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Silvia Cattiodoro
Quel che resta negli
occhi. La scenografia come ibrido di
architettura
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Quando Linneo nel XVIII sec. con il suo lavoro di catalogazione gettò le basi per la creazione della genetica
moderna certamente non immaginava che l’ordinamento in generi e specie sarebbe divenuto un metodo
di riconoscimento non solo del mondo animale e
vegetale ma anche degli artefatti. Forse non immaginava neppure che la sua tassonomia deduttiva sarebbe stata superata non dalla creazione di un nuovo e
più efficace procedimento, ma a causa della comparsa di un fattore che sta modificando il concetto stesso
di genetica com’è storicamente inteso: l’ibridazione.
Alla base dell’atto di ibridare c’è la volontà di generare nuovi organismi non direttamente compresi nelle
categorie tradizionali e, parallelamente, la necessità
di predisporli nel reticolo del conosciuto operando
una serie di paragoni con ciò che la nostra cultura
considera “noto”: perciò, ibrido è un termine applicabile ad una nuova pianta nata dall’incrocio di specie
già codificate, ad un motore che applica contemporaneamente tecnologie di solito usate in modo esclusivo, ma anche a un’architettura che sappia integrare
requisiti di riconoscibilità alla necessaria innovazione
non solo tecnica ma anche formale.
In questo caso progettare significa procedere per similitudini parziali tra ciò che l’architetto vede nella sua
mente e ciò che sa, o meglio che la cultura in cui vive
crede di riconoscere. Il disegno diventa il mezzo per
esprimere questa dualità: quel che resta negli occhi
come ricordo, più o meno alterato dalla prospettiva da
cui si guarda, va a completare l’ineffabile specifico del
progetto già presente nella mente. La memoria viene
elaborata e si trasforma in “invenzione”: object trouvé mai uguale a ciò che è stato esperito ma, d’altra
parte, inscindibilmente legato all’esperienza empirica.
Ciò accade in particolare nello spazio della scena che
ha origine da “nozioni” o “porzioni” di spazio cono-
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1 A tal proposito e per ulteriori
approfondimenti sul tema si rimanda
a S. Cattiodoro, Architettura scenica
e teatro urbano, Franco Angeli,
Milano, 2007.
2 “Lucia di Lammermoor” di G.
Donizzetti, Rocca Brancaleone,
Ravenna, 1986. Direttore: Renato
Palombo; regia: Stefano Vizioli; scenografia: Aldo Rossi; costumi: Anna
Maria Heinrich.
sciuto trasformate e alterate a seconda delle necessità dell’azione teatrale. All’interno del campo progettuale la scenografia è forse la disciplina maggiormente adatta a generare spazi ibridi, che il pubblico è in
grado di riconoscere come realtà in potenza, spazi
per così dire “esistibili”, non veri ma veridici.
Inoltre, nella scena teatrale si mescolano il luogo del
sogno e il luogo dell’azione in uno spazio onirico
tanto più attraente quanto più è aderente a quel collage iconico di forme e simboli che il pubblico riesce
a decifrare.
Il concetto di spazio scenico che si fa spazio ibrido
attraverso l’uso della composizione architettonica è
esemplificato dai lavori di alcuni architetti che, pur non
rivolgendosi con continuità alla scenografia – anzi,
considerandola piuttosto un’occasione – ne hanno
fatto contemporaneamente un fertile ambito di ricerca per la teoria progettuale e un terreno d’innovazione formale dell’immaginario scenico inteso come
luogo del rapporto tra spazio costruito e società1.
È certamente spazio ibrido che rimanda ora alla città
ora alla scena l’ambientazione per Lucia di
Lammermoor2 di Aldo Rossi (Fig. 1). Come nei bozzetti cinquecenteschi di Lanci o Peruzzi il panorama
Fig. 1. Aldo Rossi. Scenografia per
“Lucia di Lammermoor”; Rocca
Brancaleone, Ravenna, 1986.
