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con il patrocinio di
La
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a
Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
Rassegna
Stampa
14 febbraio 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
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Estratti da:
Ciclostilato in proprio
6/2/2016
Appuntamento a Cuba
Il genocidio dei cristiani mediorientali
è il motore dell'incontro Papa-Kirill
L'annuncio del colloquio tra il Pontefice e il Patriarca di Mosca. Lo
stato dei rapporti bilaterali, le partite geopolitiche "I problemi restano"
Roma. Per capire le ragioni dello storico incontro tra il Papa
mosso Kirill ad acconsentire al colloquio con Francesco, e
e il Patriarca di Mosca Kirill in programma all'aeroporto
cioè "la necessità di mettere da parte i disaccordi interni e
internazionale dell'Avana, il prossimo 12 febbraio (con la
unire gli sforzi per salvare il cristianesimo nelle regioni in
benedizione del presidente cubano Raúl Castro, gran
cui è sottoposto alla persecuzione più dura". È stato il
mediatore dell'evento), è necessario leggere la nota
Patriarca, si chiarisce in Russia, a escludere fin dal
diffusa ieri all'ora di pranzo dal Patriarcato russo. Il
principio la possibilità che l'incontro - preparato a lungo, ha
comunicato stampa congiunto dà conto della "gioia"
fatto sapere padre Federico Lombardi - si potesse tenere in
provata nel dare il lieto annuncio e mette nero su bianco lo
Europa, troppo segnata da una storia di scismi, conflitti e
stato dei rapporti tra Santa Sede e Mosca. Pur essendo un
divisioni. Il menù del colloquio è top secret, ma da Mosca
punto di vista parziale, si sottolinea subito che i problemi
fanno sapere che se il piatto forte sarà la situazione dei
sul tappeto rimangono tutti, e le due ore di colloquio
cristiani in medio oriente, tempo adeguato sarà riservato a
riservato previste alla presenza dei soli interpreti non
fare il punto sullo stato delle relazioni internazionali e, più in
potranno sciogliere nodi che si trascinano da decenni e in
generale, sulla politica globale. Al termine dell'incontro, il
qualche caso da secoli. C'è la questione degli uniati (i
Papa - che subito dopo partirà alla volta del Messico per il
cristiani d'oriente fedeli a Roma) che - si legge nel corposo
previsto viaggio apostolico - e Kirill firmeranno una
messaggio russo - "hanno devastato tre diocesi del
dichiarazione comune, che si preannuncia articolata.
patriarcato di Mosca nell'Ucraina occidentale tra gli anni
Nessun evento religioso collaterale è previsto, forse anche
Ottanta e Novanta". La crisi tra la Russia e l'Ucraina non
per la location aeroportuale scelta. Già tra il 1996 e il 1997
ha fatto altro che aggravare il problema e ciò "impedisce la
le due parti sembravano ormai prossime ad accordarsi su
piena normalizzazione delle relazioni tra le due chiese".
un incontro tra Giovanni Paolo II e Alessio II in territorio
Tuttavia, quanto sta accadendo nel vicino oriente,
austriaco, ma i negoziati saltarono all'ultimo a causa di
nell'Africa centrale e settentrionale e in altre regioni del
problemi legati a quello che Mosca definì (e lo fa ancora
mondo "ha richiesto misure urgenti e una cooperazione più
oggi, senza attenuare i toni bellicosi dell'epoca) "il
stretta tra le chiese cristiane", sottolinea il comunicato
proselitismo dei missionari cattolici nel territorio canonico
moscovita che parla esplicitamente di "estremisti che
del Patriarcato" e l'attivismo "dei greco -cattolici in
stanno perpetrando un vero genocidio della popolazione
Ucraina".
cristiana". È questo il presupposto fondamentale che ha
Twitter @matteomatzuzzi.
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10/2/2016
L'orrore delle Foibe insegni all'Europa
integrazione e fiducia. Giorno del Ricordo
di Paolo Gentiloni
Sono trascorsi oltre dieci anni dall'istituzione del
"Giorno del Ricordo" per le vittime delle foibe e
dell'esodo fiumano-giuliano-dalmata, la tragedia
della minoranza italiana dell'Adriatico orientale. Un
intervallo di tempo sufficiente ad abbozzare un
bilancio e a muovere alcune considerazioni rivolte al
futuro. Innanzitutto, si può affermare che la
narrazione di questa tragedia si sia svincolata dalle
letture ideologiche.
Letture ideologiche che l'hanno condizionata per
decenni. Paiono lontane le strumentalizzazioni,
lacerazioni, rimozioni e aggressioni del Dopoguerra
– in alcuni casi di una crudeltà oggi difficilmente
immaginabile – e assai accresciuta la disponibilità
della comunità nazionale a considerare questa
vicenda un patrimonio costitutivo della nostra
identità. Non mancano episodi di intolleranza
residuali, da contrastare con l'evidenza storica dei
fatti, ma assai più significativo risulta il successo dello
spettacolo "Magazzino 18" di Simone Cristicchi che
mette in scena la memoria di questa tragedia
avvenuta nell'Europa del secondo Dopoguerra.
A tutto ciò ha certamente contribuito l'impegno delle
istituzioni, a partire dalla celebrazione prestigiosa
svolta ogni anno dal Presidente della Repubblica. Il
che mostra quanto le ricorrenze possano servire a
forgiare a quel "calendario civile" necessario a
formare una memoria e dunque una identità
condivisa.
Certo, bisogna proseguire nello sforzo che il Governo
sta compiendo per definire tutte le questioni ancora
aperte. Da questo punto di vista – anche grazie al
contributo delle personalità che si sono impegnate in
tal senso – occorre trovare un compromesso alto e
soddisfacente in grado di rappresentare nel modo più
giusto le istanze di coloro che furono costretti a
migrare e i cui diritti furono violati. Un'eventuale
fondazione preposta a ricevere i risarcimenti sloveni e
croati dovrebbe dotarsi di strumenti e obiettivi di
livello indiscutibile: su questo si è ormai coagulato un
consenso crescente, che vede nelle attività culturali, di
ricerca e formazione delle nuove generazioni la
destinazione principale e più significativa dei fondi a
disposizione.
Infine, occorre riprendere e approfondire il dialogo
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con i nostri alleati adriatici perché si giunga ad alcuni
gesti "politici" dal grande valore simbolico. Colpisce
una circostanza: le stesse contrade che furono teatro
di massacri, guerre e deportazioni ospitano oggi una
migrazione epocale, esito di un mondo irto di
conflitti. Per evitare gli errori del passato, è qui che
dobbiamo impegnarci a costruire un'Europa diversa
e migliore. Un'Europa capace di offrire un orizzonte
di sviluppo e integrazione anche grazie al progetto
della macro-regione adriatico-ionica. Un continente
che esporti solidarietà e giustizia e non muri o fili
spinati. Per questo c'è bisogno di un dialogo proficuo
tra i partner dell'area adriatica e mediterranea. Un
dialogo che faccia i conti con un passato doloroso e
che possa guardare al futuro all'insegna della
collaborazione e della fiducia.
Ministro degli Esteri
© RIPRODUZIONE RISERVATA.
