2. IL CAPODANNO FIORENTINO, LA MADONNA E I MAGI Ci si sta finalmente accorgendo, in questa Firenze dissestata e in un’Italia dissestata, che la “ripresa” non comincia se non da noi e dall’interno di noi: il che vuol dire dalla nostra ricostruzione interiore, sia personale sia comunitaria. Si fa molta retorica sulla cultura e sulla “bellezza che salverà il mondo”, ma in realtà non si sa bene da che parte cominciare. Eppure la risposta è qui, davanti a noi: in quello che siamo, nel nostro modo di vivere e di concepire il mondo. Il che significa appunto – due parole che qualcuno ha cercato di criminalizzare - “identità” e “tradizione”. E’ necessario non solo riconquistarle, ma gestirle in modo aperto, che guardi al futuro. Non sono valori fermi e chiusi, al contrario: sono dinamici, si rinnovano di continuo. Dante lamentava che la Firenze del suo tempo fosse piena di “gente nova”, che magari veniva dal Mugello o dalla Valdelsa, luoghi posti a un giorno di cammino a dorso di mulo. Ma oggi con un giorno di viaggio in aereo i può arrivare a Firenze da qualunque parte del mondo. Tra vent’anni, la classe dirigente cittadina e la città stessa sarà piena di giovani figli di maghrebini o di cinesi: e se noi avremo lavorato bene da ora in poi saranno dei fiorentini eccellenti, come lo furono nel Quattrocento i Medici che pochi decenni prima erano venuti in città da Cafaggiolo nel Mugello. Ma per questo la “fiorentinità” dev’essere coltivata, curata, insegnata nelle scuole, consegnata ai giovani e da essa appresa capillarmente sui luoghi di lavoro e fin nelle nostre case. Se sapremo farlo, anche gli episodi di abbandono del nostro patrimonio naturale e artistico o di teppismo spariranno naturalmente. E’ un impegno che bisogna accollarsi coscientemente e da subito, perché altrimenti la crisi nella quale oggi versiamo diverrà irreversibile. E cominciamo dal “tempo fiorentino”, dalle nostre feste: dal Sabato Santo, dall’Ascensione, dal san Giovanni Battista. E da quell’Annunciazione, il 25 marzo, che dal X secolo fino al 1749 segnava l’inizio dell’anno fiorentino. “Stile dell’Incarnazione”, si diceva. A Firenze il computo dell’anno era posticipato rispetto allo “stile moderno”, detto anche “della Circoncisione”, che faceva cominciare il còmputo dei 365 giorni di ciascun anno dal 1° di gennaio. Il che vuol dire che, se su un documento fiorentino anteriore al 1749 noi troviamo una data come, ad esempio, 24 marzo 1258, noi dobbiamo intendere che tale documento è stato prodotto secondo il nostro moderno còmputo nel 1259. A Pisa accadeva lo stesso, ma secondo uno “stile” anticipato: un documento pisano datato nello stesso giorno, 24 marzo 1258, è stato appunto prodotto nel 1258 anche secondo il nostro “stile” moderno”: ma il giorno dopo scattava, nel còmputo della città di San Ranieri, il 1259. Certo, era faticoso computare gli anni nel mondo premoderno. L’anno civile iniziante con il 1° gennaio, che a Roma era entrato in uso nel 153 a.C., venne di nuovo adottato in Italia gradualmente a partire dal Quattro-Cinquecento. In Toscana, si dovettero attendere le riforme asburgo-lorenesi. Eppure, a Firenze il 25 marzo continuò a restare importante in quanto data di una grande festa cristica e mariana, quella dell’Annunciazione coincidente con l’Incarnazione, cioè con il momento nel quale il corpo di Gesù, esattamente nove mesi prima di Natale, assunse il primo istante di vita nel seno della Vergine Maria. Era un giorno di grande importanza, nel quale si usava riunirsi attorno al grande santuario mariano cittadino, quello dell’Annunziata; mentre il 18 ottobre, festa di san Luca evangelista, si celebrava attorno al santuario mariano del contado, quello della madonna dell’Impruneta, la fiera dal bestiame in coincidenza con il giorno nel quale, approssimandosi l’autunno, le mandrie che avevano passato l’estate sulle alture del Pratomagno tornavano in basso per svernare in Maremma. In tal modo le due grandi feste mariane erano anche due feste equinoziali, la primaverile l’Annunziata, l’autunnale l’Impruneta. Reimpadronirsi del còmputo tradizionale del tempo torna importante oggi, mentre si riscopre che il consumo dei prodotti di stagione è importante al livello della nostra salute non meno che a quello della nostra economia. Ma tardoestiva erano poi le altre grandi feste fiorentine, quella della Natività di Maria l’8 settembre (l’esatto giorno della cuspide solare nella costellazione della Vergine, segnata dalla stella della Spiga in cui si festeggiava Nostra Signora protettrice dei raccolti nel granaio della