Atti del convegno - Abstract INDICE METODA KOKOLE 7 »Capo d'Istria Unica« e la musica sacra del Seicento istriano 20 »Capo d'istria unica« – duhovna glasba v kopru v 17. Stoletju 22 Sacred Music In “Capo D’istria Unica” In The 17th Century 31 36 40 MARINELLA LAINI Percorsi musicali femminili tra Sei e Settecento a Venezia Ženska Glasbena Tradicija V 17. in 18. Stoletju V Benetkah Female Musical Itinerary Between the 17th and the 18th Century in Venice 43 52 60 LUISA ANTONI Pavle Merkù, un compositore di frontiera Pavle Merkù, Obmejni Skladatelj Pavle Merkù, A frontier Composer UMBERTO BERTI 63 Avvistamenti del sacro nella musica italiana moderna 82 Zasledovanja Sakralnosti V Sodobni Italijanski Glasbi 100 Sightings Of Sacred In Modern Italian Music 103 107 111 MARIO PAGOTTO Una finestra rivolta ad oriente: riflessioni sulla musica di Arvo Pärt Okno Na Vzhod: Arvo Pärt – Razmisleki O Njegovi Glasbi A Picture Of The East: Considerations On The Music Of Arvo Pärt “Capo d’Istria Unica” e la musica sacra del Seicento istriano a cura di Dr. Metoda Kokole (Istituto di musicologia del Centro di Ricerche Scientifiche dell Accademia Slovena delle Arti e Scienze) PARTE PRIMA La storia dell’Istria, che costituisce la più lunga penisola dell’ultima porzione a nord della costa del mare Adriatico, è assai antica. Oggi questo territorio è diviso politicamente tra tre differenti nazioni: la maggior parte appartiene alla Croazia, ma alcune dozzine di chilometri della costa occidentale si trovano nella Repubblica di Slovenia e nello stato italiano. Le più importanti città della costa istriana che appartengono oggi alla Slovenia sono Koper/Capodistria, Izola/Isola e Piran/Pirano, dove ho potuto lavorare per ben tre anni con i miei colleghi dell’ Istituto di Musicologia di Lubiana, inventariando e catalogando la maggior parte delle musiche antiche, a stampa o manoscritte. I due centri urbani che invece oggi fanno parte dello stato italiano sono Trieste, che fino al secolo ventesimo era stata sotto la dominazione austriaca, e Muggia, oggi ridotta ad una trascurabile piccola cittadina alla periferia di Trieste. Bisogna ricordare, tuttavia, che dalla fine del Duecento sino alla fine del Settecento la parte costiera dell’Istria con le odierne città costiere slovene di Capodistria, Pirano ed Isola, fu sotto il dominio dalla Repubblica di Venezia. Capodistria era sede vescovile, città principale e centro amministrativo di tutta l’Istria veneta, popolata nell’entroterra da una popolazione prevalentemente slovena, mentre nelle grandi città vivevano italiani che parlavano un particolare dialetto veneto. Invece la parte centrale del territorio di Trieste era una sorta di porta di connessione con i dominii degli Asburgo. Il materiale musicale più prezioso ancora oggi conservato negli archivi di sei Istituzioni soprattutto ecclesiastiche di Capodistria, Pirano ed Isola, testimonia in modo esaustivo, appunto, le attività musicali dell’epoca veneta, quando in questi luoghi per molti secoli la musica veniva eseguita ai più alti livelli europei. Fino alla metà del Cinquecento gli avvenimenti musicali più importanti furono strettamente legati alle attività delle cappelle musicali locali, di cui si è conservato un grande numero di partiture ed altro materiale archivistico: dai più antichi codici in pergamena con canti liturgici alle prime rare pubblicazioni a stampa del Cinquecento insieme ad alcuni pezzi unici di edizioni musicali seicentesche e a quasi 800 testi manoscritti del periodo anteriore alla metà dell’Ottocento. Anche al di fuori delle chiese, nell’ambito delle accademie rinascimentali e dell’epoca più tarda, nonché nelle case private, fu coltivata l’arte musicale ad altissimi livelli. Purtroppo non ci sono pervenuti testimoni della musica profana negli attuali archivi sloveni, essendo stati molto probabilmente esportati dal territorio nelle collezioni private della popolazione italiana durante la seconda guerra mondiale e negli anni seguenti. Capodistria – La Iustinopolis romana, che veniva anche appropriatamente chiamata Caput Histriae, agli inizi del diciassettesimo secolo era una cittadina di circa 4500 abitanti e, come ho già ricordato, era il centro amministrativo dell’intera Istria veneziana. L’autorità laica era rappresentata dal “Podestà” veneziano, mentre le attività ecclesiastiche erano dirette dal Vescovo. Il primo Vescovo di Capodistria fu Nazarius, che più tardi divenne patrono della città. Per secoli il centro della vita culturale fu rappresentato dalla Cattedrale, costruita a partire dal dodicesimo secolo e in seguito consacrata nel 1445 dal vescovo del tempo Francesco da Firenze. La cappella musicale annessa al Duomo fu fondata nella prima metà del sedicesimo secolo. Un maestro di cappella del Duomo è menzionato per la prima volta nei documenti nel 1573, mentre notizie dell’organista già ricordato risalgono al 1421. Francesco Bonardo, Silao Casentini, e Niccolò Toscano furono tra i più importanti maestri di cappella nell’ultima parte del sedicesimo secolo. Gli ultimi due erano anche compositori. I registri degli “Spesari” o “Libri delle spese” del Duomo, sono una tra le più importanti