4/2/2016
Nosiglia
«Figli, non oggetti. Il ddl
non faccia confusioni»
Il ddl Cirinnà «non parla di matrimonio, ma negli articoli
della legge, poi, di fatto si applicano a tale formazione
specifica tutti i diritti e le disposizioni del Codice civile
proprie del matrimonio eterosessuale, per cui c'è una
indebita equiparazione tra l'uno e altro istituto». E quanto
afferma l'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare
Nosiglia, in un'intervista al settimanale diocesano La Voce
del Popolo. «Una equiparazione del genere non è
ammissibile - aggiunge - per cui se è legittimo per uno Stato
laico regolare i diritti e doveri delle coppie conviventi o
omosessuali, è altrettanto doveroso stabilire per queste
unioni norme specifiche» diverse «da quelle previste per la
famiglia fondata sul matrimonio». Secondo Nosiglia «i più
deboli e indifesi, in questa materia, sono i bambini soggetti
alla volontà e al potere degli adulti che li considerano loro
proprietà fino a privarli, con la perversa pratica dell'utero in
affitto», del rapporto con la madre. «È una forma di
schiavitù che, per assecondare il presunto diritto di un
adulto, distrugge quello fondamentale del bambino. Il
bambino non è un diritto, un prodotto di consumo da
manovrare secondo il desiderio di chi lo obbliga a una
crescita innaturale».
pagina 3
8/2/2016
Embrioni
Riscrittura del Dna, chiedere
moratorie non basta più
Negli anni Settanta i premi Nobel Dulbecco e Baltimore chiedevano una
sospensione sulla ingegneria genetica. Le nuove ricerche in Gran
Bretagna sugli embrioni hanno riacceso il dibattito. Ma tutto è cambiato
di ROBERTO SATOLLI
Non sono un biologo molecolare, per cui mi stupisco di
trovare spesso nella casella dello spam, tra occasioni di sesso e
trappole di fishing, anche offerte di acquisto di sistemi
Crispr/Cas, gli stessi di cui le autorità britanniche hanno
autorizzato l'uso su embrioni umani per modificarne il
genoma.
È un utensile molecolare scoperto solo tre anni fa, sul quale
infuriano due accese battaglie: quella per il brevetto e lo
sfruttamento economico; e quella sui confini etici e legali oltre
cui non ci si dovrebbe spingere. Consente di "riscrivere" il Dna
con semplicità e precisione tali da aprire la porta a possibilità
sino a ieri impensabili, in tutti i campi della biologia, compresa
la correzione di gravi malattie ereditarie, come la distrofia
muscolare o l'emofilia. Sembra di essere tornati agli anni
settanta, quando David Baltimore (premio Nobel nel 1975
con Renato Dulbecco) promosse ad Asilomar una celebre
moratoria sulla tecnica del Dna ricombinante, che si chiamava
allora "ingegneria genetica". Ora si parla invece di "editing
genetico", e sarebbe interessante approfondire tutte le
implicazioni del cambiamento di metafora. È certo che
l'allarme sembra ora più concreto e immediato, perché
modificando il genoma umano a livello di cellule germinali
(spermatozoi, uova ed embrioni), oltre a eliminare cause di
malattia si potrebbe essere tentati anche di provare a
migliorare anche caratteri fisici o intellettuali; e d'altra parte
ogni svista compiuta su un singolo individuo verrebbe pagata
indefinitamente dalle generazioni future.
Anche gli argomenti non sono cambiati molto in questi 40
anni: giocare a fare Dio, sostituirsi all'evoluzione naturale,
avventurarsi su una china scivolosa senza conoscere tutte le
possibili conseguenze, da una parte; pesare pragmaticamente i
vantaggi e gli svantaggi, concedere ai malati la speranza di una
possibile soluzione, non frenare il progresso delle conoscenze
e dell'umanità, dall'altro. Questo la dice lunga su quanto la
rapidità con cui avanzano le biotecnologie sorpassi di molte
lunghezze l'arrancare della società nel maturare una
sufficiente consapevolezza della posta in gioco.
Sono passati meno di due mesi da quando a New York si sono
incontrati scienziati americani, cinesi, britannici e di altri
Paesi per cercare di concordare una linea comune
internazionale, e già Londra ha rotto gli indugi col via libera a
un esperimento su embrioni umani sani, da distruggere però
dopo una settimana di sviluppo: lo scopo quindi è di ricerca
pura e non applicativo.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016
Un nuovo utensile molecolare consente di modificare con tale
facilità e precisione il genoma che gli scopritori stessi invocano
prudenza prima di applicarlo anche all'uomo per produrre
modifiche che si trasmettano alle generazioni future.
La discussione riempie le pagine di riviste come l'europea
Nature e l'americana Science, ed è stata innescata tra gli altri
dai Nobel Paul Berg e David Baltimore.
Sembra un déjà vu: gli stessi scienziati furono i promotori
della celebre moratoria di Asilomar, esattamente 40 anni fa,
quando con la tecnica del DNA ricombinante faceva i primi
passi quella che allora si chiamava "ingegneria" e oggi
"editing" del DNA . Al di là delle metafore che cambiano, ora
l'allarme appare più concreto e immediato, perché
modificando il genoma umano a livello di cellule germinali
(spermatozoi, uova ed embrioni), oltre ad eliminare cause di
malattia si potrebbe essere tentati di creare caratteri fisici o
intellettuali da superuomini. Anche gli argomenti sembrano
gli stessi di allora: sostituirsi a dio, o all'evoluzione naturale,
avventurarsi su una china scivolosa senza conoscerne i rischi,
pesare pragmaticamente i vantaggi e gli svantaggi e così via.
Questo conferma il divario di velocità tra il progresso delle
biotecnologie e la maturazione della consapevolezza e della
riflessione filosofica che dovrebbe accompagnarlo. Le
somiglianze con Asilomar però finiscono qui. Tutto è
cambiato. Non c'è più solo il dominio incontrastato della
scienza americana: sarebbero in attesa di pubblicazione
imminente i risultati di esperimenti sul genoma umano fatti da
ricercatori cinesi. E non c'è più solo l'accademia, cui in genere
appartengono i proponenti della moratoria: una miriade di
start up e di spin off dominano il campo e raccolgono capitali
di rischio in cerca di possibili affari. In compenso, leggi e
regole non sono più assenti, come allora, anche se variamente
articolate e stringenti. La manipolazione del genoma
germinale umano è vietata per legge in gran parte d'Europa,
mentre è solo soggetta alla vigilanza delle autorità sanitarie
negli Usa o in Cina, e senza restrizioni in molti altri Paesi.
L'arma della moratoria in stile anni Settanta sembra perciò
spuntata, e si può persino sospettare che alcuni dei firmatari
abbiano aderito solo per far parlare di sé: nessuno vuole
davvero bloccare una ricerca che promette di rivoluzionare il
futuro dell'umanità. Proprio per questo, più che una
discussione tra gli addetti ai lavori con argomenti ormai triti,
sarebbe urgente uno sforzo di democrazia globale per rendere
coscienti i cittadini del mondo intero di quale sia la posta in
gioco.
pagina 4
7/2/2016
Sant'Ambrogio
protagonista
di GIANLUCA BRIGUGLIA
Se oggi la figura di Sant'Ambrogio è ancora
molto presente nell'immaginario della città di
Milano - almeno per alcuni suoi luoghi
fortemente simbolici, o per la data del 7
dicembre, che hanno assunto anche una
valenza generale nel gioco dell'identità
nazionale italiana - non bisogna pensare che
la memoria di Ambrogio, vescovo della città
nel IV secolo, sia stata oggetto di una storia
univoca, esclusivamente pacificante, senza
scosse, ripensamenti, rielaborazioni.
