IL NON POTERE
(2005-2007)
Lo non poter mi turba...
Jacopo da Lentini
a Roberta
I cadaveri
La doccia
No, la vita non è enorme, si incanala
come un torrente in rubinetti chiusi
e sgocciola, calcarea, di doccia in vano,
si raccoglie tra gli abusi, sciolti
dei corpi i resti in acquitrini viola
che l’estate dai finestri asciuga;
così resta, ad un sapone attiguo, un pelo
tuo ricciuto, nero; l’oggi
è quanto resta, scoria
che la fuga della storia elude: un perizoma
sgualcio ai piedi del cesso, un rubinetto
semiaperto, il pacchetto
dei preservativi che raccolgo e getto. Tu
t’accasci sulla tavolozza e pisci
parlando di Bologna e non capisci
che quello che davvero mi stupisce
dal tuo corpo defluisce in nuova fogna.
5
Genova
Il cielo è uno spicciolo opaco che un dio
nazionale ci porge; pietà
è quest’edera gialla che copre; la città
divide in settori il cemento armato. Tu,
musa diciottenne, vivi nel grido
di un’anca spezzata; trascinano
il tuo corpo due gendarmi: è pallido
giglio, visione. Due lacrime rosse
ti segnano in graziosa venatura. Poi l’antro
della questura che s’apre è il nostro addio
a vedersi altrove, o mia selvaggia
musa trecce d’oro, trascinante
le ossa fracassate per le strade
di una città che non ti vuole ed ha paura
della tua bionda disperazione, o lupa
noglobalina che scambiando follia
per reazione ti precipitasti
tra le mille bandiere di Genova a gridare
il tuo bisogno di esser meno sola.
6
Il fiume
Hai il corpo smangiato dagli oli, morto
fiume che penoso passi: a pezzi
la pelle del letto riarsa s’affaccia
coi peli di paglia stecchiti e la piaga
del sole nel petto; qualche brandello
di carne s’attanaglia. Sei, torrente,
dai rovi ricoperto e dalle pile
delle auto; su un masso
dove stente s’incagliano le rive
un grasso laureando scrive
le sue orribili poesie, stirando
le fibre smagliate del ventre… già,
l’estate è rovi, copertoni e batterie
sul bordo sfiancato del niente, Ivan…
E i sampietrini rialzati, i calcinacci
di questa ultima periferia
dove sei cumulo di resti e vanghe
tra presti lavori di muratura
e i cementizi tumuli… reale
è questo campo che tronco fecale
alla deriva trapassi, Tronto
che fosco gli abusi ritingono e vile
tra gli scarichi industriali e i rifiuti
ti vedo sotto i piloni fluire
delle circonvallazioni, non fiume
ma rivolo di sangue, sterco, muco
che scende, non sorgente ma rifiuto,
scarico urbano che la vita abiura.
7
Hollywood
Si decompone in PAUSE il volto divo
che il DVD pirata smaglia in pixel
pestilenziali, cosicché nel vivo
di un californiano lieto fine il mix
di morte e varietà televisivo
traduce lo scenario della fiction
in un carnaio orribile e cattivo…
America che t’apri come un tronco
marcito ma sorridi e dici: «AMORE»,
lo squarcio sei terribile del viso,
lo sguardo depravato di chi muore.
8
I cadaveri
I.
Le croci delle antenne sopra i tetti
che scrostano l’intonaco del cielo;
per strade cementizie i ragazzetti
drogati si trascinano nel gelo
cittadino, fumando sigaretti.
Si addormono negli angoli del centro
traendo nei piumini neri, stretti
quei crani prematuri, già da dentro
rigonfi in ematomi e crosti infetti
che blu le natalizie luci al neon
ne fanno dei cadaveri perfetti.
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II.
Su un panco addormentato il corpo nudo
(già dalle 5 e un quarto rinvenuto)
di un riso eterno ride e spaventoso:
tra i cosi lì del parco, un nuovo coso.
Ha un rivolo di sangue che discende
da un varco d’ago aperto lungo il braccio
e in eternata forma si rapprende
grumifico sugli argini di un laccio
emostatico che fanciulletto pende
e sventola, sul mondo, leggermente.
10
La partita
Gli si gonfiò la gola come un rospo.
