Atti del convegno COVIP
L’Umbria dopo L’Umbria
Riorganizzazione del passato o coraggio del futuro?
Orvieto - 19 ottobre 2012
Finito di stampare nel mese di Novembre 2012
Tipografia Ceccarelli - Grotte di Castro (VT) - www.tipografiaceccarelli.it
Indice
Pag.
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2. Atti del convegno
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2.1. Introduzione
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2.2. Relazioni
2.2.1. Pier Luigi Leoni
Riforme istituzionali: futuro immaginato e futuro possibile
2.2.2. Marcello Meroi
Riordino Province. Realizzare l’area vasta del Centro Italia
2.2.3. Silvio Manglaviti
Giubileo 2013 – 2014: un’opportunità davvero speciale
2.2.4. Leandro Pacelli
Le potenzialità di sviluppo sull’asse dei laghi etruschi
2.2.5. Fabrizio Marcucci
Perché è ora di cambiare anche in Umbria
2.2.6. Giovanni Codovini
L’Umbria nella prospettiva delle macroregioni
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1. Presentazione
2.3. Interventi
2.3.1. Marco Conticelli
Contributo alla discussione
2.3.2. Mario Tiberi
Regionalismo: l’ennesimo clamoroso fallimento
3. Appendice
3.1. Il nuovo assetto delle Province
3.1.1. DL 5 novembre 2012 , n. 188
Disposizioni urgenti in materia di Province
e Città metropolitane
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3.1.2. La nuova cartina delle Province italiane secondo
il DL 188/2012
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3.1.3. Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria (CAL)
del 3 ottobre 2012
Documento Provincia (Proposta al Governo di due Province) »
3.2. Il dibattito sul futuro della Regione
(Il Giornale dell’Umbria, ottobre - novembre 2012)
3.2.1. Giuseppe Castellini
Una Regione che deve cambiare ma non scomparire
3.2.2. Franco Raimondo Barbabella
Ripensare l’Umbria per preparare il futuro
3.2.3. Fabrizio Marcucci
Province, uno scossone che fa bene
3.2.4. Giovanni Codovini
Una Provincia, siamo tutti un po’ più umbri
3.2.5. Fabrizio Marcucci
Intervista a Wladimiro Boccali, Sindaco di Perugia
3.3. Le macroregioni di Gianfranco Miglio
e della Fondazione Agnelli
3.3.1. Gianfranco Miglio
Le macroregioni (Dal libro “L’asino di Buridano”)
3.3.2. Gabriele Coltorti
I fondamenti del vero federalismo di Gianfranco Miglio
3.3.3. Fondazione Giovanni Agnelli
Macroregioni di Miglio economicamente irrazionali
3.3.4. Marcello Pacini
“Un federalismo dei valori”, Edizioni Fondazione Agnelli.
Introduzione
3.3.5. Fondazione Giovanni Agnelli
Nuova geografia italiana e ridisegno regionale. 2 ipotesi
3.4. La prospettiva dell’Italia di mezzo
3.4.1. Marcello Meroi
L’Italia di mezzo. Quale modello di sviluppo
3.4.2. Achille Passoni
L’Italia di mezzo come modello di sviluppo per il Paese
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3.4.3. Adnkronos
Turismo. Umbria, Marche, Toscana, Abruzzo
ed Emilia Romagna si riconoscono nell’Italia di Mezzo
3.5. Macroregioni o nuovo centralismo?
3.5.1. DDL Cost. n. 3520 del 15 ottobre 2012
Disposizioni di revisione della Costituzione e altre
disposizioni costituzionali in materia di autonomia regionale
3.5.2. Enzo Balboni e Massimo Carli
Stato senza autonomie e Regioni senza Stato
(www.federalismi.it n. 21/2012)
3.5.3. Michele Petraroia
Si riapre il confronto sulle macro-regioni
(www.molisenews.net, 11 ottobre 2012)
3.5.4. Il DDL Fistarol e altri (marzo 2012)
12 Regioni, come a suo tempo la Fondazione Agnelli
3.5.5. Intervista di Paolo Festuccia al Ministro Filippo Patroni Griffi
La rivoluzione delle Province a fine mese,
poi tocca alle Regioni (La Stampa 13 ottobre 2012)
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1. Presentazione
Crediamo di poter affermare fondatamente che abbiamo conseguito il risultato
che ci attendevamo. Il nostro obiettivo era di creare un’occasione di riflessione sul
futuro dell’Umbria, nel presupposto che così com’è essa non è in grado né di garantire il buon livello dei servizi che è stato conquistato nei decenni trascorsi, né di
operare le scelte che possono aiutare le diverse realtà che la compongono a stare insieme e ad avere fiducia nel futuro.
Tutti i relatori hanno prodotto elaborazioni molto meditate e puntuali, che da una
parte hanno consentito di fare il punto sullo stato dell’arte, cioè sugli aspetti giuridici
e politico-amministrativi che possono condizionare il confronto sulle riforme, e dall’altra hanno messo a fuoco sia i limiti del regionalismo chiuso dentro i confini amministrativi sia le potenzialità di un regionalismo aperto che faccia giocare ai territori
un ruolo attivo e collaborativo. I contributi di Mario Tiberi e del Vice Sindaco di Porano Marco Conticelli hanno arricchito ulteriormente sia le analisi che le proposte.
La pluralità dei punti di osservazione si è tradotta dunque in una forte sottolineatura delle necessità di cambiamento nel segno del superamento dei confini, perché
più importanti dei confini sono le condizioni per risolvere e gestire al meglio i problemi
che interessano la vita delle popolazioni.
Si è chiarito anche che parlare di macroregioni non significa volere la sparizione
dell’Umbria o delle altre regioni, ma al contrario indicare i fondamenti di un progetto
di riforma improntato alla funzionalità, a ciò che serve per creare futuro. Serve una
riorganizzazione dei territori intorno ai comuni e serve una capacità di coordinamento delle regioni al loro interno e sulle materie di comune interesse, non più in
modo sporadico ma permanente. No dunque allo stato centralista, ma no anche
alle regioni chiuse e anch’esse centraliste, anche perché contestare il centralismo
in nome di aggregazioni funzionali è il modo più efficace per spezzare la frammentazione e sconfiggere il deleterio campanilismo che impedisce ogni seria modernizzazione.
Ci può essere perciò ancora l’Umbria dopo l’Umbria, se la discussione prenderà
finalmente la forma non di una lotta per spartirsi il passato ma di uno sforzo per guardare avanti, anche prendendo il meglio degli esempi europei. D’altronde il DL 5 novembre 2012 n. 188, “Disposizioni urgenti in materia di Province e Citta’
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metropolitane”, di fatto toglie alla radice l’illusione che si possa risolvere il groviglio
dei problemi di riforma con il riassetto territoriale delle due province esistenti. Così,
credo non a caso, il Sindaco di Perugia Wladimiro Boccali ha subito dichiarato che,
qualora non venga accettata la richiesta di deroga avanzata dalla Regione (e mi permetto di ritenere che, dato il contesto, sarà ben difficile che ciò avvenga), sarebbe
bene che nelle Regioni più piccole fossero abolite tutte le Province e che le Regioni
stesse organizzassero al loro interno gli ambiti e i modi per coordinare i Comuni nella
gestione delle materie sovracomunali.
Ci sembra dunque che la nostra iniziativa sia stata utile e si sia collocata in un
momento particolarmente favorevole per generare quel protagonismo dal basso che
troppo spesso è mancato proprio sulle questioni essenziali. Vorremmo per questo
che quanto è stato elaborato non andasse disperso e diventasse al contrario un contributo utile ad una discussione, delle istituzioni, dei partiti e della società, che dovrebbe continuare fino a produrre effetti concreti di riforma reale. Questa è la ragione
principale per la quale raccogliamo gli atti in un’apposita pubblicazione.
Ma ce ne sono altre, a cominciare dal fatto, che non va nascosto, che è stata
scarsa la partecipazione degli eletti nelle istituzioni, degli esponenti dei partiti e dei
responsabili delle organizzazioni sociali. Pensiamo per questo che potrebbe essere
utile aggiungere in appendice agli atti un complesso di materiali che consentano a
chi voglia di inquadrare il problema delle riforme istituzionali nel contesto normativo
e storico-culturale, oltre che nel dibattito in corso sul futuro della Regione e dei suoi
diversi territori. Diffonderemo gratuitamente la pubblicazione. Ecco allora di seguito
le sezioni dei materiali che proponiamo di consultare in appendice: Il nuovo assetto
delle Province secondo il DL 188/2012; Il dibattito sul futuro della Regione (Il Giornale dell’Umbria, ottobre - novembre 2012); Le macroregioni di Gianfranco Miglio e
della Fondazione Agnelli; Macroregioni o nuovo centralismo?
In definitiva ci sembra che esistano le condizioni per non fermarci alla pura accettazione dell’esistente nell’illusione che cambiare poco o niente garantisca da sussulti particolaristici e scissionistici. Il grande filosofo Immanuel Kant, a proposito delle
condizioni della conoscenza, diceva: i concetti senza le intuizioni (le esperienze) sono
vuoti, le intuizioni senza i concetti sono cieche. Passando dal terreno della teoria
della conoscenza a quello geopolitico, si potrebbe dire così: il localismo senza visione di contesto è cieco, le visioni generali che non tengono conto delle realtà locali sono vuote elucubrazioni.
Vuota elucubrazione è senz’altro una riforma delle Province fatta solo in termini di
spending review e isolata da un coerente processo di riforma istituzionale statuale,
come se il futuro si potesse costruire solo mediante le logiche emergenziali. Ma è
senz’altro da definire cieco il localismo che sta dietro la discussione istituzionale
umbra sulle province, come se mantenere in piedi due province mediante una redi-
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stribuzione dei territori possa garantire oggi la rispondenza dell’assetto istituzionale
alle ragioni della crescita economica e civile, e della sicurezza sociale, con la sua esigenza di strutture amministrative, infrastrutture e servizi snelli ed efficienti, ciò che
non può prescindere da basi solide, cioè, come dice Giovanni Codovini, da “una misura territoriale adeguata ed un’omogeneità caratterizzante”.
Si potrebbe dunque abbozzare almeno un percorso concettuale, da cui derivare
anche concreti percorsi politici e decisionali. Ci permettiamo di proporre un possibile schema di ragionamento.
I problemi istituzionali non si risolvono tra noi e noi
In un mondo globalizzato non ha senso far finta che i problemi istituzionali ce li risolviamo da soli discutendo tra noi come fossimo tra le quattro mura di casa. Il tema
di un assetto bipolare equilibrato della regione è vecchio e inutilizzabile anche quando
dovesse essere accolto come deroga, e lo è a maggior ragione perché era sensato
averlo risolto decenni fa, quando si discettava di policentrismo umbro. Pensare di
realizzarlo oggi, per di più con passaggi strumentali di alcuni territori da una realtà
amministrativa ad un’altra non è solo un pessimo artificio, è una vera e propria operazione deviante rispetto al problema di adeguare l’assetto istituzionale alle urgenti
esigenze di risanamento e di crescita.
Il riferimento per le riforme è l’Europa
La prospettiva cui riferirsi per impostare le riforme ad ogni livello non può essere che
l’Europa, ossia la consapevolezza che per i popoli europei non ci sarà futuro senza una
politica comune nei settori chiave, dunque senza unità politica e monetaria, e però
anche senza che in ogni parte di essa le energie culturali, sociali ed economiche, si sprigionino valorizzando le specificità e nel contempo si sentano investite da una missione
comune condivisa. In una simile prospettiva, come si può pensare che la questione decisiva dell’assetto istituzionale dell’Umbria sia il mantenimento di due province seppure territorialmente equilibrate? Come minimo si dovrà tener conto della tendenza
sempre più forte a costruire aggregazioni dotate di sufficiente capacità di organizzazione autonoma in un quadro unitario. Si tratta appunto di macroregioni.
La crisi del regionalismo è tale che ormai sono in discussione le regioni
La verità è che le cose sono arrivate ad un punto tale che sono ormai in discussione le stesse Regioni per come sono state costruite in quarant’anni di storia. Le condizioni in cui sono ridotte tante regioni da Nord a Sud dovrebbe essere
sufficiente per decidere di mettersi su una strada di riforme serie proprio dell’assetto complessivo del Paese, con al centro proprio le Regioni. Più chiaramente: a
che serve attardarsi in sofisticate quanto inutili costruzioni istituzionali, che rischiano di apparire funzionali solo al mantenimento in vita di interessi lontani dai bisogni reali dei cittadini? Non sarebbe meglio assumere qui in Umbria come decisiva
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la prospettiva di una macroregione dell’Italia centrale, che potrebbe, essa si, essere
idea mobilitante per un’operazione di profondo rinnovamento della cultura politica
e dei metodi si governo, e ovviamente per il rilancio di tutte le politiche di settore?
D’altra parte non è forse vero che l’idea dell’Italia di mezzo sta diventando sempre
più (come testimoniano i numerosi convegni che si susseguono in diversi ambienti
e in diverse regioni) idea su cui costruire una concreta prospettiva di sviluppo, soprattutto se si riuscirà a concentrare l’attenzione sui 4 settori strategici indicati dell’UE? E nel contempo non sarebbe quanto mai utile organizzare l’intero territorio
regionale in poche ma ben organizzate aree omogenee su cui impostare un progetto di sviluppo insieme unitario e policentrico, che sarebbe coerente proprio con
quella prospettiva?
Non possiamo accettare una riforma che non riforma nulla
E noi che facciamo, qui ed ora? Saremo in condizione di fare qualcosa di sensato?
Forse si, visto che ha preso finalmente avvio una discussione sulle questioni di fondo,
che se non altro ha avuto il merito di aver messo il dito sulle diverse e correlate piaghe che ci affliggono. Il punto però è che il tempo della tattica è finito, e bisogna
passare rapidamente alla “pars construens”, ora, subito. E la prima cosa importante
è dire a chiare lettere che da una riforma che non riforma nulla ci perderemo tutti, noi
certo più di altri, perché il processo faticoso di uscita da uno stato marginale da
tempo interrotto si trasformerà in marginalizzazione strutturale. Perciò non possiamo
stare a guardare, sapendo che non c’è solo da evitare quel pericolo, ma c’è soprattutto un’occasione forse irripetibile di cambiamento. Possiamo rovesciare una tendenza che è sbagliata non solo per noi, se riusciremo ad allearci con chi in altri territori
la pensa come noi, ponendoci perciò da un punto di vista generale, come interpreti
di un interesse generale.
Possiamo costruire una nuova prospettiva
Quale prospettiva delineare allora? Riassumo: sguardo rivolto all’Europa; no a
province costruite artificialmente; si a strumenti snelli di coordinamento delle politiche territoriali di area vasta; si ad iniziative di collaborazione tra aree cerniera interregionali (ad esempio Trasimeno, Bassa Toscana, Alto Lazio) sia per progetti di
modernizzazione e crescita che per gestione efficiente di reti e servizi. Insomma si
ad un’Umbria finalmente e sul serio policentrica, che costruisce politiche di settore interrelate con le regioni contermini, per le quali politiche le aree cerniera diventino gli assi di un nuovo sviluppo nel segno dell’Europa. Ci sono risorse
ampiamente non utilizzate da mettere in gioco. Ci sono occasioni da non perdere.
Ed è veramente impossibile accettare che non siano questi i temi in discussione da
parte delle classi dirigenti regionali e in gran parte e in primo luogo proprio di quelle
locali.
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Il COVIP si mette al servizio di questa prospettiva
Il COVIP, Centro Orvietano di Vita Politica Senatore Romolo Tiberi, ha organizzato con questo spirito il convegno dello scorso 19 ottobre. Ci auguriamo che quanti,
a livello politico, istituzionale e culturale, condividono il bisogno di un cambiamento
profondo nell’impostazione delle riforme istituzionali della nostra regione nel contesto del risanamento e del rilancio del nostro Paese apprezzino lo sforzo che stiamo
facendo. Noi continueremo a stimolare la discussione. Questa pubblicazione è il
segno della nostra volontà.
Franco Raimondo Barbabella
Presidente COVIP
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2. Atti del convegno
2.1. Introduzione
Franco Raimondo Barbabella
Presidente del COVIP
Buonasera a tutti voi e grazie per la vostra partecipazione. Ringrazio l’Amministrazione comunale per averci concesso l’uso di questa prestigiosa sala e con particolare gratitudine i relatori del convegno, che rapidamente vi presento e ai quali darò
la parola subito dopo aver brevemente illustrato le ragioni di questa iniziativa: Pier
Luigi Leoni, Segretario del COVIP, cultore di diritto amministrativo e di storia locale;
Marcello Meroi, Presidente della Provincia di Viterbo; Silvio Manglaviti, Presidente del
Comitato “Orvieto Città del Corpus Domini”, geografo e anche lui cultore di storia locale; Leandro Pacelli, a suo tempo Presidente dell’Azienda di Turismo di Orvieto e
oggi esponente politico del Lago Trasimeno e dirigente del movimento cooperativo;
Fabrizio Marcucci, giornalista de “Il Giornale dell’Umbria”; Giovanni Codovini, docente di filosofia e storia presso l’IIS di Umbertide, giudice presso il Tribunale dei minori di Perugia e direttore di “Informazione locale – Alto Tevere”. Esperienze diverse,
provenienze diverse. Tutti però fortemente impegnati nel cercare di delineare prospettive credibili per uscire dal pantano in cui siamo stati/ci siamo cacciati.
Sapete che il COVIP (Centro Orvietano di Vita Politica intitolato al Senatore Romolo Tiberi) si occupa di politica non in modo diretto ma mediante iniziative politico-culturali e creando occasioni di confronto sui temi che di volta in volta si ritiene
utile discutere per la vita attuale e il destino stesso della comunità. La politica è, o
per meglio dire dovrebbe essere, il luogo privilegiato in cui si formano gli indirizzi di
governo ai diversi livelli, che sono tuttavia sempre interrelati. Per questo il localismo
non è né può essere la nostra cultura e la nostra prospettiva: al contrario, noi vogliamo stimolare la partecipazione delle realtà locali alla formazione delle decisioni
generali. In particolare con occasioni come questa, in cui tentiamo di mettere a fuoco
il tema delle riforme istituzionali. Nel parlare di Umbria, parliamo infatti anche di Orvieto, così come di Umbertide e Città di Castello, del Trasimeno, della Valnerina, di
Gubbio e di Gualdo. E non solo. Cioè parliamo delle diversità della nostra regione,
che sono la sua ricchezza se la politica le assume come punto di forza e non come
problema da ignorare o da sopprimere. Perciò l’assetto istituzionale ha una funzione
decisiva: ad esso è legato il ruolo di tutti e di ciascuno, la proiezione verso il futuro
o la conservazione di schemi vecchi e superati che contrastano con le esigenze reali
delle popolazioni.
Abbiamo scelto per questo come titolo del nostro convegno “L’Umbria dopo
l’Umbria” e come sottotitolo “Riorganizzazione del passato o coraggio del futuro?”
per segnalare che vorremmo riflettere sul futuro della nostra regione stimolando il co15
raggio dell’innovazione. Siamo convinti infatti che dalla crisi del regionalismo e del
federalismo all’italiana l’Umbria può evitare di uscire frantumata o annullata solo se
ridefinisce la sua identità e il suo assetto interno in modo funzionale e non ideologico. Non è più questione di due province, tanto meno di solo riequilibrio tra province
con artificiose transumanze di territori. E’ questione invece di superamento contemporaneo di centralismo e campanilismo, con un nuovo assetto imperniato sul
ruolo dei territori e lo sviluppo di una politica di ponti plurimi con le regioni confinanti, mettendo in gioco le potenzialità delle aree cerniera.
Non è un caso che questa esigenza sia particolarmente sentita in un territorio
come quello orvietano, da sempre interessato a intessere rapporti interregionali in direzione sia dell’Alto Lazio che della Bassa Toscana. Così al convegno partecipano
persone che esprimono sensibilità e impostazioni progettuali innovative, provenienti,
oltre che da Orvieto e da Viterbo, da altre zone di confine (zone cerniera) come il
Lago Trasimeno e Umbertide – Città di Castello.
Il problema in discussione non si traduce dunque in una qualche rivendicazione
egoistica e particolaristica per il nostro territorio, quanto piuttosto, come d’altronde
è nello stile culturale del COVIP, nella proposta di una nuova prospettiva generale,
valida per tutta l’Umbria, e non solo. Sono certo che questo emergerà con forza
dalle relazioni, e mi auguro anche dagli apporti delle persone invitate. Iniziamo con
il dott. Pier Luigi Leoni.
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2.2. Relazioni
2.2.1. Riforme istituzionali: futuro immaginato e futuro possibile
Pier Luigi Leoni
Segretario COVIP e cultore di diritto amministrativo
Potremmo stare meglio della Francia, dell’Olanda e perfino della Germania. Ma
ci dovremmo liberare della zavorra. Cioè, come scriveva recentemente un giornale
nazionale (ma come tutti sappiamo) ci dovremmo liberare della riforma del titolo V
della Costituzione, dei costi istituzionali e burocratico-amministrativo pazzeschi, di
quattro mafie nostre più alcune straniere, del nero che alimenta buona parte degli
scambi, del sequestro di Stato di oltre la metà del Prodotto Interno Lordo nazionale
ecc. ecc.
Possiamo rammaricarci, abbatterci, arrabbiarci, piagnucolare, inveire, scendere
in piazza, ma non caveremo un ragno dal buco se non faremo appello alla ragione.
Ciò che vi è di più umano nell’uomo è la ragione. Certo, l’uomo ha anche gli istinti
animali, ma al polo opposto ha la ragione e, tra i due poli, le emozioni, le opinioni e
quelle opinioni di massa che sono le ideologie.
Duemilacinquecento anni fa, Parmenide di Elea, padre della metafisica, individuò una distinzione che è tanto vera da essere divenuta imprescindibile: la distinzione tra verità (alètheia) e opinione (dòxa).
Senza istinti non si sopravvive, senza emozioni la vita diventa impossibile, senza
opinioni non sappiamo che cosa fare, ma senza il ragionamento non si progredisce.
È stato incisivamente detto che non sono i sonetti del Petrarca che hanno fatto progredire le plebi affamate e appestate, ma i ragionamenti di Galileo e di Pasteur.
Anche in politica, ragionare vuol dire tener conto della realtà. Lasciamo le fazioni
all’aspetto ludico della vita. C’è un tifo politico analogo al tifo sportivo. Lasciamo le
ideologie alla loro crisi, speriamo irreversibile, e alle relative utopie smentite ogni
giorno dai fatti.
Di fronte alla crisi italiana e alla evidente zavorra che la sta trascinando a fondo,
che significa tener conto della realtà?
La Costituzione italiana è una realtà. I padri costituenti fecero un grande lavoro,
ma peccarono di umana presunzione: pensavano di aver creato la repubblica perfetta, o quasi. Da una parte stesero una serie prolissa di disposizioni e dall’altra previdero un procedimento complicato e insidioso di revisione costituzionale.
È vero che la Costituzione americana del 1787 ha subìto 17 emendamenti, dopo
i dieci del Bill of rights introdotto nel 1791, ma quella costituzione è un testo suc-
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cinto che contiene soprattutto principi di diritto naturale. L’Inghilterra, che ha inventato la democrazia rappresentativa, la sua costituzione, anche per non doversi preoccupare di doverla emendare, non l’ha mai scritta.
Quindi la nostra costituzione è blindata e c’è poco da sperare che sia radicalmente trasformata cancellando, per esempio, il sistema regionale. Anche se è matematicamente provato che è quel sistema che ha innescato, incoraggiato e reso
quasi irreversibile l’indebitamento pubblico. Il sistema regionale non può essere realisticamente smantellato, ma può essere castrato rendendolo finanziariamente asfittico, come si sta facendo, sottoponendolo al controllo delle spese, come si sta
facendo, e levandogli di bocca, come presto si dovrà fare, il boccone grosso, che
vale il 70 per cento del suo potere, cioè il servizio sanitario.
Il sistema provinciale è previsto dalla Costituzione, che nessuno si propone seriamente di cambiare. Il governo sta cercando di limitarne i danni, riducendo il numero e le funzioni delle province e facendone degli enti di secondo grado, con una
manovra peraltro molto sospetta dal punto di vista costituzionale.
Veniamo ai comuni. Sono tentato di dire: «ne abbiamo già parlato». E potrei rinviare agli atti del primo convegno organizzato dal COVIP. Ma non sarebbe corretto
nei confronti di chi non ha tempo di frequentare tutti i nostri convegni. Ricorderò
semplicemente che invitammo a guardare ciò che fa la Francia, la nazione che dal
punto di vista giuridico costituzionale, e non solo, stiamo cercando maldestramente
di imitare da due secoli. I nostri 8000 comuni se la passano male e tutti vogliono riformarli, i 40.000 comuni francesi se la passano bene e nessuno li vuole riformare.
La fortuna della Francia è che i comuni sono liberi di associarsi, finanziandosi con
alcune imposte patrimoniali.
Le regioni italiane sono state incaricate dal parlamento di legiferare in merito alle
unioni di comuni. Ne è venuta fuori una confusione tremenda e il governo, per il momento, non può fare altro che tagliare fondi ai comuni, grossi corresponsabili del debito pubblico, frenare il turnover nelle assunzioni di personale e ingabbiare tutti i
comuni, o quasi, nel patto di stabilità interno.
Se questa, o pressappoco questa, è la realtà, la prospettiva non può che essere
il rilancio delle associazioni libere dei comuni. Ovviamente i comuni maggiori verrebbero ad accrescere il loro ruolo a danno dei comuni minori, ma ciò significherebbe il rispetto di una legge fisica dell’urbanistica, per cui i centri abitati si
organizzano, da che mondo è mondo (o almeno dall’affermarsi dell’urbanesimo) in
sistemi urbani nei quali centri minori orbitano attorno a centri maggiori.
La legge regionale umbra che ha previsto l’obbligo delle unioni speciali dei comuni è una legge di cattiva qualità, perché il suo scopo principale è di piazzare il
personale amministrativo delle soppresse Comunità montane. Ben 18 dipendenti
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saranno assegnati alla unione speciale dell’Orvietano per svolgere mansioni per le
quali ne bastano meno della metà. Molti dipendenti, poche funzioni: quelle amministrative delle ex Comunità montane e quelle dei comprensori socio-assistenziali.
Poiché la legge regionale prevede che i comuni possano affidare alle unioni speciali
molti dei propri servizi, si tratta ora, realisticamente, di riempire quel sacco perché
stia in piedi. Si può ragionevolmente confidare nella crescente mancanza di mezzi
finanziari che induce a miti consigli e a ragionevoli strategie.
Pertanto si può parlare di Tuscia, di Nuova Tuscia, di Etruria, di macroregione e
di aree vaste, ma senza dimenticare la realtà e tenendo conto che molto si può fare
con poche leggi, purché siano razionali. E anche senza leggi. La perfezione non è
possibile, ma il progresso è una tendenza dell’homo sapiens che, tutto sommato, è
più difficile comprimere che aiutare.
