n.2
2
The Godfather
Raymond Queneau
di JACOPO CIRILLO
C
’è un esempio famoso di Umberto Eco che più o meno dice: i parenti sono
serpenti solo per la rima e non per la consanguineità. Nella poesia è il suono che comanda. Nella letteratura no, perché la letteratura crea dei mondi. È una
cosmogonia. Ovviamente i mondi creati dai libri non sono reali, né veri. Basti
pensare alla fantascienza o, più semplicemente, al Codice da Vinci. Però devono
essere possibili. Rappresentazione di stati di cose alternativi allo stato di cose reale. Quindi si può volare, si può essere comandati dai robot e così via. L’unica cosa
che si chiede a questi mondi è uno dei fondamenti della logica: devono rispettare
il principio di non contraddizione. Se a un certo punto Harry Potter perde i suoi
poteri, allora qualche mago cattivo glieli ha tolti. Non è che si può fare finta di
niente e dire che non li ha mai avuti. Creare un mondo possibile significa creare
un universo narrativo con una coerenza interna, capace di stipulare con il lettore
un patto finzionale per il quale, riassumendo, non è vero ma ci credo.
Raymond Queneau, che nella sua opera ha fatto mille cose incredibili, riesce a
mettere in scena continuamente questa operazione. In Suburbio e fuga (Einaudi,
204 pp. 9 euro) il protagonista, Jacques, vive mille vite differenti. Da figlio di un
semplice calzettaio e «di una madre insignificante», diventa capitano dell’esercito olandese, campione del mondo di scacchi, fachiro nel cristallo, cercatore d’oro,
attaché all’ambasciata di Pechino, «lord inglese (per adozione), gran lama (per
vocazione), presidente della repubblica di Nicaragua (per elezione), presidente
della repubblica di Costa Rica (per rivoluzione) e presidente della repubblica di
Guatemala (per occupazione)». E tante altre cose. Tutto il libro è un susseguirsi di
vite possibili che iniziano e terminano in ogni pagina, in un turbinio che spesso
ne sporca il discernimento: non si capisce bene quando inizia il sogno o ricomincia la realtà.
I mondi possibili si rincorrono uno dopo l’altro rendendo la realtà di partenza
una semplice possibilità come tutte le altre. Qualsiasi altro autore, per delimitare
i confini, avrebbe usato un espediente linguistico come shift tra mondi, anche
solo un e Jacques si immaginò di… o un e Jacques vorrebbe diventare… Oppure
avrebbe usato un accorgimento visivo, una riga vuota tra il primo paragrafo e il
secondo, o un carattere tipografico diverso. Queneau invece, da buon avanguardista e sostenitore dell’avanguardia (il suo amico italiano era Enrico Baj, mica
Calvino), usa la velocità. Velocità narrativa, si intende. Il mondo possibile “originale”, quello della storia iniziale, è costruito con un andamento narrativo canonico: avvenimenti salienti diluiti da digressioni e descrizioni, di modo che, in 10
pagine, succedono due o tre cose rilevanti, non di più. I mondi possibili derivati
invece proliferano a diverse velocità, di modo che ogni vita viene descritta dalla
successione dei due/tre avvenimenti centrali attorno ai quali si impernia. Una
intera carriera di boxeur in pochi paragrafi; le peripezie d’acrobata in due righe.
Lo shift tra i mondi è la velocità. E non a caso lo shift, il cambio della macchina in
inglese, fa esattamente questo.
3
Sommario
Sui labirinti
La citazione del mese
Beaten Beatitude
Letterature Involontarie
Biografie Edulcorate
Le città letterarie
Oh, Scena!
L'angolo del cinematografo
Recensione/1
Recensione/2
Viaggi
5
6
7
8
10
12
13
14
15
16
17
Nobel minori
Scheda Libro
Deja lu
Pillole di Scienza
Recensione/3
Charlie VS Proust
I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Graffetta
Ghost World
Iperboloser
18
19
20
21
22
23
24
25
27
28
29
Editoriale
Questo è il primo editoriale tradizionale di Finzioni. I
precedenti, mettendoli insieme, erano il manifesto teorico
ufficiale di questa rivista. Adesso ci sembra giusto iniziare
a parlare di come stanno e di come vanno le cose.
cui vogliamo continuare a dimostrare la grande letteratura. Iperboloser diventa la chicca finale e tre recensioni
sono sparse tra le pagine, per ricordare a tutti che parlare
di libri è bello ma leggerli è meraviglioso.
Finzioni cambia. È in continua evoluzione. Dall’abbozzato numero zero al consapevole numero due, lo scheletro
si sta formando e la ciccia comincia ad attaccarsi. Ci sono
due rubriche nuove, che ovviamente proseguiranno nei
prossimi numeri. Le città letterarie, che questo mese celebra Trieste, e le Biografie edulcorate, inaugurata da John
Fante. C’è poi Ghost world, messa in sistema dei discorsi
sulle graphic novel che portiamo avanti fin dall’inizio e di
Finzioni cresce. Sul web e su carta. Il nostro sito è aggiornato quotidianamente con contenuti nuovi e inediti.
La rivista cartacea sarà presto ordinabile on-line e distribuita in più città. Noi continuiamo per la nostra strada,
e orgogliosamente vi presentiamo il secondo numero di
Finzioni, approcci leggeri a contenuti pesanti.
La redazione
4
C
chi l’ha attraversato (nel saggio “La
ome si entra in un labirinto?
sfida al labirinto” ne Il Menabò n.5
Certo è facile perdersi, nei
1962). Il labirinto è allora il percorlabirinti di Robbe Grillet, ma come
so: solo così riusciamo a spiegarci
entrare in quella confusa narraziocome sotto lo stesso termine, la
ne che sposta costantemente ogni
mitologia comprenda spirali a una
punto di riferimento? Parliamo
sola via che dall’esterno portano al
naturalmente di Dans le labyrincentro e meandri a infinite possibithe, Paris, Editions de Minuit 1959,
lità. Movimento contraddittorio e
223 pagine, 14 euro. All’ io-qui-ora,
ritmato.
punto centrale da cui si dipana
ogni narrazione, manca la stabilità
Come si legge dunque un romandel contesto. E al lettore i punti di
zo di Robbe Grillet? Quale il fil rouriferimento cui aggrapparsi per poge (d’Arianna) che ci conduce nei
ter procedere nella comprensione.
suoi meandri permettendoci, una
Come il lettore, il narratore tenta di
costruire dei mondi fittizi in cui situarsi, in cui
dare corpo alla propria
astrazione, ma il contesto contraddice ogni
tentativo di fissità. Le interminabili descrizioni
degli interni creano degli indizi, che richiamano altri indizi che li contraddicono e si perdono.
Ecco allora che l’identità
del soldato, protagonista
del romanzo (ma che poi
di MATTEO TRELEANI
sia veramente un soldato?), si costituisce in
base all’ambiente esterno, ambiente puramente
buona volta, di uscirne, o meglio,
materiale, ma contraddittorio. Un
di finire il libro? Ancora una volta,
soldato ha forzatamente una misin fatto di labirinti, si richiede un
sione. L’identità di partenza, l’iocambio di prospettiva. Si noti che
qui-ora, si riconosce allora nel percome in un puzzle, Nel labirinto desonaggio militare per avere un fine
costruisce man mano, ogni punto
verso cui tendere. Ma anche questo
di riferimento su cui tendiamo ad
fine cede. Nel labirinto è una sorta
appoggiarci per continuare la letdi anti-narrazione in cui non si detura. Come in un gioco sadico, noi
scrive una linearità degli eventi ma
ci aggrappiamo a qualcosa, penun movimento continuo.
sandola stabile, e quella si sposta,
costringendoci a cercarne un’altra
Il movimento, dicevamo nello
e così via. Basta qualche decina di
scorso numero di Finzioni, è l’espagine per rendersi conto che quesenza stessa del labirinto (parole
sto gioco ruota su se stesso. E’ una
di Curt Sachs, storico della danza).
spirale: il labirinto ci porta al cenLabirinto che, appunto, si danza.
tro, e questo, lo sappiamo coincide
Tanto che, siepi, giardini e resti
con l’uscita (come il labirinto del
archeologici sembrano i residui
Jardin des Plantes metteva abilsvuotati della loro linfa vitale: il
mente in scena: una collina con la
movimento. Perché ci sia labirinto
sommità al centro e da qui la posci vuole anche qualcuno per persibilità di vedere il labirinto stesso.
correrlo. E’ Italo Calvino a ricorVederlo significa possederlo, comdarci che il labirinto non esiste per
prenderne la mappa e quindi le sue
vie di fuga). Solo che uscirne non risolve il suo enigma. Una volta fuori,
ci rendiamo conto di come Nel labirinto non era che la messa in atto di
tutti i mondi possibili, di quelli che
la narrazione tradizionale, nel suo
svolgimento, dovrebbe contribuire
a narcotizzare poco a poco. Inutile
rimarcare che con il suo caposaldo
del nouveau roman, Robbe Grillet
riflette sulla narrazione stessa, ne
mostra i meccanismi decostruendoli. Ma non è questo che ci interessa al momento. In questa rubrica
sui labirinti ci interessiamo proprio di labirinti. E
del modo in cui sono stati
interpretati.
Sui labirinti
Dentro il labirinto
5
Dunque la prima caratteristica è la contraddizione. Il movimento
labirintico è quello che
mi fa girare a destra per
andare a sinistra così
come il romanzo di Robbe Grillet mette in dubbio
ogni appiglio materiale
contraddicendolo
nei
passi successivi. Costruisce un’immagine, un
contesto, per poi metterlo
in dubbio. La seconda caratteristica, che ci riporta alla danza del labirinto, è il ritmo. Periodicamente
le stesse frasi, le stesse situazioni
ritornano, ma diverse. Ritmo e contraddizione uniti al cambio di prospettiva sono principi della mètis,
parola che nella Grecia antica indicava un particolare tipo di intelligenza. La mètis è il pensiero utile a
uscire dal labirinto (il pensiero degli
insight di Dedalo), a leggere Robbe
Grillet e i flussi di coscienza…
I
l romanziere in carne ed ossa non è l’enunciatore
del suo romanzo. E’ un personaggio di un altro
racconto, per esempio quello di uno storico, di un critico letterario, di un giornalista venuto ad intervistarlo. Appena incominciamo a nominare l’enunciatore,
a designarlo, a dargli un tempo, un luogo e un volto,
cominciamo un racconto.
Bruno Latour
La citazione del mese
La sonata a Kreutzer & Lunar Park
di JACOPO CIRILLO
L
a sonata a Kreutzer (Giunti,
160 pp. 7 euro) è un libriccino di Tolstoj. Parla di un uomo che
ha ucciso la moglie per gelosia e lo
racconta tranquillamente a uno
sconosciuto sul treno, mentre si
fuma duecento paglie e beve un tè
talmente forte da dover allungarlo
con l’acqua (probabilmente un eufemismo per dire vodka) (nel senso
che il tè l’allunga con la vodka). Il
reo confesso assassino ha le idee
molto chiare sul matrimonio e sul
grado di decadenza della società
russa del tempo e non manca di articolarle con molta chiarezza all’attento interlocutore, che sorbisce le
farneticazioni di un uxoricida per
tutta una notte, fino al mattino.
Le idee sono forti e coinvolgono
il sesso con o senza procreazione,
l’insolenza dei dottori e la condotta
delle mogli dei soldati che avevano la leva obbligatoria di 20 anni.
Ma non è questo il punto. Questo è
un libro di denuncia di Tolstoj, che
non era d’accordo con la moralità
del suo tempo e lo faceva dire a un
suo personaggio. Tanto più che alla
fine del libro c’è una postfazione
dell’autore che esordisce con una
cosa del tipo: molte persone vogliono sapere come la penso e che cosa
volevo dire con questo racconto.
Benissimo, nessun problema. Ma
allora qui è Tolstoj che parla; per
capire questo libro bisogna per forza sapere chi è Tolstoj, sapere che è
russo, sapere il ruolo degli intellettuali russi di quel periodo eccetera.
Ecco allora che la figata detta da
Latour riesce a coniugare tutto ciò
con una concezione “apaternalistica” della letteratura. Nonostante si
sia ripetuto così tanto che l’autore
empirico non interessa, che i libri
circolano nella cultura e che acquistano valore dalle loro relazioni e
dai discorsi che si fanno attorno ad
essi.
Bruno Latour è antropologo, sociologo della scienza e importante
teorico dei STS (Science and Technology Studies). Si dirà, cosa c’entra
uno scienziato. Non lo so, ma l’idea
è davvero intelligente. E soprattutto consente di uscire dall’empasse
precedente: il Tolstoj che ci interessa non è quello nato nel 1928
in provincia di Ščëkino. O quello
scomunicato nel 1901 per le sue
6
idee anarchico-cristiane. Il Tolstoj
che ci interessa è il protagonista di
un’altra storia, quella di uno scrittore che, per diffondere le sue idee,
usa i personaggi dei suoi libri. E’ un
personaggio di cui si può discutere
o fantasticare, al pari di Pozdnysev,
l’assassino redento del libro.
Un esempio più chiaro? Lunar
Park, di Bret Easton Ellis (Einaudi,
336 pp. 12 euro). Un romanzo incredibile che ha come protagonista
uno scrittore che si chiama Bret
Easton Ellis, che ha scritto tutti i
romanzi di Bret Easton Ellis, che ha
moglie e figli che somigliano e hanno lo stesso nome di quelli di Bret
Easton Ellis ma non è Bret Easton
Ellis. Questo è lo svelamento palese
del meccanismo di cui parla Latour:
il romanziere in carne ed ossa, Bret
Easton Ellis, non è l’enunciatore del
suo romanzo ma il personaggio. E
l’enunciatore di Lunar Park allora
chi è, si potrà chiedere? È questo
il problema. Non si può chiedere.
