II
STORIA DELL’AZIENDA TURATI
DAGLI ANNI VENTI ALLA RIFORMA FONDIARIA
TRICARICO. NOTE STORICO-SOCIALI DALLE ORIGINI AGLI ANNI 50
Il paese di Tricarico domina le valli del Bradano e del Basento a 698 m.
di altezza, in provincia di Matera. Si ritiene che questo insediamento risalga
al primo Medio Evo, come confermerebbe l’etimologia del nome dal basso
latino TRICALIUM (trivio) oppure TRIGARIUM (maneggio di cavalli)45.
Nel corso dei secoli si sono succedute diverse dominazioni straniere, dai
Saraceni ai Bizantini, ai Normanni, agli Aragonesi, fin quando, con la presenza degli Spagnoli il centro si è accresciuto a tal punto da contare ben
9.000 abitanti nel 1561. Viceversa nel corso del ’600 si ebbe un brusco
declino dovuto alla feroce politica di tassazione attuata dai duchi Revertera
succeduti ai Sanseverino che ne erano stati feudatari per ben 400 anni e a
due spaventosi terremoti, nel 1654 e nel 1694. Inoltre la peste del 1656
decimò la popolazione di Tricarico, arrestando un vivace sviluppo economico legato alle attività della pastorizia e dell’artigianato46.
Si deve anche considerare, per meglio comprendere l’importanza culturale del centro, il suo essere stato sede vescovile sin dal lontano 980, come
diocesi suffraganea di Otranto in un primo momento, e successivamente di
Acerenza, quando con la dominazione Normanna (1066) si passò dal rito
greco-bizantino a quello latino.
Questo centro inoltre, a differenza di altri dell’Italia meridionale per la sua
peculiarità militare e religiosa, oltre che per le conseguenze di un perpetuo
45
46
G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma, 1889.
G. Racioppi, op. cit., pp. 341-343.
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Fabio Fontana
infeudamento, ebbe per moltissimo tempo un ordinamento simile a quello di
diversi paesi dell’Italia settentrionale basato sull’assise di quindici rettori, vero
governo politico elettivo, sempre uniti negli eventuali contrasti con il feudatario, come testimoniano documenti di recente acquisizione datati 162047.
Passando ad esaminare eventi a noi più prossimi e pertanto maggiormente pertinenti la nostra trattazione, rileviamo che il primo albero della libertà
fu piantato a Tricarico nel febbraio del ’99.
Il giacobinismo e la successiva reazione sanfedista si confrontarono duramente nel centro materano, catalizzando l’attenzione e le esplosioni d’ira dei
contadini abbrutiti da una grande miseria e fermamente ostili al mondo dei
baroni48.
Dai primi anni dell’800 fino alla metà del secolo, carbonari, calderai e
membri della Giovane Italia come Vincenzo Cupolo e Gianbattista
Putignani, si impegnarono in una febbrile quanto sterile attività insurrezionale. Nel ’48 il “Circolo costituzionale lucano”, capeggiato da Paolo La
Vecchia, cercò di insediarsi come un utile punto di incontro tra intellettuali
e religiosi per discutere di problemi locali di pressante urgenza, ma si scontrò con l’intransigenza borbonica49.
Durante la guerra di Crimea nuovi fermenti di rivolta si ebbero grazie a
Giacinto Albini, ma furono spazzati dalla repressione conseguente il noto
tentativo di Pisacane. Nel ’57, dopo Solferino e S. Martino, i rivoltosi liberali si riorganizzarono e fecero di Tricarico un centro propulsore e di raccordo per i paesi limitrofi, tanto da accrescerne notevolmente il prestigio quando da esso partirono le colonne di ribelli alla volta di Potenza, nell’ultima
tappa del percorso risorgimentale datata 18 Agosto 1860. I capi della spedizione furono Paolo La Vecchia ed il colonnello Boldoni50.
Nei primissimi anni post-unitari, si consolidò a Tricarico, come nel resto
della regione, il fenomeno del disordine fondiario e del microlatifondo,
dovuto alle leggi sull’eversione feudale, le quali in larga misura ebbero l’effetto, nel corso dei decenni, di favorire una piccola ed agguerrita schiera di
affaristi che, con manovre speculative e successive quotizzazioni, si arricchirono sulle spalle della maggioranza della popolazione.
47
Dal manoscritto Corsuto, citato in G. Ambrico, Povertà e storia della comunità di
Grassano, Roma 1953, p. 8.
48 G. Racioppi, op. cit.
49 T. Mazzone, Le società segrete in Lucania, Napoli 1943, p. XVIII, inedito.
50 R. Sanseverino, Tricarico nella Rivoluzione del 1860, Trani 1928, p. 11 e seg.
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La riforma fondiaria a Tricarico
La guerra contro il brigantaggio fu particolarmente dura e vide, come
protagonisti sugli opposti schieramenti, il bandito Paolo Serravalle ed il
duca di Granville, rappresentante dell’esercito regio in Basilicata. I disordini
cessarono completamente solo dopo l’annientamento, proprio in agro
Tricarico, della banda del famoso fuorilegge Ninco Nanco51.
Durante il periodo di Crispi si acuì l’insoddisfazione dei contadini e dei
braccianti che reagirono sfavorevolmente alla tassazione sempre maggiore ed
alle nuove imposte, come quella sul macinato. Nell’ultimo scorcio del secolo, poi, lo stato della proprietà fondiaria si complicò in seguito alla ulteriore
frammentazione fondiaria dovuta alla liquidazione delle vaste terre in mano
agli enti ecclesiastici52.
Un fenomeno di grande rilievo, nella vita sociale della comunità fu costituito, nella lotta politica, dalle fazioni raggruppate attorno a potenti famiglie quali gli Armento ed i Picardi, che ressero, alternandosi, la cosa pubblica per circa un trentennio53.
Nei primi anni del ’900, la “Società operaia” e la “Società agricola” rappresentarono, pur con esiti diversi, il tentativo di avviare una cooperazione
fattiva sia in campo artigianale che agrario54.