Piuttosto la memoria di Ambrogio è stata
associata alla città di Milano attraverso
sedimentazioni successive, momenti di
svolta e torsioni concettuali, simboliche e
politiche continue. Basterebbe pensare a
come il lascito ambrosiano nel rito e nella
liturgia abbiano contribuito all'idea di una
specialità della chiesa milanese, che
sopravvive - per quanto molto depotenziata anche alla riforma ecclesiastica dell'XI secolo,
cioè all'epoca del tentativo di
centralizzazione e di egemonia - tentativo
coronato da successo - da parte della chiesa
di Roma. Nei secoli le identità ecclesiali e le
identità politiche e cittadine interagiscono, a
volte crescendo insieme e potenziandosi,
altre volte producendo contrasti, scarti,
tentativi di appropriazione di memorie
antiche invertendone il significato.
Ambrogio diventa così tra Medioevo ed epoca
moderna il santo che affrontò l'imperatore
romano per difendere la sua comunità quindi con una valenza antimperiale -, ma
anche il vescovo di una Milano che era stata
capitale dell'impero, cioè di ogni autorità
politica, o ancora, in tempi diversi, può venire
evocato come il protettore di una Milano
"repubblica ambrosiana" per la quale
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combattere in un sistema di parti cittadine e di
interessi diversi.
Patrick Boucheron, storico del Collège de
France, e Stéphane Gioanni, direttore della
sezione di studi medievali del centro di ricerca
École Française di Roma, hanno appena
pubblicato un corposo e importante volume
che raccoglie i risultati delle ricerche di una
ventina di ricercatori francesi e italiani
proprio su La memoria di Ambrogio di Milano
(dal V al XVIII secolo). Il libro si colloca
nell'ambito di un progetto di più lunga durata
che ha come obiettivo quello di rianalizzare la
categoria di "padre della Chiesa" nella sua
costituzione storica, cioè appunto nel suo
essere sottoposta a tensioni, riletture a
posteriori, ideologie, processi identitari,
religiosi, politici. In questo volume, il cui
protagonista non è Ambrogio in quanto tale,
ma la costruzione della sua memoria, gli scarti
e le attualizzazioni vengono visti seguendo
piste diverse e interdisciplinari.
Una prima sezione è consacrata ai luoghi e ai
monumenti di questa memoria, e alle
appassionanti vicende iconografiche sul
santo, mentre una seconda sezione mette a
fuoco le fonti e gli scritti che nei secoli
medievali fanno di Ambrogio un'autorità
patristica. Una terza parte fa di Ambrogio
l'oggetto delle controversie dottrinali e
politiche di vari partiti o tendenze ecclesiali in
campo fino al XV secolo, mentre l'ultima parte
raccoglie saggi sull'utilizzo di Ambrogio in
epoca ormai moderna, con la Riforma come
nuovo orizzonte storico.
Il risultato è un mosaico di interpretazioni e
sondaggi che ha la capacità di mostrare la
complessità di una memoria che non ha mai
cessato di essere ripensata.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
pagina 5
9/2/2016
CYBERBULLI
I prepotenti del web
di ROSSANASISTI
Nessuno attraversa la strada senza guardare. E nessuno si
lancerebbe da un aereo senza sapere come maneggiare il
paracadute. Nessuno entrerebbe in un bar urlando a
squarciagola la prima cosa che gli passa per la mente e solo
un incosciente arrivando in una grande città si
avventurerebbe alla cieca in certi posti pericolosi che
sarebbe meglio evitare.
«Eppure sconcerta la disinvoltura con cui la maggior parte
dei ragazzi - e non solo loro - naviga in internet, usa
smartphone, apre profili facebook, scarica app e passa da un
social network all'altro scambiando con spensieratezza
informazioni, battute, scherzi, foto di ogni genere e video.
Immaginando la Rete come un universo etereo dove le cose
magicamente appaiono e scompaiono per sempre
semplicemente schiacciando un tasto e in cui protetti dallo
schermo si può spaziare liberamente senza problemi.
Un'ingenuità. In realtà il web è un mondo chiuso, dove si
incontrano ostacoli e trabocchetti, un mondo pieno di regole
di comportamento che bisognerebbe imparare così come si
impara a stare nel mondo reale.
Senza mai dimenticare che si è dentro uno spazio in cui tutto
viene archiviato, controllato, processato e niente muore mai.
Un graffito sul muro si cancella con un colpo di vernice, sul
web non c'è vernice che tenga. È per sempre. Perciò ogni
manovra fatta alla leggera espone a rischi e pericoli che
bisogna conoscere per starne alla larga». Teo Benedetti la
Rete la frequenta fin da quando sono nati chat e blog. Di
questa passione ha fatto una professione, quella di social
media manager, figura che corrisponde al responsabile della
comunicazione aziendale attraverso i social network. La
seconda vita di Teo Benedetti, che per altro corre parallela
alla prima, è invece densa di scrittura e di libri per ragazzi.
Con Davide Morosinotto - anche lui parte del gruppo di
autori autodefinito degli Immergenti - Teo Benedetti firma
un vademecum per l'uso dei social intitolato Cyberbulli al
tappeto (Editoriale Scienza, pagine 96, euro 13,90), un
manuale che spiega le strategie e le tecniche di autodifesa
nell'uso dei social network, affronta le zone d'ombra della
vita digitale, racconta le trappole in cui si può cadere e i
rischi che si corrono a parlare troppo di sé o a mettere in
piazza gli affari altrui, magari solo per ridere un po'. Non per
spaventare ma per incoraggiare un uso consapevole e anche
più ricco della Rete.
«Abbiamo messo nelle mani dei ragazzi - spiega - macchine
lanciate a gran velocità ma chi ha spiegato loro che la prima
regola per muoversi in sicurezza nel- la Rete è darsi delle
regole pratiche, chiare e rigide? Limiti da non oltrepassare,
perché esagerare è fin troppo facile. Chi mostra loro quali e
quanti muri si possono alzare per bloccare, isolare e anche
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allontanare da un social un prepotente o un molestatore?
Spesso i più non conoscono neppure la differenza tra social
privati e pubblici. È divertente fare una foto un po' scema a
un amico, è bello riderci su per scherzo ma se quella foto
viene condivisa con settecento persone e tutte iniziano a
prendere in giro il malcapitato, la cosa non è più tanto
divertente. I ragazzi sanno che hanno ceduto a quel social
network tutti i diritti di quella foto, e che potrebbero vederla
utilizzata in altri contesti? Sanno che cosa sottoscrivono
quando accettano le condizioni di uso, previste per iscriversi
a un social o per scaricare una app?». Belle domande,
soltanto alcune delle tante che ruotano attorno al delicato
tema della privacy e conducono dritte al capitolo del
cyberbullismo, un fenomeno preoccupante in crescita.
Prendere in giro un compagno a tu per tu può essere uno
scherzo innocente e divertente ma metterlo in ridicolo a sua
insaputa sui social, denigrarlo o far girare ripetutamente
voci e pettegolezzi sul suo conto sono veri e propri atti di
cyberbullismo. A cui si può contribuire anche
indirettamente, stando al gioco come fa il branco, ridendo
delle battute, tacendo davanti ai messaggi offensivi.
