Università “G. d'Annunzio” Dipartimento di Scienze giuridiche Costituzione economica e regole elettorali di Giampiero Di Plinio n° 7 / 2008 GIAMPIERO DI PLINIO Costituzione economica e regole elettorali 1 1. Esistono criteri oggettivi di valutazione delle regole elettorali? È DIFFUSA LA CONVINZIONE che l’attuale legge elettorale costituirebbe una vistosa violazione di indirizzi costituzionali (materiali) avviati all’inizio degli anni novanta tendenti a costruire in Italia un sistema politico bipolare fondato sull’alternanza, mirando al contrario a una “riproporzionalizzazione”, corretta, se così si può dire, da meccanismi di signoraggio delle posizioni di capolista in una pluralità di circoscrizioni e dal meccanismo delle liste bloccate. Un esito positivo del referendum abrogativo della legge 270/2005, pressando i partiti a creare aggregazioni finalizzate all’unificazione della rappresentanza sino dalla fase preelettorale, e conseguentemente azzerando la frammentazione delle liste, inaugurerebbe un processo di restyling basato essenzialmente su una radicale semplificazione, senza pregiudizio per il diritto di tribuna di forze politiche minori i cui consensi superino le soglie di sbarramento. In conclusione: «il bipolarismo, inveratosi nel bipartitismo, ne guadagnerebbe in chiarezza e responsabilità» 2 . In A. Barbera e G. Guzzetta (eds.), Il governo dei cittadini.Referendum elettorali e riforma della politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 1 G. Guzzetta, Un nuovo referendum elettorale, in P. Mantini et al. (cur.), Riforme costituzionali e referendum, Roma, Gangemi, 2006. 2 125 Ma perché un tale esito costituisce un “valore”? Per quali ragioni non soggettive il bipartitismo (o il bipolarismo) sarebbe preferibile al multipartitismo e alla frammentazione? Come si fa (data la riserva di legge in materia di sistema elettorale) a sostenere seriamente, in termini giuridici, che il maggioritario è ‘preferibile’ al proporzionale (più o meno manipolato)? Le differenti (spesso radicalmente opposte) valutazioni non sono, da questi punti di vista, soddisfacenti, sia quando sono mosse da appassionati intenti di difesa del “proporzionale” 3 , ma anche quando fanno leva sulla “governabilità”, o sulla “immediatezza” della democrazia, e così di seguito. Tutti questi argomenti incontrano una doppia difficoltà: la prima, pratica, che non reggono al vaglio dell’evidenza empirica; la seconda, teorica, che sono stati sempre privi di copertura costituzionale, o meglio (che è la stessa cosa) hanno tutti fatto ricorso ad argomenti bizzarri per tentare di dimostrarne la copertura costituzionale. Ciascun modello, infatti, è presentato come migliore dell’altro in relazione a qualcosa, a un qualche concetto forte recuperato nelle pieghe del grande mantello del costituzionalismo dei valori. L’oggettività scientifica va conseguentemente, e irrimediabilmente, perduta, specie nella misura in cui la costituzione dei valori riassume le sue reali sembianze di costituzione degli interessi, e a volte finisce per fornire legittimazione, nel più vistoso italian style, a splendidi e invisibili disegni, tratteggiati dalle “manine” dei signori della legislazione, per la costruzione di leggi elettorali “ad hoc”, dalla legge “truffa” del 1953 ad, appunto, quella, “suinamente” aggettivata, del 2005. 3 V. ad esempio C. De Fiores, Rappresentanza politica e sistemi elettorali in Italia, in www.costituzionalismo.it (16 ottobre 2007), il quale però dimentica, nella sua ricostruzione storica, di evidenziare come l’avvento e il successo della “proporzionale” nel costituzionalismo democratico moderno deve essere necessariamente coniugato (e spiegato) con il dualismo radicale caratterizzante le forme di governo ottocentesche, da un lato, e con i precedenti “censitari” della legislazione elettorale del periodo liberale, dall’altro. 126 Un solido teorema spiega l’impossibilità di definire validamente a priori un criterio di scelta sociale 4 (e dunque anche di scelta di un sistema elettorale piuttosto che un altro). Di conseguenza, un’analisi oggettiva dei modelli elettorali dovrà essere fondata su parametri e indicatori generalmente accettati e scientificamente utilizzabili. Si tratta, come qualcuno sostiene, di assumere «criteri empirici di scelta, alla luce dei quali valutare le diverse alternative» 5 ; tuttavia, non ha senso identificare tali criteri con “quello che fanno gli altri", e “quello che suggeriscono gli esperti” 6 , nel primo caso per ragioni tanto evidenti quanto banali, nel secondo perché gli “esperti” (anche quelli che “non sono in vendita”), intanto bisogna identificarli, per poi scoprire che hanno detto tutto e il contrario di tutto. E in entrambi i casi manca il tertium comparationis. Più aderente alle esigenze di scientificità sarebbe il metodo di «individuare i principali fenomeni economici, politici e sociali (le dimensioni, in gergo) influenzati in modo diverso dai diversi sistemi elettorali, nel misurare attraverso opportuni indicatori queste influenze, nel comporre queste diverse influenze in una funzione obbiettivo da massimizzare, e nel valutare, mediante opportune simulazioni, quale valore assume questa funzione in corrispondenza dei diversi sistemi elettorali» 7 . Adattando questo approccio, propongo il ricorso a due serie di indicatori: a) quelli ereditati dal costituzionalismo classico 8 ; b) quelli introdotti dalla nuova costituzione eco4 K.J. Arrow, Social Choice and Individual Values, New York, Wiley, 1951. 5 G. Ortona, La scelta del sistema elettorale: cosa fanno gli altri? E cosa dicono gli esperti?, in www.costituzionalismo.it. 6 Così invece propone Ortona, op. ult. cit. Sempre Ortona, op. cit., che però dichiara espressamente che non seguirà tale approccio, malgrado abbia prodotto «interessanti risultati». 7 Riassumibili nel dogma della limitazione del potere di fronte ai diritti di libertà e nei suoi corollari, esattamente nel senso in cui lo interpreta C. H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, Ithaca, Cornell University 8 127 nomica “europea”. Sul primo versante, di cui non mi occuperò in questo lavoro, viene in rilievo da un lato il confronto dinamico tra il principio di corrispondenza tra potere e responsabilità, e dall’altro il grado di variazione delle posizioni di potere di fatto risultanti da ciascuno dei sistemi elettorali considerati rispetto alle posizioni di diritto disegnate dall’ordinamento costituzionale formale. Sul secondo, su cui invece mi intratterrò, si profila una indagine dell’impatto dei sistemi elettorali su alcune grandezze macroeconomiche e di bilancio e sui loro corollari. Proverò a esaminare tale impatto attraverso due passaggi. In primo luogo, verificherò – alla luce delle impostazioni teoretiche e delle evidenze empiriche di volta in volta raggiunte dalla dottrina economica – una serie di valutazioni di performance dei modelli elettorali e dei loro prodotti (bipartitismo, frammentazione etc.) in rapporto a oggetti specifici a rilevanza macroeconomica (equilibri di finanza pubblica, dimensione delle pubbliche amministrazioni, efficienza e rapidità della spesa e altro). In secondo luogo, tenterò di misurare, anche dal punto di vista dell’analisi economica del diritto costituzionale, la valenza giuridico-costituzionale dei risultati ottenuti alla luce delle variazioni costituzionali indotte dall’impatto della liberalizzazione dei mercati, dall’attuazione degli obblighi di Maastricht, dalla costruzione giurisprudenziale (soprattutto europea e costituzionale) dei principi della nuova costituzione economica, dalle riforme legislative degli anni novanta, e dalla riforma costituzionale del 2001. Press, 1947. Sul punto v. A.Pace, Le sfide del costituzionalismo nel XXI secolo, in Dir. pubbl., 3/2003, 887 ss.; A. Di Giovine, Le tecniche del costituzionalismo del ’900 per limitare la tirannide della maggioranza in G.M. Bravo (cur.) La democrazia tra libertà e tirannide della maggioranza nell’Ottocento,Torino, Olschki, 2004. 