Domenica
l’attualità
Non ci resta che la cassaforte
La
di
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
SILVANA MAZZOCCHI
S
MILANO
i paragona a un condannato a morte «che viene ammazzato dopo vent’anni». E lo fa per spiegare quanto sia cambiato in un quarto di secolo. Insiste che, proprio come
quel deadman walkingdestinato a lasciarci la pelle, è anche lui «ormai un altro uomo. Non innocente sia chiaro, ma certo tutta un’altra persona». Lui è Patrizio Peci, cinquantacinque anni, l’ex
terrorista che con le sue ammissioni fece arrestare nel 1980 oltre settanta brigatisti e favorì lo smantellamento di decine di covi. Il primo
pentito di quegli anni bui, colui che causò il terremoto delle dissociazioni e dette il via alla legge che le tutelò. Il collaboratore di giustizia che contribuì più di ogni altro a disintegrare la stella a cinque punte. Un ex brigatista, corresponsabile di sette omicidi, condannato
grazie alla normativa che lui stesso provocò a soli sette anni dei quali quattro scontati in carcere.
Ma anche l’unico che in quel tempo di piombo «abbia abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le vittime che fra i carnefici» per aver
dovuto piangere la morte del fratello, Roberto, catturato e ucciso dalle Brigate rosse per vendetta trasversale a venticinque anni e mentre
sua moglie era incinta. «E se anche di questo non voglio parlare, di-
la memoria
Repubblica
Vita
pentito
da
PIERO COLAPRICO e PINO CORRIAS
Il soldato Monelli alla Grande guerra
MICHELE SMARGIASSI
Esce con nuovi capitoli il libro
“Io l’infame” di Patrizio Peci
L’ex br ha raccontato a “Repubblica”
la sua seconda esistenza clandestina
co che quei brigatisti li odio ancora per quello che hanno fatto. E io
non li perdono».
Da allora Patrizio Peci vive una seconda vita. In silenzio e senza
identità. Più precisamente con un’altra identità, rimasta sconosciuta. Ma con la stessa faccia. Lui, la plastica per cambiarsi i connotati
non l’ha mai voluta fare. Ha un lavoro «equivalente a quello di un
operaio», non ha scorta né stipendio da protetto, «mai avuti questi
privilegi», e un fisico che, dicono, se si escludono i chili in più, non è
poi così cambiato, compresi i baffi appena ingrigiti dall’età. «La plastica non sarebbe servita. Uno come me, con un’esperienza da clandestino nelle bierre, sa che per sparire il miglior nascondiglio è vivere tra la gente». Patrizio Peci non si presenta all’incontro organizzato da settimane. Un dolore alla schiena gli impedisce di muoversi. «Il
male è grande, ma non muoio, sono sopravvissuto a tante situazioni...». Dice che, pur avendo sperato fino all’ultimo momento di poter viaggiare (da dove, resta un comprensibile mistero), non può arrivare nella sede della casa editrice che pubblica la nuova edizione di
Io l’infame, il libro scritto anni fa con Giordano Bruno Guerri e che,
arricchito di qualche decina di pagine inedite, torna in libreria lunedì
21 ottobre per Sperling e Kupfer nella collana diretta da Luca Telese.
L’appuntamento diventa telefonico e Peci stavolta è puntuale.
(segue nelle pagine successive)
con un brano inedito di PATRIZIO PECI
cultura
Twilight, ecco il vampiro gentiluomo
LOREDANA LIPPERINI e STEPHENIE MEYER
spettacoli
Grafica & jazz, metti l’arte in copertina
GINO CASTALDO
i sapori
Assaggiare il mondo a Terra Madre
LICIA GRANELLO e CARLO PETRINI
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
la copertina
Vita da pentito
Si definisce “non innocente, sia chiaro”,
ma un’altra persona. Diversa da quella che uccise
da brigatista e da quella che pentendosi diede il via
allo smantellamento delle Brigate rosse. Da allora
ha moglie e un figlio e lavora in una località segreta
Lo racconta a “Repubblica” e in un suo nuovo scritto
SILVANA MAZZOCCHI
(segue dalla copertina)
«O
rmai sono un’altra
persona, che vive e fa
cose diverse, che ha
una famiglia, un figlio.
È stata una scommessa, una delle tante. La
mia contro le bierre. Nessuno avrebbe creduto che mi sarei salvato. All’inizio è stata
dura, molto dura. All’epoca le Brigate rosse
erano ancora forti e il rischio che mi trovassero era concreto; solo col tempo mi sono
convinto che ce l’avrei fatta».
Peci e la sua seconda vita. La moglie l’ha
conosciuta in carcere, per corrispondenza.
«Mi sono sposato poco dopo essere uscito di
galera, è stata una scelta. Rientrare nella legalità, avere un’altra vita. Il matrimonio, un
figlio, il lavoro, la normalità… era quello che
cercavo. Mia moglie ha sempre saputo chi io
fossi, e ho sempre condiviso con tutti i miei
parenti quello che stavo diventando, quello
che ho fatto». E non si sente senza macchia.
«Sono quello che sono. Ma chi mi ha accettato ha riconosciuto la mia buona fede, sempre, dalla lotta armata alla dissociazione.
Tutte scelte trasparenti, compiute senza
condizionamenti». È il suo modo per respingere ancora una volta «le balle» circolate intorno al suo doppio arresto e al suo ruolo di
infiltrato, «balle» appiccicate dalle Brigate
rosse addosso a suo fratello in quei giorni di
strazio.
si ammorbidisce solo per descrivere le sue
reazioni. «Dolore, sofferenza. Mio fratello
era anche un amico, la persona sulla quale
avrei potuto fare affidamento, appena uscito dal carcere. Con lui avrei potuto risolvere
tante cose, consigliarmi. Invece in me è scattato un tale odio per i responsabili… Un odio
che è rimasto uguale da allora e che mi porto
sempre dentro, anche se non guardo i giornali che ne parlano, anche se, quando mi capita di incrociare una qualche trasmissione
tv, subito spengo». Sospira, cambia voce e
torna a parlare di sé. «Se ho accettato di scrivere una parte nuova del mio libro è stato solo per dimostrare che si può cambiare veramente vita e diventare un altro. Che si possono avere degli affetti e perfino qualche bene
materiale. Volevo dimostrare che è possibile
farcela».
Peci, lei non è senza identità, ne ha una
doppia. «È vero, ho avuto nuovi amici che
non sanno e non hanno mai saputo chi io fossi. E vecchi amici, pochissimi, che sanno e
che vedo raramente perché tutto è cambiato
e tutto cambia. È passato talmente tanto
tempo e, se io sono un’altra persona, anche
loro sono diversi, non ci sono più le affinità di
una volta». Un’esistenza sdoppiata: da una
parte una moglie, un figlio, qualche vecchio
amico, e due carabinieri, uno soprattutto,
Creso, con cui suo figlio è cresciuto. «Li ho
conosciuti e ci siamo trovati bene. Un rapporto di verità». Dall’altra la finzione: gli amici nuovi, i rapporti di lavoro, i conoscenti.
Come fa a insistere che tutto questo è normale? Si risente: «Non capisce? Io sono stato
abituato a vivere la clandestinità. L’ho fatto
“Io sono Patrizio Peci
carnefice e vittima”
Lei aveva provocato tanti arresti, poteva
immaginare una vendetta di quel genere?
«No di certo, non era in preventivo, ovviamente. Ero tranquillissimo per tutta la mia
famiglia, Roberto non era responsabile di
nulla… fu un fulmine a ciel sereno. Mi aspettavo che l’avrebbero fatta pagare a me. Ma io
sarei stato in grado di difendermi».
Sul come lui si sia difeso e nascosto per decenni, minimizza. «Sono stato, semplicemente, tra la gente. Avevo la mia vita, gli amici, la maggior parte dei quali ignorava la mia
vera identità. Negli anni ho cambiato lavoro
un paio di volte, e anche città. Ma non per
sfuggire a qualcosa, solo perché avevo trovato un posto migliore, più remunerativo. I primi tempi sono stati difficili, adesso lavoriamo in due e va molto meglio».
La famiglia e quella parola ricorrente,
«normalità», che Peci usa perfino da lente
per guardare il figlio. «Ha ventiquattro anni e
adesso vive praticamente da solo. Non gli
avevamo detto nulla su di me, l’ha scoperto
da ragazzino quando vide una mia foto su un
giornale. Alla fine ammisi di essere io quello
e, insieme a mia moglie, piano piano gli abbiamo raccontato tutto. Non gli ho mai chiesto di mantenere il segreto sulla mia vera
identità, ma lui lo ha fatto automaticamente
e se ne è assunto la responsabilità. Ha capito
la buona fede del padre».
Patrizio Peci e la paura. Non ne ha avuta
mai? «Una volta è capitato. A Milano. Ero con
mia moglie per strada e ho temuto un agguato. Un’altra volta, ricevetti una segnalazione
secondo la quale le Br mi avevano scovato. Si
rivelò falsa. Del resto non ho mai avuto una
scorta, se non quando mi dovevo presentare
in posti ufficiali, dove si sapeva che sarei andato. Ho sempre vissuto qui e non ho mai fatto la plastica. A che cosa sarebbe dovuta servire? Sembra incredibile, ma, in questi venticinque anni, ho fatto sempre la stessa vita, mimetizzato in mezzo alla gente. È il modo migliore per sparire. Certo, problemi ce ne sono
stati e tanti. Soprattutto quelli legati all’identità, a cominciare dal libretto della mutua».
Una second life quasi banale quella che
Peci descrive. Tranne che per l’assassinio del
fratello Roberto, che lui vuole tenere fuori. E
per quattro anni, prima di finire in carcere».
Si è mai rammaricato di aver provocato
tanti arresti? «Durante il carcere è stato tutto
molto difficile, dal punto di vista psicologico
e da quello pratico». Come decise di saltare il
fosso e di collaborare? «Dubbi all’inizio ne
avevo tanti, e anche sofferenza, già prima di
essere arrestato. Non ero più convinto di
quello che avevo fatto e, dopo Moro (il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro è del 9 maggio 1978, cinquantacinque giorni dopo la
strage di via Fani, ndr), non sapevamo più come andare avanti. Quella non era la mia crisi,
era quella di tutte le Brigate rosse. Lo so, io sono stato il primo, ma se la mia scelta fosse rimasta singola, isolata, non si sarebbe creato
il fenomeno della dissociazione. E quindi le
bierre non si sarebbero disintegrate. La mia
dissociazione fu un po’ quella di tutti. Non fu
lo Stato a distruggere le Brigate rosse, siamo
noi che ci siamo autodistrutti. La nostra strategia non era giusta, non lo era la violenza in
Italia, in quelle condizioni. Non lo era aver
provocato tanti danni, morte e dolore».
Progetti per il futuro? «Sei anni fa ho avuto
un tumore, ora diciamo che è superato, almeno sembra. Vorrei invecchiare tranquillamente. Per il resto anche prima vivevo nella normalità: facevo la spesa, parlavo con la
portinaia, andavo al bar, al supermercato».
Eccezioni? «Una volta, ero a Torino per un
processo; a Porta Palazzo un ragazzo mi ha
riconosciuto e me l’ha detto in faccia. Ti stai
sbagliando, gli ho risposto. E lui: “Io, al posto
tuo, starei attento”. E io: “Lo farò”. È stato
uno dei pochissimi casi. Per il resto, normalità». Ancora questa parola? «Non ci crede?
Beh, glielo dico, all’epoca sono tornato perfino a San Benedetto qualche volta, la città
dove ho vissuto, la mia città. Fu qualche anno dopo; sono stato a trovare mia madre, i
miei parenti. E ho anche dormito in casa di
mia madre. E senza i miei amici carabinieri
che qualche volta lasciavano correre, altrimenti non campavo più. La mattina andavo
al mare e una volta il padrone dello chalet mi
ha perfino riconosciuto, abbiamo pranzato
insieme. Ci pensi, se fosse venuto fuori: Peci
sta al mare a San Benedetto, ci avrebbe forse
creduto qualcuno? È tutto lì il bluff».
ALLA SBARRA
Patrizio Peci
scortato in aula
durante il processo
e, a sinistra,
l’ex brigatista
mentre depone
IL DISEGNO
Il disegno che illustra queste
pagine è Commiato di Sergio
Toppi, uno dei maggiori
illustratori italiani
Toppi ha lavorato tra l’altro
per Il Corriere dei Piccoli,
Il Corriere dei Ragazzi, Linus,
Il Giornalino, Corto Maltese,
L'Eternauta. Commiato
è uno dei lavori esposti
alla galleria d’arte Tricromia
di Roma fino a domani
nella mostra dal titolo
Città sirena. Per informazioni:
www.tricromia.com
Repubblica Nazionale
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
LE TAPPE
L’INFANZIA
L’ASCESA
L’ARRESTO
IL PENTIMENTO
Nasce
a Ripatransone
(Ascoli) nel 1953
Vive a San
Benedetto
e frequenta
l’istituto tecnico
a Fermo. Nel 1974
è a Milano. Primo
contatto con le Br
Nel 1976 inizia
la carriera
di brigatista
nella colonna
torinese “Mara
Cagol”. Nome
di battaglia
Mauro. In poco
tempo diventa
il responsabile
Il 19 febbraio’79
viene arrestato
Tra le accuse,
sette omicidi,
tra cui quelli
del vicedirettore
della Stampa
Casalegno
e dell’avvocato
Croce
Peci decide
di collaborare
con la Giustizia
Nel 1981 le Br
uccidono
il fratello Roberto
Nel 1986 esce
dal carcere
e da allora vive
sotto falso nome
PATRIZIO PECI
atrizio Peci è morto il 18 maggio
1983. Patrizio Peci ero io. Il 18 maggio 1983, a Torino, l’uomo conosciuto con il nome di Patrizio Peci
entrava in un’aula del tribunale di
Torino per testimoniare contro i
suoi ex compagni, principale teste d’accusa
nel processo contro le Brigate rosse. Fino a
quel giorno ero stato un brigatista, dopo di allora divenni il più feroce nemico dei brigatisti,
l’uomo che aveva reso possibile lo smantellamento della più importante organizzazione
armata degli anni di piombo. Peci “l’infame”,
perché aveva tradito il codice di omertà che lega tra di loro gli ex terroristi, spesso anche dopo la cattura. Peci “l’infame”, perché aveva
vuotato il sacco, chiuso ogni margine di ambiguità possibile, perché si era bruciato i ponti
dietro le spalle; infame perché aveva fatto i nomi, perché aveva collaborato con il generale,
perché aveva scelto quegli stessi carabinieri
che gli avevano dato la caccia. Infame perché
era passato dalla parte dei suoi ex nemici, che
adesso erano destinati a diventare i suoi unici
compagni di vita. Peci, l’ex combattente convinto che la guerra sia finita.