città, cioè nella chiesa-loggia di Orsammichele; e a Lei era dedicata anche la cattedrale di Santa Maria del Fiore) e quindi la Concezione, nove mesi prima, l8 dicembre; e, ancora, l’Assunzione, il 15 agosto. Firenze era “fasciata” di celebrazioni mariane. Celebreremo quindi l’inizio tradizionale dell’anno nella nostra città, il “Capodanno fiorentino”, come già facciamo da qualche anno: ma quest’anno lo abbiamo fatto in grande stile. La sera del sabato 22 – il sabato precedente il 25, che cadrà il martedì successivo – si è tenuto alle 21 all’interno della basilica della Santissima Annunziata un grande concerto sponsorizzato dalla ATT (Associazione Toscana dei Tumori). Abbiamo solennemente assunto quella sera l’impegno comunitario di recuperare sistematicamente, e non più rapsodicamente, le nostre feste e le nostre tradizioni. La Santissima Annunziata, dove viene venerato l’affresco di una meravigliosa e miracolosa Vergine in atto di ricevere la visita dell’arcangelo Gabriele, venne fondata nel “Cafaggio”, un bosco alla periferia nord di Firenze (fuori dalle vecchie mura, per quanto di lì a qualche decennio la nuova cerchia l’avrebbe incluso nell’area cittadina) da sette cittadini fiorentini che 1 si erano ritirati non lontano da lì, sulla collina di Montesenario oltre Fiesole, e vi avevano fondato un monastero anch’esso dedicato a Maria. Essi furono i “Sette Santi Fondatori” di un nuovo Ordine religioso tipicamente fiorentino, quello appunto detto dei “Servi di Maria” (o più semplicemente dei “serviti”, chiamati anche ancor più semplicemente “Servi”). Di fronte alla basilica della santissima Annunziata, nella bella piazza attigua, si celebra fino dal medioevo la vigilia della festività mariana dell’8 settembre la festa caratterizzata da una fiera e detta della “Rifricolona”, durante la quale si accendono tradizionalmente in onore della Vergine delle lanterne di carta colorata. Sono tradizioni bellissime che non solo non debbono perdersi, ma che addirittura debbono tramandarsi ai nuovi cittadini fiorentini, quei bambini e ragazzi che oggi popolano le scuole elementari e medie e che magari sono figli di genitori maghrebini o cinesi, ma che saranno i fiorentini del futuro e che da una parte non dovranno perdere le tradizioni della terra dei loro avi, ma dall’altra dovranno appropriarsi di quelle della nuova patria che li ospita. Per questo un grande studioso di storia del teatro e docente nell’Università di Firenze sta pensando da qualche tempo di restaurare l’antica Sacra Rappresentazione dell’Annunziata, che si celebrava ogni anno dinanzi o all’interno del santuario. Per questo ormai da qualche anno, ogni mattina del 6 gennaio, l’Opera del Duomo organizza un “corteo dei magi” al quale con entusiasmo partecipano i membri delle comunità d’origine straniera, i nuovi fiorentini desiderosi di appropriarsi del linguaggio simbolico e del patrimonio tradizionale di quella che oggi è anche la loro città. Per questo motivo è nata a Firenze (ma ha un suo gruppo già attivo a Lucca, e sta trapiantandosi anche in altre città) una libera associazione denominata “Compagnia della Stella”, sede simbolica della quale è quello stesso convento di San Marco che nel Quattrocento ospitava la “Compagnia dei Magi” deputata a organizzare quella che allora era la vera grande festa cittadina, l’Epifania. Una festa poi purtroppo caduta in disuso: ma già dalla fine del Trecento, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, si celebrava in Firenze l’arrivo dei magi a Betlemme con una grande festa. Quella del corteo dei magi nel giorno dell’Epifania è una bella tradizione che torna, ma che tuttavia la cittadinanza fiorentina non ha mostrato finora di comprendere nel suo esatto, profondo significato. Forse perché quell’antico uso, studiato dagli specialisti, non è da essa abbastanza conosciuto. La Compagnia della Stella intende partire di lì, dal restauro di quella festa, per farsi portatrice di una serie d’iniziative volte a recuperare appieno il patrimonio delle usanze e delle tradizioni fiorentine. Il programma della Compagnia (al cui indirizzo e-mail, [email protected] , ci si può rivolgere per avere notizie specifiche) è esposto compiutamente in un libretto già pubblicato fino dal 2011 dalla Libreria Editrice Fiorentina, Il Giglio, la Stella e Tre Corone, nel quale l’evento storico è illustrato nelle sue linee portanti ed è accompagnato da un progetto di rivalutazione che prevede la restaurazione organica della festa e una mostra storico-artistica dedicata al culto dei “Tre Re” che per primi resero