SAGGI Andrea Emiliani MOMENTI DELLA PITTURA BOLOGNESE DEL SEICENTO NELLA CITTÀ DI FANO Nella primavera del 1598 papa Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, armato l’ultimo esercito - o quasi - della storia della Chiesa romana, mosse verso il ducato di Ferrara per attuarne la devoluzione all’antico patrimonio di Pietro. Infatti, Alfonso II d’Este era morto lasciando la Signoria al cugino don Cesare d’Este. Al contrario, alla Chiesa premeva di esercitare la legge istituita da Paolo III Farnese, che prevedeva appunto il ritorno a Roma di quelle Signorie che - come avverrà anche a Urbino nel 1631 - fossero prive di discendenza maschile diretta. Sarà proprio questo il drammatico, interminabile ultimo atto anche della Signoria Montefeltro-Della Rovere, per anni in cerca di un mancato erede di sesso maschile. Questi, una volta nato e battezzato Federico Ubaldo, morirà però in circostanze che si dissero misteriose a neppure 20 anni. Nella realtà, questa legge farnesiana si rivelerà un agente dominante nelle dinamiche di disgregazione del patrimonio artistico italiano delle Signorie italiane di età rinascimentale. Ed è proprio nel 1597 la decisione papale del recupero del Ducato d’Este, quella che letteralmente segnerà l’inizio del più incisivo, drammatico sconvolgimento della storia e insieme dei patrimoni artistici maturati nel Rinascimento. Dai ricchissimi possessi ferraresi e dagli stessi Camerini di Alfonso II, il Cardinal nipote del Pontefice, Pietro Aldobrandini, venne silenziosamente asportando i capolavori di Giovanni Bellini, di Tiziano e di Dosso, mentre i colleghi Scipione Borghese e Maffeo Barberini mettevano le mani sull’enorme sedimento storico e artistico che sarà poi legato a Roma da un prezioso vincolo fidecommissario. Ed è grazie a quello che oggi ancora i capolavori si ammirano nelle collezioni e nelle gallerie delle grandi famiglie romane, divenute poi nazionali. Ferrara rimarrà silenziosa e deserta nei prossimi due secoli e ancor più. Secondo le rievocazioni di un viaggiatore intellettuale, nelle strade sassose della bellissima città si aggiravano gatti di color blu come narrava Charles De Brosses. Questo preludio ha un peso molto consistente nelle dinamiche che formarono il collezionismo moderno e sulla stessa conseguente fondazione dei Musei. Ma è il momento che io precisi che il mio ricordo è ora indirizzato in particolare verso la narrazione storica degli anni e dei mesi nel corso dei quali Clemente VIII Aldobrandini, proseguendo la sua marcia militare verso Ferrara, giunge alle porte della natia Fano alla quale lo conducono necessità di governo e leggi del suo temporale potere. Le cronache dicono come, fermatasi a Senigallia, l’armata pontificia venisse salutata e ossequiata dal Duca di Urbino, Francesco Maria II Della Rovere. A parte la devozione rituale, il Duca, ormai non più giovane, Ludovico Carracci, Vergine in Gloria con i Santi Orso ed Eusebio, olio su tela, cm 245 x 154, Cattedrale di Fano (particolare) A fronte: Guido Reni, Annunciazione, olio su tela, cm 263 x 171, già San Pietro in Valle, Fano, Pinacoteca civica (particolare) 21 leggeva forse nel transito dell’Aldobrandini le linee di un futuro che anche per lui e per l’antico possesso montefeltresco e roveresco sarà quanto mai drammatico. Entro il più breve tempo possibile, egli dovrà decidersi al matrimonio e a mettere al mondo un figlio maschio. L’ultima sosta era stata quella di Senigallia, come narra lo stesso duca Francesco Maria nel suo diario. La colonna romana riprenderà subito il cammino guidata dal cardinal nipote Pietro, e il Sacramento portato da una mula bianca procederà in testa agli armati. Il duca di Urbino, che già ha provveduto a prosternarsi dovutamente, e a donargli un piccolo Gesù, dipinto su di una lastrina metallica dalla mano di Federico Barocci, accompagna nel