Se nel primo caso non si uscì di molto dall’ambito utopico, nel secondo
si raggiunsero alcuni obiettivi come la creazione di uno spaccio, la distribuzione delle sementi ai soci e l’elezione di un sindaco contadino: Nicola
Mazzone. L’orientamento socialista delle due associazioni ne decretò la fine
quando si instaurò il regime fascista55.
Il partito fascista a Tricarico nacque dalla “associazione reduci e combattenti”, un organismo creato dai reduci della Prima Guerra Mondiale, che
aveva inciso profondamente con il suo numero di morti, ben 330, sulla collettività.
Il primo podestà fu Santoro cui seguì Sanseverino. Dal 1927 al 1933 ci
furono importanti migliorie quali la pavimentazione stradale, l’allacciamento alla rete idrica e la costruzione di una rete fognaria.
51
G. Massari, “l brigantaggio nelle province lucane, Milano 1863, pp. 29-30.
F. Jurilli, Relazione per l’aggiornamento delle ditte enfiteutiche 1955-56, Archivio
Comunale di Tricarico, pag. 3 e segg.
53 G. Masi, Le origini della borghesia lucana, Bari 1953, pag. 30.
54 Statuto della società operaia di Mutuo Soccorso, Potenza 1908. Archivio di Stato di
Potenza.
55 Statuto del Consorzio Agrario Cooperativo, Potenza 1909.
52
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Fabio Fontana
Il fascismo, comunque, in realtà fu percepito con una certa diffidenza,
e la vita rinacque ad opera essenzialmente di due fazioni, la prima di
orientamento nittiano e la seconda, definita “dalessiana” dal nome di un
parlamentare di Montescaglioso: Francesco D’Alessio. Entrambe di fatto
non rappresentavano alcuna tendenza politica ma si basavano su una fitta
rete di conoscenze, connivenze e favori personali. L’opposizione al regime
fu in ogni caso episodica e marginale; tuttavia già nel ’26 i contadini si
sollevarono in seguito all’applicazione della legge sugli usi civici, lesiva di
loro diritti56.
Degna di menzione è invece la rivolta del 1942, quando, in seguito alle
ingiustizie derivate dalla legge sull’ammasso, fu invasa la casa del fascio e
furono tagliati i fili del telegrafo57.
Alla caduta del regime, verificatasi in modo abbastanza repentino e senza
particolari ripercussioni, la situazione sociale del comune di Tricarico si presentava particolarmente grave. A fronte di una crescente pressione demografica, favorita anche dal ritorno in patria di reduci e prigionieri oltre che dalle
lente ma progressive migliorie in campo sanitario, le possibilità di impiego e
di coltivazione terriera erano pressoché nulle.
Abbiamo già considerato come il “microlatifondo” costituisse un fenomeno di triste e lunga data. Aggiungiamo che in questo periodo, l’immediato dopoguerra, si interruppe il flusso migratorio di quanti cercavano di fare
fortuna oltre oceano. La miscela di tensioni varie era quindi altamente
esplosiva e le prime occupazioni di terre nei latifondi ne rappresentarono un
utile ed inquietante indicatore.
Da parte del governo centrale la Riforma Fondiaria, ancorché lacunosa e
parziale, rappresentò una risposta chiara ed efficace per sedare il malcontento. Parlare di Tricarico e di come il centro materano si sia trovato pienamente inserito all’interno di tali eventi per certi aspetti nuovi ed epocali nell’arcaico mondo contadino, significa inevitabilmente citare la figura di Rocco
Scotellaro58.
56
Appunti per una storia della comunità di Tricarico di Mimma Trucco, inedito conservato
negli archivi del Prof. Rocco Mazzarone.
57 Appunti per una storia della comunità di Tricarico di Mimma Trucco, inedito conservato
negli archivi del Prof. Rocco Mazzarone.
58 F. Mirizzi, Indagini Etnografiche e Studi Demologici nella Basilicata anni ‘50, in
Dall’occupazione delle terre alla riforma fondiaria, Basilicata Regione Notizie, Consiglio
Regionale di Basilicata, n. 3, 1999 a. XXIVI, pp. 93-102.
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La riforma fondiaria a Tricarico
Di umili origini, fondatore della sezione tricaricense del Partito
Socialista, membro del Comitato di Liberazione, divenne sindaco di
Tricarico a soli 23 anni. Instancabile latore di una coscienza e di una dignità
nuova ed alta nel mondo contadino lucano, incarcerato nel ’50 sotto la falsa
accusa di peculato, partecipò alle occupazioni bracciantili e si battè per la
costruzione di un moderno ospedale all’interno del paese59.
Amico intimo di Carlo Levi, la cui figura cominciava ad assumere connotazioni profonde in Basilicata, apprezzato e sostenuto dal Dott. Rocco
Mazzarone, noto medico e sociologo del luogo, fu stretto collaboratore del
prof. Manlio Rossi Doria e della cerchia di studiosi di Portici, dove purtroppo spirò prematuramente nel ’53 a soli 30 anni60.
Le sue opere principali, incompiute ma di enorme interesse socio-antropologico, “L’uva puttanella” e “Contadini del Sud”, furono antesignane di
un nuovo modo di intendere e di esplorare il mondo agrario e le sue complesse interazioni con le popolazioni locali, oltre che catalizzatrici, assieme al
“Cristo si è fermato ad Eboli”, di rinnovato interesse per la Basilicata anche
al di fuori dei confini nazionali.
In questo senso Tricarico rappresentò negli anni ’50 un archetipo ed un
banco di prova per diversi antropologi, di cui certamente Ernesto De
Martino fu il più importante. Il grande studioso napoletano fu ospitato da
Rocco Scotellaro per ben tre volte nel ’52 nel centro materano dove, accompagnato dal fotografo Arturo Zavattini iniziò la sua esplorazione del
“mondo magico” lucano61. Di diversa natura ma altrettanto stimolanti, e
non soltanto per l’enorme differenza culturale, furono gli approcci che
ebbero sociologi statunitensi come il Peck ed il Friedman, curiosi di conoscere condizioni di vita diverse ed in certo senso uniche nel panorama occidentale moderno62.