fonti d’informazione che possediamo sulle attività musicali. I più importanti eventi musicali del Duomo di Capodistria avvenivano durante il Natale e la Settimana Santa, oltre che per le feste del patrono della città San Nazzario, per la fiera della veneratissima Sant’Orsola, ma anche San Laurenzio Justiniano, San Marco etc. In queste occasioni il Capitolo della Cattedrale ingaggiava musici e cantori esterni, che spesso provenivano dal convento capodistriano dei Conventuali Francescani, i Minoriti, ma a volte anche dal territorio asburgico di Trieste, o da Venezia e da altre città dell’Italia settentrionale. Molti degli organisti del Duomo, documentati nel Cinquecento e nel primo Seicento, erano membri degli ordini religiosi locali, specialmente i già ricordati Minoriti. Due casi tipici sono offerti da Giulio Zacchino, autore di una collezione di Mottetti a quattro voci, e da Matteo Marcolin, che più tardi divenne Maestro di cappella a Trieste. In questo contesto è interessante notare che – secondo una pianta coeva della città di Capodistria ed una dettagliata descrizione che ne fece il vescovo del tempo Paolo Naldini nel suo primo e secondo libro della Corografia Ecclesiastica di Giustinopoli, stampata a Venezia nel 1700 – Capodistria durante il Seicento ebbe oltre al Duomo non meno di sette conventi e monasteri ed altre 15 piccole chiese. La città infatti era considerata più devota della stessa Roma, per il fatto di avere così tante istituzioni ecclesiastiche per soli tre o quattromila abitanti. Il più ragguardevole organista del Duomo di Capodistria fu Gabriello Puliti, membro dell’ordine dei Frati Minori Conventuali, oltre che prolifico compositore di 36 opere a stampa sacre e profane, edite per la maggior parte a Venezia tra il 1600 e il 1635. Nato in Toscana a Montepulciano verso il 1580, Puliti trascorse molta parte della sua esistenza nell’Istria veneziana. Dal 1606 fino ad almeno il 1624 (con qualche interruzione) egli visse a Capodistria. Ma prima di entrare nello specifico della musica composta da Puliti per le esigenze del capoluogo istriano, vorrei riassumere brevemente la sua biografia probabilmente assai poco nota alla maggior parte di voi. Puliti aveva preso gli ordini intorno al 1600. Aveva studiato probabilmente a Firenze nel convento di Santa Croce, al quale si riferisce nella Dedica della sua stampa del 1618. In seguito trascorse brevi periodi nei conventi di Pontremoli e di Piacenza, da dove egli inviò alle stampe le sue più antiche composizioni superstiti: due raccolte di tradizionali Mottetti a cinque voci e di Salmi da utilizzare nei suoi conventi, le Sacrae modulationes edite nel 1600 e l’Integra omnium solemnitatum vespertina psalmodia del 1602. Dal gennaio 1604, quando “frater Gabriel de Monte Puliciano” è documentato a Pola, Puliti restò nella provincia Minorita di “San Girolamo” (che comprendeva l’Istria e la Dalmazia) fino alla sua morte avvenuta nel 1644. Dopo aver trascorso, nel 1605, un breve periodo come maestro di capella e organista a Muggia vicino à Trieste, Puliti si spostò a Capodistria e lì rimane fino al 1609, dopo di che fu ingaggiato per cinque anni dal vescovo di Trieste. Risalgono a questo periodo tre delle sue raccolte superstiti di musica profana: gli Scherzi, capricci et fantasie a due voci; Baci ardenti e Ghirlanda odorifera. Nel frontespizio del suo libro di madrigali, intitolati Baci ardenti, Puliti è indicato per la prima volta come “Accademico armonico detto l’Allegro”, ovvero come membro di una accademia, molto verosimilmente l’Accademia Palladia di Capodistria, frequentata da alcuni noti amici di Puliti e musicisti. È probablile che durante i loro incontri, gli accademici intonassero anche qualche madrigale, probabilmente persino qualche componimento a cinque voci della raccolta Baci ardenti oppure qualche sua monodia profana o religiosa più tarda. Potrebbe ben essere possibile che le sue opere profane, come i suoi madrigali di soggetto amoroso e perfino erotico, certamente poco decorosi e adatti per un monaco ed un uomo di chiesa, avessero provocato delle reazioni che bisognava mettere a tacere con l’intervento di un protettore di reputazione molto elevata. Potrebbe essere questa la causa della sua decisione di dedicare i suoi madrigali all’Arciduca Ferdinando II di Graz, futuro imperatore del Sacro Impero Romano, allora uno dei più splendidi mecenati di artisti ed in particolare di musicisti italiani. Percorsi musicali femminili tra Sei e Settecento a Venezia A cura di Marinella Laini ESTRATTO Un excursus nella vita e nelle opere di Antonia Bembo, compositrice vissuta nel XVII secolo. Nata ed educata a Venezia, dove sposa un membro della famiglia che aveva dato alla città numerosi dogi e all’Italia l’illustre letterato Pietro Bembo, all’età di trent’anni Antonia si trasferisce a Parigi, accolta alla corte di Luigi XIV. Al re francese, che la gratifica dei mezzi necessari al suo ricovero presso una comunità di dame aristocratiche, la compositrice dedica le sue musiche, raccolte manoscritte in volumi appartenuti alla biblioteca personale del re, ora allogati presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Numerose