Indice Presentazione (Cosimo Laneve) Prefazione Cap. I Le microscritture-biografiche Thank you, prof ! How are you? Il desiderio di essere il suo «testimone» Dunque… calma e gesso C’era una volta la «T.» Da bambino, quale lavoro sognavi di fare? La mia voglia si fa ancora più forte I ragazzi… la parte migliore della Scuola Sono le 7.30 di mattina e come ogni mattina… Una sorta di curriculum fatto di incontri piuttosto che di master La Miss Questo compito… una specie di «tagliando» Frotter sa cervelle contre celle d’autrui Il sorriso di un alunno Del genocidio di cui è capace un cattivo insegnante Amelia, quanto e come sei cambiata!? La gioia più grande è imparare Nessuno si senta sicuro e riposi sugli allori Adesso addirittura la sogno Un libro serve se aiuta qualcuno Adoro la matematica Per la libertà dello studente 9 11 21 21 23 26 30 33 36 40 45 47 50 54 58 60 65 70 72 75 78 85 88 90 92 Cap. II La ricerca 2.1. I riferimenti teorici 2.2. I partecipanti: gli allievi futuri-insegnanti 2.3. Lo strumento: il racconto testimoniale 2.4. Una prima lettura degli esiti 2.4.1. Studenti Scienze della Formazione Primaria 2.4.2. Studenti SSIS 2.4.3. Confronto dati 2.5. L’«occhio» dello studente nella lettura dell’insegnamento 97 101 103 105 108 109 109 110 117 Cap. III La lettura delle microscritture-biografiche 3.1. Il metodo di analisi 3.1.1. Il campionamento 3.1.2. Il processo di emersione delle categorie 3.2. Per una lettura «apollinea» 123 125 125 126 130 3.2.1. Il chiaro 3.2.1.1. La disciplina: tra passione e dovere 3.2.1.2. I metodi e le strategie: tra rigore e innovazione 3.2.2. L’oscuro 3.2.2.1. Gli atteggiamenti: tra equità e anticonformismo 3.2.2.2. Il corpo: tra figurazione e dettaglio 3.2.2.3. Lo sguardo: tra penetrazione e distacco 3.3. Per una lettura «dionisiaca» 3.3.1. La scrittura-nuvola dell’eccezionale ordinario 3.3.2. L’iridescenza scrittoria dell’inusuale quotidiano 3.4. L’effetto-insegnante 3.4.1. L’effetto-insegnante nella pratica didattica 3.4.1.1. L’integrato 3.4.1.2. Il possibilista 3.4.1.3. L’apocalittico 3.4.2. L’effetto-insegnante per i possibili profili magistrali 3.4.2.1. L’insegnante-guida 3.4.2.2. L’insegnante-prossimo 3.4.2.3. L’insegnante-carismatico 3.4.2.4. L’insegnante-equanime 3.4.2.5. Il docente-oltre 3.4.2.6. Maestro. No! Maestra 131 132 146 156 159 163 167 171 172 184 190 194 196 198 200 201 203 207 213 214 216 222 Conclusioni 227 Bibliografia 235 Presentazione Presentazione di Cosimo Laneve C’è fra le nuove vie della ricerca educativa nel nostro Paese una che, alla luce di indicazioni provenienti da studi internazionali relativi allo schooling al métier d’étudiant, alla vie scolaire, sta sempre più focalizzando l’attenzione sullo studente come nuova fonte, anche preziosa, per la conoscenza del sapere didattico. È appunto in quella vie d’étudiant che si inquadra questo lavoro e che costituisce l’attuale interesse delle ricerche di Chiara Gemma. Il libro s’incentra sul rapporto tra formazione e scrittura ed è oggetto di un’analisi ampia e approfondita, con riferimento alla problematica generale della relazione fra teoria e pratica educativa. Relazione, questa, che tocca le linee fondamentali e gli snodi più sensibili dell’epistemologia pedagogica e che attesta un settore d’indagine di elezione per l’avanzamento delle conoscenze nel campo dell’insegnamento Lo studio di C. Gemma muove dall’assunto per cui la scrittura ha in sé un valore formativo: accosta perciò in luce critica la consueta distinzione fra luoghi e logiche della formazione e luoghi e logiche della scrittura, additando nella pratica riflessiva il possibile crocevia d’incontro. Riflettere sull’azione didattica permette di accrescere le conoscenze sulla pratica d’insegnamento e, nel contempo, induce il soggetto a riconsiderare criticamente l’agire educativo, sollecitando lo sviluppo e l’affinamento della professionalità. La parola scritta dà consistenza a quel materiale incorporeo che è il vissuto formativo, il quale, rielaborato attraverso il pensiero, si fa concetto. La capacità di oggettivare il proprio itinerario formativo attraverso lo scrivere aiuta difatti non poco il giovane insegnante a comunicare prima a sé la propria esperienza eppoi alla comunità dei formandi un sapere pre9 Scrittura e memoria zioso. Scrivendo si prende atto non solo di quello che si è fatto ma anche di quali sono i fattori che impediscono un insegnamento più efficace e di quali sono, per esempio, i limiti imposti da proprio imprinting formativo (si pensi alle memorie — familiare, da studente, preprofessionale —, alle credenze, alle conoscenze tacite ecc.), epperciò si fa consapevole di quello che si è diventato e infine di quello che si è. Chi sono io, e chi è il mio io docente che lavora, insegna, educa. La coscienza di sé è la prima condizione per una valida formazione docente, non solo iniziale, ma anche in servizio. La scrittura, oltre ad essere un metodo operativo al quale ricorrere nelle situazioni problematiche che il quotidiano «fare scuola» non raramente pone, si configura come una dimensione qualificante della professionalità docente. È l’odierno must, una neocompetenza in atto nel processo formativo. Scrivere difatti è assai utile perché consente di mettere sulla carta i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri sentimenti eppoi al momento della rilettura di trovarsi di fronte la propria esperienza: sta sul foglio per lo scrivente, ma anche quale «bene didattico» disponibile per gli altri ad essere esaminato e interpretato. La scrittura mette a disposizione un materiale da pensare sul quale l’atto riflessivo può soffermarsi, attardandosi ad analizzare e ri-analizzare più volte i dati per pensarli, insieme, in profondità. Le microscritture sono testi scelti e curati nel dettaglio con la geometrica eleganza del ragno. Nella tela la densità opaca della memoria si scioglie nella vivezza del ricordo, il tono critico sfuma nella pacatezza dell’accenno, l’asprezza per la défaillance si scolora nel sussurro. Le pagine confermano la costanza di un pudore espressivo capace di stringere l’intero mondo in una pronuncia essenziale. Nessuna concessione erratica, nessuna formula sapienziale, nessun sovraccarico di bellezza aggiuntiva; piuttosto l’onestà inderogabile di una pronuncia tutta in sottrazione. Non risparmiare sforzi per favorire l’accostamento alla cultura scritta è una delle lezioni implicite che con questo lavoro contribuisce a dare C. Gemma: una lezione scientifica, certo, ma anche umana e civile, di cui sempre più si avverte l’esigenza. Un lavoro che propone e sollecita riflessioni non rassegnate sulla figura, sulla funzione e sovrattutto sulla formazione culturale professionale degli insegnanti di oggi. Ed anche di domani. 10 Prefazione Prefazione Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria […]. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: «Non siamo noi per caso?», e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria. Sant’Agostino, Le confessioni L’idea di partire per questo «viaggio nella memoria», che qui racconto, mi è stata ispirata da Chi è considerato solitamente il destinatario dell’insegnamento: lo studente, da me ritenuto anche «fonte primaria» 11 Scrittura e memoria per poter leggere, attraverso la sua testimonianza, quell’insegnamento di cui è destinatario. È la testimonianza dello studente, futuro-insegnante, talora commovente, talaltra disorientante e ancora inebriante che mi ha sollecitato a presentare questo thesaurus perché si potesse avviare una riflessione sui modi di essere insegnante a partire dalla memoria che di loro si conserva. Una memoria, questa, intrisa di parole scritte che non nascono dal nulla e non si portano immediatamente né ingenuamente sulle cose testimoniate, ma che, nella loro più ampia diversità, attestano l’autenticità di un’esperienza fatta di ricordi piacevoli (e non solo), di impressioni sfumate, di acquisizioni tacite. Una memoria nata da un invito particolare che ho rivolto ai tanti studenti incontrati: «Scrivere dei propri insegnanti» per raccontare di quelli più importanti e ammirati, di quelli che si sono amati. Ma non solo. Anche di quelli fortemente criticati, addirittura odiati, o definitivamente «condannati a morte». Il dono ricevuto, leggendo queste memorie, mi è parso di tale straordinarietà che non sono riuscita a resistere alla tentazione di pubblicarle. Non ho avuto la forza di non regalare queste pagine, avute nella più completa gratuità dai miei studenti, agli stessi studenti e indirettamente ai tanti insegnanti rimasti impressi nella loro memoria. Non ho avuto la forza di essere l’unica depositaria di così tante memorie ricche di ricordi esclusivi, unici, straordinari. Non ho avuto la forza di interrogarmi da sola sul senso di quelle pagine così dense, così ricche di suggestioni per chi si occupa di scuola o si prepara a vivere la scuola da insegnante. Non potevo sintetizzare la straordinaria bellezza di pagine di scuola che non ammettono riduzioni, annotazioni, adattamenti. Non ho avuto la forza di lasciare in silenzio, in un ricolmo e impolverato faldone, le storie, le tante storie, di chi ha costruito, anche su quelle esperienze scolastiche, il proprio essere oggi. Non ho avuto la forza di non «far giustizia» a chi ha avuto il coraggio di denunciare tanti insegnanti incapaci di saper toccare le corde del senso della vita, prima ancora del senso di una conoscenza (qualora ne fossero stati capaci!). E ancora: non ho avuto la forza di tacere sui tanti indimenticabili ritratti di insegnanti che si sono succeduti durante il proprio percorso scolastico, per trarne qualche lume sulle doti necessarie alla pratica di questo strano e straordinario mestiere. Non me la sono sentita, in definitiva, di ratificare il silenzio per queste memorie che, seppur destinate a giungere negli archivi spesso 12 Prefazione chiusi e in certi casi distrutti anche dal tempo, avevano in sé una tale forza comunicativa da non poter essere contenuta. L’incontro, quello con l’insegnante, sempre unico e decisivo, denso di conseguenze per il proprio modo di pensare e agire, pur custodendolo tacitamente, sia pure in una sorta di indistinto di cui non risalta nemmeno il nome, perché in un modo o nell’altro è dentro di sé (talora andando ad aumentare persino il