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3 Non a caso il verbo “traguardare”
è associato con l'atto che permette
attraverso la finestra prospettica di
replicare la realtà, come descrive
Dührer in una sua famosissima incisione e per traslato, attraverso la prospettiva, è un verbo scenografico.
della città ideale sulla scena si forma dalla giustapposizione di elementi reali e fantastici o di parti non contigue dello skyline urbano, così il profilo “bretone”
progettato da Rossi si combina con la silhouette degli
edifici della Ravenna moderna sul campo lungo e
contemporaneamente, in primo piano, con le adiacenti mura in mattoni della Rocca Brancaleone che fa
da palcoscenico all’opera donizzettiana. La scena in
questo modo si pone non solo come elemento di
mediazione tra la realtà e il sogno ma anche tra dentro – la Rocca che per quella sera è la reggia dei
Ravenswood – e fuori – la città, come emblema di
tutto il resto del mondo (o della foresta, come da
libretto di Salvatore Cammarano).
Nell’ibrido architettonico di un panorama composto da
edifici abitati e quinte teatrali il quadro scenico delimita un lacerto di città che non è più Ravenna ma è, nell’immaginazione degli spettatori, un luogo altrettanto
possibile e carico di un fascino, più che a-temporale:
meta-temporale. Infatti la scenografia si pone come
medium storico tra antico e moderno saturando la frattura visiva normalmente presente nella città attraverso
un diaframma di edifici verosimili (per quanto lontani
dalla tradizione costruttiva locale) e mettendo a confronto altre coppie di ossimori (leggero/pesante, stabile/mutevole, cultura nordica/cultura mediterranea)
attraverso le quali si genera una fruttuosa progressione
disciplinare basata proprio sulla nuova capacità di
“guardare tra”3 e “guardare oltre” tali polarità discordanti. La città analoga anziché rinchiudersi nello spazio bidimensionale di un foglio da disegno verifica
attraverso la sua riduzione scenica una possibilità
volumetrica confrontandosi direttamente con la realtà urbana.
Uno tra i primi architetti italiani del ‘900 ad operare
su più fronti artistici e a capire – o ancor prima a
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4 G. Ponti, Amate l'architettura, Vitali
e Ghianda, 1957, p. 192
5 “Mondo Tondo”, balletto al Teatro
alla Scala, previsto per la stagione
1945, mai realizzato; musiche: Ennio
Porrino; direzione d'orchestra: Victor
de Sabata; scene e costumi: Gio Ponti;
coreografie: Margherita Wallmann.
“sentire” – l’osmosi tra architettura e scenografia fu
sicuramente Gio Ponti. Dipingere, modellare, sceneggiare per il teatro ed il cinema, disegnare oggetti e
produzioni4 erano tutti modi di identificarsi come
architetto in una cultura che potremmo definire sincretica: la sua abilità diacronica ha reso inevitabile e
affascinante l’intrecciarsi di elementi progettuali in
quel personale “ideario” da cui decennio dopo
decennio uscirono monotipi architettonici e prototipi
per il design. L’intera sua produzione è una continua
commistione di spunti oscillanti dalla pittura alla poesia, dall’architettura all’arredamento, ma è il teatro la
disciplina nella quale egli sente la maggiore libertà
nello sperimentare contaminazioni tra arte e tecnica.
L’entusiasmo per il balletto “Pulcinella” di Strawinskij
con le scene e i costumi di Picasso e l’adesione alle
teorie dello scenografo ginevrino Adolphe Appia, che
affermava la necessità di una scena tridimensionale,
trovano concretezza nell’esperienza degli spettacoli
commissionatigli negli anni ‘40 dal Teatro alla Scala.
