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INTRANSIGENZE
CANNA LIBERA
MA A CHI LA MERITA
Le droghe non sono mai libertà, solo catene. Chi non è una rockstar lasci perdere
dalla prima pagina
Se pensiamo agli archetipi
degli uomini liberi, da Prometeo a Ulisse, da Spartaco
a Saint-Just, c’è qualcosa
che li accomuna: la lucidità.
La conoscenza come necessaria premessa all’azione.
Non viviamo certamente
un momento illuminato.
Tantomeno felice. L’incertezza domina le nostre vite.
Finita la belle époque del
nostro secolo, sembra che il
futuro annunci collisioni
storiche che stravolgeranno gli equilibri stabiliti da
crisi precedenti.
Ed è in tempi come questi
che il successo di sostanze
(e comportamenti) che agiscono da vie di fuga dalla realtà hanno più presa, soprattutto sui più giovani.
In questo pantano, in cui
gli incaponiti burocrati e i
vuoti ideologi di partiti e
consessiculturalisidividonotraproibizionismo e antiproibizionismo, sembra tocchi proprio all’organizzazione “oppiacea”
pereccellenzarilevare,permezzodellacuria torinese, come su questioni del genere
non si possa decidere con “una conta tra
qualche decina di consiglieri, che rischia di
essere come l’orchestrina del Titanic che
meravigliosamente suonava il proprio
spartitonelpienodiunatragediacorrendo
il rischio di non rappresentare nessuno”.
Da ateo orgoglioso, resto sempre ammirato dalla secolare capacità spirituale della
Chiesa di interpretare, meglio di tanti accrocchi politici temporali, le battaglie per
la Vita. E altrettanto stupito di come, proprio a un’organizzazione che ha sulla coscienza crociate e discriminazioni, oscurantismo e reazione sociale, sia delegato il
vessillo della ragione che i progressisti, nel
loro cieco illuminismo, figlio di un anticlericalismo ciuco, credono di portare.
Ci sono studi che dimostrano che oggi il
fumo sia più dannoso di un tempo perché
tagliato con i peggiori prodotti, altri che la
cannabissiainnocuapergliadultiedannosa solo per i minori. Sembra che il punto siano sofismi e cavilli su droghe leggere o pesanti, quando, come fa notare Gaetano Di
Chiara, ordinario di farmacologia a Cagliari, già presidente della Federazione delle
società europee di neuroscienze (Fens) in
unasuabrillanteletteraallaStampa,laleggerezza o la pesantezza, più che alle sostanze, andrebbe riferita all’utilizzo. Parafrasando, un conto è la morfina per un sofferente, un conto per un furbacchione.
Tempo fa, prima che anche gli olandesi
iniziassero a interrogarsi se, per la pubbli-
In alto, un monento della manifestazione del 7
gennaio a Roma
per chiedere “la
fine della persecuzione per i consumatori della
cannabis’’.
Qui accanto, il
musicista Keith
Richards, simbolo
di una vita al limite, anche con
l’uso di droghe
ca sicurezza, non fosse il caso di vietare la
vendita di hashish agli stranieri, ero a un
eventoculinarioorganizzatodaunmobilificio perugino (non chiedetemi perché) e
un signore sui settanta raccontava di lui e
della moglie in un coffeeshop ad Amsterdam. Avevano cercato invano di comprare
del“fumo”ma,allafine,intimoritidallevarietà, si erano limitati ad acquistare un lecca-lecca alla marijuana.
Trovo questo aneddoto tenero e, idealmente, non vedo niente di male se due anziani che non hanno mai fatto uso di droghe decidono di provarle insieme.
D’altra parte non ci sarebbe niente di
male neanche in una coppia di distinti signori che giocano qualche spicciolo delle
loro dorate pensioni al casinò. Eppure, siccome ideale e reale configgono spesso,
chiunque sia mai entrato in vita sua in una
sala slot (o abbia incrociato lo sguardo incavato dei raschiatori di Gratta e Vinci,
non solo nei tabacchini, ma anche dentro
ospedali, supermercati, uffici postali) sa
bene come non ci sia niente di romantico
nel guardare quegli zombie, di ogni estrazione sociale, rovinarsi con le loro stesse
mani (non a caso Cavour chiamava il gioco
“tassa sugli imbecilli”).
