Egli definisce un genere letterario in base ai seguenti elementi costitutivi: – un tema particolare – uno schema (o struttura) proprio – procedimenti stilistici peculiari – uno specifico Sitz im Leben o contesto vitale. L’investigazione critica dei generi letterari promossa da H. Gunkel si è sviluppata con una serie innumerevole di pubblicazioni che hanno corretto, precisato, ampliato e discusso le ipotesi iniziali del pioniere dello studio morfocritico dei salmi. Questa immensa opera fa concludere a uno studioso come L. Alonso Schökel: «Credo che la catalogazione dei generi letterari nel salterio sia praticamente conclusa, sebbene non dobbiamo escludere possibili sorprese»43. 2. I cinque generi letterari principali Secondo H. Gunkel, i salmi sono classificabili in cinque generi letterari principali (inni, suppliche collettive, salmi regali, suppliche individuali, salmi di ringraziamento individuale) e altri generi letterari secondari. Diamo una breve descrizione orientativa. a) Inni44 L’inno è una preghiera di lode disinteressata, tesa non tanto a chiedere, ma a lodare. Questo genere è particolarmente importante e ben rappresentato nel salterio, tanto che H. Gunkel lo considerava il «genere tipico» della preghiera israelitica anteriore all’esilio. L’intera raccolta dei salmi riceve infatti, nella Bibbia ebraica, il nome di tehillîm, cioè canti di lode, sebbene il termine tehillâ ricorra soltanto nel «titolo» del Sal 145. Sono classificati come inni i seguenti salmi: 8; 19; 29; 33; 65; 67; 68; 96; 98; 100; 103; 104; 105; 111; 113; 114; 117; 135; 136; 145; 146; 147; 148; 149; 150. A questi si aggiungono altri salmi, che alcuni studiosi considerano un genere a parte, mentre altri li fanno rientrare nel genere degli inni. Si tratta di due serie di salmi: a) i canti di Sion: 46; 48; 76; 84; 87; 122;45 b) salmi regali per YHWH: 47; 93; 96; 97; 98; 99.46 43 L. ALONSO SCHÖKEL, Trenta Salmi: poesia e preghiera, Bologna 1982, 18. Cfr. A. BARUCQ, L’expression de la louange divine et de la prière dans la Bible et en Egypte, Le Caire 1962; F. CRÜSEMANN, Studien zur Formgeschichte von Hymnus und Danklied in Israel, Neukirchen-Vluyn 1969; C. WESTERMANN, Das Loben Gottes in den Psalmen, Göttingen 1954 (= Lob und Klage in den Psalmen, Göttingen 1977, 11-124); IDEM, Der Psalter, Stuttgart 1967 (trad. it.: I Salmi, Torino 1973). 45 Sui canti di Sion, cfr. G. WANKE, Die Zionstheologie der Korachiten (BZAW 97), Berlin 1966; S. L. KELLY, The Zion-Victory Songs: Psalm 46, 48 and 76. A Critical Study of Modern Methods of Psalmic Interpretation (diss.), Vanderbilt 1968; S. LACH, Versuch einer neuer Interpretation der Zionshymnen, in Congress Volume Göttingen 1977 (VTS 29), Leiden 1978, 149-164. 46 Sui salmi regali per YHWH, cfr. E. LIPIÑSKI, Les psaumes de la royauté de Yahvé dans l’exégèse moderne, in R. DE LANGHE (ed.), Le Psautier. Ses origines. Ses problèmes littéraires. Son influence (OBL 4), Louvain 44 196 Introduzione ai Salmi STRUTTURA Il genere innico presenta una struttura molto semplice, i cui elementi formali – che non sempre ricorrono tutti insieme – sono i seguenti: – introduzione: ordinariamente è un invito alla lode, un’indicazione dei gesti da compiere o degli strumenti da usare; – corpo: è normalmente introdotto da un kî poiché causale che dà la motivazione della lode. Si loda YHWH per il suo nome, per la sua gloria, per la sua bontà e attività nel creato e nella storia, ecc.: il motivo della lode sta in Dio stesso; – conclusione: può avere forme differenti. O riprende l’iniziale invito alla lode con qualche possibile variazione o contiene un’invocazione a Dio perché ascolti la preghiera. SITZ IM LEBEN L’inno è ambientato nel culto. Spesso infatti si fa allusione al tempio (per es. Sal 100,4), al canto o alla musica (per es. Sal 33,2-3; 68,26-27) o al pellegrinaggio (per es. Sal 122,1-4) e al rituale liturgico (per es. Sal 81,3-4). La festa liturgica, alla quale partecipa l’assemblea dei fedeli, crea quel clima di lode gioiosa alla quale si unisce tutto il popolo con il grido halelu-yah, lodate YHWH, espressione che ricorre nei salmi 106; 111-113; 146; 148; 150. Dal Sitz im Leben degli inni non sembra che si possa dedurre con certezza la data di composizione di questi salmi. • Nell’opera citata sopra, C. Westermann distingue tra «salmi di lode descrittiva», che riguardano l’essere e l’agire di Dio, e i «salmi di lode informativa», che cantano qualche intervento particolare di Dio nella storia della salvezza. I salmi di lode descrittiva sono ambientati nell’assemblea cultuale; i salmi di lode individuale nell’azione liturgica di tôdāh (Sal 66,13-14). • F. Crüsemann distingue due forme indipendenti del genere innico: la «forma imperativa», che consiste in un appello alla lode ed è ambientata nel culto (per es. Es 15,21), e la «forma participiale», con la formula conclusiva «YHWH ßebaot è il suo nome», la quale ha il suo Sitz im Leben nella polemica contro gli dèi pagani. b) Suppliche collettive47 Gunkel ha introdotto il termine «lamentazione», ma forse è meglio dire «supplica», perché il «lamento», ossia l’evocazione della situazione di disgrazia, non è l’elemento dominante. Infatti il salmista evoca il passato o il presente doloroso non per abbandonarsi ad esso con rassegnazione stoica, ma per protestare e gridare a Dio perché intervenga. Il salmista non è uno stoico che soccombe e si sottomette alla sventura, ma prega il suo Dio di liberarlo. La supplica o domanda di liberazione è dunque l’elemento portante dei seguenti salmi: 44; (58); 74; 79; 80; 83; (106); (125). STRUTTURA Le suppliche collettive si articolano normalmente in tre momenti: – introduzione: appello a Dio o al suo nome e un verbo all’imperativo (per es. Sal 44,2; 60,3; 74,1-2); tale appello può essere ampliato e variato; – corpo: esposizione della condizione di dolore, prova, sventura, ecc., del popolo di Israele; su questa esposizione si fonda la supplica e la domanda di intervento liberatore di 1962, 133-272; IDEM, La royauté de Yahvé dans la poésie et le culte de l’ancien Israël, Bruxelles 1965; J. COPPENS, La date des psaumes de l’intronisation et de la royauté de Yahvé, in EThL 43 (1967) 192-197; J. H. ULRICHSEN, YHWH malak: einige sprachliche Beobachfungen, in VT 27 (1977) 361-374; J. COPPENS, La royauté de Yahvé dans le psautier, in EThL 53 (1977) 297-362; 54 (1978) 1-59; P. WELTEN, Königsherrschaft Jahwes und Thronbesteigung. Bemerkungen zu unerledigten Fragen, in VT 32 (1982) 297-310. 47 Cfr. C. WESTERMANN, Struktur und Geschichte der Klage im Alten Testament, in ZAW 66 (1954) 44-80 (= Forschungen am Alten Testament, München 1964, 266-305); N. LOHFINK, Enthielten die im Alten Testament bezeugten Klageriten eine Phase des Schaweigens?, in VT 12 (1962) 269-277; H. W. WOLFF, Der Aufruf zur Volksklage, in ZAW 76 (1964) 48-56; E. GERSTENBERGER, Der Klagende Mensch, in Probleme biblischer Theologie (ed. H. W. WOLFF), München 1971, 64-72. Introduzione ai Salmi 197 YHWH, congiunta con la proclamazione della sua potenza e bontà o con l’evocazione delle grandi gesta salvifiche della storia passata; – conclusione: espressione di fiducia o di ringraziamento, oppure ripresa dell’appello iniziale (per es. Sal 74,22-23; 79,12). Come nelle suppliche individuali, tre sono gli attori in gioco: il noi della comunità, il tu di Dio cui si fa appello, e l’essi dei nemici che insidiano la vita del popolo. La supplica è spesso espressa nella forma di un interrogativo rivolto a Dio: «Perché dormi?» (Sal 44,24); «Perché nascondi il tuo volto?» (Sal 44,25); «Fino a quando sarai adirato?» (Sal 79,5; 80,5). Ricorrono anche rimproveri rivolti a Dio: per es. in Sal 44,10: «Tu ci hai respinti». Simili toni e lamenti sono molto affini a quelli che si trovano nel Deuteroisaia. Altro elemento di notevole importanza è l’accusa dei nemici, colpevoli di tramare e compiere il male contro il popolo di Dio e di disprezzare in modo blasfemo sia Dio sia il suo popolo. SITZ IM LEBEN Secondo H. Gunkel, i salmi di questo genere facevano parte del rituale dei grandi giorni del ßo\m, o digiuno penitenziale celebrato dalla comunità per confessare i propri peccati in caso di calamità pubbliche, chiedere perdono e gridare a Dio per ottenere salvezza. Lo studio citato di Wolff ha messo in risalto la formula di convocazione alla liturgia pubblica nella quale si recitavano questi salmi, mentre l’articolo di N. Lohfink sottolinea l’importanza dei momenti di silenzio in questa medesima liturgia. Una ripresa di tutti i dati sulla liturgia penitenziale in Israele è stata compiuta da E. Lipiñski48, il quale afferma, circa il Sitz im Leben: «Le liturgie nazionali di penitenza sono tra le forme di culto meglio attestate nell’antico Israele. Quando una guerra, una battaglia perduta, un’epidemia, una siccità prolungata o un cattivo raccolto, un’invasione di cavallette o qualche altra analoga calamità colpivano la nazione, quando una qualsiasi sventura si profilava all’orizzonte e minacciava di abbattersi sul popolo (cfr. Dt 9,18.25; 1Re 8,33-53; Os 7,14; Gl 1-2; Gio 3,9; Est 4,3; Esd 8,21-23; 2Cr 20,9), le autorità competenti decretavano un giorno di penitenza collettiva»49. c) Salmi regali50 L’istituzione monarchica, in Israele, non era un fatto puramente politico, ma rivestiva un carattere sacro. Il re infatti veniva consacrato con l’unzione, mediante la quale gli era concesso lo «spirito di YHWH»; così il re era adottato da Dio come «figlio» e diventava il suo rappresentante in terra. Il giorno dell’incoronazione era quindi il giorno della «nascita» del figlio adottivo di YHWH, che riceveva la missione di reggere con «giustizia» ßedāqâ e «diritto» mišpāè51. Sono classificati in questa categoria i seguenti salmi: 2; 18; 20; 21; 45; 72; (89,47-52); 101; 110; 132; 144,1-11. STRUTTURA Questa serie di salmi non presenta una struttura tipica e costantemente ricorrente, cioè non seguono uno schema fisso. Tuttavia ricorrono di frequente alcuni temi ed elementi stilistici: – oracolo: si tratta del Königprotokoll, ossia del decreto divino rivolto al re (per es. Sal 2,7-9; 110,1.34); – promessa dinastica: è ricordata la promessa divina alla dinastia davidica (per es. Sal 20,2-6; 72,1-2; 132,1-2.10); – supplica per il re: si invoca da Dio l’aiuto e la protezione per il re. 48 E. LIPIÑSKI, La liturgie pénitentielle dans la Bible, Paris 1969. LIPIÑSKI, 86-87. 50 Cfr. J. BECKER, Die kollektive Deutung der Königspsalmen, in ThPh 52 (1977) 561-578; J. H. EATON, Kingship and the Psalms, London 1976; S. SPRINGER, Neuinterpretation im Alten Testament. Untersucht an den Themenkreisen des Herbstfestes und der Königspsalmen in Israel (Stutt. Bihl. Beitr., 5), Stuttgart 1979, 109-190. 51 Cfr. H. CAZELLES, Le Messie de la Bible, Paris 1978 (con la bibliografia a pag. 82ss). 49 198 Introduzione ai Salmi SITZ IM LEBEN Probabilmente i salmi regali sono stati composti e recitati in occasione dell’intronizzazione del re, o anche nelle feste annuali, anniversari dell’incoronazione. Ma non abbiamo dati sufficienti per dire con certezza che in Israele si celebravano tali feste annuali. Poiché non è pensabile datarli all’epoca della monarchia asmonea (sec. I a.C.), Gunkel li colloca al tempo della monarchia preesilica. Gli studi citati di Becker e Springer sostengono che i salmi regali hanno subìto riletture posteriori, soprattutto dopo la fine della monarchia in epoca postesilica. Gli esegeti francesi A. Robert e R. Tournay, insieme col tedesco A. Deissler, considerano i salmi regali, ma anche la maggior parte dei salmi, di epoca postesilica. Essi sarebbero una pura creazione letteraria, non legati a un re o a una festa in onore del re perché la monarchia non esiste più; avrebbero lo scopo di cantare la speranza nel Messia o re ideale dell’avvenire. Secondo questi autori, i salmi regali sarebbero «messianici» nel senso tradizionale del termine, ossia sarebbero direttamente riferiti al re ultimo e definitivo del futuro che porterebbe la salvezza divina e instaurerebbe il regno di Dio. d) Suppliche individuali52 Come per le suppliche collettive, preferiamo parlare di «suppliche» individuali piuttosto che di «lamentazioni» (Klagelieder). Osserviamo subito che «individuale» non significa necessariamente preghiera «personale»: sorge il problema dell’«io» che parla in questi salmi. È stato detto che il 40% dei salmi rientra in questa categoria53. Dai salmi, stando a questo genere, traspare un’umanità sofferente che, paradossalmente, nell’esperienza dell’abbandono e dell’assenza di Dio fa appello proprio al suo Dio. Secondo Gunkel, fanno parte delle suppliche o lamentazioni individuali i salmi seguenti: 3; 5; 6; 7; 13; 17; 22; 25; 26; 27,7-14; 28; 31; 35; 38; 39; 42; 43; 51; 54; 55; 56; 57; 59; 61; 63; 64; 69; 70; 71; 86; 88; 102; 109; 120; 130; 140; 141; 142; 143. STRUTTURA La «forma» dei salmi di supplica individuale era già stata delineata nelle opere di Gunkel. Essa si articola in quattro momenti. – Introduzione-appello: è la parte introduttiva del salmo, che può assumere forme diverse. Spesso la fiducia del salmista esplode in un «Mio Dio» (per es. Sal 22,2); a volte in frasi come: «Io dico a YHWH: Tu sei il mio Dio!» (Sal 140,7; 31,15). In un ambiente politeistico, l’appello a YHWH quale «mio Dio» equivale a una professione di fede jahvista. – Esposizione del caso: l’orante espone davanti a Dio la sua situazione di angoscia, di bisogno, di malattia. A volte qui si inserisce la menzione dei «nemici» che perseguitano il salmista. È caratteristico di questa parte l’interrogativo pressante: «Perché?», o «Fino a 52 Cfr. N. AIROLDI, La consultazione divina nella malattia in Israele, in BeO 16 (1973) 163-172; G. W. ANDERSON, «Sicut cervus»: Evidence in the Psalter of Private Devotion in Ancient Israel, in VT 30 (1980) 388-397; J. BECKER, Wege der Psalmenexegese (SBS 78), Stuttgart 1975, spec. pp. 24-65; W. BEYERLIN, Die Rettung der Bedrängten in den Feindpsalmen des Einzelnen auf institutionelle Zusammenhänge untersucht (FRLANT 99), Göttingen 1970; L. DELEKAT, Asyle und Schutzorakel am Zionheiligtum. Eine Untersuchung zu den privaten Feindpsalmen, Leiden 1967; D. EICHHORN, Gott als Fels, Burg und Zuflucht. Eine Untersuchung zum Gebet des Mittlers in den Psalmen (Europäische Hochschulschriften XXIII,4), Bern-Frankfurt 1972; G. GERLEMAN, Der «Einzelne» der Klage– und Dankpsalmen, in VT 32 (1982) 33-49; E. S. GERSTENBERGER, Der Bittende Mensch. Bittritual und Klagelied des Einzelnen im Alten Testament (WMANT 51), Neukirchen 1980; R. HUBBARD, Dynastic and Legal Language in the Complaint Psalms (diss.), Claremont 1980; O. KEEL, Feinde und Gottesleugner (SBM 7), Stuttgart 1969; I. LJUNG, Tradition und Interpretation. A Study of the Use and Application of Formulaic Language in the so-called Ebed YHWH-Psalms (CB.OT 12), Lund 1978; L. RUPPERT, Der leidende Gerechte (FzB 5), Würzburg 1972; K. SEYBOLD, Das Gebet des Kranken im Alten Testament. Untersuchungen zur Bestimmung und Zuordnung der Krankheits- und Heilungspsalmen (BWANT 99), Stuttgart 1973. 53 Cfr. O. FUCHS, Die Klage als Gebet. Eine theologische Besinnung am Beispiel des Psalms 22, München 1982. Introduzione ai Salmi 199 quando?». L’esposizione del proprio caso può essere brevissima, anche un solo cenno (come in Sal 54,5). Normalmente questa parte è introdotta da un kî, poiché; infatti essa fornisce la motivazione della supplica. – Supplica: ricorre qui la fraseologia tipica di questi salmi: ascoltami, ascolta la mia voce, porgi l’orecchio alle mie parole, non nascondermi il tuo volto, svegliati, sorgi, affrettati, non tardare, salva la mia vita dai nemici ecc. Talora s’aggiunge anche l’invocazione del perdono dei peccati. Notevole è l’imprecazione contro i nemici (cfr. Sal 69,23-29; 70,34; 109,6-20). Il salmista fa appello alla misericordia, fedeltà, giustizia di Dio e fonda la sua richiesta sulla sua fiducia e sulla debolezza umana bisognosa di aiuto divino. – Certezza di esaudimento e ringraziamento: normalmente il salmo si conclude con la certezza che Dio ha ascoltato la supplica. Il salmista anticipa il futuro e si vede già nell’atto di sciogliere il suo voto di ringraziamento nel tempio mediante un sacrificio (cfr. Sal 22,24-25; 54,8-9) o un canto di lode riconoscente. L’attenzione degli studiosi si è puntata sull’improvviso cambiamento che avviene, in questi salmi, tra il momento della supplica e quello del ringraziamento gioioso. Come spiegare tale mutamento di tono e di atmosfera? Che cosa è intervenuto perché il salmista passi dal «lamento» alla «lode»? Diversi sono stati i tentativi di risposta54. a) Una prima opinione nega che esista un problema, in quanto attribuisce al «ringraziamento» la funzione di esprimere la certezza dell’esaudimento e il voto di ringraziamento. b) Una seconda ipotesi ritiene che, anche se breve, l’espressione di ringraziamento è talmente decisiva che si deve parlare di «salmi di ringraziamento» piuttosto che di «salmi di supplica». Il lamento non è l’elemento caratterizzante; esso ha carattere di professione di fede e viene ricapitolato nel ringraziamento. c) Una terza opinione distingue due distinte preghiere con differenti Sitz im Leben. Supplica e ringraziamento sono come due preghiere separate, poi messe in relazione l’una con l’altra. d) Una quarta posizione cerca di spiegare il «cambiamento d’atmosfera» all’interno del salmo: tra la supplica e il ringraziamento si deve collocare un avvenimento che dà ragione del cambiamento, ossia un oracolo sacerdotale. L’orante immerso nel lamento e nella supplica ha ricevuto dal sacerdote una risposta favorevole alle sue richieste, perciò ora si effonde con gratitudine nel ringraziamento. Questo evento che muta la situazione è per altri una teofania cultuale nella festa dell’alleanza, oppure il segno dell’accettazione del sacrificio. Queste diverse ipotesi non sembrano soddisfacenti, soprattutto non sembrano fondarsi su elementi obiettivi presenti nelle suppliche individuali. Perciò mi sembra accettabile la conclusione di Becker: «Invero il cosiddetto “canto di ringraziamento” (Danklied), che è annesso alla lamentazione, sembra avere per lo più soltanto la funzione di un voto di ringraziamento (Dankgelübdes) ed esprime la certezza dell’esaudimento»55. SITZ IM LEBEN Secondo Gunkel l’ambiente delle suppliche è quello del culto, come apparirebbe dal voto di ringraziamento e da cenni al rituale cultico (per es. Sal 51,9). A. Weiser, nel suo commentario, suppone che questi salmi fossero usati nella festa annuale dell’alleanza. Ma, come aveva notato lo stesso Gunkel, alcuni di questi salmi non hanno riferimento al culto. Delekat, nell’opera citata sopra, propone di vedere le suppliche individuali come preghiere di gente che cerca protezione da creditori e nemici personali rifugiandosi in un tempio, sulle cui pareti scrive le proprie preghiere. Tali salmi sarebbero allora paragonabili a «tavolette» o iscrizioni votive dei nostri santuari mete di pellegrinaggi. La tesi di Delekat, globalmente presa, sembra esagerare e in- 54 Una sintetica rassegna di opinioni si trova in J. BECKER, Wege der Psalmenexegese (SBS 78), Stuttgart 1975, 59-65. 55 BECKER, Wege der Psalmenexegese, 65 200 Introduzione ai Salmi grandire qualche piccolo elemento su cui potrebbe forse appoggiarsi e soprattutto immaginare, con molta fantasia, situazioni dove il testo non dà informazione alcuna. E. S. Gerstenberger ha proposto invece di considerare i salmi di supplica individuale come opera di scrittori professionisti esperti del culto (o personale addetto al tempio, o uomini di Dio, o profeti) ai quali si ricorreva in caso di malattia (cfr. il caso narrato in 1Re 14,1-18 e 2Re 8,715). Questi salmi così intesi sarebbero da spiegarsi con parallele preghiere babilonesi. Il Sitz im Leben delle suppliche individuali sarebbe da cercarsi nella liturgia privata ma spiritualmente orientata al tempio. K. Seybold distingue tra salmi «privati» di malati (Krankenpsalmen) che chiedono la guarigione e salmi recitati in una situazione cultuale (Heilungspsalm), cioè di preghiere recitate da uomini trascinati dinanzi al tribunale sacro del tempio. L’«IO» DELLE SUPPLICHE Chi è l’io che si esprime nelle suppliche individuali? È un problema antico. La soluzione, che potremmo definire «classica», è quella di E. Balla56, il quale sostiene che questi salmi sono espressione dei sentimenti personali di individui colpiti da sventura. E questa opinione fu accolta dalla maggioranza degli esegeti57. Gunkel ha ripreso questa spiegazione, annotando che le immagini evocanti un pericolo mortale non vanno intese alla lettera: sono descrizioni immaginose di un’opposizione sociale e religiosa subìta da persone del popolo che si scontrano con i ricchi dirigenti, complici dei pagani. Un’altra ipotesi, ritenuta da S. Mowinckel, D. Eichhorn e J. H. Eaton, sostiene che le suppliche individuali sono preghiere recitate dal re (cfr. per es. Sal 18; 89; 101; 144). I nemici, in tal caso, sarebbero i nemici della nazione. Il re parla a nome di tutto il popolo. G. Gerleman, nell’articolo citato, ha proposto di intendere l’«io» non come indicante il salmista, ma come l’io del re Davide in bocca al quale il salmista mette il salmo. Altri (come R. Smend e H.-J. Kraus) sostengono un’interpretazione collettiva. Questi salmi di supplica sarebbero composizioni dell’epoca postesilica, e l’io di tali preghiere sarebbe il rappresentante della comunità, il «tipo» del credente. Questa posizione si avvicina a quella di Becker, il quale propone di considerare i salmi attuali quale frutto di una rilettura-reinterpretazione collettiva. e) Salmi di ringraziamento individuale58 Si tratta di preghiere che esprimono la riconoscenza gioiosa di chi è stato esaudito; esse formano il «pendant» dei salmi di supplica. La questione dell’«io» di questi salmi si pone nello stesso modo che per le suppliche individuali. Secondo Gunkel, appartengono a questo genere i seguenti salmi: 18; 30; 32; 34; 40,2-12; 41; 66; 92; (100); (107); 116; 118; 138. STRUTTURA Gli elementi essenziali nei quali si articola questo genere di salmi sono: – introduzione: viene enunciata la volontà e l’opportunità di ringraziare Dio (cfr. per es. Sal 138,2). – corpo: il salmista ricorda il pericolo, la malattia o la sventura da cui è stato liberato, e così dà ragione del suo ringraziamento. Tipico è l’uso della forma verbale ’ôde\h, che 56 E. BALLA, Das Ich der Psalmen, Göttingen 1912. Cfr. LIPIÑSKI, 35ss. 58 Cfr. F. CRÜSEMANN, Studien zur Formgeschichte von Hymnus und Danklied in Israel (WMANT 32), Neukirchen 1969; E. LIPIÑSKI, Les Psaumes d’action de grâces individuelle, in REcL 53 (1967) 348-366; IDEM, Psaumes, in DBS 9 (1979) 72-86; F. MAND, Die Eigenständigkeit der Danklieder des Psalters als Bekenntnislieder, in ZAW 70 (1958) 185-199. 57 Introduzione ai Salmi 201 viene resa con «ringrazio», oppure con «confesso» (sottintendendo la «bontà di Dio»), o anche con «offro». – conclusione: non tutti i salmi di questo genere hanno una «finale» vera e propria, distinta dal «corpo». Si tratta di una lode conclusiva (per es. Sal 32,11; 138,8). SITZ IM LEBEN Gunkel ha ipotizzato che questi salmi fossero recitati nel corso di una cerimonia liturgica, nella quale il «graziato» scioglieva il voto fatto e offriva un sacrificio di ringraziamento nel tempio. Ma non tutti i salmi di ringraziamento fanno riferimento a un sacrificio e quindi a un contesto cultuale-liturgico. 3. I generi letterari secondari Accanto ai cinque generi letterari principali, Gunkel ha posto gli altri generi. Sono definiti «secondari» perché raggruppano un numero più ridotto di salmi e sono un po’ una mescolanza di vari generi; infine, perché questi generi sarebbero tardivi. La valutazione di Gunkel riguardo ai salmi che ora prendiamo in considerazione è molto discutibile e si presta a molte critiche. Tuttavia manteniamo, per motivi didattici e storici, la distinzione proposta da Gunkel, accennando, come abbiamo già fatto, ad altre opinioni. a) Salmi di pellegrinaggio59 Secondo Gunkel, a questa categoria appartengono soltanto i salmi 84 e 122, ma altri studiosi considerano salmi di pellegrinaggio tutto il complesso dei salmi dal 120 al 134. In ebraico tali salmi sono detti «canti delle ascensioni» šîr hamma’a¨lôt, titolo che comprende i Sal 120-134. STRUTTURA A grandi linee la loro struttura comprende: – esclamazione iniziale di gioia o di meraviglia (per es. Sal 84; 91; 122); – scambio di saluti tra pellegrino e leviti (o sacerdoti) (per es. Sal 84,5-6); – catechesi della porta: prima di lasciar entrare i pellegrini nel tempio si faceva una breve catechesi con l’illustrazione delle condizioni richieste da Dio (per es. Sal 84,12; 122,4-5); – preghiera dei pellegrini per la città santa che li riceve (per es. Sal 84,9-10 e 122,6-9); – formula di accoglienza degli abitanti di Gerusalemme (per es. Sal 84,13). Questa struttura tuttavia non si verifica sempre con tutti questi elementi. SITZ IM LEBEN È facile immaginare che questi salmi venivano recitati in occasione delle grandi feste giudaiche (Pasqua e Azzimi, festa delle Settimane e delle Tende). Tali feste sono designate con il termine ebraico ˙ag, che significa «festa di pellegrinaggio», comprendente la salita al tempio di Gerusalemme. Un problema a parte riguarda i cosiddetti «salmi delle ascensioni». Secondo qualcuno, si tratta del ritorno a Gerusalemme dopo l’esilio. Per G. Castellino si tratta di salmi cantati nel primo giorno della festa delle Tende. Altri, infine, intendono «ascensione» la salita del pellegrino verso il tempio di Gerusalemme. Si tratta di un complesso omogeneo? E. Beaucamp lo afferma con decisione; mentre K. Seybold sostiene che si tratta di salmi differenti raggruppati insieme sotto il segno della «ascensione», ma in realtà indipendenti. Questo elemento comune sarebbe allora frutto di una reinterpretazione di salmi che sviluppano temi e motivi svariati, ma unificati da uno o più redattori finali. 59 Cfr. M. MANNATI, Les psaumes graduels constituent-ils un genre littéraire distinct à l’intérieur du psautier biblique?, in Sem 29 (1979) 85-100; K. SEYBOLD, Die Wallfahrtpsalmen. Studien zur Entstehungsgeschichte von Psalm 120-134, Neukirchen 1978; IDEM, Die Redaktion der Wallfahrtpsalmen, in ZAW 91 (1979) 247-268. 202 Introduzione ai Salmi b) Salmi sapienziali60 Molti studiosi hanno intravisto «spirito» e stile sapienziale in un certo numero di salmi. Criteri letterari (per es. la forma proverbiale) o tematici (per es. il tema della retribuzione) aiutano a individuare questo genere di salmi. Tuttavia c’è molta varietà di opinioni. Secondo Gunkel, appartengono a questo genere i seguenti salmi: 1; 37; 49; 73; 91; 112; 127; 128; 133. Lo stesso Gunkel non ne ha precisato meglio la forma letteraria. Infatti, come nota Sabourin, la struttura letteraria dei salmi sapienziali non obbedisce a uno schema determinato. Così pure per il Sitz im Leben possiamo dire che questi salmi hanno avuto origine nell’ambito dell’insegnamento sapienziale, ma non è possibile precisare maggiormente. c) Salmi di ringraziamento nazionale61 Gunkel colloca in questa categoria i salmi 66,8-12; 67; 124; 129. STRUTTURA Questo genere di salmi è così strutturato: – introduzione: si tratta di un invito a lodare YHWH; – corpo: in questa parte si ha un racconto delle opere salvifiche di Dio a favore del suo popolo; – conclusione: normalmente, come negli inni, si riprende il tema iniziale. DIBATTITO ATTUALE Gli studi recenti di Crüsemann e di Mand, citati sopra, mettono in dubbio l’esistenza di questo genere di salmi, poiché mancano elementi formali comuni. Il Sitz im Leben, per chi ammette l’esistenza di questo genere, sarebbe una cerimonia liturgica nel tempio. d) Salmi profetici62 Gunkel non usa l’espressione «salmi profetici», tuttavia ammette che ci sono salmi «influenzati dal profetismo». Anche R. Tournay – R. Schwab osservano: «I salmisti, dei quali si dice che profetizzano (1Cr 25,1; 2Cr 20,14), sfruttano a fondo gli scritti dei profeti, soprattutto Isaia, e ne imitano lo stile (esortazioni, promesse, minacce), senza tuttavia abbandonare la maniera didattica»63. Il carattere e l’influenza profetica si presenta in forme diverse, e lo stesso Gunkel usa denominazioni differenti per i seguenti salmi, che collochiamo tutti insieme sotto l’ombrello profetico: 9,6-13.16ss; 14; 46; 47; 48; 50; 53; 68; 75; 76; 81,6c-11; 82; 85; 93; 96,10-13; 97; 98; 99; 126; 149. Alcuni di questi salmi sono anche detti «requisitorie sulla rottura dell’alleanza», e si aggiungono i salmi 78; 81; 95,8-11 e 105. 60 Cfr. S. MOWINCKEL, Psalms and Wisdom, in Wisdom in Israel and in the Ancient Near East (VTS 3), Leiden 1955, 205-224; R. E. MURPHY, A Consideration of the Classification «Wisdom Psalms», in Congress Volume Bonn 1962 (VTS 9), Leiden 1963, 156-167; L. SABOURIN, Un classement littéraire des psaumes, in ScEc 16 (1964) 23-58, spec. 51-53; J. K. KUNTZ, The canonical Wisdom Psalms of Ancient Israel, in Rhetorical Criticism. Fs. J. Muilenburg, Pitsburg 1974, 186-222; IDEM, The retribution motif in Psalmic Wisdom, in ZAW 89 (1977) 223-233; J. LUYTEN, Psalms 73 and Wisdom, in M. GILBERT (ed.), La Sagesse de l’Ancien Testament, Leuven 1979, 59-81; J. P. M. VAN DER PLOEG, Le Psaume 119 et la sagesse, in La Sagesse de l’Ancien Testament, 82-87. 61 Cfr. F. CRÜSEMANN, Studien zur Formgeschichte von Hymnus und Danklied in Israel (WMANT 32), Neukirchen-Vluyn 1969, 155-209; F. MAND, Die Eigenständigkeit der Danklieder des Psalters als Bekenntnislieder, in ZAW 70 (1958) 185-199. 62 Cfr. J. HARVEY, Le «Rib-Pattern», réquisitoire prophétique sur la rupture de l’alliance, in Bib 43 (1962) 172-196; IDEM, Le plaidoyer prophétique contre Israël après la rupture de l’alliance. Étude d’une formule littéraire de l’Ancien Testament, Bruges 1967, 49-53 (riguardo al Sal 50); M. MANNATI, Le Psaume 50 est-il un rib?, in Sem 23 (1973) 27-50. 63 R. TOURNAY – R. SCHWAB, Les Psaumes, Paris 1951, 27. Introduzione ai Salmi 203 Tra questi sono isolati, da alcuni, i cosiddetti salmi o canti di Sion (46; 48; 76; 84; 87; 122; 132, secondo H. Gunkel). Una questione difficile è tentare di datare tali salmi e chiarire se esistesse in Israele la cosiddetta «tradizione di Sion» legata alla dottrina sulla inviolabilità di Gerusalemme, oppure se questi salmi non siano che una espressione dell’ideologia regale di Gerusalemme64. A mio avviso, questi salmi di Sion sono inni che esprimono la speranza di Israele in un regno di pace e giustizia collegato con la dinastia davidica. Essi riflettono quindi l’ideologia regale, che era diffusa in Israele prima dei grandi profeti preesilici65. e) Salmi di fiducia Si tratta di salmi che Gunkel collegava con le suppliche individuali: 4; 11; 16; 23; 27,1-6; 62; 131. In realtà è difficile parlare di un genere a sé stante, dati gli imprecisi contorni formali di questi salmi. La denominazione «salmi di fiducia» non determina che lo stato d’animo dell’orante. f) Liturgia della porta In questa categoria possiamo collocare soltanto Sal 15; 24,3-6. Sono preghiere che riflettono un cerimoniale celebrato prima dell’ingresso nel tempio. Sulla porta il pellegrino viene interrogato dal sacerdote, e solo dopo aver risposto esattamente alle domande e aver dimostrato di conoscere le «condizioni» necessarie, può essere ammesso alla preghiera nel tempio. g) Salmi misti Gunkel ammette una serie di «salmi misti», nei quali si trovano elementi di vari generi: 104 (inno e ringraziamento); 19; 33; 90; 139 (inno e supplica); 129 (ringraziamento e supplica); 9; 10; 94 (supplica collettiva e salmo sapienziale); 119 (quasi tutti i generi). h) Salmi collegati con la liturgia Alcuni salmi sono da collegarsi con cerimonie liturgiche particolari: 134 (liturgia della sera); 24,7-10; 132 (liturgia in onore dell’arca); 66 e 118 (dialogo liturgico tra il coro e un solista); 12; 60; 85; 121 (supplica e oracolo sacerdotale nel tempio). i) Salmi alfabetici Nel salterio ci sono otto salmi acrostici alfabetici: 9/10; 25; 34; 37; 111; 112; 119; 145. Gunkel non parla di salmi alfabetici, ma la questione è stata ripresa dagli studiosi con differenti prese di posizione. A mio parere, non si può sostenere un genere «alfabetico», perché l’acrostico alfabetico è un procedimento stilistico che da solo non può costituire un genere. 4. Valutazione critica sullo studio dei generi Lo studio dei salmi secondo il loro genere letterario domina tutta la letteratura esegetica moderna. Il metodo inaugurato da H. Gunkel è stato affinato e approfondito con innumerevoli opere. Nessun commentario moderno trascura la classificazione dei salmi secondo i generi o «famiglie». È molto difficile dire qualcosa di nuovo sulla classificazione dei salmi. Tuttavia non c’è affatto accordo tra gli studiosi, e gli accenni fatti nell’esposizione precedente bastano a far intravedere una molteplicità di opinioni differenti. Alcuni salmi vengono fatti passare, a seconda degli autori, da una «famiglia» all’altra; altri sono orfani e vengono «adottati» da una famiglia maggiore; altri ancora sono isolati e sperduti. I generi individuati da Gunkel sono stati divisi, spezzati e moltiplicati. Tutto ciò fa sorgere l’interrogativo: basta catalogare i salmi per farne una 64 Cfr. WANKE, Die Zionstheologie (attribuisce questi salmi a un tardo periodo postesilico); R. E. CLEMENTS, Isaiah and the Deliverance of Jerusalem, Sheffield 1980, 72-89. 65 Sui salmi di Sion, cfr. la bibliografia indicata in LIPIÑSKI, Psaumes, 23-32. 204 Introduzione ai Salmi vera esegesi? In effetti il metodo della storia delle forme va ridimensionato, pur riconoscendo tutta la necessità e l’utilità di un tale tipo di approccio al testo. Ma non è l’unico. Lo studio morfocritico individua soltanto gli elementi costanti, tipici e ripetibili. Ma l’autentica composizione poetica è una realtà concreta, individua e originale. D’altra parte, per molti generi letterari la Formgeschichte non ha assegnato se non uno schema generico (introduzione, corpo, conclusione), del quale occorre ammettere anche numerose eccezioni. Così, per esempio, nessuno degli inni individuati da Gunkel corrisponde perfettamente alla struttura tipica di questo genere; d’altronde in essi il Gunkel vede un caso esemplare per l’applicazione del genere letterario. La linguistica moderna, in modo particolare lo strutturalismo nelle sue varie espressioni, indica altre piste di ricerca per cogliere la «struttura» di un’opera poetica. Lo studio dei generi fa uscire dal salmo per confrontarlo con gli altri e scoprire gli elementi tipici e ripetibili; lo studio «strutturale» fa rimanere entro il salmo per coglierne le peculiarità originali e irripetibili. Anche il problema del Sitz im Leben o radicamento sociale dei salmi si scontra con i limiti del metodo morfocritico. La storia delle forme, infatti, cerca di individuare delle situazioni vitali che possono rendere conto delle caratteristiche dei vari generi. E ciò può risultare plausibile nel caso di certi salmi, per es. i salmi regali legati all’intronizzazione del re. Ma per molti salmi resta difficile ipotizzare un Sitz im Leben convincente, se non ricorrendo alla generica «situazione» del culto o della sventura/malattia, ecc. a) Recenti tentativi di classificazione Senza rinnegare la grande utilità e il ricchissimo contributo portato dalla Formgeschichte, due autori hanno recentemente proposto un tentativo di ripensamento della classificazione dei salmi. W. BRUEGGEMANN66 Questo studioso parte dalla costatazione ovvia che non sempre la forma di un testo letterario corrisponde alla stessa intenzionalità. Da questa osservazione, Brueggemann deduce che le «classi» o generi di salmi individuati dalla Formgeschichte hanno un valore puramente formale. Per comprendere i salmi, occorre interrogarli circa la loro intenzionalità. E l’A. ricorre, a questo scopo, alla filosofia di P. Ricoeur. Egli distingue tre momenti della vita di fede, ai quali corrispondono tre «categorie» fondamentali di salmi. a) Salmi di orientamento: sono quelli caratterizzati da una fede serena, «orientata»; non ci sono tensioni, si sperimenta un senso di ordine, di bontà e di gioia di vivere. A questo gruppo appartengono i salmi che cantano la creazione, come Sal 104,27-28: «Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, tu apri la mano, si saziano di beni». Rientrano in questa famiglia i salmi che trattano della retribuzione, in quanto legge che garantisce un ordine coerente nel sistema dell’universo (cfr. Sal 1; 119). Questi due gruppi si collegano con la tradizione sapienziale che sa molto apprezzare i beni della vita. Così il Sal 37 riflette un sapienziale equilibrio acritico e indisturbato, dove tutto va a posto. Così il Sal 145 è un canto alla Provvidenza divina quale garante dell’ordine cosmico. In questo contesto di ordine e benessere rientrano i salmi sulla creazione, sulla retribuzione, sulla benedizione, gli inni e i canti delle ascensioni. b) Salmi di dislocazione: sono quelli nei quali si riflette la perdita di un sereno orientamento precedente. L’orante vive una profonda riluttanza a rassegnarsi alla perdita del benessere e dell’equilibrio: reagisce e protesta. Rientrano in questa categoria i salmi chiamati «lamentazioni»; in realtà sono una protesta e non una rassegnazione. La «supplica» proviene dalla convinzione che YHWH possa e debba intervenire per creare un nuovo ordine. Nei salmi di questo tipo ricorre il tema della «fossa» come simbolo della perdita dell’equilibrio vitale; si parla spesso di «nemici», cioè di coloro che hanno provocato o favorito 66 W. BRUEGGEMANN, Psalms and the Life of Faith. A Suggested Typology of Function, in JSOT 17 (1980) 3-32. Introduzione ai Salmi 205 la «dislocazione». Allora il salmo diventa nostalgia del passato, protesta contro la situazione presente, aggressività verso i nemici, ecc. Sempre presente è la speranza che il «buon ordine» perduto può essere ritrovato. Tutte le suppliche o lamentazioni rientrano in questa famiglia. c) Salmi di ri-orientamento: celebrano la ricostituzione o restaurazione dell’ordine perduto. A questa classe appartengono i salmi di ringraziamento e i cosiddetti «inni declarativi» J. GOLDINGAY67 È l’autore di un breve articolo, che si presenta come una «footnote» al saggio di Brueggemann. Riprende una comparazione, studiata da Westermann, tra la salmodia babilonese e quella israelitica. Nella salmodia babilonese si trova una serie di atteggiamenti dell’orante che sono disposti sempre nella stessa sequenza invariabile: appello, lode, lamento, petizione, promessa di lode. Questi cinque elementi sono incorporati tutti insieme in ogni salmo individuale. Invece nella salmodia israelitica la caratteristica è la divisione in due tipi principali: salmi di lode (comprendenti i primi due elementi della serie babilonese) e i salmi di supplica (comprendenti gli ultimi tre). In Israele, dunque, la lode può sussistere da sola; in Babilonia (e in Egitto) essa forma generalmente soltanto un’introduzione al lamento e alla supplica. In Babilonia il movimento caratteristico è dalla lode alla supplica; in Israele è dalla supplica alla lode, ma anche dalla lode alla supplica. Si può dunque parlare, per Israele, di un «circolo della lode», ed è proprio questo aspetto «ciclico» che caratterizza la salmodia israelitica. Infatti la fine di un salmo può essere l’inizio di un altro. Goldingay propone dunque un «circolo dinamico di preghiera e di lode», comprendente questi elementi: lamentazione, domanda, promessa (o voto) di lode, lode declarativa (cioè riguardante un atto particolare di Dio nella vita dell’orante), lode descrittiva (cioè lode dell’essere e dell’agire di Dio in generale). Chi vuol pregare può entrare nel cerchio in qualsiasi punto. Si tratta di un cerchio vitale, e anche ermeneutico, non di un circolo vizioso! Conclusione La presentazione che abbiamo fatto mostra i risultati ai quali è giunto il metodo della Formgeschichte applicato ai salmi: rilevazione di molti aspetti letterari e tentativo di classificazione dei salmi. Lo studio dei generi letterari ha tolto i salmi dall’isolamento e li ha inseriti entro schemi letterari ricorrenti e ripetuti, mettendone in risalto strutture permanenti e ripetibili. Tuttavia abbiamo fatto notare, qua e là, che la classificazione dei salmi secondo i generi riesce non poche volte difficile o forzata, a volte addirittura impossibile. La ricerca del Sitz im Leben è stata fatta spesso in modo tale da condurre quasi esclusivamente all’ambiente cultuale quale «situazione vitale» da cui hanno avuto origine queste immortali preghiere d’Israele. Ma la vita di fede di Israele non si esaurisce nel culto, e la preghiera non fiorisce soltanto nei giardini chiusi dell’area del santuario. I saggi di W. Brueggemann e di J. Goldingay tentano di ampliare l’ambiente «sociologico» d’origine dei salmi, individuando alcuni dinamismi della vita spirituale, ma trascurano troppo la dimensione storica. La preghiera concreta dei salmi non è esaurientemente spiegata mediante categorie astratte, ma sgorga da situazioni storiche precise della vita di un popolo. L’epoca preesilica, l’esilio e il postesilio non sono soltanto indicazioni cronologiche, ma contrassegnano anche epoche spirituali differenti. Inoltre la Formgeschichte non tiene conto delle possibili molteplici riletture vissute dai salmi passando da una generazione all’altra attraverso vari secoli di storia. È necessario, dunque, leggere i salmi interrogandoci sia sull’ambiente concreto del culto israelitico sia sulle differenti situazioni storiche vissute dai salmi prima di giungere a noi. 67 J. GOLDINGAY, The Dynamic Cycle of Praise and Prayer in the Psalms, in JSOT 20 (1981) 85-90. 206 Introduzione ai Salmi IV. TEOLOGIA DEI SALMI L’insieme della riflessione teologica compiuta dai salmisti non si distingue dalla riflessione fatta dai sacerdoti, dai profeti, dai saggi e dagli storiografi. Il salterio, la cui composizione si estende per un periodo di circa otto secoli è un buon riflesso delle idee sviluppate altrove, sebbene non sia molto esatto parlare di «riflesso». Se il culto è spesso la ripresa di temi nati e sviluppati in altri ambienti, è anche il luogo dove scaturiscono delle intuizioni che maturano prima di essere riprese e utilizzate altrove. Tra sacerdoti, coristi del Tempio e salmisti, da una parte, e profeti, saggi e storiografi, dall’altra, la comunicazione doveva essere costante e ciascuno, di volta in volta, arricchiva gli altri prima di trarre vantaggio dalle sue ricchezze. La teologia dei salmi è quindi la teologia comune; ma l’approccio a questa teologia di tutti attraverso il cammino dei salmi fa sì che essa sia considerata in modo particolare. Facciamo notare qui due particolarità. Studiare la teologia dei salmi significa procedere alla maniera degli archeologi che fanno uno scavo in un tell palestinese. Questi ricercatori acquisiscono una prima idea della storia vissuta in questo luogo dallo studio dei diversi strati di occupazione. Allo stesso modo, il salterio mostra gli «strati» successivi di riflessione che si sono accumulati nel corso dei secoli. Nel salterio la teologia conserva le tracce dell’evoluzione da essa seguita e della sua storia molto lunga. Inoltre la teologia appare qui non nella forma del trattato sapienziale o della proclamazione profetica, quando saggi e profeti «parlano di Dio», ma attraverso le frasi della preghiera che i fedeli recitano «parlando a Dio». Questa forma diversa dà al pensiero una nota speciale. Come tutti gli autori, i salmisti parlano di Dio, ma ne parlano a loro modo, rivolgendosi a lui dandogli del tu: «Tu [...] Noi [...] Te [...] Me [...] Tu [...] Io», spesso con una certa tensione: «Perché tu?», ripetendo nel loro ambiente lo scambio che essi hanno avuto con Dio, invitando gli altri a un dialogo simile. «Ciò vuol dire, scrive E. Beaucamp, che il salterio non ha un volto proprio in seno alla letteratura biblica? La sua caratteristica infatti è quella di essere un libro liturgico e tutto quanto possiede di originale si trova in relazione con la sua funzione cultuale. [...] Considerato nel suo insieme, il salterio non ha un messaggio da comunicare. Esso introduce in un dialogo tra Dio e l’uomo, la cui natura costituirà la base teologica del libro»68. Ritrovare, lungo tutto il salterio, degli indizi dell’evoluzione seguita dalla teologia biblica, esprimere ciò che rientra nel dialogo che i salmisti intrattengono con Dio, significa individuare ciò che i salmi apportano di unico nella testimonianza teologica comune. Ma è necessario dapprima prendere in considerazione un punto particolare. 1. I salmi e il culto Il cristiano che oggi ascolta dei salmi nella celebrazione eucaristica, che li legge o li canta nell’ufficio quotidiano, non ha alcuna difficoltà ad ammettere che i salmi hanno uno stretto rapporto con l’azione cultuale e anche che essi sono nati nell’ambiente in cui tale azione si svolge. Qualunque sia il modo in cui questi testi parlano di Dio: con il Tu della seconda persona, quando si rivolgono a lui, con l’Egli della terza persona quando ne parlano o lo cantano in seno alla comunità riunita; qualunque sia il genere letterario adoperato: tono di supplica o di lode delle suppliche o degli inni, andatura meditativa delle evocazioni del passato o delle riflessioni sapienziali, il cristiano trova sempre in questi componimenti poetici che recita o ascolta, che proclama o canta, l’espressione di una preghiera, di una contemplazione di Dio e del suo disegno sull’uomo, le parole che esprimono la sua speranza e la sua fede69. Chi usa oggi il salterio non ha difficoltà ad accompagnare col pensiero gli Israeliti pellegrini (Sal 122), a unirsi ai loro riti di ammissione al santuario (Sal 15), a seguirli quando penetrano nel luogo santo, dietro l’arca (Sal 24) che una processione è andata a cercare lontano 68 69 BEAUCAMP, Psaumes,, 157s. H. J. KRAUS, Die Psalmen, III, Theologie der Psalmen (BKAT XV/3), Neukirchen-Vluyn 1979, 83-133. Introduzione ai Salmi 207 (Sal 132). Egli ammira la grande prostrazione dell’assemblea (95,6-7) di cui segue la supplica per il popolo, per il re; fa sua la parola che annuncia la salvezza (Sal 85,9-10). Poi vede i fedeli procedere alle loro devozioni individuali, abitare «al riparo di Elyôn, dimorare all’ombra di Šaddai» (Sal 91,1) come «ospite» di YHWH70, lanciare le loro suppliche, ascoltare «l’oracolo di salvezza», far conoscere agli altri le opere di Dio nel pasto sacrificale, meditare le riflessioni proposte dai «ministri» accreditati sulle opere di Dio (Sal 34). Tuttavia si pone il problema dei rapporti che uniscono i salmi al culto, in particolare alcuni di essi. Infatti non tutti i salmi rinviano in modo così netto alla liturgia; per esempio, quale legame con il culto si può vedere in salmi come Sal 1; 112; 127? La valutazione dei rapporti che collegano il salterio con il culto non avviene quindi senza qualche diversità. Una diversità tanto più comprensibile in quanto il problema chiama in causa una certa comprensione del salterio ma anche un certo significato del culto. Che H. Gunkel71, il padre dell’esegesi moderna dei salmi abbia pensato che questi testi non fossero, per la maggior parte, che delle composizioni individuali, ricuperati più tardi e utilizzati per il culto, non è indipendente dalla dottrina sull’azione cultuale che prevaleva nel suo tempo e nel suo ambiente. Occorre segnalare un primo fatto: i salmi contengono numerosissime allusioni ad azioni liturgiche, la lista dei loro generi letterari aiuta a redigerne una prima enumerazione. Queste allusioni si incontrano nelle suppliche collettive (per esempio: la proclamazione rituale del Nome), e nelle suppliche individuali (per esempio l’intervento del sacerdote che pronuncia l’oracolo di salvezza; cfr. Sal 5,3b-4); nelle «liturgie della porta» e nelle preghiere degli innocenti; negli inni di tôdāh; nelle diverse categorie di inni; nei salmi di «congratulazione», di pellegrinaggio e di processione; nelle poesie redatte a gloria del re, per la sua incoronazione, il suo matrimonio, la partenza per una guerra, ecc. Il gran numero dei riferimenti cultuali spinge a vedere nei salmi non dei componimenti poetici che riflettono, come dall’esterno, i diversi atti liturgici, ma dei testi destinati ad accompagnare questi atti al fine di farne meglio assimilare il significato. Un secondo fatto: i salmi lasciano supporre che i riti particolari che essi richiamano si svolgessero nel contesto di una grande liturgia che radunava una buona parte del popolo. Così l’esegeta norvegese S. Mowinckel72 vedeva in tutto il salterio, fatta eccezione giustamente dei Sal 1; 112 e 127, ai quali in seguito ne aggiunse molti altri, l’espressione poetica della festa del Nuovo Anno che celebrava YHWH, re dell’universo. Nessun salmo menziona esplicitamente questa solennità, eppure il citato commentatore pensava di doverne affermare la realtà a partire dalla liturgia babilonese dell’Akitu e dell’affinità implicita di certi salmi, in particolare quelli del Regno, con l’ideologia che ispirava questa liturgia73. La spiegazione del salterio con una liturgia più babilonese che israelitica ha provocato molte perplessità. Altri hanno cercato nel pensiero biblico il contesto cultuale che avrebbe dato origine al salterio. A. Weiser74, le cui idee furono riprese da M. Mannati, pensa a una festa del Nuovo Anno centrata sul «rinnovo dell’alleanza», mentre H. J. Kraus suppone (riferendosi, tra l’altro, al Sal 132) una festa di Sion e della dinastia davidica, centrata sull’arca. È eccessivo mettere in relazione tutto, o quasi, il salterio a un tipo di liturgia. Questo libro, la cui composizione si distende per un periodo di circa otto secoli, è necessariamente diverso e, naturalmente, molto diversa e molto sfumata è anche la sua relazione con il culto75. Alcuni salmi, anche se pensati in funzione di una precisa liturgia, sono stati utilizzati in altri contesti cultuali. Rimane il fatto che, da secoli, i salmi, tutti i salmi, accompagnano la preghiera litur70 M. MANNATI, Les Psaumes, I, Paris-Bruges 1966, 51-53. H. GUNKEL, Die Psalmen, Göttingen 51968. 72 S. MOWINCKEL, Psalmenstudien, 5 voll., Kristiana, Oslo 1921-1924. 73 Cfr. H. CAZELLES, Nouvel-An, in DBS 6 (1960) 622-645. 74 A. WEISER, Die Psalmen, Göttingen 1959. 75 Cfr. KRAUS, Die Psalmen, III, 104. 71 208 Introduzione ai Salmi gica di Israele e della Chiesa. Certo, non è possibile dimostrare che tutti sono stati composti in funzione del culto. «I dati dei nostri salmi concordano perfettamente con quanto è dato sapere del canto cultuale in Israele prima dell’esilio [ma] rimane una parte di incertezza. Le prove addotte valgono solo per l’insieme dei salmi, non per ciascuno di essi in particolare»76. È tuttavia difficile dimostrare il contrario. Per esempio: in nome di quale a priori ritenere impossibile l’origine cultuale di testi sapienziali utilizzati, di fatto e da secoli, in diverse liturgie? Non forse ispirandosi a una dottrina contestabile della separazione sapienza/culto?77 Il salterio è strettamente legato al culto, e una delle sue ricchezze più importanti è costituita proprio dalla molteplicità e dalla diversità dei legami che lo collegano al santuario 2. La teologia biblica vista attraverso i salmi Alcuni inni di salmi sono particolarmente preziosi per comprendere la storia della teologia biblica, in essi, infatti, «le tradizioni storiche d’Israele si mescolano ai temi comuni dell’antica salmografia orientale»78. In questi testi appaiono, da una parte, i temi che la Bibbia ha preso dall’ambiente religioso circostante e, dall’altra, i temi che essa trae dalla propria esperienza di Dio. Lo studio letterario ha mostrato che a ciascuno di questi sviluppi corrispondevano delle forme diverse. Però oggi nel salterio i generi sono mescolati, e lo sono ugualmente gli sviluppi teologici, qualunque sia la loro origine. Comunque la classificazione stabilita dagli storici è da ritenere perché si comprende meglio il contenuto di certe formule teologiche ricordandosi del loro contesto originale. L’assimilazione dei «temi comuni dell’antica salmografia orientale» è più apparente negli inni dalla forma participiale, anche se ridotti a dei frammenti: la conclusione che era loro abituale («YHWH Sabaôt è il suo nome») dimostra che questi inni proclamavano a vantaggio di YHWH dei titoli attribuiti ad altre divinità. Il soggetto di questi inni molto antichi è la creazione; YHWH viene detto signore dell’universo. Lo stesso fenomeno di assimilazione spiega gli sviluppi centrati sul titolo divino El Elyôn, che trasformano in favore di YHWH dei titoli utilizzati nell’innografia contemporanea. Viene ancora affermata l’autorità cosmica di YHWH, ma questi sviluppi, che si leggono nei canti del Regno di YHWH e nei Cantici di Sion, sono ora inseriti in forme all’imperativo, che trasmettono l’apporto innico propriamente ebraico. Essi proclamano il Dio signore della storia in seno alla quale egli agisce per il bene del suo popolo. Tali sviluppi appaiono anche nei salmi che abbiamo appena indicato. Gli inni-participi Sono dei testi molto antichi in quanto possono risalire fino ai tempi remoti della controversia condotta dalla fede jahvista contro l’idolatria. Essi riferiscono ciò che questa controversia spingeva Israele a dire del suo Dio. Citiamo alcune formule participiali semplici. Si parla del Dio «che siede in trono nei cieli» (2,4), «che siede sui Cherubini» (80,2), «che cavalca le nubi» (68,5.34; 104,3), «che ha fatto cielo e terra» (115,14; 121,2; 124,8; 134,3b; 146,6a), «che abita in Gerusalemme» (135,21), «che abita nelle lodi d’Israele» (22,4), «che compie meraviglie» (72,18; 74,12; 77,15; 86,10), «che dà il pane a tutti» (136,25). Invece di Baal, al quale questi titoli erano attribuiti, è YHWH il signore cosmico, l’artefice del mondo; è lui che nutre gli uomini dando la pioggia, lui che viene riflesso nella vita del suo popolo per il quale egli «compie meraviglie». Altre formule, più elaborate, riprendono le stesse espressioni. Si tratta del signore cosmico «che fa tacere il fragore del mare» (65,8), «che stende i cieli, [...] fondando la terra sulle sue 76 BEAUCAMP, Psaumes, 135. «I rapporti tra sapienza e inno sono innumerevoli [...]. Il canto cultuale si serve di forme espressive sapienziali» (G. VON RAD, La sapienza in Israele, Torino 1975, 172). 78 E. LIPIÑSKI, 11, che cita Crüsemann. 