Perché appena lo si chiede, appena
si prova a designarlo, quello scompare e restituisce solo un’altra rappresentazione. Che, guarda caso, si
chiama Bret Easton Ellis.
Beaten Beatitude
Tropico del Cancro
di JACOPO DONATI
N
el primo numero di Finzioni
accennai ad un autore che
prese le difese di Kerouac contro le
accuse di oscenità che gravavano
su I soterranei. Era Henry Miller,
che a cause del genere aveva ormai
fatto il callo fin dalla sua prima opera. Miller parte per Parigi nel 1930
e resta in Francia sino alla seconda
guerra mondiale. È qui che ambienta, scrive e pubblica, nel ’34, Tropico
del Cancro, romanzo crudo che gli
procurerà in seguito, oltre a diversi guai giudiziari, il titolo di “padre
dei beat”. Non perché fosse il più
anziano (avendo 31 anni di differenza con Kerouac avrebbe potuto
essere tranquillamente suo padre)
ma perché fu un autore che li ispirò
tutti inserendo nei suoi romanzi le
stesse atmosfere, gli stessi ideali e le
stesse paure che avrebbero riempito le pagine dei beat.
In Tropico del Cancro si parla della vita quotidiana, della scelta del
protagonista (l’autore) di condurre
una vita principalmente a scrocco,
una vita povera che abbia come
unico agio la libertà individuale. E
poi sesso, tanto sesso, descritto in
maniera cruda, volgare, vibrante.
Sarà infatti questo il motivo per cui
negli Stati Uniti verrà pubblicato
solo nel 1961. I confini statunitensi,
però, li varca ben prima: tanti americani esuli in Francia lo portano
con sé al loro rientro in patria e in
questo modo il romanzo comincia
a circolare.
Non c’è trama perché si parla di
vita e la vita non ha trama, e non c’è
alcun climax. Una storia strana, fat-
ta di tante scene, dove il protagonista è asociale, egoista e sfruttatore,
dove si fatica a capire cosa ci sia di
tanto affascinante in un personaggio del genere, finché non si comprende che in ogni pagina Miller
vive realmente alla giornata, nel
vero senso delle parole. Lui stesso,
nelle prime righe, afferma: «non
ho soldi, né progetti, né speranza.
Sono l’uomo più felice del mondo».
In un passo del libro descrive New
York, la città in cui nacque. I grattacieli divengono prigioni bianche,
nei marciapiedi strisciano i vermi e
tutto è monotono, persino i volti dei
passanti. È una città crudele eretta sul nulla e brulicante di energia
senza scopo, «quanto più frenetico
il ritmo, tanto più sminuito lo spirito» dirà Miller ad un certo punto.
Ma Parigi è differente: a Parigi non
occorre essere ricchi per sentirsi in
paradiso, anzi, non occorre neppure essere parigini per sentirsi a casa
tra le sue strade. Parigi fa sentire a
casa anche se non si possiede un
centesimo, New York fa sentire una
nullità anche il più ricco.
Che cos’è che conta di più? È più
importante essere ricchi ma spiritualmente vuoti e intrappolati in
prigioni bianche, o essere poveri ma
stare bene e sentirsi a casa? Miller
la risposta la conosce bene quando
scappa dagli Stati Uniti e raggiunge
Parigi. Forse, una volta partiti, le
città che ci hanno trattenuto paiono
peggiori di quel che sono realmente, mentre le città che ci accolgono
sembrano paradisi in terra quando
non sono molto diverse dalle altre,
7
ma è ciò che simboleggiano ciò che
davvero fa pendere l’ago della bilancia da un lato piuttosto che da
un altro.
New York era il simbolo di una
natura umana vuota e debole, di
un’umanità che si incensa per i
grattacieli costruiti con fatica per
poi rinchiudersi al loro interno senza comprendere ciò che davvero
dovrebbe essere importante. E non
si tratta di soldi, fama o potere: «Fai
quello che vuoi», dice Miller tra le
pagine di Tropico del Cancro, «purché produca gioia. Fai quello che
vuoi, purché porti estasi».
Letterature
involontarie
Alloprassìa,
o dell’ingombra e cieca
pienezza dell’Altro.
di EDOARDO LUCATTI
R
elativo è lo sguardo che
pondera, che flette e riflette
l’unità e la sua misura, l’isola e chi
vi è relativamente perso. Assoluto è
lo sguardo che impondera, non già
cogliendo più toni ma cogliendosi
nel tono, in un tono che diventa il
tono e si avoca l’originario. Assoluta
è l’incoscienza, che non è vuoto di
coscienza ma internità della stessa,
sua ingombra pienezza, in-coscienza – appunto – che non fa pratica di
sé al di là del proprio involucro, che
non si relaziona a nulla e semplicemente promana. Dio è incosciente,
ed è proprio per questo che non voglio credergli.
Non voglio credere all’Uno cui
tutto è promesso, all’impasto definitivo di me e dell’altro, entrambi
risucchiati in cielo su per l’avida
cannuccia del Padre. No. Sono abbastanza affezionato alle mie oscillazioni, alla mia piccola danza fra
relativo e assoluto. Si inspira follia
e si espira ragione, perché gli occhi
si aprono e chiudono, di continuo e
con ritmi variabili, senza poter fare
altrimenti: assolutamente pazzi,
geni, depressi, vivi e relativamente
strani, intelligenti, tristi, in forma.
È un respiro. Io non sono promesso
alla vita. Sono solo abbastanza vivo.
8
E solo finché ne ho voglia, modo,
forza. Dopodichè ciao.
Per fortuna, mia e di voi finziofili lettori, l’assoluto conosce anche
forme terrene, il che – per altro – ci
porta a considerare la probabilità
che Dio non sia stato poi così originale. Sapete infatti cos’è un alloprassico? Un malato. Ma sapete di
cosa è malato? Leggendo Günther
Anders, gustosissimo detrattore di
Franz Kafka, ho appreso che l’alloprassìa è “l’azione coatta di un malato che, invece dell’azione da lui
stesso voluta o richiesta, ne esegue
un’altra”. Non si tratta di un semplice errore, di una défaillance: non
è che ci si alzi di notte per andare
in bagno e poi ci si trovi a pisciare
nel frigorifero. No. Si tratta di fare
davvero Altro. Si tratta di voler o
dover andare in bagno (non necessariamente di notte) e, invece, di
raggiungere la tromba della scale
per cantarvi in perfetto tedesco
tutto l’Inno alla gioia. Questa è una
buona alloprassìa. L’idea di Anders
è che Kafka soffra di un’equivalente allologìa, la quale – invece della
parola o della frase da lui stesso
voluta o richiesta – gliene farebbe
scrivere un’altra. Ma come tutti gli
alloprassici, egli non sa di esserlo.
Dal suo punto di vista, Kafka non
traduce ciò che avrebbe da dire in
un linguaggio altro. “Ciò che egli ha
sempre nominato – spiega Anders
– l’ha nominato di già con il suo
pseudonimo.” Insomma: nei panni
dell’alloprassico si canta l’inno alla
gioia nella tromba delle scale non
perché non si sia riusciti a orinare nel bagno bensì proprio perché
lo si sta facendo, perché la tromba
delle scale è il bagno e Beethoven è
l’urina. Ed ecco l’assoluto. Non si è
qualcosa d’altro che si giustappone
a qualcosa di proprio, si è nell’altro, nell’internità dell’alterità. Per
questo Kafka è insostenibile: non
perché sia strano ma proprio perché rinnega la stranezza di ciò che
scrive, la spiana, la assume dal suo
di-dentro e, così facendo, non la
vede più in quanto tale. Di qui l’ac-
cusa di Anders, per il quale Kafka
sarebbe non già un visionario bensì
un realista, perché normalizzerebbe una condizione ignobile cui
l’uomo dovrebbe invece ribellarsi.
Anders, insomma, non è d’accordo
con Kafka. Mica male l’idea di non
essere d’accordo con Kafka: prima
gli dai del pazzoide e poi prendi le
distanze da quello che dice. Mah.
Sarebbe come accusare un muto di
starsene zitto allo scopo di nascondere qualcosa. Voglio dire: è muto,
ti credo che non parla.
Comunque.
Il libro di Anders è bellissimo:
non sempre centra il vaso ma anche quando la mira lo tradisce il
buontempone mantiene uno stile
impeccabile. In appendice è riportato un breve scambio di polemiche
con Max Brod che aggiunge pepe al
sale. Per cui leggetevi tutto quanto
e finiamola qua. Perché questa non
è una rubrica su Günther Anders, e
nemmeno su Franz Kafka. Lungi da
noi. Questa è una rubrica di letterature involontarie che, per l’occasione, si occupa di alloprassìa e alloprassici, dell’internità dell’alterità,
delle forme terrene dell’assoluto. A
dispetto delle apparenze, è però – e
in certo modo soprattutto - una rubrica utile, che serve a trarvi d’impiccio. A dotarvi, per così dire, di
un salvacondotto che il più grande
di tutti gli Imperatori non potrebbe
garantirvi. Perché qualunque cosa
vi contestino, di qualunque cosa vi
accusino, chiunque siate e dovunque andiate, bè, se quello che state
facendo risulta per qualche ragione
offensivo, improprio o anche solo
inopportuno, se state rubando gli
addobbi natalizi dalla porta del
vicino e costui - tornando a casa vi tocca la spalla per chiedervene
conto o se durante un colloquio di
lavoro appiccicate le caccole del
naso sotto il tavolo del responsabile risorse umane ed è troppo tardi
quando vi accorgete che il tavolo è
di vetro trasparente, bè, se questo e
se quello, c’è una cosa che potrete
sempre dire: “Io sono alloprassico,
porti rispetto!”
Mentireste, perché nessun alloprassico è davvero consapevole di
essere quel che è, e dunque mai e
poi mai potrebbe autenticarsi come
tale. Ma dubito che l’originalità del
frangente consentirebbe al vostro
basito interlocutore di cogliere una
sfumatura tanto delicata. È già difficile penetrare il problema della
volontà, della sua costitutiva praesentia in absentia. Figuriamoci il
problema di una volontà che non si
sa volere ciò che pure dà1 a vedere.
E se di tanto fosse poi capace questo
vostro interlocutore, allora staccate
la caccola dal vetro e rimangiatela
in tutta fretta, ricomponetevi come
meglio potete e usate ogni mezzo
per farvi assumere. Perché a quel
punto una sola cosa sarebbe veramente certa: che il suo è il vostro
lavoro, e che da domani mattina il
vostro compito è fargli le scarpe.
1
Non ero sicuro che su “dà” andasse
l’accento. Allora l’ho digitato su google
e il nome del primo sito in elenco, a beneficio di eventuali lettori avvezzi alla
linguistica hjelmsleviana ma a generale
vantaggio del buonumore di tutti, ricorda in forma piuttosto divertente la prova
di commutazione.
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verbosometro
e attaccalo sulla schiena
del tuo amico verboso
9
E
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
cco John. Sfanghiamocela
così. Quattro chiacchiere tra
di noi, come due vecchi amici. Garcon. Due bicchieri del chiaretto di
Angelo Musso. Ma che dico due bicchieri. Portaci una bottiglia. Anzi.
Portaci una caraffa. Che siamo uomini di pietra noi. Siamo italiani.
Anche se, per dirla tutta, hai giocato tutta la vita a fare l’americano,
John. A fare lo Smith, il Jefferson, il
Richards, il Brown.
Nascere da Nick Fante e Maria
Capoluongo a Denver non è stato
tà. La molli quasi subito. Attacchi
con i lavori precari. Cerchi di restare a galla. E scrivi. Scrivi racconti.
Hai Henry Louis Mencken dalla
tua. Il grande Mencken. Il critico
letterario. Ti apprezza, ti esorta a
continuare. American Mercury e
Atlantic Monthly ti pubblicano con
regolarità. Ma i soldi scarseggiano.
La mamma spedisce dieci dollari di tanto in tanto. Non bastano.
Mangi solo arance. Hai lo stomaco
corroso. E allora cedi. Cedi alle luci
di Hollywood. Al profumo dei verdoni. Diventi una puttana. Vendi le
Biografie
edulcorate
John Fante
di ANDREA MEREGALLI
facile. Com’è che ti chiamavano
i tuoi compagni di scuola? Dago.
Terrone. Mangiaspaghetti. Così ti
chiamavano. Perché tuo padre, il
vecchio Nick, veniva da un paesino sui monti abruzzesi. Torricella
Peligna. Già, tuo padre. Violento.
Fedifrago. Ignorante. Blasfemo.
Prepotente. Giocatore. Muratore.
Scalpellino. Tu, il primo di quattro
figli. Nato l’8 Aprile 1909. Testardo
di un John. Tu volevi leggere, volevi
scrivere. Ma il babbo non era d’accordo. Trovati un lavoro. Diventa
un uomo. I libri sono da froci.
Quindi via, John. È il 1930 e tu
scappi. Scappi da Boulder, Colorado. Tenti con Los Angeles. La metropoli. La città delle opportunità.
Della ricchezza. Dei vestiti. Delle
belle donne. Ti iscrivi all’universi-
10
parole. Sei uno sceneggiatore, film
di serie B. Non ti piace, ti consideri
uno scrittore. Un nobile scrittore.
Cerchi il tuo posto tra Hemingway
e il grande Fedor. Ma ne arrivano
di soldi, John. E allora continui.
Ti adatti. Il tuo primo romanzo lo
concludi nel 1936. La strada per Los
Angeles (Einaudi, 218pp. 11 euro).