Un’ultima riflessione sulle mafie. La saggia opinione del compianto Giorgio
Bocca, che voleva sottoporre le aree mafiose al codice penale di guerra, cozza contro la Costituzione, perché l’Italia non può dichiarare guerra a nessuno, figuriamoci
se può dichiarare una guerra interna. È vero che si va a combattere in giro per il
mondo, ma le chiamiamo missioni di pace e le giustifichiamo con l’obbligo della collaborazione internazionale. Perciò ci terremo le mafie cercando di contenerle con
accorgimenti di qualche efficacia, come le confische dei beni dei mafiosi. Ma, come
sappiamo che non dovremo morire democristiani e neppure comunisti, dobbiamo
pure sapere che moriremo senza che le donne napoletane abbiano smesso di tirare
i pomodori ai carabinieri che arrestano i camorristi.
Credo sinceramente che questo incontro non sia tempo sprecato, se non altro
perché ci permette di fare un esercizio di razionalità. E gli esercizi sono utilissimi,
come sa chi ha studiato l’algebra.
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2.2.2. Riordino Province. Realizzare l’area vasta del Centro Italia
Marcello Meroi
Presidente della Provincia di Viterbo
Ringrazio il Covip, il Comune di Orvieto e tutti i presenti per aver organizzato questo incontro, che ci dà l’occasione, seppure oltre il tempo massimo, di tornare a parlare dell’area vasta dell’Italia di mezzo e per esaminare i decreti normativi che a giorni
disciplineranno non solo il nuovo assetto di una parte della pubblica amministrazione, ma anche e soprattutto la riorganizzazione delle Province.
Il mio giudizio al riguardo è chiaro: credo si tratti di un provvedimento pasticciato, scritto male, contraddittorio, scritto da chi non conosce la realtà dei territori
del nostro Paese. Un provvedimento che sarà molto difficile rendere operativo, almeno in tempi brevi. La scorsa settimana, insieme ai colleghi presidenti delle Province di Frosinone, Latina e Rieti, siamo stati ricevuto dal prefetto Pansa per avere
qualche chiarimento su come in pratica funzionerà il riordino delle amministrazioni
provinciali in seguito al decreto del ministro Patroni Griffi. Quello che è emerso da
quell’incontro è l’assoluta confusione che regna sovrana al Ministero per ciò che
concerne i tempi e gli sviluppi dell’applicazione delle novità normative. Sarebbe
stato opportuno, prima di procedere all’emanazione di un simile decreto, almeno
attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale sui ricorsi presentati dalle
Regioni, visti i palesi vizi che ad oggi sembrano essere contenuti nel provvedimento.
Indipendentemente dal giudizio della Consulta, comunque, sembrerebbe che Viterbo debba porsi come capofila del processo di accorpamento con Rieti, mentre si
procederà allo stesso tempo all’unificazione dei territori di Frosinone e Latina. Resta
da capire quali territori comporranno invece la provincia di Roma, prima cancellata
dalla costituzione dell’area metropolitana della Capitale e poi invece magicamente
ricomparsa nel decreto del ministro della Funzione pubblica.
Mi pare che si stia procedendo con troppa approssimazione. Basti pensare che
il provvedimento governativo del 12 agosto scorso stabiliva che i CAL (Consigli delle
Autonomie Locali) dovessero partecipare con funzione propositiva al processo di
riordino, ma entro il 24 luglio dell’anno precedente. Di fatto la funzione dei CAL e
delle rappresentanze territoriali è stata completamente svuotata e superata perché
i termini erano già decorsi al momento dell’uscita del decreto. Ciò mostra la grande
confusione che incombe su una scelta che dovrebbe ridisegnare i territori italiani e
la stessa idea di pubblica amministrazione.
Da tempo Viterbo, Orvieto, Civitavecchia, Terni e parte della Toscana, parlando di
area vasta, discutono della necessità di superare i confini geografici per avviare pro20
getti infrastrutturali, turistici e culturali comuni, figli di un’altrettanto comune radice storica e tradizionale. Abbiamo cercato con questa discussione di ridare voce ad aree del
Centro Italia che hanno valenze omogenee, ci abbiamo lavorato su, ma nessuno ci ha
ascoltato né ci ha fatto partecipare alle scelte. Anzi, la risposta che abbiamo ottenuto
è un decreto che unirà due territori, la Tuscia e la Sabina, completamente disomogenei, che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, distanti e tra loro mal collegati.
Tutto ciò senza dare una benché minima spiegazione su come funzionerà il passaggio di consegne in merito al personale, alle competenze, alle funzioni. E’ inutile
girarci intorno, questo sulle Province è un provvedimento che, così come è concepito da Filippo Patroni Griffi (ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione), non porterà alcun risparmio, ma aggraverà invece i costi per i cittadini,
penalizzando i servizi e cancellando le vocazioni dei territori. Chi parla di risparmio,
dichiara il falso: avremo solo tagli e depauperamento delle nostre comunità, e per
questo spero che un Parlamento di fatto delegittimato, in un ultimo scatto di dignità,
si opponga ad una riforma poco chiara che affronta il problema delle pubbliche amministrazioni non dal punto di vista della loro funzione ma solo in termini di spesa. Se
il Parlamento non correggerà questo decreto si farà scempio dei territori e non un
servizio davvero utile allo Stato e ai suoi cittadini.
E’ necessario un ripensamento, magari non immediato, di questa riforma, che a
giorni commissarierà oltre il 50% delle Province d’Italia, enti previsti dalla Costituzione che vengono mandati in dismissione, ma senza una scadenza temporale precisa. In questa fase di incertezza, penso sia un obbligo per noi amministratori locali
ridare voce alle aree geografiche oggetto di riforma, parlando con i sindaci dei Comuni, incontrando i rappresentanti delle comunità, sperando di poter quanto prima interloquire con un Governo che mi auguro sia formato da persone scelte dalla
gente. Solo un Esecutivo legittimato dalla forza e dal consenso popolare potrà infatti
assumersi la responsabilità di dialogare in modo serio e costruttivo con i territori.
Realizzare una vera area vasta dell’Italia di mezzo credo sia possibile, ma non so
in che tempi. Non nascondo sinceramente la mia preoccupazione per una riforma
che certamente andava fatta ma che doveva prevedere il rispetto delle aree omogenee. Così, invece, si ridurrà ad una mera operazione di tagli, che cementerà il potere in mano alle Regioni e penalizzerà i cittadini. Sinceramente ci aspettavamo ben
altro dai professori, che mostrano di conoscere poco le realtà locali a cui provocano
danni seri e forse irreversibili.
21
2.2.3. Giubileo 2013 - 2014: un’opportunità davvero speciale
«[And so, my fellow Americans: …] … ask not what your country
can do for you … ask what you can do for your country»
(JFK; Washington, Inauguration day, January 20, 1961)
Silvio Manglaviti
Presidente del Comitato “Orvieto Città del Corpus Domini”
Come può inserirsi una riflessione sul Giubileo nella discussione relativa al riordino territoriale dell’Umbria? In effetti è possibile. Il Giubileo è un aspetto, si certo religioso, ma comunque sociale. Come tale, investe la comunità e il territorio in cui si
celebra, caratterizzandoli inevitabilmente. Il nostro Giubileo, in particolare, come si
vedrà, permea un ambito territoriale unico nel proprio genere. La diocesi di Orvieto
– Todi, in cui è compresa anche Bolsena: stiamo parlando dunque di mezza Italia
centrale tirrenica. Umbria, Lazio e province di Viterbo, Terni e Perugia. A volerla dire
tutta, sembra proprio l’uovo di colombo, panacea (provocatoria) nello scombussolamento generale del riassetto interregionale. Procediamo con ordine. Cominciamo
dall’Umbria.
Dopo l’Umbria, ritengo, non possa esservi che ancora Umbria: lo dico da geografo operativo, cultore di geografia storica (o geostoria come è definita). Ma quale
Umbria? Appartengo alla schiera di quelli che non credono al concetto di confine,
di limes; la mia Umbria è un luogo di luoghi prima di tutto mentali, del pensiero. I luoghi legati all’esperienza personale e quindi anche alle memorie ed ai ricordi. Sono per
questo tra i sostenitori della cosiddetta “cittadinanza mondiale” e dunque in favore
della libera circolazione in tutti i luoghi del Pianeta. Va da sé che a mio parere i nostri moderni limiti amministrativi, necessità storica di definire l’ambito fisico entro il
quale si possa e si debba amministrare e governare, stereotipo culturale discendente dall’atavica, primordiale esigenza di delimitare la proprietà, in cui si esercitano
i propri poteri e controlli, quei limiti – dicevo – si sono rivelati poi nel corso della storia umana limitazioni della sfera intellettuale, utili per alcuni aspetti pratici, ma arma
a doppio taglio e rischiosi per i conseguenti effetti boomerang: effetti che oggi stiamo
purtroppo sperimentando a nostre spese, non senza un certo qual disagio e disappunto. Dell’Umbria amministrativa non si può dire che sia peggiore o migliore di altre
regioni italiane; tuttavia, un qual certa differenza emerge. Per quelli che come il sottoscritto stanno a guardare cose più “effimere” come l’ambiente, il paesaggio, la
cultura, ad esempio, la nostra regione ritengo non debba dirsi seconda a nessuno
per qualità di interventi e gestione delle risorse. Talune “distonie” a parte, dove l’esigenza d’impresa, come tutto ormai da tempo va configurandosi, si trova per forza
22
di cose a fare i conti con le forche caudine del mercato e del profitto (tralasciando
debitamente eventuali aberrazioni). Dicevamo dell’Umbria luogo di luoghi; come d’altronde l’Italia, e l’Europa … ma tutto il mondo allora. Infatti, la mia idea di regionalismo passa attraverso il concetto di frattale geografico e geostorico, dove non passa
la distrazione dall’elemento costitutivo più piccolo, a nocumento di questo: quello
che sta avvenendo con questa mutazione culturale che è la globalizzazione; distrazione che significa distruzione dei caratteri elementari delle civiltà e delle società. Il
rischio è la strumentalizzazione della ricerca di miglioramento qualitativo per il bene
comune, ben individuata dal sociologo Zygmunt Bauman, promotore all’inizio di questo terzo millennio del concetto di “glocal”, come Weltverbesserung1, riforma/miglioramento del mondo, nell’accezione negativa che ne dà lo stesso Bauman
esortando a diffidare dei Weltverbesserer “riformatori del mondo” (tra i quali annovera ad esempio i, chiamiamoli visionari, nazisti) e ad applicare il nous, invece, l’intelligenza comune: per il bene comune, aggiungo io. Ecco, la mia idea di nuova
Umbria passa attraverso l’implicazione della comune intelligenza nella gestione consapevole del proprio valore identitario. Si può aver vagato a zonzo per il mondo
senza aver guardato e dunque cercato di comprendere e dunque aver appreso un
bel niente. È un andare a ramengo senza conoscere il luogo di partenza. Se non si
conosce quel luogo non si conosce se stessi. Il tema dei valori identitari culturali mi
consente di aprire un confronto con l’evento che si approssima del “Giubileo straordinario Bolsena Orvieto 2013 2014” indetto da Papa Benedetto Decimosesto con
decreto della Penitenzieria Apostolica nel settecentocinquantesimo del miracolo eucaristico di Bolsena del 1263 e dell’istituzione del Corpus Domini ad Orvieto nel
1264. Si tratta di un evento unico nel suo genere. Unico in quanto unica, speciale è
la situazione culturale, storica e geografica, del luogo in cui si manifesta. Il luogo è
la diocesi di Orvieto – Todi, Chiesa particolare. Particolare, dunque speciale anche
in senso culturale, storico e geografico. Già prima di accogliere anche quella tuderte
negli anni ’70, la diocesi orvietana sin dal Medio Evo comprendeva Bolsena e dall’antica diocesi di Volsinio discende quella orvietana; cagion per cui, oltre al fatto
che all’epoca Orvieto fosse residenza pontificia, alcune delle reliquie di quel miracolo
di Bolsena, tra cui il Corporale, si ritrovino ancora oggi custodite nel Duomo. Il Giubileo, quale aspetto religioso, evento che nasce in seno alla sfera del sacro, in verità si trova a coinvolgere tutta una comunità. Il melting pot culturale in cui viviamo
glocalmente è il medesimo in cui si trovi immersa la nostra città e che fa di questa
un luogo, oltre che fisico, mentale e del pensiero, endemicamente plurale, articolato
1
BAUMAN Zygmunt, “Globalizzazione e glocalizzazione”, Roma 2005; USA/UK 2001.
23
e, ovviamente declinabile in molte, tante forme. Eppure, troppo spesso si prescinde
da tale prerogativa ragionando di società e territori. I caratteri peculiari di un luogo,
di un territorio, invece di fare intelligenza comune per il bene comune, sono assunte
come fonte di divisione e come tali strumentalizzate nei contrasti che ne derivano,
con conseguente sperpero e spreco, sciupìo di risorse e anche di tempo. Il Giubileo
alle porte, pur essendo fenomeno relativamente locale (vedremo più avanti perché
“relativamente”), è un evento speciale, per la lunga durata – due anni – e per il fatto
che riguardi una comunità, quantomeno per geostoria locale, multiforme ed eterogenea. Eterogeneità geostorica che però non sia detto debba per forza di cose caratterizzarsi anche in senso culturale e sociale. L’identità consapevole di una
comunità infatti si fonda proprio sulla relazione tra luogo, il territorio, e cultura, la
propria storia, che è sempre storia sociale. Questo nostro Giubileo può essere un’ulteriore sostegno e spinta nell’esercizio della comune intelligenza relativamente alla
presa di coscienza da parte di una comunità delle proprie caratteristiche culturali,
della propria identità culturale che le viene dal tempo, la propria storia e dal luogo,
il territorio. Proprio la peculiarità del luogo in cui si verifica l’evento infatti fa la differenza con qualsiasi altro luogo o nonluogo. Infatti, ricorda Marc Augé a proposito di
nonlieux: «Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico definirà il nonluogo
(…), la metaforizzazione nichilistica, la deriva, appunto, del “nulla”»2. In realtà, il dualismo luogo/non luogo non è sic et simpliciter dimostrato, in quanto il più delle volte
i due termini racchiudono contenuti osmotici, rivelandosi, perciò, “polarità sfuggenti,
palinsesti in cui si reiscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione”3. Dunque, lasciando rispettosamente alla Chiesa l’aspetto liturgico e devozionale dell’evento, noi intendiamo invece rimarcarne il valore culturale, proprio di
“riflessione culturale”, di “contributo culturale” a e per l’intelligenza comune, in senso
civico e popolare: opportunità speciale che la storia ci sta dando in questo preciso
tempo in questo preciso luogo con l’evento Giubileo. Quello del Giubileo è già per
propria natura un tempo di riflessione. Nella tradizione ebraica e cristiana si caratterizza come “anno santo” di liberazione, di grazia e misericordia universale, percorso di redenzione attraverso la riconciliazione, percorso iniziatico alla santità –
pellegrinaggio, appunto – chiaramente individuabile anche nei riti simbolici, come
quello dell’apertura delle porte, che sono dette appunto sante, e la stessa durata
2
AUGÉ Marc, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil,
coll. «La librairie du XXIe siècle», 1992.
3
GURRIERI Francesco, I “non luoghi” del labirinto umano, in Nuova Antologia, Firenze, a. 134°,
ottobre - dicembre 1999, fasc. 2212, pp. 211-218.
24
che oltrepassa l’anno canonico4. Il Giubileo non è più oggi liquidabile come mera
“una tantum” delle indulgenze, nella concezione ante litteram di Bonifacio VIII e del
suo Giubileo del 1300; e lo stesso aspetto connesso al pellegrinaggio – non se ne
abbia a male il Sommo Dante5 – può persino essere considerato paradossalmente
marginale. Come ritengo altresì che un evento quale il Giubileo porti con sé implicazioni non esclusivamente riservate ad una fetta di comunità, né tantomeno settariamente relegabili nel “ghetto” di talune specifiche competenze che potremmo
attribuire in senso generale alla sola sfera del sacro. Insomma l’evento giubilare coinvolge inevitabilmente tutti noi; e promuove di per sé un’opportuna totale divulgazione civica e popolare; perché il Giubileo nasce come tale, come comunicazione
attraverso il jobel, il corno d’ariete, a tutto il mondo (un tempo solo ebraico magari,
e poi anche cristiano): un atto superiore di Comunicazione, che non potrà che essere necessariamente limpida ed onesta in un’ottica intellettuale ed anche scientifica. Il Giubileo si fa quindi anche strumento del ricordo e come luogo della
memoria invita ad individuare alcuni elementi chiave: il luogo, definito nello spazio;
la storia, che si dipana nel corso del tempo; la fede, quale fenomeno e manifestazione del religioso, elemento spirituale e del pensiero; la cultura, che li comprende
tutti.
Il LUOGO, di tanti luoghi probabili: luoghi diversi uniti in un contesto comune. Il
Giubileo del Miracolo eucaristico e del Corpus Domini, che lega senza dubbio le comunità di Bolsena ed Orvieto, oggi, con Todi, realtà diocesana unitaria, ci fa individuare anche altri luoghi e stimola (se non impone) a ragionare su possibili interazioni
e legami fra le varie comunità. Praga, donde tradizione vuole provenisse il sacerdote
boemo Pietro celebrante la Messa di Bolsena; con la quale già intercorrono relazioni
e scambi e dove riposano le spoglie di San Norberto di Prémontré (1080 – 1134), storico difensore del mistero eucaristico in terra fiamminga (Anversa, Fiandre) e tedesca, ispiratore dei Premonstratensi cui si deve la fondazione della Badia orvietana.
Liegi (vallona), dove il Corpus Domini si rivelò nelle visioni di Santa Giuliana da Mont
Cornillon (1191 – 1258); visioni raccolte da Jacques Pantaleon (de Troyes, 1195) qui
a Liegi arcidiacono, (nel 1245, dopo il Concilio di Lione), successivamente Patriarca
4
Il Giubileo in generale dura un anno più i giorni compresi dal Natale dell’anno precedente, 25
dicembre, all’Epifania dell’anno successivo, 6 gennaio.
5
«Deh peregrini, che pensosi andate, / forse di cosa che non v’è presente, / venite voi da sì lontana gente, / com’a la vista voi ne dimostrate» (Dante Alighieri, Vita Nuova, XL, 24) - «.../come i
Roman per l’essercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo
colto, / che dall’un lato tutti hanno la fronte / verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro; / dall’altra
sponda vanno verso il monte.» (Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, Canto XVIII, 28-33).
25
gerosolimitano (1255 – 1261, in quel di San Giovanni d’Acri, poiché Gerusalemme
era in mano al Mamelucco), il quale salì al soglio di Pietro col nome di Urbano IV
(agosto 1261) stabilendosi in Orvieto. Gerusalemme, su cui cosa altro si vorrebbe
aggiungere? Luogo del Cenacolo ove verbum caro factum est, del Corpus Christi e
del Santo Sepolcro; luogo simbolo di intelligenze che dovrebbero essere comuni per
un bene che dovrebbe essere comune e che invece ancora oggi è luogo di consolidata divisione geopolitica in un’areale geostorico martoriato nella divisione, e a
causa della divisione fra gli esseri umani, delle limitazioni intellettuali costruite sul
limes amministrativo. Bognanco, in Val d’Ossola, dove agli inizi degli anni ’60 si rinvenne in un codice pergamenaceo la copia della bolla Transiturus, di cui fece dono
ai valligiani per l’aiuto sul Passo del Sempione mentre faceva ritorno dal II Concilio
di Lione (1274), da Papa Gregorio X – predecessore di Niccolò IV (posa della prima
pietra della cattedrale orvietana) – promotore di importanti visioni ecumeniche, che
ad Orvieto decretò l’utilizzo dei proventi dalle indulgenze del Corpus Domini per la
costruzione dell’acquedotto. Torino, città della Sindone ed eucaristica per il miracolo
avvenuto nel ‘500 sul luogo dell’attuale basilica del Corpus Domini, il progetto della
quale si deve all’orvietano Ascanio Vitozzi.
LA STORIA, linea del tempo: il Giubileo chiama la data di quell’11 agosto 1264
quando da Orvieto fu promulgata la bolla Transiturus de hoc mundo con la quale Urbano IV istituisce la solennità cristiana universale del Corpus et Sanguis Domini. I luoghi, la storia, la fede, la cultura, sono aspetti comuni a tutte le civiltà della Terra in
ogni tempo. La cultura occidentale, quella europea in particolare, si fondano anche
sulla storia del cristianesimo, come ci ricorda bene Le Goff. L’Europa e l’Occidente
non sarebbero e non avrebbero storia senza. Così anche le nostre comunità, frattali
geostorici, hanno il dovere di riconoscere e vivere le proprie identità culturali in
quanto valori, valori identitari di intelligenza comune. Nell’Umbria di San Benedetto
e San Francesco, della Marcia della Pace, Orvieto può portare un solido esauriente
ed esaustivo contributo all’intelligenza comune. Il Giubileo è uno straordinario e speciale luogo di riflessione e promozione per questo. Strumento del ricordo per sollecitare il riconoscimento di quella che è, semplice e a portata di mano, pura risorsa
culturale pronta e disponibile. Mai come ora emerge il ruolo geostorico di Orvieto
ponte tra la Tuscia e l’Umbria. La Diocesi orvietana, con Bolsena, Orvieto e Todi è il
manifesto di questa geolocalizzazione storica (lo dicevo già in tempi non sospetti
nel 1998 in una conferenza sulla viabilità antica all’Istituto Storico Artistico Orvietano; lo ho ribadito in un’altro incontro I.S.A.O. nel 2007; lo scrivo da sempre); vocazione di un territorio, come si può riscontrare anche nelle autorevoli analisi di
Consalvo Dottarelli di Bolsena, Bonaventura Tecchi di Bagnoregio e dell’orvietano
Renato Bonelli. Qui ci troviamo in una regione che è topica in senso geostorico, quel
26
“quasi Lazio quasi Umbria” che Tecchi affresca “nell’aspra nudità vulcanica del tufo
e delle crete”.
ORVIETO CITTÀ DEL CORPUS DOMINI non è uno slogan, una provocazione,
una spacconata. Non è un’invenzione. Non è una forzatura. È un indelebile marchio
culturale. Marchio severo e grave, per il valore che trasmette, quindi sobrio. In questi luoghi la fede – ovvero, il mistero del Corpus Domini – incontra la storia umana e
si fa cultura: il Duomo, “giglio d’oro delle cattedrali”, si erge ad imperitura testimonianza didascalica e totemica di tutto ciò. San Tommaso, che aveva la cattedra nello
Studium orvietano (università del tempo), incaricato di redigerne l’Officio, ha qui ad
Orvieto concepito tra le più alte liriche eucaristiche, il Pange Lingua, inno eucaristico
della cristianità. San Bonaventura, anch’egli insegnante nello Studium sulla Rupe,
venti giorni dopo l’indizione del Corpus Domini predicò il Sermo de sanctissimo corpore Christi alla presenza di Papa Urbano e del concistoro generale. È lo stesso Bonaventura che ritroveremo a fianco del citato Gregorio X, protagonista nella visione
ecumenica al concilio lionese e già inviato in delegazione presso Michele Paleologo,
per individuare punti d’incontro con gli ortodossi.
Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro e come si potrà configurare un eventuale prossimo assetto territoriale. Sappiamo però cos’è l’Umbria oggi. E sappiamo
cosa rappresenta Orvieto nella sua attuale collocazione amministrativa. Al tempo
della bolla Transiturus non c’era questa Umbria, non c’era il Duomo. Il concetto di
confine, di limite amministrativo, come oggi lo intendiamo, non era concepibile. Il
limes, anzi meglio dire il finis (la delimitazione), come si ritrova nelle fonti orvietane
antiche (ad fines clusinorum, miliare di Monte Regole, Allerona; la stessa etimologia
di Alfina, ad es.), era rappresentato dalla linea d’orizzonte dello spazio visibile; tutt’al più, per allargare la vista si elevavano torri col duplice scopo di avvistare e segnalare; dal mastio della rocca monaldesca di Sarteano si può osservare la nostra
Torre del Moro; oltre una trentina di km in linea d’aria! Il Giubileo ci ricorda il valore
e la responsabilità storici e culturali che ricadono su Orvieto, sulla sua comunità e sul
territorio. Responsabilità che vuol dire chiaramente ruolo e compiti territoriali.
Nella cattedrale di Siena, appena si entra, sul bellissimo mosaico trecentesco del
pavimento, il secondo riquadro rappresenta la Lupa senese contornata dalle maggiori città con cui Siena aveva rapporti. Orvieto, Urbs Vetus, vi compare con l’Oca.
In un mio vecchio studio su una rappresentazione cartografica cinquecentesca
raffigurante il contado orvietano ai tempi di Manno Monaldeschi nel Trecento, la Urbisveteris Antiquae Ditionis Descriptio, in Bollettino I.S.A.O. del 2002, rilevo come
quella carta antica derivi dalla pittura parietale, dello stesso autore Egnatio Danti,
nella Galleria delle Carte Geografiche oggi Musei Vaticani, la Tuscia Suburbicaria,
del 1580. Alla base della corografia sono raffigurati, quali centri di riferimento re-
27
gionale, le piante di Viterbo e Orvieto, appaiate. Nella lunetta soprastante la parete
è rappresentato il Miracolo di Bolsena (raffigurato anche nelle stanze di Raffaello).
Marica MILANESI, che ha studiato a fondo l’imponente opera didascalica geografica commessa da Papa Gregorio XIII (Le ragioni del ciclo delle carte geografiche, in Mirabilia Italiae) ce ne ricorda l’obiettivo propagandistico, di strumento del
e per la gestione del potere: ed infatti la targa che sigilla l’arme di Gregorio nella
Galleria (che all’epoca era detta del Belvedere) riporta «Ex rerum et locorum cognitione utilitas».
Voglio chiudere questo modesto mio contributo proprio con queste parole lapidarie volute dal pontefice (che era un insigne giurista; tra i protagonisti del Concilio
tridentino e promotore della Commissione per la riforma del calendario, in cui volle
peraltro lo stesso Danti): “l’utilità che deriva dalla conoscenza delle cose e dei
luoghi”.
Umbria e Tuscia, ora più che mai sono chiamate a riflettere su una storia comune.
Sono fermamente convinto che anche un Giubileo, se non delegato ad una sola
parte di comunità, ma vissuto come aspetto di cultura ed intelligenza comune può
– com’è per sua natura originaria, non a caso – farsi elemento promotore del bene
d’interesse comune generale.
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2.2.4. Le potenzialità di sviluppo sull’asse dei laghi etruschi
Leandro Pacelli
Esponente politico del Lago Trasimeno e dirigente del movimento cooperativo
Ringrazio gli organizzatori dell’incontro per l’invito, ma soprattutto per gli argomenti, quanto mai attuali, posti alla nostra riflessione e all’attenzione della comunità
locale.