cammino il Pontefice e tuttavia dopo qualche tempo si arresta al Metauro. Questo è infatti il confine dove ha inizio l’area del protettorato vaticano di Fano. Il Duca salta allora su un veliero e si può immaginare Domenichino, Annunciazione, Cappella Nolfi, Fano, Cattedrale (particolare) 22 che, navigando sull’Adriatico, si porti in fretta nella città di Pesaro, alle mura della quale si inchina nuovamente al Pontefice che nel frattempo ha attraversato la propria città natale - che era in effetti l’antica Fano - e, di nuovo, accoglie il deferente omaggio. Francesco Maria II Della Rovere, che nel 1599 sposerà addirittura la nipote Livia per ottenere dalla sua giovinezza l’erede maschio sospiratissimo, si ritira malinconico all’Imperiale, mentre il pontefice Aldobrandini, avvilito dalla podagra che le cronache narrano oppressiva, punta in fretta sulla Romagna. Si può anche immaginare il suo arrivo nella città di Faenza, dove il Pontefice riceve Lucrezia d’Este (la prima moglie divorziata di Francesco Maria ! ) che di fatto - e prima di morire - sembra gli abbia ceduto segretamente l’antico Stato di Ferrara. Don Cesare, l’adottivo, nel frattempo, incomincia a trasferire quello che può lungo la via di Bondeno e di Finale, in direzione di Modena. La lunga premessa narrativa lascia immaginare che l’attraversamento della città di Fano nella quale l’Aldobrandini era nato nel 1536 sia stato festoso. Grazie all’importanza delle comunità religiose e dei forti nuclei conventuali, nonché all’ impegno delle vivaci iniziative artistiche che nascono entro le mura della città, il numero delle opere d’arte è in notevole progresso. Si può tuttavia notare che Fano - che ha conosciuto nel passato molti infeudamenti ma non il potere roveresco - sembra costretta ad escludere la cauta e tuttavia ammirata potenza culturale urbinate che era ormai diffusa dall’opera pittorica di Federico Barocci. Esisteva una specie di identità innegabile tra la notorietà europea dell’artista e l’ultimo governo del Duca. Qui non giunge insomma il riflesso della città “in forma di palazzo”, Urbino, che Barocci viveva nell’intimità esistenziale di una passione chiamata ‘cristologia’. L’occhio e il cuore di Federico misuravano come nelle pagine di un’autobiografia i paesaggi colti dalla finestra della sua abitazione di via San Giovanni. Questa particolare forma di affetto giungerà poi fino all’Escoriale portando in Spagna soprattutto la ‘veduta’ meravigliosa del Palazzo Ducale di Urbino insieme alla sua gloria antica. Ma non penetra entro le mura di Fano. Infatti, soltanto Senigallia, Fossombrone, Pesaro sono le città, che, insieme con l’amatissima Urbino, possono gloriarsi dell’opera moderna del grande artista. Fano, marcatamente libera, investe la sua attenzione su altri desideri di committenza artistica e di predilezione estetica. Si potrebbe profittare di questa mostra che punta sul sensibile privilegio che Fano assegna alla fama del Guercino (e che i collaboratori dell’iniziativa, MOMENTI DELLA PITTURA BOLOGNESE DEL SEICENTO NELLA CITTÀ DI FANO ottimi interpreti critici, mettono bene in luce). Credo di ripetere cose già note portando all’attenzione dell’ esposizione e dei fatti spirituali e culturali che essa consente di esaminare, i nomi e le opere di Ludovico Carracci, gli affreschi del Domenichino, la trionfale presenza di Guido Reni, oggi consacrato alla fama di tutto il mondo nel palazzo del Louvre. E insieme di altri segnalati artisti di Felsina Pittrice. Entra in scena anche il più moderno Giovan Francesco Guerrieri, retour de Rome, messaggero di una conoscenza di temperato caravaggismo che si è cimentata prima nella capitale e soprattutto dopo il 1615, con la partecipazione del forsempronense alle iniziative di Marcantonio Borghese nel palazzo della famiglia in Campomarzio. Intorno al 1620, rientrato nella cittadina