Ma viene bocciato. Rifiutato. E non
importa se il grande Arturo Bandini nasce in queste pagine. Nessuno
lo conosce, ancora. E lui ammazza
i granchi. Si fa le pippe. È maschilista. È vile. È un po’ troppo poco
politically correct. Te lo stroncano.
Non ti arrendi. Nel 1937 finalmente ti pubblicano. Aspetta primavera, Bandini (Einaudi, 238pp. 11,50
euro). La storia della tua infanzia a
Boulder, Colorado. In prima pagina
c’è tuo padre che scalcia nella neve
e bestemmia. C’è la difficoltà di essere immigrato. Di essere italiano.
C’è la tua penna, il tuo stile. L’ironia
drammatica delle tue parole semplici. L’attesa della primavera per
Arturo e Svevo Bandini.
Nel 1939 ce la fai. Ottieni l’immortalità. Esce quello che in molti considerano il tuo capolavoro.
Chiedi alla polvere (Einaudi, 234pp.
11,50 euro). Arriva Camilla Lopez.
La messicana. La cameriera. E tu,
che sei ancora Arturo Bandini,
cerchi di diventare uno scrittore.
Cerchi di farti la Camilla. Cerchi di
essere un bravo cattolico. Dimmi
una cosa, John. Come ti è venuta
Camilla Lopez? Dimmelo! È perfetta. È dannatamente perfetta. La
vostra storia. Che diventa un triangolo. Niente di nuovo, certo. Tu ami
lei lei ama lui lui scopa lei. Ma tu,
hai il coraggio di mostrarti nudo.
Sei nudo e lo racconti. Racconti la
tua nudità. Sei un gigante. Nel 1940
esce Dago Red (Einaudi, 221pp. 11
euro). Una raccolta di racconti.
Nel frattempo sposi Joyce. Sei
uno sceneggiatore. Guadagni bene.
Ti adagi. Arriva la guerra e non scrivi più. Fai solo il tuo lavoro. Ti godi
i dollari hollywoodiani e inizi con
il golf. Compri una villa a forma di
y sull’oceano. Hai 4 figli. Viaggi per
lavoro. Europa. Italia. Francia. Perdi del gran tempo.
Nel 1952 sei in crisi e pubblichi
Full of life (Fazi, 151pp. 8,50 euro).
Lo fai per dovere. Il libro non ti piace. Ironico, sì. Scritto da Dio, ok. Ma
manca qualcosa. È troppo sereno.
Non c’è l’urgenza. Non c’è la fame.
Ti senti finito. Gli anni passano, i figli crescono, i soldi si moltiplicano.
Ti ammali. Diabete. Proprio come
tuo padre. Due gocce d’acqua.
John e Nick. Nick e John. Il tempo
stringe, lo senti premere alla gola
e capisci che è arrivato il momento
per entrare nella storia. E allora lo
scrivi. Scrivi il più grande romanzo
famigliare di sempre. Scrivi un atto
d’amore per tuo padre. Ti riconcili.
Cedi al sentimento. Partorisci una
meraviglia. È il 1977 e La confraternita dell’uva (Einaudi, 232pp. 11,50
euro) vede la luce.
Un anno dopo Charles Bukowski, il poeta alcolizzato, ti rende
giustizia. Dice che sei il suo Dio.
Ristampa i tuoi libri con la sua casa
editrice, la Black Sparrow. Butta
giù una meravigliosa prefazione a
Chiedi alla polvere. Ti godi la cresta dell’onda. Ma sei vecchio e sei
malato. Scrivi ancora, pieno di speranza. Un anno terribile (Einaudi,
122pp. 11 euro) e A ovest di Roma
11
(Einaudi, 214pp. 10,50 euro). Nel
1982 sei cieco e senza gambe. Detti
a Joyce il tuo testamento letterario.
Torni ventenne e torni Arturo Bandini. Sogni di Bunker Hill (Einaudi,
158pp. 9,50 euro).
Te ne vai in un letto d’ospedale.
È l’8 Maggio 1983. Al tuo capezzale
Joyce, i ragazzi, gli amici di sempre.
La beffa è che verrai riscoperto con
violenza dopo la tua morte. Con
Joyce che pubblica inediti su inediti. Con La strada per Los Angeles, il
romanzo rifiutato, che fa conoscere
all’Italia il sublime Arturo Bandini.
Ma non fai in tempo a goderti tutto
questo. Muori sceneggiatore. Muori
da scrittore minore. La riscoperta la
vivono i tuoi figlioli. La tua Joyce.
Chissà come te la godi da lassù,
adesso. Tra Fëdor Michajlovič Dostoevskij e Ernest Hemingway. Hai
dovuto sgomitare, certo. Ma gli immortali hanno fatto posto. Hanno
fatto spazio.
Signore e signori, hanno detto,
Arturo Gabriel Bandini è in mezzo
a noi.
Le città letterarie
Gli squali di Trieste e i gialli di Heinichen
di Matteo Treleani
C
ittà strana, Trieste. Da quando, circa un secolo fa, la
frenesia del porto asburgico l’ha
abbandonata, non fa che contemplarsi. I triestini, si dice, non vivono
Trieste, la visitano. Una sua sineddoche, parte per il tutto, è l’immagine di piazza dell’Unità dal Molo
Audace. Le navi hanno abbandonato le rive, e il molo, persa la sua funzione primaria, serve a passeggiare
e dunque a guardare la città dal
mare. Da qui la si vede specchiarsi
nell’Adriatico. Anticamente le navi
impedivano alla piazza di riflettersi
sull’acqua. Ora il mare da infinito
dei possibili, tutti i luoghi verso cui
una nave potrebbe portarci, é divenuto uno specchio. E lo specchio,
si sa, é il più meschino dei limiti,
perché ci inganna dando un senso
di profondità con la nostra stessa
immagine. Per una città di frontiera avere molti limiti é uno stimolo
in certi casi, lo è perlomeno, quando quei limiti sono delle spinte
all’attraversamento, dei richiami
dell’Altrove. Ma persa quell’attrazione marittima, Trieste diventa
una sorta di isola, non provinciale,
ma marginale, che borbotta osservandosi. Invece di guardare l’Altro
e l’Altrove, guarda se stessa, il proprio passato e la propria identità
(italiana ? proprio qui ?).
Trieste resta tuttavia una città
letteraria, appunto perché é bello
passeggiare e riflettere senza far
nulla. In questa ossessione dello
specchio e dell’attitudine autoreferenziale, il Comune ha pensato
bene di pietrificarne la letterarietà. Joyce, Svevo e Saba passeggia-
no per le vie sotto forma di statue.
Eppure, quest’alimentazione del
proprio stereotipo produce alcuni
risultati. D’altra parte Magris continua a scrivere al caffè San Marco
e Boris Pahor, il più grande scrittore
di lingua slovena ha ben preferito
la città dell’alabarda a Lubiana. Se
la sua immagine riflessa pretende
un’italianità presunta, la città letteraria viaggia da sempre nello spazio
liscio dell’Altrove, multinazionale e
plurilinguistica.
Non per primo dunque, é arrivato
in città lo scrittore di polizieschi austriaco Veit Heinichen. E sono una
ventata d’aria fresca i suoi polar ben
ritmati e piacevolmente imperfetti.
Letteratura minore, si direbbe, nel
senso deleuziano, perché in lingua
tedesca in terra italiana e in quello
letterale. Comunque gradevole; di
quella letteratura che rende il suo
attore principale (la città, appunto)
più vitale e leggero. Il polar sembra ciò di cui aveva bisogno questa Trieste assopita e borbottante
che rimpiange le proprie glorie. La
città che ha dato vita al romanzo
moderno (e al flusso di coscienza
joyciano) non conosceva il giallo.
Genere che le sembra tuttavia straordinariamente adatto. Il commissario Proteo Laurenti, protagonista
dei romanzi, poi, é un salernitano,
uomo di mare dunque, ma di certo
non abituato alla borghesia triestina e a quell’improbabile miscuglio
di architettura viennese e paesaggi
mediterranei.
Primo episodio delle avventure
di Laurenti è A ciascuno la sua mor-
12
te (Edizioni E/O 2005, 207 pagine,
9,50 euro), storia di squali e criminalità internazionale, con tanto
d’infiltrazioni mafiose, di quelle a
cui qualsiasi triestino mettendo la
mano sul fuoco si dichiarerebbe
immune. Attraverso il polar, dunque, Heinichen smuove l’immagine
di una città congelata nel proprio
riflesso. Scava dietro quel riverbero dando linfa vitale a un simbolo
assopito.
Ora, raccontano le cronache che
Heinichen sia perseguitato da qualche maniaco che invia lettere alla
borghesia locale denunciando una
presunta pedofilia. Indipendentemente da chi sia l’autore e quali le
sue vere intenzioni, l’atto della denuncia resta segno di chiusura, di
una volontà di mantenere lo stato
delle cose (polizieschi? In città? E’
dall’Assassinio di via Belpoggio di
Svevo che non se ne vedeva!). La
città reale continua a non assumere
una città letteraria che l’ha superata
da tempo. Il fantomatico squalo, ricorrente in A ciascuno la sua morte,
d’altra parte, sembra avvisare che a
Trieste, ci sono più squali sulla terra
ferma che in mare.
Per una città che ha fatto del
mare uno specchio, è allora quanto mai attuale Foucault, che in un
saggio sulle eterotopie (Spazi altri.
I luoghi delle eterotopie, Mimesis
2001, 104 pagine, 8,30 euro) ricordava che “nelle città senza navi, i
sogni s’inaridiscono, lo spionaggio
sostituisce l’avventura e la polizia i
corsari”.
Oh, Scena!
Ubu Re
di SIMONE ROSSI
T
itolo di questo spettacolo:
Ubu Re. Sottotitolo: Dramma
in cinque Atti in prosa. Restituito
nella sua integrità quale è stato rappresentato dalle marionette del Teatro delle Phynanze nel 1888. Esergo1: “Ordunque il Padre Ubu scosse
la pera, onde fu poi chiamato dagli
inglesi Shakespeare, e di lui, sotto
questo nome, avete assai belle tragedie per iscritto”. Senza firma. Segue,
a tutta pagina, il Ritratto Autentico
del Signor Ubu, disegnato da Alfred
Jarry.
Prima battuta di questo spettacolo:
PADRE UBU Merdra!
(Con due erre, sì.)
Ultime battute di questo spettacolo:
PADRE UBU Mare fiero e inospitale che bagna il paese chiamato
Germania, così denominato perché
gli abitanti di questo paese sono
tutti cugini germani.
MADRE UBU Questa sì che la
chiamerei erudizione. Dicono che
sia un paese molto bello.
PADRE UBU Ah, signori! Per bello
che sia non vale la Polonia. Se non ci
fosse la Polonia, non ci sarebbero i
Polacchi.
Fine.
Capirete che quello che succede
nel mezzo è assolutamente irrilevante. Capirete che l’Insegnamento
Fondamentale della Patafisica è…
scusate, non vi avevo ancora salutato.
Bentornati a Oh, Scena!, una rubrica che tratta i testi teatrali come
se fossero libri, e non viceversa.
Che cosa ci insegna Padre Ubu? E
che ne so, chiedetelo al Collegio di
Patafisica. Che cosa ci insegnano
questo esergo, questa prima battuta e questo finale? Ecco, parliamo
di questo.
Ubu è Shakespeare. Affermazione platealmente falsa, spacciata
come citazione da un libro (inesistente) in cui si parla di un personaggio che (ancora) non esiste.
Ce n’è abbastanza per chiudere il
libro. Poi il libro inizia sul serio, e
Ubu nasce. La sua prima parola è
una parola inventata: tutti capiamo
che si parla di cacca, ma in quella R
aggiunta c’è qualcosa di perturbante. Ubu dice Merdra. Dice “merdra”
e lo fa dire anche a te, lettore, che
leggi, e pure a te, attore, che reciti,
e pure a te, eccetera. Nessuno dice
mai la parola “merdra”, come nessuno dice mai le parole “telrefono
cellurlare”. Cosa succede quando
tutti quanti diciamo una parola che
non esiste? Succede che gettiamo i
boccioli di una lingua nuova. Una
lingrua. E possiamo dire qruello che ci pare. Usiamo la lingua di
Ubu: chiameremo “ventraglia” la
nostra pancia, tanto per incominciare. Poi useremo la più terribile
delle minacce: “Vattene, cialtrone, o t’intasco con decollazione e
13
torsione delle gambe” (atto terzo,
scena settima). T’intasco. La tasca
di Padre Ubu è l’Abisso: nero, insondabile, portatile. Terrificante
non è la decapitazione o la frattura
delle gambe (se è per questo, Padre
Ubu dispone anche di una Pompa
da Merdra con cui, ehm, svuota gli
avversari). Terrificante è la tasca, la
tasca di Padre Ubu in cui prima o
poi finiremo tutti, ma nessuno ci è
mai finito veramente. Un po’ come
Fonzie di Happy Days: nessuno l’ha
mai visto fare a botte, ma nessuno
fa a botte con lui perché sa che perderebbe. Ecco, Padre Ubu è Fonzie.
No, Padre Ubu è Shakespeare. Con
la testa a forma di pera. Merdra.
Se non ci fosse la Polonia, non ci
sarebbero i Polacchi. Ma che finale
è? Esatto, che finale è. L’unica verità dello spettacolo è una verità talmente ridicola da farci concludere
che la verità è veramente ridicola. E
ora, tutti in tasca.
“Tutto questo è molto bello, ma
nessuno mi ascolta” (atto quarto,
scena quarta).
1
La citazione che di solito si trova
all’inizio di un libro si chiama “esergo”.
Sapevàtelo!
