quindicinale di attualità e documenti
2009
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Attualità
1-2
4
7
20
54
Il comandamento della speranza
Vescovi italiani e crisi economica
Gaza, liberarsi dall’odio
America Latina: Cristo è ancora povero
Studio del Mese
Homo oecologicus
Dall’eucaristia un nuovo paradigma culturale
Anno LIV - N. 1049 - 15 gennaio 2009 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - CP 568 - 40100 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
quindicinale di attualità e documenti
A
ttualità
15.1.2009 - n. 2 (1049)
1 (G. Brunelli)
Ridare ai poveri la speranza
{ Benedetto XVI }
Caro lettore,
a partire dal numero precedente le
citazioni bibliche dei documenti e
degli articoli pubblicati da Il Regno
(cf. in questo numero a p. 27ss)
vengono riprese dalla nuova edizione
italiana della Bibbia di
Gerusalemme, che le Edizioni
Dehoniane Bologna mettono nelle
librerie dal 1° febbraio. Come già
saprà (cf., in particolare, gli articoli
di P. Garuti e di A. Filippi in
Regno-att. 12,2008,387ss), e
come è stato sottolineato nelle numerose presentazioni pubbliche (cf. il sito
web www.labibbiadigerusalemme.it)
la novità dell’opera è triplice e risiede
sia nella traduzione CEI, che è quella entrata appena un anno fa nell’uso
liturgico; sia nelle introduzioni, che
l’École Biblique di Gerusalemme ha
riformulato recependo lo sviluppo
delle ricerche bibliche degli ultimi cinquant’anni; sia nelle note chiave, che
costruiscono un altrettanto aggiornato
percorso tematico all’interno di tutta
la Scrittura e che nell’edizione italiana sono state ampliate alla luce delle
scelte operate dalla nuova traduzione
CEI. Ci auguriamo che il nostro utilizzo redazionale rappresenti per i
lettori un ulteriore stimolo a conoscere
e diffondere questo nuovo, prezioso
strumento di rilancio di quel movimento biblico che, in seguito al concilio Vaticano II, «ha segnato profondamente la vita della Chiesa cattolica» in tutti i suoi ambiti (cf. Regnodoc. 1,2009,39ss).
R
2 (T.J. Reese)
Grandi speranze
per più grandi problemi
{ Barack Obama alla Casa bianca }
4 (L. Prezzi)
Tentazioni di una vita a rate
{ Intervista a quattro vescovi
italiani sulla crisi economica }
7 (D. Sala)
Liberarsi dall’odio
{ Gaza - La pace
e le Chiese cristiane }
Gaza: lo scacco della politica
(P. Stefani)
11 (L. Pr., G. B.)
Italia - Musulmani
Preghiera contro Israele
davanti alle chiese
12 (L. Prezzi)
Il Vaticano risponde
{ ONU, omosessuali e disabili Intervista a mons. C. Migliore }
15 (G. Mc.)
Chiesa d’Inghilterra Donne vescovo
Il dire e il fare
16 (R. P.)
Serbia - Chiesa ortodossa
Pavle e il successore
17 (F. Strazzari)
Tranquillità apparente
{ A dieci anni dal «Dialogo
per l’Austria» }
19 (M. C.)
Nicaragua - Vescovi
Sospetti sulle elezioni
20 (L. Pacchin)
Cristo e il povero
{ Teologia della liberazione: i due
Boff e il dibattito sul metodo }
23 (M. Castagnaro)
Una teologia india
{ America Latina: intervista
a E. López Hernández }
Libri del mese
27 (E. Salmann)
Dio tra le righe
{ La lettura come fenomenologia
teologica }
32
Schede
Segnalazioni
43 (R. Penna)
A. MILANO, Donna e amore nella Bibbia
44 (D. Segna)
S. NITTI, Abituarsi alla libertà
45 (G. Turbanti)
G. DOSSETTI, Cronache sociali 1947-1951
L. GIORGI (A CURA DI), Le Cronache
sociali di Giuseppe Dossetti (1947-1951)
46 (L. Pr.)
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia
e morale
47 (R. B.)
Africa - Conferenza fra Chiese
I cristiani e le violenze
47 (M.E. G.)
Africa - Santa Sede
Priorità continentale
48 (P. Prodi)
Solamente cristiano
{ Dibattito - Il futuro possibile
del cattolicesimo in Italia }
52 (R. Burigana)
Diario ecumenico
53 (L. Accattoli)
Agenda vaticana
Studio del mese
{ Dall’eucaristia un nuovo
paradigma culturale }
54 (K. Golser)
Homo oecologicus
61
Profili { P. Laghi }
Ambasciatore di pace
(G. Brunelli)
63
Profili { A.R. Dulles }
L’America che non c’è più (M. Neri)
R.J. Neuhaus. Religione
e vita pubblica negli USA (M. N.)
66 (P. Stefani)
Parole delle religioni
La voce delle viscere
68
I lettori ci scrivono
71 (L. Accattoli)
Io non mi vergogno del Vangelo
Bambini ebrei e leggi razziali
Colophon a p. 70
e
ditoriale
BENEDETTO XVI
Pace e povertà
Ridare ai poveri la speranza
Tre consueti appuntamenti, tra il finire d’ogni anno e l’avvio del nuovo,
consentono di tracciare un breve bilancio
di quello che la Santa Sede e il papa leggono come priorità per la Chiesa e per il
mondo. Dal messaggio per la giornata
mondiale della pace, al discorso natalizio
alla curia romana, all’incontro con il corpo diplomatico accreditato in Vaticano.
Due i fuochi principali di quest’anno e
un terzo in prospettiva: la pace come
speranza dei poveri, l’ecologia umana
come primato della vita e, all’orizzonte,
un rinnovato interesse per l’Africa.
La pace continua a essere una promessa disattesa dall’umanità. All’elenco,
assai lungo, delle guerre e dei conflitti
che il papa ha richiamato, è stata aggiunta anche quest’anno la descrizione della
situazione di vita dei cristiani in varie
parti del mondo. Le discriminazioni e i
gravissimi attacchi di cui essi sono vittime mostrano come non sia soltanto la
povertà materiale, ma anche la povertà
morale a nuocere alla pace. La mancanza di libertà e di libertà religiosa impedisce quella crescita morale e culturale indispensabile per la pace. Poi vi sono le
immense difficoltà materiali.
La Santa Sede, ha detto il papa agli
ambasciatori di tutti i paesi accreditati,
continua a ricordare che non siamo in
grado di costruire la pace, quando la
spesa militare sottrae enormi risorse
umane e materiali per i progetti di sviluppo, specialmente dei popoli più poveri. Sulla scia del messaggio per la giornata mondiale della pace intitolato Combattere la povertà per costruire la pace (cf. Regno-doc. 1,2009,1ss), Benedetto XVI ha
richiamato le parole di Paolo VI nella
Populorum progressio: «Essere affrancati
dalla miseria, garantire in maniera più
sicura la propria sussistenza, la salute,
un’occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di
fuori da ogni oppressione, al riparo da si-
tuazioni che offendono la loro dignità di
uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere
di più, per essere di più» (n. 6; EV
2/1051).
Di quelle parole ha richiamato l’intatta attualità e la visione profetica, ribadendo a sua volta nel discorso al corpo
diplomatico: «Per costruire la pace, occorre ridare speranza ai poveri. Come
non pensare a tante persone e famiglie
colpite dalle difficoltà e dalle incertezze
che l’attuale crisi finanziaria ed economica ha causato a livello mondiale? Come
non evocare la crisi alimentare e il surriscaldamento climatico, che rendono ancora più arduo l’accesso al cibo e all’acqua per gli abitanti delle regioni fra le
più povere del pianeta? È d’ora innanzi
urgente adottare una strategia efficace
per combattere la fame e facilitare lo sviluppo agricolo locale, soprattutto perché
la percentuale di persone povere nei paesi ricchi aumenta».
Il papa ha poi richiamato anche i segni positivi, che denotano una crescita di
sensibilità e di responsabilità dei paesi
più avanzati: «In questo contesto, sono
lieto che in occasione della recente Conferenza di Doha sul finanziamento dello
sviluppo siano stati individuati i criteri
utili per orientare la gestione del sistema
economico e aiutare i più deboli». Ed è
tornato, infine, come già aveva fatto in
precedenza, manifestando le sue preoccupazioni per la crisi finanziaria ed economica mondiale, a parlare di una
profonda riforma dei modelli economici:
«Più in profondità, per rendere l’economia sana, è necessario costruire una nuova fiducia. Ciò può essere realizzato solo
attraverso l’attuazione di un’etica basata
sulla dignità innata della persona umana.
So quanto ciò sia impegnativo, ma non è
un’utopia! Oggi più di ieri, il nostro futuro è in gioco, così come il destino stesso
del nostro pianeta e dei suoi abitanti, in
primo luogo delle giovani generazioni
che ereditano un sistema economico e
un tessuto sociale fortemente compromessi».
Il tema teologico e antropologico del
rapporto tra ecologia naturale ed ecologia umana è stato affrontato dal papa
parlando alla curia. Se la fede nel Creatore è parte essenziale del credo cristiano, allora la Chiesa, mentre trasmette il
suo messaggio di salvezza, deve manifestare la propria responsabilità nella salvaguardia del creato, difendendo la Terra,
l’aria e l’acqua, ma deve altresì proteggere anche l’uomo contro la distruzione di
se stesso. Deve esserci un’ecologia dell’uomo. «Non è una metafisica superata
– ha detto il papa alla curia romana –, se
la Chiesa parla della natura dell’essere
umano come uomo e come donna e
chiede che quest’ordine della creazione
venga rispettato. Qui si tratta di fede nel
Creatore e dell’ascolto del linguaggio
della creazione» (Regno-doc. 1,2009,8).
L’uomo che vuol farsi da solo e vivere per sé solo, vive, secondo il papa, contro la verità, contro lo Spirito creatore.
Da questa premessa, il papa invita a rileggere il tema dell’amore coniugale contro la sua deriva in sessualità di consumo
e la natura dell’uomo contro la sua manipolazione.
Nell’orizzonte del 2009, il papa ha
posto, a partire dal suo prossimo viaggio
in Africa, una nuova strategica attenzione della Chiesa cattolica a quel continente. Accoglienza del Vangelo, attenzione
all’infanzia e alle sofferenze dei rifugiati
a causa dei conflitti, e ricostituzione dello
stato di diritto in molti paesi del continente le sfide individuate: «Che i loro
cuori – è stato l’augurio del papa – siano
disponibili ad accogliere il Vangelo e a
viverlo con coerenza, costruendo la pace
lottando contro la povertà morale e materiale».
R
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AT T UA L I T À
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1
e
ditoriale
STAT I U N I T I
Barack Obama
Grandi speranze
per più grandi problemi
Mentre Barack Obama si prepara
a entrare in carica come presidente
degli Stati Uniti, la nazione e il mondo
hanno aspettative e speranze che superano di gran lunga ciò che è umanamente possibile realizzare.
Il mondo desidera ardentemente la
pace e tuttavia in Iraq e in Afghanistan c’è la guerra; Osama bin Laden è
ancora libero; l’Africa è dilaniata da
lotte tribali; l’India e il Pakistan si minacciano a vicenda; Israele bombarda
i palestinesi in risposta agli attacchi di
Hamas. E non dimentichiamo lo scioglimento della calotta polare.
E questo è solo per quanto riguarda la politica estera.
Nel frattempo, l’economia è in caduta libera. Nonostante il fatto che i
tassi d’interesse bancari siano i più
bassi della storia, è difficile ottenere un
prestito da una qualsiasi banca. La disoccupazione sale; le vendite al dettaglio crollano; i pignoramenti sono a livelli senza precedenti; i debiti dei consumatori e del governo sono troppo
elevati; l’industria automobilistica richiede un salvataggio; perdere il 30%
del proprio portafoglio titoli viene considerato normale. La sola cosa che
preserva il sistema dal collasso totale è
la disponibilità degli investitori stranieri a prestare denaro al governo degli
Stati Uniti a bassi tassi d’interesse, perché non trovano un altro posto più sicuro dove mettere i propri soldi.
Ci si aspetta che Obama affronti
tutti questi problemi e ci riporti alla
«normalità» nel giro di un anno. Se
impiegherà più di un anno, si dirà che
avrà fallito.
In qualche modo, Obama è diventato vittima del suo stesso successo.
Durante la campagna elettorale ha
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spinto migliaia di persone a un coinvolgimento attivo nel processo politico.
I suoi discorsi hanno ridato speranza a
persone che erano state troppe volte
deluse dai politici, i cui fallimenti personali o pubblici erano sembrati una
sorta di tradimento. Il suo successo è
stato un miracolo politico. Ora vogliamo un altro miracolo.
Obama si è dimostrato consapevole di queste aspettative irrealistiche
quando, durante la campagna elettorale, ha detto scherzando: «Contrariamente a quanto si dice in giro, non sono nato in una mangiatoia». E tuttavia, a partire dal 20 gennaio, dovrà
agire e affrontare senza esitazione i
problemi che sono sulla scrivania del
presidente.
Tut ta la lezione di Keynes
Obama programma importanti tagli fiscali e spese nelle infrastrutture e
in altri progetti. La gara per assicurarsi
questi fondi è già cominciata. Ognuno
vuole la sua parte. Il pacchetto incentivi deve essere enorme per rimettere in
moto l’economia, ma deve fermarsi
prima che le aspettative inflazionistiche spingano in alto i tassi di interesse.
La cosa sarebbe stata molto più facile
se non avessimo accumulato debiti
quando le cose andavano bene. In
realtà, abbiamo speso come marinai
ubriachi in guerre, tagli delle tasse e
beni di consumo.
I politici e i cittadini americani non
hanno mai accettato la seconda parte
dell’economia keynesiana. Keynes raccomandava l’indebitamento dello stato
nelle fasi discendenti del ciclo economico, ma raccomandava anche che nelle
fasi ascendenti i debiti venissero saldati
e i bilanci fossero mantenuti in attivo.
Il maggior fallimento dell’amministrazione Bush è stata la sua incapacità
di essere fiscalmente responsabile, l’unica cosa in cui sarebbe stato meglio
che i repubblicani fossero coerenti con
la propria storia. Hoover almeno non
raddoppiò il debito degli Stati Uniti
durante i tumultuosi anni Venti.
A metà dicembre, un gruppetto di
attivisti cattolici ha incontrato il gruppo di transizione dell’amministrazione
Obama. Anch’essi avevano la propria
lista dei desideri basata sulla dottrina
sociale cattolica e sull’impegno verso il
bene comune: sviluppo e commercio
internazionale, riforma del sistema sanitario, una riforma complessiva in
materia di immigrazione, politica interna e riduzione della povertà, ambiente.
Le loro proposte hanno senso in
termini di stimoli a breve termine (i
poveri spendono rapidamente il denaro supplementare perché ne hanno bisogno) e conseguenze a lungo termine
(migliore sistema sanitario e ambiente).
Esse hanno senso anche in termini di
giustizia e di bene comune. Ai poveri
si è prestata ben poca attenzione durante la campagna elettorale, tutta incentrata sulla classe media. Le Chiese
e le organizzazioni religiose hanno il
compito di far sì che i politici e i cittadini si ricordino dei poveri.
Ma la maggiore sfida di Obama è
quella di convincerci che le cose non
possono ritornare allo stato in cui erano. Ciò che l’America vuole veramente è un’economia in pieno boom nella
quale i consumatori possano spendere
senza pensieri e senza rimorsi. Vogliono che case acquistate a 200.000 dollari valgano un milione quando decidono di venderle. Vogliono una borsa
che continui a salire. Vogliono benzina
a basso costo e macchine grandi e veloci. Vogliono merci economiche importate dalla Cina e buoni posti di lavoro a casa propria.
Obama può dirci che tutto questo
appartiene al passato? No, non può.
Sarebbe un suicidio politico, perché
non siamo pronti a sentirci dire la verità. Ad esempio, per oltre trent’anni
ogni economista degno di questo nome ci ha detto che dovevamo aumentare le tasse sul petrolio e sulla benzina
per incoraggiare la conservazione e
l’efficienza. Ma nessun politico ha voluto scontrarsi con il consumatore
americano. La prima priorità di Obama è quella di far sì che l’economia
cresca ancora, anche se nella direzione
sbagliata.
Quando Franklin Roosevelt assunse la presidenza, all’inizio della Grande depressione, era consapevole che se
avesse fallito il mondo avrebbe potuto
solo diventare o fascista o comunista.
Se l’America fallisce rispetto all’attuale
tracollo economico o al riscaldamento
globale, saranno disponibili le seguenti
alternative: quella della Cina, che offre
un modello capitalistico autoritario,
nel quale si sacrifica la libertà alla stabilità e alla crescita; o quella del fondamentalismo religioso islamico, che
offre un egualitarismo autoritario, nel
quale si sacrifica la libertà al senso di
uguaglianza.
Gli americani apprezzano la libertà, ma, come ci ha continuamente
ricordato Giovanni Paolo II, la libertà
va di pari passo con la responsabilità.
L’America ha gestito in modo irresponsabile la sua libertà, il suo potere e
la sua ricchezza. Stiamo cominciando
a pagare il prezzo di questa mancanza
di responsabilità. Pensare di poter risorgere in breve tempo dopo anni di
stoltezza è la prova che non abbiamo
ancora capito. Non abbiamo confessato i nostri peccati e tanto meno ci siamo pentiti.
Ciò che è necessario oggi è una
conversione di tipo religioso, cosa che
non verrà da Washington. Purtroppo,
le Chiese sono talmente consumate
dalle loro lotte interne da avere ben
poca energia per la predicazione del
Vangelo e tuttavia è proprio questo
che occorre: amore del prossimo, sacrificio, povertà di spirito. Come passeremo da un’economia basata sui nostri
vizi (avidità, cupidigia, gola, piacere) a
un’economia basata sulla virtù?
Nei suoi Esercizi spirituali, nella
meditazione sul «re temporale», sant’Ignazio presenta un leader umano seducente che promette di condurre i
propri seguaci alla vittoria. Chi non
seguirebbe un tale leader? Ma Ignazio
non si ferma lì. Chiede: «Quanto più
degno di considerazione è Cristo nostro Signore?». Mentre assistiamo al
giuramento del nostro nuovo leader
temporale, possiamo chiederci che cosa possiamo fare per aiutarlo a vincere
la sua battaglia, e la risposta potrebbe
essere sorprendente. Potrebbe comprendere il fatto di aprire i nostri cuori
a un altro leader che da sempre è in
mezzo a noi.
Thomas J. Reese *
* Il testo è una nostra traduzione dall’inglese dell’intervento pubblicato il 19.1.2009 sul sito Internet (ncronline.org) della rivista National
Catholic Reporter, che ringraziamo per la concessione. P. Thomas J. Reese si è senior fellow
del Woodstock Theological Center alla Georgetown University a Washington.
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3
CHIESA
I TA L I A N A
t
A
bbiamo chiesto a quattro vescovi italiani di
esprimersi sulla crisi
economico-finanziaria
che sta interessando tutte le aree mondiali, ma anche le nostre
famiglie e le nostre realtà. L’arcivescovo di Torino, il card. Severino Poletto,
quello di Napoli, il card. Crescenzio
Sepe, il vescovo di Ancona, mons.
Edoardo Menichelli, e quello di Ivrea,
mons. Arrigo Miglio (presidente della
Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della CEI) raccontano le situazioni
delle loro diocesi e i progetti per contenere i disagi.
Molti altri vescovi sono intervenuti
sulla questione: da mons. G. Chiaretti
(Perugia-Città della Pieve) a mons. D.
Lafranconi (Cremona), da mons. G.
Zenti (Verona) a mons. G. Betori (Firenze), dal card. C. Caffarra (Bologna)
a mons. M. Bianchi (Pistoia) ecc. Il segno più clamoroso è stato l’avvio di un
fondo di solidarietà deciso dal card.
Dionigi Tettamanzi. Un milione di euro, affidato alle ACLI, alla Caritas e al
Servizio centrale che aiuta i disoccupati (Siloe). Hanno preso una posizione
comune i vescovi del Triveneto e quelli
del Piemonte. La Caritas sta mettendo
a disposizione tutte le sue esperienze e
competenze. Il prossimo Consiglio permanente della Conferenza episcopale
italiana (CEI) elaborerà un progetto
comune per le Chiese italiane.
Malat tie e cronicità
– Quali sono i segnali della crisi finanziaria ed economica che percepisce
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Sulla crisi economica
entazioni di una vita a rate
I v e s c o v i d i To r i n o , N a p o l i , A n c o n a e I v r e a
nella sua Chiesa locale? Come si declinano le difficoltà nelle varie fasce della popolazione e fra i gruppi di immigrati?
Card. Poletto: «Ritengo che Torino
sia tra tutte le città dell’Italia settentrionale quella che, ospitando da più di un
secolo la più grande industria manifatturiera automobilistica italiana, quale
la FIAT, si trova ora nella condizione di
risentire forse di più le conseguenze negative della crisi finanziaria mondiale
che, con effetto “domino”, si è riversata dall’America all’Europa e dall’Europa anche in Italia. Inoltre nel nostro
territorio c’è una presenza molto numerosa di aziende medio-piccole, che
costituiscono il cosiddetto “indotto
FIAT”, la cui produzione è direttamente collegata con quella della grande industria.
L’attuale situazione di crisi, che provoca periodi più o meno lunghi di cassa integrazione per moltissimi lavoratori FIAT, ricade quindi in modo pesante
anche sulle aziende dell’indotto, oltre
alle crisi già in atto in Pininfarina, Bertone e Motorola. Tutto questo provoca
per decine di migliaia di famiglie una
diminuzione del reddito, se non addirittura la perdita del posto di lavoro. Dobbiamo contestualmente tener presente
che i lavoratori precari non hanno, per
il momento, alcun sostegno proveniente dagli ammortizzatori sociali, come la
cassa integrazione, e quindi per loro il
reddito diventa pari a zero».
Card. Sepe: «Le crisi hanno sempre
un effetto devastante. Quella che stiamo vivendo in questo tempo si può definire globalizzata, perché attraversa
quasi tutti i paesi del mondo. È eviden-
te che essa incide più marcatamente e,
vorrei dire, più dannosamente su quelle realtà già afflitte da problemi strutturali e da precarietà storiche. È il caso di
Napoli e della Campania, ma possiamo anche ritenerlo il caso di tutto il
Sud: un malessere improvviso su un
corpo già segnato da malattie croniche
rende ancora più debole l’organismo».
Mons. Menichelli: «La crisi c’è, anche se altrove è più evidente, come nel
fabrianese e nell’ascolano. Ci sono imprese che chiudono; numerosi operai in
cassa integrazione; nuovi licenziamenti
e contratti a tempo difficilmente rinnovabili. Ne consegue l’aumento dei pacchi viveri e la crescita di interventi a sostegno delle famiglie. Effetti drammatici si riversano sulle famiglie che non riescono più a pagare il mutuo, o l’affitto,
il riscaldamento, il cibo. Una situazione
critica che investe tutti, e a maggior ragione gli stranieri, più precari degli altri. Si ha la sensazione che dagli enti
pubblici e privati si stia sviluppando
una “politica di pronto soccorso”. Si
unisce a tutto ciò il dramma delle persone immigrate, verso le quali cresce un
clima d’indifferenza e di distacco».
Mons. Miglio: «Mi pare di cogliere
segnali complessi e apparentemente
contrastanti. Sono aumentate le famiglie che si rivolgono a Caritas e San
Vincenzo per alimenti e/o pagamento
delle bollette, ma per ora non si nota
un calo vistoso di viaggi e di vacanze,
salvo qualche ritocco ai programmi.
Evidentemente la “forbice” si è ancora
allargata, aumenta il numero di coloro
che scivolano verso la zona povertà
mentre tiene una zona di benessere.
Segnali di preoccupazione riguardano la ormai cronica precarietà dei
posti di lavoro per i giovani, i quali però
sembrano meno preoccupati degli
adulti, e soprattutto il dilagare della cassa integrazione, con tutte le incertezze
del momento per una possibile ripresa
del lavoro. I nuovi immigrati però continuano a svolgere e trovare lavori considerati “modesti”, ma che danno loro
da vivere dignitosamente. Direi in sintesi che siamo entrati nella crisi finanziaria ed economica senza una cultura
adeguata per quanto riguarda la globalizzazione nei suoi aspetti economici e
finanziari. Forse per molti questa è una
crisi considerata reversibile in tempi
medio-brevi, e non se ne percepisce ancora la gravità e la durata».
Il ruolo del la Caritas
e del volontariato
– Quali suggerimenti ha formulato
per aiutare a gestire l’ampliamento –
speriamo provvisorio – delle povertà?
Come si stanno muovendo le parrocchie, le istituzioni ecclesiali, la Caritas,
il volontariato?
Card. Poletto: «La situazione di grave crisi economica che la nostra città e
il nostro territorio stanno vivendo mi
ha spinto a programmare una serie di
incontri con i rappresentanti di tutte le
istituzioni civili e sociali.
Ho incontrato personalmente il sindaco di Torino, il presidente della Provincia e la presidente della Regione per
conoscere la loro valutazione e anche
per offrire eventuali suggerimenti per
stimolare dal governo centrale e dalle
amministrazioni locali attenzioni o
provvidenze maggiori a favore delle famiglie povere o a rischio di povertà.
Come Chiesa locale il centro propulsore a sostegno di questa emergenza
lavorativa è la Caritas diocesana, che si
avvale di una grande ramificazione di
associazioni ecclesiali di volontariato,
molto vivo nelle parrocchie e in istituzioni che a Torino hanno una grande e
lunga tradizione. A questo proposito
posso citare il Cottolengo, sorto quasi
duecento anni fa, e poi i numerosi centri di accoglienza delle Figlie della carità di san Vincenzo de’ Paoli e del volontariato vincenziano, il SERMIG di
Ernesto Olivero, il Gruppo Abele fondato da don Ciotti e molte altre associazioni che si occupano del disagio
giovanile e non solo, e in ultimo, ormai
da quasi due anni, la “Casa di Maria
Porta della Speranza” nella quale le
suore Missionarie della carità di madre
Teresa di Calcutta offrono accoglienza
e ospitalità alle donne in difficoltà.
Nel territorio diocesano ci sono ben
600 centri di ascolto diffusi un po’ dovunque e collegati direttamente con le
parrocchie o con gruppi e associazioni
di volontariato ecclesiale. Nell’anno del
giubileo del 2000 la diocesi di Torino
ha organizzato un convegno su “La
Chiesa dialoga con la città”, che si è
concluso con la mia proposta di costituire un forum permanente “Chiesa –
città”, per fare due volte all’anno il
punto sulla situazione sociale della città
e del territorio.
A questo forum, che si raduna con
me in arcivescovado, partecipano tutti i
responsabili delle istituzioni civili e sociali più rappresentative del nostro territorio. Durante l’ultimo incontro, che
si è svolto il 17 dicembre, abbiamo riflettuto insieme su come individuare i
modi più adeguati per affrontare l’attuale crisi.
Il mio messaggio natalizio ha avuto
come tema questa problematica e in
questa occasione, oltre a sollecitare le
istituzioni pubbliche, ho invitato anche
gli istituti bancari a prestare più attenzione alle esigenze di credito delle
aziende, oltre che sostenere con accordi meno onerosi le famiglie e le persone, che fanno riferimento a essi per la
propria gestione finanziaria, affinché
siano tenute presenti le difficoltà concrete di questo periodo».
Card. Sepe: «Non ci sono formule
magiche o miracolose. Del resto, la
Chiesa non ha competenze tecniche e,
quindi, non inventa soluzioni. A noi,
pertanto, resta il compito, che poi è impegno di solidarietà e di carità cristiana, di far sentire la nostra vicinanza alle persone singole e alle famiglie, di accentuare l’ascolto, la comprensione e la
condivisione, di mettere in atto azioni
di sostegno morale e anche materiale.
Il che significa incrementare le attività
oratoriali e di accoglienza dei ragazzi e
dei giovani, assumendo iniziative per il
sano utilizzo del tempo libero, organizzando, laddove possibile, forme di accompagnamento nello studio e, quindi,
di doposcuola, procurando materiale
scolastico e abbigliamento».
Mons. Menichelli: «I suggerimenti
non riguardano nuove iniziative, ma il
rafforzamento delle varie attività assistenziali esistenti nel territorio. I centri
di ascolto, la Caritas e le parrocchie registrano nuove richieste d’intervento. La
rete delle case di accoglienza, delle associazioni e del volontariato si fa più attenta e sensibile alla situazione attuale».
Mons. Miglio: «Le istituzioni ecclesiali più attente e sensibili sono proprio
la Caritas, le associazioni, il volontariato, il Centro Migrantes. L’ampliamento attuale delle povertà ha suggerito e
incoraggiato il lavoro in rete, migliorando il riferimento e la distribuzione
delle risorse. La rete degli interventi
funziona meglio nei centri più grandi,
meno nei piccoli paesi, dove l’anonimato è più difficile e le povertà restano
più nascoste e mimetizzate».
– Si può intravedere qualche collaborazione con le amministrazioni pubbliche? Di che tipo?
Card. Poletto: «A Torino esiste da
molto tempo una grande sinergia tra la
Caritas diocesana e l’Assessorato per
l’assistenza sociale. Nelle ultime settimane ho avuto insieme con il sindaco
della città un incontro con i presidenti
delle due fondazioni bancarie torinesi,
la Compagnia di San Paolo e la Fondazione della Cassa di risparmio di Torino, per sollecitare a favore della Caritas
e dell’Assessorato un contributo straordinario che consenta di offrire in questo tempo un maggiore sostegno alle
famiglie e alle numerose mense per i
poveri, gestite da parrocchie e da associazioni di volontariato. Con l’amministrazione pubblica c’è sempre stato un
clima di grande collaborazione, che garantisce sicuramente un maggiore
equilibrio negli interventi».
Card. Sepe: «Certamente non pensiamo affatto di sostituirci agli interventi assistenziali pubblici, anche perché
non abbiamo risorse finanziarie adeguate, né un’opportuna organizzazione
tecnica. Ci sono, comunque, associazioni para-ecclesiali che svolgono statutariamente opera d’assistenza, ma
spesso si trovano in gravi difficoltà nei
rapporti con le istituzioni pubbliche,
perché i finanziamenti previsti vengono erogati con enormi ritardi o, talvolta, non vengono erogati affatto».
Mons. Menichelli: «In questo contesto sociale, la sinergia con le forze isti-
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tuzionali si fa più intensa. Emerge un
reciproco aiuto, anche se si registrano
difficoltà strutturali dal momento che
le amministrazioni risultano meno flessibili ai cambiamenti sociali e alle
emergenze e quindi meno pronte ai vari sostegni da offrire. In questi casi il
ruolo della Caritas diventa sostitutivo
di quello pubblico».
Mons. Miglio: «La collaborazione
con le amministrazioni pubbliche avviene attraverso i servizi sociali, consorziati a livello di territorio. Per gli anziani esiste una buona rete di case di riposo, strutture, residenze assistenziali flessibili (RAF), residenze sanitarie assistenziali (RSA) o altro, dove in genere
si trova sempre un posto per l’anziano
solo o in abbandono. Qui il volontariato si rivela prezioso nel collaborare sia
con i servizi sociali sia con il personale
delle strutture.
Più grave il problema per le fasce di
età più basse e non ancora pensionate,
che perdono con sempre maggiore frequenza il posto di lavoro. È un problema economico, per chi ha figli che studiano o mutui da pagare; è però anche
un problema esistenziale per queste
persone. Qui le amministrazioni pubbliche sarebbero chiamate a impegnare
risorse per lavori che siano veramente
utili (ad esempio ambiente e territorio)
e non solo “socialmente utili”.
Inoltre andrebbe incoraggiata ogni
forma di piccola iniziativa agricola, artigianale, cooperativistica, familiare,
che produca beni e servizi veramente
utili e concreti. Serve dunque una collaborazione non solo per l’ambito assistenziale, ma per promuovere l’iniziativa. Il progetto Policoro, promosso dalla
CEI e dalle diocesi del Sud, in collaborazione con le diocesi del Nord, mi pare un esempio “virtuoso” da far conoscere e da tenere presente».
Scars a profezia
– Ritiene che nella sua Chiesa ci
sia stata una vigilanza sufficiente in
merito alle questioni morali legate ai
processi finanziari ed economici? Che
il giudizio ecclesiale sia stato puntuale
e adeguato? Guardando al futuro: come rendere più condivisa nella coscienza cristiana l’attenzione ai problemi
sociali?
Card. Poletto: «Mi pare di poter dire che nella Chiesa torinese, con riferi-
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mento agli interventi che personalmente ho fatto come arcivescovo e alle iniziative promosse e realizzate dai sacerdoti e dalle parrocchie, oltre che dagli
uffici diocesani di settore, questa crisi
abbia suscitato riflessioni e anche proposte concrete per richiamare tutti alle
rispettive responsabilità morali, soprattutto relative a una ferma condanna di
una finanza un po’ troppo avventuriera, finalizzata quasi esclusivamente a
realizzare guadagni facili senza la dovuta attenzione all’economia reale al fine di creare nuovi posti e nuove opportunità di lavoro.
Numerosi sacerdoti hanno partecipato a un incontro che abbiamo organizzato, a livello diocesano, con un
economista, docente della nostra università, il prof. Mario Deaglio, per essere informati sulle dinamiche che hanno
generato nel mondo questa situazione
di crisi economica. È stata un’occasione utile per conoscere la situazione,
rendendoci consapevoli che non sarà
facile superare questo periodo di difficoltà, e per sapere eventualmente consigliare quelle persone e famiglie che
cercano anche dal sacerdote un conforto per i propri problemi».
Card. Sepe: «È fondamentale il richiamo a stili di vita caratterizzati da
comportamenti etici coerenti e rispettosi della morale cristiana. Evidentemente non si manca di avvertire limiti
di competenza e di conoscenza tecnica,
ma non certamente di attenzione ai fenomeni e ai fatti con conseguente accentuazione dell’approfondimento e
dello studio, per essere opportunamente attrezzati nella condivisione del disagio e delle aspettative, ma anche per
avanzare indicazioni e iniziative per
promuovere la crescita morale, civile e
sociale dell’uomo.
È per questo che, alla luce dei gravi
problemi del nostro tempo e, quindi,
della mancanza di lavoro come dell’aggravarsi dello stato di povertà, sempre
più diffuso e preoccupante, abbiamo
ritenuto, come Chiesa del Mezzogiorno, di convocare gli stati generali per
riflettere, a più voci, sulle condizioni
del Sud e per creare condizioni di vita
rispettose della dignità dell’uomo.
Questa assise si terrà a Napoli nel prossimo mese di febbraio».
Mons. Menichelli: «La Chiesa locale ha dimostrato sufficiente vigilanza in
merito alle questioni etiche: tuttavia
sembrerebbe necessario che la vigilanza diventi profezia stigmatizzando gli
alti interessi, l’euforia del mercato, che
spesso trasborda nell’eccesso e nello
spreco, nella tentazione di comprare
tutto a rate.
Un parola particolare va detta rispetto all’aumento delle scommesse,
dei giochi di fortuna che immettono in
una terra sogni che finiscono per indebitare ancor più e dividere le famiglie.
Questa sensibilità ecclesiale si deve fare
anche parresia e scelta strutturale di
povertà, coniugata poi con un’evangelica solidarietà».
Mons. Miglio: «Nella nostra zona le
questioni morali legate ai processi finanziari ed economici c’erano già nel
decennio scorso, con la lunga e triste
vicenda dell’Olivetti e delle scelte che
hanno avuto l’esito da tutti conosciuto.
Paghiamo comunque una tardiva rivalutazione della figura dell’imprenditore
e uno scarso impegno per la formazione di imprenditori che abbiano una vera cultura del lavoro, che non è solo
economicista. Occorre voltare pagina,
non perdersi troppo nelle analisi del
passato e nelle recriminazioni. Le comunità cristiane oggi possono crescere
nell’attenzione ai problemi sociali imparando anzitutto ad approfondire e
declinare il concetto fondamentale di
bene comune, compreso come via concreta per vivere la carità a 360°, nell’impegno del volontariato e del servizio sociale e politico diretto.
Un’altra attenzione che mi sembra
importante è quella da riservare al ruolo della società civile, in tutte le sue
espressioni, uscendo da una visione
dualisticamente limitata alla dialettica
“pubblico-privato”, dove pubblico in
genere è sinonimo di enti pubblici o
stato. I due termini finiscono per essere
una tenaglia che mortifica spazi e iniziative. Il risultato è oggi troppo spesso
quello di favorire la chiusura nel privato, humus ottimale perché la cultura
delle libertà individuali diventi individualismo. Valorizzare la società civile e
il suo spazio, che è veramente pubblico, vuol dire far crescere iniziativa, partecipazione, sussidiarietà, capacità di
discernimento, attenzione quotidiana
ai problemi sociali».
a cura di
Lorenzo Prezzi
GAZA
l
L’
operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano, iniziata il 27 dicembre con massicci bombardamenti aerei sulla Striscia di Gaza
e proseguita nelle settimane successive
con operazioni di terra, ha sollevato
reazioni accorate e appelli al cessate il
fuoco da parte delle Chiese.
Il giorno dopo l’inizio dei bombardamenti il papa nell’Angelus ha implorato la fine delle violenze: «Sono
profondamente addolorato per i morti,
i feriti, i danni materiali, le sofferenze e
le lacrime delle popolazioni vittime di
questo tragico susseguirsi di attacchi e
di rappresaglie. La patria terrena di
Gesù non può continuare a essere testimone di tanto spargimento di sangue,
che si ripete senza fine! Imploro la fine
di quella violenza, che è da condannare in ogni sua manifestazione, e il ripristino della tregua nella Striscia di Gaza; chiedo un sussulto di umanità e di
saggezza in tutti quelli che hanno responsabilità nella situazione, domando
alla comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare
israeliani e palestinesi a uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi (...)
alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare invece la
via del dialogo e del negoziato».
Gli appelli di Benedetto XVI si sono ripetuti ancora a pochi giorni di distanza: quando il 4 gennaio si è unito
spiritualmente all’iniziativa dei patriarchi e dei capi delle Chiese cristiane di
Gerusalemme, che in tutte le Chiese
della Terra santa hanno tenuto una
giornata di preghiera per la fine del
Chiese cristiane
iberarsi dall’odio
Vi ve re i n p a c e p e r c o s t r u i re l a p a c e
conflitto nella Striscia di Gaza e per
implorare giustizia e pace per la loro
terra. «Le drammatiche notizie che ci
giungono da Gaza – ha affermato il
papa durante l’Angelus – mostrano
quanto il rifiuto del dialogo porti a si-
tuazioni che gravano indicibilmente
sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra
e l’odio non sono la soluzione dei problemi»; e quando il giorno dell’Epifania, ribadendo che «l’odio e il rifiuto
Preghiera collettiva davanti alle vittime del bombardamento di una scuola gestita dall’ONU
a Jabaliya, il 7 gennaio.
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del dialogo non portano che alla guerra», ha voluto incoraggiare «le iniziative e gli sforzi di quanti, avendo a cuore
la pace, stanno cercando di aiutare
israeliani e palestinesi ad accettare di
sedersi attorno a un tavolo e di parlare.
Iddio sostenga l’impegno di questi coraggiosi “costruttori di pace”!».
Solo il negoziato
può garantire la sicurezza
L’udienza tradizionalmente riservata dal pontefice al corpo diplomati-
co accreditato in Vaticano per gli auguri per il nuovo anno, poi, non poteva mancare l’occasione di ricordare la
«recrudescenza di violenza che provoca danni e immense sofferenze alle
popolazioni civili» e levare un forte
appello a rilanciare la via diplomatica:
«Questa situazione complica ancora
la ricerca di una via d’uscita dal conflitto tra israeliani e palestinesi, vivamente desiderata da molti di essi e dal
mondo intero. Una volta di più, vorrei
ripetere che l’opzione militare non è
una soluzione e che la violenza, da
qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata
fermamente. Auspico che, con l’impegno determinante della comunità internazionale, la tregua nella Striscia di
Gaza sia rimessa in vigore – ciò che è
indispensabile per ridare condizioni di
vita accettabili alla popolazione – e
che siano rilanciati i negoziati di pace
rinunciando all’odio, alle provocazio-
Gaza: lo scacco della politica
D
opo più di venti giorni dall’inizio dell’attacco israeliano,
dai bunker della città giungono messaggi come questo:
«Gaza non è morta e neppure è viva». Anche rispetto
ad Hamas sarà molto arduo arrivare al giorno in cui si potrà dichiararne il decesso politico e organizzativo. Se non giungerà
quella data si avrà sempre a che fare con un organismo tanto
debilitato quanto difficile da sopprimere e quindi, per definizione, sempre più inquietante.
Nel 2005 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon
compì due operazioni di grande ardimento: impose lo sgombero unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia e scombinò il
sistema politico interno, basato fino ad allora sulla polarità Laburisti-Likud (più raggruppamenti minori), creando un nuovo
partito: Kadima. Il ritiro da Gaza e il muro in via di costruzione
che ridefiniva i confini con la Cisgiordania dovevano garantire,
unilateralmente, la sicurezza e l’ebraicità d’Israele. Nel complesso le misure allora adottate avevano lo scopo sia di conseguire una stabilità politica nella riottosa democrazia parlamentare israeliana, sia di fronteggiare la minaccia demografica, l’insidia da sempre più forte rispetto alla definizione ebraica dello stato. Allo scadere del 2005 la ricollocazione della presenza
ebraica solo in contesti maggioritari non era completa: i coloni avevano lasciato Gaza, ma altri stavano ancora dentro diversi territori amministrati dall’Autorità nazionale palestinese
(ANP). Inoltre, pure dopo l’esaurimento della seconda intifada
e il passaggio dell’onda di piena degli attentatori suicidi, il tema della sicurezza non era risolto in modo assoluto; restava,
per esempio, il problema dei confini Nord e di quelli con la Siria. Kadima non aveva ancora concorso alle elezioni e fino alla
chiusura delle urne non si può essere mai sicuri. Tuttavia, in
quel frangente, era possibile individuare una linea politica sufficientemente precisa (cf. Regno-att. 16,2005,523).
Nel gennaio del 2006, a poche settimane dalle elezioni,
Sharon fu colpito da emorragia cerebrale. Da allora la sua persona e i suoi disegni politici non sono né vivi, né morti: si ripropone la metafora del «semivivo».
Nelle elezioni del 2006 Kadima vinse, ma in maniera tutt’altro che travolgente, mentre il suo leader, il ministro Ehud Ol-
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mert, non ha mai convinto. Egli, ben prima che gli scandali imponessero le sue dimissioni e la conseguente fissazione di elezioni anticipate, è stato sempre tallonato dalla fama di essere
personaggio incolore ed estraneo a quel mondo militare da cui
sono provenuti molti dei leader politici israeliani dell’una e
dell’altra parte. La guerra del Libano contro gli hezbollah filoiraniani del 2006, che avrebbe dovuto dargli autorevolezza, ebbe un effetto boomerang. Il suo esito precario contribuì a indebolire ulteriormente la leadership israeliana. L’inquietante
vicino a Nord non fu fiaccato. Il prestigio dell’esercito precipitò in una caduta libera a motivo dell’inefficacia sul piano militare e delle vittime civili che caratterizzarono l’operazione.
Hamas contro Fatah
Il 2006 fu anno elettorale anche nell’ambito dell’ANP. Nelle elezioni – le prime svoltesi dopo la morte di Arafat e l’avvento alla presidenza di Mahmud Abbas (Abu Mazen) – Hamas
(movimento cresciuto anche con l’aiuto d’Israele in funzione
anti-Fatah) conseguì la maggioranza assoluta dei seggi. Il risultato fu non l’instaurazione di una normale dialettica tra maggioranza e opposizione, ma uno scontro aperto tra le due
componenti. Nel 2007 l’organizzazione islamista politico-militare-assistenziale di Hamas ha espulso manu militari Fatah da
Gaza; nel contempo i funzionari eletti di Hamas furono allontanati dalle loro posizioni (o a volte persino eliminati) dall’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e i loro posti furono assegnati ai rivali di Fatah o a membri indipendenti. Inoltre
il presidente palestinese Mahmud Abbas (Fatah) emise un decreto che poneva fuorilegge le milizie di Hamas.
Nel corso del 2008, nonostante la proclamazione di una
tregua, dalla Striscia di Gaza governata da Hamas continuarono a piovere sulla parte Sud del territorio israeliano missili,
che, per quanto di scarsa gittata ed efficienza, costituivano
una sfida lanciata alla sovranità di uno stato da parte di un’entità non statuale. Da questo punto di vista la data di scadenza
della tregua, il 19 dicembre, non ha segnato un gran mutamento. Né si può immaginare che l’operazione «Piombo fuso», preparata da mesi, sia stata effettivamente motivata dall’intensi-
ni e all’uso delle armi. È molto importante che, in occasione delle scadenze
elettorali cruciali che interesseranno
molti abitanti della regione nei prossimi mesi, emergano dirigenti capaci di
far avanzare con determinazione questo processo e di guidare i loro popoli
verso la difficile ma indispensabile riconciliazione. A questa non si potrà
giungere senza adottare un approccio
globale ai problemi di quei paesi, nel
rispetto delle aspirazioni e degli inte-
ressi legittimi di tutte le popolazioni
coinvolte» (8.1.2009). Questo richiamo del papa alla comunità internazionale è stato anche tradotto dall’osservatore permanente della Santa Sede
presso le Nazioni Unite a Ginevra,
mons. Silvano M. Tomasi, in una richiesta d’intervento diretto dell’ONU,
il 9 gennaio, nel corso della IX Sessione speciale del Consiglio per i diritti
umani.
«È evidente che le parti in guerra
ficazione dei lanci nei giorni immediatamente successivi alla
tregua. Il governo israeliano, da tempo potenziato con l’ingresso del laburista (ex militare ed ex premier) Barak alla difesa, l’aveva già decisa in precedenza. I motivi per l’attacco si erano via
via addensati: portare a compimento a Sud, contro una forza
militare ben più debole di quella degli hezbollah, l’operazione
mal riuscita a Nord, sfruttare la transizione di potere negli Stati Uniti, invertire la tendenza elettorale che dava per vincente
il Likud di Netanyahu, mostrare che uno stato può scegliere gli
interlocutori non statali con cui discutere optando per Fatah
(in passato si era giocata la carta di Hamas contro Fatah: adesso si invertono i fattori). Restava più incerto che cosa significasse questa operazione in rapporto agli stati arabi. Era chiaro
che nessuno di essi sarebbe intervenuto nella guerra, ma a chi
sarebbe toccata la posizione principale nel momento in cui si
sarebbe inevitabilmente giunti a trattare una tregua?
Operazione «Piombo fuso»
L’esperienza libanese del 2007 ha ulteriormente confermato che le guerre non si possono vincere solo dal cielo: la vecchia terra è ancora un elemento indispensabile; dall’alto si possono arrecare distruzioni, non controllare territori. L’operazione «Piombo fuso» ha dunque comportato anche l’uso dei
tank. Entrare con bombe al fosforo e artiglieria pesante in una
delle aree più densamente popolate del pianeta (circa un milione e mezzo di persone per 378 km2) significa mettere in
conto l’uccisione di un gran numero di civili, creare profughi,
colpire ospedali e sedi ONU. Le atrocità pesano. L’attenzione,
proporzionalmente elevatissima, dedicata dai media agli eventi mediorientali diffonde immagini strazianti a livello globale.
L’opinione pubblica mondiale coglie la «sproporzione della ritorsione» (ma l’operazione non può qualificarsi affatto come
una ritorsione) e stenta a comprendere il pericolo costituito
da Hamas – tema, quest’ultimo, lasciato in monopolio, in modo sprovveduto, alla destra antislamica.
Per quanto, con ogni probabilità, fosse stato messo in conto, Israele sta pagando prezzi umanamente e moralmente
inaccettabili. Tuttavia nella sfera politica questo rischio potrebbe anche avere un senso se ci fossero all’orizzonte degli
sbocchi. La domanda cruciale sta perciò nel chiedersi che cosa Israele pensi di ricavare politicamente dall’uso della forza.