L’universo chiuso ed ermeticamente sigillato degli usi e delle tradizioni
contadine trovava finalmente e per la prima volta nella sua storia, una
considerazione ed un peso specifico che gli erano da sempre stati negati,
anche se si trattava di una scoperta tardiva e per certi aspetti postuma.
59
Ibid.
Ibid.
61 Ibid.
62 Per la ricostruzione di frammenti di storia tricaricense non contrassegnati da note ci si è
avvalsi della testimonianza del Prof. Rocco Mazzarone noto studioso della realtà locale.
Gran parte del materiale bibliografico proviene dai suoi archivi personali.
60
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L’avvio delle trasformazioni fondiarie, la nuova stagione industriale dei
consumi, l’affacciarsi di nuove problematiche per il Mezzogiorno e per
l’Italia intera non avrebbero, infatti, tralasciato l’atavica e fiera comunità
tricaricese63.
GLI EFFETTI DELLA RIFORMA AGRARIA SULL’AZIENDALISMO
RIFORMATORE IN BASILICATA: IL CASO TURATI
I capitoli che seguono inerenti la storia, l’evoluzione e la fine dell’azienda
Turati di Calle sono stati scritti seguendo modalità non propriamente
conformi a quelle che generalmente vengono adottate nella compilazione di
una tesi. La ragione di questa “diversità” si spiega in primo luogo con la difficoltà riscontrata nel reperire una bibliografia ed una documentazione esaurienti sulla materia in questione. Ricerche effettuate sia nell’Archivio
Centrale di Stato di Roma che in quello di Potenza non hanno, purtroppo,
consentito di ottenere riscontri soddisfacenti per integrare, di fatto, l’unica
fonte in nostro possesso, ossia il libro di Guida Spera: “Storia ed evoluzione
di un’azienda agricola in Lucania” (Laterza, Bari 1950).
Si tratta di una pubblicazione estremamente rara, anche all’interno dei
ristretti confini della Basilicata stessa. Il valore del libro è comunque enorme, considerata la competenza e tenendo conto dell’impegno che l’autore
ha dimostrato nello scriverlo.
Di Guido Spera, del resto, non si sa molto dal punto di vista biografico.
Si sa per certo che raggiunse, negli anni, un certo prestigio come incisore
(infatti il testo originario comprende una serie di illustrazioni di pregevole
fattura da lui eseguite) e, cosa più importante per quanto ci riguarda, lavorò
a Calle nell’azienda del cav. Turati.
D’altra parte non è stato possibile neppure rintracciare notizie esaurienti
intorno al cav. Turati stesso, industriale torinese che abbandonò qualsiasi
attività in Basilicata all’indomani della Riforma Fondiaria.
È lecito pensare che fu proprio lui a commissionare a Spera la stesura del
testo, nel disperato tentativo di evitare lo scorporo della tenuta di Tricarico,
come si evince da testimonianze orali raccolte sul posto, su tutte quella del
63
Inchiesta dell’I.N.E.A. sulla proprietà terriera nell’immediato dopoguerra 1947-1948, G.
Ambrico, inedito conservato negli archivi del prof. Rocco Mazzarone.
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La riforma fondiaria a Tricarico
prof. Rocco Mazzarone. Va detto anche che gli uffici dell’Alsia, grazie al
gentile interessamento ed alle cure premurose del sig. Antonio Lotito e del
dott. Pancrazio Toscano, sono stati di grande aiuto per comprendere da un
punto di vista tecnico il funzionamento della Riforma nei primissimi anni
ed i destini ultimi della tenuta.
La compilazione della ricerca, quindi, non può prescindere dalla competenza e dalla passione di queste persone, alle quali vanno i miei ringraziamenti più sinceri e di cui parlerò in modo più esauriente in seguito. Sarebbe
stato, infatti, assolutamente impossibile cimentarsi con una materia di tale
difficoltà basandosi sull’unico testo disponibile e non avvalendosi di testimonianze orali e di quanto ancora si conserva negli uffici dell’ALSIA di
Tricarico.
Un’ultima considerazione sull’incredibile povertà di documenti e citazioni appartenenti agli stessi anni 1920-50 riguardanti la storia di Turati a
Tricarico: pare impossibile che un’azienda di questo calibro sia esistita per
tanto tempo nella quasi totale indifferenza dei contemporanei.
Bisognerebbe riflettere sul valore e sulla portata di piccole ma significative
pagine di storia regionale come questa e del perché spesso vengano taciute o
sottovalutate.
BREVE STORIA DELL’AZIENDA TURATI DAL 1920 AL 1950
Nel 1920 il cav. Ernesto Ottolini acquistò una serie di proprietà terriere
della duchessa Revertera di Salandra, tutte situate nella montagna interna
materana e divise tra i comuni di Calciano, Grassano, Brindisi di Montagna
e Tricarico.
In quest’ultimo paese si trovava l’azienda più grande, “Calle”, meglio
conosciuta come “Madonna di Calle”, da un piccolo santuario costruito al
suo interno. Intenzione del cavaliere era bonificare questi appezzamenti per
poi, in una fase successiva, rivenderli a lotti.
Per le sue dimensioni il complesso di “Calle” era il più importante. La
direzione di questa azienda si insediò dapprima a Tricarico, nell’antico
castello ducale, e, in seguito, venne spostata all’interno della stessa per ragioni di praticità.
Come si presentava, dunque, agli occhi del suo nuovo proprietario? Fino
ad allora la gestione era stata delegata dalla duchessa ad un amministratore,
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Fabio Fontana
caso piuttosto frequente per i feudi agrari, il quale si faceva carico di affittare
piccoli appezzamenti di terra e parimenti zone pascolate e boschive.