Il rischio della legalizzazione è che alla
cannabis succeda quello che è successo al
gioco: un’impennata d’azzardo patologico,
lieve flessione delle bische (se credete che
non ci siano più siete degli allocchi), affari
d’oro per gli strozzini.
“Chi sostiene che legalizzare la cannabis
taglierebbe le unghie alla criminalità organizzata dimostra di avere una visione fanciullesca di mafia, ’ndrangheta e camorra,
che continuerebbero allegramente a spacciare eroina, cocaina, ecstasy, etc ben liete
del fatto che le file del parco buoi da sfruttare possono aumentare a dismisura” scrive Giovanardi sul Foglio (molto simile a
quanto diceva Paolo Borsellino parlando di «tesi
semplicistica e peregrina»,
tipica di quanti hanno «fantasie sprovvedute»).
Ai giovani servono lavoro
e prospettive, non paradisi
artificiali.
E fortunatamente la
maggioranza non venera
l’ottundimento, ma elogia
la lucidità.
Detto questo, non vorrei
essere equivocato. Non mi
sento il campione di una
gioventùdorataeresponsabile. E il mio pensiero controdroghe,piùcheunaquestione morale o politica, è
unaquestioneestetica.Non
credo affatto che tutte le
persone siano uguali. E
pensoche,sefossepossibile
(manonloè),l’idealesarebbe un uso aristocratico della droga.
Che Keith Richards si
droghi mi riempie di gioia.
Lo stesso vale per attori, modelle, artisti in
genere. Come per il look e lo stile di vita.
Ti fai una cresta col riporto, indossi un
chiodo con le borchie ma hai la pancetta e
fai il consigliere comunale? Ti prego, abbi
pietà!
Sei il frontman ventenne di un gruppo
punk di successo? Yeah!
Non tutti possiamo sfasciare camere
d’albergo o morire di overdose diventando
leggende.
A ognuno il suo: chi non è Jim Morrison
lasci perdere whisky e cocaina.
E chi lo è, beh, buon per lui. E per il suo
spacciatore.
Le droghe non sono mai libertà, solo catene, leggere o pesanti, per anime corrotte.
Una classe di cui nessuna società può permettersi di mantenere molti esemplari.
Quello che i reduci dei centri sociali, coi
rasta ormai grigi e le rughe d’espressione
mascherate da kefiah più sporche che minacciose non hanno mai capito è qualcosa
che Hunter Thompson, magistrale autore
del bellissimo bignami dei drogati colti
“Paura e disgusto a Las Vegas”, ha cercato
di spiegar loro da tempo: “Ciò che Leary
(teorico della psichedelica, ndr) si è portatoviaconséèl’illusionediuninterostiledi
vita che lui stesso aveva contribuito a creare, una generazione di storpi permanenti,
ricercatori falliti, che non ha mai capito la
vecchia essenziale falsità mistica della cultura dell’acido: la disperata supposizione
che qualcuno, o almeno qualche forza, custodisse la luce alla fine del tunnel”.
MILANO. Ha debuttato al Piccolo Teatro
una nuova produzione, “Visita al padre”
di Roland Schimmelpfennig, il più rappresentato in Germania tra gli scrittori
tedeschi viventi. Il quarantaseienne autorediteatrodalnomeimpronunciabileè
autore prolifico e in Italia ha avuto fortuna con commedie dense e singolari quali
ad esempio “Notte araba”, visto alla Teatro della Tosse di Genova nel 2007 per la
regia di Sergio Maifredi.