Attraverso l’operazione «Piombo fuso» lo stato ebraico ha colpito qualche alto dirigente di Hamas – primo fra tutti il «mini-
non sono in grado di uscire da questo
circolo vizioso di violenza senza l’aiuto
della comunità internazionale». Quest’ultima deve dunque «assumersi le
proprie responsabilità, intervenire attivamente per fermare lo spargimento
di sangue, favorire l’accesso per l’assistenza umanitaria d’emergenza e porre fine a ogni forma di scontro». Nello
stesso tempo essa non può sottrarsi al
dovere di partecipare a «rimuovere le
cause che sono alla radice del conflitto,
stro degli Interni» Said Siam –, ma non è riuscito a impedire
che i membri del movimento sconfitto alzassero le dita in segno di vittoria. Non hanno torto: finché sussistono, anche se
«semivivi», lo possono fare. Hamas rientra nell’ambito di quei
movimenti che non si tirano mai indietro nel creare situazioni
che facciano aumentare il numero delle vittime; anzi, queste
ultime sono la loro forza, per loro l’odio è un inestinguibile bacino di consenso. A seguito dell’operazione israeliana il ritorno
a Gaza di Fatah, con un Abu Mazen completamente screditato e incapace d’impedire la strage del suo popolo, è assai più
lontano di prima. Per Hamas la stessa ufficializzazione di una
tregua costituirà, se mediata da stati, un riconoscimento internazionale di alto profilo. Forse perciò Israele sarà costretto
un’altra volta a far ricorso a una decisione unilaterale. La strategia politica di lungo termine resta incerta e confusa. Il XXI
secolo, iniziato all’insegna di guerre messe in campo in luogo
della politica, sembra non voler desistere dal percorrere questo cammino perverso.
Nei mesi della transizione statunitense le mediazioni internazionali si sono dimostrate poco efficaci. L’Europa, lungi dal
cogliere l’occasione lasciata da quel vuoto, si è presentata divisa e legata a personalismi. Nell’area del Vicino Oriente cresce
la polarizzazione tra l’Egitto e la Siria. Nel campo del primo si
trovano altri alleati degli USA come la Giordania e l’Arabia Saudita, mentre dietro la Siria ci sono il Qatar, lo Yemen, l’Algeria
e, soprattutto, il non arabo Iran. Se si giungerà a una tregua attraverso la mediazione dell’uno o dell’altro, il massimo vantaggio politico dall’opzione militare israeliana toccherebbe a stati rimasti a guardare, dal di fuori, le operazioni belliche. Dentro
Gaza invece ci saranno più morti, più mutilati, più bimbi traumatizzati, più odio che, come è stato scritto, è capace di ricordo più di quanto non lo sia l’amore. Nelle prossime elezioni
israeliane, il laburista Barak e la leader di Kadima Livni dovrebbero conquistare la maggioranza parlamentare. Con ogni probabilità, pure loro si conformeranno, tuttavia, alla regola tipica
della democrazia malata dei nostri anni; vale a dire, anche per
loro sarà più facile vincere che governare. A meno che, dall’altra parte dell’Atlantico, non sia apparso, per davvero, un presidente che, dopo essere stato capace di vincere, dimostri di essere in grado di dare una rinnovata dignità al governare.
16 gennaio 2009.
Piero Stefani
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che può essere risolto nel quadro di
una soluzione duratura del più ampio
conflitto israelo-palestinese, basata sulle risoluzioni internazionali adottate
negli anni».
La solidarietà della Santa Sede va
sia alla popolazione di Gaza, «che sta
morendo e soffrendo per il perdurante
attacco dell’esercito israeliano», sia alle popolazioni di Sderot, Ashkelon e
delle altre città israeliane «che vivono
sotto il costante terrore dei razzi lanciati dai militanti palestinesi dalla Striscia di Gaza, che hanno causato vittime e ferito molte persone».
Le respons abilità
di ciascuna del le par ti
«La guerra non può essere giustificata né da Israele né da Hamas», ha
detto il presidente della Caritas internationalis card. Oscar Rodríguez Maradiaga. L’altissimo numero di vittime
civili ha portato a un tragico livello di
sofferenza per l’intera popolazione. La
Caritas chiede «un immediato cessate
il fuoco per permettere ai malati e ai
feriti di essere curati. Persone innocenti stanno soffrendo perché le organiz-
10
zazioni umanitarie non riescono a raggiungerle, a causa dell’azione militare
israeliana»; chiede inoltre a Stati Uniti, Unione Europea e alla comunità internazionale di fare pressione per un
immediato cessate il fuoco per creare
le condizioni per l’aiuto umanitario.
«Gli argomenti sulla proporzionalità
sono moralmente ripugnanti quando
stiamo parlando delle vite di bambini
innocenti» (Catholic News Service,
6.1.2009).
Sulla disastrosa situazione di Gaza
si erano espressi, già nei primi giorni
degli attacchi aerei, anche i patriarchi
e i capi delle Chiese di Gerusalemme:
«Seguiamo con profonda preoccupazione, dolore e shock la guerra in atto
nella Striscia di Gaza e la conseguente distruzione, morte e spargimento di
sangue, in modo speciale nel momento in cui celebriamo il Natale, la nascita del Re d’amore e di pace. Esprimendo il nostro profondo dolore per il
nuovo ciclo di violenza tra israeliani e
palestinesi e la perdurante mancanza
di pace nella nostra Terra santa, denunciamo le ostilità nella Striscia di
Gaza e ogni forma di violenza e omicidio da qualsiasi parte provenga.
Crediamo che il perdurare di questa
ecatombe violenta non porterà alla
pace e alla giustizia, ma nutrirà ancora più odio e ostilità, perpetuando così il conflitto tra i due popoli. Di conseguenza facciamo appello a tutti i
leader di entrambe le parti coinvolte
perché rinsaviscano e si astengano da
ogni atto violento, che porta solo distruzione e tragedia, e li esortiamo invece a impegnarsi per risolvere i loro
contrasti con mezzi pacifici e non violenti».
Richiamata la comunità internazionale a intervenire, una parola forte
è rivolta alle fazioni palestinesi: «È ora
di porre fine alle vostre divisioni e di
comporre i vostri dissidi. Chiediamo a
tutte le fazioni in questo momento
particolare di porre gli interessi del popolo palestinese al di sopra dei propri
interessi personali e partitici, di disporsi immediatamente a una riconciliazione nazionale globale e di usare tutti i mezzi non violenti per raggiungere
una pace giusta e complessiva nella regione» (30.12.2008).
Nei giorni del bombardamento,
dal 9 al 15 gennaio era in programma
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a Gerusalemme l’annuale visita del
Coordinamento delle conferenze episcopali a sostegno della Terra santa,
fondato nel 1998 su richiesta della
Santa Sede e organizzato dalla Conferenza dei vescovi cattolici d’Inghilterra
e Galles. Lo scopo dell’organismo è
l’azione di solidarietà con le Chiese
cristiane locali e la condivisione della
vita pastorale della Chiesa locale, soggetta a una forte pressione politica e
socio-economica. Erano presenti vescovi da Canada, Gran Bretagna,
Francia, Germania, Italia, Irlanda,
Spagna, Svizzera e Stati Uniti, ed erano rappresentati anche il Consiglio
delle conferenze episcopali d’Europa
(CCEE) e la Commissione degli episcopati della Comunità europea (COMECE). Al termine degli incontri i vescovi hanno aggiunto il loro appello a
quelli dei principali leader di Chiese e
comunità ecclesiali (oltre al papa, si sono espressi con simili accenti Mark S.
Hanson e Ishmael Noko, rispettivamente presidente e segretario della Federazione luterana mondiale, e Desmond Tutu, l’arcivescovo sudafricano
anglicano premio Nobel per la pace
nel 1984).
«Non ci può essere pace se la gente
non vive in pace. Non ci può essere sicurezza se non c’è sicurezza per tutti.
Non ci può essere giustizia se non c’è
giustizia per ciascuno in questo paese». Come «pastori, non leader politici», ma convinti che «la voce religiosa
sia vitale per la ricerca della pace», anche questi vescovi si sono rivolti alla
comunità internazionale (e dunque ai
governi dei propri paesi di provenienza) per chiedere di «impegnarsi con gli
israeliani e i palestinesi a fermare la
violenza a Gaza e fornire l’assistenza
umanitaria urgente», ma senza fermarsi qui. «Con una voce sola spingete israeliani e palestinesi a costruire
una pace giusta nella sicurezza per
Israele e uno stato possibile per i palestinesi». E ai fedeli dei paesi occidentali perché intensifichino la loro vicinanza alle comunità locali e convincano le
proprie amministrazioni a fare della
pace in Terra santa una priorità.
Tra tutti gli attori chiamati in causa manca il mondo arabo, e non è
un’assenza da poco.
Daniela Sala
Italia - Musulmani
Preghiera contro Israele
davanti alle chiese
C
on la forza e la manipolazione tipica
dell’immagine, la preghiera islamica
che ha concluso le manifestazioni
anti-Israele di Milano e Bologna (4.1.2009) ci
ha consegnato un amalgama religioso e
ideologico, del gesto orante, negativo: manifestazione di odio (le bandiere israeliane
bruciate), gesto simbolico di forza contro la
tradizione cattolica (occupazione del sagrato del duomo di Milano e della basilica di
San Petronio).
Un gesto perfettamente in linea con
quella posizione politica, culturale e religiosa che da noi considera l’islam un nemico e
la sua presenza fra noi necessariamente oppositiva e provvisoria (cf. Regno-att. 18,
2008,610). Il regalo migliore per quanti non
tollerano il dialogo civile con la minoranza
islamica in Italia e per quanti si oppongono
a un dialogo, anche solo culturale, tra le fedi abramitiche.
La manifestazione del legittimo sdegno
per le uccisioni di persone innocenti a Gaza
da parte dell’esercito israeliano ha
finito col trasformarsi in un’operazione politico-ideologica contro
Israele, identificato come una
sorta di nuova figura del nazismo;
e l’invito alla preghiera («Allahu
akbar») ha finito per essere confuso con la maledizione del nemico. Entrambe queste derive mostrano da un lato l’assoluta carenza della legislazione italiana in
merito alle fedi (la legge sulla libertà religiosa non ha visto la luce, ma neppure i regolamenti e gli
indirizzi per l’erezione delle moschee e per i comportamenti personali), e dall’altro quanto sia ancora lungo il cammino che le comunità islamiche debbono compiere se vogliono evitare di essere
confuse e identificate con le
componenti fondamentaliste che
vivono al loro interno.
Il risultato interno alla società civile italiana (ivi comprese le sue componenti religiose) è quello di alimentare la sfiducia, il
dubbio, e persino lo scetticismo sulla possibilità d’integrare nel nostro paese i cittadini
di religione musulmana, e per alcune frange
della nostra popolazione addirittura il rischio dello «scontro di civiltà».
Il cattolicesimo italiano, nelle sue diverse componenti, è stato tradizionalmente
un elemento essenziale d’integrazione della società civile italiana e un freno importante alla xenofobia e al razzismo. I fatti di
Milano e Bologna costituiscono una sfida
da assumere consapevolmente.
Sono scontate le posizioni anti-islamiche de Il Foglio, la denuncia del senatore
Marcello Pera («abbiamo assistito a una sottovalutazione deliberata dei fatti»), di Piero
Ostellino («il dialogo fra cattolicesimo e
islam è impossibile»), di Gian Enrico Rusconi («Chi da tempo chiede che la voce della
religione risuoni, senza restrizioni, nella sfe-
ra pubblica è rimasto paralizzato») o l’irosa
opposizione de Il Giornale alla curia milanese e al card. Tettamanzi in particolare.
Meno scontate le difficili distinzioni
delle figure islamiche dialoganti. A partire
dalla più discussa, quella di Abdel Hamid
Shaari, direttore dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner a Milano, a cui è stata
attribuita indebitamente la guida della preghiera in piazza: «Non ero a Milano, quella
sera, ma sento il dovere di definirla inopportuna. Bisognava prevedere le reazioni
che ha suscitato». La sua difesa dell’arcivescovo è netta: «Gli siamo grati per la sua
opera di solidarietà concreta e per i suoi inviti al rispetto reciproco». L’imam Yahya Pallavicini, della Comunità religiosa islamica
(COREIS) l’ha definita «una scena penosa.
Hamas e i suoi rappresentanti in Italia hanno
strumentalizzato la religione per fini politici.
E questo è blasfemo». Parole severe anche
da parte del direttore del Centro islamico di
via Padova a Milano, Asfa Mahmoud, che a
proposito del corteo parla di «infiltrati». Per
la prima volta una delegazione islamica manifesta ai responsabili curiali di Milano per il
dialogo interreligioso un «sincero rammarico» se il gesto dei musulmani «avesse ferito
la sensibilità cristiana» (9.1.2009); «compiere
una provocazione o mancare di rispetto
non era intenzione degli organizzatori».
Sul versante ecclesiale le voci più autorevoli (da E. Bianchi a P. Sequeri, da S.K. Samir a P. Branca) convergono nell’evidenziare
la dimensione contraddittoria di una preghiera usata come arma, di una religiosità
non all’altezza della laicità, di una tattica
pubblica efficace, ma non consapevole di
una strategia complessiva della presenza
islamica in Italia. Ma forse il tema maggiormente in grado di sdoganare dalla
pura reattività le posizioni cattoliche, è quello di cominciare a pensare una religiosità civile (sul modello della tradizione statunitense) in cui la pluralità delle fedi sia
presente, non discriminata, ma anche rigorosamente rispettosa del
comune dato della laicità civile.
A partire da una nuova consapevolezza della stessa Chiesa cattolica a cui allude la nota conclusiva di P. Sequeri: «Forse una più
appassionata e normale visibilità
dell’autentico spirito cristiano,
proprio nella forma corale e nel
segno autentico della preghiera,
restituirebbe saldezza e cuore alla
speranza degli abitanti delle nostre città senz’anima. Di tutti» (Avvenire, 8.1.2009).
L. Pr., G. B.
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ONU
E
Omosessualità e disabili
S A N TA S E D E
i
l Vaticano risponde
Intervista a mons. Celestino Migliore
A
ll’inizio di dicembre le sue
affermazioni come osservatore permanente della
Santa Sede presso le Nazioni Unite sulla Dichiarazione sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e i diritti umani presentata da Francia e Unione Europea e la decisione della Santa Sede di non firmare la
convenzione ONU sui diritti dei disabili
hanno causato un’onda di critiche alla
Chiesa (cf. Regno-att. 22,2008,754). Potrebbe specificare i casi e i problemi?
«Si tratta di due casi distinti, anche
nei tempi. Infatti, la convenzione sulle
persone con disabilità venne adottata
ben due anni fa. Pur riconoscendone
l’importanza e l’urgenza di attuazione in
molti dei suoi aspetti, la Santa Sede si
astenne dal firmarla perché il testo si
presta ad avallare l’aborto come modalità della cosiddetta salute riproduttiva.
Nella fase negoziale, la delegazione della Santa Sede attirò l’attenzione sull’ambiguità di questa espressione nell’ambito
internazionale e chiese non che essa fosse espunta, ma che venisse precisata una
volta per tutte, così da escludere l’aborto
dal ventaglio delle sue accezioni. La richiesta – che peraltro pareva a molti
sensata, particolarmente rispettosa delle
persone più vulnerabili di cui si stava
trattando ed efficace, in quanto avrebbe
finalmente sdoganato il concetto della
salute riproduttiva – non venne accolta.
La ragione addotta fu che la convenzione non intendeva creare nuovi diritti,
ma solo assicurare che alle persone con
disabilità venisse riconosciuto nulla in
meno di quanto è riconosciuto a ogni
persona. Su questo punto, la Santa Sede
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era perfettamente d’accordo. Infatti essa
non chiedeva che si omettesse l’accenno
alla salute riproduttiva, ma solo che la
nozione di salute riproduttiva venisse
precisata così da non comprendere la
modalità dell’aborto. Cosa che, per altro, si sarebbe applicata a tutti, disabili e
non. Questo apparve così evidente a
molte delegazioni, che i fautori dell’aborto nella fattispecie della salute riproduttiva intensificarono le pressioni per lo
sbarramento della proposta.
A questo punto si rese sufficientemente chiaro che la posta in gioco non
era più la sola tutela giuridica delle persone disabili – compiutamente espressa
nella proposta della Santa Sede –, ma
l’uso di questa convenzione per far
avanzare un discorso che, tra l’altro, mina la consistenza di un vero sistema di
protezione legale di ogni persona».
Sì al la depenalizzazione
«La recente Dichiarazione sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e i
diritti umani, presentata dalla presidenza francese dell’Unione Europea, consta
di 13 paragrafi: tre di essi chiedono l’abrogazione di ogni legge penale e la cessazione di qualsiasi forma di violenza
perpetrata contro persone appartenenti
alle due categorie menzionate nel titolo.
Non si parla mai esplicitamente di depenalizzazione dell’omosessualità. Vengono, invece, usate le categorie di orientamento sessuale e identità di genere.
Tuttavia, queste categorie non sono
né riconosciute, né univocamente definite nel diritto internazionale e, pertanto,
sono suscettibili di essere interpretate e
definite secondo le intenzioni di chi a es-
se si riferisce. Se venissero accolte nel loro stato fluido e imprecisato, come chiede la dichiarazione, ciò causerebbe una
grave incertezza del diritto. Infatti al momento della proclamazione e attuazione
di ogni diritto si dovrebbe tenere conto
di due nuove categorie antidiscriminatorie, il cui contenuto e ampiezza dipendono dalla mente del legislatore o dall’interpretazione del magistrato di turno.
Il diritto alla libertà di espressione,
misurato su queste categorie, verrebbe a
limitare drasticamente il diritto alla trasmissione del patrimonio morale di
quelle religioni che, pur esigendo l’accoglienza e il rispetto per le persone di diverso orientamento sessuale, dichiarano
anche la non accettazione delle rispettive pratiche sessuali. Tale diritto discende
da quello fondamentale alla libertà di
religione, pensiero e coscienza e trova
protezione negli strumenti giuridici internazionali. Pertanto, l’applicazione
delle due categorie in questione potrebbe fare di un diritto riconosciuto e protetto un crimine da perseguire e punire,
come prevede il paragrafo 12 della dichiarazione. Esso, infatti, chiede che
vengano inquisiti, incriminati e processati tutti coloro, stati o individui, che
“violano i diritti umani sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di
genere”.
Tale formulazione si presenta pericolosamente indefinita e ampia. Essa può
servire giustamente a perseguire azioni
criminose perpetrate contro persone in
base alle due categorie in parola. Ma essa rimane anche aperta alle varie derive
accennate prima. Uno dei possibili travisamenti è che, se uno stato o una comu-
Mons. Celestino Migliore al convegno «Cristianesimo e democrazia nel futuro dell’Europa» organizzato dalla rivista Il Regno nel luglio 2002.
nità religiosa rifiutassero di celebrare il
matrimonio per le coppie dello stesso
sesso o di riconoscerne le adozioni infantili, sarebbero suscettibili di violare queste clausole antidiscriminatorie e passibili di sanzioni; in casi estremi, i ministri
religiosi potrebbero addirittura ricevere
un’ingiunzione a celebrare tale tipo di
“matrimoni”. Si tratta, purtroppo, non
solo di casi ipotetici, poiché le magistrature di alcuni paesi occidentali già si sono occupate di istanze del genere. Qui,
ovviamente parliamo in un contesto di
diritto internazionale, perché è di questo
che si occupa l’ONU. Mi rendo conto
che anche per i lettori de Il Regno la sola prospettiva giuridica può suonare
troppo arida, burocratica, tagliata fuori
dalla vita. Ma la pastorale ha molte facce, molti aspetti; io sono convinto che il
lavoro svolto a questo livello, in questa
sede, non esula affatto dalla dimensione
e dalle preoccupazioni pastorali».
– La Chiesa condanna ogni violenza
nei confronti degli omosessuali e si oppone
alle pene criminali contro di loro. È quindi a favore della depenalizzazione. Perché
allora non assumere una più netta differenziazione da quegli stati che mantengono in vigore le pene contro gli omosessuali? Non le dà fastidio il consenso alla posizione vaticana espresso da stati come
Arabia Saudita, Sudan, Mauritania, Nigeria, Yemen, Emirati Arabi e Iran, che
prevedono la pena di morte per l’omosessualità?
«Volendo far credere che la Santa
Sede condivide le politiche di quei paesi, certi media non solo hanno distorto
fatti e parole, ma hanno commesso un
misero autogoal, distogliendo l’attenzio-
ne e la riprovazione da quegli stati che
perseguono penalmente gli omosessuali.
Infatti, la Santa Sede ha assunto una posizione nettamente distinta da quella
mantenuta dagli stati che lei cita, e da altri ancora, nella loro contro-dichiarazione. Il 18 dicembre, quando l’Argentina,
a nome dei 66 firmatari della dichiarazione europea, e la Siria, per conto dei
58 firmatari della contro-dichiarazione,
illustrarono i loro testi nell’Assemblea
generale, io presentai pure la mia dichiarazione, che ribadiva, diversamente dal
testo della Siria e con molta più forza di
quello europeo, l’appello a singoli e stati
a mettere fine a ogni forma di violenza e
di ingiusta discriminazione contro le
persone omosessuali e spiegava, con
quanto detto sopra, perché la terminologia e l’estensione della dichiarazione europea non potessero essere condivise
dalla Santa Sede. E debbo dire che un
buon numero di rappresentanti permanenti, commentando dichiarazione e
contro-dichiarazione, hanno accolto
molto positivamente la posizione della
Santa Sede, ritenendola assai ragionevole e ispirata al buon senso».
Dichiarazione univers ale:
da difendere
– Lei ha più volte denunciato uno scivolamento semantico di alcune espressioni
in uso all’ONU, che dicono una cosa e in
realtà ne indicano un’altra. Cosa significano nel linguaggio delle Nazioni Unite e
delle organizzazioni non governative
espressioni come «orientamento sessuale»,
«identità di genere», «educazione riproduttiva», «salute sessuale e riproduttiva»
e similari?
«Orientamento sessuale e identità di
genere sono categorie che non trovano
una definizione univoca, né riconoscimento nel diritto internazionale. Come
dicevo prima, una loro eventuale applicazione a questo livello fluido e imprecisato introdurrebbe una grande incertezza della legge, anche col rischio di venire a confliggere con altri diritti riconosciuti. Invece la salute riproduttiva è definita in alcuni documenti internazionali. In nessun caso essa implica un diritto
all’aborto, ma ammette sì l’aborto come
una delle modalità per raggiungere la
pienezza della salute».
– La dichiarazione per la depenalizzazione dell’omosessualità è stata presentata
all’Assemblea ONU il 18 dicembre. Pur
non votata dall’Assemblea ha raccolto 66
firme e altre se ne attendono. Che futuro
potrà avere?
«La stessa configurazione delle posizioni espresse o non espresse nell’ambito dell’Assemblea generale – e cioè 66 in
favore della dichiarazione dell’Unione
Europea, 58 in favore della contro-dichiarazione presentata dalla Siria e 68
astenuti – ci dice che l’argomento va ancora discusso con calma, trasparenza, rispetto reciproco e molto buon senso».
– A 60 anni dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, c’è chi si
chiede se essi sopravvivranno come carta
di riferimento vincolante per tutto questo
secolo. E si guarda con qualche timore alla Conferenza sui diritti che si terrà a Ginevra nell’aprile prossimo. È un timore
giustificato?
«È vero che il numero dei paesi è più
che triplicato dal momento dell’adozione della Dichiarazione universale. Tuttavia, è anche vero che tutti gli altri, man
mano che sono entrati a far parte dell’ONU, hanno egualmente adottato il
testo, impegnandosi a informare dei
suoi dettami le proprie costituzioni e leggi. Per cui, oggi, la Dichiarazione è patrimonio dell’umanità. Che essa enunci
principi uguali per tutti non va affatto
contro la molteplicità di culture, tradizioni, filosofie e religioni. Il successo dei
redattori della Dichiarazione fu quello di
essersi potuti mettere d’accordo in tempi non troppo lunghi su un testo comune, proprio perché convinti che esistono
principi così fondamentali da essere presenti in tutte le culture e civiltà. Dire che
i diritti umani sono universali non esclude un sano pluralismo nella loro attuazione. Gli estensori della Dichiarazione
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furono accorti nel predisporre un testo
abbastanza flessibile per permettere sfumature diverse di accenti e attuazione,
ma per niente malleabile a un approccio
selettivo».
– I diritti dell’uomo subiscono delle
forzature in avanti soprattutto in Occidente. Si parla di diritto all’aborto, alla
scelta del genere sessuale, all’eutanasia.
Le pare che su queste materie il giudizio
della Chiesa cattolica sia chiaro?
«Più che di giudizio, parlerei della visione antropologica in base alla quale la
Chiesa fonda il proprio pensiero e quindi anche la valutazione dei nuovi orientamenti in materia di diritti dell’uomo. Il
contributo della Chiesa alla riflessione
sui diritti umani non è mai disgiunto
dalla prospettiva della fede nel Dio creatore. L’ascolto del linguaggio della creazione e dell’orientamento etico in esso
contenuto, ha affermato recentemente il
papa, “ci indicano la strada per il rispetto e la promozione della vita umana”.
Parlando all’Assemblea generale dell’ONU sulla tendenza a espandere la lista
dei diritti umani ritenuti fondamentali,
lo stesso Benedetto XVI invitò al discernimento, “cioè la capacità di distinguere
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il bene dal male”. Trattandosi di diritti
che hanno a che vedere con la vita e i
comportamenti delle persone, delle comunità e dei popoli, il discernimento
prevede che ci si chieda ogni volta se le
problematiche che si vogliono riconoscere come nuovi diritti promuovano un
vero bene per tutti e in quale rapporto
stiano con gli altri diritti e con le responsabilità di ognuno».
– Vi sono anche forzature in senso opposto, quando si subordinano i diritti
umani alle esigenze dello stato, della propria comunità etnica di appartenenza,
della propria identità culturale. In questo
caso il giudizio della Chiesa cattolica è altrettanto chiaro?
«Basti ricordare quanto affermato
ancora dal papa nel medesimo contesto:
“Il discernimento… mostra come l’affidare in maniera esclusiva ai singoli stati,
con le loro leggi e istituzioni, la responsabilità ultima di venire incontro alle
aspirazioni di persone, comunità e popoli interi può talvolta avere delle conseguenze che escludono la possibilità di un
ordine sociale rispettoso della dignità e
dei diritti della persona”».
Liber tà di religione –
liber tà di espressione
– In ordine al diritto alla libertà di religione vi è un uso crescente dei termini:
antisemitismo, islamofobia, cristianofobia. Come li spiegherebbe? C’è il pericolo di
un’estensione indebita? Come distinguere
la legittima critica a una religione rispetto al deprecabile disprezzo?
«Sono questioni di viva attualità nell’ambito delle organizzazioni internazionali e dell’ONU in particolare. Il riferimento alla componente religiosa talora sottesa ad atti di terrorismo e le insistenti caricature mediatiche di simboli, principi e persone religiose hanno
coalizzato vari paesi cosiddetti islamici
attorno a una risoluzione annuale dell’Assemblea generale sulla diffamazione
della religione. L’iniziativa ha sollevato
un acceso confronto sui confini tra libertà di religione e libertà di espressione, e si è connotata di una valenza politica che non favorisce per nulla un dibattito sereno e costruttivo. Parlare di
diffamazione delle religioni, per quanto
necessario e appropriato, sposta l’attenzione dai diritti delle persone ai diritti
delle istituzioni. Porta facilmente alcuni
a darsi buona coscienza nonostante il
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loro mancato pieno rispetto dei diritti
religiosi delle persone e altri a privilegiare il diritto alla libertà di espressione
su quello della libertà di pensiero, coscienza e religione. La delegazione della Santa Sede sta lavorando perché si
diano risposte e si adottino misure adeguate in merito, prendendo come punto di partenza e oggetto di dibattito il rispetto del diritto dei singoli credenti e
delle comunità alla libertà religiosa in
tutte le sue componenti».
– Dopo il Vaticano II per la Chiesa cattolica il diritto alla libertà religiosa non è
solo una doverosa posizione dello stato, ma
è parte della sua dottrina. Come rapportarsi a quelle religioni e confessioni che invece
non riconoscono la libertà della coscienza
anche erronea, e che antepongono la «propria verità» alla libertà del singolo?
«Questo è un capitolo importante
del dialogo interreligioso, condotto tra
credenti che desiderano mettere le religioni al servizio di una coesistenza pacifica e di una proficua collaborazione per
il bene comune. Il punto di partenza è
stato illustrato con efficacia dal papa in
un suo commento al viaggio in Turchia
del 2006. Ovviamente, in quel contesto,
egli si riferiva all’islam. “Si tratta dell’atteggiamento che la comunità dei fedeli
deve assumere di fronte alle convinzioni
e alle esigenze affermatesi nell’Illuminismo. Da una parte ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della
comunità e dagli ordinamenti pubblici,
privando così l’uomo di suoi specifici
criteri di misura. D’altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell’Illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione. Come nella comunità cristiana
c’è stata una lunga ricerca circa la giusta
posizione della fede di fronte a quelle
convinzioni, una ricerca che certamente
non sarà mai conclusa definitivamente,
così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande
compito di trovare a questo riguardo le
soluzioni adatte. Il contenuto del dialogo
tra cristiani e musulmani sarà in questo
momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le
soluzioni giuste”».
a cura di
Lorenzo Prezzi
Chiesa d’Inghilterra
Donne vescovo
che sia dal lato dei «tradizionalisti», pure divisi al loro interno, sia dal lato dei fautori
dell’apertura dell’episcopato alle donne
non si risparmiano le critiche, paventando
soprattutto che la nuova legislazione scateni una serie infinita di liti giudiziarie.
Il dire e il fare
P
rosegue il cammino della Chiesa d’Inghilterra – la Chiesa-madre dell’anglicanesimo – verso ciò che i documenti ufficiali definiscono la parità tra uomini e
donne nel triplice ministero, e che nella sostanza si tradurrà nell’apertura alle donne
dell’episcopato. La decisione «politica» risale ormai a quattro anni fa (cf. Regno-att.
8,2005,267); un’altra decisione importante,
soprattutto per chi dissente da tale apertura, era stata assunta dal Sinodo generale lo
scorso luglio: si emaneranno dei provvedimenti di legge veri e propri per consentire
l’ordinazione episcopale delle donne, ma ci
si limiterà a produrre un Codice di comportamento (Code of practice) non vincolante
per tutelare chi non intende riconoscere il
ministero episcopale di una donna (cf. Regno-att. 14,2008,452).
Ora, in tempi rapidissimi, il «Gruppo
per la redazione delle leggi sulle donne nell’episcopato», presieduto dal vescovo di
Manchester Nigel McCulloch, ha reso pubblica una bozza del Provvedimento di legge e degli altri atti volti a dare valore legislativo alla parità tra uomini e donne nel
ministero (non solo quindi all’ordinazione
episcopale delle donne). C’è anche una
bozza del suddetto Codice di comportamento, che in ogni caso – appunto per la
sua natura non vincolante – potrà essere
discusso e approvato dalla Camera dei vescovi solo dopo l’approvazione definitiva
degli altri provvedimenti. Sarà su tali bozze, che circolano dal 29 dicembre, che il
prossimo Sinodo generale, convocato per il
9-13 febbraio, dovrà ragionare e votare.
Prescrittività flessibile. Il Codice di
comportamento – che il Gruppo di redazione definisce come la parte più complicata del mandato affidatogli – descrive in sostanza in che modo un vescovo diocesano,
qualora nel territorio sotto la sua giurisdizione vi siano parrocchie o singoli fedeli che
non si sentono di riconoscere, sulla base di
obiezioni di natura teologica, il ministero di
un vescovo di sesso femminile, potrà delegare alcune funzioni episcopali, a sua discre-
Pubblicità dal sito di Church Times.
zione, a un «vescovo complementare», naturalmente di sesso maschile, scelto nelle
sedi suffraganee appositamente indicate
dagli arcivescovi di Canterbury e di York. Il
Gruppo spiega, nel breve rapporto che accompagna il Codice, di aver cercato «di raggiungere un attento equilibrio fra prescrittività e flessibilità», e che è stata posta la più
grande attenzione a precisare la natura della
giurisdizione che verrà conferita a tali vescovi complementari: «L’autorità esercitata»
da costoro «sarà conferita per delega» del
vescovo diocesano. Ancor più misurata appare la formulazione con cui il Provvedimento di legge parlerà, se approvato, del
Codice di comportamento: richiede alla Camera dei vescovi di emanarlo, specifica quale tipo di vescovi può divenire vescovo
complementare e «impone su tutti coloro
che esercitano una qualche funzione nella
Chiesa d’Inghilterra l’obbligo morale (duty)
di tenere in considerazione (have regard to)
il Codice di comportamento».
Church Times, il settimanale edito a
Londra e vicino (sebbene formalmente indipendente) alle gerarchie della Chiesa
d’Inghilterra, spiega sul numero del 9 gennaio le tiepide reazioni ai testi proposti dal
Gruppo di Manchester con la volontà dei
diversi gruppi di non scoprire le proprie
posizioni prima del Sinodo. In effetti la
breve rassegna che esso presenta mostra
Praticabilità di una decisione
controversa. Tra i primi, il più rappresentativo, il movimento Forward in Faith, dichiara che, così come viene proposto, il Codice di comportamento continua a non garantire «la sicurezza di cui le decine di migliaia di fedeli e leali anglicani hanno bisogno al fine di continuare a vivere nell’integrità dentro la Chiesa d’Inghilterra dopo che
saranno ordinate delle donne all’episcopato», mentre tra gli anglo-cattolici alcuni apprezzano le proposte, in particolare il riconoscimento che è solo il vescovo diocesano
che può delegare la sua autorità, ma altri,
sullo stesso punto, giudicano «impraticabile» l’eventualità che il vescovo complementare riceva la delega da un vescovo donna, e
criticano in ogni caso la troppa discrezionalità lasciata a quest’ultimo, uomo o donna
che sia: «Cerchiamo qualcosa che dia sicurezza. È molto meglio che ognuno sappia
esattamente dove si trova».
I secondi, per bocca della presidente
del movimento Women in the Church, osservano che nella pratica il Codice di comportamento sarà vissuto come se avesse
valore di legge, e che la ventennale esperienza fatta nelle altre province della Comunione anglicana in cui si sono ordinate
delle donne vescovo fa preferire gli accordi raggiunti caso per caso, in via informale,
a quelli regolati per legge.
Dal canto loro, i membri del Gruppo di
Manchester sottolineano che il loro sforzo
è stato quello di trovare una difficile «quadratura del cerchio», e che l’obiettivo di
«tenere insieme il maggior numero di persone possibile all’interno della famiglia della Chiesa d’Inghilterra» ha unito loro stessi
al di là delle sensibili differenze di prospettiva. Si legge tra le righe del Rapporto la
consapevolezza che le decisioni cruciali in
merito alla parità tra uomini e donne nel
ministero e segnatamente all’ordinazione
delle donne all’episcopato nella Chiesa
d’Inghilterra sono già state prese, e che i
provvedimenti che andranno all’esame del
Sinodo generale non sono tanto destinati a
dirci se vi saranno vescovi donne nella
Chiesa d’Inghilterra, ma come tale ministero sarà accolto, in particolare da quanti ritengono di non poterlo accettare.
G. Mc.
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Serbia - Chiesa
ortodossa
Pavle e il
successore
M
entre a Mosca si va rapidamente
verso la nomina del successore di
Alessio II, a Belgrado l’episcopato
della Chiesa ortodossa serba è bloccato in
uno stallo sia sul possibile nome del patriarca futuro sia sull’indirizzo ecclesiale da
prendere.
Il patriarca Pavle I, ormai novantaquattrenne e ricoverato da un anno in ospedale, ha sottomesso al Sinodo («Sabor»), riunitosi a Belgrado l’11 novembre scorso, una
lettera di dimissioni (firmata il 23 ottobre).
La norma codiciale che impone il patriarca
a vita non sarebbe insuperabile, se il Sinodo non fosse attraversato da gravi tensioni
già manifestatesi nella riunione del maggio
2008 e rinnovatesi in quella di novembre.
La presidenza provvisoria del metropolita
Amfilohije del Montenegro, non riuscendo
a risolvere il problema, ha invitato l’assemblea a rifiutare la domanda di dimissioni.
Linee di tensione
La figura del patriarca Pavle raccoglie un
vasto consenso dentro e fuori la Chiesa per
un profilo altamente spirituale e una mitezza cristiana riconosciuta da tutti i suoi interlocutori. Doti e virtù che gli hanno permesso di attraversare (è stato eletto nel 1990)
l’esplosione dell’ex Iugoslavia, le guerre dei
Balcani, la sconfitta della Serbia e la fuoriuscita di Montenegro, Macedonia e Kosovo
senza fare implodere la Chiesa e senza rinunciare a buone relazioni intraortodosse
ed ecumeniche. Ne sono note l’austerità di
vita (si fa da mangiare da solo, si rattoppa la
veste talare, garantisce la pulizia dell’abitazione), la devozione monastica (alla sua
messa alle 6 del mattino partecipano centinaia di semplici fedeli), la distanza prima dal
potere comunista e poi da quelli a esso succeduti. Sostituirlo non sarà agevole.
Fra le linee di tensione che attraversano l’episcopato – secondo uno studio di J.A. Dérens (cf. www.religion.info) – vi è
quella fra «i giovani vescovi» (come Grego-
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IL REGNO -
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rio di Erzegovina, Crisostomo di Žièa, Ireneo di Australia, Ignazio di Branicevo) e gli
altri. I primi invocano una «lustracja» come
nella società polacca, per purificare la memoria della Chiesa dai troppi compromessi
con il precedente potere politico. Scandali
finanziari, delazioni pericolose, costumi riprovevoli sono stati censiti anche fra alcuni esponenti episcopali. Molti ricordano,
ad esempio, l’esplicito sostegno alla pulizia
etnica e alla politica di Milosevic del vescovo Filarete di Mileševa.
Una seconda linea di tensione è fra
riformatori e non, in particolare nell’ambito
ecumenico e in quello della liturgia in coerenza con la scelta saggia del patriarca Pavle.
Una terza linea è sull’interpretazione
del nazionalismo serbo, col ricorrente pericolo del filetismo (idolatria nazionalistica).
L’indirizzo di Amfilohije del Montenegro
per un nazionalismo purificato dai passati
compromessi col potere trova una clamorosa resistenza in alcune forze laicali come
quella espressa nel movimento Obraz
(«onore»), paladino della «serbicità», a difesa dell’appartenenza del Kosovo alla Serbia, contro il Tribunale internazionale e a
difesa di quanti sono da esso accusati, contro i rappresentanti delle organizzazioni
non governative che denunciano i crimini
di guerra e contro i movimenti omosessuali e femministi. Nato dentro le facoltà di
teologia e di filosofia di Belgrado, gli aderenti sono considerati dei «clerico-fascisti»,
ma la loro attività è significativa. Sono numerose le attività di contestazione durante
le funzioni religiose nelle diocesi dei vescovi «riformatori». Nei giorni del Sinodo di
novembre alcune centinaia di militanti
hanno attraversato le vie del centro di Belgrado al grido «per la purezza della fede ortodossa». Si parla di numerosi sostegni interni al clero ortodosso e di una benevolenza del vescovo Nicanore del Banato.
Il problema Kosovo
Ma oltre ai temi di riforma ecclesiale e
di purificazione della memoria vi è il problema legato all’atteggiamento che la
Chiesa deve assumere in ordine alla nuova
geopolitica, all’apertura della Serbia verso
l’Unione Europea e ai brucianti conflitti in
Kosovo, Macedonia e Montenegro.
Il caso più difficile è il Kosovo, che custodisce la memoria monastico-spirituale
originaria della Chiesa serba e la cui indipendenza (proclamata il 17.2.2008), difficilmente conciliabile con le norme del diritto
internazionale, è avvertita come un tradimento dell’Occidente rispetto all’espansionismo islamico-albanese e un’ingiusta
umiliazione della Chiesa e del popolo serbo. Nel messaggio patriarcale di Natale
(che secondo il calendario ortodosso ricorre il 6 gennaio) si ricorda che la crisi economica «non nasconde una crisi spirituale e
morale, e quindi una crisi dell’umanità stessa. A giusto titolo si è potuto dire che questa crisi economica è legata a una crisi politica, come il mancato rispetto del diritto
internazionale e la volontà di ignorare la
Carta delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo». Le conseguenze drammatiche di tutto ciò «possono essere osservate nel caso
tragico del nostro paese e del popolo serbo». La distruzione di centinaia di conventi e chiese ortodosse nel Kosovo da parte
della popolazione albanese (l’ultima il 7
gennaio, la chiesa di San Gregorio a Livadj)
e il conflitto aperto fra i due vescovi interessati all’area (l’inflessibile Artemije di Raska e Prizren contro il dialogante Teodosio
Sibalic, vescovo e igumeno del monastero
di Visoki Decani), rendono urgente la scelta
fra la difesa intransigente dell’appartenenza nazionalistica del territorio kosovaro e
un più agile riconoscimento dell’area monastica, liberamente accessibile da parte
dei pellegrini serbi e dotata di particolari
protezioni internazionali.
Si considera ormai persa la Chiesa ortodossa macedone. Il tentativo della Chiesa serba di fondare un’eparchia autonoma
di Ohrid non ha raccolto che poche adesioni sul territorio macedone, dove il potere politico è determinato nel chiedere, se
non un’autocefalia per la propria Chiesa, almeno uno statuto di autonomia. Molto
forti anche le tendenze separatiste nella
Chiesa ortodossa in Montenegro, nonostante la candidatura a patriarca del vescovo Amfilohije.
Problemi non meno urgenti vengono
dal riferimento della Serbia all’Unione Europea, che impone una più netta laicità
dello stato (l’ultima legge sulle religioni ha
concesso alla Chiesa ortodossa molti privilegi e una sorta di garanzia d’esenzione rispetto ai tribunali dello stato) e induce – a
parere della Chiesa locale – una maggiore
secolarizzazione nella vita civile.
Una declinazione del patrimonio nazionale in forme non politicamente compromesse, l’apertura a riforme ecclesiali sul versante liturgico ed ecumenico e un’ipotesi
d’irradiamento sovranazionale del ruolo
della Chiesa ortodossa: sembrano queste le
sfide maggiori per il futuro patriarca,
confortato dal riconoscimento spirituale
attribuito all’attuale patriarca Pavle I.
R. P.
AUSTRIA
t
C
Chiesa e società
ranquillità apparente
A dieci anni dal «Dialogo per l’Austria»
Vienna, dicembre 2008.
lima di Natale nella
capitale e nelle campagne austriache. La
Chiesa austriaca vorrebbe che i fedeli sentissero cristianamente la ricorrenza,
ritornando al suo messaggio autentico e genuino. Ogni sforzo quindi viene profuso per condurre la gente alla
riflessione: striscioni, manifesti, locandine, spot.
Sarà forse per questa atmosfera
serena; sarà perché l’Austria non è
più al centro di infuocati dibattiti in
campo ecclesiale; sarà perché Roma
ha affidato la sorveglianza della
Chiesa al card. Christoph Schönborn, teologo assai vicino al papa;
sarà che Vienna ha perso il prestigio
storico di finestra aperta sull’Est: di
fatto si ha l’impressione che domini
una tranquillità inerte.
Coscienza e rassegnazione
Sorprendente per chi ricorda la
drammatica e vivace assemblea voluta dai vescovi austriaci, nel contesto
del famoso «Dialogo per l’Austria». 1
Allora Il Regno titolava il reportage:
«Riconciliare la Chiesa». Titolo che
in sintesi dava atto di una Chiesa in
fermento. Convennero a Salisburgo
trecento delegati di associazioni e
movimenti, gruppi di ogni credo politico ed estrazione sociale, noti conservatori e progressisti, fedeli ai ferri
corti con la gerarchia locale e con la
curia romana.
Il clima attuale è reso bene da
due episodi di segno opposto. Il primo è la beatificazione di Franz Jä-
gerstätter (26.10.2007),2 il contadino
condannato a morte nel 1943 per
aver rifiutato l’arruolamento nella
Wehrmacht perché riteneva l’ideologia nazista inconciliabile col suo essere cristiano. L’oblio della sua figura è stato rotto a poco a poco, nonostante la resistenza di molta parte del
mondo cattolico. Il processo di beatificazione, iniziato nel 1997, si è concluso nel 2001 con l’apporto di sensibilità ecclesiali diverse e apparentemente lontane, tra cui quella del
card. Schönborn. La Chiesa riconosce così un primato della coscienza,
che corrisponde in pieno alla sensibilità attuale.
Il secondo episodio è la Lettera
dalla Galilea che i vescovi hanno indirizzato alle Chiese d’Austria alla fine di un pellegrinaggio in Terra santa nel novembre 2007. In essa si costatano l’atteggiamento di rassegnazione diffuso tra molti credenti austriaci e una distanza critica rispetto
ai pastori difficilmente sormontabile.
L’invito è per un supplemento di ricerca e riflessione, perché «le fonti
della nostra fede possano di nuovo e
più abbondantemente scorrere».
L’appannamento di oggi è assai
lontano dalla vivacità dell’Assemblea
del 1998 che rifletteva tutta la Chiesa
d’Austria, sconvolta al vertice dal
«caso Gröer». Il «documento base»
fu ritenuto annacquato e intervenne
il coraggioso vescovo di Graz, mons.
Johann Weber, presidente della Conferenza episcopale, per richiamare
tutti a un dialogo sereno, coraggioso
e aperto. Per la verità, il «documento
base» Dein Reich komme! (Venga il
tuo Regno), incentrato sull’annuncio
evangelico in una società in continua
trasformazione, poneva domande
fondamentali: che cosa annuncia la
Chiesa in Austria? A chi è chiamata
ad annunciare la buona notizia del
Regno? Come annunciare? Poi scendeva nel pratico ed enumerava dodici temi: dal senso di Dio nella società
attuale all’annuncio di una «buona
notizia» in grado di scendere in
profondità; fino ai temi coraggiosi riguardanti la gerarchia, il clero e il posto dei laici e alla discussione franca
sul celibato facoltativo, il conferimento del sacerdozio agli uomini sposati,
l’accesso delle donne al sacerdozio e
il ripristino del diaconato femminile.
Sotto critica era la politica vaticana
sulle nomine dei vescovi, il controllo
sulla Conferenza episcopale, le simpatie per movimenti ecclesiali fedeli
all’establishment romano.
Riandando a quel tempo, ricordo
che l’euforia era tanta, l’entusiasmo
palpabile, autentica la voglia di ridare
un volto alla Chiesa austriaca, dopo le
dimissioni nel 1985 del leggendario
card. König (sostituito dal benedettino
Gröer, organizzatore di pellegrinaggi
mariani, amico fidato di Giovanni
Paolo II). Dal 1986 – lo scriveva nel
suo libro Im Sprung gehemmt (Balzo
impedito) il vescovo ausiliare di Vienna, mons. Helmut Krätzl – si era voluto cambiare il corso della Chiesa austriaca. Il vescovo Weber era stato perentorio: «Stiamo pagando quelle scelte. Il caso Gröer ha tolto un buon 20%
di fiducia».
IL REGNO -
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2/2009
17
Nuovi vescovi
Se dieci anni fa il motto era «riconciliare la Chiesa», ora è «rilanciare la Chiesa». Impegno fatto proprio
dai vescovi, sulla spinta del card.
Schönborn. Alcuni vescovi coraggiosi ora non sono più sulla scena:
Reinhold Stecher di Innsbruck,
Maximilian Aichern di Linz, Weber
di Graz. Mons. Egon Kapellari, certamente la mente più lucida della
Conferenza episcopale nel 2001, è
stato trasferito da Klagenfurt a Graz.
A Linz il vescovo Ludwig Schwarz
incontra non poche difficoltà, data la
contrapposizione tra le consistenti
forze progressiste presenti, che con il
predecessore Aichern avevano trovato un terreno di forte impegno nel
sociale, e l’agguerrita minoranza
conservatrice.
A Innsbruck non si nasconde il
rimpianto per il vescovo Stecher, pastore coraggioso e attento alle tipicità
del cattolicesimo popolare tirolese.
Mons. Manfred Scheuer, postulatore
della causa di beatificazione di Jägerstätter, è alle prese con il forte calo
delle vocazioni sacerdotali e la disaffezione nei confronti della Chiesa,
che si riflette sulla mancanza di assistenti parrocchiali e sulla difficoltà a
reperire insegnanti di religione. Il
ricco Tirolo, a motivo soprattutto del
turismo, sta perdendo la sua anima
«cattolica», plasmata dall’opera dei
francescani nel Seicento e dei gesuiti
nel Settecento. La sua identità si sta
inesorabilmente erodendo.
A Feldkirch, nel Vorarlberg, il vescovo Elmar Fischer deve fare i conti
con la consistente presenza di immigrati, in particolare islamici, impegnati per lo più nell’industria tessile.
Da Feldkirch fu chiamato a reggere
la diocesi di Sankt Pölten mons.
Klaus Küng, appartenente alla Prelatura personale dell’Opus Dei, il quale dovette mettercela tutta per risolvere dignitosamente il «caso Krenn»
sugli episodi di omosessualità nel seminario.3 Ora, raccontano i testimoni, mons. Krenn si lascia morire in
una villetta all’interno della maestosa
residenza vescovile. Non parla né comunica. Non ha mai accettato la soluzione imposta da Roma.