capitolo del dolore) gioca un ruolo, nella propria esistenza, di così grande rilevanza che non socializzarlo mi pareva fare un torto ai tanti docenti che, con autentica passione, hanno creduto (e continuano a credere) nella propria scelta professionale. Un incontro, giusto o sbagliato, che ha consentito di scorgere nuovi orizzonti, di intravedere percorsi alternativi, di schiudere altri pensieri. È da quell’incontro che ha avuto inizio, per molti studenti, la svolta, il nuovo modo di stare con/ nella cultura, di essere uomini a una certa maniera. Sicuramente non è stato facile fermarsi e ripercorrere prima con la memoria, e poi con la scrittura, le tappe più rilevanti di una esperienza formativa che per molti non si considerava ancora conclusa, proprio per quell’incontro quale «fermento» di vita. Per tale ragione, ancor prima di accostarmi alla lettura di queste scritture, ho avuto il timore di trovarmi di fronte a testi non adeguati a rendere la complessità di una fra le esperienze più ricche per la propria esistenza, ma poi, la lettura mi ha fatto capire che l’essere dibattuti tra il dire/voler dire e il non dire/dover dire, ha reso tutti gli studenti profondi intenditori della parola e delle sue implicazioni: come abili equilibristi hanno utilizzato una lingua che ha saputo dire, ma nello stesso tempo ha saputo contemplare margini di ripensamento e di ulteriore sviluppo. Per giungere in quelli che S. Agostino chiamava «i vasti campi della memoria»: fermarsi e ripercorrere la propria esperienza da studente in relazione a chi ha deciso per sé, a chi ha colto qualità da valorizzare (o mortificare), a chi ha schiuso la vita a nuove prospettive, ha finito per rappresentare, per i miei tanti studenti, inizialmente un «dovere» da svolgere per una maggiore consapevolezza professionale, successivamente il compito ha lasciato il posto al piacere, alla meraviglia allo stupore di scoprire che nel pensarsi domani insegnante, si doveva necessariamente ri-pensare a ieri. Da qui la decisione di far dono di queste memorie. E come in un processo giuridico vi è l’indagine istruttoria, il contraddittorio, l’arringa, la perorazione finale e la parola data al testimone, così mi pareva importante partire proprio dal «testimone», escludendo, ovviamente, tutte quelle implicazioni che fanno pensare a un voler esprimere un giudizio finale senza appello. Ho dato la parola allo studente: risorsa qualitativa nella ricerca didattico-educativa e titolare di una soggettività non più de-potenziata, 13 Scrittura e memoria ma determinata nell’afferrare, nel profondo di sé, l’ineffabile, quanto si credeva di non possedere per renderlo pubblico e offrirlo nella più completa gratuità. Ecco che recuperare la parola giusta ha assunto un posto non secondario per l’impegno di trovare il significante adatto a quel significato che il soggetto-studente ha colto in sé e ha voluto esprimere. Quella parola giusta che ha consentito di andare al di là della prerogativa connotativa-denotativa per poi identificarsi con persone, incontri, storie di sguardi quasi tangibili. È come se si fosse ridata forma e senso alla scrittura, alla introspezione, alla riflessione ormai consegnate a quel pernicioso mondo virtuale affastellato di informazioni, insulsaggini cognitive, immagini visuali che hanno colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola (Calvino, 1999, p. 66). È come se la scrittura si fosse ribellata e si fosse trasformata in una occasione che lo studente-scrittore ha scelto per contrastare quella epidemia pestilenziale di cui parlava Calvino. Essa ha permesso di mettere a fuoco i momenti di bellezza e di felicità di una esperienza altrimenti destinata al silenzio, così come ha consentito di emanciparsi dalle esperienze dolorose, difficili e compromettenti per la propria crescita, in definitiva ha tentato di fermare, di suggellare momenti che valeva la pena non dissolvere (Demetrio, 2010). E vengo a due interrogativi: perché Scrittura e memoria? E perché La parola allo studente, quale il senso di questo titolo? Per i cultori del settore ma anche per i lettori non specialisti quale importanza può avere una tale lettura? La risposta alla prima domanda è data dal libro stesso, ed ha richiesto, a parer mio, il pianificarlo tutto intorno alla memoria dello studente. La proposta di un viaggio a ritroso nella propria esperienza scolastica ha concesso a ciascuno di giungere nei grandi spazi della memoria, dove, tra stordimento e meraviglia, tra rimpianti e indifferenze, tra amarezze e gratificazioni, si sono evocate le immagini desiderate; tra queste, alcune si sono presentate all’istante, altre si sono fatte desiderare più a lungo, quasi fossero conservate in anfratti più segreti, fino a quando, quella che si cercava, non si è presentata. La memoria ha seguito il desiderio, l’illusione, forse il sogno di fermarsi in un tempo perduto, di sopravvivere a un tempo ritrovato. Un sogno che si è compiuto quando la memoria è diventata autobiografia e si è incontrata con la scrittura che ha saputo «imprigionare» avvenimenti, incontri, sguardi e attese in piacevoli emozioni che hanno respinto quanto sembrava occasionale, fuggevole e breve. Tutto ciò, evidentemente, è avvenuto grazie a una scrittura che si è imposta per la sua forma, la sua decisione, la sua autenticità, la sua bellezza. 14 Prefazione La scrittura è divenuta atto di forza quando ha combattuto contro l’inesorabile oblio; quando ha donato la possibilità di ricordare un’altra volta e un’altra ancora; e infine quando ha accolto la speranza contro l’effimero quotidiano. Essa è il ritrovamento di un tempo perduto, di una traccia tangibile di una sosta nella realtà passata, è il ritrovamento di frammenti (di ciò che si è, in virtù di) di ciò che si è stati (o ancora si è, oppure non si è più) con (e per) quell’insegnante. Essa è la capacità di apprezzare e accogliere la relazione interiore con il proprio sé, con i propri conflitti, le proprie paure, le proprie angosce, i propri travagli del vivere, le proprie velleitarie aspirazioni di sopravvivenza al tempo, all’inesorabile trascorrere degli eventi, alla devastante smemoratezza che infuria nella realtà postmoderna. È come se ogni scrittura si fosse interconnessa alle altrui storie di vita scolastica costruendo un ponte tra mondi contrastanti, nelle variopinte diversità individuali apparentemente lontane fra loro: in definitiva comuni. Nel titolo vi è poi un sottotitolo che, a bassa voce, mira a lasciare una «pennellata» in chiave formativa. Partire dalla parola dello studente per affrontare alcuni temi della formazione insegnante, non sempre facile da mettere a fuoco per la complessità e la precarietà che la contraddistingue, ritengo possa favorire la presa in carico di sguardi altri sia in chi si occupa di formazione sia negli stessi studenti, invitati a «coltivare» uno sguardo riflessivo sul proprio passato-vissuto. Si può desumere che la prima domanda è strettamente collegabile con la seconda che vuole da un lato porre l’attenzione alla valorizzazione di una esperienza passata ricca di suggestioni per una riflessione sul tema formazione, dall’altro promuovere la bellezza di pagine che lasciano ampi margini di libertà nel lettore portato a riempirli a partire dalla propria storia scolastica. Suggestivo, a tal proposito, l’invito di W. Benjamin: «non cercare troppo una sequenza logica e piuttosto percepisci il graduale fermarsi di una costellazione. È necessario lasciare che i concetti e i fenomeni si avvicinano uno all’altro, alle volte solo in virtù di una bella frase, altre per la spinta più decisa di un sillogismo ben costruito. Bisogna accettare l’imperfezione dello sguardo e cercare sempre una certa distanza, senza farsi spazientire dal vagare dello sguardo, apparentemente casuale. Anche lo smarrimento fa parte di quella particolare strategia di accosto che, coincide con l’atto, elettrizzante del capire» (2011, p. 6). E vengo alla struttura. Nella prima, la più «preziosa», vengono riportate le memorie, o per meglio dire le microscritture-biografiche degli studenti, scritture piccole, brevi ma grandi per contenuti, per ricchezza di particolari e per toccanti suggestioni. Una scrittura, questa, dalla quale emerge una doppia seman15 Scrittura e memoria Dunque… calma e gesso Non ho ricordi. Anzi non voglio ricordare. Sì, proprio così, nonostante siano trascorsi tanti anni e la maturità mi abbia portato a considerare le esperienze con occhi diversi mi accorgo che c’è un profondo rifiuto a ri-pensare e magari a rintracciare il modello e i modelli che hanno influenzato il mio modo di essere oggi insegnante. Scuola elementare. Soltanto un volto. Un nome: quello della mia maestra, rarissimi ricordi del suo modo di stare con noi in classe. Scuola media. Più volti, ricordi maggiori ma per la gran parte associati ad una iniziale e profonda sofferenza. Metodi severi, non giustificati, privi di senso, almeno ai miei innocenti occhi. Comportamenti non motivati, azioni insegnative dettate da pregiudizi più che da reali analisi e letture dell’esistente. Un ricordo vivo: andavo maturando una amara consapevolezza che con il trascorrere degli anni si sarebbe poi confermata. Non ero simpatica agli insegnanti. E il mio dilemma era: «Appartengo alla categoria studente-nonsimpatica, o i miei professori facevano parte di quella “specie animale” che soffre di antipatia e simpatia»? Non sono riuscita a darmi una risposta esauriente a questa domanda, di certo so che questo «sentimento», nel corso della scuola superiore, si è accentuato sempre di più a causa, forse, di errori commessi, o per superficialità dei docenti o semplicemente perché dovevo pagare un prezzo: ero figlia di un docente! Ancora non riesco a darmi una risposta, ma ricordo la sofferenza di quegli anni, il desiderio di abbandonare il percorso, la voglia di urlare contro tutta la loro inadeguatezza didattica e l’incapacità di far appassionare alla vita, alla cultura, al sapere una ragazzina, che pur partita con buoni propositi, cercava di mettercela tutta. Ma si sa gli sforzi non valgono a nulla se il docente si è fatto ormai un’idea (sbagliata o meno) su di te. È questa un’altra delle leggende che circolavano oppure è davvero così?? Mi fu spiegato che si trattava del così detto effetto-alone!! Alunna, (forse) mediocre, accolta