arie e cantate, un’opera, e alcuni “divertimenti” di carattere encomiastico sono il patrimonio di musica profana che di lei ci resta; mentre l’ambito della musica sacra, dove peraltro Antonia si cimenta anche con testi francesi, la vede impegnata in generi più precipuamente francesi, quali il grand e petit motet. Nonostante il cospicuo corpus di musiche che testimoniano della sua attività, tuttora insoluta è la questione della sua assenza dai circuiti canonici della diffusione musicale parigina. Ma a prescindere dal problema che riguarda la recezione delle sue musiche da parte dei contemporanei, l'insieme dell'opera di Antonia Bembo si presenta come un'interessante opportunità di mettere in luce un aspetto originale (anche perché ne propone un vissuto al femminile) di quella fusione degli stili italiano e francese che teorici e musicisti vagheggiavano dalle pagine dei loro trattati. Pavle Merku’, un compositore di frontiera A cura di Luisa Antoni PARTE PRIMA "Pavle Merkù è nato a Trieste il 12 luglio 1927. Ha completato gli studi di slavistica all'Università di Lubiana e di Roma, ha studiato composizione presso Ivan Grbec e Vito Levi a Trieste; ha insegnato nelle scuole medie slovene ed è stato redattore presso la sezione slovena della RAI; anche se recentemente è andato in pensione, il lavoro continua ancora ad accompagnarlo fedelmente". Nei testi sloveni di storia della musica e nelle enciclopedie è definito come "compositore, pubblicista musicale, critico, slavista, etnomusicologo"; e infatti è difficile non concordare con il giudizio globale di Andrej Rijavec, secondo cui Merkù è "una personalità di vaste vedute e dai molteplici interessi", giudizio che più di ogni altro si attaglia alla varietà e ricchezza della sua produzione. Pavle Merkù stesso si autodefinisce una "personalità sferica ", una personalità che, ricercando campi diversi, arricchisce progressivamente il proprio percorso conoscitivo: in una recente intervista per la rivista Nova revija ha affermato “il mio ideale è Leonardo, l’uomo sferico, espresso in maniera forbita. Oppure detto in modo più semplice: la mia professione principale, il mio modo di essere sulla Terra è di pisciare controvento.” Nonostante l'impressione di estrema frammentarietà, è impossibile non notare che quasi tutti gli interessi di Merkù gravitano attorno ad un centro virtuale: il mondo di Merkù è strettamente interrelato con lo spazio etnico e culturale, in cui vivono gli Sloveni in Italia. Egli stesso ha più volte sottolineato la forza dei suoi legami familiari con queste terre, dove si intrecciano diversi influssi culturali e dove convivono diverse etnie. Nella videointervista con la scrittrice Ivanka Hergold ha affermato di sentirsi "una mistura, un meticcio, come spesso accade da noi". Giorgio Vidusso (pianista triestino e successivamente direttore presso la RAI) mi ha detto una volta che a Trieste siamo quasi tutti di sangue misto, io sono figlio di uno Sloveno e di un'Italiana (o Friulana?), lui è figlio di un Italiano (o Friulano?) e di una Slovena; di ciò siamo consci; sappiamo che in un determinato momento dobbiamo decidere cosa saremo. Io ho deciso di essere sloveno, lui di essere italiano. Mio padre era sloveno, figlio di un operaio meccanico originario della valle del Vipacco e di una massaia carsolina, poetessa del popolo. Mia madre non era slovena, anche se era nata a Trùiè, un paese della Carniola superiore. Suo padre era infatti italiano di Dignano d'Istria, le sue figlie parlavano con lui in italiano e si consideravano italiane; la mia nonna materna era invece di origini germaniche, le sue figlie parlavano con lei in tedesco. La produzione musicale Da sempre ho attribuito la massima importanza alla creatività artistica. Grazie forse ai mezzi espressivi musicali, che hanno il valore di una lingua internazionale, o forse in virtù della funzione di mediatore tra la cultura slovena e quella italiana, da me svolta nella vita pubblica sin dal 1954, o infine forse per quel piacere che ho sempre tratto dai rapporti con i musicisti e la gente di teatro, ho avuto grande facilità di contatto con gli ambienti musicali sia a Lubiana che in Italia. Per Pavle Merkù la musica è come l'ossigeno, non ne può fare a meno. Merkù esprime, estrinseca la sua forza creativa soprattutto nella musica e in particolar modo nella composizione. In numerosi scritti e interviste ha sottolineato che i suoi primi ricordi infantili sono legati proprio alla musica, alla Hausmusik, a quel fare musica tipico della Mitteleuropa: le riunioni familiari in casa di Giuseppe Mercù, cui partecipava anche qualche amico di famiglia, si trasformavano in incontri musicali di gruppi cameristici casalinghi, che gli permettevano di scoprire da vicino il magico mondo dei suoni. Il piccolo Pavle aveva iniziato lo studio del violino con il padre e con Cesare Barison (1885-1974), famoso didatta e concertista triestino. Ha iniziato a comporre nel 1944, quando una lunga malattia lo ha trattenuto a letto per 11 mesi, comprando solo successivamente i primi manuali di teoria e composizione. Dopo la guerra ha studiato composizione prima con Ivan Grbec e poi con Vito Levi. Il