128 2. Gli effetti economici delle costituzioni. L’interesse degli economisti per la materia “costituzionale” e segnatamente per gli strumenti giuridici di selezione della classe politica di governo è fortemente cresciuto in questi ultimi anni. In passato, la competizione elettorale è stata rappresentata come un mercato i cui consumatori sono gli elettori, e in cui i politici, sebbene non possano essere letteralmente “acquistati o venduti” (almeno in senso economico, e lasciando da parte l’andamento reale delle cose …), sono “misurati” dal numero dei voti che ottengono nelle elezioni; in altre parole, in questo mercato il prezzo della merce (i politici) è determinato dal voto. I politici, come detentori del potere di “offerta”, entrano in competizione tra loro per assicurarsi il maggior numero di voti possibile, facendo promesse programmatiche; di conseguenza, la competizione tra i partiti è nelle mani degli elettori, almeno fino alla chiusura dei seggi. Ma cosa accade dopo? La merce che gli elettori hanno comprato è effettivamente buona o diventa “avariata” dopo pochissimo tempo? I politici rispetteranno le promesse fatte agli elettori? In realtà, la faccenda è molto più complessa di quanto questi modellini riescono a rappresentare. Infatti, fino a quando sono rimasti su questo piano “privatistico” di analisi, gli economisti hanno sperimentato notevoli problemi sia a livello teorico, sia nelle evidenze empiriche. Una rivoluzione metodologica sembra avviata da una citatissima monografia 9 , i cui autori, Torsten Persson e Guido Tabellini (di seguito, in breve, P&T), hanno dettagliatamente scandagliato, sia dal punto di vista teoretico che sul versante delle evidenze empiriche, le conseguenze economiche di segmenti rilevanti del diritto costituzionale (forme di goverT. Persson e G. Tabellini, The Economic Effects of Constitutions, Cambridge, MA, MIT Press, 2003. 9 129 no e sistemi elettorali) in un cospicuo numero di “democrazie consolidate”. La ricerca, che costituisce un importante avanzamento nella letteratura in constitutional political economy 10 , ha ricevuto un’accoglienza entusiastica ed è stata subito oggetto di un notevole numero di revisioni adesive o critiche 11 . Essa indaga gli effetti delle forme di governo (semplificate nella dicotomia parlamentare/presidenziale) e dei sistemi elettorali (maggioritario/proporzionale, con attenzione anche ad altri fattori, quali la dimensione dei collegi elettorali, il ruolo delle liste, e altro), su tre gruppi di variabili di rilievo economico: a) la politica finanziaria (dimensione del “pubblico”, spesa, pressione fiscale, disavanzo di bilancio, welfare); b) l’efficienza della pubblica amministrazione (con riguardo anche al grado di corruzione); c) produttività del lavoro nel contesto della produttività totale del sistema economico. L'item sub a) è misurato sincronicamente e diacronicamente. Dal punto di vista dell’indagine sugli effetti economici delle forme di governo, il citato studio di P&T si fonda sul postulato, elementare per la dottrina costituzionalistica, che la separazione dei poteri è notevolmente più marcata nei 10 In particolare, la ricerca prosegue e completa diversi lavori precedentemente pubblicati dagli stessi autori: Separation of Powers and Political Accountability (con G. Roland), in Quarterly Journal of Economics, 1997, vol. 112, 310 ss.; The Size and Scope of Government: Comparative Politics with Rational Politicians, in European Economic Review, 1999, vol. 43, 699 s.; Comparative Politics and Public Finance (con G. Roland), in Journal of Political Economy, 2000, vol. 108, 1121 ss.; Political Economics: Explaining Economic Policy, Cambridge, MA, MIT Press, 2000. Una sintesi ragionata ed estesa, con specifico riferimento agli effetti economici dei sistemi elettorali si può leggere in T. Persson e G. Tabellini, Electoral Systems and Economic Policy, in B. Weingast and D. Wittman, (eds.), Handbook of Political Economy, Oxford University Press, 2006. Si vedano, tra i commenti più recenti, D. Acemoglu, D., Constitutions, Politics and Economics: A Review Essay on Persson and Tabellini’s The Economic Effects of Constitutions, in Journal of Economic Literature, 2005, XLIII (Dec.), 1025 ss.; D.C. Mueller, Torsten Persson and Guido Tabellini, The Economic Effects of Constitutions, in Constitutional Political Economy, 2007, vol. 18, 63 ss. 11 130 regimi presidenziali, nei quali il governo non dipende da una maggioranza parlamentare stabile 12 . Al contrario, nei regimi parlamentari la necessaria “collusione” 13 tra esecutivo e parlamento, e la tendenza della maggioranza parlamentare a varare programmi di spesa i cui benefici sono chiaramente indirizzati a sé stessa e ai propri elettori, crea un gioco economico al rialzo che conduce a incrementalismo nella spesa pubblica, a una più elevata pressione fiscale, e anche a un maggiore grado di corruzione politica. Molto più complesso, e ovviamente d’interesse più diretto in questa sede, è l’impianto teoretico dell’analisi degli impatti macroeconomici delle regole elettorali, nel contesto del quale il modello del mercato dei voti pecca di eccessiva semplificazione. Nelle democrazie rappresentative, la funzione delle elezioni è la selezione di agenti ai quali è attribuita la funzione di indirizzo politico, e il meccanismo elettorale determina l’attribuzione della responsabilità politica da parte degli elettori agli individui o ai gruppi che essi ritengono più adeguati a rappresentare i loro interessi. La pluralità delle forze in gioco implica l’adozione di mediazioni e compromessi, in forma analoga a quanto avviene in materia societaria, dove le regole di corporate governance imA quanto pare l’analisi di P&T può essere trasposta dalla mera dicotomia presidenziale/parlamentare alla più moderna «divisione a carattere generale tra le forme di governo a legittimazione diretta e quelle a legittimazione indiretta; salvo poi specificare gli elementi istituzionali che agiscono sull’una o sull’altra. In questo disegno «binario» emerge soprattutto il ruolo che è chiamato ad esercitare il corpo elettorale ai fini della scelta del Governo: in un simile contesto, allora, ci sono forme di governo che valorizzano in maniera più ampia il principio della sovranità popolare, altre invece che lo ridimensionano limitandolo al solo voto elettorale per le Assemblee rappresentative» (G. di Plinio, T.E. Frosini, G. Parodi, Corso di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 2007; T.E. Frosini, Forme di governo e partecipazione popolare, 2o ed., Torino, Giappichelli, 2006). 12 13 In questi passaggi utilizzo il linguaggio (semplificato dal punto di vista delle metodologie giuridiche) dei due autori. 131 plicano un compromesso tra il problema del principal-agent e quello della tutela delle minoranze. Un modello che concentra i poteri societari in un azionista dominante, nella misura in cui riduce la discrezionalità degli amministratori, limita l’incidenza dell’agency problem, ma a discapito degli interessi degli azionisti minori. L’architettura delle regole elettorali può essere intesa come la risultante di un analogo compromesso tra responsabilità e rappresentanza: rispetto alla formula proporzionale, il modello plurality a collegi uninominali traduce le oscillazioni dell’elettorato in effetti radicali sulla maggioranza di governo, rafforzando l’incentivo dei politici a soddisfare effettivamente le esigenze degli elettori, e conseguentemente riducendo rendita politica e corruzione. Ma nella misura in cui la maggiore responsabilizzazione rende i candidati più aderenti ai desideri di gruppi “cardine” di elettori, essa accresce anche la propensione a indirizzare l’azione politica a vantaggio di constituencies ristrette, piuttosto che all’attuazione di programmi ampi e generalizzati 14 . È noto che la nozione di sistema elettorale comprende in realtà una pluralità di elementi: formula elettorale, (meccanismo di traduzione dei voti in seggi); b) disegno territoriale delle circoscrizioni; modalità del voto (individuale o di lista; esistenza o meno di preferenze) 15 . I sistemi elettorali sono raramente costituzionalizzati 16 . La dottrina non è mai riuscita a codificare con certezza le loro dinamiche e le loro conseguenze. Dal punto di vista delle scienze sociali i problemi fondamentali dei sistemi elettorali sono tre. Il primo riguarda l’effetto sull’elettorato (fo14 T. Persson e G. Tabellini, Electoral Systems and Economic Policy, cit. Ma anche altri aspetti, come la modalità di presentazione delle liste e vincoli per la loro formazione (primarie),le regole di propaganda elettorale (par condicio etc.); le regole sulla campagna elettorale; le regole del finanziamento dei partiti e della campagna elettorale dei candidati. Un’analisi comparata in G. Cox, Making Votes Count, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 1997. 15 16 Ciò costituisce un mistero per alcuni politologi ed economisti. 