Gli affittuari, meglio conosciuti come “terratichieri”, provenivano dai
paesi vicini, e lavoravano tutto il giorno per poi fare ritorno alle loro umili
case, non esistendo sul feudo alcun tipo di ricovero, se non qualche casolare
diroccato ad uso delle guardie del duca.
Le condizioni dell’affitto erano sostanzialmente eque, anche se la ristrettezza
del campo, da 0,50 a 1 ha circa, la grave arretratezza dei coltivatori, la cronica
mancanza di acqua, rendevano misere le condizioni di vita dei terratichieri.
Lavorazioni fatte con l’asino, aratri a chiodo, rotazioni primitive, portavano ad un progressivo insterilimento dei suoli.
Inoltre gli affittuari arrotondavano la loro “rendita” con continui tagli del
bosco, effettuati chiaramente nelle zone più impervie per non essere scoperti.
In conseguenza di ciò, una grave fragilità idrogeologica si aggiunse alle
altre problematiche del luogo, con la sgradita comparsa della zanzara anofele, che trovava un habitat ideale nei pantani e negli acquitrini che si formavano al posto del querceto progressivamente disboscato.
A completare il quadro, in verità ben poco confortante, si aggiungevano
altre due situazioni fortemente negative: la mancanza di strade e la totale
assenza di acqua potabile (peraltro i pozzi erano soltanto undici).
Possiamo concludere con le considerazioni di Farmer, il quale sul
“Giornale di agricoltura della domenica” si esprimeva così: “…a quell’epoca
l’azienda, suddivisa in diciannove unità, si trovava in uno stato di semianarchia e di incoltura...”64.
Il cav. Ottolini rilevò, quindi, degli appezzamenti improduttivi al massimo.
Nel 1920 intanto, la figlia Lucia sposò il rag. Silvio Turati e le venne
assegnata in dote metà dell’azienda, mentre l’altra metà la ebbe il figlio
maschio, Giancarlo.
Quest’ultimo era dello stesso avviso del padre, era cioè convinto della
necessità dello scorporo di una simile proprietà.
Diversa l’opinione del rag. Turati, subito affascinato dalla bellezza e dalla
“diversità” della campagna di Tricarico.
Venne chiamato alla direzione dell’azienda il dott. Pasini. Il suo compito
si rivelò subito difficilissimo, per le ragioni sopra citate e, per di più, per la
differenza di vedute dei proprietari.
64
Farmer, in Giornale dell’Agricoltura della domenica, n. 11, a. 1927.
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La riforma fondiaria a Tricarico
Comunque venne redatto un piano di riforme indispensabili in tredici
punti, compilato insieme al rag. Turati, che comprendeva la costruzione di
strade, case coloniche, pozzi e stalle, l’allacciamento all’energia elettrica oltre
all’introduzione di prati artificiali e ad una corretta regimentazione dei
boschi. Ci si impegnava anche per nuovi dissodamenti, per la lotta alla
malaria e per il miglioramento sociale della popolazione.
Come si può facilmente intuire tutto questo era qualcosa di assolutamente prematuro per un comune dell’Italia meridionale degli anni ’20. Si trattava di un tentativo di gestione razionale più adatto alle regioni settentrionali
dalle quali Pasini e Turati provenivano. Ad esempio i costi per la costruzione
di 17 km. di strada avrebbero sicuramente superato il valore dell’azienda
stessa, inoltre le popolazioni locali si dimostravano restie ad ogni tentativo
di miglioria e di cambiamento. Ci sarebbe voluto peraltro un forte interessamento governativo, viste le difficoltà tecniche di un’impresa che andava
oltre le possibilità di un singolo privato.
Quando nel 1925 Pasini abbandonò l’impresa, stanco e sfiduciato, dopo
cinque anni di amarezze e delusioni, dei suoi tredici punti solo due avevano
visto la luce.
Si trattava di quattro modeste costruzioni in muratura e, cosa questa
molto più importante, dell’allacciamento dell’azienda alla rete elettrica. Per
il resto la situazione si presentava immutata.
Il rag. Turati tuttavia decise di andare avanti, convinto della necessità di
una seria bonifica, sempre più legato a quelle povere campagne.
Rilevò, quindi, la parte del cognato e chiamò a coadiuvarlo il dott.
Talacchini, allievo del prof. Azimonti, insieme con il quale operava già nella
tenuta di Tramutola, in provincia di Potenza.
Le credenziali di questo giovane tecnico non potevano essere migliori, dal
momento che il nome di Azimonti era giustamente famoso. Purtroppo andarono ampiamente disattese tutte le più rosee aspettative. Talacchini tentò in
primo luogo di richiamare sulle terre di “Calle” famiglie di mezzadri veneti, in
secondo di costruire in loco una segheria per sfruttare il legname del bosco.
I contadini veneti rinunciarono quasi subito alla loro permanenza, a
causa delle differenze climatiche ed ambientali dalla terra di origine e per la
diffidenza, talora vera e propria ostilità, delle genti locali.
La segheria, poi, si rivelò impresa assolutamente inadeguata, se non proprio disastrosa, visti gli alti costi di impianto e considerata la cattiva qualità
dei legnami, buoni soltanto per ardere e non certo per costruzioni.
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Fabio Fontana
Con l’aiuto dell’ing. Soldato di Torino si attuò, quindi, la captazione del
torrente “Levetta”, con lo scopo di portare acqua potabile sul territorio dell’azienda. Vennero investiti moltissimi quattrini ma, in seguito, ad opera
ultimata, si scoprì che l’acqua non era affatto potabile.
Talacchini, reso sempre più nervoso dai continui insuccessi, si guadagnò
per di più l’avversità dei contadini di Tricarico, i quali iniziarono nei suoi
confronti una serie di ostilità come l’incendio sistematico di porzioni
boschive dell’azienda o il mancato permesso al bestiame di transitare sulle
proprietà limitrofe.