«Sapere come funziona il web e cosa c'è dietro il mondo dei
social - continua Benedetti - dare un nome alla cose che
succedono, sono il primo livello di consapevolezza e di
autodifesa. La comunicazione digitale non ha tono. Dietro le
righe di una chat o di un commento su facebook è difficile
sapere se uno sta ridendo o è disperato, se è sereno o molto
solo. È facile essere fraintesi, non capire lo scherzo o
diventare bersaglio di attacchi violenti. Il linguaggio social
è estremamente veloce e sintetico e conta su un'attenzione di
pochi secondi. È un terreno che moltiplica il potere dei
cyberbulli ». Tutto può nascere per una battuta stupida su
whatsapp, da una bravata o da un vero e proprio attacco ma il
potenziamento della Rete può essere devastante. «Un
prepotente l'abbiamo conosciuto tutti nella vita - racconta
Teo Benedetti - ricordo bene alle medie come giravo alla
larga dalla classe del bullo della scuola, il mio terrore era
incrociarlo da solo nel corridoio o all'angolo della strada. La
tecnologia cambia tutto. Le informazioni sono facili da
trovare e diffondere e le prepotenze si gonfiano e si
moltiplicano in un istante. Il bullo tradizionale vive in uno
spazio fisico mentre il cyberbullo si stacca dal tempo e dal
luogo, può colpire sempre, attaccare in ogni momento; se
conosce il mio indirizzo mail può tempestarmi di messaggi,
mi può trovare su facebook, arrivare nelle chat e nei gruppi
che frequento. Si diverte, si sente invisibile e invincibile. Ma
non è così e noi lo dimostriamo». È tempo di allenarsi
all'autodifesa e di passare al contrattacco. Spesso i
cyberbulli colti sul fatto scoppiano a piangere.
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pagina 6
9/2/2016
Fronteggiare calcoli ostili e inerzie speculative
LE MACCHINE SCAVANO
PRECIPIZI (ANCHE IN BORSA)
di MARCO GIRARDO
Ci sono 'forze' tutt'altro che occulte a spingere da inizio
anno le Borse all'ingiù. Ma è una variabile nascosta ad
amplificare la caduta, trasformando la pioggia di vendite
in una tempesta perfetta per la quale, al momento, non
sembra esserci ombrello che tenga: la cecità connaturata di
chi spara ordini a raffica senza tener conto del quadro
economico, monetario o finanziario che sia,
semplicemente perché il suo sistema nervoso digitale
reagisce in una frazione di secondo a uno stimolo
algoritmico. Proprio così: i mercati scenderebbero
sicuramente anche da soli, dato il contesto, ma a mandarli
al tappeto - generando panico - sono i robot. Partiamo in
ogni caso da ciò che si vede ed è già di per sé preoccupante.
I crolli delle Borse segnalano che è in atto una
pericolosissima ritirata della liquidità. Sembrerebbe
impossibile, giacché da sole la Banca centrale europea e
quella giapponese stanno pompando ogni mese 110
miliardi di euro nel sistema. All'azione espansiva
corrisponde purtroppo una reazione opposta - se non
superiore - che ha origine nei grandi Paesi emergenti. È a
questa 'forza', in particolare, che si riferiva la settimana
scorsa Mario Draghi. Il tracollo dei prezzi petroliferi, il
rallentamento dell'economia cinese e il rialzo dei tassi
americani hanno indebolito le valute della Russia, della
stessa Cina, dell'Arabia Saudita e del Brasile, per citare
solo alcune delle economie coinvolte. Tutti Paesi che negli
ultimi anni avevano non solo sostenuto la crescita globale,
ma accumulato pure - grazie all'export di materie prime
pagate per larga parte in dollari - enormi fortune in
'argenteria occidentale': riserve in biglietti verdi, euro,
obbligazioni governative e societarie. Ora stanno
'svendendo' senza andar per il sottile, pur di proteggere,
nella più classica delle 'guerre valutarie', le rispettive
monete. E così risucchiano come fossero idrovore quella
liquidità che Bce e Boj stanno invece cercando di
assicurare per riportare l'inflazione a livelli adeguati. La
fiammata registrata ieri dallo spread italiano è un effetto
collaterale di questo drenaggio: via i titoli italiani e sotto
con quelli tedeschi, il porto sicuro in caso di mare grosso.
Ed è una ricaduta pericolosa per le nostre finanze
pubbliche: a pagar cara la mancanza d'inflazione è
purtroppo il rapporto tra debito e Pil. Il quale Pil, stando al
denominatore, avrebbe al contrario bisogno di un po'
d'inflazione per diventare più grande e ridurre il rapporto
con l'ingombrante inquilino del piano di sopra. Le vendite
generalizzate colpiscono poi anche i mercati azionari, a
partire dai titoli bancari.
Le nostre banche sono altresì alle prese con il nodo dei
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 242 del 14 febbraio 2016
crediti deteriorati e la loro 'sofferenza' in Borsa è quindi
addirittura maggiore. Eppure questi 'fondamentali' non
sono sufficienti a spiegare le chiusure isteriche dei mercati
o a motivare il clima da recessione alle porte sulle piazze
finanziarie globali dove i bersagli sono ormai aziende sane
e malate, con bilanci in rosso o floridi senza distinzione
alcuna. Ieri, ad esempio, non c'era dato macroeconomico o
decisione di politica monetaria cui appigliarsi per
giustificare una simile reazione. L'ondata di scioperi in
Grecia che fa vacillare il governo Tsipras non rientra certo
tra i fattori che possono scatenare una bufera di simili
proporzioni. Il panic selling, come si chiama in gergo, è
stato alimentato ancora una volta artificiosamente dal
trading automatico. Dai software, cioè, ai quali si sono
affidate con troppa leggerezza le chiavi della finanza.
Un'operazione su due a Wall Street è ordinata oggi
automaticamente dalle 'macchine' ad alta frequenza, sei su
dieci comunque da algoritmi. In Europa siamo al 40%, ma
in una giornata di strappi, al rialzo o al ribasso che siano, la
percentuale è certamente superiore. Non ci sono allora
correlazioni all'economia reale o previsioni di politica
monetaria che tengano: il mercato scende? Si vende.
Scende di più? I software aumentano gli ordini speculativi
al ribasso per guadagnarci comunque. E vien giù tutto.
Nel mondo delle 'forze' palesi, l'unica diga rimasta per
arginare il grande deflusso dei Paesi emergenti è quella
delle Banche centrali.
La Fed americana potrebbe posticipare il secondo rialzo
dei tassi ipotizzato a marzo. La Bce, come ha anticipato
Draghi, è pronta ad ampliare nello stesso mese «quanto
necessario» il programma di acquisto titoli (Qe).
Probabile che entrambe si muovano in tale direzione. Per
fermare le macchine, invece, servirebbe ben altro.
Non bastano le misure disincentivanti già messe in atto
anche a PiazzaAffari. E nemmeno le nuove regole previste
dalla normativa sui mercati finanziari europei 'Mifid 2' che
entrerà in vigore nel 2017. È necessario un intervento
coordinato a livello globale, da parte dei regolatori e della
politica, che preveda limiti più rigorosi e magari una
tassazione efficace sulle transazioni finanziarie ad alta
frequenza e algoritmiche in generale, una 'Tobin Tax 2.0'.
È quanto Francesco ha indirettamente chiesto il mese
scorso ai potenti del mondo. Senza troppi giri di parole, nel
suo messaggio al Forum di Davos, il Papa ha avvertito:
«Non facciamoci comandare dai robot».
Le 'macchine' scavano fosse e precipizi in cui finiscono
imprese e persone. Ieri, ancora una volta, ne abbiamo
avuto la prova.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 7 febbraio 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di questa domenica racconta – nella redazione di san Luca – la
chiamata dei primi discepoli di Gesù (Lc 5,1-11). Il fatto avviene in un
contesto di vita quotidiana: ci sono alcuni pescatori sulla sponda del lago di
Galilea, i quali, dopo una notte di lavoro passata senza pescare nulla,
stanno lavando e sistemando le reti. Gesù sale sulla barca di uno di loro,
quella di Simone, detto Pietro, e gli chiede di staccarsi un poco da riva e si
mette a predicare la Parola di Dio alla gente che si era radunata numerosa.
