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Il Santo burlone
Di san Filippo Neri, autentico giullare di Dio, si
raccontano tante storielle
succose. Questo santo della gioia, attraverso il buon
umore ed un pizzico di argutezza, tutta toscana, ha
potuto scherzare di se stesso e della sua santità. Sono
celebri e sono passati anche all’onore dell’arte pittorica, gli incontri con san
Felice da Cantalice a Campo dei Fiori, quando tutti e
due scherzavano e si univano con scandalo di molti
- e gioia di alcuni – al fiasco di vino che il fratello
della questua portava sempre con sé. Un esempio di
libertà di spirito e di armonia fraterna. Filippo ha
scherzato perfino con Carlo Borromeo, il quale ha
voluto sottoporre alla sua
santità e alla sua sapienza
una Regola per i suoi preti
di Milano. Filippo fece
venire fino alla casa dell’amico Felice, analfabeta,
sul Palatino il Principe
della Chiesa. Trovandolo
nell’orto disse a Felice di
esaminare attentamente lo
scritto del porporato, cosa
che ovviamente Felice
non poteva fare. Il giorno
dopo andò a dire all’Arcivescovo di Milano che secondo il parere di quel
santo religioso tutto era a
posto nella Regola, scritta
con tanta fatica. Ed è nota
la risposta data a Clemen-
te VIII a proposito di una
santona della Roma del
tempo, celebre per le sue
visioni. Inviato a visitarla
per ordine del Papa, volle
provare la sua santità
chiedendole di mettere a
posto le sue scarpe sozze e
luride, suscitando il rifiuto
e lo scandalo della grande
santona. Con poche parole seppe dire al suo figlio spirituale, il Sommo
Pontefice: “Santità, poca
santità”. E scandalizzò
alcuni seri personaggi
polacchi venuti da lontano a trovarlo, per consultarlo su gravi questioni
di coscienza facendoli
aspettare mentre si faceva leggere pagine poco
edificanti e scherzose di
un famoso prete toscano,
il Pievano Arlotto. Gesti
di libertà di spirito, di
una santità che brilla nel
saper scherzare anche
con se stessi e con gli altri, purchè Dio sia sempre
Dio. Lezioni importanti ieri ma anche oggi.
Un altro ritratto del Beato Pacifico
Tutti noi siamo abituati da sempre a
pensare che il nostro Beato avesse l’aspetto disegnato dal Crespi e poi riprodotto
mille volte da tutti gli incisori e dai pittori
successivi. Nell’immagine che ci è stata
tramandata il nostro Patrono appare come
un frate di gradevole aspetto, dal viso ben
rasato, con i capelli leggermente lunghi ed
arricciati sulla nuca, con un’ampia tonsura
sul capo.
Al contrario, il dipinto raffigurante il
Beato Pacifico, recentemente trovato nell’Archivio Diocesano, ci sorprende perché
ci mostra un frate con un accenno di barba, con baffi incolti e con una fronte corrugata. Il quadro, probabilmente eseguito
da uno sconosciuto pittore settecentesco,
raffigura il Beato ritratto a tre quarti su
uno sfondo scuro. Pacifico reca nella mano sinistra un libro (la “Summa”) e nella
destra un anello su cui è incastonato un
diamante; al cordone che cinge la sua persona è legato un rosario. Accanto a lui, su
un tavolino, è appoggiato un martello da
fabbro.
Il dipinto è così strano per un ceranese
che si è tentati di pensare: “Ma siamo sicuri che sia davvero il nostro Beato?”. La
risposta a questa domanda è facile: in alto, accanto all’aureola che incornicia la
testa del Frate, è ben visibile la scritta
“Beato Pacifico di Cerano”.
Sarebbe ozioso chiederci quale dei
due ritratti raffiguri più fedelmente il
nostro Beato, dal momento che né il
Crespi né l’ignoto autore settecentesco
della tela recentemente scoperta avevano mai visto Frate Pacifico da vivo. I
pittori avevano probabilmente a disposizione solo una descrizione sommaria
del Beato e avevano eseguito il ritratto
seguendo la loro fantasia ed i canoni
estetici del tempo.
I simboli che appaiono sul dipinto in
parte ci sono noti e familiari: l’anello rappresenta la fedeltà alla Chiesa e all’Ordine Francescano, la gemma preziosa è un
richiamo alla Vergine Maria e il rosario
appeso alla cintura è simbolo della devozione del Santo alla Madre di Dio.