Gli si ficcò nel ventre quell’estate.
La nonna preparava le patate
da mettere nel forno con l’arrrosto.
Gli s’allargò il sorriso come a un morto.
Gli s’aggrumò una bava sopra al collo.
Dalla cucina un buon odor di pollo
col rosmarino fresco preso all’orto.
Lo troveremo immobile nel letto
col viola allucinato della tele
sul corpo raddurito e il membro eretto.
Lo troveremo immobile e perfetto:
ghignando ci dirà che gli è finita
la voglia di guardare la partita.
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Preghiera
Uno un giorno si accorge che la vita
è la mancia pietosa che rimane
su una mensola deposta, una reliquia
che penzola scomposta da un altare
di ciaffi rugginosi, e allora s’alza
in una stanza giallognola, solo,
e sollevando la serranda salta
trentunenne, contro il mondo, in volo.
E quindi lo vedi signore il tuo corpo
inchiodato a che cosa è servito, sei morto
tra le risa come muore ogni giorno
qualcuno (e non posa sul fango la rosa
né perle concede la storia): che sarà
di questo mondo senza più pietà né volgo
non voglio neppure saperlo ma piango
per te o signore che hai morto
come adesso si muore un ragazzo
e che cosa hai risolto, nel mondo?
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Domus
La casa
Residenza: osceno letto
dove tornare alle sette di mattina
col fiato disgustato e il membro eretto.
Ecco qui: il libretto universitario, un vasetto
di yogurt, un accendino. Eh eh…
didascalici i miei anni tutti persi.
Quanto a noi t’ho scritto
una lunga e-mail questa notte
perduta tra i file dell’estate
(l’ha demolita il caso in un momento).
Capisci amico caro il pentimento
di averti consegnato questo scalcinato
orizzonte di stucco e scotch
coi poster scoperchiati in croste
sull’intonaco vecchio maculato
e le bagnate rughe delle pagine
che asciuga questa estate e ingialla…
Cmq sia non so più scrivere, hai ragione.
Sarò costretto a vivere o morire.
Amico mio il nostro amore è buffo.
Altro che lo stantuffo attonito, il perpetuo vagito
della moglie che s’ingravida di schifo.
Oh casa, dolce
casa, disarticolata
dimora di piante
e di foto di mio padre senza i baffi
in un paesino di duecento abitanti
coi santi Rocco e Gianni appiccicati
al muro, casa
di poster che si cascano in avanti
dal ruolo scollati dei miei 16 anni, casa
delle prime sigarette in balcone,
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della prima comunione col sesso
e con l’alcool, casa
di lagrime e rovine: tempietto
d’asfalto, museo delle prime
poesie: addio.
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Dicembre
Tu pensa un po’ che bel Natale
senza albero e famiglia: grazie mille
storia d’Italia meschina, storia
di eredità contese, di cortese rovina.
Oh una canzoncina didascalica
per vivo ripensarmi in ciò che resta
per non cedere al suolo che rimescola
la cenere la cenere alla vita.
Stanotte balleremo fino all’alba
sopra il suolo che si sfalda, che cede:
nel vuoto giorno vuoto del dovere
io ti battezzo cementizia grazia.
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Il depuratore
Nel canale otturato dalle scorie
s’incaglia l’esistenza che snatura:
assorbe tutto il vivere la storia.
Se passa ne distilla un succo amaro
che naufraghe le foglie incatramate
deposita vigliacco sulle grate.
Tu questo come puoi chiamarlo amore?
Mi resta indifendibile il segreto
di te che all’ombra di un depuratore
mi chiedi allora bello come va?
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Sms #1
Il getto della fontanella rotto
dal battito cardiaco, dal vuoto
che sotto si spalanca come un coito
che preme prematuro ed interrotto.
Oh vita che pensavo fossi vita
e non sei che una snodata prostituta
su un sedile ribaltabile che invita
a fare presto nella solca ossuta.
Poesia, il bip metallico del tasto
del Nokia che nel file salva il messaggio
poetico e l’immerge nel paesaggio
mimetico rendendolo al disastro.
18
Sms #2
Squilla cellulare, squilla
standard suoneria dell’SMS
e tu lunaccia cosa guardi strafottente
mentre piango su uno schermo lucente?