passaggio da Grbec a Levi è stato suggerito dalla supposizione – che poi Merkù ha visto sbagliata – che Levi fosse nel suo insegnamento più veloce del collega sloveno. Non c’erano altri. Con entrambi mi intendevo bene, i loro erano insegnamenti non di mestiere, ma di vita, erano animi nobili, di vaste vedute. I ‘nostri’ (rossi, bianchi, rosa ed altri) non apprezzavano Grbec, perché era troppo autonomo e fiero di ciò che sapeva, anche se faceva il modesto e ho sempre guardato a lui come a un esempio di vita. Lo stesso vale per Levi che ha patito durante la guerra a causa della persecuzione contro gli Ebrei e che era una persona estremamente nobile, come insegnante probabilmente più aperto di Grbec e che mi ha insegnato tantissimo. Nella scelta dei suoi due insegnanti di composizione Merkù mantenne una continuità musicale e didattica: entrambi furono allievi di Antonio Smareglia (1854-1929), compositore istriano che i musicologi definiscono come uno tra i più importanti rappresentanti del wagnerismo in Italia. Dati questi presupposti è abbastanza scontato che gli inizi compositivi di Merkù vadano collocati nel passaggio tra il tardoromanticismo e le nuove correnti che si sono imposte nel nostro secolo. La mia via è chiara, ma tengo gli occhi aperti, ho considerato diverse correnti, ma sono riuscito a mantenere la mia indipendenza, per quanto ho potuto, ho tentato di costruire la mia personalità. Dapprima è s tato difficile, i miei maestri sono visibili, ma quando intorno ai quarant’anni ho raggiunto la maturità ed ho iniziato a lavorare da solo, sono riuscito a farmi notare attraverso la mia musica, perché è diversa dalle altre. Il compositore e pianista triestino Fabio Nieder ha scritto che, se "scorriamo il vasto catalogo delle composizioni di Merkù, ci rendiamo conto della forte unitarietà che le caratterizza e della fedeltà all'appartenenza etnica e spirituale che, malgrado i cambiamenti e i dubbi, non si trasforma mai in moda superficiale. Merkù ritorna agli stilemi e al materiale del passato, si tratta di una caratteristica che lo accompagna costantemente". Uno sguardo d'insieme alla produzione compositiva di Merkù ci permette di individuare un arco evolutivo ben preciso che dai primi inizi tardoromantici conduce, attraverso un avvicinamento alle tendenze della musica moderna sino alla riscoperta e valorizzazione dell'eredità popolare, da Merkù studiata con tenace caparbietà e spirito d'avventura. Ma una visione d'insieme della produzione di Merkù implica necessariamente anche una divisione per generi, pure se - come molto spesso accade questa divisione è una violenza all'unitarietà compositiva. Al primo posto c’è la produzione vocale, che costituisce il gruppo quantitativamente più nutrito e che deriva in parte dalla musica popolare, pur comprendendo contemporaneamente anche composizioni più propriamente d’autore, lontane quindi da elaborazioni di temi preesistenti. Poi è la volta dell'opera Kaèji pastir (La libellula), di tutte le composizioni legate ad un testo drammatico, e dei lavori per la radio; infine, last but not least le composizioni strumentali per uno o più esecutori. La musica vocale e vocale-strumentale Ho sempre cercato testi che siano di un certo valore artistico e che allo stesso tempo rispondessero al mio gusto, al mio stato d'animo del momento, ai miei principi e alle mie idee culturali. Merkù ha "costruito" gran parte della sua produzione sulla parola poetica, utilizzando organici vocali in tutte le molteplici combinazioni possibili, dai cori sino alla voce solista. I testi, che gli sono particolarmente vicini, sono soprattutto, anche se non esclusivamente, poesie di Sreèko Kosovel, Svetlana Makaroviè, Carlo Betocchi e in tempi più recenti Roberto Piumini, Claudio Grisancich, Roberto Dedenaro e Tone Kuntner. Non mancano neanche le poesie dei poeti storici della letteratura slovena, come ad esempio France Prešeren o Simon Jenko. Gli esordi compositivi di Merkù risalgono al 1947 con tre composizioni, rispettivamente per coro, tenore e soprano. E' interessante notare che per ben due di queste ha utilizzato poesie di Sreèko Kosovel. La mia prima, la più vecchia composizione superstite è un brano per coro su testo di Kosovel, la prima esecuzione si è svolta a Tomaj con il coro della Facoltà di filosofia, all’epoca ne fui anche il direttore, rendendomi co nto che mai più avrei diretto, perché non sono fatto per questo. E’ stata comunque una bella esperienza. Componevo già prima,ma le prime composizioni che hanno visto la luce prima del 1947, sono state da me cestinate. L'attenzione per la poesia di Kosovel è una nota costante nella vita intellettuale di Merkù; egli ha scoperto la grandezza di Kosovel già agli inizi degli anni '40, con largo anticipo rispetto al mondo culturale sloveno. Poi negli anni '70, Merkù ha avuto modo anche di tradurre Kosovel in italiano. Nel 1972 è stato pubblicato, presso una casa editrice italiana, il volume dal titolo Poesie di velluto ed Integrali con alcune traduzioni delle poesie kosoveliane di Pavle Merkù e Jolka Miliè (Sreèko Kosovel, Poesie di velluto ed Integrali, L'Asterisco editore, Trieste, 1972). Il rapporto tra la