P
***
«Perché non ti fai una plastica?». Se dovevo
restare in questo paese, bisognava immaginare
come. Se non dovevo trasferirmi all’estero, era
indispensabile trovare un modo per vivere in
Italia. Ci pensai a lungo e giunsi a un’unica con-
venivano a fare visita, non mi faceva domande
sullo “zio Creso” e sullo “zio Picciotto”, i due carabinieri che dopo avermi dato la caccia erano
diventati i miei migliori amici. Quello era il suo
mondo, la sua famiglia, la normalità, i volti delle persone che conosceva da sempre.
Certo, come una premonizione, c’era la sua
passione per gli anni di piombo, per i programmi di Giovanni Minoli e per gli articoli dei giornali. Non ci eravamo dati regole perentorie, io e
mia moglie, se non questa: quando lui faceva
domande, noi rispondevamo sempre.
La verità iniziò a farsi largo a poco a poco, per
gradi, come se si fosse trattato di un destino ineluttabile, di una necessità. Un giorno, improvvisamente, ogni filtro cadde. Mio figlio mi venne incontro con in mano una copia di un giornale, credo La Stampa. Non ebbi bisogno di leggere per sapere di cosa si trattasse. C’era un articolo su Peci e una foto dei tempi del processo.
Era una vecchia immagine in bianco e nero, per
giunta un po’ sgranata, dove apparivo molto diverso da come ero in quei giorni. Ma se la regola dello sguardo ha un senso per chi ti ha conosciuto bene, figuratevi se uno sguardo può
mantenere un segreto di fronte a un figlio.
Disse semplicemente: «Papà, questo sei tu».
Io provai a scherzarci su, e risposi ridendo:
«Sì, figurati, sono il terrorista Peci…». Lui continuò, senza farsi scoraggiare dalla mia battuta:
«Papà, Peci sei tu, io lo so».
***
Mi sono accorto solo per caso che io sono l’unico. L’unico che negli anni di piombo abbia
abitato entrambi i gironi dei dannati: sia fra le
“Clandestino da sempre
non ho cambiato faccia”
IL DOCUMENTO
Io l’infame uscì nel 1983
È il racconto di Patrizio Peci
a Giordano Bruno Guerri:
la storia del primo pentito
delle Br, quello che diede un
colpo forse decisivo al partito
armato. Il 21 ottobre ritorna
in libreria per Sperling & Kupfer
in una versione aggiornata
con quattro capitoli inediti
(un estratto è pubblicato
in queste pagine). Premessa
di Luca Telese, prefazione
di Giordano Bruno Guerri
(288 pagine, 15 euro)
clusione. La sola cosa della vita di Patrizio Peci
che poteva servire anche alla vita del nuovo Patrizio era quello che Peci sapeva fare meglio. Ovvero vivere nelle città, dissimularsi tra mille esistenze anonime, vivere da clandestino. Sfuggire alla condanna a morte delle Brigate rosse con
gli stessi strumenti appresi alla scuola delle Brigate rosse.
L’ultima scelta, se possibile, fu ancora più importante. Vivere con la mia faccia di sempre, l’unica che conoscevo. Quella a cui ero affezionato. Uno a cui capita di morire, una volta nella vita, può cambiare tutto. Tutto, ma non l’immagine che guarda la mattina quando si ritrova davanti allo specchio. Era un azzardo, mi dicevano. Ma sentivo che potevo farlo. Ero convinto di
aver imparato una regola, nel periodo della mia
prima latitanza.
Un giorno, al mare, mi ero ritrovato in spiaggia. Ero bardato, senza baffi, apparentemente
irriconoscibile rispetto all’identikit diffuso dai
giornali. Mi capitò di incrociare lo sguardo di un
amico di infanzia, dietro un ombrellone, di esserne come attraversato, di avere la certezza
matematica di essere stato riconosciuto.
Quel giorno mi ero convinto che se qualcuno
ti riconosce non è per la forma del naso, o per il
modo in cui la mascella si appoggia sul tuo collo, o per il taglio delle sopracciglia. Se uno ti riconosce, quando sei latitante, è perché ti sa
guardare negli occhi. Ma siccome gli occhi sono
quelli, e nessuno te li può cambiare, decisi che
già che c’ero avrei corso il rischio, che avrei tenuto anche la mia faccia. Il primo anno fu durissimo. Il secondo migliore. Dal terzo iniziai a
pensare che ce l’avrei potuta fare. Scegliere di
fare un bambino, insieme, fu la traduzione di
questa certezza acquisita, fu il passo di non ritorno nella normalità. Il ritorno alle responsabilità era un altro passo che mi separava dalla
mia vita precedente. Essere responsabile di una
vita è la cosa che più ti allontana da un’esistenza in cui le vite non contano.
***
Oggi mio figlio ha ventiquattro anni, e un segreto. Non è stato sempre così. Non gli avevamo
detto tutto, quindi per molti anni anche lui ha
coltivato il dubbio. Quando era piccolo non si
faceva troppe domande. Non ci chiedeva chi
fossero gli “amici” con la pistola che spesso ci
vittime sia fra i carnefici, sia fra chi ha amministrato la morte sia fra chi ha conosciuto la morte, quella di una delle persone più care, quella
che ti fa conoscere il senso della perdita irrevocabile. Sono l’unico, e non è certo un privilegio.
È come se queste due parti della mia storia e della mia personalità si inseguissero in tondo dentro di me, in un moto perpetuo, e non si incontrassero mai. Come se aver impugnato una pistola per sparare mi rendesse ancora più difficile, e non più facile, capire le ragioni di chi ha sparato. Ogni volta che penso a mio fratello, e a
quello che gli hanno fatto, alla squallida messa
in scena allestita a beneficio dei giornali, alla foto dell’esecuzione scattata come se si trattasse
di un film, al canto di Bandiera rossamandato in
onda mentre gli leggono la sentenza di morte,
sento ribollire il sangue nelle vene per l’ira. Anni fa, come ho già raccontato, credevo che avrei
trascorso quello che mi restava da vivere a inseguirli con la pistola in mano. Oggi che l’idea della vendetta è passata come una febbre tropicale dentro di me, sento solo un grande vuoto: il
senso della perdita e dell’assenza. Non potrò
perdonare mai. Mai. Perché non si può perdonare quello che non ha senso.
E forse è per questo che i parenti delle vittime
non riescono a spiegare mai, a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita irrevocabile, soprattutto quando
sai che non c’era motivo, soltanto odio e ferocia
animalesca in chi ha premuto il grilletto. Ancora oggi, di questi brigatisti del presunto Fronte
delle carceri, quelli che realizzarono il sequestro, penso un’unica cosa: che sono delle bestie.
***
Oggi, a distanza di tanti anni, non so dire se
davvero sono io quello che ha smantellato le
Brigate rosse. Non sono un presuntuoso, non
mi interessa appuntarmi medaglie sul petto,
non è nel mio carattere. Ma di una cosa sono sicuro: io ho anticipato, con la mia scelta, qualcosa che doveva accadere. Sono stato lo strumento che ha reso possibile qualcosa che era già nella storia. Oggi, dopo che è passato un quarto di
secolo, e che il tempo ha misurato il peso delle
scelte, penso semplicemente questo: non ho
rimpianti, non ho rimorsi. Sono felice di avere
fatto quello che ho fatto, perché era giusto farlo.
© 2008 Sperling & Kupfer Editori Spa
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
l’attualità
Insicurezza sociale
Mentre i consumi e la produzione crollano, in Europa
le vendite di serrature elettroniche, armadi blindati,
cripte con la combinazione aumentano repentinamente
È la contromisura individuale alla paura della crisi
e dell’anarchia: una risposta illusoria, gretta e primitiva
FOTO LEEMAGE
FOTO CORBIS
FOTO MONDADORI ELECTA
ma tutto sommato più innocua delle risposte collettive
Non ci resta che la cassaforte
P
PINO CORRIAS
sei per cento del loro valore, più o meno, quanto le
azioni della Cirio e le promesse di carta della Parmalat.
Tanto vale premunirsi. Ritirare se non tutto almeno un
po’. Installare la propria doppia spanna di aria sicura,
dentro la quale infilare un po’ di soldi, un po’ di gioielli, una via d’uscita. Troppo ingenuo? Infantile? Inadeguato? Può darsi.
La cassaforte nasce con questo destino di argine
della paura incorporato. Le sue pareti blindate compaiono un paio di secoli fa, subito dopo il telegrafo e
poco prima del motore a scoppio, tra i fumi frastornanti della Rivoluzione industriale. Da allora proteggono le banche dagli assalti. Proteggono le case dei ricchi. Proteggono il malloppo. Ispirano desideri. Producono intrecci narrativi e avventure poliziesche. Diventano il sigillo della ricchezza e del potere, mentre la
città si allarga a dismisura, molto oltre i bordi dei capannoni industriali, con la sua confusione carica di
promesse, di conflitti collettivi e pure di inganni.
La sua epopea si rialimenta ad ogni crisi. Insicurezze sociali fanno parte della sua combinazione. Sempre le sue vendite salgono quando sale lo spavento.
Come è accaduto nell’Italia delle congiunture economiche e negli anni più sanguinosi del terrorismo. Oppure in Francia nei giorni di sotterranee turbolenze
generate dall’ascesa di Mitterrand, anno 1981 e seguenti, potere socialista all’Eliseo, minaccia alla proprietà privata, si mormorava, con scarso senso del ridicolo.
Stessa funzione psicologica (o psichiatrica) dei box
antiatomici scavati in tutta Europa sotto le ville d’alta
borghesia, quando ancora ruggiva l’orso sovietico,
negli inverni di Guerra fredda. E che adesso vengono
buoni per seppellirci il tesoro, casseforti anche loro,
come più di altri dimostrano, in questi giorni, i cantieri che gli svizzeri stanno allestendo dentro al massiccio del Gottardo, che un tempo riempivano di paranoia nucleare e oggi solamente di lingotti d’oro e di
fondi pensione non ancora intossicati (forse) dai subprime.
Persino lo Stato del Vaticano, pure depistando coi
vocativi di papa Benedetto Sedicesimo («Il denaro è
nulla»), ha sigillato per tempo le serrature dei suoi forzieri installati nel mezzo chilometro quadrato del suo
territorio di pietre, palazzi e pini marittimi. Riempiendoli, con previdenza, di molto nulla. Mille miliardi, secondo l’inchiesta del settimanale cattolico inglese The
Tablet, che i suoi addetti alle casseforti hanno incassato vendendo (cattive) azioni dal 2007 in poi, per
comperare eccellente valuta, bond e oro. Tutto da custodire per i suoi 804 abitanti esentasse, ben al riparo
dalla crisi.
Dicono gli analisti che sia finita un’epoca, quella che
il Financial Times ha battezzato del «Capitalismo Casinò». Che si sia dissolto il modello di una finanza planetaria e senza regole a caccia di profitti massimi e
immediati. Quella che il segretario al Tesoro Usa Hank
Paulson ha definito: «Capitalismo selvaggio». Che sia
deragliata per sempre l’economia fondata sul debito
che veniva moltiplicato, finanziato, assicurato e infinite volte rivenduto. Che sia tramontata l’era dei manager pagati come le star del cinema. Tutto possibile.
FOTO ALINARI
FOTO ALAMY
erché poi dovrebbe stupirci l’idea (e la voglia) di nasconderci tutti dentro a una cassaforte Sentinel con serrature elettroniche, pannelli blindati, timer, e doppia
chiave? C’è davvero qualcuno che sa cosa
diavolo stia succedendo, da un mese e
mezzo, alla (bella) vita dell’Occidente che diventa grigia, alla sua linfa vitale, il denaro, che d’improvviso si
assottiglia, e alla nostra roba che dilegua? Roba accumulata con la voracità del formicaio e la frenesia delle
cicale, azione per azione, mutuo per mutuo, estraendo il necessario e soprattutto il superfluo dai due terzi
del pianeta che stava andando in malora, un tempo, e
che adesso invece ci minaccia con le sue braccia a
buon mercato, i suoi container pieni di scarpe e di giovanissimi ingegneri appena laureati a Bangalore, e
informatici nuovi di zecca, tutti pieni di energia e di ottimismo della ragione in corsa verso il futuro che sarà
loro e non nostro, o almeno sembra, vai a sapere.