Sopra a un nodo d’asfalto si spensiera
la stupida sera degli spari,
la testa del santo, ecco, si infiamma
coi botti che nascondono lo schifo.
Lo so, non so più scrivere, ora dico
senza pensare una canzone ossessa:
antenna, padellone sulla testa,
concedimi un messaggio ed un sorriso.
19
Stanza
Questo naufragio di ventre e polmoni
sotto le costole marroni del tetto
è la riaperta ferita del neon
al clicchìo costretto degli interruttori.
«Che ridi?» mi chiedesti, sorridendo.
Io ti risposi un timido: «no, niente».
Contempleremo nel quartiere orrendo
i bar che si riempiono di gente.
«Tu vedi di studiare qualche cosa…».
Ma adesso pure noi si sa che si è
qualcosa, tra le cose: un accumulo
di prole in disavanzo,
che solo la bufera ci promette
sul tavolino bianco questa rosa.
20
Lettera
Ce ne torneremo nei boschi nativi
dove tutto è cambiato e alle ruspe
daremo un saluto bagnato dal pianto.
Da qualche parte riderà tua madre ancora
pregando con chissà che mani il fiore
dei tuoi ventitre anni.
O nell’aurora desolante del lutto
si spalanchi questo dolore esangue
come un fiato impossibile, distrutto
dai canti senza voce dell’estate.
Lo so, lo so che anch’io
trascinerò questo ingombrante cuore
nel disamore asciutto e a te vicino
tra i melograni spalancati al sole
poserò su uno scalino un frutto
distante, rovinato; e poi un rubino
teneramente scivolando altrove
sarà la pena valsa, mai, di tutto.
(a Valeria)
21
Il non potere
Il passaggio
La stanza è senza luce: fulminata
la lampadina (in questa pioggia crudele
come una mitraglia di ossessioni):
non ci fa mica ridere una donna
che si inciampa per la strada e cade…
È tutta andata via la gioventù
svenduta mese dopo mese per far posto
a questa produttiva lacrima.
Oh, una lampada da accendere
che illumini soltanto un poco
il ciondolo di plastica, le foto…
E invece tutto schiara mutazione: il sole
di nuovo alla finestra e quella voce,
implacabile, che torna.
Questo salire e scendere, crollare
o correre all’ombra dei grattacieli
sulla pista ciclabile (il cielo
è spaventoso qui) tu immagina
questo cadere e ridere continuamente
tra le siringhe a terra e le carcasse
dei mici che non ce l’hanno fatta:
bisognerebbe arrendersi
o andare via fuggire
ricominciare tutto altrove, dove
nessuno ti conosce, dove nessuno sa.
E questa sera la luna sarà
gonfia come un ovulo di sangue
(sarà la terra scossa di tremendo):
un’emergenza che giustifichi la pena,
l’urgenza di un’azione definitiva.
Ma no, ma no, c’è il sole…
un sole sopportabile e mediocre,
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che mette sonnolenza, che dissuade…
*
«Tu cosa stai facendo della vita?».
«I verdi prati, i grandi orinatoi
lo schifo: ci faceva ridere ed invece…
In un cesso a sverginare adolescenze
praticando insegnamenti altrui
mi sono guadagnato questa piccola cicatrice
proprio sopra l’orecchio destro, non si vede
ma fa più male di quanto possiate…
Mi salvarono due poliziotti
che vagavo sanguinante per la strada,
mi offrirono un panino, una coca-cola
e la poltrona del questore dove dormire.
Al risveglio, mi ricordo, c’era l’alba
ed era enorme, sopra ogni cosa».
«C’era un grosso martello sotto lo specchio:
argentato, lucente, bilanciamento perfetto
per inferire un colpo preciso e netto
contro la tempia…».
Oh prendere la forza di non imbracciare
più l’arma del telefono sparando
messaggi così inutili di aiuto.
Ma non sarà così, sarà la storia
a divorare il bello, a vomitarlo
come una scoria oltraggiosa e impura
da ripulire con cura ai bordi del cesso…
*
«Il sangue rende impura, ripugnante
imbratta sangue il letto e tra le gambe
no, non sarò felice più di niente
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con tutto questo sangue che mi perde…
Queste protuberanze orrende
dove un corpo era esile, innocente:
due bozze lo condannano all’informe
ruolo della femmina in amore».
