242 con il patrocinio di La n os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio Rassegna Stampa 14 febbraio 2016 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 6/2/2016 Appuntamento a Cuba Il genocidio dei cristiani mediorientali è il motore dell'incontro Papa-Kirill L'annuncio del colloquio tra il Pontefice e il Patriarca di Mosca. Lo stato dei rapporti bilaterali, le partite geopolitiche "I problemi restano" Roma. Per capire le ragioni dello storico incontro tra il Papa mosso Kirill ad acconsentire al colloquio con Francesco, e e il Patriarca di Mosca Kirill in programma all'aeroporto cioè "la necessità di mettere da parte i disaccordi interni e internazionale dell'Avana, il prossimo 12 febbraio (con la unire gli sforzi per salvare il cristianesimo nelle regioni in benedizione del presidente cubano Raúl Castro, gran cui è sottoposto alla persecuzione più dura". È stato il mediatore dell'evento), è necessario leggere la nota Patriarca, si chiarisce in Russia, a escludere fin dal diffusa ieri all'ora di pranzo dal Patriarcato russo. Il principio la possibilità che l'incontro - preparato a lungo, ha comunicato stampa congiunto dà conto della "gioia" fatto sapere padre Federico Lombardi - si potesse tenere in provata nel dare il lieto annuncio e mette nero su bianco lo Europa, troppo segnata da una storia di scismi, conflitti e stato dei rapporti tra Santa Sede e Mosca. Pur essendo un divisioni. Il menù del colloquio è top secret, ma da Mosca punto di vista parziale, si sottolinea subito che i problemi fanno sapere che se il piatto forte sarà la situazione dei sul tappeto rimangono tutti, e le due ore di colloquio cristiani in medio oriente, tempo adeguato sarà riservato a riservato previste alla presenza dei soli interpreti non fare il punto sullo stato delle relazioni internazionali e, più in potranno sciogliere nodi che si trascinano da decenni e in generale, sulla politica globale. Al termine dell'incontro, il qualche caso da secoli. C'è la questione degli uniati (i Papa - che subito dopo partirà alla volta del Messico per il cristiani d'oriente fedeli a Roma) che - si legge nel corposo previsto viaggio apostolico - e Kirill firmeranno una messaggio russo - "hanno devastato tre diocesi del dichiarazione comune, che si preannuncia articolata. patriarcato di Mosca nell'Ucraina occidentale tra gli anni Nessun evento religioso collaterale è previsto, forse anche Ottanta e Novanta". La crisi tra la Russia e l'Ucraina non per la location aeroportuale scelta. Già tra il 1996 e il 1997 ha fatto altro che aggravare il problema e ciò "impedisce la le due parti sembravano ormai prossime ad accordarsi su piena normalizzazione delle relazioni tra le due chiese". un incontro tra Giovanni Paolo II e Alessio II in territorio Tuttavia, quanto sta accadendo nel vicino oriente, austriaco, ma i negoziati saltarono all'ultimo a causa di nell'Africa centrale e settentrionale e in altre regioni del problemi legati a quello che Mosca definì (e lo fa ancora mondo "ha richiesto misure urgenti e una cooperazione più oggi, senza attenuare i toni bellicosi dell'epoca) "il stretta tra le chiese cristiane", sottolinea il comunicato proselitismo dei missionari cattolici nel territorio canonico moscovita che parla esplicitamente di "estremisti che del Patriarcato" e l'attivismo "dei greco -cattolici in stanno perpetrando un vero genocidio della popolazione Ucraina". cristiana". È questo il presupposto fondamentale che ha Twitter @matteomatzuzzi. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 2 10/2/2016 L'orrore delle Foibe insegni all'Europa integrazione e fiducia. Giorno del Ricordo di Paolo Gentiloni Sono trascorsi oltre dieci anni dall'istituzione del "Giorno del Ricordo" per le vittime delle foibe e dell'esodo fiumano-giuliano-dalmata, la tragedia della minoranza italiana dell'Adriatico orientale. Un intervallo di tempo sufficiente ad abbozzare un bilancio e a muovere alcune considerazioni rivolte al futuro. Innanzitutto, si può affermare che la narrazione di questa tragedia si sia svincolata dalle letture ideologiche. Letture ideologiche che l'hanno condizionata per decenni. Paiono lontane le strumentalizzazioni, lacerazioni, rimozioni e aggressioni del Dopoguerra – in alcuni casi di una crudeltà oggi difficilmente immaginabile – e assai accresciuta la disponibilità della comunità nazionale a considerare questa vicenda un patrimonio costitutivo della nostra identità. Non mancano episodi di intolleranza residuali, da contrastare con l'evidenza storica dei fatti, ma assai più significativo risulta il successo dello spettacolo "Magazzino 18" di Simone Cristicchi che mette in scena la memoria di questa tragedia avvenuta nell'Europa del secondo Dopoguerra. A tutto ciò ha certamente contribuito l'impegno delle istituzioni, a partire dalla celebrazione prestigiosa svolta ogni anno dal Presidente della Repubblica. Il che mostra quanto le ricorrenze possano servire a forgiare a quel "calendario civile" necessario a formare una memoria e dunque una identità condivisa. Certo, bisogna proseguire nello sforzo che il Governo sta compiendo per definire tutte le questioni ancora aperte. Da questo punto di vista – anche grazie al contributo delle personalità che si sono impegnate in tal senso – occorre trovare un compromesso alto e soddisfacente in grado di rappresentare nel modo più giusto le istanze di coloro che furono costretti a migrare e i cui diritti furono violati. Un'eventuale fondazione preposta a ricevere i risarcimenti sloveni e croati dovrebbe dotarsi di strumenti e obiettivi di livello indiscutibile: su questo si è ormai coagulato un consenso crescente, che vede nelle attività culturali, di ricerca e formazione delle nuove generazioni la destinazione principale e più significativa dei fondi a disposizione. Infine, occorre riprendere e approfondire il dialogo L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 con i nostri alleati adriatici perché si giunga ad alcuni gesti "politici" dal grande valore simbolico. Colpisce una circostanza: le stesse contrade che furono teatro di massacri, guerre e deportazioni ospitano oggi una migrazione epocale, esito di un mondo irto di conflitti. Per evitare gli errori del passato, è qui che dobbiamo impegnarci a costruire un'Europa diversa e migliore. Un'Europa capace di offrire un orizzonte di sviluppo e integrazione anche grazie al progetto della macro-regione adriatico-ionica. Un continente che esporti solidarietà e giustizia e non muri o fili spinati. Per questo c'è bisogno di un dialogo proficuo tra i partner dell'area adriatica e mediterranea. Un dialogo che faccia i conti con un passato doloroso e che possa guardare al futuro all'insegna della collaborazione e della fiducia. Ministro degli Esteri © RIPRODUZIONE RISERVATA. 