pagina 3 Il Santo burlone Di san Filippo Neri, autentico giullare di Dio, si raccontano tante storielle succose. Questo santo della gioia, attraverso il buon umore ed un pizzico di argutezza, tutta toscana, ha potuto scherzare di se stesso e della sua santità. Sono celebri e sono passati anche all’onore dell’arte pittorica, gli incontri con san Felice da Cantalice a Campo dei Fiori, quando tutti e due scherzavano e si univano con scandalo di molti - e gioia di alcuni – al fiasco di vino che il fratello della questua portava sempre con sé. Un esempio di libertà di spirito e di armonia fraterna. Filippo ha scherzato perfino con Carlo Borromeo, il quale ha voluto sottoporre alla sua santità e alla sua sapienza una Regola per i suoi preti di Milano. Filippo fece venire fino alla casa dell’amico Felice, analfabeta, sul Palatino il Principe della Chiesa. Trovandolo nell’orto disse a Felice di esaminare attentamente lo scritto del porporato, cosa che ovviamente Felice non poteva fare. Il giorno dopo andò a dire all’Arcivescovo di Milano che secondo il parere di quel santo religioso tutto era a posto nella Regola, scritta con tanta fatica. Ed è nota la risposta data a Clemen- te VIII a proposito di una santona della Roma del tempo, celebre per le sue visioni. Inviato a visitarla per ordine del Papa, volle provare la sua santità chiedendole di mettere a posto le sue scarpe sozze e luride, suscitando il rifiuto e lo scandalo della grande santona. Con poche parole seppe dire al suo figlio spirituale, il Sommo Pontefice: “Santità, poca santità”. E scandalizzò alcuni seri personaggi polacchi venuti da lontano a trovarlo, per consultarlo su gravi questioni di coscienza facendoli aspettare mentre si faceva leggere pagine poco edificanti e scherzose di un famoso prete toscano, il Pievano Arlotto. Gesti di libertà di spirito, di una santità che brilla nel saper scherzare anche con se stessi e con gli altri, purchè Dio sia sempre Dio. Lezioni importanti ieri ma anche oggi. Un altro ritratto del Beato Pacifico Tutti noi siamo abituati da sempre a pensare che il nostro Beato avesse l’aspetto disegnato dal Crespi e poi riprodotto mille volte da tutti gli incisori e dai pittori successivi. Nell’immagine che ci è stata tramandata il nostro Patrono appare come un frate di gradevole aspetto, dal viso ben rasato, con i capelli leggermente lunghi ed arricciati sulla nuca, con un’ampia tonsura sul capo. Al contrario, il dipinto raffigurante il Beato Pacifico, recentemente trovato nell’Archivio Diocesano, ci sorprende perché ci mostra un frate con un accenno di barba, con baffi incolti e con una fronte corrugata. Il quadro, probabilmente eseguito da uno sconosciuto pittore settecentesco, raffigura il Beato ritratto a tre quarti su uno sfondo scuro. Pacifico reca nella mano sinistra un libro (la “Summa”) e nella destra un anello su cui è incastonato un diamante; al cordone che cinge la sua persona è legato un rosario. Accanto a lui, su un tavolino, è appoggiato un martello da fabbro. Il dipinto è così strano per un ceranese che si è tentati di pensare: “Ma siamo sicuri che sia davvero il nostro Beato?”. La risposta a questa domanda è facile: in alto, accanto all’aureola che incornicia la testa del Frate, è ben visibile la scritta “Beato Pacifico di Cerano”. Sarebbe ozioso chiederci quale dei due ritratti raffiguri più fedelmente il nostro Beato, dal momento che né il Crespi né l’ignoto autore settecentesco della tela recentemente scoperta avevano mai visto Frate Pacifico da vivo. I pittori avevano probabilmente a disposizione solo una descrizione sommaria del Beato e avevano eseguito il ritratto seguendo la loro fantasia ed i canoni estetici del tempo. I simboli che appaiono sul dipinto in parte ci sono noti e familiari: l’anello rappresenta la fedeltà alla Chiesa e all’Ordine Francescano, la gemma preziosa è un richiamo alla Vergine Maria e il rosario appeso alla cintura è simbolo della devozione del Santo alla Madre di Dio. Ben più ardua risulta la spiegazione del martello, che non troviamo nell’iconogra- Un’unica razza: umana Ricorre tra pochi giorni l’anniversario di una data triste per la Storia italiana: il 15 luglio del 1938 fu pubblicato il cosiddetto “Manifesto degli scienziati razzisti”. Si chiama “manifesto “ ma è un elenco di concetti scritti da un gruppo di ricercatori e professori dell’università scelti da Benito Mussolini, il dittatore fascista. Quegli scienziati scrissero che gli uomini sono divisi in razze, che gli italiani appartengono alla razza migliore, quella ariana, e che tutti coloro che non fanno parte di questa razza (gli africani e gli orientali, in particolare) possono essere trattati come estranei. Il manifesto dice anche che gli ebrei, pur essendo italiani, non fanno parte della razza ariana. Gli scienziati fascisti affermavano