Tuttavia Talacchini qualcosa realizzò: curò l’installazione di due ‘silos’
in ferro “Sima”, della capacità di 1.200 q. ciascuno, anche se, purtroppo,
l’ambiente sub-arido della provincia materana non consentiva una resa
foraggera adeguata a riempirli. Dei 2.500 capi di bestiame immessi sul
territorio non ne rimasero in vita che un centinaio, e questo per mancanza
di cibo, di acqua e per l’assenza di qualsiasi ricovero nei rigidissimi mesi
invernali.
Nel 1928 Talacchini venne perciò allontanato dal Turati, il quale, nonostante gli ingentissimi capitali investiti, non ultimi quelli spesi per l’impianto di una stentata sericoltura, ricavava da “Calle” solo amarezze ed insoddisfazione crescente.
Archiviata anche la parentesi del sig. Bergamaschi, chiamato alla direzione nel ’29, ed espressosi in termini favorevoli alla liquidazione dei contratti
di mezzadria ed alla vendita del bestiame residuo, Turati assunse nel 1930 il
sig. Gaetano Gorgone, uomo di grande esperienza, maturata in Sicilia ed in
Toscana.
Con l’aiuto di questa competente persona, il rag. Turati ripropose il programma dei tredici punti, ripartendo veramente da zero o quasi, se si considera come dato significativo il patrimonio zootecnico sceso al numero di
quattrocento capi, di cui solo quaranta bovini, ma facendo tesoro degli
insuccessi e delle illusioni degli anni precedenti.
L’opera di ristrutturazione, valutabile in un lungo periodo, necessitò
essenzialmente di due cose: tempo e pazienza.
Di fatto lo stato dell’azienda era tornato ad essere quello riferito al
momento dell’acquisto: incuria e degrado; rescissione dei contratti di mezzadria sostituiti dall’affitto; mancanza assoluta di collegamenti con il paese
di Tricarico; impossibilità di insediarsi sul fondo stesso per la cronica penuria di acqua potabile oltre che di infrastrutture adeguate.
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La riforma fondiaria a Tricarico
Il sig. Gorgone, prendendo atto della situazione, pensò di consultarsi con
i cattedratici della Cattedra Ambulante di Agricoltura della provincia di
Matera, facendo tesoro dei loro preziosi consigli. Insieme si trovarono d’accordo su un punto di fondamentale importanza per lo sviluppo futuro del
fondo: prescindere dal miglioramento delle penose condizioni socio-economiche di coloro i quali lavoravano la terra optando per una politica di soli
interventi tecnici in campo agronomico sarebbe stato un errore gravissimo.
Fu stilato, quindi, un nuovo programma, con la totale approvazione del
Turati, che tra le altre misure da adottare prevedeva la costruzione di una
chiesa, di nuove abitazioni, di una scuola e di un campo sportivo; l’istituzione di un centro postale autonomo dal paese e di una guardia medica; l’immediata assegnazione di premi ai coloni che più si erano distinti nella produzione granaria e l’avvio di ricerche per la captazione di acqua potabile.
Tutto ciò fu realizzato nell’arco di tre anni, dal 1931 al 1934, fatta eccezione per la ricerca di sorgenti. Quest’ultimo problema fu tuttavia risolto
nel 1938, quando la ormai piccola borgata di “Calle” fu allacciata
all’Acquedotto Pugliese.
Di particolare interesse, poi, fu il ripristino del contratto di mezzadria sui
terreni dell’azienda, in quanto si optò per un tipo di rapporto alquanto
diverso da quello classico, sia per la durata, che veniva dilatata notevolmente
nel tempo, passando da uno a sei anni, sia per le modalità del tutto inedite,
quantomeno nella Basilicata. Infatti, oltre ai soliti incentivi per chi avesse
conseguito la migliore produzione, una serie di proposte furono studiate per
razionalizzare lo sfruttamento dei suoli, potenziando l’allevamento bovino,
incentivando le colture foraggere e la plantumazione di alberi da frutta e di
oliveti. D’altro canto il mezzadro doveva impegnarsi nella difesa dei suoli e
delle strade interpoderali, prestando particolare attenzione ai canali di scolo,
onde evitare pericolosi ristagni.
Un “libretto colonico” pensato come antidoto alla naturale diffidenza dei
contadini lucani, abituati da troppo tempo ad essere vessati da contratti
capestro di proprietari assenteisti, sancì per ogni lavoratore agricolo, nero su
bianco, l’adesione a questa serie di iniziative.
La portata innovativa di tali misure non può sfuggire a nessuno essenzialmente per due ragioni: in primo luogo veniva interrotta una tendenza secolare che aveva sempre visto allevamento e agricoltura come attività nettamente antitetiche e non compatibili; in secondo luogo cessavano il possesso
e lo sfruttamento da parte del proprietario, sostituiti da una collaborazione
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fattiva in un’ottica di continuo sviluppo, senza trascurare i problemi di
carattere sanitario e la viabilità stradale.
Furono scavati nuovi pozzi e fatte pressanti richieste all’autorità costituita
per la costruzione di una strada degna di questo nome, strada che in effetti
si cominciò a mettere in opera nel 1934.
Quest’ultimo fattore fu di grandissima rilevanza, in quanto le mulattiere
polverose ed i tratturi rendevano difficoltosi gli approvvigionamenti di concimi e sementi, facendone lievitare notevolmente i costi.
Inoltre la gestione del patrimonio forestale dell’azienda fu condotta per la
prima volta con criteri moderni, stabilendo i turni dei tagli a ceduo di
comune accordo con la Guardia Forestale, facendo opera di pulizia nel sottobosco e, nei punti più degradati del bosco, intervenendo con una energica
riforestazione, che riguardò più del 15% della superficie totale. Parimenti
furono liberati da piante infestanti, sassi, pietraie e spine i pascoli, per rendere più agevole il transito e l’alimentazione al bestiame.
La produttività dei suoli fu aumentata notevolmente grazie ad un energico intervento di concimazione, che interessò l’intera superficie aziendale.
Furono, infatti, costruiti letamai e stabiliti turni regolari per la concimazione durante l’anno, utilizzando anche mano d’opera giornaliera. Ciò ridusse
anche la notevole incidenza sul bilancio dei prodotti chimici che, abbiamo
visto, erano di difficile reperibilità oltre che costosi.