77 Introduzione ai Salmi 209 basi» (104,2.5); impone al mondo la stabilità, «rende saldi i monti con la sua forza» (65,7). Questo Dio è attivo in seno al mondo, «facendo delle nubi il suo carro, camminando sulle ali del vento, facendo dei venti i suoi messaggeri, facendo scaturire le sorgenti, facendole scorrere tra le montagne» (104,3-5.10). Egli rende il mondo abitabile per tutti, «dando il cibo a suo tempo, [...] aprendo la sua mano, [...] saziando la fame di tutti i viventi» (145,15s). Inoltre è attivo in mezzo agli uomini, «mettendo fine alle guerre fino ai confini della terra» (46,10), «placando il tumulto dei popoli» (65,8), «restando sempre fedele» (146,6). I beneficiari privilegiati della sua azione sono quelli maggiormente colpiti dalla sventura: «YHWH che libera il piccolo, [...] il povero [...] che difende i piccoli» (35,10; 116,6), «YHWH che rialza coloro che cadono, che libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, protegge lo straniero» (146,7-9). Scrivendo queste parole il salmista pensa senza dubbio agli afflitti del suo popolo, come suggerisce la formula: «YHWH protegge quanti lo amano» (145,20); queste espressioni sono però molto aperte e sembrano scaturire da un senso di Dio abbastanza universale. Il Dio lodato in queste formule viene compreso a partire dall’immagine di Baal; egli è il signore del cosmo, ma interviene nella vita degli individui e in modo più particolare in quella di Israele. Egli appartiene allora ai sentimenti di cui questo popolo ha sospettato l’intensità solo riferendosi alle proprie esperienze, a quel senso di Dio originale che scopriva man mano che meditava sulla propria storia. Inni imperativi e salmi del Regno Le forme imperative sono numerose in un insieme di salmi tutti centrati sulla proclamazione piena di lode del Regno di Dio. Come già detto, questi salmi mescolano attualmente delle forme letterarie un tempo distinte. Ma la predominanza della costruzione all’imperativo, da una parte e l’omogeneità degli sviluppi centrati sulla regalità divina dall’altra, spingono ad accostare tra loro questi testi in vista di una stessa sintesi teologica. L’immagine che questi salmi tracciano di Dio riceve ancora una volta i tratti che il mondo circostante accordava alla divinità che venerava. Israele trasferisce questi tratti in favore di YHWH; ma anche qui questi salmi sono penetrati dalla luce nuova che Israele vede scaturire dalla propria storia. Il punto di riferimento di questi salmi non è più l’innologia del Baal, ma quella che era sviluppata nell’era semitico-occidentale e che celebrava il grande dio El riconosciuto sotto l’appellativo di El-Elyôn. Questo vocabolo molto antico, probabilmente anteriore all’occupazione di Canaan, era utilizzato dai clan dell’epoca patriarcale. Presso i politeisti questo termine indicava il dio supremo, signore di un panteon subalterno; presso gli ebrei esprimeva la superiorità di YHWH, signore di tutte le forze naturali e soprannaturali. Nei salmi, El-Elyôn, l’«Altissimo» (47,3; 97,9), viene detto «eccelso», «grande» (96,4; 99,2), «nell’alto» (93,4). Egli «regna» (47,9; ecc.). «Siede» (98,7; 99,1; ecc.) sul suo «trono» (47,9; ecc.). Le prerogative di questo re sono «la potenza» (93,1; 96,6s; ecc.), che lo rende «temibile» (99,3; 145,6; ecc.), che lo fa «temere» (99,1; 145,19); la «maestà» (93,1; cfr. 96,6), «la Gloria» (24,8-10; 29,1-3; 96,3-7s; ecc.), «la santità» (99,3.5.9; ecc.) di cui il fuoco è il simbolo (97,3) e che caratterizza il luogo dove egli dimora: «luogo santo» (29,2; 96,6). Questo «grande Re» agisce (99,4); «fa» (96,5; 99,4) il mondo; lo «fissa» (24,2; 93,1s; 96,10; 99,4), lo «fonda» (24,2). Regna sul cosmo (29,3-10). L’universo dominato, sottomesso, reso stabile, «incrollabile» (46,3-7; 93,1; ecc.) segnala la sua venuta (97,3s; 99,1) e si associa alla lode di Israele (99,3s; ecc.). Signore dell’universo, questo «grande Re» regna su tutti i popoli (47,9; 96,3.10; 98,2); «viene» per «giudicarli» (96,13; 98,9), «distruggerli» (145,20), e ristabilire così la situazione dei «suoi», dei «giusti» che egli «ama», «liberarli dalla mano degli empi» (97,10-12). È un guerriero (24,8; 145,4.11s) che combatte per il suo popolo (48,8-9). Per coloro che «lo temono», che «lo amano» (145,19s), egli «compie meraviglie» (96,3; ecc.); parla ad essi, «rispon- 210 Introduzione ai Salmi de» (99,6), li «perdona» (99,8); li salva (24,5; ecc.), condivide con essi «potenza e dominio» (29,11; 47,4), li «benedice» (24,5, li «stabilisce nella pace» (29,11). La «venuta» del Dio che agisce per la felicità dei suoi viene descritta con termini molto espressivi dalle «epifanie» citate sopra. Questi testi prolungano i salmi del Regno esprimendo un intervento che perturba il cosmo e convince gli uomini del carattere decisivo del giudizio imminente (18,8-6; 77,14-20; ecc.). Prolungano anche l’insegnamento di questi inni regali i cantici di Sion che collegano con la città, scelta da Davide come residenza reale e divina, dei temi teologici79 originariamente attribuiti a tutta la terra d’Israele, dopo essere stati attribuiti al monte santo sul quale sedeva ElElyôn, il grande Dio, re di tutta la terra80. Allora Dio viene chiamato «YHWH Sabaôt»: «l’attribuzione di questo titolo a YHWH sottolinea la sua maestà e il suo supremo dominio: infatti, qualunque sia il sisnificato esatto di ßebā‘ôt, il nome include l’idea di potenza»81. In Sal 24,10 la formula è legata al ricordo dell’arca e richiama la tematica della guerra santa: YHWH che combatte con potenza per il suo popolo. In Sal 46,8.12, il titolo «YHWH Sabaôt» è legato al tema dell’assalto dei popoli. I salmi invocano anche il «Dio di Giacobbe»; è il Dio del popolo nel suo insieme, o il Dio di tutti coloro che appartengono a YHWH. Molteplici sono i temi mitologici. Quello del «monte degli dei» (48,2c.3; 87,1b.5b) è comune a diverse religioni orientali e presente anche in Is 2,2-4; Mic 4,1-4, come pure in Zc 14,10 ed Ez 17,22s. C’è il tema del luogo paradisiaco (46,5) al quale Ezechiele dà una significativa illustrazione (Ez 47,1-12; cfr. Gl 4,18; Zc 14,8). C’è anche il tema della lotta contro il Caos (Sal 46,2-4; cfr. numerosi testi, per es. Gb 26,12ss; 38,8-11); in queste evocazioni dei salmi del combattimento di YHWH contro i popoli ribelli gli sviluppi mitici sono allora mescolati ad allusioni storiche (Sal 46,7; 48,2-7). Elementi identici si ritrovano nei profeti (Zc 12,29; 14,1-3.12-15; Gl 4,1-3.9-12; Mic 4,11-13). Infine, Gerusalemme è detta la «città dei Dio» (46,5s; 48,2s.9; 87,3; cfr. anche 9,12; 10,18; 15.1; 24.3). Maestà e grazia C. Westermann afferma che la lode dei salmi scaturisce tutta dall’ammirazione, inesauribile, che suscita l’antitesi misteriosa che appare in seno all’opera divina. Attraverso le sue azioni, Dio si rivela come «Colui che siede sul trono della sua maestà», mentre è anche «Colui che ha pietà». Questa antitesi, assicura l’autore, viene ripresa all’infinito; anche quando tale categoria di salmi sviluppa più a lungo uno dei suoi membri essa è almeno supposta se non espressa ed è essa a offrire a quanto viene detto la sua vera dimensione. È vero che il Dio di maestà non appare mai così grande che quando «fa grazia» e «ha pietà»; è vero ancora che le azioni divine di misericordia non sono mai tanto ammirabili che quando appaiono come le opere del Dio di maestà. Il Sal 113 è allo stesso modo costruito su questa antitesi, in cui ciascuno dei due membri emerge ancora di più per il fatto che uno viene accostato all’altro e opposto ad esso. «La grandezza di Dio», dice C. Westermann82, la sua «altezza, la sua maestà sono evocate a partire dalla sua azione creatrice e dal dominio che egli esercita sulla storia. La sua grazia diventa operante quando Dio guarda nella profondità, quando libera, salva e guarisce; è inoltre attiva quando Dio mantiene la sua creazione e quando dà il pane agli affamati». Anche quando privilegiano l’uno o l’altro di questi temi, i salmisti hanno la costante preoccupazione di far intravedere l’insieme del mistero. E lo fanno esprimendosi attraverso 79 WANKE, Die Zionstheologie. R. LACK, Les origines de ’Elyôn, le Très-Haut dans la tradition cultuelle d’Israël, in CBQ (1962) 44-64. 81 R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino 1972, 304; cfr. O. EISSFELDT, Jahvé Zebaoth, Berlin 1950, 149; WANKE, Die Zionstheologie, 43. 82 C. WESTERMANN, Théologie de l’Ancien Testament, Ginevra, 10. 80 Introduzione ai Salmi 211 tre tipi di affermazioni: – «Colui che scruta nelle profondità è Colui che siede sul trono nell’alto». – «Colui che trae dalle profondità è Colui che fa cadere nelle profondità». – «Colui che crea è Colui che mantiene. Colui che salva è Colui che rende saldo». Lo schema è molto suggestivo; raggiunge il nocciolo della testimonianza biblica esprimendo un’antitesi che i salmisti non sono i soli a riprendere, sempre per considerarla ed esprimerla in modo nuovo. Ma è preferibile non chiudere tutto il salterio in uno schema così rigido. Servendosi di un vocabolario abbondante e vario, i salmisti mostrano la ricca diversità della loro riflessione teologica sull’opera di Dio, su Dio stesso. Giustizia, fedeltà, bontà Per penetrare nella teologia del salterio è importante notare le formule teologiche con le quali i salmisti cercano di riassumere ciò che Dio rivela attraverso le sue opere. Queste formule si trovano nelle conclusioni degli inni narrativi: il salmista abbozza una breve descrizione del mistero divino di cui scopre le tracce nell’operato di Dio; si incontrano anche all’inizio degli inni descrittivi nel momento in cui l’autore annuncia il mistero di cui descriverà le molteplici sfumature. Tali espressioni sono al centro della teologia dei salmi; si potrebbe perfino dire che lo scopo del salterio è quello di esplicitare il loro significato. Infatti non soltanto le due categorie di inni mettono questi titoli divini e la realtà che esprimono al centro della loro contemplazione, ma anche le suppliche non cessano di riferirsi al mistero così espresso per far emergere il carattere insopportabile della situazione in cui si trovano i fedeli e per giustificare l’intervento divino che reclamano. Già gli sviluppi che precedono avrebbero dovuto fare allusione a queste note teologiche concludendo la descrizione dell’opera divina che redigono gli autori dei salmi. L’elogio contenuto negli inni-participi termina con l’evocazione di Dio «che perdona, guarisce, riscatta (gā‘al) [...], che corona di grazia (˙esed) e di misericordia (ra˙a¨mîm) [...], che agisce con giustizia (ßedāqâ) e diritto (mišpāè)» [103,3-6]. Ugualmente, gli inni all’imperativo attribuiscono a YHWH la giustizia (ßedeq, 94,15 e ßedāqâ, 98,2), il diritto (mišpāè, 97,2-8; 99,4), l’ordine (96,10; 99,4), la stabilità/verità (’emûnāh, 96,13; 98,3) e la bontà (˙esed). Appaiono anche la grazia/pietà, espressa dalla radice ˙en e i suoi diversi composti: il Dio della grazia (116,5), il Dio che fa grazia (4,2; 6,9); la tenerezza (ra˙a¨mîm): «Nella tenerezza [...]» (51,3); il Dio della grazia e della tenerezza (˙anûn e ra˙ûm, 86,15; 103,8; 111,4; 145,8). Appare infine che i salmisti hanno riassunto la loro dottrina, più che attraverso lo schema rigido dell’antitesi indicata sopra, nell’associazione di alcuni termini chiave. Sal 26,6s enumera bontà, verità, giustizia, giudizio, salvezza. Sal 40,11s unisce giustizia, verità, salvezza, bontà, tenerezza. In 57,4 appaiono salvezza bontà, fedeltà (’emet) e in 85,11s, bontà e fedeltà, giustizia e pace, fedeltà e giustizia. Secondo la formula tradizionale riportata in 86,15, a Dio vengono attribuite misericordia e grazia, bontà e fedeltà; 88,12s menziona bontà, verità, giustizia; 89,15 enumera giustizia e giudizio, bontà e fedeltà. Senza schematizzare troppo il pensiero dei salmisti, è possibile condensare un po’ di più la sintesi da essi iniziata; infatti le diverse qualità divine rivelate dalle innumerevoli meraviglie di Dio si raggruppano intorno a tre termini chiave: – la giustizia (ßedeq e ßedāqâ) completata dalla salvezza (yeša‘); – la stabilità/verità/fedeltà (’emûnāh ed ’emet); – la bontà (˙esed) completato dalla grazia (˙en) e dalla tenerezza (ra˙amîm). Giustizia e salvezza Dio è giusto83; è giustizia piena (103,17). I salmi lo dicono e lo ripetono: «YHWH è giusto; ama le cose giuste» (11,7). «Si conosce forse la tua giustizia nel paese dell’oblio?» (88,13). Il tuo popolo «nella tua giustizia trova la sua gloria» (89,17). «YHWH ha rivelato agli occhi dei popoli la sua giustizia» (98,2), che «rimane per sempre» (111,3). «YHWH è giustizia in tutte le 83 H. H. SCHMIDT, Die Gerechtigkeit als Weltordnung, Tübingen 1968. 212 Introduzione ai Salmi sue vie [...]. Si acclamerà la sua giustizia» (145,7.17). «La mia lingua celebrerà la tua giustizia» (35,28). «Dai cieli [= da Dio] si affaccerà la Giustizia. [...] Giustizia camminerà davanti a lui» (85,12.14). La giustizia di Dio è alla dimensione del mondo (48,11) che è tutto impregnato dell’armonia che essa esprime (33,5); anche il Sal 97,6 dice che «i cieli proclamano la giustizia» di YHWH. «Con i prodigi della tua giustizia tu ci rispondi», dice un altro testo, che aggiunge: «Tu rendi saldi i monti con la tua forza [...] Visiti la terra e la disseti» (65,6.7.10). La pioggia e la fecondità della terra sono manifestazioni della giustizia divina. Ma la giustizia si manifesta soprattutto attraverso il ristabilimento di questa stessa armonia in seno alle relazioni sociali così facilmente turbate; il Sal 36 evoca la giustizia divina che appare nel mondo attraverso gli interventi – i mišpāèîm – di diverso ordine (v. 7): gli uni assicurando la loro sussistenza agli uomini e al bestiame e colmando di delizie i figli degli uomini (vv. 7c-10), gli altri rovesciando superbi, empi e malfattori affinché i fedeli di YHWH siano mantenuti nella giustizia (vv. 11-13). Bisogna «vedere – scrive H. Cazelles – nel mišpāè e nella ßedāqâ [...] l’effetto di una provvidenza e di un ricorso divino che assicura il buon andamento e la pace nella società umana [...]. Il buon andamento delle cose esige che ciascuno sia al suo posto, abbia la sua parte e la soddisfazione dei suoi bisogni. È necessario che Dio assicuri la pioggia, [...] ma è necessario soprattutto che Dio assicuri il buon andamento, l’armonia di tutto ßedāqâ e che egli supplisca alle incapacità e colmi le lacune, se ce ne sono (mišpāèîm)»84. Questi interventi divini, questi «giudizi» trasformano la situazione degli sventurati; così Dio li «salva» e si rivela come «salvatore». «Tu ci rispondi con i prodigi della tua giustizia [...] Dio della nostra salvezza» (65,6). «Liberami dal sangue, Dio della mia salvezza, e la mia lingua esalterà la tua giustizia» (51,16). «La mia bocca proclamerà la tua giustizia [...] la tua salvezza» (71,15). Dio agisce perciò nel mondo, e lo fa «secondo la giustizia» (9,9; 96,13; 98,8). Gli sventurati, i poveri, gli oppressi si rivolgono a lui perché intervenga conformemente alla sua giustizia e ristabilisca i loro diritti: «Giudicami secondo la tua giustizia [...] che non abbiano a gioire di me» (35,24). «Poni fine alla malizia degli empi [...] Dio giusto giudice», domanda questo supplice. Lo stesso si rallegra di vedere i malvagi puniti; come tutti i fedeli che hanno fatto l’esperienza di questi interventi di Dio che, ristabilendo la giustizia, sono altrettanto azioni salvifiche (98,2), manifestazioni della «giustizia del Dio salvatore» (24,5), del «Dio salvatore [...] giusto» (7,11s), egli «canta YHWH per la sua giustizia» (7,9-18). «YHWH è giusto, ama la giustizia» (11,7a). «YHWH il giusto ha spezzato il giogo degli empi» (129,4). «Tu hai difeso il mio diritto e la mia causa siedi in trono giudice giusto» (9,5). Egli promette di far risuonare dappertutto l’annuncio di questa giustizia (51,16; 71,24; cfr. 5,9; 22,32; 31,2; 71,15-16; 143,11). In risposta alla «giustizia» salvatrice di YHWH che ristabilisce la giustizia per stabilirvi il suo fedele, quest’ultimo si impegna a vivere conformemente all’armonia di cui desidera beneficiare. O, conscio di essere vissuto fino ad ora «nella giustizia», vede nel suo giusto comportamento un motivo per chiedere a YHWH di ristabilire intorno a lui la «giustizia» compromessa dai misfatti di coloro che lo circondano. «Giudicami [=salvami] secondo la mia giustizia» (18,21.25), dice uno (7,9); un altro: «YHWH mi rende secondo la mia giustizia» (18,21.25). Un altro parla dei suoi amici «che esultano per la [sua] giustizia» (35,27); si definisce «il giusto» (31,19; 64,11; 94,21). Questo fedele fa allora parte di coloro che «esultano» perché sono beneficiari della «giustizia di YHWH»: «La luce si leva per il giusto. [...] Esultate, giusti, in YHWH» (97,11s). «YHWH difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri. Sì, i giusti loderanno il tuo nome» (140,14). «YHWH ama i giusti» (146,8). Prediletti di YHWH, i «giusti» sono ammessi, e solo essi, nella 84 H. CAZELLES, A propos de quelques textes difficiles relatifs à la Justice de Dieu dans l’Ancien Testament, in RB (1951) 168-188, qui 175. Introduzione ai Salmi 213 casa, luogo paradisiaco dove è in qualche modo concentrata «la Giustizia»: «Aprite le porte della giustizia! – I giusti [soltanto] entreranno» (118,19s). «Chi abiterà nella tua casa? [...] Colui che agisce con giustizia» (15,2). La fedeltà La coppia ’emûnāh-’emet, «stabilità/verità/fedeltà», non è molto lontana da quella che esprime la giustizia. «Le nozioni ebraiche si sovrappongono alle nostre. [...] Queste nozioni ebraiche non sono mai molto nette, fondamentalmente opposte le une alle altre, ma sempre in rapporto mutuo»85. Così ’emet e ßedāqâ si trovano talvolta affiancate l’una all’altra: «La fedeltà germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (85,12). «Egli giudicherà il mondo con giustizia e i popoli nella sua verità» (96,12). (Cfr. 11,7s; 119,75.138.142; 143,1). Ma il significato originario, fermezza/solidità /stabilità, suppone delle sfumature diverse. Il Dio giusto è anche il Dio vero: «Nella tua giustizia liberami [...] YHWH, Dio di verità» (31,6). I salmisti parlano della «sua verità/fedeltà», lo interpellano evocando «la tua verità/fedeltà», di cui trovano la rivelazione nelle sue opere. Infatti tutto ciò che Dio fa è caratterizzato dalla solidità, dalla stabilità: quindi, dalla verità. Così il mondo, opera di Dio, è «stabilito», (yāsad: 24,2; 78,69; 89,12; 102,26; 104,5.8; ecc.), «fissato», (kûn: 89,38; 93,1s; 96,10), «da lungo tempo» (102,26), «incrollabile» (93,1; 96,10; 104,5), «per sempre» (78,69; 104,5): «Incrollabile [...] fin dal principio [...] da sempre [...] Tu [...] per la durata dei giorni» (93,1-5). La solidità e la stabilità, costatate nell’opera creatrice e segni di autenticità, di verità, riappaiono nelle diverse opere di Dio. «Stabilità/fedeltà, le opere delle sue mani» (111,7). Riappaiono nei suoi interventi storici: «Sorregge il mondo perché non vacilli; giudica le nazioni con rettitudine» (96,10); riappaiono anche nelle parole da lui pronunciate agli uomini allo scopo di regolare la loro vita: «La testimonianza di YHWH è verace [...] [i suoi] giudizi sono verità» (19,8.10). «Stabili sono tutti i suoi comandamenti, immutabili nei secoli, per sempre, eseguiti con verità e rettitudine» (111,7s). «Da tempo conosco le tue testimonianze che hai stabilito per sempre» (119,152), dice questo ammiratore della Legge, che riprende, per fare l’elogio della «testimonianza», il vocabolario che esprime lo splendore della creazione. Infine, gli impegni che Dio prende di fronte agli uomini sono caratterizzati dalle stesse note; partendo da una riflessione sulla stabilità/verità dell’opera creatrice (vv. 6-15), l’autore del Sal 89 conclude con la verità/fedeltà della promessa fatta da Dio a Davide (vv. 4-5.20-38). Una volta esaudita la preghiera, il supplice che aveva fatto appello alla verità/fedeltà di Dio, fa di questa stessa verità/fedeltà l’oggetto dei suoi canti di lode. «Anch’io proclamerò sull’arpa la tua fedeltà» (71,22). «YHWH è fedele per sempre» (146,6). Da parte sua il fedele si impegna a vivere secondo questa stabilità/verità/fedeltà che ha contemplato in Dio. Al contrario dei «padri» il cui cuore non era stabile nei riguardi di YHWH, che mancavano perciò di fiducia nella sua alleanza, questo fedele conserverà il suo cuore «fermamente» attaccato a YHWH (112,7). «Sia la mia condotta fermamente conforme alla tua volontà» (119,5). Bontà/grazia/misericordia Anche qui i termini bontà/grazia/misericordia, commentati in questo paragrafo, sono vicini a quelli sviluppati nel precedente. Il binomio bontà/fedeltà, ˙esed-’emet, appare in ventinove passi di salmi. «I sentieri di YHWH, verità e grazia» (25,10). «La tua bontà [...] la tua fedeltà» (26,3; 40,12; 92,3; 138,4). «La tua bontà fino ai cieli [...] la tua fedeltà fino alle nubi» (57,11; 108,4). «La bontà [...] la fedeltà preservino il re» (61,8). «Si parla forse nella tomba della tua bontà [...], della tua fedeltà?» (88,12). «Si è ricordato della sua bontà, della sua fedeltà» (98,3). «Eterna è la sua bontà [...] di generazione in generazione la sua fedeltà» (100,5). «Al tuo nome dà gloria, per la tua fedeltà, per la tua grazia» (115,1). «Forte è il suo amore per noi, la fe85 CAZELLES, A propos de quelques textes difficiles, 170. 214 Introduzione ai Salmi deltà di YHWH dura in eterno» (117,2). «YHWH è fedeltà e bontà» (145,13). Il Sal 89 presenta parecchie volte lo stesso binomio (vv. 2.3.15.25.34.50). Detto il carattere fedele della bontà di Dio, quindi la sua stabilità, la sua permanenza viene espressa dalla formula le‘ôlām, che si ritrova nel ritornello ripetuto molto spesso: «Eterna è la sua misericordia!» (106,1; 107,1; 118,1s; 136,1s). YHWH è apprezzato per la sua «fedele bontà» che appare in tutto ciò che compie (cfr. 89,2.15). Questa bontà è motivo di ammirazione (25,10) e di fiducia (13,6; 31,22); se infatti YHWH si è mostrato fedelmente benevolo nelle sue opere di un tempo, lo può essere ancora oggi (cfr. 89,2-15, prolungati da 25-30). Il salmista, proprio perché è certo di questa bontà, ne domanda la manifestazione efficace: «Mostra la tua fedeltà, salvatore dei rifugiati» (17,7). «Su di noi, Signore, la tua bontà» (33,22). «Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia; la tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre» (40,12). «Dio mandi la sua grazia e la sua fedeltà» (57,4). Appoggiandosi su di essa il fedele cerca di ottenere ciò di cui ha bisogno: «Per la tua grande bontà, rispondimi» (69,14). «Dà gloria al tuo nome, per la tua bontà e la tua fedeltà» (115,1; cfr. 5,8; 6,5; 25,6s; 31,17). Per colui che è stato esaudito questa bontà diventa oggetto di lode: «Benedetto YHWH che ha fatto per me meraviglie di grazia» (31,22). Più spesso essa è oggetto di testimonianza: «Non ho nascosto la tua bontà e la tua fedeltà nella grande assemblea» (40,11). «È bello annunziare al mattino il tuo amore» (92,3). «Ti loderò tra i popoli, YHWH, perché la tua bontà è grande fino ai cieli» (108,4). «Rendo grazie al tuo nome per la tua bontà e la tua fedeltà» (138,2). Infine, la certezza della bontà di YHWH orienta la vita del fedele: «La tua bontà è davanti ai miei occhi e nella tua verità dirigo i miei passi» (26,3s). Il Dio dell’amore fedele è anche il Dio della «misericordia» (ra˙a¨mîm) e della grazia/pietà (˙en). La formula tradizionale, citata dall’Esodo (34,6), è ripresa nei salmi: «Dio di misericordia e di grazia/pietà, YHWH, grande nell’amore e fedele» (86,15). «Buono e [pieno] di grazia/pietà, YHWH, grande nell’amore» (103,8; 145,8s). Ed è su questa pietà piena di amore che si appoggia il credente per ottenere da Dio grazia, pietà. «Dio di misericordia e di pietà [...] abbi pietà di me» (86,16). «Intenerito per Sion, ne avrai pietà» (102,14) «YHWH ha pietà [...] il nostro Dio è misericordioso» 116,5). Egli non può «dimenticare di aver pietà» o «chiudere nell’ira la sua misericordia» (77,10). Così risuona senza fine il grido: «Abbi pietà di me, YHWH» (4,2; 6,3; ecc.). Ancora una volta, l’uomo che ha beneficiato della misericordia di Dio ha il dovere di dare prova di pietà nei riguardi dei suoi fratelli: «Il giusto ha compassione [...] Egli ha sempre compassione» (37,21.26). BIBLIOGRAFIA COMMENTATA* ALONSO SCHÖKEL, L. – CARNITI, C., I Salmi, Roma 1992-1993, 2 voll. L’opera si apre con un’ampia introduzione di centoventicinque pagine suddivisa in due sezioni: storia dell’interpretazione dei Salmi e lavori in sospeso; introduzione ai Salmi. La problematica relativa al Salterio è affrontata quasi esaustivamente, con stile, profondità, professionalità e sensibilità letteraria. L’elemento più nuovo nella storia dell’interpretazione qui delineata è la parte dedicata all’antichità e al medioevo. Sotto i titoli «lavori in sospeso» e «l’appropriazione» gli autori dispiegano la loro grande conoscenza del Salterio e le loro qualità pedagogiche, dando mostra d’indiscutibile profondità religiosa. La nutrita bibliografia è ordinata per temi. * V. MORLA ASENSIO, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 360-364. Introduzione ai Salmi 215 I commenti ai Salmi seguono in parte le direttrici dei grandi commenti. L’espressione «in parte» non ha qui valore di riduzione ma di somma. Alla già classica disposizione «testo», «bibliografia», «analisi filologica» ed «esegesi» gli autori aggiungono «studio globale» e «trasposizione cristiana». Nello studio globale si trovano i contributi più originali a partire dall’ambito della retorica, della linguistica e della letteratura; analisi di sonorità, individuazione di strutture, studio d’immagine e sistemi simbolici aiutano il lettore a leggere i Salmi in modo davvero nuovo. Nella trasposizione cristiana gli autori non si limitano a un repertorio di commenti patristici o a un elenco di paralleli neotestamentari. Il contributo personale a partire dalla propria fede arricchisce la validità del salmo in questione. Tutte queste qualità ne fanno uno dei tre migliori commenti ai salmi del secolo XX. BRIGGS, CH.A., The Book of Psalms (ICC), Edinburgh 1906, rist. 1976, 2 voll. Quest’opera appartiene al prestigioso «International Critical Commentary». Il primo volume comprende un’introduzione di novantuno pagine e il commento ai primi cinquanta Salmi. L’introduzione è dedicata al testo dei Salmi e alla poesia ebraica, alle teorie critiche elaborate nel corso della storia, alla canonicità e alla storia dell’interpretazione. Pressoché tutti i problemi e aspetti vengono affrontati con attenzione e profondità. Riguardo al commento, l’analisi del testo è magistrale, fino a oggi insuperata: minuzie grammaticali, valutazione delle varianti testuali, ricorso a codici ebraici o di altre versioni. Per contro, si registrano due importanti lacune: la scarsa sensibilità letteraria e l’assenza quasi totale di afflato religioso. DAHOOD, M., Psalms (AB), New York 1965-70, 3 voll. Questo commento appartiene alla «Anchor Bible», di fama internazionale per i suoi straordinari contributi. In realtà non si tratta precisamente di un’opera ascrivibile al genere letterario del «commento», almeno nell’accezione tradizionale del termine, ma di prolegomeni (cfr. vol. 1, p. XVII). Nell’introduzione si troveranno informazioni sulle scoperte di Ugarit, sul problema del TM del Salterio e su questioni grammaticali e lessicografiche ebraiche. Al termine dell’opera, con la collaborazione di T. Penar, Dahood presenta un’interessante «grammatica del Salterio» (vol. 3, pp. 361-456) nella quale affronta questioni di ortografia, fonetica, pronomi, sostantivi, verbi, preposizioni, particelle, sintassi, procedimenti poetici e parallelismi lessicali tra il Salterio e la letteratura ugaritica. All’interno dei limiti che l’autore si è posto, si tratta indubbiamente di un’opera straordinaria. Il maggior rischio che presenta, tuttavia, consiste nello sforzo smodato che Dahood profonde per illuminare il testo dei Salmi a partire dall’ugaritico. Non si può negare che in alcuni casi i risultati rappresentino una gradita sorpresa, ma per lo più lasciano a desiderare. L’eccessiva fantasia finisce per rendere oscure parti del TM, non bisognose di chiarimenti. DELITZSCH, F., Biblischer Kommentar über die Psalmen, Leipzig 51894, 3 voll. (1a ed. 18591860) (anche in tr. ingl. in un unico volume: Psalms, «Commentary on the Old Testament», Grand Rapids 1980). Il commento è preceduto da un’estesa introduzione sulla problematica generale del libro dei Salmi: collocazione del Salterio tra gli agiografi e i libri poetici; storia della composizione dei Salmi; origine della raccolta; musica e salmodia; storia dell’interpretazione; considerazioni teologiche, ecc. Nello svolgimento del commento il lettore ammirerà la profonda conoscenza dimostrata dall’autore in campo linguistico (latino, greco, ebraico, aramaico, arabo) e il profondo significato religioso delle sue interpretazioni e osservazioni. D’altra parte la sua conoscenza della patristica arricchisce considerevolmente il commento, collegando con finezza il passato e il presente dei Salmi nella vita della chiesa. Perdonando all’autore alcuni pregiudizi tipici dell’epoca, non è eccessivo affermare che è questo uno dei migliori sei commenti ai salmi che mai siano stati scritti. 216 Introduzione ai Salmi GUNKEL, H., Die Psalmen, Göttingen 1926, 51968. «L’epoca che ora volge al tramonto... era ben disposta a lasciarsi impressionare dalle figure grandiose e impressionanti dei profeti, ma era meno proclive a comprendere, con amorosa penetrazione, il mondo più semplice e uniforme dei salmisti... I Salmi, dei quali già è difficile individuare l’epoca di composizione, attiravano assai poco l’attenzione dei ricercatori e addirittura rischiavano di scomparire tra le brume di un’età tarda poco apprezzata da quella scuola (quella di Wellhausen) ... Possiamo così spiegarci perché molti dei nostri commenti ai salmi... non abbiano potuto superare una certa aridità e mancanza di sensibilità. In questo campo, critica e scienza linguistica occupavano il primo piano, mentre retrocedevano sullo sfondo religiosità e poesia» (p. V, corsivo nostro). Questo brano, tratto dall’introduzione, definisce chiaramente il panorama della ricerca sui Salmi all’epoca di Gunkel e gli obiettivi e la portata della sua opera. Il suo straordinario commento propone una nuova comprensione della poesia ebraica e un nuovo approccio allo spirito religioso dei salmi. Questo è il suo grande contributo alla storia della ricerca. GUNKEL, H., Einleitung in die Psalmen, Göttingen 1933, 21966 (anche in traduzione spagnola: Introducción a los salmos, Valencia 1983; e in traduzione inglese: Introduction to the Psalms. The Genres of the Religious Lyric of Israel, Macon, Georgia 1998). In quest’opera il maestro tedesco espone i principi che ne guidano e informano il commento ai Salmi. Opera della maturità dell’autore (completata dal discepolo Joachim Begrich) che inaugura un metodo e un’epoca; indispensabile nella biblioteca del frequentatore dei Salmi e dello studioso. Per un giudizio si rinvia a quanto se ne è detto in questo capitolo. JACQUET, L., Les Psaumes et le coeur de l’homme, Bruxelles 1975-1979, 3 voll. Dopo alcune considerazioni preliminari di carattere generale, quest’opera monumentale si apre con una bibliografia di trentaquattro pagine. L’introduzione (pp. 67-197) affronta la consueta tematica propedeutica: posizione del Salterio nella Bibbia e canonicità; numero e numerazione dei Salmi; le raccolte del Salterio; titoli e intestazioni; origine dei Salmi; testo e versioni; struttura poetica dei Salmi; Salmi biblici e poemi profani; il Salterio, libro di preghiera universale; consigli per un uso proficuo del Salterio; il Salterio e le liturgie. Il paradigma analitico applicato a ciascun salmo è composto dalle seguenti parti: traduzione; presentazione; annotazioni critiche; note esegetiche; orientamento cristiano; utilizzazione neotestamentaria e/o liturgica; conclusioni. La presentazione offre considerazioni sul genere letterario, la trasmissione del testo, l’epoca di composizione, i possibili riferimenti storici, ecc. Le annotazioni critiche sul testo sono brevi ma sufficienti. Le note esegetiche costituiscono il commento vero e proprio, versetto per versetto. Nell’orientamento cristiano l’autore non ricorre solo al Nuovo Testamento, alla patristica e ad altri commentatori moderni; cita spesso anche scrittori cristiani moderni e contemporanei (Pascal, Claudel, Bernanos, Ch. de Foucauld, ecc.). La sezione intitolata «Per concludere» è una pia orazione, opera dell’autore, collegata alla tematica del salmo in questione. A favore di questo commento vi è il ricorso alla patristica e alla tradizione giudaica; contro si può addurre la farraginosità, la mancanza d’interesse letterario e di slancio critico e una tendenza spiritualeggiante un po’ datata. KRAUS, H.-J., Psalmen, Neukirchen/Vluyn 1960, 51978, 2 voll. (tr. sp. del solo vol. 1: Los salmos 1, Salamanca 1993). Opera già classica, sulla linea dei grandi commenti ai Salmi. L’introduzione, ampia e documentata, affronta gli aspetti tipici del genere: titolo del libro e situazione canonica; testo e versioni; il Salterio come raccolta; titoli e altre annotazioni dei Salmi; forma poetica; generi e contesto vitale; rapporto con la storia d’Israele; storia dell’origine e della tradizione dei Salmi; teologia; bibliografia. Nel commento vero e proprio l’autore sfoggia una sorprendente erudizione che pone il libro all’avanguardia delle opere di questo genere. Tuttavia, in generale, si Introduzione ai Salmi 217 nota una regressione rispetto ai commentari precedenti, come quelli di Delitzsch e di Gunkel: scarseggia la sensibilità letteraria e religiosa. D’altra parte, la sua insistenza sull’ipotetica festa di Sion soffoca in certi casi le potenzialità teologiche di alcuni Salmi. KRAUS, H.-J., Teologia dei Salmi, Brescia 1989 (ed. or. Theologie der Psalmen, Neukirchen 1979). Ottimo libro, opera d’indispensabile consultazione nel suo genere. Consta di sette capitoli: sei incentrati propriamente sulla teologia del Salterio e uno relativo ai Salmi nel Nuovo Testamento. Lo schema tematico è relativamente tradizionale: natura di YHWH (cap. I «Il Dio d’Israele») e del popolo (cap. II «Il popolo di Dio»); istituzioni: il santuario (cap. III) e il re (cap. IV); elementi estranei nello schema precedente (cap. V «Le potenze nemiche»); l’uomo di fronte a Dio (VI). Pur riconoscendo la profondità e l’erudizione dell’opera (peraltro sommamente raccomandabile), le si può muovere una critica di carattere generale: ci si chiede se sia metodologicamente corretto l’orientamento dogmatico in forza del quale si comincia parlando della natura del Dio d’Israele per terminare con la tematica dell’«uomo di fronte a Dio». MOWINCKEL, S., Psalmenstudien, Christiania 1921-1924, 6 voll. Opera eccezionale del grande maestro norvegese. In essa l’autore presenta molti materiali importanti sui problemi più urgenti della sua epoca relativamente al Salterio. Nel primo volume si viene informati sulla sua ricerca sul contesto vitale delle lamentazioni individuali, in particolare sulla natura dei «nemici» del salmista, i «malfattori», a partire dal termine ’āwen. Il secondo è dedicato alla presentazione della tesi sui salmi (e la festa) d’intronizzazione, e sulle conseguenze che ne derivano per la comprensione dell’escatologia dell’Antico Testamento. Il terzo affronta i temi relativi al rapporto tra profezia e culto a partire da alcuni Salmi (veggente e sacerdote; il nābî’ al servizio del culto; l’oracolo cultuale, ecc.). Nel quarto volume Mowinckel studia i dati ricorrenti nelle intestazioni dei Salmi (termini musicali; espressioni relative alla loro esecuzione o a diverse situazioni storiche, ecc.). Il quinto è dedicato al problema delle formule di benedizione e di maledizione nel culto in generale e nei Salmi in particolare, sulla base della storia delle religioni. Nel sesto viene presentato uno studio approfondito della poesia e dei poeti del Salterio: i veri autori e l’origine delle presunte paternità riscontrabili nelle intestazioni dei Salmi. Sebbene molte tesi proposte da Mowinckel in questa opera siano state superate o ridimensionate da ricerche ulteriori, i suoi studi sono ancor oggi un punto di riferimento obbligato. MOWINCKEL, S., The Psalms in Israel’s Worship, Oxford 1967, 2 voll. Senza dubbio si tratta dell’opera più rappresentativa di Mowinckel, nella quale vengono in sostanza affrontati tutti i temi relativi al Salterio. La maturità di pensiero e la ricchezza di dati compensano alcune opinioni eccessivamente audaci e comunque non stravaganti, come alcuni ingiustamente ritengono. Se si eccettua la difesa ossessiva del contesto cultuale come luogo quasi esclusivo dei Salmi e qui e là la tendenza a utilizzare acriticamente i risultati della scuola storico-religiosa come soluzione di alcuni problemi posti dai Salmi, si può affermare di trovarsi di fronte a una delle grandi opere di ricerca di tutti i tempi. RAVASI, G., Il libro dei Salmi, Bologna 1981-1984, 3 voll. Quest’opera monumentale sui salmi (circa tremila pagine) aspira a occupare un posto tra i grandi commenti dell’epoca attuale. Il paradigma analitico di ciascuna unità è invariabile: traduzione; testo e contesto; dimensione letteraria; lettura esegetica. La traduzione è piuttosto aderente alla lettera. Al riguardo si registra la mancanza di un serio esame dei problemi testuali, ridotto qui ai minimi termini. Con l’ambigua formula testo e contesto, l’autore si riferisce alla fortuna del salmo in questione nella tradizione cristiana e giudaica, e insieme nella letteratura e nelle arti in genere. Le minuziose analisi letterarie sono orientate alla ricerca di strutture. Questo sforzo encomiabile è purtroppo assente in altri celebri commenti. Tali strutture, tut- 218 Introduzione ai Salmi tavia, si rivelano talvolta pericolosamente forzate o artificiali. In ogni caso si deve riconoscere la sensibilità letteraria dell’autore, che affronta con indubbia sicurezza analisi di immagini o di sistemi simbolici, ai quali sfortunatamente sono così poco inclini gli autori di alcuni «grandi» commenti. La lettura esegetica è ampia, colta, ben orientata e fonte di arricchimento per il lettore. Due aspetti dell’opera offuscano l’indubbio valore dell’insieme. L’autore ricorre a uno stile farraginoso e ripetitivo che finisce per produrre una certa irritazione. Segnaliamo, poi, l’assenza di una sezione finale dedicata a una bibliografia scelta. I dati bibliografici, quasi esaustivi, si trovano sparsi lungo tutto il commento, il che ne pregiudica i vantaggi e l’utilità. SABOURIN, L., Le livre des Psaumes, Montréal-Paris 1988. Pur mancando in generale di originalità, questo commento è d’indiscutibile utilità per l’esposizione sintetica del contenuto teologico e della problematica di ciascun salmo. Si potrebbe dire che è un’opera «sufficiente» per quantità e qualità. Sufficiente non solo per ciò che riguarda la presentazione della problematica generale del Salterio (in una introduzione di 61 pagine), ma per la sobrietà nella presentazione dei dati letterari, esegetici e teologici. WEISER, A., I Salmi, Brescia 1984, 2 voll. (ed. or. Die Psalmen, Göttingen 71966). È uno dei sei migliori commenti di tutti i tempi. Sommamente raccomandabile per spirito critico, elevato livello di ricerca, vastità di conoscenze e sensibilità letteraria, virtù quest’ultima estranea ai commentatori della sua epoca e in altri posteriori. Vi è una sola obiezione: l’eccessiva rilevanza accordata alle tradizioni dell’alleanza nel Salterio, in particolare alla festa di rinnovamento dell’alleanza come base interpretativa di gran parte dei Salmi. Bibliografia in italiano [a cura di D. SCAIOLA, in Parole di Vita, 50/1 (2005) 47-48] Contrariamente a quanto spesso succede con i libri dell’Antico Testamento, per i quali è difficile reperire una bibliografia in lingua italiana, nel caso del libro dei Salmi esistono molti strumenti, anche facilmente accessibili. Introduzioni Per quanto riguarda le introduzioni al Salterio consigliamo (in ordine cronologico) tre libri: H. RAGUER, Introduzione ai Salmi, Borla, Roma 1997; A. WÉNIN, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2002 e A. MELLO, I Salmi: un libro pre pregare, Edizioni Qigajon, Magnano 2007 Si tratta di strumenti agili, dal linguaggio semplice, ma dal contenuto sostanzioso, che, da punti di vista diversi, costituiscono un’ottima introduzione a tutto il libro. Esistono anche introduzioni più brevi, come quella di V. SCIPPA, «Salmi», in La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato 21996, 1188-1416. Segnaliamo infine l’esistenza di introduzioni di carattere più spirituale, tra le quali indichiamo: D. BONHOEFFER, Pregare i Salmi con Cristo, Queriniana, Brescia 1978, un libro breve, ma ricco dal punto di vista teologico; ed E. BIANCHI, Pregare i Salmi, Gribaudi, Torino 1997. Commentari In genere i commentari dedicati ai salmi sono testi voluminosi. Tra i più accessibili e attenti alle nuove tendenze esegetiche segnaliamo in modo particolare: T. LORENZIN, I Salmi, Paoline, Milano 22001. Altri commentari «classici» sono: G. RAVASI, Il libro dei Sаlmi. Commento e attualizzazione, 3 voll., EDB, Bologna 1981-1984; L. ALОNSO ЅСHÖKEL - C. CARNITI, I Salmi, 2 voll., Borla, Roma 1992-1993. Si vedano anche i volumi di M. GIRARD, I Salmі, specchio della vita dei poveri, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994; e di C. WESTERMANN, Salmi. Generi ed esegesi, Piemme, Casale Monferrato 1990. Si tratta di commentari al Salterio che operano una selezione tra i salmi, quindi rientrano in questa rubrica, anche se non fanno un’analisi esegetica di tutto il libro. Alcuni commentari adottano un approccio «spirituale»: A. DEISSLER, I Salmi. Esegesi e spiritualità, Città Nuova, Roma 21991. E. BEAUCAMP, Dai Salmi al «Pater». Commento teologico-spirituale al Salterio, San Paolo, Cinisello Balsamo 1991; M. CIMOSA, «Con te non temo alcun male» (Salmi 1–25); ID., «Nelle tue mani la mia vita» (Salmi 26–50); ID., «Se avessi ali di una colomba» (Salmi 51–75), Edizioni Dehoniane, Roma 19951997. Introduzione ai Salmi 219 Mondo ebraico Segnaliamo anche la traduzione di un commento «antico», medievale per la precisione, proveniente dal mondo ebraico, e interessante per il tipo di approccio che segue: D. KIMCHI, Commento ai Salmi, 3 voll., Città Nuova, Roma 1991-2001. Un’antologia tratta dalla tradizione ebraica e tradotta in italiano si può trovare nel bel libro di A. MELLO (ed.), Un mondo di grazia. Letture dal midrash sui Salmi. Midrash Tehillim, Qiqajon, Magnano 1995. Un approccio simile, sempre proveniente dal mondo ebraico, è presente anche nelle opere di D. LIFSCHITZ, È tempo di cantare. Il grande Salterio, 3 voll., EDB, Bologna 1998-2002. Commenti di tipo liturgico Esistono vari strumenti di questo tipo, ma ci limitiamo a segnalare il testo di M. GILBERT, Ogni vivente dia lode al Signore. Commento dei salmi delle domeniche e delle feste, 3 voll., AdP, Roma 1991-1992. Come recita il sottotitolo, non si tratta di un commentario integrale al libro dei Salmi, ma di un commento che presenta i salmi responsoriali delle domeniche e delle feste. Non c’è quindi tutto, ma la prospettiva di lettura adottata è interessante. Uno specialista di fama mondiale mostra come si coniugano erudizione e spiritualità. Studi particolari Quest’ultima sezione raccoglie testi eterogenei. Innanzitutto ricordiamo alcuni commenti dedicati a gruppi di salmi: L. ALONSO ЅСHÖKEL, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982. È un commentario piuttosto tecnico, ma molto interessante, anche se, come dice il titolo, vengono commentati «solo» trenta salmi. P. ЅTАNCARI, I passi di un pellegrino. I canti delle ascensioni (Salmi 120–134), Ancora, Milano 1992. R. VIGNOLO, Sillabe preziose. Quattro salmi per pensare e pregare, Vita e Pensiero, Milano 1997 si concentra su quattro salmi (8; 130; 77; 42–43) in chiave esegetico-teologica, ma anche con un’apertura alla preghiera, com’è esplicitato già nel sottotitolo. Recentemente è stato ristampato il bel libro di P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 2002. Una lettura dei salmi di carattere prettamente meditativo, praticata secondo il metodo della lectio divina si può trovare in V. SCIPPA, Salmi, 4 voll., EMP, Padova 2002-2004. Segnaliamo anche degli studi di carattere più complessivo: W. HOLLADAY, La storia dei salmi. Da 3000 anni poesia e preghiera, Piemme, Casale Monferrato 1998; P. GRELOT, Il mistero di Cristo nei Salmi, EDB, Bologna 2000. Infine, i sei numeri dell’intera annata 2005 di Parole di vita sono dedicati a «Il libro dei Salmi». SAGGI DI ESEGESI Nella lettura esegetica di alcuni Salmi si seguirà il criterio di esemplificare gli attuali orientamenti ermeneutici nello studio del Salterio e di offrire saggi dei diversi generi letterari, delle tematiche teologiche e infine delle problematiche che il Salterio suscita nei credenti che dei Salmi nutrono la loro preghiera. 1. Un primo saggio è dedicato ai Salmi iniziali 1 e 2, ai Salmi finali 148, 149 e 150 e al Salmo 22. Si tratta del tentativo di proporre un quadro teologico e concettuale entro cui collocare l’attuale successione dei 150 Salmi che compongono il Salterio, inteso come libro unitario. 2. Ancora nella prospettiva del Salterio come libro unitario si muove lo studio dei Salmi 50 e 51 letti insieme come esempio della successione dei vari Salmi imposta dal loro uso nella liturgia. I due Salmi in questione vengono letti come due momenti di una liturgia penitenziale. 3. Il Salmo 110 viene studiato come esempio del genere letterario “Salmi regali”. Tenendo conto che anche per i Salmi analizzati secondo prospettive diverse e particolari si pone un’attenzione precisa al genere letterario, nell’insieme dei saggi di esegesi si avrà una esemplificazione dei maggiori generi letterari. 4. Lo studio del Salmo 8 permetterà considerazioni sintetiche sull’intera teologia del Salterio, se non addirittura sull’intera teologia biblica. 5. Analizzando, infine, i Salmi 83, 58 e 94, si affronterà la questione problematica dei “Salmi imprecatori” o Salmi di vendetta. È legittimo pregare la violenza? La Chiesa, che fa della preghiera dei Salmi la sua preghiera ufficiale, deve epurare il Salterio? IL SALTERIO DALL’INIZIO ALLA FINE* Nelle pagine precedenti, sulla scorta dei risultati raggiunti dagli studiosi, abbiamo tracciato le linee generali per una storia della formazione del libro dei Salmi, in prospettiva diacronica. Ora è tempo di prendere consapevolezza che il Salterio in una lettura sincronica, nella sua redazione finale, non è una semplice raccolta di preghiere poetiche poste per caso le une accanto alle altre. La concatenazione dei salmi e la disposizione generale del libro rispondono probabilmente a una coerenza, se non addirittura a un progetto teologico. Da una ventina d’anni taluni ricercatori si interessano di questa difficile questione e tentano di scoprire il segreto del Salterio come libro1. Qui non si vuole trattare l’argomento in lungo e in largo, ma le letture che proporrò man mano in questo capitolo lo riguardano da vicino. Infatti, leggendo prima l’inizio del Salterio (Sal 1 e 2) e poi la sua conclusione (Sal 148– 150), vorrei tentare di mettere in luce una linea di coerenza che, a mio avviso, attraversa l’intero libro. Vale a dire che il Salterio mette in scena, se così posso esprimermi, un mondo dove, sotto lo sguardo di un Dio di vita, i protagonisti si trovano alle prese col male, siano essi ora attori, ora vittime, ora spettatori2. Dopo avere così mostrato come il Salterio inizi e si concluda, entrerò, servendomi del Sal 22, nel cuore del dramma evocato dall’intero libro. 1. L’APERTURA DEL SALTERIO: I SALMI 1 E 2 Il Sal 1 deve forse la sua fortuna al fatto che apre il Salterio. Ma questa sua collocazione probabilmente non dipende dal caso, poiché questo poema, opponendo il giusto ai malvagi, dà vita fin dall’inizio ai personaggi che gli altri salmi metteranno in scena. Per di più, situando la loro opposizione sul terreno del contrasto col male, imposta lo scenario di tutto il libro. Il Sal 2 dà il cambio, come se volesse sdoppiare il primo e arricchire in tal modo la chiave di lettura. Vi compaiono infatti altri personaggi che vengono a sovrapporsi ai primi, inserendosi nel quadro di una lotta dove si precisa l’opposizione di cui si parla nel Sal 1. Gli specialisti hanno molto discusso sul genere letterario del primo salmo. Spesso, lo si è rubricato tra quei salmi didattici, o sapienziali, composti da saggi a scopo di istruzione privata, ma forse anche in vista di un uso cultuale. Peraltro, questo poema dal linguaggio sintetico ed evocatore è anche una lode alla rivelazione del Signore che traccia un cammino di vita. Ma una tale colorazione teologica non è rara presso i saggi di Israele, come pure il tema delle «due vie». D’altronde il Sal 1 si sottrae forse a ogni classificazione, nella misura in cui ha potuto essere composto per servire da porta d’ingresso all’intero libro. Ma ecco, per prima cosa, una traduzione letterale di questo salmo: * A. WÉNIN, Entrare nei Salmi (Studi biblici 41), Bologna 2002, 63-111. Si veda l’opera di J.-M. AUWERS, La composition littéraire du Psautier. État de la question (Cahiers de la Revue biblique 46), Gabalda, Paris 2000. Segno dei nuovi orientamenti ermeneutici nello studio del Salterio sono tre recenti pubblicazioni presentate inizialmente come tesi di dottorato al Pontificio Istituto Biblico sotto la direzione di Pietro Bovati: S. BAZYŁIŃSKI, I Salmi 20–21 nel contesto delle preghiere regali, Roma 1999; D. SCAIOLA, «Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite». Fenomeni di composizione appaiata nel Salterio Masoretico, Roma 2002; G. STROLA, Il desiderio di Dio. Studio dei Salmi 42–43, Assisi 2003. 2 L’essenziale di queste riflessioni costituisce l’oggetto di una presentazione maggiormente argomentata in un articolo pubblicato nel volume di omaggio a P. Beauchamp, diretto da P. BOVATI e R. MEYNET, Ouvrir les Écritures (Lectio Divina 162), Paris 1995, 151-176. 1 222 A. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 1 Felice l’uomo che non è andato nel consiglio dei malvagi e nel cammino dei peccatori non si è fermato e nella dimora / nella sede degli schernitori non ha dimorato / non si è seduto, 2 B. ma piuttosto nella legge di YHWH suo desiderio / piacere e nella sua legge mormora (senza tregua) giorno e notte; 3 C. sarà come un albero piantato vicino a canali d’acque che il suo frutto darà a suo tempo e il cui fogliame non appassirà D. – tutto ciò che farà riuscirà. D’. 4 Non così i malvagi, ma piuttosto come la pula che un vento disperderà. 5 B’. È così che non si alzeranno i malvagi nel giudizio e i peccatori nell’assemblea dei giusti; 6 A’. ma YHWH conosce il cammino dei giusti, tuttavia il cammino dei malvagi si smarrirà. C’. 1.1. SALMO 1: STRUTTURA E OPPOSIZIONI Diverse proposte di struttura sono state avanzate per questo salmo. Valorizzando questo o quell’elemento ricorrente, si ottengono effettivamente risultati differenti. Ma non è detto che i diversi accostamenti che si possono operare nel poema debbano necessariamente potersi sintetizzare in una sola e identica struttura. Ecco alcune osservazioni che mirano a mettere in rilievo alcune delle simmetrie letterarie individuabili. L’unità del poema è sottolineata dall’inclusione tra le parole cammino e malvagi (con il suo parallelo peccatori) che leggiamo ai vv. 1 e 5-6. Così, opponendo due cammini, quello dei giusti e quello dei malvagi, il v. 6 si collega al v. 1 dove l’uomo di cui si parla non procede sul cammino dei malvagi, prendendo quindi un altro cammino. Le due parole estreme, felice e si smarrirà, contribuiscono a rafforzare l’antitesi tra le due parti presenti. In maniera più blanda, possiamo ancora individuare un’altra opposizione tra il consiglio dei malvagi al v. 1 e l’assemblea dei giusti della fine del v. 5 (con assonanza in ebraico). Tutti questi elementi inclusivi contribuiscono così a forgiare un’antitesi tra giusti e malvagi. La cesura principale del salmo si colloca al v. 4. Con le parole non così il salmista sembra negare, a proposito dei malvagi, tutto ciò che ha detto prima dell’uomo che medita la Legge. Una cesura del genere si impone in quanto riprende, per rafforzarla, l’opposizione tracciata dall’inclusione. Infatti, isolate, le estremità di queste due parti riassumono magnificamente l’antitesi: da una parte felice l’uomo... ciò che farà riuscirà (vv. 1-3) e, dall’altra, non così i malvagi... il loro cammino si smarrirà (vv. 4-6). Si ottengono dunque due sezioni contrastate, delle quali si deve adesso esplorare il dettaglio. In queste due sezioni (vv. 1-3 e 4-6), l’opposizione fondamentale riappare. Nella prima, la condotta dell’uomo che medita la Legge è descritta in contrasto con quella dei malvagi, dei peccatori e degli schernitori (v. 1), prima di ricevere una qualifica positiva e indipendente (v. 2). Nella seconda parte, secondo una simmetria in chiasmo, la sorte dei malvagi è in primo luogo definita in se stessa (v. 5) prima di essere descritta per contrasto con quella dei giusti (v. 6). Al centro (vv. 3 e 4), l’opposizione dei rispettivi destini è espressa con immagini vegetali che, come vedremo, si corrispondono. A livello del contenuto, una figura concentrica sembra dunque delinearsi (A B C | C’ B’ A’). Per quanto riguarda il centro (vv. 3-4, C e C’), è possibile un’ulteriore precisazione. Infatti, le immagini non occupano tutto lo spazio, poiché la fine del v. 3 e l’inizio del successivo non dipendono dall’immagine. È forse perciò necessario isolarle e distinguere immagine dell’albero (C) e successo (D), negazione del successo (D’) e immagine della pula (C’). Così, si ve- Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 223 de meglio che le due immagini illustrano il contrasto affermato al centro3. Questa osservazione mette in rilievo l’unità di tale centro che garantisce il passaggio dalla prima alla seconda parte, agganciandole solidamente l’una all’altra. A Agire dell’uomo opposto a quello dei malvagi (v. 1) B Attaccamento dell’uomo alla Legge (v. 2) C Immagine vegetale dell’albero fiorente (v. 3a) D Successo dell’uomo (v. 3b) D’ Scacco dei malvagi (v. 4a) C’ Immagine vegetale della pula (v. 4b) B’ Sorte negativa dei malvagi (v. 5) A’ Sorte dei giusti opposta a quella dei malvagi (v. 6) Se per un istante lasciamo da parte il contenuto per attenerci ai soli indizi letterari, la simmetria appare in modo un po’ diverso. Così, i vv. 1 e 5 sviluppano entrambi il parallelo tra malvagi e peccatori, mentre oppongono, come si è visto, il consiglio dei malvagi e l’assemblea dei giusti, con assonanza a sostegno. Allo stesso modo, i vv. 2 e 6 possono essere tra loro accostati a motivo delle due sole menzioni del nome divino YHWH e a causa della ripetizione dei quasi-sinonimi legge (due volte al v. 2) e cammino (due volte al v. 6), poiché questo secondo termine viene spesso utilizzato come metafora per la Legge. Questi segni formali sottolineano così un parallelismo tra i vv. 1-2 e 5-6, secondo il modello A B | A’ B’. I numerosi legami già individuati tra le due estremità del poema ne risultano confermati: come i comportamenti dell’uomo e dei malvagi si differenziano tra loro radicalmente, così anche le loro sorti divergeranno definitivamente. Infine, se si osserva con attenzione la sintassi delle frasi, emerge un’altra figura. Per tre volte il salmo ripete la stessa sequenza: non... ma (vv. 1-2.4 e 5-6). Le prime due volte la struttura è più complessa: non... ma piuttosto... come... (vv. 1-3 e 4): vi si oppone la lunga descrizione dell’uomo che ha rifiutato il male (tre volte non), medita la Legge (ma piuttosto) e riuscirà (come), alla negazione senza appello di questa stessa descrizione a proposito dei malvagi (v. 4). La fine del poema (vv. 5-6), che inizia con è così che, ha l’andamento di una conclusione. Riprende l’antitesi con un ultimo non... ma che oppone adesso giusti e malvagi (un’occorrenza a ogni v. per queste due parole); ma questa volta essa li oppone per descrivere chiaramente le sorti contrastate che troveranno al termine del loro cammino, cosa che abbozzavano già le immagini dei vv. 3 e 4. In conclusione, si noterà che tutti gli elementi strutturanti del poema contribuiscono a rafforzare l’opposizione radicale su cui si apre il Salterio. Anche la prima lettera delle parole estreme del testo sembra sottolineare questa opposizione. Il felice, che annuncia appunto la felicità del giusto, inizia infatti con la prima lettera dell’alfabeto (alef), mentre il si smarrirà, che sigilla la sorte dei malvagi, comincia con l’ultima (tau), come se nulla al mondo vi fosse di più opposto della felicità dei giusti rispetto alla perdizione dei malvagi... È questa opposizione che cercherò ora di descrivere in un’analisi poetica. 1.2. L’UOMO, I MALVAGI E I GIUSTI L’antitesi che la struttura delinea mette chiaramente a confronto malvagio e giusto. Questi due termini sono indicati dai lessici come antonimi. Il primo, il rasha‘, è il fuorilegge (nel senso biblico del termine legge): in rivolta contro Dio, egli ignora tutto delle esigenze della giustizia e della verità, e se la prende coi poveri. Se viene processato, è dichiarato colpevole. Di fronte a lui, e spesso vittima della sua violenza, lo ßaddîq dice il vero, opera con rettitudine e si mostra fedele all’alleanza con il suo Dio. Per questo gli si rende giustizia dichiarandolo 3 Il legame tra i vv. 3b e 4a è reso chiaro da allitterazioni: tre paia di consonanti del v. 3b sono riprese, invertite, nel v. 4a: k-l (kôl) diventa l-k (lo’-ken), mentre sh-r e y-‘ (‘asher-ya‘aseh) diventano r-sh e ‘-y (resha‘ym). È molto per sette parole. 224 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine innocente. Questo dicono i dizionari. Ma il Sal 1 elabora questo antagonismo in un modo che gli è peculiare e che conviene esplorare con metodo. Il poema ha qualcosa di paradossale. Innanzitutto, il termine «giusto» non vi figura all’inizio, ma soltanto alla fine (vv. 5-6). Nella prima parte, si parla soltanto di un «uomo». Successivamente, se si ritorna sulla tensione creata tra i vv. 1-3 e il v. 4 col brusco non così!, si constata che la ricca descrizione della prima parte viene semplicemente negata al v. 4, o ridotta al breve paragone della pula. Tutto accade come se, per descrivere i malvagi, bastasse negare ciò che è affermato de «l’uomo». Da qui a dire che in essi vi è qualcosa di disumano non c’è che un passo, che molti salmi supereranno attribuendo ai malvagi i lineamenti di bestie selvagge4. Ma il paradosso assume nuovi sviluppi. Infatti, la descrizione dell’uomo inizia con un’evocazione dei malvagi ai quali l’uomo rifiuta di unirsi. Con tre frasi simmetriche, il poeta suggerisce il processo dell’indurimento nel male (v. 1): si comincia col seguire il consiglio dei malvagi, poi ci si ferma sul loro cammino, e si finisce col dimorare con loro. Quanto ai malvagi, diventano dei «peccatori»: in una situazione di rottura di alleanza, la loro vita è un fallimento perché, secondo il significato concreto del verbo «peccare», mancano il loro obiettivo5. Infine, non contenti di volgere le spalle al bene, si beffano di esso e fanno trionfare la menzogna, burlandosi di quelli che si fondano sulla verità della propria condotta. Scalzano così la fiducia, fondamento della vita in società (Sal 119,51; Pr 9,7; 19,28; 22,10). Per questo, burlandosi, esasperano al massimo il male. Se si presta attenzione alle simmetrie e ai chiasmi, si vede rapidamente che nel v. 1, che descrive indirettamente i malvagi in una frase con tre membri, i primi due formano un chiasmo: rovesciando l’ordine verbo-complemento, sottolineano che la scelta de «l’uomo» si oppone a quella dei malvagi. Questo chiasmo è d’altronde rafforzato da scambi di termini: normalmente, si procede seguendo un cammino e ci si ferma in un consiglio. In compenso, il parallelismo rigoroso del secondo e terzo stico potrebbe raffigurare l’indurimento progressivo nel male e, di conseguenza, la costanza de «l’uomo» nel suo rifiuto del male. Al v. 2, le due frasi ugualmente parallele sembrano suggerire positivamente la stessa costanza: quella de «l’uomo» nel suo attaccamento alla Legge. Quanto alla finale del poema, essa annuncia le sorti opposte dei malvagi e dei giusti, e anche qui le simmetrie paiono significative. Così, al v. 5, il parallelo tra i due stichi potrebbe insistere sull’immutabilità del destino colpevole dei peccatori, mentre il chiasmo del v. 6 metterebbe in rilievo il contrasto tra gli sbocchi delle vie seguite dagli uni e dagli altri. È questa stessa opposizione che può rafforzare ancora la ripresa in chiasmo ai vv. 5-6 dei due termini chiave, malvagi e giusti. L’antitesi è ulteriormente rafforzata dall’uso dei tempi dei verbi. L’uomo del v. 1 è il soggetto di numerose frasi. I primi tre verbi sono al passato e segnati dalla negazione per indicare che l’uomo non si è lasciato trascinare nella logica del male: il fatto è che l’assenza del peccato può constatarsi soltanto per il passato (v. 1). Ma che dire del presente? Una frase nominale6 lo indica: il presente dell’uomo è desiderio della Legge del Signore (v. 2a) che egli medita giorno e notte, cioè «tutto il tempo», nel corso di una meditazione ripresa di continuo (v. 2b: il verbo ebraico è all’incompiuto). Il seguito parla del suo avvenire. Due verbi innanzitutto: il primo implica la successione nel futuro, e il secondo è un participio passivo (sarà come un albero piantato). Così, l’avvenire di quest’uomo è un divenire fecondo che gli verrà dato e che il v. 3 descrive. Infine, non si deve dimenticare la frase nominale che apre il salmo e che 4 Per strano che sia, questo paragone è tuttavia ben radicato nel simbolismo biblico del male. Si veda ad esempio A. WÉNIN, Non di solo pane... Violenza e alleanza nella Bibbia, Bologna 2004. 