Ad Eisenstadt, nel Burgenland,
continua la sua attività pastorale il
18
IL REGNO -
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vescovo Paul Iby, che è molto amato
dai fedeli, soprattutto dai giovani,
per la sua apertura, ma è vicino al
pensionamento. A Salisburgo, che
con Vienna e Graz costituisce uno
dei tre poli del cattolicesimo austriaco, è arcivescovo un noto teologo salesiano, Alois Kothgasser, trasferito
da Innsbruck nel 2002. Ci si aspettava molto da questo teologo serio e
ben preparato, soprattutto per riprendere il «Dialogo per l’Austria»,
che fu concluso proprio a Salisburgo.
Ha l’aria di voler fare, ma dà l’impressione di subire troppi impedimenti. A Klagenfurt mons. Alois
Schwarz, un vescovo affabile e sensibile, continua l’opera del suo predecessore Kapellari.
I vescovi austriaci nell’assemblea
del novembre 2008 hanno ricordato i
dieci anni del «Dialogo per l’Austria», ma con tono dimesso, senza
rimettere sul tappeto le questioni allora dibattute, preferendo soffermarsi su alcune iniziative prese nel corso
del decennio, esprimendo il desiderio
di non perdere la memoria di quell’evento che, a dire il vero, è rimasto
lettera morta. Anche il movimento
Noi siamo Chiesa, che aveva lanciato
l’Appello dal popolo di Dio con coraggiose e azzardate richieste, sottoscritte da mezzo milione di persone
solo in Austria, è scomparso dalla
scena.
Islamici ed ebrei
Tengono il campo alcuni vivaci
dibattiti, come quello sulla presenza
islamica e la costruzione delle moschee. La crescita e l’aggressività della destra politica (c’è chi ha definito
Maometto un «violentatore di bambine») ha spostato il discorso sulla
compatibilità dell’islam con la democrazia e sulla necessità di sottoporre
ai residenti l’eventuale consenso alla
costruzione delle moschee e dei minareti. Quasi scomparso il richiamo
alla libertà di religione e al diritto di
tutti di praticarla in privato e in pubblico (luoghi di culto compresi).
Altri dibattiti hanno avuto come
protagonista l’arcivescovo di Vienna,
il card. Christoph Schönborn. Un
suo intervento sulla dibattuta nuova
preghiera da inserire nel rito straordinario durante la liturgia del Ve-
nerdì santo ha irritato le comunità
ebraiche locali, che l’hanno giudicato ambiguo e non coerente con i risultati del Vaticano II. Solo un documento del Coordinamento per il dialogo ebraico-cristiano (novembre
2008) ha appianato la disputa. O ancora il suo giudizio sulla dichiarazione pubblicata dalla Conferenza dei
vescovi austriaci a pochi mesi dall’enciclica Humanae vitae.4 Parlando
a Gerusalemme il 27 marzo 2008 nel
corso di un incontro organizzato dal
movimento neocatecumenale, di cui
è un estimatore, il cardinale ha rimproverato ai suoi predecessori, allora
guidati dal card. König, di non aver
saputo «nuotare contro corrente» e
di avere accolto l’enciclica con troppi
distinguo. Un vero errore, a detta di
Schönborn. La cosa ha indispettito
non poco il vescovo Kapellari, vicepresidente della Conferenza episcopale, a quei tempi stretto collaboratore di König, che in un’intervista ha
contestato la valutazione del cardinale, pur senza nominarlo. L’intervento
del card. Schönborn ha imbarazzato
anche gli ambienti interni alla Conferenza episcopale, che non riescono
a darne una spiegazione plausibile.
Egli da parte sua ha tentato successivamente di spiegare il tono del proprio intervento: non voleva tanto
prendersela con la dichiarazione dei
vescovi, quanto con la società austriaca che non riserva spazio a nuove vite.
Dieci anni fa il vescovo Weber
parlava di «Chiesa vitale»; a distanza
di dieci anni si preferisce parlare, forse con una certa dose di eufemismo,
di «Chiesa tranquilla».
Francesco Strazzari
1
23-26.10.1998; cf. Regno-att. 18,1998,
593; Regno-doc. 21,1998,677.
2
Cf. Regno-att. 20,2007,673.
3
Cf. Regno-att. 16,2004,526.
4
La cosiddetta Dichiarazione di Mariatrost, 21.9.1968; Regno-doc. 18,1968,355.
Nicaragua
Ve scov i
Sospetti
sulle elezioni
I
n questo «momento di incertezza nazionale, assumiamo una posizione chiara
a favore del nostro popolo, che oggi si
sente frustrato dai risultati elettorali in
molti comuni. Tale frustrazione si basa su
una serie di irregolarità come la cancellazione della personalità giuridica di partiti
politici (il riferimento è al Partito conservatore e al Movimento rinnovatore sandinista; ndr), ritardi nella predisposizione delle
tessere elettorali e mancata consegna di
molte di queste in tempo utile, mancato
accreditamento di osservatori nazionali e
internazionali, chiusura anticipata dei seggi,
espulsione di rappresentanti di lista, non
corrispondenza tra i verbali firmati da tutti
i rappresentanti di lista e i rapporti resi
pubblici dal Consiglio supremo elettorale,
contestazioni infondate di seggi. Queste irregolarità delegittimano e mettono in dubbio le elezioni in molti municipi e capoluoghi di dipartimento, ponendo a rischio le
istituzioni democratiche del paese. Perciò
invitiamo i membri del Consiglio supremo
elettorale a operare con urgenza la revisione e il confronto dei verbali in mano ai partiti, come sono stati sottoscritti alla chiusura dei seggi, davanti a rappresentanti di lista e a organismi di osservazione nazionali
e internazionali».
Le denunce e gli scontri
Così l’11 novembre 2008, a due giorni
dal voto, la Conferenza episcopale del Nicaragua (CEN) ha avallato le denunce dell’alleanza PLC-VCE tra Partito liberale costituzionalista e movimento Andiamo con
Eduardo (il banchiere Eduardo Montealegre, già sconfitto da Daniel Ortega alle presidenziali del 2006 e in lizza come sindaco
di Managua) circa presunti brogli nelle amministrative, di cui la maggiore forza di opposizione non ha riconosciuto i risultati ufficiali.
I dati del Consiglio supremo elettorale
hanno infatti decretato un netto successo
del governativo Fronte sandinista di liberazione nazionale (FSLN), che ha conquistato
105 dei 146 comuni in cui si votava (prima
ne amministrava 87), tra cui 13 dei 16 capoluoghi di dipartimento, compresa la capitale, Managua. La coalizione PLC-VCE, appoggiata dai dissidenti del Movimento di
rinnovamento sandinista, ha prevalso in 37
(perdendone quindi 20 rispetto al 2004, ma
contestandone altri 44), mentre 4 sono andati all’Alleanza liberale nicaraguense
(ALN), formata da ex seguaci di Montealegre contrari all’alleanza col PLC e anch’essa
all’opposizione. La correttezza del voto è
stata confermata da decine di osservatori
internazionali del «Protocollo di Tikal», del
«Protocollo di Quito» e del Consiglio degli
esperti elettorali dell’America Latina, formati da magistrati di 12 paesi latinoamericani, mentre il Consiglio non aveva accettato
la presenza di rappresentanti dell’Organizzazione degli stati americani e del Centro
Carter.
La diffusione dei risultati ha provocato
violenti disordini, soprattutto nella capitale, con un saldo di almeno un morto e vari
feriti. Sul banco degli imputati è finito il
Consiglio superiore elettorale, secondo
molti controllato dall’esecutivo, anche se
composto dagli stessi magistrati – tre liberali, tre sandinisti e il presidente, Roberto
Rivas, considerato vicinissimo al card. Miguel Obando Bravo, arcivescovo emerito di
Managua – che hanno gestito tutti gli ultimi appuntamenti elettorali dalle presidenziali del 2001, vinte dal liberal-costituzionalista Enrique Bolaños.1
In particolare mons. Abelardo Mata
Guevara, vescovo di Estelí, considerato vicino al PLC, ha parlato esplicitamente di
«frode» e «grossolano imbroglio del Consiglio superiore elettorale », il quale ha quindi accettato di ricontare i voti, ma solo
nella capitale (peraltro confermando i risultati iniziali). Rivas ha comunque replicato che il documento episcopale «pare redatto da un’ambasciata», riferendosi agli
Stati Uniti, e ha respinto le critiche della
CEN, la quale ha lanciato un appello contro la violenza, invitando i partiti «a ricorrere a tutte le istanze costituzionali, giudiziarie e democratiche per trovare una soluzione, in base a verità e giustizia». Inoltre
la destra ha presentato all’Assemblea nazionale un progetto di legge per annullare
la consultazione, una proposta giudicata
dal FSLN incostituzionale e mirante a destabilizzare il governo.
La paralisi dei lavori parlamentari che
ne è seguita non ha permesso l’approvazione del bilancio dello stato, collegato a nuo-
vi crediti dagli organismi finanziari, mentre
Stati Uniti e, con scelta inedita, l’Unione
Europea hanno sospeso gli aiuti economici
destinati alle spese sociali del paese.
Fine del l’al leanza
con il Fronte s andinista?
La posizione della CEN ha ricevuto il
plauso di Envío, mensile dell’Università
centroamericana (UCA) di Managua, retta
dai gesuiti e punto di riferimento dei cristiani progressisti oggi più critici verso il
FSLN: «Per la prima volta da moltissimo
tempo la voce dei vescovi cattolici ha avuto un afflato profetico: hanno denunciato
alcune cause del conflitto e indicato una
possibile soluzione». La caporedattrice,
María López Vigil, vi ha visto la fine dell’alleanza tra gerarchia cattolica e governo,
che il FSLN si era garantito con la messa
fuorilegge dell’aborto terapeutico e che
era stata sancita dalla nomina del card. Miguel Obando Bravo alla presidenza della
Commissione di verifica, pace, riconciliazione e giustizia, creata dall’esecutivo nel
2007 per assicurare l’applicazione degli accordi firmati coi gruppi armati controrivoluzionari negli anni Ottanta e Novanta. Il
cardinale da parte sua non ha messo in discussione la correttezza delle elezioni, limitandosi a invitare governo e opposizione a
«dialogare per trovare un’intesa».
Quanti infine, come il gesuita p. Arnaldo Zenteno, legato alle comunità ecclesiali di base, dubitano che le irregolarità verificate siano state tali da inficiare il risultato
del voto, attribuiscono la vittoria del FSLN
– soprattutto nelle aree rurali, da sempre
più conservatrici – al consenso ottenuto
dal governo grazie alla «deprivatizzazione»
dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, alla campagna nazionale di alfabetizzazione,
che con l’aiuto cubano dovrebbe eliminare
l’analfabetismo entro il 2009, alla legalizzazione delle terre dei contadini che stavano
per essere espropriati dalle società finanziarie con cui si erano indebitati, oltre che
grazie a una serie di programmi sociali come «Fame zero» (copiato da quello brasiliano), che ha garantito a 30.000 famiglie sementi e animali, e «Usura zero», un progetto di microcredito riservato alle donne.
M. C.
1
Cf. Regno-att. 12,2001,409; 18,2001,625;
18,2003,590; 18,2004,635; 20,2005,698.
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19
TEOLOGIA
I due Boff
DELLA
LIBERAZIONE
c
risto e il povero
Dibattito sul metodo
I
l sasso gettato da Clodovis Boff
nello stagno, peraltro mai troppo tranquillo, della teologia
della liberazione continua a
produrre onde e ad agitare le
acque della teologia latinoamericana.
Dopo un primo intervento con la circostanziata accusa da lui rivolta a tutta la teologia della liberazione in generale di «mancanza di fondamento»
nel suo metodo di ricerca (cf. Regnodoc. 17,2008,557) e dopo la risposta
piuttosto seccata da parte di alcuni dei
suoi colleghi, a cominciare da suo fratello Leonardo (cf. Regno-att.
16,2008,509), padre Clodovis ha replicato di recente con un nuovo, ampio e articolato intervento, ribadendo
la sua convinzione che è necessario
per la teologia della liberazione un ritorno a una chiara definizione del suo
fondamento e all’adozione di un metodo teologico rigoroso.
Come molti ricorderanno, il teologo servo di Maria brasiliano aveva
pubblicato nell’ottobre 2007 su Revista eclesiástica brasileira (REB) l’articolo, ripreso in lingua italiana dal citato Regno-documenti, dove denunciava
il punto debole nell’attività teorica
della teologia della liberazione, che
consiste nella «mancanza di chiarezza
in relazione alla portata epistemologica dell’opzione per i poveri». In particolare egli diceva che nella teologia
della liberazione «avviene un’inversione del primato epistemologico. Non è
più Dio, ma il povero a essere considerato come il primo principio operativo
della teologia»; e commentava:
«Un’inversione di questo genere è un
20
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errore nella definizione della priorità;
per un altro verso è un errore di principio e perciò di prospettiva. E questo
è un fatto grave, per non dire fatale».
Una critica così radicale finora la
si era sentita solo dai non pochi, e non
del tutto disinteressati, avversari della
teologia della liberazione, a cominciare dai teologi latinoamericani più tradizionalisti fino ai vertici vaticani, che
sono più volte intervenuti con documenti e richiami per lo più rivolti ai
singoli teologi: il più clamoroso fu l’intervento della Congregazione per la
dottrina della fede, presieduta dal
card. Josef Ratzinger, contro Leonardo Boff nel 1985 (cf. Regno-doc.
9,1985,276; Regno-att. 10,1985,257).
E si diceva che quelle resistenze fossero ispirate soprattutto alla mancanza
di sensibilità pastorale verso la situazione ecclesiale dell’America Latina o
a concezioni intellettuali chiuse alle
istanze del progresso della ricerca teologica. Ma che la denuncia di «fatto
grave, per non dire fatale» sulla ricerca della teologia della liberazione venisse da uno dei maggiori esponenti
della stessa, pareva impensato.
Dare futuro
al la teologia dei poveri
Perciò non pochi hanno parlato di
tradimento da parte di padre Clodovis
Boff, che pure, come ha riconosciuto
in una replica il suo stesso fratello
Leonardo, in passato «ha accumulato
molti meriti nell’ambito della teologia
della liberazione, ha prodotto una riflessione di grande respiro sul metodo
della teologia, sull’ecclesiologia delle
comunità ecclesiali di base e sulla loro
rilevanza per il rinnovamento delle
tradizionali e ingombranti istituzioni
della Chiesa» (Adista, n. 52, 5.7.2008,
9). Per questo Leonardo ha reso pubblico un intervento per dire che nel
fratello vede ora «una certa involuzione nella sua attività e riflessione»,
«una posizione magisteriale che spetterebbe di più ad autorità dottrinarie
che a un teologo».
Anche noi de Il Regno avevamo
chiesto a padre Clodovis di chiarire la
sua posizione in un’intervista. L’interessato ha risposto con molta amicizia
rimandando a un testo argomentato
che è arrivato anche a noi a novembre
e che apparirà su Revista eclesiástica
brasileira (ora, parzialmente, in Adista n. 92, 20.12.2008).
In questo scritto, lungo circa 25
pagine, padre Clodovis ribadisce fin
dall’inizio che egli non ha abbandonato né intende abbandonare la teologia
della liberazione. Rigetta quindi decisamente l’accusa rivoltagli di esser
uscito dal campo di battaglia in cui
aveva fino allora militato e di esser
passato dalla parte degli avversari. E
scrive: «Parlo a partire da dentro alla
teologia della liberazione (…). Sì, io
parlo da dentro al progetto originario
di questa teologia, che è quello di “dare voce ai poveri” (K. Rahner) a partire dalla fede della Chiesa. Pertanto
non ho rotto, non voglio e non posso
rompere con la causa di fondo della
teologia della liberazione. È una questione di coerenza con la fede e con la
vocazione teologica. Tuttavia, pur con
tutto il rispetto che ho per il modo con
cui questa causa venne affrontata nell’attuale teologia della liberazione,
(…) io voglio ora prendere le distanze
(…). Se ho cambiato posizione? No,
assolutamente! Ho sempre difeso, senza soluzione di continuità, una teologia della liberazione fondata senza
equivoci sul fondamento cristologico».
E a testimonianza cita diversi suoi
testi pubblicati in passato, da Teologia
e prática (Vozes, Petrópolis 1978) a
Teoria do método teològico (Teoria del
metodo teologico, Messaggero, Padova
2000). Non si tratta quindi di idee del
tutto nuove nel pensiero del teologo
brasiliano che vive a Curitiba in Brasile, che continua a pubblicare testi
teologici (cf. Regno-att. 2,2008,32
sull’ultima pubblicazione tradotta
in italiano, Mariologia sociale,
Queriniana, Brescia 2007). Del
resto Clodovis è sempre stato la
coscienza critica, specialmente
dal punto di vista metodologico,
di tutta la teologia della liberazione, come ebbe a scrivere anche
Rosino Gibellini nell’appena citato articolo.
Clodovis Boff non è assolutamente dell’idea che la teologia
della liberazione sia finita o debba finire, anche se non manca di
fare un’autocritica sul proprio lavoro teologico fin qui prodotto, e
cioè di non aver parlato mai finora in maniera tanto chiara e forte
su questo punto fondamentale
come avrebbe dovuto fare. Scrive
nella replica: «Riconosco che nei
miei scritti polemici ho vacillato
su questo punto fondamentale e, cedendo alle pressioni del contesto e al
magis amicus Plato, mi sono accodato
all’ambigua “epistemologia pauperista” che ora voglio criticare». Non
quindi una svolta nella sua vita di teologo, non un arretramento rispetto a
quanto finora scritto e insegnato, ma
piuttosto una nuova coscienza e un
desiderio di dare un solido fondamento alla teologia della liberazione, che è
ancora la sua teologia.
Dopo queste premesse, Clodovis
Boff passa a riaffermare quanto detto
nell’articolo dibattuto, quasi sentisse
l’urgente necessità di ribadire quelle
idee fondamentali e di chiarirle nella
polemica con i suoi critici. E la sua replica tiene in considerazione i tre arti-
coli maggiori pubblicati sulla stessa
REB a firma di João Carlos Susin ed
Érico J. Hammes, Leonardo Boff e infine Francisco de Aquino Junior. Fin
dall’inizio vuole precisare qual è il
punto focale del dibattito da lui sollevato, e cioè «il fondamento della teologia, il fondamento ultimo e determinante» per ogni discorso teologico.
Replicando a suo fratello Leonardo, che lo aveva accusato di tralasciare alcuni punti teologici indispensabili, egli afferma: «Il punto focale non
era tanto la dottrina teologica, quanto
il fondamento della teologia; era una
questione di teologia e non di scienza
teologica. Su questo san Tommaso in-
«Non ho rotto, non voglio
e non posso rompere
con la causa di fondo della
teologia della liberazione.
È una questione
di coerenza con la fede e
con la vocazione teologica»
replica Clodovis Boff
all’accusa rivoltagli
di tradimento.
segna: “Prima della scienza, occorre
studiare il suo metodo” (…). Ma, prima di entrare nel confronto delle posizioni, voglio richiamare l’attenzione
su questo: la questione del fondamento non è una questione qualsiasi, ma è
la quaestio magna del metodo, la condicio sine qua non di qualsiasi teologia. Il resto viene di conseguenza».
Privilegio dei poveri
primato del Cristo
Spinto da questa convinzione, padre Clodovis ritorna su quanto aveva
affermato nel suo primo intervento, lo
ribadisce e lo spiega ulteriormente:
«La tesi che ho sostenuto nell’articolo
di riferimento, e che ancora voglio sostenere, si può riassumere così: la po-
sizione della teologia della liberazione
circa il fondamento si dimostra nella
maggioranza dei casi ambigua e confusa. Si tratta di una posizione che introduce in quella teologia una deriva
che la porta a invertire i poli, in quanto fa del povero il principio fondamentale della teologia. Qui la fede in Cristo finisce per essere in funzione del
tema della liberazione, riducendosi a
un’ideologia. Il risultato finale è la
perdita di identità della teologia, compromettendo così anche la causa del
povero».
Si tratta per Clodovis quindi essenzialmente del principio fondamentale che deve sostenere tutta la riflessione teologica e quindi egli replica ai suoi critici, i quali pensano in maniera più relativistica,
dicendo: «Principio sì, ma mediato», «il principio della fede sì,
ma occorre anche il principio
della misericordia», «Dio sì, ma
sempre insieme con i poveri».
Egli afferma decisamente: «Torno qui a ribadire che il principio
determinante della teologia è e
può essere solo la fede in Cristo.
L’opzione per i poveri e la loro liberazione viene di conseguenza e
può essere senz’altro un principio
secondo, privilegiato finché si
vuole, ma mai il principio primo
e determinante. Risulta tautologico dire che il povero e la sua liberazione non sono il “principio
generale” della teologia in generale, ma solo il “principio specifico” di questa teologia specifica,
che è la teologia della liberazione. Il
principio “povero” non può esistere
nel principio generale della teologia
che è la fede nel Theos di Gesù Cristo.
Questa è la base comune di tutte le
teologie, la sola che permette un dialogo tra di esse».
Padre Clodovis passa poi a chiarire la sua posizione sul perché il fondamento primo e assoluto della teologia
è e deve essere il Cristo e non può mai
esser il povero e la sua liberazione; egli
aveva scritto infatti nel suo primo intervento: «Il principio-Cristo include
sempre il povero, senza che il principio-povero includa necessariamente
Cristo». «Che cosa dimostrano i miei
interlocutori – si domanda padre Clodovis a un certo punto della sua repli-
IL REGNO -
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21
ca – con le loro critiche? Esattamente
quello per cui li ho criticati. Continuano a rimanere nell’indefinitezza e nell’ambiguità circa la questione del fondamento, cioè nell’indeterminatezza e
nella confusione circa il principio-Cristo. Quindi, invece di dimostrare il
contrario, essi giustificano la denuncia
della “nefasta ambiguità” di cui ho accusato la teologia della liberazione attuale, così che alla fine si può veramente dire: come volevasi dimostrare
(…). Circa la questione centrale, quella del fondamento, io dico che sono
nell’inganno. O il fondamento è Cristo e il Dio trino che lo ha rivelato: e
allora siamo nel cristianesimo; oppure
il fondamento è un altro: e allora stiamo fuori dal cristianesimo. Su questo
punto centralissimo, la difesa dei miei
interlocutori non convince, anzi
rafforza la mia critica di insicurezza
metodologica e dei gravi rischi che qui
si incontrano e che da qui seguono».
Occorre assolutamente fare una
chiara distinzione tra Cristo e i poveri, almeno dal punto di vista del metodo teologico: «Certo, il fatto che
Cristo stia nel povero ha valore dal
punto di vista oggettivo, ovvero nell’ordine dell’ontologia della grazia
(Paolo, perseguitando i cristiani, perseguitava, senza saperlo, Cristo); ma
non è valido dal punto di vista soggettivo, cioè in relazione alla vita di fede
(perseguitando i cristiani, Paolo non
ha mai capito che stava perseguitando Cristo, se non dopo che lui stesso
glielo ha rivelato). (…) Come si vede
nell’accostamento Cristo-povero intervengono due logiche: la logica oggettiva (di Dio) e quella soggettiva (dei
cristiani). Sta proprio qui il punto dove i teologi della liberazione confondono le due cose: da una parte dicono che Cristo sta “infallibilmente” nei
poveri, per cui poco importa aver coscienza di questa verità; basta star
dalla parte dei poveri per stare ipso
facto dalla parte di Cristo. In realtà è
il contrario che è certo: poiché Cristo
sta (oggettivamente) nel povero, io
(soggettivamente) devo prendere coscienza di questa realtà e comportarmi di conseguenza. Qui la logica oggettiva fonda e giustifica la logica soggettiva».
«Questo equivoco – spiega ancora
Clodovis Boff – porta a conseguenze
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pastorali disastrose, in quanto divengono irrilevanti la fede esplicita, l’ascolto della Parola e il suo annuncio,
la convocazione della comunità, la
confessione pubblica della fede, la
pratica dei sacramenti, la preghiera,
insomma tutto il sistema della Chiesa,
che viene a essere fuori dal sistema
della rivelazione e dell’incarnazione.
La descrizione degli effetti negativi di
questa teologia equivoca è lo scollamento dei militanti dalla base ecclesiale, cui segue la perdita di identità
cristiana, problematica di cui mi sono
occupato da oltre 20 anni». «Pertanto
la prima cosa che un teologo deve ammettere come acquisito in modo chiaro e fermo è la professione di fede nel
Cristo Signore».
Dibat tito
e legit timazione
Che dire di questo aspro dibattito
interno alla teologia della liberazione?
Chi ha seguito fin dagli anni Sessanta
e Settanta la nascita e l’evoluzione di
questa teologia in America Latina, rimane certamente sconcertato dalla
durezza dello scontro tra quelli che
sembravano formare fino a poco tempo fa un corpo compatto di teologi.
Fino ad accusarsi dell’incapacità di
«fare una confessione di fede esplicita
in Cristo Gesù» e di ingannarsi «sul
fondamento stesso della teologia»
(Clodovis Boff). E le accuse lanciate da
Leonardo Boff contro suo fratello,
con il quale sappiamo che ha un ottimo rapporto fraterno, non sono state
da meno. «Ritengo che questa posizione di Clodovis debba esser rifiutata, in quanto sbagliata, teologicamente erronea e pastoralmente dannosa».
Inoltre aveva detto: «Egli tende a una
teologia aristotelico-pagana e neoscolastica, rigorosa nel metodo, ma in
fondo formalista» e lo aveva addirittura tacciato di eresia: «Clodovis è, in
fondo, cristomonista, come se Cristo
fosse tutto, dimenticando il Padre e lo
Spirito Santo».
Non siamo più abituati alle forti rivalità che nel passato hanno attraversato tutte le grandi scuole filosofiche e
teologiche lungo la storia del pensiero
occidentale: i platonisti contro gli aristotelici, gli agostiniani contro i tomisti, i suareziani contro i cartesiani, fino
ai rosminiani nel secolo scorso contro
gli scolastici e più recentemente Hans
Küng contro Joseph Ratzinger (e viceversa). Quando la teologia è viva e
vuole crescere, viene a confrontarsi
inevitabilmente anche con i pensatori
più vicini; quando vuole approfondire
la ricerca, scopre particolarità che ai
profani possono sembrare questioni
cavillose.
Nella giovane ma vivace teologia
della liberazione, le acque agitate da
Clodovis Boff con i suoi due clamorosi interventi potrebbero esser il segno
che c’è vita e voglia di diventare adulti. Dibattere infatti sul fondamento di
tutta la teologia, e quindi della giovane teologia della liberazione in particolare, non è «una questione oziosa»,
né «una perdita di tempo», ma piuttosto un cercare di dare consistenza e
dignità a tutta una scuola di pensiero.
Finora eravamo abituati a vedere
il magistero che interveniva piuttosto
assiduamente per correggere o condannare singoli teologi, quando il loro pensiero veniva giudicato contrario
all’ortodossia cattolica. Abbiamo visto infatti per la teologia della liberazione che vescovi latinoamericani o
congregazioni romane sono intervenuti a più riprese e in diversi modi nei
confronti di singole opere, di singoli
teologi o dell’intera corrente teologica per confutarne le tesi e denunciarne gli errori dottrinali. Quegli interventi, giudicati da alcuni necessari,
sono apparsi ad altri eccessivamente
pesanti e frettolosi nei confronti di
una teologia che era ed è certamente
in una fase di crescita.
Il dibattito in corso mostra che le
correnti teologiche (e in generale di
pensiero nella Chiesa) possono avere
al loro interno gli elementi in grado di
dare alla ricerca la compensazione necessaria. Leonardo Boff aveva rimproverato al fratello la volontà di assumere «una posizione magisteriale che
spetterebbe di più ad autorità dottrinarie che a un teologo» e addirittura
di «aver tradito i propri fratelli». In
realtà tutti i protagonisti mostrano di
fare il proprio mestiere, quello del teologo che cerca di dare alla propria e
altrui teologia il pieno «diritto di cittadinanza» nella Chiesa, a servizio della
pastorale locale e universale.
Lino Pacchin
A M E R I C A L AT I N A
u
Chiesa
na teologia india
Intervista a Eleazar López Hernández
E
leazar López Hernández, prete messicano
di etnia zapoteca, lavora al Centro nazionale
di aiuto alle missioni
indigene (CENAMI), è membro dell’Articolazione ecumenica latinoamericana di pastorale indigena (AELAPI) e dell’Associazione ecumenica dei
teologi e delle teologhe del terzo
mondo (ASETT). È uno dei massimi
esponenti della teologia india dell’area mesoamericana (cf. Regno-att.
12,2002,413).
– Che cos’è oggi la teologia india in
America Latina?
«La tradizione occidentale ha un
approccio speculativo, per cui la teologia classica ha cercato soprattutto di
mettere gli strumenti della ragione al
servizio della conoscenza di Dio e di
usarli per dimostrare che la fede non è
assurda. Nelle culture dei popoli originari, invece, per esprimere la relazione con Dio si privilegia un linguaggio
metaforico, simbolico, dei miti, che allude a una realtà solo limitatamente
conoscibile.
In questo senso la teologia india
non nasce a contatto con il cristianesimo, è il vissuto, la celebrazione e la
comunicazione dell’esperienza di Dio
che ha accompagnato per millenni i
nostri antenati, di cui qualcosa è rimasto nelle piramidi, nelle steli, nei frammenti dei codici sfuggiti ai roghi dei
primi missionari e soprattutto nella religiosità popolare. Tra la gente, infatti,
molti elementi pre-ispanici sono sopravvissuti perché gli indigeni li han-
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no perpetuati in spazi “non controllati” oppure sovrapponendovi devozioni
cristiane o, a volte, come nel caso della Madonna di Guadalupe (al contempo vergine Maria, madre di Gesù, e
Tonantzin, la Madre terra), trovando
una sintesi.
Il ruolo
del le culture autoc tone
La novità degli ultimi cinquant’anni sta nel fatto che la Chiesa cattolica
e molte di quelle evangeliche si sono
aperte alle culture autoctone e ci hanno permesso di diventare preti, religiose, diaconi, pastori ecc., cioè gente
che maneggia la terminologia ecclesiastica e quindi può tradurre questa
produzione popolare in linguaggi accessibili ad altri settori ecclesiali. Noi
chiamiamo tutto ciò “teologia india”,
ma alcuni contestano l’adeguatezza
della parola “teologia”.
In effetti per riconoscerla come tale si deve cambiare il concetto stesso
di teologia, perché la teologia india
non intende dimostrare la plausibilità
della fede né chiarificare l’insegnamento della rivelazione davanti alle
istanze della ragione in una forma organica e sistematica. Tuttavia mostrare una “sapienza su Dio” più legata al
“sapore” che al “sapere”, all’assaporare la presenza di Dio in mezzo ai
poveri, al celebrarla nella festa in cui
condividiamo il cibo, è un modo in
cui si può comunicare la fede cristiana, che non passa unicamente per la
razionalità, ma per la vita stessa.
D’altro canto, quando gli chiedevano
“dove vivi”, Gesù rispondeva: “Vieni
e vedrai”».
– Come far comprendere questa visione a chi è estraneo alle vostre culture?
«Avvicinando vescovi, preti ecc.
non indigeni affinché vedano questa
teologia nella sua elaborazione diretta, cioè nelle stesse comunità, e preparando persone indigene a fungere da
ponte di comunicazione con il resto
della Chiesa. E questo avviene sempre
più: per esempio, annualmente 400500 indigeni si riuniscono in Chiapas
per l’Incontro di teologia india
mayense: sono persone della base,
scelgono temi di riflessione, per esempio la Madre terra, attorno ai quali si
approfondiscono studi sociologici, si
analizzano i miti e si celebrano riti.
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IL REGNO -
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Questa è teologia, ma non accademica. Ogni anno in Messico si tengono
anche una riunione del Collegamento
di agenti di pastorale indigena (EAPI),
cui partecipano 500-600 persone, un
incontro di sacerdoti indigeni, uno di
religiose indigene, uno di laici indigeni e, infine, un’assemblea di rappresentanti di tutti questi soggetti. In queste riunioni si affrontano temi pastorali e teologici, ma la teologia india non
è sganciata dall’evangelizzazione, dai
progetti produttivi e sanitari, dalla lotta per i diritti indigeni, cioè da tutto
quel complesso di elementi che riassumiamo come “Progetto dei popoli indigeni”. Un processo simile, molto
ampio, che coinvolge preti, religiose e
laici indigeni è in atto in Guatemala,
si sta sviluppando in El Salvador, dove
la popolazione indigena è scarsa, a
Panama, in Colombia, in Bolivia,
Ecuador, Perù, Cile e Argentina. In
Brasile c’è il Consiglio indigenista
missionario (CIMI), che conta pure
l’Articolazione nazionale di dialogo
interreligioso e inculturazione (ANDRI) con le religioni indigene. Abbiamo creato pure una rete ecumenica
continentale in cui sono coinvolte anche Chiese evangeliche».
Sguardi su un continente
– Quali sono i più significativi sviluppi seguiti al V Incontro continentale, svoltosi a Manaus, in Brasile, nel
2006?
«Si sono intensificati i collegamenti tra soggetti e riflessioni che procedevano separatamente. Nella regione
mesoamericana, dove la teologia india
ha avuto la sua prima espressione
pubblica nel 1990, il gruppo che l’ha
maggiormente sviluppata è quello della “teologia mayense” del Chiapas,
che si è collegato con le zone maya di
Guatemala, Honduras ecc. In quest’area anche gruppi zapoteca, mixteca,
náhuatl, totonaca, purépecha, aiutati
da preti e religiose autoctoni, hanno
iniziato un cammino di pastorale indigena e teologia india. Non erano però
collegati o lo erano a livello di singolo
paese o gruppo etnico: per esempio, in
Messico c’è il Collegamento di agenti
di pastorale indigena (EAPI), in El
Salvador e Honduras il movimento
Lenca, a Panama quello Kuna, quello
Ngobe e quello Guaymies ecc.
Nel 2008, motivati dall’impegno a
ospitare in El Salvador, alla fine del
2009, il VI Incontro continentale di
teologia india, ne abbiamo tenuto per
la prima volta uno mesoamericano in
Guatemala per far convergere la ricerca comune sul ruolo che la teologia e
il pensiero filosofico sulla Terra, sulle
risorse naturali e sull’acqua hanno in
un progetto per il futuro dell’umanità.
In particolare si è riflettuto sull’importanza del mais nella nostra proposta di
vita. Per i popoli mesoamericani esso
è fondamentale e lo stesso ruolo svolgono in altre regioni la patata, la banana, la yucca: ogni popolo ha un alimento base, che ha un significato economico, ma fonda anche una relazione sociale e una possibilità di comunione con Dio, suscitando una vera
teologia.
Per l’incontro continentale vorremmo proporre un’altra questione
che tocca tutti i popoli indigeni, cioè
la migrazione. Molti indigeni, infatti,
non abitano più nelle zone d’origine,
ma si sono trasferiti nelle città e all’estero. Basti pensare che oltre la metà
dei mapuche cileni vive a Santiago e
Concepción. Ciò comporta il rischio
della distruzione delle culture, ma offre anche l’opportunità di risolvere
problemi di sopravvivenza. Dobbiamo
recuperare la tradizione secondo cui
siamo gente che cammina, che non
sta fissa in un luogo, ma entra in relazione con altri popoli, per cui si apre il
discorso dell’interculturalità».
– Che cosa sta avvenendo negli altri paesi dell’America Latina?
«In Bolivia molti pensano che l’elezione di Evo Morales sia frutto anche degli sforzi compiuti per promuovere una nuova coscienza del valore
della cultura autoctona, perché la ragione di fondo per cui in passato un
leader indigeno non raccoglieva voti
stava nel fatto che l’autostima indigena era molto scarsa. Ma grazie anche
all’azione pastorale e soprattutto alla
teologia india la gente è arrivata a dire: “Possiamo avere un presidente indigeno”. Oggi però l’istituzione ecclesiastica rischia di non accompagnare
debitamente questo processo: la paura si è impadronita di membri importanti della Chiesa boliviana, che appaiono vicini all’opposizione. E questo incrina l’alleanza tra la teologia
india e i vescovi. È una situazione ancora in ebollizione.
In Perù la linea favorevole alla causa indigena, portata avanti soprattutto
dai religiosi di Maryknoll, è stata sostituita da quella dell’Opus Dei e di altri
movimenti che giudicano la religiosità
indigena un’idolatria. Si torna a schemi del passato, ma la coscienza del valore del pensiero indigeno e della teologia india è stata seminata nella gente e darà frutto, anche se in questo
momento incontra l’opposizione della
struttura ecclesiastica, sebbene vi siano sacerdoti e religiose che continuano ad appoggiarla.
In Ecuador continua il lavoro sia
della pastorale indigena sia dei movimenti delle nazionalità originarie, che
più duramente nel 2007 hanno criticato alcuni passaggi del discorso del
papa all’apertura della Conferenza
generale dell’episcopato latinoamericano di Aparecida. I vescovi ritengono che gli indigeni siano stati ingrati
nel non riconoscere l’appoggio ricevuto dalla Chiesa, ma credo che in futuro si potrà ricostruire una relazione
tra l’istituzione ecclesiastica e queste
organizzazioni perché gli agenti di pastorale fanno da ponte.
In Argentina la pastorale indigena,
sempre piuttosto marginale, ha acquisito forza perché con la vittoria di Morales le comunità autoctone della regione settentrionale, che è andina,
hanno preso a rivendicare diritti e territori, con l’appoggio dei preti e delle
religiose indigeni dell’Incontro nazionale di pastorale aborigena (ENDEPA), che sono sostenuti dai vescovi.
In Paraguay c’è una grande euforia per il trionfo di Fernando Lugo,
anche se lì la forza non è data dall’elemento propriamente indigeno, ma dal
movimento contadino. Comunque si
consolida la formazione di vocazioni
indigene alla vita religiosa o di leader
laici, recuperando la lunga esperienza
di teologi come p. Bartomeu Meliá e
suor Margot Bremer.
In Brasile, nonostante la popolazione indigena sia molto piccola, la
Chiesa continua a sostenerla ora che è
minacciata dai megaprogetti idrici,
petroliferi e minerari. La lotta è aspra
e la forza maggiore viene dalla spiritualità ancestrale degli indios. Anche
nel resto dell’America Latina si regi-
strano importanti passi avanti, sia pur
dentro una situazione di tensioni e a
volte di scontro con strutture della
Chiesa che non comprendono questa
soggettività indigena».
La questione indigena
come questione ecclesiale
– Quale spazio ha, dunque, la teologia india sul piano istituzionale?
«In alcuni ambiti istituzionali delle
Chiese la questione indigena torna al
centro dell’attenzione dopo un periodo in cui era stata un po’ accantonata:
per esempio, la Conferenza dei religiosi del Guatemala rilancia una proposta d’interculturalità per delineare
una vita religiosa che valorizzi la relazione tra culture diverse, sempre più
coesistenti nelle stesse congregazioni.
Anche la Confederazione latinoamericana e caraibica dei religiosi e delle
religiose (CLAR) ha riaperto la riflessione su come includere la ricchezza
indigena in una proposta di vita religiosa. Il Consiglio latinoamericano
delle Chiese (CLAI), che riunisce oltre
350 denominazioni evangeliche e protestanti, ha ricostituito un’area per la
pastorale indigena e la teologia india.
E nel Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM) il nuovo presidente
del Segretariato di pastorale indigena,
mons. Rodolfo Valenzuela, vescovo di
Verapaz, in Guatemala, è molto impegnato nella ricerca e nel dialogo, che
ha avuto un momento assai incoraggiante nel III Simposio latinoamericano sulla teologia india, svoltosi nel
2006 ed echeggiato ad Aparecida.
Il fatto che il tema indigeno ritrovi
spazio nelle strutture ecclesiali è molto positivo, perché le iniziative dei singoli possono essere facilmente bloccate, mentre quelle promosse da istanze
istituzionali hanno maggiori ripercussioni nelle Chiese. Questo consolidamento non impedisce che chi è contrario continui a promuovere il rifiuto
e la paura verso la teologia india».
– Perché giudica così importante il
simposio del 2006?
«Prima di tutto perché è stato organizzato dal CELAM e ha visto la
presenza di un delegato della Congregazione per la dottrina della fede,
mons. Octavio Ruiz Arenas, allora arcivescovo di Villavicencio, in Colombia, e oggi vicepresidente della Ponti-
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ficia commissione per l’America Latina. Quindi si può dire che fosse la
massima istanza di dialogo creata nella Chiesa attorno alla teologia india.
Ciò dimostra che noi indigeni siamo
pienamente parte della comunità ecclesiale e abbiamo diritto di dire la nostra all’interno dell’istituzione.
In secondo luogo l’incontro è avvenuto in un clima positivo e disteso,
poiché in questi anni il dialogo ha
chiarito molti dubbi che le autorità ecclesiastiche avevano espresso nei precedenti simposi di Bogotá, in Colombia, nel 1999, e Riobamba, in Ecuador, nel 2002. In Guatemala abbiamo
affrontato il ruolo di Cristo nella riflessione e nella vita dei popoli indigeni. Un tema difficile nonché dirimente, perché definisce se siamo o non siamo cristiani, ma nessuno metteva più
in discussione che fossimo parte della
Chiesa. La prospettiva era quella di
sollecitarci a mostrare come Cristo è
inserito nelle nostre culture e ciò ha
reso possibile una nuova relazione:
non ci siamo sentiti sul banco degli
imputati né criticati pregiudizialmente, ma considerati come fratelli che
possono dialogare con altri fratelli più
anziani, i quali hanno anch’essi diritto
a manifestare le loro preoccupazioni
dottrinali.
“Camminando con i popoli indigeni – dice il messaggio finale – ci siamo resi capaci di superare pregiudizi e
sospetti da ambedue le parti e siamo
convinti che, se procediamo per questa strada, otterremo presto l’approfondimento dei diversi contenuti
dottrinali della teologia india e la definitiva chiarificazione degli aspetti problematici individuati”. Le grandi domande circa la rivelazione, la cristologia, la pneumatologia ecc. richiedono
ulteriore discussione. Per esempio, per
esprimere l’idea che, sebbene nella
realtà ebraica il Verbo si fosse fatto
carne, esso era stato seminato anche
in tutte le altre culture, i padri della
Chiesa coniarono il concetto di “semi
del Verbo”. Ma qual è il loro contenuto? Una mera preparazione? Per noi
Quetzalcoatl (è il nome azteco del dio
serpente-piumato dell’antica Mesoamerica; ndr) è un seme del Verbo, cioè
presenza del Verbo nella realtà del popolo indigeno mesoamericano. Come
Chiesa dobbiamo ancora chiarire in
che modo questo si coniughi con la rivelazione nella persona di Gesù. Certo bisogna ripensare la cristologia. Ma
ora la discussione può avvenire con
maggiore serenità».
I rappor ti con Roma
– Come valuta la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Aparecida (cf. Regno-doc. 15,
2007,505ss; 17,2007,540ss; 19,
2007,623ss)?
«Aparecida è stato il campo di gioco delle diverse tendenze presenti nella Chiesa oggi: quella più conservatrice, per esempio gli esponenti del Sodalitium christianae vitae, controllava
tutta l’organizzazione, ma non ha potuto espellere i testi dedicati alle comunità ecclesiali di base o agli indigeni, perché non è stato possibile escludere nessuno, compresi i teologi della
liberazione e i movimenti sociali, che
hanno inciso nel testo grazie al lavoro
dei vescovi. Si è discusso animatamente se citare la teologia india nel documento finale e, sebbene diversi vesco-
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vi avessero sottolineato l’urgenza di riconoscerne la legittimità nella Chiesa,
questa proposta non ha raccolto la
maggioranza dei consensi, anche perché la Congregazione per la dottrina
della fede sosteneva che fosse prematuro. In un dialogo praticamente pubblico e cordiale durato quasi un’ora, il
card. William Levada mi ha detto che
si opponeva all’uso del termine “teologia india” non perché la condannasse, ma perché a Roma non se ne è ancora concluso l’esame. Mi annunciava
che nel settembre successivo ci sarebbe stata una riunione per dirimere la
questione e credo che lui avrebbe potuto accettare questa dizione, ma i vescovi contrari hanno prevalso. Bene:
abbiamo aspettato 500 anni, non è un
problema attendere ancora un po’!».
– Come procede la costruzione della
Chiesa autoctona nella diocesi di San
Cristóbal de las Casas?
«Giovanni Paolo II ha compiuto
passi significativi in direzione della valorizzazione del contributo indigeno a
livello civile ed ecclesiale, tanto da arrivare a canonizzare Juan Diego
Cuauhtlatoatzin (veggente del Guadalupe; ndr), cioè la possibilità di essere
cristiano senza smettere di essere indigeno. Ma non sempre ciò si è tradotto
in un appoggio a Chiese particolari e
vescovi impegnati a favore della causa
indigena, che la curia romana ha spesso delegittimato con la nomina di coadiutori o trasferito.
Ci sono comunque ancora teologi,
operatori pastorali e vescovi che lavorano perché gli indigeni occupino il
loro posto nella Chiesa. Qui si colloca
la proposta della diocesi di San Cristóbal de las Casas di promuovere una
Chiesa autoctona, avviata da mons.
Samuel Ruiz con l’ordinazione di diaconi permanenti indigeni, con catechisti indigeni, con le liturgie inculturate, con la teologia india, e che continua col vescovo attuale, mons. Felipe
Arizmendi. Egli condivide il progetto
della Chiesa autoctona, ma è giustamente attento a non rompere la comunione ecclesiale. Quindi ha obbedito agli ordini di Roma, per esempio
di non ordinare nuovi diaconi indigeni, ma ha espresso il proprio dissenso
e non ha smesso d’impegnarsi per far
capire alla Santa Sede il significato di
questo processo. In questo sta il suo
atteggiamento profetico: nel non cedere. Egli cerca di spiegare a Roma le
ragioni delle scelte della diocesi e alle
comunità le preoccupazioni delle autorità ecclesiastiche. È un ponte di comunicazione. Inoltre di recente la teologia india, che era stata affidata a laici e religiose, rimanendo praticamente
fuori dalla struttura diocesana, è tornata a far parte del piano pastorale,
per cui tutti i preti sono impegnati a
conoscerla e spiegarla nelle loro parrocchie. Anche questa è una novità: si
crea un percorso istituzionale. E ciò le
dà forza».
– Però resta bloccata l’ordinazione
di diaconi permanenti indigeni.
«Siccome ce ne sono già 400 rispetto a 70 presbiteri (alcuni dei quali
sono indigeni), Roma e alcuni vescovi
messicani temono che si crei una
Chiesa diaconale e non presbiterale e
che promuovendo diaconi sposati si
debba poi ordinarli presbiteri, quindi
aprendo la strada a un sacerdozio non
celibatario. È una sospensione temporanea, finché non vengono chiariti
questi dubbi. Speriamo avvenga presto, perché chiudere le porte significherebbe negare l’azione dello Spirito,
che ha suscitato le vocazioni in questa
forma indigena, e a rimetterci sarebbe
soprattutto la Chiesa, perché le comunità si rivolgerebbero altrove. La diocesi ha risposto: “Accettiamo, perché
non vogliamo rompere la comunione,
ma continueremo a insistere che la soluzione è l’ordinazione di diaconi indigeni”.
Intanto il vescovo ha cercato di
andare incontro alle preoccupazioni
di Roma, creando il seminario per
promuovere vocazioni indigene al
presbiterato, “ma con caratteristiche
inculturate”. E ha dato a coloro che
avrebbero dovuto diventare diaconi le
stesse facoltà di presiedere le comunità, assistere il battesimo e il matrimonio, che avrebbero avuto se fossero
stati ordinati. In questo senso si fanno
passi avanti. È una soluzione molto
interessante, ma così la Chiesa rimanda la questione all’ambito della religiosità popolare, cioè non sta incorporando istituzionalmente questo
progresso».
a cura di
Mauro Castagnaro
L
L ibri del mese
Dio tra le righe
L a l et t ura c om e fenomenologia te ologica
L
eggere e scrivere sono,
sin dai tempi remoti, i
modi centrali della
realizzazione e della
trasmissione della cultura e della religione, anche se non ne costituiscono i
fondamenti. Lo scrivere, la scrittura e il
leggere sono avvolti, portati e determinati da un vitale emanarsi della parola
e da un libero, seppur coinvolto in antiche storie, ascoltare, i quali trasformano
i loro destinatari e li trasferiscono in un
I
altro mondo. C’è così da pensare al fatto che i grandi fondatori della sapienza
così come quelli della religione
(Buddha, Socrate, Gesù) non abbiano
lasciato nulla di scritto e Platone rimanesse scettico nei confronti dei risultati
fissati per iscritto della dialettica dell’insegnamento orale. Annuncio e insegnamento sono per questi maestri modi
dialogici della trasmissione della verità,
necessitano di una maieutica, la quale
richiede la presenza di spirito di perso-
ne viventi. Non risulta casuale, invece, il
fatto che l’invenzione della stampa e la
Riforma con il suo pathos della Scrittura (oggettivatosi velocemente in una
teoria dell’ispirazione letterale contro le
stesse intenzioni di Lutero), come anche
il successivo sviluppo dell’individualismo della lettura e della fede, siano debitori di un medesimo kairos.