Quando ha finito di parlare, gli dice di prendere il largo e di gettare le reti.
Simone aveva già conosciuto Gesù e sperimentato la potenza prodigiosa
della sua parola, perciò gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la
notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (v. 5). E
questa sua fede non viene delusa: infatti le reti si riempirono di una tale
quantità di pesci che quasi si rompevano (cfr v. 6).
Di fronte a questo evento straordinario, i pescatori sono presi da grande
stupore. Simon Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Signore,
allontanati da me, perché sono un peccatore» (v. 8). Quel segno prodigioso
lo ha convinto che Gesù non è solo un formidabile maestro, la cui parola è
vera e potente, ma che Egli è il Signore, è la manifestazione di Dio. E tale
presenza ravvicinata suscita in Pietro un forte senso della propria
meschinità e indegnità. Da un punto di vista umano, pensa che ci debba
essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua
condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo
stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato.
La risposta di Gesù a Simon Pietro è rassicurante e decisa: «Non temere;
d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). E di nuovo il pescatore di
Galilea, ponendo la sua fiducia in questa parola, lascia tutto e segue Colui
che è diventato il suo Maestro e Signore. E così fecero anche Giacomo e
Giovanni, soci di lavoro di Simone. Questa è la logica che guida la missione
di Gesù e la missione della Chiesa: andare in cerca, “pescare” gli uomini e
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le donne, non per fare proselitismo, ma per restituire a tutti la piena dignità e
libertà, mediante il perdono dei peccati. Questo è l’essenziale del
cristianesimo: diffondere l’amore rigenerante e gratuito di Dio, con
atteggiamento di accoglienza e di misericordia verso tutti, perché ognuno
possa incontrare la tenerezza di Dio e avere pienezza di vita. E qui, in maniera
particolare, penso ai confessori: sono i primi a dover dare la misericordia del
Padre seguendo l’esempio di Gesù, come hanno fatto anche i due Frati santi,
padre Leopoldo e padre Pio.
Il Vangelo di oggi ci interpella: sappiamo fidarci veramente della parola del
Signore? Oppure ci lasciamo scoraggiare dai nostri fallimenti? In questo
Anno Santo della Misericordia siamo chiamati a confortare quanti si sentono
peccatori e indegni di fronte al Signore e abbattuti per i propri errori, dicendo
loro le stesse parole di Gesù: “Non temere”. “E’ più grande la misericordia
del Padre dei tuoi peccati! E’ più grande, non temere!”. Ci aiuti la Vergine
Maria a comprendere sempre più che essere discepoli significa mettere i
nostri piedi sulle orme lasciate dal Maestro: sono le orme della grazia divina
che rigenera vita per tutti.
© Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana
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ISIS E RADICALIZZAZIONE ISLAMISTA
IN EUROPA
Giovanni Sale S.I.
Il fenomeno dei combattenti-kamikaze dell'Isis, che hanno agito a Parigi nel novembre
del 2015 e che minacciano di colpire altre città europee, è legato a quello più generale e
altrettanto allarmante della cosiddetta «radicalizzazione» dei giovani musulmani europei.
Innanzitutto va precisato che, a differenza di quanto viene generalmente sostenuto da
una certa pubblicistica anti-islamica, il fenomeno kamikaze non è connaturale all'islam
politico e religioso; infatti nell'islam, come del resto in tutte le religioni monoteiste, la
pratica del suicidio è proibita. In una celebre sura (III, 169) il Corano afferma che soltanto
coloro che muoiono in battaglia per la causa dell'islam ottengono il premio eterno. Essi
sono accolti in paradiso immediatamente e, come ricompensa del loro sacrificio, siedono
alla destra di Allah, sposano 72 donne vergini e nel giorno del giudizio si ricongiungeranno
a 10 membri della propria famiglia. In generale, nella tradizione religiosa musulmana i
martiri (shahíd) muoiono in battaglia per mano dei nemici infedeli, non si tolgono
volontariamente la vita, sia pure per una motivazione elevata o altruistica. Perciò le
«operazioni kamikaze», dal punto di vista della dottrina islamica classica, non sono in
alcun modo giustificabili, e di fatto le maggiori autorità religiose le hanno ripetutamente
condannate.
A partire dagli anni Novanta questo fenomeno si è diffuso poco alla volta in Medio
Oriente, quasi per contagio ideologico, dall'ambito sciita, dove era sorto, a quello sunnita,
sia nei territori palestinesi occupati, in particolare quelli sottoposti al controllo politico e
ideologico di Hamas, sia in Iraq, soprattutto dopo l'invasione statunitense. Inoltre, le
«operazioni kamikaze» furono massicciamente utilizzate dal terrorismo transnazionale,
controllato da al Qaeda, raggiungendo il culmine nell'attentato alle Torri Gemelle dell'11
settembre 2001.
Va però precisato che queste operazioni praticate dall'islamismo radicale, sebbene
fossero tutte indirizzate a provocare la morte di chi le poneva in essere, oltre che di altri
soggetti, si differenziavano tra loro sia nelle motivazioni ideologico-religiose, sia anche
nelle modalità di realizzazione. Quelle condotte dagli sciiti prendevano di mira soltanto i
nemici combattenti, esattamente identificati; erano oggetto di un'accurata preparazione, ed
erano sottoposte al controllo della gerarchia dei cosiddetti « guardiani della rivoluzione»,
cioè i pasdaran, o dei capi di Hezbollah, che ne indirizzavano l'azione inscrivendola in una
specifica tradizione religiosa consolidata ed esemplare.
Invece, le operazioni condotte dai sunniti, e in particolare dai membri di al Qaeda,
colpivano indiscriminatamente i loro nemici - genericamente indicati come sionisti,
crociati, o traditori dell'islam autentico -, senza risparmiare neppure i civili musulmani
presenti sul luogo dell'azione. È a questa modalità di azione che fa riferimento l'Isis,
svuotandola però di significato religioso e di ogni tipo di ritualità sacrale.
Isis, terrorismo e radicalizzazione
L'Isis, che nasce dalla branca irachena di al Qaeda, comandata da uno dei peggiori
«macellai» del Medio Oriente - Abu Musab alZarqawi, ucciso da un drone statunitense
nel 2006 - ha utilizzato già da subito su larga scala i combattenti-kamikaze per
combattere sia i nemici vicini, cioè gli odiati sciiti e le minoranze religiose presenti nelle
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regioni occupate, sia i nemici lontani, vale a dire gli infedeli e corrotti occidentali e i loro
protetti sionisti. Ma soltanto negli attentati di Parigi della. sera del 13 novembre 2015
questo micidiale strumento di morte è stato usato per la prima volta massicciamente in
Europa, e ciò fa la differenza rispetto agli attentati precedenti realizzati da al Qaeda e da
altri movimenti fondamentalisti. Un ulteriore elemento da porre in evidenza è che quasi
tutti i combattenti-kamikaze che hanno partecipato ai massacri parigini erano
musulmani europei: sei di loro erano di nazionalità francese, mentre la presunta mente
del commando era belga.
Nelle settimane successive all'attentato, sui giornali si è molto discusso sull'identikit
degli attentatori, in particolare sulla loro formazione e sulla loro appartenenza a gruppi
radicali. Va inoltre notato che tutti i componenti del commando erano combattentikamizake, i quali, oltre a farsi esplodere, hanno anche sparato, con freddezza e
determinazione, con potenti kalashnikov su civili inermi, come è avvenuto al Bataclan.