solenne omaggio al vero Dio, Vero Re e Vero Uomo. Anche se quei personaggi, nella realtà storica, non erano affatto re e non erano nemmeno in numero di tre. Erano qualcosa di molto di più. E che cosa fosse è necessario ricordarlo proprio quest’anno: e sarebbe bene ricordarlo in tutta Europa in quanto il culto dei re-sapienti-pellegrini è uno dei più diffusi e dei più cari in molti paesi europei e anche latino-americani in quanto gli spagnoli lo diffusero nel Nuovo Mondo fino dal Cinquecento. Abbiamo quindi cominciato a parlare di una festa celebrata a Firenze già dalla fine del Trecento, e quindi illustrata in opere artistiche celeberrime quali la pala dell’Adorazione dei magi di gentile da Fabriano già nella chiesa di santa Trinita e ora agli Uffizi, o il grande ciclo di affreschi alla “Cavalcata dei magi” dedicato da Benozzo Gozzoli in quel “Palazzo di Via Larga” (oggi Via Cavour) ch’era la nuova dimora della famiglia dei Medici nel Quattrocento. Ma a Firenze la tradizione era stata importata dalla Lombardia, dove il culto relativo era vivissimo. Esso pare fosse legato originariamente alle “reliquie” dei magi” custodite a Milano, nella chiesa di sant’Eustorgio. Ma a quel tempo i sapienti adoratori di Gesù erano già considerati per complesse ragioni esegetico-scritturali anche “re”; e come tali erano vassalli perfetti del Gran Re Signore dell’Universo. Per questo, nel 1164, l’imperatore Federico I – il Barbarossa – dispose che quelle reliquie venissero tolte alla città che si era dimostrata infedele all’impero – e che per questo era stata distrutta – e venissero affidate all’arcicancelliere imperiale Rainaldo di Dassel arcivescovo di Colonia, che con un lungo e avventuroso viaggio è trasferì nel duomo della sua città nel quale ancora vengono venerate. Eppure, una volta intrapreso questo viaggio a ritroso nel tempo, nemmeno queste notizia ci sono sufficienti. Lasciamo da parte l’identificazione della realtà fisica delle reliquie dal XII secolo e anche da prima ritenute dei magi. Ma questi personaggi chi sono propriamente, da dove vengono, che ruolo hanno nella Cristianità e nella tradizione cristiana? Per rispondere a ciò, bisogna tornar più indietro ancora. Tanto vale quindi cominciare dal principio. Un bambino figlio di povera gente nasce al freddo e nel buio di una misera stalla, e solo qualche pastore accorre a vederlo. Ma ecco che il cielo si apre e dal cielo scende un coro d’angeli. E tre grandi e ricchi saggi – forse tre re – arrivano dal lontano Oriente per adorarlo. Li ha guidati una stella. Giunti presso di lui si prostrano, lo adorano, mettono ai suoi piedi scrigni pieni di ricchi doni. 2 E’ una fiaba, forse la più bella che sia mai stata narrata. Potremmo anzi definirla addirittura un mito? Per i cristiani è tuttavia qualcosa di effettivamente accaduto, quindi una storia. "Nato Gesù in Betlemme di Giudea al tempo del re Erode, ecco che dei magi venuti dall'Oriente giunsero a Gerusalemme e chiesero: “Dov'è il re dei giudei che è nato? Poiché vedemmo la sua stella in Oriente, e siamo venuti ad adorarlo”. All'udir ciò il re Erode, e con lui tutta Gerusalemme, si conturbò e, convocati tutti i gran sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da essi dove avesse a nascere il Messia. Gli risposero: - A Betlemme di Giudea; che così è stato scritto per mezzo del Profeta. E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei già la più piccola tra le principali città di Giuda; poiché da te uscirà un principe, il quale reggerà il mio popolo Israele –.1 Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, accuratamente ricercò da essi il tempo dell'apparizione della stella, mandandoli a Betlemme, disse: - Andate e informatevi del bambino; e quando lo avrete trovato fatemelo sapere, affinché anch'io venga ad adorarlo -. I magi, udito il re, se ne partirono: ed ecco la stella, che avevano veduto in Oriente, andar loro innanzi, finché venne a fermarsi sopra il luogo dov'era il bambino. Vedendo la stella, provarono una grandissima gioia. Ed entrati nella casa, videro il Bambino con Maria Sua madre, e prostratisi lo adorarono; aperti poi i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Ed avendo ricevuto superno avviso in sogno di non tornare da Erode, per altra via fecero ritorno al loro paese".2 Bisogna per forza partire da qui: dal testo evangelico. E cominciano subito i problemi. Come ohimè non tutti sanno, ma tutti dovrebbero sapere – si tratta delle basi della cultura del “nostro Occidente” -, la storia dei magi è raccontata da moltissimi tra quei testi che pretendono