4/2/2016 Nosiglia «Figli, non oggetti. Il ddl non faccia confusioni» Il ddl Cirinnà «non parla di matrimonio, ma negli articoli della legge, poi, di fatto si applicano a tale formazione specifica tutti i diritti e le disposizioni del Codice civile proprie del matrimonio eterosessuale, per cui c'è una indebita equiparazione tra l'uno e altro istituto». E quanto afferma l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, in un'intervista al settimanale diocesano La Voce del Popolo. «Una equiparazione del genere non è ammissibile - aggiunge - per cui se è legittimo per uno Stato laico regolare i diritti e doveri delle coppie conviventi o omosessuali, è altrettanto doveroso stabilire per queste unioni norme specifiche» diverse «da quelle previste per la famiglia fondata sul matrimonio». Secondo Nosiglia «i più deboli e indifesi, in questa materia, sono i bambini soggetti alla volontà e al potere degli adulti che li considerano loro proprietà fino a privarli, con la perversa pratica dell'utero in affitto», del rapporto con la madre. «È una forma di schiavitù che, per assecondare il presunto diritto di un adulto, distrugge quello fondamentale del bambino. Il bambino non è un diritto, un prodotto di consumo da manovrare secondo il desiderio di chi lo obbliga a una crescita innaturale». pagina 3 8/2/2016 Embrioni Riscrittura del Dna, chiedere moratorie non basta più Negli anni Settanta i premi Nobel Dulbecco e Baltimore chiedevano una sospensione sulla ingegneria genetica. Le nuove ricerche in Gran Bretagna sugli embrioni hanno riacceso il dibattito. Ma tutto è cambiato di ROBERTO SATOLLI Non sono un biologo molecolare, per cui mi stupisco di trovare spesso nella casella dello spam, tra occasioni di sesso e trappole di fishing, anche offerte di acquisto di sistemi Crispr/Cas, gli stessi di cui le autorità britanniche hanno autorizzato l'uso su embrioni umani per modificarne il genoma. È un utensile molecolare scoperto solo tre anni fa, sul quale infuriano due accese battaglie: quella per il brevetto e lo sfruttamento economico; e quella sui confini etici e legali oltre cui non ci si dovrebbe spingere. Consente di "riscrivere" il Dna con semplicità e precisione tali da aprire la porta a possibilità sino a ieri impensabili, in tutti i campi della biologia, compresa la correzione di gravi malattie ereditarie, come la distrofia muscolare o l'emofilia. Sembra di essere tornati agli anni settanta, quando David Baltimore (premio Nobel nel 1975 con Renato Dulbecco) promosse ad Asilomar una celebre moratoria sulla tecnica del Dna ricombinante, che si chiamava allora "ingegneria genetica". Ora si parla invece di "editing genetico", e sarebbe interessante approfondire tutte le implicazioni del cambiamento di metafora. È certo che l'allarme sembra ora più concreto e immediato, perché modificando il genoma umano a livello di cellule germinali (spermatozoi, uova ed embrioni), oltre a eliminare cause di malattia si potrebbe essere tentati anche di provare a migliorare anche caratteri fisici o intellettuali; e d'altra parte ogni svista compiuta su un singolo individuo verrebbe pagata indefinitamente dalle generazioni future. Anche gli argomenti non sono cambiati molto in questi 40 anni: giocare a fare Dio, sostituirsi all'evoluzione naturale, avventurarsi su una china scivolosa senza conoscere tutte le possibili conseguenze, da una parte; pesare pragmaticamente i vantaggi e gli svantaggi, concedere ai malati la speranza di una possibile soluzione, non frenare il progresso delle conoscenze e dell'umanità, dall'altro. Questo la dice lunga su quanto la rapidità con cui avanzano le biotecnologie sorpassi di molte lunghezze l'arrancare della società nel maturare una sufficiente consapevolezza della posta in gioco. Sono passati meno di due mesi da quando a New York si sono incontrati scienziati americani, cinesi, britannici e di altri Paesi per cercare di concordare una linea comune internazionale, e già Londra ha rotto gli indugi col via libera a un esperimento su embrioni umani sani, da distruggere però dopo una settimana di sviluppo: lo scopo quindi è di ricerca pura e non applicativo. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 Un nuovo utensile molecolare consente di modificare con tale facilità e precisione il genoma che gli scopritori stessi invocano prudenza prima di applicarlo anche all'uomo per produrre modifiche che si trasmettano alle generazioni future. La discussione riempie le pagine di riviste come l'europea Nature e l'americana Science, ed è stata innescata tra gli altri dai Nobel Paul Berg e David Baltimore. Sembra un déjà vu: gli stessi scienziati furono i promotori della celebre moratoria di Asilomar, esattamente 40 anni fa, quando con la tecnica del DNA ricombinante faceva i primi passi quella che allora si chiamava "ingegneria" e oggi "editing" del DNA . Al di là delle metafore che cambiano, ora l'allarme appare più concreto e immediato, perché modificando il genoma umano a livello di cellule germinali (spermatozoi, uova ed embrioni), oltre ad eliminare cause di malattia si potrebbe essere tentati di creare caratteri fisici o intellettuali da superuomini. Anche gli argomenti sembrano gli stessi di allora: sostituirsi a dio, o all'evoluzione naturale, avventurarsi su una china scivolosa senza conoscerne i rischi, pesare pragmaticamente i vantaggi e gli svantaggi e così via. Questo conferma il divario di velocità tra il progresso delle biotecnologie e la maturazione della consapevolezza e della riflessione filosofica che dovrebbe accompagnarlo. Le somiglianze con Asilomar però finiscono qui. Tutto è cambiato. Non c'è più solo il dominio incontrastato della scienza americana: sarebbero in attesa di pubblicazione imminente i risultati di esperimenti sul genoma umano fatti da ricercatori cinesi. E non c'è più solo l'accademia, cui in genere appartengono i proponenti della moratoria: una miriade di start up e di spin off dominano il campo e raccolgono capitali di rischio in cerca di possibili affari. In compenso, leggi e regole non sono più assenti, come allora, anche se variamente articolate e stringenti. La manipolazione del genoma germinale umano è vietata per legge in gran parte d'Europa, mentre è solo soggetta alla vigilanza delle autorità sanitarie negli Usa o in Cina, e senza restrizioni in molti altri Paesi. L'arma della moratoria in stile anni Settanta sembra perciò spuntata, e si può persino sospettare che alcuni dei firmatari abbiano aderito solo per far parlare di sé: nessuno vuole davvero bloccare una ricerca che promette di rivoluzionare il futuro dell'umanità. Proprio per questo, più che una discussione tra gli addetti ai lavori con argomenti ormai triti, sarebbe urgente uno sforzo di democrazia globale per rendere coscienti i cittadini del mondo intero di quale sia la posta in gioco. pagina 4 7/2/2016 Sant'Ambrogio protagonista di GIANLUCA BRIGUGLIA Se oggi la figura di Sant'Ambrogio è ancora molto presente nell'immaginario della città di Milano - almeno per alcuni suoi luoghi fortemente simbolici, o per la data del 7 dicembre, che hanno assunto anche una valenza generale nel gioco dell'identità nazionale italiana - non bisogna pensare che la memoria di Ambrogio, vescovo della città nel IV secolo, sia stata oggetto di una storia univoca, esclusivamente pacificante, senza scosse, ripensamenti, rielaborazioni. Piuttosto la memoria di Ambrogio è stata associata alla città di Milano attraverso sedimentazioni successive, momenti di svolta e torsioni concettuali, simboliche e politiche continue. Basterebbe pensare a come il lascito ambrosiano nel rito e nella liturgia abbiano contribuito all'idea di una specialità della chiesa milanese, che sopravvive - per quanto molto depotenziata anche alla riforma ecclesiastica dell'XI secolo, cioè all'epoca del tentativo di centralizzazione e di egemonia - tentativo coronato da successo - da parte della chiesa di Roma. Nei secoli le identità ecclesiali e le identità politiche e cittadine interagiscono, a volte crescendo insieme e potenziandosi, altre