Lei dice: «Guarda la mela che pende
dal ramo, immatura e adolescente:
è goffa se prepara già domani
per lei maturazione un nuovo ciclo.
Cadrà rigonfia e molle e dirà marcia
il contadino sostenendosi la pancia
con gli occhi corrugati dalla sete.
Ma l’utile è volgare, ed anche il bene
del mondo, no, non ci appartiene.
Prendi in custodia i vermi, invece,
che già ti sbirciano, o quanto diviene
nel corso dei secoli».
Ma la bambina: «Zitta, il corpo puzza!».
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L’estasi
L’amore rattrappito in un mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
Io non ho mai detto che scrivo per cambiare il mondo
ma per piangere nel fondo
di questa miseria me lo permetterete
brutti figli di puttana?
Nel TUZ TUZ della disco
apparsa è la madonna
su una colata di ghisa.
Un uccellino mi ha detto:
non ridere, stronzetto,
sei strafatto.
È l’amore rattrappito in un mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
*
Nel letto la visione di una cosa,
la rosa spelacchiata del giubbetto
di lei che ancora dorme oppure è morta…
Non andartene dai, proprio sul bello
della serata.
La carcassa dell’auto ribaltata
sarà rimossa dal personale addetto
alla perizia…
«Te lo dicevo io che ti dimenticavi
pure questa volta le chiavi, che
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suonavi ancora presto, ed è domenica
e lo sai che tuo padre si arrabbia…».
Ma quello che aspettavi e non ritorna
alla porta è una divisa in penombra
e dietro c’è quest’alba orrenda, sporca,
senza alcun pudore, da obitorio e claxon.
E il nostro amore che non è più
lo stesso amore di un tempo, è
qualcosa di diverso,
perché sei andato via proprio sul bello
della serata?
*
«È così che… che non lo so come si dice
però ti ho preso un fiore, ecco, prendilo…».
«Lo perderò dentro l’inferno della sala…».
«Ma almeno provaci un momento, a trattenerlo…».
«Guarda qui che luce gialla che c’è sopra l’insegna
che ci piove sopra tutta questa pioggia
che viene giù dalla grondaia rotta
dei palazzi.
Guarda le rondini, schiacciate pure loro
da questo cielo così inutile e italiano
che non sovrasta proprio niente, è sovrastato
come un coperchio rialzato dalla schiuma
dell’acqua sporca, che ribolle e preme.
Questo è l’amore ai tempi della techno,
se non ci credi… vabbe’ lo stesso
tanto qui la luce è muro vuoto, è nudo
parcheggio, sotto casa, che impedisce».
*
27
E sventolasti un biglietto di non so che andata
contro di lei che rimaneva viva.
Poi certo, pure noi nella deriva
cadremo, questa gloria impasticcata
è solo una questione di ore.
Ma adesso tu sorridi come allora
quando in due sul motorino la strada
era uno straccio indecifrabile e la vita
era bellissima: la bara
la ripercorre lenta e trionfale
come in una visione allucinata…
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La condanna
Amico mio la primavera tutto cambia
radici sensi sradica deriva
la riva la trovammo rosicchiata
i nomi dei fiori perduti appena.
Non lo aprirò quel libro di botanica,
la vita è irrimediabile, del resto…
Così a Nicola lo metteranno dentro.
Spaccio di eroina, tentata strage.
Lui dice due anni al fresco cosa vuoi che siano
non è che ci sia granché da fare in città…
Leggerò dei libri, mi porterai qualcosa?
Certo, ora però l’importante è che…
(Piange la madre sotto le lenzuola,
prega il rosario, anche se non crede.)
Mi ricordo di un racconto che scrivesti
(o forse un sogno) di te bambino
che ridevi in cima a un albero…
dovresti leggerlo, come per dire
signor giudice a parte i fatti c’è dell’altro
lo capisce che c’è dell’altro nella vita di un uomo?
«Non preoccuparti, starò bene. Grazie».
Un giorno al fiume mi dicesti sono povero
perché ho tutto mal trattato
e forse l’unico peccato è proprio questo
sciupare doni, le occasioni… (certo,
anch’io… in altro modo…).