musica di Merkù e la poesia di Kosovel è stato affrontato ed approfondito dalla musicologa capodistriana Marija Gombaè nell'opera dal titolo Pesnika glasbe Krasa (I due poeti della musica del Carso). La parabola kosoveliana – che probabilmente non è ancora conclusa - ha avuto anche un segmento recente: dopo la morte della moglie Merkù ha deciso di affrontare il testo kosoveliano Konec (La fine) dedicandolo al coro accademico Tone Tomsiè che lo ha presentato in prima esecuzione. L'incontro con questa poesia in particolare è avvenuto già nel 1946 e già allora Merkù aveva deciso di musicarla. Per molti anni ci aveva pensato e il momento giusto è arrivato dopo molti decenni. Si tratta di un brano notevolmente difficile che richiede buoni coristi: il titolo è Postavljam ti spomenik, romar (Ti faccio un monumento, pellegrino) e ricalca le parole dell’inizio. Circa nello stesso periodo Merkù ha affrontato anche un testo shakesperiano che la moglie gli aveva chiesto di musicare alcuni mesi prima della morte - si tratta del testo Full fathom five dalla Tempesta. Oggi Merkù lo definisce un requiem profano: il titolo è Remembering Marta. In questi testi, ma anche in altri, troviamo un tema che ha spesso punteggiato la produzione di Merkù: la morte. La morte non è la fine di tutto. E’ un momento della nostra vita, in cui questa diventa definitiva e immodificabile; solo un’ora prima posso ancora rovinarla, nel momento in cui muoio non posso più farlo. E quindi accetto la morte come parte della vita, come atto della vita. Dopo vedremo – oppure no. Sono arrivato molto presto a questa conclusione e ciò mi aiuta a vivere. Quando mia moglie si è gravemente ammalata, non è voluta andare in ospedale, non ha voluto avere in casa delle infermiere e non ha voluto che l’aiutassero i figli, poiché hanno la loro la loro vita, il loro lavoro e i loro figli. Ero d’accordo, era un suo diritto, e così l’ ho servita per due anni e tre quarti. Ogni giorno componevo di meno e poi per due anni niente. La sua morte mi ha psicologicamente e fisicamente completamente spossato, così che ancora mezzo anno non sono riuscito a scrivere praticamente niente. Poi ho ricominciato, in due anni ho vinto lo squilibrio psicologico causato dalla sua morte – eravamo sposati da sessantatrè anni. Fisicamente non mi sono ripreso, ma ho almeno trovato un equilibrio interno e soprattutto la pace interiore, la serenità. Dopo la malattia e la morte della moglie - che lo hanno costretto ad un lungo silenzio artistico - si è nuovamente accostato alla composizione: il primo brano è stato il Pater noster, perché ha voluto ricominciare con le parole "Fiat voluntas tua". Preghiera che Merkù conosce da piccolissimo in tre lingue, ha scelto però il latino perché è una lingua comune a tutti. Il mondo di scelte poetiche di Pavle Merkù non si è appiattito solo sui lavori di Kosovel. Sin dalla fine degli anni '60 Merkù ha volto la sua attenzione anche ad altri poeti, allargando quindi da quella profonda affinità spirituale che lo aveva legato a Kosovel. A volte nei poeti più giovani mi affascinava la riflessione, a volte la liricità; mi sono riavvicinato a un tipo di lirica che percepiva e utilizzava a modo proprio gli elementi primari della poesia popolare. Merkù è rimasto "affascinato" dalla poesia, ma anche dalla prosa di Svetlana Makaroviè, poiché da essa traspare "il radicamento nella cultura popolare che conferisce alla sua scrittura un carattere sloveno, pur essendo contemporaneamente espressione di cultura". Il primo incontro con la Makaroviè è forse casuale, ma si trasforma ben presto in un imperativo: mettere in musica i suoi versi. Nasce così il lavoro Vojskin èas (Tempo di guerra) per mezzosoprano e cinque strumenti (1974), che il compositore definisce come un "rituale cameristico senza requisiti scenici". Successivamente la Makaroviè pubblica la raccolta Pelin žena (L'assenzio delle donne ), in cui la poetessa da voce alle più tremende tragedie esistenziali femminili: da qui Merkù trae un testo in tre parti su cui compone Pelin (Assenzio) per mezzosoprano solo (1975). Altre tre poesie della Makaroviè formano il ciclo dal titolo Dvanajsta ura (Ore dodici) per soprano solo (1986). Fabio Nieder sottolinea che "la naturale liricità di Merkù si sposa perfettamente con i versi cupi, ma malgrado ciò estremamente poetici di Svetlana Makaroviè". La Makaroviè è inoltre anche autrice del libretto dell'opera Kaèji pastir (La libellula). Altra presenza poetica costante nella produzione compositiva di Merkù è quella del fiorentino Carlo Betocchi. Il compositore confessa di aver cercato a lungo un testo italiano a lui congeniale, dopo aver già musicato testi in sloveno, tedesco e latino medioevale. In ordine cronologico il ciclo Qui od altrove per baritono e quartetto d'archi (1971) è la prima prova compositiva su testi di Betocchi, cui Merkù ha dedicato ben tre anni di intenso lavoro. Alcuni anni più tardi è invece la volta di un breve testo lirico sulla morte, musicato con il titolo Canto dell'erba secca per soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e pianoforte a quattro mani (1974), cui seguono numerose altre raccolte, tra le