di essere ispirati da Dio e che, dall’espressione greca con cui s’indica la “Buona Novella”, sono detti Vangeli. Ora, i testi evangelici sono parecchie decine, ripartite in centinaia di versioni diverse: greche, siriache, caldee, arabe, armene, georgiane, persiane, etiopiche. Ma fin dal IV secolo la Chiesa cristiana, uscita dal periodo di semiclandestinità, si è confrontata con questa miriade di testi – alcuni dei quali sono a onor del vero molto più recenti: fino all’VIII-IX secolo - e attraverso un duro lavoro esegetico punteggiato di feroci liti conciliari ha stabilito che solo quattro Vangeli (quelli attribuiti agli apostoli di Gesù di nome Matteo, Marco, Luca e Giovanni) sono “canonici”, vale a dire degni di essere inseriti in un Canon, in una peraltro brevissima lista di testi che la Chiesa stessa, proclamantesi assistita dallo Spirito Santo, ritiene d’ispirazione divina. Gli altri testi, moltissimi, sono stati dichiarati “apocrifi”: una parola ambigua, ardua, che originariamente significa soltanto “nascosti”, ma che è passata nell’uso corrente a indicare un testo di dubbia tradizione. Sin dalla fine del V secolo, si precisò che non era possibile legittimare questi testi come divinamente ispirati, per quanto ciò non si potesse escludere. Ma i vangeli apocrifi entrarono comunque nella pratica tradizionale e ispirarono, in modo speciale, gli artisti chiamati a illustrare la vita di Gesù e di Maria. Ebbene: la maggior parte delle notizie che noi possediamo a proposito dei magi, e che ci sono magari più care e più familiari, sono desunte dagli apocrifi; e il bello è che secoli di arte sacra e di letteratura ad essa ispirata non hanno fatto che ribadirle, sia pure con molte varianti. Noi sappiamo quindi per esempio, e insegniamo ai nostri bambini (quando glielo insegniamo) che i magi erano dei re, che erano in numero di tre, che si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che ciascuno di loro recò al bambino un dono specifico (l’oro, l’incenso, la mirra), che venivano da molto lontano a dorso di cammello, che seguivano una stella cometa. bene: tutta questa farina appartiene al capace sacco della letteratura evangelica apocrifa; e molta di essa esce senz’ombra di dubbio da mulini eretici. Del resto, a voler leggere alcuni di questi apocrifi (che sono editi anche in italiano) si verrebbe a scoprire che i magi potevano essere quattro, dodici o addirittura molti di più, che ciascuno di loro aveva un’età precisa (un giovane, un uomo maturo, un vecchio), che a ognuno di loro spettava una veste d’un colore particolare. A partire dal Tre-Quattrocento, in area renano-borgognona, ci si pose anche il problema delle loro bandiere e delle loro armi araldiche: che razza di re sarebbero mai stati, senza uno stendardo e uno stemma? La pittura tardogotica ci ha puntualmente informato anche di questi simboli. Ma i quattro Vangeli che la Chiesa dichiara “canonici”, cioè ispirati con certezza da Dio, mantengono al riguardo un prudente, anzi parsimonioso riserbo. Pare – non è sicuro – che quello detto “di Matteo” sia il più antico tra essi, e sia stato redatto nella seconda metà del I secolo d.C. Esso era originariamente stato redatto in aramaico, ma ce n’è rimasta solo la versione greca. Il punto è che gli altri tre Vangeli canonici non ne hanno seguito l’esempio: nessuno di loro parla dei magi. Perché? Una naturale divisione dei còmpiti, visto che ciascuno di essi ha un preciso ruolo? Una misura prudente, dal momento che quei “magi” erano personaggi ambigui, chiacchierati, ingombranti? 1 2 Michea, 5, 1-3. Matteo, 2, 1-12. 3 Esaminiamo quel che il testo di Matteo con precisione afferma. I magi sono “alcuni” (il numero non è specificato”, vengono da un impreciso “Oriente”, dove hanno visto una stella che indicava la nascita del “re dei giudei”. Recatisi da Erode III “il Grande”, un idumeo che aveva ottenuto da Ottaviano il titolo di re di giudea sotto la protezione romana. Erode, uditi i dottori della Legge ebraica, i quali sulla fede del profeta Michea affermano che il messia dovrà nascere a Betlemme, li invia colà; e in effetti è là che essi ritrovano la stella: e, tratti i doni che avevano recato per lui – oro, argento, mirra - adorano il Bambino. E’ verosimile, questo racconto? Tanto verosimile quanto sconvolgente. Certo, non lo è se intendiamo la parola magoi, con la quale il testo greco di Matteo designa quei visitatori venuti da lontano, non già nell’accezione – corrente nella Palestina del tempo – di astrologhi e ciarlatani, poco più che saltimbanchi: e maghi-astrologhi-ciarlatani, con