ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 30-10-2009 Silvia Cattiodoro Quel che resta negli occhi. La scenografia come ibrido di architettura 11:26 Pagina 46 Quando Linneo nel XVIII sec. con il suo lavoro di catalogazione gettò le basi per la creazione della genetica moderna certamente non immaginava che l’ordinamento in generi e specie sarebbe divenuto un metodo di riconoscimento non solo del mondo animale e vegetale ma anche degli artefatti. Forse non immaginava neppure che la sua tassonomia deduttiva sarebbe stata superata non dalla creazione di un nuovo e più efficace procedimento, ma a causa della comparsa di un fattore che sta modificando il concetto stesso di genetica com’è storicamente inteso: l’ibridazione. Alla base dell’atto di ibridare c’è la volontà di generare nuovi organismi non direttamente compresi nelle categorie tradizionali e, parallelamente, la necessità di predisporli nel reticolo del conosciuto operando una serie di paragoni con ciò che la nostra cultura considera “noto”: perciò, ibrido è un termine applicabile ad una nuova pianta nata dall’incrocio di specie già codificate, ad un motore che applica contemporaneamente tecnologie di solito usate in modo esclusivo, ma anche a un’architettura che sappia integrare requisiti di riconoscibilità alla necessaria innovazione non solo tecnica ma anche formale. In questo caso progettare significa procedere per similitudini parziali tra ciò che l’architetto vede nella sua mente e ciò che sa, o meglio che la cultura in cui vive crede di riconoscere. Il disegno diventa il mezzo per esprimere questa dualità: quel che resta negli occhi come ricordo, più o meno alterato dalla prospettiva da cui si guarda, va a completare l’ineffabile specifico del progetto già presente nella mente. La memoria viene elaborata e si trasforma in “invenzione”: object trouvé mai uguale a ciò che è stato esperito ma, d’altra parte, inscindibilmente legato all’esperienza empirica. Ciò accade in particolare nello spazio della scena che ha origine da “nozioni” o “porzioni” di spazio cono- 230 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 30-10-2009 11:26 Pagina 47 SILVIA CATTIODORO 1 A tal proposito e per ulteriori approfondimenti sul tema si rimanda a S. Cattiodoro, Architettura scenica e teatro urbano, Franco Angeli, Milano, 2007. 2 “Lucia di Lammermoor” di G. Donizzetti, Rocca Brancaleone, Ravenna, 1986. Direttore: Renato Palombo; regia: Stefano Vizioli; scenografia: Aldo Rossi; costumi: Anna Maria Heinrich. sciuto trasformate e alterate a seconda delle necessità dell’azione teatrale. All’interno del campo progettuale la scenografia è forse la disciplina maggiormente adatta a generare spazi ibridi, che il pubblico è in grado di riconoscere come realtà in potenza, spazi per così dire “esistibili”, non veri ma veridici. Inoltre, nella scena teatrale si mescolano il luogo del sogno e il luogo dell’azione in uno spazio onirico tanto più attraente quanto più è aderente a quel collage iconico di forme e simboli che il pubblico riesce a decifrare. Il concetto di spazio scenico che si fa spazio ibrido attraverso l’uso della composizione architettonica è esemplificato dai lavori di alcuni architetti che, pur non rivolgendosi con continuità alla scenografia – anzi, considerandola piuttosto un’occasione – ne hanno fatto contemporaneamente un fertile ambito di ricerca per la teoria progettuale e un terreno d’innovazione formale dell’immaginario scenico inteso come luogo del rapporto tra spazio costruito e società1. È certamente spazio ibrido che rimanda ora alla città ora alla scena l’ambientazione per Lucia di Lammermoor2 di Aldo Rossi (Fig. 1). Come nei bozzetti cinquecenteschi di Lanci o Peruzzi il panorama Fig. 1. Aldo Rossi. Scenografia per “Lucia di Lammermoor”; Rocca Brancaleone, Ravenna, 1986. 