dalla prof. di italiano con lapidario commento, che ha poi segnato tutta la mia carriera da studente come nel gioco del domino: «ti ho messo quattro, ma il tema vale appena due…». Inutile qualsiasi commento. Cerco di reagire, mi impegno, chiedo aiuto, ricevo aiuto in casa e da amici di famiglia, tutti concordano che «non sono male», eppure le 30 Le microscritture-biografiche cose non vanno bene, anzi peggiorano a tal punto che divento (temporaneamente) dislessica. Ho soltanto quattordici anni. È per me la fine. In italiano sono «quella del vali due», in latino, anche se con la sufficienza me la cavo, in filosofia basta imparare a memoria, in chimica una frana, in matematica credo di essere brava ma, come dicevo prima, sono figlia di un docente di matematica e quindi sono un «individuo» da «consultare» con quel sarcasmo e quell’ironia che pugnala e uccide innocenti creature che vorrebbero dimostrare di valere qualcosa indipendentemente dai padri. Invece devo essere punita: ho risolto un problema per la prof.ssa C. impossibile da risolvere. Da quel momento la frase tormento fu: «Papà cosa dice, cosa ne pensa?». Mi fermo qui. L’inutilità di quegli anni e l’amarezza di non aver ricevuto nulla e il non ricordare a livello di sapere niente mi angoscia tutt’oggi a tal punto da provare sentimenti oserei dire di odio nei confronti di quegli insegnanti. Altro che modelli da «condannare ai lavori forzati»!! Università: anni decisamente più tranquilli. Esami superati e, come per incanto, tutti con il massimo dei voti. Che cosa è accaduto? Sono cambiata io, inizio ad aver fortuna, o per magia incontro, mi piace pensare, docenti «umani»? Tutto procede per il meglio, troppo bello, anzi diventa un sogno. Ma dai sogni, come si sa, prima o poi ci si risveglia. Ed io mi son svegliata! Quando? Quando mi accingevo ad affrontare l’ultimo esame, quello che decisi di lasciare per ultimo: l’esame di italiano. Quel «maledetto» italiano causa di tutto. Eppure mi impegno, trascorro sei lunghi mesi per prepararlo, tento, insieme ad Italo, un amico che ama le lettere, di scoprire la passione che vi può essere dietro una pagina della Divina Commedia (quella per la quale mi veniva continuamente detto non sai leggere il Dante, non sai leggere, non sai leggere a tal punto da convincermi e non saper leggere davvero più!). Decido finalmente di sostenere l’esame: mi blocco alla prima domanda, non riesco a parlare, farfuglio appena qualcosa, sono visibilmente impacciata, balbetto con insistenza. Interviene la docente dicendomi che a suo avviso ho dei seri problemi di comunicazione, mi invita a rivedere la mia scelta (avrei potuto insegnare anche italiano), mi congeda rinviandomi frettolosamente al prossimo appello. La storia si ripete. Incredibile, ma a distanza di anni tutto si ripresenta e il mio fallimento si reitera senza pietà. Questa volta mi arrendo, mi ripresento all’appello successivo senza grande impegno tanto è tutto chiaro in me (la psicoanalisi mi aiuta), 31 Scrittura e memoria decisamente meno chiaro nella docente che decide di mettermi un ventitré e alla vista del «brillante» libretto si chiede (finalmente!) come mai questo risultato, ma poi si dà una risposta (il prof. ha sempre ragione, mi è stato insegnato!): «Ho timore che i miei colleghi abbiano commesso degli errori di sovra-valutazione! Un consiglio: si prepari bene prima di andare ad insegnare». Mi chiedo: 19 professori «stupidi» o una studentessa gran figlia di …? Non oso, oggi, darmi una risposta a quel «modello» di docenza: credo che la scelta della mia professione è la risposta. Una risposta che nasce sicuramente dai tanti incontri sbagliati che hanno costellato la mia vita da studente e mi hanno insegnato ad essere accorta, sensibile, disponibile, dolce, accogliente prima ancora che professionalmente esigente. Ma poi ecco che penso ad un incontro speciale. Un incontro fuori dagli schemi, un incontro che con la sua testimonianza ha saputo trasmettermi, quando ho scelto questa professione, amore, dedizione, sacrificio, rinuncia, studio. Non ho tanti ricordi di Lui eppure è a Lui che va il mio ringraziamento per quello che sono e per quello che mi sforzo di essere quando sono con i miei allievi. La sua filosofia racchiusa in due comuni e forse, per alcuni, banali parole. Calma e gesso. Due sostantivi, una congiunzione e il suo modello di essere insegnante è tutto racchiuso lì. Due semplici e banali sostantivi eppure parole che invitavano noi studenti ad essere in una certa maniera che dicevano di lui, del suo modo unico di essere professore. Le sue non erano mai lezioni urlate. Mai una nota stonata, mai una sbavatura: equilibrio, equità, obiettività, imparzialità. Tutti figli di una stessa madre, tutti uguali, nessuna differenza, tutti da accompagnare, tutti da promuovere con quel senso di serenità che il suo incedere e il suo parlare attestavano. Era il prof. di matematica. Con lui in classe regnava il silenzio e la costante sfida per saperne di più, per sapere quale fosse la soluzione migliore. Perché a tutto c’era una soluzione, tutto era da ricondurre a un problema, ad un’equazione, ad un teorema per assurdo è come se con lui non ci fossero assiomi, quelle verità non dimostrabili, tutto, insieme con lui, era da dimostrare perché tutto è governato da una logica che va rintracciata e dimostrata. Come? Con il suo lento proferire: «Dunque ragazzi… calma e gesso». 32 Le microscritture-biografiche Calma stava ad indicare il modo con cui dovevamo approcciarci allo studio, alla sua disciplina che significava a volte rassegnazione, altre remissività, altre ancora tranquillità, meglio «serenità mentale». Gesso, invece, individuava nella scrittura il miglior modo per procedere con lentezza e passo dopo passo nella dimostrazione di qualcosa. Bisognava munirsi di gesso (di penna) e muoversi sulla lavagna o sul foglio per scoprire, con pazienza, il lungo procedere e avanzare delle cose, fatte di piccoli numeri, piccoli passaggi, cancellature, integrazioni… Ricordo che non fui subito pronta a comprendere il senso di questa espressione che era solito ripeterci, anzi a volte insieme ai miei compagni lo soprannominavamo il prof. Dunque… calma e gesso, ma devo dire che avendo avuto questo modello sempre presente nella mia vita ho potuto col tempo apprezzarlo e farlo sempre più mio. Ancor oggi, a ottanta anni, e con una cecità improvvisa, il suo darmi a vedere che può ancora «studiare e leggere» i suoi libri di matematica: il suo mondo, perché tutto con dunque… calma e gesso è possibile, pur di restare fedele a quel patto di fedeltà alla sua disciplina. Questo è stato un esempio di grande dedizione alla sua scelta professionale e un grande modello per la mia scelta professionale: grazie papà! C’era una volta la «T.» C’era una volta la «T.»… «L’unica cosa che conta è quello in cui credi davvero. L’umiltà dell’errore la imparerai dopo. Lo so, soffri, perché hai il coraggio della tenerezza, ma più profonda è l’angoscia, più grande è l’uomo. Ricordalo». Era il 1995. Mi trovavo a Roma, iscritta al primo anno di Psicologia. La voce all’altro capo del telefono era quella della mia professoressa di Filosofia del liceo. Sono passati diversi anni da allora. Sono tornata a Bari. Non ho ancora un lavoro, ma ho una laurea in Filosofia. Noi la chiamavamo, ironicamente, «la P.» (che non era, poi, che il suo nome di Battesimo), ma per tutti era «la T.». E, nonostante quella eco di gioco o di baldanza che risuonava nel suo cognome, quel che accadeva quando varcava la soglia della classe, era tutt’altro che un gioco. La corsa veloce a riprendere i propri posti, l’improvviso silenzio ossequioso, il condensarsi di una misteriosa atmosfera di austerità e timore (reverenziale, certo!), era qualcosa di assolutamente inconsueto per la mia III B. Che era, però, molto più la «sua» III B, perché, benché ripetutamente redarguiti dal preside per la nostra vivacità, sempre «nell’occhio del mirino» — si diceva nei corridoi — per la nostra esuberanza incontenibile, 33 Scrittura e memoria che quel contenitore è impossibile riempirlo, perché non si smette mai di evolvere, come tutto evolve intorno a noi. Questo compito… una specie di «tagliando» Sono un chimico, ho 37 anni, circa 29 dei quali, passati sui, o di fronte ai, «banchi di scuola» e ciò non è una forzatura per esigenze di suggestione narrativa. Questo mio in(de)finito e multiforme viaggio nell’istruzione/educazione è stato un’asse portante della mia intera formazione umana, pertanto terreno di costruzione di una parte prevalente della persona che adesso sono. Questo incipit sulla centralità del mio percorso formativo sul mio essere individuo e cittadino, benché suoni ovvio e politicamente corretto, mi è necessario per ribadire l’importanza interiore che io percepisco dell’idea di «insegnamento». Questa idea, così eterea ma pervasiva nel mio quotidiano, devo riconoscere essermi stata «trasferita» dalla moltitudine di personaggi e situazioni a cui il percorso scolastico mi ha sottoposto. Dall’epoca della mia maturità anagrafico/scolastica ho iniziato a immaginare quanti e quali fortuiti episodi vissuti in seno all’universo scuola avessero selezionato il mio futuro invece che un altro, parallelo: quegli incontri, quelle scelte, quei bivii che anche a nostra insaputa, decretano in maniera particolarmente incisiva la nostra esperienza e sensibilità umana successiva. Il primo del quale ho cognizione, invero antecedente a quell’epoca, riguarda la scoperta del primo scrigno segreto, un «mentore inanimato»: un vecchio testo di chimica di mio padre, colui che, peraltro, ha sostenuto quel mio innamoramento senza senso, anche in seguito, seppur con sporadiche velature di malcelato narcisismo genitoriale e con un piglio lievemente debordante verso la figura di professore quale è stato (non di chimica!). Sono propenso a credere che il libro in questione rappresentò allora un innesco fortuito per quel serbatoio esplosivo di curiosità che avevo inconsapevolmente maturato, a sua volta creato dal bisogno di categorizzare, incanalare, una forma di scoperta con l’aiuto di formalismi che mi erano a quel tempo del tutto sconosciuti e andavano a fungere da protesi di amplificazione e sostegno ad una pura ma inefficace fascinazione verso l’osservazione della realtà