L'angolo del
cinematografo
"Lasciami entrare" di
Tomas Alfredson
di JACOPO SGROI
P
rima di essere spettatore del
film ho deciso di essere spettatore delle scene eliminate di “Lasciami entrare”, cioè di quelle scene
che, per un motivo o per un altro (e
qui non mi interessa saperlo), non
sono state inserite nel montaggio
finale. Un esercizio di pura curiosità per capire qualcosa del film
andando a cercare tra le immagini
bandite.
bra che al “biondissimo” le cose
stiano andando meglio. C’è qualcosa però che non mi convince e a
suggerirmelo sono alcuni dettagli:
1) i bambini stanno giocando di
notte; 2) nessun rumore riempie il
cortile deserto, c’è solo neve e silenzio; 3) la ragazza ha un aspetto
misterioso, è più pallida di lui, ha
i capelli bagnati, gli occhi enormi
color ghiaccio e i piedi scalzi sulla
neve.
Scena Bandita n. 1
Scena Bandita n. 3
Interno Giorno. E’ tutto maledettamente bianco e spoglio… sembra
il bagno di una scuola. Un ragazzo
sui dodici anni sfonda con un calcio
violento una delle porte dei servizi.
Chi starà cercando di stanare? Non
faccio in tempo a chiedermelo che
la risposta mi arriva dal fiero bulletto: “Abbiamo trovato il maiale!”. Ad
essere trascinato fuori dallo stanzino non è un animale, ma un esile
ragazzino, biondissimo, pallido,
impaurito e costretto a grugnire.
Che disagio. Andiamo avanti.
Scena Bandita n. 2
Esterno Notte. Il “biondissimo,
pallido e impaurito” di cui sopra è
sereno: seduto sopra un cumulo di
neve intona una filastrocca, al suo
fianco c’è una ragazzina. I due sono
amici e giocano insieme. Ok, sem-
Interno Giorno. Una signora di
mezza età parla da sola, cerca di
rassicurarsi, dice: “Ora andrà tutto bene”. Deduco che deve esserci
qualcosa che è andato storto. Boh.
Vediamo. Piccola pausa. Noto che
la signora non ha una bella cera. I
suo lenti ed impauriti movimenti si
risolvono in uno scatto improvviso
verso il lavandino della cucina: rimette un liquido rosso sangue. Beh,
in effetti aveva ragione ad essere
tanto preoccupata.
Scena Bandita n. 4
Interno Alba/Crepuscolo. Ecco
ancora il “biondissimo” che tiene
bloccata a terra la “più pallida di
lui, dai capelli bagnati, con gli occhi enormi color ghiaccio e i piedi
scalzi”. Stanno giocando? Lui mi
14
sembra piuttosto nervoso; la prende a schiaffi! Le chiede subito perdono e mettendosi al suo fianco,
le sfiora la mano e le sorride… Sto
per assistere allo scambio di un tenero bacio? No. Lui ringhia e lei le
risponde allo stesso modo. Sono felici. Sconcerto [il mio, ovviamente,
dato che loro sembrano innamorati
l’uno dell’altra].
Bene, arrivato a questo punto
non sta a me trarre delle conclusioni, ma posso ammettere che la deriva disturbata e misteriosa verso
cui ogni “scena bandita” tendeva
mi ha catturato. Decido di guardare il film; 110 minuti; titoli di coda.
Fine. Non vi racconterò la trama,
ma posso anticiparvi che “Lasciami entrare” è un film ben costruito,
con un’ottima sceneggiatura, scelte
stilistiche e di regia mai lasciate al
caso, un cast terribilmente perfetto,
un silenzio necessario e una rara
abilità nell’attraversare i generi horror, thriller e di cinema arthouse.
Cari lettori/spettatori, sperando
di avervi incuriosito con le “scene
bandite” del film vi lascio alle parole recitate nel trailer (selezione e
sintesi delle “scene elette”): “In ogni
pausa si nasconde un desiderio. Lascia entrare l’amore, o… l’orrore. Ma
lascia che accada adesso”
Buona visione!
LASCIAMI ENTRARE (Let the
right one in) di Tomas Alfredson
con Kare Hedebrant, Lina Leandersson - Svezia, 2008 (Dvd edito da
Perseo Video, 2009) dall’omonimo
romanzo di John Ajvide Linqvist
(Marsilio, 2006)
Vincitore del TRIBECA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL
26° Torino Film Festival - Selezione Ufficiale
Recensione/1
After Dark
Sara Reali
S
uccede che ti ritrovi a passeggiare per mercatini in un sabato mattina affollato, trovi distese
di libri usati a un euro e spulciando
tra i titoli noti Sotto il segno della
pecora di Murakami Haruki e ti
senti fortunata: forse perchè avevi sentito dire che in Italia è fuori
catalogo o semplicemente è ardua
impresa trovarlo.
Allora mi viene in mente quanto
sia stata bella la mia prima volta con
Murakami: After Dark mi è stato regalato poco tempo fa e la dedica che
l'amica aveva scritto appositamente
per me non poteva essere più azzeccata nel dire “... ti fa sentire come
un gigantesco puntaspilli... riesce a
pungere ogni singola emozione...”.
Aveva ragione e l'ho scoperto subito
dopo essermi addentrata nei primi
capitoli.
La scrittura di questo autore cult
giapponese è lineare e cristallina,
meticolosa nelle descrizioni che
presentano le vite dei personaggi
come quasi fossero anestetizzate
in un universo bianco, minimal
e senza tempo. Avete visto Lost
in Translation? L'atmosfera che si
respira leggendo e che mi sono figurata nella mente è proprio così:
leggera, naïve, quasi passiva in
contrasto con la frenesia metropolitana. La telecamera dell'autore
è puntata su stanze solitarie, case
d'appuntamenti e bar aperti 24 ore
su 24 nell'intento di registrare ogni
singolo movimento degli attori che
inconsapevolmente iniziano ad
15
incastrarsi l'uno nelle vicissitudini
dell'altro.
After Dark parla di come ci si
possa chiudere dentro se stessi tanto velocemente da non rendersene
conto, ma anche in che modo una
notte possa inaspettatamente portare chiarezza: l'oscurità del proprio profondo è in netto contrasto
con le insegne luminose al neon dei
quartieri di Tokyo che non dormono
mai, dove la protagonista Mari vive
di notte per fuggire la luce dei problemi che la abbagliano quotidianamente. Prima che nuovamente
ritorni la notte, ci troviamo davanti
ad un romanzo che lascia tutto in
sospeso e forse questa è la sua debolezza: non perchè sia un amante
dell'happy-ending o perchè non riesca a vedere al di là di un finale incompiuto, ma avrei immaginato un
altro tipo di commiato. Incompiuta
bellezza, ecco come potrei riassumere in due parole quello che mi
ha fatto pensare l'ultima facciata di
questo mio primo Murakami e potete starne certi, non sarà l'ultimo,
perchè mi sento come un gigantesco puntaspilli.
After Dark di Haruki Murakami
Einaudi, 2008, 178 p.
Recensione/2
Né di Eva né di Adamo
Simone Rossi
L
e magnifiche stanze tradizionali profumavano di tatami
fresco, e ciascuna aveva la sua immensa vasca da bagno zen, riempita
ininterrottamente da un bambù che
vi versava acqua bollente. Per evitare che debordasse, nella pietra cruda del bagno era stato praticato un
orifizio, sopra il quale campeggiava
l’ideogramma della balla di fieno
incendiata, simbolo del nulla.
– Metafisico! – esclamai.
Il guaio di leggere un libro di
Amélie Nothomb ambientato in
Giappone senza conoscere né
Amélie Nothomb né il Giappone
non è di per sé un guaio. Lo diventa
se uno pensa a tutti i nerd di Amélie
Nothomb che ci sono là fuori, e a
tutti i nerd della Millenaria Cultura Giapponese, banzai, e a tutti i
nerd delle due cose messe insieme,
cosa ne vuoi sapere tu di Amélie
Nothomb e della Millenaria Cultura Giapponese. Ecco, io non ci ho
pensato. Per questo – ok, anche per
questo – il libro è stato una lettura,
come dire, posso dirlo? Lo dico:
emozionante.
Trama del romanzo in cinque
secondi, pronti via: Amélie va in
Giappone, conosce Rinri, si innamorano, lui ha una limousine bianca e le chiede di sposarla, lei scappa
e torna dopo cinque anni (nel frattempo è diventata una scrittrice famosa. Lui nel frattempo è diventato
un ciccione), si abbracciano. Fine.
Ma da quando in qua ci frega qualcosa della trama? C’è più trama in
un episodio di una serie tv che in
tutta la letteratura del Novecento
(ba-boom!). Infatti, le cose belle di
questo libro sono altre. Per lo meno
quindici. Ne dirò sette.
1. Il verbo asobu. Asobu vuol dire
giocare, nel senso di non-lavorare, come l’otium latino, ma
non proprio, come il cazzeggio,
ma non proprio, ah, l’intraducibilità dei concetti della Millenaria Cultura Giapponese. A
Rinri piace giocare, giocare nel
senso di asobu, e Amélie s’innamora di questa cosa. Oddio,
innamora non è il verbo giusto.
2. Il verbo koi. No, non è un verbo. E’ un concetto. Significa:
diletto. Amélie non ama Rinri, perché l’amore ha una faccia torbida, e con il ragazzo
dalla limousine bianca tutto
è molto pulito. Prova per lui
il koi, puro piacere-di-condividere-il-tempo. Il koi è una
parodia dell’amore, ne imita
i gesti per gioco (asobu). Il koi
è una figata. La fregatura è che
Rinri, invece, è innamorato.
Innamorato normale. Ah, e
poi koi vuol dire carpa, il pesce, e Amélie odia le carpe.
3. La cultura di Amélie. La tipa
ascolta Bach, Liszt e Brassens,
cita Schopenhauer e Hiroshima Mon Amour, penetra nei
concetti scardinando le loro
etimologie. Non registra un
gran punteggio sul Verbosometro (cit.), ma si dà il suo bel
16
da fare. Il tutto, con leggerezza. Velocità. Ironia. Non te la fa
pesare. Verrebbe voglia di invitarla fuori a cena, se non fosse
una quarantenne disadattata.
4. L’elogio del movimento: “O
meraviglia della corsa! Lo spazio ci libera da tutto. Non c’è
tormento che resista all’espansione di sé nell’universo. Il
mondo sarebbe così grande per
niente? La lingua dice una cosa
giusta: darsela a gambe vuol
dire salvarsi. Se stai morendo, scappa. Se stai soffrendo,
datti una mossa. Non esiste
altra legge che il movimento”.
5. Almeno due scene incredibili: lei che piscia nuda in
una tempesta di vento / lei
che mangia un polipo vivo, e
il polipo le afferra la lingua.
6. Amélie è ossessionata dalla
scrittura. Questo la salverà nell’ora dell’Apocalisse.
7. A Natale in Giappone maturano i cachi. Nevica, ed è un
vero koi vedere il bianco sopra
l’arancione. I cachi con la neve.
Quanto devono essere buoni?
Il frutto dell’albero, i due innamorati, la rovina: la volta del serpente e della mela fu colpa della
femmina, Eva. Invece qua (cioè là,
in Giappone nel 1990), è il maschio
che porta il dono alla donna, perché
vuole farla sua. Ah, già: il libro s’intitola Né di Eva né di Adamo. Dura
150 pagine e si legge in due ore,
di mattina, sulla panchina di un
parco di Bologna, circondati dalle
signore che scendono i cani e li pisciano, alzando gli occhi ogni tanto
per sorridere ai bambini nelle carrozzine, oh, che carini. Almeno, a
me è successo così. E non vi servirà
essere dei nerd di Simone Rossi per
capirlo.
Né di Eva né di Adamo di Amélie
Nothomb, Voland, 2008, 160 p.
O
scar Pistorius parla di sé e
del suo deficit fisico in maniera semplice, diretta e delicata.
Occorre più autocritica per le volte
nelle quali ci si chiude nella dicotomia diversità vs. normalità senza
cogliere la peculiarità delle situazioni. Riempirsi la bocca di buonismo e pietismo crea handicap
maggiori del deficit stesso. La storia
del corridore senza gambe é splendida e commuovente. Fa riflettere
ed emoziona nonostante l’essere un
semplice libro-intervista senza alcuna pretesa letteraria. Oscar
Pistorius non é straordinario,
fà quello che fanno tante persone fuori dai riflettori. Non é
normale, né diverso. È semplicemente sé stesso.
In uno dei romanzi più sinceri, duri e disincantati che
abbia letto, José Saramago
immagina la nostra società
cadere nel buio di una cecità
abbagliante. Non é il deficit a
spaventare. Non fa paura la diversità. Ad atterrire é la paura
e la meschinità del vivere quotidiano, la perdita dell’umanità di una società in grado di
accettare uno scivolamento,
dal quale neppure il lettore può
esimersi, nella normalizzazione di
un orrore vissuto dall’interno come
inevitabile. Non spaventa diventare
ciechi, spaventa l’essere uomini in
mezzo ad altri uomini.
In una notte senza pause in cui
tutte le vacche sono nere, mi sorprendo girare in tondo come un
derviscio inseguendo una originalità che di fatto accetto solo se
massificata. La diversità spaventa
allo stesso modo in cui spaventa
l’essere unici, lo stare in piedi sulle proprie gambe. Guardo ad Oscar
Pistorius con lo stupore di chi vede
per la prima volta le proprie gambe
solo quando sorpassato di corsa da
una persona priva delle stesse. Dicono che fare da specchio faciliti in
sé stessi la consapevolezza e nell’altro la riflessione. Lo stesso mecca-
nismo psicologico interessa il libro,
l’atto creativo dello scrivere e quello
parimenti creativo del leggere.