231 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 2.1. OGGETTI 30-10-2009 11:26 Pagina 48 O IMMAGINI: ANAMORFOSI E METAMORFOSI 3 Non a caso il verbo “traguardare” è associato con l'atto che permette attraverso la finestra prospettica di replicare la realtà, come descrive Dührer in una sua famosissima incisione e per traslato, attraverso la prospettiva, è un verbo scenografico. della città ideale sulla scena si forma dalla giustapposizione di elementi reali e fantastici o di parti non contigue dello skyline urbano, così il profilo “bretone” progettato da Rossi si combina con la silhouette degli edifici della Ravenna moderna sul campo lungo e contemporaneamente, in primo piano, con le adiacenti mura in mattoni della Rocca Brancaleone che fa da palcoscenico all’opera donizzettiana. La scena in questo modo si pone non solo come elemento di mediazione tra la realtà e il sogno ma anche tra dentro – la Rocca che per quella sera è la reggia dei Ravenswood – e fuori – la città, come emblema di tutto il resto del mondo (o della foresta, come da libretto di Salvatore Cammarano). Nell’ibrido architettonico di un panorama composto da edifici abitati e quinte teatrali il quadro scenico delimita un lacerto di città che non è più Ravenna ma è, nell’immaginazione degli spettatori, un luogo altrettanto possibile e carico di un fascino, più che a-temporale: meta-temporale. Infatti la scenografia si pone come medium storico tra antico e moderno saturando la frattura visiva normalmente presente nella città attraverso un diaframma di edifici verosimili (per quanto lontani dalla tradizione costruttiva locale) e mettendo a confronto altre coppie di ossimori (leggero/pesante, stabile/mutevole, cultura nordica/cultura mediterranea) attraverso le quali si genera una fruttuosa progressione disciplinare basata proprio sulla nuova capacità di “guardare tra”3 e “guardare oltre” tali polarità discordanti. La città analoga anziché rinchiudersi nello spazio bidimensionale di un foglio da disegno verifica attraverso la sua riduzione scenica una possibilità volumetrica confrontandosi direttamente con la realtà urbana. Uno tra i primi architetti italiani del ‘900 ad operare su più fronti artistici e a capire – o ancor prima a 232 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 30-10-2009 11:26 Pagina 49 SILVIA CATTIODOROALBERTO SDEGNO 4 G. Ponti, Amate l'architettura, Vitali e Ghianda, 1957, p. 192 5 “Mondo Tondo”, balletto al Teatro alla Scala, previsto per la stagione 1945, mai realizzato; musiche: Ennio Porrino; direzione d'orchestra: Victor de Sabata; scene e costumi: Gio Ponti; coreografie: Margherita Wallmann. “sentire” – l’osmosi tra architettura e scenografia fu sicuramente Gio Ponti. Dipingere, modellare, sceneggiare per il teatro ed il cinema, disegnare oggetti e produzioni4 erano tutti modi di identificarsi come architetto in una cultura che potremmo definire sincretica: la sua abilità diacronica ha reso inevitabile e affascinante l’intrecciarsi di elementi progettuali in quel personale “ideario” da cui decennio dopo decennio uscirono monotipi architettonici e prototipi per il design. L’intera sua produzione è una continua commistione di spunti oscillanti dalla pittura alla poesia, dall’architettura all’arredamento, ma è il teatro la disciplina nella quale egli sente la maggiore libertà nello sperimentare contaminazioni tra arte e tecnica. L’entusiasmo per il balletto “Pulcinella” di Strawinskij con le scene e i costumi di Picasso e l’adesione alle teorie dello scenografo ginevrino Adolphe Appia, che affermava la necessità di una scena tridimensionale, trovano concretezza nell’esperienza degli spettacoli commissionatigli negli anni ‘40 dal Teatro alla Scala. Tra i bozzetti che egli approntò per il balletto Mondo tondo di E. Porrino5 (Fig. 2), mai realizzato per sopraggiunti problemi economici, spicca in forma di spunto (come spesso accade nella sua vasta ed eterogenea produzione) la ricerca di una sintesi tra interno e esterno che è tutt’oggi oggetto di fascinazione non solo nel progetto architettonico ma in molte compo- Fig. 2. Gio Ponti. Studi per il balletto “Mondo Tondo”. 