in più una sinistra aria ereticheggiante (gnostici, manichei), noi ritroviamo negli Atti degli Apostoli, con al figura di Simone detto, appunto, “Mago”. Ma se invece ipotizziamo che questi magoi fossero sul serio quelli che sono detti mogu nell’Avesta – il testo sacro dell’antica religione mazdaica praticata in Persia a partire almeno dal VI sec. a.C. e fondata dal profeta Zarathustra (ma oggi si tende a parlare addirittura di un “mazdaismo prezoroastriano”) -, allora ci troviamo dinanzi ad astrologhisacerdoti adepti d’un complesso culto a carattere “biteista”, fondato sulla contrapposizione Luce-Tenebra e incentrato sull’adorazione del fuoco, la lettura delle stelle e l’attesa di un ciclico rinnovarsi dell’universo. Secondo il mazdaismo, ciascuna delle ere che si succedono e che sono tutte destinate a rinnovare l’universo e quindi a deteriorarsi verrebbe annunziata dalla nascita di un Shaosians, un divino “Soccorritore” nato da una scintilla di fuoco e scaturito dalla roccia d’una grotta. Conosciamo discretamente i riti mazdei in quanto ancora oggi, tra Iran e India nordoccidentale, ne sopravvivono alcune decine di migliaia. L’ispezione del cielo nell’attesa del futuro Soccorritore fa parte dei loro miti e dei loro riti. Nel Seistan, tra Iran e Afghanistan, ogni anno ancor oggi i "parsi" - gli ultimi eredi dei mazdei - si riuniscono ai piedi del monte Usida, dove sta il lago Hamun nel quale, secondo la Scrittura sacra mazdaica, l’Avesta, sarebbe stato sparso il seme del profeta Zarathushtra. I parsi celebrano la loro riunione al principio dell'equinozio di primavera: che equivale al tempo in cui, secondo la tradizione cristiana, la Vergine ha concepito il Cristo. Si è proposto che l’Usida sia il Mons Victorialis da cui, secondo alcuni testi apocrifi, i magi avvistarono la stella. Nella tradizione teologica e liturgica cristiana, i magi sono la primitia gentium: i primi tra i pagani a riconoscere il Salvatore. Se alla grotta di Betlemme accorrono per primi i pastori, guidati da un angelo in quanto ebrei e pertanto conoscitori del vero Dio, subito dopo giungono a Lui gli astrologhi-sacerdoti pagani, guidati da una stella in quanto Dio non si esprime rivolto a loro direttamente, con l’invio di un Suo messaggero (l’angelo, appunto), bensì mediante i segni astrali ch’essi conoscono nella loro tradizione. Ma il testo di Matteo, proprio entro questo contesto, ha un significato assoluto e sconvolgente. Gesù non nasce a Betlemme per il solo popolo d’Israele: non sono soltanto le Scritture ebraiche, ma anche almeno il Libro Sacro mazdaico ad averLo annunziato e ad attenderLo. Certo, il disagio cristiano dinanzi alle figure dei magi restò molto forte. Noi diciamo infatti, pudicamente, “magi. Dovremmo avere il coraggio e la coerenza filologica di chiamarli come vanno chiamati, di indicarli per quel che sono. Maghi, in quanto la magia nasce appunto, e viene elaborata nella sua forma più precisa, appunto a partire dal ritualismo biteista mazdaico, dalla sua astrologia, dalla sua mitologia che accorda grande importanza alla divinizzazione del Tempo. Difatti Gesù si propone fin dalla nascita come Kosmokrator e Kronokrator, signore dell’Universo nella sua duplice e complementare dimensione sia spaziale, sia temporale. E’ storicizzabile, l’episodio dei magi? Forse più di quanto non si creda. Da Giuseppe Tucci a mario Bussagli, sono parecchi gli orientalisti che hanno ipotizzato di riconoscere in un sovrano indoiranico di stirpe kushana, Gundophar, vissuto nel I secolo d.C. e che in effetti sembra aver appoggiato la missione in India dell’apostolo Tommaso, il “mago” Gaspare L’arte cristiana elaborò a lungo le immagini dei magi, arttribuì loro nomi, origini (divennero difatti i tre sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane scaturite dalla discendenza di Noè), significati complessi che rimandavano alla tridimensionalità del tempo (passato-presente-futuro), delle età dell’uomo (vecchiaia-maturità-giovinezza) e via discorrendo; ne fece i patroni dei viandanti, dei pellegrini, dei medici (a causa della presenza tra i loro doni d’un medicamento che preserva dalla corruzione, la mirra). Essi divennero i protagonisti anche delle sacre rappresentazioni natalizie che, almeno a partire dal X-XI secolo, si tenevano nel periodo dell’Epifania e che si denominavano Ludi Stellae. Tuttavia, un evento rivoluzionario ne sconvolse il culto: vi abbiamo già fatto cenno. Nel 1164 l’arcicancelliere imperiale Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, ne sottrasse i corpi – ch’erano