132 tografia o manipolazione delle scelte degli elettori?); il secondo l’effetto sui partiti (incidenza sul numero dei partiti e sulla fedeltà del risultato elettorale rispetto al rapporto di forze effettivo nella società); il terzo l’effetto sulle istituzioni (incidenza sui valori di stabilità, efficienza, governabilità). Rispetto al grado di rappresentatività degli organismi elettivi, il sistema maggioritario diminuisce l’incidenza degli estremismi politici obbliga gli estremisti o a convergere al centro o ad astenersi e secondo alcuni per questo è meno pericoloso per il sistema democratico rispetto al proporzionale, al quale si addebita il “paradosso di Weimar” 17 . Rispetto agli effetti in termini di ruolo della politica, è stato osservato che il maggioritario sminuisce la funzione gestionale e aumenta la funzione di indirizzo del Governo, e tende a staccare la politica dagli interessi personalizzati. Il proporzionale, come mostra ancora l’esempio della Repubblica di Weimar (e la prima repubblica italiana) corre il rischio di drammatici effetti sull’intreccio fra partiti e gruppi di interessi e soffre di eccessiva commistione tra affari e politica. Rispetto alla governabilità il maggioritario dovrebbe assicurare stabilità governativa, nonché trasparenza ed efficacia materiale delle decisioni politiche data la maggiore definizione della responsabilità politica. Nel proporzionale i governi di coalizione rischiano maggiore instabilità sia strutturale (prepotere di piccoli partiti) che dal punto di vista della realizzazione dei programmi. In ogni caso che la struttura del sistema elettorale ha rilievo nella configurazione della forma di governo, e in genere coinvolge problemi di classificazione del tipo di democrazia; più interessante in questa sede è l’evidenza empirica che mostra che le regole elettorali hanno un effetto diretto e cru- 17 Cfr. C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia (1950), Vicenza, Neri Pozzi, s.d., 420; C. Mortati, Le forme di governo, Padova, Cedam, 1973, 205. 133 ciale sul numero dei partiti 18 . Ma le leggi di Duverger servono a ben poco se non sono inquadrate in un contesto problematico più ampio, in cui gli indicatori di performance sono desunti non tanto da modelli costituzionali più o meno ritenuti adatti/corretti/razionali etc., quanto da risultati quantitativi di natura macroeconomica; questo tipo di analisi ha un avvio molto recente 19 , e si focalizza sugli effetti dei sistemi elettorali della frammentazione politica, e su altri consequenziali indicatori, come la dimensione e la qualità della spesa pubblica, il debito e il deficit, la pressione fiscale, il grado di competizione tra le forze politiche e altri che esamineremo in seguito. In ordine al primo indicatore, la frammentazione, P&T rilevano che l’elevato numero dei partiti generato dal sistema elettorale proporzionale implica che i tax rates non saranno stabiliti da un singolo decisore ma saranno il risultato di una negoziazione legislativa tra una varietà di partiti, ciascuno con un suo proprio apparato e una sua propria constituency, e saranno di conseguenza mediamente più elevati rispetto al sistema maggioritario 20 . Comparando la composizione della spesa pubblica nei due sistemi, la dottrina economica ha isolato vistose differenze nelle conseguenze derivanti direttamente dalla formula Uno studio (Rae) condotto su 107 sistemi elettorali ha verificato una convergenza pressoché totale tra plurality e bipartitismo perfetto; va ricordata ovviamente la cosidetta “Legge di Maurice Duverger”: il maggioritario a un solo turno tende al dualismo dei partiti, il proporzionale a un sistema di partiti multipli, rigidi e indipendenti. 18 19 L. Blume, J. Müller, S. Voigt, C. Wolf, The Economic Effects of Constitutions: Replicating – and Extending – Persson and Tabellini, June 2007, CESifo Working Paper Series No. 2017, www.cesifogroup.de/DocCIDL/cesifo1 _wp2017.pdf. 20 P&T richiamano al riguardo il saggio di D. Austen-Smith, Redistributing Income under Proportional Representation, in Journal of Political Economy, 2000, 108(6), 1235 ss.. 134 elettorale 21 ; introducendo gli ulteriori aspetti dei sistemi elettorali, cioè la dimensione del collegio (precisamente individuabile mediante il numero di seggi da attribuire), e la struttura e le modalità del voto (ballot), la divaricazione dei caratteri dei due sistemi, e del loro differente impatto sull’economia, viene ulteriormente confermata. Sotto il primo aspetto, si osserva che in un sistema di collegi uninominali con formula plurality un partito può vincere le elezioni nazionali con il 25 per cento dei voti 22 ; invece, in un sistema proporzionale con collegio unico nazionale un partito vince le elezioni se consegue almeno il cinquanta per cento dei voti. In sostanza, il partito in sistema maggioritario ha un target definito, e anche dimensionalmente limitato, cui fare promesse, mentre in sistemi proporzionali è costretto a generalizzare i suoi programmi elettorali, offrendo più beni e servizi collettivi, e spingendo in forma incrementale la spesa pubblica 23 . Ciò non toglie che anche in sistemi 21 Distinguendo l’offerta di “genuine public good” da quella di “porkbarrel projects” funzionalizzata a scopi redistributivi, alcuni si sono chiesti se l’incentivo a fornire l’uno o l’altro tipo dipende dalle regole elettorali. In un sistema maggioritario (“winner-take-all system”) un politico è incentivato a soddisfare le preferenze di una constituency definita, che gli porta la maggioranza dei voti, e quindi lo fa promettendogli “pork-barrel projects”; nel sistema proporzionale, un “targeting” del genere ha scarso significato, perché ogni voto conta come gli altri, e pertanto i politici sono portati a promettere beni pubblici in senso ampio, servizi collettivi in luogo di prestazioni personalizzate (A. Lizzeri, N. Persico, The Provision of Public Goods Under Alternative Electoral Incentives, in American Economic Review, 2001, 91(1), 225 ss.). 22 J. Buchanan, G. Tullock, The Calculus of Consent - Logical Foundations of Constitutional Democracy, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1962. 23 T. Persson, G. Tabellini, Political Economics: Explaining Economic Policy, Cambridge, MA, MIT Press, 2000. Una conferma sostanziale in G. M., Milesi-Ferretti, R. Perotti, M. Rostagno, Electoral Systems and Public Spending, in Quarterly Journal of Economics, 2002, 117(2), 609 ss., che mostrano come “il proporzionale” spende di più in trasferimenti, e “il maggioritario” spende di più in beni pubblici a carattere locale, attraverso una indagine empirica su quaranta paesi, che rileva come a dosi maggiori di 135 proporzionali partiti e candidati abbiano constituency individuate e definite, un nucleo duro di elettori/finanziatori, ma ciò aggrava la situazione, perché per definizione, e a differenza dei sistemi maggioritari, tale nucleo deve essere segreto, altrimenti il consenso necessario per essere eletti non potrà essere raggiunto a causa del ritiro della fiducia da parte degli elettori “generici”. Dal secondo punto di vista, la struttura del voto può essere semplificata in due modalità opposte: il voto di lista (bloccato), tipico del sistema proporzionale, e il voto per un candidato individuato, tipico del maggioritario. Interpretando una lista di partito come un “common pool” è evidente che i candidati possono aspettarsi di investire nella campagna elettorale meno in un sistema proporzionale che in uno maggioritario. In tale contesto, corruzione e rendita politica sono tanto maggiori, quanto minore è il rapporto tra candidati eletti individualmente e candidati delegati dal partito 24 . 3. La performance economica delle regole elettorali. I risultati empirici. Se il lavoro di P&T ha obiettivi ambiziosi 25 , i suoi risultati sono sorprendenti. “proporzionalità” corrispondono i più altri gradi di spese per trasferimenti. 