volte producendo contrasti, scarti, tentativi di appropriazione di memorie antiche invertendone il significato. Ambrogio diventa così tra Medioevo ed epoca moderna il santo che affrontò l'imperatore romano per difendere la sua comunità quindi con una valenza antimperiale -, ma anche il vescovo di una Milano che era stata capitale dell'impero, cioè di ogni autorità politica, o ancora, in tempi diversi, può venire evocato come il protettore di una Milano "repubblica ambrosiana" per la quale L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 combattere in un sistema di parti cittadine e di interessi diversi. Patrick Boucheron, storico del Collège de France, e Stéphane Gioanni, direttore della sezione di studi medievali del centro di ricerca École Française di Roma, hanno appena pubblicato un corposo e importante volume che raccoglie i risultati delle ricerche di una ventina di ricercatori francesi e italiani proprio su La memoria di Ambrogio di Milano (dal V al XVIII secolo). Il libro si colloca nell'ambito di un progetto di più lunga durata che ha come obiettivo quello di rianalizzare la categoria di "padre della Chiesa" nella sua costituzione storica, cioè appunto nel suo essere sottoposta a tensioni, riletture a posteriori, ideologie, processi identitari, religiosi, politici. In questo volume, il cui protagonista non è Ambrogio in quanto tale, ma la costruzione della sua memoria, gli scarti e le attualizzazioni vengono visti seguendo piste diverse e interdisciplinari. Una prima sezione è consacrata ai luoghi e ai monumenti di questa memoria, e alle appassionanti vicende iconografiche sul santo, mentre una seconda sezione mette a fuoco le fonti e gli scritti che nei secoli medievali fanno di Ambrogio un'autorità patristica. Una terza parte fa di Ambrogio l'oggetto delle controversie dottrinali e politiche di vari partiti o tendenze ecclesiali in campo fino al XV secolo, mentre l'ultima parte raccoglie saggi sull'utilizzo di Ambrogio in epoca ormai moderna, con la Riforma come nuovo orizzonte storico. Il risultato è un mosaico di interpretazioni e sondaggi che ha la capacità di mostrare la complessità di una memoria che non ha mai cessato di essere ripensata. © RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 5 9/2/2016 CYBERBULLI I prepotenti del web di ROSSANASISTI Nessuno attraversa la strada senza guardare. E nessuno si lancerebbe da un aereo senza sapere come maneggiare il paracadute. Nessuno entrerebbe in un bar urlando a squarciagola la prima cosa che gli passa per la mente e solo un incosciente arrivando in una grande città si avventurerebbe alla cieca in certi posti pericolosi che sarebbe meglio evitare. «Eppure sconcerta la disinvoltura con cui la maggior parte dei ragazzi - e non solo loro - naviga in internet, usa smartphone, apre profili facebook, scarica app e passa da un social network all'altro scambiando con spensieratezza informazioni, battute, scherzi, foto di ogni genere e video. Immaginando la Rete come un universo etereo dove le cose magicamente appaiono e scompaiono per sempre semplicemente schiacciando un tasto e in cui protetti dallo schermo si può spaziare liberamente senza problemi. Un'ingenuità. In realtà il web è un mondo chiuso, dove si incontrano ostacoli e trabocchetti, un mondo pieno di regole di comportamento che bisognerebbe imparare così come si impara a stare nel mondo reale. Senza mai dimenticare che si è dentro uno spazio in cui tutto viene archiviato, controllato, processato e niente muore mai. Un graffito sul muro si cancella con un colpo di vernice, sul web non c'è vernice che tenga. È per sempre. Perciò ogni manovra fatta alla leggera espone a rischi e pericoli che bisogna conoscere per starne alla larga». Teo Benedetti la Rete la frequenta fin da quando sono nati chat e blog. Di questa passione ha fatto una professione, quella di social media manager, figura che corrisponde al responsabile della comunicazione aziendale attraverso i social network. La seconda vita di Teo Benedetti, che per altro corre parallela alla prima, è invece densa di scrittura e di libri per ragazzi. Con Davide Morosinotto - anche lui parte del gruppo di autori autodefinito degli Immergenti - Teo Benedetti firma un vademecum per l'uso dei social intitolato Cyberbulli al tappeto (Editoriale Scienza, pagine 96, euro 13,90), un manuale che spiega le strategie e le tecniche di autodifesa nell'uso dei social network, affronta le zone d'ombra della vita digitale, racconta le trappole in cui si può cadere e i rischi che si corrono a parlare troppo di sé o a mettere in piazza gli affari altrui, magari solo per ridere un po'. Non per spaventare ma per incoraggiare un uso consapevole e anche più ricco della Rete. «Abbiamo messo nelle mani dei ragazzi - spiega - macchine lanciate a gran velocità ma chi ha spiegato loro che la prima regola per muoversi in sicurezza nel- la Rete è darsi delle regole pratiche, chiare e rigide? Limiti da non oltrepassare, perché esagerare è fin troppo facile. Chi mostra loro quali e quanti muri si possono alzare per bloccare, isolare e anche L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 allontanare da un social un prepotente o un molestatore? Spesso i più non conoscono neppure la differenza tra social privati e pubblici. È divertente fare una foto un po' scema a un amico, è bello riderci su per scherzo ma se quella foto viene condivisa con settecento persone e tutte iniziano a prendere in giro il malcapitato, la cosa non è più tanto divertente. I ragazzi sanno che hanno ceduto a quel social network tutti i diritti di quella foto, e che potrebbero vederla utilizzata in altri contesti? Sanno che cosa sottoscrivono quando accettano le condizioni di uso, previste per iscriversi a un social o per scaricare una app?». Belle domande, soltanto alcune delle tante che ruotano attorno al delicato tema della privacy e conducono dritte al capitolo del cyberbullismo, un fenomeno preoccupante in crescita. Prendere in giro un compagno a tu per tu può essere uno scherzo innocente e divertente ma metterlo in ridicolo a sua insaputa sui social, denigrarlo o far girare ripetutamente voci e pettegolezzi sul suo conto sono veri e propri atti di cyberbullismo. A cui si può contribuire anche indirettamente, stando al gioco come fa il branco, ridendo delle battute, tacendo davanti ai messaggi offensivi. «Sapere come funziona il web e cosa c'è dietro il mondo dei social - continua Benedetti - dare un nome alla cose che succedono, sono il primo livello di consapevolezza e di autodifesa. La comunicazione digitale non ha tono. Dietro le righe di una chat o di un commento su facebook è difficile sapere se uno sta ridendo o è disperato, se è sereno o molto solo. È facile essere fraintesi, non capire lo scherzo o diventare bersaglio di attacchi violenti. Il linguaggio social è estremamente veloce e sintetico e conta su un'attenzione di pochi secondi. È un terreno che moltiplica il potere dei cyberbulli ». Tutto può nascere per una battuta stupida su whatsapp, da una bravata o da un vero e proprio attacco ma il potenziamento della Rete può essere devastante. «Un prepotente l'abbiamo conosciuto tutti nella vita - racconta Teo Benedetti - ricordo bene alle medie come giravo alla larga dalla classe del bullo della scuola, il mio terrore era incrociarlo da solo nel corridoio o all'angolo della strada. La tecnologia cambia tutto. Le informazioni sono facili