Tra i bozzetti che egli approntò per il balletto Mondo
tondo di E. Porrino5 (Fig. 2), mai realizzato per
sopraggiunti problemi economici, spicca in forma di
spunto (come spesso accade nella sua vasta ed eterogenea produzione) la ricerca di una sintesi tra interno
e esterno che è tutt’oggi oggetto di fascinazione non
solo nel progetto architettonico ma in molte compo-
Fig. 2. Gio Ponti. Studi per il balletto
“Mondo Tondo”.
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L. Altarelli, Il sublime urbano,
Gruppo Mancusu Editore, Roma,
2007, p. 17.
sizioni visive. In particolare nella scena dedicata al balletto dei Viennesi (scena VIII) la nota manoscritta “è
un interno fatto di case” sottolinea la presenza concomitante di elementi che identificano un esterno
architettonico contrapposti – o meglio, elegantemente mescolati – a uno dei caratteri più riconoscibili dell’interno borghese. Le quinte che raffigurano una piazza circondata da edifici come nella tradizione serliana
della “scena comica” sono illuminate da lampadari che
scendendo dalla soffitta richiamano alla memoria
scene d’interno ottocentesche; ma proprio nel rapporto conflittuale con l’intorno trasformano magicamente
un cortile in un salone da ballo. Non è un caso che un
noto marchio automobilistico abbia recentemente
composto sulle medesime note visive il set ideale per
presentare la sua vettura più elegante (Fig. 3).
Negli occhi degli spettatori non si forma più l’idea di
un luogo realistico, ma di un luogo nuovo che assomma realtà e fantasia e resta sospeso nel limbo onirico
proprio dell’esperienza teatrale. Se è vero che l’architettura di ogni ordine e grado, e di qualsiasi tempo, è
comunicazione6, ma che il rapporto tra queste due
polarità – stabile l’architettura, istantanea la comunicazione e con essa la sua espressione teatrale – è conflittuale e contraddittorio, appare evidente come proprio la scenografia, ibrido disciplinare sospeso tra
regole millenarie codificate e vocazione all’hic et nunc,
Fig. 3. Fotogramma di spot automobilistico.
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Fig. 4. Herzog & de Meuron.
Scenografia per “Tristan und Isolde”,
Berlino, 2006.
sia il fondamentale punto di dialogo tra realtà solo
apparentemente antitetiche, ma continuamente
necessarie l’una all’altra. Non può stupire, perciò, che
nelle città in allestimento raccontata estesamente nel
volume Light City da Lucio Altarelli la maggior parte
dei nuovi edifici assuma caratteri originariamente
peculiari dell’architettura senza fondamenta; d’altra
parte risulta estremamente complesso valutare se il progetto scenografico generi stimoli per l’architettura o
viceversa se, all’atto creativo, l’architettura sia in grado
di dare nuovi spunti anche alla costruzione teatrale.
Per l’opera wagneriana Tristan und Isolde7 (Fig. 4)
messa in scena nel 2006 a Berlino potremmo dire, ad
esempio, che gli architetti svizzeri Jacques Herzog e
Pierre de Meuron progettano un apparato scenico
che risente fortemente delle scelte architettoniche
fatte per l’Allianz Arena di Monaco, inaugurato nello
stesso anno. In realtà, palcoscenico e territorio sono
pre-testi paralleli dove mettere alla prova, evidentemente con risultati diversi, un medesimo particolare
costruttivo che risolve anzitutto un problema tecnico:
7 “Tristan und Isolde” di R. Wagner,
Staatsoper Unter den Linden,
Berlino, 2006. Direttore: Daniel
Barenboim; regia: Stefan Bachmann;
scenografia: Herzog & de Meroun;
costumi: Anabelle Witt.
la pressione come elemento di variazione tra interno
ed esterno. La parola “pressione”, però, assume
significati differenti legati al contesto in cui viene
usata: mentre l’Allianz Arena pone un problema di
rivestimento della struttura, Tristan und Isolde richie-
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8 Le Corbusier, Quando le cattedrali erano bianche, cfr. Altarelli, op.
cit., p. 25.
de una soluzione spaziale per rendere contemporaneamente evidenti fatti che accadono intorno ai protagonisti e fatti che accadono nel loro animo, ricordi,
sentimenti per loro altrettanto reali.