5 Il verbo hata’ significa «mancare (il bersaglio)» in Gdc 20,16; Is 65,20; Pr 8,36 (dove è opposto al «trovare» del v. 35). 6 In ebraico, la frase nominale è una proposizione senza verbo (il verbo «essere» è sottinteso) normalmente situata nel presente. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 225 ha l’uomo per soggetto: essa proclama la felicità che quest’uomo conosce nel suo camminare secondo la Legge, un camminare che va dal rifiuto del male, ieri, al suo successo, domani. I malvagi, invece, sono soggetti di un unico verbo: quello che, con una negazione, li esclude dall’assemblea dei giusti nell’avvenire (v. 5). Con ciò, il poeta indica chiaramente che saranno responsabili della loro esclusione, della loro dispersione (v. 4) e della loro erranza (v. 6b). Quanto alle azioni dei malvagi, esse costituiscono l’oggetto di una descrizione puramente indiretta e negativa (v. 1); allo stesso modo, simmetricamente, il giudizio dell’uomo ammesso in compagnia dei giusti non apparirà se non indirettamente, per contrasto con la sentenza di esclusione da cui saranno colpiti i malvagi (v. 5). 1.3. L’UOMO, I GIUSTI E YHWH Un particolare salta agli occhi quando si esamina la posizione di YHWH in questo salmo. Di lui si fa menzione solo due volte, però mai in rapporto con i malvagi, come se costoro fossero per lui dei perfetti estranei. Lo troviamo dapprima accanto all’uomo (v. 2), poi con i giusti (v. 6). Questa constatazione solleva due interrogativi. Quale relazione intercorre tra l’uomo da una parte e i giusti dall’altra? E in che modo il poema parla del rapporto che questi personaggi intrattengono con il Dio di Israele? In tutta la prima parte, il poeta parla di un «uomo». Il singolare colpisce, tanto più che questo individuo si trova posto a confronto con un plurale, quello dei malvagi, dei peccatori e degli schernitori. In realtà, è in primo luogo ciò che non fa che lo rende singolare: i suoi rifiuti lo mettono a parte dal gran numero suggerito dalla triplice designazione dei fautori del male (v. 1). Di fronte a costoro e alla scelta che la loro presenza impone, l’uomo è sempre solo, e tale resterà se sceglie di evitare il loro cammino per dedicarsi alla Legge del Signore. Come lui, tutti coloro che nel Salterio supplicano si troveranno soli di fronte a quelli che fanno loro del male, non essendo riusciti a trascinarli nelle loro vie. Nella seconda parte, l’uomo scompare e i giusti si presentano. Ma questo nel futuro, e a favore di un giudizio che li riunisce. Così dunque, prima del termine, nessuno viene dichiarato giusto. C’è solo un uomo – dei singoli uomini – che medita la Legge e resiste alla tentazione di conformarsi alla folla che lo circonda. Solo al momento del giudizio quest’uomo verrà dichiarato innocente dal male e scoprirà, entrando nell’assemblea dei giusti, che non era unico della sua specie. Ma, prima di questo giudizio che dissipa le apparenze e manifesta la verità, vi sono certo dei giusti, tuttavia YHWH solo lo sa, lui che conosce il loro cammino. Infatti, il Signore è presente nel mondo abbozzato dal poema. Se vi si trova, è perché un uomo sceglie di prestare attenzione alla sua Legge e assume il proprio isolamento rispetto ai malvagi volgendosi verso di lui (v. 2). Due termini ricchi di significato descrivono il suo rapporto con la Legge. C’è dapprima il sostantivo ˙èfèß che vede ricongiungersi le idee di desiderio e di piacere in un solo concetto: un desiderio che si volge verso ciò che piace. A connotare questo termine è la «vita interiore» dell’uomo: essa è fatta del desiderio di una vita piena e feconda, ciò verso cui conduce la Legge. L’inizio del salmo non parla forse di un uomo che cammina verso la felicità (v. 1a)? Ora la Legge di YHWH può piacere, questa legge migliore dell’oro fino e del miele, la quale dona vita, saggezza, gioia e lucidità (Sal 19,8-11). Ma per colui che pone in essa il proprio piacere tanto da farne il suo desiderio, una metamorfosi si compie: la Legge di YHWH diventa la sua propria Legge, come suggerisce l’interpretazione ebraica antica del v. 2b7. Il secondo termine utilizzato è il verbo hagâ, «mormorare», «parlare sottovoce». Esso sembra indicare che la vita interiore è anche un’attività di parola, ma una parola «detta per sé» da quest’uomo solitario «per meglio essere intesa dal cuore e dalla mente», per dirla con Yo7 Secondo le regole del parallelismo, il possessivo di la sua Legge rimanda a YHWH (la Legge di YHWH//la sua Legge). Ma, grammaticalmente, il possessivo può anche riferirsi all’uomo cui si rifà il possessivo precedente (il suo piacere... la sua Legge). 226 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine hanan Goldmann. Al consiglio dei malvagi – «consiglio» nel senso di pensiero e di parola d’incoraggiamento che cercano di trascinare al male (v. la) –, alla canzonatura degli schernitori che è derisione della Legge (v. 1c), l’uomo oppone giorno e notte una parola che ha fatto sua, perché si compiace di porre il suo desiderio nella Legge. Allo stesso modo, all’agitazione dei malvagi che camminano, si fermano e si siedono (v. 1), l’uomo oppone l’unico desiderio e la sola parola che danno senso a tutti i suoi gesti. Il fatto è che egli meno si caratterizza per la sua attività esteriore che per il suo essere interiore tutto teso verso la Legge. Ma cos’è questa Legge, questa Torāh di YHWH che costituisce il desiderio di quest’uomo? In ebraico, il termine torâ riveste un duplice significato, come la parola italiana «istruzione». Può trattarsi di una prassi da seguire, di una direttiva per l’azione, ma anche, e forse più fondamentalmente, di un insegnamento, di una parola che istruisce. È così che la Torāh biblica si presenta come una rivelazione, un insegnamento su Dio, che ingloba e implica un’etica, un modo di vivere. In questo senso, la Torāh è il luogo dove l’uomo impara a conoscere YHWH guardandolo agire in un racconto che lo rivela, ma anche adottando gradualmente il suo modo di essere con l’osservanza dei suoi ordini. In poche parole, il desiderio della Legge altro non è che il desiderio di Dio, ma un desiderio che non fa a meno delle mediazioni imposte dalla parola: l’intelligenza e l’operare, due vie privilegiate di un’autentica conoscenza di Dio. L’uomo che vive in questa dinamica, il Signore lo riconosce come giusto insieme ad altri. Poiché YHWH conosce il cammino dei giusti (v. 6a). È così che si instaura la reciprocità tra il Signore e l’uomo che medita la Legge. Infatti, come quest’uomo impara a conoscere Dio per mezzo della sua Legge, così Dio lo conosce vedendo il suo «cammino». Il suo comportamento – il suo modo di essere, di agire e di parlare in conformità con ciò che egli è e con la Legge che lo abita – permette a Dio di conoscerlo come giusto e di poter entrare in alleanza con lui, secondo il significato profondo del verbo ebraico yada‘, «conoscere». Infatti non si tratta soltanto di una conoscenza esteriore che permette a Dio di valutare il valore delle azioni, ma di quel legame profondo che impegna non solamente l’intelletto, ma anche la volontà e l’affettività, l’amore. E va notato bene: questa conoscenza non è annunciata per il futuro. Al contrario di tutti gli altri verbi della seconda parte del salmo, il verbo «conoscere» è al participio che traduce un presente durativo, il tempo delle due frasi che, al v. 2, qualificano positivamente l’attività dell’uomo della Legge. È questo un altro elemento della reciprocità tra il Signore e quest’uomo: essi durano nella conoscenza attiva l’uno dell’altro. YHWH può così conoscere come giusto colui che non può tuttavia essere dichiarato tale prima dell’ora decisiva del giudizio (vv. 5b-6a). 1.4. L’ALBERO, LA PULA E IL GIUDIZIO Due vie sono dunque aperte. La prima conduce all’erranza, allo smarrimento nel nulla; l’altra è conosciuta da YHWH, anche se l’uomo ne ignora i rigiri (v. 6). Ma quale che sia l’itinerario, la scelta di questo cammino è feconda e portatrice di vita. La lunga descrizione dell’albero lo illustra a meraviglia. L’immagine si muove nell’ambito dell’agricoltura, poiché l’albero è piantato, probabilmente presso canali di irrigazione destinati a fertilizzare una steppa. Quest’immagine assume diverse connotazioni. Così, l’albero è piantato e porta frutto e fogliame: la linea verticale che va dal basso verso l’alto, dalle radici ai rami, produce un’impressione di solidità, di stabilità. Ma quest’ultima è rafforzata dalla fecondità messa in risalto: con le radici nell’acqua, l’albero può dare il suo frutto e conservare il suo fogliame, offrendo così la propria ombra quando il sole arde. In compenso, nulla di simile per i malvagi: sono come la pula che il vento disperde. Qui, la linea non è più verticale, ma orizzontale: è quella della dispersione, della disseminazione. Ma ciò che viene così seminato dal vento è il nulla. Infatti, anche la pula è un’immagine derivata dal mondo agricolo e serve a sottolineare il contrasto con l’albero fecondo. La pula, infatti, è l’involucro del frutto, ciò che resta quando il frutto è stato tolto, cioè il non-frutto. Senza radice e dunque senza frutto, i malvagi non hanno né consistenza né fecondità. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 227 Ma perché questa differenza tra i malvagi e l’uomo? Dev’essere una questione d’acqua perché da essa dipende ogni fertilità. Ora, per un gioco sottile di assonanze e di allitterazioni, il poeta ha legato la sua descrizione dell’albero piantato vicino a corsi d’acque al mormorio giorno e notte della Legge (vv. 2 e 3a)8. Così, come l’albero affonda le sue radici nell’acqua donde trae il suo vigore e la sua capacità di produrre, allo stesso modo l’uomo trova la sua stabilità, la sua forza e la sua fecondità nella meditazione della sua Legge. Ma se i malvagi rifiutano la Legge, come possono fruttificare? Sono come la pula, senza radice e senza frutto. Così, dunque, l’opposizione è totale tra l’uomo giusto e i malvagi, le due categorie di personaggi la cui descrizione apre il Salterio. E come l’alfabeto, che serve a dire il mondo, è compreso tra l’alef e il tau, così il Sal 1 contiene l’insieme del mondo dove si muovono i salmi. È essenzialmente un mondo diviso in due, dove ci si colloca adottando una posizione di fronte al male. Possiamo farcene complici lasciandoci progressivamente sedurre (v. 1); possiamo rifiutarlo per aderire alla Legge di YHWH in un’alleanza duratura (v. 2). Così, gli attori sono posizionati per l’alternanza di supplica e di lode che ritma il Salterio. L’uomo della Legge è di continuo alle prese con i fautori del male, le cui orme si rifiuta di seguire; ed è un’autentica lotta quella da lui condotta. Quando questa lotta lo schiaccia perché i malvagi sono potenti e la morte lo travolge, egli supplica colui che la Torāh gli consente di conoscere come il Dio che libera dalla morte e dalla mano dei malvagi. E quando Dio risponde, è l’esodo che si rinnova. Allora scaturisce la lode, segno della vita che trionfa della morte (cfr. Es 14–15). Tuttavia, se questo mondo è diviso in due, un giudizio indicherà un giorno dove passava la frattura. Tale giudizio è da intendersi come un processo di rivelazione o di svelamento della verità profonda degli esseri e delle cose, e accadrà nel futuro. Come dice l’apostolo Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: Non giudicate prima del tempo, prima che venga il Signore: è lui che illuminerà ciò che è nascosto nelle tenebre e metterà in evidenza i disegni dei cuori (1Cor 4,5). Ora, fin da adesso, il poeta evoca tale giudizio. Perché lo fa? Di solito – e taluni salmi lo diranno chiaramente – l’attualità offre una sferzante smentita alla felicità che il poeta proclama per l’uomo della Legge. Il più delle volte, anzi, sono i malvagi che trionfano, imponendo la loro potenza riuscendo nelle loro imprese (Sal 49,12; 73,312). Poiché le apparenze sono contro di lui, il poeta si appoggia su ciò che la Torāh gli insegna di Dio per evocare il giudizio che lacererà tali apparenze fallaci e svelerà la verità delle cose: Dio radunerà tutti gli uomini della Legge di cui riconoscerà la giustizia, dichiarandoli innocenti di ogni male. Quanto ai malvagi che hanno scelto il male, non potranno alzarsi in piedi per prendere la parola, sia per accusare il giusto o per assumere la propria difesa9. Allora apparirà ciò che essi erano in realtà e in che consisteva la loro apparente felicità. Del resto, quando ricorre a immagini per descrivere le rispettive sorti dell’uomo e dei malvagi, il salmista cerca forse qualcos’altro rispetto a quando si trasporta al tempo del giudizio? Ricorrendo all’immagine, il poeta ci conduce «in un altro mondo, un altro spazio e un altro tempo»10 e provoca così una presa di distanza propizia alla riflessione. Da questo luogo può contestare le brutali evidenze della realtà concreta e proporre un’altra visione delle cose, fondata sulla sua fede nel Signore, quel Dio che egli crede nemico del male e della morte perché l’ha scoperto sotto tali tratti nella sua storia personale e in quella del suo popolo. 8 Queste due espressioni (due volte tre vocaboli) contengono giochi di suoni: tra shatû]l ‘al-pal[gê e laylâ (suoni l e a ripetuti in ebraico in «piantato vicino a canali d’acque» e «notte»), tra mayim e yômam (m, a e y, in «acque» e «giorno»), e tra palgê e yehgèh (suono -ge, in «canali» e «mormorio»). 9 Si alza in piedi, in tribunale, chi sta per prendere la parola per accusare, difendere o giudicare. Per di più, il verbo «alzarsi» è l’opposto di «sedersi». Ora, nel v. 1c, il verbo tradotto con «dimorare» può anche significare «sedersi». È pertanto significativo che quelli che si sono seduti con i denigratori non possono più alzarsi per difendersi nel momento del giudizio. 10 TRUBLET - ALETTI, Approche poétique, 276. 228 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine Tuttavia, la situazione del giudizio nel futuro presenta un altro aspetto. Mostra che, nel presente, tutto è ancora confuso, oscuro, ambiguo, e che, in questa realtà complessa, nulla è ancora deciso. L’uomo che medita la Legge può ancora fermarsi sul cammino dei malvagi, mentre dei malvagi possono riprendere la strada mormorando la Legge. Nel presente, nulla è giocato, perché è lì che tutto si gioca. Oggi è il tempo della decisione che impegna domani. In tal modo, il salmo diventa un invito appena velato a imboccare il cammino che la Legge propone. 1.5. IL MESSIA E I SUOI NEMICI: SAL 2 - SALMO DI INTRONIZZAZIONE REGALE All’inizio del Salterio, il Sal 2 viene per così dire a innestarsi sul precedente per prolungarlo, completarlo. Peraltro, una delle forme attestate di un brano degli Atti degli apostoli – il cosiddetto testo «occidentale» (ms. D) – cita il Sal 2,7b presentando questa frase come proveniente dal primo salmo (At 13,33), un’attribuzione che si ricollega a certe tradizioni talmudiche e patristiche che testimoniano una lettura unificata dei primi due salmi. Ma prima di affrontare la relazione tra questi due poemi, è importante dare alcuni riferimenti storici ed esegetici per capire di che cosa parla il Sal 2. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 11 Perché si agitano le nazioni e le popolazioni meditano invano (perché) insorgono dei re della terra e dei principi fanno lega insieme contro YHWH e contro il suo unto: «Spezziamo le loro catene e gettiamo via il loro giogo»? Colui che dimora/siede nei cieli ride, il Signore si burla di loro poi parla loro nella sua collera e nel suo furore li spaventa: «E io, ho consacrato il mio re su Sion, il monte della mia santità». Che io annunzi il decreto di YHWH: mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io, oggi, ti ho generato. Chiedimi, che ti dia nazioni in eredità e in proprietà i confini della terra. Li schiaccerai con uno scettro di ferro, come un vaso di vasaio li frantumerai». E ora, re, siate intelligenti, lasciatevi istruire, giudici della terra. Servite YHWH con timore e festeggiatelo con tremore. 11 Abbracciate il figlio , perché non si adiri e vi smarriate in cammino, poiché come un nulla la sua collera s’infiamma. Felici quanti si rifugiano in lui. Il TM ha naššeqû-bar, baciate, abbracciate il figlio; LXX e Vg leggono un altro testo. Altri correggono congetturalmente: neó’û qorbā\n, portare doni, oppure nešû qerab, scordate la guerra; M. Dahood: ’anšê qeber, uomini della tomba, cioè mortali. Ma molti (Rowley, Closen, Weiser, Kraus, BJ) accettano ancora l’emendamento proposto da A. Bertholet, il quale, modificando 11b e 12a, legge naššeqû berā\glaw e traduce, baciategli i piedi. A. Vaccari traduce rendetegli omaggio con tremore. S. Mowinckel riferisce le testimonianze relative al gesto di baciare i piedi come segno di soggezione, sia in Egitto che in Mesopotamia (cfr. Is 49,23). Preferiamo la lezione difficile del TM: abbracciate il figlio. Vedere questo stesso gesto di omaggio in 1Sam 10,1; 1Re 19,18; Os 13,2; Gb 31,27. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 229 1.5.1. Spunti tematici e divisione* Idee centrali sono la filiazione divina del re e la stabilità della dinastia davidica orientata profeticamente verso il regno messianico universale. Il salmo si lascia agevolmente dividere in quattro parti: complotto dei re subalterni contro il nuovo sovrano e inutilità di tale progetto (vv. 1ss); reazione tra ironica e minacciosa di YHWH contro le loro pretese e in favore del suo consacrato (vv. 4ss); reazione del nuovo re, che rivendica la propria autorità regale, proclamando l’oracolo divino che gliela conferisce (vv. 7ss); minaccia di punizione in tono da ultimatum agl’insubordinati e promessa di felicità agli obbedienti (vv. 10s). 1.5.2. Elementi formali Appartiene al genere letterario dell’oracolo profetico con prospettive escatologiche. Sembra probabile si tratti di una drammatizzazione12 o trasposizione lirico-liturgica dell’oracolo di Natan relativo alla dinastia davidica. La lingua è protocollare e tersa; lo stile tanto più efficace quanto meno ricercato. La struttura ritmica non è uniforme, tuttavia predomina 3 + 3. Volendo si può dividere in quattro strofe, sebbene l’unità logica racchiusa nella strofa qua e là esorbiti da quella ritmica come in 2c e 12c. 1.5.3. Circostanze di composizione L’occasione più probabile sembra la nascita o meglio l’incoronazione di un re della dinastia davidica, beneficiaria della promessa divina, mediatrice e garante dell’alleanza di Dio con Israele13. Il pretesto immediato: la cospirazione dei re vassalli durante l’interregno. L’autore degli Atti (4,25), recependo una tradizione corrente, ne fa risalire la composizione a Davide. Fra gli studiosi alcuni optano per una data remota, almeno preesilica e avente come oggetto un re storico: infatti il v. 6 sembra supporre il regno unito e i vv. 4-9 sono poco comprensibili dopo la distruzione della città e del tempio. G. Castellino e M. Dahood propongono addirittura il sec. X, per il contesto storico evocato e il colore arcaicizzante dello stile. Per S. Mowinckel niente di decisivo può essere addotto contro la datazione preesilica del salmo. Altri propongono una data più recente. Per A. Robert tutto il salmo, eccetto i vv. 6.12, usa termini caratteristici del linguaggio postesilico. H. Gunkel lo ritiene una specie di plagio letterario dai protocolli e cerimoniali dei grandi imperi assiro-babilonesi; mentre secondo R.H. Pfeiffer sarebbe un acrostico su Alessandro Janneo (103-76 a.C.) per la sua elevazione al supremo pontificato e alla regalità. M. Treves, evolvendo l’opinione di Pfeiffer, sostiene che il re è uno degli Asmonei: ogni dubbio sarebbe eliminato dal fatto che le prime lettere di ciascun verso formerebbero la frase: «Su, cantiamo a Janneo, il Primo, e alla sua sposa!». Ma il 103 appare una data impossibile; d’altra parte, B. Lindars ha dimostrato che non è affatto certo che il salmo sia acrostico14. 1.5.4. Esegesi La cospirazione dei popoli: vv. 1-3. Chi sono i rivoltosi? I gôyîm sono sempre le nazioni pagane ostili a Israele. Tuttavia i re confederati non sembrano identificabili, come non lo sono quelli di Sal 48,5. La corrispondenza di El-Amarna, peraltro antecedente alla monarchia israelitica, ci informa su complotti e intrighi che gl’insignificanti re siro-palestinesi ordivano contro il faraone e altri sovrani: il nostro salmo potrebbe fare eco a una situazione simile15. Poi* V. REALI, Salmi: Saggi di esegesi, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, salmi, sapienziali (Introduzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 302-308. 12 Tale processo avviene attraverso discorsi diretti, immagini plastiche, simboli e gesti significativi. 13 Cfr. 2Sam 7,11-16; 1Cr 17,10-14; Sal 89,20-30; 132,11-18; Is 7,2. 14 Per le varie opinioni circa la data di composizione, vedi SABOURIN, The Psalms, 340. 15 L’interregno e quindi il trapasso dei poteri prestava occasione ai vassalli di ammutinarsi e di tentare la rivolta. Fra le molteplici testimonianze extrabibliche, notevole è l’oracolo di Ninlil a favore di Aššurbanipal, dove 230 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine ché Israele è sempre stato un piccolo regno, anche nel periodo del suo massimo splendore, è ovvio ritenere che, letterariamente, ci troviamo di fronte ad un’imitazione del cerimoniale dei grandi imperi orientali, in particolare del rito dell’adozione divina. Il discorso sui re vassalli ha offerto al salmista l’occasione di parlare del dominio universale di Dio (cfr. Is 14,27; 17,12s; 18,4). In effetti l’ostilità delle nazioni è contro il Signore e il suo Messia in quanto Israele e il suo re mediano la salvezza che Dio intende realizzare nelle vicende storiche16. E poiché YHWH è l’unico vero Dio, il suo disegno condanna al fallimento tutti i progetti ostili ed insensati degli uomini. Il v. 3 drammatizza, mediante una formula dialogica ortativa, la ribellione. Questo disegno fallimentare è descritto con un lessico vario dai toni cupi e sicuri: si assembrano, complottano, si schierano. Il giogo e le cinghie di cuoio per applicarlo al collo degli animali simboleggiano il potere politico del sovrano sui vassalli (cfr. Is 9,3; 10,27; 14,25; 47,6). Ironia e ira divina: vv: 4-6. Il salmista, con volo d’aquila, balza dall’arrogante fracasso della follia umana all’imperturbabile maestà di Dio, che siede sovrano sul firmamento e sogguarda con serena ironia l’impotente orgoglio dei mortali (cfr. Gen 3,11; 11,6; Is 18,4). Dopo questa prima reazione ironica, uno scatto di collera sconvolgente (v. 5). Cfr. Is 17,13: Le nazioni fanno fragore, come il fragore di molte acque, ma il Signore le minaccia, esse fuggono lontano; come pula sono dispersi sui monti dal vento e come mulinello di polvere dinanzi al turbine. Ancora Is 18,4: Il Signore osserva tranquillo dalla sua dimora. Di fronte alla ribellione e al peccato degli uomini Dio assume un atteggiamento di superiore distanza che sgomenta la creatura appesa al filo del suo grido sul vuoto. In questo modo Dio conturba l’uomo per insegnargli la pietà. Chiunque si ribella e tenta di vanificare il piano salvifico di Dio verrà schiacciato con mazza di ferro, travolto come pula dal vento. Dio (v. 6) è causa e garanzia della stabilità dinastica. Il davidide è stato consacrato re da Dio stesso in Sion (cfr. Sal 89,20ss; 110,4; 132,11s; 2Sam 7), la sua santa montagna17, ovvero sul monte della sua santità. Poiché Sion è il monte del tempio dove Dio abita, la scelta del re davidico è legata a quella di Sion e in ultima analisi del popolo. Proclamazione del decreto di YHWH: vv. 7-9. Questa specie di recita del protocollo che conferiva l’investitura regale si comprende meglio se proiettata sullo sfondo dei cerimoniali di corte dell’antico Oriente. Quei documenti testimoniano una concezione idolatrica del re che si arrogava prerogative divine. Più sobriamente la Bibbia, pur calandosi nel contesto culturale mediorientale, vede nel re un semplice rappresentante di YHWH e solo per questo esso viene chiamato figlio (adottivo) di Dio (cfr. Sal 89,27; 2Sam 7,14)18. Oggi ti ho generato: l’oggi è il giorno dell’incoronazione e dell’adozione divina. Si tratta di una metafora iperbolica, quanto mai ardita, che prepara il messianismo metadinastico ed escatologico, orienta cioè verso una realtà insospettata: un re la cui filiazione divina non sarà si incontrano frasi come queste: I re della terra si son detti l’un l’altro: orsù marciamo contro Aššurbanipal... Il suo potere non causi divisione in mezzo a noi. Ninlil rispose: I re della terra li abbatterò, li porrò sotto un giogo, ceppi forti ai loro piedi porrò (ANET, 451). E l’iscrizione di Zakir: Si allearono contro di me... (sette?) re! ma io alzai le mani a Be‘elšamaim e mi esaudì. Per mezzo di veggenti (parlò) a me: Non temere, perché io ti ho fatto re... e ti salverò da tutti (questi re i quali) hanno preparato un assedio contro di te (ANET, 501). 16 Cfr. Sal 83. 17 Sion è nome poetico di Gerusalemme, più precisamente è la collina a sud-est del tempio: la città di Davide (cfr. 1Re 8,1), sede politica del regno davidico e sede spirituale del regno di Dio. Era detto anche monte santo o di Dio, come già il Sinai (cfr. Es 3,1; 18,5). Per S∫a\fôn, monte degli dei, cfr. Sal 48,3. 18 Per l’oracolo divino Figlio mio sei tu e per la discendenza divina dei re cfr. 1Sam 10,6; 16,13; 2Sam 23,27. Per i testi extrabiblici vedi G. CASTELLINO, Libro dei Salmi (La Sacra Bibbia), Torino-Roma 1955, 593. L’espressione figlio di Dio era usata anche nell’accezione giuridica, come nel codice di Hammurapi, paragrafo 170s. (ANET, 173s). Cfr. G. VON RAD, Erwägungen zu dem Königsritual, in ThLZ 72 (1947) 211-216; P. SAYDON, The Divine Sonship of Christ in Psalm 2, in Scripture 3 (1948) 32-35; K.H. RENGSTORF, Old and New Testament traces of a formula of a Judaean Royal Ritual, in NT 5 (1962) 229-244. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 231 semplicemente adottiva, ma naturale. Il re davidico è figlio di Dio, perché egli stesso lo ha scelto, lo ha consacrato e ha stretto con lui un’alleanza perenne. Questa triplice realtà instaurava fra i due un rapporto intimo di intenti e di azione per cui il re poteva qualificarsi figlio di Dio. Poiché Dio è Signore dell’universo, l’adozione divina del re di Sion aveva come conseguenza il possesso del regno tendenzialmente universale. In qualche modo il re d’Israele rifletteva in sé il dominio universale del Signore, non tanto sulla natura quanto sulla storia degli individui e delle nazioni (cfr. Sal 47,3-9; 89,12; Is 45,1; 52,10). L’eredità promessa era soprattutto il Canaan (v. 8b) abitato dalle genti. L’espressione tutta la terra dilata quella prima eredità, per cui dai confini del regno di Davide si passa, in senso profetico, ai confini del mondo intero. La frase del v. 9, li fracasserai con mazza di ferro, potrebbe riecheggiare il rito magico diffuso nell’antico Oriente di scrivere su vasi di terracotta i nomi dei vassalli ostili o ribelli e di spezzarli, per simboleggiare l’intenzione di annientare l’oggetto del timore o dell’odio. Ammonimento ai potenti della terra: vv. 10-12. L’avverbio di tempo we‘attâ, e ora, ha un valore consecutivo e conclusivo. L’invito al timor di Dio scaturisce logicamente dall’oracolo: o il ravvedimento o la disfatta ineluttabile. Il timore con cui debbono servire il Signore è tipicamente religioso (v. 11; cfr. Dt 6,13): un atteggiamento di umile e stupita gratitudine di fronte alla percezione del soprannaturale e alla manifestazione di Dio, riconoscendone e accettandone la sovranità che si esplica mediante il suo consacrato. Il v. 11b potrebbe significare entrare a far parte della gioia del Signore. L’avvertimento di 12b ai reggitori del mondo è di tono sapienziale: la minaccia del castigo ha una finalità medicinale e salvifica. La misericordia iniziale respinta aggraverebbe la giustizia finale (cfr. Sap 11,21–12,2; 2Pt 3,9; Ap 6,16s). Il verbo ˙āsâ, v. 12c, rifugiarsi in Dio, tipico del salterio, indica una fiducia piena e totale: il significato originario è quello di ripararsi sotto qualcosa che protegge. Quest’ultimo stico appare monco e da alcuni è ritenuto aggiunto e sopprimibile; però non sembra per ragioni ritmiche; infatti alla fine di una composizione la misura del verso varia con maggiore frequenza. 1.5.5. Rilettura cristiana Secondo la costante e indiscussa tradizione giudeo-cristiana il salmo 2 ha una portata messianica, come il 110. Vi si parla di un sovrano scelto da YHWH e consacrato con un crisma di fortezza e di gioia, di vigore e d’esultanza, la cui perennità è garantita dalla parola fedele di Dio. Il ritratto di questo re andrà sempre meglio delineandosi (Sal 110) e assumendo tratti ideali che si realizzeranno pienamente solo nel Messia escatologico, quando Dio ricapitolerà in lui tutte le cose ed egli le consegnerà al Padre portando a compimento le promesse fatte a Davide (Sal 89), mediante la sofferenza espiatrice (Sal 22) e il perfezionamento dell’alleanza (Sal 45). Cioè il salmista, partendo da una situazione storica politico-militare relativa alla dinastia di Davide, lascia intravedere la realtà di un re e di un regno ideali. Questa dimensione escatologica fa della regalità davidica il prototipo del regno atteso per la fine dei tempi. Il ruolo del re israelita è di essere mediatore dell’alleanza (cfr. 2Sam 7; 2Re 23,3); in questo senso è ritenuto figlio di Dio. S.H. Jones19 sottolinea questo compito del re e afferma che il segno tangibile di esso è il decreto del Signore che il re vuol proclamare. Anche S. Mowinckel20, analizzando Sal 2,7, conclude che abbiamo qui una conferma del patto con Davide. L’elezione e l’ascesa al trono di un re di Giuda che attualizza e perpetua il regno di Davide esorbitano dai limiti empirici del regno d’Israele e puntano verso orizzonti più vasti. Tale ampio sguardo, all’inizio, è un’iperbole letteraria (Israele è sempre stato la cenerentola delle nazioni); poi è una speranza e un’illusione del popolo; più tardi è la grande attesa di quanti sperano il regno di Dio; infine è una realtà che si compie in Cristo, specialmente a partire dalla sua risurrezione. Infatti riferito a Gesù, re e figlio di Davide, il Sal 2 s’inquadra nella prospettiva globale cristiana ed esplica tutta la sua portata, prima racchiusa come nel germe o nel simbolo. Già 19 20 S.H. JONES «The Decree of Jahvé», Ps II,7, in VT 15 (1965) 336-340. S. MOWINCKEL, Psalmenstudien, I, Amsterdam 1961, 62. 232 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine nei vv. 10ss il re di Giuda è fuori campo, perché l’intento più vero, sebbene forse implicito, del salmista è che i potenti della terra riconoscano e servano Dio come sovrano universale. Cioè, la regalità in quanto messianica assume molteplici aspetti – sacerdotale, profetico, escatologico – che oltrepassano le dimensioni della realtà storica d’Israele. Il NT, sia che citi Sal 2, sia che vi alluda21, lo applica alla messianità e alla filiazione divina di Gesù, esplicitandone la tipologia. Per J. Dupont22 gli autori del NT hanno descritto il trionfo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e Re dopo la sua passione, come un’investitura regale. In questo senso qualcuno vede in Dan 7 un’interpretazione di Sal 2 in chiave escatologica e secondo cliché apocalittici: uno scorcio ardito del destino provvidenziale d’Israele. 1.6. PARAGONE CON IL SALMO 1 È tempo adesso di confrontare i primi due salmi del Salterio. A prima vista, queste due composizioni non hanno granché in comune. Eppure condividono la particolarità di non essere contrassegnate da alcun «titolo»23, contrariamente alla grande maggioranza dei salmi, e di essere inquadrate da due proclamazioni di felicità (felice... felici... in Sal 1,1 e 2,12). 1.6.1. Strutture parallele Come abbiamo visto, nel Sal 2 si possono distinguere quattro strofe: 1-3; 4-6; 7-9 e 10-12. Queste quartine formano una struttura A B | B’ A’ le cui diverse parti presentano corrispondenze con il Sal 1, sulla base del parallelismo tra i binomi giusto-malvagi da una parte, e renemici ribelli dall’altra. Così, Pierre Auffret24 propone uno schema, qui adattato, che fa risaltare delle corrispondenze significative basandosi sugli attori e le loro mutue relazioni. SALMO 1 SALMO 2 a (v. 1) il giusto di fronte ai malvagi A (vv.1-3) le nazioni di fronte a YHWH e al suo messia B (vv. 2-3) condotta e prosperità dell’uomo alleato di YHWH B (vv. 4-6) [di fronte alle nazioni] alleanza di Dio col suo re b (v. 4) vanità dei malvagi B' (vv. 7-9) [alleanza di Dio con suo figlio per] a perdita delle nazioni A (vv. 5-6) i malvagi perduti di fronte ai giusti salvati A' (vv.10-12) le nazioni devono arrendersi a YHWH; altrimenti, rovina 1.6.2. Altri accostamenti significativi Oltre l’inquadramento con una formula identica (felice... felici...), un’altra inclusione globale è individuabile tra i due salmi. Infatti, la parola cammino (derek) che si trova all’inizio e alla fine del Sal l (vv. 1 e 6) torna ancora in Sal 2,12; l’espressione è del resto simile a quella di Sal 1,6 (con il verbo smarrirsi) e sottolinea l’affinità tra i malvagi di 1,1.6 e i re e i giudici di 2,10. Del resto, nella stessa linea, se il Sal 1 menziona all’inizio e alla fine i malvagi e i peccatori (vv. 1 e 5-6), un’inclusione simile incornicia il Sal 2: è la duplice menzione dei re della terra (2,2) e dei re e giudici della terra (2,10). Oltre a queste corrispondenze strutturali, si possono operare, grazie al vocabolario adoperato, degli accostamenti suggestivi. Così, i malvagi che siedono o dimorano in Sal 1,1 sono 21 Cfr. At 4,25s; 13,33; Eb 1,5; Ap 2,26s; 19,15. J. DUPONT, «Filius meus es tu». L’interprétation du Psaume 2,7 dans le Nouveau Testament, in RSR 35 (1948) 522-543. 23 Si chiamano «titolo» le poche notazioni, alcune delle quali abbastanza oscure, che precedono spesso il poema stesso. Le traduzioni moderne lo evidenziano di solito con il corsivo. 24 P. AUFFRET, La sagesse a bâti sa maison. Études de structures littéraires dans l’A.T. et spécialement dans les Psaumes, Fribourg-Göttingen 1982, 174. 22 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 233 opposti al Signore che siede nella sua potenza in Sal 2,4 (stesso verbo), ridendosene dei suoi oppositori. Allo stesso modo, il mormorio dell’uomo che medita la Legge (Sal 1,2) si oppone al mormorio ribelle delle nazioni (Sal 2,1: stesso verbo). Peraltro, si sa che il giudizio che fa giustizia al giusto dichiarandolo innocente (Sal 1,5) appartiene a YHWH, cosa ironica nei confronti dei re giudici della terra (Sal 2,10). Se essi non si lasciano correggere dal Giudice, il loro cammino li perderà (Sal 2,12) e in esso si smarriranno come i malvagi di Sal 1,6. Infine, è possibile scorgere un’analogia tra il vento che disperde la pula (Sal 1,4) e la potenza del messia che spazza via i ribelli (Sal 2,9). 1.7. IL SALMO 2, AMPLIAMENTO DEL SALMO 1? 1.7.1. Corrispondenze Fin dall’inizio del Salterio il parallelo tra i due salmi tende a designare il messia come il tipo del giusto contro il quale insorgono invano i nemici, i fautori di male. Se le cose stanno così, possediamo una chiave di lettura importante per l’intero libro. Ogni giusto, ogni innocente che grida verso il Signore o lo loda è in qualche modo una figura del messia. Inversamente, il messia, con tutto l’onore che gli conferisce l’elezione di YHWH, è una figura del giusto e della sua sorte. A tal proposito, il parallelismo evidenziato da Auffret tra Sal 1,2-3 e Sal 2,4-6 è prezioso perché sottolinea la similitudine tra l’alleanza che unisce il giusto al suo Dio (Sal 1,2) e quella che lega il Dio di Israele al suo re (Sal 2,6). Questa osservazione permette di situare immediatamente i salmi regali nel quadro fornito dal Sal 1 (cfr. Sal 20; 21; 45; 72; 89; 101; 110). Essa consente ugualmente di comprendere i pochi titoli di salmi che collocano la preghiera che segue nell’ambito della vita di Davide (cfr. Sal 3; 7; 18; 51; 52; 54; 56; 57; 59; 60; 63; 142). Tali titoli fanno di Davide il modello del giusto che prega. In cambio, essi danno di Davide un’immagine che non è quella del re glorioso di cui i libri di Samuele raccontano la storia. Infatti gli episodi evocati nei titoli sono i momenti dolorosi della vita dell’uomo Davide: la sua fuga dinanzi a Saul, la sua cattura da parte dei filistei, l’uccisione del marito di Betsabea ecc. Pertanto, il Davide del Salterio è un Davide «pieno di umiltà, di fiducia in YHWH e di compunzione», «configurato all’immagine del suo popolo di poveri e [...] modello per Israele nel suo abbassamento e nella sua erranza»25. Peraltro, dato che un re è una personalità simbolica del suo intero popolo, il messia è anch’egli una figura rappresentativa di Israele davanti alle nazioni e davanti al suo Dio. L’individuo che prega i salmi ha dunque sempre, almeno potenzialmente, una portata collettiva. Si ottiene così un codice globale di corrispondenze dove, al pari dei malvagi, i re e le nazioni sono figure emblematiche del mondo del male: giusto malvagi = messia = re rappresentativo di Israele rappresentativi delle nazioni In questo ambito, anche Sion acquisisce una portata simbolica. Sion, o Gerusalemme, non è infatti solamente un luogo geografico. È il luogo simbolico dell’alleanza di YHWH con il suo eletto, il messia, e con Israele (Sal 2,6). Sion e il tempio che ne è il cuore acquistano così una posizione privilegiata. Il fatto è che questo luogo dell’alleanza, della comunione con Dio, costituisce il termine della «marcia» dell’uomo che mormora la Legge (Sal 122,1-2). Ora, Sion è la città del Signore, quella da lui scelta per farvi abitare la lode e coloro che la cantano, i giusti liberati, divenuti figli di Dio come il messia (Sal 2,7). Questo elemento permette di situare i «cantici delle ascensioni» (Sal 120–134) o altre preghiere dello stesso genere (ad esempio Sal 25 J.-M. AUWERS, «Le David des Psaumes et les Psaumes de David», in L. DEROUSSEAUX - J. VERMEYLEN (edd.), Figures de David à travers la Bible (Lectio Divina 177), Paris 1999, 187-224, qui 222. 234 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 15; 24; 84 o 91), come pure quelli che la critica ha classificato sotto il nome di «cantici di Sion» (Sal 46; 48; 76; 87; 132)26. 1.7.2. Ampliamenti e prolungamenti Il Sal 2 non si limita a trasporre su un altro livello le opposizioni del Sal 1. Aggiunge anche alcuni elementi e, in tal modo, completa lo schema di apertura. Nel Sal 1, il poeta giustappone l’uomo della Legge e i malvagi, precisando soltanto che il primo evita di prendere il cammino dei secondi quando li incontra (v. 1). Nel parallelo del Sal 2 (vv. 1-3) l’idea viene prolungata. I malvagi – qui, le nazioni e i loro re – si oppongono infatti all’uomo dell’alleanza di YHWH, il messia in questo caso: si coalizzano contro di lui e, di conseguenza, contro il Signore. In altre parole, se l’uomo della Legge cerca semplicemente di allontanarsi dai malvagi, non per questo costoro lo lasciano in pace. Al contrario, come affermano numerosissimi salmi, questi si alleano per attentare alla sua vita. È proprio questa alleanza dei fautori di male che l’inizio del Sal 2 descrive. Peraltro, nel Sal 1, YHWH non prende posizione rispetto ai malvagi. Costoro vanno da soli verso la propria rovina, pula dispersa dal vento, colpevoli inadatti a presentare la loro difesa (Sal 1,4-6). Del resto, in questo poema, il Signore non ha alcun legame se non con l’uomo della Legge. Nel Sal 2, in compenso, YHWH si colloca con chiarezza accanto al suo messia nella sua lotta contro i nemici (vv. 5.8-9 e 12). Questa nuova prospettiva è complementare a quella del Sal 1: essa afferma che, lungi dall’essere indifferente alla lotta che l’uomo deve condurre contro i fautori di male e di morte, il Signore s’impegna con lui per la loro rovina. Questa duplice affermazione trova delle eco nel Salterio, dove talvolta vediamo il male autodistruggersi (Sal 7,15-17: Chi scava una buca e la fa profonda cade nella fossa che ha fatto...), talaltra si vede Dio lottare per la sua rovina (Sal 73,18: Li metti su un terreno scivoloso per precipitarli verso la rovina). Da qui la formula concisa di Sal 9,17: YHWH prende il malvagio nella trappola, opera delle sue mani. Inoltre, al centro della lotta evocata dal Sal 2, echeggia un appello ai re e ai giudici. È un appello al timore e al tremore davanti al Signore, un appello alla conversione (vv. 10-11). Se si legge il verbo «servire» del v. 11 nel senso del servizio cultuale del Signore (cfr. Sal 100,2; 102,22-23), possiamo persino vedere qui l’invito lanciato ai malvagi ad entrare nel cerchio della lode, nell’esultanza di fronte alla regalità di YHWH finalmente riconosciuta (cfr. Sal 97,1). Questo invito è già un’anticipazione della vittoria della lode, l’annuncio velato di un trionfo che non lascerà fuori nessuno, se non coloro che non saranno voluti entrare. Così, tra l’oggi e il giudizio del Sal 1, il Sal 2 sembra aprire un luogo per la conversione dei malvagi. È consentito suggerire un ultimo accostamento? All’inizio del Salterio si legge dapprima una meditazione di tipo sapienziale sulla felicità dell’uomo che medita la Legge (Sal 1). Segue un annuncio di tipo profetico che riguarda la storia del messia alleato del Signore (Sal 2). In tal modo, è tutto l’universo della Bibbia – dalla Legge ai Profeti, dalla Sapienza alla storia – che se ne sta alle porte del Salterio. 26 A proposito di Sion come luogo della vita e della lode, vedere ad esempio Sal 48,2-13; 65,2.5; 87,5-7; 102,14-15.16-18.19-23. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 235 2. LA FINALE DEL SALTERIO: I SALMI 148, 149 E 150 Se il Salterio si apre sulla duplice visione di un mondo diviso in due, si chiude su un mondo dove tutto converge nella lode. Nei ventinove versetti degli ultimi tre salmi, leggiamo ventotto volte il verbo «lodare»27, due volte il sostantivo «lode» (Sal 148,14 e 149,1) e sette sinonimi nel Sal 149 (sei verbi e un sostantivo, al v. 6, «elevazioni»). Questa lode tuttavia non è realizzata: viene anticipata nell’invito o nel desiderio. È così che tutti i verbi sono al modo volitivo esprimendo qui l’appello o l’auspicio. In questo modo la finale del Salterio è un’apertura attraverso, un desiderio su un mondo dove tutto non sarebbe altro che lode. Questo mondo, essa lo annuncia, pur lanciando un pressante invito ad entrarvi fin da adesso, per costruirlo. 2.1. IL SALMO 148: L’ESTENSIONE UNIVERSALE DELLA LODE 1 2 3 4 Lodate Yah! Lodate YHWH dai cieli, lodatelo nelle elevazioni, lodatelo, tutti suoi messaggeri, lodatelo, tutto il suo esercito, lodatelo, sole e luna, lodatelo, tutte le stelle di luce, lodatelo, cieli dei cieli e le acque che sono sopra i cieli. 5 6 7 8 9 10 11 12 Lodino il nome di YHWH: sì! egli ordinò ed essi furono creati, li stabilì in eterno per sempre, diede un decreto che non passerà. Lodate YHWH dalla terra, mostri marini e tutti gli abissi, fuoco e grandine, neve e nebbia, vento di tempesta che esegue la sua parola, le montagne e tutte le colline, alberi da frutto, tutti i cedri, le bestie selvagge e tutto il bestiame, rettile e uccello alato, re della terra e tutte le tribù, principi e tutti i giudici della terra, ragazzi e anche ragazze, anziani con bambini. 13 14 Lodino il nome di YHWH: sì! è sublime, il suo nome, lui solo, il suo splendore sulla terra e nei cieli: ha fatto elevare una potenza [corno] per il suo popolo, lode per (di) tutti i suoi fedeli per (di) i figli di Israele, il popolo che gli è vicino. Lodate Yah! 2.1.1. Struttura letteraria Un buon indizio di strutturazione in questo salmo è l’alternanza tra invitatorio e contenuto. Esso è rafforzato da ricorrenze significative e inclusioni. Così, tra gli alleluia inclusivi (lodate Yah, vv. 1 e 14), il salmo è formato di due parti: la lode dei cieli per la stabilità dell’universo creato (vv. 1-6) e la lode della terra per l’elevazione di Israele (vv. 7-14). La fine del poema (v. 14b) annuncia una lode specifica di Israele che verrà sviluppata nel salmo successivo, come lo attesta tra i due poemi la presenza di parole-ganci significative del 27 Vi sono 89 occorrenze di questo verbo nel Salterio. Quasi un terzo si trova negli ultimi tre salmi. 236 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine tema (tra Sal 148,14b e 149,1-2: lode, fedeli, Israele e figli di). Si noterà altresì la regolarità nella lunghezza delle strofe. A Invitatorio celeste (vv. 1-4): «dai cieli... le elevazioni» con 7 volte «lodate» e 7 elementi chiamati alla lode, inclusione tra 2 menzioni dei «cieli» (vv. 1 e 4) B Contenuto: «Lodino il nome di YHWH: sì!...» con 3 espressioni per il contenuto (vv. 5-6) [8 stichi] [4 stichi] A’ Invitatorio terrestre (vv. 7-12): «dalla terra... gli abissi» [12 stichi] con 3 serie di 6, 8 e 8 elementi chiamati a lodare (v. 22), inclusione tra 2 menzioni della «terra» (vv. 7 e 11) B’ Contenuto: «Lodino il nome di YHWH: sì!...» al centro, il riassuntivo «terra e cieli» (vv. 13-14a) [6 stichi] 2.1.2. Gli invitatori: universalità della lode cosmica La lunga lista degli elementi convocati per la lode organizza il reale per settori. È il segno che questo reale non è caotico, che è, al contrario, un cosmos, cioè un insieme ordinato e ornato, che dipende da un progetto creatore che il centro del poema afferma e al quale l’uomo partecipa nominando gli elementi e scoprendo la loro coerenza e la loro bellezza. Qui troviamo la totalità dei giorni della creazione, dato che la cifra sette è quella degli elementi della lode celeste. Troviamo anche la totalità del linguaggio umano che esprime il mondo: il numero degli elementi terrestri è infatti quello delle lettere che formano l’alfabeto ebraico, ventidue. La totalità è persino direttamente evocata poiché il termine tutto torna per dieci volte. Analogamente, l’aspetto spaziale della terra e dei cieli potrebbe ispirare la quadruplice ripetizione dei termini terra e cieli28 (quattro come i punti cardinali). Infine, il mondo umano è rappresentato nel suo insieme da tre coppie antitetiche che designano la totalità sotto diversi aspetti: re e popoli (statuto politico), ragazzi e ragazze (sesso), anziani e bambini (età). Allo stesso modo, il regno animale è evocato da due coppie: animali terrestri domestici e selvaggi, poi rettili e uccelli. Tutti questi elementi sono disposti sui due assi fondamentali dello spazio. Sull’asse verticale o ascendente, dai cieli e nelle elevazioni, sono disposte tre serie di elementi: angeli ed eserciti (v. 2) che assicurano il legame con la terra; sole, luna e astri appesi alla volta dei cieli (v. 3); infine, proprio in cima, cieli dei cieli e acque al di sopra dei cieli (v. 4, cfr. Gen 1). Da queste acque in alto, il poeta passa, a quanto sembra, alle acque in basso, l’abisso sul quale è posata la terra e dove abitano i mostri marini29. L’evocazione dell’universo lascia allora l’asse verticale per l’orizzontale. Qui, ancora, tre serie di elementi si succedono con una certa gradazione verso l’umanità: le meteore (v. 8), l’ambiente naturale (vv. 9-10), poi il mondo umano, punto culminante e centro di tutto l’ordine della creazione (vv. 11-12). Infine, non si dimenticherà la permanenza nel tempo garantita dagli elementi celesti posti nei cieli «per sempre» e la cui costanza nell’obbedire alle loro leggi proprie è concepita come una lode perpetua (v. 6). Questo tempo è del resto ritmato anch’esso dall’orologio cosmico costituito dagli astri (cfr. Gen 1,14-18). 28 Il termine «cieli» ricorre in realtà cinque volte, ma solo quattro nella forma assoluta shamayim. La quinta volta si trova allo stato costrutto nell’espressione shemê shamayim (v. 4): la sonorità non è dunque la stessa. 29 L’abisso può essere l’ambiente in cui si muovono i mostri. Ma potrebbe essere anche un elemento chiamato alla lode. Si conterebbero allora ventitré elementi, tanti quante sono le lettere dell’alfabeto quando si distinguono sin e shin. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 237 2.1.3. I contenuti: motivi di lode I due contenuti essenziali della lode del Salterio si ritrovano in questo salmo: la creazione e la storia della salvezza. Nel cuore della lode dei cieli (vv. 5-6) c’è il Dio creatore, il cui comando è efficace e il cui «decreto non passa mai». Infatti, è nei cieli, e in particolare nel movimento degli astri, che l’efficacia permanente della parola creatrice è la più visibile (Sal 19,2-3; cfr. Is 40,26). Quanto alla lode della terra, è Dio stesso che essa celebra, è la sua sublimità e il suo splendore che essa canta (vv. 13-14a). Ma dove meglio si manifesta questa grandezza? È nell’elevazione di Israele di cui Dio ha stabilito la potenza quando ha fatto di quest’infima tribù il suo proprio popolo. Questo è il contenuto proprio della lode terrestre. Anche nel Sal 117, tutte le nazioni sono invitate a lodare YHWH il cui amore per Israele si è mostrato forte e fedele. La lode dell’universo e specialmente della terra culmina così in Israele. Ecco il motivo specifico della lode di Israele, questo popolo composto dai fedeli e dai vicini di YHWH (v. 14bc). Questa lode, proprio perché sorge da una salvezza storica, è chiamata canto nuovo (Sal 149,1): nuovo rispetto a quello dell’universo creato (Sal 148) e nuovo rispetto al cantico di ieri, quello del Mar Rosso, ad esempio (Es 15). In poche parole, la salvezza di Israele è motivo della lode della terra e dei popoli, allo stesso modo in cui la creazione è motivo della lode dei cieli. Perciò Israele stesso è invitato alla lode. 2.2. IL SALMO 149: LA LODE DI ISRAELE E LA VITTORIA SUL MALE 1 2 3 Lodate Yah! Cantate per YHWH un canto nuovo, la sua lode nell’assemblea dei fedeli: si rallegri Israele di colui che l’ha fatto, i figli di Sion, festeggino il loro re; lodino il suo nome con danza, con tamburo e citara, suonino per lui. 4 5 6 Sì! YHWH favorisce il suo popolo adorna gli umiliati di vittoria. Esultino i fedeli in gloria gridino la loro gioia sui loro giacigli, elevazioni di Dio nella loro gola e spada a doppio taglio nella loro mano, 7 8 9 per compiere vendetta nelle nazioni, castighi nelle tribù, per legare i loro re in catene i loro gloriosi in ceppi, per fare con essi il giudizio scritto: è un onore per tutti i suoi fedeli. Lodate Yah! 2.2.1. Struttura letteraria Come per il Sal 148, è possibile strutturare il poema partendo dall’alternanza tra invitatori e contenuti di lode secondo lo schema A B | A’ B’. Si noterà, tra l’altro, la corrispondenza tra i due sviluppi del contenuto, corrispondenza che sottolinea la complementarità dell’azione di YHWH e dei suoi fedeli. Una tale strutturazione è corroborata da inclusioni. Così, la prima parte (vv. 1-4) è inquadrata dalla duplice ricorrenza di YHWH, la seconda (vv. 5-9) da una duplice menzione dei fedeli. Quest’ultima parola assicura del resto l’inclusione generale accanto alla ripetizione dell’alleluia (vv. 1 e 9). Ecco uno schema riassuntivo: 238 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine I a Invitatorio: gioia per YHWH nei fedeli (vv. 1-3) b Contenuto: agire di YHWH per gli umiliati, il suo popolo (v. 4) II a’ Invitatorio: acclamazione guerriera dei FEDELI (vv. 5-6) b’ Contenuto: agire dei FEDELI in nome di Dio (vv. 7-9) 2.2.2. Invitatori: i modi della lode Gli invitatori di questo salmo sono scanditi da sette verbi di lode nel modo volitivo che compongono l’appello alla lode. Sono inquadrati da due alleluia così che troviamo il verbo «lodare» alle estremità e al centro della serie. Il primo verbo sinonimo («cantare») è seguito dal termine «lode», e l’ultimo («gridare») dal termine «elevazioni» (vv. 1 e 6). Il tutto forma un autentico lessico della gioia che traduce una nuova estensione della lode: nei modi. lodate-Yah cantate + lode si rallegri festeggino lodino suonino esultino gridino + elevazioni lodate-Yah 2.2.3. Chi compone Israele? Questo salmo propone dunque la lode propria a Israele. Questo Israele vi è descritto con diverse espressioni. Si parla di assemblea dei fedeli, di fedeli o di suoi fedeli (vv. 1.5.9), dei figli di Sion (v. 2) uniti al loro re, e anche degli umiliati che costituiscono il suo popolo secondo il parallelismo del v. 4. Così l’Israele che intona il canto nuovo è un popolo di fedeli, di hasîdîm. Ma a che cosa rimanda questo termine? Esso indica tanto colui che è fedele a YHWH quanto colui che è l’oggetto dell’amore fedele dello stesso YHWH. Forse, del resto, ha simultaneamente entrambi i significati? Giacché il sostantivo hèsèd, sul quale l’aggettivo hasîd è formato, indica l’amore leale capace di andare al di là di quanto è richiesto. Indica una qualità intimamente legata all’alleanza e, a questo titolo, implica perlomeno potenzialmente la reciprocità, la lealtà dell’uno che risponde a quella dell’altro. Così, gli hasîdîm sono coloro che, credendo nella fedeltà di YHWH, gli sono rimasti leali (Sal 148,14), restando altresì legati a Sion e a ciò che Sion rappresenta. Umiliati nella loro lotta contro il male e la morte, si sono mostrati fedeli al Signore che, a sua volta, ha dimostrato loro il suo amore fedele dando loro la vittoria e facendo di essi il suo popolo (v. 4). Così, dunque, il Sal 149 precisa ciò che è Israele, il che significa, in altri termini, spostare il concetto. Se «Israele» raggruppa chiunque è fedele a YHWH nella resistenza contro il male, allora esseri umani che non fanno parte dell’Israele etnico possono rientrare in questa definizione e raggiungere perciò «Israele». Un allargamento è dunque possibile per Israele. Ogni uomo che mormora la Legge (Sal 1,2) diventa un israelita, un fedele del vero Re che è in Sion (Sal 149,2) e di cui il re terrestre è il luogotenente. Con gli altri fedeli, egli è chiamato figlio di Sion, simile cioè a quel re proclamato «figlio» in Sion (Sal 2,6-7). A questo titolo, egli è abilitato a compiere la vendetta (Sal 149,7-9), promessa nella minaccia del Sal 2,9, e a cantare la lode nel suo luogo, Sion. Un tale ampliamento del concetto, del resto, non è del tutto ignoto Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 239 all’Antico Testamento. Così, ad esempio, Is 56,1-7a presenta più di un punto in comune con i salmi studiati qui. 2.2.4. Contenuto della lode: vittoria e giudizio Al v. 4, il poema parla di una vittoria, vittoria seguita dal giudizio dei vinti (v. 9). Secondo il Sal 149, tale giudizio è scritto. Ma dove sta scritto? Non sarebbe per caso nel Sal 1,5 dove è detto che, nel giudizio, i malvagi non possono alzarsi e sono perciò condannati a che il loro cammino si smarrisca, a perire come i ribelli (Sal 1,6 e 2,12)? Per di più, chi dice vittoria dice lotta vinta. Qual è dunque questa lotta al termine della quale il Signore conferisce la vittoria? Non sarebbe per caso il combattimento iniziato nel Sal 2 e che oppone YHWH e il suo messia a re e nazioni ribelli? Su questo punto, gli accostamenti tra i Sal 2 e 149 sono numerosi: ritroviamo qui molti termini già adoperati là per parlare della ribellione delle nazioni e dei loro re. Mentre nel Sal 148,11 i re della terra (cfr. Sal 2,2) e i giudici della terra (cfr. Sal 2,10), come pure le tribù (cfr. Sal 2,1), sono ancora invitati alla lode, nel Sal 149 se ne vedono definitivamente esclusi. Sono votati alla disfatta a scapito di quelli che hanno umiliato (Sal 149,4). Come annunciato al messia (Sal 2,8-9), il Signore favorisce il suo popolo e lo rende vittorioso (Sal 149,4). Quanto al giudizio, è proprio un assembramento di giusti (Sal 1,5), di fedeli che brandiscono la spada (Sal 149,6), come il messia brandisce il suo scettro di ferro (Sal 2,9). Così le nazioni (Sal 149,7; cfr. 2,1.8) e le tribù (Sal 149,7; cfr. Sal 2,1) sono castigate; i loro re, che volevano spezzare le loro catene (Sal 2,2-3) vengono incatenati (Sal 149,8) con ferro (Sal 149,8; cfr. Sal 2,9 dove lo strumento del castigo è anch’esso di ferro), mentre i giudici (Sal 2,10) sono giudicati (Sal 149,9). In poche parole, l’annuncio del Sal 2 sembra essere qui realizzato. Del resto, questa realizzazione è preparata nei Sal 146 e 147 che, come gli ultimi tre, sono inquadrati dall’inclusione dell’Alleluia (lodate Yah!). È così che nel Sal 146,3-5, il salmista invita chi prega con lui a non porre la sua fiducia nei principi che periranno (cfr. Sal 2,2.12 e 1,6), quanto piuttosto in YHWH, la cui azione è giusta fin dalla creazione (Sal 146,6), ma anche nella vita di ogni giorno (vv. 7-9), poiché, nel suo amore per il giusto (1,5-6a), egli dirotta i passi dei malvagi (cfr. Sal 1,6b). Nel Sal 147 lo stesso salmista invita a lodare YHWH che non apprezza la forza che gli uomini dispiegano nel combattimento, quanto piuttosto la loro lealtà e la loro fiducia (vv. 10-11). Perciò benedice i figli di Sion e protegge questa città contro i suoi aggressori, per darle la pace e la prosperità (vv. 13-14), ma anche la Parola che lo fa conoscere (vv. 15.19-20). 