quali ricordiamo i Madrigali della buona morte (1988). Nella sua ricerca di nuove coloriture linguistiche Merkù si imbatte anche nel dialetto friulano, da molti considerato una vera e propria lingua. Nel 1981 mette in musica due liriche su versi del poeta friulano Luciano Morandini. Questa opera dal titolo Tiare per baritono, sassofono ed undici strumenti a fiato è però articolata in tre parti: tra due testi lirici affidati alla voce di un baritono, c'è una lirica in cui a "cantare" è il saxofono. In tempi più recenti invece la creatività musicale di Merkù ha deviato per una strada inconsueta, ha incontrato la lingua e la cultura sarda. E proprio in questo allargamento degli interessi di Merkù si realizza una deviazione, una flessione dall’attenzione costante al mondo degli Sloveni in Italia. I Sardi sono persone magnifiche, né Italiani né Indoeuropei, è una razza mediterranea che si è quasi estinta, la loro cultura è di quattromila anni, non hanno nulla da invidiare a nessuno, sono solari, mi sono veramente innamorato di loro. Da questo inaspettato incontro tra Merkù e i Sardi sono germogliate numerose composizioni, nate prevalentemente per il coro I cantori della Risurrezione di Antonino Sanna. Nella produzione recente spiccano le 5 canzonette sacre dedicate appunto alcoro turritano e le 4 canzonette profane per il coro Obala. Nella produzione vocale di Merkù spiccano due messe: la Maša o božjem usmiljenju (La messa della misericordia divina) e la Messa da requiem "Pro felici mei transitu" (1987), una delle più alte vette artistiche raggiunte da Merkù. Secondo Lojze Lebiè Merkù, in quest'ultima messa, come pure nelle composizioni corali, "non si limita a riprodurre i testi accompagnandoli con la musica, ma ne sublima la struttura e il significato, riuscendo in tal modo - e con impressionante chiarezza - a conferire alle parole di questa messa un tono di rassegnata attesa". La Maša o božjem usmiljenju su testo sloveno (1990) gli è stata commissionata dal vescovo di Klagenfurt. Dopo che Gorbaèov ha così abilmente liquidato il sistema … mi sono reso conto che il muro di Berlino sarebbe caduto in che tutta l’Europa dell’Est avrebbe visto molto sangue. Proprio in quel periodo il vescovo di Klagenfurt mi aveva commissionato una composizione liturgica su testo sloveno per la domenica ceciliana per il duomo di Klagenfurt. Ho riflettuto sul tema e ho scritto una messa sulla misericordia, perché ho pensato che gi Sloveni e gli altri popoli slavi dell’est non hanno mai avuto bisogni di così tanta misericordia. Gli Sloveni si sono ben presto tirati fuori da questa crisi con un numero di morti che non supera quello di un incidente tra due autobus, mentre gli altri ne hanno scontato tutte le conseguenze. In campo musicale Merkù si è distinto per l'interesse suscitato dalle sue ricerche sulle musiche popolari; anche per il compositore triestino esse rappresentano un humus molto ricco, soprattutto per la sua musica vocale. Merkù ha trascritto infatti numerosissime canzoni popolari, riscrivendole poi per organici molto diversi. L'attività di ricerca del retaggio popolare si trova esattamente a metà strada tra la mia musica e il mio interesse linguistico, o meglio il mio interesse per la storia della lingua, il dialetto, la terminologia. Lojze Lebiè ritiene che "nelle rielaborazioni dei canti popolari di Merkù si nasconda la mitologia slovena". Dagli anni '50 in poi l'attenzione per l'eredità popolare si è acuita, diventando uno dei tratti più marcati della sua produzione. Non va però dimenticato che Merkù compie un primo passo in questa direzione già nel 1948 con la canzone popolare carsica Dekle, dekle... (Fanciulla, fanciulla...) per coro virile. L’allora direttore dalla trasmissione mi disse che la RAI aveva appena finto di mettere una serie di ripetitori a ridosso del confine statale e mi chiese un’opinione su cosa si potesse fare considerando che ci sentono anche nella Beneèija e nella val Canale, senza però usare il dialetto, poiché all’epoca era assolutamente vietato. (…) Ho proposto di raccogliere il materiale popolare, racconti, canzoni tutto ciò che era in dialetto e di preparare una trasmissione a cadenza settimanale, in cui avrei presentato in lingua slovena il materiale raccolto. (…) Ho avuto così modo di rendermi conto che prima non avevo una opinione corretta della musica popolare. Mi accompagnavo infatti spesso a Primoù Ramovè e Janez Matièiè, musicisti magnifici, tra i migliori che avuti dagli Sloveni negli ultimi 100 anni, ma purtroppo senza nessuna sensibilità per la musica vocale. Io, che invece non ero sordo, malgrado ciò condividevo con essi l’opinione che la musica popolare non era degna di interesse. Avevo torto e ho riconosciuto di essermi sbagliato. (…) Nella prima metà della mia vita non avrei mai immaginato di occuparmi di musica popolare. Mi era estranea, anche e soprattutto la slovena, soprattutto perché la musica popolare dell’arco alpino, francese, italiana, svizzera, austriaca, friulana, mi sembrava inutile. Dopo ho scoperto che era a causa delle cattive trascrizioni che erano leggere, popolari. Tutto è cambiato quando, il 1° ottobre 1965, sono entrato alla