venerati come reliquie, si disse allora, nella chiesa milanese di sant’Eustorgio – e li recò in un fortunoso viaggio attraverso Lombardia, Piemonte, Borgogna e Renania fino alla sua sede episcopale. Sulle loro reliquie venne edificato l’immenso, mirabile duomo di Colonia. Il significato politico di quella translatio era chiaro: i “re magi”, immagini della perfetta fedeltà dei sovrani di questa terra al Gran Re dell’Universo, non potevano essere custoditi dalla città di Milano, che ne era indegna in quanto ribelle all’imperatore Federico I che difatti 4 ne aveva ordinata la distruzione. La fedele Colonia sarebbe stata la loro nuova sede. Da allora, si sviluppò addirittura un vero e proprio pellegrinaggio ad reges, meno celebre soltanto di quelli a Santiago di Compostela o ai santuari della Vergine e dell’Arcangelo Michele. Un pellegrinaggio di quelli che hanno fatto sul serio l’Europa: tra Lombardia, Svizzera, Francia sudoccidentale e Germania renana innumerevoli alberghi e locande ricordano il passaggio di quelle reliquie. E si denominano difatti con nomi che rinviano al culto dei magi: “Alle tre Corone”, “Ai Tre Re”, “Alla Stella”, “Al Moro” (in omaggio a uno dei tre, di solito raffigurato come il più giovane, che in quanto “re d’Africa” s’immaginava nero di carnagione). In omaggio alla sua Colonia, Benedetto XVI ha voluto che l’effigie del “Re Nero” figuri sulla sua arme araldica insieme con la conchiglia del pellegrinaggio. Ma il mistero perdura. Nel secondo Duecento Marco Polo, visitando la città persiana di Sawa, s’imbatteva nei tre corpi intatti dei magi e ne parlava con tutta naturalezza, come se nulla sapesse del culto di Colonia. Perché? Intendeva, da veneziano, “obliterare” un culto troppo legato all’impero romanogermanico? Era entrato in contatto con un culto conservato dai cristiani nestoriani, o addirittura con gli “Adoratori del Fuoco”, gli eredi dei mazdei? Un altro problema sarebbe la stella. Quella evangelica non poteva essere una “cometa”, che nell’astrologia antica ha pessima stampa come foriera di cataclismi. Ma ai primi del XIV secolo Giotto, che lavorava agli affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova, vide passare la cometa di Halley e ne rimase tanto impressionato da immortalarla nell’affresco della Natività. Da allora in poi, la stessa è diventata una cometa. Certo è che la ricchezza di varianti, a proposito del racconto dei magi e dei suoi multiformi esiti leggendari o folklorici, è comunque straordinaria, tale da farci chiedere se esso non potrebbe essere studiato proprio nel contesto di quella ricostituzione del tessuto identitario delle tradizioni europee che oggi interessa tanto e del quale si avverte un diffuso bisogno. Le leggende relative ai magi, in effetti, sono numerose e radicate in tutto il territorio europeo: dalla Spagna e dal Portogallo (da dove si sono diffuse in America latina, divenendo estremamente amate e popolari e fondendosi con numerosi miti e culti locali) fino alla penisola scandinava, all’Italia centrosettentrionale e ai Balcani. In Lombardia e nell’arco alpino Un vero e proprio culto europeo, dal quale nascono moltissime tradizioni relative alla notte dell’Epifania, alla tradizione dei doni, ai cibi collegati al rito dell’adorazione del Re Fanciullo. In Lombardia e nell’arco alpino, nella fatidica “Dodicesima Notte”, la notte dell’Epifania, si fanno le “processioni della Stella”. Dalla Francia alla Slovenia, le tre sante lettere G-M-B, iniziali dei nomi tradizionali dei tre “re”, vengono tracciate sulle porte e sulle architravi a protezione degli abitanti delle case. In Francia, si consuma il dolce tradizionale, la Galette des Rois, e chi trova nella sua porzione un piccolo oggetto tondeggiante, la fève, è Rex unius diei, re del giorno dell’Epifania, presiede al banchetto domestico e ha diritto a portar in testa una corona di cartone dorato. E’ un grande privilegio e un augurio di fortuna per tutto l’anno che si collega a una delle tradizioni antropologicamente parlando più profonde della cultura tradizionale europea. Quella cultura che avrebbe dovuto essere recuperata sistematicamente e amorosamente, se davvero si avesse voluto fondare, oltre mezzo secolo fa, un’autocoscienza civile europeistica. Purtroppo si è preferito fondare l’Eurolandia della moneta comune e delle istituzioni costose, labili per un verso e fin troppo soffocanti per un altro, lontane dalla gente. Bisogna ricominciare. Ricominciare non “dal basso”, bensì “dal profondo”. E della nuova e vera Europa, quella “dei popoli”, “della gente” (non solo