Quando il Governo ha deliberato i provvedimenti riassunti nella “Spending review”, che hanno previsto l’abolizione di una parte delle province, tra le quali Terni,
in Umbria era già da tempo in corso il dibattito sulla riforma endoregionale. Il confronto sul riassetto del sistema sanitario, nel rispetto di una tradizione oramai secolare, era concentrato sulla richiesta di Terni di mantenere in loco sia la sede dell’
ASL che l’azienda ospedaliera, in contrasto con Perugia che vorrebbe soddisfare richieste di altri territori.
Il provvedimento di riduzione delle province, ed il drastico ridimensionamento
delle risorse finanziarie da trasferire agli Enti Locali, sono calati come una doccia
fredda sul dibattito in corso. La questione ha investito tutta l’Umbria: Terni che mal
sopporterebbe di perdere l’autonomia provinciale, e Perugia dove si sostiene che
una regione con una sola provincia, nel tempo, metterebbe in discussione la sopravvivenza dell’Istituto regionale.
La situazione poteva rappresentare l’occasione per aprire un sereno e serio confronto fra le forze politiche sul tema dell’iniziativa promossa oggi dal Covip. Abbiamo invece assistito al solito balletto, le più svariate dichiarazioni ed iniziative, in
qualche caso anche originali. Emendamenti in commissione al Senato a sostegno
della tesi che una Regione non poteva restare con una sola provincia, raccolta a
Terni di firme per passare con la provincia di Rieti, ridisegno del territorio regionale
con il passaggio di Foligno, Spoleto, Cascia e Norcia sotto la provincia di Terni, rivedere le Unioni Speciali dei Comuni ampliando le singole dimensioni territoriali e riducendo il numero, 4-5 rispetto alle 12 che, nel frattempo, si stavano componendo.
Si è giunti infine ad una proposta conclusiva, avendo il Governo posto giustamente dei termini (30 settembre 2012), deliberata a maggioranza dall’assemblea regionale delle autonomie locali: salvare la Provincia di Terni riducendo la dimensione
territoriale di Perugia. Soluzione che non convince nessuno, anche perché quasi tutti
i partiti reali, ed anche quelli virtuali, sembrano concordare sul completo superamento delle Province.
Se così dovesse finire qualcuno pensa che l’Umbria dovrebbe tendere verso
unioni speciali comunali di media dimensione; sul numero, 3, 4 o 5, si troverà un
compromesso. E così torneremmo, ironia della storia, al 1860, quando l’Umbria era
29
suddivisa in 6 circondari (Perugia, Orvieto, Spoleto, Foligno, Terni e Rieti); l’ipotesi
di ricominciare dall’inizio, forse, potrebbe non essere del tutto negativa
Il ragionamento però andrebbe capovolto, bisognerebbe prima valutare lo stato
socio-economico reale della nostra Regione e ragionare sul nostro futuro, poi di quali
nuovi strumenti amministrativi dotarsi. Le forze politiche e sociali dell’Umbria dovrebbero impegnarsi su due obiettivi, che valuto strategici per evitare di pregiudicare
il futuro degli Umbri: mantenere il livello di civiltà ed i servizi; ridefinire l’identità economico sociale delle diverse aree.
All’insediamento dell’Ente Regione (1970) l’Umbria era naturalmente diversa.
Negli ultimi quarant’anni ritengo che la nostra Regione è stata, come si suol dire, al
passo con i tempi. Si poteva certo fare meglio, ma se prendiamo a riferimento soltanto tre indicatori: sanità, risanamento dei centri storici, servizi sociali, dobbiamo
prendere atto dei grandi investimenti prodotti, utilizzando abbastanza bene le risorse
finanziarie comunitarie, nazionali e regionali. A questo risultato hanno contribuito
tutte le forze politiche, superando divisioni e conflitti ideologici quando era in gioco
il futuro della nostra Regione.
L’Umbria vive oggi una situazione difficile, la ridotta disponibilità dei fondi pubblici rischia di abbassare il livello di civiltà acquisito, gruppi industriali storici registrano serie difficoltà (siderurgia, agroalimentare), la mortalità delle piccole e medie
imprese ha raggiunto, in tutti i settori, livelli preoccupanti. Bisogna prendere atto che
l’Umbria, da sola, non ce la fa, e quindi occorrono scelte coraggiose.
Ed allora, quando si affronta il problema della riforma endoregionale, il tema dominante dovrebbe essere il recupero delle spese improduttive, da impiegare nelle
manutenzioni e nei servizi sociali. La situazione delle nostre strade e il contributo
chiesto alle famiglie per i servizi scolastici, sono solo due dei tanti fattori che ci segnalano l’inizio della regressione.
Meno costi fissi nella gestione pubblica, più risorse per investimenti e servizi. Uffici sovrapposti per gestire le medesime competenze sono improduttivi, generano
organici pletorici ed eccesso di burocrazia; locali pubblici non pienamente utilizzati
sono improduttivi; comuni troppo piccoli sono improduttivi. Tra Regione e Comuni
ci devono essere meno enti possibile, solo strumentali, governati dai Comuni, diversamente sono sovrastrutture, e quindi improduttivi. E si potrebbe continuare a
lungo.
E’ inutile e dannosa la difesa del sistema pubblico determinatosi dall’unificazione
alla prima metà del ‘900 ed organizzato su base provinciale. Con il superamento
delle Province entrano in discussione Prefetture, Questure, Direzioni Provinciali del
Lavoro, Camere di Commercio, Inail, Inps, Pra, Comando provinciale dei carabinieri,
della Finanza e dei Vigili del fuoco, Agenzia generale delle entrate, Agenzia delle do-
30
gane, Agenzia delle poste, Agenzia del territorio, Uffici degli ex Provveditorati scolastici, Ragioneria dello Stato, Ordini e Collegi professionali provinciali.
La soluzione del problema non è la difesa né il rinvio, è un’altra, tutta politica, è
la ridistribuzione sul territorio delle strutture statali e regionali che si concentrano. La
localizzazione delle sedi pubbliche genera ricchezza, ed oggi, ancor più in futuro, il
decentramento non rappresenta un limite o un ostacolo, giacché i moderni sistemi
di comunicazione (mail, videoconferenza, e quel che verrà) tendenzialmente annulleranno le esigenze di mobilità.
Nella riorganizzazione dei servizi vanno messi in discussione anche gli odierni
confini regionali. L’80% circa della spesa delle Regioni è assorbita dalla sanità: si
dovrebbe puntare quindi alla integrazione infraregionale per razionalizzare e ridurre
i costi, tenendo conto che già oggi, ma ancor più domani, il cittadino ragionerà, valuterà ed usufruirà dei servizi sanitari in una prospettiva europea.
Cominciare a parlare di macro regioni, quindi “dell’Umbria dopo l’Umbria” per
stare al tema, non è fantapolitica, ma una necessità cogente, per evitare di essere
impreparati quando ci cadrà addosso un provvedimento governativo, e per far maturare nella società umbra la consapevolezza che il futuro non si costruisce continuando ad alimentare uno spirito conservatore, piccoli ed inefficaci accomodamenti,
ma con il coraggio dell’innovazione e la crescita di una vera cultura riformista.
La gestione unitaria di un’area amministrativa più vasta nel centro Italia, rispetto
alle attuali delimitazioni regionali, è condizione basilare per affrontare, ad esempio,
l’argomento che mi è stato assegnato “Le potenzialità di sviluppo sull’asse dei laghi
etruschi”.
Le interrelazioni storiche dei bacini insistenti nell’antico territorio etrusco le conosciamo, perciò non mi ci soffermo. Vorrei tentare invece d’individuare alcuni fattori che, con una gestione integrata del territorio, potrebbero innescare interessanti
processi di sviluppo.
Una questione di notevole impatto civile in futuro sarà la gestione dell’acqua,
bene che diventa sempre più prezioso, anche per le modificazioni climatiche. C’è chi
sostiene che la soluzione del problema passa per la desalinizzazione dell’acqua marina, ma prima ci starebbe bene un uso razionale delle risorse idriche storiche, come
i nostri laghi etruschi.
I laghi presentano caratteristiche diverse, penuria d’acqua in qualche caso, sovrabbondanza in altri. Anche l’utilizzo si diversifica: agricolo, turistico, alimentazione
della rete idrica. Ritengo che nell’area centrale del Paese i laghi saranno fondamentali per la salvaguardia del nostro bene più prezioso: l’ambiente. Pensare quindi ad
una grandiosa opera idraulica che colleghi alcuni laghi etruschi, per consentire il
31
massimo sfruttamento delle acque a tutela dell’ambiente, ieri poteva sembrare follia, oggi motivo di riflessione, domani opera realizzabile con costi compatibili considerata la velocità dell’ innovazione tecnologica.
Sull’asse dei laghi etruschi si può inoltre costruire un’originale offerta turistica. Il
turismo del 21° secolo sarà diverso da quello che abbiamo vissuto nella seconda
metà del 20°. Si distinguerà in due grandi categorie, turismo emergente e turismo
maturo. Quello emergente arriverà dall’estremo oriente, Cina e India principalmente,
sarà massiccio ed inizierà, come abbiamo fatto noi nel secolo scorso, dalle principali città storiche dell’Europa. Il flusso turistico maturo è quello occidentale, del Nord
Europa e del Nord America, già in atto. Un turista più maturo, meno consumistico,
più salutista, più sportivo, più interessato all’enogastronomia ed all’ambiente, propenso a soggiorni più prolungati favoriti dal clima mediterraneo, più culturalizzato.
Il territorio dei laghi etruschi ha tutte le potenzialità per soddisfare, con un’offerta
turistica innovativa e competitiva, la domanda del turismo maturo. Progetti che valorizzino nel contempo la storicità dell’area e le specificità attuali, con investimenti
mirati: recupero di siti storico-archeologici, viabilità, piste ciclabili, trekking, percorsi
naturalistici e gastronomici, terme, aree attrezzate per il soggiorno all’aria aperta, piscine e parchi acquatici riscaldati con il solare intorno ai laghi, che possono favorire
l’allungamento della stagione balneare.
L’area dei laghi etruschi, non compromessa da mega siti industriali e vasti insediamenti urbani, ha, in conclusione, tutte le caratteristiche per permettere di progettare uno sviluppo futuro altamente qualitativo, che potrebbe attrarre non solo
turisti, ma anche moderni insediamenti produttivi, orientati a stabilire le sedi di lavoro
in località più vivibili e stimolanti, dove è più facile interagire e sviluppare fantasia restando ancorati al mercato globale.
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2.2.5. Perché è ora di cambiare anche in Umbria
Fabrizio Marcucci
Giornalista de Il Giornale dell’Umbria
L’Umbria si trova a vivere una situazione che definirei inerziale. Ci troviamo cioè
in quella terra di nessuno tra il “non più” e il “non ancora”. Veniamo da decenni di
sviluppo garantito da un assetto istituzionale che ha avuto l’indubbio merito di traghettare nella contemporaneità un’area caratterizzata in molte sue zone da un’agricoltura arretrata, come era questa regione ancora a cavallo tra gli anni sessanta e
settanta. A questo ha contribuito sì l’architettura istituzionale: la Regione e le Province. Ma non va dimenticato il ruolo di un apparato pubblico che oggi si trova nel
mirino delle critiche e della spending review, ma che grazie all’impiego di persone ha
assorbito una manodopera che il tessuto delle aziende private non avrebbe utilizzato.
E ha contribuito così alla generazione di ricchezza e al contenimento del disagio sociale, consentendo anzi di realizzare un buon modello a forte tenuta. Si capisce
quindi come a questo assetto in molti siano affezionati. Anche perché oltre ai benefici, ha generato una serie di rendite di posizione difficili da abbandonare. Il punto è
che, stretti dai vincoli di bilancio e dai continui tagli che arrivano dai governi centrali,
gli enti locali non possono più garantire il ruolo che hanno giocato fino ad oggi. E l’assetto istituzionale va completamente rivisto per essere razionalizzato.
Non è solo una questione di costi, si badi. Perché cancellando le Province (sicuramente datate), ridimensionando gli emolumenti conferiti a consiglieri e assessori
regionali (sicuramente eccessivi) non si risolverebbe comunque il problema del debito pubblico. Il punto è un altro. Abbiamo assistito negli anni a una proliferazione di
enti che oggi, sovrapponendo le competenze e parcellizzando la gestione in aree
troppo piccole, non consentono l’erogazione di servizi efficienti ed economici e non
sono quindi più sostenibili. Qualche esempio può aiutare a capire. Abbiamo novantadue comuni in questa regione, una media di diecimila residenti ognuno. Considerando però che i due capoluoghi, Perugia e Terni, contano da soli poco meno di un
terzo del totale dei residenti della regione, si capisce come l’assetto sia polverizzato
in una miriade di mini-enti che da soli, con le casse per di più ormai esangui, non
hanno ragione di essere. Comuni come Polino, Monteleone di Spoleto e moltissimi
altri, con qualche decina o anche due-tremila residenti, avevano ragione di esistere
quando si viaggiava a dorso di somaro. Non oggi, che con un clic di mouse, si fa la
spesa e si spostano capitali da un angolo all’altro del pianeta. Eccola l’inerzia che ci
caratterizza. Ancora: in Umbria si sperperano ogni anno 45 milioni in acqua. E’ il valore del liquido che viene prima depurato, poi pompato, ma non arriva mai ai rubinetti delle nostre case perché si perde nei mille buchi di una rete di distribuzione
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vetusta. Qualsiasi tecnico che conosce il suo lavoro, spiega che per sanare i guasti
peggiori di una situazione del genere occorrerebbe gestire la rete umbra come un sistema unico. Ma questo non avviene perché la gestione idrica è demandata a soggetti diversi. E ciò avviene perché negli anni si sono stratificati una serie di interessi
e di rendite, appunto, che sono oggi difficili da smantellare.
Gli esempi potrebbero continuare parlando della gestione dei rifiuti (quattro
aziende in una regione di novecentomila abitanti) della miriade di aziende partecipate
e della difficoltà a fare innovazione (pensiamo ad esempio a quanto si gioverebbe
l’Umbria dell’utilizzo di reti informatiche di buon livello, laddove invece la banda larga
oggi lascia scoperte ampie zone). Ma il concetto è già abbastanza chiaro. L’Umbria
deve recuperare lo slancio dei suoi anni migliori. Negli anni settanta qui si è creata
Umbria jazz, è stato coniato uno slogan felice dal punto di vista dell’attrazione turistica e della creazione di un immaginario, come “cuore verde d’Italia”, sono state
sperimentate nuove forme di mobilità, si pensi alle scale mobili che “scavano” la
Rocca Paolina di Perugia. Oggi questa regione è nuovamente chiamata a dare fondo
alle sue energie migliori. Ad avere il coraggio della sperimentazione e dell’innovazione, lasciandosi alle spalle i conservatorismi che garantiscono solo gli interessi di
pochi per puntare all’interesse generale.
Certo, la legge sulla spending review che cancella la Provincia di Terni è un pasticcio. Il solo fatto di demandare la revisione dell’architettura istituzionale ad una
legge di contenimento della spesa la dice lunga. Ma se tutto ciò ci induce a ripensare assetti e logiche dello sviluppo ben venga. Tenendo ben presente una questione. Non è in ballo la sola tenuta dei conti. In un contesto in cui si comincia a
parlare di macroregioni, per l’Umbria da sempre divisa in mille campanili, sarebbe
esiziale presentarsi parcellizzata come oggi: con un nord che vorrebbe andare in Toscana, un sud che guarda al Lazio e un ovest richiamato dalle sirene della Tuscia. Accordi con territori limitrofi per assecondare le tendenze dei vari territori sono
benvenuti. Di più. Per farmi capire prendo in prestito una suggestione di Sergio Sacchi, docente di Economia all’Università di Perugia: se l’Umbria avesse la partecipazione della popolazione al mercato del lavoro che si registra nelle Marche e la
produttività media per unità di lavoro che caratterizza la Toscana, fatto 100 il Prodotto interno lordo italiano, in quest’area “mediana” si arriverebbe a 115-120. Ciò
che ci collocherebbe ai livelli delle aree più competitive del nord Europa. Per attivare
sinergie e politiche di programmazione sovra-regionali però, occorre avere una Regione forte e unita. Anche per questo la revisione dell’assetto istituzionale, la semplificazione e la riduzione degli enti diventa vitale. In gioco c’è la sopravvivenza
stessa dell’Umbria.
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2.2.6. L’Umbria nella prospettiva delle macroregioni
Giovanni Codovini
Docente di filosofia e storia presso l’IIS di Umbertide,
Direttore di “Informazione locale - Alto Tevere”
Bevagna non va alla guerra
“Bevagna non va alla guerra”. Questo accattivante slogan - coniato da Giuseppe
De Rita nel Rapporto Censis di undici anni fa - alludeva, durante l’infuriare della
guerra seguente la distruzione delle Torri Gemelle, al fatto che i piccoli borghi come
Bevagna e Montefalco, là dove l’Italia è più Italia, si disinteressavano dei grandi temi
globali. Tutti presi dal loro “particolare” a tessere reti locali di qualità del vivere con
radici profonde in quell’Italia dei “cantoni”. L’Italia borghigiana, poco globale e molto
territoriale. L’”Italia larga”, come scriveva Leopardi nel suo Discorso sui costumi degli
italiani, lamentando l’assenza di una “Italia stretta”.
Oggi non è più così. Dal punto di vista geopolitico, la dimensione territoriale è diventata un criterio selettivo per ogni competizione; anzi, la stessa competizione economica è geo-territoriale, tanto che gli insediamenti produttivi si caratterizzano per
la loro macro dimensione e massa territoriale (distretti, cluster, zone franche, siti specializzati, poli verticali, piattaforme produttive, concentrazioni orizzontali, ecc.). L’Umbria politica se ne sta accorgendo, come svegliata da un sonno dogmatico.
Eppure, al di là e a prescindere da ogni posizione politica/partitica, la riconfigurazione geopolitica dell’Umbria rappresenta il nodo di tutti i nodi, avendo chiaro che
ogni relazione istituzionale, qualsiasi connessione territoriale o scambio economico,
efficienza dei servizi o rete di conoscenza presuppone una misura territoriale adeguata ed un’omogeneità caratterizzante.
Il territorio rappresenta un fattore competitivo determinante. Oggi, “piccolo non
è sempre bello”, perciò lo stesso dibattito regionale sulla misura delle unioni comunali, sul ruolo della provincia e sui diversi livelli istituzionali - come del resto sulla
funzione dell’Italia di mezzo e il ruolo dell’Umbria in essa - sta esclusivamente dentro tale orizzonte.
L’Umbria economica nel rapporto con le altre regioni
E il territorio, come fattore competitivo determinante, lo si coglie pienamente nella
sfera economica. Qui i dati sull’Umbria ci dicono la necessità di uscire da un modello
caratterizzato dal “piccolo”.
Anche dall’ultimo rapporto economico-sociale dell’Agenzia Umbria Ricerche (Aur;
www.aur-umbria.it) emerge lo «strettissimo intreccio tra gli andamenti del ciclo regionale
e quelli del ciclo nazionale: quando la dinamica nazionale “tira”, l’Umbria va meglio,
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quando l’Italia attenua la crescita, in forme diverse di recessione, l’Umbria va ancora più
giù». Questa connessione nel rapporto Umbria-Italia, si vede chiaramente nella serie
dei tassi di crescita del Pil: nel 2004, Italia +1,5% e Umbria +2,3; nel 2005, rispettivamente +0,7% e -0,1%; nel 2006, +2,0% e +2,9%; nel 2007, +1,5% e +1,2%; nel 2008,
-1,3% e -1,3%; nel 2009, -5,2% e -5,9%. Ma ancor più chiaramente la correlazione
esce confortata nella sequenza dei tassi di crescita del Pil per abitante: nel 2004 Italia
+0,5%, Umbria +0,8%; nel 2005 rispettivamente -0,1% e -1,3%; nel 2006 +1,5% e
+2,0%; nel 2007 +0,7% e +0,3%; nel 2008 -2,1% e -2,5%; nel 2009 -5,7% e -6,9%.
La causa di tale andamento di fondo dell’economia umbra è individuato, anche
dai ricercatori dell’Aur, nella debole apertura internazionale all’export dei flussi di
merci e di servizi dell’Umbria e la sua forte connessione ai flussi interregionali, in entrata e in uscita. È appunto il saldo negativo finale con l’esterno - composto dai flussi
con l’estero sommato all’interregionale - che impedisce all’Umbria una vera crescita
e una reale competitività.
Nel saldo interregionale l’Umbria ha un valore di -8,1% del Pil (Lombardia, 19,4%;
Lazio, 17,5%; Emilia Romagna, -6,1%; Toscana, -5,5%; Marche, -11,5%). Di qui una
precisa conseguenza: il saldo esterno dell’Umbria è di - 5,6% del Pil: Lombardia,
11,2%; Lazio, 8,6%; Emilia Romagna, 5,4%; Toscana, 0,9%; Marche, 0,7%. Una
comparazione con la parte più debole del Paese ci dice il nodo centrale che l’Umbria dovrebbe affrontare: tutte le regioni meridionali hanno un saldo interregionale e
un saldo esterno particolarmente negativo, che va dal -13,2 della Basilicata al 26,7% della Sicilia e al -30,2% della Calabria.
Su questi numeri senza appello sta il nodo di fondo regionale: l’Umbria è poco
aperta e colloquiale con i territori contigui e con le grandi macro-regioni che si vanno
formando in Italia ed Europa. Questo il punto critico dell’Umbria: il livello di integrazione interregionale e territoriale pesa non poco nello sviluppo regionale e, parallelamente, fa abbassare il grado di attrattività del nostro territorio in termini di
investimenti e di livelli di manodopera qualificata.
Qui si apre la porta delle soluzioni e si pone il ruolo delle classi dirigenti regionali:
quali sono, per esempio, le scelte pubbliche di accompagnamento per elevare il livello di integrazione macro-regionale?
L’Umbria e l’Italia di mezzo
Il regionalismo umbro, costruzione storicamente positiva, ma artificiosa, non
regge più il confronto con le dimensioni macroregionali già sviluppate ed in atto. Le
dure repliche della Storia ci dicono che il “policentrismo” umbro non si è realmente
mai realizzato, stretto com’è tra centralismo e “cantonismo”.
Di fronte alla nuova competizione territoriale europea (Baviera, Catalogna, corri-
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doi est ovest, ecc), ai suoi valori (la sussidiarietà) e alla scomposizione territoriale in
atto (dorsali, distretti, cluster, pipeline, Länder, reti territoriali, frontiere mobili, nuove
aree locali, marche di confine, ecc.) che hanno letteralmente frantumato ogni modello
esistente, ha senso ancora parlare dell’efficacia di uno schema che non è più?
Se vogliamo riflettere seriamente sul ruolo della regione come insieme territoriale
unitario (dei piccoli e dei grandi comuni o delle unioni comunali o delle province), il
luogo (visto che parliamo di geopolitica) privilegiato non appare più quello degli attuali confini, ma semmai quello più largo dell’Italia di mezzo, forse nuova sintesi per
i mille territori. Anche quelli dell’Umbria.
La forza di un nuovo sistema dell’Italia mediana consiste, infatti, nel concepirlo
come una parte territoriale e più larga dell’Eurozona, un insieme territoriale a
questa connesso, non più come un insieme territoriale accanto ad altri insieme territoriali (l’Italia tripartita nord sud centro) che evoca una staticità ottocentesca e una
realtà inesistente.
Allora il modello di un’Italia mediana si pone come la risposta al federalismo in
atto, guardando ad una visione funzionalistica che significa integrare territorialmente in modo più mutualistico in funzione delle prestazioni, scopi e bisogni in cui
i vari insiemi territoriali interagiscono.
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2.3. Interventi
2.3.1. Contributo alla discussione
Marco Conticelli
Vice Sindaco di Porano
La discussione sul progetto riformatore in atto nella nostra Regione deve necessariamente includere almeno due aspetti fondamentali: il destino delle Province e
quello ben più importante e impattante dei Comuni. Non perché li amministriamo
(non è più ora di pensare a difendere territori nella logica del campanile), ma ritengo
che il destino dei nostri Comuni e la loro riorganizzazione funzionale rappresentino
la base del discorso soprattutto rispetto a quanto i cittadini si attendono in fatto di
risposte intese come servizi e sviluppo. Si, perché spesso la politica a tutti i livelli dimentica che si amministrano cittadini e che i territori devono essere ridisegnati in
funzione dei cittadini che li abitano e nei quali si relazionano attraverso l’esercizio di
rapporti economici, sociali e culturali.
Fatta questa premessa, giova ricordare che la riforma endoregionale è partita con
il piede sbagliato perché l’esigenza di attuarla deriva, e su questo l’Assessore Rossi
è stato sempre estremamente chiaro, dalla necessità di evitare che le Comunità
montane continuassero a rappresentare un peso per il bilancio regionale. Un peso
che era “necessario” ridistribuire tra i Comuni e che, e su questo tutti i Sindaci sono
concordi, rappresenterà un fardello insostenibile per le Amministrazioni locali già duramente colpite anche perché la Regione ancora non ci dice se ne finanzierà il costo
e per quanto tempo.
Non è quindi pensabile avviare un vero processo di riforma così importante con
questa premessa! Le Unioni Speciali dei Comuni, nonostante la Regione continui a
dettare tempi stretti per la loro costituzione, non potranno vedere la luce, a mio parere, fino a che non sarà definita la nuova geografia dei territori, in particolare come
saranno riordinate le Province a livello geografico e di funzioni da gestire e quale
sarà il nuovo ruolo della Regione anche alla luce delle competenze tornate recentemente allo Stato centrale, senza dimenticare il nuovo assetto sanitario e il modo di
gestione delle politiche di area vasta i cui effetti incidono maggiormente sulle tasche
dei cittadini.
L’obiettivo principale di razionalizzazione e di riduzione dei costi di funzionamento
degli enti territoriali sarà molto difficile da perseguire nel modo in cui è strutturata
questa riforma perché è ancora troppo elevata la frammentazione degli organismi,
l’assegnazione delle funzioni da gestire e quindi le risorse da erogare. Questo oggi
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lo sperimentiamo con le funzioni già associate (Polizia Municipale) che rappresentano costi maggiori rispetto al passato per i Comuni, specie quelli che hanno la possibilità di conferire meno personale.
Basta prendere un testo scolastico di Diritto per accorgersi come, da sempre,
sono trattati gli enti territoriali: molti i paragrafi che trattano dei Comuni, delle loro funzioni e dei loro organi, qualche pagina in meno per le Regioni e un piccolo trafiletto
per le Province. Credo pertanto sia giunta l’ora di fare quello che molti annunciano
ma che nessuno ha il coraggio di tradurre in atti concreti: non riordino ma soppressione delle Province, costituzione di macro unioni di Comuni che gestiscano anche
le funzioni in capo alle Province oltre ai rifiuti ed all’idrico (senza costituzione di ulteriori organismi tipo AURI) con possibilità di oltrepassare i limiti territoriali dando
vita a convenzioni e protocolli su temi specifici (es.turismo), una Regione intesa più
come limite geografico che come organo legislativo.