Tuttavia, la lettura è sin dall’inizio
un mezzo centrale della storia della tradizione: si pensi solo al fondamentale significato della lectio nel contesto di vita
del monachesimo. Agostino legge Paolo
in un momento decisivo della sua vita;
Anselmo, Tommaso, Lutero, Teresa
d’Avila e Giansenio leggono Agostino;
gli amanti in Dante si infiammano in
occasione della loro lettura comune,
don Chisciotte si accende di passione
grazie ai romanzi cavallereschi; e ogni
volta cambiano il modo di vedere la vita e il mondo e il modo di condurre la
propria esistenza.
Anzi, si dovrà parlare di una magia
della lettura, che dall’interno sfiora e
modifica la sostanza, il significato e la
direzione di senso di un’esistenza. Che
cosa succede là? Come si realizza la relazione tra scrittura, libro, lettura e lettore? Quali affetti le sono propri? Come
accade la tradizione, come si forma e
come s’interpreta? Queste sono le domande che vorremmo indagare con la
nostra fenomenologia teologica.1
Let tura nel la Scrit tura
Nella stessa Bibbia incontriamo alcune scene di lettura, che possono offrire qualche chiarimento a quello su cui
stiamo riflettendo. Già in Matteo la domanda centrale – «Non avete letto?»
(Mt 12,3-5; 19,4; 21,16; 22,31; 24,15;
cf. Mc 12,10) – ci spinge al decisivo
conflitto tra Gesù e i farisei intorno alIL REGNO -
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L
ibri del mese
l’interpretazione della Legge. Come deve essere letta, interpretata e vissuta?
Che cosa leggi nella Legge e come vieni da essa giudicato? Quale luce cade
sulla tua vita dal comandamento del testo? Lettura ed esistenza si spingono
l’un l’altra sul vivo, s’imbattono in una
vicinanza pericolosa.
In questa vicinanza si strappa la relazione di antica alleanza e di nuova
dottrina e sorge un vortice che non
giungerà più a quiete. Finché finalmente – e già pienamente all’inizio, nella
prima della sua entrata in scena – il Logos stesso nella Legge, a voce alta e pubblicamente, legge il suo destino, proprio
in quel passo che deve proclamare (cf.
Lc 4,16-20).
Già la precedente crisi delle tentazioni si era conclusa nel segno di ciò che
Gesù aveva trovato scritto (cf. Lc 4,113). Soltanto così aveva potuto discernere tra la volontà di Dio – o meglio tra la
Legge e l’inclinazione della sua missione
– e l’insidioso richiamo dell’apparente
kairos. Solamente alla luce della Scrittura gli era riuscito di contrastare la diabolica distrazione in nome di una più
profonda e simbolica rappresentazione
della parola di Dio nella vita. Ora tuttavia il Logos stesso legge – e viene a sapere la propria legge di vita dalla Scrittura. Egli e-legge sé e dinanzi alla comunità, svela se stesso con e nella lettura.
Nel groviglio del le voci
Curiose ambivalenze e ricchezze caratterizzano quel libro, il quale propriamente è solo un miscuglio di singoli e
per lo più occasionali scritti, molto differenti per qualità, e tuttavia viene annunciato e indicato nel culto divino
quale parola di Dio. Il Dio che parla e
sta in silenzio, che dona la Legge e guida la storia, lega la sua presenza efficace e narrabile a un testo, il quale ovviamente comprende in sé e dischiude un
contesto sterminato.
Vi si trova una gran quantità di stili e
di generi: Legge, racconto, riflessione sapienziale, ammonimento e profezia, prescrizioni sacerdotali e cultuali, preghiere
e inni, canti d’amore, e infine i Vangeli,
frammenti sonori di una vita – che era e
dovrebbe restare una parabola – e lettere, appunto scritti occasionali, precipitati di passati kairoi. Quasi tutti gli scritti
della Bibbia hanno origine da una conoscenza orale e mirano a un’attualizzazione orale: a essere letti (recitati) nel senso
originario del termine.
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E tuttavia sono propriamente scritti.
Il Dio unico, l’unica Parola, lo Spirito si
legano allo scritto, ai mezzi stilistici, agli
agiografi, ai generi, al caso, che si coagulano nel canone. Il curioso e straordinario incontro di casualità e vincolo, di
parola originaria e letteratura, di letteratura e definitivo comando, di testo e
interpretazione, fa della Bibbia il caso
originario della poesia, del testo e della
letteratura: a essa la teologia deve sempre di nuovo avvicinarsi.
A essa, come a ogni lettore, che cerca di corrispondere alla Scrittura, la
Bibbia appare quale testamento, lascito,
legge individuale e tuttavia valida e non
ulteriormente indagabile, che spinge,
anzi costringe a un’interpretazione: deve essere presa seriamente alla lettera,
con fatica osservata nella propria storia
di vita e tuttavia proprio per ciò deve
essere interpretata in ogni nuova situazione. Essa obbliga generalmente in
quanto data per conosciuta e validamente in quanto unica testimonianza di
una volontà che nel testo è stata depositata; è l’«ultima», disponibile parola, indiscutibile, di fronte alla quale il lettore,
con ogni spazio di gioco a lui concesso,
deve porsi in obbedienza.
Il testo che egli legge lo legge a sua
volta, e diviene comandamento e comando: qualcosa gli viene dato (concesso, senza suo merito trasmesso e inesorabilmente imposto) e posto davanti; a
esso egli, pena la privazione della sua libertà come pure dei beni promessi, non
può sottrarsi. Diviene figlio ed erede –
grazie al testamento, che egli compie, e
alla eredità ivi compresa, che egli assume e alla quale egli accede. La storia
della tradizione è lettura in quanto successione di eredità, ri-lettura di un testo
e di un bene, lasciato da un assente, che
proprio in esso rimane presente.
Qui non si tratta di una legge totalmente oggettivabile, che si possa staccare da colui che la dona; no, questa legge viene allora realizzata, tale comandamento viene allora compiuto quando
in essi si onora la parola originaria, il
datore di ogni bene; se si accolgono, si
interpretano e vivono come grazia, se si
scopre in essi la sua immagine originaria e la sua impronta. Un’esegesi, che
non fosse anche fisiognomica, arte del
vedere, si trasformerebbe in moralismo,
in costruzione storico-critica oppure in
vago arbitrio.
Tale ritratto è racconto animato e
animante, perché la volontà del datore
non si annuncia in astratto, ma attraverso una sterminata storia, dunque indirettamente. Noi dobbiamo interrogare
molte storie, seguirle con il pensiero, interiorizzare e dare conto dell’intreccio
tra finzione e fatti reali, tra trascendenza
del soggetto divino e suo coinvolgimento
in ogni storia. E tutto ciò deve essere di
nuovo raccontato e collocato in un nuovo contesto, di modo che resti vitale. Il
lettore deve dunque, in un costante andirivieni, leggere tra Dio ed evento, evento
e Scrittura, Scrittura e annuncio, conoscenza e vita, vita e la sua origine, che
egli chiama Dio e che si manifesta nei testi di nuovo in quanto tale.
L’autointerpretazione della Scrittura, la sua forza, che legge la nostra vita
e la giudica, la sua presenza nel culto
divino, la sua attualizzazione nel kerygma – tutto questo non nasconde che essa è anche oggetto della predicazione,
dell’esegesi, della lettura, dell’impiego e
dell’abuso dell’arte umana di interpretazione e di distorsione. Ma proprio così essa è presente, in quanto parola di
Dio maltrattata, in quanto Logos nel
groviglio delle voci; come se soltanto in
questo modo potesse finire nell’occhio
del lettore e nel cuore dell’uomo.
Il testo crea il let tore
Il lettore, che deve e vuole leggere, è
esso stesso un enigma per sé: cerca consiglio, istruzione, è aperto per un nuovo
mondo. Dover leggere e comprendere
(intellegere) è un esistenziale della sua
essenza. L’uomo vive in un mondo di
letture. È alla ricerca di nuove intuizioni, però può ogni volta comprendere
solo ciò che già sa. Quanto più egli si riferisce a sé con consapevolezza, tanto
più egli sa del suo bisogno e della precomprensione che determina ogni lettura.
E tuttavia il lettore si trova di fronte
a un messaggio, che non sa spiegare a se
stesso, che egli non può attingere da se
stesso, né da un eventuale precedente
sapere. È piuttosto ostaggio del testo,
catturato e interpellato da esso. Il testo
per così dire si crea il suo lettore, gli dà
forma e plasma la sua forza d’immaginazione secondo la propria immagine,
anzi rivela la propria multistraticità e
impenetrabilità anche contro il voler
comprendere del lettore, fino al punto
che esso mette quest’ultimo in un confronto tale con se stesso e con il proprio
passato da dover modificare la sua vita
e il suo pensiero.
II
G. DE LA TOUR, L’educazione della Vergine, 1650; Frick Collection, New York; a p. 27, particolare.
Se già ogni opera d’arte si forma il
suo lettore, tanto più lo fa la Scrittura,
parola di Dio detta all’esterno eppure
vera. In questo modo la lettura è essenziale, necessaria per l’uomo. Egli deve
orientarsi mentre legge. Egli può leggere soltanto ciò che in qualche modo già
comprende; interpreta il mondo e il testo a partire da se stesso – eppure rimane, spesso contro la propria volontà,
esposto alla possibilità che il testo lo interpreti, lo metta contro se stesso, lasci
emergere qualcosa d’inaudito al lettore.
Il circolo ermeneutico di Gadamer,
che già ha inciso profondamente sin
dentro la carne dell’esperienza e del reciproco rapporto di testo e lettore, si allarga a dismisura, si apre un solco sino
a un punto in cui il Logos e il legein, la
III
parola di Dio e l’autocomprensione
umana s’incrociano, si feriscono e catturano l’una l’altra.
Let tura come risurrezione
La lettura pertanto è e rappresenta
un atto creativo. È poiesis recettiva. Dalla mescolanza delle consonanti sorge,
sotto gli occhi del lettore, una struttura,
dall’apparente univocità si origina un
nuovo sino a quel momento inedito senso, dalla molteplicità una univocità, che
in quanto tale non apparteneva al testo.
Il vuoto si riempie, l’aspettativa viene
riscossa o delusa in modo assolutamente individuale. Il testo viene sciolto e di
nuovo ritessuto, posto in un contesto a
lui totalmente estraneo, anzi in un certo senso viene di nuovo creato.
La forza d’immaginazione di ogni
singolo lettore lo rappresenta in modo
nuovo, lo lascia sorgere in sé, lo ri-crea
insieme al suo mondo. Perciò il piacere,
la gioia e la facilità della lettura sono il
suo primo e caratterizzante segno. In
quanto processo e scoperta del contenuto, leggere reca gioia, è un diletto. Lì
non vi è nulla della tribolazione dello
scrivere, della prigionia della scrivania,
dell’imbarazzo nella scelta delle parole,
della sofferenza dell’insoddisfazione, di
cui parlano gli scrittori.
No, leggere è piacere, come cibarsi
di un piatto ricco. E contemporaneamente gioia di una poiesis, che non costa troppa fatica. Qui il lettore vive grazie alla licenza offerta dall’assenza dell’autore, che nell’opera ha preso distac-
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co da essa, congedandola per un futuro
suo proprio, il quale dipende dalla forza
di creazione e dalla capacità d’attenzione del lettore.
Allo stesso modo l’efficacia e la presenza della Bibbia dipendono dalla predicazione e dalla vita dei credenti, dei
quali Dio è diventato insieme creditore
e debitore. La Bibbia presuppone l’assenza del Logos in mezzo al suo parlare
divino-umano, in quanto essa necessita
della lettura, della testimonianza, del risuscitamento attraverso l’uomo per poter dire la sua. La lettura risuscita dal libro l’opera, la voce, il messaggio. Sono
il lavoro e la gioia del creare, un miracolo, che richiamano dal sepolcro del libro il Lazzaro della vita, del significato.
Qui sono possibili molti modi di lettura: anche superficiali e fugaci prese di
contatto, prime impressioni, soggettive
intuizioni, reali e apparenti identificazioni, riferimenti e associazioni ludici.
La lettura mette in gioco il testo, lo crea
di nuovo, lo circonda e lo ritesse e lo fa
vivere. E apre al lettore infinite e impensate possibilità di identificazione, di
ampliamento, di approfondimento della sua fantasia, della sua intelligenza, un
processo nel quale a lui stesso resta la
scelta del piano e della prospettiva della
propria collocazione nei confronti del
testo.
Leggere è passatempo attraverso la
concentrazione del tempo. Scaccia la
noia, il vuoto di un tempo frenetico,
mentre indirizza l’attenzione del lettore
e del suo vuoto verso qualcosa di nuovo,
mentre focalizza il tempo passato e perciò raccoglie anche il passeggero ora.
Leggere (legere) è una raccolta senza
troppo sforzo.
Qui si trova la più grande benedizione della lettura, la sua piccola efficacia sacramentale. Infatti i sacramenti
trasformano il modo di vedere il passato, il presente e il futuro e li lasciano apparire come presente che ha qualcosa
da dire. E cosa altro sarebbe leggere se
non un tale significare, nel quale ciò che
è lontano si incontra con ciò che è vicino? E infine leggere incanta ed estasia,
mentre sequestra il lettore via da sé verso una lontananza, una novità, un remoto, che tuttavia gli viene incontro.
Dove se non qui potrebbe accadere,
in un modo così piacevole, l’ampliamento della fantasia, il confronto con
altri mondi e l’imparentarsi dell’altro?
Ciò che Hans Urs von Balthasar chiarisce quale evento fondamentale della ri-
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velazione nella sua forma estetica, qui
diviene evento quotidiano: leggere quale piccola grazia della rivelazione, dell’apertura del mondo.
At tenzione che trasforma
Si può ora anche prendere in considerazione l’aspetto serio di una tale lettura, la sua forza e violenza espropriante. Nella lettura l’uomo non porta solo il
mondo testuale dentro di sé; si ritrova
allo stesso tempo, in un modo liberante,
ma a volte anche incalzante, fuori di sé;
deve sottoporsi a una visione e a un esame, che gli fanno perdere le proprie
coordinate e richiedono un cambiamento del proprio orientamento e del
proprio modo di vivere.
Il testo diviene volto che ci fissa, signore che ci fa prigionieri, assoluta metafora, che vuole essere compresa e tradotta nella vita, spettacolo aperto, che
richiede il coinvolgimento. Qui l’uomo
viene affetto, toccato nell’immediato
sentimento di sé ed estraniato; il modo
del suo giudicare e valutare si modifica.
È questo l’effetto catartico dei grandi
testi, che aggrediscono e modificano i
modi della presenza a sé e al mondo del
lettore.
L’autentico lettore è sprofondato
nella lettura, si lascia fare prigioniero
da essa, al fine di essere totalmente nella causa e in ciò in un modo nuovo presso di sé, al fine di fare una sosta presso
di sé e poi tornare in sé. E in questo duplice movimento egli scopre il senso
ogni volta a lui nuovo di sé e del mondo, del testo e dell’evento; meglio: la loro comune verità così lo interpella e gli
si addice.
Mondo e fede sono debitori di una
tale lettura, nella quale partecipazione
attiva e attenzione come passiva consegna e apertura del cuore, ascoltare, vedere e toccare si uniscono in modo sottile. L’interiore disposizione dell’attenzione sarebbe in realtà l’attitudine mistico-ascetica fondamentale, che oggi
soprattutto renderebbe possibile qualcosa come la fede e che nella lettura troverebbe il suo luogo naturale.
Ogni lettura vive del circolo tra attesa, pre-giudizio e corrispondenza oppure delusione. Il lettore legge sé e il
suo mondo dentro il testo, sino al punto
in cui questo lo contraddice in modo
evidente e gli impone la propria versione, la cui sorprendente novità richiede
da parte sua l’interpretazione e l’incorporamento nel lettore, in modo che
possa sorgere un mondo loro comune
sul livello della lettura, della fantasia e
della vita. Si modificano l’un l’altro e
l’uno con l’altro.
Il testo perciò non è semplicemente
da leggere, ma richiede un lavoro d’interpretazione, nel quale si rivela contemporaneamente come inesauribile.
La lettura conduce a un’esperienza con
la (precedente) esperienza, in quanto
essa mostra le condizioni, le potenze, le
svolte e i limiti di quest’ultima e incoraggia a una nuova svolta e a una nuova scoperta. Una lettura riuscita è in
quanto tale una nuova esperienza con
quella precedente del lettore e del testo.
Dobbiamo attraversare ora il cammino
di esperienza esposto nello scritto allo
stesso modo di quello del soggetto leggente.
Come ci si avvicina a un testo, come
impariamo a leggere? La più distinta
arte di avvicinamento a un libro è
senz’altro quella di un approfondito sostare presso la prefazione e l’indice, i
quali sono entrambi da meditare abbondantemente in modo che da essi
vengano alla luce il dinamismo e la logica della pubblicazione.
Entrambi infatti si danno quale indicazione e anche prima misura della
comprensione. Ove possibile si possono,
a partire da essi, formulare alcune intuizioni e questioni, per creare un tipo di
tensione dialogica tra lettore e libro. Poi
è da esercitare un ritmo di lettura almeno duplice.
Let tura: un metodo
Per prima cosa può essere significativo dare un’occhiata generale al testo,
per non fermarsi già a ogni stupidità
della quale nessun testo è privo, per
quanto possa essere grande. Tale visione generale – a volo d’uccello – serve
positivamente a immaginare la struttura fondamentale del libro, a cogliere la
sua atmosfera, il suo dinamismo, la sua
grazia, a seguirne la spinta e la direzione di movimento, la sua inclinazione.
Si tratta di prendere contatto con la
sua aura, di contemplarlo come un tutto a partire dall’occhio interiore, di percepire la sua melodia fondamentale e il
suo leitmotiv. Solo allora una precisa e
pedissequa lettura sarà sensata, se non
si vuole spremere e strappare al testo i
pochi pregiudizi e precomprensioni che
ogni lettore porta con sé. In tal modo si
colgono il sottile lavoro del testo, i punti di contatto, il rapporto tra melodia e
IV
sotto- e sopratoni, la sua legge di costruzione e le sue misure.
Il testo si mostra a questo doppio
procedere quale composizione, struttura di senso, messaggio, esattamente nella sua individualità e nella sua grandezza impersonale. Infatti quanto più importante è un libro, tanto più reca le
stigmate dell’esperienza di vita di un
autore, tanto più inesorabilmente esso è
ovviamente cresciuto attraverso e oltre
lui, vi si sono filtrate connessioni pre- e
sovrapersonali. Ogni lettura attenta coglierà infine il segreto fallimento dell’opera. Chi non vedrebbe le sconnessioni,
le incoerenze, gli strappi nel Faust di
Goethe, nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, nelle Critiche di Kant, ne
La montagna incantata di Thomas
Mann?
E a chi non mancherebbe il respiro
in vista della cascata di messianismi falliti dell’Antico Testamento oppure dell’angustia delle rispettive teologie degli
scrittori neotestamentari, i quali tutti,
rispetto al volto e al destino di Gesù, falliscono eppure in tutto questo riescono
a raffigurarli e rappresentarli? Forse addirittura l’altezza e la profondità di un
fallimento si danno insieme col nervo
centrale, con il vero contenuto, con la
forza intrinseca di un’opera.
La buona lettura conduce e costringe dunque verso una seconda e terza
lettura, vi è infatti sempre qualcosa ancora da scoprire e da leggere in controluce. La prima lettura è avvincente,
fruttuosa, toglie il respiro, ma spesso è
anche opaca, poco chiara, obliqua. La
seconda si rivela più mirata e più addestrata, scopre la direzione segreta delle
linee, coglie le tracce della messa in scena e della forza del testo, misura criticamente la propria reazione a esso, ha
chiara la reciproca influenza.
Solo ora l’orizzonte del testo e quello del lettore possono venire paragonati
e confrontati. Qui ci attira e incombe
un terzo accesso, nel quale le domande
fondamentali cui il testo risponde, il suo
rapporto con l’autore e con il suo ambiente, con la storia della sua interpretazione e il rapporto con la biografia
del lettore possono essere avvistati. L’esegesi è una tale terza lettura, la quale
analizza il testo nel particolare e lo colloca nel grande ambito della letteratura
e del divenire storico. Questo terzo stadio dell’avvicinamento non dovrebbe
mai separarsi dalle prime due tappe, se
non vuole operare in modo sterile e fa-
V
stidioso, mentre la prima lettura già in
sé possiede la sua giustificazione e il suo
diritto e – ancora di più – il suo incancellabile charme.
Infine sarebbe da salvaguardare e
sempre di nuovo da conquistare la contemporaneità di distanza e di vicinanza
tra il testo e il lettore. Qui potrebbe essere d’aiuto leggere a sé stessi a voce alta passaggi decisivi, in modo da percepire melodia e pretesa del testo. Per poi,
a occhi chiusi, ricostruire in sé stessi la
sua inclinazione di senso, la sua segreta
verità, e per così dire lasciarli emergere
dinanzi all’occhio spirituale e tenerli insieme con la verità e l’effettività della
propria vita: lo sguardo sinottico quale
punto di fuga e decisiva prospettiva
centrale di ogni lettura, che si espone
alla propria ottica e alla verità dello
scritto.
Bene-dic tio
Leggere si rivela come esercizio: e
molti testi classici della filosofia sono in
quanto tali a ciò concepiti. In questo la
Scrittura e la realtà divengono metafora l’una per l’altra, permanente e precario passaggio tra Logos e natura, Dio
e uomo, testo e vita, linguaggio e cose.
Un tale maieutico esercizio sarebbe
oggi necessario, oscillando noi tra noia
depressiva e monotonia («nulla parla
più – tutto è pesante») e maniacale stordimento di una semiotica infinita («tutto parla – tutto è leggero») e non trovando più orientamento. Nella lettura
«simbolica» accade invece la transustanziazione e transignificazione del testo, della Scrittura (che appaiono quali
messaggi di vita) nonché di una vita,
che dallo spirito della Scrittura si orienta e si rigenera. Il mondo stesso diviene
leggibile: l’uomo impara a relazionare
la sua biografia e la sua storia con le sue
letture (Ida Friederike Görres ha parlato di «provvidenza della lettura», che
guiderebbe una vita spirituale ben condotta): sorge davanti ai nostri occhi la
«mitobiografia» del singolo e dell’intera
epoca, la loro fisionomia spirituale.
La fede sorge dallo spirito di una tale lettura nella connessione e nell’incrocio tra la story della Scrittura e la biografia imposta a ogni uomo, che egli
prima di tutto è e deve pur sempre di
nuovo stendere e comprendere. E con
entrambi i modi di lettura, quello del libro e dell’esistenza, non giungiamo mai
a una fine – a nostra maledizione e a
nostra grazia, per nostra dannazione e
per nostra fortuna: la vita quale atto indefinibile di lettura di una metafora infinita, quale decifrazione di un volto,
quale comprensione sempre nuova e
sempre diversamente fallita del non
detto, di come esso si dà e si rappresenta in ogni testo, soprattutto nella sacra
Scrittura.
E forse il punto più alto di un riuscito compenetrarsi di Scrittura e vita è
dato nei Salmi, dove la parola rivolta al
lettore si fa così strada nel mezzo della
sua persona che il testo si trasforma in
preghiera, anzi in canto, che dalla sua
bocca di nuovo risale verso quello sfondo, dal quale è derivato: vera bene-dictio, in cui la spigolatura2 si trasforma in
raccolto e in parola vivente, in un buon
discorso, nel quale in modo veritiero si
parla della terra, dell’uomo e di Dio:
vera maturità, una libertà che si deve a
un liberante consenso e si rivolge in modo libero alla propria origine.
Elmar Salmann*
* Il testo è l’appendice – «La magia della lettura» tradotta dal tedesco da Armando Matteo,
assistente nazionale della FUCI – del volume a
firma del monaco benedettino p. Salmann che
sarà prossimamente pubblicato dalle EDB con il
titolo Scienza e spiritualità. Affinità elettive, seconda uscita della collana, promossa dall’Ufficio
nazionale della CEI per la pastorale universitaria, «Spiritualità dello studio».
1
Il testo fa riferimento alla ricerca dei fondamenti della metodologia teologica, sul confine tra
esegesi, dogmatica e filosofia. Sulla dialettica di
parola e scrittura: I.U. DALFERTH, «Gesprochen,
geschrieben, gedruckt. Von Vieldeutigkeit der
Schrift und der Eindeutigkeit des Wortes Gottes», in Archivio di filosofia 60(1992), 291ss; O.
BAYER, Theologie, Gütersloh 1994, 36-105; H.U.
VON BALTHASAR, «Sehen, Hören und Lesen im
Raum der Kirche», in Sponsa Verbi, Einsiedeln
1960, 484ss; è fondamentale K. HUIZING, Homo
legens. Vom Ursprung der Theologie des Lesens,
Berlin 1996 (sebbene il libro tratti più della scrittura che della lettura); ID., Das erlesene Gesicht.
Vorschule einer physiognomischen Theologie, Gütersloh 1992, 104-148.
2
In tedesco «Nachlese» significa sia «spigolatura» sia «rilettura».
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I Libri del mese si possono ordinare indicando
il numero ISBN a 12 cifre:
per telefono, chiamando lo 049.8805313;
per fax, scrivendo allo 049.686168;
per e-mail, all'indirizzo [email protected]
per posta, scrivendo a Centro Editoriale Dehoniano,
via Nosadella 6, 40123 Bologna.
Sacra Scrittura, Teologia
BIGARELLI A., PERI A. (a cura di), Il denaro, l’amore e il cielo, Edizioni
san Lorenzo, Reggio Emilia 2008, pp. 151, € 13,00. 978888071183
l vol. raccoglie quattro conferenze organizzate a Carpi sul tema
della ricchezza nella Bibbia. Si parte dal contesto profetico, in
particolare Amos e dal giudizio che i profeti hanno dato sul potere
che il denaro comporta. Poi vengono gli Atti degli apostoli, in particolare il c. 3, e la tradizione rabbinica, o, meglio ancora, i chassidim.
L’ultimo intervento è su denaro e ricchezza nella pratica e nel giudizio della Chiesa d’oggi. Gli aa. sono L. Maggi, M. Marcheselli, D.
Leoni, L. Bettazzi.
I
CASTILLO J.M., Dio e la nostra felicità, Cittadella, Assisi 2008, pp. 291,
€ 21,80. 978883080929
l termine del vol. si sintetizza il percorso compiuto: «Intendere
il sacro, il religioso, il soprannaturale in modo che, per accostar-
A
si a Dio, sia necessario disinteressarsi dell’umano, del naturale, del
profano e, soprattutto, se si tratta d’entrare in conflitto con l’umano, sarebbe lo stesso che non intendere assolutamente il Dio cristiano, il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo». La relazione che
il titolo propone fra Dio e la felicità regge sulla dimensione essenziale della fede cristiana sintetizzata nella cifra dell’incarnazione: Dio
lo si conosce e lo s’incontra in ciò che è proprio dell’essere umano,
nell’uomo Gesù. A questo è tenuta la testimonianza della Chiesa. Titoli dei cc.: «Gesù e Dio»; «Dio si fonde con l’umano»; «Uccidere il
fariseo»; «Il nome proprio di Dio»; «Il Dio della Chiesa».
GIENIUSZ A., SPREAFICO A. (a cura di), La Bibbia nelle culture dei popoli. Atti del convegno internazionale Pontificia università urbaniana
10-11 maggio 2007, Urbaniana University Press, Roma 2008, pp. 218,
€ 23,00. 978884015018
tti di un convegno organizzato dalla Pontificia università urbaniana nel maggio del 2007. Il rapporto fra Bibbia e culture è
svolto nella I parte sugli aspetti fondamentali della traduzione sia
per l’Antico sia per il Nuovo Testamento. La II è relativa alla Parola
comunicata, quindi alla catechesi, e si rifà ad alcuni esempi di approccio e adattamento della Scrittura in contesti asiatici, africani e
latinoamericani. La III è riferita alla Biblia pauperum e cioè all’arte
pittorica come ermeneutica (il tema delle icone e il ciclo di Monreale in particolare). Infine il rapporto della Bibbia con la cultura occidentale e in particolare con il teatro del Novecento.
A
GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie su Davide e Saul, Città nuova, Roma
2008, pp. 138, € 11,00. 978883118200
ll’interno della vasta produzione di Giovanni Crisostomo (344407) le tre omelie De Davide et Saule, verosimilmente pronunciate ad Antiochia nel 387, costituiscono un ciclo di predicazione dai
toni particolari. L’argomento è l’ira che spinge alla vendetta e le
virtù a essa contrapposte (pazienza, mitezza, benignità) che invece
muovono al perdono. I passi biblici di riferimento sono i cc. 16-30
del Primo libro di Samuele. Nell’efficace contrapposizione fra Davide, esempio di benevolenza e perdono, e Saul, esempio di uomo
vendicativo, si costruisce una catechesi efficace. In essa entrano anche molti elementi dei costumi e delle sensibilità del tempo: dai piaceri più coltivati ai giochi olimpici, dalle vicende domestiche alle
prassi liturgiche. Traduzione e note sono di Francesca Prometea Barone. N. 200 della collana «Testi patristici».
A
HEISIG J.W., Il gemello di Gesù. Commento al Vangelo di Tommaso, Il
pozzo di Giacobbe, Trapani 2008, pp. 143, € 15,00. 978886124048
L’
Vangelo di Tommaso
a., filosofo attivo negli Stati Uniti, in America Latina e in Giappone, propone uno studio del celebre apocrifo noto come
. Le tesi di fondo sono che il testo non apparterrebbe alla tradizione gnostica dov’è comunemente collocato; che vi
è in esso una sorprendente rivalutazione dei sensi come parte dell’autocoscienza umana; e che permette un avvicinamento reale con
le tradizioni religiose asiatiche e buddhiste in particolare. Dopo alcune pagine d’introduzione generale si commentano uno per uno i
114 detti che compongono l’opera. L’allusione al «gemello» contenuta nel titolo è relativa all’autore dello scritto apocrifo, ma anche
al destino di ogni discepolo.
MELINA L., NORIEGA J., PÉREZ-SOBA J.J., Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2008, pp.
678, € 42,00. 978888272348
i autodefinisce come «nuovo manuale di teologia morale». Se la
morale è la collaborazione dell’agire umano e dell’agire divino
nella realizzazione piena dell’uomo, la trattazione teologica deve da
un lato rispondere al dibattito culturale coevo e dall’altro offrire
una riflessione scientifica, intimamente connessa con la teologia biblica e la dogmatica. Oggetto peculiare di ricerca è l’indagine sui
nessi costitutivi tra libertà e verità e tra fede e morale. I testi di riferimento sono le encicliche Veritatis splendor di Giovanni Paolo II e
Deus caritas est di Benedetto XVI. I tre cc. iniziali sono dedicati alla
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VI
comprensione dell’oggetto, delle fonti e del metodo della teologia
morale. Seguono tre parti relative a Cristo come senso ultimo dell’esperienza morale cristiana, alla costituzione del soggetto morale cristiano nella sequela, all’agire eccellente cristiano come frutto della
comunione fraterna nell’eucaristia.
PITTA A., Paolo, la Scrittura e la Legge. Antiche e nuove prospettive,
EDB, Bologna 2009, pp. 259, € 27,40. 978881041008
tre termini del titolo costituiscono il «campo minato» dell’esegesi
paolina, in riferimento sia all’interpretazione dei testi sia al ritratto dell’Apostolo. Dagli anni Settanta questo campo ha iniziato a mutare contorni, a opera degli studi sviluppati nel mondo angloamericano e definiti come New Perspective. Gli ambiti principali di tali ricerche riguardano: il giudaismo come religione non del legalismo e
settaria, bensì del nomismo del patto e universale; il Common Judaism e i giudaismi; il movimento cristiano e i cristianismi; la separazione delle vie tra giudaismo e cristianesimo; il contesto storico-sociale
delle comunità paoline; il rhetorical criticism, che dà la priorità alla
disposizione originale scelta da Paolo nelle sue lettere; i diversi gradi d’intertestualità tra le citazioni bibliche, i contesti di partenza
(l’AT) e quelli di approdo (Paolo e le sue comunità); la detronizzazione della giustificazione per la sola fede e il partecipazionismo dell’essere in Cristo; il tentativo di «deluteranizzare» Paolo; la decostruzione e la ricostruzione della teologia degli avversari; la rilevanza e
l’irrilevanza della Legge nell’etica paolina.
I
PROPPER T., Vangelo, ragione, libertà. Lineamenti di un’ermeneutica
teologica, EDB, Bologna 2009, pp. 407, € 30,00. 978881041513
l programma della modernità è compatibile con il disegno di
un’antropologia teologicamente proponibile? A questa domanda
il libro tende a dare una risposta positiva. Con analisi molto fine e
mediante un percorso certamente esigente, i cc. del vol. costruiscono i tasselli di un mosaico che alla fine potrà rendere ragione della
plausibilità di un autentico rapporto tra teologia e filosofia, tra una
visione moderna – cioè critica e autonoma – di uomo e di mondo e
l’articolazione teologica della stessa, ancorata nel Vangelo e capace
di riscatto della ragione e della libertà da quei possibili eccessi che
pure devono essere tenuti in considerazione per non far scivolare la
vicenda della modernità in un mito alla fine rivolto drammaticamente contro l’uomo stesso.
I
STAGLIANÒ A., Ecce homo. La persona, l’idea di cultura e la «questione antropologica» in papa Wojtyla, Cantagalli, Siena 2008, pp. 197,
€ 13,50. 978888272368
L’
a. si applica alla ricostruzione dell’antropologia umanistica di
Giovanni Paolo II. La sua visione di uomo scopre sistematicamente il valore immanente della persona in quanto tale, ne apprezza la dignità inalienabile, fondata sul suo essere soggetto portatore
della trascendenza e ne esalta l’autonomia. Il percorso parte dalla
questione antropologica nel magistero per poi sviluppare l’idea di
cultura propria del papa. L’elaborazione di una vera e propria metafisica della persona permette di riconoscere nel cristianesimo
un’antropologia compiuta. Patrimonio essenziale per affrontare le
nuove questioni imposte dalla tecnica e dal pensiero.
DONAHUE J.R., HARRINGTON D.J., Il Vangelo di Marco, LDC, Leumann
(TO) 2006, pp. 435, € 32,00. 978880102826
ROSSÉ G., Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in
Paolo e Marco, Città nuova, Roma 2006, pp. 124, € 10,00.
978883113629
SABETTA A., Dal senso cercato al senso donato. Pensare la ragione nell’orizzonte della fede, Pontificia Università Lateranense, Città del
Vaticano 2007, pp. 189, € 15,00. 978884650596
TRISOGLIO F., Il Vangelo di Marco. Alla luce dei Padri della Chiesa,
Città nuova, Roma 2006, pp. 340, € 14,00. 978883113778
VII
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33
Pastorale, Catechesi, Liturgia
BARESI V., FORNASINI F., Oratori possibili. Un percorso progettuale per
gestire con competenza e passione oratori e centri giovanili, LDC,
Leumann (TO) 2008, pp. 142, € 12,00. 978880104104
uno «strumento operativo e gestionale per progettare l’impegno educativo negli spazi d’aggregazione. Rappresenta un metodo di lavoro… Consente di organizzare tanti tipi di oratorio diversi per complessità e caratteristiche». Si snoda intorno a tre linee guida: l’accoglienza («I cortilai») attraverso la cura dell’ambiente e l’attenzione al clima educativo; la ricerca di senso («Vieni e vedrai»), in
cui si cerca di rendere significativo per i ragazzi l’oratorio come un
vero e proprio «laboratorio di speranza»; e l’orientamento vocazionale («La scelta»), che prepara i ragazzi alle scelte di vita responsabili come cittadini attivi e solidali, una volta usciti dall’oratorio.
È
FARRONATO P. (a cura di), Dalla parte di Sara. Per un’interpretazione
femminista delle Scritture, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in
Cariano (VR) 2008, pp. 230, € 14,50. 978886099046
l vol. nasce all’interno del Coordinamento nazionale dei gruppi
di lettura popolare della Bibbia in Italia, nel solco delle esperienze ecclesiali di base sorte nel postconcilio e vicino all’approccio della teologia della liberazione. L’ottica è dichiaratamente femminista,
ma nella resistenza femminile all’oppressione patriarcale vuole includere il punto di vista di tutti gli oppressi. Il taglio «militante» dell’opera e l’impressione, qua e là, di déjà vu, non deprime l’interesse
di talune suggestioni, soprattutto nella parte finale («Percorsi»), dove si incontrano esempi di lettura biblica e spunti per il lavoro di
gruppo.
I
L
ibri del mese / schede
MAGGIONI B., Il racconto di Marco, Cittadella, Assisi 2008, pp. 302, €
13,80. 978883080902
a I edizione del vol. è del 1976, più volte ristampata. L’attuale è
una ripresa del lavoro e un suo aggiornamento. Trent’anni di vita e capacità di rinnovamento dicono che un commento del testo di
Marco alla portata di molti abbia una precisa funzione nelle comunità cristiane. Poche pagine introduttive per esaurire questioni come autore e datazione, struttura letteraria, narrazione, teologia ecc.
Poi si entra direttamente nel racconto con un commento organico
ed essenziale per ogni pericope. Alla ricerca – come specifica l’a.
nella Prefazione – non della complessità, ma di quella semplicità e
bellezza che s’incontrano con immediatezza e che costituiscono la
vera profondità della lettura.
L
POLLANO G., Donna riflesso di Cristo. Come valorizzare il meglio della
donna a partire dalla Mulieris dignitatem, Effatà, Cantalupa (TO)
2008, pp. 110, € 8,50. 978887402387
esto di spiritualità che rielabora il contenuto di sette incontri di
formazione sulla Mulieris dignitatem tenuti alle Figlie di Maria
santissima regina delle madri, e da queste curato senza revisione dell’a. Ogni c. commenta con linguaggio semplice e discorsivo capitoli
scelti della lettera apostolica, evidenziando le caratteristiche grazie
alle quali la donna è al cuore dell’evento della salvezza. In calce ai
singoli cc., altrettanti «medaglioni» di donne esemplari, da Maria di
Nazaret a Edith Stein. L’a. è prete torinese in servizio presso il santuario della Consolata.
T
VIRGILI R., Le stanze dell’amore. Amore, coppia, matrimonio nella
Bibbia, Cittadella, Assisi 2008, pp. 288, € 17,50. 978883080890
L’
a., biblista e docente presso l’Istituto teologico marchigiano
di Ancona, introduce il lettore nelle stanze più intimamente
nobili dell’essere umano: quelle dell’amore. «Ambienti» metaforici
che gelosamente custodiscono i momenti più limpidi e misteriosi
del vissuto di una coppia o di una famiglia letti con l’ausilio delle
pagine della Bibbia. È a partire da situazioni tratte dall’Antico e dal
Nuovo Testamento che l’a. coglie l’occasione per meditare sull’esperienza centrale di ogni essere umano sia esso uomo, donna, figlio, figlia: l’amore. Quest’ultimo nel rischio e nella passione trova
la possibilità di un linguaggio universale in grado di coinvolgere
Dio stesso.
ANGELINI G., Se vuoi essere perfetto.... Omelie dell’anno A, Glossa,
Milano 2007, pp. 457, € 28,00. 978887105236
CAPOCCIA L., Andate a due a due. Le domeniche dell’anno liturgico B
nelle poesie-preghiere di un fedele laico che s’interroga, Aracne,
Roma 2008, pp. 177, € 14,00. 978885482083
CAPOCCIA L., Io di Emmaus. Le domeniche dell’anno liturgico A nelle
poesie-preghiere di un laico fedele che si interroga, Rubbettino,
Soveria Mannelli (CZ) 2007, pp. 175, € 10,00. 978884981936
FERRERO B., MARTISKA J., Anche la Bibbia nel suo piccolo, LDC,
Leumann (TO) 2008, pp. 85, € 12,00. 978880104045
GALLI L., MEREGALLI A., Punto a capo. Sul sacramento della riconciliazione, Cooperativa In Dialogo, Milano 2006, pp. 137, € 7,00.
978888123434
SANTUARIO NOTRE-DAME DE MONTLIGEON, Sulla morte e l’aldilà. 35
domande - 35 risposte, EMP - Edizioni Messaggero Padova, Padova
2007, pp. 141, € 8,00. 978882501791
SEMERARO M.D., Messa quotidiana/febbraio 2009. Riflessioni di fratel
MichaelDavide, EDB, Bologna 2008, pp. 281, € 3,50. 978881071330
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VIII
Spiritualità
C
CHESTERTON G.K., San Francesco d’Assisi, Lindau, Torino 2008, pp.
163, € 14,00. 978887180725
ilbert K. Chesterton (1874-1936) scrisse questo profilo di san
Francesco all’indomani della sua conversione al cattolicesimo
nel 1923. Con una scrittura di grande qualità letteraria e una vena
ironica e umoristica anglosassone entra nella vicenda francescana
con l’intento di raccontare l’unità e il nucleo incandescente della
coscienza del santo. I molti fioretti, le apparenti incongruenze, le
scelte ipoteticamente contraddittorie si fondono in una santità che
non ammette né il distacco dell’agnostico, né la supponenza dello
storico di professione. Un racconto di un «simpatizzante profano»
che mantiene ancora oggi il suo fascino.
G
CITTERIO E., L’intelligenza spirituale delle Scritture, EDB, Bologna
2009, pp. 359, € 31,50. 978881054133
L’
a. dichiara in apertura che registra «una percezione di fondo
molto diffusa: sembra che qualcosa ci manchi. Che cosa? Il
percorso delineato cercherà proprio di individuare e rendere ragione di quello che ci manca nell’accostarci alle Scritture e tenterà di
fornire indicazioni per favorirne l’accesso e dare riposta alla domanda dei cuori» (dall’Introduzione). Avvalendosi della grande tradizione spirituale della Chiesa, che nei secoli ha letto e vissuto la parola
di Dio, il percorso si snoda in sette tappe, ognuna suddivisa in due
momenti: il primo di riflessione e approfondimento, il secondo di
suggerimenti pratici.
FRATERNITÀ MONASTICA DI MONTECROCE, Sono io che ti parlo. La lectio
divina con i padri della Chiesa, Città nuova, Roma 2008, pp. 176,
€ 12,50. 978883114411
ontecroce è il colle del Monferrato su cui, agli inizi degli anni
Settanta, p. Arturo Giaccone ha iniziato, seguito poi da altre
persone, a rivivere l’esperienza orante e austera dei primi monaci.
Di quel luogo ha mantenuto il nome la Fraternità, che oggi vive tra
i boschi che circondano un vecchio santuario, a S. Valeriano di Cumiana (TO). Centrata come carisma sulla lectio divina, in questo bel
testo insegna, attraverso l’esperienza propria e dei padri della Chiesa, a entrare nel cuore di questa modalità d’accostarsi alla Scrittura.
M
GOBBI L., Lessico della gioia, Servitium, Sotto il Monte (BG) 22008,
pp. 87, € 9,50. 978888166301
l breve saggio riprende il testo dell’edizione del 1998, riproponendolo con diffusi aggiustamenti stilistici. L’intento dell’a. è di
condurre il lettore alla scoperta della realtà della gioia, indagandone espressioni letterarie e linguistiche nella cultura europea attraverso etimologie, testi poetici, filosofici e mistici, riflessioni e attualizzazioni. Le riflessioni coinvolgono poeti come Hölderlin e Leopardi e scrittori come Katherine Mansfield, Montale e Proust, ma anche san Francesco e Jacopone da Todi.
I
MARTINELLI P. (a cura di), Parola di Dio, vita spirituale e francescanesimo, EDB, Bologna 2009, pp. 158, s.i.p. 978881054113
utti gli scritti di san Francesco – dalle preghiere alle regole, passando per le lettere e le ammonizioni – sono ricchi di citazioni
bibliche, fino a presentarsi come veri e propri mosaici scritturistici.
Pensata in vista del Sinodo dei vescovi sulla parola di Dio (ottobre
2008), l’ormai tradizionale giornata di studio annualmente promossa dall’Istituto francescano di spiritualità della Pontificia università
Antonianum si concentra sul ruolo della Parola, affinché essa fecondi maggiormente la vita spirituale delle varie famiglie francescane.
T
PANIKKAR R., Opera omnia/I. Mistica e spiritualità. 1. Mistica, pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008, pp. 2008, € 45,00. 978881640820
IX
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on intelligenza e coraggio l’editore avvia l’opera omnia di un originale pensatore e teologo capace d’attraversare molti territori
religiosi e temperie culturali. Il dato essenziale del tomo in questione è la mistica. Essa non è intesa come una specializzazione o un dato d’eccezione, ma come un’essenziale e comune dimensione antropologica; qualcosa che appartiene all’essere umano in quanto tale.
La mistica è quindi un vettore positivo dell’umanizzazione più che
un luogo specializzato di spiritualità confessionali. La I parte del vol.
è ispirata alla «nuova innocenza», all’atteggiamento riflessivo che
non si nutre dell’armamentario metafisico, quanto della percezione
libera e spontanea di sé. La II verte invece sulla meditazione e su figure emblematiche come Chiara, Giovanni della Croce e Teresa
d’Avila. La III è invece dedicata espressamente all’esperienza mistica. La cura del tomo è di Milena Carrara Pavan.
PIPER J., La supremazia di Dio nella predicazione, Alfa & Omega,
Caltanissetta 2008, pp. 95, € 9,90. 978888874773
ettembre 1966: un giovane studente alla vigilia della laurea in letteratura al Wheaton College fu confinato dal medico in infermeria per tre settimane per via di una grave forma di mononucleosi. In
quel periodo egli ebbe la ventura di sentire dalla stazione radio universitaria i sermoni di un noto predicatore: lo ascoltò e la sua vita
mutò direzione definitivamente. A distanza di decenni egli ricorda
ancora il forte desiderio che lo catturò: quello di conoscere ed
esporre come quel predicatore il Verbo di Dio. Il libro si propone di
trasmettere il desiderio di predicare debellando una visione al tempo stesso egocentrica e stanca del ministero della Parola. Testo utile
per capire la prospettiva del risveglio evangelico americano contemporaneo.
S
L
ibri del mese / schede
REGNAULT L., Il deserto parla. Vite nascoste in Dio e aperte al prossimo, Qiqajon, Magnano (BI) 2008, pp. 183, € 12,50. 978888227252
n monaco di Solesmes, che ha dedicato la propria esistenza monastica alla traduzione e divulgazione del patrimonio spirituale
dei padri del deserto, racconta e commenta gli «apoftegmi» dei primi eremiti del deserto egiziano, cioè quelle brevi composizioni che
riportano le risposte sapienti di un maestro al discepolo che lo interroga. I padri considerati sono: Antonio, amma (madre) Sarra, Macario di Scete, Arsenio, Matoes, Alonio, Isidoro, abba Mosè e il suo discepolo Zaccaria, Giovanni il nano, Ammonas, Marco, Sisoes.
U
PANIKKAR R., Opera omnia/IX/1. Mito, simbolo, culto. Mistero ed
ermeneutica. Tomo 1, Jaca Book, Milano 2008, pp. XX+445, € 52,00.
978881640847
PANONT A., La colpa che merita, EMP - Edizioni Messaggero, Padova
2007, pp. 127, € 5,00. 978882501899
SCHOEPFLIN M. (a cura di), 100 pagine dell’Abbé Pierre. Chi può dormire in pace?, Città nuova, Roma 2007, pp. 100, € 6,50. 978883114269
Storia della Chiesa
HULSE E., Chi sono i puritani? E cosa c’insegnano?, Alfa & Omega,
Caltanissetta 2008, pp. 255, € 19,50. 978888874775
el Seicento inglese coloro che vollero «purificare» la Chiesa
d’Inghilterra da tutto ciò che era ancora frutto della teologia e
dell’ecclesiologia cattolica vennero chiamati puritani. Essi, con la loro azione politica e sociale tesa alla sola gloria di Dio, influenzarono
profondamente l’intera storia della civiltà occidentale. L’a., pastore
nel Regno Unito della Reformed Baptist Church di Leeds, con questo suo agile vol. tratteggia la loro storia e le varie generazioni che si
sono succedute, individuando alcuni personaggi storici che tuttora
affascinano per la loro esperienza vissuta, sulle due sponde dell’Atlantico, nel tentativo di produrre una vita santa e stabile in qualsiasi ambito geografico, sotto qualsiasi condizione politica.