fisica. Questa folgorazione adolescenziale per la disciplina mi rese un segugio, tanto goffo quanto affamato, di un efficiente dispenser di informazioni, del quale credevo di avere primario bisogno. Da tanto impeto iniziale, è stato istruttivo ed emblematico intuire che quello che cercavo era un altrettanto forte supporto umano di credibilità morale che completasse, governando e modellando la mia 58 Le microscritture-biografiche impulsiva iniziale sete di nozionismo. Con una singolare peculiarità sincronica, questo venne, e ringrazio tanto che sia accaduto in quei tempi e in quei modi, a 16 anni con l’incontro, traumatico prima e illuminante e duraturo poi, DEL professore! Il suo irrompere repentino, inimmaginato, inatteso, totalizzante, severo, giusto, geniale senza sregolatezza, nella mia nuova quotidianità scolastica del triennio finale, mi ha regalato un melange di stimoli conturbanti e contraddittori: eccitazione intellettuale, inquietudine, ansia, desideri, interrogativi febbrili su merito e metodo dei problemi sia sedimentati che creati in itinere, tutti insieme tali da farlo assurgere sia a faro che ad ancora di un neonato percorso culturale e professionale di cui bramavo già raggiungere le non comprese sponde d’arrivo. Specularmente, nella mia attuale esperienza di insegnante, mi sorprendo a cogliere con quanta manifesta e inconsapevole chiarezza emerga dallo sguardo, dalle domande e perfino dalle movenze di qualche alunno, questa loro stessa voglia/bisogno di identificare me con una simile figura. All’opposto, mi è successo diverse volte di confrontarmi con situazioni di idiosincrasia più o meno conclamata, di un alunno/a o gruppetto di loro, nei miei riguardi: frangenti questi nei quali mi sono interrogato con assillante frequenza sul se e sul come fossi stato io promotore inconsapevole di tale disarmonia. Nel mio passato prossimo, dove ha prevalso l’attività insegnativa a quella di studente, sono quindi di gran lunga più vivide le sensazioni di preoccupazione e inadeguatezza nel non aver offerto loro, sufficiente obiettività, serenità e perché no «dolcezza» nel propormi come essere umano, i quali sovente mi hanno dimostrato di avere un’intelligenza emotiva ben più impattante rispetto alle mie talvolta prevalenti ed ortodosse velleità «informative». Tali squilibri/fallimenti strategici nel cercare di raggiungere gli obiettivi formativi per un aspirante insegnante come me, diventano prezioso strumento di riassestamento e autocorrezione della rotta da (per) seguire, specie dopo averne visto i disguidi in termini di ostile risposta dei discenti stessi. Oltre agli esempi di brillante talento empatico e didattico accennati sopra, di cui ho fruito, hanno fatto da amaro ma valido contraltare i lati bui rappresentati da altri insegnanti, personaggi effimeri e/o perniciosi ma che, loro malgrado, mi hanno aiutato a discriminare meglio valori quali: senso di lealtà, dedizione ed inclinazione naturale al senso di giustizia. Questa mia rivisitazione così pacata nei loro confronti, sarebbe stata all’epoca dei fatti leggibile in termini molto più bruschi e risentiti, sorretta dal vergine idealismo/integralismo di quei primi anni di intollerante vocazione scientifica, verso chi esprimeva autorità senza autorevolezza né etica né professionale, suonando come blasfemi mercanti nel laico tempio 59 Scrittura e memoria dell’onestà e della conoscenza. Principalmente l’avversione era alimentata dalla percezione di allora che quegli incontri costituissero, non solo nell’immediato, una mutilazione difficilmente sanabile delle mie opportunità di crescita, come se avessi una sorta di tragica e precoce consapevolezza che quello che doveva consumarsi in quel breve frangente di fine scuola secondaria, non potesse subire ridimensionamenti nel ritmo, nell’intensità e nell’efficacia, rispetto a quell’avvolgente modello di rapimento mistico/ scientifico che mi era stato regalato attraverso l’incontro con IL professore, il mio personale Socrate contemporaneo. Capace di darmi una sensazione di inebriante e costruttiva inadeguatezza, di un tipo del tutto diverso da quella che induce frustrazione e arrendevolezza. Un sentire tenuto stabilmente in bilico fra dubbio e imminente comprensione del tutto. Credo che questo stato d’animo sia prodromico, in generale, ad una disposizione mentale di necessario sacrificio intellettuale verso la scoperta, attraverso l’esaltazione dell’immaginazione e dell’astrazione. Questo compito di breve disamina del mio percorso scolastico in senso lato, rappresenta più d’un lavoro per un esame. È una specie di «tagliando» dell’inconscio, sia privato che professionale, che dovrebbe altresì essere periodico e non una tantum. Atto ad una sanificazione di quei ristagni emotivi e paradigmatici che rischiano di insinuarsi nell’animo di chi invece, per peculiarità di ruolo, dovrebbe fare continua opera di revisione delle certezze nei propri metodi e delle proprie risposte a stimoli tanto vivi, cangianti, rapidi, disparati e comunicativi come quelli offerti da gruppi, anzi da generazioni di studenti, le cui dinamiche comportamentali e valoriali restano costantemente più accelerate rispetto alla nostra limitata capacità di riadeguamento e di revisione del mondo che ci cambia attorno in qualità di adulti. Frotter sa cervelle contre celle d’autrui La vita è un eterno scorrere di ricordi. E chi può negare che i più cari al cuore siano proprio quelli legati a doppio filo agli anni della scuola? La scuola segna l’esistenza di noi tutti, è la palestra dentro cui alleniamo i nostri sensi e costruiamo il nostro patrimonio genetico di spirito critico, è l’olimpo popolato di divinità (Atena o Minerva che siano) su cui facciamo stridere per prime le corde della nostra lira, perfezionando negli anni la poesia e la musica della nostra vita. Ed è una canzone viva e pregnante di significato quella scritta nelle pagine dei diari scolastici, magari non senza qualche nota stonata ma pur sempre musica… musica costruita sulle note di giornate no, note felici 60 Scrittura e memoria Del genocidio di cui è capace un cattivo insegnante Ho sempre pensato che i concetti di insegnamento e missione abbiano più di un punto in comune: lo status d’insegnante mi sembra infatti più simile a quello del prete e del medico che a quello dell’impiegato statale. Dico questo senza retorica, ma alla luce di una considerazione estremamente pratica: nelle aule di oggi ci sono i cittadini di domani, e la scuola (penso in particolare a quella secondaria di secondo grado, nella quale mi auguro di insegnare presto Filosofia e Storia) è la fucina dove formare una società migliore. Mi riferisco a quella che Laneve chiama l’imprescindibilità del senso: per i limiti dell’attuale sistema di reclutamento, evidentemente incapace di selezionare le attitudini e le inclinazioni reali all’insegnamento, resta cogente e improcrastinabile l’esigenza di docenti capaci di testimoniare con la prassi dell’azione quotidiana la propria adesione alla Weltanschauung che si propone agli alunni. Docente, mentore, guida: questo implica che la strada la si faccia insieme, accompagnando lo studente, facendogli strada. Ora che le mie prospettive sono orientate all’insegnamento (o forse sarebbe meglio dire «ora che inseguo il miraggio dell’insegnamento», vista la particolare situazione del IX ciclo; ma questa, forse, è un’altra storia), mi rendo conto che quanto ho appena detto non è che il guadagno di anni passati dall’altro lato della barricata, tra i banchi di scuola. Penso specialmente agli ultimi anni di Liceo, i cui ricordi sono certamente più «coscienti» e verificabili. Tenendo presenti i limiti e l’inevitabile parzialità che la sedimentazione dei vissuti porta con sé, sono due le figure che emergono dalla mia memoria di studente liceale. Due figure che, in una dinamica invero un po’ «manichea», si oppongono come i paradigmi dell’insegnante buono e di quello cattivo. Parto da quello buono: il prof. di Filosofia e Storia. Ci tengo a fugare ogni sospetto che dica ciò per motivi «disciplinari»: la mia movimentata carriera di studente universitario ne è la prova. Dopo il Liceo infatti mi sono iscritto a Fisica e dopo due anni ho cambiato facoltà iscrivendomi a Filosofia, a causa di una «crisi esistenziale» che non esito a definire il colpo di coda della mia adolescenza. Insomma, ho scelto a caso (ed è stata una scelta a dir poco provvidenziale: la considero una seconda nascita) e non certo perché il professore di Filosofia delle superiori mi stava simpatico. Tant’è che le sue qualità riesco ad apprezzarle solo ora. Ai tempi del liceo il prof. in questione era tra i più temuti in assoluto: diciamo che la sua fama lo precedeva. Il primo giorno di lezione ci tenne uno strano discorso su un certo cammino che avremmo dovuto percorrere insieme, sfruttando una bella metafora nautica: perché una nave vada in porto, non basta solo un bravo nocchiero che sappia dove 70 Le microscritture-biografiche andare (Gentile!), perché è indispensabile la collaborazione di tutto l’equipaggio. Fantastico. E riesco a comprenderlo solo ora, alla luce di quel poco che so di scienze dell’educazione. In quella metafora ci sono in nuce le ragioni che mi spingono a definire «missionario» il mestiere dell’insegnante: non c’è stipendio che possa ripagare quell’attenzione e quella cura dell’altro che fanno di un insegnante un maestro. Molte sono le cose che ammiro dell’azione educativa del mio insegnante di Filosofia al Liceo. Innanzitutto un aspetto didattico: ha costantemente affiancato ai manuali i testi filosofici e storiografici, cosa inusuale (e, al tempo, oggetto di attacco da parte di noi studenti); solo all’università ho capito quanto fosse valido didatticamente andare oltre il manuale di Filosofia e «sporcarsi le mani» coi testi per capire un filosofo… Ma l’aspetto che senza dubbio ammiro maggiormente del suo insegnamento sta nell’aver mirato a quell’apprendimento valoriale spesso trascurato dagli altri docenti che ho avuto al Liceo. La postura particolare che aveva rispetto alla realtà e agli altri era qualcosa che riuscivo ad intuire e ad ammirare persino in quegli anni di «incoscienza». Oggi capisco anche che quel che ci sembrava severità (niente giustificazioni, libri in più da leggere oltre ai libri di