L’istituzione del sistema mezzadrile fu seguito anche da un riordino più
razionale dei lotti di terreno, con cui si cercò di evitare l’infruttuosa parcellazione degli anni precedenti, accorpando le tenute anche in base a criteri
morfologici, oltre che in base ai singoli contratti. Alla data del 1950 “Calle”
si componeva di ben sedici poderi gestiti a mezzadria, partendo dai tre voluti durante l’amministrazione Bergamaschi e non più sufficienti all’epoca.
Le scelte dell’amministrazione Gorgone, in stretta connessione con il
pensiero del cav. Turati, non nascondevano finalità di carattere squisitamente “politico”, come il fermo proposito di attuare un riformismo deciso sia in
campo economico che sociale, prescindendo di fatto dall’ala protettiva dello
Stato, tanto limitata se non addirittura assente nelle arcaiche campagne
lucane, optando al contrario per le grandi possibilità offerte dall’iniziativa
privata.
Proprio in quest’ottica il sistema mezzadrile, sostituito alle affittanze,
permetteva un controllo più capillare sulle campagne stesse, “costringendo” i contadini ad abbandonare l’insediamento nel borgo arroccato, frutto
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La riforma fondiaria a Tricarico
di ataviche abitudini, per trasferirsi sui lotti di terreno che erano tenuti a
coltivare.
Abbiamo già considerato in precedenza quali e quanti vantaggi questa
soluzione poteva comportare, sia dal punto di vista della produttività che
della “civilizzazione” vera e propria. L’affittanza, oltre che scarsamente remunerativa, portava infatti al totale disinteresse nei confronti dello stato delle
strade, del ristagno delle acque, del controllo idrogeologico.
A conferma di quanto finora affermato, sarà utile riflettere sui dati in
nostro possesso, frutto di analisi comparate nel corso di un trentennio, inerenti le trasformazioni effettuate sull’azienda a partire dalla data del 1920
circa.
Il costante quanto sorprendente aumento della produzione, in modo specifico di quella granaria, non dovette sfuggire all’attenzione delle autorità
del tempo, né tantomeno degli altri proprietari terrieri, dal momento che
l’azienda collezionò una serie di ambiti riconoscimenti, sia a livello provinciale che nazionale. In merito a quest’ultima affermazione, il 1933 segnò un
traguardo di grande prestigio, visto che Turati vinse il premio di maggior
produttore granario d’Italia. Considerate le condizioni della Basilicata, il suo
stato di abbandono, dissesto e miseria, la notizia suscitò una notevole eco,
con l’effetto di una sorpresa di ampie proporzioni nei contemporanei.
DATI RELATIVI ALLE MIGLIORIE EFFETTUATE SUL FONDO
In questa parte pubblichiamo un resoconto dettagliato degli interventi di
miglioria effettuati dal cav. Turati sul fondo acquistato nel 1920, distinguendole in opere di ristrutturazione fondiaria, agraria, e riguardanti l’allevamento del bestiame.
Anche ad un esame superficiale non può sfuggire la rilevanza degli interventi compiuti, soprattutto nell’ultimo periodo, immediatamente precedente la Riforma Agraria, seguendo le direttive stilate dal Gorgone. Colpiscono,
in particolare, le sistemazioni forestali, con la piantumazione di nuove piantine (6500), l’impulso dato all’allevamento e l’edificazione di diversi caseggiati, sia a scopo abitativo che per uso agricolo.
Per quanto concerne il bestiame poi, si trattò di uno dei progressi più
vistosi non solo dal punto di vista numerico, ma anche da quello qualitativo.
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Fabio Fontana
Opere di miglioramento fondiario
Fonte: G. Spera, Storie ed evoluzione di un’azienda agricola lucana, Bari 1950, pp.
170-175
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La riforma fondiaria a Tricarico
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Fabio Fontana
Bestiame
AL 1920
D AL 1920
AL 1930
DAL 1930
AL 1950
TOTALE AL
1950
Bovini
_
108
277
385
Equini
1
26
97
124
Suini
-
290
750
1040
Ovini e caprini
-
820
4242
5062
DENOMINAZIONE
Fonte: G. Spera, op. cit. pag. 82
LE MEZZADRIE NELL’AZIENDA TURATI
Come si è già rilevato in precedenza, l’istituzione del sistema mezzadrile
rappresentò un indiscutibile successo nella modernizzazione della tenuta del
Turati, la punta avanzata di un processo riformatore di grande ambizione.
Passiamo ora ad analizzare nel dettaglio i sedici poderi, la loro morfologia e
resa economica negli anni a ridosso della Riforma Fondiaria.
Il podere di “Calle”, denominato come l’intera tenuta e condotta direttamente dal Turati, insisteva su 558,200 ha. di cui 368 a seminativi, 1.20 ad
orto, 2 a vigneto ed oliveto, 2 ad oliveto di nuovo impianto, 50 a pascolo,
150 a bosco.
Dei 368 ha a seminativo 40 venivano tenuti a medicaio e quindi fuori
rotazione, viceversa i rimanenti erano gestiti secondo rotazione quadriennale. L’organizzazione colturale, dando ampio risalto alle foraggere, consentiva
di allevare 137 bovini, 1.274 ovini e caprini, nonché 150 maiali. Il bestiame
pascolava regolarmente anche nel bosco.
L’importanza dell’allevamento era enorme in considerazione del fatto
che, vista la difficoltà di approvvigionamento di concimi chimici dato l’elevato costo dei trasporti, si effettuavano diverse letamazioni durante il corso
dell’anno, in particolar modo a grande beneficio della coltura granaria.
Il podere “Cugno Casalini” presentava 22 ha a seminativo, 2 a vigneto, 2
a oliveto, 13 a pascolo e 28 a bosco di querce.
Il bestiame allevato sul fondo era costituito da 9 bovini, 2 equini e 45 tra
ovini e caprini, oltre che da 20 suini.