radio, non più come consigliere e critico musicale, ma come dipendente e sin dall’inizio avevo la responsabilità per tutti i programmi musicali della nostra radio Trst A. Il lavoro di redattore alla Radio Trst A (sezione slovena della RAI di Trieste) gli permette poi di svolgere approfondite ricerche sull'eredità musicale popolare slovena in Italia. Si può addirittura affermare che gli Sloveni (da entrambi i lati del confine) abbiano imparato a conoscere e apprezzare questo patrimonio spirituale solo attraverso l'opera di divulgazione di Pavle Merkù. In questo ambito, come anche in altri, Merkù ha svolto un lavoro pionieristico. Nel 1976 ha pubblicato in italiano e sloveno il volume Ljudsko izroèilo Slovencev v Italiji - Le tradizioni popolari degli Sloveni in Italia, frutto di un'attività di raccolta quasi decennale, in cui sono riuniti e catalogati i canti popolari da S. Barbara nel comune di Muggia a Ugovizza e Fusine in provincia di Tarvisio. Da questa "fecondazione a contatto con le radici della (nostra) cultura nazionale" sono nate canzoni di cui si potrebbe affermare che sono entrate a far parte della cultura musicale degli Sloveni in Italia: la canzone del Medimurje Dremle mi se, dremle (1960), quattro canzoni originarie di S.Giorgio di Resia (Bila), Da jora ma Caninaua (1969), Cici nana Marièica (1975), Da gora ta ékarbinina (1978), la conosciutissima Jnjen èeua jti gna' (1982) ecc. Di quest'ultima sono rinvenibili presso la discoteca della RAI di Trieste e della RTV Slovenija a Lubiana innumerevoli esecuzioni. Particolarmente interessanti sono i Canti popolari infantili degli Sloveni in Italia (1982), in cui secondo il musicologo sloveno Borut Loparnik Merkù "ha conservato e addirittura enfatizzato il valore originario di questi piccoli canti, pur mantenendo un livello compositivo d'autore". La produzione musicale di Merkù dedicata ai bambini si è particolarmente arricchita negli ultimi anni, forse anche grazie all'incontro con il poeta Roberto Piumini, autore di letteratura per bambini. Ci sono le raccolte Piumini da canto (presentata a Trieste dal coro I piccoli cantori della città di Trieste), Quando ride un bambino, Semi di suono. Si tratta di canzoni da una a più voci (sino a quattro o più precisamente di due cori a due voci) accompagnati da uno strumento, di volta in volta diverso. Tre anni addietro il centro Primo Levi di Genova gli ha richiesto dei brani per coro di voci di bambini così è nato il brano Chicchi di riso su testi di Roberto Dedenaro. L'ultimo lavoro è nato sulla poesia Silenzio scritta da una bambina di 10 anni. “Avvistamenti del sacro nella musica italiana moderna” a cura di Umberto Berti ESTRATTO Le istituzioni ecclesiastiche si sono sempre preoccupate di regolamentare l’accesso delle arti al sacro, in particolare contrastando l’espansione dell’attività creativa nella direzione dell’individualizzazione del rapporto artista / divinità. Già in Platone è riscontrabile l’attribuzione d’un valore etico alle arti, quella del suono in particolare, con l’identificazione di modi musicali connotati da funzioni moralmente positive e negative; tale distinzione qualitativa verrà ciclicamente ripresa dalla chiesa cristiana mediante l’emanazione di istruzioni e direttive tese a circoscrivere il campo di libertà creativa del compositore. La musica è rimasta a lungo inquadrata nei registri etico e metafisico e, attraverso Agostino e Plotino fino a Hegel e Schopenhauer, è stata percepita quale fattore moralmente determinante, possibile mezzo d’elevazione da tenere sotto particolare controllo in quanto estrinsecazione dell’essere, fondamento del reale che si manifesta nelle gerarchie del mondo sensibile. Dalla metà del Settecento si registra però un’incrinatura progressiva di questo fronte di pensiero, parallela alla dispersione dei centri di attività creativa, la chiesa in primo luogo, e alla atomizzazione dei generi artistici e compositivi, anche all’interno del settore sacro. In campo filosofico recentemente si è approdati, con l’opera di Vladimir Jankélévitch, alla definizione di questo mutamento, ovvero alla coniugazione della musica con l’Ineffabile, non più specchio platonico dell’essere ma evento dinamico e immateriale, senza ragione e quindi gratuito, grazia, energia appartenente a una sfera temporale separata e quindi tempo sacro in sé. La musica assume così il ruolo del sacerdote officiante, diviene tempo liturgico in quanto relazione essenziale con la trascendenza che ha il potere di farci percepire in un momento precategoriale del pensiero precedente ogni oggettivazione linguistica. In avvicinamento a questa ottica il rapporto tra il trascendente e il nuovo sacerdote dell’estetismo, l’artista, si è andato progressivamente personalizzando; la questione del sacro si riferisce ora sempre più alla qualità della coscienza dell’artista piuttosto che a una costituzione liturgica. Una serie di provvedimenti pontifici del secolo scorso hanno tentato di contrastare questa conversione del “sacro” in “spirituale individualizzato” in simbiosi col movimento ceciliano, creando un baratro sempre più ampio tra musica liturgica e realtà compositiva. L’applicazione