testo, lavori da svolgere durante l’estate, compiti in classe a sorpresa — laddove le altre classi avevano solo le interrogazioni orali) era semplicemente il modo di trattarci da adulti, di metterci davanti alle nostre responsabilità e spingerci ad assumerle. In fondo a quell’età la scuola è generalmente l’unico luogo in cui un ragazzo si confronta con l’altro da sé e con le istituzioni, il luogo privilegiato in cui iniziarsi alle regole della democrazia, il luogo del passaggio all’età adulta. Oggi non riesco a reprimere un sussulto di orgoglio quando qualche ex-compagno di classe mi paragona al nostro prof. di Filosofia: lui certamente lo dice un po’ per celia; io penso «poveraccio, non puoi capire…». In questa dialettica dei miei ricordi liceali, l’altro polo (quello negativo) è occupato dal professore di Italiano e Latino del IV e V anno. La mia memoria lo descrive come un personaggio uscito dal Satyricon di Petronio: decadente, borioso, volgare e (ora ho più che un sospetto) ignorante ai limiti dell’indecenza. Devo resistere alla tentazione dell’aneddotica per descriverlo, ma temo che sarò costretto a cedere. Venditore di auto prestato all’insegnamento (non è un’offesa, era lui a dirlo con orgoglio), costantemente impegnato a sottolineare che cultura non dat panem (che poi sarebbe carmina non dant panem), dopo il primo compito di latino (IV superiore) affermò che eravamo delle capre e che farci recuperare era impossibile; proclamò quindi che non avremmo più fatto versioni di latino: due anni di compiti in classe a tradurre Cesare o Fedro sotto sua dettatura, coi voti poi messi esplicitamente in base alla sua volontà. Le lezioni si riducevano a mero gossip sulla vita degli autori, o, peggio ancora, 71 Scrittura e memoria ci raccontava le faccende della sua vita familiare. Il dramma è che non sto esagerando: era così ogni giorno. Prima degli esami di maturità lo pregavamo di interrogarci, di simulare la prova d’esame; lui puntualmente nicchiava, rimandava e correva via a organizzare lo show di fine anno… Appurato che non mirasse ad alcun apprendimento cognitivo (che non fosse il gossip sugli imperatori romani), posso affermare che l’insegnamento di questo personaggio avesse come obiettivo un particolarissimo tipo di know how, l’abilità a cavarsela con la furbizia più che col merito, implicante un sistema valoriale assolutamente negativo. Il guaio è che riusciva a testimoniare perfettamente col suo comportamento la propria adesione a quel sistema valoriale così diseducativo: puntava e vessava sistematicamente gli studenti più deboli o in un certo qual modo diversi (perché poveri, perché con la barba, perché non credenti e via dicendo). Va da sé che un personaggio così era molto amato dalla maggioranza della classe: non si studiava affatto e se si riusciva ad entrare nelle sue simpatie si aveva l’8 assicurato. Per onestà devo ammettere che io gli stavo simpatico e dunque per me non è stata affatto difficile; però ogni volta che ancora oggi mi trovo davanti a un testo in latino di Agostino o Descartes capisco che i conti non tornano (nel senso che qualcuno non ha fatto il suo dovere) e mi rendo conto del genocidio di cui è capace un cattivo insegnante. Solo qualche parola sull’età della ragione, vale a dire sulla mia esperienza universitaria, che meriterebbe un discorso a sé. Della quasi totalità dei docenti che ho avuto a Filosofia ammiro la statura intellettuale; ma anche qui la differenza, per me, la fa l’umanità. Ho avuto la fortuna di incontrare e avere per maestri due grandi uomini prima che grandi filosofi: C. E. e R. F. Il loro prezioso sapere, ma anche la disponibilità fuori dal comune, la capacità di ascoltare e comprendere sono gli insegnamenti di cui faccio tesoro e che spero di riuscire a trasferire nella mia prassi didattica. Amelia, quanto e come sei cambiata!? «Amelia, ma ti rendi conto di quanto e di come sei cambiata!?» Eh già era proprio questa la frase su cui i miei occhi di adolescente al IV anno di ragioneria si soffermarono una mattina a scuola. Leggevo con avidità di emozione il giudizio inaspettato, ma così personale e fuori dal consueto della Prof. di Italiano sul mio compito. Quella volta non avevo scelto la traccia che di solito mi dava sicurezza, quella di letteratura grazie alla quale avrei potuto scrivere più agevolmente perché avevo studiato. No! Quel giorno no! La traccia che la Prof. di Italiano ci aveva presentato mi faceva venire voglia di scrivere, così quasi di getto, come 72 La ricerca Capitolo II La ricerca La scrittura richiede un ante, un prima, che è fatto del saper vedere, sia nel senso di saper osservare, di saper cogliere elementi forti, decostruendo l’ovvio, di capire la realtà e di rappresentarla, enucleandone gli aspetti e organizzandoli, sia nel senso di guardare intorno liberamente senza urgenze o costrizioni acquisite e senza schemi categorizzanti, lasciandosi sorprendere dalle cose, abbandonandosi ai fatti, consegnandosi agli incontri, facendosi affascinare dai paesaggi per come si presentano davanti agli occhi, e così via. Laneve, 2007 L’esperienza da studente può avere una ricaduta nella futura vita professionale da insegnante? La maniera di essere insegnante può o non può essere indifferente alle esperienze passate (Schwartz, 2004)? O meglio quanto il ruolo dell’insegnante avuto nel passato ha giocato o gioca nell’essere domani insegnante? La scelta di indagare in tale direzione si inserisce in uno dei nuovi filoni che connotano la recente ricerca sull’insegnamento, attenta non solo 97 Scrittura e memoria a saper cogliere, tramite lo stesso studente, alcuni elementi significativi per la lettura del «fare scuola», ma anche propensa ad «accreditare» il punto di vista dello stesso nella prospettiva di un contributo da offrire alla teorizzazione del sapere dell’insegnamento. Da tempo la ricerca si occupa dei tre segmenti del discorso didattico: insegnante, studente, curricolo cercando di indagare sulla specificità, le potenzialità e i limiti di tale rapporto (Damiano, 2004, 2006; Laneve, 2005, 2009b; Scurati, 1999, 2008; Frabboni e Scurati, 2011). Segmenti, questi, che nel corso della storia della Didattica si sono variamente determinati: sono stati meglio definiti, sono stati, a seconda degli studiosi, intesi diversamente, talora accentuando, talaltra sfumando dei particolari, in ogni caso si è trattato di considerarli facenti parte di un comune processo, pur con ruoli e competenze propri difficilmente derogabili. Non è qui la sede per ripercorrere le tappe significative di tale storia (Becchi, 1987; Berton e Jovine, 1976; Bottero, 2003; Laneve, 1993), piuttosto pare utile, ai fini del discorso, evidenziare all’interno di questo quadro che si è assistito ad una attenzione prima polarizzata sul curricolo a scapito delle altre due che, a partire dagli anni Settanta, hanno subito una notevole implementazione con studi da subito centrati sul docente fino ad arrivare attualmente ad un’attenzione (in vero non ancora molto diffusa) per lo studente. L’apertura verso tale prospettiva non ha, ovviamente, messo tra parentesi l’interesse per il sapere curricolare che è stato approfondito in maniera consistente anche dopo gli anni Ottanta; è abbastanza evidente come ci si trovi di fronte ad un inevitabile intreccio fra i tre segmenti: l’uno non può esistere senza l’altro, così come il secondo poggia le sue basi di analisi sul terzo (altrimenti non sarebbe possibile predisporre situazioni d’aula che portino ad un successo apprenditivo reale). Ognuno si occupa di differenti questioni che pur in continuità fra loro mantengono fissa l’osservazione sui referenti in gioco, e a loro volta in rapporto fra loro. La curiosità, dunque, per alcune parti non ha mai ignorato, nel contempo, il valore delle restanti. Senza continuare in questa complessa analisi, che esula completamente dalle intenzioni del presente lavoro, mi limito ad insistere sul contributo che l’occhio dello studente, può offrire alla chiarificazione di alcuni elementi costitutivi la Didattica, essendo, questi, non sempre di facile assunzione da parte di chi insegna e/o di chi si interroga sul sapere dell’insegnamento. L’occhio, quindi, come angolazione specifica che guarda, con le proprie modalità, le proprie categorie, le proprie cromie, una realtà, quella insegnativa, per confrontare storie e racconti profondamente segnati dagli impliciti e dai non detti che le attraversano, dalle dimensioni soggettive e dalla pluralità, a volte contrastante e di difficile composizione, dei punti di vista, delle rappresentazioni, dei modi di vedere e pensare. 98 La ricerca L’occhio anche come dimensione ermeneutica per l’analisi delle pratiche educative (Gemma, 2005). Non senza però — si badi — la messa in conto della possibile miopia dell’occhio e di conseguenza la inevitabile disponibilità al confronto, per meglio capire e leggere la peculiarità di quanto si sta indagando, con coloro che pure guardano ai medesimi contesti, anche se da prospettive differenti. Si tratta di marcare la formazione come processo di costruzione di senso, un senso che chiede di essere messo in parola, riconosciuto e narrato. Un’operazione di centratura sulla ricerca e la costruzione di senso di tipo ermeneutico, proprio perché chiede un lavoro di interpretazione a fronte della molteplicità dei significati disponibili che la complessità, l’imprevedibilità e la densità delle situazioni restituiscono e che chiedono di volta in volta una particolare attribuzione di senso-significato, impegnativa, rischiosa e incerta. (Kaneklin e Scaratti, 1998) L’occhio ancora come possibilità che orienta, discerne, ravvisa (Deonna, 2008), ma anche «crea» sapere nella consapevolezza, però, del suo limite a cogliere pienamente la realtà insegnativa. Ciò che si vede — ricordava Kierkegaard — dipende da come si guarda poiché l’osservare non è solo un ricevere, uno svelare, ma al tempo stesso un atto creativo. Quali guadagni potrebbero rivenire dall’assunzione di questa prospettiva?1 Ne indico rapidamente qualcuno. Potrebbe consentire di osservare, capire e interpretare quali sono le dinamiche (a volte evidenti, altre volte impreviste e altre ancora straordinarie) che generano pratiche reali, «ogni mattina in aula», tra chi apprende e chi insegna. Potrebbe permettere di rappresentare, in modo alternativo e integrativo, l’«ovvietà» di quanto si ripete in modo rutinario tutti i giorni, perché lo si incontra ogni mattina in tante aule scolastiche. L’eloquenza dell’ovvio e del rituale quotidiano concedono la possibilità di scoprire un’immagine di scuola vissuta che abbandoni il rumoroso e l’assordante eccezionale, insolito e straordinario che comunemente si dice e si scrive della e sulla scuola. Ecco che gli studenti, come ulteriore fonte (Damiano, 1990; Laneve, 2 1993) — perché in grado di fornire dati realistici sul «fare scuola», — di Per un primo approfondimento vedi Rapporto giovani. Sesta ricerca dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna, 2007; TreeLLe, La scuola vista dai giovani adulti. Ricerca sulle opinioni dei 19-25enni nei confronti del sistema scolastico, Ricerca n. 2, aprile 2009; Fondazione Agnelli, Il rapporto sulla scuola italiana, Laterza, Roma-Bari, 2009-2010. 