A Londra e dintorni, nelle ultime cinque settimane
si è venduto il venticinque per cento in più di casseforti
casalinghe, armadi blindati, cripte con la combinazione. Lo stesso accade nel resto d’Europa, Italia compresa, più o meno dai giorni in cui si sono sbriciolati i
forzieri della Northern Rock e della Branford & Bingley, le prime due banche nazionalizzate dal governo
britannico dopo settanta anni di libero mercato, crisi
periodiche, aggiustamenti periodici e soldi, soldi, soldi, secondo la regola aurea del: vinca il migliore e ad-
na per contenere il cappello dei New York Mets, la foto della ex fidanzata, la pergamena del Master, ma nessuna spiegazione su questo strano presente che sbriciola il futuro.
Perché l’economia, anche se è fatta di numeri, di
formule, di teorie matematiche, non è una scienza
esatta. Come la sociologia, spiega magnificamente
quello che è già accaduto. Ma in quanto a previsioni
future vale un oracolo. Perché asseconda il caso. Perché ha infinite variabili. Perché è massimamente
emotiva, genera euforia, genera il panico, e da entrambi si lascia influenzare. Possibile pure che con i
suoi logaritmi e i suoi forzieri, i suoi guerrieri in grisaglia & sushi, le sue cattedrali di marmo, i suoi summit
di banchieri centrali ieratici come sacerdoti che officiano, su schermi digitali, un rito che quotidianamente insanguina l’altare dello Stock Exchange, sia un
pensiero magico. Una pratica magica. Che a volte si
avvera e altre volte no.
Persino l’economista Paul Krugman, giusto un paio
di giorni prima di vincere il Nobel, aveva sigillato la sua
analisi sull’economia «che corre senza progetto e senza guida, se non l’avidità» con la confessione di una resa: «Ovviamente nessuno può sapere cosa accadrà domani». E di domani, da allora, ne sono arrivati parecchi. Ognuno con il suo imprevisto. Ovviamente. E allora? Meglio le casseforti di quelle scatole di cartone,
finché si è in tempo. Meglio una serratura Bramah con
i cilindri ben chiusi, che il rimpianto a cielo aperto. Come ai tempi in cui si sono volatilizzati nel nulla i bond
argentini, che oggi stanno tra il venticinque e il trenta-
Anche se non probabile. Come se un giorno venisse
annunciata la fine delle speculazioni, il tramonto dell’avidità.
Ci credereste? Ha una fibra migliore la riflessione
del finanziere Warren Buffet, che ha appena superato
Bill Gates nella classifica dei super ricchi. Dice che la
crisi genererà più danni dell’11 settembre, ma non altrettanta coesione sociale. L’attacco alle Due Torri ha
riunificato il Paese e l’Occidente contro un nemico, il
terrorismo. Mentre i mercati, crollando, diffonderanno il panico e l’anarchia, «moltiplicando le risposte individuali».
La cassaforte fa parte di queste risposte. È il perimetro privato in un mondo che ha cancellato i confini e
dunque anche i luoghi. È il baluardo contro l’assedio.
La serratura magica. L’incremento della sua diffusione ha a che fare con la sicurezza: parola sommamente pericolosa, secondo James Hillman, perché illusoria. Illusoria perché ha un fondale che non si colma
mai. Eppure le risposte individuali potrebbero non essere affatto peggiori di quelle collettive. Le quali, sulle
macerie delle Torri Gemelle, hanno elaborato le mappe dei bombardamenti in Iraq e Afghanistan. Il sangue
che ne è già scaturito, i conflitti che seguiranno. E la
strategia della paura perpetua, alimentata da una spesa altrettanto perpetua. La cassaforte, in fondo, è una
risposta assai meno sanguinaria. Magari più gretta, o
primitiva, di sicuro insufficiente, ma almeno innocua.
FOTO AFP
FOTO ROGER VIOLLET
dio ai perdenti.
Piccole casseforti contro l’immensa volatilità del
destino e il rischio numerico dei crolli. Contro il colpo
di vento che in un giorno disperde migliaia di famiglie
e di aziende. Contro il naufragio che in un’ora distrugge milioni di azioni. Che inghiotte cifre iperboliche,
mai pensate prima, nel tempo di un lancio di agenzia:
«Bruciati ieri 1300 miliardi di dollari». Ma poi materializzandone altrettanti, estratti da misteriosi caveau
sovranazionali: «Immessa liquidità sui mercati per
750 miliardi»; «Varato un piano da 400 miliardi», tutto
raccontato da un iperuranio di tecnocrazie finanziarie di cui non sappiamo nulla, ma che da quella immensa distanza, moltiplica le nostre bollette, svuota i
frigoriferi, rimodella la nostra vita.
In questo mese e mezzo di portenti sono sparite nel
nulla quotazioni da tripla “A”. Il Fondo monetario internazionale ha lanciato allarmi catastrofici: «Siamo
sull’orlo del collasso». La Banca centrale europea ha
vacillato. E l’intera Islanda è arrivata a un soffio dalla
bancarotta per troppi debiti bancari. Poi le Borse sono
ripartite alle stelle, con guadagni a due cifre, prima di
tornare a scendere in picchiata. E si sono visti i ragazzi magri e belli della Lehman Brothers andarsene in fila, tutti e ventiseimila, ma ognuno per sé, lungo i marciapiedi soleggiati della Sixth Avenue e della giovinezza, con la carriera e la giacca infilate dentro a una scatola di cartone, fragile come sa esserlo il destino, buo-
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DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
Il nascondiglio
perfetto
PIERO COLAPRICO
er trovare il nascondiglio giusto bisognerebbe imparare dai ladri. Una
volta un vecchio bandito, della cosiddetta gang dei Milords (siamo negli anni Sessanta, epoca post teddy-boys, un
impasto di rapinatori e truffatori), spiegava che nascondeva soldi, orologi e «altro
materiale» in un ombrello chiuso. Aveva
mutuato il trucco dell’ombrello da un capomafia, che nei suoi primi anni di Milano faceva il ricettatore. «Riceveva» in via
Canonica, una casa di ringhiera, e il bandito, dopo aver svuotato la casa di un’attrice, gli portò un cofanetto di gioielli. Il
mafioso contava anelli e bracciali, teneva
da parte le collane, ma a proposito di
qualche oggettino diceva: «È tolla», e lo
lanciava giù dalla finestra.
«Insomma — raccontava il ladro —
uscii con molti meno soldi di quelli che
pensavo. Quando feci un altro colpo, tornai da lui e si ripeté la scena. Quando lanciò giù dalla finestra un anello che mi
sembrava bello e che, al limite, avrei regalato a una delle mie amiche, corsi a vedere dov’era caduto, per recuperarlo nel
cortile. E alle prime non capii, non credevo ai miei occhi. Appeso a un filo sotto il
davanzale, c’era un ombrello aperto.
Quello non voleva pagare il prezzo giusto,
diceva che qualche gioiello non valeva
niente, fingeva di buttarlo via e, invece, gli
bastava tirare dentro l’ombrello quando
noi ladri andavamo via sconsolati per recuperare l’oro e le pietre preziose…». Lo
shock fu reciproco, l’ex «Milord» però
venne folgorato dall’idea dell’ombrello:
«Ne usavo per me uno vecchio scassato,
messo in ripostiglio. Intorno alle stecche
avvolgevo i rotoli di banconote, gli orologi erano impacchettati verso il puntale.
Non so se mi spiego, ma chi apre un ombrello nero in casa?».
Altri tempi, altre storie, altri uomini.
Oggi chi non ha la cassaforte, le guardie
giurate e le telecamere (e cioè la maggior
parte dei cittadini) s’arrangia. Lo stile di
occultamento è trasversale. Qualche
giorno fa è stato trovato a Palermo il tesoro di un uomo di Cosa Nostra: 496mila euro, oltre duemila dollari e quattro chili di
preziosi. Dov’era? Dentro quattordici barattoli, sepolti nelle aiuole del giardino
della casa del boss a Carini.
Lo stesso schema, degno dei pirati, è
adottato da non poche casalinghe: quando partono per le vacanze scavano buche
nei vasi di geranio. Spesso, per non fare fatica, lasciano il sacchettino a pochi centimetri di profondità: i ladri svuotano comunque i vasi.
Altro classico nascondiglio è quella cosa che più in una casa assomiglia alla cassaforte: il frigorifero. C’è chi svuota il contenitore dei ghiacci e, avvolgendo nella
plastica l’anello con il brillante, lo piazza
nel congelatore. Il trucco ha funzionato
per anni, ma è da un decennio circa che i
razziatori di appartamento spesso non
sono professionisti abili, ma poveracci affamati. Quando entrano in una casa, se
possono, si preparano da mangiare.
Qualcuno voleva bere. E, nell’acqua gelata, ha visto galleggiare qualche cosa. La
voce dei gioielli sotto ghiaccio in Italia si è
ormai sparsa tra i serbi-montenegrini.
Qualcuno ha anche progettato una casa a prova di ladro, trasformandola in una
baita: legno dovunque sui muri, librerie di
legno inchiodare alle pareti, corrimano
intarsiati. Ma, anche qua, non è durata:
schiodate le librerie, schiodati i panelli, la
baita s’è rivelata una specie di forziere di
zio Paperone.
Carabinieri e polizia, che raccolgono le
denunce, hanno trovato nascondigli scoperti dovunque, dagli aspirapolvere ai
finti termosifoni, alle cucce dei cani sul
balcone. Tanto che, nell’eterna guerra tra
vittime e ladri, non sono pochi quelli che
hanno fatto una scelta di rassegnazione.
Lasciano sul comodino qualche biglietto
da cento euro: va a dire, se non trovi, oh ladro, non insistere a spaccare tutto, qualche cosa ti ho lasciato.
Da evitare il comportamento di un anziano pensionato di Milano. Lui e la moglie, terrorizzati dai ladri, hanno nascosto
i gioielli di famiglia nella pattumiera e
l’hanno lasciata lì. Saggia idea: nessuno è
andato a frugare. Purtroppo, appena rincasati, la moglie si è lamentata per il cattivo odore, ha ordinato al marito di scendere a buttare immediatamente l’immondizia. Brontolando, l’uomo ha eseguito.
Salvo ricordarsi che cosa aveva fatto la
mattina dopo, quando il camion dell’Amsa era già passato. La storia si è scoperta,
così pare, grazie al rapporto di una volante accorsa per «litigio in famiglia».
FOTO LE
EMAGE
S
FOTO AK
G
FOTO GETTY
P
LE IMMAGINI
Nella foto grande, un’antica cassafortegiocattolo. Nelle foto piccole, una sintetica
storia della cassaforte, da uno scrigno
romano (in alto a sinistra) a un box
a combinazione elettronica (qui accanto)
Nelle due stampe qui sopra, un banchiere
veneziano del Cinquecento e un’illustrazione
tratta da Vent’anni dopo di Alexandre Dumas
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la memoria
Album ritrovato
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
A novant’anni dalla fine del primo conflitto mondiale,
una mostra a Borgo Valsugana raccoglie le foto mai viste
scattate al fronte dal giornalista-scrittore. Un diario
visivo in diretta dalla trincea: tra noia e attese, bicchieri
di vino, risate e sfide a palle di neve. Il racconto per immagini
delle atmosfere descritte dall’autore ne “Le scarpe al sole”
Il soldato Monelli
alla Grande guerra
MICHELE SMARGIASSI
A
La mostra 1915-1918:
al fronte con Paolo Monelli
(nel novantesimo anniversario
della fine della Grande guerra)
sarà inaugurata il prossimo
2 novembre allo Spazio Klien,
Borgo Valsugana (Trento),
a cura di Pino Ielen e Luca Girotto
La mostra, promossa
dall’Associazione storico-culturale
della Valsugana orientale
e del Tesino, e dalla Biblioteca
Statale A. Baldini di Roma,
resterà aperta fino al 7 dicembre
BORGO VALSUGANA
(Trento)
ppena dieci anni dopo,
l’«inutile strage» era già
una cartolina sorda. Nel
1928, ripubblicando Le scarpe al sole, il
suo libro più celebre, Paolo Monelli s’accorse che la memoria s’era già mutata in
fotografia: «Mentre ho ancora ben nette
nella memoria le linee del terreno, e i sassi, i mughi, i soldati, i feriti, i morti, le masse tedesche avanzanti, il sangue colante
dalla fronte del caporalmaggiore De Boni, gli occhi sbarrati di Altin, nulla mi è rimasto delle voci, degli urli, dei rumori,
degli scoppi, come se la scena l’avessi
vissuta, immagine vana tra altre immagini vane, sullo schermo d’una pellicola
muta».
E sullo schermo di un muto computer
oggi la riviviamo noi. Con i suoi stessi occhi. Vediamo i suoi «buoni alpini», i veci
e i bocia, come li vide lui, che finita la
guerra li avrebbe trasfigurati, con le parole, da ruvide macchiette militaresche a
eroi di un’epica; ma che allora, col tapum degli obici nelle orecchie, li guardava solo con curiosità, simpatia e burbera
tenerezza. E li fotografava con lo stesso
sguardo. Dieci, cento volte li fotografò:
quasi settecento, per la precisione. Tante sono le foto di guerra prese da Monelli, scrittore e giornalista di successo, ma
fotografo privatissimo, così privato che
quasi nessuno in novant’anni le ha viste,
quelle immagini. Non che si fossero perse, o sepolte chissà dove: erano rimaste,
semplicemente, appartate. Assieme ad
altre centinaia di scatti, a pacchi di lettere, ritagli e manoscritti, a migliaia di libri,
dal 1983 sono affidate alle cure della Biblioteca statale Baldini di Roma, a cui le
consegnò pochi mesi prima di morire la
vedova dello scrittore, Palma Bucarelli,
bella figura di intellettuale, energica e
colta direttrice della Galleria nazionale
d’arte moderna di Roma.