24 . Persson, G. Tabellini, Political Economics: Explaining Economic Policy, cit. «Our ultimate goal is to draw conclusions about the causal effect of constitutions on specific policy outcomes. We would like to answer questions like the following: if the United Kingdom were to switch its electoral rule from majoritarian to proportional, how would this affect the size of its welfare state or its budget deficits? If Argentina were to abandon its presidential regime in favor of a parliamentary form of government, would this facilitate the adoption of sound policy towards economic development?» (Persson e Tabellini, The Economic Effects of Constitu25 136 L’evidenza empirica mostra in primo luogo che gli aggiustamenti ciclici di spesa e pressione fiscale dipendono fortemente da forma di governo e regole elettorali. I governi maggioritari sono più favorevoli a tagliare le tasse in periodi di recessione, mentre i governi parlamentari eletti nel contesto di un sistema proporzionale tendono a far crescere la spesa in periodi di recessione, ma non a tagliarla nei periodi di espansione economica. Un altro aspetto concerne l’effetto macroeconomico dei cicli elettorali. Nei regimi presidenziali la tendenza è di rinviare a dopo le elezioni i provvedimenti di contrazione fiscale (perché l’attenzione è più focalizzata sugli interessi di gruppi di pressione individuati e potenti). Dal punto di vista delle regole elettorali emerge un dato sorprendente, che solo nei Paesi a sistema maggioritario si rilevano tagli non solo delle tasse ma anche della spesa pubblica prima delle elezioni, perché i governi in scadenza vogliono dare agli elettori un’immagine più “frugale”; al contrario, nelle democrazie a formula elettorale proporzionale i programmi di welfare sono espansi in vicinanza delle elezioni, per cercare consensi in più larghe fasce di elettori. A parità di altre condizioni, i governi presidenziali si correlano con una spesa pubblica significativamente minore (uno scarto pari a circa il 6 per cento del PIL) una ridotta pressione fiscale, un più basso livello di corruzione (in termini di corruzione “percepita”), deficit di bilancio leggermente più basso e meno intensità del welfare (uno scarto di tions, cit., 7). In sostanza, l’obiettivo è quello di spiegare in termini istituzionali formali, cioè in termini di incidenza delle regole costituzionali, la variazione tra Stato e Stato dei prodotti economici delle politiche pubbliche. Un sintetico quadro teorico presupposto da analisi di questo tipo parte dalla eterogeneità e dal conflitto degli interessi: elettori, politici, lobbisti hanno sistemi specifici di preferenze in ordine alle politiche pubbliche; le istituzioni costituzionali provvedono alla soluzione dei conflitti mediante la generazione di scelte politiche specifiche, e queste si traducono in risultati economicamente misurabili, che possono essere valutati dai destinatari delle politiche; tale valutazione costituisce anche un giudizio sulle istituzioni. 137 circa il 2/3 per cento sul PIL), a confronto dei regimi parlamentari. Riguardo al gioco dei sistemi elettorali, nei Paesi a formula maggioritaria la spesa pubblica è inferiore di circa il 3 per cento del PIL rispetto ai sistemi a rappresentanza proporzionale; mentre è confermata la ridotta intensità del welfare (2/3 per cento), il maggioritario mostra una più sensibile riduzione del deficit (1/2 per cento), e del livello di corruzione dei politici 26 . L’evidenza empirica dimostra inoltre che i Paesi che hanno innovato i loro sistemi elettorali il passaggio dal proporzionale al maggioritario ha ridotto l’intera spesa pubblica almeno del 5 per cento del prodotto interno lordo, del 2/3 per cento la spesa per il welfare, e del 2 per cento circa il deficit di bilancio. Ancora più impressionante è la misurazione degli effetti nei modelli combinati (regime presidenziale con formula elettorale maggioritaria), per i quali lo scarto in termini di spesa pubblica, rispetto alla forma di governo parlamentare con sistema proporzionale, supera il 10 per cento del PIL. Sottoposti ad analisi diacronica, il gruppo di stati che sommano regime parlamentare e sistema proporzionale costituiscono una singolarità per molti aspetti: in primo luogo, la politica finanziaria è «much more persistent»; in secondo luogo, si tratta dell’unico gruppo di Paesi in cui si manifesta un effetto leva sulla spesa: nei cicli recessivi (downturns) l’espansione della spesa (specie sociale) in proporzione al PIL si stabilizza, e non regredisce durante i cicli espansivi (upturns); in terzo luogo, i programmi di welfare«One important conclusion is that electoral rules exert a strong influence on fiscal policy. Majoritarian elections induce smaller governments, smaller welfare states and smaller deficits. These estimated constitutional effects are not only statistically significant and robust. They are also quantitatively relevant. For a country drawn at random from our sample — and over a sufficiently long period to neglect transitory effects — a constitutional reform from proportional to majoritarian elections reduces the size of central government spending by 4-5% of GDP, the size of welfare and social security programs by 2-3% of GDP, and the budget deficit by 1-2% of GDP» (Persson e Tabellini, The Economic Effects of Constitutions, cit., 150) 26 138 state si espandono più in prossimità delle elezioni che in ogni altro periodo; in quarto luogo, il gruppo considerato mostra una dimensione dell’amministrazione relativamente maggiore rispetto agli altri, e tale tendenza diviene particolarmente spiccata nei primi anni ’80 (e, nel caso dei servizi di welfare, nei primi anni novanta) 27 . Le analisi empiriche che hanno condotto P&T a questi sbalorditivi risultati sono state replicate ed anche estese (portando da 86 a 116 il numero dei Paesi considerati) da altri ricercatori, i quali sono giunti alla conclusione che, mentre le evidenze relative alle performance del regime presidenziale in molte regressioni si sono allineate su valori insignificanti, «PT’s results with regard to electoral systems are, however, largely confirmed» 28 . Questa conclusione è meno sorprendente di quanto possa sembrare 29 , dato che le forme “estreme” di governo assunte da P&T nel loro saggio non sono tutte eguali, né formalmente né sul piano della costituzione materiale. Per di più, nelle democrazie rappresentative del terzo millennio, il core della “democrazia immediata”, la legittimazione “diretta”, si è andata ad annidare anche dentro i regimi parlamentari, inclinando il piano della convergenza tra le stesse forme di governo. Indipendentemente da queste considerazioni, che qui non serve approfondire, il suddetto risultato dimostra che gli dei (o i demoni?) stanno nei dettagli, rappresentati, ai fini di queste note, dalle regole elettorali e dal loro modo di incidere 27 Persson e Tabellini, op. ult. cit.., 209. 28 L. Blume, J. Müller, S. Voigt, C. Wolf, The Economic Effects of Constitutions: Replicating – and Extending – Persson and Tabellini, cit. 29 Come affermano gli autori citati nella precedente nota «These results do not lack a certain irony. The central question was, after all: do constitutional rules matter? It seems that it is the details of the electoral systems that matter most. This is ironic as in many (if not most) countries, these details are not dealt with on the level of the constitution. The result also teaches us that God is in the details in the sense that it is not the coarse MAJ variable that is most significant but rather the specifics of the electoral system». 139 sulle corrispondenti configurazioni della costituzione politica, anche indipendentemente da variazioni della forma di governo. Da questo punto di vista, emerge un aspetto, che considero estremamente rilevante in ordine agli obiettivi di questo lavoro, e che attiene all’opportunità di valutare le regole elettorali non tanto sotto un profilo radicalmente dicotomico (majority/plurality vs. proporzionale puro), quanto in relazione agli effetti che un sistema elettorale specifico produce in termini di performance economica dei governi. In altre parole, l’effetto economico di un sistema elettorale potrebbe essere collegato non tanto al suo nomen juris o alla famiglia in cui si inquadra, quanto essenzialmente al suo atteggiarsi in concreto in rapporto ad esempio alla presenza di correttivi, o di contesti particolari. In un lavoro più recente, P&T, in collaborazione con Roland, sviluppando alcuni aspetti teorici del regime parlamentare, formulano l’ipotesi che la competizione elettorale in prospettiva di un governo di coalizione porta a un notevole aumento della spesa pubblica rispetto a una competizione elettorale in prospettiva di un governo monocolore, cioè di un solo partito; l’evidenza empirica offre una robusta conferma di questo assunto. Sul piano teoretico, appare ovvio che le preferenze di policy dei partiti hanno carattere endogeno e derivato da ragioni di rielezione (opportunistic reelection motives), e che le regole elettorali influenzano la spesa pubblica, ma solo indirettamente, dato che «proportional elections induce a more fragmented party system and a larger incidence of coalition governments than do majoritarian elections» 30 . Come si nota, a incidere sugli effetti di finanza pubblica non è la forma di governo parlamentare/presidenziale, e neppure lo scarto tra maggioritario e proporzionale in sé, ma sono alcune condizioni, segnatamente la frammentazione del sistema politico e l’incidenza 30 T. Persson, G. Roland, G. Tabellini, Electoral rules and government spending in parliamentary democracies, in Quarterly Journal of Political Science, 2007, Vol. 2, n. 2, 155. 