Normale e diverso, reale e fantastico, dovuto e voluto. Christopher
John Francis Boone, nel romanzo di
Mark Haddon, é un ragazzino autistico che sfida le proprie difficoltà e
parte alla ricerca dell’assassino del
cane del vicino. Dopo aver empatizzato con lui nel dipanarsi della
vicenda, orgogliosi lo vediamo infine congedare la propria figura con
Viaggi
Normale vs.
diverso
di ALESSANDRO POLLINI
la capacità di sognare un po’ più in
alto. Jean-Baptiste Grenouille vive
tra le pagine create da Patrick Süskind con la vocazione a comprendere gli odori ed a penetrarne la
matematica con la quale giungere
al cuore degli uomini. È un escluso, un emarginato. Vive fuori dalla
società una vita intera, utilizzando
l’olfatto come senso principale per
muoversi nel mondo. Grazie a questo dono si salva dalla morte per
scegliere di essere divorato in un
atto di amore. Baratta invece la vita
con la percezione del reale il ragazzo che, sopravvissuto ad un naufragio nell’Oceano Pacifico, divide lo
spazio della scialuppa di salvataggio con una tigre, dopo che questa
si è cibata della zebra, dell’orango
e della iena. Restano lui e la bestia,
entrambi affamati, isolati dal resto
del mondo. Solo alla fine dell’alle-
17
goria narrata da Yann Martel viene
rivelata la chiave di lettura dell’intera vicenda, quando il sopravvissuto Pi Patel apostrofa il lettore
attraverso la figura del funzionario
del Dipartimento Marittimo del Ministero dei Trasporti Giapponese,
affermando di aver capito che ciò
di cui si é in cerca é solo una storia
che non sorprenda, che confermi
quello che già sappiamo, che non
faccia vedere le cose in un modo più
profondo o semplicemente diverso.
Piatta, immobile, sterile, insipida
realtà. Nel Giardino dei
Ciliegi, Liuba suggerisce
a Lopachin che nella vita
grigia che facciamo e tra
le cose inutili che diciamo, bisognerebbe lasciar
perdere le commedie e
guardare più dentro a noi
stessi.
Credo si debba stare
attenti a leggere il mondo
con la lente della contrapposizione attribuendo le etichette di normale
e diverso. Scrive Alessandro Bergonzoni che «Pavido la mattina alzava le
braccia ma alzava anche
le gambe per non farle sentire arti
inferiori».
Mi sono venuti in mente in questo articolo: Oscar Pistorius - Dream Runner (Rizzoli, 237 pp. 16,50
euro); José Saramago - Cecità (Einaudi, 315 pp. 16,53 euro); Mark
Haddon - Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Einaudi, 247 pp.
16 euro); Patrick Süskind - Il Profumo (Longanesi, 259 pp. 17,60 euro);
Yann Martel - Vita di Pi (Piemme,
379 pp. 15,90 euro); Anton Čechov
- Il Giardino dei Ciliegi (Rizzoli, 135
pp. 5 euro); Alessandro Bergonzoni
- Le balene restino sedute (Garzanti,
150 pp. 18,60 euro).
Nobel minori
"La Perla" di J.Steinbeck
di VIVIANA LISANTI
I
l concetto di “morale dell’ostrica” si riferisce a quella visione
fatalista della vita che fa da sfondo
ai più famosi romanzi di Verga, in
particolare quelli del cosiddetto
“ciclo dei vinti”, come I Malavoglia
e Mastro Don Gesualdo.
La “morale dell’ostrica” suggerisce
che finché l’ostrica sta ben ancorata al suo scoglio nulla di male può
accadere; nel momento in cui se ne
stacca è destinata a naufragare, inghiottita dalle onde del mare.
Verga, in totale contraddizione con
la filosofia del suo tempo, il positivismo, sosteneva che il progresso
fosse una macchina spietata, pronta a stritolare nei suoi meccanismi
i membri più deboli della società. I
poveri, gli emarginati, non avevano
alcuna possibilità di cambiare in
positivo il corso del proprio destino.
Avrebbero fatto meglio ad adattarsi
alla propria condizione, aspirare a
qualcosa di più, oltre che risultare
vano, significava perdere quel poco
che già si possedeva. Nel caso del
romanzo breve di Steinbeck, edito
nel 1947, si può parlare di una “morale della perla”.
Il pescatore messicano Kino trova
infatti una perla di rara bellezza e
viene insidiato dal pensiero di poter
diventare ricco. Riflessi nella lucente superficie della perla, osserva sfilare i sogni di una vita: vestiti nuovi,
un fucile, una casa, un’istruzione
per il figlioletto. La perla, simbolo
di una possibile felicità legata al benessere materiale, di un tentativo
disperato di emancipazione dalla
propria condizione sociale, si rivelerà però una completa illusione.
Non solo Kino non diventerà ricco,
ma sarà travolto da una maledizione che la perla sembra portare con
sé. Perderà se stesso, i suoi sogni,
la sua casa, il suo unico e amato figlio.
“Chi si accontenta gode” sembra essere la morale suggerita da questa
favola nera, nella quale il personaggio di Kino potrebbe facilmente risultare condannabile, emblema di
un’umanità avida e insoddisfatta,
accecata dalla propria ambizione,
per la quale è disposta a sacrificare
i propri valori e affetti. Una breve
riflessione, però, ribalta il punto di
vista sulla vicenda e getta una luce
di tenera comprensione su Kino,
riportandoci allo Steinbeck che conosciamo, troppo profondo per poter concepire che la felicità dell’uomo risieda in un atteggiamento
da bestia rassegnata: “Poiché sta
scritto che gli uomini non sono mai
sazi, che se date loro qualcosa essi
vogliono qualcosa di più. E questo
lo si dice per disprezzo, mentre è
una delle più belle doti della specie,
quella che ha reso superiore l’uomo
agli animali, che si accontentano di
quello che hanno.”
La Perla di J. Steinbeck, Bompiani,
109 pp., 5.94 euro
A sinistra: Alfred Nobel con orecchie da somaro
18
Scheda Libro
Storia delle rivolte
Perché è utile leggere Q al liceo
di ANDREA RINALDI
«H
istoria magistra vitae»,
ci ripetono, tutti, incessantemente. Ecco perché si studia
la storia a scuola, per imparare da
quello che è accaduto molto prima
di noi. La materia non deve suscitare molte simpatie perché gli errori
del passato continuano a ripetersi e
così la storia, da linea, diventa “uroboro”, un serpente che si mangia la
coda, un eterno ritorno.
Se frequentate il terzo o quarto
anno di scuola superiore vi troverete ad affrontare periodi storici
molto complessi, dove guerre, incoronazioni, pontificati e regni sprizzano come schegge dal cozzare tra
il principale attore dell’epoca, la
Chiesa, e altri comprimari. Diciassette anni sono un buon traguardo
per capire come la storia sia anche
politica, ma soprattutto trama di
palazzo («La guerra non è che la
continuazione della politica con
altri mezzi», diceva Karl Von Klausewitz). Ecco perché questa volta vi
consiglio un libro di storia: si chiama Q (Einaudi, 643 pp. 16 euro) ed
è stato scritto nel 1999 da un collettivo bolognese di scrittori, quattro
per la precisione, trincerati dietro
lo pseudonimo di Luther Blissett
(nome che celava anche un’intero
movimento di controcultura sul finire del ventesimo secolo).
La forza del romanzo sta nel suo
focus contemporaneo: la storia di
un ribelle senza nome, che passa da
una rivolta all’altra in piena Con-
troriforma, è in realtà la storia di
come nascono i movimenti rivoluzionari e di come muoiono, repressi
nel sangue, soffocati sul nascere,
avvelenati da sobillatori, pugnalati
alle spalle da spie. Cambiamenti
e trasformazioni li vediamo con
gli occhi del protagonista nella disputa tra Melantone e Lutero, nella
diffusione della dottrina di Giovanni Calvino, nel sangue che sgorga
durante la battaglia dei contadini
di Frankenhausen e dove trovò la
morte il capo dei rivoltosi Thomas
Muntzer. Q è thriller e romanzo
storico, racconta l’archetipo della
rivoluzione, la delinea partendo
dall’idea principe e poi giù “giù per
li rami”, scontri, schemi, viagggi,
sostenitori, detrattori, imprevisti,
traditori. Che qui, come in tantissime altre ribellioni, non mancano,
anzi sono – ahimè – l’ingranaggio
che causa gli spostamenti del nostro eroe in giro per l’Europa, rapido a stringere nuove e insperate
alleanze, pur di sovvertire i diversi
poteri che tiranneggiavano l’Europa del 1500. Luther Blissett con
questo romanzo ci dice che la rivoluzione non si attua solo accanto a
Jan di Leida sguainando una daga
o dopo interminabili discussioni
seduti al tavolaccio di una birreria
in Sassonia: la rivoluzione ha mille
teste – meglio, è mille idee – e nasce
anche da un contrabbando di libri
nelle paludose pinete di Cervia o
con la riproduzione esatta di un sigillo in grado di truffare i più potenti banchieri d’Europa, i Fugger.
19
Oggi, nel 2009, a dieci anni di
distanza dall’uscita di Q e con i nostri occhi, abbiamo visto musica
che può arrivare gratis sul nostro
computer (impensabile!), ma anche sull’orlo di quale voragine ci
abbia condotto lo strapotere delle
banche (il famoso e pericoloso «Il
denaro genera denaro») e quanta preoccupazione stia montando
sulla testa di chi – scrittori, copywriter, best-seller, editori - teme
la libera circolazione di un libro,
accapigliandosi per pdf di romanzi
interamente scaricabili da internet.
Si continuano ancora a combattere
guerre insanguinate, accuratamente pianificate in palazzi ben protetti
(che cosa è il G8, se non una teatralizzazione dell’assedio della folla al
castello del principe?), leader e capipopolo vengono ora innalzati, ora
trascinati nel fango dopo la disfatta
proprio come accadde a Thomas
Muntzer e al suo sogno di libertà.
E la storia va avanti, ma nella bocca
del serpente.
Questo è il nuovo “classico” che
vi consiglio per la vostra lettura a
scuola. Quando lo avete finito voglio la scheda libro sulla mia cattedra.
S
e nel numero scorso abbiamo
parlato di Proust, in questo
presentiamo uno scrittore spesso
citato nella Recherche e da Proust
considerato un maestro: Jean Racine.
Siamo circa nel 1640 e Racine,
orfano, viene spedito dalla nonna
a studiare al collegio di Port-Royal,
austero covo del giansenismo e
della logica di Antoine Arnauld.
Volevano far di lui un prete ma
Jean si oppose ed anzi, dopo che i
suoi compagni definirono i drammaturghi “avvelenatori pubblici” li
mandò al diavolo e proseguì la sua
carriera nel teatro, tanto da essere
gere, ad impressionare ed appassionare il pubblico. Con Racine muore
la tragedia umana e sorge invece
l’uomo tragico. Un po’ l’uomo mezza-pippa, per capirci. Egli predilige
l’incertezza, le lacrime, la dolcezza di un essere umano irrimediabilmente peccatore e gravido di
malvagità. Atalia, accecata dal suo
odio incontrollato per la morte del
figlio, fa strage di tutta la stirpe reale. L’uomo di Racine, zuccone come
nessuno prima, non riesce a reagire alle proprie passioni, vi si butta
a forza per precipitare in maniera
volontaria verso l’abisso. Ma, come
in tutte le belle storie, NON PUO’
finire così.
«L’opera è satura di avvenimenti:
la tragedia politica di un popolo, il
destino di una stirpe. Le predizioni della schiavitù in Babilonia, del
Messia, della Nuova Gerusalemme...» suggerisce Mendri nell’introduzione. E perché questo proliferare
di eventi? In molti hanno collegato
il teatro di Racine alla sua rigorosa
formazione giansenista, ma raramente ne viene sottolineato il legame con la logica di Port-Royal. Tale
logica non è formalista: oggetto non
è infatti lo studio dei nomi, bensì il
modo di formarsi della conoscenza e delle idee. Scrive Artaud: «La
logica è l’arte di condurre bene la
propria ragione nella comprensio-
Déjà lu
Racine e la logica del teatro
di GRETA TRAVAGLIATI
oggi considerato il più illustre rappresentante del classicismo. Una
crisi esistenziale dopo una condotta
definita nella prefazione delle Edizioni Paoline “poco edificante” (la
prefazione non scende in dettagli,
ma noi sappiamo che Racine aveva burrascose storie d’amore con
le più famose attrici del periodo) lo
portò a riavvicinarsi alla religione
e ad abbandonare le sue passioni.
Comporrà in seguito altre opere di
stampo moralista di cui l’ultima è
Atalia, su cui ci concentriamo ora
(e da non confondere con Alitalia,
benché rappresentino entrambe un
grosso fallimento).
Fatalismo
Il giansenismo fu condannato
come eretico perché privava l’uomo del libero arbitrio: egli è mosso
solo dal peccato e sempre indotto a
fare del male. Solo per grazia divina
possiamo ambire alla salvezza. In
Racine è quindi una forza superiore all’uomo che domina gli eventi e
fa sì che ogni passione non domata
finisca per essere punita dall’unico
vincitore, il volere divino. Alla fine
dell’Atalia Gioas, salvato in fasce da
Josaba, viene riportato al suo trono
ed Atalia uccisa: il popolo di David
ha di nuovo il suo re. E Dio sia lodato.
Classicismo
Disdegnando l’ispirazione barocca del suo predecessore Corbeille, Racine adotta un impianto
classicista. Non sono più quindi il
vigore e le virtù dell’uomo ad emer-
Metodo
L’Atalia fu considerata un flop
tale da indurre Racine ad abbandonare definitivamente il teatro. Non
piaceva perché la vittoria del bene
sul male è percepita solo di striscio.