Un tesoro taciturno, al limite dell’afasico. Profili di montagne, luoghi, volti:
tutti senza nome, rari e imprecisi gli scarabocchi sul retro. Davvero «immagini
vane tra immagini vane». Forse anche
Pino Ielen sente disagio per l’inquietante silenzio di queste immagini, e cerca di
esorcizzarlo versandoci sopra un diluvio
di spiegazioni minuziose, nomi di montagne, di alpini, date, quote, cifre, che
può sapere a memoria solo un appassionato di Grande guerra come lui: «Ecco,
qui tre alpini del terzo plotone stanno
leggendo un giornale, si legge anche il titolo, “Si lotta oltre il monte Cimone”,
dunque siamo attorno al 15 luglio
1916...». Vorresti dirgli, a costo di offenderlo, zitto un momento Pino, guardiamocele in silenzio; ma poi capisci che è il
suo modo di salvare quei ricordi, richiamarli a vita. Del resto se non ci fossero lui
e i suoi cinque o sei amici dell’Associazione storico-culturale Valsugana
orientale e Tesino, tutti volontari, questo
tesoro non sarebbe utilizzabile. Quando
hanno saputo della sua esistenza, hanno
chiesto all’archivio che lo conserva di
poterci lavorare. Hanno avuto le copie
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DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
I TEMPI MORTI
GLI AMICI
In basso, il barbiere
di trincea; a sinistra,
sorrisi, pose e pause
di lettura a ridosso
della prima linea
immortalati
da Paolo Monelli
A sinistra, i commilitoni
di Paolo Monelli
fotografati in Val Cismon;
sotto, Monelli, in posa
tra due compagni,
regge la sua macchina
fotografica
elettroniche di tutte le immagini. Hanno
cominciato a riconoscerle una per una, a
ri-battezzare le cime e le facce, ce l’hanno fatta quasi sempre. Faranno in tempo
a farne una grande mostra per il novantesimo anniversario della fine della Prima guerra mondiale, il 2 novembre, qui
a Borgo Valsugana, che è un po’ il baricentro dell’avventura di Monelli, in questo piccolo e curioso museo della Grande guerra dove dietro le vetrine convivono spallina a spallina le divise degli alpini e quelle dei Kaiserjäger, perché questa
fino al 1915 era Austria, quasi ogni casa
qui ha appesa al muro la foto di un nonno in divisa asburgica; in questa valle la
storia orizzontale, quella dei confini e
delle guerre, è volubile, «solo il rapporto
con la verticalità è stabile», dice l’assessore Emanuele Montibeller indicando
col dito le cime eterne.
In «questa benedetta valle Sugana che
ha le cantine piene di vino e i granai colmi di mele odorose» Monelli era arrivato
ventunenne volontario negli alpini, lui
borghese di pianura; nato nel Modenese, già pronto a fare «malinconicamente
l’avvocato nella curialesca Bologna»,
rinnegò il dandy annoiato che era, cercando il bagno rigeneratore tra «uomini
nuovi, che hanno veduto il confine della
vita e ne sono ritornati». Suona un po’
dannunziano, ma era l’aria. Il commilitone Angelo Manaresi, che sarà sottosegretario alla guerra nel Ventennio ma finirà badogliano, lo descrisse «freddo e
incaramellato, sottile come un giunco,
caustico, mordace, freddurista impenitente, gran conquistatore di donne». Un
signorino della città fra gli ispidi guerrieri dalla penna nera: eccolo proprio così,
sbarbatello in divisa, aria un po’ saputa,
in una fotografia che evidentemente gli
ha fatto qualcun altro. Ha una macchina
fotografica al guinzaglio, una macchina
a soffietto. Forse una Vest Pocket, la folding camera di cui «ogni ufficiale e soldato dovrebbe provvedersi», come recita lo slogan che proprio nel 1915 la Kodak
pubblica sui giornali accanto al disegno
di un alpino. E quanti soldati fotografarono. Forse più di quanti già sappiamo:
altri tesori probabilmente giacciono nascosti nei bauli dei nonni. Ufficiali, più
che altro, perché la fotografia negli an-
ni Dieci era ancora un po’ costosa. Ma
anche fantaccini, cappellani, medici: fu
la prima guerra fotografata da dentro.
Dicevamo: quel damerino incaramellato, una volta assegnato al terzo plotone
della 265ª compagnia del battaglione Val
Cismon del 7° Reggimento alpini, ricevette subito un perentorio consiglio: «Si
tagli i capelli, si lasci crescere la barba e
cominci a bere vino». Eseguì. Dopo poche settimane: pizzetto, fiasco, pipa. Mimesi esteriore, metamorfosi interiore.
Quel che ha di prezioso questo finora
ignoto romanzo per figure di Monelli, è
la sua evoluzione nel tempo e nello spirito, una mosaico di tessere che Ielen e i
suoi amici con pazienza da trincea stanno rimettendo in ordine come fossero le
illustrazioni mancanti di Le scarpe al sole. Quel che ci si vedrà alla fine sarà forse
in grado di dare un’altra vita a un libro
quasi sparito dalla circolazione, di cui
sembra sopravvissuto solo il titolo-proverbio. I suoi personaggi ora hanno un
volto. Ecco la «vecia Vendramin», locandiera-mamma di Feltre; ecco alle falde
del Setole il De Lazzer con addosso quell’inverosimile frac rosso trovato nel baule di una casa devastata, che s’ostinava a
indossare per servire a mensa gli ufficiali; ecco Zanella, l’attendente del tenente
Monelli, con cui «avrò scambiato duecento parole in tre anni», muto anche in
foto mentre guarda il lago di Costabrunella; ecco il sottotenente Marni che non
si stanca mai (lui no, i commilitoni sì) di
strimpellare alla chitarra sperticate canzoni napoletane. «Ci sono tutti», s’intenerisce Ielen, «come ce li aspettavamo».
Eroi senza Omero, nelle Termopili
ghiacciate di un fronte che «non era neppure il più importante», tiene a spiegarti
Luca Girotto, medico e storico della
guerra sul Lagorai, «non decise le sorti
del conflitto», ma non per questo fu un
minore massacro di popoli. Nell’album
Monelli, però, battaglie nessuna: in battaglia si spara, non si scatta. C’è invece il
diario visivo della guerra dei tempi mor-
ti, della noia nervosa dietro i ripari, del
barbiere di trincea, del bicchiere di vino
identitario, della messa da campo, dei
muli fedeli, di una guerra che ha anche
spazio per le risate, le battute sconce, le
sfide a palle di neve.
Anche la «cronaca di gaie e tristi avventure» di Monelli fu comunque arruolata nel tronfio reducismo del regime fascista, ma francamente non ci stava.
Non perché Monelli fosse un pacifista,
anzi era stato interventista e non si pentì;
tantomeno un dissidente politico: la sua
carriera di giornalista, dal Carlinoal Corriere, fiorì tra le due guerre. Ma l’ironica
e commossa epopea alpina che Monelli
scolpisce ha ben poco di imperial-romano, è un’epica barbuta e ruvida di bestemmie e di bevute che passa sotto la retorica, forse ne fonda un’altra tutta sua,
ma di certo diversa da quella che gli “imboscati”, i borghesi, i politici, gli alti ufficiali cercavano di costruire addosso agli
alpini già allora, mentre quelli ammazzavano e si facevano ammazzare per
cento metri di pietraia chiamata “patria”. Nel libro, Monelli racconta di una
licenza spesa andando al cinematografo, a Castelfranco Veneto. A vedere
cosa? Un film sulla guerra, «che era qualche cosa di buffo, una concezione quarantottesca, truppe al Savoia! per quattro sullo stradone, piume di bersaglieri e
trombe che suonavano l’attacco», roba
da ridere, e Monelli infatti ci ride forte in
sala, e grida: «Io che faccio la guerra vi dico che la guerra non è così!». Lo zittisce
seccato un borghese: «E cosa me ne importa? Lasciate che me la goda riprodot-
ta come me la figuro io». Grandissimo,
preveggente apologo mediatico, questo. La guerra vista a casa non è mai la
guerra vera, vale per l’Ortigara come per
l’Iraq. Come se la “godevano” la guerra,
i civili? Nelle tavole acquerellate di Beltrame, dove gli alpini sembravano una
baldanzosa squadra sportiva. Nelle fotografie ben scelte dell’Illustrazione italiana, dove la guerra somigliava a una
passeggiata naturalistica tra le dentate
scintillanti vette.
A Monelli, roba così faceva venire l’itterizia. Lui che pure fu accusato, all’opposto, di aver messo in pagina «poco
odore di morte e di piedi», si sarebbe
vendicato di quella retorica con un libro
di sorprendente sarcasmo, La guerra è
bella ma è scomoda, che sembra scritto
per liberare la memoria dei “suoi” alpini dalla morsa degli «utopisti della pace
perpetua» e degli «eroi da retrovie». È
un libro illustrato con le feroci vignette
satiriche di Novello, chiaramente suggerite dallo scrittore. Monelli dunque
sentì il bisogno di contrapporre immagini a immagini. Perché allora non usò
le sue fotografie? I suoi bozzetti di vita e
di umanità, ma anche le foto più simboliche e astratte, le croci di legno nella
neve, il tunnel scavato nel ghiaccio alla
cui imboccatura s’affaccia un sogno di
montagne assolate e senza sangue?
Per la verità, Monelli non scrive mai
di aver fotografato al fronte. Se nel fondo familiare non ci fossero anche i negativi, se la scia di immagini non corrispondesse passo passo ai suoi trasferimenti, se la serie non s’interrompesse
bruscamente quando Monelli fu catturato dagli austriaci, si potrebbe perfino
dubitare che le abbia scattate lui. Pensava forse che le fotografie fossero penosamente incapaci di reggere il peso
della memoria? Di trasmettere l’emozione? Eppure lasciò che si ricavasse un
film, dal suo libro, nel ‘35: andò pure a
fotografare il set. Eppure qualche descrizione di fotografia spunta, proprio
nelle pagine delle Scarpe al sole. Ma sono altre fotografie, sono quelle che i soldati portavano nel portafogli, sul cuore.
Il ritratto che gli arriva dalla «perfetta
bambina diciannovenne lontana», per
sognarci su. Un’altra fidanzata, trovata
nel portafogli di un commilitone falciato dalla mitraglia. E un’altra foto ancora, «cinque ragazze floride», forse le sorelle, «nel mezzo la madre con così accorata mestizia negli occhi», questa
volta uscite di tasca al cadavere di un
much, un soldato asburgico, ungherese
per la precisione; a gridare che anche il
nemico ha mamme fidanzate e sorelle
come tutti i Ceschin, gli Zanella, i Rossetto di questa parte della barricata.
Forse, vuol dirci Monelli, sono le fotografie della pace perduta le uniche davvero capaci di smontare la guerra: non
le «immagini vane» che la replicano.
Mute come sono, le foto degli affetti
fanno esplodere le parole dentro, aprono la porta a certe «zaffate di dubbio»
rarissime ma feroci come quella che
prende di sorpresa autore e lettore a pagina 128 delle Scarpe: «Se valga, dunque, questo tradizionale concetto di
Patria, tanto stento, tanta rovina».
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
CULTURA*
Otto milioni e mezzo di copie, di cui cinquecentomila
solo in Italia. Adesso nelle librerie sta per arrivare
il quarto e ultimo volume della tetralogia di Stephenie
Meyer che ha per tema l’amore tra una teenager e un “non-morto”
Ne abbiamo parlato con l’autrice e ne pubblichiamo in anteprima
un brano. Aspettando il film, che sarà presto nelle sale di tutto il mondo
LOREDANA LIPPERINI
a domanda che assilla migliaia di lettrici italiane è una sola: riuscirà Bella
Swan a diventare un vampiro? Quel
che si può dire è che il 30 ottobre troveranno la risposta in Breaking Dawn,
ultimo volume della fortunatissima
saga ideata da Stephenie Meyer. Strana e felice sorte, quella toccata alla giovane madre americana,
nata trentacinque anni fa ad Hartford (che, per
ventura, è la stessa cittadina del Connecticut citata da Stephen King nel racconto The Mist) e considerata ormai la fondatrice del cosiddetto New
Gothic, o Gothic sentimentale.
Tutto è avvenuto rapidamente: l’anno è il 2003,
il libro è Twilight, cui seguiranno New Moon e Eclipse. La storia è semplice: Bella, adolescente di provincia, ama Edward Cullen, splendido vampiro dai
muscoli d’acciaio, ma di volto e di animo talmente gentili da renderlo impermeabile alle tentazioni del sangue umano e del sesso prematrimoniale.
Bella ha cercato di offrirgli collo e verginità nel corso di tre libri (di quanto avviene nel quarto, occor-
L
conquista con la sua bellezza e dolcezza un vampiro, la sua famiglia (i Cullen), un licantropo (Jacob), un padre tirannico che dipende dalla figlia
per ogni attività casalinga. Sembra la vecchia storia della Bella (appunto) che ammansisce la Bestia:
e che crede saldamente nei valori della famiglia.
Meyer lo nega: «Le mie storie non contengono
messaggi: sono solo intrattenimento, e il personaggio di Bella non riflette le mie idee. Il modo in
cui interagisce con suo padre si deve semmai a una
sua naturale inclinazione a prendersi cura degli altri. Bella è accudente. Si comporta allo stesso modo con sua madre. Prova a farlo con Jacob. Farebbe lo stesso con i Cullen se avessero bisogno di
qualcosa: anzi, una delle cose che la mandano in
crisi con Edward e la sua famiglia è proprio il fatto
che non necessitano di attenzioni. Quanto alla
propensione al matrimonio della mia coppia, ho
lavorato sul contesto temporale. Bella è una ragazza moderna e diffidente, dopo il divorzio dei suoi
genitori. Edward è un ragazzo del secolo scorso, e
per lui il matrimonio è un passo logico. Il loro conflitto su questo punto era interessante, e da scrittrice cerco sempre di lavorare sui conflitti». Purché
si risolvano con il trionfo dell’amore? «Beh, io penso che tutti, ragazze e ragazzi, uomini e donne, sognino l’amore. L’amore romantico non è la sola cosa buona nel mondo, ma è una delle più grandi ed
eccitanti. Per questo motivo ha tanta parte in letteratura, musica e film. E per questo i miei libri
hanno tutti un elemento romantico».