2.2.5. Una lode conquistata sul male Dopo questa breve parentesi, torniamo al Sal 149. L’evocazione della lotta contro il male, della vittoria dei fedeli e del giudizio che ne consegue, evidenzia che la lode finale annunciata da questo poema è una lode conquistata in un aspro combattimento cui i fedeli prendono parte. In questo combattimento, essi dapprima hanno sperimentato l’umiliazione che ha fatto di loro delle persone che supplicano poiché, nel loro rifiuto di compromettersi con il male, hanno creduto nella vittoria finale dell’amore di YHWH. È in questa lotta che è stato «fatto» il nuovo Israele di cui parlo sopra, che è stato creato, scelto, costituito da Dio (v. 2a). È composto dai figli di Sion (v. 2b), vero popolo di Dio (v. 4) che può ormai cantare la vittoria esibendo le sue armi: non i cavalli o i muscoli (Sal 147,10), ma la spada a doppio taglio (Sal 149,6b), letteralmente: «a due bocche». Ma qual è dunque questa spada? Il v. 6 che ricorre a tale immagine comporta un parallelismo tra, da una parte, le elevazioni di Dio nella gola e, dall’altra, la spada a due bocche nella mano. Questo sembra orientare il lettore verso un significato simbolico. Infatti, che cosa sono le elevazioni o le lodi di Dio nella gola dei suoi fedeli, se non le due forme di lode proposte dal Salterio: la lode propriamente detta e quella che implica la supplica? Non sarebbe questa la spada a due bocche, con la quale i salmisti rispondono all’attacco dei malvagi la cui arma 240 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine principale, come si è visto, è anche la bocca? Sulla lingua dei fedeli, la parola di Dio sotto forma di lode e di grido diventerebbe così uno strumento di giudizio (cfr. Eb 4,12), giudizio promulgato fin dall’inizio (Sal 1,5-6), e fin dall’inizio ripreso sotto forma di ammonimento (Sal 2,10-12) perché nessuno ignori che scegliere il male significa concludere un patto con la morte. «Gli empi hanno invocato l’Ade (l’inferno) col gesto e con la voce, facendo amicizia con lui, si sono consumati; poi hanno concluso un patto con lui: tanto meritano di appartenergli [...]. È per l’invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo: la subiscono quelli che si schierano dalla sua parte» (Sap 1,16 e 2,24). La lode finale celebra dunque una vittoria del Signore, con Israele e in suo favore. E se, alla fine del Salterio, tutto converge nella sola lode, è grazie a tale vittoria il cui risultato è di eliminare il male e i suoi sgherri, uno dei due lati del mondo quale i Salmi 1 e 2 l’avevano presentato. Con questo lato del male è scomparsa la supplica, che ha perso la sua ragion d’essere. Più esattamente, essa è stata assunta interamente nella lode, la quale ormai occupa tutto lo spazio. Non siamo lontani dall’Apocalisse dove la lotta contro le forze del male sbocca in una vittoria finale che fiorisce in pura lode nella Gerusalemme celeste (cfr. Ap 19,12a.5b.6b. 11.13.16.20b-21; 20,1-2). 2.3. IL SALMO 150: LA LODE PURA 1 2 3 4 5 6 Lodate Yah! Lodate Dio nel suo santuario/santità lodatelo nel firmamento della sua forza lodatelo nelle sue gesta lodatelo per tanta grandezza lodatelo con squillo di tromba lodatelo con arpa e citara lodatelo con tamburo e danza lodatelo con corde e flauto lodatelo con cembali sonori lodatelo con cembali d’ovazione tutto ciò che respira lodi Yah! Lodate Yah! Questo salmo è costituito soltanto da un invitatorio. A stento si osa intuire un qualche contenuto alla lode nei vv. 1-2. Il santuario e la fortezza del suo firmamento potrebbero infatti costituire un’allusione alla creazione, all’ordine cosmico trascendente. Quanto ai termini gesta e grandezza, potrebbero rinviare all’azione divina nella storia della salvezza. Tuttavia, queste allusioni sono discrete e non intervengono a titolo di contenuto indipendente poiché fanno parte dell’invitatorio dove qualificano Dio (v. 1). Quest’ultimo è dunque esattamente l’unico contenuto di questo inno. La lode qui si fa musica (cfr. già Sal 149,3.6a): strumenti a fiato (vv. 3a.4b), corde (vv. 3b.4b), percussioni (vv. 4a.5), voce umana (v. 5b: grido d’ovazione); il tutto accompagna una danza menzionata al centro (v. 4a: quattro strumenti prima, altri quattro dopo). Ci si trova così nella pienezza del suono, della voce e del movimento. Tutto è pronto per la lode di tutti (v. 5b), del creato (Sal 148) e di Israele (Sal 149), qui riuniti nella lode di un’assemblea unanime. La gradazione è sorprendente. La tromba lancia dapprima la convocazione all’assemblea liturgica (v. 3a). Poi le corde pizzicate iniziano una melodia discreta (v. 3b), cui viene ad aggiungersi il ritmo del tamburo che trascina la danza (v. 4a). In seguito la musica si veste del suono degli strumenti a corda e dei legni (v. 4b), prima che la sonorità dei cembali e le ovazioni umane vengano a concludere la sinfonia dell’alleluia (v. 5). La tradizione ebraica parla, a proposito del Sal 150, di un «decalogo alleluiatico»: vi si trova infatti dieci volte l’ordine di lodare (imperativo plurale del verbo: lodate Dio, poi lodate- Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 241 lo), proprio come si trovano dieci ordini nel racconto della creazione del mondo (Gen 1,1– 2,4a) e dieci altri nel decalogo (Es 20 e Dt 5). Queste dieci nuove parole invitano a una lode che sia nel contempo risposta alla creazione e alla Legge, entrambi doni di YHWH. Alla creazione risponderà il canto dell’universo; alla Legge, quello di Israele. 2.4. RIFLESSIONI CONCLUSIVE L’inizio del Salterio descrive una tensione di cui annuncia già la risoluzione. Vengono sistemati gli attori del dramma: di fronte al Signore (Dio), da una parte l’uomo che mormora la Legge, giusto in divenire o messia, figura di Israele, e dall’altra i malvagi, le nazioni e i loro re. Successivamente la preghiera può iniziare. Così il Sal 3, col suo titolo di Davide, quando fuggiva di fronte al figlio Assalonne (cfr. 2Sam 15–17), dà avvio al corpo del libro. Un uomo, un amico di YHWH che il titolo identifica con Davide, comincia a supplicare Dio che considera come uno scudo (Sal 3,4), un sostegno (Sal 3,5) capace di proteggerlo efficacemente (Sal 3,8) contro i nemici troppo numerosi (Sal 3,2-3.7) che l’assalgono. Poiché presso YHWH è la salvezza (Sal 3,9), conclude opponendosi frontalmente a ciò che dicevano i suoi nemici: Nessuna salvezza per lui presso Dio (Sal 3,3). Il Sal 4 proseguirà con la preghiera dello stesso uomo che Dio ha ascoltato e liberato: salmo di gratitudine e di fiducia al centro del quale risuona un appello agli alleati del male. E così via... Alla fine del libro ritroviamo gli stessi attori, ma questa volta al termine della lotta descritta all’inizio. Ne viene annunciato del resto l’epilogo: la disfatta definitiva delle forze della morte e dei fautori di male, come pure l’esplosione della lode alla quale ciascuno è stato invitato a suo tempo. Da un capo all’altro tuttavia, da un salmo all’altro, un combattimento ha luogo e continua ad avere luogo, una lotta dove si affrontano la vita e la morte e dove l’uomo che mormora la Legge passa dalla supplica alla lode, a seconda che sia schiacciato dal male cui ha scelto di resistere o, al contrario, liberato dalla morsa del male da parte di Dio, nel quale ripone la sua fiducia. Il Sal 22, che adesso affronteremo, consentirà di penetrare precisamente nel cuore di questa lotta30. 30 Per questa interpretazione mi ispiro alle chiavi di lettura date da P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Assisi 22003, 239-280. 242 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 3. DOVE IL GRIDO DIVENTA LODE: IL SALMO 22 1 Al maestro del canto. Su: «La cerva dell’aurora». Salmo. Di Davide. 2 Mio Dio (’el), mio Dio, perché mi hai abbandonato? Lontano dalla mia salvezza le parole del mio ruggito. Mio Dio (’elohîm), chiamo di giorno – e tu non rispondi – e di notte – e nessun silenzio per me. 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 E tu, il Santo che abiti le lodi di Israele, in te si fidarono i nostri padri, si fidarono e tu li liberasti; verso te gridarono e fuggirono, in te si fidarono e non furono confusi. E io, verme e non uomo, vergogna della gente e disprezzato dal popolo, tutti quelli che mi vedono si burlano di me, divaricano le labbra e scuotono la testa. «Si affida a YHWH? Che lo scampi, che lo liberi, poiché in lui si compiace!». Tu infatti mi traesti dal ventre, mia fiducia sui seni di mia madre, su te fui gettato [all’uscir] dalla matrice fin dal ventre di mia madre, il mio Dio sei tu. Non star lontano da me poiché l’angoscia è vicina – e nessun aiuto. Mi circondano tori numerosi, potenti di Bashan mi accerchiano; spalancano contro me la loro bocca, leone che divora e ruggisce. Come l’acqua mi spando e si sconnettono tutte le mie ossa; il mio cuore è come la cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere; secco come un coccio il mio palato, e la mia lingua incollata alle mie mascelle. A polvere di morte mi riduci. Mi circondano infatti dei cani, una banda di malvagi mi circonda come per lacerare le mie mani e i miei piedi; posso contare tutte le mie ossa. Loro guardano: mi vedono, spartiscono i miei vestiti per loro, sul mio abito gettano la sorte. E tu, YHWH, non star lontano, mia forza, in mio aiuto, affrettati! Libera dalla spada il mio soffio (= vita) dalla mano del cane, il mio unico. Salvami dalla bocca del leone e dalle corna dei bufali. – Mi hai risposto! Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, in piena assemblea, ti loderò: «Voi che temete YHWH, lodatelo, tutta la discendenza di Giacobbe, glorificatelo e tremate davanti a lui, discendenza tutta di Israele. Infatti non ha avuto disprezzo né disgusto dell’umiliazione dell’umiliato e non ha nascosto il suo volto da lui, e quando gridava verso di lui, l’ha udito». Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 26 27 28 29 30 31 32 243 Da te la mia lode nell’assemblea numerosa; i miei voti, li adempirò davanti a coloro che lo temono: «Mangino gli umiliati e si sazino, lodino YHWH coloro che lo cercano, viva il vostro cuore per sempre». Si ricorderanno e torneranno verso YHWH, tutti i confini della terra; e si prostreranno davanti a te tutte le famiglie delle nazioni, infatti a YHWH la regalità e il dominio sulle nazioni. Hanno mangiato e si sono prosternati tutti i grassi della terra, davanti a lui s’inginocchiano tutti coloro che scendono in polvere: «Il suo soffio, davvero, l’ha fatto vivere!». Una discendenza lo servirà, si racconterà per YHWH alla generazione che viene, riferiranno la sua giustizia al popolo che nasce, poiché egli ha agito. 3.1. STRUTTURA D’INSIEME Ad una prima lettura, si individuano abbastanza facilmente due parti in questo salmo: una lunga preghiera di supplica (vv. 2-22) e un inno di lode (vv. 23-32). Questa suddivisione è confermata da inclusioni tra i vv. 2-3 e 20-22, da una parte (a), e tra i vv. 23 e 31-32, dall’altra (b): (a) lontano dalla mia salvezza (v. 2) e non essere lontano... salvami (vv. 20.22) tu non rispondi (v. 3) e tu m’hai risposto (v. 22) (b) racconterò il tuo nome ai miei fratelli (v. 23) e si racconterà per YHWH alla generazione che viene (v. 31). Il primo blocco così delimitato può essere diviso in due. Infatti, i vv. 11-12 hanno più di un punto in comune con l’inizio e la fine di questa parte. Il termine mio Dio (una sola parola in ebraico) è comune ai vv. 2 e 11, e troviamo un richiamo del lontano dalla mia salvezza (v. 2) al v. 12 (lontano da me). Quanto ai vv. 12 e 20, li si può raffrontare grazie all’appello ripetuto non star lontano e grazie all’eco tra nessun aiuto (v. 12) e in mio aiuto (v. 20). Detto ciò, si può raffrontare a più di un titolo la prima parte alla terza (vv. 2-11 e 23-32), nonostante le differenze di genere letterario. Da entrambe le parti si menziona la lode (v. 4; vv. 23.24.26.27), mentre le quattro menzioni di questa nei vv. 23-32 trovano il loro corrispondente nelle quattro menzioni della fiducia ai vv. 2-11 (vv. 5[bis].6 e 10). Allo stesso modo, da una parte e dall’altra, si osserva la menzione di diverse relazioni familiari assenti nel centro del poema (padri e madre; fratelli, discendenza, generazione, famiglia). In base a queste osservazioni iniziali, il movimento del salmo potrebbe riassumersi in questi termini: dalla lode dei padri (vv. 211) alla lode rinnovata per i figli (vv. 23-32), attraverso l’assenza di lode (vv. 12-22). 3.2. PRIMA PARTE: LA LODE SOTTO SCACCO (VV. 2-11) La prima parte di questo salmo merita la più grande attenzione. Dopo un primo colpo d’occhio sull’insieme della parte e delle sue sezioni, una lettura serrata farà vedere qual è in profondità la posta in gioco della situazione che questo poema disperato evoca. 3.2.1. Struttura interna La situazione è esaminata partendo dal passato, dal sentimento di abbandono (v. 2) e da un grido che persiste ma resta senza risposta (v. 3). Questo passato ancora presente rompe con il passato del popolo (vv. 4-6: i nostri padri) e con quello stesso di colui che supplica (vv. 1011: mia madre). Separato dal passato del suo popolo e dal proprio, il salmista lo è altresì rispetto al popolo attuale (al centro, ai vv. 7-9: il popolo, quelli che mi vedono). 244 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 3.2.2. Lettura e interpretazione I vv. 2 e 3 fungono da apertura. L’essenziale del dramma vissuto da colui che supplica è immediatamente sottolineato dall’opposizione tra mio Dio (ripetuto) e mi hai abbandonato. Chi dice mio Dio parla indirettamente di un’alleanza che lo unisce a Dio e viceversa. La domanda indica pertanto che, agli occhi di colui che supplica, Dio sembra aver rotto l’alleanza nella quale si era impegnato a restargli vicino, a non abbandonarlo. Si pensa certo all’alleanza che il Sal 1 evoca tra l’uomo che medita la Legge e YHWH e a quella del Sal 2 tra Dio e il re di Sion. È questa che viene chiamata in causa dalla situazione. Questa prima opposizione è sottolineata e rafforzata dal contrasto tra la ripetizione della prima persona del singolare (pronome e possessivo) e i verbi attribuiti a Dio: abbandonare, essere lontano, non rispondere. Alla fede e al grido di colui che supplica risponde l’assenza di Dio, tanto crudele quanto l’appello è intenso e costante. Da qui il perché? che sorge da questa situazione contraddittoria e incomprensibile dove il grido non ottiene risposta, ma anche dove l’assenza di silenzio nell’ora del sonno è intollerabile. Nei vv. 4-6 il supplice evoca la lode passata, quella dei padri, degli antenati. Da dove proveniva questa lode? Sgorgava dalla liberazione concessa dal Santo in risposta al grido pieno di fiducia dei padri, dell’Israele di ieri, conformemente al suo impegno (cfr. Sal 2,7-9). Ora, per il supplice questa lode è attualmente interrotta31. Questa strofa ricorda un passato che fa pensare che Dio può salvare i suoi: di ciò egli si è effettivamente dimostrato capace nel passato. Da qui la fiducia sottesa al grido. Ma anche il rimprovero rivolto a Dio, il quale ha consentito che le sue liberazioni s’interrompessero e, con esse, la lode, poiché le due serie sono attualmente come sospese. Dopo aver così interrogato Dio su questo comportamento incomprensibile, il supplicante descrive poi quel che ne è di lui per via dell’assenza di Dio (vv. 7-9). Per lui è l’isolamento totale. La separazione non è soltanto consumata con Dio (vv. 2-3) e con il passato del popolo salvato (vv. 4-6), ma si evidenzia anche con il popolo attuale: il supplice ne viene espulso come un animale vile, un non-uomo (Tu, il Santo... io, il verme). Da qui la vergogna che nasce dal disprezzo (v. 7). Questa separazione assume soprattutto la forma della denigrazione di cui parla già il Sal 1,1c. Le parole degli schernitori sono derisione della lode, che essi riprendono per burlarsene. Infatti la canzonatura che ci fa sentire il v. 9 capovolge le parole della lode evocate dal v. 5. Così, l’uomo salvato del Sal 18,20 cantava: YHWH mi ha liberato, poiché in me si compiace. Ma nella bocca degli schernitori, questo canto diventa: Si affida a YHWH?... Lo liberi, poiché in lui si compiace! (v. 9b). Nella sua derisione, il popolo nega l’efficacia e dunque l’utilità della fiducia del supplice. Secondo gli avversari, tale fiducia non sfocerà sulla salvezza sperata. In altre parole, i beffeggiatori negano la possibilità della salvezza e dunque anche la possibilità della lode che canta la salvezza. La loro negazione interrompe la lode dei padri, poiché è opera degli stessi che dovrebbero prolungare tale lode fino a che, una volta salvato, il supplice possa riprenderla per conto suo. Invece di questo, la loro derisione ricorda al supplicante la sua separazione da Dio che persiste nel suo silenzio nonostante la fiducia e l’amore che la preghiera esprime. Per quanto li riguarda, i vv. 10 e 11 fanno memoria della lode recente e personale del supplice. Ridotto all’isolamento dalla sua separazione dal popolo di ieri e di oggi, questi si ricorda della propria lode passata: lode per la vita ricevuta, nella misura in cui la nascita è vista come liberazione dal seno materno, e dove Dio è descritto nella posizione di una levatrice (v. 10a). Dopo la nascita, del resto, Dio ha adottato quest’uomo, ciò che probabilmente suggeriscono i vv. 10b-11a che alludono ad una procedura di adozione o di riconoscimento di un 31 Un identico lamento si trova in Sal 44,10-17 e Sal 77,6-11: Ho detto: il mio male viene da lì: la destra dell’Altissimo è cambiata. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 245 neonato. Questo particolare avvicina una volta di più il nostro supplice al re messia, anch’egli adottato da Dio (Sal 2,7). Così, sentendosi vicino alla morte, colui che supplica parla della sua nascita: accosta i due momenti in cui l’esistenza è in gioco. Alla sua nascita, egli ha sperimentato la tenerezza di Dio, una tenerezza che precede sempre e comunque e ispira piena fiducia, come quella di un bambino verso suo padre. È così che riconosce Dio come mio Dio, un termine che ricorda il perché? iniziale: perché tutto questo se tu sei il mio Dio? Colui che è il mio Dio può forse star lontano (cfr. v. 12a)? Così, questa strofa fa vedere come il richiamo del passato individuale fondi la fiducia e dia consistenza al grido, senza velare del tutto il rimprovero implicito per la situazione presente di sventura e di abbandono che il supplice non capisce. 3.2.3. Posta in gioco nella prima parte Questa prima parte mostra in fondo come, attraverso la sorte del supplice, si giochi anche l’avvenire della lode che veicola il racconto degli atti di salvezza di Dio per il suo popolo e per coloro che ne fanno parte. I due motivi di lode – la salvezza di Israele e la sua salvezza individuale – sono separati dal salmista nel tempo (vv. 4-6 e 10-11); e, nel presente, questi è privato di lode dagli altri che volgono la sua fiducia in derisione (vv. 7-9). Così dunque, in questa parte, la lode è presente, ma è lode passata o rifiutata. Più grave ancora, essa diventa oggetto di beffa, il che accentua la sofferenza del supplicante soffocato com’è nella sua solitudine e nell’abbandono che patisce da parte di tutti, anche di Dio nel quale mette però la sua fiducia. Il male – e il disprezzo del bene che esso implica – minaccia dunque di invadere tutto e di far cessare la lode e la vita. La derisione non è dunque soltanto cattiveria nei confronti dell’orante, è vera sfida lanciata a Dio, autore del bene e della vita: è forse in grado di restituire la vita al moribondo e, con ciò, di ri-suscitare la lode vietata? È questa, per il supplice, la posta in gioco di quel che vive. 3.3. SECONDA PARTE: LA PASSIONE DI COLUI CHE SUPPLICA (VV. 12-22) 3.3.1. Struttura interna Al termine della prima parte il supplicante appare come totalmente isolato: Dio (v. 2), la lode che viene dalla salvezza (vv. 2.4-6), gli uomini e anche l’appartenenza alla collettività umana (v. 7), la vita (vv. 10-11), tutto questo è da lui lontano. Solo una cosa gli è vicina: l’angoscia, lo sconforto (vedere la potente opposizione lontano-vicino). Nella seconda parte la situazione del supplice è considerata nel suo presente drammatico. Dapprima qualificata con una parola (angoscia), questo presente costituisce in seguito l’oggetto di una lunga descrizione. Il «tu» di Dio vi è assente, espressione adeguata dell’abbandono che prova colui che supplica. Dio sarà presente soltanto nel grido (vv. 12.20-22) e, stranamente, nella morte (v. 16c). Lo schema di cui sopra mette in evidenza alcune ricorrenze significative e serie di parole che fanno risaltare una struttura eloquente. Inquadrate da due richieste di aiuto (vv. 12 e 2022), due descrizioni dell’attacco dei nemici e delle sue conseguenze per il supplice (vv. 13-16 e 17-19) lasciano isolata al centro l’affermazione che, in ultima istanza, è Dio stesso ad essere il responsabile della morte del supplice (v. 16c). Nel secondo appello (vv. 20-22) vengono ripresi in chiasmo i quattro elementi aggressori (bovidi, leoni, cani, esseri umani) con due verbi di liberazione («libera!» e «salva...!») che corrispondono ai due verbi che parlano di chiusura contenuti nella descrizione («mi circondano» con un sinonimo in parallelo: vv. 13 e 17). 3.3.2. Lettura e interpretazione Se tutti sono distanti dal supplice, per lui, l’angoscia è vicina. Nella descrizione che ne dà il salmista, tale angoscia è provocata da una cerchia di animali che si richiude attorno a lui. La 246 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine costruzione in chiasmo dei termini che designano gli aggressori, in maggioranza bestie, traduce bene questa impressione di accerchiamento, di chiusura. Ciò che allora si apre, sono le bocche pronte a divorare. Bisogna forse accostare questa immagine a quella delle labbra che si divaricano per la beffa e la derisione (v. 8b)? Non è da escludere. Comunque sia, la scena qui raffigurata è quella di una caccia alla rovescia, dove degli animali braccano un essere umano. Per capire di che si tratta, occorre osservare da vicino gli animali che accerchiano la vittima. I tori sono bestie poderose; per di più, sono di Bashan, una regione di grassi pascoli dove gli animali sono ben nutriti e quindi pieni di vigore (v. 13, cfr. Am 4,1). Dettaglio importante: quando queste bestie uccidono, è per pura violenza, poiché non è per mangiare che degli erbivori aggrediscono le loro vittime. Lo stesso vale, al v. 22b, per i bufali, il cui corno simboleggia la potenza aggressiva. Al contrario, il leone è un carnivoro; anch’esso uccide, ma lo fa per nutrirsi. È il tipo dell’animale cacciatore, fiero e combattivo. Lo si incontra altrove nel Salterio come figura dei nemici (Sal 7,3; 10,9; 17,12; 57,5). Questi grossi animali che accerchiano il supplice sono accompagnati da cani (v. 17). Il cane è il tipo dell’animale vile, spesso disprezzato in Oriente per la sua servilità. Per di più qui sembra utilizzato nella caccia all’uomo. Con i cani, il poeta fornisce una chiave di lettura di questo simbolismo. Infatti, il parallelo al v. 17b suggerisce che tali cani sono dei malvagi raggruppati in bande, agenti umani del male, cani le cui mani sono armate di spade secondo il parallelismo del v. 21. L’immagine è particolarmente forte: degli uomini servono da cani a bestie feroci per una caccia all’uomo. A partire da ciò che è stato già detto a proposito del simbolismo del male nel Salterio, è possibile decifrare l’immagine in questo modo: i nemici del supplice sono uomini manipolati da potenze disumane che li spingono a uccidere, a far scomparire. La bocca aperta dei tori e dei leoni pronti a divorare (v. 14) potrebbe del resto suggerire che tali potenze sono l’odio e l’invidia le quali, per l’appunto, spingono a eliminare totalmente l’avversario, come succede quando lo si mangia. Accerchiata, la vittima è colta dal panico, perché vive la propria morte: «La morte è diventata il vissuto della vittima», scrive P. Beauchamp32. La certezza della fine la rende già reale prima ancora che sia consumata. Di fatto, questa è reale nello sguardo astioso del cacciatore. È così che la morte inizia a compiere le sue devastazioni con la paura, e gli effetti fisici descritti dal poeta sono quelli della paura (vv. 15-16). Sono segni di morte: all’interno del corpo, gli organi sembrano liquefarsi, mentre si sconnettono le ossa che normalmente strutturano e danno solidità al tutto. L’organismo è come svuotato dal di dentro del suo vigore. Altro sintomo: normalmente umida, la bocca si secca. In filigrana, si evoca quel che precede la creazione e la vita: il caos primitivo dove tutto è acqua, o il deserto primitivo dove tutto è secco, o entrambe le cose nello stesso tempo. Ma è il secco (polvere) che servirà ad esprimere la morte propriamente detta (v. 16c). Con la morte, Dio riappare. Signore della vita e della morte, la sua assenza corrisponde a un rifiuto di vita da parte sua, e quindi a una volontà di morte. Come dice il salmista: A polvere di morte tu mi riduci. Così, ai suoi occhi, Dio sembra farsi complice dei nemici col suo silenzio: come ha dato la vita (cf. vv. 10-11), dà adesso la morte. Così, in fondo all’abisso, con la morte, si trova Dio (cfr. Gio 2). Il che non impedisce che, ai vv. 12 e 20, il grido proclami ancora la fede del supplice: nel cuore della morte, Dio può dargli vita giacché sta lì con lui. Nei vv. 17-19, il supplicante continua a descrivere la morte che compie in lui, poco a poco, la sua opera. Qui, a quanto pare, egli è immobilizzato dagli attacchi. Nel v. 17c il significato del verbo è incerto: bucare, spezzare, lacerare, legare? Si è costretti a formulare congetture. Comunque, mani e piedi, ossia gli organi dell’azione e del movimento, sono colpiti. Pertanto, il supplice non è più che un corpo immobile di cui si contano le ossa. Così, al centro della se32 BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, 249. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 247 conda descrizione delle parti del corpo (v. 18a), giunge un richiamo della prima serie (al v. 15, ossa viene in prima posizione). Questo perché le ossa sono la sede del vigore che ha cominciato col liquefarsi e che qui fuoriesce... Il supplice è ridotto a un corpo senza vigore che gli altri osservano e trattano già come fosse morto, poiché si spartiscono i suoi vestiti. Così, gli abiti – questo segno eminente della dignità umana – non gli servono più: egli è fin da adesso un morto che beneficia di un rinvio. È allora che, dal fondo della morte che sta vivendo e che descrive (vv. 16.19), il supplice lancia un grido che si caratterizza per l’urgenza. Questo grido si rivolge al solo che sta con lui nella morte (v. 16) e che, per questo motivo, è l’unico in grado di liberarlo, di salvarlo (vv. 2122). Questo grido lacerante, che scaturisce dal punto più vicino alla morte, vede in Dio non più il fautore di morte denunciato nel v. 16c, ma l’unica possibilità di vita, colui che può spezzare la morsa della morte che sembra soffocare inesorabilmente la vittima. È allora che Dio interviene. Ma il suo agire resta velato dalle tenebre della morte. Perciò il salmista passa, senza transizione, dal grido al racconto della risposta, senza descrivere la salvezza in quanto tale: tu m’hai risposto33. Questa risposta, in ogni caso, è il segno che, nella morte, Dio è dalla parte della vita. È lui che libera la vita, il soffio (nèfèsh), il solo che l’uomo possiede e che è unico per lui (v. 21). Liberato, questo soffio attraverserà di nuovo la gola per dar voce alla lode. Ma in che modo Dio è vita nella morte? Di questo, il supplice salvato non dice niente. 3.3.3. Posta in gioco della seconda parte Dopo la prima parte che ha mostrato come la salvezza e la lode siano legate alla sorte del supplice, l’attenzione si concentra su quest’ultimo. Ormai ciò che importa è la sua vita, la sua morte, col male che dispiega la sua armata di cacciatori per espellere la vita dai suoi ultimi trinceramenti e tentare di invadere tutto. Il supplice si presenta così come l’ultimo bastione di fronte al male. Di qui l’importanza del suo grido, nel quale riversa tutta la vita che gli resta, l’unica cosa che abbia ancora (v. 21). Ora, se Dio non è solidale con lui nel luogo dove l’aspetta la morte, significa che egli è con le forze del male, che è il loro complice. In poche parole, se il supplice muore, vorrà dire che Dio fa morire (v. 16c). A meno che egli non sia morto, vittima delle forze del male, come il supplice... Con la sorte del supplicante si gioca dunque l’avvenire di Dio. Di qui l’importanza cruciale della sua risposta. 3.4. TERZA PARTE: LA LODE RICREATA (VV. 23-32) La risposta di Dio (v. 22b) permette di riprendere il filo del racconto della «sua giustizia» e della sua salvezza, ma anche il filo della lode che tale racconto scatena. La lode interrotta (vv. 4-6) sta dunque per echeggiare di nuovo in seguito all’intervento liberatore del Dio della vita. 3.4.1. Struttura interna L’inclusione di questa parte unisce il racconto che il salmista fa ai suoi fratelli (v. 23a: io racconterò...) a quello che continua senza di lui per la generazione che viene (vv. 31-32: si racconterà..., riferiranno...). All’interno di questi limiti esterni, due strofe si sviluppano attorno al richiamo dei voti del supplice (v. 27). La prima è centrata sulla lode (quattro termini della radice halal): è quella dell’assemblea di Israele convocata dal supplice strappato dalla morte, che ha proclamato il racconto della liberazione del povero (al centro dello schema, sottolineato). La seconda strofa è inclusa in una duplice menzione della vita – la vita di Israele al v. 33 Nelle traduzioni correnti, la fine del v. 22 viene talvolta trasformata: troviamo «la mia miserabile vita» (Osty), «la mia povera anima» (Bibbia di Gerusalemme [BJ]), «la mia povera persona» (Dhorme). Questi autori seguono le antiche versioni greca e siriaca, ritenendo, sull’esempio di E. Osty, che l’ebraico sia incomprensibile. In realtà, non è così. Vedere le versioni della Traduction Oecuménique de la Bible (TOB) e di Chouraqui. 248 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 27b e quella che il Signore ha reso al salvato34 al v. 30. Questa vita rinnovata spinge le nazioni a prosternarsi (parimenti due volte) davanti a YHWH la cui qualità regale viene così rivelata (v. 29) e riverita (v. 30). In tal modo, il racconto dell’azione del Signore in favore del povero potrà prolungarsi di generazione in generazione (vv. 31-32: «egli ha agito»). 3.4.2. Lettura e interpretazione Ritroviamo in questa parte le forme precipue della lode biblica: – La lode semplice, nei passi col «tu» che evidenziano maggiormente il carattere personale della salvezza, la prossimità che tale carattere crea con Dio. Questa lode ha anche un aspetto assai accentuato di testimonianza davanti all’assemblea (vv. 23.26.28b). – La lode causativa (vv. 24-25) con un invitatorio a tre stichi e un contenuto narrativo (v. 25; cfr. v. 32b): è il racconto di una buona novella dove il salvato parla di sé alla terza persona, come se si spossessasse della propria salvezza personale raccontandola, per farne un bene comune condiviso con il resto di Israele. – Troviamo ancora un richiamo alla supplica, o piuttosto alla memoria dei voti rivolti a Dio nell’ambito della supplica (vv. 27-28a); anticipata nel più profondo dello sgomento e adesso realizzata, questa lode è riconoscenza per la vita data (al centro dell’intera strofa). Per di più, questa parte innica ci consente di assistere alla modifica radicale delle relazioni tra i personaggi implicati nell’avventura. Mentre la supplica andava di pari passo con il totale isolamento del supplice e con il suo abbandono, la vita e la salvezza cantati dalla lode vanno di pari passo con la comunione ricreata. Così, vediamo il salvato decentrarsi verso gli altri. Costoro, da nemici che erano (cfr. vv. 7-9), diventano per lui dei fratelli in una grande assemblea (vv. 23.26). Colui che era isolato, lontano dai propri padri e da sua madre – e quindi lontano dalla vita data che i genitori rappresentano –, si trova adesso dei fratelli che riunisce e in mezzo ai quali, salvato com’è, loda YHWH, chiamando alla lode anche quelli che temono Dio. E, se si fa affidamento ai parallelismi, queste persone che temono Dio sono tutto Israele, la discendenza di Giacobbe e di Isacco, i discendenti dei nostri padri, la cui lode era stata drammaticamente interrotta. Sono dunque proprio dei fratelli (vv. 23-24). Il salvato non parla direttamente di sé (cfr. v. 25). Parla di YHWH che ha guardato e liberato colui da cui tutti si allontanavano (v. 7), colui che tutti aggredivano (vv. 8-9.13-19). Questi è l’umiliato, il povero, il supplice salvato, e ogni povero con lui. Chiamando alla lode, egli volge gli sguardi non verso di lui, ma verso il Signore che fa vivere i poveri e permette così che la lode si rinnovi. Per di più, per mezzo del pasto – che fa parte dell’ambito cultuale della riconoscenza – l’orante può far vivere, conformemente al suo desiderio (v. 27), coloro che, prima, si tenevano lontani da lui o anche si coalizzavano per farlo morire e che, adesso, hanno fatto voltafaccia per unirsi alla sua lode. Ciò detto, si deve notare come il passaggio attraverso il racconto del v. 25 modifichi il concetto di timoroso di YHWH. Nel v. 24 si trattava chiaramente del popolo di Israele. Dopo il racconto, quelli che lo temono (v. 26) sono gli umiliati, quelli che lo cercano (v. 27), quelli cioè che, come il supplicante, sono passati attraverso il crogiolo dell’umiliazione, quelli che, come lui, cercano Dio e quindi accettano di associarsi alla sua lode. Lì è il popolo di Israele, quello di cui parlerà il Sal 149. E la vita di questo Israele ha delle ripercussioni sulle nazioni (vv. 25-27). Infatti, questa lode si amplia progressivamente in questa parte. Dall’uomo salvato, questa passa ai suoi fratelli in Israele, poi a quelli che temono YHWH, umiliati e cercatori di Dio. Quest’ultima precisazione spalanca le porte a coloro che non fanno parte dell’Israele etnico: 34 La fine del v. 30 non è chiara perché comporta una negazione curiosa. Per la traduzione si è ridotti a fare congetture. Per conto mio, senza cambiare le consonanti dell’ebraico, leggo un’affermazione forte (la’ invece di lo’: «davvero») conservando al verbo la forma causativa che esso ha in ebraico: Davvero ha fatto vivere la sua anima. Si veda qui sotto la nota 37. Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine 249 tutti i confini della terra, tutte le famiglie delle nazioni (v. 28). Come infatti la sorte dell’individuo riguarda l’intero Israele, la sua lode e la sua vita, così la sorte di Israele riguarda il mondo intero e la sua vita (v. 29). Le nazioni sono dunque invitate a venire al Signore e a riconoscerlo come re per ciò che ha fatto: dare vita ad Israele, a quell’Israele formato dagli umiliati salvati dal Signore (v. 27), lui che ha fatto vivere l’umiliato che lo supplicava (v. 30b). L’omaggio delle nazioni si estende forse persino al mondo del male. Se, al v. 30a, si deve intendere i grassi della terra35, il termine potrebbe designare i nemici dalla bocca aperta dei vv. 13-14 e 17, quelle persone la cui invidia è stata soddisfatta e che adesso sono sazie, quei malvagi che, andando verso la morte, scendono nella polvere, come dicono di loro i Salmi 1 e 2. Che anche questi siano indotti a prosternarsi davanti a YHWH e a riconoscere che ha salvato il supplice, ecco un chiaro segno che la lode vuole invadere e tende al massimo ampliamento36. La fine del salmo considera ancora un altro ampliamento: questa volta nel tempo. Per quanto riguarda l’avvenire, il salmista parla di una discendenza che servirà YHWH nella lode, di una generazione futura e di un popolo nascituro che udrà il racconto della salvezza. Così la lode, che viene dai padri ed è stata ricreata per dei fratelli – lode il cui contenuto è ricondotto al suo nucleo essenziale (egli ha agito) –, sta per passare a quelli di domani. In tal modo, lungo la catena con cui la vita si trasmette dai padri ai figli e alle generazioni future, insieme col racconto della salvezza si trasmette anche la lode. Questa può così raggiungere ogni generazione di fratelli che, a loro volta, avranno il compito di diffonderla nello spazio. Quanto all’ampliamento verso il passato, esso avviene tramite il racconto (v. 32b; cfr. v. 25), tramite la memoria che impedisce alla breccia della sventura di richiudersi. Poiché la sventura non deve essere dimenticata. Trasformata dalla salvezza di Dio, essa viene infatti a nutrire e rinnovare la lode secolare, segno dell’incessante presenza di un Dio che si manifesta là dove la vita ha la meglio, per l’esultanza della lode. Questa è la giustizia di Dio, il suo atto di salvezza trasmesso, identico e nuovo, ad ogni generazione (vv. 31-32). 3.4.3. Posta in gioco della terza parte Al v. 23 di questo salmo, un termine che parla di lode appare per la prima volta nel Salterio in un contesto di lode (cfr. v. 4). E già c’è tutto: tutta la lode con la varietà delle sue forme – compresa la riconoscenza nell’ambito liturgico – e con la sua estensione nel tempo e nello spazio. L’escluso diventa un centro che si decentra lui stesso verso i fratelli, verso Dio, verso il passato e il futuro, verso il mondo. L’onda della lode è scattata: essa viene da YHWH (v. 26) e va verso di lui (v. 24). Poiché è la sua salvezza che ha ridato vita alla lode e, contemporaneamente, al supplice. Non c’è alcuna lode, infatti, senza vita che abbia attraversato la morte. 3.5. CONCLUSIONE: DAL DAVIDE SALMISTA A GESÙ Quando si tratta di caratterizzare una supplica e colui che la prega, può essere interessante rilevare le possibili funzioni della supplica alle quali il salmo in questione non ricorre. Così, nel Sal 22, non si trova alcuna maledizione dei nemici: stretto da ogni parte, l’orante si rifiuta di entrare nel cerchio del male e di coinvolgervi Dio. Mancano altresì ogni allusione al peccato, alla confessione del peccato o alla dichiarazione d’innocenza. L’uomo che prega sembra dunque essere innocente; ma non intende far pressione su Dio invocando questo fatto. Egli si basa soltanto sul carattere tragico della propria situazione. Infine, il rimprovero rivolto a Dio è 35 Questa traduzione rende esattamente l’ebraico, ma già alcune versioni antiche modificano in «tutti gli affamati», espressione che potrebbe andare nello stesso senso. I moderni correggono: «quanti dormono» (CEI), «i felici» (TOB), «i potenti» (Osty). 36 Vedere qui sopra, nota 35. Si deve però segnalare che, secondo un’altra possibile traduzione, la prospettiva è negativa. Per certuni, infatti, si deve conservare la negazione e correggere così: «egli non fa vivere la loro anima»; si pensa allora all’eliminazione dei nemici, dei fautori di male (vv. 29-30). 250 Saggi di esegesi - Il Salterio dall’inizio alla fine presente, ma come velato perché confuso con la dichiarazione di fiducia. Una bella figura di supplicante! Ma non si può dire di più di questo salmista? Ai vv. 10-11 quest’uomo, che non menziona suo padre mentre parla dei suoi antenati e di sua madre, si presenta come adottato da Dio alla sua nascita. Ora, come ho detto, nel Salterio, il personaggio che Dio adotta come figlio è il re (Sal 2,7.12a). In questo senso è possibile dare un significato al titolo del v. 1 che attribuisce questo salmo a Davide. Ma in questa preghiera, questo Davide, re e figlio di Dio, appare come un uomo che soffre. Eppure, come si è visto, nella sua sofferenza, nella sua vita e nella sua morte, si gioca la vita di Israele, il popolo della lode. In questo, il salmista è re, un re che conosce la sofferenza degli umiliati, la sofferenza del popolo, di modo che questo popolo può riconoscersi in lui. Si capisce che, in tali condizioni, questo salmo sia stato riletto dai primi cristiani in connessione con la passione e la morte di Gesù. Così, nel Nuovo Testamento, il Sal 22 costituisce l’oggetto di più di venti citazioni o allusioni chiare, essenzialmente nei racconti della passione37. Ma perché questa connessione? I discepoli di Gesù – è certo – hanno dovuto cercare di capire lo scandalo della croce e della morte infamante di colui che proclamavano Messia, Cristo. Per far questo si sono rivolti spontaneamente alle loro Scritture, l’Antico Testamento. Lì, hanno trovato dei testi come il Sal 22 o il poema del Servo sofferente (Is 52,13–53,12), che hanno dato loro autentiche chiavi interpretative. Questo salmo infatti presenta la figura di un amico di Dio, innocente e umiliato, sul quale si accaniscono dei potenti. Nel suo sgomento, egli conserva fede e speranza in Dio persino nel più profondo della morte. E Dio gli risponde restituendolo alla vita. Così, grazie a questo testo, i discepoli hanno potuto spiegarsi come un giusto possa essere dalla parte di Dio anche se è condannato dagli uomini ed è rifiutato dal popolo dell’alleanza. Ma bisogna andare oltre. La struttura stessa del poema trova infatti il suo pendant nel Nuovo Testamento. Quando Dio fa vivere Gesù, il giusto umiliato, e quelli che con lui sono stati umiliati – i discepoli che vivono anch’essi una specie di «risurrezione» –, si scatena come un’onda di lode. Attorno all’umiliato salvato dalla morte, i suoi discepoli radunano in un nuovo popolo coloro che rispondono alla loro chiamata38 a lodare il Dio che ha rialzato Gesù dalla morte. E questo invito è universale, poiché gli Atti degli apostoli mostrano come esso raggiunga poco a poco le estremità della terra (At 1,8). Così, nel cuore della lode che rivolge al Dio che ha destato Gesù dai morti, la Chiesa trasmette il racconto della liberazione dell’umiliato grazie all’azione del Signore (Sal 22,25.32b), e questo, di generazione in generazione (vv. 31-32), onorando Dio come re (v. 29). Infatti, è liberando l’umiliato dalla morte che Dio ha inaugurato il suo regno, un regno che, come dice la prima beatitudine, è a favore dei poveri: Beati i poveri, perché per essi è il regno di Dio (Lc 6,20). 37 Il v. 8 è citato in Mt 27,29-39 // Mc 15,29. Il v. 19 si trova in Mt 27,35 // Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,24. Il v. 2 figura in Mt 27,46 // Mc 15,34 e il v. 9 si trova in Mt 27,43. Per di più, in Mt 27,29-46, il Sal 22 affiora quattro volte nel racconto. 38 Chiamare, in greco kaleô, verbo da cui è derivato il termine ekklèsia, «assemblea convocata, chiesa». UN ESEMPIO DI SALMI APPAIATI: REQUISITORIA E ‘MISERERE’ (SAL 50–51)* 1. STUDIO GLOBALE DEL SALMO Inizieremo con lo spiegare unitariamente questi due salmi, come due atti di una liturgia penitenziale. A tal fine, descriveremo prima il modello giudiziale o giuridico che configura l’atto: in altre parole, la struttura strutturante. In un secondo momento descriveremo lo svolgimento del processo nei suoi atti tipici. Successivamente dimostreremo come i due salmi corrispondano allo schema e al suo svolgimento. Quando parliamo di liturgia penitenziale, intendiamo un’azione di tipo sacramentale, ossia, un’azione che rappresentando realizza ciò che rappresenta. L’azione sacramentale solitamente ha la forma di una pantomima, normalmente accompagnata da una spiegazione verbale: ci ritroviamo a condividere un pasto, immergiamo una persona nell’acqua e la facciamo riemergere, ungiamo con olio aromatico. Nel far questo, significhiamo e realizziamo il nostro essere commensali di Dio, rappresentiamo e realizziamo una nuova nascita, realizziamo una comunicazione di forza e di poteri. Ebbene, il mistero dell’uomo o del popolo che Dio riconcilia con sé si rappresenta e si realizza nella forma di un processo giudiziale o giuridico. Non dimentichiamo neppure un istante che abbiamo a che fare con un mistero, che l’atteggiamento per viverlo e l’organo per coglierlo è la fede, che l’analisi è al servizio della fede nel mistero. 1.1. Il modello giuridico Invece di scrivere «modello giuridico», pensavamo di scrivere «modello giudiziale». Questione di nome, che può favorire o complicare la comprensione. Quando noi sentiamo il termine «giudiziale, forense», pensiamo, immaginiamo un giudice imparziale, al di sopra delle parti, che decide con autorità la lite o la causa. Però fra noi esiste anche il «giudizio contraddittorio», bilaterale. È necessario superare il nostro habitus mentale ed istituzionale per comprendere come erano le istituzioni forensi nella vita di Israele; poiché di esse si avvale l’azione che chiamiamo liturgia penitenziale. P. Bovati1 distingue due tipi: a) La lite giuridica in generale (termine preferito rîb), una specie di querela formalizzata, con testimoni notarili, che si svolge schematicamente in tre atti: – la parte lesa accusa – l’accusato risponde – riconciliazione delle due parti in causa. b) Il giudizio dinanzi al tribunale (termine preferito mišpa\è) che si svolge in varie fasi: – atti previ – dibattito con accusa e difesa – sentenza. Il fine e la finalità di ambedue è «ristabilire la giustizia». Ebbene, a quale dei due corrisponde la liturgia penitenziale? Senza dubbio al primo. Non è facile illustrare il modello con qualche esempio biblico unitario, per due ragioni. Primo, perché il processo era poco formalizzato in Israele (nell’AT i dati che appartengono rigorosamente alla categoria del «diritto processuale» sono davvero esigui). Secondo, perché la maggioranza dei dati si trova dispersa e trasformata nella predicazione profetica. Come dimostrazione vorremmo addurre le due querele di Davide con Saul (1Sam 24 e 26) e l’atto penitenziale guidato da Samuele (1Sam 12). Il giudizio bilaterale o contraddittorio si imbastisce fra due persone fisiche o giuridiche, legate da un rapporto giuridico positivo (un patto, un contratto, un accordo) o naturale (diritti naturali e positivi). La parte che si considera lesa (per inadempienza degli obblighi, per qualsiasi lesione ingiusta) convoca quello che considera offensore, sporge querela contro di lui ac* 1 L. ALONSO SCHÖKEL – C. CARNITI, I salmi, vol. 1 (Commenti biblici), Roma 1992, 801-835. P. BOVATI. Ristabilire la giustizia, Roma 1986. 252 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) cusandolo, allega le prove, lo conduce in un dibattito alla confessione della colpa, dirime con lui la situazione. Il dibattito o querela può celebrarsi sulla pubblica piazza, dinanzi a notai (testimoni) che garantiscono la legittimità e la procedura corretta (però non emettono il verdetto). Se per qualche motivo non riescono a dirimere la loro vertenza, possono presentarsi ad un giudice nel suo tribunale, e così si passa dal primo modello al secondo. 1Sam 24. Davide e Saul sono legati da un vincolo familiare, genero e suocero, e da un vincolo politico, vassallo e sovrano, Saul chiama Davide «figlio», Davide chiama Saul «Maestà» e gli rende omaggio. Davide accusa Saul di comportarsi ingiustamente, per sentito dire e senza riscontro personale dei fatti, allega le prove della sua innocenza, accusa il re di voler uccidere un vassallo leale. Se Saul non lo confesserà, Davide farà appello al giudizio di Dio. Saul confessa: «tu sei innocente e non io (s∫addîq ’atta\h mimmennî)», prima che la vertenza passi alla competenza di Dio. Vanno segnalati alcuni termini: l’offesa, h∫a\èèa\’, l’uso fluido dei verbi dîn, rîb e ša\paè del campo giudiziale, ša\lam e ga\mal di relazione reciproca; è opportuno sottolineare il significato correlativo di s∫addîq e ra\ša\‘ = innocente e colpevole nella lite o vertenza giudiziaria che si dibatte. 1Sam 26 rappresenta una sorta di variante meno precisa di 1Sam 24. 1.2. Accusa e querela Se in precedenza c’è stato un patto o un contratto, la querela solitamente si riferisce alle clausole e agli obblighi. Una parte è stata fedele, l’altra è stata infedele, sleale, non li ha ottemperati. L’offesa o lesione personale accade per la trasgressione reale. Sebbene l’esempio di 1Sam 12 illustri l’intero processo, noi lo presentiamo qui sottolineando la parte dell’accusa. Nel contempo, mostreremo brevemente il ruolo del mediatore o presidente della liturgia. Samuele dirigerà la vertenza o lite del Signore con il suo popolo. 1Sam 12,7: «Mettetevi in piedi, perché sporgerò querela contro di voi in nome del Signore rievocando tutti i benefici che il Signore ha fatto a voi e ai vostri padri». Segue un elenco dei benefici storici che attestano la lealtà del Signore, che è stato fedele ai suoi obblighi come sovrano o re. Al contrario, il popolo è accusato di infedeltà al giuramento di vassallaggio: v. 12: «avete chiesto che vi nominasse un re, quando invece il Signore è vostro re». Tuttavia, il Signore non vuole giustizia all’ultimo sangue, è disposto alla riconciliazione, purché il popolo riconosca il suo peccato e prometta di emendarsi. E il Signore invia un tuono, come testimonianza teofanica che Samuele parla in suo nome. Il popolo intimorito riassume tutto il suo atteggiamento in una confessione e in una petizione: v. 19: «Prega il Signore tuo Dio perché i tuoi servi non muoiano, poiché abbiamo aggiunto a tutti i nostri peccati l’iniquità di aver chiesto per noi un re». Samuele promette che il Signore continuerà ad essere fedele ai suoi impegni «per riguardo al suo nome che è grande», esorta a seguire la retta via, offre la sua «intercessione» e termina ammonendo sulle gravi conseguenze del disobbedire. Samuele è mediatore: in nome di Dio convoca ed accusa, in nome del popolo impetra perdono e confessa, in nome di Dio offre il perdono. Samuele non è giudice su Dio e sul popolo. In una liturgia penitenziale il Signore non è un giudice che condanna, ma parte lesa che perdona. L’esempio di Davide e Saul era un giudizio contraddittorio fra uomini; quello di Samuele è un giudizio contraddittorio o querela fra YHWH e il suo popolo. 1.3. Confessione del peccato È il secondo atto del processo. Negli esempi sopracitati è venuto brevemente alla luce: nella liturgia penitenziale può configurarsi in forme ampie ed elaborate. Come genere letterario specifico si cristallizza dopo l’esilio: Esd 9–10; Ne 9; Dan 3,24-45; 9; Bar 1,15–3,8. I suoi Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 253 elementi sostanziali sono più antichi. Scegliamo esempi o singoli versi per mostrarne il dinamismo e riassumere il vocabolario significativo: Gs 7 – Quando la sorte ha indicato in Acan l’autore dell’infausto sacrilegio, Giosuè lo interpella: v. 19: «Figlio mio, dà gloria al Signore Dio di Israele, facendo la tua confessione. Raccontami ciò che hai fatto, senza nascondermi nulla». Giosuè non gli chiede un inno di lode, ma un’umile confessione: quando Acan si riconoscerà colpevole, si manifesterà l’innocenza o la gloria del Signore, che non è mancato ai suoi impegni, provocando la sconfitta degli israeliti. Acan confessa: «In verità, sono stato io che ho peccato contro il Signore Dio di Israele. Ho fatto questo e quest’altro». Esd 9–10 – Esdra pronuncia una confessione pubblica in nome della comunità, mescolando la prima persona del reo confesso, la seconda persona del Signore, la seconda persona plurale dei colpevoli che interpella. Anche se il tema immediato sono i matrimoni misti la formula di confessione è generica: 9,6 «Sono confuso, ho vergogna non oso levare la faccia verso di Te, perché i nostri delitti... la nostra colpa arriva al cielo. 8 Ora ci hai concesso grazia/perdono. 16 Questo resto che oggi è ancora in vita dimostra che sei innocente». 10,1 Mentre Esdra pregava e faceva questa confessione. Poi rivolgendosi ai colpevoli recrimina e li esorta «Avete peccato... aggravando la colpa d’Israele. 11 Ora confessatelo al Signore». Va notata la stessa formula di Gs 7. In Ne 9 leggiamo una solenne cerimonia di espiazione, in cui il sacerdote Esdra riconosce i benefici del Signore e in contrasto i peccati del popolo. Anche qui leggiamo alcuni versi scelti: 9,2 Posti in piedi, confessarono i loro peccati e le colpe dei loro padri. 3 Rimasero al loro posto un quarto della giornata mentre veniva letto il libro della legge del Signore, ed un altro quarto lo passarono nel fare la confessione ... 9,32 Dio nostro... fedele all’alleanza e leale... 33 tu sei innocente di tutto ciò che ci è accaduto... mentre noi siamo colpevoli. Secondo questo testo, la lettura della legge espleta la funzione di accusare, guidando un esame di coscienza che è interpellazione. Un altro testo simile è Dan 9, di cui scegliamo alcuni versetti, che confermano ed ampliano: 9,4 «Pregai e mi confessai al Signore mio Dio... Osservi l’alleanza e la lealtà. 7 Tu, Signore, sei innocente, quanto a noi la vergogna ci schiaccia. 8 Abbiamo peccato contro di Te (h∫a\èa\’nû lek)... 14 Il Signore è innocente in tutte le sue azioni ... 16 Secondo la tua giustizia/innocenza allontana l’ira e la collera ... 18 Non impetriamo grazia poggiando sulla nostra giustizia/innocenza ma sulla tua compassione». La «vergogna» è il sentimento connesso alla confessione; l’ira è la reazione che induce a castigare il colpevole. Impetrare la grazia allegando la propria innocenza sarebbe richiedere giustizia; se si allega solo l’innocenza dell’altra parte, è chiedere perdono. Il giudice giusto non può assolvere il colpevole, non può farlo (si confronti Dt 25,1 con Pr 17,15); la parte lesa può farlo, in virtù del diritto della propria innocenza e, facendolo, ristabilisce le giuste relazioni, ormai non più perturbate. Fra gli altri, si possono consultare i testi seguenti: Lev 5,5; 16,21; 26,40; Nm 5,7; Sal 32,5. Riassumiamo il vocabolario: per il peccato troviamo questi sinonimi o denominazioni: h∫a\èèa\’, ‘a\wôn, ma‘al, ra\ša\‘, peša‘, mered, sûr, ’a\ša\m; per la confessione, tôda\h, hôde\h, verbi di dire, le equivalenze bošet e kelimma\h, na\tan tôda\h; per la richiesta di perdono hitpallel, il lessema h∫a\nan o ci si appella a ra\h∫am. 1.4. Il perdono Il perdono è la risposta finale di Dio alla richiesta dell’uomo. La riconciliazione può esser realizzata con l’assoluzione totale o con l’imposizione di qualche penitenza. 254 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) I termini più frequenti usati per questo terzo atto sono: na\óâ, sa\la\h e selîh∫a\h, h∫a\nan e teh∫inna\h; in Ger 31,34, troviamo il parallelo lo’ ‘ezkor = non ricorderò, che equivale ad amnistia (sostantivo con alfa privativo che viene dal greco sostk0yq} = ricordare). Ritorna spesso l’espressione šûb ’aph, che significa allontanare l’ira, non pronunciare la sentenza di condanna o cessare di farla eseguire. Dobbiamo aggiungere una serie di immagini attinte dalla prassi cultuale e dal mondo delle relazioni commerciali: lavare, mondare, purificare, cancellare, cassare, coprire, rimuovere, allontanare, ecc. La concessione del perdono da parte di Dio non si è coagulata in un proprio e specifico genere letterario, come è capitato nei due atti precedenti. Non troviamo neppure una formula fissa di assoluzione. I profeti pronunciano diverse formule di perdono in nome di Dio. Si avanza l’ipotesi che nel culto i sacerdoti pronunciassero formule simili. Il perdono non è concesso dal giudice, che non può assolvere il colpevole, bensì dalla parte lesa. 1.5. Schema e varianti Quanto esposto basterebbe a definire il posto e la funzione dei salmi 50 e 51 come i due primi atti della liturgia penitenziale. Per una spiegazione più particolareggiata, vogliamo prima mostrare alcune variazioni o varianti di uno schema generale. Infatti non sempre abbiamo a che fare con una liturgia penitenziale e non tutti i processi si concludono con il perdono. Scegliamo sette casi: Num 12 – È il racconto delle critiche di Maria ed Aronne contro Mosè, che raggiungono nel suo servo Dio stesso: v. 4 La convocazione del reo; apparizione teofanica di Dio. 6-8 Accusa: «Come avete osato parlare contro il mio servo Mosè?». 9-10 Castigo limitato: «L’ira del Signore si accese contro di loro... Maria aveva tutta la pelle sbiancata...». 