da trovare e diffondere e le prepotenze si gonfiano e si moltiplicano in un istante. Il bullo tradizionale vive in uno spazio fisico mentre il cyberbullo si stacca dal tempo e dal luogo, può colpire sempre, attaccare in ogni momento; se conosce il mio indirizzo mail può tempestarmi di messaggi, mi può trovare su facebook, arrivare nelle chat e nei gruppi che frequento. Si diverte, si sente invisibile e invincibile. Ma non è così e noi lo dimostriamo». È tempo di allenarsi all'autodifesa e di passare al contrattacco. Spesso i cyberbulli colti sul fatto scoppiano a piangere. RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 6 9/2/2016 Fronteggiare calcoli ostili e inerzie speculative LE MACCHINE SCAVANO PRECIPIZI (ANCHE IN BORSA) di MARCO GIRARDO Ci sono 'forze' tutt'altro che occulte a spingere da inizio anno le Borse all'ingiù. Ma è una variabile nascosta ad amplificare la caduta, trasformando la pioggia di vendite in una tempesta perfetta per la quale, al momento, non sembra esserci ombrello che tenga: la cecità connaturata di chi spara ordini a raffica senza tener conto del quadro economico, monetario o finanziario che sia, semplicemente perché il suo sistema nervoso digitale reagisce in una frazione di secondo a uno stimolo algoritmico. Proprio così: i mercati scenderebbero sicuramente anche da soli, dato il contesto, ma a mandarli al tappeto - generando panico - sono i robot. Partiamo in ogni caso da ciò che si vede ed è già di per sé preoccupante. I crolli delle Borse segnalano che è in atto una pericolosissima ritirata della liquidità. Sembrerebbe impossibile, giacché da sole la Banca centrale europea e quella giapponese stanno pompando ogni mese 110 miliardi di euro nel sistema. All'azione espansiva corrisponde purtroppo una reazione opposta - se non superiore - che ha origine nei grandi Paesi emergenti. È a questa 'forza', in particolare, che si riferiva la settimana scorsa Mario Draghi. Il tracollo dei prezzi petroliferi, il rallentamento dell'economia cinese e il rialzo dei tassi americani hanno indebolito le valute della Russia, della stessa Cina, dell'Arabia Saudita e del Brasile, per citare solo alcune delle economie coinvolte. Tutti Paesi che negli ultimi anni avevano non solo sostenuto la crescita globale, ma accumulato pure - grazie all'export di materie prime pagate per larga parte in dollari - enormi fortune in 'argenteria occidentale': riserve in biglietti verdi, euro, obbligazioni governative e societarie. Ora stanno 'svendendo' senza andar per il sottile, pur di proteggere, nella più classica delle 'guerre valutarie', le rispettive monete. E così risucchiano come fossero idrovore quella liquidità che Bce e Boj stanno invece cercando di assicurare per riportare l'inflazione a livelli adeguati. La fiammata registrata ieri dallo spread italiano è un effetto collaterale di questo drenaggio: via i titoli italiani e sotto con quelli tedeschi, il porto sicuro in caso di mare grosso. Ed è una ricaduta pericolosa per le nostre finanze pubbliche: a pagar cara la mancanza d'inflazione è purtroppo il rapporto tra debito e Pil. Il quale Pil, stando al denominatore, avrebbe al contrario bisogno di un po' d'inflazione per diventare più grande e ridurre il rapporto con l'ingombrante inquilino del piano di sopra. Le vendite generalizzate colpiscono poi anche i mercati azionari, a partire dai titoli bancari. Le nostre banche sono altresì alle prese con il nodo dei L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 crediti deteriorati e la loro 'sofferenza' in Borsa è quindi addirittura maggiore. Eppure questi 'fondamentali' non sono sufficienti a spiegare le chiusure isteriche dei mercati o a motivare il clima da recessione alle porte sulle piazze finanziarie globali dove i bersagli sono ormai aziende sane e malate, con bilanci in rosso o floridi senza distinzione alcuna. Ieri, ad esempio, non c'era dato macroeconomico o decisione di politica monetaria cui appigliarsi per giustificare una simile reazione. L'ondata di scioperi in Grecia che fa vacillare il governo Tsipras non rientra certo tra i fattori che possono scatenare una bufera di simili proporzioni. Il panic selling, come si chiama in gergo, è stato alimentato ancora una volta artificiosamente dal trading automatico. Dai software, cioè, ai quali si sono affidate con troppa leggerezza le chiavi della finanza. Un'operazione su due a Wall Street è ordinata oggi automaticamente dalle 'macchine' ad alta frequenza, sei su dieci comunque da algoritmi. In Europa siamo al 40%, ma in una giornata di strappi, al rialzo o al ribasso che siano, la percentuale è certamente superiore. Non ci sono allora correlazioni all'economia reale o previsioni di politica monetaria che tengano: il mercato scende? Si vende. Scende di più? I software aumentano gli ordini speculativi al ribasso per guadagnarci comunque. E vien giù tutto. Nel mondo delle 'forze' palesi, l'unica diga rimasta per arginare il grande deflusso dei Paesi emergenti è quella delle Banche centrali. La Fed americana potrebbe posticipare il secondo rialzo dei tassi ipotizzato a marzo. La Bce, come ha anticipato Draghi, è pronta ad ampliare nello stesso mese «quanto necessario» il programma di acquisto titoli (Qe). Probabile che entrambe si muovano in tale direzione. Per fermare le macchine, invece, servirebbe ben altro. Non bastano le misure disincentivanti già messe in atto anche a PiazzaAffari. E nemmeno le nuove regole previste dalla normativa sui mercati finanziari europei 'Mifid 2' che entrerà in vigore nel 2017. È necessario un intervento coordinato a livello globale, da parte dei regolatori e della politica, che preveda limiti più rigorosi e magari una tassazione efficace sulle transazioni finanziarie ad alta frequenza e algoritmiche in generale, una 'Tobin Tax 2.0'. È quanto Francesco ha indirettamente chiesto il mese scorso ai potenti del mondo. Senza troppi giri di parole, nel suo messaggio al Forum di Davos, il Papa ha avvertito: «Non facciamoci comandare dai robot». Le 'macchine' scavano fosse e precipizi in cui finiscono imprese e persone. Ieri, ancora una volta, ne abbiamo avuto la prova. RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 7 PAPA FRANCESCO ANGELUS Roma - Piazza San Pietro Domenica, 7 febbraio 2016 Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di questa domenica racconta – nella redazione di san Luca – la chiamata dei primi discepoli di Gesù (Lc 5,1-11). Il fatto avviene in un contesto di vita quotidiana: ci sono alcuni pescatori sulla sponda del lago di Galilea, i quali, dopo una notte di lavoro passata senza pescare nulla, stanno lavando e sistemando le reti. Gesù sale sulla barca di uno di loro, quella di Simone, detto Pietro, e gli chiede di staccarsi un poco da riva e si mette a predicare la Parola di Dio alla gente che si era radunata numerosa. Quando ha finito di parlare, gli dice di prendere il largo e di gettare le reti. Simone aveva già conosciuto Gesù e sperimentato la potenza prodigiosa della sua parola, perciò gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (v. 5). E questa sua fede non viene delusa: infatti le reti si riempirono di una tale quantità di pesci che quasi si rompevano (cfr v. 6). Di fronte a questo evento straordinario, i pescatori sono presi da grande stupore. Simon Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (v. 8). Quel segno prodigioso lo ha convinto che Gesù non è solo un formidabile maestro, la cui parola è vera e potente, ma che Egli è il Signore, è la manifestazione di Dio. E tale presenza ravvicinata suscita in Pietro un forte senso della propria meschinità e indegnità. Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato. La risposta di Gesù a Simon Pietro è rassicurante e decisa: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). E di nuovo il pescatore di Galilea, ponendo la sua fiducia in questa parola, lascia tutto e segue Colui che è diventato il suo Maestro e Signore. E così fecero anche Giacomo e Giovanni, soci di lavoro di Simone. Questa è la logica che guida la missione di Gesù e la missione della Chiesa: andare in cerca, “pescare” gli uomini e L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 8 le donne, non per fare proselitismo, ma per restituire a tutti la piena dignità e libertà, mediante il perdono dei peccati. Questo è l’essenziale del cristianesimo: diffondere l’amore rigenerante e gratuito di Dio, con atteggiamento di accoglienza e di misericordia verso tutti, perché ognuno possa incontrare la tenerezza di Dio e avere pienezza di vita. E qui, in maniera particolare, penso ai confessori: sono i primi a dover dare la misericordia del Padre seguendo l’esempio di Gesù, come hanno fatto anche i due Frati santi, padre Leopoldo e padre Pio. Il Vangelo di oggi ci interpella: sappiamo fidarci veramente della parola del Signore? Oppure ci lasciamo scoraggiare dai nostri fallimenti? In questo Anno Santo della Misericordia siamo chiamati a confortare quanti si sentono peccatori e indegni di fronte al Signore e abbattuti per i propri errori, dicendo loro le stesse parole di Gesù: “Non temere”. “E’ più grande la misericordia del Padre dei tuoi peccati! E’ più grande, non temere!”. Ci aiuti la Vergine Maria a comprendere sempre più che essere discepoli significa mettere i nostri piedi sulle orme lasciate dal Maestro: sono le orme della grazia divina che rigenera vita per tutti. © Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 9 quaderno 3974 23 gennaio 2016 ISIS E RADICALIZZAZIONE ISLAMISTA IN EUROPA Giovanni Sale S.I. Il fenomeno dei combattenti-kamikaze dell'Isis, che hanno agito a Parigi nel novembre del 2015 e che minacciano di colpire altre città europee, è legato a quello più generale e altrettanto allarmante della cosiddetta «radicalizzazione» dei giovani musulmani europei. Innanzitutto va precisato che, a differenza di quanto viene generalmente sostenuto da una certa pubblicistica anti-islamica, il fenomeno kamikaze non è connaturale all'islam politico e religioso; infatti nell'islam, come del resto in tutte le religioni monoteiste, la pratica del suicidio è proibita. In una celebre sura (III, 169) il Corano afferma che soltanto coloro che muoiono in battaglia per la causa dell'islam ottengono il premio eterno. Essi sono accolti in paradiso immediatamente e, come ricompensa del loro sacrificio, siedono alla destra di Allah, sposano 72 donne vergini e nel giorno del giudizio si ricongiungeranno a 10 membri della propria famiglia. In generale, nella tradizione religiosa musulmana i martiri (shahíd) muoiono in battaglia per mano dei nemici infedeli, non si tolgono volontariamente la vita, sia pure per una motivazione elevata o altruistica. Perciò le «operazioni kamikaze», dal punto di vista della dottrina islamica classica, non sono in alcun modo giustificabili, e di fatto le maggiori autorità religiose le hanno ripetutamente condannate. A partire dagli anni Novanta questo fenomeno si è diffuso poco alla volta in Medio Oriente, quasi per contagio ideologico, dall'ambito sciita, dove era sorto, a quello sunnita, sia nei territori palestinesi occupati, in particolare quelli sottoposti al controllo politico e ideologico di Hamas, sia in Iraq, soprattutto dopo l'invasione statunitense. Inoltre, le «operazioni kamikaze» furono massicciamente utilizzate dal terrorismo transnazionale, controllato da al Qaeda, raggiungendo il culmine nell'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Va però precisato che queste operazioni praticate dall'islamismo radicale, sebbene fossero tutte indirizzate a provocare la morte di chi le poneva in essere, oltre che di altri soggetti, si differenziavano tra loro sia nelle motivazioni ideologico-religiose, sia anche nelle modalità di realizzazione. Quelle condotte dagli sciiti prendevano di mira soltanto i nemici combattenti, esattamente identificati; erano oggetto di un'accurata preparazione, ed erano sottoposte al controllo della gerarchia dei cosiddetti « guardiani della rivoluzione», cioè i pasdaran, o dei capi di Hezbollah, che ne indirizzavano l'azione inscrivendola in una specifica tradizione religiosa consolidata ed esemplare. Invece, le operazioni condotte dai sunniti, e in particolare dai membri di al Qaeda, colpivano indiscriminatamente i loro nemici - genericamente indicati come sionisti, crociati, o traditori dell'islam autentico -, senza risparmiare neppure i civili musulmani presenti sul luogo dell'azione. È a questa modalità di azione che fa riferimento l'Isis, svuotandola però di significato religioso e di ogni tipo di ritualità sacrale. Isis, terrorismo e radicalizzazione L'Isis, che nasce dalla branca irachena di al Qaeda, comandata da uno dei peggiori «macellai» del Medio Oriente - Abu Musab alZarqawi, ucciso da un drone statunitense nel 2006 - ha utilizzato già da subito su larga scala i combattenti-kamikaze per combattere sia i nemici vicini, cioè gli odiati sciiti e le minoranze religiose presenti nelle L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 10 quaderno 3974 23 gennaio 2016 regioni occupate, sia i nemici lontani, vale a dire gli infedeli e corrotti occidentali e i loro protetti sionisti. Ma soltanto negli attentati di Parigi della. sera del 13 novembre 2015 questo micidiale strumento di morte è stato usato per la prima volta massicciamente in Europa, e ciò fa la differenza rispetto agli attentati precedenti realizzati da al Qaeda e da altri movimenti fondamentalisti. Un ulteriore elemento da porre in evidenza è che quasi tutti i combattenti-kamikaze che hanno partecipato ai massacri parigini erano musulmani europei: sei di loro erano di nazionalità francese, mentre la presunta mente del commando era belga. Nelle settimane successive all'attentato, sui giornali si è molto discusso sull'identikit degli attentatori, in particolare sulla loro formazione e sulla loro appartenenza a gruppi radicali. Va inoltre notato che tutti i componenti del commando erano combattentikamizake, i quali, oltre a farsi esplodere, hanno anche sparato, con freddezza e determinazione, con potenti kalashnikov su civili inermi, come è avvenuto al Bataclan. Come la maggior parte delle persone che scelgono di combattere per lo Stato Islamico, anche in questo caso si trattava di foreign fighters, cioè di giovani che sono andati, anche più di una volta, in Siria o in Iraq, e che successivamente sono ritornati (o, come ritengono alcuni, sono stati inviati «in missione») in Europa, nel Paese dove risiedevano, con l'intenzione di realizzare un attentato per sostenere la causa dell'Isis. Secondo gli studiosi della materia, il fenomeno dei combattentikamikaze si presenta in Europa con caratteristiche sue proprie. Esso è praticato da musulmani europei che si sono «radicalizzati». Questo termine è di recente conio e viene utilizzato - accanto a quello più comune di «terrorismo» - soprattutto