A rendere diversa la saga di Twilight da un romanzo rosa c’è l’elemento sovrannaturale, sia pure addolcito. E i vampiri hanno il loro peso sul successo dei libri, dal momento che da sempre esercitano il proprio fascino letale sulle lettrici: non è
un caso che la cultura popolare recente ne abbondi, in film come Underworld o in serial televisivi come Buffy. Lecito chiedersi quale sia il vampiro letterario cui Meyer si è ispirata. Il luciferino
Lestat de Lioncourt creato da Anne Rice? Il seducente Jean-Claude che appare nei libri di Laurell
K. Hamilton? Sorpresa. Niente di tutto questo.
Stephenie Meyer non ama i vampiri: «Non c’è un
vampiro che preferisco in letteratura, perché non
sono mai stata appassionata di horror e non leggo
libri sui vampiri: grazie a questo, sono stata libera
da nozioni preconcette quando ho cominciato a
“Edward è un personaggio
di vecchio stampo. Bello,
ricco, innamorato: insomma
“Nei miei romanzi horror
non ci sono citazioni
Semmai a ispirarmi
il principe azzurro”
sono stati i supereroi”
re tacere), e le lettrici del pianeta hanno palpitato
con lei: la saga, tradotta in quaranta lingue, ha venduto otto milioni e mezzo di copie, cinquecentomila solo in Italia. Dopo l’uscita del film (21 novembre), si pronosticano ulteriori record.
Ma il fenomeno interessante è ancora un altro.
Si cerchi Twilight su DeviantArt, che è il sito dove
gli appassionati di tutto il mondo postano disegni
amatoriali sui loro personaggi preferiti: oltre trecentomila risultati. Su Fanfiction.net, il più importante sito in lingua inglese dove vengono raccontate le storie alternative dei lettori, Twilight vanta
il maggior numero di fan fiction (quarantamila)
dopo Harry Potter, a pari merito con Il Signore degli anelli. In parole povere, la saga di Meyer ha un
numero impressionante di fan che commentano,
disegnano, scrivono. E a volte combinano guai: è
avvenuto di recente, quando i capitoli di Midnight
Sun(che doveva raccontare la vicenda dal punto di
vista di Edward) sono stati diffusi sul web, costringendo la scrittrice ad annullare il progetto. Un fandom da paura, è il caso di dirlo.
«Io sono meravigliata, più che altro — racconta
a Repubblica Stephenie Meyer —. Continuo ad essere sorpresa dall’entusiasmo che i lettori dimostrano verso i miei libri e i miei personaggi. Tuttavia, trovarsi di fronte a duemila fan urlanti è un’esperienza decisamente surreale e, sì, fa anche paura. Uno scrittore non è preparato a una cosa del genere: abitualmente siamo tipi solitari, e io sono
molto più felice chiusa in una stanza tranquilla con
il mio computer».
Bersaglio numero uno dell’entusiasmo, Edward
Cullen. Un metro e ottantasette. Capelli color
bronzo. Legge il pensiero, adora la musica e le
macchine veloci. Nasce nel 1901, muore diciassette anni dopo di febbre spagnola, rinascendo in forma vampiresca. Bello, galante, ricco: il principe azzurro degli anni Duemila? «Edward — dice Stephenie Meyer — è sicuramente il maggior punto di attrazione per il fandom. Ma credo che il suo fascino
sia antico: Edward è un gentiluomo di vecchio
stampo, qualità difficile da trovare di questi tempi.
Certamente possiede bellezza e ricchezza, ma
nessuno di questi aspetti conta realmente: anzi,
sono entrambi difficili da accettare per Bella, che
sarebbe più rassicurata nel rapporto con lui se
Edward fosse meno spettacolare. Comunque sì: è
un principe azzurro. Incarna l’ideale romantico
perché ama Bella più di quanto ami se stesso: la felicità di lei è la sua priorità».
Anche l’altra metà della coppia risponde in pieno alle caratteristiche del romanzo sentimentale
da cui, erroneamente, le nuovissime generazioni
si ritenevano immuni. Bella, o Isabelle Marie
Swan, è goffa e timida all’inizio della storia, ma
costruire la mitologia di Twilight. Penso di essere
stata influenzata, semmai, dalle storie di supereroi. Per questo non mi sono preoccupata di lavorare sugli stereotipi del non-morto: Twilight è una
storia fantastica e i personaggi sono come io li ho
fatti. I Cullen sono vampiri, ma hanno scelto di
controllare la loro indole nella maggior parte del
tempo: ecco, mi piaceva l’idea di raccontare creature che vogliono essere qualcosa di meglio di un
mostro». Ma perché proprio i vampiri? «Non li ho
scelti io. Sono stati loro a scegliere me. Ho sognato un vampiro, e ho cominciato a scriverne: ma
non so perché».
Stephenie Meyer ha scritto anche di alieni, nel
romanzo L’ospite. E la sensazione è che, dopo il
punto di non ritorno costituito da Breaking Dawn,
la sua strada di scrittrice possa conoscere una deviazione. Almeno per un po’: «Ci sono molte possibilità per libri futuri sui Cullen: tuttavia penso di
aver bisogno di prendermi una pausa dai vampiri. In questo momento, non ho voglia di tornarci:
esistono altre storie oltre a quelle dei non-morti. E
io voglio raccontarle».
I LIBRI
Stessa copertina, stesso titolo
dell’originale americano: a prima
vista l’edizione italiana dei libri
di Stephenie Meyer non si distingue
da quella madre
Dopo Twilight, New Moon
ed Eclipse, l’editore Fazi manda
in libreria il 30 ottobre Breaking Dawn
(traduzione di Luca Fusari,
688 pagine, 19,50 euro),
quarto e ultimo titolo della serie,
di cui negli Usa in prima edizione
sono state stampate
quasi quattro milioni di copie
Repubblica Nazionale
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
ANGELI E DEMONI
Qui accanto, Bela Lugosi,
storico Dracula
cinematografico
In basso, i poster del film
Twilight. Nella pagina
di sinistra: in alto, i libri
di Stephenie Meyer
e, in basso, una sua foto
Scorre il veleno
nelle mie vene
STEPHENIE MEYER
e avevamo discusso circa un milione
di morti prima, io, Edward e Carlisle.
Loro speravano che la giusta dose di
sedativo bastasse a controllare il dolore del
veleno. Carlisle ci aveva già provato con Emmett, ma il veleno aveva iniziato la sua opera
prima del farmaco e gli aveva sigillato le vene.
L’analgesico non aveva avuto tempo di
diffondersi nel corpo.
Sforzandomi di mantenere un’espressione tranquilla, avevo annuito e ringraziato la
mia piccola buona stella per il fatto che
Edward non potesse leggermi nel pensiero.
Perché mi era già successo di assumere morfina e veleno insieme, e sapevo la verità. Sapevo che l’insensibilità causata dal farmaco
era completamente irrilevante fintanto che il
veleno mi scorreva nelle vene. Ma non mi ero
mai azzardata a parlarne. Non volevo rafforzare la sua ritrosia a trasformarmi.
Non avevo immaginato che la morfina
avrebbe avuto quell’effetto, che mi avrebbe
immobilizzata e imbavagliata. Paralizzata,
mentre bruciavo. Conoscevo tutte le storie.
Sapevo che Carlisle era rimasto abbastanza
silenzioso da evitare che lo scoprissero mentre bruciava. Sapevo che, secondo Rosalie,
urlare non era utile. E avevo sperato di comportarmi come Carlisle. Dovevo credere a
Rosalie e tenere la bocca chiusa, perché sapevo che ogni urlo che mi fosse sfuggito dalle labbra sarebbe stato un tormento per
Edward.
Ora che il mio desiderio si stava avverando,
sembrava uno scherzo spaventoso. Se non
potevo urlare, come potevo implorarli di uccidermi? Non desideravo altro che morire.
Non essere mai nata. La mia intera esistenza
svaniva di fronte a quel dolore. Non valeva la
pena di sopravvivere a un altro battito del
cuore. Fatemi morire, fatemi morire, fatemi
morire.
E, per un intervallo infinito, non ci fu
nient’altro. Solo la tortura incandescente e le
mie grida mute che imploravano l’arrivo della morte. Nient’altro, neanche il tempo. Al
suo posto l’infinito, senza inizio e senza fine.
Un infinito momento di dolore.
L’unico cambiamento giunse quando all’improvviso, incredibilmente, il dolore raddoppiò. La parte bassa del mio corpo, insensibile già prima della morfina, di colpo s’incendiò. Qualche giuntura rotta si era saldata
grazie alle lingue di fuoco.
L’incendio infuriava, interminabile.
Passarono secondi o giorni, forse settimane o anni, ma a un certo punto il tempo tornò
ad avere senso. Successero tre cose insieme,
sovrapposte, tanto che non capii quale fosse
la prima. Il tempo ricominciò a scorrere, l’effetto della morfina scomparve e riguadagnai
le forze. Sentivo di riprendere il controllo sul
mio corpo un passo alla volta, e ogni passo era
il segno che il tempo si riattivava. Mi accorsi
che ero in grado di contrarre le dita dei piedi
e di stringere i pugni. Ne ero consapevole ma
non volli farlo.
L’intensità del fuoco non diminuì di un solo grado. Tuttavia, iniziai a percepirlo diversamente, con una sensibilità nuova che analizzava una per una le fiamme urticanti che
mi riempivano le vene. E malgrado tutto, capii che potevo ricominciare a pensare.
Ricordavo perché non potevo urlare. Ricordavo la ragione per cui mi ero impegnata
a sopportare quell’agonia insopportabile.
Ricordavo che, per quanto mi sembrasse impossibile, c’era qualcosa che valeva quella
tortura.
Questo accadde appena in tempo perché
mi ci potessi aggrappare quando i pesi abbandonarono il mio corpo. Nessuno, dall’esterno, si sarebbe accorto del cambiamento.
Ma per me che lottavo per trattenere le grida
e i colpi chiusi nel mio corpo, dove non potevano far male a nessuno, era come passare
dall’essere legata al rogo mentre bruciavo, ad
afferrare il rogo per reggermi nel fuoco. Ero
forte quel tanto che bastava per restare immobile a incenerirmi viva.
Il mio udito si fece sempre più acuto: riuscivo a contare i battiti frenetici e accelerati
del mio cuore che segnavano il tempo.
I respiri corti che tossivo fra i denti.
E quelli bassi, regolari, che venivano da
qualcun altro al mio fianco. Erano più lenti e
mi concentrai su di essi. Tramite loro, scandivo una quantità maggiore di tempo. Meglio
di un pendolo, quei respiri mi spinsero, un secondo infuocato dopo l’altro, verso la fine.
Divenni sempre più forte, con i pensieri più
chiari. Riuscivo a udire ogni nuovo rumore.
Ci furono passi leggeri, il mormorio e lo
spostamento d’aria di una porta che si apriva. I passi si fecero più vicini e sentii una pressione nell’incavo del polso. Non avvertii il gelo delle mani. Il fuoco aveva cancellato ogni
mia memoria del freddo.
© 2008 by Stephenie Meyer
Published by arrangement
with Berla & Griffini Rights Agency
N
Vampiro
gentiluomo
Il
Intitolato Twilight come il primo
romanzo, il film tratto dalla serie
di cui è autrice Stephenie Meyer
è in arrivo nelle sale di tutto
il mondo, con la promessa
di sbancare il botteghino
Uscirà il 21 novembre prossimo,
ma un’anteprima di quindici minuti
verrà proiettata il 30 ottobre
a Roma durante il Festival
internazionale del film
Appena messi in vendita,
gli 850 biglietti per l’evento
sono andati esauriti in sole tre ore
FOTO CORBIS
Romantica e dark, la saga
che appassiona le ragazze
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
“Il secolo del jazz”, una mostra che apre a novembre al Mart
di Rovereto, racconta gli intrecci tra il genere musicale
che ha dominato il Novecento e le altre forme d’arte: pittura,
letteratura, fotografia, grafica. Una sezione raccoglie un centinaio di confezioni di dischi
che mettono in evidenza il meglio di una collaborazione creativa durata una settantina
d’anni: dal 1939 ai nostri giorni. Con firme del calibro di Dalí, Warhol, Pollock...
SPETTACOLI
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GINO CASTALDO
i dice grafica di copertine e si
pensa subito al rock, a quell’esplosione colorata che
negli anni Sessanta disegnò
un nuovo immaginario visivo a uso e consumo della rivoluzione giovanile. Quasi fosse la nascita della grafica musicale. Nulla di più
falso. In realtà fu tutt’altro che un’invenzione del rock. Il jazz aveva già definito molto tempo prima uno straordinario universo visivo legato alle copertine dei dischi, l’aveva letteralmente
inventato, dal nulla, trascinando con sé
tutto il resto dell’industria musicale.
È una delle storie, una delle più avvincenti e documentate, comprese
nella grande mostra Il secolo del jazz in
programma al Mart di Rovereto dal 15
novembre 2008 al 15 febbraio 2009.