della Corte Alta che si eleva sul Metauro, il Guerrieri riprenderà a dipingere nella sua provincia natale con un desiderio di grandi mediazioni stilistiche, tese appunto tra il primo naturalismo caravaggesco che lentamente tende a sbiadirsi, e una nuova tensione idealistica che sembra avere almeno uno sguardo rivolto pure al Guercino che si rivela evidente ogni anno di più. Questa esposizione composta in San Domenico di Fano, nella magnifica e restaurata chiesa di San Domenico, è dedicata all’esame e al confronto delle opere di Guercino ricomposte nella città e nella loro interezza grazie al prezioso prestito del San Giovanni al fonte concesso dal Museo di Montpellier. Mi ritornano alla mente anche per questa iniziativa, semplice ed utilissima alla miglior conoscenza storica, gli anni nei quali si proponevano mostre accomunate alle vicende temporali dei luoghi oppure a quella delle stagioni artistiche. La prima fu aperta a Rimini nell’estate 1952 e fu dedicata, nella sala dell’Arengo, ai dipinti superstiti e restaurati dopo la guerra. Erano artisti che allora si chiamavano ancora ‘locali’, come il Centino o addirittura come quello che sarà il più internazionale tra tutti, e cioè il grande Cagnacci, insieme ad altri artisti bolognesi che erano discesi lungo la via Emilia per soddisfare alle committenze avanzate dai grandi complessi oratoriani oppure dai conventi serviti e agostiniani. Già in quell’occasione, presentata con molto impegno critico da Cesare Gnudi e da Francesco Arcangeli, Romagna e Marche si saldavano in un rapporto che comprendeva Massari e Guercino, Mastelletta e Albani : e su costoro emergeva già allora l’immagine del giovanissimo Simone Cantarini, l’artista inatteso che fu pesarese e insieme fanese, e che saldava nella sua straordinaria personalità il ricordo di Raffaello disegnatore, la familiarità grafica di Barocci e la dignità idealistica di Guido. Studiato appunto, quando Simone era ancora giovanissimo, nelle chiese di Fano e di Pesaro. Gli scrittori che hanno dato la loro adesione a questa Guido Reni, Consegna delle chiavi, olio su tela, cm 242 x 210, Parigi, Museo del Louvre (particolare) 23 esposizione intelligente di Fano 2011 consegneranno al suo catalogo ragione informata delle trame profonde e del reticolo di arte, economia e società che hanno intrecciato in numerose relazioni e riconoscibili fisionomie l’esistenza delle comunità rivierasche adriatiche che si susseguono tra Marecchia, Foglia e infine Metauro. Per quanto mi riguarda, io non posso fare a meno di ricordare - e si tratta di un ricordo molto vivo - quando e come ebbi l’occasione di vedere, studiare e infine anche di promuovere il restauro di alcuni dipinti di queste città e specie di Fano, paragonandole per giunta con le non poche opere d’arte del luogo, che nel passato storico altre guerre ed invasioni avevano tolto dai loro altari. Essi ritornarono in Italia per qualche mostra ben strutturata e soprattutto nel corso di quell’irrepetibile decennio 1950-1960. La mostra dei Carracci nel 1956, e prima quella di Guido Reni nel 1954, e infine l’altra dei Maestri della Pittura Emiliana del Seicento nel 1959, avevano infatti avuto la forma di un cantiere critico e storico durevole. Non posso fare a meno di ricordare che nel 1957, insieme ad una tesi di laurea di largo contenuto romagnolo - marchigiano che sostenni davanti a Roberto Longhi, correlatore lo stesso Arcangeli, con grandi patemi d’animo e nella vecchia Università di San Marco a Firenze. Alla fine, questa risultò una specie di tesiprogetto per un programma di lavoro che poi m’è capitato di attuare davvero e molto gradualmente nella vita. In quei mesi, usciva a Urbino per la cortesia di Francesco Carnevali e presso quella pre- Simone Cantarini, San Pietro che risana lo storpio, olio su tela, cm 309 x 266,5, già San Pietro in Valle, Fano, Pinacoteca