Dobbiamo pensare che la necessità più impellente, in questi tempi in cui la pressione fiscale è divenuta insopportabile e insostenibile per molti, è quella di creare sviluppo e nuove opportunità occupazionali rivolgendo l’attenzione ai pilastri
fondamentali della nostra società: famiglia, scuola, Comuni, piccola e media impresa. Se anche nella nostra Regione si articolasse un processo di riforma che tenga
conto dei nostri capisaldi e non solo di mere questioni territoriali e di sostituzione di
enti inutili con altrettanti di dubbia utilità, allora si partirebbe sicuramente con il piede
giusto!.
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2.3.2. Regionalismo: l’ennesimo clamoroso fallimento
Mario Tiberi
Socio fondatore COVIP e studioso di cultura classica
Il federalismo non è mai nato, né mai nascerà poiché già superato dal corso
degli eventi; in satirico compenso il regionalismo agonizza, il provincialismo si consuma da se stesso giorno dopo giorno e i Comuni, unici Enti autarchici territoriali
che abbiano consolidata attinenza con la storia d’Italia, sono sulla soglia di molteplici “bancherotte”. Il lato negativo è piuttosto evidente; quello positivo consiste
nel fatto che si possono e si debbono recidere le spese infondate e pleonastiche
di codeste “matriosche” amministrative, rendendo così meno penosa la vita dei
cittadini e probabilmente più agevole quella delle imprese.
Sulle Province, tutti credono di conoscere la ricetta risolutiva: sopprimerle. Se
ne discute da quarant’anni, cioè da quando furono istituite le Regioni, e nel frattempo invece di diminuire sono aumentate. Nonostante ciò, la realtà è che esse
rappresentano il problema minore, benché il più inguardabile. Sopprimendole si
risparmierebbe relativamente poco, in termini di spesa pubblica, ma si opererebbe
una desiderata pulizia estetica.
Le Province vanno chiuse certamente, mentre l’ipotesi di accorparne alcune tra
di loro è sciocca, inutile e altamente costosa e complicata. Il fallimento “maximo”,
però, non è quello delle Province, bensì quello delle Regioni. Sanità, trasporti,
smaltimento dei rifiuti, sono solo tre comparti sui quali il regionalismo è fallimentare ove si tenga a mente che, al netto della spesa pensionistica, i trasferimenti di
denaro dallo Stato centrale agli Enti locali assorbono il 65% della spesa pubblica
complessiva. Stiamo quindi parlando di un capitolo imponente.
In detta quota di finanza statale, che a fiumi discende vorticosa verso gli Enti
intermedi, è già racchiuso il fallimento delle autonomie locali. Nessuno può essere
autonomo se non autosufficiente. Difatti nessuno lo è poiché, paradossalmente, il
desiderio di far coincidere le mani di chi tassa con quelle di chi spende, entrambe
mani politiche, e in modo che vi sia responsabilità concorrente per scelte compiute o da compiere, è rimasto tale: un pio ed astratto desiderio.
In queste condizioni i necessari tagli della spesa pubblica, se non vogliamo che
s’abbattano solo sui servizi da rendere ai cittadini, devono chiudere la stagione
dell’agonia istituzionale nell’estremo tentativo di salvare il salvabile e gettare via il
molto del marcio.
Le Regioni hanno fallito anche perché si pretende da esse che siano tutte uguali
nel loro funzionamento, non tenendo conto della enorme differenza esistente tra
quelle con meno di un milione di abitanti e quelle con oltre i cinque milioni. Non
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solo, poi, uguali tra di loro ma, danno su danno, replicanti medesime funzioni statuali.
A ciò si è aggiunta la sciagurata riforma del Titolo Quinto della Costituzione,
quella risalente a undici anni orsono, messa in atto da un governo di centrosinistra
sempre pronto ad affermare che la Costituzione stessa non si tocca e, per l’invece, tritarla in ragione circostanziale di concorrenza propagandistica alla LegaNord.
Ora, avvedutisi del madornale errore, si tenta di tornare indietro con il DDL governativo della scorsa settimana, ma non è con la “politica del gambero” che si
aiuta il nostro popolo a fare decisivi passi in avanti.
Il risultato, all’opposto, è l’eclissi dell’interesse nazionale, senza che sia nata alcuna identità regionale. Ritengo che non vi sia un solo italiano che si senta nel suo
profondo appartenente ad una regione, mentre tutti sono strettamente legati alla
propria città. Nessuno va in Veneto o in Calabria, semmai a Padova o sulla Sila.
Ebbene, siccome le risorse scarseggiano, è ora di accantonare per sempre le
idee inutilmente costose, conservando solo quel che di positivo vi era nella originaria formulazione prospettica di sistema federalista dello Stato: la sussidiarietà,
l’idea cioè che l’Ente territoriale superiore non debba espletare quel che può realizzare l’Ente gerarchicamente inferiore e che lo Stato, nelle sue varie articolazioni, non debba intervenire in quel che il libero mercato sa e può da se stesso
regolamentare. In questo senso non sono affatto un liberista, ma un sincero “liberal”.
I Comuni sono, e non è un caso, l’unico esempio di legge elettorale che sembra aver funzionato, stabilendo un rapporto diretto tra amministratori, in special
modo il Sindaco, e amministrati. Purtroppo, però, proprio i tagli lineari della spesa
pubblica hanno portato sul lastrico i Comuni stessi, la cui promessa capacità impositiva è stata nei fatti tradita ed usurpata dallo Stato centrale.
Qui si deve invertire la rotta, consegnando maggiore potere all’autonomia.
Dove, invece, i Comuni debbono dimagrire, e non è almeno in parte il caso di Orvieto, è nel settore delle “partecipate”, in quegli animali misti nei quali si attraggono
capitali privati, si assegnano compiti pubblici e si conservano maggioranze societarie in mano alle giunte comunali. Per garantire, ad esempio, la pulizia della città
non solo il Sindaco non deve essere il proprietario dell’azienda di nettezza urbana,
ma gli viene meglio esserne l’esigente cliente.
Su codesta strada tendenzialmente virtuosa, vi è però un macigno vizioso: la
dissennata concezione accentratrice della politica che vuole tutto sotto controllo
e che tutto, quindi, resti nelle mani dei politici, o sedicenti tali, con il solo effetto di
aver così generato il fenomeno che va sotto il nome di “Antipolitica”.
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Concludo, affermando che rivedere la struttura di governo degli Enti locali può
portare non solamente a consistenti risparmi, ma può liberare la imprenditorialità
delle imprese e i cittadini tutti da amministrazioni che, non avendo altro da fare, si
inventano competenze ed obblighi con i quali non si tutela nulla, ma si rende tutto
più lungo, più lento, più oneroso e, come se non bastasse, anche e spesso e volentieri più sudicio.
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3. Appendice
3.1. Il nuovo assetto delle Province
3.1.1 DECRETO-LEGGE 5 novembre 2012, n. 188
Disposizioni urgenti in materia di Province e Città metropolitane
RELAZIONE ILLUSTRATIVA
Con lo schema di decreto-legge in esame viene disegnato il nuovo assetto delle
province nelle regioni a statuto ordinario, procedendo così al completamento di un
iter di riordino che ha preso avvio con l’articolo 23 del decreto-legge n. 201 del 2011,
noto come decreto “Salva-Italia”, nel quale i profili investiti sono stati gli organi di governo e le funzioni delle province. La riforma è, poi, proseguita inserendosi organicamente nell’ambito del decreto n. 95 del 2012, c.d. “Spending review”, laddove
agli articoli 17 e 18 si prevede, rispettivamente, il riordino delle province, sulla base
di requisiti minimi demo-territoriali, e l’istituzione delle città metropolitane.
La riforma delle Province, nel suo complesso, dà attuazione al Titolo V, Parte II,
della Costituzione, rendendo la loro dimensione territoriale più adeguata alla particolare connotazione quale ente di area vasta.
L’iter di riordino previsto dall’articolo 17 su indicato ha stabilito un percorso concertato con le autonomie locali nel rispetto del quadro costituzionale di riferimento
e della leale collaborazione istituzionale. Le specifiche scelte volte a concretizzare il
riordino dei singoli territori sono state demandate ai Consigli delle autonomie locali
di ogni regione o ad analoghi organi di raccordo e alle regioni medesime. I primi sono
stati chiamati ad adottare e trasmettere alla rispettiva Regione le ipotesi di riordino
entro il 3 ottobre 2012, le seconde ad elaborare le proposte di riordino sulla base
delle ipotesi ricevute, trasmettendole al Governo entro il 23 ottobre 2012.
All’esito di tale procedura non hanno avanzato alcuna proposta di riordino la Calabria e il Lazio; di conseguenza, per tali regioni occorrerà chiedere il parere in sede
di Conferenza Unificata riguardo al riordino delle relative province.
Come nel caso del decreto-legge n. 95 del luglio 2012, anche l’intervento con il
presente decreto si rende necessario nel quadro della straordinaria situazione di crisi
economico-finanziaria ed al fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica imposti dagli obblighi europei necessari al raggiungimento del pareggio di bilancio, in un’ottica complessiva di riduzione degli apparati amministrativi
fonte di spesa pubblica.
Con il decreto-legge in esame si stabilisce, a regime, che le province devono
possedere requisiti minimi determinati con legge dello Stato o con deliberazione del
Consiglio dei ministri. In proposito requisiti minimi demo-territoriali sono stati già fis45
sati con la deliberazione del Consiglio dei ministri del 20 luglio 2012 che ha previsto
una dimensione territoriale non inferiore a duemilacinquecento chilometri quadrati e
una popolazione residente non inferiore a trecentocinquantamila abitanti.
Sulla base di tali requisiti, il decreto-legge in esame, concludendo il procedimento
di riordino, contiene l’elenco delle province nelle regioni a statuto ordinario come risultanti a decorrere dal 1° gennaio 2014: dalle attuali 86 si passa a 51, comprese le
città metropolitane istituite a partire dalla medesima data, con contestuale soppressione delle province del relativo territorio. Viene parzialmente superata, per le città
metropolitane di Milano e Firenze, la disposizione contenuta nel comma 2 dell’articolo
18 del decreto- legge n. 95 del 2012 che aveva previsto la coincidenza del territorio
della città metropolitana con quello della provincia contestualmente soppressa: infatti
la città metropolitana di Milano e quella di Firenze ricomprendono anche, rispettivamente, i territori già appartenenti alle province di Monza e della Brianza e di Prato e
Pistoia, che sono contestualmente soppresse. La denominazione delle province risultanti dal riordino riproduce, laddove formulata in modo inequivoco, la proposta
avanzata dalla Regione mentre negli altri casi si attiene al criterio della sommatoria,
in ordine alfabetico, dei nomi delle province oggetto di riordino.
Per quanto riguarda inoltre la città metropolitana di Reggio di Calabria, la sua istituzione è stata differita alla conclusione della procedura di commissariamento ai
sensi dell’articolo 143 TUEL.
Contestualmente il decreto determina per i comuni indicati in un’apposita tabella,
che costituisce parte integrante del decreto, il mutamento delle circoscrizioni provinciali di appartenenza, dando seguito, ai sensi dell’articolo 133, primo comma,
della Costituzione, alle iniziative pervenute dagli enti locali interessati. In particolare,
i mutamenti ciircoscrizionali, a partire dal 1° gennaio 2014, riguardano i seguenti comuni: - il comune di Fasano passa dalla provincia di Brindisi alla Città metropolitana
di Bari; - i comuni di Cellino San Marco, Erchie, Mesagne, San Donaci, San Pancrazio Salentino, San Pietro Vernotico, Torchiarolo, Torre Santa Susanna passano dalla
provincia di Brindisi a quella di Lecce; - il comune di Avetrana è spostato dalla provincia di Taranto a quella di Lecce.
In sede di conversione del presente decreto legge si terrà conto di ulteriori iniziative assunte da altri comuni ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione, sentite le Regioni interessate.
Il decreto-legge indica i criteri per l’individuazione del comune capoluogo di provincia.
In materia di disciplina delle modalità elettive dei componenti del consiglio metropolitano, con una modifica al comma 6 dell’articolo 18, si è disposto che i medesimi vengano eletti con le modalità stabilite per l’elezione del consiglio provinciale
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anche nel caso in cui il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo.
Si è prevista una procedura sanzionatoria in caso di mancata adozione dello statuto definitivo della città metropolitana: il consiglio metropolitano viene sciolto con
contestuale nomina di un commissario che vi provvede in via sostitutiva e amministra l’ente fino alle nuove elezioni da fissare entro 6 mesi dallo scioglimento.
Il decreto in esame effettua anche una precisazione in tema di funzioni delle città
metropolitane.
Vengono dettate infine una serie di disposizioni transitorie e finali volte a regolare
la fase dal 1° gennaio 2013 al 1° gennaio 2014, data di decorrenza degli effetti del
riordino delle province e dell’istituzione delle città metropolitane. Gli organi delle province e gli eventuali commissari nominati (per scadenza naturale del mandato, per
scadenza del precedente commissariamento o per altri casi di cessazione anticipata del mandato) cessano il 31 dicembre 2013. Si evidenzia che per la giunta è prevista la soppressione a decorrere dal 1° gennaio 2013: le relative competenze sono
svolte dal presidente della provincia che può delegarle ad un numero di consiglieri
non superiore a tre.
In fase di prima applicazione, per la costituzione degli organi delle province istituite in luogo di quelle pre-esistenti e delle città metropolitane, nonché per il rinnovo
degli organi delle altre province, la data per le elezioni è fissata dal Ministro dell’Interno secondo le modalità stabilite nel decreto in esame.
A completamento del processo di riordino, il decreto rinvia a successivo Dpcm,
adottato sentita l’UPI e previa intesa in sede di Conferenza Unificata, la regolazione di
tutti i rapporti giuridici tra la nuova provincia e quelle ad essa pre-esistenti, individuando
altresì un percorso ai sensi della normativa vigente per il passaggio del personale.
Reca la clausola di invarianza finanziaria.
Non viene redatta relazione tecnica in quanto dal presente provvedimento non
derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;
Visto l’articolo 17 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, recante: “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonche’ misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario” con il quale e’ stato
previsto il riordino delle province, disciplinandone il relativo procedimento che si
conclude con un atto legislativo di iniziativa governativa;
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Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri in data 20 luglio 2012, recante:
“Determinazione dei criteri per il riordino delle province a norma dell’articolo 17,
comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95”, che determina, in particolare, i requisiti minimi che devono possedere le province, stabiliti in una dimensione territoriale non inferiore a duemilacinquecento chilometri quadrati e in una popolazione
residente non inferiore a trecentocinquantamila abitanti;
Atteso che, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del citato decreto-legge n. 95 del
2012, la popolazione residente e’ determinata in base ai dati dell’Istituto nazionale
di statistica relativi all’ultimo censimento ufficiale, ma che e’ comunque opportuno
fare salvi i casi in cui il requisito minimo della popolazione si raggiunge sulla base
delle rilevazioni anagrafiche della popolazione residente nella Provincia pubblicate
dal medesimo Istituto nazionale di statistica, disponibili alla data del 20 luglio 2012;
Rilevato che e’ opportuno preservare la specificita’ delle province il cui territorio
e’ integralmente montano, in virtu’ della peculiarita’ dei relativi territori;
Atteso che ai fini del riordino si tiene conto delle iniziative comunali assunte ai
sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione, volte a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti alla data del 20 luglio 2012, per le quali e’ stato
espresso il parere della Regione;
Viste le proposte delle Regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Basilicata,
trasmesse al Governo ai sensi del citato articolo 17, comma 3;
Considerato che le Regioni Lazio e Calabria non hanno inviato alcuna proposta
di riordino e che nei confronti delle province ubicate nei rispettivi territori si applica
quanto previsto dal comma 4, secondo periodo, del citato articolo 17, in base al
quale sull’atto di riordino e’ acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;
Visto l’articolo 2, comma 5, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;
Considerata la straordinaria necessita’ ed urgenza, ai fini del contenimento della
spesa pubblica e del processo di razionalizzazione della pubblica amministrazione,
di attuare quanto prefigurato dall’articolo 23, comma 15, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214, e dal citato articolo 17 del decreto-legge n. 95 del 2012 in ordine al nuovo
ordinamento provinciale, anche al fine di ottemperare a quanto previsto dagli impegni assunti in sede europea, il cui rispetto e’ indispensabile, nell’attuale quadro di
contenimento della spesa pubblica, per il conseguimento dei connessi obiettivi di
stabilita’ e crescita;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 31 ottobre 2012;
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Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e del Ministro dell’interno;
Emana il seguente decreto-legge:
Art. 1
Requisiti minimi delle Province
1. Al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 3, dopo il comma 3 e’ inserito il seguente: «3-bis. Le province devono possedere i requisiti minimi stabiliti con legge dello Stato o, su espressa previsione di questa, con deliberazione del Consiglio dei Ministri.»;
b) all’articolo 21, comma 3, all’alinea, dopo le parole: «criteri ed indirizzi» sono inserite le seguenti: « e fermo quanto stabilito al comma 3-bis»;
c) all’articolo 21, comma 3, la lettera e) e’ abrogata.
2. Ai fini del riordino delle province ai sensi dell’articolo 17 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, si
applicano i requisiti minimi stabiliti con la deliberazione del Consiglio dei Ministri
nella riunione in data 20 luglio 2012, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 171 del 24 luglio 2012.
Art. 2
Riordino delle Province nelle Regioni a statuto ordinario
1. In attuazione dell’articolo 17 del citato decreto-legge n. 95 del 2012, a decorrere dal 1° gennaio 2014 le Province nelle regioni a statuto ordinario sono le seguenti:
a) Provincia di Biella-Vercelli, in luogo delle province di Biella e di Vercelli; Provincia
di Novara- Verbano-Cusio-Ossola in luogo delle province di Novara e di Verbano-CusioOssola; Provincia di Alessandria-Asti in luogo delle Province di Alessandria e di Asti;
Provincia di Como-Lecco-Varese in luogo delle Province di Como, di Lecco e di Varese;
Provincia di Cremona-Lodi-Mantova in luogo delle Province di Cremona, di Lodi e di
Mantova; Provincia di Padova-Treviso in luogo delle Province di Padova e di Treviso;
Provincia di Rovigo-Verona in luogo delle Province di Rovigo e di Verona; Provincia di
Imperia-Savona in luogo delle Province di Imperia e di Savona; Provincia di Parma-Piacenza in luogo delle Province di Parma e di Piacenza; Provincia di Modena-Reggio nell’Emilia in luogo delle Province di Modena e di Reggio nell’Emilia; Provincia di Romagna
in luogo delle Province di Forli-Cesena, di Ravenna e di Rimini; Provincia di Livorno-
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Lucca-Massa Carrara-Pisa in luogo delle Province di Livorno, di Lucca, di Massa-Carrara e di Pisa; Provincia di Grosseto-Siena in luogo delle Province di Grosseto e di
Siena; Provincia di Perugia-Terni in luogo delle Province di Perugia e di Terni; Provincia
di Ascoli Piceno-Fermo-Macerata in luogo delle Province di Ascoli Piceno, di Fermo e
di Macerata; Provincia di Rieti-Viterbo in luogo delle Province di Rieti e di Viterbo; Provincia di Frosinone-Latina in luogo delle Province di Frosinone e di Latina; Provincia di
L’Aquila-Teramo in luogo delle Province di L’Aquila e di Teramo; Provincia di Chieti-Pescara in luogo delle Province di Chieti e di Pescara; Provincia di Campobasso-Isernia
in luogo delle Province di Campobasso e di Isernia; Provincia di Avellino-Benevento in
luogo delle Province di Avellino e di Benevento; Provincia di Brindisi-Taranto in luogo
delle Province di Brindisi e di Taranto; Provincia di Barletta-Andria-Trani-Foggia in luogo
delle Province di Barletta-Andria-Trani e di Foggia; Provincia di Lucania in luogo delle
Province di Matera e di Potenza; Provincia di Catanzaro-Crotone-Vibo Valentia in luogo
delle Province di Catanzaro, di Crotone e di Vibo Valentia;
b) Provincia di Cuneo, Provincia di Bergamo, Provincia di Brescia, Provincia di
Pavia, Provincia di Sondrio, Provincia di Belluno, Provincia di Vicenza, Provincia di
La Spezia, Provincia di Ferrara, Provincia di Arezzo, Provincia di Ancona, Provincia
di Pesaro-Urbino, Provincia di Caserta, Provincia di Salerno, Provincia di Lecce, Provincia di Cosenza, Provincia di Reggio Calabria.
2. Dalla data di cui al comma 1 si determina il mutamento di circoscrizione provinciale di appartenenza per i Comuni indicati nella tabella allegata al presente decreto,
come in essa specificato. La tabella costituisce parte integrante del presente decreto.
Art. 3
Disposizioni concernenti il Comune capoluogo
e la denominazione delle Province
1. In esito al riordino di cui all’articolo 2, nelle Province istituite ai sensi della lettera a) del comma 1 del medesimo articolo 2, assume il ruolo di Comune capoluogo
il Comune capoluogo di regione nel caso in cui questo coincide con uno dei Comuni gia‘ capoluogo di una delle Province oggetto di riordino; negli altri casi diviene
capoluogo di Provincia il Comune, tra quelli gia’ capoluogo di Provincia, avente maggior popolazione residente, salvo il caso di diverso accordo, anche a maggioranza,
tra i medesimi comuni. Ai fini di quanto previsto nel primo periodo, la popolazione
residente e’ determinata ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del citato decreto-legge
n. 95 del 2012.
2. Gli organi di governo delle province hanno sede esclusivamente nel Comune
capoluogo di Provincia e non possono essere istituite sedi decentrate.
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3. La denominazione delle Province puo’ essere modificata con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, da adottarsi su proposta del Consiglio provinciale deliberata a maggioranza assoluta dei
propri componenti e sentita la Regione.
4. Ai Comuni gia’ capoluogo di Provincia continuano ad applicarsi, limitatamente
alla durata di due mandati successivi a quello in corso alla data di entrata in vigore
del presente decreto, le disposizioni relative al numero dei consiglieri e degli assessori comunali vigenti alla predetta data.
Art. 4
Disposizioni relative alle Province e alla presenza dello Stato sul territorio
1. All’articolo 17 del citato decreto-legge n. 95 del 2012 sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il comma 9 e’ inserito il seguente: «9-bis. In relazione alla procedura di
riordino e fermo restando quanto previsto dall’articolo 10, ai fini di una funzionale allocazione degli uffici periferici delle amministrazioni statali lo Stato promuove forme
di consultazione e raccordo con gli enti locali interessati.»;
b) dopo il comma 10 e’ inserito il seguente: «10-bis. Nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, le Regioni con propria legge trasferiscono ai Comuni le funzioni gia’ conferite alle Province dalla normativa vigente
salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, tali funzioni siano acquisite dalle Regioni medesime. In caso di trasferimento delle funzioni ai sensi del primo periodo,
sono altresi’ trasferite le risorse umane, finanziarie e strumentali.
Nelle more di quanto previsto dal primo periodo le funzioni restano conferite alle
Province.»;
c) dopo il comma 12 e’ inserito il seguente: «12-bis. Ai sindaci e ai consiglieri comunali che rivestano altresi’ la carica di presidente di provincia o di consigliere provinciale non puo’ essere corrisposto alcun emolumento ulteriore rispetto a quello
loro spettante per la carica di sindaco e di consigliere comunale.».
2. Con il regolamento di cui all’articolo 10, comma 2, del citato decreto-legge n.
95 del 2012 sono definiti, in relazione all’istituzione dei presidi previsti dal medesimo
comma 2, lettera b), i poteri e i compiti spettanti ai responsabili delle strutture presidiarie in relazione alle specifiche finalita’ ivi previste e conseguentemente sono introdotte le necessarie previsioni di coordinamento e raccordo ordinamentale anche
in deroga alle disposizioni di legge vigenti. Con il medesimo regolamento e’ altresi’
disciplinata la possibilita’ di prevedere che, presso la prefettura-ufficio territoriale del
governo operante nell’ambito territoriale corrispondente a quello della citta’ metro-
51
politana, vengano delegate ad un prefetto, con le modalita’ e nei limiti previsti dalle
stesse disposizioni regolamentari, e comunque congiuntamente o anche disgiuntamente, specifiche funzioni in materia di protezione civile, difesa civile e soccorso
pubblico, di immigrazione ed asilo, di enti locali.
Art. 5
Disposizioni relative alle Citta’ metropolitane
1. All’articolo 18 del citato decreto-legge n. 95 del 2012 sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, il primo periodo e’ sostituito dai seguenti: «A garanzia dell’efficace
ed efficiente svolgimento delle funzioni amministrative, in attuazione degli articoli
114 e 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, le Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Napoli sono soppresse, con
contestuale istituzione delle relative Citta’ metropolitane, dal 1° gennaio 2014. La
Citta’ metropolitana di Milano comprende altresi’ il territorio gia’ appartenente alla
Provincia di Monza e della Brianza; la Citta’ metropolitana di Firenze comprende altresi’ il territorio gia’ appartenente alla Provincia di Prato e alla Provincia di Pistoia.
La Provincia di Reggio Calabria e’ soppressa, con contestuale istituzione della relativa Citta’ metropolitana, a decorrere dal novantesimo giorno successivo al rinnovo
degli organi del Comune di Reggio Calabria a completamento della procedura di
commissariamento ai sensi dell’articolo 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni.»;
b) al comma 2-bis, nel quinto periodo, le parole: «le regioni provvedono con proprie leggi» sono sostituite dalle seguenti: «la regione provvede con legge» ed e’ aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le disposizioni di cui al presente comma non si
applicano al Comune di Roma Capitale.»;
c) al comma 3-bis, nel primo periodo, le parole: «entro il novantesimo giorno antecedente alla scadenza del mandato del Presidente della Provincia o del Commissario, ove anteriore al 2014, ovvero, nel caso di scadenza del mandato del presidente
successiva al 1° gennaio 2014, entro il 31 ottobre 2013» sono sostituite dalle seguenti: «entro il 30 settembre 2013»;
d) il comma 3-ter e’ abrogato;
e) al comma 3-quater, le parole: «o, in mancanza, il 1° novembre 2013» sono sostituite dalle seguenti: «o comunque il 1° ottobre 2013»;
f) al comma 4, lettera c), prima delle parole: «nel caso» e’ inserita la parola: «solo»
e dopo le parole: «comma 2-bis» sono inserite le seguenti: «e questa sia attuata, ai
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sensi del predetto comma, tramite il referendum e la legge regionale ovvero nel caso
della Citta’ metropolitana di Roma Capitale,»;
g) il comma 5 e’ sostituito con il seguente:
«5. Il consiglio metropolitano e’ composto da non piu’ di dieci componenti.»;
h) il comma 6 e’ sostituito dai seguenti:
«6. I componenti del consiglio metropolitano sono eletti:
a) nei casi di cui al comma 4, lettere a) e b), tra i sindaci e i consiglieri comunali dei
Comuni ricompresi nel territorio della Citta’ metropolitana, da un collegio formato dai
medesimi secondo le modalita’ stabilite per l’elezione del consiglio provinciale;
b) nei casi di cui al medesimo comma 4, lettera c), secondo il sistema previsto
dall’articolo 75 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 nel
testo vigente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il richiamo di cui al
comma 1 del citato articolo 75 alle disposizioni di cui alla legge 8 marzo 1951, n. 122,
e’ da intendersi al testo vigente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
6-bis. L’elezione del Consiglio metropolitano ha luogo entro cinquanta giorni dalla
proclamazione del sindaco del Comune capoluogo nel caso di cui al comma 4, lettera
a), o, nel caso di cui al comma 4, lettere b) e c), contestualmente alla sua elezione.