La mostra segue i percorsi del jazz in
relazione alle altre arti, verso la pittura (con opere di Mondrian, Basquiat, Pollock), la letteratura, la
fotografia, ma dedica una parte
consistente alla storia della grafica, probabilmente la meno conosciuta, almeno in Europa,
tra queste fitte e intense trame di relazioni tra linguaggi
nate sotto la spinta immaginifica del jazz.
La ricostruzione è allo
stesso tempo meticolosa e
scintillante. Sotto gli occhi
del visitatore scorreranno
decenni di sfrenata creatività, differenti tipologie, toni
elevati e ingenue costruzioni artigianali, manipolazioni fotografiche e perfino, in alcuni casi, copertine
firmate da autori famosi. Come quella
di Salvador Dalí, o quelle di Andy
Warhol. «Quello della grafica jazz è una
arco di circa sessant’anni, di cui quaranta molto attivi, e a volte incontra il
mondo dell’arte vero e proprio», racconta il curatore Daniel Soutif, «Andy
Warhol, ad esempio, agli inizi della sua
carriera venne chiamato dall’etichetta
Blue Note e tra i suoi primi lavori ci sono una decina di copertine di jazz, debitamente firmate, come fossero quadri». Ma a quell’epoca eravamo già in
piena esplosione creativa. La storia in
realtà inizia molto prima, addirittura
nel 1939.
«Oggi la gente è talmente abituata a
S
a
c
i
f
a
r
G Jazz
&
pensare i dischi con una copertina ben
definita graficamente, che è difficile
rendersi conto che le copertine disegnate sono arrivate quasi quarant’anni
dopo la nascita del disco. Prima erano
semplici anonime buste, tombstones,
pietre tombali, così le chiamavano gli
anglosassoni. Il primo ad avere questa
semplice ma efficacissima idea fu un
grafico di ventitré anni, Alex
Steinweiss. Chiamato dalla Columbia
nel 1939 intuì subito che una confezione più seducente poteva aggiungere
qualcosa al prodotto musicale e così disegnò la prima copertina in assoluto.
Era un disco di canzoni, Smash Song
Hits by Rodgers & Hart, ovviamente un
78 giri. Non era proprio un disco jazz,
ma quasi, nel senso che quelle canzoni erano poi il cibo quotidiano dei
jazzisti. È stato un evento commerciale, e da quel momento è stato immediatamente chiaro che il disco doveva avere una copertina disegnata».
Dopo quella prima copertina fu un vero
diluvio, rapi-
PIONIERE
L’immagine
grande è di Alex
Steinweiss,
il primo art director
della Columbia
Records e inventore
delle copertine illustrate
Repubblica Nazionale
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
ART&SOUND
Le illustrazioni di queste pagine
sono tratte dalla mostra Il secolo
del jazz. Sono tutte di artisti famosi
Per esempio, in prima fila la prima
a sinistra è di Salvador Dalì; l’ultima
di Ben Thompson; in seconda fila,
la prima e la quinta da sinistra
sono foto di Lee Friedlander,
la penultima è di Andy Warhol;
di Jim Flora sono la terza e quarta
in prima fila e la prima e la sesta in terza fila
damente tutte le etichette si attrezzarono e l’abbinamento divenne ovvio,
scontato, immancabile. Riguardò
tutti i generi ma il jazz ha mantenuto sempre un netto primato. Erano i dischi che suggerivano più
creatività, che invitavano a sperimentare con inedita libertà
ogni possibile soluzione cromatica, grafica e pittorica, incluso l’uso della fotografia,
spesso anche quelle firmate
da grandi fotografi. «Non c’è
dubbio», continua Soutif,
«che il mondo della grafica
sia stato molto coinvolto
nel mondo del jazz. Lo stesso Steinweiss disegnò
qualcosa come settecentocinquanta copertine di
jazz. Era alto artigianato,
che coinvolgeva le più sofisticate tecniche tipografiche. Dopo la guerra,
quando nasce il 33 giri, arrivarono migliaia di copertine con un’inventiva
straordinaria, e tutti i grandi
grafici prima o poi furono
coinvolti. Ma ancora prima
c’è una dimensione del tutto
dimenticata ma non meno
appassionante, che è la grafica
delle partiture, che andò avanti dalla fine dell’Ottocento agli
anni Quaranta del Novecento,
un vero e proprio mondo, geniale,
con grafiche moderniste, spesso
create da autori rimasti anonimi».
Inutile dire che l’abbinamento tra
grafica e jazz ha prodotto vere e proprie scuole, differenti tipologie spesso
legate allo stile musicale che le coperti-
ne dovevano illustrare. Il cool jazz
ispirava disegni concettuali e astratti,
l’hard bop colori forti.
Il caso del free jazz è
esemplare. «In generale
si può dire che i rimandi
sono reciproci. La pittura americana degli anni
Cinquanta è molto jazzistica, Pollock ascoltava
jazz, in fondo le sue erano
improvvisazioni quasi corporee, e quando Ornette Coleman incise il disco Free jazz
venne naturale scegliere per
la copertina un quadro di Pollock. Lì cominciavano gli anni
Sessanta, ma anche dopo l’esplosione del rock, il free jazz
ispirò una grafica per alcuni versi più interessante, anche perché
si tornò alla ricerca di un certo artigianato elevato, e così accadde
anche nel jazz europeo di quegli
anni. Diciamo che erano copertine
più artistiche».
Il catalogo, ricchissimo, divide per
autori e per generi l’immenso repertorio. A volte a prevalere sulla grafica è l’uso della fotografia. «Molti non lo sanno,
ma collezionando dischi jazz hanno
anche collezionato fotografie importanti. È il caso di Lee Friedlander, una
star del mondo della fotografia che a un
certo punto si dedicò al jazz: ci sono
molte sue foto nelle copertine, in particolar modo in quelle della Atlantic record, spesso anche trattate o maltrattate dai grafici, a volte usate nella totale
purezza del segno fotografico. Poi ci sono casi eccezionali, vissuti a margine
LA MOSTRA
Il tema della mostra Il secolo
del jazz, in programma al Mart
di Rovereto dal 15 novembre 2008
al 15 febbraio 2009,
è la relazione tra arte e musica,
seguendo l’evoluzione storica
del jazz. In esposizione quadri,
fotografie, suggestioni letterarie
e una sezione interamente
dedicata alla grafica,
dalla quale sono tratte
le immagini di queste pagine
dell’evento jazzistico. Uno dei più celebri è quello di Langston Hugues e Roy
DeCarava. Nei primi anni Cinquanta
Hugues era già uno scrittore affermato
e Roy DeCarava, uno dei maggiori fotografi del secolo, era ancora sconosciuto. Al suo esordio ottenne una borsa di
studio dal Guggenheim e per due anni
si mise a fotografare scene del quartiere nero di Harlem. Alla fine non sapeva
cosa fare e allora inviò le foto a Hugues,
il quale gli rispose che ci avrebbe fatto
un libro a patto che potesse usare le foto come gli pareva, costruendo storie di
sua invenzione. DeCarava accettò immediatamente e il libro che ne venne
fuori, The Sweet Flypaper of Life, oggi è
uno dei libri mitici, più ricercati nel
mondo della fotografia. Questo è un
esempio di stile jazz applicato ad altre
cose. Poi lo stesso DeCarava ha realizzato una copertina per il disco del pianista Kenny Drew.
Ma le suggestioni di queste trame arrivano fino ai giorni nostri. Verso la fine
della mostra c’è una delle opere più importanti degli ultimi dieci anni, ovvero
la fotografia di Jeff Wall ispirata al romanzo L’uomo invisibile di Ralph Ellison. Wall è una delle stelle dell’arte
contemporanea ma, quando mostrò
nel 2002 questa foto, il pubblico non
capì molto il significato dell’immagine.
In realtà era ispirata al prologo del romanzo e, se si guarda bene, al centro
esatto della foto c’è un vecchio giradischi, e questo allude al pezzo che il protagonista del libro ascolta, che è Black
and Blue, cantata da Louis Armstrong».
A scartabellare nel catalogo si trova la
copertina che Pistoletto disegnò per un
disco di Enrico Rava, altre opere di Altan e di Crepax (che si dedicò appassio-
natamente alla creazione di copertine
jazz), si passa dai toni alti delle copertine firmate da artisti o fotografi famosi
alla ingenuità quasi naif delle copertine di Sun Ra, costruite in famiglia, in un
esempio di autogestione creativa che
però era perfettamente funzionale al
significato della musica che illustrava.
«Forse è arrivato il momento di considerare la grafica della musica nell’ambito più generale della storia dell’arte e della grafica», conclude Soutif.
«E in ogni caso, quando si racconta
questa storia, di solito il punto di vista è
strettamente europeo, non si capisce
come l’hanno vista gli intellettuali
americani, in special modo quelli neri.
Ci si dimentica che ci fu un movimento
chiamato Harlem Renaissance, in cui
entrava il jazz ma c’erano anche la letteratura, la pittura, la fotografia. Da
questo punto di vista la mostra ha l’ambizione di mostrare molte cose su artisti che in America sono studiati ma che
in Europa non sono conosciuti. A dirla
tutta, nessuno conosce bene questa
storia, ed è strano perché ormai in
America ci sono libri, studi, questo materiale è ormai ampiamente storicizzato, però più approfondisci più scopri
che è una miniera inesauribile, ci sono
molti nomi conosciuti ma anche tanti
sconosciuti di cui si è persa ogni traccia.
Questo si deve a una distorsione culturale, ovvero al fatto che l’Europa ha
mantenuto a lungo la convinzione di
essere stata lei a scoprire il jazz come
cultura, mentre per gli americani era
solo intrattenimento, e invece è esattamente il contrario, questo lavoro di storicizzazione è cominciato molto tempo fa e ora dobbiamo trarne le giuste
conclusioni».
Tema in classe: “Il freddo”
Con vitamine e minerali le difese di tuo figlio rispondono correttamente
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
i sapori
Un doppio appuntamento per amanti del “giusto,
pulito e sano” a Torino. Prodotti da tutto il pianeta,
dal Tibet all’Amazzonia, al Marocco, all’Etiopia,
che si incrociano con il meglio della gastronomia
italiana. Per scoprire che il cibo e la cura
nel coltivarlo e metterlo in tavola uniscono gli uomini
1
1
Brasile
RISO ROSSO DELLA VALLE
DEL PIANCÒ
Nello stato semi-arido
del Paraíba resiste
la coltivazione del gustoso riso
rosso integrale, di cui a inizio
Settecento i portoghesi
avevano vietato la produzione,
ritenendolo di poco valore
2
3
2
Francia
FORMAGGI DI MALGA
DEL BÉARN
Il trionfo delle produzioni
a latte crudo, lavorate
sugli alpeggi dei Pirenei
francesi. Le suadenti tome
miste a pasta pressata
vengono poi stagionate
per quattro mesi nelle grotte
Assaggiare
il mondo
5
MIELE D’ERICA
DI WENCHI
All’interno del parco
che si apre sui pascoli
a sud di Addis Abeba,
la cooperativa Weta produce
un originale miele di erica,
color arancio carico,
profumo e gusto intensi
LICIA GRANELLO
envenuti alla tavola di Madre Terra. Quattro giorni è un
tempo risicato per organizzare una gita. Ma se non lo farete, perderete l’appuntamento alimentare più originale,
grandioso, commovente del biennio che verrà. Ogni due
anni, infatti, Salone del Gusto e Terra Madre, sempre più intersecati e interdipendenti, irrompono nel quieto tran tran
della città provinciale più metropolitana d’Italia, per regalarle cinque
giorni di frenesia etico-gustativa, una sorta di gigantesco frullatore di sentimenti e golosità, che tutto trasfigura, rallegra, ridisegna. Difficile da raccontare, facile da vivere. Basta varcare i saloni del Lingotto e non fermarsi
prima di essere esausti. Tanto, le pause rigeneratrici non mancano, che sostiate allo stand dei produttori di nettare delle api Canuto in Amazzonia o
a quello dei monaci tibetani che lavorano il latte di yak. Così da godere del
cibo e, insieme, imparare un pezzetto di eco-gastronomia applicata.
Questa è la grande scommessa vinta dai boys di Carlin Petrini: aver dimostrato che due rette parallele possono incontrarsi ben prima dell’infinito. Giorno dopo giorno, dall’inaugurazione alla chiusura, decine di migliaia di visitatori hanno la chance di scoprire un’incredibile quantità di
frammenti del pianeta-cibo, e di farli propri. In una sorta di circolo vir-
B
Etiopia
6
Mali
SOMÈ
DEI DOGON
Fiori, frutti e foglie degli orti
familiari vengono trasformati
in condimenti per insaporire
zuppe, carni e verdure: kamà
(acetosella), gangadjou
(gombo) e oroupounnà
(foglie di baobab)
Terra Madre
3
Spagna
EXTRAVERGINE DI OLIVI
MILLENARI DEL MAESTRAT
È datato solo cinque anni
il commercio dell’olio
ottenuto a freddo dalle olive
di queste meravigliose
sculture viventi assiepate
nella comarca del Maestrat,
in terra valenciana
4
Svizzera
KIRSCH
BRENZERKIRSCH
È= il nome delle antiche varietà
di ciliegi che accompagnano
il paesaggio dei cantoni
di Basilea e Lucerna
I frutti, dolci e neri,
sono pressati e distillati
subito dopo la raccolta
tuoso, si assaggia un cibo che conosciamo poco o che non conosciamo affatto. Ci attira, lo gustiamo, ci piace (poco o tanto). Ma soprattutto, con una
sola domanda, un cenno, un commento felicemente stupito, sveliamo gli
incanti delle storie, delle facce, delle lontananze che diventano fratellanze, abbattendo con un solo morso barriere e pregiudizi.