11-12 Confessione e supplica di intercessione. 13 Intercessione di Mosè: «Per favore, guariscila». 14 Perdono con una penitenza: «Stia isolata per sette giorni... il settimo sarà riammessa». Num 21,4-9 – Episodio dei serpenti velenosi. Il castigo occupa il posto dell’atto formale di accusa, perché apre gli occhi al reo. 5 Peccato della protesta contro Dio. 6 Castigo: i serpenti. 7 Confessione: «Abbiamo peccato perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te». 8 Supplica di intercessione. 9 Intercessione e perdono: «Il Signore gli rispose: “resteranno sani”». Num 22,32-35 – Presenta il confronto di Balaam con l’angelo o inviato del Signore. Il personaggio non è israelita: 32 Accusa: «Perché colpisci...? Segui un cammino sbagliato». 34 Confessione: «Ho peccato perché non sapevo che tu stavi sulla strada». 35 Perdono implicito ed istruzioni. 1Sam 15 – Serve da contrasto. Non c’è perdono; o perché è troppo tardi o perché non c’è una conversione sincera. 14-23 Interrogatorio ed accusa, con proteste di innocenza da parte del reo. 24-25 Confessione: «Ho peccato, ho trasgredito il comando di Dio»; petizione di perdono: «Ma ora perdona il mio peccato». 26 Sentenza di condanna: «Poiché hai rigettato la parola del Signore, il Signore ti rigetta come re d’Israele». 2Sam 12 – È uno dei testi classici. Natan sporge querela contro Davide in nome di Dio per l’adulterio e l’assassinio. Dio si presenta come parte lesa da Davide (non come giudice fra Davide e Uria): 1-12 Accusa con aggravanti e minacce. 13 Confessione: «Ho peccato contro il Signore». 14 Perdono: «Il Signore ha già perdonato il tuo peccato». Castigo parziale: «Il figlio che ti è nato morirà». 1Re 8,46-51 – Nella dedicazione del tempio, Salomone pronuncia una lunga preghiera di intercessione per il futuro. Il tempio è mediatore della presenza del Signore, il re è mediatore del popolo nella supplica: 46 Peccato: «Quando peccheranno contro di te...». Castigo: «...e tu irritato contro di loro li consegnerai ad un nemico». 47 Confessione: «Se rifletteranno e si convertiranno... e ti supplicheranno dicendo: Abbiamo peccato, siamo colpevoli...». 50 Perdono: «Perdona al tuo popolo i peccati commessi contro di Te». 2Sam 24 – Narra il censimento comandato da Davide. La coscienza del re scopre il proprio peccato senza l’intervento dell’accusa profetica. Al reo vengono offerte tre penitenze a scelta: 1-9 Peccato. 10 Rimorso: «Davide provò rimorso nella coscienza e disse al Signore». Confessione: «Ho commesso un grave errore. Ora Signore, perdona la colpa del tuo servo». 11-12 Perdono con penitenza. Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 255 Questi sette esempi ci bastano per un riassunto tipologico. L’accusa formale può essere sostituita da una sofferenza intesa come castigo o da un rimorso a prima vista spontaneo. Invece non manca mai né viene sostituita la confessione. Il perdono è la conclusione normale. A volte si aggiunge una penitenza limitata. In varie occasioni agisce un mediatore, per denunciare il peccato o per impetrare il perdono. Possiamo parlare di una teologia della penitenza elementare, tratta da testi dell’AT. Buona parte della letteratura profetica risponde a questo schema. 1.6. I due salmi come liturgia penitenziale Vi sono forti ragioni per pensare che i salmi 50 e 51 un giorno fossero autonomi. La tradizione ci informa che il primo è di Asaf ed il secondo di Davide, anche se ambedue fanno parte della collezione elohista. Il Sal 50 è un salmo collettivo, si dirige al popolo che è vincolato a Dio dagli obblighi dell’alleanza; il Sal 51 viene pronunciato da un singolo penitente. La nostra opinione è che i due salmi, un tempo autonomi, sono stati uniti per la loro parentela tematica per l’uso combinato nella liturgia. Si possono rintracciare relazioni tematiche fra testi distanti ed eterogenei, senza che formino un’unità di secondo ordine. Nel nostro caso il fatto determinante è la contiguità nel salterio e le numerose relazioni verbali tra i due. È come se uno dei due o ambedue avessero patito una rielaborazione per l’uso combinato. In presenza di questi elementi, per la maggior parte causati dalla affinità del tema, ci sembra legittimo ed opportuno unire i due salmi nella comprensione e nella spiegazione. Dio convoca il popolo reo e gli «sbatte in faccia» ciò che ha fatto; l’uomo «ha sempre dinanzi ciò che ha fatto». Quando Dio accusa, non resta altro che confessare la colpa: «Non ostentare giustizia dinanzi a Dio (o innocenza di fronte a Dio)» (Sir 7,5). Fare appello alla misericordia di Dio è considerarsi reo e riconoscere l’innocenza di Dio. L’uomo non soltanto confessa il proprio peccato, ma si cala nella sua condizione di peccatore. Nella lite bilaterale sono possibili tre risoluzioni o vie d’uscita: il pagamento completo del debito o pena, la compensazione concertata tra le parti, il semplice perdono. Alcuni peccatori giungono a concepire i sacrifici rituali come una compensazione o composizione che regola automaticamente la faccenda. Dio rigetta una simile composizione, perché vuole la confessione sincera e il proposito di correggersi per concedere il suo perdono. «Non dire: Dio guarderà le mie molte offerte» (Sir 7,9). Letti così, i due salmi compongono un’unità liturgica coerente, anche se incompleta. Sentiamo la mancanza del terzo atto del processo. Lo rimandiamo a dopo, una volta terminata l’esegesi. 2. ESEGESI DEL SAL 50 Bibliografia: G. RINALDI, Ps 49 (50), in VD 18 (1938) 43-46.109-114; E. BEAUCAMP, La théophanie du Ps 50, in NRTh 81 (1959) 897-915; A. MAILLOT, Une liturgie de l’Alliance: le Ps 50, in BVC 80 (1968) 14-20; M. DAHOOD, Ps 50,10-11, in Bib 51 (1970) 393-395; E. LÁKATOS, La religión verdadera. Estudio exegético del salmo 50, Madrid 1972; M. MANNATI, Le Ps 50 est-il un rîb?, in Sem 23 (1973) 27-50; B. SCHWARTZ, Ps 50. Its subject, form and place, in Shnaton 3 (1978-1979) 77-106; D. BACH, Rite et parole dans l’AT. Nouveaux élements apportés par l’étude de Tôda\h, in VT 28 (1978) 10-19; T. BOOIJ, Psalm 50,5-6: junction of two traditional motifs, in Bib 68 (1987) 393-396; R. SIMMS, An exegetical and theological study of Psalm 50 [as rîb] (Diss.), Dallas Theological Sem. 1988; J.H. HUNTER, The Literary Composition of Theophany Passages in the Hebrew Psalms, in JNWSL 15 (1989) 97-107. 256 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 50,1 [Salmo. Di Asaf.] Il Dio degli dei, il Signore parla: convoca la terra da oriente a occidente. 2 Da Sion, modello di bellezza, Dio risplende: 3 viene il nostro Dio e non tacerà. Lo precede fuoco vorace, lo circonda tempesta violenta. 4 Dall’alto convoca cielo e terra per la lite con il suo popolo: 5 «Adunatemi i miei vassalli che sancirono il mio patto con un sacrificio». 6 Proclami il cielo la sua innocenza: Dio in persona viene al giudizio. 7 Ascolta, popolo mio, perché parlerò, Israele, testimonio contro te. Io sono Dio, il tuo Dio. 8 Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici, ogni giorno ho presenti i tuoi olocausti. Non mi prenderò un giovenco dalla tua casa, né capri dai tuoi greggi, poiché sono mie tutte le fiere selvagge, bestie a migliaia sui miei monti; conosco tutti gli uccelli del cielo, dispongo dei predatori del campo. Se avessi fame, non te lo direi, perché mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò io carne di tori? Berrò forse sangue di capri? Sacrifica a Dio la tua confessione; poi sciogli i tuoi voti all’Altissimo; invocami nel pericolo, ti libererò e tu mi darai gloria. 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Al peccatore Dio dice: Perché reciti i miei precetti e hai sulla bocca la mia alleanza, tu che disdegni la correzione e ti getti alle spalle i miei comandi? Quando vedi un ladro, corri con lui, fai lega con gli adulteri, sfreni la bocca per il male, la tua lingua ordisce inganni, ti siedi a sparlare di tuo fratello diffami il figlio di tua madre. Questo fai e dovrei tacere? Credi che io sia come te? Ti accuserò, te lo rinfaccerò. Attenti, voi che dimenticate Dio, ch’io non vi sbrani senza scampo. Chi offre come sacrificio la confessione mi glorifica; a chi corregge la sua condotta farò godere la salvezza di Dio. 2.1. RUOLI E PERSONAGGI Dio e il popolo sono le due parti, legate dall’impegno dell’alleanza, le cui clausole sono i comandamenti, specialmente il decalogo. Cielo e terra sono i testimoni notarili del processo. Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 257 Colui che pronuncia il salmo alla presenza dell’assemblea rappresenta Dio e rimane fuori dal testo. 2.2. COMPOSIZIONE Un’introduzione presenta l’arrivo del Signore in tutta la sua maestà. Vengono convocati i testimoni e l’altra parte. Segue l’arringa o requisitoria di Dio, che consta di un esordio, un corpo in due parti, una perorazione. Il salmo abbonda di allusioni all’alleanza del Sinai (Es 19–20 e 24), come possiamo renderci conto dalla seguente lista di corrispondenze: v. 2 v. 3 v. 5 v. 7 v. 12 v. 17 vv. 3.7.21 La montagna di Sion e il Sinai: Lo splendore: La teofania: Convocazione: Alleanza e sacrificio Titolo Dio, il tuo Dio, io sono: Testimoniare: Mio è il mondo: Gettare alle spalle: Parla e non tace Es 19,3.11.20 Es 24,10 Es 19,16-20 fuoco e tempesta Es 19,4 Es 20,23; 24,6; ecc. Es 20,2 Io sono il Signore tuo Dio Es 19,21.23 Es 19,5 perché mia è tutta la terra Es 19,7 porre davanti Es 20.19.22 2.3. ESEGESI vv. 1-6. Formano l’ampia introduzione. La teofania potrebbe essere una rappresentazione liturgica o una attualizzazione mediante il ricordo della teofania fondativa. 1. Nome e titolo. Gli Israeliti della Transgiordania, sospettati di scisma o apostasia, ripetono duplicata la formula in un giuramento solenne: «Il Signore Dio degli dei, il Signore Dio degli dei, lo sa bene, e anche Israele lo sappia» (Gs 22,22). Se «la terra» è qui l’universo, la prima convocazione sarebbe un anticipo del v. 4. L’indicazione spaziale «da oriente a occidente» si riferisce piuttosto agli abitanti, come pubblico universale di una lite particolare. 2. Sion è modello di bellezza per il tempio che la sovrasta (cfr. Sal 48): Lam 2,15: Ez 24,21: 1Mac 2,12: È questa la città più bella, la gioia di tutta la terra? L’incanto dei vostri occhi, il tesoro delle vostre anime. Il nostro santuario, la nostra bellezza, il nostro orgoglio. La bellezza del santuario esalta la teofania, non riveste una funzione accusatoria come in Ez 43,10s. 3. Egli «non tacerà»: sembra alludere alla presenza di Dio sul Sinai, quando il popolo chiedeva a Mosè che Dio non parlasse: «non ci parli Dio, altrimenti moriremo» (Es 20,19). La teofania è ignea come in Gb 38,1; Mic 1,4; Sal 97,3ss; ecc. 4. Convocazione dei testimoni notarili, che di solito sono il cielo e la terra o altri esseri cosmici: Dt 4,26; 32,1; Is 1,2; Ml 6,1; 1Mac 2,37. Il verbo dîn è generico e deve essere determinato in armonia con il contesto, non in contrasto. Sta proprio ad indicare che il Signore prende l’iniziativa rispetto all’altra parte, che è «il suo popolo» per elezione ed alleanza. 5. «Adunate»: il verbo è ’a\saph: 1Sam 12 impiega il sinonimo qa\bas∫. I «fedeli», h∫a¨sîdîm, sono quanti si trovano legati da un dovere di lealtà, in virtù del patto; e il patto è sacro quando è stato sancito da un sacrificio (Es 24,5). Qui h∫a\sîd non indica l’adempimento, ma la situazione, l’impegno formale. Si potrebbe anche tradurre con «vassalli», come in Sal 79,2. 6. Il cielo proclama la sua giustizia: la sua innocenza in anticipo o il suo diritto e la legittimità nel processo che si apre. Poiché ed egli sembrano avere un valore enfatico. s∫edeq, giustizia, e šophe\è, giudice, ricevono il loro senso dall’intero contesto: non l’attività del giudice, né la giustizia di un giudice imparziale, bensì l’innocenza di una parte e l’attività di chi provoca e dirige il processo. Si osservi l’analogia con 1Sam 12, dove Samuele fa constatare in anticipo 258 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) la sua innocenza: la differenza qui è che Dio non usa intermediari espliciti. A questa proclamazione d’innocenza farà seguito quella del salmo seguente (51,16). 7. Esordio. L’impostazione è quella della mutua relazione dell’alleanza con le espressioni correlative popolo mio/io il tuo Dio. «Popolo mio» è globalmente l’altra parte dell’alleanza e della vertenza in atto; non possiamo distinguere tra questo «popolo mio» e il «peccatore colpevole» del v. 16, perché ciò equivarrebbe a non considerare colpevole il popolo. Dio non lo raduna per elogiare le sue virtù, nemmeno quelle cultuali: «testimonia» nel senso specifico di pronunciare la querela, l’accusa, sbattendola in faccia. L’autopresentazione elohista può essere messa a confronto con quella jahvista di Es 20,1. vv. 8-21. Si configurano come il corpo del discorso, suddiviso in due parti: 8-15 e 16-21. È essenziale comprendere la loro reciproca relazione. Sono due parti che si susseguono, senza un particolare rapporto? In altri termini, prima si parla del culto, poi della giustizia, poi si potrebbe parlare di un altro tema. La risposta influenza la comprensione del discorso e del salmo. Cercheremo di rispondere partendo dal culto e commentando un paio di ipotesi insufficienti. Il Signore rigetta un determinato culto: qual è il suo correlativo antitetico? a) Si rigettano alcuni sacrifici, se ne accettano altri, ovvero, si tratta di una revisione della lista: no a ’ola\h, olocausto, e zebah∫, sacrificio, sì a tôda\h, lode, e neder, voto. Questa distinzione contraddice la logica del discorso. b) L’opposizione è sacrifici ritualisti // sacrifici sinceri. Questo senz’altro non viene detto nel salmo, che non mette in antitesi «labbra» a «cuore», né «con la bocca» a «con verità», come ad esempio fa Is 29,13 condannando il formalismo religioso. c) Una variante della precedente è l’opposizione culto sacrificale//culto in spirito, come dirà Gv 4,23; però il discorso non propone neppure questa contrapposizione o distinzione. Ciò che il testo mette veramente in antitesi è un culto senza giustizia ad un culto con giustizia. Il popolo adempie perfettamente tutti i suoi doveri cultuali: in questo campo non merita rimproveri, né deve confessarsi. Allora è innocente? Niente affatto: è peccatore perché si sta comportando ingiustamente verso il prossimo, e questa ingiustizia vizia tutto il culto. Dio non ammette i sacrifici dell’ingiusto: «i sacrifici di possessi, frutti dell’ingiustizia sono impuri» (Sir 34,[21]18). Questa è la vera tensione fra le due parti del discorso. In questo senso il salmo si inscrive in una tradizione profetica precisa, di cui sono testimoni fra altri Is 1,10-20; 58; Ger 7; Am 5,18-26; Mic 6,6-9. Anche la letteratura sapienziale attesta questa convinzione, ad es. Pr 21,3 ed il mirabile testo di Sir 34,18–35,21. Il testo del Siracide esplicita qualcosa cui il nostro salmo accenna; colui che praticando l’ingiustizia e perdurando in essa, offre un sacrificio di espiazione, ricorre ad una compensazione inaccettabile, tenta di corrompere Dio, vuole chiudergli la bocca con regali. A lui Dio nel salmo risponde: «Dovrei tacere? Credi che io sia come te?». Sant’Agostino commenta in proposito: «Poiché non sopporti il Dio vendicatore, vuoi che sia tuo complice, vuoi che divida con te la tua preda, come un giudice corrotto». vv. 8-15. Prima parte. Si caratterizza per la sua argomentazione progressiva e per il tono vibrante, appassionato. A parlare non è un giudice neutrale che invoca norme oggettive: a parlare è una persona indignata che interpella un’altra riguardo alle loro mutue relazioni. L’uomo è solito offrire vittime dai suoi greggi, cioè dai suoi animali domestici. Dio non si appella al diritto sovrano che egli ha persino su questi animali domestici, ma ricorda tutti gli altri, che l’uomo non ha ancora dominato. Questo dice l’antitesi «casa, gregge // campi, monti, aria». Al posto di tutto questo, Dio chiede all’uomo che riconosca, che confessi. 8. Nel linguaggio cultuale ta\mîd significa periodico, regolare, giornaliero: in particolare Es 28–29; Lev 24; Num 28–29. Il verso loda l’osservanza cultuale degli israeliti, con un tocco di ironia. Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 259 9. Il verbo la\qah∫ con Dio come soggetto nel senso di accettare un’offerta è rarissimo (Lev 7,34); forse qui designa un atto previo «prendere, portare con sé». Ciò che Dio «ha preso dai greggi» è stato Davide, secondo Sal 78,70, unico parallelo rigoroso dell’espressione. 10-11. La quaterna rappresenta una totalità: gli animali silvestri o selvatici (di selva), gli animali di bosco, di montagna, delle vette, gli animali agresti, gli uccelli (leggendo con la LXX cielo = aria). Selva, montagna, campagna, cielo. Animali bradi e domestici. 12. «Il mondo e quanto contiene»: Sal 89,12; l’espressione normale sarebbe ha\-’a\res∫ ûmelô’a\h, la terra e la sua pienezza, cfr. Sal 24,1. 13. L’autore delle aggiunte in greco al libro di Daniele si divertirà a spese di queste divinità affamate e voraci che gli uomini devono alimentare: Dan 14,1-22. 14a. Questa è la frase più discussa. La prendiamo come variante significativa del sintagma ten tôda\h, da’ lode, che già conosciamo da Gs 7,19 e Esd 10,11. È opportuno chiarire questo punto: a) L’aspetto linguistico. Per la formazione di sostantivi deverbali di qualsiasi coniugazione l’ebraico può usare le preformanti mami- o ta- ti-. Ad es., tehilla\ rappresenta l’azione del verbo ha\lal, teh∫inna\ di h∫a\nan, tephilla\ di hitpallel (conosciamo solo un caso, tardivo ed anomalo di formazione nominale hith∫abberût, Dan 11,23). La radice ydh/wdh solitamente compare all’hiphil, con il significato ordinario di rendere grazie e all’hitpael con il significato tecnico di confessare i peccati; ambedue le coniugazioni confluiscono nella forma nominale comune tôda\h, che può significare rendimento di grazie o confessione di peccati; a decidere sarà il contesto. b) Il sintagma zebah∫ tôda\h, imperativo + complemento, appare come stato costrutto in Lev 7,11; il che ha indotto molti commentatori a spiegare il salmo alla luce del Levitico. Secondo Delitzsch, la logike\ latreia sfocia in eukharisteia. Crediamo che non sia legittimo. Secondo Lev 7, zebah∫ tôda\h è una specie del genere zebah∫ šelamîm o sacrifici di comunione, che spesso vengono denominati semplicemente zebah∫, specialmente nel merismo con ’ola\h. Con questo merismo il v. 8 li ha rigettati globalmente. Ciò viene ulteriormente confermato dallo sviluppo sul mangiare (vv. 12-13), caratteristico dei sacrifici di comunione. Dio non vuole né l’olocausto, né condividere parte della vittima con l’uomo. Allora, perché il salmo usa za\bah∫ e non na\tan? Per uno squisito e sottile gioco concettuale, come se dicesse: «Tu vuoi offrirmi sacrifici, ti dai da fare nel sacrificare? Allora sacrificami la tua confessione». c) A spiegarlo, in maniera particolareggiata e precisa, sarà il salmo seguente: 51,18. Lo comprende correttamente Dan 3,38-39: «Non abbiamo più ...olocausti né sacrifici... né luogo ove offrirti... Però abbiamo un cuore spezzato... accoglilo come se fosse un’oblazione di olocausti». Probabilmente lo ha compreso così Bar 2,17s, nell’opposizione dei vivi ai morti, con la frase ti rendono gloria e giustizia. Midraš Tehillim 76,2: «Chi offre il sacrificio della confessione, questi mi onora». 14b-15. Come si inserisce allora l’adempimento dei voti in ciò che precede? Il voto talvolta include un sacrificio: Lev 7; 1Sam 1,21; probabilmente Sal 66,13. Come mostrano il verso seguente e Sal 66,14, il voto può essere fatto in un momento di pericolo o di sventura s∫ar/s∫a\ra\h, perché Dio liberi da essa h∫a\las∫. Il voto non è un sacrificio previsto, programmato dai precedenti. Se la sventura è un castigo di Dio per il peccato e l’ingiustizia, l’uomo, il popolo, deve confessare prima il suo peccato e poi potrà adempiere il voto in sospeso e riannodare il ritmo di supplica-liberazione-lode. vv. 16-21. Seconda parte. Il popolo peccatore, oltre ad essere persino scrupoloso nel culto, sa a memoria e recita spesso i comandamenti del decalogo: non per tenerli presenti, ma per prescindere da essi appena può. Es 19,7: «Mosè tornò... e pose loro davanti le parole del Signore»; Dt 6,6-9 inculca la presenza di queste parole, nella memoria e nella bocca, ai polsi e 260 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) sulla fronte, sugli stipiti. Il peccatore fa il contrario: «L’ascolta il dissoluto, si fa beffe e se la getta alle spalle» (Sir 21,15). Sant’Agostino commenta: «dove tu non lo vedi, ma ti pesano». 17. Disdegnare, non ammettere la correzione, verbale o di un castigo, è sprofondare e incallirsi nel peccato, aggravandolo con la contumacia: Pr 15,12; Sir 32(7),1; 32,18(21): L’uomo perverso rigetta la correzione e accomoda la legge a sua convenienza. 18-20. La lista dei peccati è concreta e selettiva. I delitti sono presi direttamente o indirettamente dal decalogo: adulterio, furto, falsa testimonianza. Il salmo ci propone una selezione importante, ma non la totalità dei precetti che riguardano il prossimo. Prende in considerazione la vita familiare, la proprietà di ciascuno, il potere corrosivo e demolitore della lingua negli affari e nella convivenza civile. L’insistenza sui delitti di lingua corrisponde ad una tradizione dell’AT e rivela l’importanza che l’uomo e gli scrittori biblici accordavano al linguaggio, come strumento di comunicazione e di relazioni giuste fra gli uomini. Cfr. Sal 12; 31,12.14; 34,14; 41,6-8; particolarmente sferzante è il commento di Sir 28,17: Un colpo di frusta, lascia lividi, un colpo di lingua rompe le ossa. Molti caddero a fil di spada, ma mai quanto le vittime della lingua. v. 21. Rimpiazza l’adduzione delle prove materiali. Poiché il Signore conosce perfettamente le azioni dell’uomo, basta la sua testimonianza per garantire la verità: una testimonianza probante. «Che ho fatto?», chiedeva Davide a Saul; «Questo hai fatto», rinfaccia Dio al suo popolo. In Es 19,8 e 24,3.7 il popolo promette tre volte «faremo tutto ciò che il Signore ha ordinato»; ora hanno fatto tutto il contrario. «Credi che io sia come te?». L’uomo concepisce Dio a sua immagine; legittimamente, perché è immagine e somiglianza di Dio; necessariamente, perché può rappresentarsi o farsi concezioni in maniera umana; in maniera fuorviante, perché rimpicciolisce, deforma e manipola Dio. Il popolo si fabbrica l’idea di un Dio compiacente, complice. Nel contesto la frase è vigorosa. Però possiede la virtù di staccarsi da questo contesto per risuonare ed ammonire qualunque uomo: «Credi che Dio sia come te?». Vari testi risponderanno: «Non c’è un dio come me», «Non c’è un dio come Te»: Es 9,14; Is 44,7; 46,9; 2Sam 7,22; 1Re 8,23; Ger 10,6; Mic 7,18. vv. 22-23. La perorazione. Nella sua forma offre due vie d’uscita al processo penitenziale. La prima, cercata da Dio, è il pentimento, la conversione e l’emendazione. L’altra è il rifiuto e l’indurimento colpevoli. In Is 1,19s l’alternativa suona così: Se saprete obbedire, mangerete le voluttà della terra: se ricusate e vi ribellate, la spada vi mangerà. Dio offre all’uomo la riconciliazione; se l’uomo la rifiuta, può perdere l’occasione e provocare la catastrofe irrimediabile. Il salmo inizia con la seconda alternativa, secondo noi per concludere in tono positivo. 22. Si rivolge a «coloro che dimenticano Dio». Chi sono costoro? Sono le persone che periodicamente offrono sacrifici, che recitano puntualmente i comandamenti di Dio. Il fatto è che si sono forgiati un’idea di Dio a loro immagine e somiglianza: «credevi forse ch’io sia come te», e con questo dio-caricatura si dimenticano di quello autentico, sentendosi molto devoti con i loro sacrifici. Dio è disposto a liberare (h∫a\las∫, v. 15), ma se Dio chiude in una morsa la preda, chi potrà liberarla? I due verbi èa\raph, dilaniare, e na\s∫al, liberare, si dicono della fiera che adunghia e non molla la preda: Sal 7,3; Os 5,14; Mic 5,7. L’immagine dell’animale da preda profila un contrasto ironico e tragico: il Signore delle fiere (v. 10) non vuole accontentarsi di giovenchi e capretti, poiché la sua preda sarà più ambita e preziosa. È difficile definire fino a che punto sia sottinteso questo contrasto. D’altra parte, Colui che non è come un uomo (v. 21), sarà forse Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 261 come una fiera? Si veda Os 13,7-9, dove Dio rimprovera al popolo la sua «dimenticanza», minaccia di essere per gli Israeliti come un leopardo, o una pantera, un’orsa infuriata, una leonessa o una bestia selvatica; quando li distruggerà, chi potrà salvarli? (v. 9 emendato). 23. La risposta corretta dell’uomo è al singolare, come il ra\ša\‘, malvagio, del v. 16 e il collettivo ‘am, popolo, dei vv. 4.7. Due participi definiscono quest’uomo; «sacrifica una confessione» e «dispone la via» o la condotta ovvero la corregge. Il primo riprende la conclusione della prima parte (v. 14), il secondo completa il pentimento con l’emendazione personale. In cambio di ciò, Dio promette di fargli godere o approfittare della salvezza divina. La salvezza non sta affatto nei sacrifici, anche se sono istituzionali, ma giunge attraverso il processo doloroso di un’accusa e di un rîb penitenziale. Le ultime parole di un salmo aspro e appassionato sono «salvezza di Dio». Ora tocca all’uomo rispondere. 3. ESEGESI DEL SAL 51 Bibliografia: E. ZOLLI, Il salmo 51,6, in Bib 22 (1941) 199-200; A. FEUILLET, Le verset 7 du Miserere et le péché originel, in RSR 32 (1944) 5-26; E. ZOLLI, In margine al Miserere, in Sefarad 9 (1949) 142-151; G. BERNINI, Salmo 51, in Le preghiere penitenziali del Salterio, Roma 1953, 77-99; J. GUILLET, Le psaume Miserere, in Maison Dieu 33 (1953) 56-71; P.E. BONNARD, Le psaume de pénitence d’un disciple de Jérémie. Ps 51, in BVC 17 (1957) 59-67; G. GIAVINI, La preghiera d’un cuore pentito e fiducioso, in PaVi 10 (1965) 178-183; IDEM, Salmo 51 Miserere, in Ambrosius 42 (1966) 280-288; A. CAQUOT, Purification et expiation selon le Ps 51, in RHR 169 (1966) 133-154; J. DANIÉLOU, Le coeur brisé: Ps 51,19, in Études d’exégèse judéo-chrétienne, Paris 1966, 163-169; G. HÉLÉWA, Un cuore mondo creami, o Dio, in RVS 23 (1968) 24-42; E. BEAUCAMP – J.P. DE RELLES, Que daigne le Seigneur purifier son serviteur, in BVC 91 (1970) 60-71; J. COPPENS, Le péché offense de Dieu ou du prochain? Note sur Ps 51,6 et Lc 15,18.21, in EThL 41 (1976) 163-167; J. GOLDINGAY, Songs from a strange land: Ps 42-51, Downers Grove 1978; B. MARIN, Lo Spirito creatore nel Salmo Miserere, in PSV 4 (1981) 6-26; K. REINHARDT, Psalm 51, in TThZ 96 (1987) 207-226; B. RENAUD, Purification et récreation: Le Miserere, in RSR 62 (1988) 201-217; G. RAVASI, «Il nato da donna... essere nauseante e inquinato». La radicalità peccatrice dell’uomo negli scritti sapienziali ebraici, in ScC 6 (1989) 603-620. 51,1 [Al Maestro del coro. Salmo. Di Davide.] 2 [Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.] 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Misericordia, o Dio, per la tua bontà, per la tua immensa compassione cancella la mia colpa, lava completamente il mio delitto, purificami dal mio peccato. Poiché io riconosco la mia colpa e ho sempre presente il mio peccato. Contro te solo ho peccato, ho commesso il male che riprovi. I tuoi argomenti ti rendano giustizia e risulterai innocente nel giudizio. Ecco, colpevole nacqui, peccatore mi concepì mia madre. Ecco, tu vuoi sincerità interiore e nell’intimo mi inculchi saggezza. Purificami con issopo dal peccato, lavami fino a che sia più bianco della neve. Annunziami gioia e letizia, si rallegrino le ossa triturate. Copriti il volto dinanzi al mio peccato e cancella ogni mia colpa. 262 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) Crea in me, Dio, un cuore puro, rinnovami dentro con spirito fermo; non scagliarmi lontano dal tuo volto, non togliermi il tuo santo spirito; ridammi la gioia della salvezza, rafforzami con uno spirito generoso. Insegnerò ai trasgressori le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Dall’omicidio liberami, o Dio, Dio, mio Salvatore e la mia lingua acclamerà la tua giustizia. Signore mio, aprimi le labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode. Un sacrificio non ti soddisfa; se t’offro un olocausto, non lo gradisci. Per Dio sacrificio è uno spirito affranto, un cuore affranto e triturato tu, Dio, non lo disprezzi. Degnati di favorire Sion e ricostruisci le mura di Gerusalemme; allora gradirai sacrifici legittimi, offerte ed olocausti, allora sul tuo altare, si immoleranno giovenchi. 3.1. DELIMITAZIONE Per ragioni formali e di contenuto pensiamo con molti autori che i versi finali 20-21 siano un’aggiunta posteriore. Ciò che essi dicono è in qualche modo contrario all’impostazione dei due salmi, introduce il tema inatteso di Sion e della ricostruzione di Gerusalemme. Da parte sua, il v. 19 ricorre al mezzo stilistico della ricapitolazione, tipico di un finale: su sette parole, cinque sono una ripetizione di parole disperse lungo il carme: vittima (18) Dio (3.12.16) spirito (12-14) umiliare (10) cuore (12) In questo modo dunque, la delimitazione del testo originale va dal v. 3 al v. 19. 3.2. COMPOSIZIONE Il salmo risulta diviso in due parti, con una cesura violenta dopo la metà: vv. 3-11 nel regno del peccato, 12-19 nel regno della grazia. Lo confermano due dettagli formali della prima parte. Sei volte si ripete il lessema h∫a\èèa\’ e sei volte altri sinonimi (la settima ricorrenza è riservata per la seconda parte). Nei vv. 3.4 e 9.11 troviamo una rigorosa inclusione: «cancella, lava, purifica... purifica, lava, cancella». Ci sono due agganci da parte a parte: la prima parte rimanda alla seconda i termini peša‘ e h∫aèèa\’ (v. 15) nel superamento del peccato. La seconda parte rinvia alla prima, per anticipazione, il tema della gioia (v. 10). 3.3. ESEGESI vv. 3-11. Prima parte: nel regno del peccato. Sei volte più sei esprimono una sorta di totalità, una presenza ossessiva, una preoccupazione avvolgente. È un altro modo diffuso di dire «ho sempre presente il mio peccato». Con molta fatica lo si lascia all’inizio del v. 10, ma poi torna al v. 11. Dodici volte in dieci versi costituiscono una presenza dominante, che lascia appena spazio a tre binomi antitetici: ciò che Dio possiede, h∫esed werah∫a¨mîm = bontà e compassione, ciò che desidera nell’uomo, ’emet weh∫okma\h = sincerità e saggezza, ciò che l’uomo chiede a Dio, óa\óôn weóimh∫a\h = gioia e letizia. Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 263 La presenza multipla di atti, peccati, delitti e colpe, rivela all’uomo qualcosa di più grave: la sua condizione peccatrice. Tanti atti perversi spuntano da una radice velenosa; una muraglia così grande che tiene prigionieri ha un fondamento solido e fatale. «Radice e fondamento» sono due metafore spaziali, di qualcosa di profondo che sostiene e genera, con le quali tentiamo di esprimere qualcosa di costitutivo e di fondamentale della nostra esistenza. All’immagine spaziale gli ebrei preferivano quella temporale e, per esprimere la condizione naturale, risalivano all’origine, alla nascita o addirittura al concepimento: Is 48,8 Os 12,4 Sal 58,4 ...dal ventre di tua madre ti chiamano ribelle. Già nel ventre soppiantò suo fratello. I malvagi si traviano sin dal ventre materno. La metafora è usata anche in senso positivo di elezione: Ger 1,5; Sal 22,11; Is 44,2; ecc. Anche in latino natura deriva da natus e anche noi abbiamo espressioni come «cieco dalla nascita» per indicare qualcosa di costituzionale. Partendo dal simbolo biblico, temporale, è possibile una trasposizione ad un simbolo spaziale ed è pure possibile una concettualizzazione o varie. Quella che si è imposta come la più comune, «peccato originale» si appoggia su una metafora temporale, risalendo all’«origine» della persona e all’origine della razza umana. È notevole in questa parte l’accalcarsi di petizioni all’imperativo o alla forma equivalente dello yiqtol. 3. «Cancella»: come si cancella o si abrade qualcosa di scritto, specialmente un debito, un nome; cfr. Is 43,25; 44,22. «Immensa»: «Chi scongiura la grande misericordia, confessa una grande miseria» (Sant’Agostino). 6. «Contro te solo ho peccato»: il senso della frase è stato oggetto di molte discussioni, specialmente in una lettura davidica del salmo, che vi ravvisa il peccato contro Uria. «Perché il precetto viene imposto da Dio» (Alliaco). «Perché solo Dio non ha peccato» (Gregorio Magno). «Perché Dio è il sovrano e il giudice, dinanzi al quale siamo responsabili. Perché è il legislatore di cui violiamo le leggi» (Eutimio). «Perche il re è responsabile solo davanti a Dio, mentre i sudditi lo sono anche davanti al re» (Cassiodoro). Se guardiamo nell’ottica dello schema di base dell’alleanza, la frase ha senso: l’orante ha violato il suo giuramento di fedeltà al sovrano, si presenta dinanzi a lui come colpevole. È in sintonia con la denuncia di Natan a Davide in 2Sam 12,9 «Perché ti sei burlato del Signore facendo ciò che egli biasima?». Nel caso o nel modello di Davide, se Dio fosse giudice, giudicherebbe la causa fra due uomini, Davide ed Uria; nella vertenza bilaterale o giudizio contraddittorio Dio si confronta con il suo vassallo. Possiamo continuare a domandarci: come raggiunge o lede Dio l’offesa che uno fa al suo prossimo? Possiamo rispondere: Dio si presenta come parte lesa quando il Faraone opprime gli Israeliti, ed intavola un rîb o lite giuridica con l’oppressore (cfr. Es 9,27). 6b. Nello schema del giudizio bilaterale il verso è chiaro. Proprio per non riconoscerlo i commentatori devono ricorrere a spiegazioni astruse: Kraus: «L’orante, dichiarando una colpa che raggiunge Dio, si sottomette al giusto giudizio di Dio; da\ba\r è la sentenza giudiziale di Dio (Richtszprsch)». Ebbene, la sentenza giusta per un colpevole è la condanna; se l’orante si appella ad essa, chiede di essere condannato, il che contraddice il testo del salmo. Fare giustizia ad un omicida è giustiziarlo. Ecker: «Mi confesso peccatore perché si manifesti la tua giustizia nel castigo». Agellius ha imboccato la pista giusta (traduciamo un po’ liberamente): «Se noi due entriamo in lite, senza dubbio il tuo discorso sarebbe giustificato, i tuoi argomenti dimostrerebbero che tu hai ragione, la sentenza ti sarebbe favorevole, e tu usciresti vincitore dal processo. Non c’è bisogno di far causa... prima del dibattimento confesso che la tua causa è giustissima e la mia ingiustissima...». 264 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) Parafrasando: con i tuoi argomenti, con il tuo discorso, proverai la tua innocenza, ne uscirai giustificato e nel processo risulterai innocente... Se si trattasse del fatto che Dio debba uscire scagionato e immacolato di fronte ad ogni giudizio umano, la sentenza condannatoria sortirebbe lo stesso effetto. Invece in Dan 9,16 abbiamo visto che, provata e riconosciuta la giustizia/innocenza di Dio, l’orante fa appello alla sua misericordia impetrando perdono. «Tu riconosci e lui perdona» (Sant’Agostino). 8. Dio stesso lavora nell’intimità dell’uomo, perché acquisti saggezza e la converta in un modo di vivere. E parte di questa saggezza è lo scoprire e riconoscere il proprio peccato e la propria condizione di peccatore. 10. Anticipa la seconda parte del salmo. Quando Dio pronuncerà il verdetto di grazia, accordando il perdono, il penitente ascolterà una notizia gioiosa, e gusterà la gioia fin nel profondo delle sue ossa. «Nel vederlo gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca» (Is 66,14). vv. 12-19. Seconda parte: nel regno della grazia. Questa parte inizia con una cesura che non potrebbe essere più radicale. Sul piano formale, proseguono gli imperativi (o forme yiqtol equivalenti). Sul piano del senso, una nuova creazione. Domanda Gb 14,4: «Chi può trarre il puro dall’impuro? Nessuno». Occorre creare qualcosa di nuovo e tocca a Dio creare. vv. 12-14. Il verbo ba\ra\’, creare, risuona in tutta la sua forza all’inizio di tre versi che chiameremo «epiclesi», perché sono una triplice invocazione allo Spirito. Come nella creazione (Gen 1) lo spirito o soffio di Dio si librava sull’oceano per formare il cosmo, così in questa invocazione si chiede un triplice spirito che ricrei il penitente. L’uomo non può con le sue forze innalzarsi dal regno del peccato al regno della grazia; ciò è un’azione e un dono di Dio. Paolo dirà che dove c’è un cristiano c’è una nuova creazione (o una nuova umanità: 2Cor 5,17). Esaminiamo questi tre spiriti, disposti parallelamente all’inizio degli emistichi pari e retti come complementi da tre imperativi nella successione positivo-negativo-positivo. 12. Il primo rûah∫ na\kon = spirito disposto, collocato: l’aggettivo na\kon a prima vista è strano per un vento la cui essenza è il movimento. In termini psicologici parleremmo di un «atteggiamento fermo», di una indole pronta, coraggiosa, svelta. In italiano diremmo un uomo che ha tempra. Mt 26,41 suona secondo la Vulgata: «Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma». L’aggettivo èa\hôr, puro, riecheggia il verbo dei vv. 4.9. 13. Il secondo è rûah∫ qodeška, lo spirito della tua santità, spirito santo: come l’uomo riceve un alito o soffio di Dio (Gen 2,7; 7,22; Num 27,16; ecc.), così il penitente desidera conservare questo respiro o spirito che lo fa vivere nella sfera santa, divina. L’imperativo «non togliermi» cattura la nostra attenzione. Suppone che l’orante lo possiede e lo può perdere, che è un dono di Dio e può essere ritirato; l’aggettivo «santo» indica che non si tratta del puro vivere, esistere, ma di una vita determinata (si confronti con Sal 104,29-30 dove si parla invece della vita soltanto). Coloro che hanno letto il salmo in chiave davidica, interpretano il secondo rûah come spirito di profezia, attribuito a Davide secondo 2Sam 23,2: «Lo Spirito del Signore parla in me, la sua parola sta sulla mia lingua». Secondo Is 63,10-11 anche Mosè possiede questo spirito. Davide, che ha meritato la morte, chiede di conservare la vita e di non perdere il carisma più prezioso. Se applichiamo il salmo alla comunità, rappresentata dal singolo che parla, dobbiamo pensare alla condizione di «popolo santo» promessa e concessa nell’alleanza (Es 19,6). Altri testi: Is 62,12 «Si chiamerà Popolo Santo»; 63,18; Ger 2,3: «Israele era cosa santa per il Signore». «Togliere lo spirito santo» equivarrebbe allora a ritirare l’elezione, rigettare, come mostra il parallelo «non gettarmi lontano dal tuo volto» spiegato da 2Re 13,23 (in corsivo le parole che coincidono): «Ma il Signore si impietosì ed ebbe misericordia di loro; si volse verso di loro a motivo della sua alleanza... e non volle sterminarli né li rigettò dalla sua presenza sino ad ora». Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 265 Il contrario avviene in 2Re 17,20, nel rigetto del regno del Nord: «rigettò tutta la discendenza di Israele». 14. Il terzo è rûah∫ nedîba\h, che denota l’iniziativa spontanea, la generosità nelle difficoltà, la nobiltà interiore. L’orante chiede di ricevere un dinamismo nuovo, che faccia scaturire le sue azioni dal di dentro, senza costrizioni o in virtù di imposizioni esterne. Con generosità, per adempiere non il meno possibile, ma andando oltre il dovuto. Per riassumere questi tre spiriti, l’orante chiede uno spirito che procede da Dio ed ha qualcosa di divino e di santo, che è fermo e disposto, che si converte nel dinamismo e nel vissuto dell’azione umana, che produrrà una nuova creatura. Non sappiamo se in tutto l’AT e NT si trovi una epiclesi altrettanto bella come quella di questi tre versi. 15. Già trasformato, l’orante può impegnarsi come predicatore di conversione: vuole comunicare quella sapienza che gli è stata inculcata interiormente a quanti ne hanno bisogno, a coloro che egli comprende per la propria esperienza. Le vie del Signore sono qui la linea di condotta che egli traccia, la via per la quale possono tornare e poi devono proseguire. Con i lessemi peša‘ e h∫aèèa\’ risuona il tema del peccato e del delitto della prima parte: l’orante non invoca il castigo e la distruzione dei peccatori, ma la loro conversione. 16a. In senso proprio da\m significa omicidio, in senso lato qualsiasi violenza. Nella lettura in chiave davidica è stato riferito all’assassinio di Uria. has∫s∫îl min + delitto/peccato significa liberare da ciò che si è commesso; per liberare dal commettere si usa h∫a\óak. Si confronti: Sal 39,9 Sal 19,14 mikkol peša\‘y has∫s∫île\nî liberami da tutte le mie colpe mizedîm h∫a¨óok ‘a¨bdeka\ dall’orgoglio salva il tuo servo 16b-17. Liberato dalla colpa grave, il salmista potrà intonare le lodi di Dio; cfr. Sal 35,28; 71,24. In senso stretto s∫eda\qa\h potrebbe essere intesa come l’innocenza di Dio riconosciuta, il diritto della parte lesa; per il parallelismo con tehilla\h, forse conviene intenderla in senso più ampio. 18. Se h∫a\pas∫ significa genericamente desiderare, volere, ra\s∫a\h può essere un termine tecnico del culto: indica l’accettazione divina e la conseguente validità del sacrificio. Questo verso con il seguente instaura un’antitesi tra sacrifici rituali zebah∫ e ’ola\h e uno «spezzare e triturare» cuore e spirito. I due versi sono composti in forma di enunciato in crescendo (alcuni la chiamano negazione paradossale): in altre parole non questo, ma altro. Equivale a dire: questo è niente a paragone di quest’altro. Come quando diciamo «ciò che mi interessa di più, quello che veramente io cerco...». Non si possono addurre questi versi come un’abolizione formale del culto sacrificale. L’immagine dello spezzare, triturare, polverizzare, in ebraico ša\bar e da\ka\h, attraverso il greco ed il latino ha generato i termini tecnici penitenziali contrizione e attrizione. Sono termini lessicalizzati che rischiano di perdere la forza e l’immagine dell’etimo. Tradurremo con «affranto» e «triturato». (Affranto, anche se in italiano si è lessicalizzato, deriva dal latino frangere). Commenta l’Imitazione di Cristo: «Sacrificio a te gradito, o Signore – sacrificio che odora, al tuo cospetto, molto più soave del profumo dell’incenso – è l’umile sincero pentimento dei peccatori» (III, 52, IV). vv. 20-21. Verso la fine dell’esilio, o poco dopo il ritorno, qualcuno aggiunse questi due versi, attualizzando il salmo. L’esilio è stato il tempo per triturare il cuore con la penitenza, ora giunge il tempo in cui il Signore perdona e si riconcilia: «È stato pagato il suo crimine, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per i suoi peccati» (Is 40,2). Nelle nuove condizioni i sacrifici ritorneranno ad aver valore. L’esilio è stato un tempo senza sacrifici, senza altare dove immolarli; è stato il tempo per far maturare la sapienza che Dio inculcava attraverso la sofferenza. Maturi nella sapienza, imparata la via del ritorno, gli esiliati potranno tornare a Sion, ricostruire Gerusalemme, riprendere il culto. Come sfondo storico si possono leggere le pagine iniziali del libro di Esdra. 266 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) L’aggiunta non è falsa teologicamente e conferma che il salmo non proclama l’abolizione del culto sacrificale; però stona con il tema del salmo e si smorza con un ricorso formale, quello della ricapitolazione. Ha valore come esempio di attualizzazione storica. 4. TERZO ATTO DELLA LITURGIA PENITENZIALE Nel salterio non troviamo un salmo o una sezione che si inquadri armonicamente per completare la terna con i due salmi commentati. Nella letteratura profetica troviamo un testo che, anche se non ispirato direttamente dal Sal 51, appartiene allo stesso ambiente spirituale. Si tratta di un oracolo o parte di oracolo composto da un profeta che era stato sacerdote, esperto nelle questioni del culto. Ragioni contestuali fanno sì che la sua formula di assoluzione risuoni come promessa di un prossimo futuro: la ragione è che Ezechiele pronuncia, in nome di Dio, il perdono durante l’esilio. Scegliamo le frasi più significative di Ez 36,25-28: 25 26 27 28 Vi aspergerò con acqua pura che vi purificherà, da tutte le vostre immondezze ed idolatrie devo purificarvi. Vi darò un cuore nuovo e vi infonderò uno spirito nuovo; strapperò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Vi infonderò il mio spirito e vi farò camminare secondo i miei precetti e mettere in atto i miei comandamenti... Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio. Il Signore mostrerà così la «santità del suo nome», che è una trasposizione in chiave sacerdotale del riconoscimento della giustizia e dell’innocenza, ed appare come l’espressione preferita da Ezechiele: Ez 20,39; 36,20.23; 39,7; 43,7s. Is 4,4-6 è un testo tardivo che promette la restaurazione dopo una grande purificazione: Quando il Signore laverà le sozzure delle donne di Sion e detergerà il sangue in Gerusalemme con il vento giustiziere, con il vento cocente il Signore creerà nel tempio... L’autore focalizza il suo sguardo sulla città e su Sion, monte santo. 5. TRASPOSIZIONE CRISTIANA Siamo talmente abituati ad una determinata prassi penitenziale, qual è il nostro sacramento della penitenza, che ci costa fatica risalire ad un orizzonte anteriore e più vasto. Senza volerlo, cadiamo nella tentazione di far collimare tutti i dati biblici nel nostro schema prefissato. Però la storia e la geografia ci insegnano che la nostra prassi sacramentale della penitenza e la conseguente riflessione teologica non sono un assoluto immutabile nel tempo e nello spazio. Anche la nostra prassi penitenziale occidentale è più vasta del sacramento della penitenza. Ciò che abbiamo esaminato e capito nei salmi 50 e 51 può proficuamente illuminare aspetti diversi, senza assurgere a modello adeguato. Quando il Concilio di Trento dice che il sacramento della penitenza «esse actum iudicialem» (DS 1709), non pretende di assumere la pratica forense del diritto romano come parte di una definizione conciliare; la dottrina antitetica condannata lo chiarisce sufficientemente. E quando il cap. 5 (DS 1679) dice che il sacerdote è «giudice», non vuole dire che egli sia una autorità superiore per dirimere le cause di Dio con i cristiani. Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) 267 Crediamo che applicare all’atto penitenziale il modello di un giudice fra e sopra due parti, susciti una serie di difficoltà per la cui soluzione è necessario applicare tante eccezioni o riserve, che si finisce per invalidare lo schema. Invece, applicando il modello biblico del rîb (= giudizio bilaterale), risparmiamo difficoltà inutili e i dati si inquadrano tranquillamente. Cominciamo con l’idea di riconciliazione. Il cristiano «conciliato» nell’alleanza con Dio, può infrangere o rompere l’alleanza; mosso da Dio può pentirsi ed essere ri-conciliato da Dio. In termini generali la Chiesa ha il ministero della riconciliazione, che può assumere una forma giudiziale. Ciò che oggi conosciamo come confessione sacramentale è una di queste possibili forme. «Dove c’è un cristiano, c’è una umanità/creazione nuova. Le cose vecchie sono passate; ecco esiste qualcosa di nuovo. E tutto questo è opera di Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Voglio dire che Dio, mediante Cristo, ha riconciliato il mondo con sé, cancellando il debito delle colpe degli uomini e mettendo nelle nostre mani il messaggio della riconciliazione. Quindi noi siamo ambasciatori di Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Ve lo chiedo per Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,17-21). Parlando poi di riconciliazione, possiamo stilare i punti seguenti per una riflessione ulteriore. 1. I ruoli nel processo. Dio non condanna come giudice, ma ritorce l’accusa e sporge querela come parte, per condurre alla confessione ed accordare il perdono. Può avere i suoi testimoni notarili, i membri della Chiesa: persone che esercitano un ruolo simile a quello di Samuele in 1Sam 12. 2. La mutua relazione si fonda sull’alleanza, per la quale siamo vincolati con Dio e con il suo Messia, Gesù Cristo. Il contratto o documento dell’alleanza è il vangelo, che deve essere il quadro di riferimento in ordine alla verifica o all’adempimento dei nostri obblighi. (In teoria può succedere che uno passi scrupolosamente in rassegna tutti e dieci i comandamenti, con le loro specie e varietà, in vista dell’integrità richiesta dall’accusa, ma poi si dimentichi del vangelo). Il Decalogo del Sinai non è la magna charta della nuova Alleanza. 3. Il vangelo conserva una grande forza di interpellare l’uomo che facilmente diventa requisitoria e querela: ci pone davanti agli occhi ciò che dovremmo essere e non siamo e magari, nemmeno ci accorgiamo di non esserlo: «Che farò quando ti accuserò? Che ti farò? Tu ora non ti vedi: farò in modo che tu ti veda... Te lo getterò in faccia. Perché desideri nasconderti a te stesso? Sei alle tue spalle e non ti vedi: farò sì che tu ti veda. Ciò che ti getti alle spalle, te lo getterò in faccia» (Agostino). Il vangelo però, nello stesso tempo in cui accusa, offre anche il perdono e la forza di convertirsi. Per questo gli antichi dicevano: per evangelica dicta deleantur tua delicta. Non è un atto magico, ma un processo penitenziale. 4. Ad un esame oggettivo e neutrale, sulla scia di una griglia dettagliata, si sostituisce o si sovrappone la Parola di Dio, che stabilisce il dialogo personale, dispiega la sua forza di conversione, mette a confronto l’uomo con Dio. L’esame di coscienza viene così profondamente personalizzato. 5. La riconciliazione ha qualcosa di una nuova creazione e si realizza mediante una effusione dello Spirito di Dio, che si instaura come iniziativa e un dinamismo di una vita nuova e dà testimonianza di se stesso nella gioia. Un altro effetto dell’esperienza personale della gioia per il perdono consiste nel desiderio di rendere gli altri partecipi di un dono così grande. 6. Si ripropone ogni volta la relazione fondamentale tra culto e giustizia, ossia tra prassi e prestazioni rituali – che non danno in realtà nulla a Dio – e atteggiamenti e relazioni con il prossimo. È lampante l’assurdità di trasformare una liturgia penitenziale in un atto meramente cultuale. 7. Il concetto di «vergogna» resta definito come l’atto di confessare la propria colpevolezza dinanzi a Dio. 268 Saggi di esegesi - Un esempio di Salmi appaiati: Requisitoria e ‘miserere’ (Sal 50-51) Il riferimento di Benedetto XI nel De confessione iteranda (DS 880) non costituisce un commento biblico autoritativo, benché la sua dottrina prolunghi la prassi dell’AT quanto al ripetere la confessione degli stessi peccati: «Anche se... non è necessario confessare di nuovo gli stessi peccati, tuttavia – poiché riteniamo utile che, a motivo della vergogna, che è una grande parte della penitenza – sia ripetuta la confessione degli stessi peccati». Per la lettura di testi del NT, specialmente di S. Paolo, suggeriamo tre modelli giuridici. Il primo modello può essere rappresentato come una linea orizzontale. Una vertenza tra due parti, di cui una è colpevole, l’altra innocente. La parte innocente sporge querela, ed ottenuta la confessione dell’altra parte, accorda il perdono. Il secondo modello può essere rappresentato da un triangolo. Un giudice con autorità superiore dirime una causa, retribuisce assolvendo e/o condannando. Il terzo modello può rappresentarsi con un cono. Un sovrano, in virtù della sua potestà suprema, concede un indulto o amnistia a quanti sono sottoposti alla sua autorità ed accettano le condizioni proposte. Il primo passo dell’uomo per entrare nella nuova Alleanza si configura nel terzo modello. Il sovrano decide di non fare giustizia, ma di concedere grazia. Non pone come condizione la «buona condotta», perché «tutti hanno peccato», ma solo la fede nel suo Figlio, come Messia e Salvatore. Una volta che l’uomo è entrato nell’alleanza con Dio e il suo Messia, rinascendo come cristiano, se manca ai suoi impegni, c’è la possibilità di realizzare il primo modello: un giudizio contraddittorio con confessione e perdono. Questo si può ripetere. Alla fine di una tappa, di una vita, di tutta la storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti per dare a ciascuno secondo la sua condotta. Non sarà più tempo di riconciliazione. Qui si configura il secondo modello. Nell’uso dei modelli, occorre tenere in conto che gli autori del NT li utilizzano come simboli: talvolta con sufficiente rigore giuridico, altre volte sovrapponendo elementi eterogenei. Commentando l’episodio di Cristo con la donna adultera (Gv 8), Sant’Agostino osserva: «Christus indulget ut rex, Moyses lapidat ut iudex». In una frase ha centrato il secondo ed il terzo modello (la parola indulto deriva da indulgeo). Uno sviluppo più ampio viene proposto dal dottore di Ippona nella introduzione al commento del Sal 100 (101). Possiamo leggerlo prendendo il termine misericordia come rappresentante del giudizio bilaterale e il termine iudicium come rappresentante del giudizio triangolare. Nell’uomo li trova a volte separati, escludendosi; in Dio li vede cooperare oppure agire singolarmente in due tempi: Quando giudicano gli uomini, talvolta, vinti dalla misericordia, operano contro la giustizia... altre volte volendo conservare un giudizio rigoroso smarriscono la misericordia. Ora è il tempo della misericordia, il futuro sarà il tempo del giudizio... Se Dio non perdonasse prima con misericordia, non troverebbe chi coronare nel giudizio. Tempo della misericordia è quello in cui la pazienza di Dio induce i peccatori alla penitenza. IL TRIONFO DEL RE MESSIA (SAL 110)* BIBLIOGRAFIA Il Sal 110 è stato oggetto di grande attenzione da parte degli studiosi; la bibliografia che lo concerne è perciò molto ampia. Qui ci limitiamo solo a segnalare alcuni articoli particolarmente significativi, rimandando per ulteriori indicazioni soprattutto a RAVASI G., Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, III, 258-260, e ALONSO SCHÖKEL L. - CARNITI C., I Salmi, II, 502-504. AUFFRET P., Note sur la structure littéraire du Psaume CX, in Sem. 32 (1982) 83-88; BECKER J., Zur Deutung von Ps 110,7, in Freude an der Weisung des Herrn. Beiträge zur Theologie der Psalmen, Fs. H. Gross, E. Haag F.-L. Hossfeld (ed.), Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1986, 17-31; BOOIJ TH., Psalm CX: «Rule in the midst of your foes!», in VT 41 (1991) 396-407; CAQUOT A., Remarques sur le Psaume CX, in Sem. 6 (1956) 33-52; COPPENS J., Notes philologiques sur le texte hébreu de l’Ancien Testament, in Muséon 44 (1931) 177-198; ID., La portée messianique du Psaume CX, in EThL 32 (1956) 5-23; GERLEMAN G., Psalm CX, in VT 31 (1981) 1-19; GILBERT M. - PISANO S., Psalm 110 (109),5-7, in Bib. 61 (1980) 343-356; GÖSSMANN F., Scabellum pedum tuorum, in Div. 11 (1967) 31-53; JOHNSON E.E., Hermeneutical Principles and the Interpretation of Psalm 110, in BS 149 (1992) 428-437; VAN DER MEER W., Ps 110, a Psalm of Rehabilitation, in The Structural Analysis of Biblical and Canaanite Poetry (JSOT 74), JSOT Press, Sheffield 1988, 207-234; NÁCAR E., Rey y sacerdote. Salmo 110, in EstB 5 (1946) 281-302; PODECHARD E., Psaume 110, in Études de critique et d’histoire religieuses, Fs. L. Vaganay (Bibliothèque de la Faculté Catholique de Théologie de Lyon, 2), Facultés Catholiques, Lyon 1948, 724; DE SAVIGNAC J., Essai d’interprétation du Psaume CX à l’aide de la littérature égyptienne, in OTS 9 (1951) 107-135; SCHEDL C., Aus dem Bache am Wege. Textkritische Bemerkungen zu Ps 110 (109) 7, in ZAW 73 (1961) 290-297; TOURNAY R., Le Psaume CX, in RB 67 (1960) 5-41. Il Sal 110, generalmente considerato un «Salmo regale», si configura come un’opera di grande lirismo ma anche di notevole complessità interpretativa. Il testo, infatti, presenta alcuni elementi di difficile comprensione per i quali non si è ancora giunti a soluzioni univoche. Ma la ricchezza delle immagini mantiene comunque tutta la sua forza allusiva, facendone uno dei salmi più apprezzati ed amati da generazioni di credenti. 1. IL TESTO Di Davide. Salmo. Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io renda1 i tuoi nemici sgabello per i tuoi piedi. 2 Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domina in mezzo ai tuoi nemici. 3 Il tuo popolo è generosità2 nel giorno della tua potenza militare. Tra splendori3 di santità 1 * B. COSTACURTA, Il trionfo del Re Messia (Sal 110), in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 303-314. 1 Il verbo ebraico šjt può avere il significato di «porre» o di «rendere»; ambedue i sensi sono pertinenti nel nostro contesto: i nemici sono «resi sgabello» e perciò «posti come sgabello» sotto i piedi del re. 2 L’espressione ‘ammekā («il tuo popolo») nedāvōt («generosità, impegni, offerte») potrebbe essere rivocalizzata, sulla scia della LXX, ‘immekā («con te») nedīvōt («principato»: plurale majestatis). Ma il Testo Masoretico, benché difficile, può essere conservato. L’idea che vi soggiace è quella di un popolo che si impegna generosamente e volontariamente per il suo re. 3 Il termine ebraico hādār (al plurale nel nostro testo: «splendori») indica la magnificenza, la maestà (divina), ma può designare pure la bellezza dell’abbigliamento regale. In tal senso lo stico potrebbe anche essere tradotto: «in ornamenti sacri». Alcuni autori, sulla base di diversi manoscritti ebraici, Simmaco e Girolamo, preferiscono leggere beharerê qōdeš, «sui monti santi»; cfr. E.J. KISSANE, The Book of Psalms, II, 190.192; G. CASTELLINO, 270 Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) dal seno dell’aurora4 è per te la rugiada della tua gioventù5. 