Come la maggior parte delle persone che scelgono di combattere per lo Stato Islamico,
anche in questo caso si trattava di foreign fighters, cioè di giovani che sono andati, anche
più di una volta, in Siria o in Iraq, e che successivamente sono ritornati (o, come
ritengono alcuni, sono stati inviati «in missione») in Europa, nel Paese dove risiedevano,
con l'intenzione di realizzare un attentato per sostenere la causa dell'Isis.
Secondo gli studiosi della materia, il fenomeno dei combattentikamikaze si presenta in
Europa con caratteristiche sue proprie. Esso è praticato da musulmani europei che si sono
«radicalizzati». Questo termine è di recente conio e viene utilizzato - accanto a quello più
comune di «terrorismo» - soprattutto dagli studiosi inglesi e francesi per sottolineare la
specificità di tale fenomeno. Non si tratta di una semplice e astratta questione lessicale, ma
ci sono contenuti e momenti di azione ben precisi. Il termine «radicalizzazione», infatti,
mette in luce i vari passaggi che conducono il giovane musulmano (o anche il neoconvertito) ad aderire alla causa dell'islamismo radicale, ponendo l'accento sul «prima»
della scelta islamista, mentre il termine «terrorismo» riguarda soprattutto il «dopo», cioè la
modalità di azione scelta per portare avanti la lotta armata. Questo spiega perché gli
approcci più moderni al fenomeno prendano in considerazione non soltanto, come nel
recente passato, le motivazioni di ordine ideologico-sociale (che pure sono forti), ma anche
quelle di carattere psicologico-affettivo e antropologico-generazionale.
I jihadisti che combattono per l'Isis, secondo gli studiosi della materia, non hanno
quasi mai un vero passato religioso; anzi, recenti ricerche dimostrano che esiste una
relazione inversa tra «la devozione religiosa e l'attrazione nei confronti del jihad». Ciò sta a
significare che l'islamismo radicale e la scelta jihadista non nascono dall'esperienza
religiosa più autentica, e che la religione spesso viene utilizzata soltanto come un
rivestimento formale (o funzionale) per sostenere una strategia politica, tesa al dominio e al
potere. Questi giovani di solito non hanno frequentato, come molti musulmani, le moschee,
e neppure conoscono a fondo il Corano e gli altri libri sacri; molti di loro sono dei riconvertiti, che anche successivamente conservano lo stile di vita «occidentale» che
conducevano in precedenza. Essi si sono radicalizzati frequentando degli imam islamisti spesso anche soltanto via internet -, che si sono autoproclamati tali - e quindi non sono
riconosciuti dalle comunità musulmane - e che generalmente sono dei semplici
procacciatori di nuove reclute al califfato. Inoltre, la maggioranza dei jihadisti dell'Isis non
ha neppure un passato di impegno politico in movimenti islamici attivi nell'ambito sociale,
come i Fratelli Musulmani o i diversi movimenti di sostegno alla causa palestinese o di
aiuto ai profughi che vivono nell'indigenza.
Coloro che scelgono di fare i kamikaze, come quelli del novembre parigino, non vanno
alla morte, come i loro predecessori impegnati nella lotta armata, per immolarsi per la causa
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di Allah, ma per morire come eroi hollywoodiani. La loro dedizione non è per 1a sharia, ma
per la «morte bella» e la violenza. Essi non si preparano alla morte attraverso atti rituali di
purificazione (come fecero perfino gli attentatori delle Torri Gemelle di New York), e
neppure sono interessati ai proclami religiosi edificanti da lasciare come testamento ai loro
correligionari, come facevano i kamikaze di Hamas e altri. Affrontano invece la morte con
spavalderia e leggerezza, utilizzando droghe e allucinogeni vari. Sembra che alcuni dei
kamikaze di Parigi, nei giorni precedenti agli attentati, si facessero vedere in giro dagli
amici mentre fumavano hashish e bevevano birra.
Nuove interpretazioni sulla radicalizzazione islamista
Secondo alcuni studiosi, i musulmani che si sono radicalizzati appartengono di solito a
due categorie di persone. La prima riguarda giovani musulmani che appartengono alla
seconda generazione di immigrati, in genere celibi e molto critici nei confronti delle scelte sia culturali-integrative, sia politiche - fatte dalla famiglia di origine. Essi le considerano
opportunistiche e strumentali alle strategie politiche del Paese che, accogliendoli e
integrandoli, a loro avviso li ha «ri-colonizzati». Questi sono i soggetti più deboli e quelli
più esposti alla predicazione salafita, e quindi facilmente «radicalizzabili».
La seconda categoria riguarda giovani non musulmani, per lo più provenienti dalla
provincia, che si sono convertiti attraverso lo strumento virtuale, entrando in contatto con
improvvisati predicatori salafiti o con propagandisti incaricati di «pescare» adesioni
attraverso la rete. Questi giovani, che sono circa il 25% di coloro che hanno aderito all'Isis,
di solito sono attratti dal radicalismo religioso-identitario della proposta e dalle opportunità
di azione che l'adesione all'islamismo radicale offre loro. Spesso si tratta di persone
psicologicamente fragili, alla ricerca di un'ideologia forte per cui combattere, di una
«famiglia» (o una nuova cerchia affettiva) a cui aderire, e di nuove prospettive di azione
con cui misurarsi.
In ogni caso, la grande maggioranza dei «radicalizzati» musulmani, secondo
l'orientalista e politologo francese Oliver Roy, non appartiene né alla prima né alla terza
generazione di immigrati, perché i primi, o per scelta personale o per motivi sociali (legati
alla necessità del lavoro e all'urgenza di mantenere la famiglia, spesso numerosa), si sono
integrati velocemente, pur continuando a praticare «l'islam di provenienza» e a frequentare
i propri connazionali, mentre gli altri, cioè i più giovani, forti di una continuità familiare, si
sentono cittadini del Paese in cui vivono e ne condividono pienamente la cultura e lo stile di
vita.
Non è facile comprendere il fenomeno del radicalismo islamico tra i musulmani che
vivono nei Paesi occidentali. Fin dalle origini esso è stato interpretato dagli studiosi della
materia attraverso due approcci, che potrebbero essere definiti «classici»: quello basato
sull'elemento identitario-culturale e quello basato sull'elemento socio-politico. Il primo si
fonda sulla celebre teoria dello scontro di civiltà (quindi sull'insanabile inconciliabilità tra
cultura islamica e cultura occidentale). Nel momento in cui è sorto, esso ha avuto numerosi
sostenitori, soprattutto negli Stati Uniti. È stato invece molto criticato dalla maggioranza
dagli studiosi europei, che lo interpretavano alla stregua di una «guerra» tra culture e
civiltà. Oggi viene ripresentato, sebbene con alcune modifiche, da quelli che sostengono
che il fenomeno del radicalismo è la prova che l'islam non può integrarsi con la cultura
occidentale e che, per eliminare lo spirito jihadista e antidemocratico che lo caratterizza,
debba sottoporre a revisione critica le sue fonti religiose.