Le rotazioni nelle colture si effettuavano secondo cadenza quadriennale,
in perfetta sintonia con quanto si faceva sulla parte dell’azienda Turati a
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La riforma fondiaria a Tricarico
conduzione diretta, anche se le rese economiche erano lievemente inferiori.
Quest’ultima considerazione può essere assunta come caratteristica più o
meno generale per quanto riguarda l’analisi anche delle altre terre mezzadrili
che descriveremo.
Ciò si spiega con le naturali ed umane difficoltà che un contadino poteva
incontrare cimentandosi con sistemi agro-silvo-pastorali per lui del tutto
nuovi. E questo in un mondo chiuso ed arretrato come la campagna lucana
di quegli anni.
Il podere “Franca” era praticamente identico al precedente, in quanto fu
costituito separando in modo quasi simmetrico un appezzamento di terreno
da un lotto di cui Cugno Casalini costituiva l’altra metà.
È interessante rilevare come qui il mezzadro potesse usufruire di una
moderna casa colonica, in ottemperanza alle misure di modernizzazione
volute da Gorgone e Turati. Entrambi i poderi, infine, presentavano un
grande interesse dal punto di vista archeologico, essendo siti di ritrovamento
dei resti di un antico monastero di epoca medievale.
Il podere “S. Marco” si articolava in 32 ha a seminativo, 1.50 a vigneto,
1 a oliveto, 20 a pascolo e 39 a bosco, e veniva pascolato da 19 bovini e 3
equini. In esso furono edificate una stalla ed una casa colonica.
Il podere “Attilio” di 18 ha a seminativo, 0,80 a vigneto, 1 a oliveto, con
un’esigua presenza di bestiame pari a 6 bovini e 3 equini, era del tutto simile
al podere S. Marco.
Questi ultimi due appezzamenti ebbero rese economiche assai modeste
che si spiegano facilmente con la limitata estensione territoriale e la scarsa
qualità dei suoli, tra i peggiori dell’azienda.
Dai dati in nostro possesso, per giunta, le famiglie mezzadrili risultavano
essere non troppo numerose ed in cattive condizioni di salute.
I criteri di rinnovamento e miglioria, dunque, non prescindevano da una
lucida e dettagliata analisi delle condizioni di partenza, pur cercando di
ottenere il massimo anche dalle situazioni di maggiore disagio.
Diverso discorso va fatto per il podere “Lucia”, che con 10 ha a seminativo,
19 a oliveto, 2,50 a vigneto e 14 a pascolo si configurava come specializzato
nelle colture legnose. Peraltro nell’oliveto era stato avviato un interessante esperimento di integrazione foraggera, supportato da concimazioni sia organiche
che chimiche. L’appezzamento era dotato di casa, stalla, portico e cinque pozzi.
Il podere “Piana S. Marco”, con una superficie di 15 ha a seminativo, 2 a
vivaio, 1 a vigneto ed 1 a oliveto, aveva come caratteristica principale la coltiva-
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Fabio Fontana
zione ortiva. Di limitata estensione e di più recente acquisizione, ci offre lo
spunto per un’ulteriore osservazione: i lavori al suo interno furono bloccati, o
meglio stravolti dalle occupazioni terriere dei contadini. Alle soglie della
Riforma Fondiaria anche l’azienda Turati cominciò ad essere interessata, seppur
marginalmente rispetto ad altre proprietà contigue, dalle rivendicazioni dei
braccianti nullatenenti che, nondimeno, in ultima analisi ne decretarono la fine.
Il podere “Giancarlo” era costituito da 15 ha a seminativo, 6 ad orto, 15
a pascolo e 5 a bosco, con un limitato carico di bestiame. Una moderna stalla, in funzione già dal 1931, anno in cui il terreno era ancora affittato, ne
completava la dotazione.
Analizzando tale appezzamento e la sua stentata produttività a fronte di
un suolo non troppo sfavorevole, si comprende quanto sterile e difficile
debba essere stato in passato il sistema delle affittanze, dal momento che il
fittavolo, spesso vessato da contratti capestro ed ignaro di elementari nozioni di agronomia, conduceva sul “suo” fondo un’agricoltura di pura rapina.
Del tutto originale, infine, si presentava la situazione del podere “Serra
D’Amendola”. Con una estensione di 196,10 ha, di cui 35 a seminativo,
0,10 ad orto, 149 a pascolo e 12 a bosco, fu al centro di un acceso dibattito,
iniziato nel 1943, che vide contrapposti il rag. Turati da una parte e le autorità statali dall’altra.
La quotizzazione volta all’istituzione di una ventina di poderi fu infatti
bloccata dalle difficoltà inerenti la costruzione di una indispensabile strada
poderale che, data la zona impervia, ovviamente mancava. L’intransigenza
delle autorità e le difficoltà derivanti dal conflitto drammaticamente in corso,
resero vano questo progetto. Tuttavia, dopo l’armistizio, si cercò di riprendere in mano il piano di attuazione della suddetta strada, ma la diffidenza di
diversi coltivatori sui cui fondi, che sarebbero stati oggetto di esproprio,
doveva insistere la strada, interruppe di nuovo la discussione sul nascere.
Tutti gli appezzamenti di terreno condotti a regime mezzadrile fin qui
considerati erano ubicati all’interno della tenuta di “Calle”, ma dobbiamo ribadire che l’intera superficie dell’azienda comprendeva altri lotti di
terreno, sempre in agro tricaricese, come abbiamo detto all’inizio della
nostra trattazione. Anche in essi l’istituzione della mezzadria rappresentò
qualcosa di innovativo, viste le consolidate arcaiche abitudini agronomiche lucane.