4 Ha giurato il Signore e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek. 5 Il Signore è alla tua destra. Schiaccia i re nel giorno della sua ira, 6 giudica tra le nazioni, ammucchia6 cadaveri7, schiaccia teste8 su vasta terra. 7 Da un torrente beve nel cammino, perciò rialza9 la testa. Come si può vedere, il v. 3 presenta i maggiori problemi testuali, resi ancor più gravi dalla diversa interpretazione che ne danno le antiche versioni, in particolare la LXX, che recita: Con te il principato nel giorno della tua potenza negli splendori dei santi dal seno prima della stella mattutina ti ho generato. La traduzione da noi offerta segue, il più letteralmente possibile, il Testo Masoretico10, nel quale sembrerebbe espressa non l’idea di una filiazione divina del re, ma quella di una fedeltà totale del popolo al suo sovrano: nel giorno della mobilitazione generale per la guerra o per una parata militare dimostrativa di forza, tutto il popolo accorre prontamente, in generosa solidarietà. Il testo rimane comunque difficile e variamente interpretabile. Il tono sembra quasi proverbiale e l’allusione poetica probabilmente ci sfugge in tutta la sua ricchezza. Un altro serio problema interpretativo posto dal nostro salmo riguarda i vv. 5-7, nei quali è difficile identificare con certezza il soggetto dei verbi: Dio è colui che sta alla destra del re (v. 5a), mentre il re è quello che beve al torrente (v. 7a); ma di chi è l’ira, e chi massacra i nemici e ne ammucchia i cadaveri? Noi propendiamo per la soluzione formulata da Gilbert e Pisano11: Dio è soggetto in 5a, poi diventa soggetto il re di cui si parla in 3a persona, con un cambio di persona non infreLibro dei Salmi, 598-599; M. MANNATI, Les Psaumes, IV, 36; A. MAILLOT - A. LELIÈVRE, Les Psaumes, III, 73.75; H.-J. KRAUS, Psalmen, II, 926.927; E. BEAUCAMP, Le Psautier, II, 187; L.C. ALLEN, Psalms 101-150, 79.80. 4 Supponiamo qui il sostantivo hapax miš˙ār, «aurora» (cfr. F. ZORELL, Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, PIB, Roma 1989, 480). Alcuni preferiscono invece ipotizzare una dittografia del mem iniziale (cfr. E. BEAUCAMP, Le Psautier, 187; L.C. ALLEN, Psalms, 80; A. LANCELLOTTI, I Salmi, 759; G. RAVASI, Salmi, 268). La LXX sembra leggere mišša˙ar, dando al min valore temporale: prò heōsfórou, «prima della stella del mattino». 5 LXX e Sir., con diversi manoscritti ebraici, leggono qui un verbo: «io ti ho generato» (jelidtîkā: cfr. Sal 2,7). Così fanno anche J. COPPENS, Notes, 193; J. DE SAVIGNAC, Essai d’interprétation, 113.125; H.-J. KRAUS, Psalmen, II, 926.927. 6 Il verbo mālē’ può avere valore stativo («essere pieno») oppure causativo («riempire, ammucchiare»). Noi preferiamo quest’ultimo senso, con soggetto il re. 7 Aquila, Simmaco e Girolamo sembrano supporre gē’ājôt, «valli». 8 Il sostantivo rō’š può designare la testa, ma anche, in senso traslato, il capo, il principe di un popolo. Ambedue i sensi si accordano con il contesto. L’ebraico ha il sostantivo singolare, che noi traduciamo al plurale interpretandolo come collettivo. Va qui notato il gioco con la frase del versetto seguente, «rialza la testa» (stesso termine rō’š): la testa dei nemici è schiacciata, mentre quella del re è innalzata in un gesto di trionfo. 9 Il verbo rwm è qui usato nella forma causativa hiphil: «sollevare, elevare, esaltare». Il soggetto può essere il re, che solleva la testa, oppure Dio che gliela fa innalzare. 10 Così fanno anche, pur con alcune varianti, diversi autori importanti, come ad es. F. DELITZSCH, Psalms, 183; A. WEISER, I Salmi, II, 761; A. LANCELLOTTI, Salmi, 759; G. RAVASI, Salmi, 255; L. ALONSO SCHÖKEL - C. CARNITI, Salmi, 501. A questi commenti rimandiamo per una più dettagliata documentazione sulle diverse possibilità di lettura del versetto. 11 Cfr. M. GILBERT - S. PISANO, Psalm 110. Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) 271 quente nella poesia ebraica. È dunque il re che sconfigge i nemici, opera il giudizio tra le genti, schiaccia re e teste e infine si disseta al torrente. Poi Dio torna, probabilmente, ad essere il soggetto dell’ultimo stico (v. 7b): è il Signore che fa alzare la testa del suo Unto in un gesto definitivo di trionfo. Il re è dunque vittorioso, ma di una vittoria che viene da Dio e da Dio gli è donata. 2. GENERE LETTERARIO E DATAZIONE Il Sal 110 è annoverabile tra i salmi regali (cfr. ad es. Sal 2; 45; 72; 132), probabilmente anche con un legame particolare con la cerimonia di intronizzazione. Il re è celebrato nella sua privilegiata relazione con il divino, sullo sfondo oracolare di una grande vittoria. Di fatto, il momento della successione al trono poteva presentare elementi di turbolenza politica e militare, sia all’interno del regno che nei rapporti con le popolazioni circonvicine o con i popoli vassalli. Ma la vittoria promessa al nuovo sovrano sembra andare oltre la contingenza di un particolare momento storico per aprirsi a dimensioni più ampie, di forte sapore messianico: «Il “Messia”-consacrato attuale davidico, debole e imperfetto, attraverso l’iperbole laudativa diventa segno del “Messia”-consacrato perfetto»12. Per quel che riguarda la possibile datazione del nostro salmo, le proposte dei vari autori sono molteplici e vanno dall’epoca davidica (X sec. a.C.) fino a quella maccabaica (III-II sec. a.C.). Come molto spesso accade per i salmi, è estremamente difficile situare la loro composizione in un’epoca precisa e ci si deve accontentare di rimanere nell’ipotetico. È pur vero che il nostro testo presenta diversi elementi arcaici (cfr. in particolare la menzione di Melchisedek e i vari contatti con testi ugaritici e cananei), ma la questione della sua datazione e del suo possibile rapporto con determinati eventi storici resta aperta. Va inoltre sottolineata la portata escatologica del salmo che non esclude neppure una sua originaria ed esplicita configurazione messianica. Scrive Alonso Schökel nel suo commento: «...resta come ultimo ricorso considerare il salmo come messianico nella sua origine, con una visione del Messia che ingloba tutti i poteri storici ed istituzionali di Israele. Questo non va confuso con la lettura messianica del salmo in un tempo posteriore alla sua composizione; lettura della quale non possiamo dubitare»13. 3. COMMENTO v. 1 - Il salmo inizia con un oracolo di salvezza che assicura al re protezione e gloria. Il sovrano viene intronizzato alla destra di Dio14 e riceve così un segno di dignità, una posizione di assoluto privilegio e di massimo onore. Quando Betsabea, per assicurare al figlio Salomone la successione al trono di Davide, va dall’anziano sovrano per rammentargli le sue promesse, si inginocchia e si prostra davanti al re in segno di omaggio e sottomissione (cfr. 1Re 1,15ss). Ma quando, divenuta regina madre, si presenta al re Salomone per intercedere per Adonia, è il re che, dopo esserle andato incontro, si prostra davanti a lei e poi la fa sedere alla sua destra (cfr. 1Re 2,19). Il fatto che Betsabea sia assurta a nuova dignità, non essendo più semplicemente una delle mogli del re ma sua madre, viene segnalato dal privilegio di potersi sedere alla destra del sovrano (cfr. anche Sal 45,10). 12 G. RAVASI, Salmi, 261. L. ALONSO SCHÖKEL - C. CARNITI, Salmi, 509. 14 Secondo alcuni autori, questo potrebbe fare riferimento alla cerimonia di incoronazione, con l’intronizzazione del re alla destra dell’arca o nel palazzo reale situato alla destra del tempio (cfr. M. MANNATI, Psaumes, 39; A. MAILLOT - A. LELIÈVRE, Psaumes, 74; ecc.). È però più probabile che il contenuto dell’oracolo abbia significato più ampio e generale di manifestazione di un grandissimo onore. Sulla questione, cfr. H.-J. KRAUS, Psalmen, II, 931-932; G. RAVASI, Salmi, 261-262.279. 13 272 Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) Sedersi alla destra di Dio rappresenta dunque, per il re, un tributo di grandissimo onore e implica la sua partecipazione alla potestà divina. Egli è mediatore presso il popolo di tale potestà, con funzione di rappresentante del Signore sulla terra, nell’esercizio di un potere che egli riceve come dono e che, nell’obbedienza, condivide con Dio. Ad una tale dimensione di autorità e di dominio si accompagna necessariamente la vittoria sui nemici, anch’essa ricevuta in dono. Il re che viene intronizzato può contare sulla potenza divina che sgominerà gli avversari del suo Unto e glieli consegnerà sconfitti, come in un gesto di generoso omaggio, ponendoglieli sotto i piedi come sgabello celebrativo di vittoria. L’immagine evoca una situazione di superiorità, trionfo, dominio, ed è connessa con l’atto della prostrazione degli sconfitti ai piedi del vincitore15. Negli altri testi biblici in cui compare il termine hádōm, «sgabello», questo fa sempre riferimento ai piedi di Dio: è l’arca santa o il tempio (Sal 99,5; 132,7; 1Cr 28,2), oppure Gerusalemme (Lam 2,1), oppure la terra intera (Is 66,1) ad essere sgabello dei piedi del Signore. Secondo l’immagine di Is 66, infatti, Dio siede in cielo e poggia i piedi sulla terra16; oppure, più in particolare, sul luogo santo della sua dimora (cfr. anche Is 60,13; Ez 43,7). Ed ora, nel nostro salmo, è Dio stesso che pone lo sgabello per i piedi del suo Unto, rendendolo così partecipe del suo dominio. Ma non si tratta della terra o del tempio, bensì dei nemici sconfitti che il Signore stesso gli dona: un gesto di onore che rende onore a Dio, un modo per continuare a proclamare che Dio solo vince ed è nei cieli. La vittoria del re in realtà è segno e testimonianza della gloria e della trascendente santità divina. v. 2 - La presentazione della relazione strettissima, quasi inscindibile, tra il re e il Signore si prolunga nel v. 2, dove è Dio a stendere il bastone del comando, che però è quello del re: «lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion»; a questo poi fa seguito l’imperativo: «domina in mezzo ai tuoi nemici»17. L’esercizio del dominio, da parte del re, è un compito che Dio gli affida18 e che il sovrano svolge come mediatore, segno visibile dell’invisibile presenza e signoria divina. In questo contesto, è significativa la menzione di Sion e la posizione centrale che essa occupa all’interno del v. 2, che permette di connetterla tematicamente sia con ciò che Dio fa (stendere lo scettro), sia con ciò che il re deve fare (dominare sui nemici). Infatti, nonostante la puntuazione masoretica ponga una separazione dopo il termine «Sion»19, si potrebbe ugualmente ipotizzare per esso quel particolare fenomeno stilistico tecnicamente denominato «two way middle» o «double duty modifier», secondo il quale un termine o un’espressione 15 Il trono del re aveva solitamente uno sgabello su cui appoggiare i piedi. Il seggio di Salomone, ad es., viene così descritto in 2Cr 9,17-19: «Il re fece un grande trono d’avorio, che rivestì d’oro puro. Il trono aveva sei gradini e uno sgabello d’oro connessi fra loro. Ai due lati del sedile c’erano due bracci, vicino ai quali si ergevano due leoni. Dodici leoni si ergevano, di qua e di là, sui sei gradini...». Lo sgabello del seggio regale poteva anche essere decorato con figure dei nemici del re, che così li calpestava simbolicamente ogni volta che si sedeva sul trono (si pensi, ad es., al trono del faraone Tutankamon, ricordato da molti commentatori, che aveva sullo sgabello la raffigurazione dei nove nemici tradizionali dell’Egitto; sulla questione, si veda in particolare lo studio di F. GÖSSMANN, Scabellum pedum tuorum). Per l’immagine più generica dei nemici sconfitti che vengono calpestati o comunque posti sotto i piedi del vincitore, cfr. invece Gs 10,24; 1Re 5,17; Ml 3,21; Sal 18,39 (// 2Sam 22,39); 47,4. 16 «Così dice il Signore: Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). 17 L’espressione beqerev («in mezzo a») potrebbe anche essere tradotta, modificando la vocalizzazione masoretica, «in battaglia» (biqrav): cfr. M. DAHOOD, Psalms, III, 115-116; L. JACQUET, Les Psaumes et le cœur de l’homme, III, 202.209; L. ALONSO SCHÖKEL - C. CARNITI, Salmi, 501. 18 A questo proposito, può essere utile richiamare il compito di dominio sulla terra e sugli animali esplicitamente affidato da Dio all’uomo nel primo racconto di creazione (cfr. Gen 1,26-28) e anche significato dall’imposizione del nome agli animali narrata nel successivo racconto delle origini (cfr. Gen 2,19-20). L’uomo, re del giardino in cui è posto, domina sul mondo per mandato divino, in un esercizio di potere riconosciuto come dono e a cui può accedere non per propria iniziativa, ma solo in obbedienza. Così è anche per il re d’Israele, realizzazione privilegiata di un’umanità chiamata alla regalità, in una vita totalmente costituita dalla relazione con Dio. 19 Si tratta dell’atna˙, un accento con valore disgiuntivo, che divide in due il versetto. Nella nostra traduzione, noi abbiamo seguito questa indicazione del Testo Masoretico. Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) 273 possono essere simultaneamente collegati sia con ciò che precede sia con ciò che segue, in una specie di sdoppiamento funzionale20. In questo caso, la lettura del nostro versetto potrebbe essere: «Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion / da Sion domina in mezzo ai tuoi nemici». La città santa dove il re risiede e dove Dio ha scelto di abitare è il centro da cui si irradia il potere che ha in Dio la sua origine. Da essa, Dio e re, congiuntamente, dominano sul mondo. v. 3 - Dopo il trionfo anche bellico promesso nei vv. 1-2, si delinea più chiaramente nel v. 3 la prospettiva della guerra, con l’immagine dell’esercito che accorre compatto e solidale intorno al nuovo sovrano. Il popolo generosamente risponde alla chiamata del re per la mobilitazione generale, sia per la grande parata militare in occasione dell’incoronazione, sia in vista della guerra che il novello re dovrà intraprendere. La scena è luminosa, soffusa di «splendori di santità», quello splendore arcano che accompagna il manifestarsi del divino (cfr. Is 2,10.19.21; Sal 90,16; 104,1; 145,5.12) e che ora si mostra nella gloria e nella magnificenza del re (e dei suoi ornamenti) e della sua gente. Tale luminosità è misteriosamente connessa con la luce dell’aurora e il luccichio della rugiada. Il difficile v. 3 si conclude infatti con le enigmatiche parole: «dal seno dell’aurora per te la rugiada della tua gioventù». L’immagine è affascinante e suggestiva, ma è difficile coglierne il senso in tutta la sua pienezza. La simbologia della rugiada certo parla di vita, di luce e di mistero. Essa viene dal cielo (cfr. Gen 27,28-29; Dt 33,13.28; Ag 1,10; Zc 8,12; Prv 3,20) ed è connessa con la pioggia (cfr. Dt 32,2; 2Sam 1,21; 1Re 17,1; Mic 5,6; Gb 38,28-29). È dunque portatrice di fertilità, di abbondanza, di vita. In un poema di Ugarit è definita «pinguedine della terra» (KTU 1.3 II 39), poiché è la rugiada che ogni notte inumidisce il terreno inaridito dal sole e lo apre a nuova fecondità. Una specie di miracolo, dunque, in un paese arido e avaro di precipitazioni. La pioggia era perciò considerata uno dei doni fondamentali di Dio, una sua meraviglia. Ma ancor più meravigliosa doveva sembrare la scoperta al mattino, in uno stupore sempre rinnovato, del terreno imperlato di rugiada, misteriosamente comparsa durante la notte, senza che alcuno avesse potuto vederla cadere da quel cielo da cui si pensava dovesse provenire. La connessione della rugiada con il cielo e con la pioggia è attestata anche ad Ugarit; nel poema sopra citato si descrive così il bagno rituale della dea Anat dopo la battaglia: «Versa la sua acqua e si lava con la rugiada dei cieli, con la pinguedine della terra, con la pioggia del cavalcatore di nuvole, rugiada che i cieli versano per lei, pioggia che versano per lei le stelle» (KTU 1.3 II 38-41). Come la pioggia in questo testo antico, così anche la rugiada viene dal cielo, anch’essa forse proviene dalle stelle, e come minuscoli frammenti di stelle brilla sui campi catturando le prime luci dell’alba. Ecco allora, nel nostro salmo, l’immagine della rugiada nella luce dell’aurora, con tutta la sua carica di mistero e di vita rinnovata, che fa pensare alla divina «rugiada luminosa», di cui si parla nella cosiddetta «Apocalisse di Isaia», che feconda la terra e le permette di generare a nuova vita i suoi morti. Il testo, particolarmente suggestivo, recita: «Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, 20 Sul fenomeno, cfr. M. DAHOOD, A New Metrical Pattern in Biblical Poetry, in CBQ 29 (1967) 574-579. 274 Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) la terra darà alla luce le ombre» (Is 26,19). Tale immagine è applicata alla «gioventù» del re, cioè alla sua giovinezza, che sembra quasi bagnarlo come rugiada e che egli sperimenta in quel rinnovamento di forze e di energie che accompagna la rugiada della benedizione divina. Ma quella «gioventù» del re può anche essere l’insieme dei suoi giovani, i soldati che accorrono, pronti a combattere per lui. In questa linea, l’immagine benefica e vivificante della rugiada assume anche connotazioni più specificamente militari, come nel caso di 2Sam 17,12, in cui Cusai consiglia ad Assalonne di radunare l’esercito e piombare addosso a Davide «come la rugiada cade sul suolo», dunque con la stessa rapidità, con lo stesso silenzio, nello stesso imprevedibile e inarrestabile modo con cui la rugiada, nel suo mistero, ricopre di notte la terra. v. 4 - Con il v. 4 si ripropone un nuovo oracolo, in cui al re viene conferita dignità sacerdotale, con riferimento alla figura di Melchisedek, il re di Salem che aveva offerto pane e vino e benedetto Abramo dopo la campagna per la liberazione di Lot (cfr. Gen 14). Si tratta di un episodio misterioso, in cui l’elemento della benedizione è legato alla vittoria militare. Abramo, che aveva ricevuto la promessa della benedizione divina connessa con l’inverosimile prospettiva di un’impossibile discendenza, ora riceve la benedizione dal re sacerdote Melchisedek, dopo aver combattuto e salvato il nipote Lot, suo discendente da parte del fratello morto Aram. L’enigma di questo episodio si fa di ancor più difficile decifrazione nel suo inserimento all’interno del nostro salmo, dove comunque sembra aprirsi ad una certa visione teocratica in cui potere regale e potere sacerdotale vengono a convergere21. L’elemento della vittoria sembra giocare un ruolo importante, e con esso l’esplicita promessa di eternità, solitamente connessa con la benedizione della discendenza (cfr. 2Sam 7,816; Sal 89,20-39). In tal modo, il re è per sempre costituito sacerdote, mediatore del divino presso quel popolo che Dio stesso gli ha affidato. vv. 5-7 - Nella relazione tra Dio e il re si opera ora un’inversione spaziale: è il Signore adesso ad essere alla destra del suo eletto. Se sedersi alla destra di Dio era per il re segno di prestigio inarrivabile, ora lo stare di Dio alla destra del re è segno di protezione (cfr. Sal 16,8; 109,31; 121,5). In battaglia è con la destra che si combatte, mentre con la sinistra si regge lo scudo per proteggersi. E se si accorre in aiuto di qualcuno in pericolo e si ingaggia battaglia per lui, questi va tenuto alla propria sinistra mentre con la destra si affronta l’avversario. Che il re abbia Dio alla propria destra vuol dunque dire che Dio sta combattendo per lui e che lo difende da ogni pericolo. Il re è perciò sicuro della vittoria, che nel salmo viene proclamata come certa. In un’alternanza di verbi al perfetto e al futuro, si apre la visione del trionfo del re su tutti i nemici che dovrà affrontare22. Nel «giorno dell’ira», che è insieme quella di Dio e quella del suo eletto, il sovrano vittorioso schiaccia ed umilia re e capi, opera il giudizio tra le genti, affastella i cadaveri dei nemici sconfitti. Così, in una scena brutale, che plasticamente dipinge una vittoria totale dalle tinte apocalittiche, si preannuncia l’irrimediabile cadere di ogni avversario che osi contrapporsi al re protetto dal Signore. E in mezzo a tanto sangue, ecco stagliarsi l’immagine del sovrano ora colto in un momento di tregua, forse di solitudine. Dopo la descrizione della terrificante attività regale di morte dei 21 Sulla figura di Melchisedek si veda l’accurata digressione, con ampia bibliografia, di G. RAVASI, Salmi, 285-288. 22 I perfetti utilizzati nel testo ebraico possono essere interpretati come «perfetti profetici», che esprimono una realtà del prossimo futuro con la categoria grammaticale del passato, per significare la certezza dell’evento, talmente sicuro nel suo accadimento da poter essere espresso come se fosse già avvenuto. Nella nostra traduzione, abbiamo cercato di mantenere questa prospettiva utilizzando la sfumatura di indeterminatezza del presente. Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) 275 vv. 5 e 6, il nostro salmo si chiude con l’enigmatica visione del re che beve da un torrente e alza fiero la testa. I due elementi, gesto di vittoria e dissetarsi al torrente, sono esplicitamente messi in relazione dalla congiunzione ebraica ‘al kēn, «perciò, per questo», ma il senso di tale connessione è di difficile decifrazione. In che modo bere dal torrente può essere causa della fierezza vittoriosa del re? Cosa evoca questa immagine, a cosa è collegato il bere da un ruscello, quale può essere l’allusione soggiacente? Tutte domande davanti a cui non si è in grado di dare risposte chiare: ci si deve limitare ad indicare solo alcune possibili linee interpretative. Un primo elemento di cui si può tenere conto è il rapporto che sembra intercorrere, secondo alcuni testi, tra regalità e corsi d’acqua. Così ad esempio, nella storia di Davide, il sovrano spodestato viene accolto dai suoi, dopo la rivolta e la morte di Assalonne, al fiume Giordano e lì riconfermato re su Giuda (cfr. 2Sam 19,16.40-42). E nel libro di Isaia, l’oracolo del profeta al re Acaz è pronunciato presso un canale d’acqua (cfr. Is 7,3ss). Ma ancor più significativo è l’episodio di 1Re 1,32-40, in cui Salomone viene unto re alla fonte di Ghicon23. Pur senza necessariamente riferirsi ad un preciso rituale di incoronazione collegato con tale fonte24, per il quale mancano elementi probanti decisivi, va però segnalata, nel versetto del nostro salmo, questa connessione tra il re e un torrente d’acqua25; connessione che resta enigmatica, ma che apre la strada ad una riflessione più ampia sulla simbologia dell’acqua come probabile sfondo interpretativo per il nostro versetto. Nella cultura semitica l’acqua è fondamentale simbolo di vita, portatrice indispensabile di fertilità. Essa fa vivere uomini e animali, rende fecondi i campi, fa prosperare gli alberi (cfr. Is 44,2-4; Ger 17,5-8; Ez 19,10-11; 31,3-7; Sal 1,3; Gb 14,7-9; ecc.). Dove l’acqua manca, è il deserto e la morte, ma dove scorrono i fiumi e la pioggia porta la sua benedizione, lì c’è sovrabbondanza di vita e la terra si trasforma in giardino (cfr. Gen 2,5ss; Is 30,23ss; 41,17-18; Ez 34,26-27; Os 6,3; Gl 2,21-24; Sal 65,10-14). Pur con qualche ambiguità, perché l’acqua può anche essere distruttiva e devastante quando troppo abbondante o violentemente irruenta26, nell’esperienza d’Israele essa rimane il grande dono di Dio, che ha fatto miracolosamente vivere il popolo nel deserto e lo ricolma di beni nella Terra Promessa. Perciò, nel giardino di Eden, la ricchezza e la sovrabbondanza di vita sono segnalate dai quattro fiumi che da lì prendono origine (Gen 2,10-14), mormoreggianti corsi d’acqua rallegrano Gerusalemme (Sal 46,5), e un fiume d’acqua viva esce dal lato destro del tempio e porta vita, fecondità e salute nella regione desertica dell’Araba (Ez 47,1-12; cfr. anche Gl 4,18; Zc 14,8; Ap 22,1-2). Tanta simbolica forza rigeneratrice sembra tutta racchiusa nella misteriosa frase del nostro salmo in cui il re trionfatore beve alla fonte zampillante della vita. D’altra parte, proprio questa basilare esperienza antropologica dell’acqua come indispensabile all’esistenza ne permette la comprensione nel suo rapporto ad ogni attività umana ed in particolare a quella così impegnativa e faticosa della guerra. Il re che beve al torrente è il re 23 Cfr. anche 1Re 1,9-11 a proposito del fallito tentativo di Adonia di autoproclamarsi re, durante il quale viene fatto un sacrificio presso la fonte Roghel. 24 Secondo alcuni autori, il v. 7 farebbe riferimento a un cerimoniale di incoronazione del re che prevedeva una processione alla fonte a cui il re si abbeverava per trarne simbolicamente forza rigeneratrice e purificatrice. Si veda al proposito, tra gli altri, J. DE SAVIGNAC, Essai d’interprétation, 133-135; A. WEISER, Salmi, 766-767; A. MAILLOT - A. LELIÈVRE, Psaumes, 84. 25 Meno appropriata ci sembra la lettura fatta da alcuni autori che vedono nel torrente un’allusione non all’acqua ma al sangue dei nemici, versato a fiumi dal re vittorioso (cfr. Nm 23,24; Is 49,26; Ez 39,17-19). Si veda in proposito J. BECKER, Zur Deutung von Ps 110,7. 26 Si pensi ad esempio al racconto del diluvio (Gen 6–9), all’esperienza devastante dello straripare dei fiumi e delle inondazioni, che possono diventare anche metafora per l’irrompere e il dilagare di nemici (cfr. Is 8,7-8; 17,12-13; 28,17; 30,28; Ger 46,7-8; 47,2; Sal 32,6; 124,4-5), o ancora al fenomeno dei wadi del deserto, che al tempo delle piogge si trasformano in torrenti impetuosi che tutto travolgono (cfr. Gb 6,15-17; Sal 126,4). 276 Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) che ha duramente combattuto e vinto; e ora, l’offrirsi gratuito dell’acqua di un ruscello gli giunge come dono imprescindibile per trovare ristoro, acquistare nuova energia e sentirsi come rinascere. Questa essenzialità dell’acqua in rapporto al combattimento è spesso sottolineata nei testi biblici. Si pensi, ad esempio, all’episodio dei prodi di Gedeone scelti per il modo in cui bevevano (Gdc 7,4ss), alla sete di Sansone dopo il massacro dei Filistei (Gdc 15,18-19), all’acqua promessa da Eliseo all’esercito nella guerra contro Moab (2Re 3,16-20). Anche alcuni episodi della storia di Davide sono significativi: il fermarsi al torrente dei suoi uomini sfiniti durante la campagna contro gli Amaleciti (1Sam 30,9-10) e l’acqua data all’Egiziano spossato da tre giorni di digiuno (1Sam 30,11-12), il desiderio del re di bere l’acqua di Betlemme durante una guerra coi Filistei (2Sam 23,15-17), e poi ancora la brocca sottratta a Saul insieme alla lancia (1Sam 26,12), i due strumenti indispensabili al guerriero, la brocca dell’acqua per vivere e la lancia per combattere ed uccidere. Nel complesso mosaico di allusioni di questo difficile versetto va infine ricordata, come ultimo tassello, la figura di Elia che all’inizio della sua missione, dopo aver annunciato la siccità che fa morire, vive mangiando il cibo portato dai corvi e bevendo dal torrente (cfr. 1Re 17,16)27. Il profeta, che con la sua parola apre e chiude i cieli, comincia la sua missione nella radicale precarietà di chi, nell’obbedienza, vive del dono di Dio giorno dopo giorno, senza riserve per il domani, in totale abbandono. La sua esistenza dipende da una parola divina a cui i corvi obbediscono come obbedisce il torrente e come poi, nello stesso fiducioso abbandono, obbedirà la vedova che con la sua acqua e la sua farina farà vivere l’uomo di Dio quando il torrente si sarà disseccato (cfr. 1Re 17,7ss). Alla luce di tutto questo, ecco dunque profilarsi la visione regale dell’Unto del Signore che, portatore della missione divina e ad essa obbedendo, beve al torrente dopo la grande battaglia e nell’esaltazione della vittoria alza la testa in un trionfo di nuova forza e di vita rigenerata. 4. IL COMPIMENTO NEOTESTAMENTARIO Il nostro salmo è largamente presente nel Nuovo Testamento che più volte utilizza, citandoli o almeno alludendovi, il versetto 128 e il versetto 429. Nella prospettiva neotestamentaria, il re vincitore celebrato nel suo trionfo e nella visione esaltante della sua intronizzazione, trova il suo compimento ultimo nel Signore Gesù. Egli è il re definitivo, il Messia atteso e finalmente giunto per la salvezza di tutti, glorificato dal Padre ed assunto in cielo alla sua destra (cfr. Mt 22,41-46 e parr.; 26,63-64 e parr.; Mc 16,19). Ed egli è il definitivo ed eterno sacerdote costituito da Dio a somiglianza di Melchisedek, superiore ad ogni altro perché «santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli» (Eb 7,26). Gesù, risorto e innalzato alla destra di Dio, è stato costituito Signore e ha effuso lo Spirito ricevuto dal Padre, lui che era stato disprezzato e crocifisso (cfr. At 2,32-36). Nel suo innalzamento, è stato fatto superiore agli angeli (cfr. Eb 1,3-4.13); risuscitato da Dio e fatto sedere nei cieli, Cristo è stato posto al di sopra di ogni principato e potestà, e tutto è stato sottomesso ai suoi piedi, così che in lui si manifesti la sovrabbondante grandezza della potenza di Dio verso i credenti (cfr. Ef 1,19-23). «Autore e perfezionatore della fede», invece della gioia accoglie la croce e perciò viene esaltato alla destra del trono divino (cfr. Eb 12,2). La sua intercessione libera dalla condanna (cfr. Rm 8,34), ed è intercessione efficace. Cristo infatti è il nuovo sommo sacerdote assiso alla destra di Dio (cfr. Eb 8,1; 10,12-13), il cui 27 La frase riferita ad Elia, «egli beveva al torrente», è sostanzialmente identica a quella usata per il re nel nostro salmo. 28 Cfr. Mt 22,44 (// Mc 12,36; Lc 20,42-43); Mt 26,64 (// Mc 14,62; Lc 22,69); Mc 16,19; At 2,33-35; Rm 8,34; 1Cor 15,25; Ef 1,20-23; Col 3,1; Eb 1,3.13; 8,1; 10,12-13; 12,2; 1Pt 3,22. 29 Cfr. Eb 5,5-6.10; 6,20 e tutto il c. 7. Saggi di esegesi - Il trionfo del Re Messia (Sal 110) 277 sacrificio è perfetto, fatto una volta per tutte (cfr. Eb 7,27; 10,10-14), in un’oblazione totale che apre definitivamente agli uomini la via della salvezza. Egli, «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek» (Eb 5,8-10). Nel Signore Gesù, dunque, l’intronizzazione e la vittoria del re sacerdote cantate nel nostro salmo giungono a compimento. Il male è sconfitto e la vita può trionfare e manifestarsi in tutta la sua pienezza. Così, in Gesù morto e risorto si rivela il senso ultimo della vera regalità che viene da Dio: un potere che si esercita nel servizio e nella mitezza, una potestà illimitata che sceglie però i cammini angusti e difficili dell’obbedienza e della morte. Ed è proprio nella morte che il Messia è definitivamente re, intronizzato sul legno, esaltato alla destra del Padre nella gloria di un’ascensione che già si realizza nell’innalzamento della croce sul Golgota (cfr. Gv 12,31-33). Perciò, per capire la vera vittoria che Dio offre al suo Unto e realizza per mezzo di lui, bisogna guardare al mistero pasquale e saper riconoscere già nelle tenebre del Calvario la luce risorta del «primo giorno dopo il sabato». Poiché il decisivo trionfo operato sui nemici, posti sotto i piedi in un’estrema affermazione di potenza incontrastata, in realtà coincide con l’annientamento della morte. Questa è l’ultimo e definitivo nemico da sconfiggere perché il trionfo del re sia totale. La vittoria dell’Unto del Signore non si consuma uccidendo gli avversari ed ammucchiandone i cadaveri, ma lasciandosi uccidere perché la morte muoia e tutti siano salvi. Allora, per la «grande nemica» sarà davvero la fine e l’eletto di Dio potrà trionfare in tutta la sua forza. E quando poi tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il re, il Figlio, potrà riconsegnare il regno al Padre e a lui sottomettersi. Allora, finalmente, tutto sarà compiuto e Dio sarà per sempre «tutto in tutti» (cfr. 1Cor 15,24-28). IL CREATORE, L’UOMO E L’UNIVERSO (SAL 8)* 1. TESTO 1 Per il maestro del coro. Sulla Ghittea. Salmo. Di Davide. 2 YHWH, Signor nostro, (hfm) stupendo è il tuo nome su tutta la terra! 3 4 Voglio adorare la tua maestà (dOh) oltre i cieli ({iyam$ f ) con bocca di bambini e lattanti. Ti sei costruito una fortezza a causa dei tuoi avversari, per far tacere il nemico e il vendicatore. Se miro i tuoi cieli, opera (he&A(am) delle tue dita, la luna e le stelle che vi hai fissato..., 5 (hfm) cos’è mai l’uomo da ricordartene, l’essere umano da visitarlo? 6 L’hai fatto di poco inferiore a Dio, l’hai coronato di gloria e maestà (rfdfh); l’hai reso signore sull’opera (he&A(am) delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutti i greggi e gli armenti insieme alle bestie selvatiche; gli uccelli del cielo ({iym a $ f ) e i pesci del mare che percorrono le vie dell’acqua. 7 8 9 10 YHWH, Signor nostro, (hfm) stupendo è il tuo nome su tutta la terra! YHWH ↓ l’uomo l’uomo ↓ YHWH 2. DIMENSIONE LETTERARIA 2.1. MATRICE IDEOLOGICA E STRUTTURA LETTERARIA La deliziosa inquadratura notturna del salmo non è da leggere e gustare in chiave romantico-psicologica. Il poeta non è un «uomo della notte» (Duplacy) né il suo è un canto ossianesco sui misteri e il fascino delle tenebre, a cui fanno da contrappunto le stelle. Il Sal 8 è e resta un inno che esalta YHWH, il vero protagonista a cui si indirizzano gli insistenti aggettivi possessivi di seconda persona («tuo», «tuoi») e il soggetto «tu» dei verbi («hai gettato», «hai fissato», «te ne ricordi», «ti curi», «hai fatto», «hai coronato», «hai dato», «hai posto»). L’impostazione è, però, triangolare e, pur avendo come protagonista Dio, ha come metro di verifica l’uomo, che è posto in connessione, oltre che con Dio, anche col cosmo. In presenza della creazione nasce l’eterno interrogativo: che cos’è l’uomo nell’infinito? La prima risposta spontanea parla di nullità, di sproporzione, ma non solo rispetto all’immensità spaziale dei cieli e delle costellazioni, quanto piuttosto rispetto alla maestà del Creatore. Il cielo, infatti, è «tuo», «opera delle tue dita», luna e stelle sono state «da te fissate» (v. 4). La finezza dell’espressione «opera delle tue dita» (non si usa l’espressione tradizionale «opera delle tue mani» come nel v. 7) accentua il contrasto con le gigantesche dimensioni della volta stellare, sulla quale passano i «luminari» del giorno e della notte (Gen 1,6-7). Quest’opera colossale Dio l’ha plasmata con la leggerezza di un ricamo o di un cesello, con la raffinatezza dell’artista che fa scorrere le sue dita sulle corde d’un’arpa. Eppure, in questo cielo, gli astri sono «fissati», hanno una stabilità inattaccabile, una rigida struttura di leggi che ne regolano le circonvoluzioni. Il pensiero, perciò, più che alla perfezione, alla magnificenza e al ritmo * G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, I, Bologna 1981, 177-203. Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 279 dell’universo, corre alla fedeltà, alla potenza e allo splendore del Signore, intuiti nella sua opera e con la sua opera. La prima reazione del confronto triangolare è perciò di sgomento, anche perché il termine di confronto non è solo una creatura, sia pur titanica, ma il Creatore stesso. L’uomo si scopre nella sua essenzialità fatta di limite, senza le sovrastrutture che il suo orgoglio ad essa impone. Egli è «mortale», come si vedrà nell’analisi del v. 5, è «figlio dell’uomo», è figlio della polvere da cui è stato tratto e a cui è destinato (Gen 3,19). Ma lo stupore raggiunge il suo vertice quando ci si accorge del vero prodigio: quel Dio sconfinatamente superiore e diverso «si ricorda» e «si cura» dell’uomo (v. 5), realtà debole e microscopica. La grandezza dell’uomo è scoperta dal salmista proprio attraverso la tenerezza e la fedeltà che Dio adotta nei suoi confronti: quella nullità, quell’esile realtà che è l’uomo, si trasforma in una creatura grandiosa e insuperabile. La dignità dell’uomo viene, così, raffrontata con quella divina in un’arditissima contrapposizione (vv. 6ss). L’uomo, «immagine di Dio» (Gen 1,26-27), è re dell’universo, «coronato di gloria», cioè dello stesso splendore della maestà divina che Salomone non oserà neppure domandare (1Re 3,13). Egli porta anche il diadema dell’«onore» costituito da tutto il fascino, la magnificenza e la forza che si possano sognare. Il suo dominio sul creato non conosce confini come suggerisce il riecheggiare dell’aggettivo «tutto» che raccoglie sotto il potere umano la totalità del cosmo (vv. 7-8). A questo punto è possibile intravedere nella stessa matrice ideologica del carme la struttura della composizione. L’invitatorio, classico nel modulo innico, è sostituito da un’inclusione (vv. 2 e 10), composta da un’acclamazione antifonale: «O YHWH, nostro Signore, quanto è glorioso il tuo Nome su tutta la terra!» (cfr. Sal 65,2)1. Segue il corpus dell’inno dedicato al Dio creatore che vince il caos (v. 3), che plasma il cosmo (v. 4) e quel capolavoro che è l’uomo (vv. 5-6) a cui affida una relazione di gestione col creato (vv. 7-9). In questa lirica si intravede un dittico ben architettato: due parti (vv. 2b-5 e vv. 6-9) che seguono un andamento progressivo e contrapposto, in modo da offrire una struttura chiastica. Si parte dalla considerazione dell’universo, contrapponendo alla sua immensità e stabilità la piccolezza e la labilità dell’uomo. Un’altra contrapposizione sottolinea subito la particolare predilezione che Dio ha per l’uomo, nel renderlo intelligente, spirituale e padrone di tutti gli esseri animati. In forma plastica, il movimento è: vv. 2b-5 universo uomo vv. 6-9uomo universo E la struttura sarebbe questa: Antifona d’inclusione (v. 2a): acclamazione al Nome. A. Prima scena cosmica: l’onnipotenza divina e l’uomo (vv. 2b-5). B. Seconda scena cosmica: il potere umano e Dio (vv. 6-9). Antifona d’inclusione (v. 10): acclamazione al Nome. 2.2. I PARADIGMI SIMBOLICI DEL SALMO L’analisi simbolica del carme avrà i suoi dettagli nell’esegesi. Per ora ci accontentiamo di offrire una guida schematica che raccolga i molteplici paradigmi su cui i simboli sono distribuiti. Ne possiamo ordinare sette. 1. Simbolismo cosmico. È dominante e avvolge l’intera composizione. Comprende «i cieli», «la terra», «il mare», l’asse verticale cielo-terra, l’asse dell’uomo dominatore che ha «sotto i suoi piedi» ogni cosa (v. 7). C’è anche una dualità spaziale. Nel cielo: il settore degli astri e quello degli uccelli. Nella terra: l’uomo e gli animali che sono collocati «sotto» a lui (vv. 4 e 7). Nell’arco temporale: il notturno (v. 4) suppone implicitamente il giorno. Fondamentale è la 1 Dahood ha voluto ritrovare l’invitatorio, nel v. 2b, nella famosa crux interpretum del TM ’ašer tenah, da lui letta come un imperfetto energico del piel di šeret, «adorare»: «Voglio adorare la tua maestà». L’invito sarebbe preceduto da un’esclamazione, caso che non ha paralleli nell’AT. 280 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) volta celeste, probabilmente il «baluardo» del v. 3 e i cieli del v. 4: essi sono tuoi, cioè la sfera di Dio e l’ambito nel quale più si riflette il suo mistero. «I cieli sono i cieli di YHWH, la terra ha dato ai figli dell’uomo» (Sal 115,16). I «cieli» sono distribuiti in tre punti strategici del salmo: in apertura (v. 2b), al centro (v. 4) e in finale (v. 9). 2. Attori. I personaggi che appaiono come agenti sono YHWH, gli ’elōhîm (esseri divini o angeli del v. 6), l’uomo e gli animali. Se la natura e il nome di Dio sono esaltati già nel ritornello dei vv. 2 e 10, l’uomo, che «è la vera meraviglia dell’universo..., ha in sé un’immagine di Dio sfigurata ma non distrutta» (Kirkpatrick). Egli è ’enoš, cioè «fragile e debole» (Sal 103,15; Is 51,12; Gb 14,1), ma è più vicino alla divinità che non all’animalità diversamente da quanto afferma il Sal 36,7 («uomini e bestie tu salvi, YHWH»). «L’uomo è immagine e gloria di Dio» (1Cor 11,7; Gc 3,9). Gli animali, invece, sono legati alla prigione dello spazio tripartito (terra, cielo, mare). 3. Simbolismo dello splendore-onore. Il nome di Dio è ’addîr, «grandioso, glorioso, meraviglioso» (v. 2), un attributo classico della regalità divina, presente 25 volte nell’AT (Es 15,10; Ger 14,4; Ez 17,23; Sal 76,5; 93,4), attestato in ugaritico (’adr) e in fenicio (’dr). Sua caratteristica è hôd, la «maestà» (v. 2), lo splendore che egli dispiega nei cieli (Sal 19 e 104). Ma anche l’uomo è coronato di «gloria e onore» (v. 6), un’attribuzione regale propria di Dio (Sal 29,1; 104,1) e del re (Sal 21,6). La partecipazione alla realtà di Dio non è più prerogativa regale, ma è «democratizzata»: «lo splendore della tua gloria» (Sal 145,5) è ora trasferito anche nel fragile «Adamo». L’idea era ironicamente sviluppata anche in Gb 40,10, in cui Dio si rivolgeva a Giobbe dicendogli: «Bárdati pure di maestà e di grandezza, rivestiti pure di splendore e di gloria!». Per quel poeta, la gloria e la maestà divina (hôd - hadar), qualora venissero arrogate a sé dall’uomo, si ridurrebbero solo alla prima coppia citata da Giobbe, «orgoglio e superbia» (gà’ôn e gôbah). La «teofania» umana è impossibile, è solo una caricatura di quella divina. Per il poeta del Sal 8, invece, la partecipazione allo splendore di Dio è possibile, perché è offerta da Dio stesso alla sua creatura-principe. 4. Simbolismo somatico. Ecco innanzitutto la delicata e deliziosa evocazione delle «dita» di Dio (v. 4), in contrasto con le colossali opere risultanti. Dio è un artista raffinato, ma è anche un operatore attivo: ecco le sue «mani» (v. 7) che plasmano tutti gli esseri viventi. Dell’uomo è rappresentata invece la bocca (v. 3), che è balbettante, come quella dei lattanti, davanti al mistero di Dio e del cosmo. Dell’uomo è, però, ricordato anche il «piede» (v. 7), segno di trionfo. Egli è come un re che pone sotto i suoi piedi il capo delle sue vittime (Sal 18,39). 5. Simbolismo dinamico. Otto sono le azioni di Dio distribuite lungo due sequenze. La prima comprende il «gettare» (jsd) le fondamenta della calotta celeste (v. 3) e il «collocare in modo stabile» (kwn) i sistemi astrali (v. 4): traduceva suggestivamente Delitzsch con «herstellen und aufstellen». La seconda serie di verbi è, invece, personale e indirizzata all’uomo: «ricordare», «curare» (v. 5), «renderlo poco meno di un essere divino», «coronarlo» (v. 6), «dargli la signoria» e «porre» sotto i suoi piedi (v. 7). All’azione cosmica generale si oppone la premura dettagliata nei confronti dell’uomo (Ger 15,15; Sal 144,3; Gb 7,17-18), che culmina nella solenne incoronazione e investitura dei vv. 6-7 (Sal 110,1). 6. Tipologia umana. Si tratta di sette vocaboli distribuiti in tre classi. La prima raccoglie le due espressioni dedicate ad illustrare la fragilità (’enôš) e la «terrenità» (’adam) umana (v. 5). ’Enôš proviene dalla radicale che indica «essere malaticcio», «decrescere e decadere» (in accadico enušu; cfr. 2Sam 12,15), la cui forma participiale (’anûš) significa «incurabile» (Ger 17,9; 30,15). Il termine poetico può essere, perciò, reso con «mortale» (Sal 90,3; 103,15; Gb 7,17; Is 51,12) e ha senso collettivo, l’umanità in generale. Un senso analogo ha ben ’adam, «figlio d’uomo», colui che viene dalla terra e ad essa ritorna (Gen 2,7; 3,19; Qo 3,20; 12,7). La tipologia umana raccolta in queste due espressioni esalta, come si è detto, il limite creaturale. Una seconda classe di vocaboli parla di «fanciulli» (lett. «chi gioca») e di «lattanti» (v. 3) a cui si oppone la terza classe, quella dell’«oppositore», del «nemico», del «vendicatore»: co- Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 281 storo, anziché lodare, si ribellano a Dio. L’interpretazione della terza classe degli avversari è, come si vedrà, oggetto di discussione. Ribellione e lode salgono ininterrottamente verso il cielo. Con un giuoco di parole, Alonso Schökel, in una sua nota a questo salmo, sintetizza così le due coppie antitetiche: «homo puerilis, puer humanus; homo hostilis, hostis inhumanus». 7. La simbolica del Nome. Nell’esclamazione che «include» il salmo (vv. 2 e 10), il Nome costituisce l’elemento più specifico della lode. Il Nome è la persona stessa di Dio annunciata e proclamata, è una specie di ipostasi di Dio trascendente, attraverso la quale egli si rivela e si comunica all’uomo (vedi le categorie «sapienza», «parola», «spirito»). Il Nome è confessato innanzitutto nel tempio, là v’è la sorgente di ogni lode. Ma ora la liturgia è cosmica («tutta la terra») e il Nome è proclamato in tutto il creato. La dea Iside aveva dovuto tentare un complotto per impossessarsi del nome santo del dio solare Ra (ANET, p. 126), così da poterne dominare e manipolare l’efficacia. Il nome divino YHWH è, invece, rivelato per amore ad Israele (Es 3) e risuona ora in tutto il cosmo. Accanto al nome specifico YHWH si colloca anche il titolo piuttosto raro ’adonênû, «Signore nostro», spesso allegato come prova per la cronologia tarda del Sal 8, essendo presente solo in testi post-esilici (Sal 135,5; 147,5; Ne 8,10; 10,30). ’Adôn, «signore», è applicato nella Bibbia a quattro persone diverse: al padrone (Sal 12,4), al marito (Sal 45,12), al re (Sal 110,1), a Dio (Sal 114,7), che è spesso invocato come ’adonai, un plurale intensivo (lett. «signorie mie»), «Signore mio», o anche come «Signore dei signori» (Dt 10,17)2. L’uso del pronome possessivo, «nostro», unito a «Signore», riflette lo stile curiale (1Sam 25,14.17; 1Re 1,11.43.47) e solenne: «Signore nostro» è un titolo regale, applicato al re per eccellenza, assiso nella sua corte celeste (Sal 93,1; 104,2; 113,4; 148,13). Esso apre il salmo al canto corale e liturgico, e forse si potrebbe trattare d’un’antifona aggiunta alla lirica per renderla adatta al canto comunitario (vedi Mowinckel, Cazelles, Mannati). Anzi, per Podechard e Duplacy saremmo in presenza sicuramente di un’acclamazione cultica estranea al poema, ad esso aggregata da parte dei liturgisti del tempio post-esilico. Il nome dell’uomo, come si è visto, è ben più modesto e debole: ’enoš e ben-’adam. Eppure anch’egli riceve da Dio una dignità parallela a quella del sommo ’adôn, «signore». Nel v. 7 lo si dichiara viceré attraverso il verbo mašal, «dominare», un termine che ha varie accezioni (simbolica in Gen 1,18; sessuale in Gen 3,16; morale in Gen 4,7), tra le quali brilla quella politica («regnare»: Gen 45,8.26; 2Sam 23,3). Ma questo nome d’onore è conferito da un gran re, come Abramo fa nei confronti di Eliezer (Gen 24,2) o il faraone nei confronti di Giuseppe (Gen 41,41) o Dio stesso nei riguardi del re davidico (Sal 18,39-40; 45,6; 47,4). Se l’uomo dimentica di essere un luogotenente, si trasforma in tiranno (mašal ancora). Il titolo, glorioso, è però ambiguo e rischioso nelle mani dell’uomo: egli può passare da viceré cosmico a tiranno odioso e borioso. Il parallelismo ora indicato, tra signoria divina e signoria umana, è esaltato stilisticamente anche dalla duplice interrogazione retorico-ammirativa del v. 2 («quant’è...», mah...) e del v. 5 («cos’è mai...», mah...): la prima celebra la magnificenza divina, la seconda la realtà umana. Ed è in questa luce che si comprende perché l’uomo possa arrivare sino alle soglie di un nome a lui impossibile, quello di ’elōhîm, «Dio» (v. 6). 3. LA COLLOCAZIONE CRONOLOGICA E «VITALE» DEL SALMO Dovendo trattare della collocazione cronologica e «vitale» del salmo, è tradizione partire dagli elementi filologico-lessicali, sui quali dovremo ritornare nella lettura esegetica del testo. Si tratta, però, spesso di indizi fragili. Il tardo ’adonênû, «Signore nostro», ha fatto collegare il salmo all’epoca persiana (Briggs): Morgenstern, confrontando il Sal 8 e il 19A, giungeva alla conclusione che il secondo fosse da collocare tra il 516 e il 485 e il primo fosse più recente di un secolo. La stessa tematica del salmo, indice di una mentalità matura ed evoluta, indur2 I LXX traducono sia YHWH sia ’Adonai con Kyrios; perciò qui hanno un raddoppiamento: Kyrie ho kyrios hèmôn. 282 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) rebbe a porre la composizione in epoca recente. Tuttavia von Reventlow, sulla base dei giochi sonori del carme (e in 4a e a/o in 4b, ad es.) e sull’uso delle coppie verbali (vv. 3a. 3c. 6b. 8a. 9a.), spingeva la comparazione verso la letteratura ugaritica alzando la cronologia del salmo. L’analisi del difficile v. 3 ci presenta elementi cosmologici arcaici. D’altra parte i versetti che parlano della creazione sembrano conoscere la sequenza di Gen 1 (cfr. Sal 104), con esclusione del motivo della creazione di piante e animali che fanno capolino solo in finale nella celebrazione della signoria dell’uomo (cfr. Gen 1,28ss). Si dovrebbe perciò datare in epoca tarda il nostro salmo, come dipendente dalla tradizione sacerdotale di Gen 1. Ma, al di là dell’inestricabile questione del «chi dipende da chi?», si potrebbe anche supporre che entrambi dipendano da un modello generale comune. Infatti dati arcaici del v. 3, espressioni e stilemi, il motivo probabile della lotta contro il caos (assente in Gen 1) possono ammettere una datazione abbastanza antica in forma congetturale, mancando riscontri obiettivi decisivi. Questo non significa che il Sal 8 sia «messianico» e da attribuire personalmente a Davide (2Sam 7,19 e 1Sam 18,18), come hanno fatto senza argomentazioni rilevanti C. Louis e L. Jacquet. H. Cazelles pensa a una data intermedia tra lo jahvista (X sec.) e il sacerdotale (VI sec.) e forse questa può essere un’ipotesi di lavoro. L’importante, comunque, è il rilevare che la posizione dell’uomo, nei rapporti col cosmo e con Dio, è già alla base del grande affresco jahvista di Gen 2–3. Ancor più fluida è la determinazione del Sitz-im-Leben di nascita del nostro «inno cosmico» (Deissler). Per alcuni studiosi esso suppone una liturgia notturna, celebrata sotto il cielo mirabilmente stellato d’oriente. Nel v. 4, infatti, si menzionano solo la luna e le stelle; il Sal 134,1 ricorda la veglia notturna dei sacerdoti (Sal 130,6); il rito dell’«incubazione» sacra nel tempio è ben noto in oriente e forse nel salterio (vedi Sal 3,6); Is 30,29 ha: «Voi innalzerete il vostro canto come nella notte in cui si celebra una festa», e 1Cr 9,33 ricorda che i cantori «abitavano nelle stanze del tempio perché giorno e notte erano in attività». Per Cazelles, invece, si tratterebbe più generalmente di un canto sacro per il servizio sacerdotale nel tempio. Se è vero che la dimensione liturgica è percepibile attraverso l’antifona iniziale e finale (sempre che non sia un’aggiunta cultica), il carme ha il marchio di una personalità originale ed è opera di un poeta che ha calato nell’inno una vigorosa e personalissima meditazione sull’uomo. Per questo, pur avendolo dedicato al repertorio innico del culto, l’autore non è da ricondurre agli autori stereotipi dell’innologia liturgica, ma conserva una sua autonomia e originalità. 4. LETTURA ESEGETICA Prima di entrare nel cuore del salmo, dobbiamo dare uno sguardo anche al titolo. Esso contiene il tradizionale riferimento davidico, che è da considerare, più che altro, come un patronato ideale, diversamente da quanto ipotizzavano gli antichi commentatori, i quali immaginavano qui il pastorello Davide rapito nella contemplazione del cielo stellato, in una limpidissima notte palestinese. C’è poi il riferimento al «maestro del coro» (vedi Sal 6) e da ultimo si allega una misteriosa annotazione su gittît. Una prima interpretazione suppone che si tratti di uno strumento musicale (Sal 81,1 e 84,1), un’arpa filistea costruita a Gat, da cui aveva preso la denominazione (Dhorme) di «ghinea»: «sulla cetra che Davide portò da Gat», commenta il Targum. Un’altra ipotesi pensa invece a «un’aria di Gat» (Weiser) o a «una melodia di Gat» (Gunkel), forse una marcia militare della guardia del corpo filistea assoldata da Davide (2Sam 15,18). Una terza versione si collega ai LXX, che hanno inteso il vocabolo come una derivazione da gat, «frantoio», «torchio» (vedi Get-sémani) e hanno proposto la resa «sui torchi», adottata da Gerolamo, dalla CEI e, in passato, dai Padri che leggevano il titolo in chiave allegorica: «Ci sono salmi “per i torchi”, per la ragione che in essi il mistero della passione del Signore vi fermenta sino a debordarne, come il mosto in fermentazione, sotto l’azione dello Spirito santo» (PL 15, 1799). In realtà si potrebbe pensare a melodie per la vendemmia. La Bibbia conosce canti per la festa gioiosa della vendemmia (Gdc 9,27; Is 5,1-7; 16,10; Ger Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 283 25,30), canti del lavoro che erano stati poi adattati alla celebrazione ebraica (e storica) delle capanne, che era stata fatta coincidere con quella della vendemmia (H. Schmidt, Briggs, Bonkamp). Anche i greci usavano «canti del torchio», destinati appunto ad accompagnare la vendemmia. Difficile è optare tra queste interpretazioni: noi preferiamo la prima di tipo più tecnico e musicale. 4.1. ANTIFONA D’INCLUSIONE (VV. 2A E 10) Come s’è visto, il carme è racchiuso entro questa solenne acclamazione, indirizzata al Nome divino. Si tratta di un’entusiastica lode, indirizzata al Signore di tutto l’essere, da cui tutto l’essere deriva, la cui magnificenza è disseminata «in tutta la terra» (’ereß), cioè in tutto il nostro pianeta e in tutti i popoli. Il vocabolo che indica lo splendore e la gloria di Dio che si svela (’addîr) è riservato, oltre che analogicamente ai re e ai principi (Sal 136,18; Gdc 5,13), soprattutto all’unico supremo sovrano del cosmo, «tremendo e glorioso (’addîr)» (Sal 76,4). Esiste quasi una sfida nella supremazia, rispetto alle irraggiungibili energie positive e negative del cosmo: «Più potente delle voci delle acque immense, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è YHWH» (Sal 93,4). «Da lui, per lui e in vista di lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli dei secoli» (Rm 11,36). Il Nome divino riceve una lode sinfonica «in tutta la terra», e non soltanto a Gerusalemme e nel tempio. Le sue opere sono dappertutto visibili e quindi il messaggio di Dio risuona in ogni angolo della terra. Naturalmente il poeta ebreo non intende qui proporre una specie di «Jahwismo anonimo», come ha supposto Weiser. In altri termini, l’autore non pensa che quando gli egiziani inneggiano ad Amon-Ra, in realtà invocano senza saperlo YHWH, l’unico vero creatore, né può supporre che i babilonesi lodando Shamaš in realtà proclamano le meraviglie di YHWH. Quest’idea ecumenica, base di una teologia delle religioni naturali e pagane, non è ancora concepibile nell’ambito della visione veterotestamentaria. Il pensiero che una lode ad una divinità straniera politeista possa entrare, sia pure indirettamente, nell’alveo della preghiera a YHWH è lontano dall’orizzonte mentale del poeta. Piuttosto potremmo immaginare una specie di «teodicea naturale» sul modello di quella proposta da Sap 13,5-9: «Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia, si conosce il Creatore» (v. 5). Proprio perché la potenza divina non conosce confini e travalica il tempio e la città santa, tutti i popoli della terra «potrebbero contemplare le sue perfezioni invisibili con l’intelletto, attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1,20), anche se più facilmente sono invece tentati dall’idolatria, «cambiando la gloria dell’incorruttibile Dio con la figura e l’immagine dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi» (Rm 1,23). La maestà di Dio, però, non abbraccia solo orizzontalmente la superficie terrestre, ma si estende verticalmente «sopra gli stessi cieli», la regione superiore dell’universo, raggiungendo la sfera stessa del divino. Là, infatti, come insegna l’arcaico Sal 29, la gloria di Dio è celebrata dalla corte angelica di YHWH («i figli di Dio», Sal 29,1). È interessante notare che, in questo canto dell’uomo, la gloria è tributata non all’uomo ma al Creatore. Nessuna creatura, anche la più splendida, può essere un dio. Siamo giunti, così, alla lirica vera e propria, nella quale, sul fondale del cielo stellato, appare la figura dell’uomo, «nano» e «titano» al tempo stesso. 4.2. PRIMA SCENA COSMICA (VV. 2B-5) Uomo e onnipotenza divina sono ora confrontati sullo sfondo del cosmo. Purtroppo l’avvio dell’inno vero e proprio è segnato da un «passo testualmente disperato» (Beaucamp), i vv. 233. Vorremmo introdurre il lettore nelle singole difficoltà, proprio per offrire un esempio delle 3 Raccogliamo i saggi apparsi sui vv. 2-3. Naturalmente sono da verificare anche i commenti generali. P. SFAIR, «De genuina lectione Ps 8,2», in Bib 23 (1942) 318-322 (con riferimento al siriaco e all’arabo); T.Z. 284 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) operazioni testuali a cui l’esegeta deve ricorrere per rendere vivo un testo apparentemente ferito o morto. Attorno a due parole del v. 2b si è da tempo accesa una lunga discussione (fino al 1955, vedi il commento del Castellino, pp. 851-852). Le parole sono ’ašer e tenah. Ed ecco, per chi vorrà seguirli pazientemente, cinque tentativi di spiegazione. 