I sostenitori del secondo approccio trovano invece le ragioni della moderna
radicalizzazione sia nelle recenti vicende mediorientali e, soprattutto, nella mancata
risoluzione della questione palestinese (anche se la maggior parte di essi considera la sola
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esistenza dello Stato ebraico come un vulnus contro il mondo arabo), sia nell'esperienza di
marginalizzazione e di non integrazione sociale che i giovani musulmani vivono nelle
periferie delle grandi metropoli europee. Questo approccio, nelle sue forme più radicali,
presta però il fianco a molte critiche: diversi analisti politici notano che, con la nascita del
cosiddetto «califfato siro-iracheno», la questione palestinese, almeno nella propaganda
radicale, è passata in secondo piano rispetto alla necessità di cooptare nuove reclute per
sostenere lo Stato Islamico. Di fatto la distruzione dello Stato di Israele è ricordata dai
guerriglieri dell'Isis più come slogan che come progetto politico.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, ci si chiede se le cause della radicalizzazione
siano soprattutto sociali, e quindi da addebitare alla mancata integrazione dei giovani
islamici nei vari contesti di vita a causa delle politiche sociali discriminatorie. Perché allora
questo fenomeno colpisce soltanto una parte, fortunatamente minima, delle comunità
musulmane europee? In Francia, ad esempio, i musulmani residenti sono più di sei milioni,
mentre il numero dei cosiddetti «radicalizzati» non supera i due o tremila; in altri Paesi con
una forte presenza di musulmani, come la Germania e l'Inghilterra, questo numero è ancora
più basso.
Di recente, il fenomeno della radicalizzazione, soprattutto dopo le stragi di Parigi
effettuate da giovani kamikaze, è stato studiato ricorrendo a nuovi approcci interpretativi,
che meritano di essere segnalati. Secondo Roy, la radicalizzazione di molti giovani
musulmani, soprattutto nei Paesi francofoni, è frutto di una «rivolta generazionale» dei
figli nei confronti dei valori vissuti dalle famiglie di appartenenza. Questa tesi è stata
sostenuta recentemente anche da alcuni sociologi, secondo i quali l'islam europeo sta oggi
attraversando un'esperienza simile a quella vissuta negli anni Sessanta e Settanta del secolo
scorso dalla media e piccola borghesia europea. Quella contestazione giovanile aveva dato
avvio a un processo di emancipazione in diversi ambiti della società europea, ma anche a
fenomeni sociali negativi e fortemente distruttivi, come quello del terrorismo
rivoluzionario (le Brigate Rosse in Italia, l'Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in
Germania), e ad altre esperienze affini, che per molti anni hanno messo a dura prova il
tessuto democratico di diversi Paesi europei.
I soggetti che aderiscono all'islam radicale e all'Isis di solito non sono giovani
emarginati, disoccupati con bassa scolarizzazione e provenienti da famiglie indigenti, e
neppure sono stati vittime di razzismo da parte dei loro coetanei: si tratta invece di ragazzi
normali, che parlano bene il francese, hanno frequentato le scuole secondarie (come la
maggior parte dei francesi). Alcuni di loro, inoltre, vengono da esperienze lavorative
nell'ambito dei servizi. Prima di essersi «radicalizzati» e «riconvertiti», hanno condiviso la
cultura dei giovani della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato hashish, frequentato
le discoteche e sono usciti con ragazze. Cose tutte vietate dalla loro religione.
Secondo Roy, non è in corso in Europa una rivolta dell'islam o della comunità
musulmana nel suo insieme nei confronti della cultura occidentale e dei suoi valori, ma
soltanto di una categoria precisa di giovani; «non si tratta di una radicalizzazione dell'islam,
ma di un'islamizzazione del radicalismo». Ma perché questi giovani della seconda
generazione scelgono l'islam radicale per esprimere il loro malessere? Il motivo - afferma
Roy - è evidente: «Essi rielaborano un'identità che ai loro occhi è stata compromessa dai
loro genitori e si convincono di essere "più musulmani dei musulmani", in particolare dei
loro padri».
Il sociologo italiano Renzo Guolo ritiene che la radicalizzazione sia il risultato di
fattori diversi di ordine sociologico, psicologico e antropologico, variamente connessi tra
loro. Essa non avviene all'improvviso, ma è il risultato di un lungo processo, «perché ha a
che fare con le motivazioni profonde dell'individuo, che si innescano quando questi
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incrocia avvenimenti storici che hanno funzione catartica, come la guerra in Siria o la
condizione della vita nelle periferie urbane, unite al risentimento verso un Paese che, nei
fatti, non riesce a colmare la lacuna della disuguaglianza». Il fenomeno della
radicalizzazione, però, - continua Guolo - ha una sua autonomia e non dipende direttamente
soltanto da motivazioni di ordine sociale o ideologico, ma da qualche cosa che agli occhi di
molti giovani offre una risposta di senso così totalizzante da mobilitarli verso scelte
estreme, quali quelle di andare a combattere per lo Stato Islamico in Siria o di farsi
esplodere come kamikaze. Tutto questo rinvia «al tema decisivo dell'identità. Identità che,
nel tempo della proclamata fine delle ideologie, qualcuno ritrova in una concezione del
mondo che si propone come inflazione di valori, come ultima utopia, come solo
antagonismo di sistema».
Secondo altri studiosi, le spiegazioni fornite dalle scienze sociali sul fenomeno del
radicalismo islamico in Europa sono generiche, «professionali» e in genere inadeguate.
Alcuni autori parlano di «odio ideologico» dell'islam radicale nei confronti dell'Occidente,
dovuto a motivazioni di ordine psicologico, culturale, più che a motivi sociali, collegati a
fenomeni di marginalizzazione. «La rabbia dei terroristi - scrive il saggista statunitense
Paul Berman - riposa sull'odio, e l'odio è un sentimento, un'emozione che è anche un
discorso». «Noi siamo convinti - continua - che se un movimento terroristico si scatena nel
mondo, la sua causa sia necessariamente da cercare in un principio di distruzione, "esterno"
agli stessi terroristi. Allora ci rivolgiamo agli specialisti delle scienze sociali, che di solito
non hanno nessuna difficoltà a trovarne i motivi». Insomma, esistono tante cause giuste del
fenomeno indagato quante sono le scienze sociali che se ne occupano, le quali - commenta
il saggista - ci dicono tutto e il contrario di tutto.
In un fortunato libretto del 2004, l'intellettuale libanese Samir Kassir trattava del
fenomeno moderno della cosiddetta «infelicità araba». Secondo lui essa ha a che fare, più
che con i dati statistici in rosso del mondo arabo circa la povertà, l'analfabetismo ecc., con le
percezioni e con i sentimenti delle persone. «A iniziare dalla sensazione, molto diffusa e
profondamente radicata, che il futuro è una strada ostruita [...]. L'infelicità araba, però, è
anche lo sguardo degli altri. Quello sguardo che impedisce perfino la fuga e che, sospettoso
o condiscendente che sia, ti rimanda alla tua condizione ritenuta ineluttabile, ridicolizza la
tua impotenza, condanna a priori la tua speranza». Questo sentimento però genera, oltre che
infelicità, anche risentimento e desiderio di ribellione. Questa è certamente una possibile
spiegazione psicologico-identitaria del fenomeno della radicalizzazione, anche se, come si
diceva, esso non è più avvertito in questi termini dai giovani musulmani europei dell'ultima
generazione.
L'Occidente dopo gli attentati parigini
Gli attentati parigini e anche quello a San Bernardino negli Stati Uniti (sebbene di
tenore diverso) hanno riproposto all'attenzione dell'Occidente il vecchio tema della lotta al
terrorismo internazionale. Nuovi attentati sono stati minacciati contro i Paesi europei, in
particolare contro quelli che inviano i loro aerei per bombardare le postazioni strategiche
del cosiddetto «califfato siro-iracheno». Neppure gli Stati arabi sono immuni da questa
minaccia. Non va dimenticato, infatti, che la maggior parte degli attentati terroristici e
kamikaze sono stati realizzati dagli islamisti contro Paesi musulmani, per motivi sia etnicoreligiosi, sia politico-strategici, in una lotta in cui le grandi potenze sciite e sunnite si
combattono per interposta persona o «per procura».