20
ne delle cose…è necessario in essa
considerare le idee come indiscernibili dalle parole, e le parole dalle idee». Racine non può spiegare
l’idea del volere e dell’amore divino
se non tramite il succedersi di intrighi e pasticci attraverso i quali
esso si realizza. Il dispiegarsi di un
ordine divino è identico alle conseguenze tremendamente terrene
che questo ordine genera, e su cui
Racine si concentra per mostrarci
come l’uomo è, e non come deve
essere, aspetto invece prediletto da
Corbeille. Sembra in sostanza che
Racine prediliga strilli e stramazzi
a ricercate pose da super-eroe, ed
in fondo anche noi. L’assoluta vittoria del bene dunque non consola,
non rasserena fino in fondo, lascia
un po’ l’amaro in bocca. Ma come
spiega Foucault in Storia della follia nell’età classica (Bur, 566pp 11
euro), è tutta una questione di luce:
gli uomini di Racine abitano «grandi facce di notte…quartieri d'ombra
che frequentano il giorno senza lasciarsi mai da esso annientare».
Banalità
T
utti noi da bambini abbiamo
chiesto almeno una volta
perchè il cielo è blu. O perchè il vetro è trasparente. Ricevendo sempre risposte approssimative (perchè lo spazio ha il colore della notte,
mi diceva la mia maestra...), poi da
grandi ci siamo talmente abituati
un bel rompicapo). Quando la luce
ci sbatte contro viene riflessa in una
direzione casuale, i secchioni dicono che la luce viene diffusa secondo
lo scattering di Rayleigh, e quindi in
seguito a tantissime riflessioni arriva a noi da una direzione del tutto casuale e non più direttamente
dalla direzione del sole. Pensiamo
un attimo a un banco di nebbia improvviso in una giornata di sole: la
luce ci arriva da tutte le parti perchè
è appunto deviata miliardi di volte
dal suo percorso originale e “imbeve” tutta la nube. Il trucco è che non
tutte le radiazioni interagiscono
allo stesso modo con questi piccoli
corpuscoli, ma con una probabilità
diffusione della luce, ma in questo
caso in maniera un po’ diversa. Il
vetro è una specie di liquido iperviscoso, disordinato (amorfo) mentre
il marmo è un materiale cristallino.
Ora, i cristalli del marmo fanno da
microscopici specchi per la luce. Ed
essendo tanti (miliardi di miliardi
in un piccolo pezzettino) e orientati in maniera casuale, la riflettono casualmente. Non vediamo più
immagini ma solo il colore perchè
ogni raggio ci arriva storto. Il vetro
invece i cristalli non li ha. È tutto
uguale a livello nanoscopico, tutto
un casino. La luce quindi non ha
nulla con cui interagire e prosegue
dritta per la sua strada (ci sarà un
Pillole di scienza
(per topi da biblioteca)
di FABIO PARIS
e non ci abbiamo pensato più. Che
peccato! Le abbiamo tutti i giorni
sotto gli occhi ma non sappiamo il
perché. Ecco che Finzioni vi corre in
aiuto!
In effetti non è affatto semplice capire perché il cielo sia blu. Di
solito una cosa è colorata perchè
assorbe un colore, e noi la vediamo
del colore complementare. La luce
bianca del sole infatti è la somma
dei vari colori, dal rosso al blu, passando per il giallo e per il verde. Ovvero: la radiazione bianca è la somma di radiazioni di diverso colore
(frequenza), dal rosso (frequenze
più basse) al blu (frequenze più
alte). Torniamo al cielo. L’atmosfera
è piena di corpuscoli nanoscopici
come polveri o goccioline d’acqua,
o più semplicemente punti in cui
casualmente l’aria è per un istante
più densa che attorno (fluttuazioni,
proporzionale alla quarta potenza della loro frequenza (spocchia).
Capiamo quindi che la componente blu della luce del sole, frequenze
più alte, viene diffusa molto di più
della luce rossa, frequenze più basse. Quindi l’atmosfera risulta “imbevuta” della luce blu, che ci arriva
da tutti gli angoli possibili. Ecco
perchè il cielo ci appare blu. La luce
rossa invece non viene quasi diffusa
dall’aria e procede dritta. Quando
poi i raggi del sole attraversano più
atmosfera (ovvero quando il sole è
basso, questione di geometrie) la
componente blu viene totalmente
diffusa e a noi ci arriva solo la rossa.
Un bel tramonto.
E perchè il vetro è trasparente
mentre il marmo è bianco? Nessuno dei due assorbe la luce! Entrambi dovrebbero essere uguali! Bhe,
ancora abbiamo a che fare con la
21
po’ di scattering di Rayleigh, ma in
bicchiere è talmente sottile per cui
il fenomeno non ha praticamente
importanza). Così il vetro è trasparente. Se lo righiamo diventa bianco però! Uh. Che confusione! Se il
vetro è amorfo perchè dovrebbe
diventare bianco? Semplice! Rigandolo creiamo una superfice scabra,
che riflette la luce di nuovo a caso
come un sacco di specchi disposti casualmente. Il vetro passa da
trasparente ad opaco, e la nostra
finestra smerigliata del bagno può
proteggerci dai guardoni.
Bhe, ora quando un bambino impertinente vi chiederà il perchè di
una di queste ovvietà potrete lederne l’autostima con una spiegazione
piena di “probabilità direttamente
proporzionale alla quarta potenza
della frequenza...”. Diventerà un
pittore.
Recensione/3
Sputerò sulle vostre tombe
Andrea Meregalli
U
n nero che vuole fare il
bianco. Due bianche che
si vogliono fare il nero che vuole
fare il bianco. Un nero che vuole
fare il bianco che vuole farsi tante
bianche, magari anche ucciderne
un paio, per vendicare un nero che
voleva fare il nero. Tosto vero? Tosto
sì. Tosto e censurato.
Nel 1946, in Francia, le case
editrici erano a caccia di romanzi
americani da pubblicare. Successo
garantito. Vendite alle stelle. Soldi.
Soldi. Soldi. Nel 1946, in Francia,
un tale Boris Vian propone alla casa
editrice Le Scorpion un romanzo a
tinte forti. Quando dice “tinte forti”
intende sesso e alcol. Intende razzismo e pedofilia. Intende macchine
veloci e musica rock. Intende prostituzione e omicidi. Intende, insomma, un fottuto bordello in piena regola. Piccolo particolare. Boris
Vian non è americano. Non è nemmeno anglosassone. È francese. Di
Ville d’Avray. Nord del paese.
Come fare quindi? Come aggirare la severa censura d’oltralpe?
Idea semplice. Pseudonimo. Pseudonimo studiato. Pseudonimo con
storia annessa. Pseudonimo tipo
Vernon Sullivan. Lo scrittore negro
purgato, causa razzismo, negli Stati
Untiti d’America.
Nasce così, Sputerò sulle vostre
tombe. Il romanzo di fretta. Pensato
in poche ore. Scritto in pochi giorni.
Diventato best-seller in poche settimane. Censurato in pochi mesi.
Dimenticato in pochi anni. Storia
a “tinte forti”, diceva Boris Vian.
Come non essere d’accordo?
Il protagonista è un finto bianco.
Un nero con la pelle chiara. Assolutamente uno schiavo del sesso.
Nonché un pericoloso killer vendicativo. Nonché un alcolizzato.
Nonché un simpatizzante pedofilo.
Nonché un sorridente bibliotecario.
Si scopa una donna. La sorella della donna. Svariate ragazzine. Una
bambina di colore costretta alla
prostituzione nel capitolo dieci. E il
capitolo dieci turba. Spaventa. Vorresti non ci fosse. Assomiglia tanto
a un calcio nelle palle. Un calcio di
punta. Punta di ferro. Protagonista
e amico del protagonista “contro”
due bambine prostitute. Una bianca e una nera.
Voi magari nel vostro bel lettino. Sotto le coperte. Appena finito
di parlare al telefono con l’amica o
il fidanzato o l’amante o la nonna.
E tutto ad un tratto siete in un bordello a leggere le gesta di due pedoputtanieri. La tentazione di scagliare lontano il piccolo libro potrebbe
essere tanta. Ma non fatelo. Andate
oltre.
Certo Boris Vian non risparmia
dettagli. E loro sono bambine. E
una piange. E si leggono le seguenti
parole: tanfo, grossa negra, undici
o dodici anni, gonna troppo corta,
culetto rotondo, cominciava ad ansimare, bere, mano in mezzo alle
gambe, ti faccio picchiare, troppo
grosso, lacrime, spogliati, piccolo
grido, entrai dentro, bruciava come
22
l’inferno.
Scena e parole che, credo,
resteranno vivide nella memoria del lettore. Forse più
dell’intero libro. Dove la ricerca del proibito, dell’atroce,
del meschino, della vendetta
a tutti i costi, immalinconisce
non poco. Ti viene da dire. Che
mondo di merda. E poi ci pensi, realizzi che è vero. Realizzi
che non avresti voluto realizzare. Realizzi che probabilmente
domani passerà.
Spegni la luce.
Buonanotte.
Sputerò sulle vostre tombe di Boris
Vian, Mondadori, 2006, 138 p.
Commento all'opera
di JACOPO CIRILLO
C
i sono due modi per raccontare le storie: la noiosa verità
e la mirabolante esagerazione dei
fatti. La morte di Boris Vian, legata al suo libro “Sputerò sulle vostre
tombe”, si può raccontare solo con
un’iperbole.
Vian, eclettico scrittore, ballerino, jazzista, critico musicale,
giornalista, inventore, satrapo patafisico, si era stancato della moda
degli autori americani in Francia
(siamo a metà del 1940); per scommessa con il suo editore, si impegnò
a scrivere un hard boiled di qualità,
meglio degli americani, in quindici
giorni.
in anteprima per l’autore. Questi, a
metà proiezione si alzò e disse: “Ma
che cazzo, e questi sarebbero americani?”.
Il libro fu un successo. Un regista
volle trarne un film e, continuamente punzecchiato dalle raccomandazioni di Vian sull’autenticità
degli attori, lo produsse e lo proiettò
Se volete sapere come sono andati davvero i fatti, leggete la postfazione del libro. Ma è molto meno
divertente.
E morì.
Charlie VS Proust
Scene di vita vissuta
di CARLO ZUFFA
È
curioso notare come passano
gli anni ma certe dinamiche
familiari non accennano a mutare.
E così ci introduci Combray e i suoi
frequentatori, nonni, zie e prozie. È
curioso come certi atteggiamenti
non vadano perduti: pettegolezzi,
riverenze e convenevoli vengono
mutuati dalle epoche che si susseguono senza lasciare che la polvere
del tempo si adagi su di essi. Quelle
che ci narri - Marcel - sono scene
di vita vissuta come se ne vedono
tutt'oggi.
Solo il bacio della buona notte
di una mamma rimane un gesto
estemporaneo. E tu spasimi per
quel momento! Lo descrivi come il
momento per cui vale aspettare tutta la giornata, il tuo piccolo Sabato
del villaggio quotidiano.
Eh già, come cambiano i Tempi! Se fossi nato qualche decennio
dopo difficilmente avresti sfogato
così le tue ansie adolescenziali. Già
ti vedo - Marcel - a piangere solo nel
buio della tua cameretta sotto il poster dei Nirvana, allegato al numero di maggio di Rolling Stone come
inserto centrale che tu hai estratto
con molta cura alzando le alette
delle graffette che lo tenevano unito alla rivista, sbuffando con la testa
sul cuscino "Nessuno mi capisce".
E con questo cosa voglio dire?
23
Assolutamente niente, le cose succedono e il Tempo passa e ciò che
leggo per un momento è quasi a
fianco a me mentre un attimo dopo
si trova a chilometri di distanza.
Sono così le vicende narrate nella
Recherche e nella stragrande maggioranza dei romanzi familiari, così
perchè stimolano ricordi.
E i ricordi sono la parte tenera
della memoria, la parte più pregiata
di essa, che nella prossima puntata
tu, Marcel, ci mostrerai come stimolare...
I ferri del mestiere
Quelle dei diritti
di AGNESE GUALDRINI
U
na volta, probabilmente in
uno di quei blog in cui chi
scrive tenta di condividere la propria passione/frustrazione con persone che come lui lavorano nello
stesso ambito, mi ricordo di avere
letto righe particolarmente divertenti. Il pezzo si intitolava Quelle
dei diritti, e illustrava in maniera
giocosa una serie di cliché su quelle
che in una casa editrice si occupano dei diritti esteri. Quasi sempre
donne, quasi sempre giovani e quasi sempre magre. Se mai vi capiterà
di andare alla Buchmesse di Francoforte vi troverete circondati da
giovani ragazze che corrono da un
padiglione all’altro con pile di cataloghi in una mano e un bicchiere
di caffè nell’altra. Corrono perché
gli appuntamenti sono fissati a distanza di mezz’ora l’uno dall’altro
– e mentre la collega portoghese
illustra i titoli della nuova collana
di filosofia offrendoti deliziosi stuzzichini dell’Algarve, il pensiero che
minacciosamente incombe nella
tua mente è che in quel preciso
momento dovresti già essere al tuo
prossimo appuntamento con l’editor praghese tre piani più in basso.
Quanto al caffè, beh, quello è un
tocco di stile – che varia a seconda
delle dimensioni del bicchiere, dettato a sua volta dalla nazionalità (in
questo senso quelle dei diritti italiane le riconosci subito dal piccolo, si
fa per dire, bicchiere di espresso;
quelle americane dalla disinvoltura con cui tengono tra le dita un
bibitone di caffeina super size).