Ben più ardua risulta la spiegazione del
martello, che non troviamo nell’iconogra-
Un’unica razza: umana
Ricorre tra pochi giorni
l’anniversario di una data
triste per la Storia italiana:
il 15 luglio del 1938 fu
pubblicato il cosiddetto
“Manifesto degli scienziati
razzisti”. Si chiama “manifesto “ ma è un elenco di
concetti scritti da un gruppo di ricercatori e professori dell’università scelti
da Benito Mussolini, il dittatore fascista. Quegli
scienziati scrissero che gli
uomini sono divisi in razze, che gli italiani appartengono alla razza migliore, quella ariana, e che tutti coloro che non fanno
parte di questa razza (gli
africani e gli orientali, in
particolare) possono essere
trattati come estranei. Il
manifesto dice anche che
gli ebrei, pur essendo italiani, non fanno parte della
razza ariana. Gli scienziati
fascisti affermavano un’idea mostruosa facendola
passare per una scoperta
della scienza: che gli uomini valgono di più o di
meno a seconda di dove
sono nati o di come vivono. Essere diverso voleva
dire essere inferiore: a distanza di settant’anni quelle parole fanno ancora
paura, soprattutto perché
erano sostenute da politici,
intellettuali, professori,
scrittori. Quei concetti
drammatici erano lontani
dall’umanità ma erano
lontani anche dalla scienza: non è vero che esistono
le razze tra gli uomini, la
diversità del colore della
pelle o degli occhi non indica l’appartenenza a una
razza differente, ma soltanto una provenienza diversa. Nel “manifesto” gli
scienziati chiedevano a
tutti gli italiani di essere
razzisti e di non mescolarsi con chi apparteneva a
razze diverse. Molti purtroppo seguirono il loro invito. A distanza di pochi
mesi, dai concetti razzisti
deriveranno altre scelte fasciste sempre più gravi;
anzitutto le “Leggi razziali”, che allontanavano gli
ebrei dalla vita pubblica,
toglievano loro tutto e li
costringevano a vivere nel
terrore.
Pacifico, grande operaio
nella vigna Evangelica
fia tradizionale del Beato. Probabilmente,
questo oggetto simboleggia la forza con
cui Pacifico predicava per bandire la Crociata e l’energia con cui si batteva contro
i vizi della società del suo tempo. Naturalmente è difficile dare un’interpretazione sicura di questo particolare, dal momento che per noi è arduo calarci nella
mentalità secentesca e comprenderne la
complicata simbologia.
L’opera attualmente non è in buone
condizioni di conservazione: una piccola
parte della tela risulta deteriorata e il colore originario è coperto da uno spesso
strato di vernice lucida che ha alterato i
colori dell’opera. Sarà forse necessario,
per questa ragione, ricorrere ad un intervento di restauro che restituisca al dipinto l’originaria cromia e che rinforzi la tela
di canapa nei punti in cui risulta compromessa.
Aldilà del valore artistico dell’opera,
che è difficile da giudicare, il ritratto ci dà
un’ulteriore dimostrazione di quanto fosse
diffusa la devozione al Beato Pacifico nel
Settecento. Le immagini del Patrono non
erano presenti solo nel paese di origine di
Frate Pacifico, ma anche in tutto il circondario e nello stesso capoluogo.
A questo punto non rimane che attendere l’occasione di vedere nel nostro paese
quest’opera a tutti ignota.
Così viene chiamato il
nostro Beato nel libretto
intitolato “Vita del Beato
Pacifico” pubblicato nel
1745, in un italiano del
settecento e di difficile interpretazione. Ne è stata
ultimata la traduzione ed il
risultato è un’opera molto
interessante da cui emergono, con un linguaggio più
comprensibile, la sensibilità e l’intelligenza di un
umile frate. Egli seguì, come dice il libretto, “le pedate (le orme) di buoni religiosi”, sotto la protezione
della Madonna, tanto da
desiderare di “essere per
sempre tutto suo”.
Con la lettura di questo
testo, noi Ceranesi, che
siamo soliti ricorrere al
Beato solo per chiedere
grazie e protezione, potremmo arricchirci nel conoscere Pacifico com’è
stato in vita. Fu un uomo
colto, con innate doti, preparato per gli incarichi più
ragguardevoli, stimato da
tutti, ricco di conoscenze
filosofiche, teologiche e di
diritto canonico. Convertì,
predicò, curò le anime come guida spirituale e non
tralasciò l’ubbidienza al
Papa e ai Superiori: fu
quindi uomo di eroica
umiltà.
I numerosi conventi da
lui fondati dimostrano
quanto Pacifico avesse
predicato e raccolto i frutti
delle sue fatiche. Nel suo
cuore, Cerano occupò
sempre il primo posto e i
ventidue e più miracoli ricordati in queste pagine,
dimostrano l’amore per i
suoi paesani. Commuove
leggere che “la popolazione vive col nome di Pacifico in bocca e con la devozione di Pacifico in cuore”. Così le parole più ricorrenti nel momento del
bisogno sono: ´Padre Pacifico, venite ad aiutarmi!
´lo sono di parola — risponde - appena tu mi
chiami.
Tanto tenero fu anche il
commiato che il Beato ebbe con i Ceranesi alla partenza per la Sardegna:
´Miei amatissimi, mi resta poco da vivere, voglio
che le mie ceneri restino
a voi che mi foste cari come la pupilla dei miei occhi.
Toccante fu anche il modo con cui i Ceranesi intrapresero il viaggio per riportare l’amato Corpo a
Cerano. Per sicurezza, temendo un probabile agguato, staccarono il capo dal
resto del corpo e nascosero
entrambi sotto una grande
quantità di lana, in modo
da simulare un trasporto
di merce da parte di finti
mercanti. I Ceranesi lo
amavano così tanto che
temevano di perderlo.
AI termine di questa
traduzione, ci emoziona
la richiesta dell’autore al
Beato di intercedere per
“perfezionare la nostra
vita sul modello della
Sua”. Se pensiamo che si
tratta di una preghiera formulata nel 1700, dobbiamo credere come ancora e
soprattutto ai giorni nostri
l’esempio del Beato sia
valido e debba essere seguito.
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