Amico mio la primavera tutto cambia
radici sensi sradica rovina
la riva la trovammo rosicchiata
e i nomi dei fiori…
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Non siamo mica nati per questo centro
di feste universitarie ed empori…
Tornare nei boschi neppure ci serve,
il silenzio è altrettanto volgare.
Le icone del niente sopra gli scooter
se ne vanno invece verso il mare
dove ridere sfacciatamente sarà
il loro modo di sentirsi gente.
Poi lo saranno sempre, e senza grida
sfacciati padroni di immobili ed aziende
o di famiglie corrose dall’invidia…
Torti nell’utile, come una garanzia
di riuscita, nell’indecente calcolo
della nostra ferita.
*
Tu, quando avrai corroso ulteriormente
la resistenza dell’umano, preparati ad uscire:
il vero mondo è lì, lì fuori.
Sopra i piloni di cemento
le scritte di un tempo
sono tutte andate via col sole.
Resta la macchia di quando cascando
pensasti: uccidetemi, al punto che sono
non sono più utile a nessuno.
L’inopportuno così tenero e sgradito
tuo modo di parlare,
chissà perché è rimasto quell’alone
proprio lì, dove tu eri.
«Non sai niente? Siediti, devo parlarti…».
In questa conca orribile di muri
solo le ombre rimangono violente
sugli stabilimenti e le ringhiere
o come epitaffi alla memoria le panchine
riportano in vita un vociare di morto
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che si raggruma…
E nel parco la giostra divelta adesso
è un fosso dove prima invece un perno…
Tutto è negato a chi si muove
innamorato delle cose: non pretendere
bisogna, dimenticare in fretta…
guardarsi dalla fede, imparare
a far di conto…
*
«Noi siamo noi per loro
che sono così tanti
e tutti così loro…».
Come una mosca sulla carta che l’appiccica
canticchia Augusto incrostato al bancone:
«condanna è questo stare
al margine, è il lager
della vita, che nessuna rivoluzione…».
«La vita inutile, inutile
la vita che trascorre inutilmente
e starcelo a dire a cosa serve? A dire: prima o poi…
Ma tanto prima o poi niente».
Solo una grande esplosione (per dirla
alla Pasolini) salverà questa nazione,
o un’invasione di gentaglia, o una carestia…
Ma non lo so, ma che ne so io…
Fefo dice che bisogna essere estremamente sinceri
cioè ridere commuoversi gridare
antisociali e belli parlare
a voce alta, parlare sempre…
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La soglia
Dopo sei mesi di naufragio fai ritorno
alla porta di casa (welcome).
La croce appesa al collo
come dono non colto
o ricordo di un tradimento.
Mi cercasti madre più di una volta
ma i miei entusiasmi sopiti dal giorno
non poterono seguirti altrove
dove volevi.
Resta questa stanza
disseminata dalle scorie
di una fallita redenzione.
E ti ho cercata Chiesa anch’io
su libri di teologia medievale
commosso dalla tua millenaria ingiustizia
e bellezza.
Mi parlasti e non è vero
che l’istituzione (in quanto tale) è muta.
Tu fosti cara a me come una famiglia buona
a cui si può soltanto spezzare il cuore.
Libertà, libertà che non dura: eccomi
di nuovo a casa. La disfatta è bella.
Qui tutto è ancora come un tempo e forse anch’io
non sono poi cambiato più di tanto.
*
Ma cosa dico… non è vero.
Come l’ultima generazione di una stirpe suicida
questo ramo non fruttifica.
La storia e l’utopia non conta più
32
senza una fede cieca nella vita.
Da un’altra parte madre padre e figlio
sono tre contro ad un muro
che le raffiche li incrostano
sull’uscio e ci s’accasciano
come stracci mentre avanzano
i militari inglesi di soglia in soglia
a portare a tutti la buona novella.
Lei sognava di fuggire altrove
una volta finita la guerra.
Ma si ritenne utile lo sterminio
perché in una zona strategica
un buon ministro della difesa sa bene
che i morti sono morti per qualcosa
di più grande della vita stessa.
Ma torniamo qua da noi
dove la madre è sul divano in ansia
per i naufraghi famosi sopra all’isola
e i poeti cattolici
si sporcano la maglia con il sugo.
Qui un ragazzo se ne torna a casa
dopo mesi di sbando
e si ritrova tutto un mondo
in piedi, lì davanti, che gli parla.