civica (particolare) 24 ziosa Scuola del Libro, il mio primo libretto dedicato a Giovan Francesco Guerrieri, l’artista allora del tutto sconosciuto che era nato a Fossombrone. Il tessuto di questa complessità non poteva che prendere il suo inizio proprio a Fano, in Duomo, con l’auspicio nientemeno che di Ludovico Carracci, con i suoi Santi Orso ed Eusebio posto sull’altare maggiore. Rivedo ancora oggi il momento felice in cui, durante il restauro eseguito in Pinacoteca a Bologna, venne alla luce la firma con la data preziosa del 1613, la stessa che fornì ad Arcangeli motivo e ragione per una lettura emozionante della malinconia esistenziale espressa in questa tela dal patriarca del barocco settentrionale. Ma subito dopo, anche se il loro restauro tardò un po’ troppo, gli affreschi della Cappella Nolfi, opera del Domenichino dopo il 1617, segnarono un’altra strada aperta alla sapiente cultura del classicismo bolognese - romano. Un dipinto italiano inatteso, come sovente accade davanti alla personalità tuttora poco conosciuta di Carlo Bononi, si presentò ancora a Fano e nel luogo patronale di San Paterniano, quando lo andammo a prendere per il restauro - condotto sempre a Bologna - e per la rassegna dei Maestri Emiliani del Seicento allestita nel 1959. L’immagine è quella del Santo che, assopito, viene risvegliato dalle parole dell’angelo. Un ritratto moderno, un volto stanco e afflitto da problemi di solitudine e di esistenza. A metà, o poco meno, del secondo decennio, il Bononi non ha più nulla della prima memoria estense, ed anzi, essendo andato presto a Roma, si traveste addirittura da Caravaggio, alzandosi un poco sui piedi ed occhieggiando tra la gente che si affolla nella scena davanti alla predicazione del Santo protettore. A proseguire su quella strada, e tuttavia già avanzando nuove proposte di ‘grande stile’, dietro i gusti culturali di padre Marcolini, seguiti subito dopo da quelli di padre Gabrielli, ambedue dei padri dell’Oratorio, e in quella chiesa che era San Pietro in Valle - e che mi è sempre apparsa come un luogo magico - mi apparve Guido Reni che consegnava la sua nobile Annunciazione, un’opera di perfetta dignità formale e di avvincente retorica, messa in opera nel 1621. Essa doveva essere però seguita, dopo tre o quattro anni, e in attesa della nomina del nuovo Superiore padre Gabrielli, addirittura da quella Consegna delle Chiavi che forse è il capolavoro dell’intero classicismo barocco italiano, dipinto tra il 1622 e il 1623, messo finalmente in opera nell’abside della chiesa entro il 1626. Oggi il dipinto letteralmente trionfa nella Grande Galerie del Louvre, e dispiega tutto il suo straordinario valore, anche se purtroppo lontano da queste strade e dalla vi- MOMENTI DELLA PITTURA BOLOGNESE DEL SEICENTO NELLA CITTÀ DI FANO sta della nostra verde azzurra marina adriatica. Nel corso dell’avventura napoleonica, era finita a Perpignan, sui Pirenei, e nel dopoguerra toccò a Michel Laclotte di recuperarla alle rive della Senna, che scorre di là dalle finestre del grande Museo, verso il Pont Neuf. Ciò che è più impressionante, nel dipinto, è la sensazionale attenzione posta dal Reni ai famosi cartoni di Raffaello che oggi stanno al Victoria and Albert Museum di Londra. I ritratti degli Apostoli che assistono alla ‘traditio’ nelle mani di San Pietro hanno la finezza di un cammeo e insieme l’impeto pittorico che solo il giovane Rubens aveva potuto mettere in atto. Era presente a Bologna, dove pure lei fu restaurata nel 1959, la grande tela che sta a cornu epistolae del presbiterio di San Pietro in Valle, e che appartiene alla mano di Simone Cantarini. Rappresenta il Miracolo dello storpio e deve immaginarsi eseguita in anni vicini al 1639-40, e dunque dopo che il giovane ha dovuto lasciare Bologna e quella stanza dove lavorava nell’atelier reniano di Palazzo