2 Non posso qui ignorare l’utilizzo del termine fonte che in ambito didattico è stato fatto da Damiano e Laneve. È stato usato da Damiano quando afferma che «Siamo dinanzi ad una svolta ragguardevole, se è vero che gli educatori sono stati fin qui concepiti, salvo casi eccezionali, come i destinatari della ricerca, chiamati ad applicare i prodotti ideati, […], oggi divengono fonti dell’analisi pedagogica 1 99 Scrittura e memoria tipo primaria — per l’offerta di informazioni «di prima mano» (ad esempio rappresentazioni e rievocazione di episodi personali) per leggere l’insegnamento si fanno testimoni di fatti didattici tra i quali, particolarmente significativi per il presente lavoro, spiccano quelli riconducibili all’insegnante, al suo dire, fare, essere. L’inedito, la freschezza, l’originalità o al contrario la sgradevolezza, la scomodità delle posizioni, il tratteggio screditante (ma non solo) dell’insegnante, sono le caratteristiche che contraddistinguono tali fonti allorquando «consegnano» sguardi sull’insegnante, attraverso la conoscenza pratica che dell’insegnante gli stessi hanno. Dare la parola allo studente, futuro-insegnante, ovvero invitarlo a dire-scrivendo del suo incontro con l’insegnante più o meno significativo, del suo essere studente con quell’insegnante, di quanto quell’insegnante tra «chiaro» e «scuro» è riuscito a consegnare e a trasmettere, può contribuire alla ricostruzione/rappresentazione di un legame (insegnantestudente) che si modula tra l’eccezionale e l’ordinario, tra il magico e il reale, tra il divino e il diabolico, tra il pubblico e il privato, tra l’amore e l’odio (Steiner, 2004). Ma è proprio qui che si pone la difficoltà epistemologica: se l’evento didattico è irriducibilmente «atto», cioè singolarità, tipicità, scoperta, sintesi creativa, è possibile, se non generalizzare, perlomeno trasferire le scelte che lo hanno ispirato? È possibile concettualizzare questa esperienza? Come è possibile promuoverne la formalizzazione? Sono domande che esigono risposte attendibili già mentre si è deciso di incamminarsi lungo questa pista d’indagine. Non va trascurato, poi, che gli interrogativi si ripropongono in maniera analoga se rapportati al tema della formazione degli insegnanti e quindi: qual è il senso di una tale proposta? Perché il narrare dei propri insegnanti anche in prospettiva di una futura formazione? Può tale modalità portare ad una maggiore consapevolezza circa la propria professionalità futura? E ancora: la riflessione sugli insegnanti del passato può favorire la chiarificazione di alcuni modi di essere insegnanti? Ed infine è possibile assolutizzare un’esperienza in vista di un processo di formalizzazione? L’orizzonte che si delinea è certamente interessante ma anche diffile da intravedere nella sua completezza. Non è questo, ovviamente, l’obiettivo perspicuo di tale lavoro, una cosa, però, mi piace ribadire: lo studente, in qualità di «documento testimoniale», è colui che rende informazioni di una certa rilevanza su un fenomeno da indagare. Questo — come già anticipato — non esime dal tenere in conto che quanto egli restituisce può essere dell’insegnamento, […] l’insegnante cambia ruolo, diviene insieme oggetto d’analisi e testimone autentico dei costrutti teorici e metateorici del pedagogista» (1990, pp. 33-34); da Laneve quando ha posto l’attenzione all’esperienza insegnativa, ovvero a quelle esperienze concretamente realizzate, di particolare valore paradigmatico (1993, pp. 132-135). 100 La ricerca parziale e non sufficientemente esaustivo del fenomeno analizzato. Tuttavia, accordatogli lo status-fonte ritengo che soffermarsi su quegli elementi che ricorrono nella considerazione del modello (positivo-negativo), che inevitabilmente ha lasciato delle tracce nel proprio percorso formativo a tal punto da condizionare scelte, comportamenti e altro ancora, nella futura formazione-carriera, rappresenti una maniera ulteriore, per la ricerca didattica, di capire in re cosa accade quando si insegna. Per chiudere. Si tratta di «recuperare-interpretare-costruire» il vasto campo della «storia da studente» e fin qui il discorso parrebbe facile ma è proprio in relazione a questa sfida che si pone il serio problema: è possibile decontestualizzare e trasferire, a partire da casi singoli e da specifiche esperienze scolastiche, le categorie che sottostanno a quel particolare caso? Fino a che punto si può considerare affidabile l’assunzione delle pratiche esistenti come paradigma di giudizio per le pratiche d’insegnamento che si intendono promuovere nel futuro? Inutile esprimere la difficoltà in tal senso. Il lavoro da fare in prospettiva di una formalizzazione dell’esperienza da studente è per ora soltanto un progetto — o forse soltanto un itinerario di ricerca —, ma è anche, e soprattutto, una prospettiva che mi auguro possa consentire una svolta ulteriore nel campo del sapere sull’insegnamento: svolta che potrebbe condurre la Didattica verso una ulteriore comprensione piena, e perciò non riduttiva ma sistemica e critica dell’azione insegnativa. Si profila per questo un lavoro intensissimo di raccolta e analisi dei dati provenienti da fonti diverse. 2.1. I riferimenti teorici Di origine perlopiù anglosassone, gli studi considerati sono quelli che, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, hanno indagato (sia con insegnanti in formazione iniziale sia con insegnanti in servizio) le rappresentazioni su più piani della professionalità insegnante (Calderhead, 1996, pp. 709-725; Calderhead, 1988, pp. 33-49; Russel, in Calderhead, 1988, pp. 13-34; Calderhead e Robson, 1991, pp. 1-8; Nespor, 1987, pp. 317-328; Clandinin e Connelly, 1997, pp. 665-674; Beishuizen et al., 2001, pp. 185-201; Meijer, Zanting e Verloop, 2002, pp. 406-419). È abbastanza evidente notare che da quando la ricerca didattica ha volto la sua riflessione anche sull’attore-insegnante (Damiano, 2004; Laneve, 1993), oltre che sull’azione di insegnamento, è ricorsa a costrutti orientati a comprendere la complessità delle dinamiche in atto tra insegnante-insegnamento-apprendimento. Fra questi, fanno da sfondo teorico alla ricerca, le conoscenze e le credenze: le prime sono riferite alle 101 Scrittura e memoria rielaborazioni delle esperienze effettivamente vissute da un soggetto;3 le seconde sono ricondotte alla dimensione valoriale, ideologica e concettuale4 cui il soggetto fa riferimento. Tali costrutti si sono — com’è noto — ramificati in settori di ricerca paralleli e separati — e qui vanno richiamati i quattro livelli di distinzione tra conoscenza e credenza indicati da Nespor (1987, pp. 317-328): presupposti esistenziali, alternativi, affettivi, valutativi e a struttura episodica (Abelson, 1979, pp. 335-336) —, fino ad essere considerati sempre meno contrapposti. Pajares (1992, pp. 307-332), ad esempio, utilizza il termine credenze intendendo valori, attitudini, giudizi e opinioni, ideologie, percezioni, concezioni, sistemi concettuali, preconcezioni, teorie implicite, teorie personali in maniera spesso intercambiabile. È abbastanza scontato come per l’Autore è molto difficile separare le credenze dalle conoscenze. All’interno di questi studi sono poi da segnalare Calderhead e Robson (1991, pp. 1-8) che hanno rivolto attenzione alla conoscenza dei futuri insegnanti in relazione all’insegnamento e all’apprendimento all’inizio del loro percorso formativo. Gli Autori hanno inteso indagare quanto questa conoscenza influenzi l’interpretazione della propria pratica e della pratica degli altri, sostenendo che le immagini, siano esse rappresentazioni o ricostruzioni, ci forniscono comunque indicatori sulla conoscenza dell’insegnante. L’attenzione è, dunque, sulla forte influenza delle prime esperienze da studenti sulla modalità di costruzione delle stesse immagini (John, 1991, pp. 301-320), tanto da parlare di stereotipi (modelli negativi o positivi) che incidono sulla rappresentazione generale dell’insegnamento. Calderhead distingue tra conoscenza pedagogica della materia (L. Shulman, Those Who Understand: Knowledge Growth in Teaching, «Educational Researcher», 1986, vol. 15, n. 2, pp. 4-14); la conoscenza pratica personale, ovvero la personalità dell’insegnante, le esperienze passate, il modo in cui vedono l’insegnamento (richiama F. Elbaz, Teacher Thinking: a Study of Practical Knowledge, London, Croom Helm, 1983; D.J. Clandinin, Classroom Practice: Teacher Images in Action, Philadelphia, Falmer Press, 1986). Autori come Bullough hanno approfondito il peso delle esperienze passate sulla formulazione di metafore attraverso cui è descritto l’insegnamento (R.V. Bullough, Exploring Personal Teaching Metaphors in Preservice Teacher Education, «Journal of Teacher Education», 1991, vol. 42, n. 1, pp. 43-51) altri utilizzano come unità di analisi le metafore e le immagini: ricordiamo H. Mumby, Metaphor in the Thinking of Teachers: an Exploratory Study, «Journal of Curriculum Studies», 1986, vol. 18, n. 2, pp. 197-20; per l’approfondimento del procedimento conoscitivo metaforico in generale si veda il celebre G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, Chicago, University of Chicago Press, 1980. 