*
«Caro ragazzo, sei tornato a me
come ad uno specchio polveroso
con il tuo ventre smagliato dagli anni precoci
e il sorriso corroso…
Dove prima camminavi urlando
inconsapevole e maldestro
adesso parli delle tue occupazioni.
33
E il viso rosso non c’è più, al suo posto
la grassa risata nel telefono
e l’accordo compromesso
con amici che non ti conoscono.
Ma tu non piangi (neanche ridi)
e quell’odore dischiuso
non ti ricorda più niente.
Domani sarai un muto
signore di mezza età
a sbirciare dal divano
con un bicchiere di birra in mano
il mondo rappresentato.
Per certe storie, sai
non si sprecano nemmeno endecasillabi.
Basta qualche assonanza
che giustifichi la costanza
di un’abitudine.
Urlasti e ti fu aperto.
Lì fuori un nuovo interno.
La stanza dove torni
era il ventre materno.».
*
Sulla strada ce n’è una
che non torna ma va via
sotto il peso di un borsone pieno.
Sottobraccio ha il libro di un poeta straniero
che non ci capisce niente ma le piace
trascinarsi le parole dietro
come i sogni del mattino.
E l’alba è enorme, deserta,
e lei non sa
dove la strada per andare.
34
Sorella, sui tuoi passi tornerai domani
oppure inutilmente fingerai di stare bene
di fronte a quel via vai di gente
che dopo lavoro ritorna.
E scoprirai la nostalgia della norma
che non c’è se non perdendola
per sempre, come oggi
che tu cercando vai
con il tuo piercing nel labbro sparato
un mondo nuovo che invece non è altro
che lo stesso ribaltato.
E il pianto di tuo padre sarà il trauma
degli anni violentati nella forma
di questa sterile rivolta…
*
Ma dove chi va via e chi ritorna
nel flusso continuo che si trasforma
davvero vuole andare e non lo sa?
La signora Anna se ne va
come una barca
in mezzo al mare.
Viveva qui che era campagna
e lei una povera ragazza
scesa in città per lavorare.
Poi si versò il cemento e i cosi gialli
s’addensarono oscurando il cielo
e lei fu gravida sei volte.
Ora che il ciclo si conclude se ne vola
guardando finalmente dall’alto
la strada della spesa, con la scuola
dove prima c’era il prato e lei cadeva
35
tra le radici della quercia enorme
trasportando con la bici a notte
le scatole degli alimentari.
Diceva che alle piante non si mente
perché ascoltano il silenzio della pelle
di chi le sfiora.
*
Ed il nipote varca la soglia
che non sa niente però corre come un sogno.
E nella stanza c’è un altare spoglio.
Lui si gira sorridendo e chiede:
«Perché la nonna dorme su uno scoglio?».
36
L’origine
Il fiume risalendo diventava
qualcosa di terribile e non l’acqua
ma le ferite aperte sotto i piedi
lasciavano percorsi per gli squali.
Forse perché tu vivi adagio, costeggiando
non puoi capire, è inutile,
l’urgenza di sbagliare,
quando di notte scivola la pietra
e la scelta è quale spalla
fratturare, nient’altro.
Ma dove per l’origine? Il passaggio
non lo si trova più.
La luce che si scolla dalla sera
ci lascia dopo il sogno, senza scampo
con la via della natura preclusa
dai copertoni delle auto in fuga.
37
Lo specchio
Questo viso appartenne ad un poeta
che un giorno ti battezzò sua musa
e che ti amò riconoscendoti sorella
perdutamente e con tutto sé stesso.
Per l’ultima volta mi illudo di esserci
quindi per favore non contraddirmi
e dimmi che domani ce ne andremo
oppure se non ci credi fai finta.
Su queste strade passeranno ragazzi
che senza sapere dove sbattere la testa
andranno avanti ricavandosi un ruolo
se non rispettabile, rispettoso…
*
Poi nello specchio questo viso
che non conosco, all’improvviso
questo sorriso atroce.
Come chioma al vento va davvero
il pensiero dell’uomo mosso
dall’utilità del cosmo?
E chi saprebbe accettare una simile evenienza?