dagli studiosi inglesi e francesi per sottolineare la specificità di tale fenomeno. Non si tratta di una semplice e astratta questione lessicale, ma ci sono contenuti e momenti di azione ben precisi. Il termine «radicalizzazione», infatti, mette in luce i vari passaggi che conducono il giovane musulmano (o anche il neoconvertito) ad aderire alla causa dell'islamismo radicale, ponendo l'accento sul «prima» della scelta islamista, mentre il termine «terrorismo» riguarda soprattutto il «dopo», cioè la modalità di azione scelta per portare avanti la lotta armata. Questo spiega perché gli approcci più moderni al fenomeno prendano in considerazione non soltanto, come nel recente passato, le motivazioni di ordine ideologico-sociale (che pure sono forti), ma anche quelle di carattere psicologico-affettivo e antropologico-generazionale. I jihadisti che combattono per l'Isis, secondo gli studiosi della materia, non hanno quasi mai un vero passato religioso; anzi, recenti ricerche dimostrano che esiste una relazione inversa tra «la devozione religiosa e l'attrazione nei confronti del jihad». Ciò sta a significare che l'islamismo radicale e la scelta jihadista non nascono dall'esperienza religiosa più autentica, e che la religione spesso viene utilizzata soltanto come un rivestimento formale (o funzionale) per sostenere una strategia politica, tesa al dominio e al potere. Questi giovani di solito non hanno frequentato, come molti musulmani, le moschee, e neppure conoscono a fondo il Corano e gli altri libri sacri; molti di loro sono dei riconvertiti, che anche successivamente conservano lo stile di vita «occidentale» che conducevano in precedenza. Essi si sono radicalizzati frequentando degli imam islamisti spesso anche soltanto via internet -, che si sono autoproclamati tali - e quindi non sono riconosciuti dalle comunità musulmane - e che generalmente sono dei semplici procacciatori di nuove reclute al califfato. Inoltre, la maggioranza dei jihadisti dell'Isis non ha neppure un passato di impegno politico in movimenti islamici attivi nell'ambito sociale, come i Fratelli Musulmani o i diversi movimenti di sostegno alla causa palestinese o di aiuto ai profughi che vivono nell'indigenza. Coloro che scelgono di fare i kamikaze, come quelli del novembre parigino, non vanno alla morte, come i loro predecessori impegnati nella lotta armata, per immolarsi per la causa L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 11 quaderno 3974 23 gennaio 2016 di Allah, ma per morire come eroi hollywoodiani. La loro dedizione non è per 1a sharia, ma per la «morte bella» e la violenza. Essi non si preparano alla morte attraverso atti rituali di purificazione (come fecero perfino gli attentatori delle Torri Gemelle di New York), e neppure sono interessati ai proclami religiosi edificanti da lasciare come testamento ai loro correligionari, come facevano i kamikaze di Hamas e altri. Affrontano invece la morte con spavalderia e leggerezza, utilizzando droghe e allucinogeni vari. Sembra che alcuni dei kamikaze di Parigi, nei giorni precedenti agli attentati, si facessero vedere in giro dagli amici mentre fumavano hashish e bevevano birra. Nuove interpretazioni sulla radicalizzazione islamista Secondo alcuni studiosi, i musulmani che si sono radicalizzati appartengono di solito a due categorie di persone. La prima riguarda giovani musulmani che appartengono alla seconda generazione di immigrati, in genere celibi e molto critici nei confronti delle scelte sia culturali-integrative, sia politiche - fatte dalla famiglia di origine. Essi le considerano opportunistiche e strumentali alle strategie politiche del Paese che, accogliendoli e integrandoli, a loro avviso li ha «ri-colonizzati». Questi sono i soggetti più deboli e quelli più esposti alla predicazione salafita, e quindi facilmente «radicalizzabili». La seconda categoria riguarda giovani non musulmani, per lo più provenienti dalla provincia, che si sono convertiti attraverso lo strumento virtuale, entrando in contatto con improvvisati predicatori salafiti o con propagandisti incaricati di «pescare» adesioni attraverso la rete. Questi giovani, che sono circa il 25% di coloro che hanno aderito all'Isis, di solito sono attratti dal radicalismo religioso-identitario della proposta e dalle opportunità di azione che l'adesione all'islamismo radicale offre loro. Spesso si tratta di persone psicologicamente fragili, alla ricerca di un'ideologia forte per cui combattere, di una «famiglia» (o una nuova cerchia affettiva) a cui aderire, e di nuove prospettive di azione con cui misurarsi. In ogni caso, la grande maggioranza dei «radicalizzati» musulmani, secondo l'orientalista e politologo francese Oliver Roy, non appartiene né alla prima né alla terza generazione di immigrati, perché i primi, o per scelta personale o per motivi sociali (legati alla necessità del lavoro e all'urgenza di mantenere la famiglia, spesso numerosa), si sono integrati velocemente, pur continuando a praticare «l'islam di provenienza» e a frequentare i propri connazionali, mentre gli altri, cioè i più giovani, forti di una continuità familiare, si sentono cittadini del Paese in cui vivono e ne condividono pienamente la cultura e lo stile di vita. Non è facile comprendere il fenomeno del radicalismo islamico tra i musulmani che vivono nei Paesi occidentali. Fin dalle origini esso è stato interpretato dagli studiosi della materia attraverso due approcci, che potrebbero essere definiti «classici»: quello basato sull'elemento identitario-culturale e quello basato sull'elemento socio-politico. Il primo si fonda sulla celebre teoria dello scontro di civiltà (quindi sull'insanabile inconciliabilità tra cultura islamica e cultura occidentale). Nel momento in cui è sorto, esso ha avuto numerosi sostenitori, soprattutto negli Stati Uniti. È stato invece molto criticato dalla maggioranza dagli studiosi europei, che lo interpretavano alla stregua di una «guerra» tra culture e civiltà. Oggi viene ripresentato, sebbene con alcune modifiche, da quelli che sostengono che il fenomeno del radicalismo è la prova che l'islam non può integrarsi con la cultura occidentale e che, per eliminare lo spirito jihadista e antidemocratico che lo caratterizza, debba sottoporre a revisione critica le sue fonti religiose. I sostenitori del secondo approccio trovano invece le ragioni della moderna radicalizzazione sia nelle recenti vicende mediorientali e, soprattutto, nella mancata risoluzione della questione palestinese (anche se la maggior parte di essi considera la sola L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 12 quaderno 3974 23 gennaio 2016 esistenza dello Stato ebraico come un vulnus contro il mondo arabo), sia nell'esperienza di marginalizzazione e di non integrazione sociale che i giovani musulmani vivono nelle periferie delle grandi metropoli europee. Questo approccio, nelle sue forme più radicali, presta però il fianco a molte critiche: diversi analisti politici notano che, con la nascita del cosiddetto «califfato siro-iracheno», la questione palestinese, almeno nella propaganda radicale, è passata in secondo piano rispetto alla necessità di cooptare nuove reclute per sostenere lo Stato Islamico. Di fatto la distruzione dello Stato di Israele è ricordata dai guerriglieri dell'Isis più come slogan che come progetto politico. Per quanto riguarda il secondo aspetto, ci si chiede se le cause della