I cibi e chi li rappresenta raccontano tutto questo. Nel corridoio che unisce le due parti della manifestazione, i Mercati della Terra dimostrano che
la rete di piccoli produttori locali — qualità accertata, filiera corta, giusto
reddito, basso impatto ambientale — funziona da una parte all’altra del
mondo. Le sorprese vi stordiranno. Mai assaggiato i datteri dell’oasi di
Siwa? Trecentomila palme prosperano in una striscia di terra benedetta
dall’acqua nel deserto egiziano che confina con la Libia. I loro frutti sono
soavi, profumati, dolcissimi. Peccato che la produzione non soddisfi le
quantità imposte del mercato. Farle conoscere al grande pubblico significa salvarle dall’abbandono e dall’estinzione. Oppure il riso rosso del Madagascar, incrociato tra il bianco giapponese e il selvatico autoctono: a
perpetuarne la coltivazione, è la cooperativa che si occupa del parco di
Andasibe. Salvaguardarla, vuole dire proteggere dalla speculazione il più
lungo corridoio di foresta primaria intatta del Paese.
E ancora, il lavoro delle donne. Quelle marocchine, che spaccano una a
una le bacche di Argan, per ricavarne i semi da cui ottenere un olio speziato e prezioso, o raccolgono i fiori di zafferano dell’altopiano di Taliouine e li seccano nei cortili delle case. Quelle mauritane, che estraggono le
sacche ovariche dai muggini e le trasformano in bottarga. A loro la Maison
della Nocciola Igp del Piemonte e lo chef Davide Scabin dedicheranno una
splendida cena di solidarietà. A dimostrazione di come si può facilmente
chiudere il cerchio delle produzioni agricole, Lavazza presenterà la nuova puntata del progetto “Tierra!”, una nuova tecnica per riciclare i fondi di
caffè come fertilizzanti naturali nella coltivazione dei funghi.
Il resto, che è tanto, tantissimo, dovrete scoprirlo da voi. Ricordate solamente di fare spazio in frigorifero e dispensa prima di partire. I cibi del
mondo aspettano solo di venire ad allietare le vostre cene: buone, pulite e
giuste.
7
Uzbekistan
MANDORLE
DI BOSTANLYK
È il paradiso delle mandorle
la valle di Tchatkal: all’interno
di un incredibile bosco
ancora poco esplorato
finora ne sono state individuate
cinquanta varietà,
tra dolci e amare
8
Afghanistan
UVETTA ABJOSH
DI HERAT
Da oltre cinque secoli
in tutta la provincia si produce
uvetta di altissima qualità,
a partire da viti affondate
in trincee profonde due metri
Ventisette le tipologie
selezionate
Repubblica Nazionale
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
4
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
5
6
7
8
I segreti del miele
sotto il vulcano
CARLO PETRINI
l presidio Slow Food difende un prodotto: esotico,
sicuramente debole, ma in grado di conquistare al
primo assaggio. Al Salone del Gustosi avrà riprova di
tutto questo. Ma un Presidio difende soprattutto le
condizioni ambientali necessarie affinché quel prodotto possa trasmettere, una volta in bocca — o anche
soltanto ben raccontato — tutta la sua carica di gusto e
cultura. Un Presidio dunque difende gli uomini e le
donne che sanno fare quel particolare alimento, le loro conoscenze, il territorio in cui vivono, le delicate economie locali in cui si è sedimentato nel tempo, nel rispetto degli ecosistemi e dando chance importanti alle comunità.
Il presidio va visto al di là dell’eccellenza gastronomica che può comunicare e che al Salone del Gustosarà
sicuramente in vetrina: esso rappresenta la nuova gastronomia che non si limita al gusto organolettico, è il
gusto di una rinascita della cultura — in gran parte contadina — che sa produrre un sistema virtuoso per la terra. È la cultura di cui sono portatori i rappresentanti delle comunità di Terra Madre, molto diversi tra loro, provenienti da ogni parte del pianeta, ma accomunati da
questa sensibilità per la natura e l’armonia delle cose
con gli uomini.
Ogni prodotto delle comunità di Terra Madre — anche il più semplice e povero, sfama la comunità e rispetta la biodiversità: è come un Presidio; di economia
locale e reale, di civiltà contadina, di valori non più tanto presenti nella nostra società italiana; come lo scambio, la memoria, il rispetto e la pace.
Le comunità del cibo (anche quelle dell’urbanizzato Nord Italia o degli opulenti Stati Uniti) hanno una
strada tracciata da seguire: produrre il cibo come hanno sempre fatto, all’interno di un sistema virtuoso e locale. Niente viaggi intercontinentali, futuressulle commodities alimentari, sprechi (dal campo al cassonetto
sul retro del supermarket); niente avvelenamenti del
suolo né alienazione da cemento. Nelle vallate pirenaiche dell’Aquitania come in Tabasco, Messico, c’è il
segreto per ricostruire il sistema del cibo nel mondo,
partendo dai singoli luoghi, da ciò che le comunità di
contadini, pescatori, nomadi e piccoli artigiani fanno
I
‘‘
L’agricoltura
è non solo la più antica
ma anche la più importante
attività umana
È la base della cultura
e della civiltà stessa
CARLO D’INGHILTERRA
itinerari
dove dormire
dove mangiare
dove comprare
TERRES D’AVENTURES SUITE
LA BARRIQUE
Via S. Maria 1
Tel. 340-7014125
Camera doppia da 100 euro,
colazione inclusa
Corso Dante 53
Tel. 011-657900
Chiuso domenica e lunedì,
menù da 65 euro
IPERMERCATO EATALY
(CON PUNTI FOOD E RISTORANTE)
LA DIMORA DI SARA
LOCANDA MONGRENO
Via Sant’Anselmo 8
Tel. 339-3219801
Camera doppia da 100 euro,
colazione inclusa
Strada Comunale Mongreno 50
Tel. 011-8980417
Chiuso lunedì,
menù da 65 euro
HOTEL DE CHARME
DOLCE STIL NOVO
ALLA REGGIA
Via Nizza 230
Tel. 011-19506811
GASTRONOMIA BAUDRACCO
Appuntamento a Torino
a partire da giovedì
prossimo fino a lunedì 27
Per la prima volta
i percorsi del Salone
del Gusto e di Terra Madre
si incrociano tra il Lingotto
e l’Oval, tra presìdi,
stand, convegni, dibattiti,
laboratori
Saluzzo Paesana 1718
Via del Carmine 1
Tel. 011-440722
Camera doppia da 104 euro,
colazione inclusa
Piazza della Repubblica 4
Venaria
Tel. 011-4992343
EMPORIO GOURMAND PAISSA
Piazza San Carlo 196
Tel. 011-5628364
PASTICCERIA DOLCE&SALATA ELSY
Via Fratelli Carle 46/F
Tel. 011-5817880
LATTERIA GELATERIA TESTA
LA CREDENZA
B&B VIA DELLA ROCCA
Corso Vittorio Emanuele ll 62
Tel. 011-545582
Via della Rocca 10
Tel. 348-8829485
Camera doppia da 95 euro,
colazione inclusa
Via Cavour 22
San Maurizio Canavese
Tel. 011-9278014
Chiuso martedì e mercoledì,
menù da 60 euro
A CASA DI GRIFFI
FLORIS HOUSE
Via Cordero di Pamparato, 7
Tel. 011-19711240
Camera doppia da 80 euro,
colazione inclusa
Via Cavour 16
Palazzo Marenco
Tel. 011-8126909
Corso Re Umberto I 56
Tel. 011-599775
PANE, GRISSINI&BISCOTTI
IL FORNAIO
Via San Massimo 49
Tel. 011-884667
VINI&CHAMPAGNE ENOTECA
DEL BORGO
da secoli: economia locale. Il loro stile dovrebbe essere
lo stile di tutti, anche delle industrie alimentari più globalizzate e globalizzanti. Tutto ciò lo si vede ancora in
molte regioni italiane, ma in tanti paesi del mondo, almeno quanti sono quelli da cui provengono le comunità del cibo di Terra Madre, centocinquantatré.
Tra tutte, ho avuto la fortuna di vedere l’esperienza
di Wenchi, nella regione Oromia, a non molti chilometri da Addis Abeba, in Etiopia. Gli abitanti di questo villaggio situato sulle pendici di un monte vulcanico, nel
cui cratere c’è oggi un lago, fanno sì un miele strepitoso, ma sono anche e soprattutto il Presidio del loro territorio e della loro felicità. Vivono in decorose capanne,
mantengono tutto pulito e ordinato: non ho visto rifiuti di nessun tipo. Ci tengono all’accoglienza e sono rimasto esterrefatto quando mi hanno salutato con le
chioccioline di Slow Food appuntate al bavero delle loro giacche da festa, lise. Gli erano state regalate da qualcuno durante la scorsa edizione di Terra Madre, nel
2006. Ti accompagnano volentieri con dei piccoli cavalli ad ammirare dall’alto lo spettacolo del lago e poi ti
offrono, dispensando sorrisi, insegnandoti i loro canti
e balli, un pasto eccellente in una piccola costruzione
che è il ritrovo del paese, il luogo della socialità. Alimenti semplici e poveri, un po’ di preparazioni di carne e intingoli da consumare con le mani, servendosi
dell’injera, un pane piatto, spugnoso e acidulo, ricavato con il teff, il cereale etiope: tutto degno di un’ottima
cucina da ristorante, come ho potuto poi constatare
nei migliori locali della capitale etiope.
Ecco, a me piace pensare che dietro al loro miele ci
sia tutto questo: il loro orgoglio, la loro capacità di produrre, il loro attaccamento al luogo in cui vivono, che
rispettano e conservano. E mi piace pensare che tutto
questo, con diversi colori, climi, facce, colonne sonore,
c’è dietro a ogni prodotto di ogni comunità di Terra Madre, anche se non l’ho mai assaggiato, non l’ho mai visto, non ne conosco le caratteristiche e neanche ne immagino l’esistenza. Le comunità di Terra Madre sono
1.678 e non si può conoscerle tutte, e nel mondo ce ne
saranno ancora molte altre che producono e vivono il
territorio con questo stile, che ha i piedi per terra, la memoria del passato e la testa nel futuro.
Via Monferrato 4
Tel. 011 -8190461
Repubblica Nazionale
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
le tendenze
Materiali di moda
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Motivi floreali, geometrici, optical; colori scintillanti;
contaminazioni tra liscio e ruvido, lucido e opaco;
travestimenti perfetti a simulare stoffa, pelle, legno
Nel settore delle piastrelle il made in Italy resta leader
quanto a qualità e innovazione, e in tempi di crisi
la ricetta è sempre quella: stupire con gli effetti speciali
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1. DAL MAROCCO
6. LUSSO IN BAGNO
Ait Manos brevetta lastre
pre-assemblate di zillji,
tessere di mosaico
sagomate e tagliate
a mano secondo antiche
tradizioni marocchine
In Italia sono distribuite
in esclusiva da Vicano
Pareti scintillanti
con la collezione
Le Murrine Gold
di Ceramiche Settecento
Le tessere, impreziosite
dall’oro, sono in tre
intensità e quattro colori,
da combinare a piacere
2. ROSA RASHID
7. COME SETA
La serie R+evolution
trasferisce sulle superfici
delle ceramiche colori,
texture e grafismi
che riflettono
il tratto del designer
Karim Rashid
Di Ceramiche Refin
Si chiamano Le vie
della Seta le piastrelle
in ceramica che citano
nei cromatismi l’effetto
delle pieghe del prezioso
tessuto. Lavorate
e decorate a mano,
di Pecchioli
L’importante è esagerare
3. DETTAGLI PREZIOSI
Per il bagno,
Cerim Ceramiche
sperimenta
con Le preziose
l’accostamento
tra ceramica e pietre,
per superfici luminescenti
e iperdecorate
4. DI CARATTERE
Sfondo rosa e delicati
decori per la linea Kilim
di Naxos Ceramiche
La fascia Kasmir,
in particolare,
ha decorazione
con motivi floreali
5. TESSERE FLOREALI
Particolari, con la loro
forma floreale, le tessere
in vetro Murano
del mosaico Petit Flower
di Sicis. Disponibili
in quindici colori,
nella combinazione
cromatica desiderata
AURELIO MAGISTÀ
iori, decori, motivi grafici e inganni
optical, swarovski, tatuaggi, mimetismi con materiali di affine freddezza
come il marmo e la pietra, o all’opposto caldi come il legno e perfino la pelle e il tessuto. L’incredulità è legittima. In tanti si avvicinano e la toccano: è davvero
ceramica? Sì, è davvero ceramica. Perché il made in Italy, assediato dai paesi emergenti, prima
ovviamente la Cina, fa quello che fanno da sempre gli assediati: si rifugia più in alto, dove il nemico non può arrivare. O almeno dovrà metterci tempo e fatica. In questo caso per salire più in
alto chiede l’aiuto del design e della moda.
È una corsa che dura da qualche anno. Ogni
balzo in avanti viene presto imitato. E ogni balzo
ha caratteri un po’ diversi. L’innovazione e la
biocompatibilità hanno segnato gli ultimi cicli:
con piastrelle che integrano led luminosi per effetti sorprendenti ma anche per l’utile funzione
di segnare di notte i percorsi all’aperto; o rettangoli ceramici lunghi fino a tre metri e spessi tre
millimetri grazie all’estrusione, tecnica che
“spreme” il materiale come il dentifricio dal tubetto; o, ancora, piastrelle che assorbono l’anidride carbonica o hanno virtù antibatteriche.