N
LUGARESI L., Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo), Morcelliana, Brescia 2008, pp. 895,
€ 40,00. 978883722257
l rifiuto da parte del cristianesimo antico degli spettacoli pubblici
è stato troppo generalizzato e radicale per essere risolto in poche
battute. Ai tradizionali motivi che vengono richiamati a giustificazione di tale opposizione, e cioè il pericolo d’idolatria connesso allo
spettacolo e l’immoralità del messaggio che spesso veicola, ne va aggiunto un terzo, per certi aspetti decisivo. Lo enuncia in particolare
Tertulliano, parlando del contrasto fra lo spettacolo e la ratio veritatis della creazione: esso propone una realtà fittizia. Attorno a questo
nodo che gli autori cristiani del II-IV sec. vedono come un pericolo
per la coscienza ecclesiale, si sviluppa l’approfondito lavoro dell’a.
Alle critiche già presenti nell’intelligenza classica il cristianesimo aggiunge la denuncia della scissione fra verità e finzione che lo spettacolo induce, frattura che si realizza anche fra attore e spettatore. Il
venire meno della verità dei fatti attenta direttamente al dramma
della salvezza di Dio nei confronti dell’uomo. A una prima presentazione degli spettacoli organizzati dal potere pubblico in questi secoli segue l’analisi delle principali critiche e delle difese già presenti
nella pubblicistica pagana. L’apparire del giudizio cristiano sui « l udi» sviluppa il contrasto di fondo nell’opposizione vanitas-veritas,
che riappare anche nella tradizione alessandrina.
I
RACINE P. (a cura di), Storia della diocesi di Piacenza/II. Il Medioevo.
Dalle origini all’anno mille, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 335,
€ 26,00. 978883722287
36
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X
A
ll’interno delle storie delle diocesi italiane quella di Piacenza
si raccomanda per ampiezza e qualità. È infatti prevista in 4
voll. (i primi due divisi in due tomi) e comprende le fonti e il racconto dell’intera vicenda storica. L’attuale tomo copre lo spazio
dall’origine all’anno 1000 e, oltre all’attenzione istituzionale e alla
successione dei vescovi, esso si arricchisce di trattazioni settoriali e
importanti. I 7 cc. vanno dall’origine all’espansione territoriale del
cristianesimo sul territorio, dalle prime strutture alle testimonianze archivistiche sulla diocesi e la cattedrale, dalla nascita della città
cristiana alla vita religiosa del popolo (liturgia e pellegrinaggi), dal
monachesimo di Bobbio alle presenze monastiche diffuse, dai riflessi locali dell’annunciata riforma gregoriana all’elenco dei vescovi. Testo di studio.
Attualità ecclesiale
ARCIDIOCESI DI CHIETI-VASTO, Una Chiesa pellegrina sulla via della bellezza. Libro del Sinodo, Chieti 2007, pp. 246, s.i.p.
a pubblicistica interna alla diocesi si è molto allargata oltre alle
lettere pastorali dei vescovi. Uno di questi allargamenti significativi sono dati dai libri sinodali, i testi che sintetizzano i lavori delle
assemblee e dei processi sinodali. Questo in esame è relativo alla
Chiesa di Chieti-Vasto e porta la firma del promulgatore, il vescovo
mons. Bruno Forte. L’immagine della Chiesa secondo la sensibilità
conciliare porta a indicare le mete intermedie più urgenti del percorso a cui il popolo di Dio è chiamato e a definire le opzioni pastorali su cui impegnare le comunità locali. L’ultima parte è una sorta
d’inno alla bellezza, al Dio Trinità, grembo e ultima meta dell’attesa ecclesiale. 180 punti che fissano l’immagine di una Chiesa locale
e di un magistero episcopale.
L
BERTI P., Padre Raffaele. Un seminatore di gioia, EDB, Bologna 2008,
pp. 170, € 21,00. 978881050971
L’
apertura della fase diocesana del processo di beatificazione del
servo di Dio p. Raffaele da Mestre, cappuccino, è l’occasione
che ha spinto l’a. a riprendere in mano la sua prima biografia, da
tempo esaurita. La memoria del servo di Dio che egli consegna è un
racconto vivo, ricco e caldo, perché l’a. è stato accompagnato come
postulante cappuccino proprio dal p. Raffaele.
GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO (a cura di), Libertà
religiosa e rapporti Chiesa - società politiche. XXXIII Incontro di
Studio Hotel Planibel di La Thuile (AO) 3-7 luglio 2006, Glossa,
Milano 2007, pp. 251, € 22,00. 978887105230
scono come n. 15 dei «Quaderni della Mendola» a cura del
Gruppo italiano docenti di Diritto canonico gli atti del convegno nazionale del 2006. Il tema del rapporto Chiesa e società politiche custodisce la cura della Chiesa di preservare la libertà d’adempiere il suo mandato d’evangelizzazione e si configura oggi come difesa complessiva della libertà di religione. In tale quadro i saggi raccolgono da un lato le riflessioni su alcuni riferimenti conciliari essenziali e dall’altro alcuni esempi del percorso storico dell’ultimo secolo (in particolare gli USA), oltre a specifiche annotazioni sul tema
del Concordato italiano (e alla situazione europea).
E
MANARESI L., LAVELLI B. (a cura di), Insieme per servire. La collaborazione apostolica tra religiosi e laici nell’esperienza della Compagnia
di Gesù, Pardes Edizioni, Bologna 2007, pp. 80, € 7,00. 978888924140
a collaborazione tra laici e religiosi è uno dei temi che la Compagnia di Gesù ha posto al centro della Congregazione generale del gennaio 2008. Questo si colloca nel contesto di un’attenzione
al tema che ha portato anche la Provincia d’Italia ad avviare un processo di riflessione e azione attraverso un’indagine, un convegno –
«Insieme per servire» (ottobre 2006) – del quale questo volumetto
L
XI
IL REGNO -
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37
pubblica le relazioni e una sintesi dei lavori di gruppo, e l’attivazione di una Segreteria laici-gesuiti per seguire l’evolversi del dibattito.
PICCOLOMINI R., MONOPOLI N., Vita di papa Giovanni Paolo II. A te
Maria ripeto: «Totus tuus», EMP - Edizioni Messaggero, Padova
2008, pp. 489, € 25,00. 978882501923
l libro si compone di tre parti. Nella I si racconta la vita di Wojtyla fino all’elezione papale. La II racchiude il suo pontificato suddividendolo in tre grandi stagioni, con la narrazione delle opere e
dei viaggi papali. La III riflette analiticamente su alcuni temi del
pontificato, in particolare sulla modernità, la devozione mariana, la
pace, le donne, i giovani, la santità e la sofferenza. In appendice alcuni materiali relativi al processo di canonizzazione in atto.
I
PICHON F., Viaggio fra i cristiani d’Oriente, Lindau, Torino 2008, pp.
212, € 19,00. 978887180724
iario di un viaggio con la famiglia dal Libano alla Grecia attraverso la Siria e la Turchia durato due anni, nell’arco dei quali
l’a., oggi insegnante di liceo nella periferia di Parigi, è stato accolto
in famiglie cristiane di lingua araba e ha cercato di entrare nella loro vita, cogliendone l’anima profonda e molteplice, condividendone la millenaria cultura e le preoccupazioni per il futuro. «È curioso come alcuni cristiani occidentali e alcuni musulmani locali commettano lo stesso errore, così funesto per la sorte di questi cristiani,
che consiste nel farne un residuo delle crociate, un corpo estraneo
in Oriente, e ciò al prezzo di una manipolazione involontaria della
storia. Questi cristiani sono gli eredi dei primi abitanti della regione
prima della conquista araba e fino al X secolo d.C. hanno rappresentato la maggioranza».
D
L
ibri del mese / schede
SCATENA S., In populo pauperum. La Chiesa latinoamericana dal
Concilio a Medellín (1962-1968), Il Mulino, Bologna 2008, pp.
XVIII+545, € 35,00. 978881512140
VALLI A.M., Il mio Karol. Così ho raccontato Giovanni Paolo II. Così
lui ha parlato a me, Paoline, Milano 2008, pp. 316, € 24,00.
«N
ella sua eccellente e puntuale ricerca, Silvia Scatena ha seguito passo passo le origini di Medellín e la sua preparazione, consultando fonti molto diverse e raccogliendo numerose testimonianze. Leggendo questo lavoro, anche chi ha avuto l’opportunità di partecipare a quell’esperienza impara molto del percorso che
ha portato alla conferenza, così come dell’elaborazione dei testi e
delle sue conclusioni. Questo vol. appare dunque imprescindibile
per valutare il significato di Medellín e va accolto con un sincero ringraziamento per le informazioni e gli stimoli che ci offre» (dalla Prefazione di G. Gutiérrez).
I
SEMERIA G., Anni terribili. Memorie inedite di un «modernista» ortodosso (1903-1913), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 350,
€ 19,50. 978882156181
l diario inedito di Giovanni Semeria (1867-1931) affronta tematiche significative nel periodo che va dalla breccia di Porta Pia
(1870) alla Conciliazione (1929), date in cui sembra iscriversi idealmente la sua vita. «Si può dire che non ci sia stato settore che egli
non abbia raggiunto con la sua instancabile azione: l’applicazione
del metodo storico-critico alla Bibbia; … il ritorno a una pietà liturgica; la traduzione in lingua viva di parti della messa; la riforma del
clero; la formazione del laicato; l’avversione all’antisemitismo; la
piena validità degli ideali democratici-cristiani; la qualificazione della donna». È in corso la causa di canonizzazione.
CAMMILLERI R., Il dottor carità. Vita di san Riccardo Pampuri,
Piemme, Casale Monferrato (AL) 2007, pp. 223, € 12,50.
I
978883153414
l racconto che Aldo Maria Valli sviluppa sul pontificato di Giovanni Paolo II è ricco non solo degli eventi e dei tratti giornalistici
che uno si aspetta da chi ha potuto seguirlo nei suoi viaggi, ma si allarga ai luoghi e ai momenti storici che la sua persona ha attraversato. Fino a diventare parte di una narrazione personale che unifica i
molti aspetti indicati nella propria convinzione personale. Così il papa di Roma diventa il «mio Karol».
BETTAZZI L., La Chiesa dei poveri nel Concilio e oggi, Pazzini, Villa
Verucchio (RN) 2001, pp. 75, € 10,32. 978888512481
978883848828
HAUB R., Rupert Mayer. L’impegno per la Verità, ADP - Apostolato
della preghiera, Roma 2005, pp. 149, € 10,00. 978887357384
PICICCO A., I roghi accesi dal maestro. La cultura nell’azione pastorale
del vescovo Tonino Bello, Ed Insieme, Terlizzi (BA) 2007, pp. 124,
€ 7,50. 97887602053
Filosofia
CATURELLI A., Michele Federico Sciacca. Metafisica dell’integralità,
Ares, Milano 2008, pp. 647, € 28,00. 97888155421
L’
a. è un filosofo argentino e amico di Sciacca (1908-1975). Sul
finire degli anni Ottanta ha steso quest’ampia introduzione al
pensiero dello spiritualista italiano, rielaborando una precedente
opera della fine degli anni Cinquanta. È considerata la più ampia, rigorosa e documentata presentazione del percorso filosofico di Sciacca: dall’attualismo di Gentile allo spiritualismo critico, dallo spiritualismo critico allo spiritualismo cristiano, dallo spiritualismo cristiano
alla filosofia dell’integralità. Essa significa la fondazione e l’articolazione di una metafisica dell’interiorità, ossia della strutturazione laica dell’umanesimo cristiano come unico umanesimo autentico, integrale e costruttivamente coerente. La fondazione metafisica della
morale, del diritto, della politica, dell’economia, dell’estetica e delle scienze consente di affrontare in forma nuova i problemi dell’esistenza di Dio, della libertà e dell’immortalità.
DE CERTEAU M., Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano
2008, pp. 369, € 34,00. 978881640797
ckart, Silesius, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila e dietro di
loro un corteo di anonimi folli, di donne, di illetterati, di eremiti: sono i portavoce della parola mistica che irrompe sulla scena della storia sconvolgendo i bastioni della nostra razionalità, derisa e
messa a nudo ad esempio dal giardino, fantastico e delirante, delle
delizie di Hieronymus Bosch. In questo suo capolavoro l’a., gesuita
dalla solida e poliedrica formazione culturale oltreché collaboratore dell’École freudienne di Parigi fondata da Jacques Lacan nel
1964, si cimenta in un confronto tra più linguaggi che è in grado di
farci osservare, certamente non capire, i sentieri, le possibili fughe
in avanti verso un «altrove» e un «desiderio» che riescono a indirizzarci verso l’assoluto. Un assoluto che si pone sempre più come nostalgia di un’inafferrabile origine a cui l’uomo non sa rinunciare.
2
E
IANNOTTA D. (a cura di), Paul Ricoeur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Effatà, Cantalupa (TO) 2008, pp. 254, € 13,00. 978887402415
li aa. del vol. sono tutti rimasti in un qualche modo affascinati
da colui che a buon diritto chiamano semplicemente il Maestro, perché effettivamente Paul Ricoeur è stato tale nel secondo No-
G
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vecento. Tutti i contributi raccolti dall’edizione illustrano il legame
che intercorre tra la convinzione e l’etica, piani che costituiscono un
binomio nel quale quest’ultima riveste basilare importanza. Inoltre
essi si soffermano riflettendo sull’agire etico nel cui orizzonte il «giusto» determina la qualità positiva dell’azione stessa. Riflessioni, approfondimenti che hanno nei brani inediti in lingua italiana del
grande filosofo francese una sponda costantemente presente.
PETROSINO S., Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia
non è il business, Jaca Book, Milano 2008, pp. 167, € 17,00.
978881640806
C
on rigore filosofico e riferimenti umanistici e fenomenologici
l’a., docente alla Cattolica di Milano, affronta il tema del luogo
ove il singolo abita. La determinazione che l’abitante ha sull’abitato
determina il modo d’essere e la curvatura propria assunta dallo spazio. Abitare infatti significa prendersi cura, e cioè dominare, ordinare, nominare o, in senso biblico, coltivare e custodire. Ma questo incessante sforzo di calibrare la casa sull’economia, o meglio sulla giusta misura, innesta un circuito fra singolo, economia, e giustizia che
non trova mai definitivo appagamento. Anzi è sempre sollecitato a invertire il possesso in possessione, la casa in torre o in tana, la giustizia
in perversione. L’uomo, infatti, non è ancora veramente a casa.
TRINCIA F.S. , Husserl, Freud. E il problema dell’inconscio,
Morcelliana, Brescia 2008, pp. 310, € 21,00. 978883722233
possibile una teoria fenomenologica della soggettività? Per rispondere all’interrogativo, la speculazione filosofica dell’a. incrocia la riflessione di Husserl e di Freud. L’«oscurità del soggetto»
del primo lascia spazio per un recupero dell’«inconscio» del secondo, ma con un mutamento radicale della prospettiva dell’uno e dell’altro. Nella I parte il riferimento privilegiato è a Husserl e l’intento è quello di arrivare alla costruzione di una teoria della soggettività. La II costruisce una teoria fenomenologica dell’inconscio. La
III costituisce la fuoriuscita dalle appartenenze di scuola dove la teoria dell’inconscio e la costruzione della soggettività giunge al paradosso di una soggettività conscia e insieme inconscia, a conferma di
una vicinanza incolmabile fra inconscio freudiano e inconscio husserliano.
È
FERRI P., Bioetica, ambiente e salute. Alla ricerca di un possibile
modello di salute, Monte Università Parma, Parma 2007, pp. 283,
€ 14,00. 978887847175
RICOEUR P., Etica e morale, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 115,
€ 10,50. 978883722074
STOMBELLI P. M., Da Lucignolo a Pinocchio. Il viaggio dell’uomo dalla
naturalità assoluta alla socialità necessaria, Firenze Atheneum,
Firenze 2005, pp. 107, € 11,80. 978887255276
Storia, Saggistica
BONTEMPI F., La nuova comunità. Presenza ebraica a Brescia in età
moderna e contemporanea, Società per lo studio della storia ebraica, Brescia 2008, pp. 224, s.i.p.
13 anni dal I vol. che studiava la presenza ebraica a Brescia fino
alla fine del Rinascimento, l’attuale, frutto della collaborazione
di vari studiosi, analizza il periodo che va dal 1580, anno in cui viene ristabilita la comunità ebraica dopo l’espulsione del 1572, al XX
secolo. Scopo ultimo dell’opera è capovolgere quella «volontà di
oscuramento» dell’influenza ebraica nella cultura bresciana e di dare conto dei tanti legami filosemiti che, pur in un clima avverso presente in tutta Europa, vedeva significative amicizie verso la comunità
ebraica da parte delle famiglie bresciane.
A
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DURIEZ C., Anno Domini 33. L’anno che ha sconvolto il mondo, Àncora, Milano 2008, pp. 254, € 15,00. 978885140522
n romanzo che, sulla base delle fonti contemporanee, racconta
le caratteristiche di Gerusalemme nel 33 d.C. e la vita che si
svolgeva ai tempi di Gesù. Delinea personaggi storici come Tiberio,
Pilato, Erode, ma anche Pietro, Marta e Maria. Analizza la pena capitale della crocifissione e le cause probabili dell’oscurità che avvolse Gesù. Ma soprattutto, sulla scia dell’interesse sempre più vivo sulla figura di Gesù di Nazaret, racconta come uno sconosciuto leader
religioso ebreo condannato a morte come cospiratore politico in un
angolo remoto dell’impero romano cambiò la storia dell’umanità.
U
CIONI L., Il canto e la forza. Per una storia della letteratura italiana,
Marietti, Milano 2008, pp. 224, € 18,00. 978882117877
uesto libro nasce dall’esperienza didattica dell’a. nelle classi di
liceo. Si rivolge agli studenti, ma anche a tutti gli appassionati
della letteratura. «Perché gli uomini scrivono? Si possono dare molte risposte a questa domanda così fondamentale, ma anche spesso
elusa: per esprimersi, per comunicare la propria visione del mondo,
per guadagnarsi da vivere, per ambizione, per divertimento. In una
parola, che mi pare comprenda tutta la gamma dei motivi, per essere liberi».
Q
MASSON M., ISTITUTO RICCI DI PARIGI E TAIPEI (a cura di), Trattato di
antropologia del sacro/8. Grandi religioni e culture dell’estremo
Oriente. Cina, Jaca Book, Milano 2008, pp. 256, € 42,00. 978881640814
egli anni Cinquanta gli storici delle religioni predicevano la
scomparsa del taoismo in Cina. Oggi le statistiche ufficiali paiono confermare la lettura, ma indicano anche un massiccio ritorno
del religioso, tanto nelle campagne come nelle città, nel contesto
della ricostruzione culturale attuata dagli intellettuali e in forme
N
L
ibri del mese / schede
molto fluide di credenze e di pratiche, come esemplifica bene il
grande successo del qigong. Il vol., ottavo della collana «Trattato di
antropologia del sacro», non riesce però a dare conto di questi sviluppi ancora troppo difficili da misurare, mentre descrive molto bene tutta la fenomenologia della millenaria esperienza religiosa cinese, dal taoismo attraverso il confucianesimo fino al più recente ingresso del buddhismo con le sue forme specifiche in Cina.
VASAPOLLO L., Storia di un capitalismo piccolo piccolo. Lo stato italiano
e i capitani d’impresa dal ’45 a oggi, Jaca Book, Milano 2007, pp.
379, € 26,00. 978881640787
resentazione critica della nascita e dello sviluppo (definito «perversione») del capitalismo moderno in Italia, le cui «grandi fortune industriali» – sostiene il vol. – «si sono presto convertite in investimenti finanziari, manovre bancarie e di Borsa, acquisti e fallimenti ad arte che non generano ricchezza sociale». L’a., docente all’Università «La Sapienza» di Roma e in due atenei di Cuba, vede
nella «grande aggressività del capitalismo d’inizio millennio» la denuncia di uno «stato di crisi profonda, innescata dalla constatazione
che esso ha fallito il suo compito storico enunciato fin dalle origini:
procurare la felicità degli uomini».
P
BARRIE J.M., RIZZATO S., Peter Pan, LDC, Leumann (TO) 2007, pp.
256, € 11,90. 978880103932
BEHE M.J., La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione, Alfa & Omega, Caltanissetta 2007, pp. 392, € 21,90. 978888874757
OLIVA L., Il realismo borghese di Gaetano Carlo Chelli, Studium, Roma
2007, pp. 303, € 25,00. 978883824020
SORRENTINO C. (a cura di), Attraverso la Rete. Dal giornalismo monomediale alla convergenza crossmediale, RAI, Roma 2008, pp.
VI+195, s.i.p. 978883971469
Politica, Economia, Società
BENASAYAG M., DEL REY A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano
2008, pp. 206, € 16,00. 978880710434
redi di un’epoca che ha creduto nella possibilità di porre fine a
ogni forma di conflitto, temiamo profondamente tutto ciò che
minaccia le nostre vite e le nostre società. Se potessimo, bandiremmo l’idea stessa di conflitto. Compito impossibile, oltre che assurdo,
sostiene Del Rey con Benasayag – a. del noto vol. del 2004 L’epoca
delle passioni tristi (Regno-att. 20,2004,683ss) – perché il conflitto appartiene alla natura stessa della vita, al divenire delle cose. In una società fortemente differenziata il conflitto è una realtà permanente e
la vera sfida è che cosa farne, cioè entro quali limiti esso può manifestarsi e con quali mezzi deve essere affrontato.
E
BONAIUTI C., DAMERI D., LODOVISI A. (a cura di), L’industria militare e
la difesa europea. Rischi e prospettive, Jaca Book, Milano 2008, pp.
554, € 29,00. 978881640827
L’
industria militare è strettamente legata alla vita di ogni stato
per due fondamentali aspetti: la difesa e le relazioni internazionali. Ne consegue lo stretto rapporto con la politica e, infine, con
la vita democratica del paese: ogni cittadino dovrebbe dunque essere informato sull’industria bellica e sulle scelte delle istituzioni in tema militare. Hanno una finalità di documentazione e di divulgazione gli annuari «Armi-Disarmo Giorgio La Pira», realizzati da IRES
Toscana; la presente edizione si concentra sulla produzione militare, con importanti approfondimenti nella I parte e aggiornamenti
nella II, per fornire un quadro informativo e critico dei principali
poli produttivi in ambito bellico e dei recenti mutamenti in atto.
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XIV
CORAZZA L., Internet e la società conoscitiva. Cyberdemocrazia e sfide
educative, Erickson, Gardolo (TN) 2008, pp. 158, € 19,50.
978886137312
N
on vi è dubbio che l’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e d’Internet in particolare abbia influenzato profondamente le nostre vite, conducendo a una nuova configurazione
delle nostre società, definibili come «società della conoscenza», in
cui l’autoapprendimento e l’educazione informale sono sempre più
rilevanti. Davanti alle grandi potenzialità di partecipazione attiva
dell’utente al ciclo dell’informazione e della conoscenza, vi sono
però anche insidie. Su questo e sul possibile utilizzo democratico di
Internet si interroga il libro, scaturito dal lavoro del Dipartimento di
Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna.
CORTESI A., TARQUINI A. (a cura di), Europa e Mediterraneo. Politica,
economia e religioni, Edizioni Nerbini, Firenze 2008, pp. 232,
€ 14,00. 978888862569
l Mediterraneo è da sempre un luogo di confini e d’incontro fra
diversi popoli. Oggi, in un tempo di fondamentalismi, la sua natura di «frontiera» diventa più delicata, ma anche particolarmente
interessante per l’elaborazione di nuove strategie di pace. Il libro,
nato su impulso del Centro Espaces «G. La Pira», raccoglie i contributi di diversi aa. che affrontano: la politica euro-mediterranea nel
secondo dopoguerra, le politiche economiche negli anni del partenariato, la specificità filosofica della «ragione mediterranea», il dialogo interreligioso, la spinta spirituale e lo sviluppo del pensiero di
La Pira sul Mediterraneo, la figura di Pierre Claverie.
I
FRANCO M., Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca, Mondadori, Milano 2008, pp. 371, € 20,00. 978880458150
iografia «da vivo» di uno dei più influenti personaggi politici d’Italia dagli anni Quaranta ai giorni nostri. Il vol. delinea con cura l’Andreotti pubblico e quello privato, dando voce anche a presenze finora rimaste in ombra, come quelle dei familiari, riportando
tratti meno noti, e talora inediti, della personalità di colui che è stato sette volte presidente del Consiglio, tessitore di trame politiche e
diplomatiche e ancora oggi, pur non avendo più ruoli di governo o
cariche istituzionali, «sembra incombere... sulla scena politica italiana». Particolare attenzione viene dedicata alle vicende giudiziarie
che, negli anni Novanta, lo hanno visto protagonista e ai riflessi
umani che hanno avuto su di lui e su quanti gli sono rimasti vicini.
B
PANZERI A., DI NARDO F., Nuovi lavori. Flexicurity e rappresentanza
politica, Jaca Book, Milano 2008, pp. 174, € 14,00. 978881640833
«M
i sembra di essere in una giungla, lasciata sola con le mie
forze, a combattere mille pericoli. Alla politica chiedo di
non lasciarci soli». Il grido di questa operatrice di call center è comune a moltissimi lavoratori, nella maggior parte giovani, oggi categorizzati come «atipici». Gli aa. ne descrivono le situazioni lavorative, i
bisogni e le aspettative – nella convinzione che ascoltare e conoscere la realtà sia il primo passo – focalizzandosi su alcuni settori nuovi
particolarmente rappresentativi, fanno un quadro dell’articolato
quadro normativo in materia, s’interrogano sulla flexicurity – la conciliazione di flessibilità e sicurezza –, per sottolineare l’ugenza che
anche questi soggetti abbiano una rappresentanza politica.
SCANAGATTA S., SEGATTO B., La frontiera della cittadinanza nei servizi
sociali. Citizen satisfaction e qualità percepita, Erickson, Gardolo
(TN) 2008, pp. 169, € 19,00. 978886137270
iventa sempre più importante per gli operatori dei servizi sociali saper indagare la realtà nella quale operano e monitorare i risultati della propria attività. Non è loro richiesto di saper gestire autonomamente una ricerca sociale, ma di saper partecipare
alla fase di progettazione in stretta collaborazione con lo specialista e di saperne utilizzare i risultati, acquisendo sempre maggiore
consapevolezza della centralità della cosiddetta citizen satisfaction
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per la qualità percepita e la legittimazione dei servizi implementati. In questo caso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di
Padova ha svolto una ricerca, descritta nei dettagli, sui servizi sociali della regione Veneto.
ZUCCHETTI E. (a cura di), Milano 2008. Rapporto sulla città, Franco
Angeli, Milano 2008, pp. 197, s.i.p. 978884649994
«S
e Milano è malata, non v’è dubbio che è malata di coesione
sociale e di disgregazione sociale». Lo sostiene il periodico
rapporto della Fondazione culturale Ambrosianeum, che annualmente registra i cambiamenti della città di Milano. Un testo interessante che riflette su vari temi, salienti per il capoluogo lombardo, ma
anche per altre città: la mancanza di pianificazione del tessuto urbano, le nuove esigenze abitative, il ruolo economico e sociale del non
profit, i cambiamenti nelle relazioni familiari, il crescente senso
d’insicurezza, la riqualificazione delle periferie, l’ambiente. Tutti
ambiti d’intervento rispetto ai quali l’Expo può rappresentare
un’occasione di cambiamento, culturale prima che pratico.
Pedagogia, Psicologia
MENDITTO M., Comunicazione e relazione. Come gestire dialoghi e
legami nel quotidiano, Erickson, Gardolo (TN) 2008, pp. 342,
€ 16,50. 978886137221
resentato da uno dei maggiori esponenti di psicoterapia della
Gestalt, Erving Polster, il vol. offre un aiuto metodologico nella
ricerca di ognuno del «senso interiore di pienezza e interezza». L’a.,
presidente della Fondazione italiana Gestalt, ha come obiettivo la comunicazione di qualità. Comunicare è al contempo una scelta ordinaria e particolare indispensabile per «salvare» dall’isolamento, è
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una prodezza che inizia dall’espressione di sé e risulta nel raggiungimento di altri individui. Due gli elementi fondamentali di ogni
esperienza comunicativa, l’adattamento, la sintonizzazione, il sacrificio del sé, e la risonanza, la connessione, l’accoglimento.
PAROLA A., Territori mediaeducativi. Scenari, sperimentazioni e progetti nella scuola e nell’extrascuola, Erickson, Gardolo (TN) 2008,
pp. 431, € 22,00. 978886137205
ella società contemporanea i mass media assumono un’importanza sempre maggiore. Diventa allora cruciale occuparsi di
«mediaeducazione», cioè dell’educazione ai, con e per i media. Di
questo si occupa il vol., nato nell’alveo del Dipartimento di Scienze
dell’educazione e della formazione di Torino. La I parte, dopo una
riflessione sull’educazione ai media e sulla necessità di modelli didattici in merito, racconta esperienze condotte in ambito scolastico
ed extrascolastico. La II riporta invece progetti di ricerca e di sperimentazione.
N
TAUFER L., Adolescenti e filosofi. Le risposte della filosofia alle
domande dei ragazzi, Erickson, Gardolo (TN) 2008, pp. 271,
€ 20,00. 978886137199
er superare l’impostazione arida e intellettualista che a volte può
assumere l’insegnamento della filosofia alle superiori, quando è
ridotto a un catalogo storico di nomi e idee astratte, si propone un
approccio esistenziale che parta dalla soggettività e dalle domande
dei giovani attorno a sei nuclei: la costruzione identitaria, la questione dell’essere, che cos’è l’uomo, la politica, la conoscenza, la praxis.
Utile come guida formativa per insegnanti, ma anche per studenti di
filosofia e scienze umane e – perché no? – genitori e catechisti.
P
TUMBIOLO E., Casalinga in carriera, Ares, Milano 2008, pp. 181,
€ 12,00. 978888155419
refazionato da colei che è stata la sua boss, Irene Pivetti, e che
oggi la riscopre manager domestico, si capisce che vale la pena
leggere questo volumetto dopo le prime «tre pagine a caso». Per trovare della ragionevolezza, del buono e dello humor non più nella
guerra contro sporco e disordine delle nostre mamme, ma nella storia interiore che accomuna tutte le donne che fanno di tutto, vivendo in un’atmosfera di continua tensione tra le mille responsabilità
quotidiane che, appena scelte, si trasformano in imposte. Basta poco per riuscire a fermarsi ogni tanto «a interrogarsi per valutare e
operare scelte che siano e che ci rendano veramente libere».
P
BOCCARDI M., La riabilitazione nella demenza grave. Manuale pratico
per operatori e caregiver, Erickson, Gardolo (TN) 2007, pp. 243,
€ 21,00. 978886137116
CAMPIOTTI C., La biblioteca aperta a scuola. Proposte per far crescere
i piccoli lettori a scuola, Erickson, Gardolo (TN) 2007, pp. 149,
€ 18,00. 978886137187
MOSCHINI M., Educare lo sguardo. I bambini incontrano la diversità,
Erickson, Gardolo (TN) 2007, pp. 164, € 17,50. 978886137198
PETTER G., La narrativa a scuola. Il lavoro sul testo e l’incontro con
l’autore, Erickson, Gardolo (TN) 2007, pp. 128, € 18,00. 978886137186
Ristampe
PETERS G., I Padri della Chiesa/1. Dalle origini al Concilio di Nicea
(325), Borla, Roma 32007, pp. 514, € 24,50. 978882630426
RATZINGER J. (a cura di), Saggi sul problema di Dio, Morcelliana,
Brescia 22008, pp. 208, € 15,00. 978883722170
ROCK A., SELF D., Enciclopedia del cristianesimo, LDC, Leumann (TO)
2008, pp. 128+127, € 30,00. 978880104098
2
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XVI
L
L ibri del mese / segnalazioni
A. MILANO,
DONNA E AMORE NELLA BIBBIA.
Eros, agape, persona,
EDB, Bologna 2008, pp. 392, € 32,00.
978881040586.
L’
autore presenta la sua ricerca come
«un piccolo contributo alla “rivoluzione più lunga”» (376). La rivoluzione è
quella femminista, che, spogliata dei suoi
estremismi, rivendica una doverosa attenzione non solo alla dignità ma anche ai diritti
delle donne. La qualifica di piccolo contributo è una designazione volutamente modesta
di uno studio che in realtà rappresenta un apporto importante al tema in oggetto.
Andrea Milano, ordinario di Storia del cristianesimo all’Università Federico II di Napoli,
è uno dei teologi italiani di primo piano, oltre
che tra i più prolifici. Particolarmente di alto
profilo, tra gli altri, sono i suoi studi sui concetti di persona e di verità in teologia, sulla
Trinità per i teologi e i filosofi, sulla Parola
nell’eucaristia. Il tema del presente volume,
che esce nella collana «Nuovi saggi teologici»,
era già stato da lui abbordato in una precedente pubblicazione (Misoginia: donna vista
e malvista nella cultura occidentale, Edizioni
dehoniane, Roma 1992), ma qui viene ripreso
in un quadro più vasto e di più ampio respiro.
Un tratto di merito che va riconosciuto a Milano è la grande attenzione dedicata ai fondamenti biblici dei temi teologici da lui trattati e in specie alla bibliografia prodotta dai
biblisti nelle loro ricerche.
Le prime cinquanta pagine del volume introducono alla problematica oggi sul tappeto. Viene affrontato il problema posto dal
femminismo radicale, secondo cui in passato
la Bibbia non sarebbe servita ad altro che a legittimare e consacrare una visione «patriarcale» e cioè androcentrica della società allo
scopo di tenere da parte e soggiogare le donne. Certo è che nel giudaismo in generale, come Milano spiega poi nelle pagine 117-124, le
donne sono considerate sostanzialmente,
detto in termini un po’ appuntiti, «appendici
periferiche delle vite degli uomini»; e ciò resta parzialmente vero anche per il giudaismo
odierno, a esclusione del giudaismo riformato (cf. per esempio la voce «Donna», sia in J.
MAIER, P. SCHÄFER, Piccola enciclopedia dell’e-
XVII
braismo, Marietti, Casale Monferrato 1985,
sia in D. COHN-SHERBOK, Ebraismo, Dizionari
San Paolo, Cinisello Balsamo 2000).
Da parte sua, Milano mira piuttosto a
mettere in rilievo che la Bibbia è attraversata
da un filone che è di tipo «personalista», più
che maschilista o femminista, e formula un
criterio ermeneutico di primaria importanza:
«Attribuire alla Bibbia in generale quanto invece è scritto in questo o quel versetto (…) resta
fondamentalmente un equivoco o, peggio, un
errore» (46). È quindi una lettura miope del testo biblico che va superata ed evitata, essendo l’insieme a dare senso al dettaglio.
Su queste basi l’autore dedica sette capitoli all’esame di testi o complessi letterari biblici per dedurne l’insegnamento specifico
sulla donna e sull’amore. Il primo riguarda i testi della creazione, Gen 1-3, anche se vi vengono attratti giustamente alcuni passi sapienziali benché contrastanti (come Sir 25,33, secondo cui dalla donna ha inizio il peccato; e 26,14.13-18 che fa un elogio delle virtù femminili);
in risalto appaiono la donna e l’uomo insieme
come immagine e somiglianza di Dio (53-78). Il
secondo capitolo tratta della donna e dell’eros nei profeti Osea, Geremia, Ezechiele, Isaia
(79-91). In terzo luogo si analizza opportunamente il contrappunto tipico del Cantico dei
cantici (93-115). Si passa poi a Gesù di Nazaret
con la posizione che assumono le donne nella sua predicazione del regno di Dio (125-160).
Segue un profilo di Maria, la madre di Gesù,
«benedetta tra le donne» (161-186). Viene poi
una lunga trattazione dell’atteggiamento di
Paolo verso le donne (187-234). Infine si coglie
la portata simbolica della donna vestita di sole nell’Apocalisse (235-252).
Come si vede, Milano segue un filo per così dire storico-salvifico, che va dalla protologia
all’escatologia. Di volta in volta coglie le caratteristiche tipiche dei testi, mettendo in luce
anche alcuni tratti non sempre rilevati nelle discussioni specifiche. Ad esempio che in Gen 23 è di fatto la donna a essere protagonista del
racconto; così nei profeti è Dio che, con il suo
atteggiamento di amore verso Israele, si pone
paradossalmente a immagine e somiglianza
dell’uomo, benché non sul piano sessuale; nel
Cantico è la donna che parla il linguaggio più
ricco ed espressivo, anche se entrambe le tradizionali esegesi rabbinica e cristiana hanno
volto in pura allegoria l’originario linguaggio
erotico. L’indagine condotta per sommi capi
sull’Antico Testamento non lascia molto spazio a singole figure femminili, sia pur quasi tutte menzionate (cf. Sara, Rebecca, Rachele,
Sefora, Miriam, Rut, Debora, Abigail, Mikol,
Hulda, Atalia, Ester, Susanna, Giuditta).
Passando al Nuovo Testamento, Milano
affronta il caso-Gesù con alcune premesse
metodologiche sul metodo storico-critico,
un po’ troppo limitative (cosa del resto spie-
gabile in chi non ha l’abitudine di maneggiarlo per professione). A proposito di Gesù, egli
fa proprie le parole di W. Schrage, secondo
cui la sua proclamazione e il suo comportamento sono stati addirittura rivoluzionari:
benché si tratti di un’affermazione un po’ enfatica, Milano osserva giustamente che al
tempo di Gesù non si ha notizia di altri che
abbiano trattato le donne al suo stesso modo, sia nei fatti (si pensi alla peccatrice, all’emorroissa, all’adultera, alla figlia di Giairo, alla
vedova di Nain, alla samaritana, alla sirofenicia, alla vedova che offre il suo obolo, per
non dire di Marta e Maria e soprattutto del
piccolo gruppo di discepole che seguivano
Gesù secondo Lc 8,2-3) sia anche nelle parole
(si pensi alle donne protagoniste di alcune parabole come quelle del lievito, della dracma
smarrita, della vedova che fa valere il proprio
diritto). L’unica donna trattata in un capitolo
a parte è naturalmente la madre di Gesù, a cui
sono dedicate belle pagine, anche in polemica con un certo femminismo radicale.
Il capitolo riservato a Paolo, pur concedendo fin troppo spazio a chi sostiene il suo
antifemminismo (tra l’altro calcolando come
di Paolo stesso la Prima lettera a Timoteo,
che personalmente ritengo espressione di
una situazione ecclesiale molto posteriore all’Apostolo), è comandato da un principio saggio: «Paolo non ha bisogno d’essere strenuamente difeso, ma solo rettamente compreso» (193). Milano offre opportuni elementi di
antropologia paolina, discute bene il rapporto teologico tra indicativo e imperativo, analizza adeguatamente i passi di Gal 3,28 (in Cristo non c’è maschio e femmina) e 1Cor 11,3-15
(sul velo), e precisa la casistica del rapporto
tra matrimonio e verginità.
Qualche puntualizzazione sarebbe necessaria su alcune posizioni dell’autore: per
esempio, si potrebbe notare che nella questione del velo Paolo dà comunque per scontato che la donna può «profetizzare» nella
pubblica assemblea cristiana e che «l’intransigente rifiuto del ripudio da parte di Paolo sulla scia dell’insegnamento di Cristo» (227) non
è poi così radicale, visto che subito dopo in
1Cor 7,12-16 si ammette una eccezione all’indissolubilità con il cosiddetto privilegio paolino, per non dire che secondo Paolo anche le
donne possono essere definite «apostole»
(contro 232) stante il caso di Giunia in Rm 16,7!
Proprio una maggiore attenzione, non solo ai
testi, quanto all’esperienza missionaria ed ecclesiale di Paolo potrebbe allargare ulteriormente gli orizzonti del «femminismo» di Paolo, appena si dia il giusto rilievo, per esempio,
alla funzione delle numerose donne citate in
Rm 16 (dove al v. 3 si cita addirittura Prisca prima del marito Aquila) e si tenga conto che il
cosiddetto biglietto a Filemone, cosa più unica che rara, è indirizzato anche a una donna
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L
ibri del mese / segnalazioni
di nome Affia (Apfia, Appia, che certamente
doveva svolgere un ruolo importante nella
Chiesa di Colossi).
A me pare che il capitolo più riuscito, o almeno il più personale, del libro di Milano sia
quello intitolato «Ricapitolazione ragionata su
eros, agape, persona» (252-365). Qui si nota la
forza pensante e chiarificatrice del vero teologo. Già importante è la explicatio terminorum sullo sfondo del lessico e della cultura
greca, ma encomiabili e magistrali sono poi le
pagine su Platone e sul platonismo di Plotino
e di Origene (261-313), che si leggono veramente con frutto. Avrei soltanto da osservare che
l’assenza totale del vocabolario dell’eros nel
Nuovo Testamento (e la sua quasi assenza nella LXX) non si spiega necessariamente come
polemica nei suoi confronti ma piuttosto come disinteresse, analogamente a ciò che succede per il principio affine del piacere-hedoné (cf. quanto ne ho scritto in «Osservazioni sull’anti-edonismo nel Nuovo Testamento
in rapporto al suo ambiente culturale», in
Vangelo e inculturazione: studi sul rapporto
tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 771794). In ogni caso, mi pare che anche l’analisi di
1Cor 13 e del suo concetto di agape approdi a
un risultato del tutto accettabile, soprattutto
là dove Milano non si accontenta di chiedersi
«chi ama chi» (è l’uomo che ama il prossimo?
O è Dio che ama l’uomo? O è l’uomo che ama
Dio?), ma integra la prospettiva del discorso
con la necessità di precisare quale sia la natura dell’amore con cui si ama. Perciò l’interrogativo cruciale che egli si pone è questo: «Quando si tratta d’amore tra uomo e donna, marito
e moglie, all’interno dello stesso precetto generale dell’amore si ha o no il dovere di considerare per la coppia co-implicato nell’agape
pure l’eros?» (348). E la risposta non può che
essere affermativa! Posto l’eros come dato
naturale-creaturale, allora anche qui si applica
il principio secondo cui gratia non destruit
sed sanat et perficit naturam. Sicché l’amore
agapico si declina in molti modi, coinvolgendo anche quello erotico.
L’eros dunque può essere non solo figlio
di povertà e di espediente, come voleva Platone, ma anche figlio di povertà e di ricchezza: figlio di povertà in quanto desiderio di ciò
che manca, ma figlio di ricchezza in quanto
spinge a uscire da sé e avviare una relazione
costruttiva con l’altro. È qui che subentra il
concetto cristiano di persona, poiché «oramai, per i seguaci di Cristo, non si tratta più di
comprendere che cosa è l’uomo in generale
(…). La domanda precisa è che cosa è questo
uomo qui, questo singolo individuo umano
come me» (354): una domanda che né Platone né Aristotele potevano porsi, dato che
collocavano l’uomo all’interno del cosmo! Se
la pone invece, almeno indirettamente, un
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2/2009
Tommaso d’Aquino, per il quale la persona
rappresenta un’eccedenza rispetto al cosmo.
E sul concetto di relazionalità interpersonale si chiude di fatto il libro di Milano, a cui
non resta che augurare una vasta cerchia di
lettori, come esso merita.
Romano Penna
S. NITTI,
ABITUARSI ALLA LIBERTÀ.
Lutero alla Wartburg,
Claudiana, Torino 2008, pp. 278, € 19,50.
978887016726
I
mprescindibile dorsale di tutto il pensiero
teologico di Lutero è il tema della libertà
come condizione essenziale dell’essere cristiano. Libertà che il monaco agostiniano sperimentò sul proprio vissuto nel momento in
cui alla Dieta di Worms del 1520 non arretrò di
un’unghia su quanto affermato in precedenza,
soprattutto in quel suo illuminante scritto intitolato La libertà del cristiano.
Quest’ultimo, pubblicato nel novembre
del medesimo anno, pone in 30 brevi ma
energici paragrafi le fondamenta teoriche di
un nuovo modo d’intendere la disciplina di
quell’etica che sarà nei secoli successivi definita protestante in opposizione a quella della
Chiesa di Roma. Essa, in estrema sintesi, si articola nella celeberrima diade: «Un cristiano è
un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno. Un cristiano è un servo
volenteroso in ogni cosa, e sottoposto a
ognuno».
Il cristiano, dunque, ha una natura «bimetallica». È uomo interiore, spirituale e nuovo;
al tempo stesso, però, è uomo esteriore, corporeo e vecchio: nessuna azione, per quanto
nobile possa essere, può fare l’uomo interiore
libero e giusto. Ciò che rende tale il cristiano
è unicamente il santo Evangelo che annuncia
la parola di Dio predicata da Cristo. La fede,
perciò, senza alcuna opera rende l’uomo libero in quanto è l’unione dell’anima con la Parola vivente, con cui si attua un felice scambio.
E le opere? Esse sono comandate in
quanto il cristiano è anche esteriore e deve
«governare il proprio corpo e avere le relazioni con gli uomini». Ne consegue che l’etica e
la disciplina cristiana sono interamente rivolte alla vita sociale in cui il credente opera. La
società umana si sostiene tramite un ordine
che dovrà essere rispettato e il cristiano deve
essere sottomesso alle autorità riconosciute
e determinate, fare la loro volontà liberamente e per amore.
Lutero, tuttavia, non pensava affatto che
la sottomissione del cristiano all’autorità dovesse essere totale e incondizionata: nella
prospettiva luterana dei «due regni» quello interiore appartiene alla grazia divina e alla libertà, mentre quello esteriore rientra nell’ambito delle leggi umane e della servitù. Due regni così ben distinti che lo stato non può interferire nella vita dell’uomo interiore né obbligare i credenti a mettersi contro la Parola.
Questa dirompente teologia, che vedeva
nella croce e non nella gloria il suo epicentro,
fu condannata dalla Chiesa di Roma. Nonostante la bolla pontificia Exurge Domine data
pubblicamente alle fiamme da Lutero, il principe Federico il Savio riuscì a convincere quest’ultimo ad appellarsi all’imperatore Carlo V
prima che rendesse esecutiva la scomunica.
Il giovane imperatore convocò il monaco
ribelle a Worms nella primavera del 1521. Lutero dichiarò di essere pronto a ritrattare solo se
fosse stato convinto con la Scrittura e con
«chiare ragioni» in quanto era stato vinto dalla sua coscienza e si proclamò prigioniero della parola di Dio. La sua proposta cadde nel
nulla. Sulla strada del ritorno fu, quindi, rapito
dagli uomini di Federico il Savio e portato in
salvo presso la fortezza della Wartburg, nella
Turingia: durante il rapimento riuscì a portare
con sé la Bibbia.
Il bel volume di Silvana Nitti Abituarsi alla
libertà inizia proprio dalla descrizione di Lutero tra le mura del castello in cui era stato rinchiuso. Con straordinaria capacità riesce a raggiungere l’obiettivo prefissato: cogliere la genesi e l’evoluzione del concetto di libertà del
grande riformatore. Grazie a una sistematica
disamina dell’epistolario che questi intrattenne con vari protagonisti dell’epoca tra il maggio 1521 e il marzo 1522 si ricostruisce il tormentato e cruciale periodo preso in esame.
L’analisi storica della Nitti tuttavia copre,
cronologicamente parlando, il periodo che va
dal 1520, anno della pubblicazione della sopracitata La libertà del cristiano, sino al 1525, anno in cui Lutero innesca, rispondendo con il
suo formidabile De servo arbitrio a Erasmo,
una polemica destinata a durare nei secoli per
l’importanza capitale che ebbe sulla storia del
pensiero moderno.
Il saggio, scritto in maniera limpida e avvincente, ripone tutta la sua originalità nel
fatto che ribalta, si spera definitivamente,
un’opinione largamente diffusa, la quale colloca l’opera teologica di Martin Lutero in
un’ottica apertamente antilibertaria, se non
XVIII
addirittura reazionaria. Eppure egli fu chiamato dai suoi coevi sostenitori patronus libertatis in virtù dell’esaltazione che fece della
sola grazia, unica reale fondatrice della libertà da lui affermata.
Il saggio si districa con perizia nella macerazione interiore che coinvolse esistenzialmente il monaco agostiniano: Silvana Nitti
offre, infatti, al lettore la possibilità d’entrare
nelle stanze del castello in cui Lutero fu rinchiuso senza per questo essere realmente
prigioniero. Lo vediamo, senza più la tonaca,
con indosso abiti da cavaliere, con la barba lasciata crescere sul volto, chino sul suo scrittoio intento a meditare su quella Bibbia che
avrebbe tradotto in tedesco, oppure lo si coglie nell’atto di scrivere una lettera al fidato
Melantone.