È la prima volta, però, che l'Europa diventa l'obiettivo principale della furia jihadista.
Numerose città sono minacciate, e i Governi nazionali sono costretti a prendere misure di
sicurezza molto rigorose, fino ad applicare, come in Francia, lo stato di emergenza e a
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proporre, su tale materia, la modifica della Costituzione. Anche la libera circolazione delle
persone nei Paesi «dell'area Schengen» è rimessa in discussione da parte degli Stati più
vulnerabili. Il sentimento di insicurezza e di instabilità colpisce non soltanto la società
civile (e le sue abitudini «pacifiste»), ma anche l'economia dei singoli Paesi, che negli
ultimi anni hanno vissuto un momento di recessione.
In realtà, gli attentati, secondo gli osservatori, hanno già ottenuto alcuni importanti
risultati. Essi hanno spinto diversi governanti a usare la parola «guerra» - facendo
riferimento alla lotta contro il terrorismo e lo Stato islamico -, che nel contesto europeo
sembrava estromessa dal vocabolario della politica e dell'etica pubblica. In questo modo
l'Isis è riuscito a ottenere l'ammissione che è in corso una guerra, sia pure asimmetrica, tra
«nemici» riconosciuti, e non una semplice campagna di polizia condotta dai Paesi
occidentali contro dei «criminali fanatici».
Nell'immaginario islamista è già iniziato uno scontro epocale tra l'islam e i crociati (e i
sionisti), e tutti i veri musulmani sono chiamati a combattere per il jihad. Sta alla saggezza
dei nostri governanti non cadere in questa trappola, tanto più che lo Stato Islamico
recentemente ha subìto importanti sconfitte sul territorio a opera dell'esercito curdo e di
quello «regolare» iracheno o siriano. Inoltre, la sua economia e le sue postazioni strategicomilitari sono state gravemente colpite dai continui bombardamenti aerei operati dagli
europei, dalle aviazioni russe e statunitensi.
In seguito a queste perdite sembra che i capi del cosiddetto «califfato nero» abbiano
deciso di trasferire in Libia una parte dei loro quadri (compreso, secondo alcune
indiscrezioni non convalidate, lo stesso Abu Bakr al-Baghdadi), aprendo così un nuovo
fronte di guerra. Questa volta, però, esso è spostato verso il centro del Mediterraneo, e
quindi molto vicino all'Italia e a Roma, che per i jihadisti dell'Isis ha un forte valore
simbolico-apocalittico.
Gli attentati di Parigi hanno raggiunto anche un altro obiettivo, quello di mettere in
rapporto il massacro con la recente crisi dei profughi. La stretta sulla sicurezza e il controllo
sui nuovi arrivati, soprattutto se profughi, messi in opera dai Governi europei, stanno
creando dei problemi nella politica di accoglienza da parte di alcuni Paesi. Lo scopo non è
solo quello di punire i musulmani siriani che scappano dal califfato, ma soprattutto quello
«di attenuare la solidarietà degli europei per i profughi, già messa a dura prova dalla
disoccupazione e dalla crescita di partiti di destra ostili agli immigrati». Ora, se i Paesi
europei dovessero scegliere, per motivi di sicurezza - alcuni ritengono che molti terroristi
entrino in Europa attraverso questo canale -, di non accogliere più i profughi che fuggono
dai luoghi di guerra, questi si sentirebbero abbandonati e certamente diventerebbero facile
preda dell'Isis.
Anche le politiche di sicurezza adottate (o in corso di adozione dai Paesi europei) nei
confronti dei musulmani fondamentalisti (anche se non legati all'Isis o alla lotta jihadista)
possono, se non vagliate attentamente, ingenerare il sospetto che sia in corso in Occidente
una campagna contro i musulmani, e ciò farebbe il gioco dell'Isis, il cui piano di azione
consiste nel far scoppiare in Europa - dove, nei Paesi dell'Unione, vivono circa 17 milioni di
musulmani - una guerra civile tra «crociati» e islamici. In tal caso il presunto «califfato»
rappresenterebbe il punto di riferimento ideale della loro lotta contro il secolare nemico.
Dopo la strage di San Bernardino del 4 dicembre 2015, la proposta provocatoria di
Donald Trump, candidato repubblicano alla Casa Bianca, di vietare ai musulmani di entrare
negli Stati Uniti, ha certamente creato sconcerto nella comunità internazionale. In ogni
caso, è stato detto, un divieto di tale tipo non sarebbe possibile, in quanto verrebbe
dichiarato incostituzionale. Esso infatti violerebbe la libertà di religione e di culto
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assicurata a tutti dalla Costituzione degli Stati Uniti e dai trattati internazionali sui diritti
dell'uomo sottoscritti dal Governo statunitense.
L'islamofobia di Trump pare sia condivisa da un certo numero di cittadini americani. Il
che non è un buon segnale, unito alle incertezze economiche dei mercati mondiali, per la
crescita della democrazia nei Paesi occidentali. Dalle colonne del New York Times, il
politologo Thomas Friedman ha commentato in modo deciso: «Mettendosi contro l'intero
mondo musulmano, alienandoselo con la sua proposta, [...] Trump agisce quasi da agente
segreto dello Stato Islamico. L'Isis infatti vuole che ogni musulmano in America e in
Europa si senta discriminato». Infatti, se ciò dovesse accadere, gli islamisti del presunto
«califfato» avrebbero raggiunto pienamente il loro scopo, quello cioè di creare divisione
nel mondo occidentale e indebolire la compagine democratica e civile degli Stati che lo
compongono.
Al contrario, è necessario il sostegno dei musulmani non fondamentalisti, che sono la
grande maggioranza, per combattere efficacemente lo Stato Islamico. L'uso delle sole
armi, sia che si tratti di bombardamenti mirati - o, come si dice, «chirurgici» -, sia che si
tratti di invasioni di terra (come in ipotesi sarebbe possibile, in base alla lettera della
risoluzione Onu deI 21 novembre scorso), non elimina certo il pericolo terroristico: una
volta tolto di mezzo lo Stato Islamico e i suoi capi, infatti, nuovi movimenti jihadisti,
presenti in altre parti dell'inquieto mondo arabo, sarebbero pronti a raccogliere la bandiera
della causa islamista.
A proposito, poi, di un'eventuale invasione di terra, a cui nessuno Stato sembra al
momento interessato - tanto meno gli Stati Uniti di Barack Obama -, è ragionevole
chiedersi se, dopo i lunghi e non risolutivi interventi occidentali in Iraq e in Afghanistan, sia
il caso di ripetere gli stessi errori del recente passato, e con fondate ragioni ci si chiede
anche se tale soluzione non avrebbe invece come effetto quello di provocare nuove
animosità da parte degli islamici nei confronti degli occidentali invasori.
Il terrorismo potrà essere sconfitto soltanto se si agisce su ambedue i piani: quello
esterno, cioè attraverso l'inevitabile uso delle armi, purché si colpiscano obiettivi mirati,
evitando di colpire civili, e della buona diplomazia; e quello interno, cioè attraverso il
sostegno di centinaia di milioni di musulmani che amano la pace e che condannano, da veri
credenti, il terrorismo. Questa condanna dovrebbe essere espressa in modo più energico e
con maggiore determinazione sia dagli Stati musulmani, sia soprattutto dalla società civile,
dai movimenti laici e religiosi e dal vasto mondo delle moschee. Soltanto così potrebbe
avvenire un processo di «prosciugamento» dei tanti bacini dove nascono e si sviluppano le
idee di un islam radicale e violento e si alimentano odi e risentimenti nei confronti di un
Occidente ritenuto nemico e colonizzatore.
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