e non tanto “delle patrie”; e tanto meno degli stati, dei governi) il cofano argenteo custodito nella cattedrale di Colonia che ospita le “reliquie dei Tre Re” (anche se mai sapremo forse che cosa esse siano nella realtà obiettiva) dovrebbe essere il cuore simbolicamente vivo e pulsante. Fin qui, non ho fatto altro che riesporre le linee portanti di una “storia” che potrebb’essere anche “mito” o “leggenda”, se non addirittura “fiaba” – e non starò qui ad analizzare questi tre diversi e distinti livelli -, ma che certo ha avuto uno straordinario ruolo nella nostra cultura. Il lettore che avrà la pazienza di seguire con attenzione i differenti saggi raccolti in questo libro avrà modo di riscontrare quante e quanto diverse siano le “variabili” della tradizione e del culto qui esposti. Non è nemmeno il caso di tentarne una normalizzazione: al contrario, le differenti voci e magari le contraddizioni – e le differenti tesi delle quali i coautori di questo libro si fanno rispettivamente portatori, al di là di qualunque tentativo di accordo convenzionale - debbono emergere tutte nel pieno rispetto di ciascuna, in quanto la vitalità del complesso storico-antropologico che è loro sotteso dev’essere integralmente rispettata. Ma una nota finale è forse opportuna proprio se vogliamo intendere da quanto lontano, e da quali profondità, ci giunge il messaggio di queste figure evangeliche così importanti eppure così vaghe, di questi re che non sono re, di questi magi che in realtà sono “maghi”, cioè astrologi-sacerdoti “barbari”, di questi pagani primi adoratori del Cristo insieme con gli umili pastori dell’altopiano di Giudea. I magi del racconto di Matteo e in quello dei vari apocrifi non erano per nulla tre: ma, diciamo così, “lo divennero”. E nel tempo assunsero connotazioni varie che indicavano i vari livelli temporali del mondo e delle età dell’uomo, i tre continenti, le tre “razze” dell’umanità postdiluviana scaturite secondo il racconto 5 biblico dai tre figli di Noè, i tre “stati” e le tre “funzioni” portanti della società (i sapienti-sacerdoti, i reguerrieri-legislatori, i produttori). Alla triade numerica “perfetta” si andò aggiungendo una “triade cromatica” ben presto ordinatasi, anche al livello delle rappresentazioni iconiche, nei tre colori-base biancorosso-nero (l’albedo, la rubedo e la nigredo del magnum opus alchemico). Seguiamo questa duplice triade numerica e cromatica, fondamentale dal punto di vista archetipico: essa forse ci condurrà lontano, nelle profondità della storia (e della preistoria) dell’uomo e in quella della nostra psiche. La tripartizione funzionale della società in gente della preghiera (e dello studio, e della normativa giuridica), gente della guerra (e del governo, e dell’applicazione del diritto) e gente della fatica (e della produzione della ricchezza materiale), oratores, bellatores e laboratores, poi trasformatasi in tripartizione istituzionale – i “tre stati” che ancora esistevano alla vigilia della Rivoluziona francese – percorre la storia del nostro, come direbbe Le Goff, “lungo medioevo”, dal X al XVIII secolo, ma è in realtà molto più antica: o comunque arcaiche – e, appunto, archetipiche – sono le sue radici. Se ne sono occupati a lungo studiosi che da Jean Batany vanno a Georges Duby, allo stesso Jacques le Goff, a Joël H. Grisward. Ma è stato come tutti sanno o dovrebbero sapere il grande Georges Dumézil a collegare la struttura trifunzionale del nostro medioevo a quella rappresentata nel mondo romano antico dal culto nelle tre divinità Giove, Marte e Quirino e ai varna della tradizione indiana (i brâhmana, gli kshatriya, i vaiçya, cui va aggiunta la categoria non-aria dei śūdra) per concluderne ch’essa è caratteristica della tradizione indoeuropea nel suo complesso, cui si possono ricondurre le sue molte varianti dall’indo-persiano-caucasica alla greco-illirico-baltica, alla romana, alla celtica, alla germanica, alla slava. In una memorabile e fondamentale raccolta di saggi edita da Gallimard nel 1983 e molto meno famosa di quanto sarebbe giusto, La courtisane et les seigneurs colorés. Esquisses de mythologie, il Dumézil segnalava i tre colori (o meglio, i tre complessi cromatici) che nelle molte variabili presenti all’interno della tradizione indoeuropea venivano posti in relazione con le tre fondamentali funzioni sociorituali: il bianco e/o l’argento caratterizzante il potere magico-religioso e giuridico-religioso, il rosso (nei toni vermiglio, scarlatto, purpureo) rappresentante la forza guerriera e infine un colore scuro (nelle tonalità che