140 del governo di coalizione, che si verificano solo in un sistema proporzionale puro e non in un sistema maggioritario. Se pare del tutto pacifico che le performance economiche di un regime presidenziale non sono necessariamente diverse o migliori rispetto al regime parlamentare, come mostra in misura eclatante l’esperienza del Regno Unito 31 , è abbastanza sensato supporre che per spingere verso certi effetti economici non sia necessario uno switch completo verso il maggioritario, ma sia sufficiente correggere il proporzionale in modo da conseguire un “effetto utile” analogo? 4. Gli effetti costituzionali dell’economia. Dieci anni fa, un piccolo e denso pamphlet affrontava con eleganza il problema di «quali devono essere i principi del governo dell'economia», ponendo l’accento sull’esistenza di “leggi di natura”, che operano «indipendentemente da, e se necessario contro, la volontà degli uomini». Queste leggi sarebbero due, una "fisica" (né il bisogno di cibo né le "derrate fuori stagione" possono essere impediti o imposti dal governo), una "sociale" ("una mano invisibile trae un bene collettivo dall'interazione degli egoismi individuali"). Secondo l'autore del saggio il mercato si conforma “naturalmente” alla prima di queste leggi, e addirittura esprime la seconda. Al contrario, il «governo dell'economia non ha un rapporto naturale con queste leggi, è mosso dal senso che il bene pubblico è superiore a quello privato, sente l'urgenza di soccorrere i deboli, ha la forza che gli viene dal suffragio popolare: come non ribellarsi all'idea che così nobili intenti debbano fare 31 Sia consentito rinviare a G. di Plinio, I modelli di Maastricht e la Costituzione finanziaria e monetaria britannica, in A. Torre e L. Volpe (cur.), La Costituzione Britannica / The British Constitution, Torino, Giappichelli, 2005. 141 i conti con leggi di natura?». Il governo, come Ulisse, è attratto dal canto delle sirene, si lascia trasportare dalle "ragioni del cuore"; pensa di poter distribuire ciò che non è ancora stato prodotto; è convinto che “con decreto” si possano sospendere le leggi “naturali” dell’economia 32 . Il libretto è bellissimo, ed è consigliabile da leggere, anche se in questo periodo l’Autore stesso ha qualche problema a farne comprendere la logica ai suoi colleghi di governo. In una recente esternazione il Ministro dell’economia ha detto testualmente «sentiamo una polifonia reclamare che le tasse devono essere abbassate, che la caduta del debito pubblico deve essere accelerata, che la spesa va tagliata, che i servizi pubblici devono essere sviluppati, che è necessario aumentare il capitale fisico e immateriale del Paese. Una moltiplicazione dei pani e dei pesci, la ricorrente illusione che lo stesso euro possa essere speso più volte per scopi diversi». E, ancora, «non è possibile soddisfare tutte le istanze; esistono vincoli e priorità: trovare la sintesi è compito dei Governi e dei Parlamenti … Se non ci fossero vincoli non ci sarebbe 'economia' … vivremmo in un mondo di beni liberi, illimitatamente a nostra disposizione; non ci sarebbe bisogno di risparmiare. Ma quel mondo non esiste» 33 . Esistono davvero tali “vincoli”? E quale ne è la natura? Quali sono le relazioni costituzionali tra Stato ed economia? Esiste un rapporto giuridicamente rilevante tra grandezze macroeconomiche e istituzioni? La qualità e quantità delle seconde influenza le prime? E, soprattutto, la dimensione “quantitativa” delle prime costituisce un vincolo “costituzionalmente” rilevante per la struttura, le funzioni, l’attività e la stessa configurazione delle seconde? Esiste, insomma, una costituzione economica? Una domanda del genere può spiazzare, o essere fraintesa. Per chiarire meglio cosa inten32 T. Padoa Schioppa, Il governo dell'economia, Bologna, il Mulino, 1997. 33 Intervento del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa, all’83a Giornata Mondiale del Risparmio (Roma, 31 ottobre 2007), in www.mef.gov.it/web/apri.asp?idDoc=18309. 142 do, si può ad esempio ricordare che fra i vari significati che un’autorevole dottrina 34 assegna al termine costituzione economica, non è esplicitata una nozione “normativa” del concetto 35 ; invece, i tempi sembrano più che maturi per la sussunzione a tutti gli effetti, nel diritto costituzionale, delle grandezze macroeconomiche non solo come “oggetti” di studio o settori di normazione, ma come componenti essenziali del nucleo della Costituzione. Questioni del genere sono sempre state assolutamente legittime, addirittura normali e scontate, all’interno della teoria economica, anzi, si può dire che, a partire dal novecento, le istituzioni costituzionali sono entrate a far parte del core della stessa epistemologia dell’economia politica 36 . Invece, tra i costituzionalisti, tali aspetti sono ancora, nel migliore dei casi, considerati con gentile sufficienza. Valori quantitativi come crescita economica, prodotto interno lordo, deficit di bilancio non hanno mai fatto veramente parte delle loro strumentazioni interpretative 37 . Come gli architetti 34 S. Cassese, La nuova costituzione economica, Roma-Bari, Laterza, 2000, 3 ss. Che peraltro lo stesso Autore sviluppa ampiamente in altre sedi (v. ad esempio, S. Cassese, La costituzione europea, in Quad. cost., 3/1991, 487 ss.). 35 G. Brennan, J.M. Buchanan, The Reason of Rules: Constitutional Political Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. 36 Da tempo diverse voci autorevoli (come ad esempio Bognetti e Guarino) hanno rimproverato i giuspubblicisti di aver prestato poca o affatto attenzione ai meccanismi fondamentali di lettura e interpretazione della costituzione economica, come la moneta, l’occupazione, la liquidità, il mercato, la finanza pubblica, la spesa, il debito pubblico, e allo svolgimento di principi e valori costituzionali, che sono invece divenuti sempre più rilevanti nei processi di globalizzazione economica e di integrazione comunitaria, come il principio antinflazionistico, il divieto di disavanzi strutturali e di indebitamento eccessivo, il divieto di aiuti e incentivazioni alle imprese, il principio di condizionamento finanziario dei diritti sociali, il principio di concorrenza e di libera circolazione dei lavoratori, delle merci, la libertà di stabilimento delle imprese, e così via (v. i riferimenti in G. di Plinio, Diritto pubblico dell’economia, Milano, Giuffrè, 1998). A distanza di decenni, il quadro è lo stesso; buona parte della dottrina costituzio37 143 nascono con la sindrome dell’horror vacui, i giuristi in genere e i giuspubblicisti in particolare sembrano avere un’allergia congenita per tutto ciò che odora di quantitativo, se il quantitativo si presenta sotto forma di valore costituzionale, cioè quando ci si accorge che la costituzione economica non può che funzionare (o meglio effettivamente funziona) ponendo vincoli alla costituzione politica e a tutti i suoi corollari. Ciò è devastante per i “costituzionalismi” valutativi di ogni tipo, ma non entra in collisione con i parametri del costituzionalismo classico 38 . Qui di seguito cercherò di mostrare che alcune misure quantitative sono regole costituzionali, anche in senso formale 39 , sono rivolte ai titolari dell’indirizzo politico, cioè ai Governi e ai Parlamenti, ne condizionano le scelte politiche, e costituiscono parametri per le funzioni pubbliche, compresa quella legislativa. Il completamento del mercato interno e la costruzione dell’Unione economica e monetaria hanno formalizzato la crisi delle preesistenti regole “interventiste” di controllo dei mercati, della moneta e della finanza pubblica in tutti gli Stati membri, in un sistema di regolazione multilivello, che ha posizionato i principi di unitarietà del mercato, di stabilità della moneta e dell’equilibrio finanziario nella ‘fascia alta’ delle fonti giuridiche degli ordinamenti degli Stati, sotto forma di limiti e vincoli parametrici, spostando in sede euro- nalista continua a guardare le stelle, a declamare poemi e ad ascoltare il canto delle sirene. 