F
Quest’anno, come ha decretato il Cersaie, il
salone bolognese della ceramica che rappresenta il punto di riferimento mondiale (perché l’Italia non è più leader per quantità, ma lo resta per
la continua ricerca che la incorona trendsetter),
è il momento degli esercizi di stile. Gioca la sua
parte la congiuntura: sembra che nei tempi di
crisi le forme (gli abiti, gli arredi, le automobili)
interpretino una funzione consolatoria con colori vivaci, curve morbide e sinuose, iperdecorativismo e poesia. Forse non è proprio una legge,
ma in questo caso funziona alla perfezione. I motivi floreali tornano ossessivamente, e perdura il
revival anni Settanta: si osservano motivi geometrici con effetti optical, ma anche mix cromatici, potremmo dire, alla Emilio Pucci. In generale, si ricercano gli effetti sorprendenti e magici, le
contaminazioni fra opposti: liscio e ruvido, lucido e opaco, freddo e caldo.
Lea ceramiche, per esempio, propone Makò,
che inganna la vista e il tatto fingendosi lino o cotone, oppure Streets, una maglia geometrica di
linee lucide che si incrociano su una base opaca,
chiara citazione di una mappa cittadina. Ragno
punta con Hi-Line sui toni cangianti e scintillanti, come in certi rossetti e hi-liner di stagione. Al-
falux trapunta le sue piastrelle Glitter con cristalli swarowski. Sicis conduce alle estreme conseguenze l’arte del mosaico, componendo grandi
figure umane in un bianco e nero in controtendenza, che tuttavia richiama un lusso da corte ravennate o bizantina. Refin, per DesignTaleStudio, crea la collezione R+volution affidandosi alle idee del designer Karim Rashid. E se la grande
firma del design non è certo una novità (per verificarlo basta fare un giro all’archivio storico del
quartier generale di Confindustria Ceramica, a
Sassuolo), interessante è l’esito; un “design poetico”, come lo definisce Rashid, che sceglie pennellate lucide, anche con effetti naturalistici (fiori, foglie) su superfici opache.
Alle estreme conseguenze arriva il mimetismo che stava già affermandosi lo scorso anno: le ceramiche che imitano alla perfezione
venature e trama del legno sono ormai un’ovvietà, e la mimesi della pelle, con un passaggio surreale, giunge a proporre vera pelle
montata su supporto in gres, liscia oppure
decorata con trame fantasiose. L’idea è del
gruppo Priante e funziona da perfetto epilogo: va bene essere creativi per conservare la
supremazia, ma attenti a non esagerare.
8. MAPPE URBANE
Street di Lea Ceramiche
è la reinterpretazione
su ceramica del groviglio
di strade di una mappa
urbana (a scelta
tra Kyoto, Melbourne,
Tangeri), ottenuta
con smalto bianco
9. ARTIGIANALI
Sono il risultato
di un lungo processo
di lavorazione artigianale
le tessere del mosaico
Pecchioli, che riscoprono
l’iper-decor
grazie ai loro
motivi floreali blu e oro
10. EFFETTO OPTICAL
Grandi bolli in gres
porcellanato a impasto
decorato per la serie
New York di Marazzi
La sovrapposizione
di segni e trame la rende
esteticamente simile
a una carta da parati
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 19 OTTOBRE 2008
l’incontro
Splendidi quarantenni
Per una vita è stato solo due cose:
il figlio di Vittorio e un bel ragazzo
Poi “Caos calmo”, il grande
pubblico che si accorge di lui
e del suo talento.Adesso si racconta:
il rapporto col padre,
l’amore per il teatro,
la lotta con l’ansia,
la famiglia: “Sono
fidanzato da quindici
anni, sposato da dieci e sapere
che posso tornare da mia moglie
e mio figlio è la sola certezza che ho”
FOTO OLYCOM
Alessandro Gassman
P
ROMA
er alcuni attori il successo arriva al primo film. Un’esplosione improvvisa che li trascina nell’Olimpo e poi, costantemente, li fa vivere nel terrore di ricadere nell’anonimato. Un’ansia maledetta
che prende alla gola e può rovinare l’esistenza. Ad Alessandro Gassman è successo l’opposto. Per una vita è stato solo
due cose: il figlio di Vittorio Gassman e un
bel ragazzo. Bello di una bellezza singolare, quel tipo di fascino che le donne sognano e gli uomini invidiano. Occhi carbone e un metro e novanta di flessuosa
longitudine. In realtà era anche bravo,
ma di una bravura cresciuta in piccoli
teatri di provincia, di ruoli nelle retrovie
oscurati dalle foto per un calendario di
cui ancora si pente.
Poi, quasi per caso, è arrivato il film
Caos calmo, tratto dal libro di Sandro Veronesi. Non si aspettava molto, se non
l’opportunità di lavorare con Nanni Moretti. Il ruolo era quello scomodo di non
protagonista, del secondo dietro al gigante. E invece gli è cambiata la vita. Il
grande pubblico, non solo quello dei teatrini polverosi, si è innamorato di lui. Gli
ha riconosciuto il talento e, soprattutto,
l’umanità. Con novanta minuti di proiezione ha cancellato l’immagine del figlio
d’arte privilegiato e inevitabilmente antipatico. Con Caos Calmo Alessandro
Gassman è nato una seconda volta: vero,
naturale, semplice. Come è nella realtà,
quando si aggira in felpa verde e jeans per
la casa che ha comprato dieci anni fa appena è nato il figlio Leo. «Eravamo troppo stretti nel mio buco di Trastevere e ci
siamo trasferiti», spiega sorridendo tra
una sigaretta e l’altra, gli occhi cinesi che
si stringono, «sono contento perché abbiamo saputo scegliere un quartiere autentico, mio figlio va a piedi alla scuola
pubblica, noi giriamo in motorino». E in
effetti qui, in questo angolo di Roma dietro piazza Navona, la domenica mattina
tutto sembra sorprendentemente normale: per le scale odore di pasta al ragù,
nel portone biciclette e passeggini, in
lontananza il rintocco delle campane.
Anche casa Gassman è normale: divani
di pelle e tante foto. Una cucina spaziosa,
l’aria vissuta e felice.
«In realtà felice per quel che mi riguarda è una parola impegnativa, diciamo
che sono molto attivo, ho tanti programmi e la consapevolezza di essere uno che
ha avuto un gran culo». Neanche troppo
vera questa storia del culo. Anzi. Questi
primi quarantatré anni, per lui, non sono
statati sempre allegri. «Dai quattordici ai
quindici anni sono cresciuto di venti centimetri, ero altissimo, fuori misura nel
corpo e nella mente, mi sentivo diverso e
aggressivo, un vero freack». Poi è arrivata
la boxe, un modo per scaricare il negativo e farsi del bene. Pugni e sudore. Rabbia e riscatto. «Mi ha convinto mio padre
spingendomi ad andare in palestra perché aveva capito che ero una mina inesplosa, un potenziale pericolo».
Dopo la boxe, e gli studi terminati senza troppa passione, è arrivata la decisione di fare l’attore. «Ho sempre dichiarato
onestamente di aver provato a recitare
solo perché mi chiamavo Gassman, altrimenti avrei tentato la strada del perito
agrario. Per fortuna nel mio primo spettacolo temevo talmente tanto di fare la figura del bamboccione, di quello che non
si è guadagnato niente, che ho dato il meglio e il pubblico mi ha apprezzato».
Un’altra cosa lo ha salvato: la voglia d’indipendenza. «Avere soldi miei è sempre
stato importante, non sopporto di essere
di peso per nessuno, neanche di andare
ospite in casa di amici, se m’invitano mi
prenoto l’albergo più vicino». Certo, non
è facile essere indipendenti se tuo padre
è Vittorio Gassman. «Nella realtà era
l’opposto dei suoi personaggi fanfaroni e
sopra le righe, un uomo timido e molto riservato, assolutamente silenzioso. Una
volta abbiamo fatto un viaggio in macchina da Roma a Milano senza dire una
sola parola. Il risultato è che da quando è
morto la cosa che mi manca di più sono i
suoi silenzi». Un’eredità preziosa. Non a
caso il drammaturgo spagnolo Lope de
Vega diceva che, se fosse stato re, avrebbe istituito una cattedra per insegnare a
tacere. «Io riesco a rivivere quei mutismi
pieni di armonia solo con mia moglie Sabrina, amiamo entrambi la natura e ci
siamo comprati una piccola casa in Austria dove camminiamo per ore senza dire nulla».
Il silenzio di Vittorio Gassman non era
però solo dovuto al carattere schivo. Era
il risultato di una natura difficile, devastata da continui sbalzi di umore. Di
quella tristezza opaca che trascina in un
vortice senza via d’uscita. «Quando mio
padre era depresso era terribile per sé e
per tutta la famiglia. Una volta in tournée
stava così giù che, contro la sua disperata volontà, ho dovuto costringerlo a fermarsi e tornare a casa perché era impossibile continuare. Mi sono sentito malissimo». Nei giorni di serenità, invece, aveva il grande dono dell’ironia. Sapeva ridere della sua malattia. «Il suo compagno di lamentele preferito era Ugo
Tognazzi, altro gran depresso. Discutevano di continuo su chi era il più ango-
Se sono felice?
Per me è una parola
impegnativa
‘‘Jazz
& wine
Diciamo che sono
molto attivo
e ho tanti programmi
of peace
sciato e poi si facevano delle gran risate».
Alessandro in questo non ha ripreso da
suo padre. Ha una natura solare. Però ha
avuto anche lui i suoi tormenti. «Pensavo
che non sarei mai andato in analisi ma
poi, un giorno, ero a Torino per uno spettacolo e mi è venuto il primo attacco di
panico: inaspettato, crudele, devastante
e allora sono finito dall’analista». È iniziato un percorso doloroso, durato qualche anno, e intriso di quella sensazione
indefinita che conosce solo chi gli attacchi di panico li ha vissuti: «Vivevo nella
paura che mi potesse tornare quella paura, i medici la chiamano ansia anticipatoria. Giravo con il Lexotan in tasca e ho
provato di tutto: analisi junghiana, transazionale e, soprattutto, tante medicine». Il risultato? «Decisamente sto meglio. Comunque, il miglior medico che
conosco è Carlo Verdone. Un mago della
chimica, in grado di dosare il Lexotan come nessun altro».
Se il cinema si è accorto di Alessandro
Gassman quando era già uno “splendido quarantenne”, con il teatro è stata
tutta un’altra storia. «Nel palcoscenico
ti premia il rigore e io per fortuna ne ho
tantissimo, forse per reazione a questa
società pressappochista. Ogni sera bisogna essere perfetti e lo stimolo continuo è il pubblico che ti chiede sempre di
più di quello che potresti dare». Per alcune commedie Gassman è anche regista. «È quello che mi piace di più, anche
quando recito guardo gli altri attori e
vorrei dare suggerimenti. Spero un giorno di avere la possibilità di dirigere e basta. Sono bravissimo soprattutto nel gestire i provini perché li ho sempre odiati, intuisco quel terrore che può condizionare e far sbagliare tutto e tranquillizzo gli attori». Il peggiore provino della
sua vita è stato proprio quello per il miglior film: Caos calmo. «Ho sempre considerato Nanni Moretti un mito, conoscevo tutti i suoi film a memoria e avevo
il terrore di rimanere deluso e soprattutto di deluderlo». Invece è andata bene, la
strana coppia ha funzionato sul set e anche fuori. «Quando giravamo insieme
tutti mi chiedevano l’autografo, Nanni
si stupiva e io gli rispondevo che ero più
‘08
famoso di lui solo perché avevo fatto un
calendario». Un errore, quello di mettersi in posa per dodici mesi seminudo
nelle spiagge messicane, in cui è scivolato sempre per quel maledetto desiderio d’indipendenza economica. Quando ne parla, anche se cerca di riderci sopra, gli occhi si stringono di più e diventano fessure: «Non lo rifarei mai».
Ultimamente è spesso all’Aquila dove
ha fatto una scelta coraggiosa: la direzione del Teatro Stabile. «Abbiamo in
programma uno spettacolo, Le invisibili, scritto da Lidia Ravera sulla violenza
alle donne pakistane acidificate, un delitto mostruoso e ancora senza una pena. Poi ci sarà uno spettacolo che, partendo dalla realtà dei portoricani a New
York, affronta la condizione dei romeni
a Roma». Durante il mese di novembre,
invece, sarà la volta di Milano con La parola ai giuratial teatro Manzoni. Nel suo
modo di lavorare c’è molto del rigore di
Vittorio. Adesso più di prima. «Ho cominciato ad assomigliare a mio padre
dopo che è morto, è come se la sua anima mi avesse posseduto». In una cosa
però sono diversissimi: «Lui viveva per
lavorare, io lavoro per pagarmi le vacanze». Ma, soprattutto, per godersi la famiglia. Uno come lui, che avrebbe potuto
avere mille donne, ha sempre scelto la
fedeltà senza rimpianti. «Sono fidanzato da quindici anni e sposato da dieci e
sapere che posso tornare da mia moglie
e mio figlio è la sola certezza della mia
esistenza. Come padre sono molto giocoso, ludico, purtroppo mi manca la pazienza ma supplisce Sabrina».
‘‘
IRENE MARIA SCALISE
Cormòns
23-24-25-26
ottobre
Teatro Comunale e altri luoghi
XI edizione
Concerti a teatro; concerti aperitivo in giro per la città; le notti jazz di “Round Midnight”; la
suggestiva incursione in musica nella vicina Slovenia; il “Body and Soul” dove anche il vino
ha la sua parte. Venti concerti per quattro giorni di festa.
Tra i musicisti ospiti:
Michel Portal, Henry Threadgill, Trygve Seim, Frode Haltli, Wolfgang Haffner,
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tel. +39 347 4421717 +39 348 4466770
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