radicalizzazione siano soprattutto sociali, e quindi da addebitare alla mancata integrazione dei giovani islamici nei vari contesti di vita a causa delle politiche sociali discriminatorie. Perché allora questo fenomeno colpisce soltanto una parte, fortunatamente minima, delle comunità musulmane europee? In Francia, ad esempio, i musulmani residenti sono più di sei milioni, mentre il numero dei cosiddetti «radicalizzati» non supera i due o tremila; in altri Paesi con una forte presenza di musulmani, come la Germania e l'Inghilterra, questo numero è ancora più basso. Di recente, il fenomeno della radicalizzazione, soprattutto dopo le stragi di Parigi effettuate da giovani kamikaze, è stato studiato ricorrendo a nuovi approcci interpretativi, che meritano di essere segnalati. Secondo Roy, la radicalizzazione di molti giovani musulmani, soprattutto nei Paesi francofoni, è frutto di una «rivolta generazionale» dei figli nei confronti dei valori vissuti dalle famiglie di appartenenza. Questa tesi è stata sostenuta recentemente anche da alcuni sociologi, secondo i quali l'islam europeo sta oggi attraversando un'esperienza simile a quella vissuta negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso dalla media e piccola borghesia europea. Quella contestazione giovanile aveva dato avvio a un processo di emancipazione in diversi ambiti della società europea, ma anche a fenomeni sociali negativi e fortemente distruttivi, come quello del terrorismo rivoluzionario (le Brigate Rosse in Italia, l'Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in Germania), e ad altre esperienze affini, che per molti anni hanno messo a dura prova il tessuto democratico di diversi Paesi europei. I soggetti che aderiscono all'islam radicale e all'Isis di solito non sono giovani emarginati, disoccupati con bassa scolarizzazione e provenienti da famiglie indigenti, e neppure sono stati vittime di razzismo da parte dei loro coetanei: si tratta invece di ragazzi normali, che parlano bene il francese, hanno frequentato le scuole secondarie (come la maggior parte dei francesi). Alcuni di loro, inoltre, vengono da esperienze lavorative nell'ambito dei servizi. Prima di essersi «radicalizzati» e «riconvertiti», hanno condiviso la cultura dei giovani della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato hashish, frequentato le discoteche e sono usciti con ragazze. Cose tutte vietate dalla loro religione. Secondo Roy, non è in corso in Europa una rivolta dell'islam o della comunità musulmana nel suo insieme nei confronti della cultura occidentale e dei suoi valori, ma soltanto di una categoria precisa di giovani; «non si tratta di una radicalizzazione dell'islam, ma di un'islamizzazione del radicalismo». Ma perché questi giovani della seconda generazione scelgono l'islam radicale per esprimere il loro malessere? Il motivo - afferma Roy - è evidente: «Essi rielaborano un'identità che ai loro occhi è stata compromessa dai loro genitori e si convincono di essere "più musulmani dei musulmani", in particolare dei loro padri». Il sociologo italiano Renzo Guolo ritiene che la radicalizzazione sia il risultato di fattori diversi di ordine sociologico, psicologico e antropologico, variamente connessi tra loro. Essa non avviene all'improvviso, ma è il risultato di un lungo processo, «perché ha a che fare con le motivazioni profonde dell'individuo, che si innescano quando questi L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 13 quaderno 3974 23 gennaio 2016 incrocia avvenimenti storici che hanno funzione catartica, come la guerra in Siria o la condizione della vita nelle periferie urbane, unite al risentimento verso un Paese che, nei fatti, non riesce a colmare la lacuna della disuguaglianza». Il fenomeno della radicalizzazione, però, - continua Guolo - ha una sua autonomia e non dipende direttamente soltanto da motivazioni di ordine sociale o ideologico, ma da qualche cosa che agli occhi di molti giovani offre una risposta di senso così totalizzante da mobilitarli verso scelte estreme, quali quelle di andare a combattere per lo Stato Islamico in Siria o di farsi esplodere come kamikaze. Tutto questo rinvia «al tema decisivo dell'identità. Identità che, nel tempo della proclamata fine delle ideologie, qualcuno ritrova in una concezione del mondo che si propone come inflazione di valori, come ultima utopia, come solo antagonismo di sistema». Secondo altri studiosi, le spiegazioni fornite dalle scienze sociali sul fenomeno del radicalismo islamico in Europa sono generiche, «professionali» e in genere inadeguate. Alcuni autori parlano di «odio ideologico» dell'islam radicale nei confronti dell'Occidente, dovuto a motivazioni di ordine psicologico, culturale, più che a motivi sociali, collegati a fenomeni di marginalizzazione. «La rabbia dei terroristi - scrive il saggista statunitense Paul Berman - riposa sull'odio, e l'odio è un sentimento, un'emozione che è anche un discorso». «Noi siamo convinti - continua - che se un movimento terroristico si scatena nel mondo, la sua causa sia necessariamente da cercare in un principio di distruzione, "esterno" agli stessi terroristi. Allora ci rivolgiamo agli specialisti delle scienze sociali, che di solito non hanno nessuna difficoltà a trovarne i motivi». Insomma, esistono tante cause giuste del fenomeno indagato quante sono le scienze sociali che se ne occupano, le quali - commenta il saggista - ci dicono tutto e il contrario di tutto. In un fortunato libretto del 2004, l'intellettuale libanese Samir Kassir trattava del fenomeno moderno della cosiddetta «infelicità araba». Secondo lui essa ha a che fare, più che con i dati statistici in rosso del mondo arabo circa la povertà, l'analfabetismo ecc., con le percezioni e con i sentimenti delle persone. «A iniziare dalla sensazione, molto diffusa e profondamente radicata, che il futuro è una strada ostruita [...]. L'infelicità araba, però, è anche lo sguardo degli altri. Quello sguardo che impedisce perfino la fuga e che, sospettoso o condiscendente che sia, ti rimanda alla tua condizione ritenuta ineluttabile, ridicolizza la tua impotenza, condanna a priori la tua speranza». Questo sentimento però genera, oltre che infelicità, anche risentimento e desiderio di ribellione. Questa è certamente una possibile spiegazione psicologico-identitaria del fenomeno della radicalizzazione, anche se, come si diceva, esso non è più avvertito in questi termini dai giovani musulmani europei dell'ultima generazione. L'Occidente dopo gli attentati parigini Gli attentati parigini e anche quello a San Bernardino negli Stati Uniti (sebbene di tenore diverso) hanno riproposto all'attenzione dell'Occidente il vecchio tema della lotta al terrorismo internazionale. Nuovi attentati sono stati minacciati contro i Paesi europei, in particolare contro quelli che inviano i loro aerei per bombardare le postazioni strategiche del cosiddetto «califfato siro-iracheno». Neppure gli Stati arabi sono immuni da questa minaccia. Non va dimenticato, infatti, che la maggior parte degli attentati terroristici e kamikaze sono stati realizzati dagli islamisti contro Paesi musulmani, per motivi sia etnicoreligiosi, sia politico-strategici, in una lotta in cui le grandi potenze sciite e sunnite si combattono per interposta persona o «per procura». È la prima volta, però, che l'Europa diventa l'obiettivo principale della furia jihadista. Numerose città sono minacciate, e