È la stessa Nitti, d’altra parte, a sottolineare la portata essenziale della teologia luterana
laddove nel capitolo intitolato «Liberato per
grazia» acutamente afferma: «Qui, dalla grazia
vera, nasce tutta l’ampiezza della libertà cristiana, da quel ritirarsi del sacro, che lascia alla dimensione terrena il suo spazio dopo aver
dato all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno» (33).
Su questa base il libro si dipana come una
sorta di meditazione di una libertà in fieri che
partendo dalla Foresta nera sarebbe stata destinata a sconvolgere l’intero Occidente cristiano. Si domanda ancora Silvana Nitti: che
cosa poteva sapere lo stesso Martin Lutero
del meccanismo che aveva messo in moto seguendo la sua coscienza sottomessa alla parola di Dio? Solo di una cosa era consapevole: «Sapeva che la libertà che predicava era
vera e certa» (93), anche se ignorava come sarebbe stata accolta nell’immediato dai suoi
stessi sostenitori.
E allora ecco le lettere di Lutero che scrive a Spalatino oppure allo stesso principe Federico suo protettore che stima e ama, ma
verso cui non ha alcun atteggiamento di sottomissione. Ecco i decisivi passaggi dell’epistola in cui risponde alle notizie provenienti
da Wittenberg, dove Carlostadio aveva dato
inizio a riforme così estremistiche che non
potevano non allarmare lo stesso Lutero in
quanto paradossalmente vicine, nello spirito
che le animava, alle pratiche papiste da lui
aborrite.
Lettere, citazioni, riflessioni su di una storia che si legge come un romanzo mozzafiato
pur conservando intatto il rigore scientifico: è
un viaggio nell’animo di Lutero, complesso per
la ricerca di un Dio che lo potesse salvare,
semplice per l’adozione che fece della dolce
parola «libertà» tramite la quale trovò il modo
di amare la parola di Dio, sottomettendosi a
essa come un mendicante con la stessa fede
dei bambini (193).
Viaggio tra fides ecclesiae e fides aliena
per capire l’origine di una teologia che muove
XIX
dalla constatazione che Dio si manifesta sub
contraria specie, Abituarsi alla libertà si pone
come l’ideale continuazione – come sottolinea nell’Introduzione Adriano Prosperi – di
Lutero giovane, il capolavoro di Giovanni
Miegge: una continuazione che aiuta la lettura dell’edizione delle opere scelte di Martin
Lutero intrapresa ormai da tempo dalla casa
editrice Claudiana.
Domenico Segna
G. DOSSETTI,
CRONACHE SOCIALI
1947-1951,
2 voll., Istituto per le
scienze religiose,
Bologna 2007,
C+1983+V, con DVD,
s.i.p.
LE CRONACHE
SOCIALI DI
GIUSEPPE DOSSETTI.
1947-1948. 1949. 19501951,
3 voll., Diabasis, Reggio Emilia
2008, pp. 632+536+554, € 80,00.
978888103540
L. GIORGI (A CURA DI),
LE CRONACHE SOCIALI DI
GIUSEPPE DOSSETTI (1947-1951).
La giovane sinistra cattolica e la
rifondazione della democrazia italiana,
Diabasis, Reggio Emilia 2007, pp. 342,
€ 22,00. 9788881035779
I
l 30 maggio 1947 usciva il primo numero
della rivista Cronache sociali, promossa
dall’associazione Civitas humana alla quale
avevano dato vita qualche mese prima G.
Dossetti, G. Lazzati, G. La Pira e A. Fanfani. La
rivista rappresentò per qualche anno, sino alla
sua chiusura nell’ottobre 1951, un intenso e fecondo laboratorio culturale e politico in cui si
elaboravano idee e progetti per la ricostruzione del paese appena uscito dalla catastrofe
bellica. Fu il punto di riferimento di quel gruppo di giovani che all’interno della DC intendevano promuovere un programma di riforme e
di rinnovamento del paese, spesso in contrasto con la linea politica portata avanti dal presidente del Consiglio A. De Gasperi e con la
maggioranza del partito.
L’Istituto per le scienze religiose di Bologna ha voluto ricordare i cinquant’anni dall’inizio di quell’esperienza, proponendo in edizio-
ne anastatica tutti i fascicoli della rivista. Ne
sono risultati due grossi volumi che restituiscono tutta la suggestione del documento
originario, dove anche i particolari sono significativi: dall’intestazione, alla composizione tipografica, dalle fotografie con le relative didascalie agli articoli minori.
Si tratta di un lavoro corposo, introdotto
da un lungo saggio di A. Melloni che ripercorre le vicende della rivista nel contesto dell’impegno politico di Dossetti e del suo gruppo
politico. Corredano l’edizione alcuni strumenti preziosi per la consultazione: l’indice degli
articoli, delle rubriche, degli autori, e soprattutto un DVD.
Un’analoga iniziativa è stata promossa dalla casa editrice Diabasis di Reggio Emilia, la
quale ha pubblicato anche un’antologia degli
articoli più significativi della rivista, curata da L. Giorgi e introdotta da un saggio di P. Pombeni. Una nuova antologia
degli articoli, dunque, che si affianca a
quella già curata all’inizio degli anni
Sessanta da Marcella Glisenti e
dal compianto Leopoldo Elia, in
due volumi ormai introvabili. Un
utile strumento, dunque, sebbene in qualche occasione la trascrizione degli
articoli presenti dimenticanze ed errori
che ne rendono problematica la lettura.
Iniziative editoriali che testimoniano l’interesse per un’esperienza politica in
cui si propongono alcuni nodi politici e
culturali rilevanti per tutta la successiva storia
dell’Italia repubblicana. I saggi di Melloni e di
Pombeni, che introducono rispettivamente la
riedizione anastatica dell’Istituto per le scienze religiose e l’antologia curata da Giorgi, ripercorrono le vicende politiche del gruppo
dossettiano e le vicende redazionali della rivista e ne mettono bene in rilievo l’importanza.
Dossetti, coinvolto quasi per caso nel
nuovo partito della DC nato subito dopo la fine del fascismo, propose sin dall’inizio una linea politica alternativa a quella di De Gasperi.
Impegnato direttamente e da protagonista
nell’Assemblea costituente, Dossetti fu convinto sostenitore della necessità di costruire
le regole del nuovo stato sulla base dei principi democratici e antifascisti di cui era stata
espressione la Resistenza.
Il primo numero di Cronache sociali uscì
nei giorni della crisi del terzo governo De Gasperi, che sancì la fine della collaborazione tra
i tre grandi partiti di massa. Ma quale sarebbe
stato il compito storico dei centristi che ne
derivarono? Secondo la rivista essi non dove-
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45
L
ibri del mese / segnalazioni
vano semplicemente proporsi come baluardo
contro la sinistra né tanto meno avrebbero
dovuto riaffermare le strutture economiche e
politiche liberali del paese, ma dovevano piuttosto essere il motore di una politica di riforma complessiva dello stato in ordine ai principi affermati nel nuovo testo costituzionale.
Le elezioni politiche del 18 aprile 1948 furono una prima importante occasione in cui la
rivista marcò con più decisione la distanza rispetto al governo, criticando il modo in cui
era stata gestita la campagna elettorale da
parte della DC e soprattutto da parte dei comitati civici di Luigi Gedda. Il coinvolgimento
dell’Azione cattolica e delle parrocchie nella
campagna elettorale dette spunto a un’attenta riflessione critica, proposta in particolare
da Lazzati, sulla distinzione tra «Azione cattolica e azione politica». Non era solo una questione di metodo, ma di più profonda comprensione dei rapporti tra la fede e la concreta azione politica.
Diversa era anche la concezione del partito cristiano nello stato: per De Gasperi esso
aveva soprattutto la funzione di raccolta del
consenso in funzione di una salda maggioranza parlamentare a sostegno dell’azione governativa, per Dossetti doveva invece costituire
l’elemento di mediazione attiva tra la società
e il Parlamento, sarebbe dovuto essere il laboratorio in cui elaborare effettivamente le linee
della politica governativa. Prevedeva per questo non tanto una divisione correntizia, ma
certo una dialettica anche vivace al suo interno tra le diverse posizioni. Questo tuttavia
contrastava con la parola d’ordine dell’unità
che interessava a De Gasperi e sulla quale
molto insistevano e premevano gli ambienti
vaticani.
Due furono gli ambiti in cui si espressero
in modo particolare le critiche della rivista nei
confronti della politica governativa. Il primo
era quello della politica estera filoatlantica del
ministro Sforza. Grave fu lo scontro al momento della decisione di aderire alla NATO,
scelta che secondo Dossetti rappresentava
non solo una subordinazione italiana alla logica della divisione bipolare della scena internazionale, ma anche una subordinazione alla politica di potenza degli USA. Si trattava inoltre
di un tributo pagato agli interessi di quei settori industriali che più avevano da guadagnare
nel clima di tensione della «guerra fredda».
Il secondo ambito era quello della politica
liberista promossa dal ministro Pella. Secondo
Cronache sociali il governo non avrebbe dovuto preoccuparsi solo di ricostruire le basi industriali e finanziarie del paese, agevolando gli
interessi di imprenditori e banche, ma avrebbe dovuto piuttosto partire dai bisogni e dalle «attese della povera gente» (come titolava
un celebre articolo di G. La Pira) attraverso misure keynesiane di espansione dei redditi e
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della domanda e attuando in generale un controllo più incisivo ed equo dello stato sull’economia.
Fu su questi temi che lo scontro all’interno della DC si fece progressivamente più
aspro, finendo per costituirsi come scontro
tra correnti diverse. La stessa rivista dossettiana divenne oggetto, in qualche caso, del confronto e dei compromessi possibili, finché fu
proprio Dossetti che nell’estate del 1951 ritenne opportuno recuperare per sé un ruolo diverso, non più direttamente politico, ma impegnato nella riflessione culturale sulle ragioni della crisi epocale che travagliava la civiltà
occidentale.
Cronache sociali, che già aveva avuto un
periodo d’interruzione delle pubblicazioni tra
il 1949 e il 1950, cessò le pubblicazioni poco
dopo gli incontri di Rossena, con un numero
che voleva essere un bilancio complessivo
dell’esperienza della rivista e della stagione
dell’impegno politico del gruppo dossettiano.
Di fatto questo impegno sarebbe continuato
da parte di alcuni dei protagonisti di prima,
ma senza quel collegamento organico rappresentato dalla rivista e senza la leadership di
Dossetti.
Giovanni Turbanti
PONTIFICIA
COMMISSIONE BIBLICA,
BIBBIA E MORALE.
Radici bibliche dell’agire cristiano,
Libreria editrice vaticana, Roma 2008,
pp. 240, € 6,00. 978882098068
S
i respira una sorprendente aria di libertà
e di profondità nel documento della
Pontificia commissione biblica Bibbia e
morale. Radici bibliche dell’agire umano.
Sorpresa che si aggiunge a sorpresa per il fatto che la comunicazione intraecclesiale lo ha
considerato in maniera inadeguata rispetto
alla portata delle considerazioni svolte. Pubblicato per la Pentecoste del 2008, a sei anni
dall’inizio dei lavori, è stato infatti circondato
da un certo silenzio informativo, non imputabile solo alla mole dello studio (si tratta infatti di un libretto di 240 pagine): nessun dibat-
tito pubblico, poche riprese significative,
scarse citazioni autorevoli.
È piuttosto raro trovare a livello di testi
ufficiali una presentazione della morale che
abbia un tale dinamismo interiore, un consapevole legame con l’evoluzione della storia,
una forza di riferimento ispirante ben oltre la
giustificazione di singole norme e indicazioni
pratiche.
A partire da un concetto chiave e nuovo
come quello di «morale rivelata». Un comportamento etico che parta dalla Scrittura
comporta infatti due condizioni di fondo.
Anzitutto affermare che «la morale, senza essere secondaria, è seconda. Ciò che è primo e
fondante è l’iniziativa di Dio, che noi esprimeremo teologicamente in termini di dono».
In secondo luogo, «la Legge stessa, parte integrante del processo dell’alleanza, è dono di
Dio. Essa non è in partenza una nozione giuridica, impostata su comportamenti e atteggiamenti, ma un concetto teologico, che la
Bibbia stessa rende al meglio col termine
“cammino”…: un cammino proposto» (n. 4).
Lo sviluppo del testo rende onore a simile premessa organizzando tutto in due parti.
La prima approfondisce ciò che viene a monte delle determinazioni morali e cioè la radice teologica da cui nascono le indicazioni etiche. Qui sono evidenziate cinque fondamentali iniziative di Dio, cinque doni che alimentano e giustificano la risposta positiva dell’uomo. Essi sono: la creazione (con le ricadute pratiche relative alla responsabilità, al rispetto, alla collaborazione con l’opera di Dio);
l’alleanza nell’Antico Testamento (da cui nascono i temi morali del rispetto del povero,
dello straniero e la connessione fra culto ed
etica); l’alleanza nuova in Gesù Cristo (con
l’affermazione dell’amore come principio primo teologico e principio primo etico); il perdono; la meta escatologica.
La seconda parte rintraccia i problemi
morali contemporanei e s’interroga sulla pertinenza o meno del riferimento alla Bibbia.
Nella sacra Scrittura non si trovano risposte
già confezionate. Ma in essa sono rintracciabili alcuni fondamentali e stimolanti criteri
d’elaborazione e di giudizio. Essi sono otto: la
conformità alla visione biblica dell’essere
umano; la conformità all’esempio di Gesù; la
convergenza dell’intera Scrittura su determinate indicazioni; la contrapposizione in essa
riscontrabile rispetto a comportamenti non
accetti a Dio e non conformi all’uomo; la progressione della consapevolezza; la dimensione comunitaria; la finalità; il discernimento.
Una lettura da consigliare a chi non si
adatta a fare della morale un magazzino di
norme e del comportamento un gesto servile e subalterno.
L. Pr.
XX
Africa
Conferenza
fra Chiese
I cristiani
e le violenze
D
al 7 al 12 dicembre, a Maputo (Mozambico), si è svolta la IX Assemblea generale della Conferenza delle Chiese di tutta l’Africa (CETA), fondata
nel 1963 a Kampala (Uganda), che è composta da 169 membri tra Chiese e Consigli nazionali di Chiese di 40 paesi africani.
Con la celebrazione dell’Assemblea a
Maputo si è voluto anche lanciare un messaggio di speranza, perché il Mozambico è
un monumento alla pace, che dura da 16
Africa
Santa Sede
Priorità
continentale
I
l 2009 sarà per la Chiesa un anno dedicato all’Africa. L’annuncio «dato dal papa di un suo prossimo viaggio in Angola e Camerun, nel marzo 2009, è una notizia importante – ha affermato p. Federico
Lombardi, portavoce della Sala stampa vaticana – perché riporta al centro dell’attenzione un continente cruciale per la Chiesa
non solo dal punto di vista umanitario, ma
anche per la consistente crescita dei cattolici: dai 2 milioni dei primi del Novecento
agli attuali 154 milioni.
anni, dopo decenni di guerra civile, quando
sembrava impossibile far tacere le armi:
«Non c’è nessun conflitto che il dialogo
non può far terminare», come ricorda il pastore presbiteriano camerunense Nyansako-Ni-Nku, presidente del CETA. Sempre
il pastore Nyansako-Ni-Nku ha espresso
una forte condanna «come Chiese e come
movimento ecumenico» della gestione
economica del processo di globalizzazione
da parte delle istituzioni finanziarie, che
hanno abbandonato il compito di sostenere lo sviluppo dell’economia delle nazioni
più povere.
Durante i lavori ampio spazio è stato
dedicato all’analisi delle tante situazioni di
conflitto che segnano la vita dell’Africa, alla lotta contro la dilagante violenza, soprattutto nei confronti delle donne, alla
necessità di un ulteriore sviluppo del dialogo ecumenico per mobilitare tutti i cristiani nella costruzione della pace e nella lotta
contro la povertà, e all’importanza di un
rafforzamento del dialogo interreligioso a
partire dalla condivisione di alcuni valori.
In particolare si è discusso della situazione dello Zimbabwe, dove l’auspicata ri-
mozione del presidente Robert Mugabe
dev’essere valutata con grande attenzione,
poiché si devono evitare altre vittime, dopo tutte quelle che lo Zimbabwe ha già
avuto nei decenni precedenti, come ricorda il vescovo Naison Shava, presidente del
Consiglio delle Chiese dello Zimbabwe
(ZCC).
Al termine dei lavori l’arcivescovo Valentine Mokiwa, primate della Chiesa anglicana di Tanzania, è stato eletto presidente
della Conferenza delle Chiese di tutta l’Africa e il pastore André Karamaga come segretario generale.
Il pastore Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC), è intervenuto nella liturgia conclusiva con una riflessione nella quale ha ripercorso il cammino ecumenico della CETA,
sottolineando i tanti passi compiuti dai cristiani africani con la fondazione e lo sviluppo di tale organismo, senza nascondere
però le tante difficoltà che ancora oggi i
cristiani sono chiamati ad affrontare insieme per sconfiggere la violenza.
Sulla scia di Giovanni Paolo II, – prosegue p. Lombardi –, definito dal card.
Thiandoum «Giovanni Paolo II l’africano»,
Benedetto visita per la prima volta il continente. Certamente, «l’Africa con i suoi
gravi problemi è stata spesso presente nelle sue parole e sempre nel suo cuore, ma
un viaggio ha sempre un significato fortissimo di partecipazione, di presenza, di
contatto diretto».
«Grazie al viaggio del papa l’intera
Chiesa orienterà il suo sguardo verso l’Africa. La solidarietà spirituale e fattiva della comunità universale dei credenti accompagnerà il rinnovato impegno di crescita delle comunità cattoliche dell’Africa
che – come quella dell’Angola – contano
ormai cinque secoli di vita, hanno una loro storia e tradizione sulla cui base guardare al futuro».
Durante il viaggio pontificio il papa
porterà alla Chiesa in Africa l’Instrumentum laboris, l’ordine del giorno della II Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi
che si celebrerà in ottobre a Roma, secondo appuntamento che il 2009 dedica al
continente. A dieci anni dalla I Assemblea,
celebrata nel 1994 (cf. Regno-att. 10,1194,
308ss), venne lanciata da Giovanni Paolo II
il 13 novembre 2004 (Regno-att. 20,2004,
680) l’idea d’indire un secondo appuntamento, poi ripresa da Benedetto XVI e
formalizzata il 22 giugno 2005.
Il terzo appuntamento che nel 2009
terrà desta l’attenzione sul continente
sarà l’Assemblea generale del Simposio
delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (SCEAM) che si terrà a Roma in
settembre. Due le finalità dell’Assemblea:
da un lato commemorare il 40o di fondazione dell’organismo, nato a Kampala nel
1969, in occasione del viaggio di Paolo VI;
dall’altro riunire i vescovi africani, molti dei
quali parteciperanno al Sinodo per la prima volta.
Nelle riunioni preparatorie del Sinodo
è emerso un dato significativo – ha detto
infatti mons. Nicola Eterovic, segretario
generale del Sinodo dei vescovi –: «Rispetto all’Assemblea del 1994, i vescovi sono
oggi circa il 18% in più e il 60% è stato nominato dopo il primo Sinodo». Questa è
«senza dubbio una crescita eccezionale»,
«una nuova capacità di raccogliere sfide
antiche e recenti».
M.E. G.
R. B.
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I cattolici e l’Italia
D I B AT T I TO
s
olamente cristiano
Il futuro possibile del cattolicesimo
A
ogni inizio corso dico
sempre ai miei studenti che è completamente falso affermare che
la storia coincide con
la memoria: certo dobbiamo ricordare e cercare di ricostruire il più possibile il passato, non per rimanerne prigionieri, ma per liberarcene o, ancor
meglio, per diventare più liberi rispetto al misero presente della cronaca politica quotidiana. Oggi la riflessione
storica è necessaria, ma l’urgenza del
momento richiede una parola forte e
attuale. Tutto è cambiato intorno a
noi negli ultimi trent’anni e una memoria troppo incombente rischia
d’impacciarci nei movimenti, di toglierci agilità.
Creatività del la crisi
L’Italia e il mondo si trovano ora di
fronte a un salto epocale che la storia
umana non ha precedentemente conosciuto: possiamo chiamarlo globalizzazione, crisi degli stati nazionali, multiculturalismo ecc. Ma per superare l’ostacolo occorre spiccare un salto e non
partire da fermi, da pochi metri prima
dell’asticella che supera in altezza la
nostra statura: dobbiamo arretrare e
prendere la rincorsa da lontano.
Non basta quindi andare indietro
di qualche anno e nemmeno di qualche decennio; occorre prendere una
rincorsa almeno di qualche secolo. Il
ricordo della nostra esperienza di
«cattolici democratici» rappresenta
l’ultimo tratto, l’ultimo segmento di
un percorso che investe la nostra identità di cristiani e di cittadini. Questo
48
IL REGNO -
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era il tema dei miei dialoghi ricorrenti con Pietro Scoppola e il punto su cui
ci trovavamo maggiormente complementari.
Prima di procedere nella mia riflessione, desidero raccontarvi un episodio personale che può essere utile
per dare il tono. Avevo accettato l’offerta di Ciriaco de Mita, segretario
della Democrazia cristiana (DC), di
diventare responsabile del Dipartimento cultura del partito. La mia unica condizione – accettata – era stata
quella di non prendere la tessera: anche questa è una cosa che rende davvero interessante lo studio della vecchia DC, che accettava senza batter
ciglio il fatto di avere un dirigente nazionale senza tessera. Venivo da forti
scontri anche sulla stampa nazionale
con Augusto del Noce e Comunione e
liberazione che mi accusavano di filoprotestantesimo.
De Mita mi aveva chiesto di stendere alcune pagine per la sua relazione al
XVIII Congresso nazionale del maggio 1986 sul tema della cultura e della
laicità: quando il segretario incominciò
a leggere la sua relazione mi accorsi
che la citazione di san Paolo (2Cor
12,7) che avevo inserito era stata modificata. In una frase dove affermavo come in ogni cristiano, sull’esempio dell’Apostolo, dovesse essere presente uno
stimolo che ci facesse prendere coscienza della nostra debolezza, la «spina
nella carne» (skolops te sarki) era divenuta «spinta della carne».
Riuscii ad avvertire il segretario
prima che arrivasse a leggere quel
passo; tuttavia il fatto mi è rimasto im-
presso come esempio di come l’apparato tecnico del partito fosse intervenuto per correggere un concetto che
risultava, evidentemente, sconosciuto
e quindi incomprensibile.
Per procedere, vorrei citare una
frase del teologo Joseph Ratzinger di
qualche decennio fa, che risentiva ancora dell’atmosfera del Vaticano II,
ma sempre di forte attualità quando si
parla dello statuto del cristiano nel
mondo: «Al di sopra del papa, come
espressione della pretesa vincolante
dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che
deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le
richieste dell’autorità ecclesiastica.
L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e
ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di
gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio
che si oppone al crescente totalitarismo» (in H. VORGRIMLER [a cura di],
Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, Herder and Herder,
New York 1967-1969, 134; traduzione
inglese da Das Zweite Vatikanische
Konzil, Dokumente und Kommentare).
A partire da questo principio ispiratore penso si possano considerare
un po’ superficiali e forse infantili tutte le discussioni sul laico cattolico come «adulto» o «non adulto»; sulla vocazione politica come mediazione o
come testimonianza che ci hanno un
po’ tormentato sino ai nostri giorni; e
sullo stesso Scoppola come «cristiano
a modo suo».
La storia della Chiesa è piena di
esempi di modelli concreti di santità
che hanno espresso la massima potenzialità creativa nella storia della civiltà
occidentale particolarmente nei grandi momenti di crisi, anche in forte dialettica e contrasto con la gerarchia ecclesiastica. Pensiamo al rapporto stesso tra Dante Alighieri e il papato di
Bonifacio VIII; al rapporto tra Girolamo Savonarola e Alessandro VI; alle
difficoltà incontrate da Antonio Rosmini, le cui idee di riforma della
Chiesa furono condannate nell’aggrovigliata situazione della fine del potere
temporale dei papi e di cui ora si è avviato il processo di canonizzazione.
Sono evidentemente paragoni
storici molto impegnativi; tuttavia
in un momento come questo penso che non sia possibile avere riferimenti più deboli.
La fine di un ciclo
Se vogliamo incidere nella costruzione del nuovo mondo che
sta nascendo, dobbiamo quindi
dimostrare che il cristiano in
quanto tale può essere più laico di
qualunque altro uomo, nella misura in cui non ha nessun «idolo»
a cui fare riferimento. Il cristiano
è un uomo che può de-sacralizzare ogni forma palese e occulta di
potere come sfruttamento dell’uomo sull’uomo e vincere ogni
tentazione totalitaria nella misura
in cui costruisce la storia della salvezza oltre la politica e non dentro la politica.
Più siamo cristiani più siamo laici e
non viceversa. In questo non mi distacco da Pietro Scoppola e dal suo insegnamento: egli non era un «cristiano a modo suo», era semplicemente
un cristiano. La famosa Lettera a Diogneto sulla doppia appartenenza del
cristiano, che ha costituito per tutta la
nostra generazione il filo rosso dell’impegno, ritorna in un’epoca di globalizzazione di estrema attualità.
Dobbiamo cercare di conoscere i segni dei tempi nuovi sapendo che godiamo di una libertà che le generazioni che ci hanno preceduto non hanno
mai posseduto.
Dobbiamo trasmettere ai giovani
questo senso di libertà e liberarli dalla
rete di piccole questioni e tatticismi in
cui mi sembra vadano impigliandosi
sempre di più gli uomini che nella
Chiesa e nella società sono costretti a
gestire un potere quotidiano sempre
più fragile. Il nostro compito è conoscere il senso, il significato del tempo
nella società e nella Chiesa.
Senza entrare in un’analisi storica
approfondita, mi limito ad affermare
che stiamo uscendo da un ciclo storico
secolare che si sta concludendo dopo
oltre 500 anni, ciclo che potremmo
chiamare, dal punto di vista politico e
religioso, il ciclo dello stato moderno e
delle Chiese cristiane confessionali,
per noi cattolici della Chiesa romana.
Lo stato nazionale moderno, nato
A conclusione del convegno
«Quando i cattolici
non erano moderati»
organizzato dalla Fondazione
Ermanno Gorrieri
(Modena, 28-29.11.2008),
il prof. Paolo Prodi ha
sviluppato una riflessione
sull’identità del
cattolicesimo democratico
che proponiamo
come dibattito.
dalla modernizzazione nel superamento della società feudale, potrà e
dovrà trovare nuove funzioni nell’età
della globalizzazione, ma ha perso alcune caratteristiche fondamentali che
ne avevano caratterizzato la vita sino
alla nostra generazione: la sovranità
innanzitutto, l’ideologia stessa della
patria, l’autosufficienza e l’omogeneità sul piano dell’informazione e
della cultura, l’autonomia dell’economico ecc.
Possiamo sintetizzare questo passaggio nella formula: «dallo stato sovrano allo stato sistema», intendendo
con questo che lo stato come lo abbiamo conosciuto sino a oggi è al suo tramonto e che esso è destinato a recitare soltanto una parte nella società
complessa e multiculturale che sta nascendo. Un discorso che meriterebbe
da solo un approfondimento.
Qui mi preme sottolineare che anche l’altro protagonista del discorso, la
Chiesa della Controriforma, sta affrontando una trasformazione analoga.1 Nei secoli della storia moderna la
Chiesa romana, sia pure attraverso
compromessi e corruzioni, è riuscita a
salvare, all’interno del sistema di potere degli stati nazionali in perenne
guerra tra di loro, il principio dell’universalismo cristiano e del magistero
universale del pontefice romano.
Gli strumenti con cui la Chiesa ha
contrastato il monopolio del potere da
parte degli stati sono stati principalmente due: 1) il sistema dei
concordati e delle nunziature (sviluppato dalla metà del XV secolo), accettando di bypassare i rapporti con le Chiese locali attraverso gli stati; 2) la distinzione del
piano del diritto positivo statale
dal piano dell’etica, il piano del
reato da quello del peccato.
Non è una visione idilliaca
dei rapporti tra stato e Chiesa, tra
etica e diritto positivo: le radici liberali dell’Occidente affondano
in queste tensioni, in queste controversie interminabili in cui il sacro ha sempre cercato d’impadronirsi del potere politico-economico e viceversa; ma proprio attraverso queste dialettiche si erano
in qualche modo creati dei recipienti di contenimento, rotti poi
dalle ideologie totalitarie dello
scorso secolo, tese a impadronirsi di
tutto l’uomo.
Siamo convinti che solo dalla dialettica tra due piani separati di norme
è potuta nascere la nostra società liberale, e che questo è avvenuto perché il
dualismo cristiano in Occidente si è
potuto concretizzare anche in un dualismo istituzionale, capace di dare alla
norma morale una sua consistenza
autonoma rispetto alla norma giuridica. Il nostro specifico ordinamento occidentale liberal-democratico è cresciuto in simbiosi e in dialettica con
uno specifico ordinamento morale che
si è sviluppato in Occidente.
È in questa tensione continua che
siamo cresciuti, non in modo astratto
come in una discussione teorica sui
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valori etici, ma per l’invenzione istituzionale della Chiesa da parte di Cristo. Nel cristianesimo occidentale, la
Chiesa è stata produttrice di norme
morali o, almeno, ha permesso a queste di potersi sviluppare nella società
senza coincidere completamente con
le norme umane positive, che necessariamente sono espressione del potere e
necessitano della coercizione per essere applicate.
Sappiamo benissimo i tradimenti
che su questo piano si sono verificati e
quanto spesso la coscienza personale
sia stata abbandonata e sacrificata alla logica del potere, ma sappiamo pure che la coscienza personale non sarebbe nata in Occidente senza questo
dualismo tra Dio e Cesare. Le innumerevoli versioni che sono state date
di questa necessaria separazione tra
etica e diritto, e per altro verso le pure
innumerevoli versioni circa l’impossibilità di questa separazione sono parimenti valide.
Ma nel nostro codice genetico di
uomini occidentali non esiste soltanto
una generica dialettica tra diritto e
50
morale; per la sopravvivenza della
nostra civiltà occidentale è necessaria
una dialettica tra le istituzioni portatrici di norme morali (o che in ogni
caso permettono alla coscienza individuale di oggettivizzarsi in comportamenti sociali) e le istituzioni da cui
emana il diritto come potere di coercizione.
Per debolezza istituzionale
Le strutture che hanno regolato il
rapporto della Chiesa con il potere
negli ultimi secoli oggi stanno scomparendo, comunque vadano le tensioni tra tradizionalisti e innovatori, tra
centralismo romano e collegialità ecc.
Stiamo entrando in un’altra epoca.
Non è un caso che le riflessioni storiche di Scoppola siano cominciate con
lo studio del modernismo, periodo nel
quale cominciavano a sentirsi i primi
scricchiolii di questo sistema.
Nella lunga storia dell’Occidente i
binomi sacro-potere e Chiesa-stato sono stati ritenuti equivalenti. Ora essi
sono dissociati: il potere e il sacro vagano senza recinti. Il problema di oggi è determinato dall’ingresso in
un’età in cui l’alterità, il dualismo tra
il potere politico e il sacro non può più
essere espresso in un rapporto statoChiesa come si è realizzato nei secoli
dell’età moderna, data la crisi istituzionale dello stato e della Chiesa, data
la perdita della «sovranità» territoriale sia nel campo temporale sia in quello spirituale.
Paradossalmente penso che proprio quando i cristiani con il concilio
Vaticano II hanno imparato, secondo
la limpida espressione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, a considerare il
moderno stato di diritto «nella sua laicità non più come qualcosa di estraneo e nemico della fede, bensì come
l’opportunità della libertà», questo
stesso stato è entrato in crisi. Ciò che è
venuto meno in ogni caso è l’identità
collettiva della patria nazione come si
era costruita nell’età moderna con la
mediazione della religione civica nelle
sue diverse versioni.
Il chiacchiericcio che tutti i giorni
ci riempie le orecchie del tema della
laicità dovrebbe quindi, a mio avviso,
tenere presenti maggiormente le componenti storiche. Le invasioni di campo della Chiesa nella politica e della
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politica negli affari ecclesiastici dipendono essenzialmente dalle loro rispettive debolezze.
La politica in crisi si aggrappa alla
religione civica per il rafforzamento di
identità che stanno svaporando. La
Chiesa si aggrappa alla politica perché è cosciente della sua debolezza,
della difficoltà d’imporre ai propri fedeli norme di comportamento sui
grandi temi della vita, dell’amore e
della morte in coerenza con il messaggio dell’amore cristiano. Forse una
presa di distanza dagli aspetti politicogiuridici e una riaffermazione del problema del peccato, del pentimento e
della grazia come giudizio e terreno
proprio della Chiesa sarebbe una strada non alternativa, ma complementare e necessaria all’«aggiornamento»
del Vaticano II; ma non sta a noi entrare in questi problemi.
Sta invece a noi in quanto cristiani
laici una valutazione dell’impatto sulla vita politica delle nuove problematiche che scaturiscono dal nuovo quadro multiculturale della civiltà tecnologica: le nuove possibilità date all’uomo dalla tecnologia che interviene
sulla vita e sulla morte, sull’ambiente,
modificando non soltanto i rapporti
sociali attuali a livello planetario, ma
le condizioni delle future generazioni,
rappresentano una sfida che è etica e
politica a un tempo.
Su tutti questi piani possiamo cominciare a concretizzare l’affermazione che più siamo cristiani più siamo
laici, in quanto siamo maggiormente
in grado d’identificare e distruggere
gli «idola» del potere che minacciano
le nostre libertà, la sopravvivenza della democrazia e dello stato di diritto,
la stessa dignità dell’uomo.
Per fare un esempio sul piano prettamente politico, la difesa della Costituzione (essenziale come patto fondamentale di convivenza) non può più
essere sostenuta come qualche anno fa
pensando di avere come nemico il fascismo o un’involuzione populista di
tipo pre-moderno. Certamente la
condanna storica delle esperienze totalitarie del secolo scorso va mantenuta nella nostra memoria, ma nella coscienza che le minacce vengono ora
da un’altra parte e che il lupo della favola ora riveste panni del tutto diversi.
Esiste una crisi reale della rappre-
sentanza democratica, delle istituzioni
che l’hanno governata sino a oggi, del
Parlamento, dei partiti, del rapporto
pubblico-privato ecc.: basta pensare
come è stato «nominato», non eletto,
il Parlamento impotente che dovrebbe
rappresentarci.2
Sappiamo che le risposte date a
questa crisi dal nuovo populismo leaderistico, dalla politica mediatica e
dei sondaggi sono false e pericolose,
ma non possiamo certo salvare la democrazia arroccandoci in difesa. È su
questo piano che si misurerà l’impegno politico dei cristiani: difesa del
patto che è ora in vigore, ma ricerca
di soluzioni nuove per una società
molto più complessa e diversa da
quella che i nostri padri costituenti
avevano davanti.
Non si tratta di discorsi astratti:
dalle false diagnosi sono derivati molti errori compiuti dal centrosinistra
negli anni scorsi al di là delle divisioni
tra cattolici, ex comunisti, ex socialisti,
massimalisti e riformisti e, a mio parere, anche le improvvide modifiche al
titolo V della Costituzione.
Il caso del divorzio
A proposito del nodo tra etica e diritto possiamo prendere come esempio il tema del divorzio, che è stato alle origini della nostra prima coesione
negli anni Settanta. Nessuno certo
tornerebbe indietro, ma c’è qualcosa
in più che allora è nato e che forse non
abbiamo sino a ora sviluppato nei suoi
aspetti positivi: la nostra attenzione si
è concentrata a ragione nella difesa
del tema della convivenza, della necessità di una mediazione.
Ciò che è certo, però, è che avevamo compreso che c’era una dissociazione crescente tra il matrimonio come sacramento e il matrimonio come
contratto civile, che si era venuta sviluppando negli ultimi secoli sino ad
arrivare al matrimonio concordatario. Ricordiamo l’importanza che ha
avuto il concilio di Trento per la formazione del matrimonio moderno
come congiunzione della libera volontà degli sposi e per la formalizzazione di un atto (le pubblicazioni, la
dichiarazione espressa del consenso
ecc.) che ha contribuito grandemente
alla conquista della parità nel contratto matrimoniale.
Non dobbiamo certamente rinnegare nulla di questo, al contrario. La
distinzione tra matrimonio come sacramento e come contratto diviene
necessaria in questa nostra situazione
storica in primo luogo proprio per recuperare il valore sacramentale di
fronte a una frantumazione del contratto che rischia di trascinare nei suoi
gorghi uno dei punti fondamentali per
la vita del cristiano.
Il fatto che in alcune situazioni la
fedeltà al matrimonio esiga testimonianze di sacrificio che si possono
spingere sino all’eroismo (pensiamo
alle malattie fisiche e psichiche ecc.)
deve spingere certo non a cercare
rafforzamenti di sponde costrittive
giuridiche, ma alla rivalutazione del
legame sacramentale ora offuscato.
Nelle chiacchiere quotidiane ormai si
dice sempre più spesso che la Chiesa
gerarchica tende sempre più ad avere
rapporti stretti con persone che hanno
infranto il vincolo coniugale piuttosto
che con cristiani che si mantengono
fedeli: non è soltanto un problema che
riguarda la coscienza individuale e i
nostri pastori lo sanno bene. Ma non
si può mantenere a lungo una condiscendenza formale che rischia di contribuire all’appannamento della sottostante realtà sacramentale.
La distinzione dei piani ci permette di affrontare quindi con una libertà
assoluta anche il problema delle protezioni che in questa nuova società «liquida» sono necessarie per difendere
dai soprusi i rapporti qualsiasi tra persone singole che non siano difesi dalle
leggi più generali del diritto del lavoro: ovviamente in questo caso non importa se le persone coinvolte siano di
sesso o di età diversi, se contengano
valori affettivi (che possono mascherare lo sfruttamento più doloroso) o di
altro tipo. Noi sappiamo che il matrimonio come valore sacramentale è
un’altra cosa e le richieste di «scimmiottamento» non possono toccarci
anche se ci feriscono intimamente.
Tensione escatologica
Questo modo di ragionare lo possiamo applicare a ogni altro tema che
riguarda la vita, la morte, l’ambiente
e possiamo lottare con ogni sforzo per
difendere la nostra identità sino al dovere della resistenza totale alle impo-
sizioni, alle leggi che mettono in gioco il nostro modo di essere. Non possiamo qui affrontare i temi dell’embrione, delle ricerche bio-genetiche,
dell’eutanasia, dell’inquinamento
ecc., ma penso che ragionando in
questo modo potremo avere una bussola sicura per il futuro, non per posizioni semplicemente «conservatrici»
che potevano avere un senso in un
mondo statico, in cui il potere era
identificabile in modo sicuro.
Ora ci dobbiamo misurare con il
mutamento e trovare nel dualismo cristiano, nella coscienza e nel magistero,
un sicuro punto di orientamento. Come diceva Scoppola nel suo libro intervista a Giuseppe Tognon (La democrazia dei cristiani, Laterza, RomaBari 2005, 26): «Questa svolta è legata alla nuova formula dei “segni dei
tempi”, che ha radici ecclesiologiche
profonde: la Chiesa non è tanto interprete e garante di un ordine di ragione, ma portatrice di una tensione
escatologica che agisce dentro la storia
degli uomini; la sua presenza nella
storia e il suo stesso insegnamento sono un elemento di giudizio e di crisi
della storia.
La comunità cristiana e i cristiani
stessi sono portatori di un annuncio
che è motivo di continuo inappagamento rispetto a ogni ordine costituito
(in questo senso Aldo Moro parlava
del “principio di non appagamento”):
non più l’ordine costituito (come nei
documenti del magistero ottocentesco) è l’obiettivo della loro azione, ma
un miglioramento sempre possibile e
mai compiuto della società perché
ogni concreta realizzazione rimane
sempre inadeguata rispetto al messaggio di Cristo».
Paolo Prodi
1
In queste riflessioni prendo spunto da
considerazioni che ho svolto più ampiamente
nei due saggi: «Dalle secolarizzazioni alle religioni politiche», in G.E. RUSCONI (a cura di),
Lo stato secolarizzato nell’età post-secolare, Il
Mulino, Bologna 2008, 55-92; «Cristianesimo
e modernità», in G. FILORAMO (a cura di), Le
religioni e il mondo moderno. I. Cristianesimo, a
cura di D. Menozzi, Einaudi, Torino 2008, 3867.
2
P. PRODI, Lessico per un’Italia civile, Diabasis, Reggio Emilia 2008.
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d
diario ecumenico
DICEMBRE 2008
Dialogo ecumenico in Svizzera. Il 2 e il 3, ad Appenberg
(Svizzera), ha luogo un incontro tra la Federazione delle Chiese protestanti svizzere (FEPS) e la Conferenza episcopale svizzera (CES); è
il primo incontro ufficiale dal 2001. Si discute della situazione attuale del dialogo ecumenico, anche alla luce dei recenti documenti ecumenici delle Chiese e della firma della Charta oecumenica
da parte delle Chiese svizzere nel 2005 e si parla della definizione
di iniziative comuni per approfondire la dimensione ecumenica
della testimonianza cristiana.
Cristiani e musulmani nella lotta contro l’AIDS. Il 1° dicembre, a Nairobi, si riuniscono i rappresentanti delle Chiese cristiane e delle comunità islamiche dal Kenya, dall’Uganda, dalla
Tanzania e dal Sudan per una comune riflessione su come procedere nella lotta contro l’AIDS. Viene sottoscritto un appello per
invitare cristiani e musulmani a una maggiore promozione delle
informazioni per prevenire e combattere l’AIDS e per l’assistenza
ai malati e si rinnova la richiesta ai paesi del primo mondo di concedere le medicine necessarie a prezzi accessibili al mercato africano entro il 2010.
Lettera a Obama dai cristiani statunitensi. Il 2 viene
pubblicata una lettera di cattolici, ortodossi ed evangelici indirizzata al neoeletto presidente degli USA Barack Obama. In questa lettera, che è stata sottoscritta da oltre 40 leader di Chiese e comunità cristiane, si chiede a Obama di assumersi l’impegno di una più
efficace azione politico-diplomatica per la creazione della pace in
Medio Oriente, indicandola come una priorità.
Commissione interanglicana per le relazioni ecumeniche. Dal 2 al 7, a Kyoto, si riunisce la Commissione interanglicana
per le relazioni ecumeniche (IASCER), presieduta dal vescovo Drexel
Gomez, primate della Chiesa anglicana nella Provincia delle Indie
occidentali. Si esamina lo stato dei dialoghi ecumenici bilaterali, che
vedono coinvolti gli anglicani a livello internazionale e locale. Viene
redatta la relazione «The Vision Before Us», sullo stato del coinvolgimento della Comunione anglicana nel dialogo ecumenico e su
quanto fatto dalla IASCER, fin dalla sua istituzione nel 2000. La IASCER verrà sostituita dalla Commissione interanglicana per l’unità, la
fede e l’ordine (IASCUFO) alla fine del 2009.
Ancora divisioni nel mondo anglicano. Il 6, con un comunicato stampa, i primati della Conferenza globale sul futuro della
Comunione anglicana (GAFCON) salutano con piacere il progetto
della creazione di una provincia anglicana nell’America settentrionale con il quale però si crea un’ulteriore frattura nelle comunità
anglicane nordamericane. Si viene infatti formando una Chiesa che
nasce appellandosi al rispetto della tradizione anglicana e rifiutando di condividere le decisioni della Chiesa episcopaliana in favore
dell’ordinazione episcopale di omosessuali dichiarati e della benedizione di coppie dello stesso sesso. Cf. in questo numero a p. 15.
Le Chiese cristiane e i diritti umani. L’8, a Berna, il Consiglio di presidenza della Comunione delle Chiese protestanti in Europa (CPCE) pubblica un breve testo in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che si
apre con l’affermazione che i diritti umani dal punto di vista cristia-
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no sono quei diritti con i quali proteggere la dignità data a ogni uomo da Dio senza alcuna discriminazione. La CPCE osserva poi che,
nonostante siano passati 60 anni dalla Dichiarazione, molti dei diritti fondamentali sono ancora negati nel mondo; per questo la difesa della dignità umana, dei diritti umani e specialmente della libertà religiosa deve essere un impegno comune a tutti i cristiani,
così come viene enunciato anche dalla Charta oecumenica.
Il primo forum cattolico-ortodosso europeo. Dall’11 al
14, a Trento, si tiene il primo forum cattolico-ortodosso europeo
che affronta il tema «La famiglia: un bene per l’umanità». Il forum,
promosso dal Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa
(CCEE), è l’occasione per un confronto tra cattolici e ortodossi sulle
posizioni delle due Chiese in merito alla famiglia e per una valutazione su iniziative comuni, a livello europeo, in difesa della famiglia.
Vladimir di Kiev in Italia. Dal 14 al 15, il metropolita Vladimir di Kiev, primate della Chiesa ortodossa autonoma di Ucraina,
compie una visita ecumenica in due tappe in Italia. A Milano il vescovo Vladimir, accompagnato da numerosi vescovi ucraini, incontra il card. Tettamanzi, prima di presiedere una divina liturgia nella
parrocchia ortodossa di Sant’Ambrogio alla presenza del metropolita Innokentij, arcivescovo del Chersoneso, amministratore per
l’Europa delle parrocchie della Chiesa ortodossa russa. A Roma incontra la comunità ucraina ortodossa prima di essere ricevuto dal
card. Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità
dei cristiani, per un confronto sullo stato del dialogo cattolico-ortodosso, soprattutto alla luce della recente scomparsa del patriarca Alessio II (cf. Regno-att. 22,2008,792ss).
Dialogo tra cattolici e battisti. Dal 14 al 19, a Durham
(USA), si svolge il terzo incontro della seconda serie delle conversazioni teologiche tra la Chiesa cattolica e l’Alleanza mondiale battista (BWA); questo incontro segue quelli di Birmingham (2006) e di
Roma (2007) per accrescere la reciproca conoscenza e per incoraggiare comuni azioni. Il tema trattato è «La parola di Dio nella vita
della Chiesa: Scrittura, Tradizione e koinonia».
Rapporti tra Santa Sede e Stato d’Israele. Il 18, a Gerusalemme, ha luogo una riunione plenaria della Commissione bilaterale permanente tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Nella riunione viene valutato lo stato di avanzamento dei «negoziati relativi all’art. 10 § 2 dell’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato
d’Israele», sottoscritto il 30 dicembre 1993 (Regno-doc. 3,1994,82). Si
decide di convocare la prossima riunione plenaria per il 23 aprile
2009, indicando anche un calendario di incontri della Commissione operativa.
La preghiera ecumenica per l’Europa. Dal 29 dicembre al
2 gennaio si svolge, a Bruxelles, il XXXI Incontro annuale di preghiera dei giovani, promosso dalla Comunità di Taizé, al quale prendono parte, oltre alle decine di migliaia di giovani provenienti da tutta Europa, Benedetto XVI, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il pastore Ishmael Noko, segretario generale della
Federazione luterana mondiale, l’arcivescovo di Canterbury Rowan
Williams e il segretario generale dell’Alleanza mondiale delle Chiese riformate (WARC) Setri Nyomi. Il XXXII incontro si terrà a Poznan (Polonia) dal 29 dicembre 2009 al 1° gennaio 2010.
Riccardo Burigana
a
a
agenda vaticana
DICEMBRE 2008
dicare più tempo a occuparmi della Chiesa in Cina, poiché è ampia
e complessa».
Bombe a grappolo. Il 3 dicembre l’arcivescovo Dominique
Mamberti annuncia a Oslo la firma della convenzione internazionale sulle bombe a grappolo da parte della Santa Sede. Il trattato,
teso a vietare la produzione e l’uso di quel tipo di ordigni, viene
sottoscritto da un centinaio di paesi, ma alla cerimonia per la firma
non partecipano i maggiori produttori: Stati Uniti, Russia e Cina.
«Nel ratificare la convenzione sulle bombe a grappolo, la Santa Sede – afferma una dichiarazione allegata al documento di ratifica –
desidera incoraggiare l’intera comunità internazionale a perseguire
risolutamente un disarmo effettivo, un accordo sul controllo delle
armi e il rafforzamento delle normative umanitarie internazionali».
Ambasciata d’Italia. L’imminente ottantesimo anniversario
dei Patti lateranensi, «distinzione e autonomia» di stato e Chiesa,
ma anche «intesa» della Santa Sede con l’Italia, importante ai fini
della «pace» in un mondo segnato da «conflitti e tensioni»: sono i
temi trattati dal papa in visita all’ambasciata d’Italia presso la Santa
Sede il 13 dicembre (anche Pio XII nel 1951, Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 1986 erano stati a Palazzo Borromeo). Un esempio di «intesa» era stato proposto nel discorso di benvenuto dal
ministro degli Esteri Franco Frattini, che aveva ricordato la «costante azione di supporto» alle «minoranze cristiane» che l’Italia svolge
nel mondo, citando i casi dell’India e del Medio Oriente.