38 V. supra, nt. 8. Per la metodologia e gli sviluppi delle argomentazioni utilizzate nel testo sia consentito il rinvio a G. di Plinio, Diritto pubblico dell’economia, cit.; Id., Il common core della deregulation. Dallo Stato regolatore alla costituzione economica sovranazionale, Milano, Giuffrè, 2005; Id., La costituzione economica europea e il progetto di Trattato costituzionale, in J. Pérez Royo et al. (cur.), Derecho Constitucional para el Siglo XXI, Navarra, Editorial Aranzadi, 2006, t. I, 2489 ss. 39 144 pea la funzione costituzionale di conformazione e uniformizzazione della legislazione interna. Si tratta di esiti che, a mio sommesso avviso, hanno ampiamente preceduto la revisione costituzionale italiana del 2001 40 . L’Europa ha da tempo una costituzione 41 , indipendentemente dagli esiti del c.d. processo costituente e dalla costruzione di una «cultura costituzionale» dell’Unione 42 , il cui 40 In lavori recenti (cfr. ad esempio i saggi di L. Torchia e F. Pizzetti, sul n. 6/2001 della rivista Le regioni), un estremo rilievo viene dato all'inserimento esplicito operato dalla l.cost. 3/2001 del richiamo all'Unione europea, che consoliderebbe in chiave formale il ruolo che di fatto (ma anche per effetto della giurisprudenza costituzionale) essa già svolgeva, al punto che il diritto comunitario diviene un «elemento di unificazione dell'ordinamento complessivo», e che «oggi non è più sufficiente affermare che la logica antica della separazione dell'ordinamento italiano rispetto a quello comunitario ha ormai definitivamente e formalmente ceduto all'opposta logica dell'integrazione fra gli ordinamenti», ma «in virtù del nuovo testo dell'art.117, è necessario riconoscere che i rapporti tra l'ordinamento europeo e quello italiano sono ora disciplinati in modo tale da configurare qualcosa di molto vicino all'esistenza di un ordinamento complessivamente unitario» (F. Pizzetti, I nuovi elementi "unificanti" del sistema italiano: il "posto" della Costituzione e delle leggi costituzionali ed il "ruolo" dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in www.giurcost.org/studi/Pizzetti2.html). S. Cassese, La costituzione europea, cit., 487 ss.; I. Pernice e F.C. Mayer, La Costituzione integrata dell’Europa, in G. Zagrebelsky (cur.), Diritti e Costituzione nell’Unione Europea, Roma, Laterza, 2003, 43 ss.; P. Häberle, Per una dottrina della costituzione europea, in Quad. cost., 1/1999, 3 ss; T. Oppermann, Il processo costituzionale dopo Nizza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2/2003, 354; N.D. MacCormick, Questioning Sovereignty, Oxford, Oxford University Press, 1999; I. Pernice, The European Constitution, in Europe’s constitution - a framework for the future of the Union, 16th Sinclair House Debate, May 11 12, 2001, Bad Homburg v.d. Höhe, Herbert-Quandt-Foundation, 2001, 18 ss.). 41 42 Su questo ordine di questioni v. ad esempio F. Snyder, EMU Revisited. Are we Making a Constitution? What Constitution are we Making?, Firenze, IUE, WP Law 98/6, 1998, 4; D. Grimm, Una costituzione per l’ Europa?, in G. Zagrebelsky, P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi, 1996, 339 e ss.; P. Craig, Costituzioni, costituzionalismo e l’ Unione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2-3/2002, 357 e ss; J. Habermas, 145 nucleo ha una dimensione prepotentemente economica, e può essere scomposto in tre contesti analitici: una costituzione del mercato unico, una costituzione monetaria, una costituzione finanziaria. La prima è fondata sul principio dell’unità del mercato e dell’eguaglianza senza discriminazione di nazionalità 43 , sulla transnazionalità della regolazione 44 e sul corollario della protezione dell’acquis 45 ; la seconda sulla stabilità monetaria 46 ; la terza sull’equilibrio finanziario e sulla crescita economica 47 . Ciascun contesto racchiude differenti aree o frazioni della sovranità degli Stati e dell’Unione: mercato, moneta, bilancio. Mentre nella prima e nella terza area esiste un grado di condivisione in forma sussidiaria con gli Stati membri, nel caso della funzione monetaria la sovranità è interamente traslata sul livello europeo 48 . Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in G. Bonacchi (cur.), Una Costituzione senza Stato, Bologna, Il Mulino, 2001, 145 e ss. S. Cassese, La costituzione economica europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 6/2001, 911. 43 C. Joerges, The Market without the State? The ‘Economic Constitution’ of the European Community and the Rebirth of Regulatory Politics, in http:// eiop. or. at / eiop / texte / 1997-019a. htm. 44 E.J. Mestmaecker, De la Communauté économique à l’Union économique et monétaire, in Rev. Aff. Eu., 1/1995, 111 s. 45 S. Ortino, La Banca centrale nella costituzione europea, in Le prospettive dell’Unione europea e la costituzione, Atti Conv. AIC, Milano, 4-5 dicembre 1992, Padova, Cedam, 1995. 46 G. Della Cananea, Il patto di stabilità e le finanze pubbliche nazionali, in Riv. dir. fin. sc. fin., 4/2001, 5 ss. 47 P. Häberle, Dallo Stato nazionale all’Unione europea: evoluzioni dello Stato costituzionale, in Dir. pubbl. comp. eur., 2/2002, 458; v. anche N. MacCormick, The Maastricht-Urteil, Sovereignty Now, in Eur. L. J., 1995, 265. Sulle questioni connesse, v. anche R. Welter, L’indipendenza della BCE. La prospettiva tedesca, in F. Belli e V. Santoro [cur.], La Banca centrale europea, Milano, Giuffrè, 2003, 26 ss.; E. Paparella, Governo della moneta in Europa: la «convergenza normativa» in materia di banche centrali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2/2001, 333 ss.; A Malatesta, La Banca centrale europea, Milano, Giuffrè, 2003, in part. 86 ss.. Alla sovranità monetaria non si può applicare il 48 146 La costituzione economica europea è confluita, grazie soprattutto alla giurisprudenza della Corte di giustizia e delle Corti nazionali 49 , in forme e gradi di intensità differenti, nelle costituzioni degli Stati membri 50 , collegando i due livelli coamodello multilevel; per l’Eurozona ciò vale anche sul piano formale, mentre per gli Stati opt-out si possono ipotizzare effetti equivalenti sul piano materiale (G. di Plinio, I modelli di Maastricht e la costituzione finanziaria e monetaria britannica, cit.). H. Rasmussen, On Law and Policy in the European Court of Justice: A Comparative Study in Judicial Policymaking, Dordrecht, Martinus Nijhoff, 1986; Id., The European Community Constitution. Summaries of Leading EC Court Cases, København, Handelshøjskolens Forlag, 1989; Id., The Court versus State Sovereignty, in I. Cameron e A. Simoni (cur.), Dealing with Integration: Perspectives from Seminars on European Law 1995-1996, I, Uppsala, Iustus, 1998, 183 ss.; Id., The European Court of Justice, Copenhagen, GadJura, 1998; G.F. Mancini, The Making of a Constitution for Europe, in C. Mkt L. Rev. 1989, 595 ss.; Id., Attivismo e autocontrollo nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Riv. dir. eur., 2/1990, 229 ss.; M.P. Maduro, 'We the Court' The European Court of Justice and the European Economic Constitution, Oxford, Hart Publishers, 1998. 49 50 Va sottolineato che le costituzioni economiche nazionali, indipendentemente dai vincoli europei, sono sottoposte a stress già dall’azione di fenomeni oggettivi di dimensione ultrastatale, innestati dai processi di globalizzazione dell’economia (J.E. Stiglitz, Globalization and its Discontents, London, Allen Lane, 2002). Le regole che la Comunità europea e l’Unione economica e monetaria stabiliscono per i governi nazionali dell’economia esistevano, sotto forma di imperativi economici, prima che i Trattati le formalizzassero: allargamento e liberalizzazione del mercato, denazionalizzazione, privatizzazioni, deregulation, stabilità finanziaria, equilibrio monetario, criteri di convergenza hanno il fondamento comune in un processo che riduce i margini di manovra degli Stati (A. Baldassarre, Globalizzazione e internazionalizzazione delle decisioni, in Ripensare lo Stato, cit., 84.) e aggrava la crisi delle costituzioni “keynesiane” (J.M. Buchanan e R.E. Wagner, Democracy and Keynesian Constitutions: Political Biases and Economic Consequences, in P. Peretz (ed.), The Politics of American Economic Policy Making, New York, M. E. Sharpe, 1996, 249 ss.). Il nucleo fondante di tali regole non è determinato da nessuno, il loro contenuto non è influenzabile dai pubblici poteri; la sanzione per la loro violazione è la crisi fiscale, con la conseguente perdita di identità, ricchezza, sovranità. La teoria giuridica dell’indirizzo politico ne risulta stravolta: la globalizzazione contiene una forza materiale di trasformazione delle costituzioni eco- 147 tituzionali e creando continuità fra essi. Al processo di comunitarizzazione del controllo sul mercato unico si è sommato, in pochi anni, l’effetto esplosivo della nuova costituzione monetaria europea, che ha accentuato e le trasformazioni, ha elevato l’equilibrio monetario e il pareggio tendenziale di bilancio a livello di valori costituzionali primari, ha sottratto agli Stati la sovranità monetaria e quella finanziaria 51 , ha escluso la finanziabilità della politica economica con la manovra monetaria 52 , ha agganciato la spesa pubblica e le grandezze macroeconomiche ad un elemento quantitativo, il prodotto interno lordo, costituzionalizzando di conseguenza l’obbligo di rientro e di produttività della spesa. La stabilità (monetaria e finanziaria) è così divenuta il fondamento della costituzione economica; la sovranità economica degli Stati