Quelle dei diritti indossano certi
abiti un po’ retrò, dal sapore bohe-
mien, e calzano scarpe che provocano invidie vicendevoli. Vivono in
un mondo a sé in cui tutti si conoscono: hanno le e-mail dell’agente
di New York e dell’editore scozzese,
dello scrittore di Singapore e della
foreignrights di San Paolo del Brasile. Si scrivono ogni giorno per
tutto l’anno e così, quando si incontrano, sembra che si conoscano da
sempre: sorridono, si chiamano per
nome e si rivolgono l’un l’altra con
amichevoli “tu”: Hi Monique, Hi
Angela!
Quelle dei diritti hanno borse e
borsette colme di cataloghi perché
stare con il naso in mezzo a quelle
pagine è il loro mestiere. Li sfogliano, li osservano…si incuriosiscono,
scelgono quali leggere e suggeriscono ai capi quali sarebbe opportuno
acquistare. Del resto il loro lavoro
è captare, intercettare discorsi sui
libri…e se sono sufficientemente
accattivanti fare di tutto per acquisirli.
A settembre mi hanno fatto un
contratto per occuparmi dei diritti esteri nella casa editrice per
cui lavoro. Molte volte la giornata
si risolve a spedire libri agli editori stranieri sperando che facciano
un’offerta per tradurlo. In altri casi
si esaurisce spacchettando i libri
che gli editori stranieri mandano a
te sperando che sia la tua casa editrice a fare un’offerta per acquisirli.
Alcuni giorni stai ore a scrivere email per cercare di alzare le royalties o gli anticipi (se i libri sono tuoi
– ovviamente, in caso contrario,
per cercare di abbassarli). Spesso
24
ti rendi conto di come tutti, su tutto il pianeta, pubblichino ormai le
stesse cose…e di quanto l’arguzia
di questo lavoro stia nella difficoltà di scegliere tra milioni di variazioni sul medesimo tema il taglio
più originale. Questa sostanziale
uniformità ti permette tuttavia di
stupirti di fronte a quei pochi titoli
realmente curiosi e originali, salvo
poi rimanere delusa perché l’asta
per ottenerlo nove volte su dieci la
perdi, perché la tua casa editrice
non è quasi mai di manica kimono
e i grandi gruppi editoriali vincono
sempre (o quasi). Alcune volte ti
chiedi come mai quel libro su cui
tutti in casa editrice hanno puntato
in realtà non se lo fili proprio nessuno. Altre volte scopri con sorpresa
che su quel titolo che pensavi sepolto si sono invece posati inattesi
interessi stranieri.
Alla fine mi piace essere una di
quelle dei diritti. Mi piacciono i vestiti un po’ retrò e l’odore dei cataloghi. Mi piace, appena entro in ufficio, ricevere e-mail da New York e
scartare i pacchi di libri appena arrivati. Oggi ne ho aperto uno mandato da Hachette, una casa editrice
di Parigi. Conteneva un divertente
libro per bambini pieno di illustrazioni deliziose. Ovviamente un errore che dovrò rispedire al mittente. Ma nel frattempo, leggendolo,
ho passato qualche minuto davvero
spassoso.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
S
e parliamo di senso di colpa e frustrazione, colore e
ripensamento, inevitabile corre il
pensiero a Non ascoltare il rumore rosa, storia di una telefonata di
un'ora, libretto ipoinchiostrico,
confessione sussurrata e col naso
chiuso di quella che è stata una delle più celebri telefonate-summa di
meucciana memoria. Un dialogo
secco, impostato su domande e silenzi continui, insistiti e invadenti, tra il pittore Ogiunna-Lehr e la
sua assistente Roaks. Quest'ultima
registrò nel 1978 (su indicazione di
un Ogiunna-Lehr particolarmente
patetico) una conversazione telefonica a bassa fedeltà e la ripropone oggi per iscritto, editata da
Acquitrini, con poche note chiarificatrici. Ora le chiedo, perché tanto rumore, e perché rosa.
Stefano, Enna
D
ai Stefano, su. *Hey bimba, non ascoltare il rumore
rosa* sono le ultime parole pronunziate da Ogiunna-Lehr prima del
*click* cornettale finale, quello con
cui congedandosi da Evangeline
Roaks si congedò pure dal mondo
tutto. Inamovibile la scelta miliare
di *parlare solo col pennello*, scelta
esplicitata a più riprese, mai rinnegata e insistentemente perseguita
(anche più volte al giorno, a dar
retta alle donne della sua vita). Ora
Evangeline Roaks prova a tirar su
dù soldi speculando sulle sordide
sortite di un vecchio mezzo stordito, ma in fondo che male c'è e chi
non l'ha fatto (o avrebbe voluto farlo) almeno una volta. Evangeline sa
ben farsi capire, meno intervistare
e scrivere: le domande che porge
al suo mentore sanno di posticcio
lontano un exametro, nonostante
riguardino temi fondamentali della vita di un uomo, come l'amore,
l'amicizia, la visione, la pretenziosità, il tempo, la cottura della carne
sul barbecue e le curve.
Solcando linee diagonali col
suo pensiero trasposto, OgiunnaLehr scava a fondo in sé stesso, riconoscendo i momenti che hanno
reso possibili svolte, innovazioni,
*trasposizioni* per l'appunto. Questi momenti sono, invero, pochi.
Le risposte che il calvo pittore dà
sono di quelle da grattarsi la testa, e visto che di dialogo è fatto il
libro, abbiate la cura di tenere il
vostro gratta-testa preferito a tiro.
Joyciano perché fluttuante in stato
di semi-incoscienza, proustiano
perché c'aveva fame e sveviano
perché aveva smesso di fumare da
poco, Ogiunna-Lehr libera parole
come pennellate secche, costruendo su una tela di seconda mano
un'autoanalisi da fumetto di Popeye. Mancano però gli spinaci ed
inutile è l'attesa di Poldo coi panini
-menchemeno compare Trinchetto
col fiaschetto di barbera-, OgiunnaLehr torna a dipingere e 'sto libro a
fare un rumore tedioso.
Tra l'altro, Le déjeuner sur l'herbe di Manet c'entra poco con *sta
strappona cò dù zinne de fora*. Non
ascoltare il rumore rosa è insomma
una farsa con una frase conclusiva
sparata a mò di scena-confusione,
tipo urlare BOMBA se sei ciccio e
25
ti tuffi in una piscina in posizione
raccolta, snocciolare HO SOFFERTO TANTO se sei al bancone del bar
con un'intellettuale scandinava,
sciorinare HO MOLTI AMICI INDUSTRIALI se arrivi col booster ad
una festa di minorenni rotariane,
exeterà exeterà.
Ogiunna-Lehr in un attimo di
presenza tra noi, non assorbito dal
suo genio maldestro, realizza di aver
detto solo puttanate per un'oretta
buona e non trova altro modo di
uscire dal pantano che provare un
*up and under* rugbystico, calciando la palla ovale e correndo come se
avesse rubato, spostando l'attenzione dalla luna al dito che la indica,
scancellando con una frase sconclusionata una lunga serie di zibibbate. Bella zio, ma a citare i kulaki
azeri che sfruttano inopinatamente
manovali sono bravi tutti. Tenete
bene a mente queste parole: troppo
spesso assistiamo ad un'escalation
di artrosi blu magenta.
•
A
hhh Bettoli il giuoco del pallone. Ahhh lo sguardo di chi
perde. Ahhh il cuore rimbalzante
di chi vince. Ahhh gli scontrincontri tra rivali. Ahhh le bandiere.
Ahhh chi ritorna sempre. Ahhh
gli sfottò. Ahhh le tifoserie fedeli.
Ahhh chi non ce la fa. Ahhh chi sta
da solo. Ahhh chi c'ha i piedi girati
al contrario. Ahhh la rustichella
in autogrill. Ahhh i mercenari.
Ahhh chi viene dimenticato. Ahhh
la gradinata. Ahhh chi sta male.
Ahhh chi ne parla. Ahhh il caffé
borghetty. Ahhh chi è rovesciante.
Ahhh chi alza coppe. Ahhh chi alza
il livello. Ahhh il decoder. Ahhh
l'erba tagliata. Ahhh i bar del centro. Ahhh la sublimazione *pulita*
dello scontro bellico. Ahhh.
Dranco, Alassio
A
hhh calcio (di Palletti, già
in economica su edizioni
Lolli) affresca gocce di hinterland
milanese e di Hinter, squadra immaginaria forse ispirata al Milan. Il
riferimento, non immediatamente
coglibile, si straccia le (già poche)
vesti che indossa e apre la via *ad
una storia che è la mia... ma un po'
anche la tua*. A parlare è Rodan, tifoso slavo di origine ma con un cuore pieno di mille stelle intergalattiche, quelle che gli fanno sbraitare
in curva *corri dietro a un pallone,
ahhh, nel campo laggiù / vola con
l'aquilone, ahhh, nel cielo lassù*.
Sempre a chilometrare in autostrada, in solitaria, a bordo di una Ritmo Blu. Rodan vive lo sport come
avrebbe potuto farlo il re di Beozia
Atamante l'Eolio (che era stato lì lì
per sacrificare Frisso, il figlio avuto da Nefele) se solo fosse esistita
all'epoca altra squadra di pallasassi oltre alla Vellodoro -che vinceva
hands down- e la Beozia avesse
avuto un preparatore atletico all'altezza. Frisso era un bambino impegnativo, Nefele una donna esigente
-ma su questo torneremo quando
parleremo della pratica ancestrale
della pallasassi descritta dallo stesso Palletti in Pahhhllasassi.
Sport come manichéismo dentro-fuori, come buono-cattivo,
come linea-campo, come lucetralegambe-nonlucetralegambe, come
Billionaire-Hollywood, come torosimulatòro. Certo non basta un pollice voltato in giù à la Commodo per
sacrificare uno scarpone indigesto
-magari- ma tutt'una riflessione
lancinante di chi vive il calcio come
rivincita viene espressa da Rodan
quando rinunziando alla riduzione
fenomenologica di Husserl afferma
*se c'è qualcosa di peggio di bere
da solo, behhh, è bere cantando*.
Rabbia cieca a pugni chiusi viene
espressa osservando tifosi poco
metodici, attenti alla birra più che
al gesto tecnico, poco informati sulle statistiche, incapaci di commutare schema e donne attente -più che
al fuorigioco- ai muscoli femorali
dell'attaccante col frontino. Il calcio di Ahhh calcio è metodo, rigore,
corner.
•
C
aro Bettoli, fiorisce con la
primavera tutta una serie di
libri-inchiesta atti a farci sentire di
merda (e.g. Italiettari della Pavoni,
Le presento mio nipote di Brancoli,
Schadenfreude a go-go di Scelpi). Ci
sentiamo un po' male per il nostro
essere uomini, donne, ragazzini,
ragazzette, amanti, nerds, parenti dei VIPs, persone informate sui
fatti, mangiatori di fibre, autisti in
preda alla sobrietà, politici iracondi, tossicomani, stripper strippate,
evasori, evasi, DJ di radio, VJ di allmusic, PJ di Una bionda per papà,
metallari ben oltre la soglia critica
dei 20 anni, gatti etero, soggetti
etero-confusi, cristiani convertiti,
cristiani malgiogli, matti osceni in
luoghi pubblici, pintori di fontane,
condannati in terzo grado, sconfittari, ballerine di varie-età, party
animals, animali super pelosi, medici alla *viva il parroco*, paramedici, paracarri, io-non-ragiono-inquesti-termini, storti, marescialli,
spiriti liberi, futuristi, tonni in
scatola, figli della rivoluzione, figli
dei fiori, figli di puttana, padri, padri padroni, ragazzi padri, freaks,
minorati per scelta anti-sociale &
maggiorate nate per recitare. In
queste categorie, da lei formalizzate su Caspita un anno fa, ci cade
l'Italia intera.
Sentendo (TUTTI QUANTI) il
dovere di giustificarci per essere
ciò che siamo, cerchiamo redenzione perpetuando la nostra pre-
26
senza a presentazioni radical-chic
di libri-inchiesta: ci sguazziamo
vestiti in stile metro-sexual, pronti a fare domande volpesche, e poi
va a finire che in-chiediamo sette
Bellini o polibibite similari al camarero. Ultimamente va forte la
fatica di Ganessa, elefantiaco leader dei Consumatori Scelti, che col
suo Bere meno, bere tutti (edito da
Ghianda) ci rimbrotta, ci allarma e
ci atterrisce sul nostro essere consumatori alla benemeglio, poco
informati, ingenui. Ma è vera questa storia delle bottiglie d'acqua?
Alfonso, Livorno
S
i, è vera. Fonti (d'acqua) autorevoli, messe alle strette
dalla penna aguzza di un Ganessa
in bretelle, hanno ammesso che le
bottiglie di plastica vanno riempite
con moderazione, pena l'irrefrenabile librarsi nell'acqua rubinettéa di
pericolose particelle nane di PVC. Il
numero impresso sotto la bottiglia
indica il numero massimo di ririempiaggi consentito, espresso in
codice binario. Paura. Ora.
Che il riempire le bottiglie di
plastica fosse attività spiacevole
ce n'eravamo già accorti quando ci
schizzammo -nel novembre 1989- i
pantaloni di velluto a coste e la sorella del sosia del nostro cuginetto
di secondo grado (deriva: alle festicciole di fine anni 80 i bambini
erano meri figuranti assunti da genitori-broker, cambiavano a seconda della disponibilità locale mantenendo solo alcune caratteristiche
basiche, somatiche e attitudinali:
c'era il genio delle scienze, il piccolo
gnomo appassionato di fantasy, la
bambina trecciolina piena di amici
e amiche di penna) ecco dicevamo
CI PERCULÒ.