un’idea mostruosa facendola passare per una scoperta della scienza: che gli uomini valgono di più o di meno a seconda di dove sono nati o di come vivono. Essere diverso voleva dire essere inferiore: a distanza di settant’anni quelle parole fanno ancora paura, soprattutto perché erano sostenute da politici, intellettuali, professori, scrittori. Quei concetti drammatici erano lontani dall’umanità ma erano lontani anche dalla scienza: non è vero che esistono le razze tra gli uomini, la diversità del colore della pelle o degli occhi non indica l’appartenenza a una razza differente, ma soltanto una provenienza diversa. Nel “manifesto” gli scienziati chiedevano a tutti gli italiani di essere razzisti e di non mescolarsi con chi apparteneva a razze diverse. Molti purtroppo seguirono il loro invito. A distanza di pochi mesi, dai concetti razzisti deriveranno altre scelte fasciste sempre più gravi; anzitutto le “Leggi razziali”, che allontanavano gli ebrei dalla vita pubblica, toglievano loro tutto e li costringevano a vivere nel terrore. Pacifico, grande operaio nella vigna Evangelica fia tradizionale del Beato. Probabilmente, questo oggetto simboleggia la forza con cui Pacifico predicava per bandire la Crociata e l’energia con cui si batteva contro i vizi della società del suo tempo. Naturalmente è difficile dare un’interpretazione sicura di questo particolare, dal momento che per noi è arduo calarci nella mentalità secentesca e comprenderne la complicata simbologia. L’opera attualmente non è in buone condizioni di conservazione: una piccola parte della tela risulta deteriorata e il colore originario è coperto da uno spesso strato di vernice lucida che ha alterato i colori dell’opera. Sarà forse necessario, per questa ragione, ricorrere ad un intervento di restauro che restituisca al dipinto l’originaria cromia e che rinforzi la tela di canapa nei punti in cui risulta compromessa. Aldilà del valore artistico dell’opera, che è difficile da giudicare, il ritratto ci dà un’ulteriore dimostrazione di quanto fosse diffusa la devozione al Beato Pacifico nel Settecento. Le immagini del Patrono non erano presenti solo nel paese di origine di Frate Pacifico, ma anche in tutto il circondario e nello stesso capoluogo. A questo punto non rimane che attendere l’occasione di vedere nel nostro paese quest’opera a tutti ignota. Così viene chiamato il nostro Beato nel libretto intitolato “Vita del Beato Pacifico” pubblicato nel 1745, in un italiano del settecento e di difficile interpretazione. Ne è stata ultimata la traduzione ed il risultato è un’opera molto interessante da cui emergono, con un linguaggio più comprensibile, la sensibilità e l’intelligenza di un umile frate. Egli seguì, come dice il libretto, “le pedate (le orme) di buoni religiosi”, sotto la protezione della Madonna, tanto da desiderare di “essere per sempre tutto suo”. Con la lettura di questo testo, noi Ceranesi, che siamo soliti ricorrere al Beato solo per chiedere grazie e protezione, potremmo arricchirci nel conoscere Pacifico com’è stato in vita. Fu un uomo colto, con innate doti, preparato per gli incarichi più ragguardevoli, stimato da tutti, ricco di conoscenze filosofiche, teologiche e di diritto canonico. Convertì, predicò, curò le anime come guida spirituale e non tralasciò l’ubbidienza al Papa e ai Superiori: fu quindi uomo di eroica umiltà. I numerosi conventi da lui fondati dimostrano quanto Pacifico avesse predicato e raccolto i frutti delle sue fatiche. Nel suo cuore, Cerano occupò sempre il primo posto e i ventidue e più miracoli ricordati in queste pagine, dimostrano l’amore per i suoi paesani. Commuove leggere che “la popolazione vive col nome di Pacifico in bocca e con la devozione di Pacifico in cuore”. Così le parole più ricorrenti nel momento del bisogno sono: ´Padre Pacifico, venite ad aiutarmi! ´lo sono di parola — risponde - appena tu mi chiami. Tanto tenero fu anche il commiato che il Beato ebbe con i Ceranesi alla partenza per la Sardegna: ´Miei amatissimi, mi resta poco da vivere, voglio che le mie ceneri restino a voi che mi foste cari come la pupilla dei miei occhi. Toccante fu anche il modo con cui i Ceranesi intrapresero il viaggio per riportare l’amato Corpo a Cerano. Per sicurezza, temendo un probabile agguato, staccarono il capo dal resto del corpo e nascosero entrambi sotto una grande quantità di lana, in modo da simulare un trasporto di merce da parte di finti mercanti. I Ceranesi lo amavano così tanto che temevano di perderlo. AI termine di questa traduzione, ci emoziona la richiesta dell’autore al Beato di intercedere per “perfezionare la nostra vita sul modello della Sua”. Se pensiamo che si tratta di una preghiera formulata nel 1700, dobbiamo credere come ancora e soprattutto ai giorni nostri l’esempio del Beato sia valido e debba essere seguito.