è stata conseguentemente limitata da un nomiche e di convergenza dei modelli costituzionali; questa forza viaggia da sola, e nessun atto di volontà è in grado di invertirne la direzione. Secondo G. Guarino (Pubblico e privato nell’economia. La sovranità tra costituzione e istituzioni comunitarie, in Quad. cost., 1992; La grande Rivoluzione: l’Unione europea e la rinuncia alla sovranità, in Convivenza nella libertà, Scritti in onore di Giuseppe Abbamonte, II, Napoli, Jovene, 1999, 765 ss.) il percorso obbligato per fronteggiare questo tipo di crisi passa per Unione economica e moneta unica. Se si accetta questo punto di vista, la traslazione di sovranità verso l’Europa o altri poteri ultrastatali non è un aspetto della globalizzazione, ma è la risposta ad essa (J. Habermas, The European Nation-State and the Pressures of Globalization, in N. Left Rev., 235/1999, 46 ss.; Id., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Milano, Feltrinelli, 2002), così come il dominio della costituzione economica europea sulle costituzioni nazionali non è un effetto oggettivo e ineluttabile ma la migliore difesa degli Stati membri contro i rischi della globalizzazione (R. Prodi, La tela di Penelope, in G. Tognon [cur.], La tela di Prodi. Una Costituzione per un’Europa più democratica, Milano, Baldini e Castoldi, 2003, 16). Ciò consente di fondare una costituzione economica europea indipendentemente dalla formalizzazione di una costituzione europea. 51 G. Della Cananea, Il Patto di stabilità, cit., 584. 52 S. Ortino, La Banca centrale nella costituzione europea, op. loc. cit. 148 contesto di vincoli funzionali alla protezione e al rafforzamento dell’equilibrio economico complessivo. In armonia con tale contesto, la costituzione economica italiana, come quella degli altri Stati membri dell’Unione, deve essere scomposta in tre sub-sistemi normativi. Il primo raccoglie le norme fondamentali della disciplina del mercato nelle sue varie tonalità e implicazioni (concorrenza, libertà economiche e poteri conformativi delle medesime, regolazioni incidenti sul mercato e sulla concorrenza, incentivazioni considerate sotto il profilo dell’incidenza sugli assetti del mercato, contratti delle pubbliche amministrazioni, iniziativa economica pubblica in quanto concorrente sul mercato, politiche doganali esterne). Il secondo è costituito dalla politica monetaria, compreso il controllo sui fenomeni in grado di influenzare la moneta (nonché le relative discipline, come ad esempio la politica valutaria, la vigilanza sulle banche, l’organizzazione dei mercati finanziari, la disciplina dei sistemi di pagamento, ecc.). Il terzo racchiude le politiche di bilancio (nei suoi sottoinsiemi e pertinenze, quali finanza comunitaria, politiche fiscali, politiche macro-economiche e di spesa, procedure, finanze nazionali, diritto contabile pubblico), e il “governo dell’economia” (incentivazioni, regolazioni, iniziativa pubblica, amministrazioni nazionali e subnazionali, servizi e politiche di welfare) considerato sotto i profili del condizionamento finanziario e del rapporto risorse/risultati nel quadro delle politiche di stabilità e crescita. Ciascuna delle aree in cui si divide la costituzione economica nazionale ha un distinto nucleo “duro”. La costituzione del mercato è fondata sul principio funzionalista di unitarietà, sull’eguaglianza senza discriminazione di nazionalità, su liberalizzazioni e privatizzazioni, sulla transnazionalità della regolazione e sul corollario della protezione dell’acquis communautaire. La costituzione monetaria è fondata sulla stabilità della moneta, sulla separazione tra politica monetaria e politica economica, sul divieto di inflazione. 149 La costituzione finanziaria è a sua volta fondata sul divieto di disavanzi eccessivi, sulla riduzione dell’indebitamento pubblico, sull’equilibrio finanziario, sul condizionamento fiscale e la produttività della spesa, sulla crescita economica. In concreto, il controllo di queste grandezze avviene all’interno delle procedure di bilancio, attraverso varie limitazioni e accorgimenti tra le quali in particolare l’obbligo dello Stato di costruire la decisione finanziaria sulla base della preventiva determinazione di un “saldo” netto di bilancio – che rappresenta il differenziale tra le spese pubbliche e le entrate fiscali o patrimoniali di tutte le pubbliche amministrazioni, sia a livello statale che a livello regionale e locale – la cui misura va parametrata al PIL e costituisce il limite di indebitamento complessivo del settore pubblico e contemporaneamente un vincolo costituzionale per tutti i pubblici poteri interni. In termini riassuntivi, risulta costituzionalizzato il principio di condizionamento finanziario di tutta l’organizzazione e di tutta l’azione dei pubblici poteri, compresa la spesa per welfare e diritti, e compresa la loro conformazione legislativa . L’effetto, nella situazione italiana in particolare, è una pressione che mira a una riduzione netta in termini assoluti della dimensione delle pubbliche amministrazioni. L’impossibilità di continuare a finanziare la spesa con debito e manovra monetaria, oltre a costituire uno choc culturale per la classe politica, mette radicalmente a nudo la divaricazione tra le dimensioni raggiunte dagli apparati e la loro sostenibilità in termini fiscali, avviando un processo di delegittimazione economica delle pubbliche amministrazioni, sia dal punto di vista strutturale, sia in relazione alle funzioni 53 . Una conseguenza cruciale consiste nel fatto che ai governi e alle pubbliche amministrazioni viene imposto un vincolo di 53 Sia consentito rinviare a G. di Plinio, Il common core della deregulation, cit., passim. La tendenza, per effetto della traslazione del vincolo di stabilità ai vari livelli territoriali di governo, si trasferisce anche a questi, accentuando competizione territoriale e federalismo fiscale. 150 produttività, a causa del progressivo agganciamento della spesa pubblica al prodotto interno lordo. La riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (l.c. 3/2001), assorbe tutto questo all’interno della costituzione formale. In base al nuovo art. 117, comma 1, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione e «dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario» e dagli obblighi internazionali: il riferimento non solo al mercato unico (testualmente richiamato nell’art. 120, comma 1) ma anche alla costituzione finanziaria “europea” è assolutamente ovvio. Non a caso, l’art. 119, nel prevedere che l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa attribuita a Comuni, Province e Regioni (comma 1), dettagliata nelle risorse autonome (tributi propri e compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, comma 2, e integrata con il fondo perequativo di cui al comma 3), stabilisce che tali risorse debbono consentire alle autonomie territoriali «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (comma 4), introducendo in tal modo principi di collegamento tra la spesa e il prodotto lordo dei territori, mentre l’attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato delle funzioni relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale testimonia l’esigenza di coniugare la garanzia di un welfare essenziale con le esigenze di equilibrio della finanza pubblica. D’altra parte, il fatto che sempre tra le materie attribuite alle funzioni legislative esclusive dello Stato compaiano moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari, tutela della concorrenza, sistema valutario (art. 117, comma 2, lett. e) e, tra quelle concorrenti, armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, esprime un principio fondamentale di tutela dell’unità economica della Repubblica (art. 120, comma 2) che deve essere collegato non solo alle esigenze di tutela dell’integrità territoriale e all’interesse nazionale, ma anche e soprattutto ai vincoli comunitari, come del resto testimonia il comma 1 dello stesso 151 art. 120, quando, nello stabilire che la Regione non può «adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni», recepisce anche nel linguaggio i valori più forti del mercato unico e della costituzione economica europea. 