233 49 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 2.1. OGGETTI 30-10-2009 11:26 Pagina 50 O IMMAGINI: ANAMORFOSI E METAMORFOSI 6 L. Altarelli, Il sublime urbano, Gruppo Mancusu Editore, Roma, 2007, p. 17. sizioni visive. In particolare nella scena dedicata al balletto dei Viennesi (scena VIII) la nota manoscritta “è un interno fatto di case” sottolinea la presenza concomitante di elementi che identificano un esterno architettonico contrapposti – o meglio, elegantemente mescolati – a uno dei caratteri più riconoscibili dell’interno borghese. Le quinte che raffigurano una piazza circondata da edifici come nella tradizione serliana della “scena comica” sono illuminate da lampadari che scendendo dalla soffitta richiamano alla memoria scene d’interno ottocentesche; ma proprio nel rapporto conflittuale con l’intorno trasformano magicamente un cortile in un salone da ballo. Non è un caso che un noto marchio automobilistico abbia recentemente composto sulle medesime note visive il set ideale per presentare la sua vettura più elegante (Fig. 3). Negli occhi degli spettatori non si forma più l’idea di un luogo realistico, ma di un luogo nuovo che assomma realtà e fantasia e resta sospeso nel limbo onirico proprio dell’esperienza teatrale. Se è vero che l’architettura di ogni ordine e grado, e di qualsiasi tempo, è comunicazione6, ma che il rapporto tra queste due polarità – stabile l’architettura, istantanea la comunicazione e con essa la sua espressione teatrale – è conflittuale e contraddittorio, appare evidente come proprio la scenografia, ibrido disciplinare sospeso tra regole millenarie codificate e vocazione all’hic et nunc, Fig. 3. Fotogramma di spot automobilistico. 234 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 30-10-2009 11:26 Pagina 51 SILVIA CATTIODORO Fig. 4. Herzog & de Meuron. Scenografia per “Tristan und Isolde”, Berlino, 2006. sia il fondamentale punto di dialogo tra realtà solo apparentemente antitetiche, ma continuamente necessarie l’una all’altra. Non può stupire, perciò, che nelle città in allestimento raccontata estesamente nel volume Light City da Lucio Altarelli la maggior parte dei nuovi edifici assuma caratteri originariamente peculiari dell’architettura senza fondamenta; d’altra parte risulta estremamente complesso valutare se il progetto scenografico generi stimoli per l’architettura o viceversa se, all’atto creativo, l’architettura sia in grado di dare nuovi spunti anche alla costruzione teatrale. Per l’opera wagneriana Tristan und Isolde7 (Fig. 4) messa in scena nel 2006 a Berlino potremmo dire, ad esempio, che gli architetti svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron progettano un apparato scenico che risente fortemente delle scelte architettoniche fatte per l’Allianz Arena di Monaco, inaugurato nello stesso anno. In realtà, palcoscenico e territorio sono pre-testi paralleli dove mettere alla prova, evidentemente con risultati diversi, un medesimo particolare costruttivo che risolve anzitutto un problema tecnico: 7 “Tristan und Isolde” di R. Wagner, Staatsoper Unter den Linden, Berlino, 2006. Direttore: Daniel Barenboim; regia: Stefan Bachmann; scenografia: Herzog & de Meroun; costumi: Anabelle Witt. la pressione come elemento di variazione tra interno ed esterno. La parola “pressione”, però, assume significati differenti legati al contesto in cui viene usata: mentre l’Allianz Arena pone un problema di rivestimento della struttura, Tristan und Isolde richie- 235 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 