dal nero virano verso il verde cupo o il blu) relativo alla fecondità in tutti i suoi aspetti compreso evidentemente il ciclo morte-rinascita e collegato al lavoro, alla fatica fisica, specie (ma non solo) a quella agricola. Si noterà che il bianco. Il rosso e il nero sono e restano ancor oggi, variamente abbinati, i tre colori fondamentali delle scacchiere dalla Cina fino all’Europa: e gli scacchi sono, appunto, il “gioco dei re” per eccellenza, il “gioco-guerra-meditazione”. Il Dumézil espone questa tassonomia cromatico-funzionale soprattutto nel primo dei saggi della sua raccolta, intitolato appunto Les seigneurs colorés…, alle pagine 17-27: e il principale tra gli studiosi dei colori e delle loro funzioni nella storia medievale, Michel Pastoureau, ha in più occasioni sviluppato, articolato e corretto questa serie di dati e di osservazioni. Nella tradizione iconica e anche trattatistica dei magi, dagli apocrifi evangelici e dal Venerabile Beda fino all’affresco di Benozzo Gozzoli nel palazzo Medici “di Via Larga” a Firenze, questi colori sono variamente presenti ancorché attribuiti ora a questo, ora all’altro mago, talché l’abbinamento tra la funzione di ciascuno di essi (evidenziati dall’attribuzione di uno dei tre doni dichiarati dall’evangelista Matteo: l’oro dei governanti, l’incenso dei sacerdoti, la mirra dei produttori) e il relativo colore appare segnato da variabili che in alcuni casi comporteranno la necessità di attenta esegesi, in altri si riveleranno forse esito di arbitraria fantasia o di errore. Il punto è tuttavia che le intuizioni e gli studi puntuali del Dumézil sono tanto importanti da andare molto al di là delle stesse conclusioni che l’illustre studioso giudicò di trarne. Il progresso degli studi nel campo dell’etnofilologia da una parte, dell’archeologia dall’altra, ha consentito di procedere molto oltre, sia pure per il momento in termini prevalentemente ipotetici e in attesa di verifiche. Nel suo Etnofilologia. Un’introduzione (Napoli, Liguori, 2010), l’etnofilologo-semiologo-celtista Francesco Benozzo – che è anche valoroso musicista – ha proposto il “paradigma della continuità paleolitica” in termini che mostrano come si debba approfondire “all’indietro” la questione delle “origini-radici” delle culture, e come il modello indoeuropeo non sia sufficiente a coprire l’intero àmbito della preistoria eurasiatica. Se sotto il profilo storico è in altri termini verosimile che i “magi” accorsi a Betlemme seguendo la stessa per adorare il Salvatore del Mondo fossero esponenti di una tipica e purissima cultura indoeuropea, la partico-persiana, sotto quello antropologico l’esegesi che ne ha fatto durante l’età medievale i rappresentanti dei tre continenti e delle tre “razze” umane, quindi dei tre (se erano soltanto tre) fondamentali ceppi antropoliguistici umani allora conosciuti corrisponde a un’intuizione profonda, se non si tratta addirittura del portato, magari inconscio in chi ne era portatore, di una conoscenza antica e profonda. In altri termini il “mago nero”, rappresentante della “terza funzione” ma al tempo stesso portatore di un arcano sapere segreto – il mago che porta la mirra – viene al genio di Hyeronimus Bosch abbigliato del bianco sacerdotale; e in analogo modo si comporta il Gozzoli attribuendo la mirabile veste bianco-argentea al mago più giovane, il Genio della famiglia Medici (simbolizzante forse il giovane Lorenzo, che nel suo aspetto realistico di ragazzino dai non bellissimi lineamenti figura anche nel corteo dei figuranti) ch’è incoronato da un’aureola di lauro e reca il bossolo della 6 mirra, l’unguento caratteristico dei medici, con evidente allusione alla famiglia della quale egli incarna la figura simbolica e – nel senso etimologico del termine – fatale. Se, come ci auguriamo, sarà accolta la nostra proposta di fare dei re magi i copatroni dell’Europa unita, un nostro primo obiettivo sarà raggiunto. Ma sarà, appunto, solo un primo obiettivo: perché siamo ben consci della natura non già “europea” (e tantomeno restrittivamente “indoeuropea”), bensì universale dei valori che quella storia, quel mito, quel simbolo indicano e incarnano. D’altronde i magi sono anche “pellegrini”: quali migliori patroni di un’Europa nel quale milioni di nuovi cittadini sono immigranti o figli d’immigranti? Uno di loro è “medico”, il portatore della salubre mirra, un altro “speziale”, titolare del profumato incenso. I magi sono patroni ideali della più varie professioni come del turismo. Quali santi possono essere più moderni, se non addirittura postmoderni? 7