5. Considerazioni conclusive: il referendum elettorale, il sistema politico e la costituzione economica. Tirando le somme, e prendendo di mira un contesto di finanza pubblica pericolante come quello italiano, sembrerebbe abbastanza facile individuare negli effetti economici del sistema elettorale maggioritario (con formula plurality) il modello più coerente con le sequenze di principi e regole derivabili dalla nuova costituzione economica europea. Questa conclusione sarebbe suffragata da una controprova vivente: la costituzione finanziaria del Regno Unito, paradigma incontestato della formula elettorale maggioritaria plurality, è fra tutte le costituzioni finanziarie degli Stati membri (dentro o fuori l’Eurozona) quella più efficiente e aderente al modello della costituzione economica europea 54 . Gli strumenti di Gordon Brown sono lucidi e funzionali; gli interruttori del pannello di controllo funzionano tutti, e sono a disposizione del governo inglese. Gli elettori sanno con totale precisione a chi dare la colpa se qualcosa va male, o il merito delle performance positive. Invece, mantenere la finanza pubblica italiana entro i parametri della costituzione economica europea, con le regole elettorali (e il sistema politico) attuali è una impresa disperata; ogni finanziaria diventa una via crucis, ogni riforma 54 G. di Plinio, I modelli di Maastricht e la Costituzione finanziaria e monetaria britannica, cit.. 152 strutturale che potrebbe accelerare la riduzione del debito (o almeno impedire che aumenti ancora) richiede lacrime e sangue, e, se giunge in porto, ci arriva piena di tagli e deformazioni, e comunque come è dimostrato dall’esito delle “Bassanini” e ora del nuovo Titolo V e delle riforme sul tappeto, dai servizi pubblici locali al federalismo fiscale, viene paralizzata in sede di enforcement, fino e anche oltre la mannaia della Corte di Lussemburgo. L’unico gioco possibile in sede di controllo finanziario, è quello delle forbici dei Ministri dell’economia e dei loro Dipartimenti, che a partire dal 1988 hanno progressivamente imposto programmazione di bilancio e regole europee 55 ma la fame di spesa pubblica ricompare dove meno te l’aspetti, sotto forma di derivati finanziari o di politiche locali delle sanzioni automobilistiche. È una politica finanziaria di mera sopravvivenza, continuamente a rischio di cadute e scivoloni, continuamente alla rincorsa di capitoli di bilancio che tentano di espandersi nelle direzioni da cui provengono i canti delle sirene. In condizioni di estrema crisi fiscale, lo Stato è percepito come il principale 55 Un recente contributo (S. Fedeli, F. Forte, Measures of the amending power of government and parliament. The case of Italy 1988–2002, in Economics of Governance, 2007, vol. 8, n. 4, 309 ss, partendo dall’analisi economica dell’amending power sulla legge finanziaria nel periodo compreso tra il 1988 e il 2002, consente di concludere che ‘Maastricht’ ha governato la legislazione finanziaria italiana indipendentemente dal sistema elettorale; a parte altri importanti e discutibili risultati, ciò significa che, in presenza del processo costituente dell’Unione economica e monetaria, l’effetto delle due differenti formule elettorali (la proporzionale fino al 1994 e una maggioritaria corretta a partire da tale anno) sull’amending power è scarsamente significativo in entrambi i casi, grazie alla cascata di riforme finanziarie imposte dalla nuova costituzione economica a partire dal 1988 alla legislazione finanziaria e di bilancio (In argomento, G. di Plinio, T.E. Frosini, G. Parodi, Corso di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 2007, 155 ss.; v. anche G. Rivosecchi, L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Padova, Cedam, 2007). In realtà, ci sarebbe una sfasatura temporale dell’effetto Maastricht, ma forse può essere spiegata con l’accelerazione post Atto Unico Europeo, nel contesto dello SME, iniziata nella metà degli ’80. 153 responsabile di questa crisi; l’autogenerazione e la vorticosa crescita dell’antipolitica sono effetti sostanzialmente scontati. Ma, ciò che è più grave, uno Stato in queste condizioni non solo non genera, ma addirittura frena la crescita economica, e, lo ricordiamo, il prodotto interno lordo è un valore costituzionale, nella misura in cui costituisce la pietra di paragone delle finanze pubbliche. Si percepisce chiaramente una mostruosa contraddizione, insanabile alle condizioni attuali: più il costo di una politica alla ricerca disperata di risorse pubbliche da distribuire (o, nel peggiore dei casi, intascare) rallenta l’economic growth;, tanto più la stagnazione del PIL riduce le risorse finanziarie disponibili per la dirigenza politica e i suoi programmi. L’equilibrio che si è rotto nel nostro Paese ha una dimensione costituzionale, e può essere ricostituito solo a patto di riconfigurare la politica a dimensione dell’economia. Ciò non sarà forse condizione sufficiente, ma è assolutamente necessaria, e doverosa ai sensi dei principi e dei valori della costituzione economica europea. La legge elettorale vigente, sotto questo profilo, risulta ‘incostituzionale’ non tanto in sé, quanto, indirettamente, per la sua idoneità a generare effetti economici su equilibri di finanza pubblica, garantiti dai vincoli europei direttamente richiamati, quali valori formanti e condizionanti le fonti primarie del diritto italiano, dalla attuale configurazione anche formale della Carta costituzionale. È appena il caso di rilevare che il referendum abrogativo di tale legge, in corso di procedura, non potrebbe in nessun caso generare automaticamente un modello maggioritario; potrebbe, e questo sarebbe già un risultato rilevante, rinsaldare la costituzionalizzazione dell’esito referendario del 1993. Ma non è questo il punto. Il referendum è congegnato in modo da produrre effetti giuridici autoapplicativi, riconfigurando la legge elettorale proporzionale, che resterebbe tale, attraverso la generazione di alcuni correttivi, fin troppo noti per essere ancora dettagliati in questa sede, dove è sufficiente rilevare che i partiti sarebbero costretti a fondersi prima delle 154 elezioni; aggiungendo il gioco degli sbarramenti, il sistema sarebbe drasticamente semplificato e, automaticamente, senza bisogno di interventi legislativi ulteriori, riconfigurato nelle forme del bipartitismo. Ha senso tale risultato alla luce degli imperativi posti dalla costituzione economica europea? In realtà la costituzione economica, nei termini in cui è stata precedentemente esaminata in queste note, non impone direttamente una formula elettorale o l’altra, ma solo che il sistema elettorale sia coerente con (e soprattutto non ostacoli) il conseguimento di specifici risultati economici. Come abbiamo già avuto occasione di notare, la spiegazione teoretica dell’asimmetria di performance economica dei sistemi elettorali maggioritario e proporzionale non si ferma agli aspetti giuridico-formali, ma entra nei dettagli, in particolare in quelli che potremo chiamare i “prodotti politici” delle formule elettorali in determinati contesti. Insomma, non è il sistema proporzionale in sé a generare più corruzione, anche se le evidenze empiriche sono pressoché univoche al riguardo 56 , né a dilatare dimensione delle amministrazioni, deficit e debito pubblico; questi effetti sono piuttosto riconducibili ad alcuni caratteri di configurazione del sistema politico, che tendenzialmente (ma non necessariamente) sono J. Kunicova, S. Rose-Ackerman, Electoral Rules and Constitutional Structures as Constraints on Corruption, in British Journal of Political Science, 2005, vol. 35, 573 ss.; T. Persson, G. Tabellini, F. Trebbi, (2003), Electoral Rules and Corruption,in European Economic Review, 2003, vol. 1, 958 ss., che tra l’altro dimostrano la forza corruttiva del sistema proporzionale anche quando questo si innesta in regimi presidenziali. 56 155 generati dal sistema proporzionale, in contesti particolari 57 . Tra i caratteri in questione, i più rilevanti in rapporto all’impatto economico sono proprio: 1) la frammentazione delle forze politiche e 2) la generazione di governi di coalizione privi di un controllo unitario determinante 58 . L’esito positivo del referendum abrogativo avrebbe precisamente questi risultati, dei quali tra l’altro l’elettorato ha una netta percezione ancora prima del voto referendario, dati la chiarezza dei quesiti e il contesto di eccezionale divulgazione nei mass media, rafforzata dall’atteggiamento dei partiti maggiori che hanno avviato processi nella direzione della concentrazione. La classe politica è strutturalmente incapace di introdurre regole che riducano la propria dimensione e i propri spazi di rendita e di manovra e le consentano di governare, e non distruggere, l’economia; ma è proprio questo che impone la costituzione economica europea. Il referendum è forse l’ultima occasione per aiutare sia l’una, sia l’altra. A. Alesina, Choice of Constitutions and Electoral Systems, in CESifo DICE Report 3/2007. 57 58 T. Persson, G. Roland, G. Tabellini, Electoral rules and government spending in parliamentary democracies, op. loc. cit. (e vedi anche supra,paragrafo 3). 156