1. Tenah è un imperativo di ntn, «dare»: «Poni la tua maestà al disopra dei cieli». Tale lezione si ottiene eliminando il relativo ’ašer («che»), privo di senso, considerato un’aggiunta maldestra di copista: la soluzione è improbabile, non dà senso nel contesto. La versione greca di Simmaco e il salterio «iuxta hebraeos» di Gerolamo suppongono la seconda persona singolare natattah, con soggetto YHWH: «che hai posto la tua maestà al disopra dei cieli». La resa, accettata dal Kraus, non dà però un senso soddisfacente col contesto. 2. Tenah è un imperativo enfatico di tnh, «ripetere»: «Canta, loda, proclama la sua maestà sopra i cieli». La radice in questione appare solo in due testi biblici antichi, in Gdc 5,11 e 11,40, ove significa appunto «cantare le lodi» . Altre due attestazioni in Os 8,9-10 sono testualmente incerte. Nel nostro stico, però, si dovrebbe leggere tinnah (piel): «Il Nome, esso canta, proclama la sua maestà...» oppure tunnah (pual): «La maestà viene proclamata, cantata...». I LXX hanno appunto «la tua maestà è elevata al disopra dei cieli» (Vg). Non 4 mancano obiezioni su questo valore («cantare, proclamare») di tnh . 3. La radicale è sempre la precedente tnh, ma è da leggere ’atanneh, «canterò, che io canti, lasciatemi cantare, annunziare» la sua maestà. Questa interpretazione è stata proposta da J. Hempel; l’’ašer («che») sarebbe una glossa e andrebbe letto šîr, «canto»: «che io proclami un canto». 4. Le due parole devono essere ricostruite così ’ašîrah-na’, «Potessi cantare, che io canti la sua maestà...». La soluzione è stata proposta la prima volta nel 1899 da B. Duhm e ha avuto una variante nella lettura proposta da C. Schedl: ’uššar, «dichiarare beato», e quindi «Com’è glorioso il tuo Nome, YHWH, esaltato in tutto il mondo: la tua fama viene cantata...». Questa lettura, però, interrompe l’armonia dell’antifona precedente e introduce un ’uššar rarissimo (nella Bibbia ricorre una sola volta in questa forma). 5. Le due parole sono da unire in ’ašartannah, imperativo con nun energico, dal verbo šrt, «servire», «adorare», rendere culto», attestato anche in punico. La soluzione è molto suggestiva, anche perché lascia intatto il testo consonantico ed è stata dimostrata da M. Dahood. La resa sarebbe: «Io voglio adorare la tua maestà sopra i cieli». Al termine di questo primo sondaggio possiamo suggerire le soluzioni che più lasciano intatto il testo consonantico, così come ci è giunto, riuscendo a spiegarlo. La soluzione più probabile ci sembra l’ultima. Dopo l’acclamazione antifonale, l’inno si aprirebbe con un tipo particolare di invito alla lode: «Tu, la cui maestà vorrei adorare (o cantare) lassù nei cieli». Associandosi alla lode perenne della liturgia celeste, anche l’orante del salmo inizia il suo canto «celeste»5. Tra l’altro si deve notare l’affinità che intercorre tra l’intero versetto 2 del nostro VRIEZEN, «Ps 8,2-3», in Nederlands Theologisch Tijdschrift 3 (1948-49) 11-15; IDEM, «Aantekening bej Ps 8,2s», ibid. 373-374; J.J. STAMM, «Eine Bemerkung zum Anfang des achten Psalms», in TZ 13 (1957) 470-478 (esamina il v. 3); H. KRUSE, «Two hidden comparatives. Observation Hebrew style (Ps 42,7-8; 8,3)», in JSS 5 (1960) 333-347; H.R. MOELLER, «Biblical research and O. T. translation», in Bible Translator 13 (1962) 16-22 (esamina il v. 2); J.A. SOGGIN, «Salmo 8,3. Osservazioni filologico-esegetiche», in Bib 47 (1966) 420-424; M. TANNER, «Psalm 8,1-2. Studies in texts», in Theology 69 (1966) 492-496; J. A. SOGGIN, «Textkritische Untersuchung von Ps. VIII, vv. 2-3 und 6», in VT 21 (1971) 565-571; V. HAMP, «Ps 8,2b.3», in BZ 16 (1972) 115120; M. GÖRG, «Der Mensch als königliches Kind nach Ps 8,3», in Bibl. Notizen 3 (1977) 7-13 (confronta con un’eulogia di Ramses II e una statua di Tanis); W. RUDOLPH, «“Aus dem Munde der jungen Kinder und Säuglinge” (Psalm 8,3)», in Beiträge zur altt. Theologie (Fest. W. Zimmerli), ed. H. DONNER, Göttingen 1977, 388-396. 4 Le obiezioni sul collegamento di tnh con l’ugaritico tny e l’accadico šmû (aramaico tnh) sono state avanzate da H. DONNER, «Ugaritismen in der Psalmenforschung», in ZAW 79 (1967) 322-350 (in part. pp. 324ss) e da LORETZ, «Psalmenstudien V. Die Psalmen 8 und 67». Infatti tny ugaritico è solitamente in parallelo col verbo «dire» (rgm) ed ha un valore generico non kerygmatico («proclamare») come si avrebbe nella soluzione sopra indicata. Tnh (o šnh che è la stessa cosa) ebraico dovrebbe, perciò, significare anch’esso solo «ripetere», «fare ancora». Ma nel suo dizionario ugaritico l’Aistleitner (n. 2898) segnala anche un significato del verbo in questione di questo tenore: «informare», «annunziare», «berichten». 5 Probabili anche le rese indicate sotto i nn. 2 e 3: «la tua maestà viene lodata lassù nei cieli» o «la tua maestà esso (il Nome) loda, proclama lassù nel cielo». La CEI ha accolto la versione dei LXX (Vg): «Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza». Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 285 salmo e l’ultimo del salmo precedente (7,18), affinità che forse ha causato l’accostamento: «Loderò YHWH per la sua giustizia, canterò il Nome di Dio, l’Altissimo». Passiamo ora a un secondo sondaggio critico, più breve, concernente il v. 3. Esso inizia con una strana frase che letteralmente suona così: «Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai fondato una potenza...». È ovvio che questo testo non sembri molto espressivo. Forse si potrebbe adottare la soluzione avanzata dal Kissane nel 1953-54, ripresa da Hempel e Dahood, e sviluppata da altri. Essa collega il primo stico con 2b: «Vorrei cantare la tua maestà lassù nei cieli, balbettando (con le labbra) come fanno fanciulli e lattanti». L’immagine è particolarmente vivace: «Dio non ha bisogno della facondia dei retori; egli dispone, per discuterla, della lingua muta dei bimbi», scriveva Calvino commentando il nostro testo. La nostra lode è pur sempre un balbettìo; ma può salire lassù nei cieli, accordandosi a quella perfetta della corte angelica. Curiosamente i rabbini nel trattato Mekhiltà sull’Esodo (15,1; cfr. Sal 139,14-15) immaginano che il bimbo, già nel grembo materno, lodi lo splendore del suo Creatore. E Newman nei suoi Sermoni parrocchiali diceva: «Noi sappiamo, attraverso il nostro personale ricordo e la nostra esperienza di bambini, che c’è nell’anima dell’infanzia un discernimento del mondo invisibile nelle cose visibili, una comprensione di ciò che è sovrano e adorabile, un’incredulità e un’ignoranza per tutto ciò che passa e cambia». Lo spirito d’infanzia interiore è l’atteggiamento più autentico della lode. Nel libro della Sapienza è scritto: «La sapienza apre la bocca dei muti e scioglie la lingua degli infanti» (Sap 10,21). Il nostro stico entra anche nel NT. Esso è citato durante la purificazione operata da Gesù nel tempio, dopo il suo ingresso trionfale: «I sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo i miracoli che egli faceva e i bambini che gridavano nel tempio: “Osanna figlio di Davide”, rimasero indignati e gli dissero: Senti cosa dicono costoro? E Gesù rispose ad essi: Sì, sento. Non avete mai letto: Dalla bocca dei fanciulli e dei lattanti ti sei procurato la lode?» (Mt 21,15-16). Il testo, citato secondo i LXX, diventa agli occhi di Gesù una dimostrazione della vera realtà della comunità messianica. «I fanciulli fanno parte della categoria dei seguaci di Gesù, dei poveri cioè e degli umili sempre pronti ad accogliere i suoi annunci. In questo caso il loro improvviso riconoscimento serve ad attuare l’oracolo del Sal 8,3, ritenuto unanimemente messianico»6. Non ha senso, perciò, ricorrere, come fanno Schedl, Ringgren, Cazelles, ecc., alla tipologia mitica, attestata ad Ugarit e in Egitto, dei «bambini divini» (UT 52: 23-24), che «succhiano i capezzoli del seno di Asherah», o delle stelle gemelle del mattino e della sera, o delle figure angeliche. Anche chi, come P. Beauchamp, ne riconosce una probabilità a livello arcaico deve ammettere che il senso attuale del testo è differente: «A livello più arcaico l’immagine s’è formata su una figura mitologica di bambini divini o di dèi gemelli. I neonati, qualificati per la loro impotenza come i più adatti a cantare la vittoria di Dio: questa lezione, qualunque sia la sua origine, non è andata perduta. Gesù la raccoglie in Mt 21,16. Egli era venuto per compiere la missione di quel bambino che riconcilia le bestie feroci con la dolcezza di Dio (Is 11)»7. In questa luce si può commentare la frase del v. 3 del salmo anche col celebre «loghion giovanneo» dei sinottici: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25; Lc 10,21). O anche col passo di 1Cor 1,27-28: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto..., debole..., ignobile e disprezzato, ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono». Proseguiamo ora nella lettura critica del v. 3. Inizia la lode dell’azione cosmica di Dio. Ecco innanzitutto il verbo jsd, «porre le fondamenta» di una casa (1Re 5,31), di una città (Gs 6,26), di Sion (Is 14,32), della terra (Is 48,13). Che cosa ha fondato Dio nella sua opera cosmica? L’oggetto del verbo è ‘oz, un termine che di base ha il senso di «forza fisica» (Sal 30,8), politico-militare (Sal 68,36), interiore e globale (Sal 29,11; 81,2). Ma nei derivati, come 6 O. DA SPINETOLI, Matteo, Assisi 19732, 509. «La sollecitudine di Dio si estende fino ai bambini e ai lattanti (1Sam 15,3) che, perciò, fanno salire fino al cielo (Sal 57,6; 113,4) la loro lode allo splendore divino» (BEAUCAMP). 7 P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Assisi 20032, 174-175. 286 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) ma‘ôz, acquista il valore di «fortezza, baluardo, rifugio». Il senso, allora, è chiaro: non significa «lode» (LXX e Mt 21,16), accettato ancora da alcuni moderni (Podechard, George, Cazelles), ma più realisticamente il «bastione» dei cieli. Dio ha costruito nei cieli una fortezza, un baluardo contro i propri nemici. Infatti il v. 3 continua dicendo che questo è stato fatto lema‘an, «a causa»8 di tre classi di pericolosi ma impotenti avversari di Dio. Essi sono «oppositori», «nemici» (’ojeb) e «vendicatori». I primi due termini echeggiano anche in un testo ugaritico, che mette in scena gli avversari cosmici di Baal: «Certamente i tuoi nemici, o Baal, certamente i tuoi nemici tu colpirai, certamente distruggerai i tuoi oppositori. Assumerai il tuo regno eterno, la tua sovranità per tutte le età» (UT 68,11.9-10 = CTA 2,1V) . Il terzo vocabolo (mitnaqem) introduce il tema della vendetta. Essa, come insegna Dt 32,35, è prerogativa divina; il nemico di Dio «usurpa, allora, per interessi egoistici, una funzione giuridica che appartiene a Dio» (Kirkpatrick). A questo punto possiamo delineare globalmente il messaggio del v. 3. Il resto della lirica, seguendo il piano di Gen 1, canta la creazione degli astri e dell’uomo; qui, invece, il carme si apre con la definizione dell’atto primordiale creativo, la fondazione del «baluardo» dei cieli, quello che Gen 1,6 chiamerà «il firmamento» (raqia‘), una calotta metallica che divide le acque superiori da quelle inferiori, linea di confine che il caos non può valicare: Dio è «al di là», nella sua «fortezza inaccessibile» (Sal 31,22) e trascendente. La mappa cosmica qui supposta è ripetuta in molti altri testi biblici come Ger 5,22; Sal 74,13; 104,9; 148,6; Gb 7,12; 24,12; 38,11; Pr 8,27ss e Is 51,9-10, passi che parlano ripetutamente di «confine», «frontiera», «circolo», «limite», «barriera». Il Sal 150,1 è, forse, la più limpida descrizione: «Lodate YHWH nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua fortezza (reqia‘ ‘uzzô)». In questa luce appare chiaramente la qualità primaria dei «nemici» di Dio. Essi sono innanzitutto avversari mitici, cosmici, noti anche alla letteratura biblica come Rahab, Jam, Tehôm, Tannin, ecc. Ad essi YHWH «schiaccia la testa». Sono «i draghi delle acque» (Sal 74,13); è Rahab «calpestato da Dio come un vinto» (Sal 89,12); sono Behemot e Leviatan di Gb 40–41, simboli del nulla che assedia costantemente la creazione. «Non ha forse fatto a pezzi Rahab, non ha trafitto il drago?» (Is 51,9): YHWH trionfa su ogni realtà a lui nemica; e il processo di smitizzazione è evidente perché ormai questi mostri non hanno più nessuna qualità divina, ma sono entità controllate da Dio. Da questa prospettiva, che forse ingloba anche le antiche tipologie dei giganti ribelli come i Refa’îm e i Nefilîm, si può passare, a livello di rilettura finale, all’«avversario» storico di Dio, il peccatore, esponente quasi di un furore prometeico. È lui che nella storia si oppone a Dio, illudendosi di essere un «vendicatore», libero dalla «tirannia» di Dio (Sal 37,20; 68,2:22; 92,10; 97,3). La rilettura rabbinica e patristica andrà oltre, immaginando che il testo sia un’evocazione del peccato degli angeli decaduti. L’avversario sarebbe allora Satana, «ribellione, forza vindice della ragione», come esclamava Carducci nel suo Inno a Satana. Ma, forse, già Israele nel suo uso del salmo aveva in passato storicizzato questi avversari, vedendoli come i nemici concreti del popolo eletto. Dopo la creazione del firmamento ecco, nello stupendo v. 4, apparire gli astri, tanto cari alla speculazione astrologica orientale, tanto preziosi per il calendario liturgico ebraico, tanto celebri nella poesia universale, tanto frequenti nell’idolatria astrale orientale e greco-romana, tanto usati nell’apologetica per la dimostrazione dell’esistenza di Dio («sopra la tenda stellata deve abitare un Padre buono», scriveva Schiller), ed entrati nell’escatologia neopitagorica come creature vive, perché sarebbero le anime dei giusti, divenute stelle della via lattea. L’autore descrive il cielo notturno: questi capolavori scintillanti e colossali sono stati prodotti con la delicatezza del tocco delle dita, che si muovono sull’arpa o su un ricamo. Eppure sono «stabili, fisse» (kwn). L’immutabile regolarità degli astri e delle loro meccaniche celesti atte8 L’avverbio può avere sia senso finale sia senso causale (come qui). Non è necessario ricorrere all’elucubrata lettura proposta da Dahood e Schedl le-ma‘ôn, «come abitazione», e all’ulteriore arzigogolata trasformazione di ßôrereka, «tuoi avversari», nell’equivalente dell’ugaritico «alture inaccessibili dello Íapon», l’Olimpo ugaritico (bßrrt ßpn). La frase allude, infatti, a potenti nemici contro cui è innalzato il baluardo dei cieli e non ad un palazzo inaccessibile. Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 287 sta l’indefettibilità di colui che li ha «fissati». Non è, perciò, quella del poeta una contemplazione da «Notturno» di Chopin né, forse, un abbandono lacerato dal dubbio e dall’amarezza come per Leopardi; non è l’immensità né la potenza né lo splendore o la regolarità del sistema cosmico a impressionare il poeta, ma la maestà, l’immensità e la fedeltà di Dio, il creatore. Il confronto, allora, che si instaura nel versetto successivo non è tra uomo e cosmo, ma tra uomo e Dio. La maestà, davanti a cui il salmista s’inchina ora, non è quella spaziale dell’universo, ma quella di Dio. Per usare il pensiero di Pascal, la démesure, la «sproporzione» tra infinitamente piccolo e infinitamente grande non è solo tra uomo-niente e cosmo-tutto, ma tra uomo, già minimo nei confronti del cosmo, e Dio infinito rispetto al cosmo stesso. Eppure, ecco la sorpresa: questa realtà «malata» (’enoš) e «terra» (ben-’adam), che è l’uomo, può essere oggetto della premura unica e appassionata del Creatore infinito. La dialettica della distanza incommensurabile è risolta dai due verbi del v. 5 che definiscono l’azione di Dio nei confronti della sua creatura microscopica e apparentemente insignificante. Il versetto, citato integralmente anche in Sal 144,3, comprende innanzitutto il verbo «ricordare» (zkr). Esso esprime con precisione la struttura fondamentale della fede biblica, articolata non su astratte tesi ideologiche, ma sull’intervento storico di Dio. «Ricordare» gli eventi della storia della salvezza è quindi sinonimo di «credere»; il «ricordo» biblico è la professione di fede che rende attuale e contemporaneo l’atto passato di Dio, introducendo il fedele nella vicenda della salvezza. L’esortazione costante del Deuteronomio è appunto quella di «ricordare», soprattutto in un contesto di civiltà del benessere, allorché è facile «dimenticare» la liberazione operata da Dio: «Allora ricordati del Signore tuo Dio, perché egli ti dà la forza... Ma se tu lo dimenticherai..., io attesto oggi contro di voi che certo perirete» (Dt 8,18-19, commento alla professione di fede dello Shema‘ di Dt 6,4ss, la preghiera più cara alla pietà giudaica). Anche nei salmi è frequente l’invito «a ricordare le sue meraviglie d’un tempo» (Sal 77,12; 105,5), «a ricordarsi di Dio» (Sal 77,4; 63,7), «a ricordarsi del suo nome» (Sal 119,55). Parallelamente il «ricordarsi» di Dio è l’atteggiamento fondamentale dell’alleanza, nei cui confronti egli è costantemente fedele (Sal 105,8: «ricorda sempre la sua alleanza»). Dio «si ricorda dei poveri» (Sal 9,13), del suo popolo (74,2), «si ricorda di me» (106,4), della sua parola (105,42), del suo ˙esed, amore (25,6). Di fronte ai cedimenti e alle debolezze dell’uomo, il suo «ricordo» è stabile, pronto a registrare talora anche la risposta negativa dell’uomo, ma soprattutto i suoi atti d’amore e di fede (Sal 20,4). Nel nostro salmo il fatto che Dio «si ricordi» dell’uomo è oggetto di rapita meraviglia. Un essere così debole (Sal 11,4; 12,2.9; 14,2; 21,11; 31,20; 80,18; 103,14; 146,3) e corrotto (Gen 4,6), destinato ad essere inghiottito velocemente dal tempo (Sal 9,20-21; 10,18; 52,6; 66,12; 90,3; 103,15-16), simile a un vermiciattolo, a una larva (Gb 25,6), è oggetto dell’efficace «ricordo» salvifico di Dio. Al «ricordo» si accompagna la «cura», espressa col verbo pqd, che significa generalmente «visitare», «sorvegliare», «provare sollecitudine e preoccupazione». Dio «visita» la terra e la irrora di acqua feconda (Sal 65,10), «visita la vigna di Israele» (80,15), «visita» l’uomo con la sua salvezza (Sal 106,4). Appare così la premurosa sollecitudine di un padre, unita all’attenta verifica di tutte le azioni che il figlio ha compiuto. Per questo talora emerge anche l’aspetto giudiziario (Sal 17,3; 59,6). L’idea dominante è, però, quella del giudizio liberatore di Dio, che «visita il suo popolo» (Lc 1,68; 7,16), della visita di salvezza (Lc 19,44), della presenza amichevole. Questo canto biblico dell’uomo non è, come ha voluto scrivere Castellino, un’«apoteosi dell’uomo» di stampo umanistico; è invece una celebrazione stupita di ciò che fa l’uomo un essere unico e irripetibile, cioè la «grazia» di Dio (1Cor 15,10), l’amore, il «ricordo», la «preoccupazione» di Dio nei suoi confronti. Scriveva Gregorio di Nissa nel De Beatitudine (VII: PG 44,1280): «L’uomo che, tra gli esseri, non conta nulla, che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato dal Dio dell’universo come figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui eccellenza e grandezza nessuno può vedere, ascoltare o comprendere. Con quale parola, pensiero o slancio dello spirito si potrà esaltare la sovrabbondanza di questa grazia? L’uomo sorpassa la sua natura: da mortale diventa immortale, da perituro imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio». 288 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 4.3. SECONDA SCENA COSMICA (VV. 6-9) Inizia qui il canto dell’uomo, vertice del creato, parallelo a quello presente in Gen 1,26ss. La dignità dell’uomo è quasi divina (Sir 16,24-17,16; Sap 2,23), essendo «immagine di Dio». La dichiarazione del v. 69 sulla prossimità dell’uomo a ’Elohîm è stata interpretata in due modi differenti. La prima, considerato il fatto che il salmo è della collezione «jahvista», ha inteso il vocabolo ’elōhîm come sinonimo di «angelo», «essere divino». In questa linea si muovono i LXX, la Vg, il Targum e la Pešitta. Anche la citazione di Eb 2,7, che in seguito esamineremo, si muove in questa direzione. L’idea sottesa rimanderebbe alla corte celeste, in cui sono presenti, accanto a Dio, i benê-’elōhîm, «i figli di Dio» (Sal 29,1; Gb 38,7), esseri celesti, frutto della smitizzazione introdotta dalla Bibbia sulla nozione di pantheon, ridotto al rango di creature angeliche (vedi anche Sal 86,8; 97,9). La seconda interpretazione, presente in Aquila, Simmaco, Teodozione, Gerolamo, basandosi sulla dottrina dell’immagine di Dio nell’uomo sviluppata da Gen 1,26, conserva il senso puro «divino» alla parola ’elōhîm: «tu hai fatto l’uomo poco meno di Dio», immagine leggermente inferiore all’originale. E forse questa lettura è più probabile. Infatti, oltre al fatto che il motivo della corte angelica è assente nel testo del salmo, sarebbe un forte impoverimento del confronto l’introduzione di una creatura intermedia di paragone. L’uomo è in presenza di Dio e a lui è rapportato e non su un termine medio. Altrimenti l’armonia, la simmetria e l’impressionante giuoco di antitesi su cui si regge il testo risulterebbero lesionati e turbati. Dobbiamo inoltre sottolineare un dato importante: il confronto non è di tipo metafisico ma funzionale, non riguarda la natura ma la funzione: «tu gli hai dato una posizione quasi divina» (Weiser). Ed è appunto quello che viene espresso attraverso l’applicazione dell’ideologia monarchica all’uomo. Questo simbolismo regale, esplicito nel v. 6b, occupa tutta la strofa. Infatti la «gloria» e lo «splendore» sono attributi specifici di Dio re supremo (Sal 21,6; 29,1; 45,4; 96,8; 104,1), partecipati al re terreno (21,6); il dominio universale è una costante dei salmi messianico-regali (vedi, ad es., Sal 89,26); «il figlio dell’uomo», nel Sal 80,18, è il re ebraico vittorioso su tutti i suoi nemici; l’ideologia regale era alla base del dominio che l’uomo ha su tutti gli animali, secondo Gen 1,26ss e secondo l’antica epopea di Gilgameš. Nel v. 6b, tre sono i termini che definiscono questa dignità dell’uomo. Il primo è il classico kabôd, «gloria», il vocabolo tecnico che designa lo splendore della maestà rivelata di Dio. Questa gloria ora è partecipata all’uomo, è posta, come dirà Pr 3,16, nella mano sinistra della sapienza, che la effonde ai suoi fedeli. Salomone non oserà domandarla per sé, ma Dio gliela elargirà (1Re 3,13). Il secondo termine è il già noto hadar, «ornamento, splendore», un vocabolo che descrive la vigorosa prestanza d’un toro (Dt 33,17), lo splendore del Carmelo (Is 35,2), la magnificenza del re (Sal 21,6; 45,4). Chi è privo di questo «splendore», non è più uomo ma un reietto (cfr. Is 53,2). Infine ecco il simbolo più «regale», la corona, il segno della gioia nuziale (Ct 3,11), del benessere e della gioia (Sal 65,12; 103,4), del potere regale. Dio intronizza l’uomo nella sua funzione di viceré dell’universo. Scrive G. Ebeling10: «Le espressioni e le locuzioni di cui il salmista si serve sono derivate dal tesoro linguistico e dal pensiero del Vicino Oriente Antico e, secondo l’uso, venivano rivolte al sovrano nel momento della sua incoronazione. Egli era il rappresentante della divinità; anzi egli stesso era un dio, come voleva la sua funzione, e si ergeva sulla massa degli uomini per il fulgore unico della sua gloria, e ogni cosa si prostrava ai suoi piedi per la potenza della sua maestà. Questa ideologia, con tutti i simboli delle sue insegne e dei suoi riti, ha lasciato profonde tracce anche nel pensiero politico dell’occidente cristiano. Ma, secondo il salmista, ben diversa è la verità! L’uomo regale, l’immagine e il rappresentante di Dio in terra, non è un singolo, un’eccezione che si sente innalzato sopra tutti gli altri uomini e li domina col suo disprezzo. Uomo regale è invece ogni 9 SOGGIN, «Textkritische Untersuchung von Ps. VIII, vv. 2-3 und 6». Vedi anche F. FESTORAZZI, «“... L’hai fatto poco inferiore a Dio” (l’uomo alla luce del Sal 8)», in ParVita 10 (1965) 91-94. 10 G. EBELING, Sui Salmi, Brescia 1973, 59-60. Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 289 uomo, sia egli potente o misero, ricco o povero, uomo o donna, adulto o fanciullo. A ogni uomo appartiene la dignità che quel re divino pretendeva per sé solo, e che proprio perciò stravolge e falsifica». Il dominio dell’uomo sul creato, descritto nei vv. 7-9, non conosce confini, come suggerisce l’echeggiare dell’aggettivo «tutto» che raccoglie sotto il potere dell’uomo la totalità dell’orizzonte terrestre. L’uomo è signore (mšl) di tutte «le opere delle mani di Dio», espressione di grande responsabilità per l’uomo e di grande fiducia da parte di Dio, che consegna all’uomo un tesoro immenso. Egli è il sovrano vittorioso che tiene sotto i piedi i sudditi dominati (Sal 47,4; 110,1; Gs 10,24; 1Sam 17,51; 1Re 5,17; Lam 3,34). Ma il suo non è un dominio conquistato per capacità personali, come propone l’umanesimo rinascimentale, illuministico o ateo, né è un potere usurpato con una lotta e una prevaricazione su Dio, come insegnò il mito di Prometeo, e neppure è la celebrazione panteistica di un uomo in cui è posto lo spirito infinito e assoluto. La celebrazione idealistica e quella tecnologica dell’uomo hanno poi radicalizzato questo primato, opponendo l’essere umano a quello «oggettivo», inferiore, scatenando l’arbitrio assoluto del primo sul secondo. Il Sal 8, invece, ricorda che si tratta di un dominio donato da Dio, concesso in amministrazione e usufrutto dall’unico che può definire l’universo «opera delle mie mani» (v. 7), il Signore. Alle mani fragili e spesso egoistiche dell’uomo è affidata l’intera gamma delle creature, soprattutto viventi; proprio come già avevano insegnato i solenni racconti sapienziali della creazione di Gen 1 e 2 e come era stato ribadito nel patto universale tra Dio e Noè, emblema della nuova umanità: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere» (Gen 9,2). Sfilano davanti all’uomo, pellegrino stupito nell’universo, le creature che vengono, come sudditi, a offrire ai suoi piedi il loro omaggio. Ecco il bestiame minuto, le pecore, e quello grosso, i buoi, gli armenti (Gen 21,37; 25,16; Dt 32,24), ecco le bestie selvatiche della steppa, animali liberi della campagna (behemôt; cfr. Sal 148,10 e Gb 40,15). Dalla terra, l’obiettivo punta verso i cieli, tra gli uccelli (Sal 104,12. 17) che l’uomo riesce a catturare, e scende poi sulle superfici del mare con la fauna acquatica (Sal 104,26) per la quale si usa l’immagine suggestiva della navigazione dei battelli («solcare i mari» o, come ha la Vg, «le acque»: Is 23,2). Anzi il Targum aggiunge, forse per parallelismo con behemôt, mostro primordiale (v. 8), anche il Leviatan (Gb 41), altro mostro acquatico primordiale. Scriveva Filone: «Il Creatore fece l’uomo auriga e nocchiere dopo tutte le altre cose, perché reggesse e guidasse gli animali e le piante della terra, prendendosi cura di essi come una sorta di luogotenente del primo e grande Re»11. Questa centralità assoluta dell’uomo in tutto il creato è, per l’ebreo, non solo una concezione globale dell’essere umano, in altri termini un’antropologia; è anche una presentazione dai risvolti concreti. La supremazia sugli animali da un lato mostra l’insostituibile necessità della donna, cioè del rapporto sociale coi propri simili, per togliere la solitudine umana (Gen 2,18-24); ma anche, realisticamente, giustifica l’alimentazione con la carne animale e il diritto di caccia, particolari non secondari nella legislazione orientale e da noi eventualmente superabili. Inoltre la celebrazione dell’«armonia» tra l’«animale razionale» e i suoi simili inferiori e, a più vasto raggio, con tutto l’ambiente ecologico si trasforma in un’accusa alla società umana, quando essa altera con la violenza e con l’egoismo industriale l’equilibrio del creato, sul quale ha solo un potere di usufrutto. La Bibbia condanna, perciò, l’indifferenza occidentale nei confronti della natura. L’origine di questo atteggiamento è forse da ricercarsi in una spiritualità di stampo platonico, che considera tutto ciò che non è umano come «bruto», peso mortificante per le vette dello spirito. O anche è da rintracciarsi nella struttura urbana della nostra civiltà, che ha perso progressivamente il contatto con la natura. La biologia evoluzionista ha certamente attenuato questa opposizione, portando l’uomo al livello d’un’animalità superiore, 11 FILONE DI ALESSANDRIA, La creazione del mondo, XXIX, 88, tr. it. di G. Calvetti, Milano 1978, 115. 290 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) ma senza per questo accrescere il rispetto verso la sfera animale, anzi, ridimensionando fortemente l’uomo nel rango inferiore. Tuttavia la Bibbia non può neppure accettare, come è testimoniato esplicitamente dal nostro salmo, la spiritualità panteistica, nota a noi nel modello indiano. L’unità di ogni vita, il rispetto sacrale di ogni carne, il vegetarianismo religioso, anche se possono contenere valori (cfr. Gen 9,4 e il significato reale delle prescrizioni sull’intoccabilità del sangue), non sono ideali biblici. Il salmo si chiude, come è noto, ribadendo l’antifona del v. 2a, celebrando cioè, in ultima istanza, il Creatore. «Un Dio che non è “teocentrico”, neppure con il pretesto della salvezza dell’uomo; e un uomo che non è “antropocentrico”, neppure con il pretesto della rappresentanza di Dio»12. 5. L’ERMENEUTICA DEL SAL 8 Il «baluardo» innalzato da Dio nei cieli è quasi il simbolo della stabilità cosmica, è come l’arcobaleno di Gen 9 che evoca la premura con cui Dio segue la sua creazione, per cui l’uomo non è in balìa di un ammasso caotico di energie esplosive e irrazionali. Questo atteggiamento di fiducia nella materia e nella creazione è un dato da ribadire anche nell’attuale e diversa concezione cosmologica, come ha limpidamente insegnato anche K. Barth13. Dio è, quindi, il primo polo del triangolo del salmo, a cui è annodato il secondo vertice che è il cosmo. Il terzo polo è naturalmente l’uomo ed è sicuramente decisivo. Per stare nell’ambito d’una tipologia geometrica, potremmo dire che Dio è il centro primario di un’ellisse, mentre l’uomo ne è il centro secondario. Di costui si parla con un entusiasmo simile alla celebrazione umanistica di Gen 1, rielaborando la celebre dottrina della regalità umana e dell’«immagine divina». Nell’ambito di questa riflessione sull’uomo, si è aperta, da parte di una certa corrente esegetico-teologica, una nuova ermeneutica del Sal 8 e, in parallelo, di Gen 1. La questione è la seguente: l’uomo, protagonista di queste pagine bibliche, è l’Umanità in generale (Delitzsch), l’Adamo nobile e peccatore (Kraus) o è piuttosto la figura mitica primordiale di Urmensch proposta da certe culture orientali anche extra-semitiche (il mito di Gayomart e Purusca)? A lanciare questa lettura del Sal 8 furono gli esegeti della scuola scandinava14, argomentando dal potere regale attribuito all’uomo nel testo del carme e in Gen 1 e 2,20 («dare il nome» è funzione regale) e allegando Ez 28,1-9, a cui sembra essere sottesa la stessa ideologia dell’Uomo primordiale, e Gb 15,7 in cui l’Uomo in questione sembrerebbe essere ammesso al consiglio della corona di Dio. In questa linea venivano lette anche le celebrazioni encomiastiche dei salmi regali 2 e 110, gli oracoli messianico-escatologici15 di Is 9,1-6 e 11,1-10, o anche l’attribuzione divina indirizzata al protagonista regale del Sal 45,7 (’elōhîm). Naturalmente nella prospettiva pancultualista dell’esegesi scandinava questi testi ricevevano un’applicazione monarchica nella festa di capodanno, in cui il sovrano assumeva idealmente la parte di Uomo primordiale, tipico e rappresentativo dell’intera umanità. La reazione a questa lettura del Sal 8 è stata molto vivace e si è articolata in una discussione molto complessa che ha implicato la distinzione tra Uomo primordiale e Uomo primigenio, che ha approfondito le divergenze tra i modelli biblici e gli equivalenti indo-europei, che ha 12 A. BERTULETTI - P. A. SEQUERI, «La rivelazione come “principio” della ragione teologica», in AA.VV., La teologia italiana oggi (Fs. C. Colombo), Brescia 1979, 187. 13 K. BARTH, Kirchliche Dogmatik, III/1, Zürich 1945, 45ss. (in part. p. 48). 14 Vedi A. BENTZEN, Messias - Moses redıvıvus - Menschensohn, Zürich 1948 (tr. inglese: King and Messias, Oxford 1956), 12ss; H. RINGGREN, The Messiah in the O.T., London 1956, 18ss; IDEM, Israelitische Religion, Stuttgart 1963, 111-112. 15 Protologia (modello ideale alle origini della storia e della creazione) ed escatologia (modello ideale alla fine della storia e della creazione) sono in pratica la stessa prospettiva, anche se da angolature differenti e parallele. Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) 291 riproposto nuove analisi per il «Figlio dell’uomo» di Dn 7,13 spesso sbrigativamente allegato al dossier in questione. Tra l’altro, il Sal 8 non usa il vocabolo ideale ha-’adam, «l’Uomo» per eccellenza, ma, come si è visto, ’enoš e ben-’adam, l’uomo nella sua debolezza e fragilità, cioè nella sua esistenzialità e storicità! Ma l’ermeneutica del Sal 8 ha ricevuto un altro orientamento in senso escatologico proprio nello stesso ambito giudaico e precisamente a Qumran16: la celebrazione della grandezza dell’uomo non riguarda l’uomo presente peccatore, ma l’uomo messianico, quello della speranza escatologica. Infatti all’’enoš fragile di oggi viene fatto balenare, secondo l’esegesi essena, un futuro profetico, celeste ed eterno, «di poco inferiore a Dio». Ecco un’antologia di tale rilettura qumranica17. Nella Regola della comunità (1QS IV,7-8): «La visita di tutti coloro che camminano in lui consiste nella salute, nell’abbondanza di pace per lunghi giorni, posterità feconda insieme a tutte le benedizioni perpetue, gioia eterna nella vita continua, una corona gloriosa con un abito magnifico nella luce eterna». Negli Inni (1QH XV,16-17): «Nella moltitudine delle tue misericordie, hai aperto a una salvezza eterna ogni angustia della sua anima, a una pace perpetua e indefettibile. Hai innalzato dalla carne la sua gloria». Dal Documento di Damasco (CD 111,19-20): «Edificò per essi una casa sicura in Israele... Coloro che persevereranno in essa avranno vita eterna e sarà loro tutta la gloria di Adamo». In un altro inno, riecheggiando Sal 8,518, si ha: «L’uomo giustificato tu lo salverai nell’abbondanza delle tue misericordie, lo glorificherai nel tuo splendore e lo farai dominare sull’abbondanza dei piaceri, con pace eterna e giorni lunghi» (1QH, X111,17-18). Questa apparizione dell’Uomo perfetto avverrà forse nella risurrezione destinata ai giusti: un’idea, però, poco attestata a Qumran e presente in testi discussi (1QH VI,34; 1QM XII,5), anche se poi esplicita nel NT (Mt 25,46; Gv 5,29; Rm 2,7-8; ecc.). O forse avverrà, secondo una concezione ellenistica tardiva, gnostica e neoplatonica, attraverso la liberazione della «gloria» dell’uomo, cioè della scintilla di divinità nascosta nell’interiorità umana, purificata ed estratta dal limite della corporeità. Questa visione tipicamente greca, che considera l’anima prigioniera della materia corporale, non è assente a Qumran, che l’ha assorbita attraverso complesse mediazioni culturali, ma è estranea all’antropologia biblica, nemica di ogni dualismo psicofisico. Ora, la via del pešer, cioè del commento qumranico, prepara la strada ad una nuova ermeneutica, quella neotestamentaria e cristologica, libera però da ogni connotazione gnosticodualistica19. In particolare è degna di nota l’applicazione fatta da quella solenne omelia che è la lettera agli Ebrei, nel contesto della riflessione sul legame di fraternità che, con l’incarnazione, vincola il Cristo all’intera umanità (Eb 2,15-18). Nei vv. 6-7 del c. 2 della lettera sono citati esplicitamente i vv. 5-6 del Sal 8 nella versione dei LXX (il confronto è con «gli angeli» e non con ’elohîm). E l’autore commenta: «Avendo assoggettato al Cristo ogni cosa, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Tuttavia al presente non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Però quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché, per la grazia di Dio, egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,8-9). Cristo è perciò il restauratore dell’ordine cosmico attraverso la sua umanità e la sua glorificazione pasquale. Si recupera così la dimensione tradizionale cristiana del Servo sofferente, 16 Vedi H. KOSMALA, Hebräer, Essener, Christen, Leiden 1959, 160ss. Tutte le versioni che citiamo sono tratte da L. MORALDI, I manoscritti di Qumran, Torino 1971. 18 Vedi W.M. BROWNLEE, The Dead-Sea Manual of Discipline, New Haven 1951, 57, nota 7. 19 Sull’interpretazione cristologica del Sal 8 vedi J. DUPLACY, «La lecture juive du Ps 8», in BVC 16 (1956) 87-95; IDEM, «La lecture chrétienne du Psaume 8 à l’école de la Bible», ibidem 18 (1957) 85-93; B.S. CHILDS, «Psalm 8 in the context of the Christian Canon» in Interpretation 23 (1969) 20-31; H. RINGGREN, «Psalm 8 och kristologien», in Svensk Exegetisk Årsbok 37-38 (1972-73) 16-20; F.J. MOLONEY, «The Targum on Ps 8 and the NT», in Salesianum 37 (1975) 326-336. 17 292 Saggi di esegesi - Il creatore, l’uomo e l’universo (Sal 8) fratello dell’umanità20, ma anche quella escatologica di Qumran riletta però alla luce dell’evento pasquale. Il Sal 8 diventa allora una profezia del Cristo risorto, il programma ideale d’una nuova umanità e di un mondo riordinato. Citando il v. 7 del salmo, Paolo scrive in 1Cor 15,26-27: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi». E, in Ef 1,22, colui che «ha sotto i suoi piedi ogni cosa» è esplicitamente il Cristo risorto: «Tutto infatti ha sottomesso suoi piedi, costituendolo su tutte le cose...». E questo avviene proprio perché il Cristo glorioso è stato anche nostro fratello attraverso l’umiliazione dell’incarnazione: «Pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Anzi, per la seconda lettera di Pietro lo svelamento del nuovo uomo perfetto lo si ha già nell’anticipazione pasquale della trasfigurazione: «Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria quando, dalla maestosa gloria, gli fu rivolta questa voce: Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto» (2Pt 1,17). In questa linea cristologica si potrebbe allegare la riflessione paolina sull’Adamo primigenio peccatore e sul secondo Adamo, Cristo, Spirito vivificante (1Cor 15,45ss; cfr. Rm 5,12ss; 1Ts 2,15-16). Anche l’umanità intera attende questo destino glorioso inaugurato dal Cristo. La Lettera di Barnaba dice: «Chi può ora comandare alle bestie, ai pesci e agli uccelli del cielo?... Ora questo non avviene. Ma quando avverrà ci è stato detto: quando anche noi saremo perfetti e potremo ereditare il testamento del Signore» (6,18-19). 20 H. FELD, «Der Humanistenstreit um Hebr 2,7 (Ps 8,6)», in Archiv Reformgesch. 61 (1970) 533; cfr. P. GRELOT, Sens chrétien de l’AT, Tournai 1962, 473-474 e I. ENGNELL, «The ‘Ebed Yahwe Songs and the suffering Messiah in Deutero-Isaiah», in BJRL 31 (1948) 29-41. Per i testi paolini citati vedi G. BARBAGLIO - R. FABRIS, Le lettere di Paolo, 3 voll., Roma 1980. Per una rilettura cristologica del salmo vedi anche le note al Sal 8 di W. VISCHER, Psalmen, Basel 1944. PREGARE LA VIOLENZA? I SALMI DI VENDETTA* Nel Salterio vi sono alcuni poemi che presentano una particolare difficoltà per il lettore del libro, e più ancora per colui che tenta di pregare con esso. Sono i salmi cosiddetti di esecrazione o di vendetta. Eppure, il desiderio di vendetta è un sentimento a noi ben noto. Sappiamo che può covare a lungo nell’attesa della sua ora. In tal caso, il rancore di cui si nutre rende la vendetta tanto più terribile quanto più a lungo esso ha corroso il cuore e la mente. Come dice un noto proverbio, la vendetta non è forse un piatto da mangiarsi freddo? Sentimento umano, tanto umano che ci colpisce tutti. Ma anche sentimento disumano, che porta ad uccidere e annientare, non appena l’uomo trova uno spazio in cui dare libero sfogo alla violenza che rumina nel suo intimo. Questo sentimento di vendetta, del resto, non gode buona fama. «Non è bello vendicarsi», diciamo ai bambini per educarli alla responsabilità. Ma contentarsi di colpevolizzare la vendetta o il desiderio di vendetta non risolve niente. Negata, repressa, questa è ancora più pericolosa, poiché allora essa cerca in noi altre vie per appagarsi, talvolta persino senza che noi ce ne rendiamo conto. Quanti risentimenti inspiegati, quante asprezze, quante animosità contro noi stessi o contro altri non hanno la loro fonte in tali vendette represse e sepolte per sempre? È strano che, nel mondo cristiano, non si sia trovata, per assumere la voglia di vendetta, una via di mezzo tra la repressione colpevolizzata e il passaggio all’azione. Ed è tanto più strano in quanto la Bibbia abbozza una tale via quando accoglie nella sua preghiera delle grida di odio e degli appelli alla vendetta. In fondo, prendere la parola per esprimere il sentimento che invade l’anima e il corpo, non è forse un modo per cominciare a umanizzarlo, per tentare di aver presa su di lui affinché lui non possa aver presa su di noi? Riconoscere che siamo esseri umani fino nel desiderio di vendetta, non è forse già renderci capaci di inventare altre soluzioni rispetto alla violenza? Non è forse per questo, in fondo, che YHWH viene a parlare con Caino? Dapprima lo invita ad aprire gli occhi sul lato disumano presente in lui con tutta la sua violenza: alla porta – dice – il peccato è accovacciato (come una belva) e verso te è il suo impeto. Contemporaneamente, suggerisce che esiste più di un modo per uscire da questa situazione: Se agisci bene... se non agisci bene... Tu, puoi dominarlo (Gen 4,7). Ma Caino non apre la bocca su ciò che accade in lui. Senza una parola, si erge contro suo fratello e lo uccide. Ah! Se Caino avesse potuto trovare delle parole... Più tardi, Giuseppe lo farà e, una volta dominata la propria vendetta, egli inventerà una via di riconciliazione tra fratelli (Gen 37–50). Di fronte alla violenza nutrita dal desiderio di vendicarsi di un’ingiustizia subìta o inventata, l’Antico Testamento indica un cammino: la parola, che umanizza ciò che rischia sempre di rimanere disumano. A questa parola che propone, esso dà corpo nei salmi cosiddetti di vendetta o di esecrazione. Ma le Chiese, il più delle volte, hanno bandito dalla loro preghiera questi salmi che, a quanto pare, esse ritengono indegni del vangelo. Ma perché dunque togliere così la parola alla vendetta, negandole nel contempo una probabilità di diventare meno disumana? Se infatti, come il Salterio dimostra, questo sentimento può dirsi nella preghiera, è perché non deve essere considerato come indegno dell’uomo o di Dio. Al contrario. Se, crescendo nell’essere umano, esso mette in pericolo la vita e la pace, allora riguarda Dio e il suo sogno di creatore. È quanto riconoscono implicitamente i salmi di maledizione. Nella misura in cui le si concede di accedere alla parola, la vendetta può decantarsi e ricentrarsi su quanto sta alla sua fonte: il sentimento di un’iniquità, di una violenza ingiustamente subìta; essa può allora dirsi come tale prendendo Dio a testimone, lui di cui si proclama che è un giusto giudice. Quando infatti qualcuno cerca così di esprimere la sua sete di vendetta, è condotto in qualche modo ad esplorare il suo sentimento, possibilità offerta di condurlo alla * A. WÉNIN, Entrare nei Salmi (Studi biblici 41), Bologna 2002, 113-142. 294 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta sua verità e di purificarlo a poco a poco della sua aggressività negativa man mano che questa trova modo di esprimersi. A maggior ragione se questa parola viene espressa davanti a Dio. Certo, questo non affrancherà l’espressione dal suo carattere eccessivo, che è il segno di una grande sofferenza. Ma questo le consentirà forse di essere meno ingiusta nella misura in cui si esorcizza in tal modo la violenza che è generata dal sentimento dell’ingiustizia e dal desiderio di vendetta che ne deriva. Nelle pagine che seguono mi prefiggo di leggere due salmi di questo genere (Sal 83 e Sal 58) e di alludere ad un terzo (Sal 94), senza soffermarmi sui brani vendicatori di altri salmi spesso censurati nella liturgia delle Ore. Infatti, questi tratti sono normali nell’ambito della supplica salmica di cui ho parlato sopra. Che cosa può infatti chiedere a Dio un salmista schiacciato dai fautori di male, se non di poter sfuggire loro? In un contesto del genere, l’auspicio di vedere costoro fallire nel loro progetto di morte o di vederli precipitati da Dio nel tranello che hanno preparato è solo un’espressione tra le altre della speranza di una salvezza decisiva che farà la gioia dei giusti tratti finalmente in salvo (Sal 28,4-5; 35,4-8.24-26; 40,1516; 55,16; 56,8; 63,10-11; 69,23-29; 79,6-7.12). Allo stesso modo, se l’arma dei malvagi è la lingua, la menzogna e le calunnie, è comprensibile che il giusto desideri vedere privi delle loro armi e ridotti al silenzio coloro il cui linguaggio è disumano perché uccide (Sal 31,18b-19; 35,20-21.25; 59,6b-9; 63,12; 140,10-12). Dopo tutto, volere la morte del male e della morte è un modo come un altro di affermare una volontà di alleanza con quel Dio che odia il male e la morte perché ama la vita (Sal 139,19-22). E, dopo il Sal 2, cosa c’è di più naturale se non invocare YHWH per la vittoria del Messia nella lotta dove lo attirano i malvagi (Sal 21,9-13; 110,6)? Del resto, se la violenza di queste preghiere ci mette a disagio, è sufficiente prendere un po’ di distanza e fare dei nemici un simbolo del male da combattere. Ma, prima di questo, è forse bene chiedersi perché ci disturba il fatto di trovare nel Salterio una violenza dovunque diffusa nell’uomo, nelle società e nella storia... Abbiamo forse paura che la Bibbia ci rinvii alla nostra propria violenza che secoli di educazione cristiana hanno cercato di rimuovere, senza voler accorgersi degli effetti perversi che tali repressioni producono?1 1. IN NOME DELL’ALLEANZA: IL SALMO 83 Il Sal 83 è una preghiera collettiva di Israele, che chiede al proprio Dio di essere liberato dalle nazioni che vogliono la sua rovina. In fondo, questo poema presuppone un’ideologia vicina a quella delle «guerre del Signore» dove, senza intervento umano significativo, Dio libera il suo popolo da un grave pericolo. Ma leggiamo innanzitutto il testo2. 1 Canto. Salmo. Di Asaf. 2 Dio! Nessun riposo per te, non essere muto / sordo e non essere inerte, Di[o]! 3 Sì, ecco i tuoi nemici tumultuano; quelli che ti odiano hanno alzato la testa. Contro il tuo popolo tramano in segreto e intrigano contro i tuoi nascosti (= il tuo tesoro). Dicevano: «Suvvia! Sopprimiamoli come nazione, che il nome di Israele non sia più ricordato!». 4 5 1 A tal proposito, vedere anche il dossier collettivo «Pour ou contre les psaumes d’imprécation?», in La Vie Spirituelle 122 (1970) 291-336, e l’articolo di P. BEAUCHAMP, «Violence et Bible. La prière contre les ennemis dans les Psaumes», in Documents Episcopat 11 (juin 1986) 1-11. 2 Questo studio deve molto all’articolo di Bruna COSTACURTA, «L’aggressione contro Dio. Studio del Salmo 83», in Biblica 64 (1983) 518-540. Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 295 Sì, intrigano con un solo cuore, contro di te concludono un’alleanza: le tende di Edom e degli Ismaeliti, Moab e gli Agareni; Gebal e Ammon e Amalek, la Filistea con gli abitanti di Tiro; anche Assur si è coalizzato con loro, sono un braccio per i figli di Lot. Sèlah Fa’ a loro come a Madian, come a Sisara e Iabin al torrente Kison: furono sterminati a Endor, furono concime per il suolo. Rendili, i loro principi, come Oreb e come Zeb, come Zebee e Sàlmana, tutti i loro capi, quelli che dicevano: «Prendiamo per noi in eredità le oasi (= proprietà) di Dio!». Mio Dio, rendili come un turbine, come paglia davanti al vento. Come un fuoco che divora una foresta, come una fiamma che avvampa montagne, così li inseguirai nella tua tempesta, nel tuo uragano, li spaventerai. Colma il loro volto di confusione, cerchino il tuo nome, YHWH! Siano confusi e spaventati per sempre, siano disonorati e periscano / si perdano! Sappiano che tu, il tuo nome (è) YHWH, tu solo, Altissimo su tutta la terra. 1.1. OSSERVAZIONI SULLA STRUTTURA LETTERARIA 1.1.1. Le simmetrie nel poema Il nome di Dio non compare quasi mai in questo salmo. Al vocativo, lo si trova solo all’inizio, al v. 2 (Dio!, 2 volte) e ai vv. 17 e 19 (YHWH!). L’ultima ricorrenza di questo nome al vocativo si trova al v. 14 (mio Dio!), ma lì, questa appare come risposta alle dicerie dei nemici che parlano di Dio come di un avversario da spogliare (i domini di Dio, v. 13). In tal modo, in base alla ripetizione di uno stesso nome divino, si può notare un’inclusione tra l’inizio e la fine del salmo, restando inteso che i vv. 17-19 formano una strofa conclusiva, inquadrata anch’essa dalle parole il tuo nome, YHWH. Il centro del poema è segnato dal termine sèlah, una parola oscura che ricorre abbastanza di frequente nel corpo dei salmi e che viene generalmente intesa come un’indicazione di pausa. Qui, questa «pausa» è preceduta e seguita da un elenco di nemici di Israele. Ai vv. 6-9 si cita una serie di popoli che si coalizzano contro Dio (v. 6). Ai vv. 10-13 si tratta di una lista di re e di capi il cui progetto viene descritto da una citazione al v. 13. Tali sono le due strofe centrali che sembrano rispondersi l’un l’altra. Ciascuna annovera quattro versi di due stichi. I limiti fin qui determinati lasciano isolati due blocchi esterni: il primo dopo l’introduzione (vv. 3-5), l’altro prima della conclusione (vv. 14-16). Sono due nuove strofe, di tre distici questa volta. La prima evoca l’insurrezione dei nemici e il progetto che fomentano contro Israele. La seconda, quasi fosse un’eco, è un appello indirizzato a Dio perché agisca con potenza contro questi nemici minacciosi. 1.1.2. Struttura e logica d’insieme Tra l’introduzione (v. 2) e la conclusione (vv. 17-19), il salmo si sviluppa in due parti composte di due strofe ciascuna. Nella prima, le due strofe iniziano con una esclamazione (sì!), 296 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta descrivono «l’intrigo» (vv. 4 e 6, stesso verbo) immaginato da nemici, i quali vengono successivamente elencati per nome. Quanto alle due strofe della seconda parte, esse iniziano con un appello a Dio e comportano una stessa espressione (rendili come..., vv. 12 e 14). Infine, si noterà che la fine della prima strofa di ciascuna parte riferisce un discorso dei nemici (vv. 5 e 13: dicevano). Queste due citazioni esplicitano del resto il progetto dei nemici contro Israele. Isolando introduzione e conclusione, è possibile, secondo me, determinare lo scopo essenziale della preghiera. Essa tende a far sì che Dio abbandoni l’indifferenza che il salmista crede di percepire in lui, dato che non ottiene risposta alcuna alle sue invocazioni (v. 2). Se, ascoltando il suo grido, Dio si mette ad agire per confondere i nemici, potrà farsi conoscere da essi con il suo nome: YHWH, Altissimo su tutta la terra (vv. 17-19). In altre parole, la posta fondamentale che il salmista sceglie di mettere in evidenza per esortare Dio ad agire in favore di Israele, si trova in questa domanda: in che modo Dio può farsi conoscere nella situazione di pericolo che il suo popolo vive? Se si considera il corpo del salmo, ci si imbatte in un paradosso. Infatti, da una parte, il progetto dei nemici è diretto contro Israele (vv. 4-5) e contro Dio (v. 6); ma dall’altra, la risposta è presentata come faccenda esclusiva di Dio, che può agire con l’aiuto degli elementi della creazione (vv. 14-16). Israele sembra dunque ridotto all’impotenza di fronte alla coalizione che lo attacca, e aspetta la salvezza da Dio solo. Se Dio passa all’azione di fronte ai nemici di oggi, si mostrerà fedele a se stesso, a quanto ha fatto ieri con gli aggressori del suo popolo (vv. 10-12). 1.2. UNA CONTRO-ALLEANZA (VV. 2-9) 1.2.1. L’invocazione di aiuto (v. 2) Il v. 2 costituisce l’apertura della preghiera. È un appello pressante, inquadrato da due invocazioni a Dio. Tra le due, leggiamo tre espressioni con la negazione, di cui due verbi all’imperativo. La prima di queste espressioni è relativamente rara. Il termine centrale significa «riposo, sosta, calma o silenzio»: indica la posizione di ripiego cui Dio sembra attenersi, perlomeno agli occhi del salmista. Due verbi completano il quadro. Il primo esprime una duplice idea di sordità e di mutismo (Sal 28,1-2; 35,22; 39,13; 109,1): sottolinea il rifiuto di prendere atto di una situazione e di intervenirvi. Così Dio sembra essere totalmente estraneo alla realtà su cui l’orante desidera attirare la sua attenzione. Quanto al secondo verbo, esso è un sinonimo della prima espressione: torna dunque sull’idea di calma, di riposo e di tranquillità che stigmatizza l’apparente indifferenza di Dio di fronte alla situazione. 1.2.2. Il complotto (vv. 3-5; cfr. vv. 6.9.13) Dopo questo esordio, la prima strofa si sofferma a descrivere il complotto che rende drammatica la situazione di Israele e che giustifica la richiesta di aiuto da parte del salmista. Dai soggetti e dai verbi utilizzati in questi versi emergono due idee principali. Dapprima quella di un’insurrezione, di una ribellione (tumultuare e alzare la testa), che suggerisce un nuovo stato di cose, inconsueto e minaccioso. Questa rivolta è dovuta a nemici di Dio che provano odio nei suoi confronti, un sentimento che li porta a concludere un patto, a mettersi unanimemente d’accordo in vista di un’aggressione (tramare, intrigare, concludere un’alleanza e coalizzarsi, v. 9). Ritroviamo qui una situazione già evocata dal Sal 2. Ma chi è il bersaglio di questo attacco? Qui, constatiamo un’imprecisione probabilmente significativa. Talora si tratta di Dio (v. 3: i tuoi nemici, quelli che ti odiano), talora di Israele (v. 5: sopprimiamoli, il nome di Israele), talora ancora di Israele in quanto è legato a Dio (v. 4: il tuo popolo, quelli che tieni nascosti, ossia il tuo bene prezioso). Al v. 5 il salmista enuncia chiaramente l’intento dei nemici: a suo avviso, essi progettano di eliminare in quanto nazione (gôy) il popolo (‘am) che lui stesso considera come il popolo di Dio, il suo tesoro. È possibile chiarire il suo pensiero? Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 297 In fondo, i nemici coalizzati si oppongono, forse senza saperlo, ad un’alleanza: quella che lega Israele e il suo Dio e che è ricordata dai due termini che designano Israele nel v. 4. Con quest’alleanza, la sorte di Dio e quella del popolo sono intimamente legate così che se Israele scompare, Dio stesso è minacciato. Come dice un midrash sul Sal 18,5: «Finché Israele esiste, egli è chiamato Dio di Israele; ma se Israele viene distrutto, Dio di chi è chiamato?». Infatti, se Dio permette che il suo popolo scompaia – questo, penso, è l’argomento sotteso –, o egli è infedele all’alleanza, o è incapace di salvare. Ma, in entrambi i casi, la sua identità di Dio unico e salvatore viene messa in discussione. In poche parole, se Israele è minacciato da nemici, anche Dio lo è: se costoro infatti intrigano contro Israele (v. 4), le loro manovre prendono necessariamente di mira anche il Dio alleato di questo popolo (v. 6a). Così, sotto il complotto diretto nei fatti contro Israele (il v. 5 non menziona Dio), il salmista scopre una contro-alleanza diretta in realtà contro Dio, l’artefice e il garante dell’alleanza con Israele: è contro di te che concludono un’alleanza (v. 6b). Il v. 13 andrà nello stesso senso, poiché lì, secondo il salmista, il progetto dei nemici è di impadronirsi del frutto dell’alleanza: i domini di Dio affidati in eredità a Israele. In tal modo, per Israele, la minaccia non è solo di scomparire dalla lista dei popoli (v. 5a); è altresì di vedere l’alleanza abolita nella misura in cui Dio stesso non si ricorderebbe del nome di Israele (v. 5b)3, lui il cui ricordo è così spesso l’inizio della salvezza (cfr. Gen 9,15-16; Es 2,24-25; 6,58; Sal 9,13; 115,12). 1.2.3. I nemici coalizzati (vv. 6-9) Se si considera adesso la lista dei nemici che hanno sigillato tra loro questa alleanza contro-alleanza, si constata che la maggior parte sono nemici tradizionali di Israele, a cominciare da Edom. Questo Edom non è forse Esaù, il fratello nemico di Giacobbe-Israele (Gen 25,2134; 27,1–28,9)? La tribù del sud-est del Mar Morto, a cui è stato dato il suo nome, è celebre nella Bibbia per la sua ostilità verso Israele. Fin dalla traversata del deserto, gli edomiti si rifiutano di lasciar passare il popolo uscito dall’Egitto (Nm 20,14-21 e Gdc 11,1617), inoltre, dopo il ritorno dall’esilio, il Cronista ne farà uno dei popoli coalizzati che tenta di espellere Israele dalla sua terra (2Cr 20,10-12.15). Arrogante e orgoglioso (Ger 49,16; Abd 1-4), Edom, secondo Ezechiele, si è rallegrato della distruzione di Gerusalemme (Ez 25,12-14). I quattro popoli seguenti – a parte lo strano Gebal di cui dirò una parola più avanti – sono, come Edom, imparentati con Israele fin dalle origini. Infatti, se ne trovano tracce nella storia di Abramo. Gli ismaeliti, nomadi difficilmente localizzabili, sono considerati come i discendenti del figlio di Abramo, il quale, nel racconto della Genesi, costituisce la prima minaccia per la promessa di cui Isacco è il beneficiario (cfr. Gen 16; 21). Con essi, vengono menzionati gli agareni, un popolo peraltro poco citato (Bar 3,23; 1Cr 5,10.19-20 e 27,31), il cui antenato eponimo altri non è che Agar, la madre di Ismaele. Quanto a Moab e Ammon, essi sono i figli di Lot, nipote di Abramo (Gen 19,30-38). I popoli transgiordani, che li considerano come loro avi, abitano rispettivamente ad est e a nord-est del Mar Morto. Secondo Dt 23,4-7, essi sono esclusi per sempre dall’assemblea di Dio – contrariamente a Edom, il popolo fratello (v. 8). Ez 25,1-11 li associa del resto nella maledizione. Questo perché Moab ha cercato di sbarrare il passaggio a Israele all’epoca del suo passaggio in Transgiordania (Nm 22–24). I profeti, dal canto loro, lo vedono come un popolo orgoglioso che insorge contro Dio (Is 16,6; Ger 48,2527.42). Infine, per quel che riguarda Gebal, in lui si è visto il nome ebraico di Biblos, ma è parimenti possibile che si tratti di un altro popolo arabo della Transgiordania. Al contrario dei popoli precedenti, Amalek, la Filistea e Tiro non sono imparentati con Israele. Situati a sud, ad ovest e a nord della terra di Canaan, sono degli stranieri la cui presenza è stata spesso minacciosa per il popolo eletto. Amalek, una tribù nomade del Negev, 3 Il passivo non sia più ricordato, al v. 5b, potrebbe infatti avere ugualmente Dio come agente, lui di cui si dice spesso che si ricorda della sua alleanza (Dt 4,31; Ez 16,60; Sal 105,8-9). 