Non la bambina che corre dal padre
chiedendo riparo dalle piaghe del giorno
né tantomeno noi.
E attorno c’è una stanza
e la ragazza sorridendo chiede aiuto.
Chi potrebbe accogliere l’ipotesi
che nulla è adatto all’uomo se non il sogno?
Non queste strade, non queste parole
38
ma solo il bisogno di altre?
Sorella, senza troppe domande
chiudi gli occhi e tira
questa bianca striscia
sul bordo del lavabo.
*
Diremo tante cose salutandoci,
che non si può permettere alla vita
di avere l’ultima parola.
Arrivederci amica mia, ciao.
I cadaveri buttati in fondo al mare
sono ghermiti d’alghe.
Tutte le ossa disperse nella storia
adesso affiorano dietro agli scogli
illuminate da un oltraggio chiaro.
39
Lampi
Se pure ti avessi incontrata, vita
sarei rimasto immobile, incapace
a piangere come di fronte a un morto.
Sotto un fiotto di luce se ne stava
col suo camice bianco di angelo
o di dottoressa.
Balliamo dai stasera
sono allegro come un bambino, ehi
mi riconosci?
Noi tutti sui divani a far l’amore
con noi stessi, a premere le mani
sui sessi solitari…
Salutiamoci così, senza lacrime né baci.
Basti una stretta di mano a dirsi addio,
una pacca sulle spalle, da padre antico...
*
Con ali di cemento armato tornerà
il domani a coglierci, di nuovo
impreparati a una seconda vita…
*
Non rispose.
Morimmo sotto braccio, in overdose
nel gabinetto di una discoteca marina.
I nostri corpi tra due fuochi, fuori
la tragedia mattutina, sopra di noi
il bianco neon della cabina...
Così ci salutammo, nello specchio
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per ridere di noi nella rovina
come pazzi abbarbicati al secchio
dell’immondizia.
(Il cliente selezionato non è al momento…)
Si parlerà domani di eroina
o di problematiche legate al vuoto
del mondo giovanile.
Eppure muto riuscii a prenderti, selvaggia
maestà delle Puglie: ti chiamo
selvaggia maestà de li mari: li scogli
o l’oblio, il creato e nisciuna: che ridere
amore mio che ridere l’infinito che si scaglia
oltre il parcheggio abusivo…
41
Controluce
Adolescenza
Le mattine gelide sulle panchine gelide
a scartare maritozzi, aspettando mezzogiorno,
dentro il piumino nero, sotto il cielo sterrato,
incomprensibile avervi creduto, mattine.
Io mi portavo addosso la luce oltraggiosa
della colazione davanti alla tele,
la corsa dietro al pullman, la ressa
per salire, tenersi in equilibrio, scendere.
Vi ritrovavo nel giardino spoglio
come una sala d’attesa alla stazione
sotto il cielo ingiallito e il palazzo arancione
con quella scritta oscena che ci faceva ridere.
La ricalcammo con il gesso alla lavagna
ed erano ultimi i giorni di scuola
e le villanie da teppisti improvvisati
contro i soprusi del professor Donati.
Poi ne arrivarono degli altri e tutti uguali
e adesso addirittura anche dai nostri
si inizia a fare presto, a ritornare
col suono della prima campanella.
Ma tu resisti, anima mia, sorella
sulla panchina gelida di questa
mattina bella.
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Terza età
Dopo il caffè e la sigaretta il vuoto
sotto il sole, ancorato al balcone
come in muta polaroid d’aprile.
O nel gesto così ruvido e infantile
della solida mano che separa
la luce dalle palpebre ferite.
O nel sorriso amaro, quasi acerbo
da felino anziano che si ripara
in zona d’ombra prima di morire.
Sotto di te scorrazzano ragazzi urlando
bestemmie antiche e nuove ed un pallone
sgonfio che rimbalza sulla piazzola.
Ma sono corpi in ombra e controluce
di loro sai che gesti e quali sibili
soltanto come spiriti campestri
che ritornano dopo la scuola.
E ti dimentichi del tempo il volto e gli abiti
moderni o quasi immagini rivolti
a te chiamarti in secco coro: «Scendi».
Ma già la metamorfosi di luce
riveste la materia di sé stessa
e tutto torna sé medesimo, più nulla
il cuore può felice contro il vero.
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