Per la verità Schimmelpfennig esige
sempre ottime regie come questa di Carmelo Rifici, al Piccolo fino al 16 febbraio,
che impagina con estrema, rarefatta cura
il testo nelle eleganti cornici di Guido Buganza,organizzandoazioniesequenzesu
tre livelli di scena. Essenziali le musiche
LA CRISI DELL’OCCIDENTE
NEI CONFLITTI DI FAMIGLIA
scelte, oppure originali, di Daniele D’Angelo, vedi l’accompagnamento secondo
Bach della fuga-ricerca di una giovinetta
di preziosi libri russi. Si riferisce in primo
luogo della amorosa, attenzione formale
di Rifici e dei suoi e della strepitosa prova
del “padre” Massimo Popolizio , per tacere della debolezza del testo. “Visita al padre” racconta, a un primo livello, la storia
ditalePetercheritornaall’improvviso,figlio naturale che scombina la famiglia apparentementequietadelpadre,Heinrich,
che di lui non sapeva nulla. Come in “Teorema” di Pasolini il nuovo ospite seduce
ogni donna, la matrigna, la nipote di lei, la
sorellastra, si suppone per chieder ragio-
nealpadredellasolitudineincuièvissuto
fino a quel momento e di un lascito morale mai avuto. La commedia non dice come
e perché è arrivato il giovane dagli Usa in
unpaesinodellaGermaniasottolaneve,e
restavolutamentemisteriosasumoltoaltro, citando Ibsen e Cechov, inconsapevoli ispiratori. Peter quindi cerca un’
identità, in conflitto con il padre.
Però esiste un secondo livello di azione
e di lettura, che adombrerebbe, niente
meno, la ricerca da parte dell’Occidente
dei motivi dei drammatici avvenimenti
della Germania del XX secolo, suggerita
allo spettatore con ogni mezzo, compreso
unenormetappetoaformadiGermaniae
LUNEDÌ
20 GENNAIO 2014
11
IL CASO “GLI IMPRENDIBILI”
Gli anni di piombo
pongono interrogativi
ancora senza risposta
Prosegue il dibattito sul libro “Gli imprendibili” di Andrea Casazza (DeriveApprodi, 490 pagine, 25 euro). Dopo la
polemica aperta da Roberto Speciale e la
risposta di Casazza, sono intervenuti
Marco Peschiera, Silvio Ferrari e Franco
Manzitti. L’autore Marcello Zinola è stato giornalista del “Secolo XIX”.
MARCELLO ZINOLA
una bella sinossi storica sul libretto di sala.Schimmelpfennigpoisidilettadifarcire il tutto con richiami letterari tra ScandinaviaeRussia,mentreilplotdelreduce
a casa sua, che crea quel disturbo che questotestononcrea,èilpiùanticodell’Occidente, dai Greci a Ruzante. Poco credibili
inscenaleconquisteserialidiPeter-Marco Foschi, scarsamente seduttivo. Per il
resto, gli otto interpreti si muovono bene,
attentamente guidati anche qui da Rifici,
con la punta di eccellenza di un Massimo
Popolizio in stato di grazia. Ottime Mariangela Granelli e Anna Bonaiuto, inutili
i presagi di sangue sparsi per terra e disattesi da un finale in cui, alla fine, il padre
caccia il figlio senza ucciderlo, ma anche
senza concludere in maniera sensata il
velleitario pezzo.
No, il libro di Andrea Casazza “Gli imprendibili” non è “un utile ripasso di un periodo
drammatico”, ma una concreta e condivisibile (documentata) storia di un’epoca e di un
periodo sul quale, a distanza di anni come dimostra l’opinione espressa da Roberto Speciale, ex dirigente del Pci dell’epoca, non
sembra ancora possibile riflettere e discutere. Il pregio de “Gli imprendibili” è di offrire
sia un quadro completo di lettura di tutti i
fatti e degli atti di indagine e contro indagine
svolti sulle diverse vicende terroristiche, sia
una lettura del quadro sociale e politico, delle
analisi fatte, sulla vicenda genovese e no, del
terrorismo. Ed è su questo fronte che si riapre, non la ferita, ma l’incapacità ancora oggi
esistente, di affrontare la discussione senza
avere occhi e mente vincolati o condizionati
dal clima plumbeo e di piena emergenzialità
che caratterizzò quegli anni con una innegabile riduzione degli spazi di democrazia e di
agibilità politica, del dissenso, dentro e fuori i
partiti, quelli della sinistra storica in testa.