Entro quindici giorni dalla proclamazione dei consiglieri della Citta’ metropolitana, il
Sindaco metropolitano convoca il consiglio metropolitano per il suo insediamento.»;
i) al comma 7, dopo la lettera b) e’ aggiunta, in fine, la seguente: «b-bis) le funzioni diverse da quelle di cui alla lettera a), comunque spettanti alle Province alla
data di entrata in vigore del presente decreto.»;
l) dopo il comma 9 e’ inserito il seguente: «9-bis. In caso di mancata adozione
dello statuto definitivo entro il termine di cui al comma 9, il Consiglio metropolitano
e’ sciolto e viene nominato un Commissario, che provvede all’adozione dello statuto
e all’amministrazione dell’ente sino alla proclamazione degli eletti conseguente alle
elezioni da svolgersi, entro sei mesi dallo scioglimento, secondo le modalita’ stabilite, ai sensi dei commi 4 e 6, dallo statuto medesimo, che resta in vigore fino a diversa determinazione del nuovo Consiglio metropolitano. Si applicano le disposizioni
dell’articolo 141 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000.»;
2. All’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2012, n. 61, il secondo
periodo e’ soppresso.
Art. 6
Successione delle Province
1. Ogni Provincia istituita ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), succede a
quelle ad essa pre-esistenti in tutti i rapporti giuridici e ad ogni altro effetto, anche
processuale.
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2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato sentita l’Unione
delle Province d’Italia (UPI) e previa intesa in sede di Conferenza Stato-citta’ ed autonomie locali di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, possono esserefissati criteri e modalita’ operative uniformi per la regolazione in sede
amministrativa degli effetti della successione di cui al comma 1, anche con riguardo
alla gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali.
3. Il passaggio dei dipendenti di ruolo delle Province pre-esistenti a quelle istituite
ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), avviene nel rispetto della disciplina prevista dall’articolo 31 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Decorsi trenta
giorni dall’avvio dell’esame congiunto con le organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato, in assenza dell’individuazione di criteri e modalita’ condivisi, le Province istituite ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), adottano gli atti
necessari per il passaggio di ruolo dei dipendenti. Le relative dotazioni organiche
saranno rideterminate, tenendo conto dell’effettivo fabbisogno. Resta ferma l’applicazione dell’articolo 16, comma 8, del citato decreto-legge n. 95 del 2012. Per i restanti rapporti di lavoro in essere nelle Province pre-esistenti le nuove Province
istituite subentrano nella titolarita’ dei rapporti fino alla prevista scadenza.
4. Le procedure di esame congiunto di cui al comma 3 si applicano anche in relazione ai processi di mobilita’ conseguenti all’applicazione dell’articolo 17, commi 8 e
10-bis, del citato decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dal presente decreto.
Art. 7
Norme transitorie e finali
1. Salvo quanto previsto dal comma 2, il mandato degli organi di governo delle
Province nelle regioni a statuto ordinario cessa il 31 dicembre 2013. Nelle medesime Province a decorrere dal 1° gennaio 2013 la giunta e’ soppressa e le relative
competenze sono svolte dal Presidente della Provincia, il quale puo’ delegarle ad un
numero di consiglieri provinciali non superiore a tre.
2. Nei casi in cui in una data compresa tra quella di entrata in vigore del presente
decreto e il 31 dicembre 2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli
organi delle Province, oppure la scadenza dell’incarico di Commissario straordinario delle Province nominato ai sensi delle vigenti disposizioni di cui al citato testo
unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 o altri casi di cessazione anticipata
del mandato degli organi provinciali ai sensi della legislazione vigente, e’ nominato
un Commissario straordinario, ai sensi dell’articolo 141 del citato testo unico di cui
al decreto legislativo n. 267 del 2000, per la provvisoria gestione dell’ente fino al 31
dicembre 2013.
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3. La data delle elezioni per la costituzione degli organi delle Province istituite ai
sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), e delle Citta’ metropolitane di cui all’articolo 18, comma 1, primo periodo, del citato decreto-legge n. 95 del 2012, come
modificato dal presente decreto, nonche’ per il rinnovo degli organi delle Province
di cui all’ articolo 2, comma 1, lettera b), e’ fissata dal Ministro dell’interno in una domenica compresa tra il 1° e il 30 novembre dell’anno 2013.
4. Entro il 30 aprile 2013 le province oggetto di riordino ai sensi dell’articolo 2,
comma 1, lettera a), le Province le cui circoscrizioni sono modificate ai sensi dell’articolo 2, comma 2, in attuazione dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione, nonche’ le Province di Firenze, di Prato, di Pistoia, di Milano e di Monza e
della Brianza procedono alla ricognizione dei dati contabili ed economico-finanziari,
del patrimonio mobiliare, incluse le partecipazioni, e immobiliare, delle dotazioni organiche, dei rapporti di lavoro e di ogni altro dato utile ai fini dell’amministrazione, a
decorrere dal 1° gennaio 2014, delle Province istituite o aventi circoscrizione modificata, ai sensi dell’articolo 2, nonche’ delle Citta’ metropolitane di Firenze e di Milano. I risultati di tali adempimenti sono trasmessi, entro il medesimo termine di cui
al primo periodo, al prefetto della Provincia in cui ha sede il Comune capoluogo di
Regione. Decorso inutilmente il predetto termine, il prefetto, previa diffida ad adempiere nel termine di venti giorni dalla notifica della diffida medesima, nomina un proprio commissario che provvede in via sostitutiva.
5. Limitatamente all’anno 2013, in deroga al termine di cui all’articolo 151, comma
1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, le Province di
cui al comma 4 approvano il bilancio di previsione improrogabilmente entro il 30
maggio 2013 e per le medesime non trova applicazione il differimento eventualmente
disposto ai sensi dello stesso articolo 151, comma 1. Decorso inutilmente il predetto
termine, il prefetto individuato nel medesimo comma 4, previa diffida ad adempiere
nel termine di venti giorni dalla notifica, nomina un proprio commissario che provvede in via sostitutiva.
6. Entro due mesi dall’insediamento dei nuovi organi le Province istituite ai sensi
dell’articolo 2, comma 1, lettera a), adottano il bilancio e le misure necessarie a garantire la piena operativita’ con riferimento all’esercizio delle funzioni attribuite.
7. Le prime elezioni del Consiglio metropolitano nonche’, salva l’ipotesi di cui al
comma 4, lettera a), dell’articolo 18 del citato decreto-legge n. 95 del 2012, del sindaco metropolitano si svolgono secondo le modalita’ stabilite dallo statuto provvisorio ai sensi del medesimo articolo 18, comma 4. In caso di mancata approvazione
dello statuto provvisorio entro il termine di cui al comma 3-bis del predetto articolo
18, come modificato dal presente decreto, e’ di diritto sindaco metropolitano il sindaco del Comune capoluogo ed il Consiglio metropolitano e’ eletto secondo le mo-
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dalita’ di cui al comma 6, lettera a), del medesimo articolo 18, come modificato dal
presente decreto; in tali casi entro tre mesi dalla data di approvazione dello statuto
definitivo della Citta’ metropolitana, ove lo stesso preveda l’elezione del sindaco secondo le modalita’ di cui al citato articolo 18, comma 4, lettere b) e c), si procede a
nuove elezioni per il rinnovo del Sindaco e del Consiglio metropolitani.
Art. 8
Disposizione finanziaria
1. Dal presente decreto non devono derivare minori entrate ne’ nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica.
Art. 9
Entrata in vigore
1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sara’ presentato alle
Camere per la conversione in legge.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sara’ inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti
di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addi’ 5 novembre 2012
NAPOLITANO
Monti, Presidente del Consiglio dei Ministri
Patroni Griffi, Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione
Cancellieri, Ministro dell’interno
Visto, il Guardasigilli: Severino
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Tabella
(Art. 2, comma 2)
Mutamenti delle circoscrizioni provinciali conseguenti ad iniziative dei comuni ai
sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione
Comune
Provincia di appartenenza Città metropolitana o
sino al 31/12/2013
Provincia di appartenenza
dal 1/1/2014
Fasano
Brindisi
Bari
Cellino San Marco
Brindisi
Lecce
Erchie
Brindisi
Lecce
Mesagne
Brindisi
Lecce
San Donaci
Brindisi
Lecce
San Pancrazio Salentino
Brindisi
Lecce
San Pietro Vernotico
Brindisi
Lecce
Torchiarolo
Brindisi
Lecce
Torre Santa Susanna
Brindisi
Lecce
Avetrana
Taranto
Lecce
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3.1.2. La nuova cartina delle Province italiane secondo il DL 188/2012
58
3.1.3. Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria (CAL)
3 ottobre 2012
Documento Provincia
Da ormai quattro anni siamo immersi pienamente nella crisi economica e finanziaria più grave dalla fine della II° guerra mondiale.
Una crisi non congiunturale ma strutturale, che sta cambiando le gerarchie del
pianeta, ridistribuendo i poteri e ridisegnando lo stesso ordine sociale.
L’epicentro della crisi dagli Stati Uniti si è trasferito in Europa, con una particolare gravità nell’area mediterranea dove, a causa di fondamentali negativi quali l’alto
debito pubblico ed un apparato industriale meno competitivo, sta diventando crisi
sociale.
L’Italia è fra i Paesi più colpiti, ed anche gli ultimi dati economici, che segnalano
una accentuazione della caduta del PIL, della produzione industriale e dei consumi
ed un aumento della disoccupazione; ci confermano l’aggravarsi del quadro economico e sociale. Anche in Umbria, a partire dalla seconda metà del 2011 si assiste
ad un peggioramento del quadro economico.
Si rafforza il rallentamento del tasso di crescita dello stock di imprese, si evidenziano un aumento dei fallimenti, una diminuzione del fatturato e della produzione, un
forte incremento della CIG ed un peggioramento dell’occupazione. A questo si contrappone una crescita dell’export, soprattutto nella componente metalli.
Vengono confermati alcuni limiti strutturali del sistema umbro: dalla inadeguata
dimensione delle imprese e la loro ridotta capitalizzazione, all’elevato livello di disoccupazione femminile ed intellettuale alla ridotta spesa in R e S. A questi elementi
si aggiunge una forte diminuzione della spesa per investimenti fissi delle amministrazioni locali.
La strutturalità della crisi ci chiama a raccogliere una sfida che è epocale e che
va affrontata con la stessa tensione ideale e spirito comunitario che ha innervato
altre stagioni fondative della storia umbra, quali quella degli anni ’60, quando si riuscì a connotare una nuova dimensione di progetto con la costituzione del nuovo
soggetto regionale. La Regione si impose allora come soggetto fondamentale dello
sviluppo, favorendo la trasformazione di una regione arretrata in una moderna ed
avanzata regione europea.
E’ una sfida che abbiamo inteso raccogliere chiamando in primo luogo a confrontarsi il mondo dell’istituzioni negli “stati generali delle autonomie locali dell’Umbria” tenutisi a Foligno il 17 di settembre. Da quella giornata di intenso e proficuo
lavoro sono venute indicazioni importanti che vengono ora declinate in questo documento.
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Serve una nuova fase del regionalismo umbro, che ne rafforzi identità ed unità,
consolidandone i punti di forza anche attraverso la distribuzione dei poteri in una
nuova articolazione territoriale ed istituzionale in modo da rendere più efficiente ed
efficace l’azione amministrativa dei livelli istituzionali e sostenere al meglio la programmazione regionale.
Va sostenuta una stagione di riforme profonde che parta dalla consapevolezza del
legame indissolubile fra modello produttivo, modello sociale ed organizzazione istituzionale.
Va rafforzata la dimensione unitaria dell’Umbria e fare di questo un valore fondamentale nel cercare di contrastare la crisi e produrre profondi elementi di innovazione.
Occorre stringere in modo più forte che in passato i rapporti tra le diverse soggettività sociali e le diverse articolazioni territoriali, affinché si possa, facendo perno
su una dimensione praticabile ed una buona coesione sociale, dare vita ad una progettazione comune.
Partendo da queste considerazioni si è venuto sviluppando in Umbria un ampio
ed articolato disegno riformatore che ha come principi guida quelli della riduzione dei
costi dell’apparato pubblico, della semplificazione burocratica ed amministrativa,
della esclusività delle funzioni in capo ad ogni singolo soggetto istituzionale, superando duplicazioni e sovrapposizione di competenze del decentramento amministrativo. Da qui le leggi sulla semplificazione, sulla riforma endoregionale e la
creazione delle unioni speciali dei Comuni, del riassetto delle Agenzie regionali, della
costituzione dall’Ambito Unico Regionale per i rifiuti e l’idrico, della riorganizzazione
del Servizio Sanitario Regionale, per disegnare un’Umbria più competitiva e dinamica, pronta ad intercettare la ripresa ed aprire una nuova stagione di sviluppo.
In questa fase così complessa sono intervenute, in maniera dirompente, le norme
dettate dall’art. 17 della L. 135/2012 che obbligano a ridisegnare l’assetto delle Province secondo criteri demografici e di estensione territoriale.
Siamo pienamente consapevoli della indispensabilità di una riforma complessiva
dell’assetto istituzionale e della pubblica amministrazione del nostro Paese, gravato
da inefficienza, ridondanza, sovrapposizione di ruoli e funzioni, costi eccessivi. Per
questo si era cercato di produrre, attraverso il Codice delle Autonomie, un quadro
organico e coerente di poteri e funzioni che delineasse in maniera precisa le attribuzioni esclusive di ciascun Ente secondo criteri di specializzazione, proprorzionalità ed adeguatezza ed avesse al centro il servizio ai cittadini ed alle imprese.
Il Governo ha prodotto invece una norma settoriale, pasticciata, che sta creando
profondi conflitti nelle comunità locali e che non corrisponde affatto alla finalità di
produrre buon governo. In Umbria si andrebbe, se non si adottassero iniziative po-
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litico-istituzionali autonome, alla costituzione di una sola Provincia, estesa a tutto il
territorio regionale, con un consiglio di 16 membri, eletti fra i sindaci ed i consiglieri
comunali di tutta l’Umbria, ed un Presidente che, senza alcuna Giunta dovrebbe governare una mole di circa 1700 dipendenti e politiche di assetto del territorio, trasporti e viabilità, edilizia scolastica, tutela ambientale.
Si determinerebbe la esclusione di interi territori regionali dalla rappresentanza,
in primo luogo quelli demograficamente più deboli, difficoltà operative molto rilevanti, con una maggiore complessità amministrativa, tempi più lunghi, ed un palese
conflitto di interessi.
Inoltre l’anomalia di avere, due soggetti istituzionali che esercitano la propria funzione di governo sulla stessa popolazione e sullo stesso territorio determinerebbe
conseguenze negative su quel regionalismo sul quale si è fondata una parte fondamentale della storia democratica dell’Umbria e del suo sviluppo economico, sociale
e civile.
L’assurdità sta infatti nel fatto che non ci troviamo di fronte ad una Agenzia strumentale della Regione, da questa delegata ad attuare specifiche politiche di settore,
ma ad una articolazione fondamentale della statualità repubblicana. Nella tradizione
del regionalismo, di quello umbro in particolare, è stato forte il bilanciamento istituzionale, che poi si è tradotto in qualità della vita democratica delle istituzioni, tra una
Regione che legifera, controlla e delega, ed una attività amministrativa che trovava
la sua concretizzazione nei Comuni e, per le politiche più complesse, di area vasta,
nelle Province. E’ evidente allora che, venendo meno questa articolazione plurale, il
bilanciamento non potrebbe avvenire, le politiche di decentramento e delega non
potrebbero essere attuate e si andrebbe, inevitabilmente, ancorché non voluto, verso
un accentramento regionale.
Questo peserebbe negativamente, in una fase nella quale l’Umbria, dentro gli
scenari globali che ci investono, avrebbe bisogno di affrontare al meglio, come sta
cercando di fare, il tema di andare oltre il policentrismo orizzontale ed indistinto che
pure ha contraddistinto una fase storica della vita della comunità regionale, e lavorare per costruire una dimensione della regione in senso più unitario e coeso, in una
logica di sistema integrato che è essenziale per stare positivamente ed autonomamente dentro la nuova fase del mondo.
A tutto questo si aggiungono anche altre due questioni che rendono il quadro
ancora più incerto e problematico. La prima riguarda la mancata deliberazione, che
il governo si era impegnato ad adottare entro il 5 settembre, sul trasferimento ai comuni delle funzioni amministrative conferite alla Province con legge dello Stato. La
seconda è che non è stato sciolto il nodo della indispensabile, o meno, corrispondenza tra lo status di Provincia e la presenza degli uffici decentrati dello Stato, la cui
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eventuale riduzione costituirebbe un impoverimento economico, sociale, politico,
amministrativo, per tutta la Regione.
La crisi della rappresentanza, la marginalizzazione di interi territori, la durezza della
crisi economica che sta trasformandosi in crisi sociale riaccenderebbero sicuramente
quelle spinte centrifughe territoriali che sono state sempre presenti nella storia della nostra Regione e che stanno riprendendo vigore, mettendone a rischio la sua unità e la
sua stessa sopravvivenza. Crediamo insomma che questa questione non possa essere derubricata a questione amministrativa, che riguarda esclusivamente il ceto politico, ma che abbia un rilievo fondamentale per il futuro della nostra Regione.
Crediamo pertanto che debba crescere una tensione politica, una presa di coscienza
ed un protagonismo di tutti i soggetti sociali all’altezza della posta in gioco.
Ma l’Umbria ha una specificità che ci può permettere di scongiurare l’esito della
monoprovincia. L’Umbria è dotata delle caratteristiche demografiche e di estensione
territoriale che consentono la presenza di due province, rispettando i parametri definiti dalla Delibera del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012. E’ su questa originalità che si è basato l’impegno, dei parlamentari umbri tesa ad ottenere una deroga.
Una deroga per la Provincia di Terni che avrebbe escluso la eventualità della monoprovincia in Umbria.
Ora vogliamo reiterare questa giusta richiesta accompagnandola però da quel
percorso di ridisegno dell’Umbria e dei suoi territori che doveva seguire la istituzione
della Regione e che non fu portato a termine.
Si tratta di rafforzare questa nuova fase del regionalismo umbro investendo di
più su identità ed unità regionale, consolidandone i punti di forza e distribuendo i poteri le rappresentanze ed i presidi istituzionali, in una nuova articolazione territoriale
ed istituzionale che valorizzi le funzioni territoriali delle varie aree e sostenendone
adeguatamente lo sviluppo in un’ottica unitaria.
Si tratta di operare per determinare la presenza in Umbria di due nuove Province,
definendo quelle dimensioni ottimali tali, come cita la lettera a, comma 3 dell’art. 21
del TUEL, “per ampiezza, entità demografica, nonché per le attività produttive esistenti o possibili, da consentire una programmazione dello sviluppo che possa favorire il riequilibrio economico, sociale e culturale del territorio regionale”. Due nuovi
ambiti provinciali che potranno anche assumere, come dice la legge, una denominazione diversa dalla attuale.
Ci si deve dotare di una nuova architettura istituzionale che garantisca un miglior
funzionamento dell’apparato pubblico e la effettività delle politiche di coesione territoriale. La ricerca di legami più diretti e profondi tra i territori consentirebbe di raggiungere livelli dimensionali più efficienti per le politiche di area vasta, di affrontare
meglio la sfida dei mercati globali, di agganciare i territori più dinamici, anche ex-
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traregionali, in condizioni paritarie. Si riuscirebbe altresì a valorizzare adeguatamente
il ruolo delle città, che nei propri territori funzionano da soggetti di innovazione, di reti
di imprese e lavoro, da centri moltiplicatori di conoscenze e capitale umano, di relazioni fra istituzioni, imprese e lavoratori.
L’articolazione territoriale a cui guardare, nelle costituzione delle due nuove Province dell’Umbria, è quella delineata dal recente d.d.l. regionale di “Ordinamento del
Servizio Sanitario regionale” e va perseguita attraverso l’adozione delle procedure
previste dall’art. 133 della Costituzione”.
Si andrebbe così alla costituzione di due aree territoriali equilibrate per superficie e popolazione, dotate di una certa omogeneità sociale ed economica che consentirà di valorizzarne le specificità.
Quella che vogliamo costruire è un’Umbria più moderna e dinamica, un assetto
del reticolo istituzionale locale più idoneo a reggere la competizione territoriale e
mantenere la coesione sociale, attuare processi di pianificazione strategica, governare le interdipendenze.
Il Presidente
Leopoldo Di Girolamo
Perugia, 3 ottobre 2012
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3.2. Il dibattito sul futuro della Regione
(Il Giornale dell’Umbria, ottobre - novembre 2012)
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3.3. Le macroregioni di Gianfranco Miglio
e della Fondazione Agnelli
3.3.1. Gianfranco Miglio - Le macroregioni
(Dal libro “L’asino di Buridano”)
Fin dagli anni dell’opposizione clandestina alla dittatura, mi ero convinto che l’Italia non era, e ormai non poteva più diventare, uno Stato nazionale come la Francia
(...). Giudicavo la convivenza possibile soltanto nel quadro di un assetto “federale”
o “confederale”, cioè di un ordinamento che riconoscesse le particolarità etniche,
storiche, sociali, culturali, economiche e le consuetudini anche giuridiche, delle diverse stirpi, consentendo di mettere in comune soltanto ciò che per tutti fosse utile
- o addirittura necessario - gestire in forma unitaria.
Stato moderno verso la fine
Io credo che, nello scorcio del XX secolo in cui stiamo vivendo, sia arrivata a conclusione una intera fase della storia dello Stato moderno: si è esaurito il tempo (quattro secoli buoni) in cui questo organismo ha dominato tutte le forme associative
minori, con la staticità, l’immobilità quasi sacrale della sua imponente presenza e
l’unitarietà delle sue istituzioni. Punto di riferimento, fermo e incrollabile, per ogni
azione volta a negare e distruggere qualsiasi disprezzato “particolarismo”, esso ha
tenuto a battesimo una grandissima civiltà: la civiltà appunto “moderna”.
Ma oggi - proprio, e in primo luogo, per le sue grandi dimensioni, e per la sua vocazione all’unità - lo Stato non è più in grado di soddisfare, rendendole prima uniformi, le sempre più diversificate esigenze dei cittadini: esigenze che, sospinte
dall’incoercibile capacità inventiva delle nuove tecniche produttive, si moltiplicano e
si specificano senza posa, a tutti i livelli, sfuggendo a ogni pretesa, appunto, di uniformità, e possono venire fronteggiate soltanto da strutture politico-amministrative
incomparabilmente più articolate e diversificate di quelle tradizionali.
Ciò che sta andando in crisi è la nozione dell’unità dei grandi aggregati politici. In
secondo luogo - e ancora più in profondità - tende ormai ad essere contestata la staticità, l’immutabilità della struttura “Stato”. Ciò che qui va in crisi è l’idea che i cittadini
debbano essere “inquadrati” una volta per tutte in un determinato (e soprattutto uniforme) contesto istituzionale: che essi non possano variare, nel tempo, l’assetto derivante dalla loro collocazione sul territorio, e scegliere (con le debite garanzie) come e
con chi associarsi, rendendo relativi i confini politico- amministrativi e mutando, a seconda delle esigenze, i loro rapporti di dipendenza dalle aggregazioni “superiori”.
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La vocazione federalistica
In un tale contesto, la vocazione del nostro tempo per il Federalismo (...) si rivela come tendenza verso un modello di gran lunga più generale, contraddistinto
dalla relatività dei vincoli politici (e quindi delle unità amministrative) sia per la quantità delle competenze, sia per la durata nel tempo. “Contratti” a termine regolano
(e variano) la dimensione delle convivenze istituzionali - non solo territoriali ma
anche categoriali - e il loro inserimento nelle strutture più ampie, egualmente volontarie, pattizie e temporanee: dalla micro- comunità e dal piccolo sindacato, alla
multinazionale.
Macroregioni per il futuro
Ho già scritto altrove che bisognerà partire da un ormai improrogabile rimaneggiamento dell’attuale ordinamento regionale, nel senso che le Regioni dovranno essere restituite alla loro fondamentale funzione normativa, e a quella organizzativa dei
sottostanti enti locali. Nel rivedere (e aggiornare) l’elenco dei settori di competenza,
prescritto dall’articolo 117 della Costituzione (che è ormai superato ed è diventato
irrazionale) bisognerà stabilire con chiarezza che le Regioni non sono soltanto autorizzate, ma addirittura tenute a cercare e a favorire accordi tra loro: seguendo e assecondando il naturale intreccio interregionale dei bisogni e degli interessi.
Una ricerca condotta anni fa dal compianto professore Innocenzo Gasparini (e
purtroppo mai pubblicata) ha dimostrato che le relazioni economiche fra le Regioni
padane, fra quelle dell’Italia centrale e quelle dell’Italia meridionale configurano l’esistenza di almeno tre potenziali “macroregioni”. Sono probabilmente proprio queste
aggregazioni i futuri soggetti della struttura federale, che potrebbe nascere, pertanto, spontaneamente, senza traumi ideologici e psicodrammi, soltanto assecondandosi il comportamento dei cittadini.
Il crisma di un assetto costituzionale formale dovrebbe consacrare, ad un certo
punto, questo nuovo modo di essere dell’unità degli Italiani: aggiungendo, alle tre
grandi unità particolari di cui ho parlato, le isole, le altre Regioni a statuto speciale,
e un “territorio federale” intorno a Roma (anche per risolvere il problema difficile della
“città capitale” e del suo statuto).
Competenze suddivise
Io credo che all’autorità federale o confederale (l’alternativa concerne il grado di
coesione che si vorrà dare alla struttura unitaria) dovrebbero in ogni caso spettare:
gli affari esteri generali, la difesa esterna (e in parte anche quella interna: cioè una polizia federale accanto a quella macroregionale), la finanza generale, la giustizia
(esclusi i giudici di pace), l’istruzione superiore (universitaria) nonché il coordina-
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mento della ricerca scientifica (la scuola - elementare, media e professionale - dovrebbe essere di competenza macroregionale).
L’aggettivo “generale”, che unisco ad alcune materie, significa che alle macroregioni dovrebbe essere riconosciuta, per esempio, una certa autonomia nella gestione
delle relazioni con i Paesi (Regioni) confinanti: un’idea di politica estera “minore” che
mi sembra abbia già trovato accoglienza favorevole. Alle macroregioni toccherebbero altresì il prelievo e l’utilizzazione delle risorse finanziarie (sempre però con budget federale e una finanza sottoposta alle leggi federali).