Il podere “Carbonara” di 115.13.34 ha, suddiviso in 40 ha a seminativo,
0,10 ad orticoltura, 1 a vigneto, 17 pascolo, 37 a bosco di cui 20 vincolato,
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La riforma fondiaria a Tricarico
altimetricamente rappresentava la parte più alta dell’azienda, oscillando tra i
500 e gli 800 m. sul livello del mare. Furono condotte al suo interno importanti opere di rimboschimento, per arginare l’erosione causata da ripetuti
tagli abusivi iniziati già nel lontano 1890. Furono inoltre costruiti pozzi,
stalle ed una casa colonica, proprio dove si ergeva un modesto ricetto utilizzato in passato dalle guardie del duca. Il bestiame qui allevato era costituito
da bovini, equini e caprini rispettivamente in 16, in 3 e 230 unità.
Il podere “Piani Sottani” su di una superficie complessiva di 81 ha presentava 35 ha di seminativo, 0,25 di orticoltura, 1,75 di vigneto, 2 di oliveto e 41 di pascoli. Il carico di bestiame era piuttosto ingente, con 8 bovini,
5 equini e 200 tra ovini e caprini e la rotazione colturale era quadriennale,
come nel resto della tenuta.
Il podere “Piani Soprani”, simmetrico al precedente, con una eguale
dotazione di bestiame ed una medesima divisione colturale oltre che ad esso
unito da una comune casa colonica ed una stalla, si configurava come uno
dei più fertili in assoluto, soprattutto nel campo della viticoltura. Sia “Piani
Sottani” che “Piani Soprani” furono oggetto a più riprese, dal ’47 al ’50, di
occupazioni terriere bracciantili, nell’ambito del nascente fenomeno rivendicativo già in precedenza ricordato.
Il podere “Oliveto della Salandrella” di ha 28.77.70 si distingueva invece, come indica il nome, per la presenza di un oliveto ringiovanito con la
piantumazione di ben 1.150 piante nuove, alternate a colture foraggere e
granarie.
Il podere “Lago ed oliveto Garaguso” di ha 108.05.17 si suddivideva in
20 ha. di seminativo, 0.10 di orto, 2.95 di oliveti, 10 di pascolo, 75 di
bosco. Dotato di diverse infrastrutture, dalla casa colonica al pozzo, supportava l’allevamento di un ingente numero di capi di bestiame.
Il podere “Boscone” si estendeva su 109.57.97 ha complessivi. I seminativi vi insistevano su 20 ha, l’orto su 0,10, il vigneto su 0.50, il pascolo su
11, il bosco su 75.20 di cui 0.20 vincolati.
Il podere “S. Domenica Sottana” si strutturava su 222.20 ha di cui 20 a
seminativo, 0.20 a orto, 50 a pascolo, 152 a bosco.
Nuovissime case coloniche ed infrastrutture vi furono edificate dal ’41
al ’47.
Il podere “S. Domenica Soprana” di 217.25.21 ha con 20 ha seminativi,
0.10 ad orto, 45 di pascolo e 152 di bosco era riservato quasi esclusivamente
all’allevamento bovino ed equino. Si trattava di un appezzamento che, con i tre
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Fabio Fontana
precedenti ad esso limitrofi, costituiva una singola realtà con spiccate caratteristiche silvo-pastorali, e che fu oggetto di devastanti incendi causati da raccoglitori di legna di frodo che, denunciati dalla Forestale, intendevano vendicarsi in
questo modo dell’offesa ricevuta. Pertanto, ingenti furono le spese indirizzate
nel settore della riforestazione e del controllo delle superfici arborate.
MEZZI ED ATTREZZI IN DOTAZIONE DEI MEZZADRI
La dotazione di ogni mezzadro comprendeva uno o due carretti, due
erpici, quattro aratri in ferro più due voltorecchio oltre a tutta la normale
strumentazione agricola di tipo leggero.
I poderi ad indirizzo zootecnico erano forniti, inoltre, di caldaie e tinozze per la lavorazione del latte. Macchinari di particolare utilizzo, come i
trinciaforaggi, i trinciatuberi, le mietitrici venivano noleggiati direttamente
dal centro aziendale di “Calle”, pagando un nolo decurtato del 25% rispetto
al mercato normale.
LA
PRODUZIONE MEDIA PER ETTARO CONSEGUITA DAI PODERI
AZIENDALI NELL’ANNO 1949
I seguenti dati vennero calcolati facendo una media su 5 anni di produzione e si riferiscono alle mezzadrie di indirizzo prevalentemente cerealicolo
dell’azienda “Calle”: grano q. 15,40; avena q. 15,50; orzo q. 15,80; fave q.
15,80; ceci q. 5; mais q. 2; vino q. 20; olio q. 0,30; latticini q. 6,17; lana q.
2,20; carne q. 54,40.
Le aziende ad indirizzo prevalentemente zootecnico, sempre alla stessa
data, presentavano una produzione pari a: grano q. 14; avena q. 18; orzo q.
16; fave q. 10; ceci q. 2; mais q. 8, patate q. 8; vino q. 9; carne q. 57,14; latticini q. 11,78; lana q. 1,90.
Questi dati, come i precedenti, si calcolarono su di una stima media di 5
anni, come del resto anche quelli dell’ultimo blocco relativo ai poderi ad
indirizzo più intensivo.
Le aziende ad indirizzo legnoso, per finire, producevano mediamente:
grano q. 19,50; avena q. 19,50; orzo q. 19,50; fave q. 26,00; ceci q. 3; mais
q. 1,50; vino q. 35; olio q. 8; carne q. 7,50; latticini q. 0,56.
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La riforma fondiaria a Tricarico
È utile terminare questa parte della nostra trattazione con una considerazione se si vuole banale, ma in definitiva necessaria.
Nella tripartizione dei poderi, analizzati per blocchi a seconda della prevalenza di indirizzo colturale, si delinea una tripartizione dei suoli aziendali,
essendo i migliori destinati a produzioni specializzate come vino e olio;
quelli di resa media alla cerealicoltura; le zone montane, con scarsa fertilità,
al pascolo delle mandrie. Si trattava di una misura ovvia, ma non necessariamente, visto il disordine e l’anarchia colturale lucana di quegli anni.
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storia dell`azienda turati dagli anni venti alla riforma fondiaria