frequentemente distorta del dettato del concilio Vaticano II, con l’apertura all’etnico e al popolare, ha permesso, nei fatti, l’ingresso dei più svilenti moduli della musica commerciale nella liturgia, tradendo ogni precedente tensione verso la salvaguardia estetica ed etica e trascurando invece la ricerca condotta sul piano compositivo nel campo dello ”spirituale”. Lorenzo Perosi fu l’ultimo compositore italiano a tentare, nel primo Novecento, una riconciliazione tra pratica musicale liturgica e realtà compositiva contemporanea; successivamente altri compositori, e in particolare Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, si sono impegnati nell’ambito della musica d’ispirazione sacra, non liturgica o confessionale, producendo pregevoli opere di personale ed elevato impegno insieme estetico e spirituale, utilizzando spesso testi esterni all’alveo religioso riconosciuto dalla chiesa ufficiale e sublimando in diverse simbologie e modalità compositive il loro messaggio. I tre autori che hanno presentato le loro opere “sacre” in occasione di questo ciclo concertistico, Mario Pagotto, Davide Pitis e Battista Pradal, hanno dimostrato una comune “verginità” rispetto alle linee d’evoluzione della scrittura musicale italiana degli ultimi decenni, rivendicando la libertà di muoversi su piani diversi e stratificati, senza rifiuti di linguaggio, ma anche senza l’adesione a ideologie precostituite sul “fare musica nuova”. Il tentativo da loro condotto sembra piuttosto teso al superamento del contrasto tra etica ed estetica esistente contraddittoriamente nell’ambito religioso contemporaneo, appoggiandosi in questo alle recenti affermazioni di sacerdoti poeti come David Maria Turoldo (sui cui testi è imperniato il melologo di Pitis) e di Giovanni Paolo II, che vogliono riaffermare il valore dell’estetica nel messaggio cristiano, riscoprendo quell’area d’intersezione semantica tra bene e bellezza che era ampiamente riconosciuta nel mondo antico. La bellezza anche o soprattutto musicale tende a manifestarsi quale espressione sensoriale del bene, così come il bene costituisce la condizione metafisica della bellezza. Una finestra ad oriente: riflessioni sulla musica di Arvo Pärt. a cura di Mario Pagotto ESTRATTO Arvo Pärt nasce a Paide, in Estonia, nel 1935. A Tallin, lavora, terminati gli studi musicali, come tecnico del suono presso la Radio Estone, dove ha modo di venire in contatto con una notevole quantità di linguaggi musicali del presente e del passato. Parallelamente inizia a comporre musiche per la televisione e per la radio. La sua opera compositiva comincia ad essere notata intorno agli anni '60. Per la cultura ufficiale di regime egli è un compositore d'avanguardia (posizione alquanto scomoda nell'ex URSS), composizioni come Necrolog, Prima e Seconda Sinfonia, adottano il principio della serialità integrale, che solo in quegli anni comincia a penetrare al di là della cortina di ferro. Tuttavia accanto alle punte più avanzate della ricerca linguistica, in Pärt, affiorano da subito stridenti recuperi di stilemi appartenenti al passato. Ne consegue una vera e propria lacerazione linguistica che spesso erompe in maniera drammatica. Egli sperimenta le possibilità combinatorie di linguaggi contemporanei e remoti utilizzando spunti musicali preesistenti, ma decontestualizzati. Ciò avviene, ad esempio, nella composizione orchestrale Collage su B.A.C.H.. A questo punto appare evidente che Pärt non sente come congeniale il linguaggio seriale e tenta di forzarne i principi costruttivi, le rigidezze ideologiche, per renderlo più pulsante e vivo mediante contaminazioni con altri materiali musicali estranei. Lo sforzo però fallisce e ne scaturisce una crisi creativa che farà calare il silenzio nella sua mente. Infatti, per alcuni anni, non compone più. Studia il canto gregoriano e la musica antica, Machaut, Ockenghem, Obrecht, Josquin. Ad eccezione di alcuni lavori di transizione (come la Terza Sinfonia del 1971), la sua produzione riprende intorno alla metà degli anni '70 con le composizioni Cantus in memoriam Benjamin Britten, Frates, Tabula Rasa, nelle quali riesce a stabilire le premesse della sua nuova poetica musicale. Egli sente che una semplice monodia, un singolo suono, finanche il silenzio, sono in grado di svelare un mondo infinito, costituito di risonanze profonde. La sua musica incontra gradualmente il favore del pubblico, meno quello della critica, che spesso si professa scettica. Nei primi anni '80 Pärt si stabilisce a Berlino. Iniziano i grandi lavori sacri, dove sembra che le sue concezioni poetiche trovino più perfetta e convincente realizzazione. Il linguaggio musicale di Pärt si abbevera alle sorgenti dell'Ars Antiqua, dell'Umanesimo e Rinascimento musicale. La sua modernità sta nell'idea di rinuncia e fuga dal così detto evo contemporaneo, sicché il suo messaggio ci estranea dalle ricerche musicali che dagli anni '50 in poi hanno maturato in Europa una sintassi musicale estremamente complessa, tecnologica, in cui trovano piena realizzazione l'estetica al negativo, il pensiero ipertrofico ed entropico, e tutte le precarietà e nevrosi della società contemporanea.