Analogamente, dove parlo di “coordinamento”, alludo al diritto-dovere delle autorità federali a promuovere (attraverso la normazione, da parte del Parlamento) l’armonizzazione delle competenze, delle iniziative e delle attività macroregionali. La
questione della ripartizione delle competenze è tuttavia materia fluida ed opinabile:
le opzioni sono molte e tutte da discutere. Del resto, a questo proposito, credo che
ci saranno presto nuovi modelli, a livello europeo, da studiare e da utilizzare.
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3.3.2. Gabriele Coltorti
I fondamenti del vero federalismo di Gianfranco Miglio
(www.lindipendenza.com, 17 gennaio 2012)
Quali sono per Gianfranco Miglio i fondamenti di un vero regime federale? Nell’introduzione al volume Federalismi falsi e degenerati (Milano, Sperling&Kupfer
1997), Miglio elencava con grande chiarezza i pilastri su cui deve poggiare un regime
fondato su un patto costituzionale in grado di salvaguardare e conciliare l’irriducibile
diversità dei territori. Le vere Costituzioni federali sono quelle in cui:
a) il federalismo è interno al sistema politico e ne costituisce l’asse portante.
In tutti i sedicenti sistemi “federali” (Germania, Stati Uniti) o quasi “federali” è la
prima Camera a rivestire un ruolo politico decisivo nella legislazione e – nei regimi
parlamentari – a controllare il governo dandogli o togliendogli la fiducia. La Camera
dei rappresentanti statunitense, il Bundestag tedesco sono collegi in cui dominano i
grandi partiti “nazionali”, in cui i parlamentari sono eletti direttamente dal “popolo sovrano”. Quelli per Miglio erano falsi sistemi federali perché il federalismo tende ad
essere confinato in una seconda camera (Bundesrat in Germania, Senato negli Stati
Uniti) che ha uno scarso potere di controllo nei confronti del governo centrale. Se il
federalismo deve essere l’asse portante del sistema, questo significa che per Miglio
la Camera politica, quella in grado di controllare il governo federale deve essere l’assemblea in cui siedono i rappresentanti delle maggiori Comunità territoriali in cui si articola la Federazione. Nel modello costituzionale di Miglio l’Assemblea federale
sarebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri verrebbero eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono
i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi,
10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento.
b) i poteri di governo e amministrazione sono distribuiti (e costituzionalmente garantiti) su almeno due livelli territoriali: Cantoni e Federazione.
La netta separazione di funzioni tra potere centrale e poteri locali era basilare per
Miglio. Questo non accade nei falsi federalismi che si sono accennati. Ad esempio
la Costituzione tedesca, quantunque stabilisca una separazione di funzioni tra Bund
e Länder, non è stata in grado di evitare il netto prevalere dello Stato centrale nella
legislazione e – in diversi casi – nella stessa amministrazione, un intervento reso necessario in Germania per assicurare su tutto il territorio i livelli di prestazioni pubbliche dello Stato sociale. Ma lo Stato sociale, scriveva Miglio, “è un sottoprodotto
dello Stato unitario e centralizzato di grandi dimensioni” perchè legato a governi che
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dispongono di ingenti risorse finanziarie. “La falsa idea di trovarsi davanti ‘un corno
dell’abbondanza’ di cui non si vede mai la fine, è infatti il fondamento delle politiche
di scambio di favori e privilegi, contro sicurezza elettorale e permanenza della classe
politica al potere”.
In Germania la revisione costituzionale del 1969 ha fissato i Gemeinschaftsaufgaben, i compiti comuni che, soprattutto in materia finanziaria, hanno finito per amputare l’autonomia dei territori facendo saltare l’originaria coerenza dell’ordinamento
tedesco basato sulla divisione di competenze tra Bund e Länder. Una realtà ben presente a Miglio che scriveva: “Se l’equilibrio fra gli almeno due livelli di potere non è
solidamente garantito – anche e soprattutto nei confronti degli Stati o Cantoni – è
fatale che chi detiene il potere centrale (federale) tenda ad allargarlo fino ad assorbire le prerogative dell’altro livello o a ridurlo a un significato puramente formale.
Così deperiscono (e muoiono) le Costituzioni federali. Il maggior problema tecnico
di queste ultime è rappresentato dalla necessità di stabilire espedienti i quali rendano
molto difficile ai cittadini degli Stati o Cantoni di rinunciare alle loro prerogative. Perciò il miglior presidio di un ordinamento federale sta nella determinazione con cui il
popolo è deciso a resistere contro le intimidazioni e, soprattutto, le suasioni dell’autorità centrale” (Federalismi falsi e degenerati, pp.XIV-XV).
c) I Cantoni hanno dimensioni tali da poter assolvere la parte principale dell’attività governamentale, resistendo altresì all’eventuale potere di assorbimento dell’autorità federale.
Le tre macroregioni (Nord, Centro, Sud) fissate dal professore nel Decalogo di
Assago presentato nel dicembre 1993 sono individuate in base a criteri etno-linguistici, geo-economici e soprattutto funzionali. Miglio era convinto che non si potesse
costruire un vero ordinamento federale partendo dalle venti Regioni attuali. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani scriveva: “Se si creasse una Federazione
fra le 20 attuali Regioni, alcune di queste (le più grandi e forti) prenderebbero il volo,
e controbilancerebbero validamente l’autorità federale; mentre le più piccole e più
deboli, incapaci di assolvere i compiti loro attribuiti, si getterebbero tra le braccia
proprio dei poteri federali. Il risultato finale sarebbe quello di una Repubblica squilibrata e dilacerata, e di una restaurazione a furor di popolo del governo centralizzato”. Previsione a un passo dal verificarsi se si pensa alle riforme costituzionali
elaborate dal centro-destra (Lega Nord inclusa) e dal centro-sinistra.
d) Tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema sono ispirate al
principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata.
Il principio della maggioranza semplice, in una repubblica federale in cui vivono
popolazioni diverse per storia, costumi, tradizioni, è una violenza intollerabile perché
attenta i diritti delle minoranze. Nel volumeFederalismo e Secessione (Milano, Mon-
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dadori 1997, pp.118-122) il professore rivolgeva una critica radicale al principio di
maggioranza: “Cosa ha di più saggio la metà più uno degli uomini? Come si può
accettare un criterio tanto rozzo, fondato in definitiva su quell’uno, cioé su di un numero talvolta piccolissimo, in una divisione del mondo nella quale da una parte vi è
la metà, che soccombe, e dall’altra la metà più uno che vince? Quell’uno finisce per
diventare l’arbitro, il signore della Comunità”. Il principio del contratto, tipico del diritto privato – in base al quale i territori decidono su un piano di parità, sforzandosi
di convincere le controparti per raggiungere una mediazione che possa garantire le
ragioni di ciascuno – è cosa ben diversa dalla legge o dal regolamento approvato a
maggioranza semplice. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il prodotto di un negoziato tra le parti. Questo spiega per quale motivo, nel modello di costituzione federale redatto da Miglio il governo è non solo direttoriale – composto dai governatori
delle maggiori Comunità in cui si compone la Federazione – ma esercita le sue funzioni secondo la regola della maggioranza qualificata. “Stabilirei come regola generale la maggioranza dei due terzi e, nel caso in cui non si raggiunga, richiederei il
sorteggio. Si presuppone che una scelta condivisa da una larga maggioranza sia
‘più vera’ di quella condivisa soltanto da una minoranza, perché se riduciamo la minoranza ad un terzo o ad un quarto è evidente che esiste una qualche giustificazione al fatto che l’opinione dei pochi, eventualmente dei pochissimi, sia messa da
parte” (Federalismo e Secessione, pag122). Il professore proponeva addirittura che
il Direttorio federale approvasse all’unanimità materie cruciali quali l’introduzione di
nuovi tributi a livello federale, il sostegno economico alle aree svantaggiatate, la
legge di bilancio. Il ridotto numero dei membri che compongono il Direttorio (nel suo
progetto non più di cinque o sei persone) renderebbe assai facile il raggiungimento
dell’accordo in tempi certi e ridotti. Il professore aveva infatti abbozzato una regola
d’oro che nel suo modello era in grado di garantire la governabilità: egli lasciava al
Direttorio federale otto giorni di tempo per approvare un provvedimento, un Regolamento o un Decreto oggetto di controversie, al termine dei quali sarebbe scattata
la “procedura di emergenza”: se entro una settimana il governo non fosse pervenuto a una decisione, i membri sarebbero decaduti dall’incarico e non avrebbero
potuto ripresentarsi agli elettori per due legislature. “La minaccia efficace di togliere
ai politici la poltrona su cui siedono – diceva nel presentare il suo modello – è un ottimo strumento per farli andare d’accordo nell’interesse del Paese!”.
e) La Costituzione contiene procedure che rendano sempre certa e rapida la decisione degli affari di governo: per esempio la presenza di un Presidente coordinatore del Direttorio, eletto da tutti i cittadini della Federazione.
Qui Miglio mostrava di accettare il presidenzialismo: pensava a un Presidente federale eletto direttamente dai cittadini, erede in parte delle funzioni esercitate oggi
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dal Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio. Il Presidente federale avrebbe
nominato i ministri, che per entrare in carica avrebbero dovuto godere della fiducia
del Direttorio. Il Presidente federale dovrebbe essere “ingabbiato” nel Direttorio. E’
precisamente quest’ultimo il vero e unico governo della Confederazione: composto,
oltre che dal Presidente federale, dai Governatori dei tre Cantoni (eletti direttamente
dalle rispettive popolazioni) e da un Presidente (a turno annuale) di Regione a Statuto Speciale.
f) La struttura fiscale, coordinata dal Direttorio federale, poggia su due livelli: municipale e cantonale”. Come si vede, un principio completamente estraneo al “federalismo fiscale” italiano, che assegna allo Stato centrale la completa gestione delle
imposte (dirette e indirette).
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3.3.3. Fondazione Agnelli
Macroregioni di Miglio economicamente irrazionali
(corriere della sera, 13 arile 1994)
La Fondazione Agnelli boccia la proposta del professor Miglio sulle tre macroregioni. Il direttore della Fondazione Marcello Pacini . che nel 1992 elaboro’ un progetto
di riforma dell’ ordinamento regionale italiano . critica il progetto leghista sostenendo
che “Miglio salva le Regioni a statuto speciale soltanto per convenienza politica. Insomma, in questa proposta si ravvisano molti motivi politici, ma non ragioni di razionalita’ economica”. Il progetto elaborato dalla Fondazione Agnelli, che prevede la
suddivisione dell’ Italia in dodici Regioni, si fonda invece, ha spiegato Pacini, “su alcuni criteri razionali: in primo luogo vogliamo dare ad ogni Regione l’ autosufficienza
finanziaria pensando che questa e’ la base per ogni autogoverno; dobbiamo, inoltre, avere delle Regioni con una taglia demografica sufficientemente giusta ed, infine,
creare una soluzione equilibrata. Bisognera’ perseguire . ha sottolineato . l’ equilibrio
tra le diverse Regioni italiane, con le altre Regioni europee e tra le differenti regioni
e lo Stato centrale”. I compiti che resteranno allo Stato centrale dovrebbero essere
la Difesa, l’ Ordine Pubblico, la Giustizia e la Moneta. “In alcuni casi . ha spiegato ancora il direttore della Fondazione . bisognera’ trovare competenze, che coinvolgano
Stato e Regioni. Ad esempio, per quanto riguarda il settore dei Beni Culturali sara’
importante salvaguardare la posizione dello Stato Centrale”. Ancora in fase di studio da parte della Fondazione Agnelli il discorso del federalismo fiscale: “Siamo, comunque, d’ accordo per ripartire l’ esazione dei tributi fra Comuni, Regioni e Stato,
al fine di creare condizioni di autosufficienza ed autogoverno. La nostra idea e’ di riunire i centri di spesa ed i centri di prelievo”.
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3.3.4. Marcello Pacini
“Un federalismo dei valori”, Introduzione
Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli (Torino, 5 marzo 1996)
Questo libro ricostruisce il percorso di ricerca della Fondazione Giovanni Agnelli
intorno al tema della riforma dello Stato italiano in senso federale e contiene quindi
le analisi, le riflessioni, le proposte elaborate dal 1992 a oggi.
Una parte degli interventi era già stata pubblicata sulla rivista della Fondazione
Agnelli XXI Secolo e in un volume uscito nella primavera del 1994 con il titolo Scelta
federale e unità nazionale. Ho tuttavia ritenuto utile riproporre nella loro integralità i
documenti più significativi del nostro programma, perché attraverso di essi si può seguire lo sviluppo di una linea di pensiero coerente e articolata, che era stata avviata
quando ancora la discussione intorno alla riforma dello Stato in senso federale si
trovava in una fase embrionale.
Oggi invece le proposte si moltiplicano, e non provengono solo dal mondo politico e dai governi locali. Importanti soggetti della cultura e della società civile hanno
in questi mesi condotto e rese pubbliche riflessioni di grande rilevanza. È stato proprio questo ridestarsi dell’interesse per le riforme costituzionali, dopo un temporaneo oblio durato per tutto il 1995, a suggerirmi di riprendere questo tema, anche in
considerazione della perdurante validità dei risultati a cui siamo pervenuti, sovente
citati e ripresi da più parti.
Una seconda e altrettanto importante considerazione mi spinge a riproporre la
nostra riflessione. Se si intende davvero passare a una vera e propria fase di riforma
costituzionale, è necessario dare vita nel paese a un dibattito il più ampio possibile,
per spiegare all’opinione pubblica il significato e le finalità di una così grande ristrutturazione delle istituzioni, le sue ragioni e motivazioni, gli snodi fondamentali
del processo di transizione e il punto d’arrivo desiderato. I cittadini di tutte le regioni
italiane devono cioè convincersi dell’urgenza e delle convenienze di una trasformazione che, accantonando ogni cautela terminologica, si potrebbe definire rivoluzionaria, per la cesura che segnerebbe rispetto alla tradizione centralista dell’Italia
post-risorgimentale e soprattutto rispetto alla pratica dell’esercizio del potere degli
ultimi quarant’anni.
Senza nascondersi le difficoltà, si può rilevare che esistono almeno due fattori che
possono contribuire a superare i passaggi più delicati di questa grande trasformazione: una parte cospicua della storia italiana di lungo periodo e lo «spirito» di questa fine di secolo.
Una grande tradizione storica italiana affonda le sue radici nell’esperienza del
pluralismo e dell’autonomia delle città e dei territori italiani. È una tradizione che ha
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accompagnato il cammino dell’Italia per quasi un millennio, alternando momenti di
fioritura culturale ed economica a momenti di grande decadenza. Siamo al cuore
della storia d’Italia, a situazioni ed eventi troppo presenti alla nostra memoria e alla
nostra sensibilità culturale per dover essere ulteriormente ricordati.
Qualche parola va invece spesa per gli scenari politici, culturali ed economici
mondiali alla fine del XX secolo. Il richiamo è opportuno non tanto per trovarvi indicazioni di ingegneria costituzionale, quanto per avere presente alla nostra attenzione
quello che si può chiamare lo «spirito» di questa fine di secolo. Mai come oggi infatti i grandi cambiamenti e le grandi tendenze internazionali influenzano la vita delle
società nazionali, e devono pertanto essere messi in conto quando si rifletta di cose
italiane.
Il primo e più importante dei grandi cambiamenti planetari verificatisi in questi ultimi venticinque anni è, non vi sono dubbi, il grande avanzamento della democrazia.
Intorno alla metà degli anni settanta in Spagna e in Portogallo cadevano gli ultimi governi autoritari di destra in Europa. Negli anni ottanta il Sud America è stato recuperato alla democrazia con la fine dei regimi militari in Brasile, Argentina e poi anche
in Cile. A partire dagli anni novanta, con la caduta dell’Unione Sovietica, la Polonia,
la Cekia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria sono retti da governi
democratici. Di conseguenza, con la sola eccezione di Cuba, non si conoscono oggi
nel mondo euroamericano governi non democratici. Per la prima volta nella storia.
La stessa Russia e alcune altre repubbliche nate dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, sia pur fra incredibili difficoltà economiche e con ricorrenti crisi di legalità,
stanno cercando una loro via alla democrazia. L’espansione della democrazia sembra iniziare a riguardare anche l’Asia, con la caduta della dittatura nelle Filippine. I
prossimi anni saranno peraltro decisivi per comprendere se i paesi e le culture del
Sud-est asiatico e dell’Estremo Oriente, prima fra tutti la Cina, riusciranno a trovare
soluzioni istituzionali e politiche che consentano di coniugare la libertà economica
con la democrazia politica e siano, di conseguenza, più vicine alla sensibilità e ai
modelli occidentali.
Un altro grande cambiamento, comune a quasi tutti i paesi occidentali, è il processo di deburocratizzazione e di destatalizzazione, che porta lo stato a un cospicuo ridimensionamento del proprio ruolo nella gestione degli affari economici e
sociali di una comunità nazionale. Se le esperienze thatcheriane e reaganiane rappresentano gli esempi estremi di questo orientamento, certo è che la ritirata dello
stato dalla gestione diretta dell’economia e in parte dall’organizzazione del welfare
coinvolge praticamente tutti i paesi occidentali. La grande stagione dello stato socialdemocratico è ormai da tempo avviata alla conclusione, a causa dell’insostenibilità dei suoi costi e dell’enorme dilatazione delle burocrazie.
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Per reazione, si è venuta diffondendo una cultura politica fondatansu una richiesta di generale diminuzione della pressione fiscale e dell’intervento statale, verso il
quale si ha sempre meno fiducia perché ritenuto inefficiente, incapace, non equo e
prevaricatore. Non si tratta sempre, com’ è ovvio, di giudizi fondati, ma tale è lo «spirito» dei tempi in Occidente, che rivendica un’espansione della sfera privata e una
riduzione delle deleghe alle istituzioni più lontane dai cittadini, la prima per far rientrare nel diretto controllo personale aspetti e dimensioni della vita affidate allo stato
nell’esperienza socialdemocratica precedente, la seconda per organizzare con maggiore e più diretto controllo ciò che rimane affidato alla dimensione pubblica. Le richieste di autonomia, di autogoverno, di sussidiarietà diventano allora le
conseguenze di questa nuova temperie politica e culturale che va diffondendosi un
po’ ovunque.
In generale, a godere i maggiori benefici derivanti dall’applicazione di questi principi in Europa e, dunque, a perorarne la causa con più energia sono le metropoli e
le regioni. Per queste l’assunzione di nuove responsabilità, nuovi poteri e nuove risorse rappresenta un traguardo, grazie ai quali gestire con maggiore forza la propria
posizione all’interno di un contesto internazionale di competizione permanente e
poter dialogare direttamente con le istituzioni dell’Unione Europea, senza la mediazione dei governi nazionali.
Sulla base degli stessi principi due paesi europei, la Spagna e il Belgio, hanno trovato una soluzione a gravi problemi storici. Ambedue hanno adottato soluzioni di
ispirazione federale. In Belgio, attraverso la costituzione federale del 1993, si è data
una svolta decisiva ai rapporti fra le comunità francofone e fiamminghe. In Spagna
con la nuova Costituzione del 1978 si è cercato di trovare un equilibrio fra l’unità
dello stato e il riconoscimento delle autonomie delle nazionalità e delle regioni, come
si può leggere nell’articolo 2. Ma anche in paesi che conservano una solida e non
screditata tradizione centralista, come la Francia, si registrano segnali di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia. Altrove, come in Europa Centrale, lo «spirito» della fine del secolo si è manifestato in modo più radicale, con la frantumazione
della Cecoslovacchia in due repubbliche indipendenti nel 1994. La separazione è
stata tuttavia consenziente e molto civile, e già oggi non impedisce costruttive politiche di collaborazione, come la costituzione della CEFTA, l’area di libero scambio
dell’Europa Centrale.
In contrasto con questi pacifici processi di ricerca di nuovi equilibri fra poteri, di
creazione di nuovi spazi per l’autonomia e l’autogoverno, vi è la clamorosa eccezione delle repubbliche della ex Jugoslavia, che hanno dato luogo a una patologia
gravissima e drammatica. La barbarie degli eventi non cancella, tuttavia, la legittimità
della richiesta di autonomia e di autogoverno di quei territori. Semmai ci ricorda l’im-
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portanza, già ricordata all’inizio, dei progressi democratici fatti altrove in questi anni.
È soltanto all’interno di sistemi democratici che le domande di autogoverno e di autonomia possono e riescono a essere affrontate e risolte in modo pacifico. La democrazia offre infatti gli strumenti per dare risposta positiva a questi problemi
all’interno di un quadro di legalità e di concordia nazionale. Anche quando la domanda di autonomia si spinge talvolta al suo limite estremo, come è appunto avvenuto nel caso della separazione di Slovacchia e Cekia, è sempre la democrazia a
permettere che un così delicato e traumatico passaggio avvenga in modo incruento.
La mia riflessione sul diffondersi delle richieste di autonomia e di sussidiarietà
nel mondo occidentale e, in particolare, in Europa non può concludersi senza menzionare che queste non riguardano soltanto le funzioni dello stato e della pubblica
amministrazione. Nel segno della deburocratizzazione, della semplificazione, dell’autonomia, dell’avvicinamento ai cittadini, la società civile chiede oggi in molti paesi
di riappropriarsi o di esercitare ex novo funzioni e responsabilità che lo stato sovente si è assunto.
Il passaggio dal welfare state alla welfare society è un altro aspetto dello «spirito»
di fine secolo. Accanto ai citati fenomeni di cambiamento nella cultura politica e negli
ordinamenti istituzionali, importanti trasformazioni sono in corso nel l’economia internazionale. La Fondazione Agnelli ha recentemente avviato un nuovo programma
di ricerca dal titolo «Prospettive geoeconomiche», che appunto tematizza questo
cambiamento e lo legge in una prospettiva italiana.
Mentre rimando ai testi e ai documenti relativi, in questa sede è utile tuttavia ricordare che l’integrazione mondiale delle economie nazionali, la liberalizzazione dei
capitali, la mobilità delle imprese e delle tecnologie, in un quadro culturale che premia l’abbattimento delle frontiere e il liberismo economico, hanno mutato profondamente il rapporto fra stato nazionale ed economia internazionale.
La perdita di sovranità dello stato, come comunemente viene descritto il fenomeno, rappresenta l’esito di un processo iniziato vent’anni or sono, che sta trasformando sempre più chiaramente l’economia internazionale in una variabile
indipendente rispetto alle politiche dei singoli stati nazionali.
Una delle principali risposte che gli stati cercano di dare alle nuove logiche dell’economia mondiale consiste nella formazione di grandi aree regionali integrate, fra
le quali l’Unione Europea rappresenta certamente l’esperienza più avanzata e matura.
All’interno delle aree regionali integrate o in via di integrazione importanti responsabilità spettano alle economie territoriali, che in permanenza cercano di recuperare livelli di competitività e di adeguarsi alle nuove condizioni del mercato
internazionale. Il ruolo centrale delle economie territoriali all’interno della riorganiz-
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zazione mondiale dell’economia è stato più volte sottolineato nelle nostre ricerche e
descritto come caratteristica peculiare di una nuova fase della competizione internazionale che non riguarda più solamente le imprese, ma coinvolge, appunto, anche
i territori. Proprio la necessità che ciascun territorio ha di rafforzare tutti gli strumenti
a sua disposizione per tenere o migliorare la propria posizione sui mercati internazionali determina una spinta verso il decentramento e verso l’autogoverno. Si tratta
di un processo di riallocazione di poteri e della costruzione di una maggiore complessità nell’organizzazione del «pubblico», che va in particolare diffondendosi nell’Unione Europea coerentemente con la prospettiva di un’entità politica nuova, al
cui interno sussidiarietà e autogoverno dovrebbero diventare principi fondamentali
e cruciali.
È in questo quadro internazionale, caratterizzato da grandi processi di trasformazione, che dobbiamo collocare gli eventi italiani e, in particolare, un dibattito sulla
riforma dello Stato. Una riforma che presuppone una modifica alla Costituzione deve
essere frutto di un pensiero strategico. A una Costituzione nuova o comunque profondamente rivisitata occorre infatti garantire in primo luogo una vita sufficientemente lunga, perché attraverso di essa deve emergere una nuova forma dello Stato
capace di interpretare i bisogni culturali ed economici degli italiani per almeno qualche decennio e di metterli in sintonia, in un mondo sempre più interdipendente, con
quelli degli altri paesi e degli altri popoli.
Lo «spirito» di fine secolo spira anche sull’Italia, e questo spiega perché, anche
se le élites politiche continuano a manifestare incertezze, la domanda di riforma dello
Stato continua a fare proseliti, segnatamente nella società civile. A essa infatti corrispondono non invenzioni di intellettuali isolati o di politici più o meno innovatori, ma
stati d’animo che rispecchiano reali esigenze culturali, sociali ed economiche.
Ciò aiuta, peraltro, a comprendere perché nella quasi assenza di un dibattito propositivo sia potuta nuovamente emergere una posizione politica che punta alla separazione di alcune regioni del Nord dal resto del paese. La povertà del dibattito, la
strumentalità o il disinteresse delle forze politiche aprono la strada a tesi ultrasemplicistiche ed estremiste, che solo due anni fa sarebbero state giudicate eversive. Bisogna però stare attenti a non esorcizzare queste tesi o, peggio ancora, ignorarle.
Si ha un bel dire, il separatismo porterebbe a conseguenze negative per tutti, comprese le regioni del Nord. Resta il fatto che le voci separatiste, considerate poco più
che folclore fino a ieri, oggi trovano spazio nell’opinione pubblica, sono oggetto di
discussione in trasmissioni popolari; in altre parole, si stanno lentamente legittimando. Hanno ancora scarsa credibilità politica, ma non è difficile prevedere un loro
rafforzamento, se permane l’attuale vuoto di iniziativa sulla riforma dello stato. Non
vanno enfatizzate, ma vanno affrontate, nella consapevolezza che esse nascono e
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prosperano nella latitanza della politica e nell’assenza di risposte alla richiesta di autonomia e di autogoverno.
Il separatismo lo si deve e lo si può invece combattere con le armi della democrazia, la discussione politica e il coinvolgimento dell’opinione pubblica. Prima ancora di pensare a un’assemblea costituente, comunque indispensabile, sono i
cittadini che devono diventare tutti moralmente «costituenti», nel senso che tocca
anche a loro parlare e dibattere in modo chiaro e pragmatico delle riforme possibili,
senza lasciare strumentalizzare le ipotesi di riforma a fini elettorali o partitici.
Un buon punto d’avvio potrebbe essere il diffondersi della consapevolezza che
la riforma dello Stato si deve proporre di varare riforme capaci, da un lato, di ristabilire l’indispensabile rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni, e fra i cittadini e la
politica e, dall’altro lato, di dare un’efficace risposta alle sfide della geoeconomia
mondiale per continuare ad assicurare a tutti benessere, qualità della vita e condizioni democratiche.