Dire no al terrorismo e alla violenza armata, agli omicidi, agli attentati (il libro con la
sua cruda ricostruzione lo fa non in modo
implicito, ma esplicito), ma difendere ieri come oggi gli spazi del dissenso e della riflessione, riporta spesso sempre alla stessa logica:
l’emergenza cancella questo diritto-dovere.
Ecco perché, seppur con difficoltà, è necessario riaprire il confronto culturale e politico
su quegli anni e sui protagonisti, senza dimenticare le vittime che come quasi sempre
accade in tutte le vicende violente, politiche
o no, sono quelle con il ricordo e la considerazione minore. Andrea Casazza racconta
con la chiarezza (non la crudeltà) del cronista le vicende, le documenta rivelando anche
fatti e particolari (come per il caso di via
Fracchia e la vicenda di Giorgio Moroni e gli
altri arrestati, condannati e poi riabilitati per
essere stati incarcerati con una falsa inchiesta costruita su false prove) mai adeguatamente chiariti. Ci provò il Secolo XIX quando, negli anni Novanta rese pubblici gli atti
del blitz di via Fracchia. E ricordo le reazioni,
infastidite, ai due servizi che realizzai per Il
Secolo XIX. Ci provò Il Corriere Mercantile
alcuni mesi dopo pubblicando le foto di quel
blitz che riproponevano le ombre sull’effettiva dinamica della tragica irruzione.
E, ancora Il Secolo XIX, con l’esplosione
del cosiddetto caso del colonnello Michele
Riccio (giornale unico a parlarne per mesi,
prima degli arresti e dei processi) evidenziò
(le parole sono l’incipit dell’ordinanza di custodia cautelare) come il “metodo Riccio” (lo
stesso che portò in carcere Moroni e altri innocenti) e la violazione dei diritti di qualsiasi
indagato, fossero inaccettabili e ingiustificati
anche quando si trattava di perseguire criminali e trafficanti internazionali di armi o droga). I giudici scrissero che la cultura dell’emergenzialità non poteva giustificare la
violazione dei diritti e delle regole e che uno
Stato di diritto degno di questo nome non
poteva, né doveva ricorrere alla costruzione
di false prove, false accuse, per raggiungere
un obiettivo di giustizia.
Ecco: “Gli imprendibili” pone degli interrogativi che ancora oggi trovano difficoltà di
risposta e di riflessione. Neutre, prive dell’orpello del buio di quegli anni, che potrebbero
contribuire – senza alcuna vocazione all’ergersi a giudici delle persone – a capire il perché di quell’epoca andando al di là di generiche e ovvie considerazioni sul progetto folle
del terrorismo. A capire gli errori di valutazione. Di indagine. Farlo oggi sarebbe importante e, comunque, come dice Casazza, servirebbe, serve, a fare sì che non si ripetano
quegli anni. Per fare sì che “Imprendibile”
non diventi la voglia e, soprattutto, il coraggio di capire anche se questo può fare male.
Nel senso di ammettere che qualche errore
di valutazione è stato fatto, che si poteva fare
di più. O, semplicemente, capire che chi e cosa, a volte, è fuori dal coro o da quanto appare
come scelta politica ineluttabile (lo scontro
maggiore e la chiusura maggiore, all’epoca, fu
proprio del Pci), non è necessariamente votato al terrorismo o alla violenza.
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MARCO CUBEDDU
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“VISITA AL PADRE” DI SCHIMMELPFENNIG, NUOVA PRODUZIONE DEL PICCOLO DI MILANO
MARGHERITA RUBINO
IL SECOLO XIX
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Intervento di Marcello Zinola, 20 gennaio 2014