i Governi nazionali sono costretti a prendere misure di sicurezza molto rigorose, fino ad applicare, come in Francia, lo stato di emergenza e a L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 14 quaderno 3974 23 gennaio 2016 proporre, su tale materia, la modifica della Costituzione. Anche la libera circolazione delle persone nei Paesi «dell'area Schengen» è rimessa in discussione da parte degli Stati più vulnerabili. Il sentimento di insicurezza e di instabilità colpisce non soltanto la società civile (e le sue abitudini «pacifiste»), ma anche l'economia dei singoli Paesi, che negli ultimi anni hanno vissuto un momento di recessione. In realtà, gli attentati, secondo gli osservatori, hanno già ottenuto alcuni importanti risultati. Essi hanno spinto diversi governanti a usare la parola «guerra» - facendo riferimento alla lotta contro il terrorismo e lo Stato islamico -, che nel contesto europeo sembrava estromessa dal vocabolario della politica e dell'etica pubblica. In questo modo l'Isis è riuscito a ottenere l'ammissione che è in corso una guerra, sia pure asimmetrica, tra «nemici» riconosciuti, e non una semplice campagna di polizia condotta dai Paesi occidentali contro dei «criminali fanatici». Nell'immaginario islamista è già iniziato uno scontro epocale tra l'islam e i crociati (e i sionisti), e tutti i veri musulmani sono chiamati a combattere per il jihad. Sta alla saggezza dei nostri governanti non cadere in questa trappola, tanto più che lo Stato Islamico recentemente ha subìto importanti sconfitte sul territorio a opera dell'esercito curdo e di quello «regolare» iracheno o siriano. Inoltre, la sua economia e le sue postazioni strategicomilitari sono state gravemente colpite dai continui bombardamenti aerei operati dagli europei, dalle aviazioni russe e statunitensi. In seguito a queste perdite sembra che i capi del cosiddetto «califfato nero» abbiano deciso di trasferire in Libia una parte dei loro quadri (compreso, secondo alcune indiscrezioni non convalidate, lo stesso Abu Bakr al-Baghdadi), aprendo così un nuovo fronte di guerra. Questa volta, però, esso è spostato verso il centro del Mediterraneo, e quindi molto vicino all'Italia e a Roma, che per i jihadisti dell'Isis ha un forte valore simbolico-apocalittico. Gli attentati di Parigi hanno raggiunto anche un altro obiettivo, quello di mettere in rapporto il massacro con la recente crisi dei profughi. La stretta sulla sicurezza e il controllo sui nuovi arrivati, soprattutto se profughi, messi in opera dai Governi europei, stanno creando dei problemi nella politica di accoglienza da parte di alcuni Paesi. Lo scopo non è solo quello di punire i musulmani siriani che scappano dal califfato, ma soprattutto quello «di attenuare la solidarietà degli europei per i profughi, già messa a dura prova dalla disoccupazione e dalla crescita di partiti di destra ostili agli immigrati». Ora, se i Paesi europei dovessero scegliere, per motivi di sicurezza - alcuni ritengono che molti terroristi entrino in Europa attraverso questo canale -, di non accogliere più i profughi che fuggono dai luoghi di guerra, questi si sentirebbero abbandonati e certamente diventerebbero facile preda dell'Isis. Anche le politiche di sicurezza adottate (o in corso di adozione dai Paesi europei) nei confronti dei musulmani fondamentalisti (anche se non legati all'Isis o alla lotta jihadista) possono, se non vagliate attentamente, ingenerare il sospetto che sia in corso in Occidente una campagna contro i musulmani, e ciò farebbe il gioco dell'Isis, il cui piano di azione consiste nel far scoppiare in Europa - dove, nei Paesi dell'Unione, vivono circa 17 milioni di musulmani - una guerra civile tra «crociati» e islamici. In tal caso il presunto «califfato» rappresenterebbe il punto di riferimento ideale della loro lotta contro il secolare nemico. Dopo la strage di San Bernardino del 4 dicembre 2015, la proposta provocatoria di Donald Trump, candidato repubblicano alla Casa Bianca, di vietare ai musulmani di entrare negli Stati Uniti, ha certamente creato sconcerto nella comunità internazionale. In ogni caso, è stato detto, un divieto di tale tipo non sarebbe possibile, in quanto verrebbe dichiarato incostituzionale. Esso infatti violerebbe la libertà di religione e di culto L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016 pagina 15 quaderno 3974 23 gennaio 2016 assicurata a tutti dalla Costituzione degli Stati Uniti e dai trattati internazionali sui diritti dell'uomo sottoscritti dal Governo statunitense. L'islamofobia di Trump pare sia condivisa da un certo numero di cittadini americani. Il che non è un buon segnale, unito alle incertezze economiche dei mercati mondiali, per la crescita della democrazia nei Paesi occidentali. Dalle colonne del New York Times, il politologo Thomas Friedman ha commentato in modo deciso: «Mettendosi contro l'intero mondo musulmano, alienandoselo con la sua proposta, [...] Trump agisce quasi da agente segreto dello Stato Islamico. L'Isis infatti vuole che ogni musulmano in America e in Europa si senta discriminato». Infatti, se ciò dovesse accadere, gli islamisti del presunto «califfato» avrebbero raggiunto pienamente il loro scopo, quello cioè di creare divisione nel mondo occidentale e indebolire la compagine democratica e civile degli Stati che lo compongono. Al contrario, è necessario il sostegno dei musulmani non fondamentalisti, che sono la grande maggioranza, per combattere efficacemente lo Stato Islamico. L'uso delle sole armi, sia che si tratti di bombardamenti mirati - o, come si dice, «chirurgici» -, sia che si tratti di invasioni di terra (come in ipotesi sarebbe possibile, in base alla lettera della risoluzione Onu deI 21 novembre scorso), non elimina certo il pericolo terroristico: una volta tolto di mezzo lo Stato Islamico e i suoi capi, infatti, nuovi movimenti jihadisti, presenti in altre parti dell'inquieto mondo arabo, sarebbero pronti a raccogliere la bandiera della causa islamista. A proposito, poi, di un'eventuale invasione di terra, a cui nessuno Stato sembra al momento interessato - tanto meno gli Stati Uniti di Barack Obama -, è ragionevole chiedersi se, dopo i lunghi e non risolutivi interventi occidentali in Iraq e in Afghanistan, sia il caso di ripetere gli stessi errori del recente passato, e con fondate ragioni ci si chiede anche se tale soluzione non avrebbe invece come effetto quello di provocare nuove animosità da parte degli islamici nei confronti degli occidentali invasori. Il terrorismo potrà essere sconfitto soltanto se si agisce su ambedue i piani: quello esterno, cioè attraverso l'inevitabile uso delle armi, purché si colpiscano obiettivi mirati, evitando di colpire civili, e della buona diplomazia; e quello interno, cioè attraverso il sostegno di centinaia di milioni di musulmani che amano la pace e che condannano, da veri credenti, il terrorismo. Questa condanna dovrebbe essere espressa in modo più energico e con maggiore determinazione sia dagli Stati musulmani, sia soprattutto dalla società civile, dai movimenti laici e religiosi e dal vasto mondo delle moschee. Soltanto così potrebbe avvenire un processo di «prosciugamento» dei tanti bacini dove nascono e si sviluppano le idee di un islam radicale e violento e si alimentano odi e risentimenti nei confronti di un Occidente ritenuto nemico e colonizzatore. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016