Dopo le ricerche e le proposte su una riforma dello Stato in senso federale, con
il nuovo programma «Prospettive geoeconomiche» la Fondazione Agnelli si propone
oggi di individuare alcune linee di una risposta italiana alle nuove logiche dell’economia mondiale. I primi risultati ci confermano quanto avevamo già intuito tre anni
fa: l’autogoverno dei territori italiani, una radicale riforma dei poteri fra centro e periferia e quindi una riforma dello Stato in senso federale, unitamente a un generalizzato rafforzamento dell’autonomia e dell’autogoverno della società civile, possono
diventare strumenti essenziali per fronteggiare, costruttivamente e responsabilmente,
il nuovo quadro economico mondiale.
Confortato anche da queste nuove ricerche a conservare la fiducia nelle possibilità di una riforma dello Stato italiano in senso federale, ho deciso di ripubblicare
in forma unitaria i risultati del nostro programma «Riforma dello Stato».
Nel libro si ritrovano parole e concetti chiave, indispensabili per capire le motivazioni profonde della proposta istituzionale: il «federalismo unitario e solidale»,
fortemente orientato cioè a non rompere il vincolo fra le differenti regioni italiane e
fra gli stessi cittadini; il «nesso tra federalismo, nazione e Unione Europea» con la
riaffermata pressante esigenza di ripensare il senso della nazione italiana sullo
sfondo europeo e di consolidare i legami con l’Europa proprio attraverso il federalismo; la «capitale reticolare» e la logica che permette di legare i vari territori italiani all’esercizio di funzioni nazionali; la proposta di «ridisegno regionale» e l’ipotesi
delle dodici regioni, da realizzarsi con gradualità, attraverso il consenso dei cittadini che scopriranno progressivamente la convenienza di una più razionale dimensione del territorio regionale. In conclusione, nel libro il lettore troverà la
proposta di un federalismo dei valori, radicato nella cultura italiana ed europea,
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per dare una risposta politica e istituzionale alle esigenze etico-politiche ed economico-sociali degli italiani.
Non era previsto che il libro venisse pubblicato in coincidenza con l’inizio di una
campagna elettorale lunga e difficile. Può essere però un bene. Di federalismo in Italia si è parlato finora troppo poco, e sempre in modo parziale o troppo specialistico.
È bene che l’informazione si amplia e si diffonda: sarebbe auspicabile che la riforma in senso federale dello stato diventasse un tema conduttore e portante della
prossima campagna elettorale.
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3.3.5. Fondazione Giovanni Agnelli
Nuova geografia italiana e ridisegno regionale - 2 ipotesi
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3.4. La prospettiva dell’Italia di mezzo
3.4.1. Marcello Meroi (www.provincia.vt.it)
L’Italia di mezzo. Quale modello di sviluppo
(Intervento effettuato al convegno “L’Europa, l’Italia, l’Italia di mezzo – Quale modello di sviluppo”, organizzato dalla Cgil del Lazio il 14 marzo 2012 nella sede della Provincia di Rieti)
Il dibattito sul tema dell’Italia di mezzo è uno dei più appassionanti argomenti per
amministratori che, come noi, sono stati investiti della responsabilità di guidare i territori del Centro Italia. Credo, in verità, che di Italia di mezzo si sia tuttavia fino ad
ora parlato troppo poco, soprattutto rispetto al vero potenziale che questa formula
linguistica può realmente esprimere sotto il profilo culturale, economico e turistico. L’Italia di mezzo è un percorso di sviluppo che mi consente di fare alcune
considerazioni, di carattere politico e anche pratico e operativo. La crisi che l’intera
Europa sta attraversando è profonda, e in Italia va di pari passo con l’azione di un
governo tecnico, non scelto dai cittadini, che cancella la rappresentanza istituzionale
con la complicità di una politica ormai poco credibile. In Italia la politica è diventata
imbarazzante, e la colpa è da attribuirsi soprattutto alla struttura interna ai partiti,
che di fatto hanno abdicato al loro ruolo optando per un incomprensibile commissariamento volontario delle più alte istituzioni del nostro Paese. Credo che anche in
questa sede sia giusto riflettere sull’atteggiamento dell’attuale Governo. Abbiamo
già di recente avuto modo di parlarne con i colleghi presidenti delle Province del
Lazio in un incontro organizzato dall’UPI: assistiamo ad una crisi politica a 360°, alimentata secondo me anche dal comportamento di un Esecutivo che non prevede
programmi di sviluppo, mantiene inalterato il livello di recessione, non muove un dito
per arginare gli effetti devastanti della disoccupazione e porta al 46% il tasso di un’illegittima pressione fiscale. Di fronte a proclami, a lacrime e a “paccate” da milioni
di euro, mi viene inoltre da pensare che la credibilità internazionale di una Nazione
come l’Italia si dovrebbe vedere anche da politiche di welfare serie e assennate e da
casi come quelli dei due marò in India, di Rossella Urru e di Franco Lamolinara. Parliamo di un Governo che non sa neanche scrivere in maniera corretta le
norme che emana con decreto legislativo, altrimenti si sarebbe reso conto che cancellare le Province non è possibile senza una previa revisione costituzionale. Siamo
di fronte ad un vero e proprio falso, dato che a cittadini si dice che l’abolizione delle
amministrazioni provinciali porterà all’abolizione della casta, quando invece non si
dice che le strutture amministrative verranno mantenute e che il trasferimento di servizi e personale porterà ad un aggravio della spesa per la collettività. Ci siamo sem-
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pre mostrati disponibili ad un progetto di riordino delle Province, ma non potremo
mai dire sì alla cancellazione di un Ente che è vicino ai cittadini e che incide per
l’1,5% sulla spesa nazionale per la rappresentanza istituzionale. Cosa c’entra tutto
questo con l’Italia di mezzo? C’entra, perché di fronte ad una situazione generale
così critica, credo che oggi più che mai noi amministratori siamo chiamati a fare una
scelta identitaria, dove con identità intendo la riscoperta e la valorizzazione di quel
bagaglio tradizionale, sociale e culturale proprio delle nostre comunità. Facciamo
un’operazione verità sul vero ruolo delle istituzioni locali, e smettiamola di continuare
a pensare ognuno per sé, scontrandoci tra di noi. Facciamo un salto di qualità, mettiamoci insieme per far diventare l’Italia di mezzo un sistema produttivo competitivo
e leader nel mercato mondiale. Personalmente un’operazione simile l’ho già avviata
insieme ai rappresentanti della Provincia di Terni e ai sindaci dei Comuni di Viterbo,
Orvieto, Terni e Civitavecchia, in funzione della nascita del distretto culturale della Tuscia intesa come area vasta. E’ chiaro che in questo contesto fondamentale diventa
l’avvio imminente dei lavori per il corridoio tirrenico Civitavecchia-Livorno e il completamento della Trasversale almeno fino a Civitavecchia, così da collegare il primo
porto del mediterraneo con l’interporto di Orte, che a breve andrà a regime su trasporto in gomma. Superiamo i localismi che ci dividono e ci frazionano in nome di
una cultura, di una tradizione e di una vocazione turistica che ci accomuna. Il Lazio,
soprattutto, ha la grande opportunità offerta da Roma Capitale, sempre che si chiarisca bene la definizione giuridica di questa definizione, soprattutto per ciò che concerne i confini territoriali, le risorse e i poteri a disposizione. L’Italia di mezzo non
deve restare solo uno slogan fine a se stesso, ma divenire un marchio di qualità di
riferimento di una vasta area separata dai confini regionali e provinciali, ma unita
dalle stesse peculiarità. L’Italia di mezzo in un discorso di crisi europea e italiana
non rappresenta certo la panacea, ma un progetto d’insieme realistico, concreto e
costruttivo. Uniamo le nostre forte e scegliamoci il nostro futuro, perché nessuno di
noi ha voglia di stare in un’Italia e in un’Europa dei banchieri e dell’alta finanza, ma
tutti vogliamo vivere in un’Unione Europea e in una Nazione delle istituzioni democratiche elette dai cittadini.
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3.4.2. Achille Passoni (Ilcannocchiale.it, 19 aprile 2012)
L’Italia di mezzo come modello di sviluppo per il Paese
Esiste una Italia di mezzo? Il tema è stato oggetto di un bell’articolo di Alessio
Gramolati che vi invito a leggere e di un convegno organizzato dalla Cgil Toscana assieme all’Associazione Bruno Trentin a Firenze. A partire da determinati indicatori
empirici infatti, l’area geografica che comprende Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e
ovviamente anche la Toscana, si potrebbe caratterizzare come un possibile modello
di sviluppo del Paese.
I caratteri strutturali del tessuto produttivo, le potenzialità del territorio per la sua
ricchezza ambientale, l’insistenza di eccellenze di un patrimonio culturale e artistico
unico, i modello consolidati di convivenza e coesione sociale possono rappresentare
un potenziale capace di essere un volano per la ripresa economica ed un contributo
importante per l’uscita dell’Italia dalla crisi.
Quello che emerge è una straordinaria coincidenza tra i fattori e le dinamiche di
sviluppo del territorio e le linee guida che l’Unione europea ha scelto di seguire per
accrescere la competitività nel mercato mondiale. Le direttrici sono quattro e riguardano l’integrazione non solo più verticale delle reti e dei corridoi infrastrutturali,
ma anche orizzontali lungo l’asse Est-Ovest, uno sviluppo sostenibile che utilizzi
fonti energetiche rinnovabili e agevoli una riconversione economica verso la così
detta green economy, la crescita endogena e non più esogena in grado di esaltare
le vocazioni economiche esistenti nei territori e infine la qualità del lavoro e la coesione sociale come fattori di competitività.
L’Italia di mezzo li riassume tutti, perché è una straordinaria piattaforma naturale
di connessione tra le economie atlantiche e dell’Europa occidentale con quelle dell’Europa centrale e dell’Est, perché è un polmone naturale e quindi un ricco di materiale per lo sviluppo delle fonti energetiche, perché il tessuto produttivo è basato
su sistemi di piccole e medie imprese ed ha un modello sociale posto alla base delle
politiche di welfare che ha valorizzato la coesione sociale.
Insomma, la Cgil consegna alla politica e al dibattito una serie di proposte per potenziare quello che già c’è. Servono scelte infrastrutturali per agganciare l’Italia di
mezzo alle dinamiche dello sviluppo Ovest-Est e quindi valorizzare in termini intermodali la portualità esistente, tirrenica e adriatica, con l’accelerazione delle bretelle
ferroviarie e stradali, politiche energetiche per sviluppare le fonti energetiche, relazioni dirette tra università, politecnici e imprese, attente politiche di bilancio e di cooperazione istituzionale per evitare che le necessarie politiche di risanamento non
abbiano come risultato il degrado del tessuto sociale e la rottura della sua coesione.
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3.4.3. Turismo. Umbria, Marche, Toscana, Abruzzo ed Emilia
Romagna si riconoscono nell’Italia di Mezzo (Adnkronos 4 agosto 2011)
Umbria, Marche, Toscana, Abruzzo ed Emilia Romagna insieme per sviluppare
iniziative di promozione turistica e culturale. La cosiddetta Italia di Mezzo, cerca così
di definire una comune collaborazione tra Regioni che hanno un’identità economicosociale simile con punti di forza comuni, quali il tessuto produttivo fondato sulla piccola e media impresa, lo straordinario patrimonio culturale diffuso sul territorio,
l’ambiente naturale di fascino, un’agricoltura di qualità, il turismo e la cultura intese
come attività produttive di primissimo rilievo e chiave di volta del futuro sviluppo.
Un’area, quindi, non solo geografica ma anche storico-culturale, dai molteplici legami che deve sempre più attrezzarsi per superare la crisi economica e competere
con successo.
All’incontro, che si è svolto ad Ancona, hanno partecipato quattro assessori regionali al turismo.
Dalla riunione è scaturito un documento in cui sono state avanzate una serie di
proposte, a cominciare dalle attività di promozione internazionale integrata, da realizzare in collaborazione con l’Enit, fino al progetto ‘’Le Vie del Gusto’’, di cui la Regione Marche è capofila, che prevede la realizzazione di percorsi enogastronomici,
la promozione delle eccellenze agroalimentari, la salvaguardia della tradizione gastronomica del territorio.
Proposta anche la realizzazione di una filiera turistico-culturale-ambientale, alla
luce dei dati sempre più lusinghieri degli ultimi anni che premiano il segmento del turismo culturale, in grado di generare un’offerta più competitiva, attraverso la realizzazione di itinerari tematici tra le regioni.
L’assessore regionale umbro, Fabrizio Bracco ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa che ‘’si inquadra in quel comune obiettivo di creare sempre più strette collaborazioni nell’area dell’Italia di mezzo nello sforzo di battere strade nuove per
favorire lo sviluppo di quest’area, stretta troppo spesso tra i due grandi blocchi, settentrionale e meridionale, del Paese”.
“Le cinque Regioni possono costituire, insieme, un ‘unicum’ in grado di intercettare e rappresentare quelle nuove istanze di un turismo che privilegia la natura, il
paesaggio, la cultura - ha detto ancora - e che vuole percepire tutta la storia di un
territorio e le tradizioni di una popolazione locale ospitale e accogliente.
Turismo e cultura, che sono veri e propri assi portanti di quest’area, ha concluso
Bracco, possono essere il denominatore comune di una collaborazione che dovrà
trovare prosecuzione anche in altri settori dell’economia’’.
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3.5. Macroregioni o nuovo centralismo?
DDLC N. 3520 (DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE) presentato dal Presidente del
Consiglio dei ministri di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e la
semplificazione (COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 OTTOBRE 2012)
3.5.1. Disposizioni di revisione della Costituzione e altre disposizioni costituzionali in materia di autonomia regionale
Onorevoli Senatori. – Ad oltre un decennio dalla riforma del Titolo V della Parte
seconda della Costituzione, attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3, il Governo intende promuovere con il presente disegno di legge costituzionale un
intervento migliorativo in relazione alle maggiori criticità emerse nel corso di questi
anni dall’applicazione e dall’interpretazione delle disposizioni all’epoca introdotte.
I ristretti tempi che residuano sino al termine della legislatura sconsigliano la prospettazione di modifiche ampie e articolate, rendendo invece plausibile l’obiettivo di
correzioni quantitativamente limitate e tuttavia significative dal punto di vista della
loro incidenza sulla regolazione dei rapporti fra lo Stato e le regioni, incluse — almeno
in parte — quelle a statuto speciale.
Il tempo trascorso dalla riforma del 2001 ha consentito un graduale e ormai definitivo assestamento degli effetti di quella revisione costituzionale, attraverso le
prassi applicative ed interpretative sviluppate dallo Stato e dalle regioni, i contributi
approfonditi della dottrina e, naturalmente, gli orientamenti progressivamente
espressi e consolidati dalla giurisprudenza costituzionale, che ha avuto modo di
conformare — in sede di impugnazione in via principale delle leggi statali e regionali,
come anche di conflitti di attribuzione intersoggettivi — indirizzi ermeneutici assai incisivi e sovente praeter legem, al fine di assicurare un assetto realisticamente equilibrato dei «nuovi» rapporti fra lo Stato e le regioni.
Sulla base di queste premesse, l’intervento riformatore si incentra sul principio
dell’unità giuridica ed economica della Repubblica come valore supremo dell’ordinamento costituzionale, la cui garanzia dinamica — ossia da assicurare nello svolgimento articolato dei poteri e delle competenze — grava come onere immanente
sulla legislazione ordinaria dello Stato, trovando momenti di «emersione» in una formula di salvaguardia (e di chiusura del sistema) da inserire nel primo comma dell’articolo 117 della Costituzione ed in un rinnovato criterio di individuazione del ruolo
della legislazione dello Stato nell’ambito della competenza concorrente; momenti
che qui si definiscono di «emersione» piuttosto che di «tipizzazione», proprio perché
questi profili della legislazione dello Stato vengono colti nella prospettiva dello svol-
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gersi continuo e progressivo della potestà legislativa quale funzione primaria di attuazione e garanzia della Costituzione, irriducibile a singoli atti o a strumenti od oggetti normativi delimitati (come dimostra l’elasticità dell’interpretazione data dalla
giurisprudenza costituzionale al problematico concetto di «princìpi fondamentali»
presente nella vigente disciplina della legislazione concorrente).
Il presente disegno di legge costituzionale tende altresì ad assicurare un esplicito
fondamento nelle norme della Costituzione ad una regolazione delle potestà legislative ispirata ad una logica di complementarietà e di non conflittualità, attraverso:
a) la parziale rivisitazione degli elenchi delle materie di legislazione esclusiva statale
e di legislazione concorrente; b) la rinnovata configurazione del ruolo della legislazione dello Stato nell’area della potestà concorrente; c) l’esplicitazione dei limiti della
legislazione regionale cosiddetta residuale rispetto alla legislazione statale esclusiva; d) l’attenuazione della rigidità dei confini fra potestà regolamentare del Governo
e potestà regolamentare delle regioni.
Altro obiettivo importante, sempre in chiave di unitarietà giuridica ed economica
dell’ordinamento nazionale, è rappresentato dall’individuazione del concorso al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica quale principio valido anche nei confronti dell’autonomia delle regioni a statuto speciale.
Il disegno di legge si occupa, infine, di alcuni aspetti procedurali riguardanti l’impugnazione delle leggi regionali innanzi alla Corte costituzionale, in un’ottica di funzionalità rispetto ai rinnovati rapporti fra legge statale e legge regionale nel campo
della legislazione concorrente, nonché di unitarietà dei meccanismi di impugnazione.
In modo più analitico, i contenuti del presente disegno di legge costituzionale
possono essere enunciati come segue.
Con l’articolo 1 si interviene sull’articolo 116 della Costituzione per esplicitare
che la peculiare autonomia assicurata dagli statuti speciali al Friuli Venezia Giulia, alla
Sardegna, alla Sicilia, al Trentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta non sottrae queste
Regioni all’obbligo di concorrere, con gli altri enti territoriali e con lo Stato, al rispetto
dei vincoli di finanza pubblica imposti a livello di Unione europea ed internazionale.
Ciò al fine di consacrare il superamento di ogni possibile incertezza al riguardo, in
sostanziale coerenza con gli orientamenti prevalenti della giurisprudenza costituzionale.
Con l’articolo 2, comma 1, si apportano varie modificazioni alle disposizioni dell’articolo 117 della Costituzione in tema di potestà legislativa.
Con la lettera a) si introduce nel primo comma dell’articolo 117 una formula di
chiusura, in base alla quale spetta alla legge dello Stato, a prescindere dalla ripartizione delle competenze legislative con le regioni, il compito di assicurare la garanzia dei diritti costituzionali e dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.
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Con le lettere b), c), d), e) ed f) si amplia il vigente elenco delle materie di legislazione esclusiva dello Stato, di cui al secondo comma dell’articolo 117, attraverso:
- lo spostamento di talune materie dall’ambito della legislazione concorrente di cui
all’articolo 117, terzo comma («armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», «ordinamento della comunicazione»);
- l’ampliamento di materie già di legislazione esclusiva (da «politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea» a «politica estera e rapporti internazionali della Repubblica; rapporti della Repubblica
con l’Unione europea») con corrispondente soppressione di una materia di legislazione concorrente («rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni»);
- la configurazione di nuove materie di legislazione esclusiva («porti marittimi e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale, grandi reti di trasporto e di
navigazione», «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse non
esclusivamente regionale»), con correlativa ridefinizione restrittiva di corrispondenti materie di legislazione concorrente (da «porti e aeroporti civili», «grandi reti
di trasporto e di navigazione», «produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia» a «porti lacuali e fluviali, porti marittimi e aeroporti civili di interesse
regionale», «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse esclusivamente regionale»);
- l’inserimento in legislazione esclusiva di materie sino ad ora non specificamente
individuate nella Costituzione e che tuttavia sono emerse in sede di contenzioso
costituzionale come materie suscettibili di un’autonoma configurazione e riferibili
alla competenza esclusiva dello Stato («norme generali sul procedimento amministrativo e sulla semplificazione amministrativa», «disciplina giuridica del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», «princìpi generali dell’ordinamento di Comuni, Province e Città metropolitane»).
Con la lettera g) si sostituisce l’attuale terzo comma dell’articolo 117, concernente la legislazione concorrente, sia per aggiornare il catalogo delle relative materie sia per ridefinire il rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale. In
ordine al primo profilo si ha l’inserimento ex novo della materia del turismo, richiamata dall’ambito della competenza regionale residuale, oltre alle già sopra menzionate riconfigurazioni e soppressioni di materie, correlate con l’ampliamento della
legislazione esclusiva dello Stato. Quanto al secondo aspetto, la relazione fra leggi
statali e leggi regionali viene impostata in forma assolutamente innovativa, superando il riferimento alla mera statuizione, ad opera delle prime, dei «princìpi fondamentali» della materia ed individuando il ruolo della legislazione dello Stato in una
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prospettiva funzionale/teleologica, quella dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Tale prospettiva, pur richiamando lessicalmente la formula di chiusura contestualmente inserita nel primo comma dell’articolo 117, si differenzia da quest’ultima
in quanto non esprime un titolo di legittimazione all’intervento del legislatore statale
al di fuori dei criteri di ripartizione delle competenze, ma indica il nesso strumentalefinalistico in relazione al quale le norme della legislazione statale possono legittimamente porre in ciascuna materia di competenza concorrente una parte della
disciplina legislativa, in chiave di prevalenza e di complementarietà rispetto alle
norme regionali. In coerenza con questa impostazione, si prevede, inoltre, che la
legge statale, che interviene in una materia di potestà concorrente, ove introduca
una disciplina che renda necessario un coerente adeguamento da parte della legislazione regionale, possa stabilire un termine per tale adeguamento, che non potrà
essere inferiore a centoventi giorni. Questo tipo di situazione può comportare, a sua
volta, la necessità di un sindacato di costituzionalità «differito», vale a dire un sindacato che abbia ad oggetto la legislazione regionale eventualmente rimasta nonadeguata dopo la scadenza del predetto termine: esigenza alla quale fa fronte la
modifica contestualmente apportata all’articolo 127 della Costituzione (v. infra).
Con la lettera h) si sancisce espressamente, in linea con gli approdi della giurisprudenza costituzionale, che la legislazione «residuale» delle regioni deve rispettare
la legislazione statale concernente le materie affidate alla competenza esclusiva dello
Stato. Ciò si riferisce ai casi di interferenza di competenze, nei quali la disciplina di
materie di competenza regionale residuale venga a riguardare profili che attengono
a materie di pertinenza della legislazione esclusiva statale.
Con la lettera i), in correlazione con la nuova configurazione della legislazione
concorrente, l’attribuzione della potestà regolamentare allo Stato e alle Regioni viene
formulata in maniera diversa da quella attuale, senza ripartizione per ambito di potestà legislativa ma in relazione all’esigenza di disciplinare l’attuazione delle rispettive leggi.
Il comma 2 dell’articolo 2 dispone l’abrogazione dell’articolo 3 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, recante «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale». Tale abrogazione è resa opportuna dal fatto che
attraverso la predetta disposizione è stato previsto lo spostamento della materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» dal terzo al secondo comma dell’articolo 117 della
Costituzione e che questa modifica dell’articolo 117 è compresa ed assorbita fra
quelle che si dispongono con il presente disegno di legge costituzionale, il quale, ove
approvato, entrerebbe però in vigore prima delle disposizioni della citata legge costituzionale n. 1 del 2012, la cui applicazione è differita all’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.
97
L’articolo 3 reca disposizioni riguardanti l’impugnazione delle leggi regionali.
Il comma 1 apporta un’integrazione all’articolo 127 della Costituzione, al fine di
assicurare, come già sopra anticipato, la possibilità di impugnazione nei confronti di
quelle leggi regionali che, a seguito della vana scadenza del termine fissato dalla legislazione statale per l’adeguamento della legislazione regionale in una materia di
competenza concorrente, risultino non più compatibili con la «nuova» disciplina statale e quindi eccedenti i limiti, di oggetto e/o di contenuto, propri della legislazione
regionale. La situazione che può ipoteticamente configurarsi in caso di intervento in
materia concorrente di una nuova disciplina legislativa statale risponde, invero, a
queste alternative: a) la regione legifera adeguandosi; b) la regione legifera non adeguandosi in modo conforme alla legge statale; c) la regione non legifera pur scaduto
il termine fissato dalla legge statale. Posta l’accezione lata che una giurisprudenza
costituzionale ormai pluridecennale ha attribuito al concetto di «eccesso» dalla competenza della Regione, di cui al primo comma dell‘articolo 127, le ipotesi sub b) e sub
c) integrano casi di violazione della competenza regionale: nel primo caso la legge
regionale potrebbe essere impugnata dal Governo già attualmente, con il vigente
articolo 127, entro i sessanta giorni dalla sua pubblicazione; nel secondo caso, invece, l’impugnazione della legge regionale rimasta non adeguata sarebbe possibile
soltanto grazie alla modifica che si intende introdurre con il presente disegno di legge
costituzionale.
Il comma 2 uniforma la procedura di impugnazione delle leggi regionali siciliane
a quella operante per le leggi di tutte le altre regioni, comprese quelle a statuto speciale, come già auspicato dalla Corte costituzionale (v. sentenza n. 314 del 21 ottobre 2003). La procedura attualmente vigente, basata sugli articoli 28 e 29 dello
statuto della Regione siciliana, di cui al regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n.
455, convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948,
n. 2, affida il potere di impugnazione ad un organo non politico (il commissario dello
Stato per la Regione siciliana) entro un termine molto ristretto (cinque giorni da
quando tale organo riceve i disegni di legge approvati dall’Assemblea regionale).
Questa procedura era originariamente legata alla competenza dell’Alta Corte, prevista nel medesimo statuto speciale, e tuttavia la Corte costituzionale (sentenza n.
381 del 27 febbraio 1957) ritenne che, mentre le competenze dell’Alta Corte dovevano considerarsi necessariamente assorbite nell’unicità della giurisdizione costituzionale determinata dalla Costituzione repubblicana (sopravvenuta allo statuto
speciale siciliano), la peculiare procedura di impugnazione poteva «sopravvivere»
come una forma particolare di autonomia ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. La peculiarità ed unicità del sistema di impugnazione delle leggi della Regione
siciliana, ingiustificatamente discriminatoria, appare ormai meritevole di un defini-
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tivo superamento attraverso un intervento di legislazione costituzionale, anche perché tale sistema è stato ritenuto perdurante dalla Corte costituzionale ed è stato
espressamente fatto salvo dal legislatore ordinario (con l’articolo 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131, che ha novellato l’articolo 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87) pur
dopo il passaggio, determinato dalla modifica dell’articolo 127 della Costituzione attuata con la citata legge costituzionale n. 3 del 2001, al sistema generale di impugnazione delle leggi regionali posteriormente alla loro promulgazione; sistema che,
sulla base della clausola di «maggior favore» posta dall’articolo 10 della stessa legge
costituzionale n. 3 del 2001, la Corte costituzionale ha ritenuto applicabile anche
alle regioni a statuto speciale (tranne la Sicilia) perché più favorevole rispetto al sistema di impugnazione preventiva tuttora formalmente previsto dagli statuti speciali
medesimi (tranne quello siciliano). Quanto alla Sicilia, invece, la Corte, con la citata
sentenza n. 314 del 2003, ha ritenuto che il sistema di impugnazione delle leggi regionali delineato nel suo statuto speciale, data la sua «eccentricità», non può essere
concretamente comparato con quello di cui all’articolo 127 della Costituzione, con
la conseguenza che quest’ultimo non può essere sostituito al primo in via interpretativa ad opera della Corte medesima.