2.1. OGGETTI 30-10-2009 11:26 Pagina 52 O IMMAGINI: ANAMORFOSI E METAMORFOSI 8 Le Corbusier, Quando le cattedrali erano bianche, cfr. Altarelli, op. cit., p. 25. de una soluzione spaziale per rendere contemporaneamente evidenti fatti che accadono intorno ai protagonisti e fatti che accadono nel loro animo, ricordi, sentimenti per loro altrettanto reali. L’effetto dato dai cuscini di ETFE (Etil-Tetra-FluorEtilene), pannelli pneumatici riciclabili e indeformabili la cui tensione superficiale è controllata artificialmente dalla pressione variabile a seconda dei mutamenti atmosferici, e ha valso allo stadio di Monaco l’appellativo di “architettura dell’aria”, è stato traslato in teatro in un fondale concavo di tessuto gommoso opalescente. Sembra quasi che Herzog & deMeuron da una percezione esterna degli elementi modulari progettati per l’architettura vogliano traslare lo sguardo dello spettatore all’interno di un unico pannello, come se la macro-scala territoriale si contraesse in un microcosmo, un sogno “pressurizzato”, un’opera non tanto in un tubo – come l’ha definita certa critica conservatrice – ma in una provetta. Dietro lo spazio scenico dell’azione principale volutamente molto allungato, stretto tra l’avanscena e il fondale traslucido, avvengono i fatti interiori dei protagonisti come in una sorta di doppio in cui i simulacri non riescono mai ad assumere vita propria. Personaggi e luoghi del sogno, dapprima ombre nella luce dell’alba, operano una pressione sulla sottile ma resistente membrana che li separa dalla realtà; ma questi fantasmi, incapaci di mutare il corso degli eventi, possono solo incidere impronte, solchi sulla materia generando una immensa sindone laica. Mentre l’Allianz Arena in virtù dei mutamenti cromatici permette di percepire anche da fuori il clima vitale dinamico, intermittente, scorrevole, crepitante vorticosa luce bianca, blu, rossa8 della festa sportiva in esso contenuta, il biancore diffuso della scena per Tristan und Isolde è pallore mortale di un destino 236 ATTI_IBRIDAZIONI_par2.1 30-10-2009 11:26 Pagina 53 SILVIA CATTIODORO 9 M. Garofalo, “Una voce per ridisegnare le discipline”, intervista al cantante John De Leo in “Nova 24”, inserto de “Il sole 24 ore”, 31 Luglio 2008, p. 4. 10 G. Ponti, op. cit., p. 93. 11 L. Altarelli, op. cit., p. 40. segnato fin dalle prime note. La scenografia genera di nuovo un luogo ibrido, dove il sogno e la realtà si sovrappongono, dove la percezione dell’architettura sfuma in qualcosa di vero solo in funzione della vita effimera entro la scatola teatrale. Si tratta di uno spazio che sopravvive al rapido uso scenico unicamente nel disegno, quale strumento di modificazione in potenza o in fieri del reale, e nell’immaginario del progettista che propone l’eidos di un luogo accettato dal pubblico come un’illusione possibile per la durata dello spettacolo. Eppure i due progetti, lo stadio e la scena, messi l’uno in fianco all’altro, non possono non rappresentare in modo evidente gli esiti opposti della medesima idea di partenza: una ibridazione alla rovescia, forse perché talvolta del concetto iniziale non resta che una fotografia mossa di uno sguardo-verso9 la ricerca di una forma finale. O forse perché l’ibrido come risultato di un atto progettuale altro non è, in un’ottica di ricorsi storici, che la reazione a quella specializzazione dei saperi che dal XVII secolo ai giorni nostri ha provato, talvolta riuscendovi, ad allontanare l’una dall’altra le discipline tecniche, ma anche quelle artistiche. Ormai sessant’anni fa Gio Ponti nel suo libro-manifesto Amate l’architettura ha affermato che «nella nostra cultura tutto è simultaneo»10: del resto l’atto di ibridare non è forse l’unico possibile per contenere nell’attuale istantaneità «senza presente e senza futuro»11 tutte le informazioni necessarie? 237