L’effetto dato dai cuscini di ETFE (Etil-Tetra-FluorEtilene), pannelli pneumatici riciclabili e indeformabili
la cui tensione superficiale è controllata artificialmente dalla pressione variabile a seconda dei mutamenti
atmosferici, e ha valso allo stadio di Monaco l’appellativo di “architettura dell’aria”, è stato traslato in
teatro in un fondale concavo di tessuto gommoso
opalescente. Sembra quasi che Herzog & deMeuron
da una percezione esterna degli elementi modulari
progettati per l’architettura vogliano traslare lo sguardo dello spettatore all’interno di un unico pannello,
come se la macro-scala territoriale si contraesse in un
microcosmo, un sogno “pressurizzato”, un’opera
non tanto in un tubo – come l’ha definita certa critica conservatrice – ma in una provetta.
Dietro lo spazio scenico dell’azione principale volutamente molto allungato, stretto tra l’avanscena e il
fondale traslucido, avvengono i fatti interiori dei protagonisti come in una sorta di doppio in cui i simulacri non riescono mai ad assumere vita propria.
Personaggi e luoghi del sogno, dapprima ombre nella
luce dell’alba, operano una pressione sulla sottile ma
resistente membrana che li separa dalla realtà; ma
questi fantasmi, incapaci di mutare il corso degli
eventi, possono solo incidere impronte, solchi sulla
materia generando una immensa sindone laica.
Mentre l’Allianz Arena in virtù dei mutamenti cromatici permette di percepire anche da fuori il clima vitale dinamico, intermittente, scorrevole, crepitante vorticosa luce bianca, blu, rossa8 della festa sportiva in
esso contenuta, il biancore diffuso della scena per
Tristan und Isolde è pallore mortale di un destino
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9 M. Garofalo, “Una voce per ridisegnare le discipline”, intervista al cantante John De Leo in “Nova 24”,
inserto de “Il sole 24 ore”, 31 Luglio
2008, p. 4.
10 G. Ponti, op. cit., p. 93.
11 L. Altarelli, op. cit., p. 40.
segnato fin dalle prime note.
La scenografia genera di nuovo un luogo ibrido, dove
il sogno e la realtà si sovrappongono, dove la percezione dell’architettura sfuma in qualcosa di vero solo
in funzione della vita effimera entro la scatola teatrale. Si tratta di uno spazio che sopravvive al rapido uso
scenico unicamente nel disegno, quale strumento di
modificazione in potenza o in fieri del reale, e nell’immaginario del progettista che propone l’eidos di un
luogo accettato dal pubblico come un’illusione possibile per la durata dello spettacolo. Eppure i due progetti, lo stadio e la scena, messi l’uno in fianco all’altro, non possono non rappresentare in modo evidente gli esiti opposti della medesima idea di partenza:
una ibridazione alla rovescia, forse perché talvolta del
concetto iniziale non resta che una fotografia mossa
di uno sguardo-verso9 la ricerca di una forma finale.
O forse perché l’ibrido come risultato di un atto progettuale altro non è, in un’ottica di ricorsi storici, che
la reazione a quella specializzazione dei saperi che dal
XVII secolo ai giorni nostri ha provato, talvolta riuscendovi, ad allontanare l’una dall’altra le discipline
tecniche, ma anche quelle artistiche.
Ormai sessant’anni fa Gio Ponti nel suo libro-manifesto Amate l’architettura ha affermato che «nella
nostra cultura tutto è simultaneo»10: del resto l’atto
di ibridare non è forse l’unico possibile per contenere
nell’attuale istantaneità «senza presente e senza
futuro»11 tutte le informazioni necessarie?
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