Ai fini anzidetti l’articolo 3, oltre a disporre l’abrogazione dei due citati articoli
dello statuto speciale della Regione siciliana (comma 2) e la modifica dell’articolo
31 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (comma 3), nella parte in cui sopprime il riferimento che fa salvo il sistema di impugnazione previsto dalle predette disposizioni
statutarie, pone una disciplina transitoria (comma 4), per non creare «vuoti» di controllo di costituzionalità nel passaggio dal peculiare sistema attualmente vigente a
quello di carattere ordinario e generale, rispondente alle previsioni dell’articolo 127
della Costituzione.
Non viene redatta relazione tecnica in quanto dal presente disegno di legge non
derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Disegno di Legge Costituzionale
Art. 1.
(Modifica in tema di regioni a statuto speciale)
1. All’articolo 116, primo comma, della Costituzione, dopo le parole: «adottati
con legge costituzionale» sono aggiunte, in fine, le seguenti: «; in materia finanziaria l’autonomia si svolge concorrendo con lo Stato e con gli altri enti territoriali ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento
dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali».
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Art. 2.
(Modifiche in tema di potestà legislativa delle regioni a statuto ordinario)
1. All’articolo 117 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le leggi dello Stato
assicurano la garanzia dei diritti costituzionali e la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.»;
b) al secondo comma, lettera a), le parole: «politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea;» sono sostituite dalle seguenti: «politica estera e rapporti internazionali della Repubblica; rapporti della
Repubblica con l’Unione europea;»;
c) al secondo comma, la lettera e) è sostituita dalla seguente:
«e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
perequazione delle risorse finanziarie;»;
d) al secondo comma, lettera g), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «norme
generali sul procedimento amministrativo e sulla semplificazione amministrativa; disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche;»;
e) al secondo comma, lettera p), dopo le parole: «legislazione elettorale, organi
di governo» sono inserite le seguenti: «, princìpi generali dell’ordinamento»;
f) al secondo comma, dopo la lettera s), sono aggiunte, in fine, le seguenti:
«s-bis) porti marittimi e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale,
grandi reti di trasporto e di navigazione;
s-ter) ordinamento della comunicazione;
s-quater) produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse non
esclusivamente regionale.»;
g) il terzo comma è sostituito dal seguente:
«Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: commercio con
l’estero; turismo; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale;
professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori
produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile;
governo del territorio; porti lacuali e fluviali, porti marittimi e aeroporti civili di interesse regionale; produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse esclusivamente regionale; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei
beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse
di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fon-
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diario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nel rispetto della legislazione dello Stato, alla
quale spetta di disciplinare i profili funzionali all’unità giuridica ed economica della
Repubblica stabilendo, se necessario, un termine non inferiore a centoventi giorni
per l’adeguamento della legislazione regionale.»;
h) il quarto comma è sostituito dal seguente:
«Nelle materie non attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato o alla legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nel rispetto della legislazione dello Stato relativa ai profili attinenti alle materie del secondo comma.»;
i) al sesto comma i primi due periodi sono sostituiti dal seguente: «La potestà regolamentare spetta allo Stato e alle Regioni per l’attuazione delle proprie leggi nelle
materie di rispettiva competenza.»;
2. L’articolo 3 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, è abrogato.
Art. 3.
(Modifiche in tema di impugnazionedelle leggi regionali)
1. All’articolo 127, primo comma, della Costituzione, dopo le parole: «entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione» sono aggiunte, in fine, le seguenti: «o dall’inutile decorso del termine fissato ai sensi del secondo periodo del terzo comma
dell’articolo 117».
2. Gli articoli 28 e 29 dello statuto della Regione siciliana, di cui al regio decreto
legislativo 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, sono abrogati.
3. All’articolo 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, le parole: «Ferma
restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale
della Regione siciliana,» sono soppresse.
4. Per l’impugnazione da parte dello Stato o di un’altra Regione delle leggi della
Regione siciliana approvate dall’Assemblea regionale in data successiva alla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale, si applica la disciplina posta
dall’articolo 127 della Costituzione come modificato dalla presente legge costituzionale. Restano procedibili innanzi alla Corte costituzionale le impugnazioni proposte dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana nei confronti dei disegni di
legge approvati dall’Assemblea regionale sino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale.
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3.5.2. Stato senza autonomie e Regioni senza regionalismo
(www.federalismi.it n. 21/2012) 7 novembre 2012
Enzo Balboni
(Professore ordinario di Diritto costituzionale Università cattolica di Milano)
Massimo Carli
(Professore ordinario di Diritto costituzionale Università cattolica di Milano)
1. Chi scrive di regioni, autonomie, federalismi in queste settimane di pieno autunno 2012 patisce fortemente la contingenza immediata e si percepisce come chi,
travolto da una piena tanto improvvisa quanto devastante, annaspa in un mare di
fango, di detriti e di sporcizia.
I clamorosi casi di mala gestione, ma anche di vera e propria corruzione, venuti
alla ribalta di recente in due regioni capofila dell’assetto istituzionale italiano, Lazio
e Lombardia, uniti al crollo dell’affluenza alle urne in Sicilia, non sono purtroppo fatti
isolati né folkloristici, ma attestano quantomeno una qualità di amministrazione pessima – sia come attività che come controlli – e ciò rischia di travolgere l’idea stessa
di autonomia regionale e locale.
_quasi irreparabile lo sfregio che le squallide gesta di non pochi “servitori” dell’istituzione hanno inferto all’immagine e alla sostanza di quella che fu l’idea di Sturzo
e di Ambrosini, dei Costituenti, di una non piccola parte della dottrina autonomistica: Carlo Esposito, Temistocle Martines, Livio Paladin, Feliciano Benvenuti, Giorgio Berti, Umberto Pototschnig, Giorgio Pastori e Umberto Allegretti – per fare i primi
nomi che vengono alla memoria e alla penna.
Per misurare la distanza dell’oggi opaco rispetto ad un ieri luminoso, quantomeno sul piano ideale, basterà ricordare la solenne disposizione normativa ed ideologica, – perché costitutiva di un certo tipo di legame sociale – relativa al
“riconoscimento” dell’autonomia locale. Non per caso né per accidente essa venne
trasposta, consapevolmente e per espressa volontà politica, in posizione eminente,
all’art. 5 della Costituzione, così inserendola tra i principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, essendosi ritenuto non solo che fosse più consona, ma necessaria una sua collocazione accanto ai principi costituzionali che potremmo
definire supremi: democratico, personalista-comunitario, di eguaglianza e di favor
per il lavoro e la piena occupazione.
Tuttavia, non solo le male gesta di non pochi eletti nei consigli regionali – in ciò
coadiuvati da una burocrazia senza meriti – ma anche lo stesso Governo dello Stato
(e si capirà fra poco perché lo battezziamo così) si è dato da fare, in questo lasso di
tempo e, paradossalmente con lo scopo di troncare gli eccessi di discrezionalità irresponsabile conseguenti all’autonomia regionale, ha confezionato non solo svariati
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decreti legge, ma addirittura un disegno di legge costituzionale (Atto Senato n. 3520,
XVI Legislatura, presentato il 15 ottobre 2012) che si segnala per la vistosa virata in
senso centralistico, tutta all’insegna del concetto: non possiamo fidarci di queste
regioni.
C’è una spia lessicale e grafica che illustra, meglio di un trattato, questo stato
d’animo accentratore e statalista: la relazione governativa al disegno di legge costituzionale, quando evoca lo Stato e il Governo utilizza sempre la lettera maiuscola,
ed invece quando deve parlare delle regioni preferisce la minuscola.
lo stesso disegno di legge costituzionale che si dichiara consapevole dei tempi
ristretti (ormai meno di 4 mesi, nell’ipotesi più favorevole) che mancano allo scioglimento delle Camere che precederà le nuove elezioni e pertanto si accontenta di correzioni quantitativamente limitate, tuttavia non solo significative, ma emblematiche
di un orientamento affatto diverso, perché estraneo ad una veridica cultura autonomistica, considerata ormai un orpello ideologico del passato di cui liberarsi al più
presto.
Prima di esaminare con qualche dettaglio la materia del ddlc sarà lecito, però, anticipare che le contingenze parlamentari – là dove problemi di spessore assai maggiore, dall’approvazione urgente della legge di stabilità, alla nuova legge elettorale,
alla conversione a getto continuo di svariati decreti legge in scadenza, reclamano
l’ormai scarsa attenzione di deputati e senatori in caccia della loro rielezione – non
promettono nulla di favorevole a chi credesse veramente (ma ce ne sono?) alla bontà
delle misure progettate.
Solo un soprassalto consensuale di ampia portata verso un testo condiviso e che
non apparisse solo obbligato dalle dure necessità dell’economia, rafforzate anche in
questo caso dal mantra di una cogente richiesta dell’Europa, potrebbe operare il miracolo (? !) di una doppia approvazione liscia e veloce. Ma, francamente, non pare
necessario invocare l’aiuto del cielo per la navigazione di una barchetta che si è buttata un po’ velleitariamente in un mare burrascoso e che, verosimilmente, farà la fine
del ddlcost. Amato, di riforma del Titolo V, varato senza troppa convinzione nel corso
della XIII legislatura.
Rispetto a quel tempo la situazione delle autonomie – la loro consistenza ideale,
istituzionale e soprattutto culturale – è mutata in peggio, e di molto.
Ragionando per un momento für ewig, sciolti dalle costrizioni della pesante contingenza, vorremmo stilare un referto su una materia che ormai è già protesa in direzione avversa all’autonomismo: in attesa soltanto di una sanzione formale. La
sostanza, infatti, è già tornata al di qua della motivazione e della speranza che si era
inteso immettere in Costituzione, sulla base del dimenticato, ma fondamentale,
o.d.g. Dossetti sull’autonomia delle comunità intermedie che progressivamente, dal
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basso, costruiscono e costituiscono la Repubblica, dando slancio e struttura al personalismo comunitario.
Siamo andati, a colpo sicuro, a cercare una citazione di Mortati dell’epoca, che
potesse essere utile. Senza fatica è emersa la seguente, nell’aureo libretto preparato
a commento della Costituzione di Weimar, pubblicato nell’aprile del 1946 allo scopo
di “illuminare le menti e sostenere i cuori” dei costituenti (come dirà limpidamente
anche Croce in Assemblea). Riferendosi alle debolezze che avevano propiziato la
caduta della Repubblica di Weimar, il grande costituzionalista calabrese le rinveniva
nella «assenza di una democratizzazione sostanziale dei corpi intermedi, di una effettiva utilizzazione di questi e di una loro coordinazione, oltreché nei rapporti reciproci, in quelli con lo Stato» (cfr. C. Mortati, La Costituzione di Weimar, Sansoni ed.
1946, p. 77).
Certamente l’elezione degli organi di governo della Regione c’è stata, a partire dal
1970, ma da quale anno si può parlare per loro di una “democratizzazione sostanziale”?
Piegando la testa si dovrà, allora, dare atto dell’ estraneità del popolo italiano rispetto ad una vera ed esigente cultura dell’autogoverno e della self administration.
Visto da qui Carlo Cattaneo pare proprio uno svizzero. Con un senso di malinconia,
inoltre, si dovrà ancora una volta dar ragione ad uno studioso e fautore delle autonomie bene intese, Giorgio Pastori, che già nel 1980 aveva parlato di “Regioni senza
regionalismo”. In tal modo l’istituzione regionale che, insieme alla Corte costituzionale, costituiva la novità forte della Costituzione repubblicana, si è palesata non all’altezza delle speranze che vi erano stato riposte.
Ciò premesso, passiamo ad un esame più interno alle disposizioni che si vorrebbero novellare.
2. Già nell’Editoriale del precedente numero di questa rivista si è messo in luce
come il disegno di legge sposi una critica distruttiva nei confronti delle Regioni. Osserviamo adesso un po’ più da vicino i contenuti.
Il cuore della proposta sta nell’art. 2. Ed infatti l’art. 1 si limita a prevedere che le
Regioni speciali assicurino l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali. Si tratta della
esplicita previsione di un vincolo già esistente in forza dell’art. 117, primo comma,
Cost. che impone alle leggi regionali il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali: ed il Ministro Patroni Griffi, nella seduta
pomeridiana in Commissione del 24 ottobre scorso, ha dichiarato la disponibilità del
Governo a una riconsiderazione del cit. articolo. L’art. 3, per parte sua, oltre ad una
modifica conseguente alla nuova configurazione della potestà legislativa concorrente, su cui ritorneremo, si limita a prevedere modifiche in tema di impugnazione
104
delle leggi regionali, estendendo alla Sicilia il controllo successivo previsto per tutte
le altre Regioni. Fin qui si tratta di ritocchi ragionevoli.
Le modifiche che contano sono dunque contenute nell’art. 2 il quale, oltre a correggere il riparto delle materie fra Stato e Regioni, riducendo, con qualche sbrigativo eccesso, le competenze regionali, prevede : 1) la c.d. clausola di supremazia; 2)
l’ampliamento della competenza statale in materia di ordinamento degli enti locali;
3) una nuova definizione della potestà legislativa concorrente; 4) una nuova disciplina
del potere regolamentare.
3. La clausola di supremazia suona così: “le leggi dello Stato assicurano la garanzia dei diritti costituzionali e la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”. A parte il fatto – che non ci pare banale - che anche le leggi regionali
assicurano i diritti costituzionali, perché l’eguaglianza sostanziale è compito della
Repubblica e non del solo Stato, il Ministro Patroni Griffi l’ha giustificata, sempre
nella cit. seduta del 24 ottobre, ricordando che la stessa Commissione affari costituzionali si è già pronunciata favorevolmente in altra occasione. E nel ricercare tale
precedente, ci siamo imbattuti negli atti dell’Indagine conoscitiva sui diversi aspetti
del Titolo V svolta, nella precedente legislatura, dalle due Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, conclusasi nel febbraio 2007, in cui i due presidenti
delle Commissioni parlamentari, aprendo l’11 dicembre 2006 la consultazione degli
esperti (più di 40), così riassumevano le conclusioni risultanti dalla consultazione
della società civile, comprese Confindustria e organizzazioni sindacali e professionali (tutte queste sono componenti della Repubblica, se rettamente intesa):
- in prospettiva, riforma del bicameralismo; e intanto necessità di rafforzare organi
e procedure di raccordo, magari con l’attuazione dell’art. 11 della legge costituzionale n.3/2001, come soluzione transitoria e sperimentale;
- riforme costituzionali limitate, non rimettendo in discussione il quadro d’insieme.
Dette conclusioni hanno ricevuto un larghissimo, quasi unanime, consenso da parte
degli esperti. E anche ANCI ed UPI, nel loro parere del 25 ottobre sul disegno di legge
costituzionale, hanno lamentato l’assenza di una sede politica di composizione degli
interessi rappresentati dai livelli di governo che compongono la Repubblica.
Conclusione: la clausola di supremazia, senz’altro necessaria (anche se pare eccessivo prevederla per tutte le materie di competenza regionale), si risolve inevitabilmente, se non accompagnata dalla possibilità di confronto in sede parlamentare
delle ragioni dell’unitarietà e di quelle della differenziazione, in una generalizzata e
acritica prevalenza delle esigenze del centro, con l’unico risultato di mortificare le autonomie.
4. L’ampliamento della competenza statale in materia di ordinamento degli enti
locali è perseguito, dal disegno di legge, mediante la previsione della nuova com-
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petenza dello Stato in materia di “principi generali dell’ordinamento” degli enti locali.
Come già rilevato in altra sede (cfr. www.lavoce.info del 30 ottobre), si tratta di una
formula polisenso, che mostra di ignorare che non è possibile regolare dal centro,
con un’unica disciplina, i più di ottomila Comuni, che necessitano invece di normative regionali differenziate fra di loro, perché i Comuni, in Italia, hanno storia, peso e
prassi diverse. Eppure tale previsione ha avuto il consenso di ANCI e UPI nel cit. parere, conseguenza dell’ avversione degli enti locali nei confronti delle Regioni, viste
come padroni più invadenti del Ministero dell’Interno.
La potestà legislativa concorrente, con il nuovo disegno di legge, non sarebbe più
limitata dai principi fondamentali della materia, ma dai profili funzionali all’unità giuridica ed economica della Repubblica stabiliti dalle leggi dello Stato, le quali potranno anche fissare un termine per l’adeguamento della legislazione regionale e
giocare a ruota libera con il concetto di efficienza.
La relazione si sofferma diffusamente su tale nuova previsione che individuerebbe il ruolo della legislazione dello Stato in una prospettiva funzionale/teleologica, quella dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, che non
esprimerebbe un titolo dell’intervento del legislatore statale al di fuori dei criteri di
ripartizione delle competenze. Essa indicherebbe, invece, il nesso strumentale-finalistico in relazione al quale le norme della legislazione statale possono porre una
parte della disciplina legislativa, in chiave di prevalenza e complementarietà rispetto alle norme regionali. Non è questa la sede per scendere nel merito, ma una
nuova configurazione della potestà normativa concorrente che, invece, altrove
viene abolita o sottoposta alla regola della prevalenza della “lex posterior”, rientra
certamente fra quelle modifiche ampie e articolate che il disegno di legge dice,
nella relazione, di non voler considerare per adesso, e che, ancora, senza una sede
di confronto politico - parlamentare fra Stato ed autonomie, porterebbe, inevitabilmente, a sacrificare le esigenze di quest’ultime.
Altra modifica di sistema è quella relativa alla disciplina del potere regolamentare che oggi spetta alle Regioni nelle materie di competenza residuale e concorrente
e allo Stato nelle materie di sua competenze esclusiva e che invece, con il disegno
di legge, passerebbe allo Stato e alle Regioni per l’attuazione delle proprie leggi nelle
materie di rispettiva competenza. Sono note le anomalie della situazione attuale
quando lo Stato, per superare il divieto di sue norme regolamentari nelle materie
concorrenti, emana non meglio precisati “atti di natura non regolamentare”, così denominati per usufruire di un procedimento di approvazione interno alleggerito rispetto alla necessità di munirsi del parere del Consiglio di Stato. Ma, anche in questo
caso, non si tratta di una modifica largamente condivisa perché, come evidenziato
in dottrina, da essa derivano molteplici conseguenze, anche sul sistema delle fonti,
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ponendosi il problema se, con la nuova formulazione, siano ancora legittimi regolamenti diversi da quelli di attuazione delle leggi.
5. Ma, ci domandiamo, perché mai un Governo tecnico, che non ha elettori da assecondare, intraprende un’iniziativa legislativa che, oltre ad alcuni opportuni correttivi nella ripartizione delle competenze legislative di Stato e Regioni, contiene anche
nuove norme che privilegiano il centro rispetto alla periferia, la uniformità invece della
differenziazione, ignorando le conclusioni largamente condivise dell’indagine conoscitiva?
L’Italia ha ratificato la convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale (L. 439/1989) secondo la quale, come si legge nel preambolo, è a livello
locale che può realizzarsi il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari
pubblici e, soprattutto, la difesa e il rafforzamento dell’autonomia locale nei vari paesi
europei rappresenta un importante contributo all’edificazione di un’ Europa fondata
sui principi della democrazia e del decentramento del potere. Qualcuno dirà che si
tratta di principi vecchi che hanno fatto il loro tempo e che pertanto, in nome dell’efficienza, vanno sostituiti con un nuovo rafforzamento del centro che porti con sé
normative statali uguali per tutti anche in contesti diversi, e che dunque la uniformità
deve (quasi) sempre prevalere sulla differenziazione. Ma così si dimentica quel che
la storia ha dimostrato e cioè che i due poli, cioè uniformità e differenziazione, sono
entrambi forti o entrambi deboli. L’equilibrio a suo tempo maturato nel testo costituzionale attende ancora di essere messo alla prova, ma seriamente.
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3.5.3. Si riapre il confronto sulle macro-regioni
(www.molisenews.net, 11 ottobre 2012)
Michele Petraroia
Consigliere regionale PD Molise
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegno di Legge sulle modifiche al TITOLO V° della Costituzione, ripristinando la supremazia gerarchica dello Stato su
Regioni, Province e Comuni, e recuperando alla legislazione esclusiva statale le seguenti materie: “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le
grandi reti di trasporti e di navigazione, la disciplina dell’istruzione, il commercio con
l’estero, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, la disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche e la disciplina generale degli Enti Locali”. Inoltre alcune materie e tra queste il turismo
assegnate alle Regioni, tornano a potestà legislativa concorrente. In pratica si è archiviato il federalismo e si è aperta una nuova fase istituzionale. Il Molise non deve
arroccarsi a tutela di un’indifendibile autonomia, ma al contrario ha il dovere di spingere su un riordino macro-regionale che semplifichi l’assetto della Pubblica Amministrazione sul territorio ma conservi e potenzi i presidi fondamentali dello Stato
/Forze dell’Ordine, Ospedali, Scuole, Tribunali, Prefetture, Questure, ecc.). Su questo aspetto ha avuto ragione l’Associazione “MAIELLA MADRE” che da anni propone
la riunificazione con l’Abruzzo, ha ragione ALMOSAVA che prospetta la MARCA
ADRIATICA col coinvolgimento anche delle Marche, ed hanno visto giusto quelle
forze politiche e quei movimenti culturali che con largo anticipo hanno avuto il coraggio di prendere posizione su un argomento delicato, e che spesso è stato liquidato con troppa fretta da parte di commentatori e opinionisti dell’ultima ora. Lo
snellimento degli apparati politici, burocratici e amministrativi, non potranno che restituire nuove opportunità ai giovani, alle imprese e alla competitività del nostro territorio.
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3.5.4. Il DDL Fistarol e altri (marzo 2012)
12 Regioni, come a suo tempo la Fondazione Agnelli
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3.5.5 Paolo Festuccia.
Intervista al Ministro Filippo Patroni Griffi
(La Stampa 13 ottobre 2012)
“La rivoluzione delle Province a fine mese, poi tocca alle Regioni”
«Stiano tranquille le Regioni, le modifiche alla riforma del Titolo V della Costituzione non sono un attacco alla loro autonomia né una controriforma». Però, «i cambiamenti vanno fatti» sostiene il ministro per la Pubblica amministrazione delegato
alla Riforme, Filippo Patroni Griffi, e «nel contesto storico e socio-economico che
vive il Paese si declinano in opportunità anche per la politica».
Che però in molti casi le avversa...
«Ed è per questo che serve un colpo di reni. Anche se siamo alla fine della legislatura la politica può dimostrare, che quando c’è un’opportunità, sa cogliere le sfide
nell’interesse del Paese».
Già, ma Regioni e Province sono sul piede di guerra per eludere le maglie della
legge: come se ne esce?
«Beh, intanto il Tar ha sminato questo percorso dai ricorsi di quattro Province,
confermando che si può andare avanti».
È l’appello anche del Presidente Napolitano che ha chiesto un «rapido e tempestivo completamento del riordino». Ma fatto il riordino, che gestirà il nuovo Ente?
«A fine mese ci sarà un decreto che stabilirà modalità e tempi. Quindi, saranno
nominati dei commissari, e si andrà al voto. Per il riordino, infatti, non è che si potesse attendere la naturale scadenza della consiliatura provinciale. Fatta la riforma
bisogna partire con il nuovo assetto quanto prima».
Contestualmente alle Province tocca alla Regioni. Alcuni ritengono che il Ddl costituzionale occorra per «salvare» dai rischi di incostituzionalità il decreto «taglia sprechi», è così?
«Assolutamente no. Non c’è nessuna norma del disegno di legge che “copra” i
tagli antisprechi. Di più, la nostra iniziativa non nasce sull’onda dell’emotività per gli
scandali di questi giorni, ma dall’esigenza di colmare lacune della riforma del titolo
V che sia il dibattito politico che alcune sentenze della Consulta aveva evidenziato
in questi dieci anni. Tant’è che all’epoca sia Amato che Bassanini avevano manifestato su alcuni aspetti delle perplessità».
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Aspetti strategici per il governo, che «minano» l’autonomia secondo le Regioni...
«Il nostro intervento non attacca l’autonomia regionale. L’obiettivo è quello di
semplificare il rapporto tra Stato e cittadino. Tanto per fare un esempio, oggi le regole per ottenere un permesso per costruire variano da regione a regione e questo
non ci rende un Paese moderno. Ecco, con la riforma lo Stato farà le leggi nazionali
e dentro quelle cornici le Regioni indicheranno le modalità amministrative. Inoltre
anche negli stati federali materie come energia e grandi infrastrutture sono di competenza esclusiva dello Stato centrale».
E crede che con i pochi mesi che ha davanti questo esecutivo, il Ddl costituzionale diventerà legge?
«Ci voglio credere; anche nei colloqui con le forze politiche ho colto la consapevolezza che questo cambiamento è necessario e avviato».
Un cambiamento semmai solo ideologico per ora, viste le inchieste giudiziarie:
cosa ne pensa?
«Penso che Monti abbia riassunto al meglio il comune sentire di tutto il governo:
sono situazioni inqualificabili. Voglio aggiungere che per combattere efficacemente
e stabilmente la corruzione occorre la repressione ma anche la prevenzione. Tutti i
nostri provvedimenti vanno in questa direzione: semplificazione e soprattutto dare
maggiore trasparenza possibile. Per esempio, è necessario pubblicare periodicamente le dichiarazioni patrimoniali dei politici e degli amministratori in modo che i cittadini possano giudicare che quel loro rappresentante non si è arricchito
ingiustificatamente nello svolgimento dell’incarico».
Crede che possa essere sufficiente?
«L’approccio prima che giuridico è di carattere etico. Ogni norma può essere elusa.
Ma se si eliminano i troppi centri di spesa forse il percorso è più semplice. E le nostre
riforme, ma anche quelle che lasceremo per l’avvenire sono tasselli importanti di questo processo. Le modifiche al titolo V della Costituzione vanno in questa direzione».
Sì, ma riordinate le Province non crede sia l’ora anche delle Regioni?
«Il riordino dei territori dovrebbe riguardare tutto. La nostra è una riforma mirata
a ciò che in questa fase è possibile realizzare. È l’inizio di un percorso».
Anche lei quindi pensa a tre macro regioni?
«No. Io credo che per il futuro si possa ripartire da un studio della Fondazione
Agnelli di circa venti anni fa e che ipotizzava dodici Regioni. In realtà le Regioni de-
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vono tornare ai compiti per le quali erano state create: attività legislativa e di programmazione. Inoltre, sempre in prospettiva, le funzioni amministrative andrebbero
affidate prevalentemente ai Comuni. Ma 8100, di cui i due terzi sotto i 15 mila abitanti, sono troppi. E quindi è chiaro favorirne l’aggregazione. È in questa logica che
abbiamo attribuito alle Province funzioni di “area vasta” intermedie tra quelle delle
Regioni e dei Comuni. Le prossime settimane sono decisive per il processo di modernizzazione del Paese».
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