dei Banchi affacciato sulla piazza Maggiore. Lo stesso al quale pochi mesi prima Simone aveva finalmente avuto la sognata, sperata fortuna di avere accesso tra i collaboratori primi di Guido Reni. Come è noto dalle parole di Carlo Cesare Malvasia, che era amico del Pesarese e che fu perfino suo compagno di viaggio nelle Marche, una lite furibonda esplose nello studio quando il giovane presentò alla visita rituale del grande maestro il suo dipinto destinato alla chiesa del Forte Urbano di Castelfranco, sul confine settentrionale del Panaro modenese. Il dissidio ebbe inizio quando, alla richiesta di una correzione parziale avanzata con autorità dal Reni, il giovane voltò animoso il quadro al muro, segno quanto mai chiaro del rifiuto d’ogni ulteriore ubbidienza. Come i documenti attestano, correva l’anno 1637. E il dissidio fu la fine d’ogni relazione tra i due. L’esperienza tanto attesa era durata poco e la reazione del maestro fu perfino violenta. Simone dovette infatti ritornare a Pesaro per il matrimonio di una sorella e forse spingersi subito dopo anche a Fano, in San Pietro, e chissà che ciò non fosse proprio per poter dare termine al Miracolo dello storpio. Poi andrà in giro per il mondo, e specie a Roma, almeno fin dopo la morte di Guido, intervenuta nell’agosto del 1642. Si trattò, proprio come il Malvasia testimonia, di un conflitto temperamentale ma anche profondo. A renderlo durissimo, come sempre tra vecchi e giovani, fu il fatto che Simone da tempo tendeva a ricaricare a modo suo 1’ incomparabile bellezza ellenistica di Guido, consegnandola in sostanza a un progressivo reinvestimento naturalistico. E ciò mentre Guido, con il suo sogno neoplatonico, si stava ormai allontanando verso un eliso immateriale ed insieme ‘incompiuto’. A volte mi succede di pensare che per lui si trattasse di una specie di morte dell’arte, sulla cui decisione non intendeva venire disdetto e addirittura negato. E proprio da un allievo tanto intelligente. A Fano, e tra le mura della stessa San Pietro oratoriana, potrebbe infine entrare in campo un primo segnale della presenza imminente del Guercino. Il dipinto a cornu evangeli dello stesso presbiterio, rappresenta il Miracolo di Tabita, ed è di mano di un allievo del Guercino da Cento, l’inglese Matteo Loves. A giudicare anche dall’epigrafe sottostante, si direbbe che la sua data di collocazione sia un poco anteriore ai fatti narrati, e cioè dopo il 1635. E vien da pensare che questa commessa sia effetto della segnalazione di quel padre Ghisiglieri che, nella chiesa della Madonna di Galliera, a Bologna, era un buon amico del Guercino ormai trasferitosi fin dal ‘30 in via Sant’Alò a Bologna per i pericoli della guerra dei Trent’Anni. Vien ancora da pensare che, ancora per tramite dello stesso Padre superiore dei Filippini, sia Guercino che Guido - che ostentatamente non si frequentavano, così come Guido neppure salutava l’Albani - avessero piazzato a Fano un uomo per ciascuno del loro atelier destinati a quella grande e importantissima chiesa che era stata terminata - in ritardo - nemmeno dieci anni prima. E che aveva visto collocare nell’abside la straordinaria Consegna delle chiavi a Pietro, capolavoro dell’artista, soltanto nell’anno 1626. Era tuttavia proprio questo l’anno nel quale il papa Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, protettore del Guercino, donava agli Oratoriani la chiesa e il convento della Madonna di Galliera. Essa sta proprio in faccia a quel Palazzo Fava nel quale i tre Carracci, l’anno 1584, avevano inventato e dipinto gli affreschi con le Storie degli Argonauti. Da quelli, aveva preso corso, in realtà, l’avventura della moderna scuola bolognese. Fano ne erediterà un segmento e di alta qualità, portandolo ad una levatura degna della maggior storia dell’arte italiana e del suo esemplare patrimonio secentesco. 25