4 La ricerca sulle credenze ha approfondito delle aree distinte: credenze riguardo l’apprendimento e chi apprende; credenze riguardo l’insegnamento; credenze riguardo la materia; credenze riguardo l’apprendere ad insegnare; credenze riguardo se stessi e il ruolo dell’insegnante. M.F. Pajares, Teachers’ Beliefs and Educational Research: Cleaning up a Messy, Construct, «Review of Educational Research», 1992, vol. 62, n. 3, pp. 307-332, utilizza il termine credenze intendendo i valori, attitudini, giudizi e opinioni, ideologie, percezioni, concezioni, sistemi concettuali, precomprensioni, teorie implicite, teorie personali in maniera spesso intercambiabile e difficilmente distinguibili delle conoscenze personali. 3 102 La lettura delle microstrutture-biografiche Capitolo III La lettura delle microstrutture-biografiche* Ci sono cose che si osservano solo per il piacere di notarle, altre che si scorgono con quella finezza di percezione che sa accarezzare i particolari o con quella immediatezza che sa cogliere le «solari inerzie», altre ancora che semplicemente si sentono: tutte senza l’assillo di spiegarle e di interpretarle. Laneve, 2008 Il tipo di lettura ideografica qui effettuata dei racconti testimoniali ha inteso cogliere i significati di specifiche esperienze vissute da particolari soggetti in un peculiare contesto. Ci si è avvalsi di un dispositivo di descrizione/interpretazione/comprensione dell’esperienza soggettiva, che si è rivelato, quindi, particolarmente appropriato in una prospettiva euristica che conduce alla individuazione di possibili tratti distintivi per i profili magistrali da applicare nella pratica insegnativa o da approfondire in chiave formativa. L’itinerario di lettura si declina su due direttrici e si fonda su due modelli di lettura distinti che hanno mirato, da un lato, alla individuazione di categorie che possano contribuire alla codifica dell’essere insegnante * I paragrafi 3.1. e 3.2. sono di Laura Agrati. 123 Scrittura e memoria a partire da una topica che dal chiaro si muove verso l’oscuro; dall’altro, hanno messo in risalto il bello scrittorio e l’emozione scrittoria attraverso una decodifica libera e senza alcun definito schema interpretativo, fatta eccezione per quello strettamente personale. È appena il caso di avvertire, infatti, che come nessuna lettura è del tutto esente da connotazioni personali, così anche quelle che seguiranno risentiranno delle inevitabili scelte personali che siamo state costrette a fare: prima fra tutte la scelta di un numero limitato di microscritturebiografiche da presentare;1 poi l’inevitabile selezione di alcuni lacerti che sono parsi più funzionali agli obiettivi da raggiungere, e ancora la scelta della fascinazione del testimone (Rimé, 2007), specie per gli eventi di carattere emozionale che una pagina di ricordi ha finito inevitabilmente col provocare rispetto ad un altra e così via. La validazione di una ricerca narrativa — come ormai acquisito — va individuata nella fedeltà, ovvero nella capacità di essere fedeli al testo nel senso di dire il senso di quello che il testo dice, con l’avvertenza che «chiedere che un resoconto sia fedele è cosa diversa dal pretendere che sia vero: è vero quando dice con esattezza ciò che il testo dice; è fedele quando riesce a comunicare il significato che il parlante ha enunciato» (Mortari, 2007, p. 181). Noi ci siamo impegnate in tal senso. Lo abbiamo fatto intanto presentando, nel primo capitolo, le microscritture-biografiche nella loro interezza, così come ci sono state consegnate, senza cioè alcuna riduzione o «manipolazione» del testo. Nel presente capitolo, invece, abbiamo selezionato alcune parti funzionali agli obiettivi selezionati come utili per la lettura. Ancora: abbiamo cercato di essere fedeli realizzando una lettura rispettosa del senso che lo studente ha voluto consegnarci pur avvertendo un forte disagio in relazione alle scelte operate (si veda capitolo III, paragrafo 3.2.2.). Eppoi la fedeltà l’abbiamo attestata quando, a conclusione della lettura, condotta in tandem, abbiamo provato la sensazione di far parte di una medesima esperienza intrisa di felicità e di dolore, di attese come di delusioni, di speranze e di sconfitte, di conquiste e agognate fughe. La lettura, indubbiamente, ha richiesto pazienza, dedizione, ascolto; tutte doti che hanno consentito, a nostra insaputa, l’eredità di un patrimonio inestimabile: la misteriosa traccia dell’altro. Siamo di fronte a quella che Raimondi (2007, p. 13) chiama l’etica del lettore che va oltre la sterile «consumazione» del testo, per aprirsi al riconoscimento dell’epifania dell’altro come traccia fragile e finita dell’umano. È un’esperienza Per una lettura completa delle microscritture-biografiche vedi A.A.V.V., Pagine di scuola, in press. 1 124 La lettura delle microstrutture-biografiche morale: «Non si dà vero dialogo col testo, senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé» (Raimondi, 2007, p. 13). La lettura esige virtù desuete: solitudine, lentezza, attenzione, capacità di saper cogliere una ricchezza e una complessità di significati, attitudini che mal si conciliano con la frenesia di un’esistenza tesa alla spettacolarizzazione della stessa. Uno sforzo di «esattezza d’osservazione», «un’avventura congiunta della sensibilità e del pensiero», una tensione a ricordare e una capacità di integrare e costruire le varie pagine in cerca di un continuum hanno sollecitato, in noi, la preziosa capacità di creare rapporti, di stabilire relazioni tra i tanti ricordi che qui consegniamo ai nuovi lettori. E siamo alla restituzione. Due le letture individuate per rendere quanto gli studenti hanno prodotto: l’una apollinea, quasi un voler riconoscere «scientificità» alla microscrittura e sortire rigore e equilibrio nell’analisi; l’altra dionisiaca, per una «de-scientificità» della microscrittura, ovvero per estraniarsi dalla frenetica analisi, per rifiutare, nell’atto del leggere, un punto di partenza in vista di un’immediata interpretazione, di un improvviso piacere che può rivenire da quelle che vengono indicate le microscritture-biografiche del brandello, della briciola, della scheggia. 3.1. Il metodo di analisi Presentiamo brevemente la metodologia della Grounded Theory (GT) utilizzata per la raccolta e l’analisi del materiale scrittorio prodotto dagli studenti. La GT (Tarozzi, 2009; Glaser e Strauss, 2009; Clarke, 2005) è una modalità di ricerca nata nell’ambito delle indagini sociologiche e ispirata al «paradigma interpretativo» allo scopo di individuare i processi sottesi ad un determinato fenomeno. Essa consente una trattazione subnumerica dei dati qualitativi la cui assoluta qualitatività viene preservata senza tuttavia eliminare una trattazione quantitativa. Non fornisce una rappresentazione statistica del fenomeno, ma consente, attraverso la riflessione sui riferimenti comuni, l’emersione di possibili categorie all’interno dei testi che portano il ricercatore ad avanzare ipotesi sull’intelligibilità degli stessi. È stato possibile, in questa maniera, estrapolare una serie di profili di insegnante sulla base delle descrizioni fornite dagli studenti nei loro scritti. 3.1.1. Il campionamento I 314 soggetti coinvolti, appartenenti tutti a corsi di formazione universitaria per l’insegnamento, sono stati considerati un valido «insieme 125 Scrittura e memoria universo» dove poter riscontrare l’incidenza delle rappresentazioni in merito al modello di insegnante dichiarato. È risaputo che la GT non procede per campionamento probabilistico, come per le indagini statistiche, piuttosto per «campionamento teorico per saturazione». Tale tipo di campionamento consiste nel dare inizio alla ricerca a partire da un primo gruppo di soggetti, per poi ampliare la base di riferimento: la nostra ricerca è, infatti, partita col coinvolgere gli studenti SSIS per poi estendersi ad altre due tipologie di insegnanti in formazione (si veda capitolo II paragrafo 2.2.) sulla scorta «degli stimoli che provengono dalla teoria emergente» (Tarozzi, 2009, p. 46). In altre parole, il primo passo dell’indagine ha riguardato il raggruppamento degli studenti in base a rilevanti caratteristiche che fungevano da primo criterio di differenziamento (ad esempio gruppo a studenti-futuri insegnanti della scuola secondaria; gruppo b studenti-futuri insegnanti della scuola primaria, ecc.). Successivamente siamo andate alla ricerca di altri casi che permettessero di effettuare una sommaria comparazione in riferimento alla prima raccolta: si è proceduto, in questo caso, per somiglianze o differenze, per fenomeni simili in contesti diversi o fenomeni dissimili in medesimi contesti, per classi artificialmente costruite: età, genere, classe sociale, ecc. Come si può desumere, il campionamento diventa, allora, una procedura in itinere e non semplicemente la fase iniziale della ricerca: esso procede di pari passo con la raccolta del materiale, con la prima analisi dei dati e — ovviamente — con la prima elaborazione delle categorie. Il criterio per stabilire quando si può interrompere la procedura di campionamento è, appunto, la «saturazione teorica»: una categoria è satura quando non emergono più ulteriori dati che sviluppano altre proprietà della categoria; in altre parole quando i nuovi dati divengono «ridondanti», confermativi delle categorie emergenti e delle loro proprietà. 3.1.2. Il processo di emersione delle categorie Il procedimento qualitativo di elaborazione dei lacerti è stato scandito nei seguenti momenti: –sono stati selezionati i lacerti in cui gli studenti si soffermavano nel descrivere le azioni, l’aspetto, il comportamento degli insegnanti appartenenti alla propria memoria; –sono stati radunati in macro-famiglie2 di similarità (per esempio i riferimenti alla sfera disciplinare e alle strategie di insegnamento, ecc.); È inevitabile il riferimento alla categoria «somiglianze di famiglia» di Wittgenstein (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1957). 2 126 Scrittura e memoria crisi per aver lasciato il posto al già noto e al già vissuto. L’attesa è stata neutralizzata dal subito ed ora, il nuovo è già vecchio per la velocità con cui le cose si susseguono. Ed è per questa ragione che abbiamo voluto proporre queste «pagine», con la speranza che possano svelare la bellezza di alcune mirabili esperienze (agli occhi più curiosi e più sensibili di chi non si lascia travolgere dalla corsa contro il tempo, come gli occhi dei bambini che «schiacciano il naso contro i vetri») che faranno rivivere il sentimento dell’incanto verso storie di vita scolastica altrimenti destinate a rimanere sepolte e mute, perdute e consegnate all’oblio. C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo […]. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. (Kundera, 1995, pp. 43-45) L’intentio che qui proponiamo è quella di procedere nella lettura attraverso due modalità: l’una raccontata dalla scrittura-nuvola, quella scrittura che riesce a comporre, schizzare e tradurre in immagini le parole delle microscritture-biografiche; l’altra, quella dell’iridescenzascrittoria, culminante nelle cromie scrittorie, come in una tavolozza fatta di colori caldi e freddi, e nelle distonie scrittorie, cioè le dissonanze, i disaccordi espressi con un tipo di scrittura che si fa ribellione, rivendicazione, rivincita. 3.3.1. La scrittura-nuvola dell’eccezionale ordinario Modalità, questa, che si è scelta per «custodire» in una nuvola di parole la testimonianza di un avvenimento tanto «ordinario» da non essere necessariamente scorto in precedenza. Una testimonianza e un avvenimento contengono in sé una molteplicità di elementi che la mera ricorsività delle parole, spazialmente disposte, potrebbe non svelare, diversamente da un tipo di scrittura alternativa che fa vivere, attraverso il gioco di parole, ciò che altrimenti sarebbe consegnato al silenzio. Riportiamo al termine del paragrafo alcune nuvole di parole realizzate utilizzando Wordle, un tool per generare tag clouds, cioè una rappresentazione visiva delle frequenze d’uso delle parole all’interno di un testo. Il programma consente di creare nuvole o vignette che danno risalto alle parole che compaiono più frequentemente in un testo: le parole graficamente più grandi sono ovviamente quelle con una maggiore 172 La lettura delle microstrutture-biografiche frequenza (Teatino, 2010), e quindi con una maggiore carica connotativa che le fa irrompere a livello grafico a tal punto da suggerire di partire proprio da queste per una personale lettura-interpretazione. Le ragioni di questa proposta? Andare oltre una modalità tradizionale di lettura, lasciandosi guidare dalla libertà del piacere di una parola da legare ad un’altra, eppoi ad un’altra ancora e infine a tante altre, in un intreccio di continuità e discontinuità che si fa proprio, personale, unico, irrepetibile. Riconoscere a colori che si uniscono, si fondono, si mescolano il piacere di un’armonia che diventa sorpresa, irruzione, ma anche non senso. Lasciarsi affascinare da parole in libertà e dalla libertà delle parole che in un’alternanza di rinvii e rimandi quasi si inseguono, quasi si respingono. Un modo inconsueto di leggere quanto lo studente scrive e quanto la tecnologia ci consente di fare quando manipola il «tradizionale». Forse un modo curioso e «indiscreto», a nostro avviso capace di condurre il lettore alla composizione di un nuovo testo, quello scritto-e-letto a partire dalla soggettività che scorge, in quella parola, quanto di più personale vi è nella propria memoria. La lettura che si propone, a partire da queste «nuvole», non è, quindi, vincolante, né consente riduzioni, né lascia margini di condivisione: è privata, personale, autonoma, è svincolata e segreta. Una lettura, questa, che accoglie l’invito di Calvino (1999), quello di mantenere viva l’immaginazione: qualità della mente in grado di dare visibilità a immagini, visioni, fantasie, suggestioni visive per scongiurare il pericolo di perdere quella facoltà umana fondamentale che mette a fuoco visioni a occhi chiusi e che fa scaturire colori e forme dall’allineamento dei caratteri alfabetici. Immaginazione — in definitiva, dice Calvino — come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è, né è stato, né forse sarà, ma che avrebbe potuto essere. Una lettura che — pur nella diversità del linguaggio iconico — parli del/al soggetto, lo trasporti oltre se stesso in una realtà senza confini e pur racchiusa in parole che diventino per il lettore infinite storie. Ancora una lettura che abitui a controllare la propria immaginazione senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso labile fantasticare, e quindi consenta che le immagini si fissino in maniera definita, memorabile e icastica. La storia personale diviene «le storie siamo noi», il nostro passato quello che ci unisce ma anche ci divide nella prospettiva di una soggettività che sceglie in libertà. A mo’ di semplificazione si riportano i titoli e le didascalie che gli stessi studenti hanno dato alle loro memorie trasformate in immagini. 173 Scrittura e memoria L’ombrello del sapere … il «sapere» che mette al riparo… dai pregiudizi, dalle paure, dalla solitudine… (Donatella) Un riparo per la vita In particolare, mi ha colpito la forma dell’ombrello perché mi ha fatto pensare ad uno strumento con il quale ripararsi. L’ombrello può rappresentare la scuola che ci ripara dall’ignoranza e da tutto ciò che di negativo scaturisce da essa. (Stefania) 174 La lettura delle microstrutture-biografiche L’insegnante: un mestiere sui «trampoli» L’immagine della scarpa con un tacco molto alto rimanda a due considerazioni: l’insegnante che «usa i tacchi» per essere al di sopra degli studenti per imporsi; l’insegnante che è sì «al di sopra» ma come metafora dell’andare oltre le apparenze, i pregiudizi… Un insegnante che dall’alto sappia prendersi cura dei suoi studenti attraverso il binomio fondamentale relazione-conoscenze. (Angela) La scuola: una scarpa che dovrebbe calzare a pennello La scarpa con il tacco talvolta scomoda da portare ma che sicuramente fa più belle ed alte, così come la scuola che è sì difficile, ma in grado di regalarci tante soddisfazioni. (Daniela) 175 Conclusioni Conclusioni sione. Alcune considerazioni in relazione al rapporto scrittura e rifles- Senza però — si badi — ripetere quanto già teorizzato egregiamente da studiosi del settore (Demetrio (1996), Batini (2009; 2010), Formenti (1998; 2010), Laneve (2009), Pulvirenti (2008), Smorti (1994; 1997), Striano (2001), ecc.): mi limito a ribadire il valore che la scrittura, in una prospettiva formativa, può ricoprire, e la ricaduta che essa può avere sulla capacità riflessiva. La scrittura, — come è ormai noto — quale dispositivo per la «conoscenza di sé» genera una forma di narrazione interiore e di esplicitazione di se stessi quando ripensa le esperienze per esplicitare finalità, cause, scelte valoriali in esse contenute. Pertanto favorisce anche il riconsiderare le azioni vissute e messe in atto, ricomponendone il senso e le prospettive di sviluppo che a partire da esse si schiudono. Si può, quindi, mettere in evidenza che tutte le forme esperienziali, essendo situate, sono sottoposte costantemente a processi decostruttivi e ricostruttivi, da cui scaturiscono, a seguito dell’utilizzo della scrittura, nuovi e diversi elementi conoscitivi tesi a potenziare la riflessione. Per converso, le esperienze non rielaborate, tramite il pensiero narrativo, e — aggiungo — per mezzo della scrittura, non sempre generano conoscenze adeguate ad una dimensione esistenziale più consapevole, ma rimangono semplici episodi e fatti inespressi, poco comprensibili all’interno di un senso in quanto non interpretabili in riferimento agli stati intenzionali che li hanno prodotti, né tantomeno inseribili all’interno di un continuo che li possa presentare come elementi significativi di una storia individuale o comunitaria che sia. Episodi e fatti, manchevoli 227 Scrittura e memoria di senso, risultano, sul piano prima personale eppoi culturale e sociale, irrimediabilmente destinati ad essere consegnati all’oblio. Ecco che la scrittura può offrire agli studenti, futuri-insegnanti, l’occasione per dipanare e comporre passaggi esperienziali apparentemente slegati e insignificanti, ma successivamente rivalutati nella loro complessità e tipicità epperciò riconsiderati nella loro unitarietà e specificità euristica. In tal senso è possibile riconoscere alla scrittura un proprio e peculiare tratto distintivo: quello epistemologico che genera forme di conoscenza rispondenti a richieste di chiarimento di senso e di significato in relazione a esperienze pregresse, quali qui quelle scolastiche, intese quasi al pari di «fenomeni» da sottoporre ad indagini attraverso un processo ermeneutico (Striano, 2005). Il lavoro di ricerca che ne riviene, quando si decide di trattare le scritture, è appunto per questo eminentemente ermeneutico; l’interpretazione del lettore-ricercatore è al tempo stesso parziale e dinamica e si realizza per mezzo di un costante processo dialogico tra racconti testimoniali, contesti indagati e prospettive personali (Lieblich, Mashiach e Zilber, 1998). Da qui la dimensione pluralista, relativista e soggettivista che è alla base di una tale ricerca, non esistendo una verità assoluta nella realtà umana, né una sola lettura e interpretazione di una realtà divenuta testo scritto. Se questo è il valore riconosciuto alla scrittura, quali i rapporti con la riflessione? Inizio con il considerarli partendo da alcune rappresentazioni che le parole raccontare e riflettere evocano metaforicamente alla mente. Ovvero: quella di passeggiata, associata alla prima, e quella di sosta, ascritta al riflettere. Ovviamente si potrebbe continuare con il richiamarne altre ancora; qui interessa fermare rapidamente l’attenzione sull’apparente antitesi tra l’idea di movimento e l’idea di staticità (in movimento). Come passeggiata, il raccontare conduce in un tempo e in uno spazio in cui si ricercano intrecci e relazioni tra mondi interni e mondi esterni, tra relazioni soggettive e intersoggettive; eppoi accompagna in un tempo e in uno spazio in cui si corre dietro, come in un turbinio di pensieri, al fluire delle ragioni, delle causalità, delle prevedibilità e delle imprevedibilità che costellano la propria esperienza; e, ancora, porta in un tempo e in uno spazio in cui si incalza la memoria illuminata da un passato che affannosamente va alla ricerca di un punto decisivo, di una «fine» per la storia, una particolare fine per quella esclusiva storia. La passeggiata apparentemente si conclude, eppure si è pronti per un ri-avvio, una ri-partenza per rivedere momenti bui, per rischiarare episodi sofferti, per rileggere incontri lontani, per rivivere nuove emozioni. 228