Cañizares e Arinze. Il 9 dicembre il card. Antonio Cañizares
Llovera, 63 anni, arcivescovo di Toledo e primate di Spagna, denominato «il piccolo Ratzinger» per la consonanza con gli orientamenti papali, viene nominato prefetto della Congregazione per il culto
divino e la disciplina dei sacramenti al posto del nigeriano card.
Francis Arinze, che aveva compiuto 75 anni nel novembre del 2007.
Islam. Il 17 dicembre il papa incontra i partecipanti all’XI Colloquio organizzato dal Consiglio per il dialogo interreligioso e dalla
World Islamic Call Society che ha sede a Tripoli (Libia) sul tema
«Responsabilità dei leader religiosi specialmente in tempi di crisi».
Benedetto XVI esprime agli ospiti «soddisfazione e forte incoraggiamento». Il prossimo colloquio si terrà a Tripoli entro due anni.
Lotta alla povertà. «La lotta alla povertà ha invece bisogno
di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di
autentico sviluppo umano»: lo afferma il papa nel messaggio per la
XLII Giornata della pace Combattere la povertà, costruire la pace,
pubblicato l’11 dicembre (Regno-doc. 1,2009,1ss). Invita a tenere «primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra» e a superare «lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli». Denuncia l’«avidità» del mondo ricco, i guasti di una «finanza appiattita sul breve e brevissimo termine», la «speculazione» sul grano e sul
riso che sta affamando i paesi poveri e le spese militari esorbitanti.
Dignitas personae. Un «appello alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico e in modo particolare ai medici perché
venga fermata la produzione di embrioni umani, tenendo conto
che non s’intravede una via d’uscita moralmente lecita per il destino umano delle migliaia e migliaia di embrioni “congelati”, i quali sono e restano pur sempre titolari dei diritti essenziali e quindi da tutelare giuridicamente come persone umane» è contenuto nell’istruzione Dignitas personae su alcune questioni di bioetica, che la
Congregazione per la dottrina della fede pubblica il 12 dicembre. Il
paragrafo 4 dell’istruzione afferma che «l’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti
della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita» (Regno-doc. 1,2009,10ss).
Zen e Dulles. La «convincente testimonianza personale dell’armonia tra fede e ragione» fornita dal card. Avery Dulles soprattutto nei «lunghi anni di insegnamento e ricerca teologica» sono ricordati dal papa in un telegramma di cordoglio all’arcivescovo di
New York, Edward Egan, per la morte a 90 anni del teologo gesuita. I cardinali sono ora 191 di cui 116 elettori (cf. in questo numero a
p. 63ss). Il card. Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo di Hong Kong, 77
anni, annuncia il 24 dicembre di aver presentato le dimissioni a partire dall’inizio del nuovo anno e informa che il papa le avrebbe accettate. «Non mi ritiro per riposarmi – ha dichiarato – ma per de-
Depenalizzazione dell’omosessualità. «La Santa Sede
continua a sostenere che ogni segno di ingiusta discriminazione nei
confronti delle persone omosessuali dev’essere evitato, e spinge gli
stati a metter fine alle pene criminali contro di esse»: lo afferma l’arcivescovo Celestino Migliore a commento della Dichiarazione sui
diritti umani, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere
letta il 18 dicembre davanti all’Assemblea generale dell’ONU a nome
di 66 paesi, mentre altri 60 hanno presentato una contro-dichiarazione e i rimanenti 66 – tra cui la Santa Sede – non si sono espressi. Cf. in questo numero a p. 12ss.
Ecologia dell’uomo. «La Chiesa ha una responsabilità per il
creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E
facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. (...) Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il
cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio»: lo afferma il papa il 22 dicembre
nel discorso di Natale alla curia romana (Regno-doc. 1,2009,6ss).
Gaza. Domenica 28 all’Angelus il papa rivolge il primo appello
per la «fine» dello spargimento di sangue nella Striscia di Gaza, dove i bombardamenti israeliani – in risposta al lancio di razzi da parte
di Hamas – ha provocato 225 morti nella sola giornata del 27 dicembre: «Cari fratelli e sorelle, la Terra santa è nuovamente sconvolta da
uno scoppio di inaudita violenza. Sono profondamente addolorato
per i morti, i feriti, i danni materiali, le sofferenze e le lacrime delle
popolazioni vittime di questo tragico susseguirsi di attacchi e di rappresaglie. La patria terrena di Gesù non può continuare a essere testimone di tanto spargimento di sangue, che si ripete senza fine! Imploro la fine di quella violenza, che è da condannare in ogni sua manifestazione, e il ripristino della tregua nella Striscia di Gaza; chiedo
un sussulto di umanità e di saggezza in tutti quelli che hanno responsabilità nella situazione, domando alla comunità internazionale
di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi a
uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare la via del dialogo
e del negoziato». Cf. in questo numero a p. 7ss.
Luigi Accattoli
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studio del mese
D a l l ’e u c a r i s t i a
un nuovo
paradigma
culturale
Homo
oecologicus
Creazione e redenzione sono profondamente
unite nell’eucaristia, e la teologia orientale
rispetto a quella occidentale ha conservato un’attenzione maggiore alla dimensione cosmica dell’offerta al Padre dei doni della creazione, insieme all’offerta redentrice del Figlio. Cogliere
questa centralità cristologica – è la tesi del teologo Karl Golser – è il punto di partenza per cambiare atteggiamento, mettendo in campo le virtù
teologali e cardinali, nei confronti dell’attuale
crisi ecologica-economica, che è solo uno degli
aspetti della più profonda crisi antropologica. Il
ruolo delle Chiese oggi è richiamare profeticamente l’umanità alla necessità di una ristrutturazione radicale e globale: dall’idea di uomo come
padrone sfruttatore a quella di amministratore
responsabile (sia delle risorse, sia delle scoperte
scientifiche); da un modello di sviluppo basato
sulla crescita infinita e insostenibile a uno basato sulla decrescita; da un benessere legato al
consumo a uno fondato sulla socialità, la
sobrietà e la semplicità.
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el corso di convegni e dibattiti ultimamente si è dato spazio al tema dell’eucaristia in relazione ai grandi problemi dell’umanità, soprattutto al pane
della terra, alle fonti dell’energia, di
cui abbiamo bisogno affinché ci sia vita. Quella che mi interessa esaminare
in questo contributo è la coniugazione fra eucaristia e natura, e con natura qui si intende
l’ambiente o, in termini teologici, il creato, di cui fa parte anche l’umanità stessa. Per il mondo creato noi, persone dotate di libertà, abbiamo quindi una responsabilità, enormemente accresciuta dalle potenzialità tecniche che possiamo sfruttare, e una responsabilità che
coinvolge addirittura il futuro della nostra terra e la sussistenza della vita.
Il compito d’individuare criteri etici per questa nostra responsabilità nei riguardi della natura affidataci è
molto vasto e richiede, oltre all’apporto di cultori dell’etica, anche quello di esperti scientifici nei vasti campi del
sapere. Come teologo mi preme stabilire un nesso fra
l’eucaristia e l’ecologia, ovvero una rilettura di ciò che significa celebrare l’eucaristia, onde evidenziarne le conseguenze per un ethos ecologico. La prima parte della riflessione è dunque incentrata sull’eucaristia, mentre nella seconda si delineano alcuni elementi per l’impegno
responsabile della Chiesa e dei fedeli cristiani.
N
L’eucaristia come celebrazione del creato
Vorrei vedere l’eucaristia non soltanto nel suo centro,
che è la celebrazione della santa messa, o addirittura
nelle specie consacrate del pane e del vino che noi veneriamo, ma in un senso più ampio come tutta la liturgia
divina, come la chiamano le Chiese orientali, come servizio di ringraziamento che la Chiesa rende a nome di
tutta l’umanità e di tutto il creato a Dio Padre, Figlio e
Spirito Santo.
Ora, il centro della liturgia cristiana fin dall’inizio è
senz’altro la celebrazione della notte pasquale, che è nel-
lo stesso tempo celebrazione della creazione e della redenzione, del battesimo e dell’inserimento dei fedeli cristiani in Cristo.1 Non è un caso che la prima lettura della notte pasquale sia sempre il racconto della creazione,
Gen 1, che può essere letto anche come inno della risurrezione. Di fronte alle forze del caos e delle tenebre, che
Israele ha sperimentato nel suo esilio causato dal proprio
peccato, Dio crea come prima cosa la luce.
Le tenebre della morte vengono rischiarate da Cristo
risorto, e così si dischiude di nuovo uno spazio di vita. I
sei giorni della creazione sfociano nel settimo giorno,
che è il giorno della risurrezione, il giorno del compimento escatologico in cui Dio riposa e anche tutto il
creato, dopo essere passato attraverso le peripezie della
storia, entra nell’armonia dei nuovi cieli e della nuova
terra.
È interessante quanto ha esposto al riguardo l’arcivescovo di Liverpool, mons. Patrick Kelly, in una relazione
tenuta nel 2003 a Wroczav in Polonia nel contesto di
una consultazione delle conferenze episcopali europee
sulla responsabilità per il creato.2 Tenendo presenti le
pesanti ripercussioni dello sfruttamento umano della natura sul clima e facendo poi riferimento alla notte pasquale conclude: «Noi comprendiamo allora che la rivelazione di Dio che leggiamo nei primi capitoli della Genesi non descrive un’era d’oro di tanto tempo fa. Essa si
rivolge a gente terrorizzata da “segni nel sole, nella luna
e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per
il fragore dei mari e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra” (Lc 21,25). Il poeta di Dio ci rivela la
poesia, l’arte e la creatività di Dio stesso che è qui adesso, in mezzo a un mondo che così spesso appare ostile,
con forze che manipolano e determinano i nostri giorni,
che entrano in contatto con la nostra vita malignamente o nella migliore delle ipotesi arbitrariamente – in mezzo a tutto ciò il nostro Dio ci parla di una luce, un ordine, una bellezza e una bontà che devono venire. Penso
che sia saggio, quando ascoltiamo la parola di Dio nella
Genesi, e in tutti i passaggi relativi a quei capitoli, non
perdere mai di vista la storia narrata nell’Esodo: Dio che
anche ai nostri giorni sta realizzando il suo obiettivo.
Non ci viene offerta una spiegazione astratta, come se si
trattasse esclusivamente di una descrizione filosofica del
nostro posto nel creato».
L’opera salvifica di Dio manifestatasi nell’esodo del
popolo d’Israele dall’Egitto e nel suo miracoloso passaggio attraverso il mare, l’azione di Dio celebrata anche
nelle altre letture previste per la notte pasquale, sfocia
nel Vangelo della risurrezione di Cristo, creato prima di
ogni creatura e primogenito di coloro che risuscitano dai
morti (cf. Col 1,15.18). Il fedele cristiano attraverso il
battesimo è poi inserito in questo processo di salvezza e
di passaggio alla vita, ma anche tutta la creazione, che
ora geme nelle doglie del parto, aspetta di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19.23).
Abbiamo quindi nella celebrazione della notte pasquale l’aspetto cristologico ed ecclesiologico (condensato nell’eucaristia), ma anche escatologico di tutto il crea-
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to che non può che erompere nella lode festosa del proprio Salvatore (cf. l’Exsultet).
Vorrei qui anche citare la quarta preghiera eucaristica, frutto del concilio Vaticano II, che coniuga di nuovo
in maniera molto esplicita la dimensione della creazione
(cf. soprattutto il Prefazio) con la storia della salvezza
(lunga introduzione prima dell’invocazione dello Spirito
per la consacrazione) e termina con un accento escatologico, quando preghiamo: «Padre misericordioso, concedi a noi, tuoi figli, di ottenere (...) l’eredità eterna del
tuo Regno, dove con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria, in Cristo nostro Signore, per mezzo del quale doni
al mondo ogni bene».3
Ho già fatto riferimento alle Chiese orientali, e a tale riguardo vorrei citare il bellissimo libro Il creato come
eucaristia scritto dal metropolita di Pergamo John Zizioulas. Questo grande teologo e maestro spirituale ortodosso deplora dapprima che la teologia della redenzione della tradizione occidentale si sia troppo concentrata
sull’anima del cristiano. Scrive: «Il regno di Dio nella visione agostiniana delle cose ultime non contempla la
presenza della natura (…). La Chiesa perdeva gradualmente coscienza dell’importanza del valore eterno della
creazione materiale (…) evidente nel modo di trattare i
sacramenti, l’eucaristia in particolare: invece di essere
una benedizione sul mondo materiale, i frutti della natura, e un suo rimando con gratitudine e consacrazione al
Creatore, l’eucaristia divenne presto in primo luogo un
memoriale del sacrificio di Cristo e uno strumento della
grazia per il nutrimento dell’anima. La dimensione del
kosmos scomparve presto dalla teologia sacramentaria
nell’Occidente».4
Al contrario – cito ancora Zizioulas – «tutte le liturgie dei primi secoli sembrano essere centrate non tanto
sulla consacrazione degli elementi, e ancor meno su
un’anamnesi psicologica della croce di Cristo, quanto
piuttosto sull’elevazione dei doni del pane e del vino al padre Creatore, quella che in tutte le liturgie greche dei primi secoli è detta anafora (elevazione). Gli studiosi odierni della liturgia tendono a evidenziare questo dettaglio
dimenticato, peculiarità che può essere di particolare significatività per una teologia della creazione, perché
conferisce all’azione dell’uomo in veste di sacerdote del
creato una centralità per lo meno pari – se non superiore – a quella dell’atto con cui Dio invia lo Spirito Santo
per trasformare nel corpo e nel sangue di Cristo i doni
offerti (…). L’aspetto sacerdotale dell’eucaristia – vale la
pena sottolinearlo – non consisteva nella nozione di sacrificio, così come divenne poi interpretazione comune
nel Medioevo, ma in quella di rioffrire a Dio la sua stessa creazione».5
La liber tà respons abile
Quindi il compito dell’uomo è in primo luogo quello
di essere «sacerdote del creato». In questo modo Zizioulas, seguendo un ragionamento di sant’Ireneo, interpreta il peccato originale e la redenzione operata da Cristo.
Il mondo, creato dal nulla e quindi contingente, è destinato a ricadere nel nulla, a meno che non venga porta-
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to a trascendersi nel suo relazionarsi al Creatore. Sarebbe proprio il compito dell’uomo, dotato di una libertà
trascendente, riferire tutte le creature a Dio. Però nel
peccato originale egli ha usato in modo sbagliato questa
libertà, rapportando le cose create che gli sono sottomesse non a Dio, ma a se stesso, mettendosi al posto di Dio.
Così, invece di glorificare Dio con il creato ha cominciato a sfruttarlo per i propri scopi: è l’inizio della crisi ecologica, resa ancora più evidente dai mezzi tecnici di cui
si dispone nell’epoca moderna.
«Dove Adamo ha fallito, Cristo è riuscito» – riprende Zizioulas. «Noi guardiamo a Cristo come la personificazione o l’anakephalaiosis di tutta la creazione e, dunque, come l’uomo per eccellenza e il Salvatore del mondo. Noi lo reputiamo, a causa di ciò, la vera “immagine
di Dio” e lo associamo con il destino finale del mondo.
Crediamo dunque che nella persona di Cristo il mondo
possiede il sacerdote della creazione, il modello del corretto rapporto dell’uomo con il mondo naturale».6
Avviene nella celebrazione eucaristica anche l’anamnesis, la memoria della salvezza operata da Cristo; tutto
è inserito tuttavia in questo moto ascendente di offerta
dei doni della creazione al Creatore stesso. Zizioulas cita al riguardo la liturgia di san Giovanni Crisostomo:
«Memori dunque di questo comando salvifico e di tutto
ciò che è stato compiuto per noi: della croce, del sepolcro, della risurrezione al terzo giorno, dell’ascensione ai
cieli, dell’essere assiso alla destra del Padre, della seconda e gloriosa venuta, gli stessi doni da te ricevuti li offriamo a te in tutto e per tutto».7
«I doni da te ricevuti» sono appunto i doni della
creazione e anche della cultura umana. Il pane e il vino
sono frutti della terra – doni della creazione – e del lavoro umano – doni perfezionati dall’uomo che svolge così
il suo mandato datogli dal Creatore; ora trasformati in
Gesù Cristo e nel suo corpo e sangue sono offerti di nuovo al Creatore, affinché tutto il creato venga portato alla sua destinazione finale che è quella di partecipare alla gloria di Cristo risorto.
La teologia orientale prende una certa distanza dalla
dottrina occidentale della transustanziazione, in particolar modo, quando si accentua soltanto il cambiamento
radicale da una sostanza, quella della materia terrestre,
a un’altra sostanza, quella celeste del corpo e del sangue
di Cristo. Secondo san Tommaso, come sottolinea di
nuovo l’arcivescovo Kelly in una meditazione dettata alla VI Consultazione delle conferenze episcopali europee
celebrata nel 2004 a Namur in Belgio, la transustanziazione non significa l’annichilimento di una materia, il
pane e il vino, e la sua sostituzione con un’altra, il corpo
e il sangue di Cristo, ma contiene un elemento di continuità, così come il Cristo risorto mantiene le ferite riportate nella sua vita terrena.
San Tommaso d’Aquino lo esprime così nella terza
strofa del suo inno Pange lingua che vorrei citare in latino: «In supremae nocte coenae recumbens cum fratribus,
observata lege plene cibis in legalibus, cibum turbae duodenae se dat suis manibus». La traduzione italiana, ma anche quella nelle altre lingue moderne, non riesce a esprimere bene tutta la ricchezza e la densità del testo latino:
C.D. FRIEDRICH, Il mare di ghiaccio, 1824; Amburgo, Kunsthalle; a p. 54: Viandante sopra un mare di nebbia, 1818 (part.); Amburgo, Kunsthalle.
«Nella notte dell’ultima cena, sedendo a mensa con i suoi
fratelli, dopo aver osservato pienamente le prescrizioni
della Legge, si diede in cibo agli apostoli con le proprie
mani». «Cibis in legalibus» non è soltanto l’osservanza
delle prescrizioni della Legge, ma è tutta l’anamnesi, tutta la rievocazione dell’opera di Dio nella storia della salvezza. Gesù si dà come cibo ai suoi discepoli e a noi credenti, in continuità con tutto ciò che Dio ha fatto nella
creazione e con la sua presenza salvifica, che trova il culmine nella venuta del Figlio vero uomo e vero Dio.
Quindi c’è una continuità: noi non offriamo soltanto
chicchi di grano e chicchi d’uva, ma pane e vino, quindi nelle cose date dalla terra è inserito il lavoro, la cultura umana, e anche tutta la presenza salvifica di Dio, e
tutto ciò noi non solamente lo possiamo consumare, ma
in primo luogo lo offriamo a Dio, in attesa del compimento escatologico.
Il senso unitario di tut to: Cristo
Bisogna vedere questa dimensione cosmica e storica
dell’eucaristia: in essa è raccolto tutto il creato e tutto ciò
che l’umanità compie attraverso la sua storia e la sua
cultura, tutto il lavoro, tutto l’impegno, tutte le virtù, e
anche tutto ciò che è contrassegnato dal male, la contin-
genza della natura con le sue catastrofi e i misfatti umani, tutto ciò dovrà essere rapportato a Cristo, da lui redento attraverso il suo mistero sacrificale della croce e
della risurrezione, in lui trasformato tramite lo Spirito
Santo ed essere offerto a Dio Padre.
Nell’inno che si trova subito all’inizio della Lettera
agli Efesini si parla di questo mistero della volontà divina, del «disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,9). Il
defunto papa Giovanni Paolo II nell’udienza generale
del 14 febbraio 2001 ha spiegato la parola «ricapitolare», «anakephalaiosis» in greco, nel suggestivo modo che
segue: «L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe,
le parole, le opere della creazione e della storia». Poi
Giovanni Paolo cita sant’Ireneo: «Nell’espressione “tutte le cose” – afferma Ireneo – “è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’incarnazione, allorché il Figlio di
Dio da invisibile divenne visibile, da incomprensibile
comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché
come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri soprace-
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lesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia
sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo
primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira
tutto in sé” (Adversus haereses, III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando
gli ostacoli, le resistenze del peccato e del maligno».
L’eucaristia è il sacramento di questo mistero o, come dice di nuovo Zizioulas, «la sola comprensione possibile dell’eucaristia è dunque cristologica: è il corpo di
Cristo, il Cristo stesso, il Cristo totale; (…) il Cristo stesso che salva l’uomo e il mondo e che ci riconcilia con
Dio attraverso se stesso (…). Il carattere fondamentale
dell’eucaristia consiste invece nel suo essere una riunione (synaxis) e un’azione (praxis) nella quale si contempla, si ricapitola e si vive tutto il mistero di Cristo, la salvezza del mondo».
La crisi ecologica è una crisi culturale
Tutto l’impegno, tutta l’etica dei cristiani deve in
questo modo essere eucaristica. E se constatiamo una
crisi ecologica, la dobbiamo interpretare come crisi culturale. Come Chiesa abbiamo soprattutto questo compito, non quello di offrire soluzioni tecniche, quasi sempre
tendenti a padroneggiare la natura, ma quello di proporre agli uomini del nostro tempo una conversione culturale, o anche una «conversione ecologica», come pure
aveva richiamato Giovanni Paolo II in un’altra catechesi, quella del 17 gennaio 2001.
Lo dice la Chiesa ortodossa russa nel suo grande documento I fondamenti della concezione sociale: «I problemi ecologici hanno sostanzialmente un carattere antropologico, essendo generati dall’uomo e non dalla natura.
Pertanto, le risposte a molti problemi posti dalla crisi
ambientale vanno cercate nel cuore dell’uomo, e non
nella sfera dell’economia, della biologia, della tecnologia
o della politica (…). I rapporti tra antropologia ed ecologia si manifestano con particolare chiarezza ai nostri
giorni, mentre il mondo sta sperimentando contemporaneamente due crisi: la crisi spirituale e la crisi ecologica
(…). In un uomo che agisce non guidato dallo Spirito, la
potenza tecnologica, di solito, suscita speranze utopistiche nelle possibilità illimitate dell’intelletto umano e nella forza del progresso. È impensabile superare completamente la crisi ecologica in una situazione di crisi spirituale (…). La base antropogenica dei problemi ecologici
dimostra che noi tendiamo a cambiare il mondo che ci
circonda in conformità con il nostro mondo interiore, e
proprio per questo la trasformazione della natura deve
partire da una trasformazione dell’anima. Secondo il
pensiero di Massimo il Confessore, l’uomo potrà trasformare tutta la terra in un paradiso solo quando egli avrà
portato il paradiso in se stesso».8
Anche l’attuale papa Benedetto XVI, nel suo messaggio per la XL Giornata della pace del 2007, scrive:
«Accanto all’ecologia della natura c’è dunque un’ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un’“ecologia sociale”. E ciò comporta che l’umanità, se ha a cuore la pace, debba tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l’ecologia naturale, ossia
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il rispetto della natura, e l’ecologia umana. L’esperienza
dimostra che ogni atteggiamento irrispettoso verso l’ambiente reca danni alla convivenza umana, e viceversa.
Sempre più chiaramente emerge un nesso inscindibile
tra la pace con il creato e la pace tra gli uomini» (Regnodoc. 1,2007,3).
Bisogna quindi tener conto che la «conversione ecologica» deve cominciare dal cuore stesso dei soggetti morali. Occorre un cambiamento profondo di consapevolezza, una modifica dell’atteggiamento fondamentale, non
solo verso la natura in quanto mondo esterno, ma in ultima analisi verso sé stessi, perché l’essere umano stesso
è collegato in modo molto profondo alle condizioni naturali della sua vita: egli ha sempre formato e persino
creato il suo ambiente socioculturale e ne ha fatto cultura. La persona umana, quindi, deve cambiare se stessa,
il suo stile di vita e la sua scala di valori. Deve così imparare di nuovo ad aprire gli occhi davanti alla meravigliosa casa della vita, della vita umana in particolare, per riconoscere dietro a questo stupendo e immenso miracolo
anche il suo autore, per lodarlo e ringraziarlo (cf. per
esempio il salmo 8). In ciò consistono le virtù dell’approccio interessato e rispettoso, della capacità di ammirazione, della lode e del ringraziamento.
Dal le vir tù al le norme
Molto importante è anche l’atteggiamento della «cura», riscoperta recentemente dalle scienze della vita. Il
mondo e la vita sono affidati alla nostra custodia (cf. Gen
2,15), e sappiamo anche quanto sono vulnerabili nei loro
equilibri. La cura si differenzia molto da un approccio
strumentale: esso si chiede in primo luogo quale profitto
trarre dalla terra e dalle sue risorse, mentre la cura richiede un rapporto quasi da soggetto a soggetto. L’altro non
è a mia disposizione, ma mi interpella, ha quasi un volto
nel quale in ultima istanza si riflette il Creatore.9
Tutti questi atteggiamenti virtuosi possono essere riferiti anche al sistema classico delle quattro virtù cardinali, cioè giustizia, prudenza, fortezza e temperanza.10
Se giustizia nel pieno senso biblico significa considerare
il grande ordine nel quale si è inseriti, rendere ragione a
ogni sua dimensione, allora ciò comporta in primo luogo un rapporto religioso con Dio, ma anche un rapporto riverente con tutti gli altri viventi, anche con coloro
che verranno dopo di noi, e con ogni altro componente
di quel grande universo che attraverso le moderne scienze naturali scopriamo sempre di più nella sua interdipendenza.
Con la virtù della giustizia è strettamente collegata la
virtù della prudenza, che deve presiedere a ogni decisione ed elezione umana. Prudenza, riferita al rapporto
dell’uomo con il creato, significa quindi cercare di conoscere sempre di più questa mirabile interconnessione di
ogni cosa nel mondo, significa sforzarsi di ottenere un
sapere ecologico che sia all’altezza del ruolo di responsabilità del quale il singolo è investito, significa far influire
quello che si sa e a volte si professa esternamente anche
sulle proprie scelte di ogni giorno. La prudenza cristiana
è anche consapevole dell’effetto del peccato nel mondo,
ed è quindi guardinga nei confronti delle azioni proprie
e altrui perché spesso sono contrassegnate dall’egoismo.
La prudenza chiama così a una conversione continua.
Per questo la coscienza prudente del cristiano si sente sostenuta dalla virtù della fortezza, che oggi dovrebbe
significare soprattutto coraggio civile, impegno indefesso
nonostante gli insuccessi, fiducia continua nella capacità
dell’uomo di convertirsi, dialogo continuo che con metodi pacifici cerca di formare a una maggiore responsabilità.
La virtù alla quale dobbiamo poi aspirare continuamente è quella della temperanza, intesa non soltanto come sforzo ascetico di contentarsi del poco, ma come accettazione del fatto che l’uomo e il mondo hanno i loro
limiti e che per questo siamo obbligati a evitare ogni
spreco per conservare questo mondo anche per le generazioni future.
Tutto il quadro delle virtù umane infine può e deve
essere riportato a quelle virtù che sono dono di Dio, le
virtù teologali della fede, della speranza e della carità. La
fede in Dio creatore e redentore sorregge tutto il vissuto
virtuoso del cristiano; la speranza gli dà in primo luogo
la forza per non rassegnarsi, perché Dio stesso si prende
cura della terra: a essa infatti ha assegnato un destino
escatologico nella partecipazione alla gloria di Cristo risorto; la carità infine sostiene l’atteggiamento della cura
e sa che dobbiamo farci prossimi della nostra terra, vulnerata e caduta in mano a predatori.
Sulla base dei ricordati atteggiamenti fondamentali
nei confronti della creazione (piano delle virtù) e delle
corrispondenti motivazioni, si svilupperà un’etica teologica, che, a partire dalle comuni premesse etiche e dai
principi specificamente rilevanti per l’ecologia (particolarmente i principi di responsabilità, previdenza, precauzione e causalità), percorra il cammino della formulazione di regole vincolanti di priorità valoriale e di criteri per i differenti ambiti in cui siano in conflitto beni e
interessi divergenti, sino alla definizione di norme concrete, che devono trovare la loro traduzione in diversi
ambiti anche a livello di legislazione civile.
Uno stile di vita ecologico
Ma l’impegno dei cristiani e delle Chiese per la «salvaguardia del creato» è credibile solo se supportato da
una corrispondente testimonianza di vita, insomma se i
cristiani e le Chiese sviluppano e promuovono uno stile
di vita orientato ai criteri della sostenibilità e della giustizia sociale. Alla III Assemblea ecumenica europea di Sibiu (Romania), nell’ambito dedicato alla responsabilità
per il creato, è stata perciò proposta alle comunità cristiane come tema di fondo la riflessione sugli stili di vita.
Il testo di preparazione, contenente le linee guida per la
discussione, recitava al riguardo: «Nel loro dialogo con
la società, le Chiese europee promuovono le autentiche
esigenze della sostenibilità e si sforzano di arricchirle di
un contenuto specifico alla luce della fede cristiana e delle proprie rispettive tradizioni teologiche. Indubbiamente l’efficienza tecnologica può offrire un immenso contributo. Va accolta con favore, ma sarebbe illusorio basarsi esclusivamente sulle soluzioni tecnologiche. Sta diventando sempre più evidente che le possibili soluzioni
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delle maggiori problematiche ecologiche, come quelle
concernenti l’energia, l’acqua o la mobilità, esigono nuove scelte nel nostro stile di vita. In ultima analisi, tutti i
singoli membri della società devono organizzare il proprio stile di vita personale secondo modalità che risultino compatibili con i requisiti della sostenibilità. In assenza di un cambiamento nella mente e nel cuore, le soluzioni tecnologiche o i negoziati politici per proteggere il
clima non raggiungeranno gli obiettivi prefissati.
Secondo noi, quindi, le Chiese dovrebbero dare la
priorità alla causa a favore di stili di vita responsabili e
sostenibili. Il contributo specifico delle Chiese al movimento ambientalista si colloca in quest’area. Occorre
elaborare una risposta di carattere spirituale basata sui
valori cristiani fondamentali. Oggigiorno, lo stile di vita
adottato dai cristiani rappresenta una parte essenziale
della loro testimonianza nei confronti della società.
Il termine “stile di vita” non si riferisce soltanto alla
sfera personale di ogni cristiano; include gli stili di vita
delle comunità cristiane. L’epoca delle semplici dichiarazioni “a favore della creazione” è passata. Le Chiese devono cominciare a lavorare su progetti specifici e proporre stili di vita alternativi. I singoli cristiani e le comunità devono dare testimonianza della propria fede attraverso uno stile di vita coerente che rispetti la creazione».
Il messaggio finale di Sibiu nella sua raccomandazione n. 10, dopo aver proposto di celebrare dal 1° settembre al 4 ottobre un periodo dedicato alla preghiera per
la salvaguardia del creato, riprende quanto è stato detto
nel testo preparatorio ed esorta «a promuovere uno stile
di vita sostenibile atto a invertire il nostro apporto al
cambiamento climatico» (Regno-doc. 17,2007,584).
Il problema, quindi, non è oggi dato dalla conoscenza adeguata, che abbiamo a disposizione, e neppure risiede nelle corrispondenti prescrizioni a livello ambientale, per quanto anch’esse siano insufficienti e meritevoli di miglioramento, e non consiste nemmeno in una carente coscienza ambientale – che nei nostri paesi è sorprendentemente elevata –, ma risiede piuttosto nello iato tra la coscienza ambientale e i concreti atteggiamenti
nei confronti dell’ambiente.
Alcune ricerche hanno mostrato11 che laddove interessi professionali o personali si trovano in conflitto ultimo con la tutela ambientale, si constatano dei meccanismi di rimozione o eliminazione. Spesso ci si orienta
maggiormente su ciò che anche gli altri fanno nel quotidiano, spesso sono più decisivi stimoli materiali (come
per esempio corrispondenti salari o imposte), ma possono a poco a poco prevalere anche valori immateriali, come una migliore qualità della vita, più tempo per la famiglia ecc. Un problema risiede anche nell’impossibilità
di percepire direttamente gli effetti a lunga durata, ad
esempio sul clima.
In ogni caso è importante che i cambiamenti nello
stile di vita proposti siano praticamente realizzabili e che
ci sia una generale fiducia nelle autorità statali, affinché
non possa sorgere l’impressione che l’atteggiamento ambientalista a livello individuale sia in sostanza solo una
messa in scena, un alibi, mentre in grande si procede ancora impunemente nell’infliggere danni all’ambiente.
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Importanti ed efficienti sotto il profilo dell’apprendimento si sono dimostrati anzitutto dei progetti concreti,
in cui gli studenti o i cittadini di un comune e anche i
membri di comunità ecclesiali si sono associati e hanno
in tal caso raggiunto anche risultati concretamente
quantificabili.
In ogni caso, se le Chiese vedono nella responsabilità
verso la creazione una delle dimensioni essenziali della
loro esistenza, che dovrà essere eucaristica in senso lato,
se operano in modo esemplare attraverso un coerente
stile di vita, esse diverranno allora attive anche a livello
socio-politico, entrando in sinergia con l’impegno profuso da altre forze sociali, e in particolare – a livello mondiale – con il processo della cosiddetta Agenda 21, approvato nel 1992 a Rio de Janeiro (che riguarda tra l’altro la difesa del clima).
Il tempo è maturo per un’inevitabile ristrutturazione
del nostro stato sociale, poiché una società industriale
edificata su un costante tasso di crescita non è a lungo
andare più sostenibile, né tantomeno proponibile come
modello per tutte le nazioni della terra. Si annuncia
un’innovazione ambientale come strategia complessiva
per il lavoro, l’ambiente e la solidarietà con tutti gli uomini e gli esseri del creato. In questa impresa grande e
unica nelle sue dimensioni i cristiani e le Chiese si sentono coinvolti. E in essa infondono una speranza, quale il
mondo non può avere, una speranza che riposa sulla
partecipazione e il permanente rapporto di Dio con la
sua creazione, per la quale egli ha predisposto una meta
che trascende ogni prospettiva naturale, la meta della
partecipazione a Cristo risorto, di cui l’eucaristia è l’espressione sacramentale.
Karl Golser*
* Mons. Karl Golser, vescovo nominato di Bolzano-Bressanone, è
docente di Teologia morale-sociale presso lo Studio teologico accademico di Bressanone.
1
Cf. al riguardo il nuovo libro di M. KEHL, Und Gott sah, dass es
gut war. Eine Theologie der Schöpfung (E Dio vide che era cosa buona. Una teologia della creazione), Herder, Freiburg 2006, 58-70.
2
Il suo testo è ora disponibile nel CD allegato al volume M.
VOGT, S. NUMICO (a cura di), Salvaguardia del creato e sviluppo sostenibile: orizzonti per le Chiese in Europa, Gregoriana libreria editrice,
Padova 2007, che contiene anche il rapporto finale dell’Indagine europea sull’impegno per la responsabilità per il creato delle conferenze
episcopali aderenti al Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa
(CCEE), realizzata dalla Fondazione Lanza di Padova.
3
Cf. KEHL, Und Gott sah, dass es gut war, 80-89.
4
I. ZIZIOULAS, Il creato come eucaristia. Approccio teologico al problema dell’ecologia, Qiqajon, Magnano (BI) 1994, 17.
5
Ivi, 21-22.
6
Ivi, 67.
7
Ivi, 79.
8
Regno-doc. 1,2001,36 (Suppl.).
9
Cf. al riguardo L. BOFF, Il creato in una carezza. Verso un’etica
universale: prendersi cura della terra, Cittadella, Assisi 2000.
10
Cf. la voce K. GOLSER, «Virtù ecologiche», in Responsabilità
per il creato. Un sussidio per le comunità, a cura dell’Ufficio nazionale
per i problemi sociali e il lavoro e del Servizio nazionale per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, Elledici, Leumann
(TO) 2002, 141-142.
11
Cf. H. BÖLTS, Umwelterziehung. Grundlagen, Kritik und Modelle für die Praxis (Educazione ambientale. Fondamenti, critica e modelli per la prassi), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt
1995, cit. a seguire p. 99.
p
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Pio Laghi
ROFILI
21 maggio 1922
10 gennaio 2009
Ambasciatore di pace
Dalla curia romana ai poveri di madre Teresa
L
a morte del card. Pio Laghi, il 10 gennaio scorso, segna un ulteriore inevitabile passo nel tramonto di una generazione di ecclesiastici, formatisi prima
del concilio Vaticano II e che hanno
esercitato la loro responsabilità nel governo della Chiesa cattolica dopo il
Concilio. Nel momento in cui si torna
a ideologizzare il tema della continuità tra la Chiesa pree postconciliare, trasformandolo in continuismo ecclesiologico – procedimento che tradisce anche a livello
biografico un sentimento di rimpianti e un’illusoria volontà di restaurazione del tempo perduto –, è d’insegnamento guardare proprio a questa generazione che ha
vissuto le due fasi, o, se si preferisce, le due epoche della
Chiesa. Tra questa generazione si trovano infatti i più
convinti e a un tempo i più equilibrati sostenitori e protagonisti della ricezione del Vaticano II. Pio Laghi è stato un protagonista di questa generazione.
Un diplomatico di razza
Nato nel 1922 e ordinato sacerdote nel 1946, aveva
conseguito la laurea in teologia (1947) e poi in diritto canonico (1950) alla Pontificia università lateranense. Dopo la frequenza alla pontificia università ecclesiastica, la
fucina dei diplomatici vaticani, era stato assunto al servizio della Santa Sede (1952) e inviato come segretario di
nunziatura in Nicaragua. Tre anni dopo viene trasferito
alla delegazione apostolica di Washington e, nel 1961,
alla nunziatura di Delhi. Richiamato a Roma nel 1964
serve per un quinquennio presso la Segreteria di stato
nel Consiglio per gli affari pubblici (oggi Sezione per i
rapporti con gli stati). Designato delegato apostolico per
Gerusalemme e la Palestina nel 1969 riceve l’ordinazione episcopale. Negli anni trascorsi a Gerusalemme, ricopre anche l’incarico di pro-nunzio a Cipro e visitatore
apostolico per la Grecia.
Fra l’incarico a Delhi e quello in Palestina, conosce
e diviene il principale sostenitore di madre Teresa di
Calcutta. Dal 1974 al 1980 è inviato nunzio apostolico
in Argentina (gli anni più difficili della sua esperienza
diplomatica), e in seguito diviene delegato apostolico
negli Stati Uniti. Nel 1984, con l’allacciamento delle relazioni ufficiali tra Santa Sede e Washington diviene il
primo nunzio negli USA. Nel 1990 è nominato pro-prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica e
prefetto nel 1991, dopo essere stato creato cardinale.
Rimane alla congregazione fino al 1999. Dal 1993 è patrono del sovrano ordine militare di Malta. L’ultimo
prestigioso incarico diplomatico lo riceve da Giovanni
Paolo II alla vigilia della guerra tra Stati Uniti e Iraq,
nel marzo 2003. Nell’occasione è latore di una lettera
personale del papa a Bush, nel tentativo di evitare la
guerra.
Il sostegno a madre Teresa, il dialogo tra la Chiesa
cattolica e gli Stati Uniti, l’azione per la pace i suoi risultati maggiori. La questione argentina, il dolore più
grande.
Con i poveri di madre Teres a
Il rapporto con madre Teresa è stato ampiamente
descritto dallo stesso Laghi nel volume dedicato a madre Teresa Il Vangelo in cinque dita (EDB, Bologna
2003). Ovunque Laghi fosse inviato dalla Santa Sede,
lì poco dopo madre Teresa apriva le sue case della carità: a Roma, ad Amman, a Gaza, a Zarete (Argentina), a San Francisco. «Trasferito a Washington, come
delegato apostolico e poi come nunzio negli Stati Uniti, mi incontrai numerose volte con lei, sia nella capitale, sia a New York. A Washington ebbi modo di esercitare l’incarico di “co-worker”, che ella mi aveva dato a
Roma quando fu aperta la casa di Tor Fiscale. Ebbi così modo di condividere un po’ la vita delle suore recandomi a celebrare messa in Otis street, visitando i malati di AIDS e amministrando i sacramenti. Richiamato
a Roma dal santo padre, dopo un decennio di servizio
negli Stati Uniti, e nominato prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica, gli incontri con madre
Teresa divennero ancor più frequenti. Ella voleva che
seguissi le Missionarie della carità durante il periodo
della loro preparazione in vista dei voti perpetui e della loro formazione culturale presso l’Istituto Regina
Mundi».
Da madre Teresa, Pio Laghi aveva imparato un trat-
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Pio Laghi
to di spiritualità francescana: riconoscere e restaurare
nei poveri l’immagine di Dio. Così scrive di lei: «In
quella donna fragile, giovane, cristiana, posta accanto ai
moribondi e ai più poveri, in un luogo culturalmente e
religiosamente ostile, ove ogni cosa era contro di lei ed
ella appariva come un niente, in quella donna è come
se lo Spirito ci dicesse che il Vangelo è potenza divina,
che la fede è ancora possibile, perché Dio parla ancora
e non si è allontanato da noi. Parla proprio anzitutto nei
poveri. Essi sono il programma evangelico con il quale
Cristo stesso inaugura la sua missione; sono il giudizio
finale, la pietra di paragone della nostra realtà storica;
sono la figura della povertà di Dio, che nella morte del
Figlio rivela a tutti il suo volto».
Nel centro del l’impero
Sul servizio di Laghi presso la nunziatura in Argentina, i media hanno scritto in passato e, come in un incontrollato refrain, hanno ripetuto anche in morte le accuse di coinvolgimento di Laghi con le attività criminali del regime, senza curarsi di controllare che nel frattempo esse erano state tutte autorevolmente e pubblicamente smentite. Abbiamo ricostruito e documentato la
vicenda, avendo a disposizione diverse fonti, in una
pubblica intervista con il card. Laghi (cf. Regno-att.
14,1997,385), per cui ritengo di non dover tornare sull’argomento. Laghi non ha mai, né direttamente né indirettamente, giustificato alcun atto del regime dei generali argentini nei confronti degli oppositori politici,
molti dei quali poi risultati uccisi. Diverso è il caso del
comportamento di qualche singolo esponente dell’episcopato argentino e delle informazioni favorevoli al regime militare fatte giungere a Roma, del resto di segno
opposto alle informative del nunzio. Al punto che Paolo VI stesso chiamò il card. Primatesta, chiedendogli ragione di quella difformità di informazioni. Di fronte alle domande molto puntuali del papa, l’arcivescovo Primatesta difese il regime dalle accuse del nunzio, definendole il frutto della propaganda comunista.
Gli Stati Uniti rappresentano il maggior successo
del nunzio Pio Laghi. La nomina di arcivescovi (poi divenuti cardinali) come Bernardin (Chicago), Keeler
(Baltimora), Levada (oggi successore di Ratzinger alla
Congregazione per la dottrina della fede), Mahony
(Los Angeles), O’Connor (New York) ha influenzato la
linea pastorale della Conferenza episcopale statunitense per tutti gli anni Ottanta e Novanta (cf. Regno-att.
16,1990,497).
Un forte ricentramento dell’attenzione dei vescovi
sui temi ecclesiali (soprattutto liturgici ed ecumenici);
un progressivo alleggerimento della tensione interna alla Chiesa tra vescovi e teologi; un accresciuto ruolo sociale e culturale dell’episcopato, soprattutto sui temi
della pace e della giustizia economica sono stati i punti
nei quali la sua azione si è concentrata. Sul piano politico il maggior risultato è stata la nomina del primo ambasciatore degli USA presso la Santa Sede, il 10 gennaio 1984, negli anni della presidenza Reagan; sul piano ecclesiale il processo di consonanza e di convergenza tra i vescovi e il papa. Al riguardo furono determi-
nanti due avvenimenti che recano la firma di Laghi: il
secondo viaggio di Giovanni Paolo II negli USA, nel
settembre del 1987, e l’incontro successivo in Vaticano
tra gli arcivescovi statunitensi, il papa e la curia romana, nel marzo del 1989.
Il dramma del l’Iraq
L’ultima sua missione internazionale fu l’incarico
del 2003. Alla vigilia della guerra contro l’Iraq, Giovanni Paolo II mandò proprio Laghi dal presidente George
W. Bush per chiedergli di evitare la guerra, contando
sulla profonda amicizia tra il cardinale e la famiglia Bush. La diplomazia vaticana era fortemente convinta dell’errore epocale di quella guerra, mentre non si era opposta a quella in Afghanistan. Era soprattutto convinta
della destabilizzazione dell’intera area mediorientale,
della forza di potenza regionale che sarebbe stata offerta all’Iran e della fine delle comunità cristiane in tutta
l’area.
Il cardinale non solo non trovò ascolto su alcuna delle argomentazioni della Santa Sede – né nell’incontro
preliminare con Condoleezza Rice, né in quello con il
presidente Bush –, ma a un certo punto dell’incontro
dovette interrompere bruscamente il presidente per poter intervenire e dire le ragioni del papa: «Sono qui a
nome del papa, per portarle un messaggio del papa,
non solo per ascoltare le sue teorie. Lei mi deve ascoltare». Con la Rice andò anche peggio. Nel corso di un’ora, ella spiegò al cardinale che in Iraq sarebbe andato
tutto bene e in breve tempo; che bisognava fare come
contro il comunismo, solo che qui si doveva intervenire
militarmente; i morti poi sarebbero stati contenuti e tutto il Medio Oriente sarebbe risultato pacificato.
Pare che il presidente Bush, «il migliore presidente
della storia americana» come taluno lo ha definito, non
abbia neppure aperto la missiva del papa in presenza del
cardinale e l’abbia con poca delicatezza lasciata scivolare sulla scrivania. Laghi era esterrefatto, ricordando la
capacità politica di Bush padre. Con dolore previde il disastro iracheno.
Allo scoppio della guerra assunse, assieme ad altri
cardinali, l’iniziativa riservata di verificare la possibilità
di un incontro ecumenico, convocato dal papa, di tutti
i leader cristiani a Roma, per la Pentecoste, in favore
della pace. Fra i favorevoli anche il card. Ratzinger. Un
gesto religioso a fronte di una «teologia politica» di cattiva lega, che stava fungendo nei media da giustificazione di una guerra sbagliata. Autorevoli le adesioni
informali di area protestante. Molte le adesioni anche
da parte ortodossa, ma non di Mosca. L’iniziativa, anche per la precaria salute del papa, rimase un sentiero
interrotto.
Gianfranco Brunelli
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Avery Robert Dulles
ROFILI
24 agosto 1918
12 dicembre 2008
L’America che non c’è più
La scomparsa di Dulles e Neuhaus
A
very Dulles, gesuita, teologo, cardinale,
è morto all’età di 90 anni il 12 dicembre 2008 alla Fordham University, nell’infermeria che la Compagnia ha all’interno del complesso universitario situato nel Bronx a New York. Nel suo
ufficio, in quella sede, ero passato parecchie volte per un incontro che aveva
assunto fin dalla prima visita la forma della tradizione:
una breve attesa, l’inizio della chiacchierata in una saletta adiacente, poi la discesa nella mensa della comunità e
un pasto frugale al self service (qui le sue domande si facevano più curiose e penetranti), alla fine un rapido passaggio per salutare le sue collaboratrici e ricevere in
omaggio copie di articoli o libri che aveva scritto nel lasso di tempo in cui non ci eravamo visti.
La percezione che ho avuto di lui, fin dai primi momenti, è stata quella di uno stile signorile, ma non distante, di una bontà arguta, di un pensiero penetrante,
ma sempre attento a un’equilibrata formulazione delle
parole e dei temi. Impersonava, anche nella rottura della sua conversione al cattolicesimo (nel 1940, durante il
breve periodo di permanenza ad Harvard per studiare
alla Law School della prestigiosa Università di Cambridge), lo stile del mondo da cui proveniva: l’establishment
culturale di una famiglia votata al servizio diplomatico
delle strategie internazionali del governo statunitense
(suo padre, John Foster Dulles, fu segretario di stato dal
1953 al 1959 sotto Dwight D. Eisenhower, come già lo
era stato il suo bisnonno ai tempi del presidente Harrison; suo zio, Allen Dulles, gestì lo spionaggio USA in
Europa durante la seconda guerra mondiale e fu uno dei
padri fondatori della CIA, che diresse dal 1953 al 1961).
Avery Dulles è stato il primo cardinale della Chiesa cattolica che ho conosciuto e frequentato con una certa assiduità, e non ne ho incontrati altri che, anche per ragioni biografiche, avessero il suo stile.
Newman e Giovanni Paolo II
Era principalmente un teologo, e lo rimase intenzionalmente anche dopo l’elevazione a cardinale nel
2001 quale riconoscimento dei suoi meriti teologici,
1956: il giovane Avery Dulles, appena ordinato sacerdote dal card.
Spellman, con il padre, Foster Dulles, segretario di stato americano.