298 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta rappresenta persino un nemico tipo di Israele: non è forse lui il primo aggressore del popolo di Israele appena uscito dall’Egitto (Es 17,8-16)? Questa nazione che non teme Dio (Dt 25,18) è votata alla scomparsa (Dt 25,17-19; cfr. Nm 24,20 e 1Sam 15 e 30). Persino più di Amalek, i filistei appaiono come nemici tradizionali in Israele. Oppressori del popolo all’epoca dell’instaurazione della monarchia (Gdc 10,7; 13–16; 1Sam 4; 7; 13–14; 17; 27–31; 2Sam 5,17-25), cattureranno l’arca di Dio, cercando di trattenere il Signore nel loro paese (1Sam 4–6). I profeti li trattano come pericolosi nemici di Israele (Is 14,28-31; Ger 47,1-7; Ez 25,15-16; Zc 9,58). È ugualmente il caso di Tiro (Ger 47,4; Ez 26–27), città orgogliosa della sua prosperità (Is 23,8-9; Ez 27,25), il cui re si dice Dio (Ez 28,1-10) e cerca di vendicarsi del Signore (Gl 4,4). Questa città è situata a nord-ovest di Israele, sulla costa dell’attuale Libano. Poiché l’espressione i figli di Lot riprende i clan di Moab e di Ammon citati prima, l’ultimo nemico di questo elenco è Assur, nome biblico dell’Assiria. Si tratta della grande potenza che ha retto tutto il Vicino Oriente dal IX secolo fino alla sua rovina alla fine del VII secolo. È stato lui a distruggere il regno di Israele nel 721 prima di mettere Gerusalemme e Giuda in un’incresciosa situazione (2Re 17,1-6; 18,9–19,37; Is 36–37). Assur è visto in Israele come una nazione che pretende il potere assoluto e non dimostra che disprezzo per il Signore, il Dio di Israele (2Re 18,28-35; 19,10-13; cfr. 2Cr 32) contro il quale trama il male (Na 1,11). La menzione, alla fine dell’elenco, dell’appoggio assiro ai coalizzati (sono un braccio per i figli di Lot) sottolinea la forza irresistibile dei popoli che insorgono contro Israele per attaccarlo. Un rullo compressore sembra essersi messo in moto. 1.3. INVOCAZIONE DI AIUTO (VV. 10-19) 1.3.1. Un Dio capace di vincere i suoi nemici (vv. 10-13) Dopo la lunga descrizione dell’insurrezione delle nazioni, il salmista riprende il grido che apriva la sua preghiera per svilupparlo positivamente. Non essere né sordo né muto (v. 2) significa agire, come sottolinea il primo termine del v. 10 (fa’). Per invitare YHWH a passare all’azione, il poeta evoca due grandi vittorie riportate nel passato contro coalizioni di nemici che minacciavano l’esistenza di Israele. Questo richiamo al passato, integrato con la supplica, fonda la competenza di Dio che si è mostrato capace di salvare il suo popolo da un pericolo estremo, esprimendo nel contempo la fede basata su una tale storia della salvezza. I nomi propri citati nei vv. 10 a 13 si ricollegano a due episodi diversi dell’inizio del libro dei Giudici. Indicano realtà differenti: un popolo (Madian), dei luoghi (il torrente Kison ed Endor) e dei re o dei generali nemici uccisi in occasione della vittoria di Israele (Sisara e Iabin; Oreb e Zeb, Zebee e Sàlmana). La sequenza di questi nomi è un po’ strana: nel libro dei Giudici, Madian, citato al v. 10a, si accompagna ai nomi dei principi del v. 12. Quanto a Endor (v. 11a) non vi compare mai come luogo di vittoria o di esecuzione di nemici; d’altronde, potrebbe trattarsi di un errore, poiché la vittoria su Madian è collocata, da Gdc 7,1, vicino a Carod. Tutto ciò tende a mostrare che questa lista di nomi cerca di evocare poeticamente due antichi episodi, non senza una certa confusione del resto, per quanto il salmo alluda alle tradizioni così come sono state riprese dall’autore del libro dei Giudici. Se è il caso, la confusione potrebbe essere intenzionale. Inviterebbe allora a cercare il punto comune che consente di amalgamare questi due ricordi. Ma osserviamoli un po’ più da vicino. La frase Sisara e Iabin al torrente Kison (v. 10b) rimanda alla vittoria di Debora e Barak contro i cananei del nord del paese, guidati proprio da Sisara, capo dell’esercito di Iabin, re di Cazor (Gdc 4). Uno dei tratti caratteristici di questo racconto è di mettere in evidenza due donne il cui intervento è decisivo per la vittoria di Israele. Debora, profetessa e giudice, lancia la campagna militare e ad essa si unisce per spalleggiare Barak, che ha insediato come capo di guerra in Israele e che sollecita la sua presenza al suo fianco. Peraltro, il trionfo di Israele non è completo se non quando un’altra donna, Giaele, uccide con astuzia Sisara che aveva trovato rifugio nella tenda di lei. Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 299 Quanto agli altri nomi della lista dei vv. 10a e 12, essi si riferiscono alla vittoria riportata da Gedeone sui madianiti che opprimevano Israele (Gdc 7–8) e i cui capi, Oreb e Zeb, Zebee e Sàlmana, menzionati al v. 12, vengono uccisi al termine di un inseguimento. Questo si prolunga, nel racconto, con la selezione di un piccolo gruppo di soli trecento uomini che Gedeone conduce in un’incursione vittoriosa contro il campo dei madianiti. È lo stesso YHWH a disperdere questi nemici dopo aver seminato il panico nel loro campo. Quali tratti hanno in comune queste due vittorie di Israele che conosciamo dal racconto del libro dei Giudici? Innanzitutto, esse si collocano in momenti particolarmente difficili della storia del popolo. Ma ciò che sembra più decisivo è il fatto che sono vittorie garantite da Dio stesso. È quanto sembra indicare in ogni caso la debolezza dei mezzi umani, elemento sottolineato in entrambi i racconti da tratti diversi: l’intervento di donne, da una parte, e la piccolezza del gruppo di Gedeone, dall’altra. Per di più, nei due casi evocati, la sorte e l’onore del Signore sono in gioco nella misura in cui l’alleanza è minacciata, perlomeno nel suo segno duraturo: il dono del paese promesso. È quanto mette in rilievo il v. 13 del salmo: Spossessiamo(li) per noi dei domini di Dio. L’idea di eredità, inclusa nel verbo utilizzato per dire spossessare o confiscare a proprio vantaggio, potrebbe sottolineare che la terra bramata dai nemici è proprio l’eredità offerta da Dio al suo popolo perché se la trasmetta come segno della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Tutti questi tratti possono far pensare alla situazione descritta nella prima parte del salmo: Israele è ridotto agli estremi e aspetta la sua liberazione da un intervento di YHWH in modo che l’alleanza possa rimanere in vigore a vantaggio di Israele e del Signore stesso. Ma è possibile rilevare un ultimo punto comune suggerito dallo stesso salmista nella sua richiesta: i capi nemici sono morti di morte ignominiosa. Infatti, il silenzio dei racconti sembra consentire al poeta di precisare che sono rimasti senza sepoltura: Furono concime per la terra (v. 11b). Ed è proprio una morte del genere che il salmista sembra augurare agli aggressori del suo popolo. 1.3.2. L’annientamento dei nemici (vv. 14-16) La seconda strofa sviluppa il castigo desiderato e richiesto a Dio per i nemici. Grossomodo, l’intervento divino è concepito, e in ogni caso descritto, come una catastrofe naturale che implica un vento di tempesta e un incendio. Un’immagine del genere suggerisce già che Dio solo è all’opera, poiché gli uomini non hanno potere alcuno sugli elementi evocati. Ma c’è di più, poiché vento e fuoco fanno parte dell’arsenale che Dio può dispiegare quando si tratta di salvare Israele. Non li troviamo forse già nel racconto del miracolo del Mar Rosso, l’archetipo della liberazione di Israele (Es 14)? Tuttavia sarà utile vedere come vengono impiegati in questo salmo, per valutare la portata specifica di questa invocazione. In realtà, in questa strofa, due menzioni del vento (vv. 14 e 16) inquadrano la breve descrizione del fuoco (v. 15). Il v. 14a, che parla di qualcosa che gira o che rotola, non è chiaro. A prima vista verrebbe da pensare al turbine del vento che trascina via tutto, ma in questo caso il verbo non è molto consono all’immagine. Perciò alcuni studiosi preferiscono vedere qui l’immagine di un piccolo cespuglio o di un ammasso di rovi sradicati che il vento sospinge e che va avanti rotolando. Questa seconda interpretazione potrebbe essere confermata dal parallelo della paglia facilmente sollevata e sparpagliata dal vento, immagine frequente accanto a quella della pula (v. 14b: cfr. Sal 1,4; 35,5; Is 40,23-24; 41,2; Ger 13,24; Gb 13,25; 21,18). Ad ogni modo, questo versetto esprime la fede del supplice nel fatto che, di fronte a Dio, i nemici sono inconsistenti, non hanno alcun peso. Il v. 16 completa quest’immagine mettendo in evidenza il potere di Dio: egli è in grado di inseguire e spaventare i suoi avversari, tanto è grande la potenza che può dispiegare contro di essi. La tempesta e l’uragano aggiungono infatti al vento del v. 14 l’idea di una forza che nulla può fermare. Il v. 15, invece, abbozza l’immagine del fuoco che incendia la foresta in modo tale che la montagna diventa un immenso braciere. È l’evocazione di una distruzione totale e, al tempo 300 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta stesso, visibile: un annientamento spettacolare. Quest’immagine è anch’essa comune nell’Antico Testamento (cfr. anche Is 10,16-19; 29,6; 30,27.30.33; Ger 21,14; Ez 21,3). Peraltro, la descrizione di un «fuoco» che avvampa la «montagna» riveste, nella Bibbia, un aspetto teofanico in riferimento alla manifestazione di Dio nel fuoco sul monte del Sinai (cfr. Es 19,18 e 20,18). Stando così le cose, la sceneggiatura stessa della distruzione dei nemici potrebbe far apparire chi ne sia l’autore: il Dio dell’alleanza («mio Dio», v. 14a) che opera per il bene del suo popolo. Attraverso queste due immagini del vento e del fuoco, un’altra si profila in filigrana nella descrizione abbozzata. È quella di una campagna militare. La lotta iniziata al v. 14 si conclude al v. 15 con la disfatta e la rovina dei nemici e si prolunga nell’inseguimento degli scampati che fuggono spaventati (v. 16). Riconosciamo qui lo schema tipo dei racconti di battaglia del libro dei Giudici, schema presente proprio nei due racconti di guerra evocati dalla lista dei nomi della prima strofa di questa parte (vv. 10-12). Questo elemento sottolinea la coerenza del poema. Ma non si deve dimenticare la forma nella quale tali immagini vengono sviluppate. Si tratta proprio di un’invocazione d’aiuto, di una preghiera, espressione della fiducia che il salmista pone in YHWH, del quale confessa in questo modo la capacità di vincere la coalizione nemica. 1.3.3. Disfatta e riconoscimento di Dio (vv. 17-19) L’ultima strofa si presenta come un’ultima chiamata in aiuto, centrata, come del resto tutta la seconda parte, sulla sorte auspicata ai nemici. Essa descrive il risultato finale dell’intervento divino come lo considera colui che prega. Questo esito definitivo comporta due aspetti, in apparenza contraddittori, annunciati al v. 17 e ripresi il primo al v. 18 e l’altro al v. 19: la vergogna della disfatta e il riconoscimento di Dio. I vv. 17a e 18 sono saturi di un vocabolario che connota la disfatta. I termini sono presi soprattutto dal lessico della vergogna e li ritroviamo a più riprese nei salmi di supplica: riempire di confusione, vergognarsi, essere spaventato, essere disonorato, perire o perdersi (cfr. Sal 6,11; 35,4.26; 40,15-16; 70,3; 71,13-24b ecc.). Questi tre stichi prolungano così l’immagine della guerra utilizzata nella strofa precedente. Ne formano addirittura il punto culminante: la vergogna della disfatta inflitta ai nemici. L’altra richiesta del salmista (vv. 17b e 19) mira al riconoscimento di Dio da parte dei vinti, ed è con essa che si conclude la preghiera. L’essenziale della richiesta non è quindi soltanto che il nemico sia sconfitto. È ancor più il riconoscimento di Dio come Signore, sovrano unico, Altissimo e signore della terra intera. In poche parole, al termine della preghiera, il salmista sottolinea che l’intervento di Dio a favore di Israele può volgersi anche a vantaggio del primo. Riportando infatti la vittoria sui fautori di male, Dio dimostrerà chi è; manifesterà la sua verità agli occhi di tutti. Quanto alla sorte finale dei nemici, essa non emerge molto chiaramente da quest’ultima strofa: sono annientati e immersi nella vergogna, oppure si mettono a cercare il nome del Signore? La loro fine è la distruzione o la conversione? Da parte mia, vedo due modi di articolare i dati della strofa per tentare di superare questo paradosso. Il primo ricorre al paradigma del Faraone nel libro dell’Esodo. Durante tutto il racconto delle piaghe, quest’ultimo si ostina nel suo rifiuto di riconoscere YHWH (Es 5,2); alla fine deve arrendersi, subito prima di essere precipitato con il suo esercito nel mare, quando vede in YHWH il suo vincitore (Es 14,25; cfr. 7,5). Infatti l’estrema parola dell’Egitto è per riconoscere Dio, il cui intervento liberatore a favore di Israele significa, per l’Egitto, confusione, disfatta e morte4. Un’interpretazione del genere è perfettamente in linea con ciò che precede. Ma non è l’unica possibile. Un secondo modo di capire il paradosso consisterebbe nel supporre che il salmista desidera davvero che l’intervento di YHWH sia anche per la salvezza dei nemici e che 4 Vedere in tal senso Ez 35,4.9 per Edom, 25,7.11 per Ammon e Moab e 25,17 per i filistei. Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 301 costoro si lascino istruire dalla loro disfatta e dalla liberazione del popolo amico di Dio. In tal modo, il Signore si mostrerebbe realmente l’Altissimo su tutta la terra (v. 19b) e sarebbe riconosciuto tale, non soltanto da Israele finalmente salvato, ma anche dai suoi nemici finalmente illuminati (cfr. Sal 2,10-12). Queste due interpretazioni del paradosso sono possibili, e non so se è necessario decidere per l’una o per l’altra in modo categorico. Dopo tutto, se il poema è equivoco, è forse proprio perché il poeta voleva che lo fosse! Qualunque sia l’interpretazione scelta, questa strofa presenta un argomento decisivo che il salmista invoca per essere ascoltato da Dio: affinché il nome di YHWH possa essere riconosciuto (vv. 17b.19), è importante che il nome di Israele non venga soppresso (v. 5). Questa comunanza d’interesse tra Dio e il suo popolo è del resto un tratto tipico dell’alleanza, di cui parla già la prima parte del salmo. 1.4. RIFLESSIONI CONCLUSIVE In fondo, due elementi sottendono questa supplica. Il primo è certamente la paura davanti al nemico. La sua presenza e la sua potenza sono percepite come minacciose, a tal punto che Israele si sente come paralizzato, ridotto all’impotenza. Questo sentimento di panico conferisce alla preghiera il suo carattere violento e aggressivo all’eccesso. Dopo tutto, i soli che non abbiano mai augurato la morte di qualcuno sono probabilmente coloro che non hanno mai sentito la propria vita minacciata, senza poter fare alcunché per difenderla. Ma se il carattere eccessivo della richiesta può spiegarsi con la paura estrema, questa non costituisce la molla essenziale della preghiera. Se infatti il salmista si rivolge a Dio, lo fa in nome dell’alleanza e della lunga storia nel corso della quale, a poco a poco, Dio ha legato intimamente il suo destino a quello di Israele; in nome della libertà che il popolo ha ricevuto e ha impegnato nella fede in colui che l’ha fatto vivere. Se il salmista grida il suo sgomento a YHWH, è perché l’alleanza e la vita gli sono altrettanto care, pur sapendo che, senza la vita, l’alleanza non è più niente. Allora, come se non avesse scampo alcuno, grida la sua paura e la sua fiducia, chiede la vita perché viva l’alleanza. 2. QUANDO LA GIUSTIZIA È COMPROMESSA: IL SALMO 58 Il testo del Sal 58 non è sempre molto chiaro, e ciò non ne rende facile l’approccio. Evidente comunque è il suo tono di preghiera di maledizione5. Ecco un tentativo di traduzione letterale seguita da alcune spiegazioni. 1 Del capo-coro, al-tasheleth. Di Davide. Miktâm. 2 È vero, dèi/potenti, che rendete giustizia? È con rettitudine che giudicate i figli di uomo? No! Con il cuore, voi commettete dei crimini; sulla terra, voi pesate la violenza con le vostre mani. Essi si traviano, i malvagi, fin dalla matrice, errano fin dal ventre, i dicitori di menzogna. Un veleno è in loro, simile a un veleno di serpente; come una vipera sorda, che si tura l’orecchio, che non ascolta la voce degli incantatori, dell’ammaliatore di incantesimi, abile. 3 4 5 6 7 8 5 Dio! Spezza loro i denti nella loro bocca; le zanne di quei leoni, fracassale, YHWH. Scorrano come le acque che se ne vanno! Come l’erba calpestata, appassiscano! Una versione più argomentata di questo punto II è stata pubblicata sotto il titolo «Violence et prière: le Psaume 58», in Cahiers de l’École des Sciences Philosophiques et Religieuses 18 (1995) 129-146. 302 9 10 11 12 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta Siano come la lumaca che se ne va in bava! Come il feto abortito non vedano il sole! <?> Prima che le vostre pentole sentano [la fiammata] di spine, vivo quanto la collera, egli li spazzerà via <?>. Il giusto si rallegrerà perché vede la vendetta; i suoi piedi li laverà nel sangue del malvagio. E gli uomini diranno: «Sì, vi è un frutto per il giusto; sì, c’è un Dio che giudica sulla terra». Dapprima, alcune parole sulle difficoltà di traduzione di questo salmo. Al v. 2a leggiamo il termine ’elem che significa «silenzio», da cui la scelta della TOB in linea con le traduzioni giudaiche antiche («Quando parlate, la giustizia è muta»); ma questa scelta non è delle più soddisfacenti. La maggior parte degli autori preferisce vocalizzare diversamente le consonanti dell’ebraico e leggere ’elîm. Tre significati possono allora essere presi in considerazione, i quali non sono tra loro necessariamente concorrenti. Di per sé, il termine è il plurale del vocabolo ’el, «dio», appellativo che serve talvolta a designare dei sovrani cui si riconosce un potere divino. È il caso, in particolare nel Sal 82,1-6, in cui i giudici iniqui sono interpellati da Dio in modo identico in un contesto simile. Nello stesso senso, una seconda lettura è possibile. Il termine ’el infatti può essere collegato a una radice che vuol dire «essere forte» e può così significare «potente» (cfr. Es 15,11; Ez 32,21; Gb 41,17). Ma in questi testi il termine può essere anche una forma del vocabolo ’ayil, «ariete», titolo simbolico per persone o principi. Quest’ultimo senso potrebbe conferire all’espressione una risonanza ironica. La seconda parte del v. 8 presenta delle difficoltà quasi insormontabili. Gli autori si vedono costretti a trasformare il testo ebraico per renderlo comprensibile. La versione data qui sopra suppone soltanto un leggero ritocco; è accettata da molti moderni. Ma si potrebbe ugualmente tradurre: che [Dio] regoli le sue frecce, essi sono come falciati (traduzione vicina a quella greca dei LXX); o ancora, secondo la proposta di Ravasi: calpestino le loro frecce come quelli che sono falciati. Quanto al v. 10, il suo caso è proprio disperato. Eminenti specialisti rinunciano persino a tradurlo. Poiché siamo ridotti ad avanzare congetture, non possiamo far altro che optare per un’ipotesi. Personalmente, prendo in considerazione quella della TOB che non è molto diversa dalla versione dei LXX. Una soluzione originale è quella proposta da L. Alonso Schökel: All’improvviso (letteralmente: prima che capiscano), che cespugli di spino, belve e incendio li strappino (li trascinino via). 2.1. ABBOZZO DI STRUTTURA LETTERARIA Questo poema è ben delimitato da un’inclusione. Si può infatti accostare il suo inizio e la sua conclusione in base a parole ricorrenti la cui ripetizione segnala il tema globale: giustizia (v. 2) e giusto (vv. 11 e 12); giudicare (vv. 2 e 12); sulla terra (vv. 3 e 12); figli di uomo/uomini (vv. 2 e 12); infine, se la lettura è esatta, dèi (v. 2) e Dio (v. 12). Queste parole, come si vede chiaramente, formano tra loro una specie di costellazione, entro la quale prende forma una tematica. Il problema è quello della giustizia esercitata verso gli esseri umani da coloro che vengono definiti «dèi», cioè potenti. Poiché questa giustizia è piena di iniquità (vv. 2-3), spetta a Dio venire a rendere giustizia agli innocenti (vv. 11-12). È ciò che motiva il grido che risuonerà al centro del poema, con un appello a YHWH (v. 7). Tra l’introduzione e la conclusione, diverse immagini si concatenano, segnate dalla ripetizione della preposizione comparativa come. In realtà, queste immagini mi sembrano corrispondersi due a due, secondo una simmetria incrociata. Troviamo al centro alcune immagini tratte dal bestiario del male: il serpente e la vipera ai vv. 5-6, e i leoni al v. 7, animali menzionati insieme anche nel Sal 91,13a. Una serie di termini anatomici vengono a confermare l’unità di queste frasi: l’orecchio (v. 5), la voce (v. 6), i denti e le zanne (v. 7). Da una parte e Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 303 dall’altra rispetto a questo centro, emergono altre immagini. La prima è quella dell’embrione: alle espressioni fin dalla matrice e fin dal ventre del v. 4 corrisponde il feto abortito del v. 9. Quanto all’immagine della deviazione e dell’erranza di coloro che si perdono (v. 4), essa potrebbe trovare un’eco in quelle delle acque che defluiscono o della lumaca che si squaglia in bava (v. 9). Nella stessa linea, è possibile che il v. 10 evochi la loro totale distruzione. Se le immagini si rispondono in tal modo, esse non hanno tutte la stessa funzione. I vv. 4-6 offrono una descrizione dei malvagi interpellati e accusati fin dalla prima riga. In compenso, ai vv. 7-9, risuona un appello pressante a Dio perché intervenga contro tali malvagi. Le immagini disposte in simmetria concentrica servono dunque dapprima a caratterizzare i nemici, poi a chiedere la liberazione. È l’immagine centrale presa dal bestiario che garantisce la transizione. Un’ultima osservazione riguarda il v. 7: anche se le immagini invitano a situarlo all’inizio della seconda parte, può comunque essere considerato come il centro del salmo, perché è lì che la denuncia si cambia in supplica. Come si vede, la composizione di questo salmo dagli accenti vendicatori e violenti costituisce l’oggetto di una cura particolare. 2.2. PROPOSTA DI LETTURA Per ben delineare la problematica di questo poema e avere tutti gli elementi che consentono di precisare il significato delle sue immagini, è necessario innanzitutto prendere in considerazione l’inizio e la fine della preghiera. Infatti, queste due parti mettono bene in evidenza la situazione drammatica che provoca il grido del salmista, come pure l’intento preciso della sua preghiera. In un secondo tempo tornerò sul simbolismo dispiegato nelle due parti centrali. 2.2.1. Apostrofe ai giudici (vv. 2-3) L’inizio del salmo (v. 2) introduce subito la situazione critica che provoca la preghiera: non c’è più giustizia nel paese (sulla terra, v. 3). Coloro cui è affidata l’amministrazione del diritto e, più globalmente, coloro che esercitano il potere deformano infatti l’esercizio della giustizia e lo pervertono in modo tale che nessuno più tutela il diritto dell’innocente e colui che dovrebbe essere difeso non lo è. Una situazione del genere è descritta più volte dai profeti. Rileggiamo ad esempio Michea: Ascoltate dunque, capi di Giacobbe, magistrati della casa di Israele! Non spetta forse a voi conoscere il diritto, voi che odiate il bene e amate il male? (Mic 3,1-2). Ma perché pregare in questa situazione violenta? Il ricorso al lessico della giustizia al v. 2 («rendere giustizia, rettitudine, giudicare») indica una pista. Questi termini servono per descrivere l’ingiustizia dei potenti in opposizione alla giustizia che, con termini identici, il Sal 51,6b riconosce a Dio. Letteralmente, questo testo dice: Sei giusto nel parlare tu, sei retto nel giudicare tu. Poiché i due pronomi (tu) possono essere grammaticalmente oggetto o soggetto dei verbi, il testo è ambivalente. Da un lato può significare che, se lo si sottopone al giudizio, Dio è dichiarato giusto. In tal caso la frase può essere tradotta così: Tu sei innocente quando perori in tuo favore, tu sei riconosciuto retto quando ti si giudica. Ma, dall’altro lato, la frase può ugualmente affermare che Dio è un giusto giudice: Tu sei fedele alla giustizia quando pronunci la sentenza, tu sei retto quando giudichi. Questo secondo significato, del resto, è correlativo al primo: poiché il suo comportamento è conforme alla giustizia, Dio non può che essere giusto quando rende giustizia. Per questo, nella sua preghiera, il querelante potrà fare appello al giudizio di Dio. Questa opposizione tra il giudizio di Dio e quello dei potenti interpellati al v. 2 mette bene in evidenza l’impostura cui si abbandonano i giudici e i governanti. Essi ricevono da Dio il potere di giudicare, tanto che viene loro attribuito il titolo di «dèi» (cfr. anche Sal 82,2-6). Ma il loro modo di agire è esattamente all’opposto di ciò che è Dio quando giudica i figli degli umani, i semplici mortali. Se dichiarano che rendono giustizia e custodiscono il diritto, non è vero. Ciò che compiono ha l’apparenza del diritto, ma in realtà è iniquo. Questo è il significa- 304 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta to degli interrogativi retorici del v. 2. Perciò il poeta ha tutto il diritto di denunciare, al v. 3, la cattiveria di quelle persone il cui cuore, sede dei progetti e del volere, è corrotto al pari delle mani, organi dell’agire. Si abbandonano infatti al crimine e pesano la violenza e l’illegalità che diffondono nel paese con la loro amministrazione e il loro giudizio senza giustizia. La situazione appare quindi con chiarezza: quelli che esercitano il potere nel nome di Dio deformano il diritto e fanno regnare l’ingiustizia. Gli umani, quindi, non sanno più a chi ricorrere quando vogliono far valere il loro diritto e provare la loro innocenza. La violenza proviene dal luogo stesso nel quale dovrebbe essere combattuta. Pratiche a tal punto inique sono talmente contraddittorie con ciò che Dio è e vuole, che «gridano vendetta al cielo». 2.2.2. Il giudizio o la «vendetta» (vv. 11-12) Il salmo è l’espressione di questo grido. Ciò cui mira è la restaurazione della giustizia da parte di Dio, l’unico che può ancora intervenire, poiché ogni ricorso alle autorità umane risulta inutile, ingiuste come sono. YHWH, infatti, all’epoca dell’esodo si è rivelato come un Dio che ama gli umiliati e gli oppressi per liberarli dai poteri che vogliono mantenerli nella schiavitù o nella morte. Non può quindi tacere e, col suo silenzio, farsi complice dell’ingiustizia di cui si rendono colpevoli i potenti. Come dice il v. 12, è urgente che si sappia che Dio giudica la terra e che non si può pervertire impunemente l’esercizio della giustizia così vitale per i poveri. È il giusto che deve poter cogliere i frutti della sua giustizia nella gioia, anziché i criminali possano approfittare dei loro delitti. Così dunque, ciò che viene chiesto è di ristabilire la giustizia con un atto di giudizio. Questo consiste essenzialmente nel togliere il velo delle apparenze che sembrano dare ragione ai malvagi. Il giudizio deve servire infatti a ristabilire la verità delle cose: quelli che operano per la morte con la violenza muoiono, perdono la vita (sangue), vittime della violenza che loro stessi hanno scatenato. Quanto agli altri, si sono lavati, dichiarati innocenti, e possono rallegrarsi constatando che giustizia è fatta (v. 11). L’immagine della lavanda dei piedi nel sangue acquista significato in questo contesto. Il fatto che la sentenza di Dio faccia scorrere il sangue dei malvagi è il segno della loro colpevolezza. Le vittime della loro iniquità si trovano quindi dichiarate innocenti, come lavate della colpa di cui erano state imputate ingiustamente. Un’altra lettura meno cruda è proposta da Mitchell Dahood: I suoi piedi, egli li laverà del sangue del malvagio, mostrando con questo gesto che nulla egli ha da spartire con questo colpevole. Comunque sia, qui Dio figura come «giustiziere», e la sua azione di «vendicatore» dei giusti oppressi appare come positiva, luminosa, liberatrice. Ecco in che consiste la vendetta di cui si parla nel v. 11a. Non è il giusto che si vendica dei potenti che lo schiacciano: egli non risponde alla malvagità con la violenza. Ma se Dio viene a prendere le sue difese e a rendergli giustizia, come potrebbe il giusto non rallegrarsene (Sal 140,13-14)? E in nome di che cosa gli si potrebbe impedire di nutrire in sé la speranza che Dio intervenga in tal senso? Certo, l’immagine del v. 11b è particolarmente cruda. Ma nel suo vigore, non è forse possibile percepire come un riflesso dello sgomento senza via d’uscita dove l’ingiustizia racchiude colui che supplica? Uno sguardo su ciò che il salmo afferma dei potenti ingiusti farà ugualmente sentire il peso insostenibile che la loro iniquità impone alle loro vittime. 2.2.3. Descrizione dei malvagi (vv. 4-6) Per descrivere le persone di potere la cui ingiustizia e la cui violenza del cuore e delle mani vengono stigmatizzate ai vv. 2 e 3, il poeta ricorre a varie immagini6. La prima serve a denunciare la radicalità del male che è in loro. La loro cattiveria è detta congenita, poiché è in loro fin dalla matrice, fin dal ventre (v. 4): per loro è come una seconda natura (cfr. Sal 51,7; Is 6 Se si deve leggere «arieti» al v. 2, viene utilizzata un’immagine supplementare, poiché l’ariete può simboleggiare la violenza animale, cioè disumana. Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 305 48,8). Il che significa che non c’è ammenda possibile da parte loro! Il male è talmente radicato in loro che non vi è alcuna possibilità di vederli allontanarsi da esso. È probabilmente per questo motivo che l’unica cosa che il salmista chiederà a Dio a loro riguardo sarà di disarmarli e di distruggerli. Ai vv. 5 e 6 il poeta passa ad un altro paragone che potrebbe essere suggerito dall’idea di menzogna al v. 4b: quello del veleno e del serpente. La figura del serpente è emblematica nella Bibbia fin dal capitolo 3 della Genesi. Lì, esso perverte il bene che è la parola di legge (Gen 2,16-17) spacciando per cattivo colui che la dà. Secondo il serpente, Dio vieta per tutelarsi dall’uomo, e non perché vuole che egli viva. La parola divina sarebbe dunque per la sciagura, la sua trasgressione per la vita (Gen 3,1-5). Ma è una menzogna, perché il cammino che il serpente indica conduce in realtà alla morte e alla sciagura, perché distrugge le relazioni dove l’uomo trova la vita (Gen 3,14-19). Tale è il veleno di serpente che i malvagi hanno in sé quando si servono della legge per far morire spacciandosi per buoni7. Pertanto, denunciare i malvagi trattandoli da serpenti è un modo per significare che li si guarda come la manifestazione del male nel suo aspetto disumano (animale), ma anche nascosto e mortale. Come dice il Terzo Isaia: «Nessuno invoca la giustizia, nessuno perora con sincerità. Ci si appoggia sulla menzogna, si pronuncia il falso, si concepisce il crimine e si partorisce il misfatto. Sono uova di rettile che essi covano, ragnatele che essi tessono. Chi si nutre delle loro uova muore; scoppiato, l’uovo si schiude: è una vipera!» (Is 59,4-5). Il seguito del v. 5 sottolinea un nuovo aspetto della cattiveria descritta: essa è incorreggibile, come un serpente resta insensibile alla voce dei più abili ammaliatori (cfr. Ger 8,17). È forse Dio quell’ammaliatore cui i malvagi resistono turandosi le orecchie per evitare di ascoltare la sua voce? Probabilmente, ma non è su questo che si insiste. Ciò che l’immagine induce è che, nella misura in cui i fautori d’ingiustizia rifiutano tutti gli incantesimi che potrebbero addolcirli, non esiste altra via d’uscita che il castigo. È così che il v. 6 garantisce una transizione duttile e naturale verso la seconda parte del poema che sviluppa l’invocazione d’aiuto dov’è descritta la sorte che si chiede a Dio di infliggere agli ingiusti. 2.2.4. Il castigo dei malvagi (vv. 7-9) Con l’invocazione a Dio, si passa ad un’altra immagine, associata talvolta nel Salterio a quella del serpente. È l’immagine delle belve, del leone in particolare. In Sir 21,2 si legge: Come davanti a un serpente, fuggi davanti al peccato; se te ne avvicini, ti morderà. I suoi denti sono denti di leone che distruggono la vita umana8. Come si è visto, anche il leone, con bocca e zanne, fa parte del simbolismo del male. Traduce la volontà di morte dissimulata dietro ogni male: con la bocca spalancata, il leone prepara i suoi denti per afferrare, lacerare, divorare e inghiottire, una figura della morte violenta dove tutto scompare. Qui, il paragone non è sviluppato per se stesso, ma solo in maniera negativa, nell’appello rivolto a Dio perché liberi dalla morte che il male fa regnare. Spezzare i denti nella bocca, fracassare le zanne dei leoni (v. 7) significa forse qualcos’altro che privare il male delle sue armi mortali e renderlo inoffensivo (cfr. Sal 3,8)? Tale è la liberazione attesa dal Signore. È interessante notare qui che il primo intervento di Dio dovrebbe riguardare la bocca dei malvagi. In fondo, l’introduzione di quest’immagine al centro del poema risponde a una logica nascosta. Infatti, subito, fin dal v. 2, la bocca di menzogna figura da strumento principale della violenza dei malvagi. La bocca è quindi ciò che li rende nocivi, proprio come il serpente 7 Troviamo questa immagine del serpente velenoso, ad esempio, in Sal 64,4; 140,4; Dt 32,33; Sir 21,2. Vedere anche il doppio parallelo in Sal 91,13: Sul leone e la vipera camminerai, calpesterai leoncino e drago. 8 306 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta il cui veleno si trova nella bocca e, più precisamente, nei denti della bocca. Si assiste così a uno slittamento progressivo dell’immagine: dalla parola che condanna ingiustamente, si passa al veleno del serpente nei suoi denti, poi ai denti del leone, simbolo della distruzione e dell’annientamento, conseguenze della giustizia menzognera dei potenti. Prima di proseguire l’esame, un’osservazione s’impone. In questa parte, infatti, si scatena un linguaggio passionale che può urtare. Ma a farsi sentire non è forse la voce indignata della rivolta davanti all’ingiustizia? Di fronte a questa realtà disumana che è l’iniquità, vera «epifania del male», secondo la bella espressione di Luis Alonso Schökel, il poeta non si rifugia in una lode inconsapevole del male né in una preghiera di fiducia intimista. Lungi dal rassegnarsi con una vaga speranza di fuggire malgrado tutto, egli si ribella con violenza davanti a Dio. La sua aggressività verbale dice in fondo la sete di giustizia da cui è divorato. Ma se una tale sete di giustizia lo anima, è perché ritiene quest’ultima possibile e necessaria; è perché pensa che valga la pena lottare per avvicinarsi ad essa. E che ai suoi occhi ciò debba essere fatto è il segno che crede che Dio è giusto, ama la giustizia e desidera attivamente che essa si stabilisca tra gli uomini. Secondo le parole del Siracide ebraico, fino alla morte, lotta per la giustizia, e YHWH combatterà per te (4,28). Ma quando, in questo combattimento, l’ingiustizia è così forte che il lottatore viene ridotto all’impotenza, arriva il tempo del grido, dell’appello, il tempo della preghiera. La violenza delle parole diventa allora il segno di un desiderio appassionato di giustizia, ma anche il frutto dell’impotenza di fronte a un male che schiaccia. Del resto, che cosa è più conforme al volere di Dio se non auspicare la distruzione di un tale male? Dopo avere supplicato Dio di strappare agli iniqui le loro armi (v. 7), il poeta comincia ad esigere la loro scomparsa. Le immagini sembrano riferirsi, anche se in maniera piuttosto blanda, a quelle di cui il poeta si è servito nella sua descrizione dei malvagi. Così, che il veleno del serpente diventi acqua che defluisce, inoffensiva; che il rettile stesso si muti in una grossa lumaca che sembra dissolversi nella sua bava! E poiché è fin dalla matrice, fin dal ventre materno, che il loro cammino li smarrisce, che siano come l’aborto che mai ha visto la luce, così che la malizia che è in loro non possa svilupparsi! È un desiderio di annientamento totale che si esprime in questo modo: avvenga come se non fossero mai nati! La soluzione considerata è quindi altrettanto radicale quanto il male da estirpare. È forse stato necessario un intervento di Dio in questa distruzione? Il testo non è chiaro. I vv. 8a e 10 potrebbero alludere a un’azione guerriera di YHWH, ma come si è visto, il testo è oscuro. Pertanto, potrebbe darsi che questa strofa (vv. 8-9) si limiti ad auspicare l’autodistruzione dei malvagi, come accade in numerosi altri salmi. In compenso, l’impegno di Dio veniva sottolineato nel v. 7 e sarà ancora riconosciuto dagli esseri umani liberati dall’ingiustizia che li schiaccia (v. 12). Un paradosso animerebbe così la seconda parte del poema: l’azione di Dio porta i malvagi all’autodistruzione, un modello spesso operante nei racconti delle «guerre di YHWH» (cfr. ad esempio Gdc 7,16-22 o 2Cr 20,20-27). Quest’autodistruzione rende giustizia all’innocente e rivela la giustizia del Signore, che una confessione di fede proclama nella conclusione del salmo (vv. 11-12). 3. «DIO CHE VENDICHI, MOSTRATI!»: IL SALMO 94 Come eco a questo poema, vorrei esaminare rapidamente un altro salmo che riflette una situazione simile e assegna a Dio il posto di giustiziere. Si tratta del Salmo 949. Il problema che dà luogo a questa preghiera è la violenza di persone potenti, descritte come un trono criminale che crea la miseria a dispetto delle leggi: combattono la vita del giusto e 9 Per approfondire la lettura di questo salmo, vedere J.-L. SKA, «“Dieu des vengeances, montre-toi” (Ps 94,1)», in Vie consacrée 16 (1981) 353-356, o F. DE MEYER, «La sagesse psalmique et le Psaume 94», in Bijdragen 42 (1981) 22-45. Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta 307 dichiarano colpevole una vittima innocente (vv. 20-21). Il salmista che chiede a Dio di mostrarsi, di alzarsi, è un uomo alle prese con queste persone disoneste e fiere di esserlo, che trionfano grazie all’ingiustizia (vv. 3-4). Esse si compiacciono di annientare e umiliare i poveri e coloro che sono senza difesa (vv. 5-6). Commesso il loro delitto, esse sono certe di restare impunite poiché – così credono – Dio è assente o indifferente (v. 7). Di fronte ad esse il salmista si sente privo di rimedi: Chi perorerà la mia causa contro questi malvagi, chi si schiererà con me contro questi malfattori? (v. 16). All’infuori di Dio, non vede nessuno che possa intervenire in suo favore. Nulla di sorprendente in questo, poiché sono i giudici e i potenti che si compiacciono di schiacciare i più deboli. In ogni caso, senza l’aiuto di YHWH, lui stesso si sente ridotto al silenzio, colmo di inquietudine, pronto a crollare (vv. 17-19). Il salmista va persino più a fondo. Per lui, infatti, la stessa sovranità di Dio è in gioco in questa situazione. I malvagi non fanno forse assegnamento sulla sedicente ignoranza del Signore per continuare a perpetrare i loro crimini? Per questo, il poeta li tratta da stupidi e da ottusi, perché, ignorando a tal punto il Creatore dell’essere umano, saranno essi stessi la causa della propria rovina (vv. 9-11). Per questo motivo, inoltre, fa appello a Dio in qualità di giudice: agisca da giustiziere e renda ai superbi quanto è loro dovuto (vv. 1-2). Questo appello è radicato in una fede viva che viene espressa nel cuore del poema: YHWH non abbandona il suo popolo e la sua eredità non la tralascia: il giudizio torna alla giustizia, e tutti i cuori retti la seguono (vv. 14-15). Proprio questo annuncia la conclusione del salmo: quando la giustizia è schernita da quegli stessi che dovrebbero promuoverla, YHWH non si fa complice dei loro crimini col suo silenzio (vv. 20-21). Al contrario, si mostra cittadella e roccia, protezione dell’innocente schiacciato di fronte alle aggressioni dei malvagi (v. 22); bada a ristabilire la giustizia tradita facendo ricadere il crimine su coloro che lo commettono. Annientandoli con la propria cattiveria (v. 23), Dio li consegna in qualche modo alla violenza che loro stessi hanno scatenato. Raccolgono allora il frutto delle loro opere (cfr. Sal 7,15-17), mentre Dio appare come colui che detta il diritto (v. 12; cfr. Sal 7,7), come il giusto sovrano preoccupato di ristabilire e mantenere la giustizia in un mondo dove la violenza regna sovrana. È sotto questi tratti che egli comparirà ancora nella sua apostrofe ai giudici e ai potenti nel Salmo 82. 4. CONCLUSIONE L’abbiamo visto: ciò che regge la preghiera di questi salmi di invocazione alla vendetta è un’immensa sete di giustizia alle prese con la crudele realtà dell’iniquità, ma anche una fede profonda in un Dio che si schiera con le vittime della violenza, un’adesione all’alleanza che fa vivere. Non ci si lasci tuttavia trarre in inganno: colui che supplica in tal modo non chiede a Dio la forza di vendicarsi personalmente di coloro che lo schiacciano o di consegnare i suoi nemici alla sua sete di rivincita. Al contrario, affida il compito di far giustizia nelle mani di quel Dio in cui vede il giusto giudice. In tal modo, la violenza che procede dal sentimento acuto dell’ingiustizia non viene negata, ma neppure repressa. È assunta come tale, poi tradotta in parole perché prorompano al tempo stesso la sua verità e il suo eccesso, ma in un potente appello alla giustizia, alla liberazione. Il fatto che il desiderio di vendetta venga così avvertito ed espresso davanti a Dio non è certo indifferente. Chi è Dio, infatti, se la violenza e l’odio, l’ingiustizia e la menzogna non lo riguardano? Chi è, se non è sensibile alla sofferenza delle vittime di questi crimini, alla loro rabbia e alla loro sete di vendetta? Può forse essere il Dio degli umani in cui ribolle tutta questa aggressività? Essa infatti si rivolterà contro l’uomo per minarlo dall’interno, se egli non la riconosce in tutta la sua violenza per poterla trasformare in energia di vita e di lotta per la giustizia. Dopo tutto, perché salmi del genere sarebbero meno giusti rispetto ad una morale volontaristica che non riconosce la violenza nell’uomo se non per negarla, reprimerla o condannarla? 308 Saggi di esegesi - Pregare la violenza? I salmi di vendetta La vendetta che viene espressa in questi salmi è quel «sentimento sornione che sorge dagli abissi umani più tenebrosi, che riveste l’uniforme dell’arbitrio e della violenza più incontrollata». Ora, «è probabilmente questo che tanto ci ripugna. Avvertiamo una repulsione istintiva quando appare la bestia che ogni uomo nasconde in sé... Il “Dio delle vendette” sarebbe forse dunque un Dio che apre la gabbia di questo animale di cui si conoscono fin troppo bene le devastazioni?». Sì, certo, ma non in qualsiasi modo!10 Ai salmisti che osano credere che nulla di umano sia estraneo a Dio, quest’ultimo apre uno spazio di preghiera dove liberare la belva della loro aggressività, perché possa mostrarsi, e quindi essere riconosciuta, essere detta. Il fatto è che la via delle parole è probabilmente una delle sole strade che gli umani abbiano a propria disposizione per umanizzare o convertire ciò che in loro è disumano. A che cosa serve all’uomo reprimere ciò che in lui lo ripugna, ciò che provoca la sua repulsione davanti alla bestia nascosta, devastatrice? Non sarebbe forse proprio questa repressione a non consentirgli di padroneggiare l’animalità presente in lui? Per domare un leone, lo si deve guardare in faccia; per sfuggire a un serpente, lo si deve vedere lì dove si nasconde (cfr. Nm 21,4-9). A forza di non scorgere queste forze negative che operano in noi, si rischia di perdere ogni possibilità di controllo su di esse; le si costringe ad esprimersi in altri modi, assai più sornioni e subdoli rispetto al sentimento stesso. I salmi di vendetta offrono una parola che apre una porta sul disumano in sé e, a questo titolo, rappresentano un primo passo verso una possibile liberazione. Oltre che essere l’espressione esagerata del sentimento che l’eccesso del male subìto risveglia nell’uomo, questi salmi sono parimenti il frutto di una fede profonda nel Dio dell’alleanza. Poiché, da un lato, la fede non ha censurato, giudicato o addirittura negato tale violenza, ma le ha piuttosto prestato le sue parole; e poiché, dall’altro lato, la violenza non ha soffocato lo slancio dell’uomo verso Dio, ma ne ha piuttosto rafforzato il vigore, rendendo possibile il loro incontro. Non si potrebbe persino affermare che tale incontro è stato permesso da Dio? Se infatti un credente osa ammettere che Dio ha qualcosa da spartire con il desiderio di vendetta – che essa sia o meno giustificata da una situazione reale di ingiustizia o di minaccia –, se osa credere che Dio non condanna questa violenza, ma invita a tradurla in parole come fa con Caino, può dimenticare la propria vergogna e mettersi in cammino non rinnegando nulla di ciò che egli è. La fede e la violenza trovano allora modo di esprimersi, l’una e l’altra, in uno stesso movimento che esprime adeguatamente la verità complessa di quest’uomo, tanto credente quanto è ribelle; tanto violento quanto è assetato di giustizia. Non ci troviamo forse di fronte ad un dinamismo pasquale? Dov’è Pasqua, infatti, se non lì dove l’amore attraversa l’odio senza negarne la realtà, perché la morte stessa offre un varco alla vita? Per concludere, una piccola storia. La prima volta che affrontai questo genere di salmi con un gruppo, quasi vent’anni fa, fu insieme a delle religiose. Ero ancora ben lungi dall’avere affinato l’intuizione che sviluppo qui, ma per l’essenziale, essa era già stata delineata. Dopo il lavoro in comune che aveva sconcertato non poche partecipanti, una di esse viene a trovarmi e, prendendomi in disparte, mi confida: «Lei non può sapere quanto piacere mi ha procurato questo pomeriggio!». Sorpresa... Poi la religiosa riprende: «L’approccio che ha presentato di questi salmi raggiunge veramente l’esperienza che ne ho fatto personalmente. Per una decina d’anni sono vissuta in una comunità di cui, per motivi che non importa rivelare, odiavo la superiora – non c’è altra parola. Ero quasi incapace di essere gentile con lei, o anche semplicemente corretta. Allora, mi sono messa a pregare questi salmi pensando a lei, e deponevo il mio odio ai piedi del Signore. Quando uscivo, se la incontravo nel corridoio, mi stupivo di poterle rivolgere un sorriso! Riuscivo a trovare un comportamento umano di fronte a lei. È così che ho potuto resistere...». 10 SKA, «“Dieu des vengeances”», 353. Pur citando questo articolo, non ne condivido completamente la linea. Per Ska, infatti, «la vendetta di cui si parla qui è tutt’altro che il sentimento sornione ecc.». INDICE Seconda parte IL LIBRO DEI SALMI Storia dell'interpretazione – Introduzione – Saggi di esegesi STORIA DELL’INTERPRETAZIONE DEI SALMI _____________________________ 134 Nota preliminare ___________________________________________________________________ 134 I. Periodo della formazione dell’Antico Testamento ________________________________________ 134 II. I salmi nel Nuovo Testamento _______________________________________________________ 136 III. Fino al III secolo ________________________________________________________________ 138 IV. Da Origene a Cassiodoro: panorama _________________________________________________ 139 V. Da Origene a Cassiodoro: autori _____________________________________________________ 145 VI. Da Cassiodoro a Nicola di Lira _____________________________________________________ 150 VII. Da Nicola di Lira fino all’epoca storico-critica ________________________________________ 154 VIII. L’epoca critica fino a Gunkel _____________________________________________________ 160 IX. Gunkel: opera e influsso __________________________________________________________ 162 X. Lavori in sospeso ________________________________________________________________ 168 XI. L’appropriazione ________________________________________________________________ 174 INTRODUZIONE AI SALMI _______________________________________________ 178 I. I salmi come libro _________________________________________________________________ 178 1. Il nome _______________________________________________________________________ 178 2. Numerazione ___________________________________________________________________ 178 3. Raccolte e formazione del Salterio __________________________________________________ 179 4. Datazione del Salterio ____________________________________________________________ 181 5. Il testo dei salmi ________________________________________________________________ 182 6. I titoli_________________________________________________________________________ 185 7. Autori dei salmi _________________________________________________________________ 188 II. Salmi e poesia ___________________________________________________________________ 188 1. Parallelismo ___________________________________________________________________ 189 2. Il ritornello ____________________________________________________________________ 190 3. Chiasmo ______________________________________________________________________ 190 4. Effetti sonori ___________________________________________________________________ 190 5. Ritmo _________________________________________________________________________ 191 6. Altri procedimenti stilistici ________________________________________________________ 191 7. Verso la struttura letteraria ________________________________________________________ 192 8. Il linguaggio simbolico ___________________________________________________________ 193 III. Generi letterari __________________________________________________________________ 194 1. Il metodo morfocritico di H. Gunkel _________________________________________________ 194 2. I cinque generi letterari principali __________________________________________________ 195 3. I generi letterari secondari ________________________________________________________ 201 4. Valutazione critica sullo studio dei generi ____________________________________________ 203 Conclusione______________________________________________________________________ 205 IV. Teologia dei salmi _______________________________________________________________ 206 1. I salmi e il culto_________________________________________________________________ 206 2. La teologia biblica vista attraverso i salmi ____________________________________________ 208 Bibliografia commentata _____________________________________________________________ 214 SAGGI DI ESEGESI IL SALTERIO DALL’INIZIO ALLA FINE ____________________________________ 221 1. L’apertura del Salterio: i Salmi 1 e 2 ___________________________________________221 1.1. Salmo 1: struttura e opposizioni ____________________________________________________ 222 1.2. L’uomo, i malvagi e i giusti _______________________________________________________ 223 1.3. L’uomo, i giusti e Yhwh __________________________________________________________ 225 1.4. L’albero, la pula e il giudizio ______________________________________________________ 226 1.5. Il messia e i suoi nemici: Salmo 2 - salmo di intronizzazione regale ________________________ 228 1.6. Paragone con il Salmo 1 __________________________________________________________ 232 1.7. Il Salmo 2, ampliamento del Salmo 1? _______________________________________________ 233 310 Indice 2. La finale del Salterio: i Salmi 148, 149 e 150 _____________________________________235 2.1. Il salmo 148: l’estensione universale della lode ________________________________________ 235 2.2. Il salmo 149: la lode di israele e la vittoria sul male _____________________________________ 237 2.3. Il salmo 150: la lode pura _________________________________________________________ 240 2.4. Riflessioni conclusive ____________________________________________________________ 241 3. Dove il grido diventa lode: il Salmo 22 __________________________________________242 3.1. Struttura d’insieme ______________________________________________________________ 243 3.2. Prima parte: la lode sotto scacco (vv. 2-11) ___________________________________________ 243 3.3. Seconda parte: la passione di colui che supplica (vv. 12-22) ______________________________ 245 3.4. Terza parte: la lode ricreata (vv. 23-32) ______________________________________________ 247 3.5. Conclusione: dal Davide salmista a Gesù _____________________________________________ 249 UN ESEMPIO DI SALMI APPAIATI: REQUISITORIA E ‘MISERERE’ (SAL 50–51) 251 1. Studio globale del salmo______________________________________________________251 2. Esegesi del Sal 50 ___________________________________________________________255 2.1. Ruoli e personaggi ______________________________________________________________ 256 2.2. Composizione __________________________________________________________________ 257 2.3. Esegesi _______________________________________________________________________ 257 3. Esegesi del Sal 51 ___________________________________________________________261 3.1. Delimitazione __________________________________________________________________ 262 3.2. Composizione __________________________________________________________________ 262 3.3. Esegesi _______________________________________________________________________ 262 4. Terzo atto della liturgia penitenziale ___________________________________________266 5. Trasposizione cristiana_______________________________________________________266 IL TRIONFO DEL RE MESSIA (Sal 110) _____________________________________ 269 Bibliografia __________________________________________________________________269 1. Il testo ____________________________________________________________________269 2. Genere letterario e datazione _________________________________________________271 3. Commento _________________________________________________________________271 4. Il compimento neotestamentario_______________________________________________276 IL CREATORE, L’UOMO E L’UNIVERSO (SAL 8) _____________________________ 278 1. Testo ______________________________________________________________________278 2. Dimensione letteraria ________________________________________________________278 2.1. Matrice ideologica e struttura letteraria ______________________________________________ 278 2.2. I paradigmi simbolici del salmo ____________________________________________________ 279 3. La collocazione cronologica e «vitale» del salmo __________________________________281 4. Lettura esegetica____________________________________________________________282 4.1. Antifona d’inclusione (vv. 2a e 10) __________________________________________________ 283 4.2. Prima scena cosmica (vv. 2b-5) ____________________________________________________ 283 4.3. Seconda scena cosmica (vv. 6-9) ___________________________________________________ 288 5. L’ermeneutica del Sal 8 ______________________________________________________290 PREGARE LA VIOLENZA? I SALMI DI VENDETTA __________________________ 293 1. In nome dell’alleanza: il salmo 83 ______________________________________________294 1.1. Osservazioni sulla struttura letteraria ________________________________________________ 295 1.2. Una contro-alleanza (vv. 2-9) ______________________________________________________ 296 1.3. Invocazione di aiuto (vv. 10-19) ____________________________________________________ 298 1.4. Riflessioni conclusive ____________________________________________________________ 301 2. Quando la giustizia è compromessa: il Salmo 58__________________________________301 2.1. Abbozzo di struttura letteraria ______________________________________________________ 302 2.2. Proposta di lettura _______________________________________________________________ 303 3. «Dio che vendichi, mostrati!»: il Salmo 94 _______________________________________306 4. Conclusione ________________________________________________________________307