Ciò che potevamo solo temere
era la crassa esistenza di altri limiti
per evitare il librarsi di altre -e più
funeste- particelle di malvagità.
Sui gelati tra i biscotti Cucciolony,
ad esempio, la prova d'acquisto
più volte dileggiata e ignorata (*ste
machi da strapazzo nelle sale dei bottoni, il caro-affitti
ai Parioli visto da chi le case le affitta e i concorsi di bellezza in Lombardia. Auguri a chi, come me, legge libriinchiesta, sussulta e poi fa finta di nulla.
prove d'acquisto non servono ad una sega, ahr ahr* è la
tipica reazione di chi non sa) indica in realtà il numero
di morsi (2) adeguato per inglobarlo e deglutirlo senza
subire pericolose devianze vanigliee. Si rischia l'indigestione di inchieste: l'opinione pubblica italiettara è
ancora scossa dalla scoperta dell'inattendibilità gallinacea delle ali di pollo di KJY che non sono di pollo ma
di cane. ALI DI CANE pergiuda. Segue a ruota quella sui
Graffetta
La rivincita dei
Numeri Secondi
di LIVIA FAGNOCCHI
A
ncora. In pochi la capivano,
ma quei pochi capivano i
numerosi perché. Durante i pranzi
a più di una portata, Graffetta mangiava prima il Secondo e poi il Primo. Prima la tagliata all’aceto balsamico e poi i tortelli burro e salvia.
Prima il branzino a vapore, e poi gli
spaghetti con le vongole. A meno
ché non ci vogliamo perdere in culinaria, c’è poc’altro da aggiungere
ai fatti.
scrivete a:
[email protected]
inconsolabilmente
ignorano. Se ci sono
i numeri primi, e se
per di più ne consacrano la Primarietà
con un libro sulla loro solitudine,
“avete mai pensato”
- rilancia Graffetta
- “alla frustrazione
perenne vissuta dai
Numeri Secondi?”.
Sono come tutti
piccoli Playmobil con il capello a
caschetto e l’aria inebetita. Sono
talmente tanti i Secondi, che non
ce ne rendiamo pure conto. Ci sono
Secondi sparsi ovunque, sui marciapiedi, appesi alle pareti, nelle
I motivi di Graffetta non hanno
niente a che fare con la salute, con
le allergie alimentari, con la disobbiedienza, con la stravaganza, con
la cocciutaggine. In generale, questa sua mania ha qualcosa a che
vedere con la sintassi delle cose,
con l’ordine temporale in cui esse
sono disposte, esposte e trasfigurate. Più in particolare, la primarietà
dei Secondi di Graffetta deriva da
un’esigenza sua personale di rendere omaggio ai quei poveri Numeri Secondi che esistono, devono
pur esistere, pensa lei, ma che tutti
27
scatole dei giochi, nella musica.
L’azione controcorrente di Graffetta - di cenare o pranzare a partire
da un Secondo - segue quei piccoli
sguardi di premura già attivati nei
confronti dei Numeri Secondi, che
sono, per esempio, la Sindrome
dell’Eterno Secondo, e la lancetta
dei Secondi. E mentre Graffetta si
gode la sua bella tagliata di manzo
con i pinoli, la rucola, i pomodorini
e l’aceto balsamico, pensa di urlare
a squarciagola “I Will Wait!” (fino
a che i secondi saranno i primi), la
breve passeggiata militare sgangherata e ribelle dei Pere Ubu.
(liberamente ispirato a Père Ubu
- Dub Housing)
Ghost World
“Ghost World”
di Daniel Clowes
di MARINA PIERRI
D
opo due numeri dedicati
alla graphic novel, questa
paginetta diventa finalmente una
rubrica, con il suo bel nome e tutto.
È quello che vedete qui su, “Ghost
World” e ci sono due ragioni per cui
l’ho scelto. La prima: se avete letto i
due numeri precedenti di Finzioni,
sapete che ho iniziato un piccolo
discorso su questa forma di letteratura. Credo che la GN sia una via di
mezzo tra parola (aperta, immaginattiva, stimolante l’immaginazione) e immagine (chiusa, repressiva,
esclusiva, discriminante in quanto
frammento di realtà). Proprio per
questo ipotizzo che lo sforzo del lettore di fumetti sia inferiore a quello
del lettore di libri. Implica meno
fantasia del testo scritto, ma ancora
richiede la traduzione del disegno
in realtà, a differenza per esempio
del film. I personaggi delle GN mi
sembrano intrappolati in un limbo,
una terra di mezzo, il virtuale e l’attuale: la vita della parola e la morte
dell’immagine intesa come realizzazione e chiusura. I personaggi
delle GN, insomma, assomigliano a
fantasmi. Da qui, “Ghost World”. La
seconda ragione per cui ho scelto il
titolo è molto più banale e riguarda il libro di cui vi voglio parlare
in questo numero, Ghost World di
Daniel Clowes. Che è percepito da
molti come testo emblematico del
genere.
Il mondo di fantasmi di Clowes è
estremamente calligrafico, a partire dalla scelta stilistica di usare solo
due colori per le tavole, il verde e il
nero (così è nell’ultima ristampa,
l’originale era blu e nero). L’autore,
a sua detta, ha voluto imbevere il
racconto di una luce artificiale, riflessa, come quella che viene da un
televisore: il risultato è uno scenario sempre allucinato e sonnolento,
pallido e irreale, dove tutto è ombra, caricatura e, abbastanza paradossalmente, disegno. I due personaggi principali, Enid Coleslaw e
Becky o Rebecca Doppelmayer, vivono il loro rapporto tra comparse
saltuarie, maschere grottesche dai
cervelli fini come ostie, partorite
dalla matita di un Dio sadico che gli
ha negato tridimensionalità (Clowes stesso). Tutte queste sagome e
tutte le relazioni che intrattengono
con il resto del ambiente-spettro si
equivalgono agli occhi delle ragazze: una paratassi estenuante senza
alti e bassi, senza profondità, senza
umanità. Vite perfette, o perfettamente patetiche, talmente prive di
spessore che non ci si potrebbe entrare neppure se lo si desiderasse.
Ho detto “scenario” perché tutto
questo, davvero, non è che la scenografia di Ghost World. Tavole dipinte
davanti alle quali si svolge la storia
delle due protagoniste, che non è
altro che la storia, anzi, la fotografia
dinamica, di un rapporto esclusivo.
La GN di Clowes, del resto, è considerata il ritratto perfetto di un preciso (e piuttosto inflazionato) momento della post-adolescenza: la
separazione tra grandissimi amici
28
che viene dopo gli anni del liceo, il
breve istante in cui si è ancora insieme prima che le proprie strade
si separino forse per sempre. E ci si
stringe uno all’altro più che mai.
Argomento di non facile rappresentazione, l’autore usa una serie di
marche per unire Enid e Becky in
un legame simbiotico e (dolcemente) morboso: le protagoniste vivono
in una specie di relazione sintattica di valore, come un sostantivo e
un aggettivo o due virgolette; ed è
l’essere l’una per l’altra che dà loro
corpo in un microcosmo scorporato, quasi fuor di metafora. Se avete
tra le mani la versione in inglese,
osservate come il lessico colorito e
idiosincratico delle ragazze, più di
ogni altra cosa, sia capace di separarle dall’esterno. Non è un caso che
Becky viva l’introduzione, da parte
di Enid, di parole come “taciturn” o
“contentious” (che impara studiando per il college) come una specie di
stupro: da un lato, sono il sintomo
dell’ingerenza/penetrazione
del
“ghost world” che si è tanto faticato per tenere distante e dall’altro
quello dell’allontanamento verso
l’università, cioè della rottura del
legame. Vero principio della sparizione, o conversione in fantasma.
Una curiosità: Enid Coleslaw è
l’anagramma di Daniel Clowes.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la
mirabolante esagerazione dei fatti.
L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è
bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una
caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando
dunque, dico io, una sproporzione.
O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché
non è regolare, dunque buffa, e va
messa a posto gestalticamente con
la propria testa. L’iperbole, la storia
esagerata, segue esattamente questa
dinamica: è divertente e fa lavorare
il cervello. Fa ridere e fa pensare.
Ci sono poi due ruoli che si alternano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate nel
rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando
le leggi, sembra che tutto sia andato
liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe
ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si
scappa.
dono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare
acqua al loro mulino, si raccontano
in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo
ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori,
come Karate Kid. Solo che loro per-
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei
perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva
qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi
ancora di più), con soggettivo non
si intende un attributo relativistico
ma una appropriazione della verità
in termini esistenziali. La verità per
me.
Iperboloser
Pete Best
P
ete Best, erroneamente noto
per essere quello che ha
scaldato il seggiolino a Ringo Starr
quando non aveva ancora una base
d’asta, in realtà dovrebbe essere ricordato per la sua rara sensibilità e
il suo carattere introverso ma profondo. Il figlio che tutte le mamme
vorrebbero avere. Pensate, il dolce
e tenero Pete aveva la sua mamma
come manager quando, nel 1960, fu
scelto come batterista dei già affiatati Beatles. Era un musicista preparato e un bel ragazzo ma Allan
Williams lo scelse solo perché non
trovava nessun altro che volesse
sorbirsi una tournée ad Amburgo
praticamente a gratis.
Tutto andava bene tra i quattro
amici: quando John, Paul e Gorge
si divertivano nel modo sfrenato e
di JACOPO CIRILLO
senza inibizioni che solo i giovani
possono sostenere, il tenero Pete
stava in un angolo, guardando il
cielo e gioendo per ogni stella cadente, limitandosi a raccogliere i
cocci delle bottiglie di wiskey che
quei burloni gli tiravano addosso,
mancandolo quasi sempre. Tornati
a Liverpool, i ragazzi erano pronti
a incidere Love me do. Era il 1962.
Pete era molto entusiasta ma gli altri tre minimizzavano, Ma che sarà
mai, è anche un po’ lagnosa, eppoi
troppo facile fare rima con “do”,
sono capaci tutti e, mentre lo dicevano, si facevano l’occhiolino e il
gomitino tra loro.
A un certo punto, durante le prove, il manager Brian Epstain entrò
con quel capellone che suonava la
batteria con Rory Storm & The Hur-
29
ricanes, dai quello con un nome
chiaramente inventato, e disse,
guardando Pete, Qui c’è qualcuno
di troppo e non è Ringo Starr. E neanche io, visto che sono il manager.
Il cerchio si restringe.
Grazie alla sua profonda sensibilità, Pete capì all’istante e, mogio,
tornò dalla sua mamma che immediatamente si autoriqualificò come
manager delle coccole, consolando
l’inconsolabile.
A somma beffa, qualche anno fa i
Beatles superstiti consegnarono un
assegno da un milione di sterline al
vecchio Pete che, guardandoli con
tanta sensibilità, gli disse, Eh grazie, proprio adesso che è da una vita
che non ci ho manco gli occhi per
piagne. Accettò tuttavia l’assegno.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha co-fondato
questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per
poter dire quello che gli pare sui libri che legge.
pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a
leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo
più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.
Livia Fagnocchi è curiosa, entusiasta e dentro tante
storie. Si ossessiona facilmente di canzoni, di mongolfiere, di take-away indiani, di zucca, di misteri, di treni.
Cerca analogie, coincidenze, e stare bene.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia
sia stata traviata dal finale di "Marcellino Pane e Vino".
Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani
segreti per i C.O.B.R.A., i quali gentilmente gli hanno
concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità.
Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui
gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa:
3 televisioni, 2 computer, l'abbonamento all'Espresso e
la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora
di trasferirsi. Passa un po' di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles
dove viene spesso bollato con l'espressione *lobbista*.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all'Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi
per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin'ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far futtare
una laurea a detta di molti "inutile"
Alberto Cocchi è laureando magistrale in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Modena-Reggio
Emilia. Concentra i suoi studi sull'uso dell'immagine,
soprattutto fotografica. È un avido lettore.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di
suonare l'organetto per strada: conscio di ciò, per non
n. 2 / Maggio 2009
[email protected]
www.finzionimagazine.it
Stampa: Tipolitografia Castello - Castel Bolognese
30
Andrea Rinaldi è giornalista professionista e vive a
Bologna dove scrive per le pagine culturali del Riformista e dell'edizione locale del Corriere della Sera. Comincia a credere che Hemingway avesse ragione quando
affermava che "la metà degli italiani scrive e l'altra metà
non legge".
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Come secondo lavoro, Simone Rossi scrive di musica,
teatro e amenità varie per un noto quotidiano romagnolo. Il primo lavoro lo sta cercando. Nel frattempo, una
volta, è stato in Etiopia. Il viaggetto è diventato un libretto, La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Stonatuccio
musicista da marciapiede, suona l'ukulele e ha un gatto
di nome Chomsky. Tende a scrivere sui muri palindromi
intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur
igni.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare
che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la
sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l'inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto
di nanotecnologie.
Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma è
nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto a
Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro.
Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non
legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai
andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventisette anni
ed é bellissimo.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell'800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci
gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/fare
la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling
Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di
tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film
e serie televisive americane.
Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini.
Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell'arte dell'insignificanza, ovvero del
non voler dire nulla.
Sara Reali, puoi trovarla in mezzo al pubblico di un
concerto, dove tutti sono inevitabilmente molto più alti
di lei, ma non le importa: adora emozionarsi per due accordi ed una voce calda quanto per un bel film visto in
compagnia. Se non esce la sera, è perchè sta leggendo
una storia appassionante e magari ride o tiene il fazzoletto a portata di mano.
Nel prossimo
numero:
Franz Kafka
31
www.finzionimagazine.it
Scarica

numero 2 - Finzioni