Foto Archivio Il Regno.
che furono anche quelli di un’abile mediazione tra le
correnti più critiche della teologia cattolica statunitense e le istanze vaticane. Nella complessità e vastità della sua produzione teologica rimase figlio dell’America
da cui proveniva, nobile nel portamento e arguta nell’interpretazione dei fatti; segnato dall’esperienza della
conversione al cattolicesimo, che ebbe per lui la forma
di una rivelazione religiosa dopo un lungo itinerario di
approccio culturale e intellettuale. In questo quadro si
potrebbe leggere l’oscillazione fra il doveroso rispetto
dell’autorità ecclesiale e la non rinuncia a un pensiero
critico – e anche a una parola siffatta quando ve ne era
la necessità. Visse del Vaticano II e impersonò come
pochi altri le tensioni e le ambivalenze che caratterizzarono quel passaggio dell’autocomprensione della
Chiesa cattolica. Non le volle risolvere su nessun lato, e
credo si sia trattato di una scelta consapevole e voluta.
Fu il mutare delle stagioni ecclesiali che marcò la diversa percezione che si ebbe di lui e della sua teologia nel-
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le periodizzazioni successive al Concilio. Per queste ragioni, per lui era cosa del tutto naturale, e priva di contraddizione interna, collaborare a due mezzi di stampa
così diversi e opposti tra loro come sono le riviste America e First Things.
Dopo il servizio militare in marina durante la seconda guerra mondiale, dove contrasse una poliomielite che lo accompagnò per tutto il resto della sua vita e
lo ha condotto, privato della voce, alla morte, entrò
nella Compagnia di Gesù (1946), venne ordinato prete
nella Chiesa della Fordham University (1956), condusse a Roma gli studi di specializzazione, conclusisi con
un dottorato alla Gregoriana (1960). La sua carriera
accademica lo portò nei luoghi in cui probabilmente lo
avrebbe condotto la vita auspicata per lui dalla famiglia
(la conversione segnò una frattura dei suoi rapporti con
il padre, poi rimarginatasi con gli anni): Woodstock
College, il seminario storico della Compagnia negli
Religione e vita pubblica negli USA
L
a mattina dell’8 gennaio 2009 è morto a New York fr. Ripo primario della religione è di non essere asservita alla vita pubblichard John Neuhaus, fondatore nel 1990 della rivista First
ca. Qui scopriamo un paradosso necessario. Una religione che sia
Things e dell’Institute on Religion and Public Life che, oltre
sottomessa alla vita pubblica ha ben poca utilità pubblica. Infatti,
a funzioni culturali e di lobbying (nel senso alto e statunitense del
una tale sottomissione produce una religione politicizzata e una
termine), ricopre anche il ruolo di editore della rivista stessa.
politica religiosa; e quello che ne consegue, come noi ben sappiaPersonaggio forse poco noto ai lettori dell’informazione cattomo da un’amara esperienza storica, è una tragedia sia per la religiolica europea, Neuhaus è stato sicuramente una figura di riferimento
ne sia per la vita pubblica» (First Things, editoriale, marzo 1990).
e di controversia nel panorama del posizionamento cattolico nell’opinione pubblica degli Stati Uniti. Nato nel 1936 a Pembrocke (OnL’intento e l’esecuzione
tario, Canada), nella famiglia di un pastore luterano, ed egli stesso
L’intento non avrebbe potuto essere espresso in termini più
pastore luterano, fu accolto nel 1990 dal futuro card. John O’Connor
chiari; l’esecuzione, soprattutto in una realtà così complessa e canella Chiesa cattolica ricevendo l’ordinazione presbiterale: «Richard
ratterizzata da osmosi continue come quella statunitense, non poJohn Neuhaus è un teologo che trasformò se stesso da leader luteteva in radice attenersi agli auspici. Lasciando aperto il giudizio sul
rano liberale delle battaglie per i diritti civili e il movimento pacifipiano delle intenzioni personali, almeno questo è stato l’esito sul
sta degli anni Sessanta a patrono romano-cattolico del neoconserpiano della ricezione pubblica delle posizioni di Neuhaus e dell’avatorismo dei nostri giorni» (L. GOODSTEIN, New York Times 9.1.2009).
mericanismo di cui First Things è stato uno dei veicoli di trasmisLa parabola personale di fr. Neuhaus rappresenta uno spaccasione sul piano dell’opinione mediatica. Se la costellazione «neo
to emblematico del vissuto religioso nella sfera pubblica e polititeo-con», quale rilancio e riaffermazione del particolarismo statuca della nazione statunitense a cavallo fra il XX e il XXI secolo. Una
nitense, ha conosciuto il suo «apice» sotto l’amministrazione Bush,
parabola difficile da sintetizzare nelle forme comuni del linguagrimane tutto da verificare quale sarà la sua forza di impatto in un
gio mediatico e dell’analisi sociologica, come quelle di «born
quadro diverso di politiche governative.
again» o di «neo teo-con». Eppure, queste
Non diversa la situazione sul piano
cifre insufficienti cercano di portare all’eecclesiale. Nonostante alcune saldature
spressione un malessere diffuso che ha caferree, come sulla questione «pro-life» o
ratterizzato non solo la generazione di
R i c h a r d J o h n N e u h a u s in materia di regolamentazione legislativa
Neuhaus, ma anche quella più giovane vedelle coppie di fatto, è proprio sul ver14 maggio 1936
nuta dopo di lui.
sante interno della vita della Chiesa (ad
8 gennaio 2009
Malessere per la marginalizzazione e
esempio in riferimento alla vicenda del
subordinazione del fatto religioso nella cofondatore dei Legionari di Cristo) che si è
stituzione dell’opinione pubblica statunigià mostrata una scomposizione dei piani
tense; irrequietezza e congedo dalle espenel tornante del passaggio di pontificato
rienze di fede e di politica ereditate nelle
da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI.
trame delle relazioni paterne; percezione
Quando guarda a sé e alla sua missione, la
della necessità di principi primi irrecusabili
Chiesa coglie con chiarezza la non comche sostenessero, nell’alveo di un autentipatibilità dell’integralità della «Catholica»
co recupero delle ragioni fondative, le pocon l’integralismo del neoconservatorilitiche specifiche e proprie della nazione
smo del tempo presente; tra le due granstatunitense: «Il primo significato di First
dezze è possibile, al massimo, la strategia
Things è che, per amore sia della religione
di un accordo politico sul piano dell’opisia della vita pubblica, alla religione deve
nione pubblica – esattamente ciò da cui,
essere data la priorità. Mentre la religione
nell’intenzione di Neuhaus stesso, la relidà forma, arricchisce e provvede una fongione si deve astenere.
dazione morale della vita pubblica, lo scoM. N.
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Avery Robert Dulles
USA, nei pressi di Baltimora (poi trasferitosi a New
York) dal 1960 alla sua chiusura nel 1974; Catholic
University of America a Washington dal 1974 al 1988;
dopo essere divenuto emerito assunse la cattedra Laurence J. McGinley presso la Fordham University a New
York, dove fu attivo come professore fino al 2007.
Se i due volumi più noti della sua produzione teologica sono probabilmente Models of the Church e Models
of Revelation, che lasciano trasparire la sua idea complessiva di metodologia teologica, nelle chiacchierate
che ebbi occasione di fare con lui i volumi più cari a
Dulles erano quelli su Newman (John Henry Newman
del 2002) e sulla teologia di Giovanni Paolo II (The
Splendor of Faith. The Theological Vision of Pope John
Paul II, del 2003): «Come ogni avvento, gli anni che
chiudevano il XX secolo dovevano essere tempo di un
esame di coscienza e di pentimento per gli errori del
passato condotto nella preghiera. Consapevole dei fallimenti del tempo passato come dell’ora presente da
parte dei pastori e dei fedeli, il papa guidò la Chiesa nel
chiedere perdono a tutti coloro che essi avevano ferito.
Guardando avanti con speranza, il papa invitava a una
rinnovata fiducia nello Spirito Santo, che aveva fatto
fruttificare il grembo della vergine Maria, e nel Padre
misericordioso, che aveva donato il suo unico Figlio per
la redenzione del mondo. L’anno giubilare, così celebrato, era inteso come un’occasione di rinnovamento
nella Chiesa, per un nuovo slancio di energia apostolica, e per una più fedele aderenza a Cristo come via, verità e vita» (The Splendor of Faith, 261).
Senza forzare eccessivamente, e rimandando ad
analisi più accurate, il volume di Avery Dulles su Newman è marcato anche da consonanze biografiche fra
autore e soggetto del volume: «Per chiunque cerchi una
teologia che sia pienamente cattolica e appropriata ai
nostri tempi e alla nostra cultura, sia Newman sia il Vaticano II offrono risorse abbondanti e ricche. Quando
essi sono d’accordo, i cattolici possono stare tranquilli
della loro bontà. Quando non sono d’accordo, spesso
Newman e il Vaticano II si completano a vicenda, offrendo prospettive alternative che possono essere d’aiuto nell’affrontare i problemi dei nostri giorni. Nessun
teologo contemporaneo può permettersi di fare a meno
né di Newman né del Vaticano II (…). Dopo quasi due
secoli, gli scritti di Newman continuano ad avere un tono realmente moderno. Ciò che attira in essi, credo che
non venga tanto dall’accettabilità delle sue conclusioni,
quanto piuttosto dal suo metodo altamente personale di
giungere alla verità» (John Henry Newman, 164).
Un uomo che era la storia
del la teologia americana
In alcune occasioni di più stretta collaborazione
con Avery Dulles, per la stesura di libri e articoli che
toccassero più da vicino gli sviluppi postconciliari della teologia europea, emergevano tra noi non solo i
tratti della differenza generazionale, ma anche quelli
di due diverse sensibilità teologiche. La discussione era
libera – non ho mai sentito il peso di un giudizio da
parte sua –, ma sempre l’attenzione e la curiosità del-
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l’ascolto, il rigore della formulazione della sua proposizione che, pur rimanendo all’interno del suo stile e
dei suoi principi teologici, sentivi attraversata dalle parole e dai pensieri che avevi scambiato con lui. Credo
che guardasse con simpatia ai nostri incontri, sicuramente li preparava con puntiglio e precisione visto che
l’arcobaleno delle sue domande aveva sempre un preciso punto focale.
Un uomo che era la storia della teologia americana,
delle sue vicissitudini come dei suoi slanci sorprendenti, rimasto curioso e disponibile a interrogarsi anche
nei giorni della vecchiaia – portata e vissuta sempre
con stile e senza alterigia alcuna. Nelle sue formulazioni si poteva cogliere tutta l’abilità politica che aveva respirato tra le mura di casa, la saggezza misurata ma penetrante che gli veniva dallo spirito ignaziano, l’onestà
intellettuale e la bontà paterna che sprigionavano i suoi
occhi. Una figura bella anche nelle sue contraddizioni,
mai aggressiva e scevra da ogni facile lusinga, preoccupata per la condizione della Chiesa ma mai impaurita,
rispettosa della costituzione della Chiesa non perché
amasse il potere, ma perché amava il Vangelo e la
Chiesa del suo Signore.
Marcello Neri
p
p arole
delle religioni
La voce delle viscere
La misericordia parola ultima di Dio
S
i narra che una figlia di Muhammad gli mandò un
messaggero per comunicargli che un proprio figlioletto era moribondo. La risposta del profeta a questo primo appello fu devota, le fece infatti riferire che a
Dio spetta sia dare sia togliere e che tutto, presso di lui, ha
un termine stabilito. La invitava perciò a sopportare, così
da meritarsi una certa ricompensa.
Nell’Arabia dell’inizio del VII secolo venivano pronunciate le stesse parole dette molto tempo prima a Uz. In
quest’ultima, misteriosa località viveva Giobbe. Quando i
servi gli annunciarono la perdita di beni, di mandrie e di
figli, l’uomo integro e retto accettò la propria nuda condizione e disse che spettava al Signore dare e togliere (cf. Gb
1,21).
Quando però il male attanagliò le sue carni, Giobbe
mutò registro. Si spogliò della propria corazza religiosa,
protestò, contese con Dio, chiese il perché e, alla fine, ottenne che il Signore gli parlasse. Quando una notizia giunge attraverso intermediari (e a maggior ragione oggi, che
arriva per etere o per cavo) spesso si resta poco coinvolti.
Di contro, allorché non è più un’informazione, ma è un
fatto che ci coinvolge in prima persona, la percezione cambia. Così fu per Giobbe sul suo letamaio, così avvenne anche per Muhammad. La figlia infatti insistette e gli mandò
una nuova ambasciata scongiurandolo di venire. Egli allora si mosse, scortato da due accompagnatori, Sa‘d e
Mu‘âd. Gli «fu mostrato il bambino che rantolava quasi
fosse soffocato dentro un otre. Le lacrime traboccavano
dagli occhi del Profeta. Gli disse Sa‘d: “O inviato di Dio,
che cos’è questo pianto?”. Rispose: “Questa è la misericordia che Iddio ha posto nel cuore dei suoi servi misericordiosi; Iddio avrà misericordia solo dei misericordiosi”».1
Tutti sanno che c’è sofferenza nel mondo. Da sempre
sono molti i bambini che muoiono. Ma quando ci è dato
di guardarli da vicino non è possibile trattenere le lacrime,
e se si è nella fede si coglie che in ciò ne va di Dio. Nel racconto islamico non ci si deve attendere che si sollevi la
questione del perché Allah manifesti la propria misericordia nella commozione dell’animo e non nel risanamento
della creaturina sofferente. In effetti, per quanto per la
cultura occidentale la teodicea sia problema ineludibile,
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va affermato che il liquido moto che dall’interno sgorga
verso l’esterno coprendo le guance del profeta è più autentico tanto della dottrina consolidata quanto delle giuste
obiezioni che le si possono muovere. Il passaggio di orizzonte si concentra tutto nel fatto che Muhammad da lontano predica la rassegnazione e prospetta il premio, mentre quando si fa prossimo al nipotino morente scorrono lacrime sul suo viso. In quelle circostanze la misericordia
viene proclamata parola ultima di Dio. Allah è presente e
nascosto nel pianto, mentre appare lontano dalle parole
che lo esaltano.
Uscire dal la visione devota del mondo
Di fronte alla commozione suscitata da un bimbo rantolante l’appello al divino può apparire superfluo, qui basta l’umano. Così sarebbe se non ci fosse la necessità di capovolgere la visione devota da cui si era partiti. Bisogna riferirsi a Dio per sostanziare l’uscita dal religioso. Rispetto
alla sopportazione è obbligo additare la ricompensa celeste, mentre la convinzione stando alla quale Allah avrà
misericordia solo dei misericordiosi (vale a dire di coloro
che gli sono più simili) non è il motivo per cui si prova
compassione di chi soffre. La differenza tra i due atteggiamenti sta tutta qua. Dio, facendosi presente quando si nasconde, ci chiama fuori dal religioso.
Il Vangelo conosce un movimento paragonabile a
quello qui descritto nella parabola nota con il nome di
«buon samaritano» (Lc 10,29-37). In essa l’uscita dalla visione devota del mondo è rappresentata dal passare oltre
dei due personaggi legati all’ordine sacro: il sacerdote e il
levita. Essi sono uomini del tempio, non della strada.
Un’ipotesi esegetica sostiene che tirarono dritto per non
correre il rischio di contaminarsi con il contatto di una
persona che avrebbe potuto essere già morta. Anche se
così non fosse, resterebbe comunque certo che la loro
omissione è agli antipodi del detto profetico stando al
quale il Signore vuole misericordia e non sacrificio (Os
6,6; cf. 9,13; 12,7). Scendevano da Gerusalemme, la città
del tempio e del culto sacrificale, ma non avevano appreso che non vale nulla adorare Dio se si è incapaci di andare incontro all’uomo.
Il samaritano rappresenta la persona che si lascia guidare dal moto delle proprie viscere e non già dalla dottrina. L’essere afferrati dalla compassione (verbo splanchizomai, Lc 7,13; 10,33; 15,20) non equivale a dar corso al
sentimento o all’emotività; al contrario significa essere
consegnati alla relazione che ci costringe a farci prossimo,
facendoci uscire dalle nostre appartenenze identitarie. Né
è un caso che in tutta la parabola manchi qualsiasi esplicita menzione del nome di Dio. Egli è presente in quel
moto, proprio perché è nascosto.
In una sua lettera al clero e ai fedeli di metà degli anni Ottanta il card. Martini indicava il primato della misericordia con parole che da sole basterebbero ad attestare
uno stile pastorale: «Il cuore di tutta la narrazione consta
di una sola parola greca, che significa “fu mosso a compassione”. Essa designa l’intensa commozione e pietà da
cui fu afferrato un samaritano, che passava per quella stessa strada. Non pensiamo solo a un risveglio di buoni sentimenti. Poche pagine prima (cf. Lc 7,13), la stessa parola
è usata per descrivere la compassione di Gesù dinanzi al
funerale del figlio della vedova di Nain. In altri passi della Bibbia questa parola allude all’immensa tenerezza che
Dio prova per ogni uomo. Dobbiamo pensare che con
questa parola il racconto evangelico voglia descrivere un
evento misterioso che è accaduto nel cuore del samaritano e lo ha, per così dire, attratto nello stesso movimento di
misericordia con cui Dio ama gli uomini».2 Vale a dire, le
sue viscere hanno costretto il samaritano a liberarsi della
propria appartenenza e a farsi prossimo all’altro umano,
invece di indurlo a rivolgersi a Dio. Si imita perciò il Signore proprio in questo andare verso l’altro essere umano.
Uscire da sé stessi
Varie e pertinenti sono state le attualizzazioni della parabola evangelica che hanno indicato come essa faccia saltare la struttura «amico-nemico» o «noi-loro» che contraddistingue, in maniera aspra o sfumata, tutti i rapporti
basati sulle identità. A volte lo si è fatto identificando il ferito abbandonato sul ciglio della strada con l’avversario.3
È opportuno proporlo, tuttavia è anche bene ricordare
che il testo evangelico lascia volutamente nella maggior
indeterminatezza possibile le caratteristiche etnico-culturali del ferito. Si ricorre infatti alla più accomunante di
tutte le definizioni: «Un uomo scendeva…». Il testo moltiplica invece i riferimenti volti a qualificare l’identità dei
passanti: sacerdote, levita, samaritano. Tutti vedono, uno
solo si ferma: colui che dà ascolto alla voce che lo chiama
a uscire dalla propria appartenenza.
Tra le molte riscritture della parabola vi è anche quella beffarda proposta da Tommaso Campanella. Qua e là
l’irruente filosofo domenicano si lascia prendere da un eccesso di vis polemica. Tuttavia se si tiene il chicco senza
dar troppo peso alla pula, il messaggio della poesia si colloca a un livello ben più profondo del puro sarcasmo o del
semplice appello umanitario.
Da Roma ad Ostia un pover uom andando
fu spogliato e ferito da ladroni:
lo vider certi monaci santoni,
e’l cansâr, il breviario recitando.
Passò un vescovo, e, quasi non mirando,
sol gli fe’ croci e benedizioni:
ma un cardinal, fingendo affetti buoni,
seguitò i ladri, lor preda bramando.
Alfine giunse un Tedesco luterano,
che nega l’opre ed afferma la fede:
l’accolse, lo vestìo, lo fece sano.
Chi più merita in questi? Chi è più umano?
Dunque al voler l’intelligenza cede,
la fede all’opra, la bocca alla mano,
mentre quel che crede,
s’a te ed altri è buon e ver, non sai;
ma certo è a tutti il vero ben che fai.4
Trascrivendola su un altro registro, si potrebbe affermare che la «libertà del cristiano» rappresentata dal seguace di Lutero sta nel prestare soccorso allo sventurato
senza preoccuparsi di accumulare meriti di fronte a Dio (o
lodi davanti agli uomini). In questo senso l’atto si colloca
al di là della stessa qualifica di cristiano: per diventare
prossimo agli altri occorre uscire da sé stessi. Nella parabola non si parla mai di bilateralità. Dalla bocca del ferito non esce alcun grazie. Non c’è neppure un vero e proprio incontro tra i due. Quest’ultima eventualità è un dono, non il motivo che ci chiama fuori da noi.
Sergio Quinzio ha elaborato alcune riletture del «buon
samaritano» poste all’insegna dello scacco: il ferito non
era tale ma un perdigiorno immerso nel sonno, o un
ubriaco che imprecando e maledicendo imbrattò il samaritano con il suo vomito, o infine un brigante che si fingeva mezzo morto al solo fine di depredare i suoi soccorritori: «A chi dei tre il buon samaritano riuscì a essere prossimo?».5
È salutare essere ammoniti che tutte le relazioni instaurabili in questo mondo hanno lati oscuri che impediscono loro di essere davvero conformi alla tenerezza di
Dio. Con tutto ciò il samaritano lordato, coperto di insulti e di ferite ci è ancora di esempio, mentre non lo è il lindo, incolume passare oltre del sacerdote e del levita.
Piero Stefani
1
V. VACCA, S. NOJA, M. VALLARO (a cura di), Detti e fatti del profeta
dell’islam raccolti da al Buhari, UTET, Torino 1982, 713.
2
C.M. MARTINI, Farsi prossimo. La carità, oggi, nella nostra società e
nella nostra Chiesa. Lettera al clero e ai fedeli per l’anno pastorale
1985/86, n. 2.
3
Cf. ad esempio le riletture proposte in ambito latinoamericano a cui
fa riferimento T.M. RADCLIFFE, «Non passare oltre», in Non passare oltre.
I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, «I libri de Il Regno»,
EDB, Bologna 2003, 136. Ivan Illich invece invita a pensare al samaritano come a un palestinese e al ferito come un israeliano (o viceversa). Per
la complessa lettura al di là dell’etica della parabola cf. I. ILLICH, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Verbarium Quodlibet, Macerata 2008 (cf. Regno-att.
20,2008,683). Si vedano anche le considerazioni proposte da M. NERI in
Regno-att. 14,2008,500.
4
T. CAMPANELLA, Poesie, a cura di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1929,
n. 42: «Cavato dalla parabola di Cristo in san Luca, e da san Giacomo dicente: “Fides sine operibus mortua est” ecc. e da sant’Augustino: “Ostende
mihi fidem tuam, ostendam tibi opera mea”».
5
S. QUINZIO, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1980, 91.
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i
i lettori ci scrivono
Milano:
quel Lezionario impredicabile
Caro direttore,
vorrei segnalare il diffuso disagio del clero ambrosiano riguardo all’uso del nuovo Lezionario, da poco entrato in vigore e sul quale avevate dato notizia negli scorsi mesi (cf. Regno-att. 10,2008,310). Già il clero
della diocesi era diviso sull’opportunità pastorale di differenziarsi in toto dal Lezionario romano (vedi Sacrosanctum concilium, n. 23, che dà le
indicazioni sulle innovazioni «se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa» e all’ultimo paragrafo recita: «Si evitino anche, per quanto possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti») in quanto non se ne sentiva la necessità pastorale (il Consiglio presbiterale ha approvato l’introduzione del nuovo Lezionario dopo tre
controverse votazioni e con la maggioranza di 50% + 1 voto!).
Avendone iniziato l’uso, le perplessità sono cresciute e non ho ancora sentito un parere positivo dai confratelli, neppure dai più «tradizionalisti». La ragione sta nel fatto che la connessione tra le prime due letture e il Vangelo è del tutto illogica. Neppure la pretesa e discussa scelta «tematica» in luogo della (parziale) lectio continua romana – quasi che
i liturgisti siano più intelligenti degli evangelisti – appare chiara. Purtroppo una scelta così affrettata – e tutt’altro che condivisa con il clero
e il popolo di Dio – avrà pesanti ripercussioni sulla concreta vita liturgica della nostra diocesi: per i prossimi 40 anni utilizzeremo un Lezionario impredicabile!
Mi domando se i biblisti presenti nella commissione liturgica apposita abbiano avuto effettivamente voce in capitolo! Perché la vostra strepitosa rivista non approfondisce questa «pseudo-riforma»? Sinceri saluti. Un parroco di periferia della grande Milano.
Milano, 9 dicembre 2008.
lettera firmata
Congo:
la speranza che non finisce
Caro direttore e amici,
stamattina (alla seconda messa, qui nella parrocchia dei gesuiti sulla strada verso la frontiera del Ruanda, dove mi godo normalmente il
mio... teatro liturgico gratuito, settimanale – sacro e spirituale, per carità!), i due-trecento ragazzi me l’hanno proprio cantata a squarciagola
in tutti i toni: «Ormai è Natale!». Non posso più quindi far finta di non
saperlo... e devo proprio sbrigarmi a mandarvi gli auguri consueti!
Veramente devo dirvi che ci stavo pensando da qualche giorno, ma
non riuscivo a trovare l’ispirazione giusta. Non che adesso l’abbia trovata, per niente, ma non posso non associarmi almeno alla tradizione,
sennò cominciate subito a pensar male! Anche perché già vari di voi mi
hanno preceduto.
Da dove mi viene questa... «fiacca»? Non certo dalla mia salute, perché grazie a Dio è sempre molto buona (tenendo conto che anche qui in
Congo gli anni girano senza fermarsi e che ormai sono vicinissimo a un
altro numero tondo tondo!). Quindi il ritmo è necessariamente un po’
più calmo e... meditativo, e devi fermarti qualche volta in più... a guardare il panorama! Ma, grazie a Dio, sento ancora sprint sufficiente per
fare quello che devo fare, e vi assicuro che non c’è proprio tempo per annoiarsi!
Più che di fiacca si tratta dunque, probabilmente, di un po’ di... non
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so come chiamarla: rassegnazione? Delusione? Senso d’impotenza? Ciò
che ci preoccupa tutti qui è infatti la situazione di stallo e di incertezza
totale che continua a pesare, come una cappa di piombo, su tutto il Congo e sui paesi vicini. Anche se da qualche settimana la situazione di
guerra-guerriglia a Goma e dintorni (a 200 km circa da noi qui a Bukavu, dal lato Nord del nostro stesso lago Kivu) sembra, infatti, essersi un
po’ calmata, tuttavia le bande armate sono ancora là tutt’attorno e continuano ad armarsi e ad armare centinaia di bambini soldato e quindi
la guerra «guerreggiata» può riesplodere in un modo ancora peggiore
da un momento all’altro.
La situazione politica poi, anche se Kabila ha cambiato il suo governo qualche settimana fa, è sempre molto spenta, incerta, inefficace:
qualche proclama, e poi di nuovo tutto in coma! Il fatto è che il governo, oltre che debole e incapace o connivente, è bloccato e intimorito anche dal gran baccano del balletto vertiginoso (un vero teatrino ridicolo,
se non fosse tragicomico) delle varie diplomazie mondiali che, con bella
faccia tosta, piombano da tutte le parti, USA, Europa e Cina in prima
fila – come dei luminari affannati in un consulto non richiesto! – per dettare la loro diagnosi (sempre infallibile, anche se contraddice la ricetta
appena dettata dal consulto precedente) per sanare il povero Congo in
stato comatoso. Che poi sono proprio gli stessi... che poco prima lo hanno bastonato e lasciato mezzo morto sulla strada! E che anzi continuano dietro le quinte a ridurlo impietosamente in fin di vita con i loro finanziamenti alle varie bande mercenarie e ai paesi avvoltoi vicini, e con
il contemporaneo/conseguente criminale svaligiamento organizzato
delle sue preziose risorse! È qui il tallone d’Achille di tutta la matassa,
ed è quello che tutti si guardano bene dal riconoscere e dal curare!
Nel frattempo... la situazione umanitaria è sempre più catastrofica e
tragica, sia per le decine anzi centinaia di migliaia di povera gente di
Goma e dintorni, sempre in fuga dalle continue violenze delle molte
spietate bande armate, sia per tutto il resto dei 60 milioni e più di congolesi... senza stato, senza lavoro, senza pace, senza dignità né vera autonomia nazionale, con le strutture e le infrastrutture (strade, scuole, servizio sanitario, amministrazione...) che vanno sempre più a catafascio,
senza che si possa intravedere realisticamente dove e come trovare delle
possibili vie di uscita, almeno per fermare lo sfascio totale di questo nostro immenso, meraviglioso e... sciagurato paese/continente!
Riprendo a scrivere nel pomeriggio: ... l’atmosfera plumbea di questa mattina è stata spazzata via da un sole splendido e infuocato, che accende con luce smagliante di mille colori accesi il cielo pur nuvoloso, i
fiori-alberi-prati, e il lago, ora azzurrissimo! Dunque, perché non potrebbe succedere lo stesso, finalmente, anche per questo amato popolo
congolese, e con lui per tanti altri popoli della terra che, senza loro colpa, «camminano ancora nelle tenebre e nell’ombra della morte»?
Il vero Natale non ci dice infatti che «ci ha già visitati dall’alto il sole che sorge per guidare i nostri passi sulla via della pace»? Io ci credo e
ci spero con tutte le mie forze! Se anche voi ci credete, allora sì che ha
senso davvero augurarci di cuore, senza che siano più frasi fatte, stantie
e vuote... buon Natale 2008 e buon cammino nel 2009.
Con affetto,
Bukavu (Repubblica democratica del Congo), 22 dicembre 2008.
p. Antonio Trettel
I bambini di Betlemme
Caro direttore e amici,
nel periodo natalizio, Betlemme attira su di sé l’attenzione della cristianità mondiale per ciò che in questa cittadina è avvenuto poco più di
duemila anni fa. Mentre oggi chi abita in questo paese, se gli è possibile, cerca di andarsene: «Cristiani, musulmani ed ebrei cercano di emigrare» – così scriveva la scorsa primavera nel suo ultimo messaggio il patriarca latino di Gerusalemme (cf. Regno-doc. 7,2008,224).
La scorsa estate a Betlemme abbiamo alloggiato tre notti. Diversamente da Giuseppe e Maria, che in «quella» notte non trovarono posto,
il nostro gruppo era il solo presente nell’hotel. E questa era la prova dell’abbandono di Betlemme da parte degli stessi pellegrini, come conferma in un’intervista alla Radio vaticana p. Severino, direttore della struttura di accoglienza Casa nova della città.
Durante la nostra permanenza abbiamo avuto modo d’incontrare
una giovane coppia che chiameremo «Maria» e «Giuseppe»: lei proviene da un paese europeo, mentre il marito è un giovane palestinese. Si sono conosciuti durante i loro studi universitari. Sposatisi, hanno avuto
due figli e ora per scelta abitano in questa cittadina, nonostante qui siano problematici gli spostamenti, essendo Betlemme circondata da un alto muro che ne ha fatto un ghetto, dove per uscire ed entrare ci vuole un
permesso e la sera alle sette la porta di accesso (check point) viene chiusa e bisogna quindi usufruire di un’altra entrata, molto più difficile da
raggiungere… Il problema di Maria e Giuseppe si verifica quando devono uscire o rientrare da Betlemme, in quanto lei e i suoi figli, in possesso di un passaporto europeo, hanno libertà di movimento, mentre lui
avendo un passaporto palestinese ha un accesso diverso, dove i controlli sono più severi e richiedono tempi lunghi... In macchina nell’attesa del
padre i figli ancora piccoli chiedono alla madre: «Papà perché non viene con noi?»…
Le conseguenze negative di questo conflitto sono state notate pure
tra i piccoli ospiti dell’asilo gestito dalle suore della carità francesi. Qui
ci sono orfani in attesa di un’adozione e durante il giorno vengono ospitati pure i più piccoli che abitano nella zona. Sembra proprio che, come
duemila anni fa, anche oggi chi nasce a Betlemme non abbia una vita
facile e soprattutto sia privato di un futuro roseo…
Ma che ne è dei bambini che si trovano tra coloro che, avendo più
mezzi a disposizione, sono dalla parte del «forte» in questo conflitto?
Non avendo avuto esperienza diretta, mi rifaccio a quanto scrive David
Grossman, un intellettuale israeliano, nel suo ultimo libro A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori). Egli si dice convinto che «quando
parlano le bombe, è difficile udire le parole», ma crede che «la letteratura serva alla pace e non può permettersi il lusso della disperazione».
Lui stesso ha avuto un figlio colpito da un razzo nelle ultime ore della
seconda guerra del Libano (agosto 2006), mentre tentava di trarre in salvo un compagno. Egli si preoccupa quindi di far comprendere ai suoi
lettori la tragedia e il dramma di chi vive nel suo paese, parlando di
quella «paura esistenziale» che noi che siamo cresciuti con la pace difficilmente possiamo recepire.
Nel suo libro bene riporta il dramma del piccolo Ofer di sei anni,
che percepisce la paura e l’assorbe dagli adulti coi quali vive e… dall’aria che respira… Un giorno all’improvviso il piccolo chiede alla madre:
«Chi è contro di noi?». Lei cerca di rincuorarlo. La mamma gli parla di
paesi amici: l’America e l’Inghilterra. Ma il piccolo continua a essere triste. Gli si fa vedere la cartina geografica, e qui il bambino si rende conto che i loro amici si trovano lontano, mentre il suo paese non solo è di
piccole dimensioni, ma, dati alla mano, secondo i calcoli che il padre e
il fratello gli hanno comunicato, è attorniato da una popolazione araba
molto più numerosa. Finché, esasperata, un giorno la madre porta Ofer
«in mezzo alla gigantesca spianata del memoriale ai carristi», ordinandogli di guardare… «lui si guarda attorno timoroso e chiede: è nostro?...
Abbiamo tantissimi carri armati…». Una terapia d’urto un po’ primitiva, ma efficace…
Vorrei ora proporre a coloro che intendono recarsi in Terra santa di
prolungare il proprio soggiorno a Betlemme per poter dar lavoro alle
persone del luogo e non metterle nella condizione di lasciare il paese.
Quindi: 1. ai parroci e a coloro che organizzano pellegrinaggi in Terra
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lettori ci scrivono
santa, visti gli interessi che ci possono essere anche dietro un’agenzia turistica, suggerisco di chiedere espressamente di poter pernottare a Betlemme; 2. in questo modo, oltre alla visita ai luoghi santi ci sarebbe del
tempo per portarsi vicino alla porta d’ingresso/uscita dalla città per recitare il rosario lungo il muro: come il popolo ebreo per entrare nella
Terra promessa ha avuto bisogno dell’intervento di Dio perché le mura
di Gerico crollassero, così anche noi oggi… Le suore del Caritas Baby
Hospital ([email protected]), che con altri cristiani del luogo si danno appuntamento ogni venerdì, possono dare delle informazioni necessarie a ogni gruppo che intende unirsi loro.
Genova, dicembre 2008.
p. Giovanni Belloni
Lussemburgo – eutanasia:
due domande
Caro direttore,
nella mia memoria di lettore de Il Regno non mi ricordo un intervento sul Lussemburgo se non un vago cenno in occasione del viaggio di
Giovanni Paolo II in Belgio, Olanda e Lussemburgo nel 1985. Mi ha fatto piacere quindi che si tornasse a parlare del mio paese seppure in oc-
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casione di una difficile questione come l’eutanasia (cf. Regno-att.
22,2008,753). Come avete scritto c’è stata il 19 febbraio 2008 la votazione della Camera dei deputati su una legge relativa alle cure palliative (all’unanimità) e una relativa all’introduzione dell’eutanasia (a stretta maggioranza). Alle forti critiche del Consiglio di stato si è aggiunta la decisione del granduca Enrico di opporsi, in ragione dei suoi poteri di sanzionare e promulgare le leggi. Per non entrare in una crisi istituzionale,
il primo ministro, il cattolico J.-C. Juncker, ha pilotato una votazione del
Parlamento (con l’accordo del granduca e dei capi di tutti i gruppi parlamentari) per una revisione costituzionale che liberi il granduca dal potere di sanzione lasciandogli solo quello di promulgazione (votazione
sull’articolo 34, avvenuta l’11 dicembre). Il 18 dicembre c’è stata la seconda votazione sulla legge circa l’eutanasia (31 sì, 26 no, 3 astenuti)
che, per le critiche del Consiglio di stato, necessita ora di un ulteriore
passaggio in Parlamento (probabilmente dopo la ricezione della modifica costituzionale sui poteri del granduca e a meno di una avocazione da
parte del Consiglio di stato stesso).
Ho ammirato l’insistenza e la pazienza con cui il vescovo locale,
mons. Fernand Franck, ha seguito l’intera vicenda ripetendo instancabilmente: «Tu non ucciderai: siamo pienamente coscienti di questo imperativo e niente al mondo ci persuaderà del contrario», sottolineando
la gravità della decisione della Camera dei deputati («si mutano radicalmente le condizioni complessive del vivere civile. La forza simbolica e
d’indirizzo della legge non può essere sottovalutata»), appoggiando tutte le professionalità coinvolte sul processo di fine vita (medici, infermieri, volontari). Ha sostenuto un movimento civile che ha raccolto oltre
8.000 firme contro la legge e ha programmato a partire dall’anno prossimo la celebrazione di una «settimana per la vita». Così come ho apprezzato l’intervento di Benedetto XVI il 18 dicembre in occasione delle credenziali del nuovo ambasciatore del Lussemburgo presso la Santa
Sede.
Nell’intera, drammatica vicenda, mi sono rimaste in cuore due domande. La prima riguarda il modo d’intervento della Chiesa su vicende
come questa. Alla buona ricezione del magistero del papa e del vescovo
si è contrapposta l’irritazione evidente dei deputati alla lettera di mons.
Fisichella ai parlamentari lussemburghesi (pubblicata in italiano su Avvenire il 5 dicembre). Mi hanno riferito che qualcuno, ancora incerto sul
da farsi, si è deciso per l’approvazione della legge per le modalità irritanti e intrusive dell’intervento del presidente della Pontificia accademia
per la vita. Mi chiedo se sia alla lunga più efficace il dissenso rispettoso
piuttosto che l’interventismo militante. L’ipotesi, per ora un po’ confusa, di referendum (sulla modifica costituzionale? sulla legge?) mi sembra
appartenga alla sensibilità interventista.
Una seconda domanda riguarda la figura del granduca e del primo
ministro. Il granduca sta raccogliendo un enorme consenso e, anche fra
i sostenitori della legge, un importante apprezzamento. Molti – come
voi – l’hanno avvicinato al comportamento del re Baldovino del Belgio
in occasione delle legge sull’aborto del suo paese nel 1989. Il primo ministro, di formazione cattolica e molto rispettoso della Chiesa, si è assunto il compito di evitare al paese il sommarsi della crisi finanziaria con
quella istituzionale. La revisione costituzionale era già prevista e confermata dal discorso natalizio del granduca. L’anticipo del voto sull’articolo 34 risponde all’emergenza del momento, alla tenuta delle istituzioni.
Mi chiedo se la Chiesa non abbia bisogno di ambedue queste figure, di
ambedue questi atteggiamenti, della mediazione istituzionale come della testimonianza. Solo così si evita un isolamento adamantino quanto infecondo, come una mediazione necessaria quanto valorialmente irrilevante.
Roma, gennaio 2009.
lettera firmata
Bambini ebrei
e leggi razziali
Nel racconto di Mirjam Viterbi e in altri casi
“
IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
“
D
urante il
passaggio
del piccolo
corteo, alcuni ignari soldati tedeschi
scattarono sull’attenti»: belli questi
guerrieri ariani che salutano l’accompagnamento al cimitero di una
donna ebrea morta ad Assisi nel monastero delle clarisse di San Quirico,
dov’era rifugiata durante l’occupazione tedesca. Più bello ancora il fascistissimo podestà di Assisi, che per
rassicurare gli ebrei che si sono messi sotto la sua protezione telefona in
loro presenza al comando tedesco
chiedendo se in zona ci siano dei
«porci ebrei» e tira «un grosso respiro di sollievo» alla risposta negativa.
Anche il lettore respira leggendo il
racconto del salvataggio di un gruppo di famiglie ebraiche attuato ad Assisi da un’organizzazione clandestina
che faceva capo al vescovo Placido
Nicolini: M. VITERBI BEN HORIN, Con
gli occhi di allora. Una bambina ebrea e
le leggi razziali, Morcelliana, Brescia
2008 (Regno-att. 18,2008,629).
«L’INVERNO PIÙ LUNGO»
DI ANDREA RICCARDI
Il racconto è sobrio ma vivo. Mi
ha provocato ad approfondire – co-
me dirò – la conoscenza di Mirjam
Viterbi e della sua vicinanza al cristianesimo. Mi ha anche spinto a leggere di altri e più vasti salvataggi di
ebrei nei volumi Nascosti in convento
di Antonio Gaspari (Àncora, Milano
1999) e Salvàti dai conventi di Alessia
Falifigli (San Paolo, Cinisello Balsamo 2005). Soprattutto mi ha deciso a
prendere in mano un’opera maestra
che già mi era arrivata in omaggio,
ma che sonnecchiava sullo scaffale:
A. RICCARDI, L’inverno più lungo.
1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a
Roma, Laterza, Bari 2008.
Consiglio a tutti di leggere questo volume di Riccardi che vedo oggi come il suo capolavoro. In esso
c’è un passo che richiama il titolo
del volumetto della Viterbi: «La storia della persecuzione degli ebrei (e
dell’ospitalità) è pure una storia di
bambini: vista con gli occhi dei
bambini, è una vicenda diversa da
come la si ricostruisce attraverso le
testimonianze degli adulti» (264).
Mirjam Viterbi intitola il suo racconto Con gli occhi di allora, cioè di
quando era bambina; e Riccardi ragiona sulla persecuzione degli ebrei
«vista con gli occhi dei bambini», riferendo testimonianze toccanti. Lia
Levi e la sorella che si vedono affidare alle suore come fossero «orfanelle». Renato Di Castro che consola il fratello più piccolo, Aldo, che
piange di notte. Giuseppe Fuà ospite al Pio XI che racconta come la
mattina dovesse «andare a messa e
dire le preghiere che io tra l’altro
mica conoscevo». Virginia Nathan
che si ritrova anche lei dalle suore
che le sembrano «tutte uguali, come tanti pinguini».
Lo storico ci dà un quadro convincente e in esso colloca lo «spaesamento» dei bambini. La Viterbi narra di se stessa bambina e insieme allude al quadro in cui la sua storia
andrebbe collocata.
Per questo doppio registro, della
presa immediata e del campo lungo
della voce narrante, il testo di
Mirjam Viterbi risulta di rara efficacia, sereno e drammatico insieme.
Dalle sue pagine veniamo a sapere
che «a tutti i conventi, compresi
quelli di clausura, era stato impartito l’ordine di aprire le loro porte ai
perseguitati per ospitarli». L’«identità religiosa» degli ospiti «veniva rispettata a tal punto che al termine
del digiuno del kippur le clarisse di
San Quirico avevano preparato una
grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che
chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza» (23).
IL VESCOVO NICOLINI OSPITAVA « UN
INCREDIBILE NUMERO DI SFOLLATI»
Ecco la famiglia Viterbi a colloquio con il vescovo, che sarà riconosciuto – insieme a cinque suoi collaboratori – come «giusto delle nazioni»: «La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci
avevano seguito da Padova e che, se
scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità. Mons. Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe
messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con la candela» (27).
Un giorno papà Viterbi «andò a
consigliarsi» col vescovo e a chiedergli se in caso di «estrema necessità»
avrebbe potuto accoglierli in vescovado, «già asilo di un incredibile numero di sfollati e perseguitati».
Questa fu la risposta del vescovo,
anche se quell’estrema necessità infine non si verificò: «Sono rimaste
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ALLA RICERCA DI FOTO
NON SOMIGLIANTI
Sulle carte d’identità veniamo a
sapere che esse «erano state stampate con una semplice macchina a pedale da un piccolo tipografo assisano, Luigi Brizi, che insieme al figlio
Trento, di notte, nel retrobottega
del suo negozio a S. Chiara, si dedicava a questa pericolosissima collaborazione» (46). Divertente è il racconto delle fotografie per le nuove
carte, che «chiese un piccolo lavoro
di fantasia» a quanti venivano fotografati per apparire dissimili da
«quello che erano stati». La mamma «che non aveva mai portato
orecchini si mise due piccole rane
luccicanti alle orecchie», mentre il
papà – professore universitario – «si
vestì come peggio non poteva e
guardò l’obiettivo con un’espressione che non sembrava certo molto
intelligente» (ivi).
Bella la pagina in cui Mirjam racconta come gli ebrei partecipavano
al culto cristiano: «Si andava a messa ogni domenica mattina, per non
creare sospetti. Di solito ci piazzava-
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mo nel fondo, in un angolo dove
non potessimo essere osservati; io
ero molto attenta ad alzarmi quando ci si doveva alzare, a sedermi
quando ci si doveva sedere e a non
perdere il momento in cui i fedeli si
facevano il segno della croce: allora,
come ci era stato insegnato, ci segnavamo senza segnarci, con un
movimento della mano tanto rapido quanto impreciso. Un percorso
simile a una croce, ma che non lo
era: o mancava qualcosa, o era in
senso inverso. E ciò non aveva nulla
di blasfemo, né per la religione cattolica né per la nostra. Mi sentivo assolutamente in pace con me stessa.
Così come lo ero nell’entrare in
chiesa e facendo il gesto di immergere le dita nell’acqua santa, senza
però mai toccarla. Mi dicevo che
Dio guarda, in certi casi, ai movimenti del cuore, non della mano. E
il mio cuore era pieno di rispetto in
entrambe le direzioni» (45).
È anche da quella contaminazione delle preghiere che è venuto
l’avvicinamento tra ebrei e cristiani,
che è uno dei doni per l’umanità
della nostra epoca. Testimonianze
simili – relative al momento della
preghiera – sono narrate da Falifigli
e da Riccardi nei volumi citati sopra. Episodi analoghi avevo estratto
qualche tempo addietro dal volume
I giusti d’Italia (Mondadori 2006)
curato da Liliana Picciotto sulla base della documentazione in possesso di Yad Vashem, dedicandogli alcune puntate di questa rubrica e in
particolare quella pubblicata nel
2006: «1943-1945: tra i “giusti” e gli
ebrei nasce il primo dialogo» (Regno-att. 12,2006,431).
“
IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
“
libere solo la mia stanza da letto e lo
studio. Ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da
letto è per voi».
Il podestà di Assisi, avvocato Fortini, che aveva fama di «persona retta», era stato all’origine della scelta
dei Viterbi di dirigersi ad Assisi invece che a Roma, al momento della
fuga da Porretta Terme, luogo del
primo rifugio. Un giorno la signora
Viterbi l’affrontò a viso aperto: «Gli
disse che eravamo ebrei e terminò
la breve presentazione con una
semplice domanda: avvocato, adesso che lei sa chi siamo, vuole denunciarci o aiutarci?».
Il buon Fortini si adopera per
aiutarli, facilitando l’ottenimento
delle «carte di soggiorno» con false
identità, ma si coinvolge anche personalmente nel salvataggio: «Egli
stesso andò di persona a Perugia
per riscuotere una cifra piuttosto
considerevole derivante dalla vendita di titoli nominali che il papà
aveva fatta, proprio su suo consiglio» (43).
A conclusione di quell’indagine
avevo intervistato – sempre per questa rubrica – Nathan Ben Horin,
che fu ambasciatore d’Israele in Vaticano ed è membro dal 1994 della
Commissione di Yad Vashem per il
riconoscimento dei «giusti»: egli è
sposato con Mirjam Viterbi e lei fu
presente al nostro colloquio, nella
loro casa romana ai Parioli, dove mi
avevano accolto come un fratello.
NESSUNA PRESSIONE
PERCHÉ SI CONVERTISSERO
Già in quell’occasione Mirjam
mi aveva parlato dei mesi in cui era
stata a contatto, ad Assisi, con i salvatori della sua famiglia, affermando che mai aveva subito pressioni
perché si convertisse. Sostenne anzi
che doveva «a quell’esperienza di
religiosità autentica e di aiuto dato
con il cuore» se poi divenne «quello
che è attualmente» e cioè un’interlocutrice attiva del dialogo ebraicocristiano, come attesta il volume
che ha pubblicato nel 2005 con
l’EDB, Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, che raccoglie i suoi interventi ai «colloqui» di Montegiove
(Pesaro), condotti con dom Benedetto Calati dal 1990 al 1995, alla ricerca appassionata di una religiosità
senza frontiere.
Anche questo libretto suggerisco
al lettore che voglia cogliere una voce non inquadrata in nessuna scuola – Mirjam è medico neuropsichiatra e lettrice dilettante della Bibbia
– che muove dalla spiritualità ebraica e incontra quella cristiana senza
alcuna forzatura, riuscendo con
una serenità rara a guardare a Gesù
come a «un ebreo osservante, ma
non convenzionale, che visse duemila anni fa», provando per lui «un
sentimento misto di responsabilità e
d’amore: amore per questa creatura
che mi parla, attraverso un vuoto di
quasi duemila anni, come un fratello perduto e ritrovato». Io dico qui
la mia gratitudine di aver incontrato in Mirjam e in Nathan una sorella e un fratello maggiori – in età e
nella fede –, dei quali vado fiero.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
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